diff --git "a/OrlandoFurioso.txt" "b/OrlandoFurioso.txt" deleted file mode 100644--- "a/OrlandoFurioso.txt" +++ /dev/null @@ -1,38701 +0,0 @@ -text -Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, -le cortesie, l'audaci imprese io canto, -che furo al tempo che passaro i Mori -d'Africa il mare, e in Francia nocquer tanto, -seguendo l'ire e i giovenil furori -d'Agramante lor re, che si diè vanto -di vendicar la morte di Troiano -sopra re Carlo imperator romano. -Dirò d'Orlando in un medesmo tratto -cosa non detta in prosa mai, né in rima: -che per amor venne in furore e matto, -d'uom che sì saggio era stimato prima; -se da colei che tal quasi m'ha fatto, -che 'l poco ingegno ad or ad or mi lima, -me ne sarà però tanto concesso, -che mi basti a finir quanto ho promesso. -Piacciavi, generosa Erculea prole, -ornamento e splendor del secol nostro, -Ippolito, aggradir questo che vuole -e darvi sol può l'umil servo vostro. -Quel ch'io vi debbo, posso di parole -pagare in parte e d'opera d'inchiostro; -né che poco io vi dia da imputar sono, -che quanto io posso dar, tutto vi dono. -Voi sentirete fra i più degni eroi, -che nominar con laude m'apparecchio, -ricordar quel Ruggier, che fu di voi -e de' vostri avi illustri il ceppo vecchio. -L'alto valore e' chiari gesti suoi -vi farò udir, se voi mi date orecchio, -e vostri alti pensier cedino un poco, -sì che tra lor miei versi abbiano loco. -Orlando, che gran tempo innamorato -fu de la bella Angelica, e per lei -in India, in Media, in Tartaria lasciato -avea infiniti ed immortal trofei, -in Ponente con essa era tornato, -dove sotto i gran monti Pirenei -con la gente di Francia e de Lamagna -re Carlo era attendato alla campagna, -per far al re Marsilio e al re Agramante -battersi ancor del folle ardir la guancia, -d'aver condotto, l'un, d'Africa quante -genti erano atte a portar spada e lancia; -l'altro, d'aver spinta la Spagna inante -a destruzion del bel regno di Francia. -E così Orlando arrivò quivi a punto: -ma tosto si pentì d'esservi giunto: -che vi fu tolta la sua donna poi: -ecco il giudicio uman come spesso erra! -Quella che dagli esperi ai liti eoi -avea difesa con sì lunga guerra, -or tolta gli è fra tanti amici suoi, -senza spada adoprar, ne la sua terra. -Il savio imperator, ch'estinguer volse -un grave incendio, fu che gli la tolse. -Nata pochi dì inanzi era una gara -tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo, -che entrambi avean per la bellezza rara -d'amoroso disio l'animo caldo. -Carlo, che non avea tal lite cara, -che gli rendea l'aiuto lor men saldo, -questa donzella, che la causa n'era, -tolse, e diè in mano al duca di Bavera; -in premio promettendola a quel d'essi, -ch'in quel conflitto, in quella gran giornata, -degl'infideli più copia uccidessi, -e di sua man prestasse opra più grata. -Contrari ai voti poi furo i successi; -ch'in fuga andò la gente battezzata, -e con molti altri fu 'l duca prigione, -e restò abbandonato il padiglione. -Dove, poi che rimase la donzella -ch'esser dovea del vincitor mercede, -inanzi al caso era salita in sella, -e quando bisognò le spalle diede, -presaga che quel giorno esser rubella -dovea Fortuna alla cristiana fede: -entrò in un bosco, e ne la stretta via -rincontrò un cavallier ch'a piè venìa. -Indosso la corazza, l'elmo in testa, -la spada al fianco, e in braccio avea lo scudo; -e più leggier correa per la foresta, -ch'al pallio rosso il villan mezzo ignudo. -Timida pastorella mai sì presta -non volse piede inanzi a serpe crudo, -come Angelica tosto il freno torse, -che del guerrier, ch'a piè venìa, s'accorse. -Era costui quel paladin gagliardo, -figliuol d'Amon, signor di Montalbano, -a cui pur dianzi il suo destrier Baiardo -per strano caso uscito era di mano. -Come alla donna egli drizzò lo sguardo, -riconobbe, quantunque di lontano, -l'angelico sembiante e quel bel volto -ch'all'amorose reti il tenea involto. -La donna il palafreno a dietro volta, -e per la selva a tutta briglia il caccia; -né per la rara più che per la folta, -la più sicura e miglior via procaccia: -ma pallida, tremando, e di sé tolta, -lascia cura al destrier che la via faccia. -Di sù di giù, ne l'alta selva fiera -tanto girò, che venne a una riviera. -Su la riviera Ferraù trovosse -di sudor pieno e tutto polveroso. -Da la battaglia dianzi lo rimosse -un gran disio di bere e di riposo; -e poi, mal grado suo, quivi fermosse, -perché, de l'acqua ingordo e frettoloso, -l'elmo nel fiume si lasciò cadere, -né l'avea potuto anco riavere. -Quanto potea più forte, ne veniva -gridando la donzella ispaventata. -A quella voce salta in su la riva -il Saracino, e nel viso la guata; -e la conosce subito ch'arriva, -ben che di timor pallida e turbata, -e sien più dì che non n'udì novella, -che senza dubbio ell'è Angelica bella. -E perché era cortese, e n'avea forse -non men de' dui cugini il petto caldo, -l'aiuto che potea tutto le porse, -pur come avesse l'elmo, ardito e baldo: -trasse la spada, e minacciando corse -dove poco di lui temea Rinaldo. -Più volte s'eran già non pur veduti, -m'al paragon de l'arme conosciuti. -Cominciar quivi una crudel battaglia, -come a piè si trovar, coi brandi ignudi: -non che le piastre e la minuta maglia, -ma ai colpi lor non reggerian gl'incudi. -Or, mentre l'un con l'altro si travaglia, -bisogna al palafren che 'l passo studi; -che quanto può menar de le calcagna, -colei lo caccia al bosco e alla campagna. -Poi che s'affaticar gran pezzo invano -i dui guerrier per por l'un l'altro sotto, -quando non meno era con l'arme in mano -questo di quel, né quel di questo dotto; -fu primiero il signor di Montalbano, -ch'al cavallier di Spagna fece motto, -sì come quel ch'ha nel cuor tanto fuoco, -che tutto n'arde e non ritrova loco. -Disse al pagan: — Me sol creduto avrai, -e pur avrai te meco ancora offeso: -se questo avvien perché i fulgenti rai -del nuovo sol t'abbino il petto acceso, -di farmi qui tardar che guadagno hai? -che quando ancor tu m'abbi morto o preso, -non però tua la bella donna fia; -che, mentre noi tardiam, se ne va via. -Quanto fia meglio, amandola tu ancora, -che tu le venga a traversar la strada, -a ritenerla e farle far dimora, -prima che più lontana se ne vada! -Come l'avremo in potestate, allora -di chi esser de' si provi con la spada: -non so altrimenti, dopo un lungo affanno, -che possa riuscirci altro che danno. — -Al pagan la proposta non dispiacque: -così fu differita la tenzone; -e tal tregua tra lor subito nacque, -sì l'odio e l'ira va in oblivione, -che 'l pagano al partir da le fresche acque -non lasciò a piedi il buon figliuol d'Amone: -con preghi invita, ed al fin toglie in groppa, -e per l'orme d'Angelica galoppa. -Oh gran bontà de' cavallieri antiqui! -Eran rivali, eran di fé diversi, -e si sentian degli aspri colpi iniqui -per tutta la persona anco dolersi; -e pur per selve oscure e calli obliqui -insieme van senza sospetto aversi. -Da quattro sproni il destrier punto arriva -ove una strada in due si dipartiva. -E come quei che non sapean se l'una -o l'altra via facesse la donzella -(però che senza differenza alcuna -apparia in amendue l'orma novella), -si messero ad arbitrio di fortuna, -Rinaldo a questa, il Saracino a quella. -Pel bosco Ferraù molto s'avvolse, -e ritrovossi al fine onde si tolse. -Pur si ritrova ancor su la rivera, -là dove l'elmo gli cascò ne l'onde. -Poi che la donna ritrovar non spera, -per aver l'elmo che 'l fiume gli asconde, -in quella parte onde caduto gli era -discende ne l'estreme umide sponde: -ma quello era sì fitto ne la sabbia, -che molto avrà da far prima che l'abbia. -Con un gran ramo d'albero rimondo, -di ch'avea fatto una pertica lunga, -tenta il fiume e ricerca sino al fondo, -né loco lascia ove non batta e punga. -Mentre con la maggior stizza del mondo -tanto l'indugio suo quivi prolunga, -vede di mezzo il fiume un cavalliero -insino al petto uscir, d'aspetto fiero. -Era, fuor che la testa, tutto armato, -ed avea un elmo ne la destra mano: -avea il medesimo elmo che cercato -da Ferraù fu lungamente invano. -A Ferraù parlò come adirato, -e disse: — Ah mancator di fé, marano! -perché di lasciar l'elmo anche t'aggrevi, -che render già gran tempo mi dovevi? -Ricordati, pagan, quando uccidesti -d'Angelica il fratel (che son quell'io), -dietro all'altr'arme tu mi promettesti -gittar fra pochi dì l'elmo nel rio. -Or se Fortuna (quel che non volesti -far tu) pone ad effetto il voler mio, -non ti turbare; e se turbar ti déi, -turbati che di fé mancato sei. -Ma se desir pur hai d'un elmo fino, -trovane un altro, ed abbil con più onore; -un tal ne porta Orlando paladino, -un tal Rinaldo, e forse anco migliore: -l'un fu d'Almonte, e l'altro di Mambrino: -acquista un di quei dui col tuo valore; -e questo, ch'hai già di lasciarmi detto, -farai bene a lasciarmi con effetto. — -All'apparir che fece all'improvviso -de l'acqua l'ombra, ogni pelo arricciossi, -e scolorossi al Saracino il viso; -la voce, ch'era per uscir, fermossi. -Udendo poi da l'Argalia, ch'ucciso -quivi avea già (che l'Argalia nomossi) -la rotta fede così improverarse, -di scorno e d'ira dentro e di fuor arse. -Né tempo avendo a pensar altra scusa, -e conoscendo ben che 'l ver gli disse, -restò senza risposta a bocca chiusa; -ma la vergogna il cor sì gli trafisse, -che giurò per la vita di Lanfusa -non voler mai ch'altro elmo lo coprisse, -se non quel buono che già in Aspramonte -trasse dal capo Orlando al fiero Almonte. -E servò meglio questo giuramento, -che non avea quell'altro fatto prima. -Quindi si parte tanto malcontento, -che molti giorni poi si rode e lima. -Sol di cercare è il paladino intento -di qua di là, dove trovarlo stima. -Altra ventura al buon Rinaldo accade, -che da costui tenea diverse strade. -Non molto va Rinaldo, che si vede -saltare inanzi il suo destrier feroce: -— Ferma, Baiardo mio, deh, ferma il piede! -che l'esser senza te troppo mi nuoce. — -Per questo il destrier sordo, a lui non riede -anzi più se ne va sempre veloce. -Segue Rinaldo, e d'ira si distrugge: -ma seguitiamo Angelica che fugge. -Fugge tra selve spaventose e scure, -per lochi inabitati, ermi e selvaggi. -Il mover de le frondi e di verzure, -che di cerri sentia, d'olmi e di faggi, -fatto le avea con subite paure -trovar di qua di là strani viaggi; -ch'ad ogni ombra veduta o in monte o in valle, -temea Rinaldo aver sempre alle spalle. -Qual pargoletta o damma o capriuola, -che tra le fronde del natio boschetto -alla madre veduta abbia la gola -stringer dal pardo, o aprirle 'l fianco o 'l petto, -di selva in selva dal crudel s'invola, -e di paura trema e di sospetto: -ad ogni sterpo che passando tocca, -esser si crede all'empia fera in bocca. -Quel dì e la notte a mezzo l'altro giorno -s'andò aggirando, e non sapeva dove. -Trovossi al fin in un boschetto adorno, -che lievemente la fresca aura muove. -Duo chiari rivi, mormorando intorno, -sempre l'erbe vi fan tenere e nuove; -e rendea ad ascoltar dolce concento, -rotto tra picciol sassi, il correr lento. -Quivi parendo a lei d'esser sicura -e lontana a Rinaldo mille miglia, -da la via stanca e da l'estiva arsura, -di riposare alquanto si consiglia: -tra' fiori smonta, e lascia alla pastura -andare il palafren senza la briglia; -e quel va errando intorno alle chiare onde, -che di fresca erba avean piene le sponde. -Ecco non lungi un bel cespuglio vede -di prun fioriti e di vermiglie rose, -che de le liquide onde al specchio siede, -chiuso dal sol fra l'alte querce ombrose; -così voto nel mezzo, che concede -fresca stanza fra l'ombre più nascose: -e la foglia coi rami in modo è mista, -che 'l sol non v'entra, non che minor vista. -Dentro letto vi fan tenere erbette, -ch'invitano a posar chi s'appresenta. -La bella donna in mezzo a quel si mette, -ivi si corca ed ivi s'addormenta. -Ma non per lungo spazio così stette, -che un calpestio le par che venir senta: -cheta si leva e appresso alla riviera -vede ch'armato un cavallier giunt'era. -Se gli è amico o nemico non comprende: -tema e speranza il dubbio cor le scuote; -e di quella aventura il fine attende, -né pur d'un sol sospir l'aria percuote. -Il cavalliero in riva al fiume scende -sopra l'un braccio a riposar le gote; -e in un suo gran pensier tanto penètra, -che par cangiato in insensibil pietra. -Pensoso più d'un'ora a capo basso -stette, Signore, il cavallier dolente; -poi cominciò con suono afflitto e lasso -a lamentarsi sì soavemente, -ch'avrebbe di pietà spezzato un sasso, -una tigre crudel fatta clemente. -Sospirante piangea, tal ch'un ruscello -parean le guance, e 'l petto un Mongibello. -— Pensier (dicea) che 'l cor m'agghiacci ed ardi, -e causi il duol che sempre il rode e lima, -che debbo far, poi ch'io son giunto tardi, -e ch'altri a corre il frutto è andato prima? -a pena avuto io n'ho parole e sguardi, -ed altri n'ha tutta la spoglia opima. -Se non ne tocca a me frutto né fiore, -perché affligger per lei mi vuo' più il core? -La verginella è simile alla rosa, -ch'in bel giardin su la nativa spina -mentre sola e sicura si riposa, -né gregge né pastor se le avvicina; -l'aura soave e l'alba rugiadosa, -l'acqua, la terra al suo favor s'inchina: -gioveni vaghi e donne inamorate -amano averne e seni e tempie ornate. -Ma non sì tosto dal materno stelo -rimossa viene e dal suo ceppo verde, -che quanto avea dagli uomini e dal cielo -favor, grazia e bellezza, tutto perde. -La vergine che 'l fior, di che più zelo -che de' begli occhi e de la vita aver de', -lascia altrui corre, il pregio ch'avea inanti -perde nel cor di tutti gli altri amanti. -Sia vile agli altri, e da quel solo amata -a cui di sé fece sì larga copia. -Ah, Fortuna crudel, Fortuna ingrata! -trionfan gli altri, e ne moro io d'inopia. -Dunque esser può che non mi sia più grata? -dunque io posso lasciar mia vita propia? -Ah più tosto oggi manchino i dì miei, -ch'io viva più, s'amar non debbo lei! — -Se mi domanda alcun chi costui sia, -che versa sopra il rio lacrime tante, -io dirò ch'egli è il re di Circassia, -quel d'amor travagliato Sacripante; -io dirò ancor, che di sua pena ria -sia prima e sola causa essere amante, -è pur un degli amanti di costei: -e ben riconosciuto fu da lei. -Appresso ove il sol cade, per suo amore -venuto era dal capo d'Oriente; -che seppe in India con suo gran dolore, -come ella Orlando sequitò in Ponente: -poi seppe in Francia che l'imperatore -sequestrata l'avea da l'altra gente, -per darla all'un de' duo che contra il Moro -più quel giorno aiutasse i Gigli d'oro. -Stato era in campo, e inteso avea di quella -rotta crudel che dianzi ebbe re Carlo: -cercò vestigio d'Angelica bella, -né potuto avea ancora ritrovarlo. -Questa è dunque la trista e ria novella -che d'amorosa doglia fa penarlo, -affligger, lamentare, e dir parole -che di pietà potrian fermare il sole. -Mentre costui così s'affligge e duole, -e fa degli occhi suoi tepida fonte, -e dice queste e molte altre parole, -che non mi par bisogno esser racconte; -l'aventurosa sua fortuna vuole -ch'alle orecchie d'Angelica sian conte: -e così quel ne viene a un'ora, a un punto, -ch'in mille anni o mai più non è raggiunto. -Con molta attenzion la bella donna -al pianto, alle parole, al modo attende -di colui ch'in amarla non assonna; -né questo è il primo dì ch'ella l'intende: -ma dura e fredda più d'una colonna, -ad averne pietà non però scende, -come colei c'ha tutto il mondo a sdegno, -e non le par ch'alcun sia di lei degno. -Pur tra quei boschi il ritrovarsi sola -le fa pensar di tor costui per guida; -che chi ne l'acqua sta fin alla gola -ben è ostinato se mercé non grida. -Se questa occasione or se l'invola, -non troverà mai più scorta sì fida; -ch'a lunga prova conosciuto inante -s'avea quel re fedel sopra ogni amante. -Ma non però disegna de l'affanno -che lo distrugge alleggierir chi l'ama, -e ristorar d'ogni passato danno -con quel piacer ch'ogni amator più brama: -ma alcuna finzione, alcuno inganno -di tenerlo in speranza ordisce e trama; -tanto ch'a quel bisogno se ne serva, -poi torni all'uso suo dura e proterva. -E fuor di quel cespuglio oscuro e cieco -fa di sé bella ed improvvisa mostra, -come di selva o fuor d'ombroso speco -Diana in scena o Citerea si mostra; -e dice all'apparir: — Pace sia teco; -teco difenda Dio la fama nostra, -e non comporti, contra ogni ragione, -ch'abbi di me sì falsa opinione. — -Non mai con tanto gaudio o stupor tanto -levò gli occhi al figliuolo alcuna madre, -ch'avea per morto sospirato e pianto, -poi che senza esso udì tornar le squadre; -con quanto gaudio il Saracin, con quanto -stupor l'alta presenza e le leggiadre -maniere, e il vero angelico sembiante, -improviso apparir si vide inante. -Pieno di dolce e d'amoroso affetto, -alla sua donna, alla sua diva corse, -che con le braccia al collo il tenne stretto, -quel ch'al Catai non avria fatto forse. -Al patrio regno, al suo natio ricetto, -seco avendo costui, l'animo torse: -subito in lei s'avviva la speranza -di tosto riveder sua ricca stanza. -Ella gli rende conto pienamente -dal giorno che mandato fu da lei -a domandar soccorso in Oriente -al re de' Sericani e Nabatei; -e come Orlando la guardò sovente -da morte, da disnor, da casi rei: -e che 'l fior virginal così avea salvo, -come se lo portò del materno alvo. -Forse era ver, ma non però credibile -a chi del senso suo fosse signore; -ma parve facilmente a lui possibile, -ch'era perduto in via più grave errore. -Quel che l'uom vede, Amor gli fa invisibile, -e l'invisibil fa vedere Amore. -Questo creduto fu; che 'l miser suole -dar facile credenza a quel che vuole. -— Se mal si seppe il cavallier d'Anglante -pigliar per sua sciocchezza il tempo buono, -il danno se ne avrà; che da qui inante -nol chiamerà Fortuna a sì gran dono -(tra sé tacito parla Sacripante): -ma io per imitarlo già non sono, -che lasci tanto ben che m'è concesso, -e ch'a doler poi m'abbia di me stesso. -Corrò la fresca e matutina rosa, -che, tardando, stagion perder potria. -So ben ch'a donna non si può far cosa -che più soave e più piacevol sia, -ancor che se ne mostri disdegnosa, -e talor mesta e flebil se ne stia: -non starò per repulsa o finto sdegno, -ch'io non adombri e incarni il mio disegno. — -Così dice egli; e mentre s'apparecchia -al dolce assalto, un gran rumor che suona -dal vicin bosco gl'intruona l'orecchia, -sì che mal grado l'impresa abbandona: -e si pon l'elmo (ch'avea usanza vecchia -di portar sempre armata la persona), -viene al destriero e gli ripon la briglia, -rimonta in sella e la sua lancia piglia. -Ecco pel bosco un cavallier venire, -il cui sembiante è d'uom gagliardo e fiero: -candido come nieve è il suo vestire, -un bianco pennoncello ha per cimiero. -Re Sacripante, che non può patire -che quel con l'importuno suo sentiero -gli abbia interrotto il gran piacer ch'avea, -con vista il guarda disdegnosa e rea. -Come è più appresso, lo sfida a battaglia; -che crede ben fargli votar l'arcione. -Quel che di lui non stimo già che vaglia -un grano meno, e ne fa paragone, -l'orgogliose minacce a mezzo taglia, -sprona a un tempo, e la lancia in resta pone. -Sacripante ritorna con tempesta, -e corronsi a ferir testa per testa. -Non si vanno i leoni o i tori in salto -a dar di petto, ad accozzar sì crudi, -sì come i duo guerrieri al fiero assalto, -che parimente si passar li scudi. -Fe' lo scontro tremar dal basso all'alto -l'erbose valli insino ai poggi ignudi; -e ben giovò che fur buoni e perfetti -gli osberghi sì, che lor salvaro i petti. -Già non fero i cavalli un correr torto, -anzi cozzaro a guisa di montoni: -quel del guerrier pagan morì di corto, -ch'era vivendo in numero de' buoni: -quell'altro cadde ancor, ma fu risorto -tosto ch'al fianco si sentì gli sproni. -Quel del re saracin restò disteso -adosso al suo signor con tutto il peso. -L'incognito campion che restò ritto, -e vide l'altro col cavallo in terra, -stimando avere assai di quel conflitto, -non si curò di rinovar la guerra; -ma dove per la selva è il camin dritto, -correndo a tutta briglia si disserra; -e prima che di briga esca il pagano, -un miglio o poco meno è già lontano. -Qual istordito e stupido aratore, -poi ch'è passato il fulmine, si leva -di là dove l'altissimo fragore -appresso ai morti buoi steso l'aveva; -che mira senza fronde e senza onore -il pin che di lontan veder soleva: -tal si levò il pagano a piè rimaso, -Angelica presente al duro caso. -Sospira e geme, non perché l'annoi -che piede o braccio s'abbi rotto o mosso, -ma per vergogna sola, onde a' dì suoi -né pria né dopo il viso ebbe sì rosso: -e più, ch'oltre il cader, sua donna poi -fu che gli tolse il gran peso d'adosso. -Muto restava, mi cred'io, se quella -non gli rendea la voce e la favella. -— Deh! (diss'ella) signor, non vi rincresca! -che del cader non è la colpa vostra, -ma del cavallo, a cui riposo ed esca -meglio si convenia che nuova giostra. -Né perciò quel guerrier sua gloria accresca -che d'esser stato il perditor dimostra: -così, per quel ch'io me ne sappia, stimo, -quando a lasciare il campo è stato primo. — -Mentre costei conforta il Saracino, -ecco col corno e con la tasca al fianco, -galoppando venir sopra un ronzino -un messagger che parea afflitto e stanco; -che come a Sacripante fu vicino, -gli domandò se con un scudo bianco -e con un bianco pennoncello in testa -vide un guerrier passar per la foresta. -Rispose Sacripante: — Come vedi, -m'ha qui abbattuto, e se ne parte or ora; -e perch'io sappia chi m'ha messo a piedi, -fa che per nome io lo conosca ancora. — -Ed egli a lui: — Di quel che tu mi chiedi -io ti satisfarò senza dimora: -tu dei saper che ti levò di sella -l'alto valor d'una gentil donzella. -Ella è gagliarda ed è più bella molto; -né il suo famoso nome anco t'ascondo: -fu Bradamante quella che t'ha tolto -quanto onor mai tu guadagnasti al mondo. — -Poi ch'ebbe così detto, a freno sciolto -il Saracin lasciò poco giocondo, -che non sa che si dica o che si faccia, -tutto avvampato di vergogna in faccia. -Poi che gran pezzo al caso intervenuto -ebbe pensato invano, e finalmente -si trovò da una femina abbattuto, -che pensandovi più, più dolor sente; -montò l'altro destrier, tacito e muto: -e senza far parola, chetamente -tolse Angelica in groppa, e differilla -a più lieto uso, a stanza più tranquilla. -Non furo iti due miglia, che sonare -odon la selva che li cinge intorno, -con tal rumore e strepito, che pare -che triemi la foresta d'ogn'intorno; -e poco dopo un gran destrier n'appare, -d'oro guernito e riccamente adorno, -che salta macchie e rivi, ed a fracasso -arbori mena e ciò che vieta il passo. -— Se l'intricati rami e l'aer fosco, -(disse la donna) agli occhi non contende, -Baiardo è quel destrier ch'in mezzo il bosco -con tal rumor la chiusa via si fende. -Questo è certo Baiardo, io 'l riconosco: -deh, come ben nostro bisogno intende! -ch'un sol ronzin per dui saria mal atto, -e ne viene egli a satisfarci ratto. — -Smonta il Circasso ed al destrier s'accosta, -e si pensava dar di mano al freno. -Colle groppe il destrier gli fa risposta, -che fu presto al girar come un baleno; -ma non arriva dove i calci apposta: -misero il cavallier se giungea a pieno! -che nei calci tal possa avea il cavallo, -ch'avria spezzato un monte di metallo. -Indi va mansueto alla donzella, -con umile sembiante e gesto umano, -come intorno al padrone il can saltella, -che sia duo giorni o tre stato lontano. -Baiardo ancora avea memoria d'ella, -ch'in Albracca il servia già di sua mano -nel tempo che da lei tanto era amato -Rinaldo, allor crudele, allor ingrato. -Con la sinistra man prende la briglia, -con l'altra tocca e palpa il collo e 'l petto: -quel destrier, ch'avea ingegno a maraviglia, -a lei, come un agnel, si fa suggetto. -Intanto Sacripante il tempo piglia: -monta Baiardo e l'urta e lo tien stretto. -Del ronzin disgravato la donzella -lascia la groppa, e si ripone in sella. -Poi rivolgendo a caso gli occhi, mira -venir sonando d'arme un gran pedone. -Tutta s'avvampa di dispetto e d'ira, -che conosce il figliuol del duca Amone. -Più che sua vita l'ama egli e desira; -l'odia e fugge ella più che gru falcone. -Già fu ch'esso odiò lei più che la morte; -ella amò lui: or han cangiato sorte. -E questo hanno causato due fontane -che di diverso effetto hanno liquore, -ambe in Ardenna, e non sono lontane: -d'amoroso disio l'una empie il core; -chi bee de l'altra, senza amor rimane, -e volge tutto in ghiaccio il primo ardore. -Rinaldo gustò d'una, e amor lo strugge; -Angelica de l'altra, e l'odia e fugge. -Quel liquor di secreto venen misto, -che muta in odio l'amorosa cura, -fa che la donna che Rinaldo ha visto, -nei sereni occhi subito s'oscura; -e con voce tremante e viso tristo -supplica Sacripante e lo scongiura -che quel guerrier più appresso non attenda, -ma ch'insieme con lei la fuga prenda. -— Son dunque (disse il Saracino), sono -dunque in sì poco credito con vui, -che mi stimiate inutile e non buono -da potervi difender da costui? -Le battaglie d'Albracca già vi sono -di mente uscite, e la notte ch'io fui -per la salute vostra, solo e nudo, -contra Agricane e tutto il campo, scudo? — -Non risponde ella, e non sa che si faccia, -perché Rinaldo ormai l'è troppo appresso, -che da lontan al Saracin minaccia, -come vide il cavallo e conobbe esso, -e riconobbe l'angelica faccia -che l'amoroso incendio in cor gli ha messo. -Quel che seguì tra questi duo superbi -vo' che per l'altro canto si riserbi. -Ingiustissimo Amor, perché sì raro -corrispondenti fai nostri desiri? -onde, perfido, avvien che t'è sì caro -il discorde voler ch'in duo cor miri? -Gir non mi lasci al facil guado e chiaro, -e nel più cieco e maggior fondo tiri: -da chi disia il mio amor tu mi richiami, -e chi m'ha in odio vuoi ch'adori ed ami. -Fai ch'a Rinaldo Angelica par bella, -quando esso a lei brutto e spiacevol pare: -quando le parea bello e l'amava ella, -egli odiò lei quanto si può più odiare. -Ora s'affligge indarno e si flagella; -così renduto ben gli è pare a pare: -ella l'ha in odio, e l'odio è di tal sorte, -che più tosto che lui vorria la morte. -Rinaldo al Saracin con molto orgoglio -gridò: — Scendi, ladron, del mio cavallo! -Che mi sia tolto il mio, patir non soglio, -ma ben fo, a chi lo vuol, caro costallo: -e levar questa donna anco ti voglio; -che sarebbe a lasciartela gran fallo. -Sì perfetto destrier, donna sì degna -a un ladron non mi par che si convegna. — -— Tu te ne menti che ladrone io sia -(rispose il Saracin non meno altiero): -chi dicesse a te ladro, lo diria -(quanto io n'odo per fama) più con vero. -La pruova or si vedrà, chi di noi sia -più degno de la donna e del destriero; -ben che, quanto a lei, teco io mi convegna -che non è cosa al mondo altra sì degna. — -Come soglion talor duo can mordenti, -o per invidia o per altro odio mossi, -avicinarsi digrignando i denti, -con occhi bieci e più che bracia rossi; -indi a' morsi venir, di rabbia ardenti, -con aspri ringhi e ribuffati dossi: -così alle spade e dai gridi e da l'onte -venne il Circasso e quel di Chiaramonte. -A piedi è l'un, l'altro a cavallo: or quale -credete ch'abbia il Saracin vantaggio? -Né ve n'ha però alcun; che così vale -forse ancor men ch'uno inesperto paggio; -che 'l destrier per istinto naturale -non volea fare al suo signore oltraggio: -né con man né con spron potea il Circasso -farlo a voluntà sua muover mai passo. -Quando crede cacciarlo, egli s'arresta; -E se tener lo vuole, o corre o trotta: -poi sotto il petto si caccia la testa, -giuoca di schiene, e mena calci in frotta. -Vedendo il Saracin ch'a domar questa -bestia superba era mal tempo allotta, -ferma le man sul primo arcione e s'alza, -e dal sinistro fianco in piede sbalza. -Sciolto che fu il pagan con leggier salto -da l'ostinata furia di Baiardo, -si vide cominciar ben degno assalto -d'un par di cavallier tanto gagliardo. -Suona l'un brando e l'altro, or basso or alto: -il martel di Vulcano era più tardo -ne la spelunca affumicata, dove -battea all'incude i folgori di Giove. -Fanno or con lunghi, ora con finti e scarsi -colpi veder che mastri son del giuoco: -or li vedi ire altieri, or rannicchiarsi, -ora coprirsi, ora mostrarsi un poco, -ora crescer inanzi, ora ritrarsi, -ribatter colpi e spesso lor dar loco, -girarsi intorno; e donde l'uno cede, -l'altro aver posto immantinente il piede. -Ecco Rinaldo con la spada adosso -a Sacripante tutto s'abbandona; -e quel porge lo scudo, ch'era d'osso, -con la piastra d'acciar temprata e buona. -Taglial Fusberta, ancor che molto grosso: -ne geme la foresta e ne risuona. -L'osso e l'acciar ne va che par di ghiaccio, -e lascia al Saracin stordito il braccio. -Quando vide la timida donzella -dal fiero colpo uscir tanta ruina, -per gran timor cangiò la faccia bella, -qual il reo ch'al supplicio s'avvicina; -né le par che vi sia da tardar, s'ella -non vuol di quel Rinaldo esser rapina, -di quel Rinaldo ch'ella tanto odiava, -quanto esso lei miseramente amava. -Volta il cavallo, e ne la selva folta -lo caccia per un aspro e stretto calle: -e spesso il viso smorto a dietro volta; -che le par che Rinaldo abbia alle spalle. -Fuggendo non avea fatto via molta, -che scontrò un eremita in una valle, -ch'avea lunga la barba a mezzo il petto, -devoto e venerabile d'aspetto. -Dagli anni e dal digiuno attenuato, -sopra un lento asinel se ne veniva; -e parea, più ch'alcun fosse mai stato, -di coscienza scrupolosa e schiva. -Come egli vide il viso delicato -de la donzella che sopra gli arriva, -debil quantunque e mal gagliarda fosse, -tutta per carità se gli commosse. -La donna al fraticel chiede la via -che la conduca ad un porto di mare, -perché levar di Francia si vorria, -per non udir Rinaldo nominare. -Il frate, che sapea negromanzia, -non cessa la donzella confortare -che presto la trarrà d'ogni periglio; -ed ad una sua tasca diè di piglio. -Trassene un libro, e mostrò grande effetto; -che legger non finì la prima faccia, -ch'uscir fa un spirto in forma di valletto, -e gli commanda quanto vuol ch'el faccia. -Quel se ne va, da la scrittura astretto, -dove i dui cavallieri a faccia a faccia -eran nel bosco, e non stavano al rezzo; -fra' quali entrò con grande audacia in mezzo. -— Per cortesia (disse), un di voi mi mostre, -quando anco uccida l'altro, che gli vaglia: -che merto avrete alle fatiche vostre, -finita che tra voi sia la battaglia, -se 'l conte Orlando, senza liti o giostre, -e senza pur aver rotta una maglia, -verso Parigi mena la donzella -che v'ha condotti a questa pugna fella? -Vicino un miglio ho ritrovato Orlando -che ne va con Angelica a Parigi, -di voi ridendo insieme, e motteggiando -che senza frutto alcun siate in litigi. -Il meglio forse vi sarebbe, or quando -non son più lungi, a seguir lor vestigi; -che s'in Parigi Orlando la può avere, -non ve la lascia mai più rivedere. — -Veduto avreste i cavallier turbarsi -a quel annunzio, e mesti e sbigottiti, -senza occhi e senza mente nominarsi, -che gli avesse il rival così scherniti; -ma il buon Rinaldo al suo cavallo trarsi -con sospir che parean del fuoco usciti, -e giurar per isdegno e per furore, -se giungea Orlando, di cavargli il core. -E dove aspetta il suo Baiardo, passa, -e sopra vi si lancia, e via galoppa, -né al cavallier, ch'a piè nel bosco lassa, -pur dice a Dio, non che lo 'nviti in groppa. -L'animoso cavallo urta e fracassa, -punto dal suo signor, ciò ch'egli 'ntoppa: -non ponno fosse o fiumi o sassi o spine -far che dal corso il corridor decline. -Signor, non voglio che vi paia strano -se Rinaldo or sì tosto il destrier piglia, -che già più giorni ha seguitato invano, -né gli ha possuto mai toccar la briglia. -Fece il destrier, ch'avea intelletto umano, -non per vizio seguirsi tante miglia, -ma per guidar dove la donna giva, -il suo signor, da chi bramar l'udiva. -Quando ella si fuggì dal padiglione, -la vide ed appostolla il buon destriero, -che si trovava aver voto l'arcione, -però che n'era sceso il cavalliero -per combatter di par con un barone, -che men di lui non era in arme fiero; -poi ne seguitò l'orme di lontano, -bramoso porla al suo signore in mano. -Bramoso di ritrarlo ove fosse ella, -per la gran selva inanzi se gli messe; -né lo volea lasciar montare in sella, -perché ad altro camin non lo volgesse. -Per lui trovò Rinaldo la donzella -una e due volte, e mai non gli successe; -che fu da Ferraù prima impedito, -poi dal Circasso, come avete udito. -Ora al demonio che mostrò a Rinaldo -de la donzella li falsi vestigi, -credette Baiardo anco, e stette saldo -e mansueto ai soliti servigi. -Rinaldo il caccia, d'ira e d'amor caldo, -a tutta briglia, e sempre invêr Parigi; -e vola tanto col disio, che lento, -non ch'un destrier, ma gli parrebbe il vento. -La notte a pena di seguir rimane, -per affrontarsi col signor d'Anglante: -tanto ha creduto alle parole vane -del messagger del cauto negromante. -Non cessa cavalcar sera e dimane, -che si vede apparir la terra avante, -dove re Carlo, rotto e mal condutto, -con le reliquie sue s'era ridutto: -e perché dal re d'Africa battaglia -ed assedio s'aspetta, usa gran cura -a raccor buona gente e vettovaglia, -far cavamenti e riparar le mura. -Ciò ch'a difesa spera che gli vaglia, -senza gran diferir, tutto procura: -pensa mandare in Inghilterra, e trarne -gente onde possa un novo campo farne: -che vuole uscir di nuovo alla campagna, -e ritentar la sorte de la guerra. -Spaccia Rinaldo subito in Bretagna, -Bretagna che fu poi detta Inghilterra. -Ben de l'andata il paladin si lagna: -non ch'abbia così in odio quella terra; -ma perché Carlo il manda allora allora, -né pur lo lascia un giorno far dimora. -Rinaldo mai di ciò non fece meno -volentier cosa; poi che fu distolto -di gir cercando il bel viso sereno -che gli avea il cor di mezzo il petto tolto: -ma, per ubidir Carlo, nondimeno -a quella via si fu subito volto, -ed a Calesse in poche ore trovossi; -e giunto, il dì medesimo imbarcossi. -Contra la voluntà d'ogni nocchiero, -pel gran desir che di tornare avea, -entrò nel mar ch'era turbato e fiero, -e gran procella minacciar parea. -Il Vento si sdegnò, che da l'altiero -sprezzar si vide; e con tempesta rea -sollevò il mar intorno, e con tal rabbia, -che gli mandò a bagnar sino alla gabbia. -Calano tosto i marinari accorti -le maggior vele, e pensano dar volta, -e ritornar ne li medesmi porti -donde in mal punto avean la nave sciolta. -— Non convien (dice il Vento) ch'io comporti -tanta licenza che v'avete tolta; — -e soffia e grida e naufragio minaccia, -s'altrove van, che dove egli li caccia. -Or a poppa, or all'orza hann'il crudele, -che mai non cessa, e vien più ognor crescendo: -essi di qua di là con umil vele -vansi aggirando, e l'alto mar scorrendo. -Ma perché varie fila a varie tele -uopo mi son, che tutte ordire intendo, -lascio Rinaldo e l'agitata prua, -e torno a dir di Bradamante sua. -Io parlo di quella inclita donzella, -per cui re Sacripante in terra giacque, -che di questo signor degna sorella, -del duca Amone e di Beatrice nacque. -La gran possanza e il molto ardir di quella -non meno a Carlo e a tutta Francia piacque -(che più d'un paragon ne vide saldo), -che 'l lodato valor del buon Rinaldo. -La donna amata fu da un cavalliero -che d'Africa passò col re Agramante, -che partorì del seme di Ruggiero -la disperata figlia di Agolante: -e costei, che né d'orso né di fiero -leone uscì, non sdegnò tal amante; -ben che concesso, fuor che vedersi una -volta e parlarsi, non ha lor Fortuna. -Quindi cercando Bradamante gìa -l'amante suo, ch'avea nome dal padre, -così sicura senza compagnia, -come avesse in sua guardia mille squadre: -e fatto ch'ebbe al re di Circassia -battere il volto dell'antiqua madre, -traversò un bosco, e dopo il bosco un monte, -tanto che giunse ad una bella fonte. -La fonte discorrea per mezzo un prato, -d'arbori antiqui e di bell'ombre adorno, -Ch'i viandanti col mormorio grato -a ber invita e a far seco soggiorno: -un culto monticel dal manco lato -le difende il calor del mezzo giorno. -Quivi, come i begli occhi prima torse, -d'un cavallier la giovane s'accorse; -d'un cavallier, ch'all'ombra d'un boschetto, -nel margin verde e bianco e rosso e giallo -sedea pensoso, tacito e soletto -sopra quel chiaro e liquido cristallo. -Lo scudo non lontan pende e l'elmetto -dal faggio, ove legato era il cavallo; -ed avea gli occhi molli e 'l viso basso, -e si mostrava addolorato e lasso. -Questo disir, ch'a tutti sta nel core, -de' fatti altrui sempre cercar novella, -fece a quel cavallier del suo dolore -la cagion domandar da la donzella. -Egli l'aperse e tutta mostrò fuore, -dal cortese parlar mosso di quella, -e dal sembiante altier, ch'al primo sguardo -gli sembrò di guerrier molto gagliardo. -E cominciò: — Signor, io conducea -pedoni e cavallieri, e venìa in campo -là dove Carlo Marsilio attendea, -perch'al scender del monte avesse inciampo; -e una giovane bella meco avea, -del cui fervido amor nel petto avampo: -e ritrovai presso a Rodonna armato -un che frenava un gran destriero alato. -Tosto che 'l ladro, o sia mortale, o sia -una de l'infernali anime orrende, -vede la bella e cara donna mia; -come falcon che per ferir discende, -cala e poggia in un atimo, e tra via -getta le mani, e lei smarrita prende. -Ancor non m'era accorto de l'assalto, -che de la donna io senti' il grido in alto. -Così il rapace nibio furar suole -il misero pulcin presso alla chioccia, -che di sua inavvertenza poi si duole, -e invan gli grida, e invan dietro gli croccia. -Io non posso seguir un uom che vole, -chiuso tra' monti, a piè d'un'erta roccia: -stanco ho il destrier, che muta a pena i passi -ne l'aspre vie de' faticosi sassi. -Ma, come quel che men curato avrei -vedermi trar di mezzo il petto il core, -lasciai lor via seguir quegli altri miei, -senza mia guida e senza alcun rettore: -per li scoscesi poggi e manco rei -presi la via che mi mostrava Amore, -e dove mi parea che quel rapace -portassi il mio conforto e la mia pace. -Sei giorni me n'andai matina e sera -per balze e per pendici orride e strane, -dove non via, dove sentier non era, -dove né segno di vestigie umane; -poi giunsi in una valle inculta e fiera, -di ripe cinta e spaventose tane, -che nel mezzo s'un sasso avea un castello -forte e ben posto, a maraviglia bello. -Da lungi par che come fiamma lustri, -né sia di terra cotta, né di marmi. -Come più m'avicino ai muri illustri, -l'opra più bella e più mirabil parmi. -E seppi poi, come i demoni industri, -da suffumigi tratti e sacri carmi, -tutto d'acciaio avean cinto il bel loco, -temprato all'onda ed allo stigio foco. -Di sì forbito acciar luce ogni torre, -che non vi può né ruggine né macchia. -Tutto il paese giorno e notte scorre, -e poi là dentro il rio ladron s'immacchia. -Cosa non ha ripar che voglia torre: -sol dietro invan se li bestemia e gracchia. -Quivi la donna, anzi il mio cor mi tiene, -che di mai ricovrar lascio ogni spene. -Ah lasso! che poss'io più che mirare -la rocca lungi, ove il mio ben m'è chiuso? -come la volpe, che 'l figlio gridare -nel nido oda de l'aquila di giuso, -s'aggira intorno, e non sa che si fare, -poi che l'ali non ha da gir là suso. -Erto è quel sasso sì, tale è il castello, -che non vi può salir chi non è augello. -Mentre io tardava quivi, ecco venire -duo cavallier ch'avean per guida un nano, -che la speranza aggiunsero al desire; -ma ben fu la speranza e il desir vano. -Ambi erano guerrier di sommo ardire: -era Gradasso l'un, re sericano; -era l'altro Ruggier, giovene forte, -pregiato assai ne l'africana corte. -— Vengon (mi disse il nano) per far pruova -di lor virtù col sir di quel castello, -che per via strana, inusitata e nuova -cavalca armato il quadrupede augello. — -— Deh, signor (diss'io lor), pietà vi muova -del duro caso mio spietato e fello! -Quando, come ho speranza, voi vinciate, -vi prego la mia donna mi rendiate. — -E come mi fu tolta lor narrai, -con lacrime affermando il dolor mio. -Quei, lor mercé, mi proferiro assai, -e giù calaro il poggio alpestre e rio. -Di lontan la battaglia io riguardai, -pregando per la lor vittoria Dio. -Era sotto il castel tanto di piano, -quanto in due volte si può trar con mano. -Poi che fur giunti a piè de l'alta rocca, -l'uno e l'altro volea combatter prima; -pur a Gradasso, o fosse sorte, tocca, -o pur che non ne fe' Ruggier più stima. -Quel Serican si pone il corno a bocca: -rimbomba il sasso e la fortezza in cima. -Ecco apparire il cavalliero armato -fuor de la porta, e sul cavallo alato. -Cominciò a poco a poco indi a levarse, -come suol far la peregrina grue, -che corre prima, e poi vediamo alzarse -alla terra vicina un braccio o due; -e quando tutte sono all'aria sparse, -velocissime mostra l'ale sue. -Sì ad alto il negromante batte l'ale, -ch'a tanta altezza a pena aquila sale. -Quando gli parve poi, volse il destriero, -che chiuse i vanni e venne a terra a piombo, -come casca dal ciel falcon maniero -che levar veggia l'anitra o il colombo. -Con la lancia arrestata il cavalliero -l'aria fendendo vien d'orribil rombo. -Gradasso a pena del calar s'avede, -che se lo sente addosso e che lo fiede. -Sopra Gradasso il mago l'asta roppe; -ferì Gradasso il vento e l'aria vana: -per questo il volator non interroppe -il batter l'ale, e quindi s'allontana. -Il grave scontro fa chinar le groppe -sul verde prato alla gagliarda alfana. -Gradasso avea una alfana, la più bella -e la miglior che mai portasse sella. -Sin alle stelle il volator trascorse; -indi girossi e tornò in fretta al basso, -e percosse Ruggier che non s'accorse, -Ruggier che tutto intento era a Gradasso. -Ruggier del grave colpo si distorse, -e 'l suo destrier più rinculò d'un passo; -e quando si voltò per lui ferire, -da sé lontano il vide al ciel salire. -Or su Gradasso, or su Ruggier percote -ne la fronte, nel petto e ne la schiena, -e le botte di quei lascia ognor vote, -perché è sì presto, che si vede a pena. -Girando va con spaziose rote, -e quando all'uno accenna, all'altro mena: -all'uno e all'altro sì gli occhi abbarbaglia, -che non ponno veder donde gli assaglia. -Fra duo guerrieri in terra ed uno in cielo -la battaglia durò sino a quella ora, -che spiegando pel mondo oscuro velo, -tutte le belle cose discolora. -Fu quel ch'io dico, e non v'aggiungo un pelo: -io 'l vidi, i' 'l so: né m'assicuro ancora -di dirlo altrui; che questa maraviglia -al falso più ch'al ver si rassimiglia. -D'un bel drappo di seta avea coperto -lo scudo in braccio il cavallier celeste. -Come avesse, non so, tanto sofferto -di tenerlo nascosto in quella veste; -ch'immantinente che lo mostra aperto, -forza è, ch'il mira, abbarbagliato reste, -e cada come corpo morto cade, -e venga al negromante in potestade. -Splende lo scudo a guisa di piropo, -e luce altra non è tanto lucente. -Cadere in terra allo splendor fu d'uopo -con gli occhi abbacinati, e senza mente. -Perdei da lungi anch'io li sensi, e dopo -gran spazio mi riebbi finalmente; -né più i guerrier né più vidi quel nano, -ma vòto il campo, e scuro il monte e il piano. -Pensai per questo che l'incantatore -avesse amendui colti a un tratto insieme, -e tolto per virtù de lo splendore -la libertade a loro, e a me la speme. -Così a quel loco, che chiudea il mio core, -dissi, partendo, le parole estreme. -Or giudicate s'altra pena ria, -che causi Amor, può pareggiar la mia. — -Ritornò il cavallier nel primo duolo, -fatta che n'ebbe la cagion palese. -Questo era il conte Pinabel, figliuolo -d'Anselmo d'Altaripa, maganzese; -che tra sua gente scelerata, solo -leale esser non volse né cortese, -ma ne li vizi abominandi e brutti -non pur gli altri adeguò, ma passò tutti. -La bella donna con diverso aspetto -stette ascoltando il Maganzese cheta; -che come prima di Ruggier fu detto, -nel viso si mostrò più che mai lieta: -ma quando sentì poi ch'era in distretto, -turbossi tutta d'amorosa pieta; -né per una o due volte contentosse -che ritornato a replicar le fosse. -E poi ch'al fin le parve esserne chiara, -gli disse: — Cavallier, datti riposo, -che ben può la mia giunta esserti cara, -parerti questo giorno aventuroso. -Andiam pur tosto a quella stanza avara, -che sì ricco tesor ci tiene ascoso; -né spesa sarà invan questa fatica, -se fortuna non m'è troppo nemica. — -Rispose il cavallier: — Tu vòi ch'io passi -di nuovo i monti, e mostriti la via? -A me molto non è perdere i passi, -perduta avendo ogni altra cosa mia; -ma tu per balze e ruinosi sassi -cerchi entrar in pregione; e così sia. -Non hai di che dolerti di me, poi -ch'io tel predico, e tu pur gir vi vòi. — -Così dice egli, e torna al suo destriero, -e di quella animosa si fa guida, -che si mette a periglio per Ruggiero, -che la pigli quel mago o che la ancida. -In questo, ecco alle spalle il messaggero, -ch': — Aspetta, aspetta! — a tutta voce grida, -il messagger da chi il Circasso intese -che costei fu ch'all'erba lo distese. -A Bradamante il messagger novella -di Mompolier e di Narbona porta, -ch'alzato gli stendardi di Castella -avean, con tutto il lito d'Acquamorta; -e che Marsilia, non v'essendo quella -che la dovea guardar, mal si conforta, -e consiglio e soccorso le domanda -per questo messo, e se le raccomanda. -Questa cittade, e intorno a molte miglia -ciò che fra Varo e Rodano al mar siede, -avea l'imperator dato alla figlia -del duca Amon, in ch'avea speme e fede; -però che 'l suo valor con maraviglia -riguardar suol, quando armeggiar la vede. -Or, com'io dico, a domandar aiuto -quel messo da Marsilia era venuto. -Tra sì e no la giovane suspesa, -di voler ritornar dubita un poco: -quinci l'onore e il debito le pesa, -quindi l'incalza l'amoroso foco. -Fermasi al fin di seguitar l'impresa, -e trar Ruggier de l'incantato loco; -e quando sua virtù non possa tanto, -almen restargli prigioniera a canto. -E fece iscusa tal, che quel messaggio -parve contento rimanere e cheto. -Indi girò la briglia al suo viaggio, -con Pinabel che non ne parve lieto; -che seppe esser costei di quel lignaggio -che tanto ha in odio in publico e in secreto: -e già s'avisa le future angosce, -se lui per maganzese ella conosce. -Tra casa di Maganza e di Chiarmonte -era odio antico e inimicizia intensa; -e più volte s'avean rotta la fronte, -e sparso di lor sangue copia immensa: -e però nel suo cor l'iniquo conte -tradir l'incauta giovane si pensa; -o, come prima commodo gli accada, -lasciarla sola, e trovar altra strada. -E tanto gli occupò la fantasia -il nativo odio, il dubbio e la paura, -ch'inavedutamente uscì di via: -e ritrovossi in una selva oscura, -che nel mezzo avea un monte che finia -la nuda cima in una pietra dura; -e la figlia del duca di Dordona -gli è sempre dietro, e mai non l'abandona. -Come si vide il Maganzese al bosco, -pensò tôrsi la donna da le spalle. -Disse: — Prima che 'l ciel torni più fosco, -verso un albergo è meglio farsi il calle. -Oltra quel monte, s'io lo riconosco, -siede un ricco castel giù ne la valle. -Tu qui m'aspetta; che dal nudo scoglio -certificar con gli occhi me ne voglio. — -Così dicendo, alla cima superna -del solitario monte il destrier caccia, -mirando pur s'alcuna via discerna, -come lei possa tor da la sua traccia. -Ecco nel sasso truova una caverna, -che si profonda più di trenta braccia. -Tagliato a picchi ed a scarpelli il sasso -scende giù al dritto, ed ha una porta al basso. -Nel fondo avea una porta ampla e capace, -ch'in maggior stanza largo adito dava; -e fuor n'uscìa splendor, come di face -ch'ardesse in mezzo alla montana cava. -Mentre quivi il fellon suspeso tace, -la donna, che da lungi il seguitava -(perché perderne l'orme si temea), -alla spelonca gli sopragiungea. -Poi che si vide il traditore uscire, -quel ch'avea prima disegnato, invano, -o da sé torla, o di farla morire, -nuovo argumento imaginossi e strano. -Le si fe' incontra, e su la fe' salire -là dove il monte era forato e vano; -e le disse ch'avea visto nel fondo -una donzella di viso giocondo. -Ch'a' bei sembianti ed alla ricca vesta -esser parea di non ignobil grado; -ma quanto più potea turbata e mesta, -mostrava esservi chiusa suo mal grado: -e per saper la condizion di questa, -ch'avea già cominciato a entrar nel guado; -e ch'era uscito de l'interna grotta -un che dentro a furor l'avea ridotta. -Bradamante, che come era animosa, -così mal cauta, a Pinabel diè fede; -e d'aiutar la donna, disiosa, -si pensa come por colà giù il piede. -Ecco d'un olmo alla cima frondosa -volgendo gli occhi, un lungo ramo vede; -e con la spada quel subito tronca, -e lo declina giù ne la spelonca. -Dove è tagliato, in man lo raccomanda -a Pinabello, e poscia a quel s'apprende: -prima giù i piedi ne la tana manda, -e su le braccia tutta si suspende. -Sorride Pinabello, e le domanda -come ella salti; e le man apre e stende, -dicendole: — Qui fosser teco insieme -tutti li tuoi, ch'io ne spegnessi il seme! — -Non come volse Pinabello avvenne -de l'innocente giovane la sorte; -perché, giù diroccando a ferir venne -prima nel fondo il ramo saldo e forte. -Ben si spezzò, ma tanto la sostenne, -che 'l suo favor la liberò da morte. -Giacque stordita la donzella alquanto, -come io vi seguirò ne l'altro canto. -Chi mi darà la voce e le parole -convenienti a sì nobil suggetto? -chi l'ale al verso presterà, che vole -tanto ch'arrivi all'alto mio concetto? -Molto maggior di quel furor che suole, -ben or convien che mi riscaldi il petto; -che questa parte al mio signor si debbe, -che canta gli avi onde l'origin ebbe: -di cui fra tutti li signori illustri, -dal ciel sortiti a governar la terra, -non vedi, o Febo, che 'l gran mondo lustri, -più gloriosa stirpe o in pace o in guerra; -né che sua nobiltade abbia più lustri -servata, e servarà (s'in me non erra -quel profetico lume che m'ispiri) -fin che d'intorno al polo il ciel s'aggiri. -E volendone a pien dicer gli onori, -bisogna non la mia, ma quella cetra -con che tu dopo i gigantei furori -rendesti grazia al regnator dell'etra. -S'istrumenti avrò mai da te migliori, -atti a sculpire in così degna pietra, -in queste belle imagini disegno -porre ogni mia fatica, ogni mio ingegno. -Levando intanto queste prime rudi -scaglie n'andrò con lo scarpello inetto: -forse ch'ancor con più solerti studi -poi ridurrò questo lavor perfetto. -Ma ritorniano a quello, a cui né scudi -potran né usberghi assicurare il petto: -parlo di Pinabello di Maganza, -che d'uccider la donna ebbe speranza. -Il traditor pensò che la donzella -fosse ne l'alto precipizio morta; -e con pallida faccia lasciò quella -trista e per lui contaminata porta, -e tornò presto a rimontar in sella: -e come quel ch'avea l'anima torta, -per giunger colpa a colpa e fallo a fallo, -di Bradamante ne menò il cavallo. -Lasciàn costui, che mentre all'altrui vita -ordisce inganno, il suo morir procura; -e torniamo alla donna che, tradita, -quasi ebbe a un tempo e morte e sepoltura. -Poi ch'ella si levò tutta stordita, -ch'avea percosso in su la pietra dura, -dentro la porta andò, ch'adito dava -ne la seconda assai più larga cava. -La stanza, quadra e spaziosa, pare -una devota e venerabil chiesa, -che su colonne alabastrine e rare -con bella architettura era suspesa. -Surgea nel mezzo un ben locato altare, -ch'avea dinanzi una lampada accesa; -e quella di splendente e chiaro foco -rendea gran lume all'uno e all'altro loco. -Di devota umiltà la donna tocca, -come si vide in loco sacro e pio, -incominciò col core e con la bocca, -inginocchiata, a mandar prieghi a Dio. -Un picciol uscio intanto stride e crocca, -ch'era all'incontro, onde una donna uscìo -discinta e scalza, e sciolte avea le chiome, -che la donzella salutò per nome. -E disse: — O generosa Bradamante, -non giunta qui senza voler divino, -di te più giorni m'ha predetto inante -il profetico spirto di Merlino, -che visitar le sue reliquie sante -dovevi per insolito camino: -e qui son stata acciò ch'io ti riveli -quel c'han di te già statuito i cieli. -Questa è l'antiqua e memorabil grotta -ch'edificò Merlino, il savio mago -che forse ricordare odi talotta, -dove ingannollo la Donna del Lago. -Il sepolcro è qui giù, dove corrotta -giace la carne sua; dove egli, vago -di sodisfare a lei, che glil suase, -vivo corcossi, e morto ci rimase. -Col corpo morto il vivo spirto alberga, -sin ch'oda il suon de l'angelica tromba -che dal ciel lo bandisca o che ve l'erga, -secondo che sarà corvo o colomba. -Vive la voce; e come chiara emerga, -udir potrai dalla marmorea tomba, -che le passate e le future cose -a chi gli domandò, sempre rispose. -Più giorni son ch'in questo cimiterio -venni di remotissimo paese, -perché circa il mio studio alto misterio -mi facesse Merlin meglio palese: -e perché ebbi vederti desiderio, -poi ci son stata oltre il disegno un mese; -che Merlin, che 'l ver sempre mi predisse, -termine al venir tuo questo dì fisse. — -Stassi d'Amon la sbigottita figlia -tacita e fissa al ragionar di questa; -ed ha sì pieno il cor di maraviglia, -che non sa s'ella dorme o s'ella è desta: -e con rimesse e vergognose ciglia -(come quella che tutta era modesta) -rispose: — Di che merito son io, -ch'antiveggian profeti il venir mio? — -E lieta de l'insolita avventura, -dietro alla Maga subito fu mossa, -che la condusse a quella sepoltura -che chiudea di Merlin l'anima e l'ossa. -Era quell'arca d'una pietra dura, -lucida e tersa, e come fiamma rossa; -tal ch'alla stanza, ben che di sol priva, -dava splendore il lume che n'usciva. -O che natura sia d'alcuni marmi -che muovin l'ombre a guisa di facelle, -o forza pur di suffumigi e carmi -e segni impressi all'osservate stelle -(come più questo verisimil parmi), -discopria lo splendor più cose belle -e di scoltura e di color, ch'intorno -il venerabil luogo aveano adorno. -A pena ha Bradamante da la soglia -levato il piè ne la secreta cella, -che 'l vivo spirto da la morta spoglia -con chiarissima voce le favella: -— Favorisca Fortuna ogni tua voglia, -o casta e nobilissima donzella, -del cui ventre uscirà il seme fecondo -che onorar deve Italia e tutto il mondo. -L'antiquo sangue che venne da Troia, -per li duo miglior rivi in te commisto, -produrrà l'ornamento, il fior, la gioia -d'ogni lignaggio ch'abbia il sol mai visto -tra l'Indo e 'l Tago e 'l Nilo e la Danoia, -tra quanto è 'n mezzo Antartico e Calisto. -Ne la progenie tua con sommi onori -saran marchesi, duci e imperatori. -I capitani e i cavallier robusti -quindi usciran, che col ferro e col senno -ricuperar tutti gli onor vetusti -de l'arme invitte alla sua Italia denno. -Quindi terran lo scettro i signor giusti, -che, come il savio Augusto e Numa fenno, -sotto il benigno e buon governo loro -ritorneran la prima età de l'oro. -Acciò dunque il voler del ciel si metta -in effetto per te, che di Ruggiero -t'ha per moglier fin da principio eletta, -segue animosamente il tuo sentiero; -che cosa non sarà che s'intrometta -da poterti turbar questo pensiero, -sì che non mandi al primo assalto in terra -quel rio ladron ch'ogni tuo ben ti serra. — -Tacque Merlino avendo così detto, -ed agio all'opre de la Maga diede, -ch'a Bradamante dimostrar l'aspetto -si preparava di ciascun suo erede. -Avea di spirti un gran numero eletto, -non so se da l'Inferno o da qual sede, -e tutti quelli in un luogo raccolti -sotto abiti diversi e vari volti. -Poi la donzella a sé richiama in chiesa, -là dove prima avea tirato un cerchio -che la potea capir tutta distesa, -ed avea un palmo ancora di superchio. -E perché da li spirti non sia offesa, -le fa d'un gran pentacolo coperchio; -e le dice che taccia e stia a mirarla: -poi scioglie il libro, e coi demoni parla. -Eccovi fuor de la prima spelonca, -che gente intorno al sacro cerchio ingrossa; -ma, come vuole entrar, la via l'è tronca, -come lo cinga intorno muro e fossa. -In quella stanza, ove la bella conca -in sé chiudea del gran profeta l'ossa, -entravan l'ombre, poi ch'avean tre volte -fatto d'intorno lor debite volte. -— Se i nomi e i gesti di ciascun vo' dirti -(dicea l'incantatrice a Bradamante), -di questi ch'or per gl'incantati spirti, -prima che nati sien, ci sono avante, -non so veder quando abbia da espedirti; -che non basta una notte a cose tante: -sì ch'io te ne verrò scegliendo alcuno, -secondo il tempo, e che sarà oportuno. -Vedi quel primo che ti rassimiglia -ne' bei sembianti e nel giocondo aspetto: -capo in Italia fia di tua famiglia, -del seme di Ruggiero in te concetto. -Veder del sangue di Pontier vermiglia -per mano di costui la terra aspetto, -e vendicato il tradimento e il torto -contra quei che gli avranno il padre morto. -Per opra di costui sarà deserto -il re de' Longobardi Desiderio: -d'Este e di Calaon per questo merto -il bel dominio avrà dal sommo Imperio. -Quel che gli è dietro, è il tuo nipote Uberto, -onor de l'arme e del paese esperio: -per costui contra Barbari difesa -più d'una volta fia la santa Chiesa. -Vedi qui Alberto, invitto capitano -ch'ornerà di trofei tanti delubri: -Ugo il figlio è con lui, che di Milano -farà l'acquisto, e spiegherà i colubri. -Azzo è quell'altro, a cui resterà in mano -dopo il fratello, il regno degli Insubri. -Ecco Albertazzo, il cui savio consiglio -torrà d'Italia Beringario e il figlio; -e sarà degno a cui Cesare Otone -Alda sua figlia, in matrimonio aggiunga. -Vedi un altro Ugo: oh bella successione, -che dal patrio valor non si dislunga! -Costui sarà, che per giusta cagione -ai superbi Roman l'orgoglio emunga, -che 'l terzo Otone e il pontefice tolga -de le man loro, e 'l grave assedio sciolga. -Vedi Folco, che par ch'al suo germano, -ciò che in Italia avea, tutto abbi dato, -e vada a possedere indi lontano -in mezzo agli Alamanni un gran ducato; -e dia alla casa di Sansogna mano, -che caduta sarà tutta da un lato; -e per la linea de la madre, erede, -con la progenie sua la terrà in piede. -Questo ch'or a nui viene è il secondo Azzo, -di cortesia più che di guerre amico, -tra dui figli, Bertoldo ed Albertazzo. -Vinto da l'un sarà il secondo Enrico, -e del sangue tedesco orribil guazzo -Parma vedrà per tutto il campo aprico: -de l'altro la contessa gloriosa, -saggia e casta Matilde, sarà sposa. -Virtù il farà di tal connubio degno; -ch'a quella età non poca laude estimo -quasi di mezza Italia in dote il regno, -e la nipote aver d'Enrico primo. -Ecco di quel Bertoldo il caro pegno, -Rinaldo tuo, ch'avrà l'onor opimo -d'aver la Chiesa de le man riscossa -de l'empio Federico Barbarossa. -Ecco un altro Azzo, ed è quel che Verona -avrà in poter col suo bel tenitorio; -e sarà detto marchese d'Ancona -dal quarto Otone e dal secondo Onorio. -Lungo sarà s'io mostro ogni persona -del sangue tuo, ch'avrà del consistorio -il confalone, e s'io narro ogni impresa -vinta da lor per la romana Chiesa. -Obizzo vedi e Folco, altri Azzi, altri Ughi, -ambi gli Enrichi, il figlio al padre a canto; -duo Guelfi, di quai l'uno Umbria soggiughi, -e vesta di Spoleti il ducal manto. -Ecco che 'l sangue e le gran piaghe asciughi -d'Italia afflitta, e volga in riso il pianto: -di costui parlo (e mostrolle Azzo quinto) -onde Ezellin fia rotto, preso, estinto. -Ezellino, immanissimo tiranno, -che fia creduto figlio del demonio, -farà, troncando i sudditi, tal danno, -e distruggendo il bel paese ausonio, -che pietosi apo lui stati saranno -Mario, Silla, Neron, Caio ed Antonio. -E Federico imperator secondo -fia per questo Azzo rotto e messo al fondo. -Terrà costui con più felice scettro -la bella terra che siede sul fiume, -dove chiamò con lacrimoso plettro -Febo il figliuol ch'avea mal retto il lume, -quando fu pianto il fabuloso elettro, -e Cigno si vestì di bianche piume; -e questa di mille oblighi mercede -gli donerà l'Apostolica sede. -Dove lascio il fratel Aldrobandino? -che per dar al pontefice soccorso -contra Oton quarto e il campo ghibellino -che sarà presso al Campidoglio corso, -ed avrà preso ogni luogo vicino, -e posto agli Umbri e alli Piceni il morso; -né potendo prestargli aiuto senza -molto tesor, ne chiederà a Fiorenza; -e non avendo gioie o miglior pegni, -per sicurtà daralle il frate in mano. -Spiegherà i suoi vittoriosi segni, -e romperà l'esercito germano; -in seggio riporrà la Chiesa, e degni -darà supplici ai conti di Celano; -ed al servizio del sommo Pastore -finirà gli anni suoi nel più bel fiore. -Ed Azzo, il suo fratel, lascierà erede -del dominio d'Ancona e di Pisauro, -d'ogni città che da Troento siede -tra il mare e l'Apennin fin all'Isauro, -e di grandezza d'animo e di fede, -e di virtù, miglior che gemme ed auro: -che dona e tolle ogn'altro ben Fortuna; -sol in virtù non ha possanza alcuna. -Vedi Rinaldo, in cui non minor raggio -splenderà di valor, pur che non sia -a tanta esaltazion del bel lignaggio -Morte o Fortuna invidiosa e ria. -Udirne il duol fin qui da Napoli aggio, -dove del padre allor statico fia. -Or Obizzo ne vien, che giovinetto -dopo l'avo sarà principe eletto. -Al bel dominio accrescerà costui -Reggio giocondo, e Modona feroce. -Tal sarà il suo valor, che signor lui -domanderanno i populi a una voce. -Vedi Azzo sesto, un de' figliuoli sui, -confalonier de la cristiana croce: -avrà il ducato d'Andria con la figlia -del secondo re Carlo di Siciglia. -Vedi in un bello ed amichevol groppo -de li principi illustri l'eccellenza: -Obizzo, Aldrobandin, Nicolò zoppo, -Alberto, d'amor pieno e di clemenza. -Io tacerò, per non tenerti troppo, -come al bel regno aggiungeran Favenza, -e con maggior fermezza Adria, che valse -da sé nomar l'indomite acque salse; -come la terra, il cui produr di rose -le diè piacevol nome in greche voci, -e la città ch'in mezzo alle piscose -paludi, del Po teme ambe le foci, -dove abitan le genti disiose -che 'l mar si turbi e sieno i venti atroci. -Taccio d'Argenta, di Lugo e di mille -altre castella e populose ville. -Ve' Nicolò, che tenero fanciullo -il popul crea signor de la sua terra, -e di Tideo fa il pensier vano e nullo, -che contra lui le civil arme afferra. -Sarà di questo il pueril trastullo -sudar nel ferro e travagliarsi in guerra; -e da lo studio del tempo primiero -il fior riuscirà d'ogni guerriero. -Farà de' suoi ribelli uscire a voto -ogni disegno, e lor tornare in danno; -ed ogni stratagema avrà sì noto, -che sarà duro il poter fargli inganno. -Tardi di questo s'avedrà il terzo Oto, -e di Reggio e di Parma aspro tiranno, -che da costui spogliato a un tempo fia -e del dominio e de la vita ria. -Avrà il bel regno poi sempre augumento -senza torcer mai piè dal camin dritto; -né ad alcuno farà mai nocumento, -da cui prima non sia d'ingiuria afflitto: -ed è per questo il gran Motor contento -che non gli sia alcun termine prescritto: -ma duri prosperando in meglio sempre, -fin che si volga il ciel ne le sue tempre. -Vedi Leonello, e vedi il primo duce, -fama de la sua età, l'inclito Borso, -che siede in pace, e più trionfo adduce -di quanti in altrui terre abbino corso. -Chiuderà Marte ove non veggia luce, -e stringerà al Furor le mani al dorso. -Di questo signor splendido ogni intento -sarà che 'l popul suo viva contento. -Ercole or vien, ch'al suo vicin rinfaccia, -col piè mezzo arso e con quei debol passi, -come a Budrio col petto e con la faccia -il campo volto in fuga gli fermassi; -non perché in premio poi guerra gli faccia, -né, per cacciarlo, fin nel Barco passi. -Questo è il signor, di cui non so esplicarme -se fia maggior la gloria o in pace o in arme. -Terran Pugliesi, Calabri e Lucani -de' gesti di costui lunga memoria, -là dove avrà dal Re de' Catalani -di pugna singular la prima gloria; -e nome tra gl'invitti capitani -s'acquisterà con più d'una vittoria: -avrà per sua virtù la signoria, -più di trenta anni a lui debita pria. -E quanto più aver obligo si possa -a principe, sua terra avrà a costui; -non perché fia de le paludi mossa -tra campi fertilissimi da lui; -non perché la farà con muro e fossa -meglio capace a' cittadini sui, -e l'ornarà di templi e di palagi, -di piazze, di teatri e di mille agi; -non perché dagli artigli de l'audace -aligero Leon terrà difesa; -non perché, quando la gallica face -per tutto avrà la bella Italia accesa, -si starà sola col suo stato in pace, -e dal timore e dai tributi illesa: -non sì per questi ed altri benefici -saran sue genti ad Ercol debitrici: -quanto che darà lor l'inclita prole, -il giusto Alfonso e Ippolito benigno, -che saran quai l'antiqua fama suole -narrar de' figli del Tindareo cigno, -ch'alternamente si privan del sole -per trar l'un l'altro de l'aer maligno. -Sarà ciascuno d'essi e pronto e forte -l'altro salvar con sua perpetua morte. -Il grande amor di questa bella coppia -renderà il popul suo via più sicuro, -che se, per opra di Vulcan, di doppia -cinta di ferro avesse intorno il muro. -Alfonso è quel che col saper accoppia -sì la bontà, ch'al secolo futuro -la gente crederà che sia dal cielo -tornata Astrea dove può il caldo e il gielo. -A grande uopo gli fia l'esser prudente, -e di valore assimigliarsi al padre; -che si ritroverà, con poca gente, -da un lato aver le veneziane squadre, -colei dall'altro, che più giustamente -non so se devrà dir matrigna o madre; -ma se per madre, a lui poco più pia, -che Medea ai figli o Progne stata sia. -E quante volte uscirà giorno o notte -col suo popul fedel fuor de la terra, -tante sconfitte e memorabil rotte -darà a' nimici o per acqua o per terra. -Le genti di Romagna mal condotte, -contra i vicini e lor già amici, in guerra, -se n'avedranno, insanguinando il suolo -che serra il Po, Santerno e Zanniolo. -Nei medesmi confini anco saprallo -del gran Pastore il mercenario Ispano, -che gli avrà dopo con poco intervallo -la Bastìa tolta, e morto il castellano, -quando l'avrà già preso; e per tal fallo -non fia, dal minor fante al capitano, -che del racquisto e del presidio ucciso -a Roma riportar possa l'aviso. -Costui sarà, col senno e con la lancia, -ch'avrà l'onor, nei campi di Romagna, -d'aver dato all'esercito di Francia -la gran vittoria contra Iulio e Spagna. -Nuoteranno i destrier fin alla pancia -nel sangue uman per tutta la campagna; -ch'a sepelire il popul verrà manco -tedesco, ispano, greco, italo, e franco. -Quel ch'in pontificale abito imprime -del purpureo capel la sacra chioma, -è il liberal, magnanimo, sublime, -gran cardinal de la Chiesa di Roma -Ippolito, ch'a prose, a versi, a rime -darà materia eterna in ogni idioma; -la cui fiorita età vuole il ciel iusto -ch'abbia un Maron, come un altro ebbe Augusto. -Adornerà la sua progenie bella, -come orna il sol la machina del mondo -molto più de la luna e d'ogni stella; -ch'ogn'altro lume a lui sempre è secondo. -Costui con pochi a piedi e meno in sella -veggio uscir mesto, e poi tornar iocondo; -che quindici galee mena captive, -oltra mill'altri legni alle sue rive. -Vedi poi l'uno e l'altro Sigismondo. -Vedi d'Alfonso i cinque figli cari, -alla cui fama ostar, che di sé il mondo -non empia, i monti non potran né i mari: -gener del re di Francia, Ercol secondo -è l'un; quest'altro (acciò tutti gl'impari) -Ippolito è, che non con minor raggio -che 'l zio, risplenderà nel suo lignaggio; -Francesco, il terzo; Alfonsi gli altri dui -ambi son detti. Or, come io dissi prima, -s'ho da mostrarti ogni tuo ramo, il cui -valor la stirpe sua tanto sublima, -bisognerà che si rischiari e abbui -più volte prima il ciel, ch'io te li esprima: -e sarà tempo ormai, quando ti piaccia, -ch'io dia licenza all'ombre e ch'io mi taccia. — -Così con voluntà de la donzella -la dotta incantatrice il libro chiuse. -Tutti gli spirti allora ne la cella -spariro in fretta, ove eran l'ossa chiuse. -Qui Bradamante, poi che la favella -le fu concessa usar, la bocca schiuse, -e domandò: — Chi son li dua sì tristi, -che tra Ippolito e Alfonso abbiamo visti? -Veniano sospirando, e gli occhi bassi -parean tener d'ogni baldanza privi; -e gir lontan da loro io vedea i passi -dei frati sì, che ne pareano schivi. — -Parve ch'a tal domanda si cangiassi -la maga in viso, e fe' degli occhi rivi, -e gridò: — Ah sfortunati, a quanta pena -lungo istigar d'uomini rei vi mena! -O bona prole, o degna d'Ercol buono, -non vinca il lor fallir vostra bontade: -di vostro sangue i miseri pur sono; -qui ceda la iustizia alla pietade. — -Indi soggiunse con più basso suono: -— Di ciò dirti più inanzi non accade. -Statti col dolce in bocca; e non ti doglia -ch'amareggiare al fin non te la voglia. -Tosto che spunti in ciel la prima luce, -piglierai meco la più dritta via -ch'al lucente castel d'acciai' conduce, -dove Ruggier vive in altrui balìa. -Io tanto ti sarò compagna e duce, -che tu sia fuor de l'aspra selva ria: -t'insegnerò, poi che saren sul mare, -sì ben la via, che non potresti errare. — -Quivi l'audace giovane rimase -tutta la notte, e gran pezzo ne spese -a parlar con Merlin, che le suase -rendersi tosto al suo Ruggier cortese. -Lasciò di poi le sotterranee case, -che di nuovo splendor l'aria s'accese, -per un camin gran spazio oscuro e cieco, -avendo la spirtal femmina seco. -E riusciro in un burrone ascoso -tra monti inaccessibili alle genti; -e tutto 'l dì senza pigliar riposo -saliron balze e traversar torrenti. -E perché men l'andar fosse noioso, -di piacevoli e bei ragionamenti, -di quel che fu più conferir soave, -l'aspro camin facean parer men grave: -di quali era però la maggior parte, -ch'a Bradamante vien la dotta maga -mostrando con che astuzia e con qual arte -proceder de', se di Ruggiero è vaga. -— Se tu fossi (dicea) Pallade o Marte, -e conducessi gente alla tua paga -più che non ha il re Carlo e il re Agramante, -non dureresti contra il negromante; -che oltre che d'acciar murata sia -la rocca inespugnabile, e tant'alta; -oltre che 'l suo destrier si faccia via -per mezzo l'aria, ove galoppa e salta; -ha lo scudo mortal, che come pria -si scopre, il suo splendor sì gli occhi assalta, -la vista tolle, e tanto occupa i sensi, -che come morto rimaner conviensi. -E se forse ti pensi che ti vaglia -combattendo tener serrati gli occhi, -come potrai saper ne la battaglia -quando ti schivi, o l'avversario tocchi? -Ma per fuggire il lume ch'abbarbaglia, -e gli altri incanti di colui far sciocchi, -ti mostrerò un rimedio, una via presta; -né altra in tutto 'l mondo è se non questa. -Il re Agramante d'Africa uno annello, -che fu rubato in India a una regina, -ha dato a un suo baron detto Brunello, -che poche miglia inanzi ne camina; -di tal virtù, che chi nel dito ha quello, -contra il mal degl'incanti ha medicina. -Sa de furti e d'inganni Brunel, quanto -colui, che tien Ruggier, sappia d'incanto. -Questo Brunel sì pratico e sì astuto, -come io ti dico, è dal suo re mandato -acciò che col suo ingegno e con l'aiuto -di questo annello, in tal cose provato, -di quella rocca dove è ritenuto, -traggia Ruggier, che così s'è vantato, -ed ha così promesso al suo signore, -a cui Ruggiero è più d'ogn'altro a core. -Ma perché il tuo Ruggiero a te sol abbia, -e non al re Agramante, ad obligarsi -che tratto sia de l'incantata gabbia, -t'insegnerò il rimedio che de' usarsi. -Tu te n'andrai tre dì lungo la sabbia -del mar, ch'è oramai presso a dimostrarsi; -il terzo giorno in un albergo teco -arriverà costui c'ha l'annel seco. -La sua statura, acciò tu lo conosca, -non è sei palmi, ed ha il capo ricciuto; -le chiome ha nere, ed ha la pelle fosca; -pallido il viso, oltre il dover barbuto; -gli occhi gonfiati e guardatura losca; -schiacciato il naso, e ne le ciglia irsuto: -l'abito, acciò ch'io lo dipinga intero, -è stretto e corto, e sembra di corriero. -Con esso lui t'accaderà soggetto -di ragionar di quell'incanti strani: -mostra d'aver, come tu avra' in effetto, -disio che 'l mago sia teco alle mani; -ma non mostrar che ti sia stato detto -di quel suo annel che fa gl'incanti vani. -Egli t'offerirà mostrar la via -fin alla rocca e farti compagnia. -Tu gli va dietro: e come t'avicini -a quella rocca sì ch'ella si scopra, -dàgli la morte; né pietà t'inchini -che tu non metta il mio consiglio in opra. -Né far ch'egli il pensier tuo s'indovini, -e ch'abbia tempo che l'annel lo copra; -perché ti spariria dagli occhi, tosto -ch'in bocca il sacro annel s'avesse posto. — -Così parlando, giunsero sul mare, -dove presso a Bordea mette Garonna. -Quivi, non senza alquanto lagrimare, -si dipartì l'una da l'altra donna. -La figliuola d'Amon, che per slegare -di prigione il suo amante non assonna, -caminò tanto, che venne una sera -ad uno albergo, ove Brunel prim'era. -Conosce ella Brunel come lo vede, -di cui la forma avea sculpita in mente: -onde ne viene, ove ne va, gli chiede; -quel le risponde, e d'ogni cosa mente. -La donna, già prevista, non gli cede -in dir menzogne, e simula ugualmente -e patria e stirpe e setta e nome e sesso; -e gli volta alle man pur gli occhi spesso. -Gli va gli occhi alle man spesso voltando, -in dubbio sempre esser da lui rubata; -né lo lascia venir troppo accostando, -di sua condizion bene informata. -Stavano insieme in questa guisa, quando -l'orecchia da un rumor lor fu intruonata. -Poi vi dirò, Signor, che ne fu causa, -ch'avrò fatto al cantar debita pausa. -Quantunque il simular sia le più volte -ripreso, e dia di mala mente indici, -si trova pur in molte cose e molte -aver fatti evidenti benefici, -e danni e biasmi e morti aver già tolte; -che non conversiam sempre con gli amici -in questa assai più oscura che serena -vita mortal, tutta d'invidia piena. -Se, dopo lunga prova, a gran fatica -trovar si può chi ti sia amico vero, -ed a chi senza alcun sospetto dica -e discoperto mostri il tuo pensiero; -che de' far di Ruggier la bella amica -con quel Brunel non puro e non sincero, -ma tutto simulato e tutto finto, -come la maga le l'avea dipinto? -Simula anch'ella; e così far conviene -con esso lui di finzioni padre; -e, come io dissi, spesso ella gli tiene -gli occhi alle man, ch'eran rapaci e ladre. -Ecco all'orecchie un gran rumor lor viene. -Disse la donna: — O gloriosa Madre, -o Re del ciel, che cosa sarà questa? — -E dove era il rumor si trovò presta. -E vede l'oste e tutta la famiglia, -e chi a finestre e chi fuor ne la via, -tener levati al ciel gli occhi e le ciglia, -come l'ecclisse o la cometa sia. -Vede la donna un'alta maraviglia, -che di leggier creduta non saria: -vede passar un gran destriero alato, -che porta in aria un cavalliero armato. -Grandi eran l'ale e di color diverso, -e vi sedea nel mezzo un cavalliero, -di ferro armato luminoso e terso; -e vêr ponente avea dritto il sentiero. -Calossi, e fu tra le montagne immerso: -e, come dicea l'oste (e dicea il vero), -quel era un negromante, e facea spesso -quel varco, or più da lungi, or più da presso. -Volando, talor s'alza ne le stelle, -e poi quasi talor la terra rade; -e ne porta con lui tutte le belle -donne che trova per quelle contrade: -talmente che le misere donzelle -ch'abbino o aver si credano beltade -(come affatto costui tutte le invole) -non escon fuor sì che le veggia il sole. -— Egli sul Pireneo tiene un castello -(narrava l'oste) fatto per incanto, -tutto d'acciaio, e sì lucente e bello, -ch'altro al mondo non è mirabil tanto. -Già molti cavallier sono iti a quello, -e nessun del ritorno si dà vanto: -sì ch'io penso, signore, e temo forte, -o che sian presi, o sian condotti a morte. — -La donna il tutto ascolta, e le ne giova, -credendo far, come farà per certo, -con l'annello mirabile tal prova, -che ne fia il mago e il suo castel deserto; -e dice a l'oste: — Or un de' tuoi mi trova, -che più di me sia del viaggio esperto; -ch'io non posso durar: tanto ho il cor vago -di far battaglia contro a questo mago. — -— Non ti mancherà guida (le rispose -Brunello allora), e ne verrò teco io: -meco ho la strada in scritto, ed altre cose -che ti faran piacere il venir mio. — -Volse dir de l'annel; ma non l'espose, -né chiarì più, per non pagarne il fio. -— Grato mi fia (disse ella) il venir tuo; — -volendo dir ch'indi l'annel fia suo. -Quel ch'era utile a dir disse; e quel tacque, -che nuocer le potea col Saracino. -Avea l'oste un destrier ch'a costei piacque, -ch'era buon da battaglia e da camino: -comperollo e partissi come nacque -del bel giorno seguente il matutino. -Prese la via per una stretta valle, -con Brunello ora inanzi, ora alle spalle. -Di monte in monte e d'uno in altro bosco -giunsero ove l'altezza di Pirene -può dimostrar, se non è l'aer fosco, -e Francia e Spagna e due diverse arene, -come Apennin scopre il mar schiavo e il tosco -del giogo onde a Camaldoli si viene. -Quindi per aspro e faticoso calle -si discendea ne la profonda valle. -Vi sorge in mezzo un sasso che la cima -d'un bel muro d'acciar tutta si fascia; -e quella tanto inverso il ciel sublima, -che quanto ha intorno, inferior si lascia. -Non faccia, chi non vola, andarvi stima; -che spesa indarno vi saria ogni ambascia. -Brunel disse: — Ecco dove prigionieri -il mago tien le donne e i cavallieri. — -Da quattro canti era tagliato, e tale -che parea dritto a fil de la sinopia. -Da nessun lato né sentier né scale -v'eran, che di salir facesser copia: -e ben appar che d'animal ch'abbia ale -sia quella stanza nido e tana propia. -Quivi la donna esser conosce l'ora -di tor l'annello, e far che Brunel mora. -Ma le par atto vile a insaguinarsi -d'un uom senza arme e di sì ignobil sorte; -che ben potrà posseditrice farsi -del ricco annello, e lui non porre a morte. -Brunel non avea mente a riguardarsi; -sì ch'ella il prese, e lo legò ben forte -ad uno abete ch'alta avea la cima: -ma di dito l'annel gli trasse prima. -Né per lacrime, gemiti o lamenti -che facesse Brunel, lo volse sciorre. -Smontò de la montagna a passi lenti, -tanto che fu nel pian sotto la torre. -E perché alla battaglia s'appresenti -il negromante, al corno suo ricorre: -e dopo il suon, con minacciose grida -lo chiama al campo, ed alla pugna 'l sfida. -Non stette molto a uscir fuor de la porta -l'incantator, ch'udì 'l suono e la voce. -L'alato corridor per l'aria il porta -contra costei, che sembra uomo feroce. -La donna da principio si conforta; -che vede che colui poco le nuoce: -non porta lancia né spada né mazza, -ch'a forar l'abbia o romper la corazza. -Da la sinistra sol lo scudo avea, -tutto coperto di seta vermiglia; -ne la man destra un libro, onde facea -nascer, leggendo, l'alta maraviglia: -che la lancia talor correr parea, -e fatto avea a più d'un batter le ciglia; -talor parea ferir con mazza o stocco, -e lontano era, e non avea alcun tocco. -Non è finto il destrier, ma naturale, -ch'una giumenta generò d'un Grifo: -simile al padre avea la piuma e l'ale, -li piedi anteriori, il capo e il grifo; -in tutte l'altre membra parea quale -era la madre, e chiamasi ippogrifo; -che nei monti Rifei vengon, ma rari, -molto di là dagli aghiacciati mari. -Quivi per forza lo tirò d'incanto; -e poi che l'ebbe, ad altro non attese, -e con studio e fatica operò tanto, -ch'a sella e briglia il cavalcò in un mese: -così ch'in terra e in aria e in ogni canto -lo facea volteggiar senza contese. -Non finzion d'incanto, come il resto, -ma vero e natural si vedea questo. -Del mago ogn'altra cosa era figmento, -che comparir facea pel rosso il giallo; -ma con la donna non fu di momento, -che per l'annel non può vedere in fallo. -Più colpi tuttavia diserra al vento, -e quinci e quindi spinge il suo cavallo; -e si dibatte e si travaglia tutta, -come era, inanzi che venisse, istrutta. -E poi che esercitata si fu alquanto -sopra il destrier, smontar volse anco a piede, -per poter meglio al fin venir di quanto -la cauta maga istruzion le diede. -Il mago vien per far l'estremo incanto; -che del fatto ripar né sa né crede: -scuopre lo scudo, e certo si prosume -farla cader con l'incantato lume. -Potea così scoprirlo al primo tratto, -senza tenere i cavallieri a bada; -ma gli piacea veder qualche bel tratto -di correr l'asta o di girar la spada: -come si vede ch'all'astuto gatto -scherzar col topo alcuna volta aggrada; -e poi che quel piacer gli viene a noia, -dargli di morso, e al fin voler che muoia. -Dico che 'l mago al gatto, e gli altri al topo -s'assimigliar ne le battaglie dianzi; -ma non s'assimigliar già così, dopo -che con l'annel si fe' la donna inanzi. -Attenta e fissa stava a quel ch'era uopo, -acciò che nulla seco il mago avanzi; -e come vide che lo scudo aperse, -chiuse gli occhi, e lasciò quivi caderse. -Non che il fulgor del lucido metallo, -come soleva agli altri, a lei nocesse; -ma così fece acciò che dal cavallo -contra sé il vano incantator scendesse: -né parte andò del suo disegno in fallo; -che tosto ch'ella il capo in terra messe, -accelerando il volator le penne, -con larghe ruote in terra a por si venne. -Lascia all'arcion lo scudo, che già posto -avea ne la coperta, e a piè discende -verso la donna che, come reposto -lupo alla macchia il capriolo, attende. -Senza più indugio ella si leva tosto -che l'ha vicino, e ben stretto lo prende. -Avea lasciato quel misero in terra -il libro che facea tutta la guerra: -e con una catena ne correa, -che solea portar cinta a simil uso; -perché non men legar colei credea, -che per adietro altri legare era uso. -La donna in terra posto già l'avea: -se quel non si difese, io ben l'escuso; -che troppo era la cosa differente -tra un debol vecchio e lei tanto possente. -Disegnando levargli ella la testa, -alza la man vittoriosa in fretta; -ma poi che 'l viso mira, il colpo arresta, -quasi sdegnando sì bassa vendetta: -un venerabil vecchio in faccia mesta -vede esser quel ch'ella ha giunto alla stretta, -che mostra al viso crespo e al pelo bianco, -età di settanta anni o poco manco. -— Tommi la vita, giovene, per Dio, — -dicea il vecchio pien d'ira e di dispetto; -ma quella a torla avea sì il cor restio, -come quel di lasciarla avria diletto. -La donna di sapere ebbe disio -chi fosse il negromante, ed a che effetto -edificasse in quel luogo selvaggio -la rocca, e faccia a tutto il mondo oltraggio. -— Né per maligna intenzione, ahi lasso! -(disse piangendo il vecchio incantatore) -feci la bella rocca in cima al sasso, -né per avidità son rubatore; -ma per ritrar sol dall'estremo passo -un cavallier gentil, mi mosse amore, -che, come il ciel mi mostra, in tempo breve -morir cristiano a tradimento deve. -Non vede il sol tra questo e il polo austrino -un giovene sì bello e sì prestante: -Ruggiero ha nome, il qual da piccolino -da me nutrito fu, ch'io sono Atlante. -Disio d'onore e suo fiero destino -l'han tratto in Francia dietro al re Agramante; -ed io, che l'amai sempre più che figlio, -lo cerco trar di Francia e di periglio. -La bella rocca solo edificai -per tenervi Ruggier sicuramente, -che preso fu da me, come sperai -che fossi oggi tu preso similmente; -e donne e cavallier, che tu vedrai, -poi ci ho ridotti, ed altra nobil gente, -acciò che quando a voglia sua non esca, -avendo compagnia, men gli rincresca. -Pur ch'uscir di là su non si domande, -d'ogn'altro gaudio lor cura mi tocca; -che quanto averne da tutte le bande -si può del mondo, è tutto in quella rocca: -suoni, canti, vestir, giuochi, vivande, -quanto può cor pensar, può chieder bocca. -Ben seminato avea, ben cogliea il frutto; -ma tu sei giunto a disturbarmi il tutto. -Deh, se non hai del viso il cor men bello, -non impedir il mio consiglio onesto! -Piglia lo scudo (ch'io tel dono) e quello -destrier che va per l'aria così presto; -e non t'impacciar oltra nel castello, -o tranne uno o duo amici, e lascia il resto; -o tranne tutti gli altri, e più non chero, -se non che tu mi lasci il mio Ruggiero. -E se disposto sei volermel torre, -deh, prima almen che tu 'l rimeni in Francia, -piacciati questa afflitta anima sciorre -de la sua scorza ormai putrida e rancia! — -Rispose la donzella: — Lui vo' porre -in libertà: tu, se sai, gracchia e ciancia; -né mi offerir di dar lo scudo in dono, -o quel destrier, che miei, non più tuoi sono: -né s'anco stesse a te di torre e darli, -mi parrebbe che 'l cambio convenisse. -Tu di' che Ruggier tieni per vietarli -il male influsso di sue stelle fisse. -O che non puoi saperlo, o non schivarli, -sappiendol, ciò che 'l ciel di lui prescrisse: -ma se 'l mal tuo, c'hai sì vicin, non vedi, -peggio l'altrui c'ha da venir prevedi. -Non pregar ch'io t'uccida, ch'i tuoi preghi -sariano indarno; e se pur vuoi la morte, -ancor che tutto il mondo dar la nieghi, -da sé la può aver sempre animo forte. -Ma pria che l'alma da la carne sleghi, -a tutti i tuoi prigioni apri le porte. — -Così dice la donna, e tuttavia -il mago preso incontra al sasso invia. -Legato de la sua propria catena -andava Atlante, e la donzella appresso, -che così ancor se ne fidava a pena, -ben che in vista parea tutto rimesso. -Non molti passi dietro se la mena, -ch'a piè del monte han ritrovato il fesso, -e li scaglioni onde si monta in giro, -fin ch'alla porta del castel saliro. -Di su la soglia Atlante un sasso tolle, -di caratteri e strani segni isculto. -Sotto, vasi vi son, che chiamano olle, -che fuman sempre, e dentro han foco occulto. -L'incantator le spezza; e a un tratto il colle -riman deserto, inospite ed inculto; -né muro appar né torre in alcun lato, -come se mai castel non vi sia stato. -Sbrigossi de la donna il mago alora, -come fa spesso il tordo da la ragna; -e con lui sparve il suo castello a un'ora, -e lasciò in libertà quella compagna. -Le donne e i cavallier si trovar fuora -de le superbe stanze alla campagna: -e furon di lor molte a chi ne dolse; -che tal franchezza un gran piacer lor tolse. -Quivi è Gradasso, quivi è Sacripante, -quivi è Prasildo, il nobil cavalliero -che con Rinaldo venne di Levante, -e seco Iroldo, il par d'amici vero. -Al fin trovò la bella Bradamante -quivi il desiderato suo Ruggiero, -che, poi che n'ebbe certa conoscenza, -le fe' buona e gratissima accoglienza; -come a colei che più che gli occhi sui, -più che 'l suo cor, più che la propria vita -Ruggiero amò dal dì ch'essa per lui -si trasse l'elmo, onde ne fu ferita. -Lungo sarebbe a dir come, e da cui, -e quanto ne la selva aspra e romita -si cercar poi la notte e il giorno chiaro; -né, se non qui, mai più si ritrovaro. -Or che quivi la vede, e sa ben ch'ella -è stata sola la sua redentrice, -di tanto gaudio ha pieno il cor, che appella -sé fortunato ed unico felice. -Scesero il monte, e dismontaro in quella -valle, ove fu la donna vincitrice, -e dove l'ippogrifo trovaro anco, -ch'avea lo scudo, ma coperto, al fianco. -La donna va per prenderlo nel freno: -e quel l'aspetta fin che se gli accosta; -poi spiega l'ale per l'aer sereno, -e si ripon non lungi a mezza costa. -Ella lo segue: e quel né più né meno -si leva in aria, e non troppo si scosta; -come fa la cornacchia in secca arena, -che dietro il cane or qua or là si mena. -Ruggier, Gradasso, Sacripante, e tutti -quei cavallier che scesi erano insieme, -chi di sù, chi di giù, si son ridutti -dove che torni il volatore han speme. -Quel, poi che gli altri invano ebbe condutti -più volte e sopra le cime supreme -e negli umidi fondi tra quei sassi, -presso a Ruggiero al fin ritenne i passi. -E questa opera fu del vecchio Atlante, -di cui non cessa la pietosa voglia -di trar Rugier del gran periglio instante: -di ciò sol pensa e di ciò solo ha doglia. -Però gli manda or l'ippogrifo avante, -perché d'Europa con questa arte il toglia. -Ruggier lo piglia, e seco pensa trarlo; -ma quel s'arretra, e non vuol seguitarlo. -Or di Frontin quel animoso smonta -(Frontino era nomato il suo destriero), -e sopra quel che va per l'aria monta, -e con li spron gli adizza il core altiero. -Quel corre alquanto, ed indi i piedi ponta, -e sale inverso il ciel, via più leggiero -che 'l girifalco, a cui lieva il capello -il mastro a tempo, e fa veder l'augello. -La bella donna, che sì in alto vede -e con tanto periglio il suo Ruggiero, -resta attonita in modo, che non riede -per lungo spazio al sentimento vero. -Ciò che già inteso avea di Ganimede -ch'al ciel fu assunto dal paterno impero, -dubita assai che non accada a quello, -non men gentil di Ganimede e bello. -Con gli occhi fissi al ciel lo segue quanto -basta il veder; ma poi che si dilegua -sì, che la vista non può correr tanto, -lascia che sempre l'animo lo segua. -Tuttavia con sospir, gemito e pianto -non ha, né vuol aver pace né triegua. -Poi che Ruggier di vista se le tolse, -al buon destrier Frontin gli occhi rivolse: -e si deliberò di non lasciarlo, -che fosse in preda a chi venisse prima; -ma di condurlo seco e di poi darlo -al suo signor, ch'anco veder pur stima. -Poggia l'augel, né può Ruggier frenarlo: -di sotto rimaner vede ogni cima -ed abbassarsi in guisa, che non scorge -dove è piano il terren né dove sorge. -Poi che sì ad alto vien, ch'un picciol punto -lo può stimar chi da la terra il mira, -prende la via verso ove cade a punto -il sol, quando col Granchio si raggira, -e per l'aria ne va come legno unto -a cui nel mar propizio vento spira. -Lasciamlo andar, che farà buon camino, -e torniamo a Rinaldo paladino. -Rinaldo l'altro e l'altro giorno scorse, -spinto dal vento, un gran spazio di mare, -quando a ponente e quando contra l'Orse, -che notte e dì non cessa mai soffiare. -Sopra la Scozia ultimamente sorse, -dove la selva Calidonia appare, -che spesso fra gli antiqui ombrosi cerri -s'ode sonar di bellicosi ferri. -Vanno per quella i cavallieri erranti, -incliti in arme, di tutta Bretagna, -e de' prossimi luoghi e de' distanti, -di Francia, di Norvegia e de Lamagna. -Chi non ha gran valor, non vada inanti; -che dove cerca onor, morte guadagna. -Gran cose in essa già fece Tristano, -Lancillotto, Galasso, Artù e Galvano, -ed altri cavallieri e de la nuova -e de la vecchia Tavola famosi: -restano ancor di più d'una lor pruova -li monumenti e li trofei pomposi. -L'arme Rinaldo e il suo Baiardo truova, -e tosto si fa por nei liti ombrosi, -ed al nochier comanda che si spicche -e lo vada aspettar a Beroicche. -Senza scudiero e senza compagnia -va il cavallier per quella selva immensa, -facendo or una ed or un'altra via, -dove più aver strane aventure pensa. -Capitò il primo giorno a una badia, -che buona parte del suo aver dispensa -in onorar nel suo cenobio adorno -le donne i cavallier che vanno attorno. -Bella accoglienza i monachi e l'abbate -fero a Rinaldo, il qual domandò loro -(non prima già che con vivande grate -avesse avuto il ventre amplo ristoro) -come dai cavallier sien ritrovate -spesso aventure per quel tenitoro, -dove si possa in qualche fatto eggregio -l'uom dimostrar, se merta biasmo o pregio. -Risposongli ch'errando in quelli boschi, -trovar potria strane aventure e molte: -ma come i luoghi, i fatti ancor son foschi; -che non se n'ha notizia le più volte. -— Cerca (diceano) andar dove conoschi -che l'opre tue non restino sepolte, -acciò dietro al periglio e alla fatica -segua la fama, e il debito ne dica. -E se del tuo valor cerchi far prova, -t'è preparata la più degna impresa -che ne l'antiqua etade o ne la nova -giamai da cavallier sia stata presa. -La figlia del re nostro or si ritrova -bisognosa d'aiuto e di difesa -contra un baron che Lurcanio si chiama, -che tor le cerca e la vita e la fama. -Questo Lurcanio al padre l'ha accusata -(forse per odio più che per ragione) -averla a mezza notte ritrovata -trarr'un suo amante a sé sopra un verrone. -Per le leggi del regno condannata -al foco fia, se non truova campione -che fra un mese, oggimai presso a finire, -l'iniquo accusator faccia mentire. -L'aspra legge di Scozia, empia e severa, -vuol ch'ogni donna, e di ciascuna sorte, -ch'ad uomo si giunga, e non gli sia mogliera, -s'accusata ne viene, abbia la morte. -Né riparar si può ch'ella non pera, -quando per lei non venga un guerrier forte -che tolga la difesa, e che sostegna -che sia innocente e di morire indegna. -Il re, dolente per Ginevra bella -(che così nominata è la sua figlia), -ha publicato per città e castella, -che s'alcun la difesa di lei piglia, -e che l'estingua la calunnia fella -(pur che sia nato di nobil famiglia), -l'avrà per moglie, ed uno stato, quale -fia convenevol dote a donna tale. -Ma se fra un mese alcun per lei non viene, -o venendo non vince, sarà uccisa. -Simile impresa meglio ti conviene, -ch'andar pei boschi errando a questa guisa: -oltre ch'onor e fama te n'aviene -ch'in eterno da te non fia divisa, -guadagni il fior di quante belle donne -da l'Indo sono all'Atlantee colonne; -e una ricchezza appresso, ed uno stato -che sempre far ti può viver contento; -e la grazia del re, se suscitato -per te gli fia il suo onor, che è quasi spento. -Poi per cavalleria tu se' ubligato -a vendicar di tanto tradimento -costei, che per commune opinione, -di vera pudicizia è un paragone. — -Pensò Rinaldo alquanto, e poi rispose: -— Una donzella dunque dè' morire -perché lasciò sfogar ne l'amorose -sue braccia al suo amator tanto desire? -Sia maladetto chi tal legge pose, -e maladetto chi la può patire! -Debitamente muore una crudele, -non chi dà vita al suo amator fedele. -Sia vero o falso che Ginevra tolto -s'abbia il suo amante, io non riguardo a questo: -d'averlo fatto la loderei molto, -quando non fosse stato manifesto. -Ho in sua difesa ogni pensier rivolto: -datemi pur un che mi guidi presto, -e dove sia l'accusator mi mene; -ch'io spero in Dio Ginevra trar di pene. -Non vo' già dir ch'ella non l'abbia fatto; -che nol sappiendo, il falso dir potrei: -dirò ben che non de' per simil atto -punizion cadere alcuna in lei; -e dirò che fu ingiusto o che fu matto -chi fece prima gli statuti rei; -e come iniqui rivocar si denno, -e nuova legge far con miglior senno. -S'un medesimo ardor, s'un disir pare -inchina e sforza l'uno e l'altro sesso -a quel suave fin d'amor, che pare -all'ignorante vulgo un grave eccesso; -perché si de' punir donna o biasmare, -che con uno o più d'uno abbia commesso -quel che l'uom fa con quante n'ha appetito, -e lodato ne va, non che impunito? -Son fatti in questa legge disuguale -veramente alle donne espressi torti; -e spero in Dio mostrar che gli è gran male -che tanto lungamente si comporti. — -Rinaldo ebbe il consenso universale, -che fur gli antiqui ingiusti e male accorti, -che consentiro a così iniqua legge, -e mal fa il re, che può, né la corregge. -Poi che la luce candida e vermiglia -de l'altro giorno aperse l'emispero, -Rinaldo l'arme e il suo Baiardo piglia, -e di quella badia tolle un scudiero, -che con lui viene a molte leghe e miglia, -sempre nel bosco orribilmente fiero, -verso la terra ove la lite nuova -de la donzella de' venir in pruova. -Avean, cercando abbreviar camino, -lasciato pel sentier la maggior via; -quando un gran pianto udir sonar vicino, -che la foresta d'ogn'intorno empìa. -Baiardo spinse l'un, l'altro il ronzino -verso una valle, onde quel grido uscìa: -e fra dui mascalzoni una donzella -vider, che di lontan parea assai bella; -ma lacrimosa e addolorata quanto -donna o donzella o mai persona fosse. -Le sono dui col ferro nudo a canto, -per farle far l'erbe di sangue rosse. -Ella con preghi differendo alquanto -giva il morir, sin che pietà si mosse. -Venne Rinaldo; e come se n'accorse, -con alti gridi e gran minacce accorse. -Voltaro i malandrin tosto le spalle, -che 'l soccorso lontan vider venire, -e se appiattar ne la profonda valle. -Il paladin non li curò seguire: -venne a la donna, e qual gran colpa dàlle -tanta punizion, cerca d'udire; -e per tempo avanzar, fa allo scudiero -levarla in groppa, e torna al suo sentiero. -E cavalcando poi meglio la guata -molto esser bella e di maniere accorte, -ancor che fosse tutta spaventata -per la paura ch'ebbe de la morte. -Poi ch'ella fu di nuovo domandata -chi l'avea tratta a sì infelice sorte, -incominciò con umil voce a dire -quel ch'io vo' all'altro canto differire. -Tutti gli altri animai che sono in terra, -o che vivon quieti e stanno in pace, -o se vengono a rissa e si fan guerra, -alla femina il maschio non la face: -l'orsa con l'orso al bosco sicura erra, -la leonessa appresso il leon giace; -col lupo vive la lupa sicura, -né la iuvenca ha del torel paura. -Ch'abominevol peste, che Megera -è venuta a turbar gli umani petti? -che si sente il marito e la mogliera -sempre garrir d'ingiuriosi detti, -stracciar la faccia e far livida e nera, -bagnar di pianto i geniali letti; -e non di pianto sol, ma alcuna volta -di sangue gli ha bagnati l'ira stolta. -Parmi non sol gran mal, ma che l'uom faccia -contra natura e sia di Dio ribello, -che s'induce a percuotere la faccia -di bella donna, o romperle un capello: -ma chi le dà veneno, o chi le caccia -l'alma del corpo con laccio o coltello, -ch'uomo sia quel non crederò in eterno, -ma in vista umana uno spirto de l'inferno. -Cotali esser doveano i duo ladroni -che Rinaldo cacciò da la donzella, -da lor condotta in quei scuri valloni -perché non se n'udisse più novella. -Io lasciai ch'ella render le cagioni -s'apparechiava di sua sorte fella -al paladin, che le fu buono amico: -or, seguendo l'istoria, così dico. -La donna incominciò: — Tu intenderai -la maggior crudeltade e la più espressa, -ch'in Tebe e in Argo o ch'in Micene mai, -o in loco più crudel fosse commessa. -E se rotando il sole i chiari rai, -qui men ch'all'altre region s'appressa, -credo ch'a noi malvolentieri arrivi, -perché veder sì crudel gente schivi. -Ch'agli nemici gli uomini sien crudi, -in ogni età se n'è veduto esempio; -ma dar la morte a chi procuri e studi -il tuo ben sempre, è troppo ingiusto ed empio. -E acciò che meglio il vero io ti denudi, -perché costor volessero far scempio -degli anni verdi miei contra ragione, -ti dirò da principio ogni cagione. -Voglio che sappi, signor mio, ch'essendo -tenera ancora, alli servigi venni -de la figlia del re, con cui crescendo, -buon luogo in corte ed onorato tenni. -Crudele Amore, al mio stato invidendo, -fe' che seguace, ahi lassa! gli divenni: -fe' d'ogni cavallier, d'ogni donzello -parermi il duca d'Albania più bello. -Perché egli mostrò amarmi più che molto, -io ad amar lui con tutto il cor mi mossi. -Ben s'ode il ragionar, si vede il volto, -ma dentro il petto mal giudicar possi. -Credendo, amando, non cessai che tolto -l'ebbi nel letto, e non guardai ch'io fossi -di tutte le real camere in quella -che più secreta avea Ginevra bella; -dove tenea le sue cose più care, -e dove le più volte ella dormia. -Si può di quella in s'un verrone entrare, -che fuor del muro al discoperto uscìa. -Io facea il mio amator quivi montare; -e la scala di corde onde salia -io stessa dal verron giù gli mandai -qual volta meco aver lo desiai: -che tante volte ve lo fei venire, -quante Ginevra me ne diede l'agio, -che solea mutar letto, or per fuggire -il tempo ardente, or il brumal malvagio. -Non fu veduto d'alcun mai salire; -però che quella parte del palagio -risponde verso alcune case rotte, -dove nessun mai passa o giorno o notte. -Continuò per molti giorni e mesi -tra noi secreto l'amoroso gioco: -sempre crebbe l'amore; e sì m'accesi, -che tutta dentro io mi sentia di foco: -e cieca ne fui sì, ch'io non compresi -ch'egli fingeva molto, e amava poco; -ancor che li suo' inganni discoperti -esser doveanmi a mille segni certi. -Dopo alcun dì si mostrò nuovo amante -de la bella Ginevra. Io non so appunto -s'allora cominciasse, o pur inante -de l'amor mio, n'avesse il cor già punto. -Vedi s'in me venuto era arrogante, -s'imperio nel mio cor s'aveva assunto; -che mi scoperse, e non ebbe rossore -chiedermi aiuto in questo nuovo amore. -Ben mi dicea ch'uguale al mio non era, -né vero amor quel ch'egli avea a costei; -ma simulando esserne acceso, spera -celebrarne i legitimi imenei. -Dal re ottenerla fia cosa leggiera, -qualor vi sia la volontà di lei; -che di sangue e di stato in tutto il regno -non era, dopo il re, di lu' il più degno. -Mi persuade, se per opra mia -potesse al suo signor genero farsi -(che veder posso che se n'alzeria -a quanto presso al re possa uomo alzarsi), -che me n'avria buon merto, e non saria -mai tanto beneficio per scordarsi; -e ch'alla moglie e ch'ad ogni altro inante -mi porrebbe egli in sempre essermi amante. -Io, ch'era tutta a satisfargli intenta, -né seppi o volsi contradirgli mai, -e sol quei giorni io mi vidi contenta, -ch'averlo compiaciuto mi trovai; -piglio l'occasion che s'appresenta -di parlar d'esso e di lodarlo assai; -ed ogni industria adopro, ogni fatica, -per far del mio amator Ginevra amica. -Feci col core e con l'effetto tutto -quel che far si poteva, e sallo Idio; -né con Ginevra mai potei far frutto, -ch'io le ponessi in grazia il duca mio: -e questo, che ad amar ella avea indutto -tutto il pensiero e tutto il suo disio -un gentil cavallier, bello e cortese, -venuto in Scozia di lontan paese; -che con un suo fratel ben giovinetto -venne d'Italia a stare in questa corte; -si fe' ne l'arme poi tanto perfetto, -che la Bretagna non avea il più forte. -Il re l'amava, e ne mostrò l'effetto; -che gli donò di non picciola sorte -castella e ville e iurisdizioni, -e lo fe' grande al par dei gran baroni. -Grato era al re, più grato era alla figlia -quel cavallier chiamato Ariodante, -per esser valoroso a maraviglia; -ma più, ch'ella sapea che l'era amante. -Né Vesuvio, né il monte di Siciglia, -né Troia avampò mai di fiamme tante, -quanto ella conoscea che per suo amore -Ariodante ardea per tutto il core. -L'amar che dunque ella facea colui -con cor sincero e con perfetta fede, -fe' che pel duca male udita fui; -né mai risposta da sperar mi diede: -anzi quanto io pregava più per lui -e gli studiava d'impetrar mercede, -ella, biasmandol sempre e dispregiando, -se gli venìa più sempre inimicando. -Io confortai l'amator mio sovente, -che volesse lasciar la vana impresa; -né si sperasse mai volger la mente -di costei, troppo ad altro amore intesa: -e gli feci conoscer chiaramente, -come era sì d'Ariodante accesa, -che quanta acqua è nel mar, piccola dramma -non spegneria de la sua immensa fiamma. -Questo da me più volte Polinesso -(che così nome ha il duca) avendo udito, -e ben compreso e visto per se stesso -che molto male era il suo amor gradito; -non pur di tanto amor si fu rimesso, -ma di vedersi un altro preferito, -come superbo, così mal sofferse, -che tutto in ira e in odio si converse. -E tra Ginevra e l'amator suo pensa -tanta discordia e tanta lite porre, -e farvi inimicizia così intensa, -che mai più non si possino comporre; -e por Ginevra in ignominia immensa, -donde non s'abbia o viva o morta a torre: -né de l'iniquo suo disegno meco -volse o con altri ragionar, che seco. -Fatto il pensier: — Dalinda mia, — mi dice -(che così son nomata) — saper dèi, -che come suol tornar da la radice -arbor che tronchi e quattro volte e sei; -così la pertinacia mia infelice, -ben che sia tronca dai successi rei, -di germogliar non resta; che venire -pur vorria a fin di questo suo desire. -E non lo bramo tanto per diletto, -quanto perché vorrei vincer la pruova; -e non possendo farlo con effetto, -s'io lo fo imaginando, anco mi giuova. -Voglio, qual volta tu mi dài ricetto, -quando allora Ginevra si ritruova -nuda nel letto, che pigli ogni vesta -ch'ella posta abbia, e tutta te ne vesta. -Come ella s'orna e come il crin dispone -studia imitarla, e cerca il più che sai -di parer dessa, e poi sopra il verrone -a mandar giù la scala ne verrai. -Io verrò a te con imaginazione -che quella sii, di cui tu i panni avrai: -e così spero, me stesso ingannando, -venir in breve il mio desir sciemando. — -Così disse egli. Io che divisa e sevra -e lungi era da me, non posi mente -che questo in che pregando egli persevra, -era una fraude pur troppo evidente; -e dal verron, coi panni di Ginevra, -mandai la scala onde salì sovente; -e non m'accorsi prima de l'inganno, -che n'era già tutto accaduto il danno. -Fatto in quel tempo con Ariodante -il duca avea queste parole o tali -(che grandi amici erano stati inante -che per Ginevra si fesson rivali): -— Mi maraviglio (incominciò il mio amante) -ch'avendoti io fra tutti li mie' uguali -sempre avuto in rispetto e sempre amato, -ch'io sia da te sì mal rimunerato. -Io son ben certo che comprendi e sai -di Ginevra e di me l'antiquo amore; -e per sposa legittima oggimai -per impetrarla son dal mio signore. -Perché mi turbi tu? perché pur vai -senza frutto in costei ponendo il core? -Io ben a te rispetto avrei, per Dio, -s'io nel tuo grado fossi, e tu nel mio. — -— Ed io (rispose Ariodante a lui) -di te mi maraviglio maggiormente; -che di lei prima inamorato fui, -che tu l'avessi vista solamente: -e so che sai quanto è l'amor tra nui, -ch'esser non può di quel che sia, più ardente; -e sol d'essermi moglie intende e brama: -e so che certo sai ch'ella non t'ama. -Perché non hai tu dunque a me il rispetto -per l'amicizia nostra, che domande -ch'a te aver debba, e ch'io t'avre' in effetto, -se tu fossi con lei di me più grande? -Né men di te per moglie averla aspetto, -se ben tu sei più ricco in queste bande: -io non son meno al re, che tu sia, grato, -ma più di te da la sua figlia amato. — -— Oh (disse il duca a lui), grande è cotesto -errore a che t'ha il folle amor condutto! -Tu credi esser più amato; io credo questo -medesmo: ma si può veder al frutto. -Tu fammi ciò ch'hai seco, manifesto, -ed io il secreto mio t'aprirò tutto; -e quel di noi che manco aver si veggia, -ceda a chi vince, e d'altro si provveggia. -E sarò pronto, se tu vuoi ch'io giuri -di non dir cosa mai che mi riveli: -così voglio ch'ancor tu m'assicuri -che quel ch'io ti dirò, sempre mi celi. — -Venner dunque d'accordo alli scongiuri, -e poser le man sugli Evangeli: -e poi che di tacer fede si diero, -Ariodante incominciò primiero. -E disse per lo giusto e per lo dritto -come tra sé e Ginevra era la cosa; -ch'ella gli avea giurato e a bocca e in scritto, -che mai non saria ad altri, ch'a lui, sposa; -e se dal re le venìa contraditto, -gli promettea di sempre esser ritrosa -da tutti gli altri maritaggi poi, -e viver sola in tutti i giorni suoi: -e ch'esso era in speranza pel valore -ch'avea mostrato in arme a più d'un segno, -ed era per mostrare a laude, a onore, -a beneficio del re e del suo regno, -di crescer tanto in grazia al suo signore, -che sarebbe da lui stimato degno -che la figliuola sua per moglie avesse, -poi che piacer a lei così intendesse. -Poi disse: — A questo termine son io, -né credo già ch'alcun mi venga appresso: -né cerco più di questo, né desio -de l'amor d'essa aver segno più espresso; -né più vorrei, se non quanto da Dio -per connubio legitimo è concesso: -e saria invano il domandar più inanzi; -che di bontà so come ogn'altra avanzi. — -Poi ch'ebbe il vero Ariodante esposto -de la mercé ch'aspetta a sua fatica, -Polinesso, che già s'avea proposto -di far Ginevra al suo amator nemica, -cominciò: — Sei da me molto discosto, -e vo' che di tua bocca anco tu 'l dica; -e del mio ben veduta la radice, -che confessi me solo esser felice. -Finge ella teco, né t'ama né prezza; -che ti pasce di speme e di parole: -oltra questo, il tuo amor sempre a sciochezza, -quando meco ragiona, imputar suole. -Io ben d'esserle caro altra certezza -veduta n'ho, che di promesse e fole; -e tel dirò sotto la fé in secreto, -ben che farei più il debito a star cheto. -Non passa mese, che tre, quattro e sei -e talor diece notti io non mi truovi -nudo abbracciato in quel piacer con lei, -ch'all'amoroso ardor par che sì giovi: -sì che tu puoi veder s'a' piacer miei -son d'aguagliar le ciance che tu pruovi. -Cedimi dunque e d'altro ti provedi, -poi che sì inferior di me ti vedi. — -— Non ti vo' creder questo (gli rispose -Ariodante), e certo so che menti; -e composto fra te t'hai queste cose, -acciò che da l'impresa io mi spaventi: -ma perché a lei son troppo ingiuriose, -questo c'hai detto sostener convienti; -che non bugiardo sol, ma voglio ancora -che tu sei traditor mostrarti or ora. — -Soggiunse il duca: — Non sarebbe onesto -che noi volessen la battaglia torre -di quel che t'offerisco manifesto, -quando ti piaccia, inanzi agli occhi porre. — -Resta smarrito Ariodante a questo, -e per l'ossa un tremor freddo gli scorre; -e se creduto ben gli avesse a pieno, -venìa sua vita allora allora meno. -Con cor trafitto e con pallida faccia, -e con voce tremante e bocca amara -rispose: — Quando sia che tu mi faccia -veder quest'aventura tua sì rara, -prometto di costei lasciar la traccia, -a te sì liberale, a me sì avara: -ma ch'io tel voglia creder non far stima, -s'io non lo veggio con questi occhi prima. — -— Quando ne sarà il tempo, avisarotti, — -soggiunse Polinesso, e dipartisse. -Non credo che passar più di due notti, -ch'ordine fu che 'l duca a me venisse. -Per scoccar dunque i lacci che condotti -avea sì cheti, andò al rivale, e disse -che s'ascondesse la notte seguente -tra quelle case ove non sta mai gente: -e dimostrogli un luogo a dirimpetto -di quel verrone ove solea salire. -Ariodante avea preso sospetto -che lo cercasse far quivi venire, -come in un luogo dove avesse eletto -di por gli aguati, e farvelo morire, -sotto questa finzion, che vuol mostrargli -quel di Ginevra, ch'impossibil pargli. -Di volervi venir prese partito, -ma in guisa che di lui non sia men forte; -perché accadendo che fosse assalito, -si truovi sì, che non tema di morte. -Un suo fratello avea saggio ed ardito, -il più famoso in arme de la corte, -detto Lurcanio; e avea più cor con esso, -che se dieci altri avesse avuto appresso. -Seco chiamollo, e volse che prendesse -l'arme; e la notte lo menò con lui: -non che 'l secreto suo già gli dicesse; -né l'avria detto ad esso, né ad altrui. -Da sé lontano un trar di pietra il messe: -— Se mi senti chiamar, vien (disse) a nui; -ma se non senti, prima ch'io ti chiami, -non ti partir di qui, frate, se m'ami. — -— Va pur, non dubitar, — disse il fratello: -e così venne Ariodante cheto, -e si celò nel solitario ostello -ch'era d'incontro al mio verron secreto. -Vien d'altra parte il fraudolente e fello, -che d'infamar Ginevra era sì lieto; -e fa il segno, tra noi solito inante, -a me che de l'inganno era ignorante. -Ed io con veste candida, e fregiata -per mezzo a liste d'oro e d'ogn'intorno, -e con rete pur d'or, tutta adombrata -di bei fiocchi vermigli al capo intorno -(foggia che sol fu da Ginevra usata, -non d'alcun'altra), udito il segno, torno -sopra il verron, ch'in modo era locato, -che mi scopria dinanzi e d'ogni lato. -Lurcanio in questo mezzo dubitando -che 'l fratello a pericolo non vada, -o come è pur commun disio, cercando -di spiar sempre ciò che ad altri accada; -l'era pian pian venuto seguitando, -tenendo l'ombre e la più oscura strada: -e a men di dieci passi a lui discosto, -nel medesimo ostel s'era riposto. -Non sappiendo io di questo cosa alcuna, -venni al verron ne l'abito c'ho detto, -sì come già venuta era più d'una -e più di due fiate a buono effetto. -Le veste si vedean chiare alla luna; -né dissimile essendo anch'io d'aspetto -né di persona da Ginevra molto, -fece parere un per un altro il volto: -e tanto più, ch'era gran spazio in mezzo -fra dove io venni a quelle inculte case -ai dui fratelli, che stavano al rezzo, -il duca agevolmente persuase -quel ch'era falso. Or pensa in che ribrezzo -Ariodante, in che dolor rimase. -Vien Polinesso, e alla scala s'appoggia -che giù manda'gli, e monta in su la loggia. -A prima giunta io gli getto le braccia -al collo, ch'io non penso esser veduta; -lo bacio in bocca e per tutta la faccia, -come far soglio ad ogni sua venuta. -Egli più de l'usato si procaccia -d'accarezzarmi, e la sua fraude aiuta. -Quell'altro al rio spettacolo condutto, -misero sta lontano, e vede il tutto. -Cade in tanto dolor, che si dispone -allora allora di voler morire: -e il pome de la spada in terra pone, -che su la punta si volea ferire. -Lurcanio che con grande ammirazione -avea veduto il duca a me salire, -ma non già conosciuto chi si fosse, -scorgendo l'atto del fratel, si mosse; -e gli vietò che con la propria mano -non si passasse in quel furore il petto. -S'era più tardo o poco più lontano, -non giugnea a tempo, e non faceva effetto. -— Ah misero fratel, fratello insano -(gridò), perc'hai perduto l'intelletto, -ch'una femina a morte trar ti debbia? -ch'ir possan tutte come al vento nebbia! -Cerca far morir lei, che morir merta, -e serva a più tuo onor tu la tua morte. -Fu d'amar lei, quando non t'era aperta -la fraude sua: or è da odiar ben forte, -poi che con gli occhi tuoi tu vedi certa, -quanto sia meretrice, e di che sorte. -Serbi quest'arme che volti in te stesso, -a far dinanzi al re tal fallo espresso. — -Quando si vede Ariodante giunto -sopra il fratel, la dura impresa lascia; -ma la sua intenzion da quel ch'assunto -avea già di morir, poco s'accascia. -Quindi si leva, e porta non che punto, -ma trapassato il cor d'estrema ambascia; -pur finge col fratel, che quel furore -non abbia più, che dianzi avea nel core. -Il seguente matin, senza far motto -al suo fratello o ad altri, in via si messe -da la mortal disperazion condotto; -né di lui per più dì fu chi sapesse. -Fuor che 'l duca e il fratello, ogn'altro indotto -era chi mosso al dipartir l'avesse. -Ne la casa del re di lui diversi -ragionamenti e in tutta Scozia fersi. -In capo d'otto o di più giorni in corte -venne inanzi a Ginevra un viandante, -e novelle arrecò di mala sorte: -che s'era in mar summerso Ariodante -di volontaria sua libera morte, -non per colpa di borea o di levante. -D'un sasso che sul mar sporgea molt'alto -avea col capo in giù preso un gran salto. -Colui dicea: — Pria che venisse a questo, -a me che a caso riscontrò per via, -disse: — Vien meco, acciò che manifesto -per te a Ginevra il mio successo sia; -e dille poi, che la cagion del resto -che tu vedrai di me, ch'or ora fia, -è stato sol perc'ho troppo veduto: -felice, se senza occhi io fussi suto! — -Eramo a caso sopra Capobasso, -che verso Irlanda alquanto sporge in mare. -Così dicendo, di cima d'un sasso -lo vidi a capo in giù sott'acqua andare. -Io lo lasciai nel mare, ed a gran passo -ti son venuto la nuova a portare. — -Ginevra, sbigottita e in viso smorta, -rimase a quello annunzio mezza morta. -Oh Dio, che disse e fece, poi che sola -si ritrovò nel suo fidato letto! -percosse il seno, e si stracciò la stola, -e fece all'aureo crin danno e dispetto; -ripetendo sovente la parola -ch'Ariodante avea in estremo detto: -che la cagion del suo caso empio e tristo -tutta venìa per aver troppo visto. -Il rumor scorse di costui per tutto, -che per dolor s'avea dato la morte. -Di questo il re non tenne il viso asciutto, -né cavallier né donna de la corte. -Di tutti il suo fratel mostrò più lutto; -e si sommerse nel dolor sì forte, -ch'ad esempio di lui, contra se stesso -voltò quasi la man per irgli appresso. -E molte volte ripetendo seco, -che fu Ginevra che 'l fratel gli estinse, -e che non fu se non quell'atto bieco -che di lei vide, ch'a morir lo spinse; -di voler vendicarsene sì cieco -venne, e sì l'ira e sì il dolor lo vinse, -che di perder la grazia vilipese, -ed aver l'odio del re e del paese. -E inanzi al re, quando era più di gente -la sala piena, se ne venne, e disse: -— Sappi, signor, che di levar la mente -al mio fratel, sì ch'a morir ne gisse, -stata è la figlia tua sola nocente; -ch'a lui tanto dolor l'alma trafisse -d'aver veduta lei poco pudica, -che più che vita ebbe la morte amica. -Erane amante, e perché le sue voglie -disoneste non fur, nol vo' coprire: -per virtù meritarla aver per moglie -da te sperava e per fedel servire; -ma mentre il lasso ad odorar le foglie -stava lontano, altrui vide salire, -salir su l'arbor riserbato, e tutto -essergli tolto il disiato frutto. — -E seguitò, come egli avea veduto -venir Ginevra sul verrone, e come -mandò la scala, onde era a lei venuto -un drudo suo, di chi egli non sa il nome, -che s'avea, per non esser conosciuto, -cambiati i panni e nascose le chiome. -Soggiunse che con l'arme egli volea -provar tutto esser ver ciò che dicea. -Tu puoi pensar se 'l padre addolorato -riman, quando accusar sente la figlia; -sì perché ode di lei quel che pensato -mai non avrebbe, e n'ha gran maraviglia; -sì perché sa che fia necessitato -(se la difesa alcun guerrier non piglia, -il qual Lurcanio possa far mentire) -di condannarla e di farla morire. -Io non credo, signor, che ti sia nuova -la legge nostra che condanna a morte -ogni donna e donzella, che si pruova -di sé far copia altrui ch'al suo consorte. -Morta ne vien, s'in un mese non truova -in sua difesa un cavallier sì forte, -che contra il falso accusator sostegna -che sia innocente e di morire indegna. -Ha fatto il re bandir, per liberarla -(che pur gli par ch'a torto sia accusata), -che vuol per moglie e con gran dote darla -a chi torrà l'infamia che l'è data. -Chi per lei comparisca non si parla -guerriero ancora, anzi l'un l'altro guata; -che quel Lurcanio in arme è così fiero, -che par che di lui tema ogni guerriero. -Atteso ha l'empia sorte, che Zerbino, -fratel di lei, nel regno non si truove; -che va già molti mesi peregrino, -mostrando di sé in arme inclite pruove: -che quando si trovasse più vicino -quel cavallier gagliardo, o in luogo dove -potesse avere a tempo la novella, -non mancheria d'aiuto alla sorella. -Il re, ch'intanto cerca di sapere -per altra pruova, che per arme, ancora, -se sono queste accuse o false o vere, -se dritto o torto è che sua figlia mora; -ha fatto prender certe cameriere -che lo dovrian saper, se vero fôra: -ond'io previdi, che se presa era io, -troppo periglio era del duca e mio. -E la notte medesima mi trassi -fuor de la corte, e al duca mi condussi; -e gli feci veder quanto importassi -al capo d'amendua, se presa io fussi. -Lodommi, e disse ch'io non dubitassi: -a' suoi conforti poi venir m'indussi -ad una sua fortezza ch'è qui presso, -in compagnia di dui che mi diede esso. -Hai sentito, signor, con quanti effetti -de l'amor mio fei Polinesso certo; -e s'era debitor per tai rispetti -d'avermi cara o no, tu 'l vedi aperto. -Or senti il guidardon che io ricevetti, -vedi la gran mercé del mio gran merto; -vedi se deve, per amare assai, -donna sperar d'essere amata mai: -che questo ingrato, perfido e crudele, -de la mia fede ha preso dubbio al fine: -venuto è in sospizion ch'io non rivele -a lungo andar le fraudi sue volpine. -Ha finto, acciò che m'allontane e cele -fin che l'ira e il furor del re decline, -voler mandarmi ad un suo luogo forte; -e mi volea mandar dritto alla morte: -che di secreto ha commesso alla guida, -che come m'abbia in queste selve tratta, -per degno premio di mia fé m'uccida. -Così l'intenzion gli venìa fatta, -se tu non eri appresso alle mia grida. -Ve' come Amor ben chi lui segue, tratta! — -Così narrò Dalinda al paladino -seguendo tuttavolta il lor camino. -A cui fu sopra ogn'aventura, grata -questa, d'aver trovata la donzella -che gli avea tutta l'istoria narrata -de l'innocenza di Ginevra bella. -E se sperato avea, quando accusata -ancor fosse a ragion, d'aiutar quella, -via con maggior baldanza or viene in prova, -poi che evidente la calunnia truova. -E verso la città di Santo Andrea, -dove era il re con tutta la famiglia, -e la battaglia singular dovea -esser de la querela de la figlia, -andò Rinaldo quanto andar potea, -fin che vicino giunse a poche miglia; -alla città vicino giunse, dove -trovò un scudier ch'avea più fresche nuove: -ch'un cavallier istrano era venuto, -ch'a difender Ginevra s'avea tolto, -con non usate insegne, e sconosciuto, -però che sempre ascoso andava molto; -e che dopo che v'era, ancor veduto -non gli avea alcuno al discoperto il volto; -e che 'l proprio scudier che gli servia, -dicea giurando: — Io non so dir chi sia. — -Non cavalcaro molto, ch'alle mura -si trovar de la terra e in su la porta. -Dalinda andar più inanzi avea paura; -pur va, poi che Rinaldo la conforta. -La porta è chiusa, ed a chi n'avea cura -Rinaldo domandò: — Questo ch'importa? — -E fugli detto: perché 'l popol tutto -a veder la battaglia era ridutto, -che tra Lurcanio e un cavallier istrano -si fa ne l'altro capo de la terra, -ove era un prato spazioso e piano; -e che già cominciata hanno la guerra. -Aperto fu al signor di Montealbano, -e tosto il portinar dietro gli serra. -Per la vota città Rinaldo passa; -ma la donzella al primo albergo lassa: -e dice che sicura ivi si stia -fin che ritorni a lei, che sarà tosto; -e verso il campo poi ratto s'invia, -dove li dui guerrier dato e risposto -molto s'aveano, e davan tuttavia. -Stava Lurcanio di mal cor disposto -contra Ginevra; e l'altro in sua difesa -ben sostenea la favorita impresa. -Sei cavallier con lor ne lo steccato -erano a piedi, armati di corazza, -col duca d'Albania, ch'era montato -s'un possente corsier di buona razza. -Come a gran contestabile, a lui dato -la guardia fu del campo e de la piazza: -e di veder Ginevra in gran periglio -avea il cor lieto, ed orgoglioso il ciglio. -Rinaldo se ne va tra gente e gente; -fassi far largo il buon destrier Baiardo: -chi la tempesta del suo venir sente, -a dargli via non par zoppo né tardo. -Rinaldo vi compar sopra eminente, -e ben rassembra il fior d'ogni gagliardo; -poi si ferma all'incontro ove il re siede: -ognun s'accosta per udir che chiede. -Rinaldo disse al re: — Magno signore, -non lasciar la battaglia più seguire; -perché di questi dua qualunche more, -sappi ch'a torto tu 'l lasci morire. -L'un crede aver ragione, ed è in errore, -e dice il falso, e non sa di mentire; -ma quel medesmo error che 'l suo germano -a morir trasse, a lui pon l'arme in mano. -L'altro non sa se s'abbia dritto o torto; -ma sol per gentilezza e per bontade -in pericol si è posto d'esser morto, -per non lasciar morir tanta beltade. -Io la salute all'innocenza porto; -porto il contrario a chi usa falsitade. -Ma, per Dio, questa pugna prima parti, -poi mi dà audienza a quel ch'io vo' narrarti. — -Fu da l'autorità d'un uom sì degno, -come Rinaldo gli parea al sembiante, -sì mosso il re, che disse e fece segno -che non andasse più la pugna inante; -al quale insieme ed ai baron del regno -e ai cavallieri e all'altre turbe tante -Rinaldo fe' l'inganno tutto espresso, -ch'avea ordito a Ginevra Polinesso. -Indi s'offerse di voler provare -coll'arme, ch'era ver quel ch'avea detto. -Chiamasi Polinesso; ed ei compare, -ma tutto conturbato ne l'aspetto: -pur con audacia cominciò a negare. -Disse Rinaldo: — Or noi vedrem l'effetto. — -L'uno e l'altro era armato, il campo fatto, -sì che senza indugiar vengono al fatto. -Oh quanto ha il re, quanto ha il suo popul caro -che Ginevra a provar s'abbi innocente! -tutti han speranza che Dio mostri chiaro -ch'impudica era detta ingiustamente. -Crudel superbo e riputato avaro -fu Polinesso, iniquo e fraudolente; -sì che ad alcun miracolo non fia -che l'inganno da lui tramato sia. -Sta Polinesso con la faccia mesta, -col cor tremante e con pallida guancia; -e al terzo suon mette la lancia in resta. -Così Rinaldo inverso lui si lancia, -che disioso di finir la festa, -mira a passargli il petto con la lancia: -né discorde al disir seguì l'effetto; -ché mezza l'asta gli cacciò nel petto. -Fisso nel tronco lo trasporta in terra, -lontan dal suo destrier più di sei braccia. -Rinaldo smonta subito, e gli afferra -l'elmo, pria che si levi, e gli lo slaccia: -ma quel, che non può far più troppa guerra, -gli domanda mercé con umil faccia, -e gli confessa, udendo il re e la corte, -la fraude sua che l'ha condutto a morte. -Non finì il tutto, e in mezzo la parola -e la voce e la vita l'abandona. -Il re, che liberata la figliuola -vede da morte e da fama non buona, -più s'allegra, gioisce e raconsola, -che, s'avendo perduta la corona, -ripor se la vedesse allora allora; -sì che Rinaldo unicamente onora. -E poi ch'al trar dell'elmo conosciuto -l'ebbe, perch'altre volte l'avea visto, -levò le mani a Dio, che d'un aiuto -come era quel, gli avea sì ben provisto. -Quell'altro cavallier che, sconosciuto, -soccorso avea Ginevra al caso tristo, -ed armato per lei s'era condutto, -stato da parte era a vedere il tutto. -Dal re pregato fu di dire il nome, -o di lasciarsi almen veder scoperto, -acciò da lui fosse premiato, come -di sua buona intenzion chiedeva il merto. -Quel, dopo lunghi preghi, da le chiome -si levò l'elmo, e fe' palese e certo -quel che ne l'altro canto ho da seguire, -se grata vi sarà l'istoria udire. Miser chi mal oprando si confida -ch'ognor star debbia il maleficio occulto; -che quando ogn'altro taccia, intorno grida -l'aria e la terra istessa in ch'è sepulto: -e Dio fa spesso che 'l peccato guida -il peccator, poi ch'alcun dì gli ha indulto, -che sé medesmo, senza altrui richiesta, -innavedutamente manifesta. -Avea creduto il miser Polinesso -totalmente il delitto suo coprire, -Dalinda consapevole d'appresso -levandosi, che sola il potea dire: -e aggiungendo il secondo al primo eccesso, -affrettò il mal che potea differire, -e potea differire e schivar forse; -ma se stesso spronando, a morir corse: -e perdé amici a un tempo e vita e stato, -e onor, che fu molto più grave danno. -Dissi di sopra, che fu assai pregato -il cavallier, ch'ancor chi sia non sanno. -Al fin si trasse l'elmo, e 'l viso amato -scoperse, che più volte veduto hanno: -e dimostrò come era Ariodante, -per tutta Scozia lacrimato inante; -Ariodante, che Ginevra pianto -avea per morto, e 'l fratel pianto avea, -il re, la corte, il popul tutto quanto: -di tal bontà, di tal valor splendea. -Adunque il peregrin mentir di quanto -dianzi di lui narrò, quivi apparea; -e fu pur ver che dal sasso marino -gittarsi in mar lo vide a capo chino. -Ma (come aviene a un disperato spesso, -che da lontan brama e disia la morte, -e l'odia poi che se la vede appresso, -tanto gli pare il passo acerbo e forte) -Ariodante, poi ch'in mar fu messo, -si pentì di morire: e come forte -e come destro e più d'ogn'altro ardito, -si messe a nuoto e ritornossi al lito; -e dispregiando e nominando folle -il desir ch'ebbe di lasciar la vita, -si messe a caminar bagnato e molle, -e capitò all'ostel d'un eremita. -Quivi secretamente indugiar volle -tanto, che la novella avesse udita, -se del caso Ginevra s'allegrasse, -o pur mesta e pietosa ne restasse. -Intese prima, che per gran dolore -ella era stata a rischio di morire -(la fama andò di questo in modo fuore, -che ne fu in tutta l'isola che dire): -contrario effetto a quel che per errore -credea aver visto con suo gran martire. -Intese poi, come Lurcanio avea -fatta Ginevra appresso il padre rea. -Contra il fratel d'ira minor non arse, -che per Ginevra già d'amor ardesse; -che troppo empio e crudele atto gli parse, -ancora che per lui fatto l'avesse. -Sentendo poi, che per lei non comparse -cavallier che difender la volesse -(che Lurcanio sì forte era e gagliardo, -ch'ognun d'andargli contra avea riguardo; -e chi n'avea notizia, il riputava -tanto discreto, e sì saggio ed accorto, -che se non fosse ver quel che narrava, -non si porrebbe a rischio d'esser morto; -per questo la più parte dubitava -di non pigliar questa difesa a torto); -Ariodante, dopo gran discorsi, -pensò all'accusa del fratello opporsi. -— Ah lasso! io non potrei (seco dicea) -sentir per mia cagion perir costei: -troppo mia morte fôra acerba e rea, -se inanzi a me morir vedessi lei. -Ella è pur la mia donna e la mia dea, -questa è la luce pur degli occhi miei: -convien ch'a dritto e a torto, per suo scampo -pigli l'impresa, e resti morto in campo. -So ch'io m'appiglio al torto; e al torto sia: -e ne morrò; né questo mi sconforta, -se non ch'io so che per la morte mia -sì bella donna ha da restar poi morta. -Un sol conforto nel morir mi fia, -che, se 'l suo Polinesso amor le porta, -chiaramente veder avrà potuto, -che non s'è mosso ancor per darle aiuto; -e me, che tanto espressamente ha offeso, -vedrà, per lei salvare, a morir giunto. -Di mio fratello insieme, il quale acceso -tanto fuoco ha, vendicherommi a un punto; -ch'io lo farò doler, poi che compreso -il fine avrà del suo crudele assunto: -creduto vendicar avrà il germano, -e gli avrà dato morte di sua mano. — -Concluso ch'ebbe questo nel pensiero, -nuove arme ritrovò, nuovo cavallo; -e sopraveste nere, e scudo nero -portò, fregiato a color verdegiallo. -Per aventura si trovò un scudiero -ignoto in quel paese, e menato hallo; -e sconosciuto (come ho già narrato) -s'appresentò contra il fratello armato. -Narrato v'ho come il fatto successe, -come fu conosciuto Ariodante. -Non minor gaudio n'ebbe il re, ch'avesse -de la figliuola liberata inante. -Seco pensò che mai non si potesse -trovar un più fedele e vero amante; -che dopo tanta ingiuria, la difesa -di lei, contra il fratel proprio, avea presa. -E per sua inclinazion (ch'assai l'amava) -e per li preghi di tutta la corte, -e di Rinaldo, che più d'altri instava, -de la bella figliuola il fa consorte. -La duchea d'Albania ch'al re tornava -dopo che Polinesso ebbe la morte, -in miglior tempo discader non puote, -poi che la dona alla sua figlia in dote. -Rinaldo per Dalinda impetrò grazia, -che se n'andò di tanto errore esente; -la qual per voto, e perché molto sazia -era del mondo, a Dio volse la mente: -monaca s'andò a render fin in Dazia, -e si levò di Scozia immantinente. -Ma tempo è ormai di ritrovar Ruggiero, -che scorre il ciel su l'animal leggiero. -Ben che Ruggier sia d'animo costante, -né cangiato abbia il solito colore, -io non gli voglio creder che tremante -non abbia dentro più che foglia il core. -Lasciato avea di gran spazio distante -tutta l'Europa, ed era uscito fuore -per molto spazio il segno che prescritto -avea già a' naviganti Ercole invitto. -Quello ippogrifo, grande e strano augello, -lo porta via con tal prestezza d'ale, -che lasceria di lungo tratto quello -celer ministro del fulmineo strale. -Non va per l'aria altro animal sì snello, -che di velocità gli fosse uguale: -credo ch'a pena il tuono e la saetta -venga in terra dal ciel con maggior fretta. -Poi che l'augel trascorso ebbe gran spazio -per linea dritta e senza mai piegarsi, -con larghe ruote, omai de l'aria sazio, -cominciò sopra una isola a calarsi; -pari a quella ove, dopo lungo strazio -far del suo amante e lungo a lui celarsi, -la vergine Aretusa passò invano -di sotto il mar per camin cieco e strano. -Non vide né 'l più bel né 'l più giocondo -da tutta l'aria ove le penne stese; -né se tutto cercato avesse il mondo, -vedria di questo il più gentil paese, -ove, dopo un girarsi di gran tondo, -con Ruggier seco il grande augel discese: -culte pianure e delicati colli, -chiare acque, ombrose ripe e prati molli. -Vaghi boschetti di soavi allori, -di palme e d'amenissime mortelle, -cedri ed aranci ch'avean frutti e fiori -contesti in varie forme e tutte belle, -facean riparo ai fervidi calori -de' giorni estivi con lor spesse ombrelle; -e tra quei rami con sicuri voli -cantando se ne gìano i rosignuoli. -Tra le purpuree rose e i bianchi gigli, -che tiepida aura freschi ognora serba, -sicuri si vedean lepri e conigli, -e cervi con la fronte alta e superba, -senza temer ch'alcun gli uccida o pigli, -pascano o stiansi rominando l'erba; -saltano i daini e i capri isnelli e destri, -che sono in copia in quei luoghi campestri. -Come sì presso è l'ippogrifo a terra, -ch'esser ne può men periglioso il salto, -Ruggier con fretta de l'arcion si sferra, -e si ritruova in su l'erboso smalto; -tuttavia in man le redine si serra, -che non vuol che 'l destrier più vada in alto: -poi lo lega nel margine marino -a un verde mirto in mezzo un lauro e un pino. -E quivi appresso, ove surgea una fonte -cinta di cedri e di feconde palme, -pose lo scudo, e l'elmo da la fronte -si trasse, e disarmossi ambe le palme; -ed ora alla marina ed ora al monte -volgea la faccia all'aure fresche ed alme, -che l'alte cime con mormorii lieti -fan tremolar dei faggi e degli abeti. -Bagna talor ne la chiara onda e fresca -l'asciutte labra, e con le man diguazza, -acciò che de le vene il calor esca -che gli ha acceso il portar de la corazza. -Né maraviglia è già ch'ella gl'incresca; -che non è stato un far vedersi in piazza: -ma senza mai posar, d'arme guernito, -tremila miglia ognor correndo era ito. -Quivi stando, il destrier ch'avea lasciato -tra le più dense frasche alla fresca ombra, -per fuggir si rivolta, spaventato -di non so che, che dentro al bosco adombra: -e fa crollar sì il mirto ove è legato, -che de le frondi intorno il piè gli ingombra: -crollar fa il mirto, e fa cader la foglia; -né succede però che se ne scioglia. -Come ceppo talor, che le medolle -rare e vote abbia, e posto al fuoco sia, -poi che per gran calor quell'aria molle -resta consunta ch'in mezzo l'empìa, -dentro risuona e con strepito bolle -tanto che quel furor truovi la via; -così murmura e stride e si corruccia -quel mirto offeso, e al fine apre la buccia. -Onde con mesta e flebil voce uscìo -espedita e chiarissima favella, -e disse: — Se tu sei cortese e pio, -come dimostri alla presenza bella, -lieva questo animal da l'arbor mio: -basti che 'l mio mal proprio mi flagella, -senza altra pena, senza altro dolore -ch'a tormentarmi ancor venga di fuore. — -Al primo suon di quella voce torse -Ruggiero il viso, e subito levosse; -e poi ch'uscir da l'arbore s'accorse, -stupefatto restò più che mai fosse. -A levarne il destrier subito corse; -e con le guance di vergogna rosse: -— Qual che tu sii, perdonami (dicea), -o spirto umano, o boschereccia dea. -Il non aver saputo che s'asconda -sotto ruvida scorza umano spirto, -m'ha lasciato turbar la bella fronda -e far ingiuria al tuo vivace mirto: -ma non restar però, che non risponda -chi tu ti sia, ch'in corpo orrido ed irto, -con voce e razionale anima vivi; -se da grandine il ciel sempre ti schivi. -E s'ora o mai potrò questo dispetto -con alcun beneficio compensarte, -per quella bella donna ti prometto, -quella che di me tien la miglior parte, -ch'io farò con parole e con effetto, -ch'avrai giusta cagion di me lodarte. — -Come Ruggiero al suo parlar fin diede, -tremò quel mirto da la cima al piede. -Poi si vide sudar su per la scorza, -come legno dal bosco allora tratto, -che del fuoco venir sente la forza, -poscia ch'invano ogni ripar gli ha fatto; -e cominciò: — Tua cortesia mi sforza -a discoprirti in un medesmo tratto -ch'io fossi prima, e chi converso m'aggia -in questo mirto in su l'amena spiaggia. -Il nome mio fu Astolfo; e paladino -era di Francia, assai temuto in guerra: -d'Orlando e di Rinaldo era cugino, -la cui fama alcun termine non serra; -e si spettava a me tutto il domìno, -dopo il mio padre Oton, de l'Inghilterra. -Leggiadro e bel fui sì, che di me accesi -più d'una donna: e al fin me solo offesi. -Ritornando io da quelle isole estreme -che da Levante il mar Indico lava, -dopo Rinaldo ed alcun'altri insieme -meco fur chiusi in parte oscura e cava, -ed onde liberati le supreme -forze n'avean del cavallier di Brava; -vêr ponente io venìa lungo la sabbia -che del settentrion sente la rabbia. -E come la via nostra e il duro e fello -destin ci trasse, uscimmo una matina -sopra la bella spiaggia, ove un castello -siede sul mar, de la possente Alcina. -Trovammo lei ch'uscita era di quello, -e stava sola in ripa alla marina; -e senza rete e senza amo traea -tutti li pesci al lito, che volea. -Veloci vi correvano i delfini, -vi venìa a bocca aperta il grosso tonno; -i capidogli coi vecchi marini -vengon turbati dal loro pigro sonno; -muli, salpe, salmoni e coracini -nuotano a schiere in più fretta che ponno; -pistrici, fisiteri, orche e balene -escon del mar con mostruose schiene. -Veggiamo una balena, la maggiore -che mai per tutto il mar veduta fosse: -undeci passi e più dimostra fuore -de l'onde salse le spallacce grosse. -Caschiamo tutti insieme in uno errore, -perch'era ferma e che mai non si scosse: -ch'ella sia una isoletta ci credemo, -così distante a l'un da l'altro estremo. -Alcina i pesci uscir facea de l'acque -con semplici parole e puri incanti. -Con la fata Morgana Alcina nacque, -io non so dir s'a un parto o dopo o inanti. -Guardommi Alcina; e subito le piacque -l'aspetto mio, come mostrò ai sembianti: -e pensò con astuzia e con ingegno -tormi ai compagni; e riuscì il disegno. -Ci venne incontra con allegra faccia -con modi graziosi e riverenti, -e disse: — Cavallier, quando vi piaccia -far oggi meco i vostri alloggiamenti, -io vi farò veder, ne la mia caccia, -di tutti i pesci sorti differenti: -chi scaglioso, chi molle e chi col pelo; -e saran più che non ha stelle il cielo. -E volendo vedere una sirena -che col suo dolce canto acheta il mare, -passian di qui fin su quell'altra arena, -dove a quest'ora suol sempre tornare. — -E ci mostrò quella maggior balena, -che, come io dissi, una isoletta pare. -Io, che sempre fui troppo (e me n'incresce) -volonteroso, andai sopra quel pesce. -Rinaldo m'accennava, e similmente -Dudon, ch'io non v'andassi: e poco valse. -La fata Alcina con faccia ridente, -lasciando gli altri dua, dietro mi salse. -La balena, all'ufficio diligente, -nuotando se n'andò per l'onde salse. -Di mia sciocchezza tosto fui pentito; -ma troppo mi trovai lungi dal lito. -Rinaldo si cacciò ne l'acqua a nuoto -per aiutarmi, e quasi si sommerse, -perché levossi un furioso Noto -che d'ombra il cielo e 'l pelago coperse. -Quel che di lui seguì poi, non m'è noto. -Alcina a confortarmi si converse; -e quel dì tutto e la notte che venne, -sopra quel mostro in mezzo il mar mi tenne. -Fin che venimmo a questa isola bella, -di cui gran parte Alcina ne possiede, -e l'ha usurpata ad una sua sorella -che 'l padre già lasciò del tutto erede, -perché sola legitima avea quella; -e (come alcun notizia me ne diede, -che pienamente istrutto era di questo) -sono quest'altre due nate d'incesto. -E come sono inique e scelerate -e piene d'ogni vizio infame e brutto -così quella, vivendo in castitate, -posto ha ne le virtuti il suo cor tutto. -Contra lei queste due son congiurate; -e già più d'uno esercito hanno istrutto -per cacciarla de l'isola, e in più volte -più di cento castella l'hanno tolte: -né ci terrebbe ormai spanna di terra -colei, che Logistilla è nominata, -se non che quinci un golfo il passo serra, -e quindi una montagna inabitata, -sì come tien la Scozia e l'Inghilterra -il monte e la riviera separata; -né però Alcina né Morgana resta -che non le voglia tor ciò che le resta. -Perché di vizi è questa coppia rea, -odia colei, perché è pudica e santa. -Ma, per tornare a quel ch'io ti dicea, -e seguir poi com'io divenni pianta, -Alcina in gran delizie mi tenea, -e del mio amore ardeva tutta quanta; -né minor fiamma nel mio core accese -il veder lei sì bella e sì cortese. -Io mi godea le delicate membra; -pareami aver qui tutto il ben raccolto -che fra i mortali in più parti si smembra, -a chi più ed a chi meno e a nessun molto; -né di Francia né d'altro mi rimembra: -stavami sempre a contemplar quel volto: -ogni pensiero, ogni mio bel disegno -in lei finia, né passava oltre il segno. -Io da lei altretanto era o più amato: -Alcina più non si curava d'altri; -ella ogn'altro suo amante avea lasciato, -ch'inanzi a me ben ce ne fur degli altri. -Me consiglier, me avea dì e notte a lato, -e me fe' quel che commandava agli altri: -a me credeva, a me si riportava; -né notte o dì con altri mai parlava. -Deh! perché vo le mie piaghe toccando, -senza speranza poi di medicina? -perché l'avuto ben vo rimembrando, -quando io patisco estrema disciplina? -Quando credea d'esser felice, e quando -credea ch'amar più mi dovesse Alcina, -il cor che m'avea dato si ritolse, -e ad altro nuovo amor tutta si volse. -Conobbi tardi il suo mobil ingegno, -usato amare e disamare a un punto. -Non era stato oltre a duo mesi in regno, -ch'un novo amante al loco mio fu assunto. -Da sé cacciommi la fata con sdegno, -e da la grazia sua m'ebbe disgiunto: -e seppi poi, che tratti a simil porto -avea mill'altri amanti, e tutti a torto. -E perché essi non vadano pel mondo -di lei narrando la vita lasciva, -chi qua chi là, per lo terren fecondo -li muta, altri in abete, altri in oliva, -altri in palma, altri in cedro, altri secondo -che vedi me su questa verde riva; -altri in liquido fonte, alcuni in fiera, -come più agrada a quella fata altiera. -Or tu che sei per non usata via, -signor, venuto all'isola fatale, -acciò ch'alcuno amante per te sia -converso in pietra o in onda, o fatto tale; -avrai d'Alcina scettro e signoria, -e sarai lieto sopra ogni mortale: -ma certo sii di giunger tosto al passo -d'entrar o in fiera o in fonte o in legno o in sasso. -Io te n'ho dato volentieri aviso; -non ch'io mi creda che debbia giovarte: -pur meglio fia che non vadi improviso, -e de' costumi suoi tu sappia parte; -che forse, come è differente il viso, -è differente ancor l'ingegno e l'arte. -Tu saprai forse riparare al danno, -quel che saputo mill'altri non hanno. — -Ruggier, che conosciuto avea per fama -ch'Astolfo alla sua donna cugin era, -si dolse assai che in steril pianta e grama -mutato avesse la sembianza vera; -e per amor di quella che tanto ama -(pur che saputo avesse in che maniera) -gli avria fatto servizio: ma aiutarlo -in altro non potea, ch'in confortarlo. -Lo fe' al meglio che seppe; e domandolli -poi se via c'era, ch'al regno guidassi -di Logistilla, o per piano o per colli, -sì che per quel d'Alcina non andassi. -Che ben ve n'era un'altra, ritornolli -l'arbore a dir, ma piena d'aspri sassi, -s'andando un poco inanzi alla man destra -salisse il poggio invêr la cima alpestra. -Ma che non pensi già che seguir possa -il suo camin per quella strada troppo: -incontro avrà di gente ardita, grossa -e fiera compagnia, con duro intoppo. -Alcina ve li tien per muro e fossa -a chi volesse uscir fuor del suo groppo. -Ruggier quel mirto ringraziò del tutto, -poi da lui si partì dotto ed istrutto. -Venne al cavallo, e lo disciolse e prese -per le redine, e dietro se lo trasse; -né, come fece prima, più l'ascese, -perché mal grado suo non lo portasse. -Seco pensava come nel paese -di Logistilla a salvamento andasse. -Era disposto e fermo usar ogni opra, -che non gli avesse imperio Alcina sopra. -Pensò di rimontar sul suo cavallo, -e per l'aria spronarlo a nuovo corso: -ma dubitò di far poi maggior fallo; -che troppo mal quel gli ubidiva al morso. -— Io passerò per forza, s'io non fallo, — -dicea tra sé, ma vano era il discorso. -Non fu duo miglia lungi alla marina, -che la bella città vide d'Alcina. -Lontan si vide una muraglia lunga -che gira intorno, e gran paese serra; -e par che la sua altezza al ciel s'aggiunga, -e d'oro sia da l'alta cima a terra. -Alcun dal mio parer qui si dilunga, -e dice ch'ell'è alchimia: e forse ch'erra; -ed anco forse meglio di me intende: -a me par oro, poi che sì risplende. -Come fu presso alle sì ricche mura, -che 'l mondo altre non ha de la lor sorte, -lasciò la strada che per la pianura -ampla e diritta andava alle gran porte; -ed a man destra, a quella più sicura, -ch'al monte già, piegossi il guerrier forte: -ma tosto ritrovò l'iniqua frotta, -dal cui furor gli fu turbata e rotta. -Non fu veduta mai più strana torma, -più monstruosi volti e peggio fatti: -alcun' dal collo in giù d'uomini han forma, -col viso altri di simie, altri di gatti; -stampano alcun con piè caprigni l'orma; -alcuni son centauri agili ed atti; -son gioveni impudenti e vecchi stolti, -chi nudi e chi di strane pelli involti. -Chi senza freno in s'un destrier galoppa, -chi lento va con l'asino o col bue, -altri salisce ad un centauro in groppa, -struzzoli molti han sotto, aquile e grue; -ponsi altri a bocca il corno, altri la coppa; -chi femina è, chi maschio, e chi amendue; -chi porta uncino e chi scala di corda, -chi pal di ferro e chi una lima sorda. -Di questi il capitano si vedea -aver gonfiato il ventre, e 'l viso grasso; -il qual su una testuggine sedea, -che con gran tardità mutava il passo. -Avea di qua e di là chi lo reggea, -perché egli era ebro, e tenea il ciglio basso: -altri la fronte gli asciugava e il mento, -altri i panni scuotea per fargli vento. -Un ch'avea umana forma i piedi e 'l ventre, -e collo avea di cane, orecchie e testa, -contra Ruggiero abaia, acciò ch'egli entre -ne la bella città ch'a dietro resta. -Rispose il cavallier: — Nol farò, mentre -avrà forza la man di regger questa! — -e gli mostra la spada, di cui volta -avea l'aguzza punta alla sua volta. -Quel mostro lui ferir vuol d'una lancia, -ma Ruggier presto se gli aventa addosso: -una stoccata gli trasse alla pancia, -e la fe' un palmo riuscir pel dosso. -Lo scudo imbraccia, e qua e là si lancia, -ma l'inimico stuolo è troppo grosso: -l'un quinci il punge, e l'altro quindi afferra: -egli s'arrosta, e fa lor aspra guerra. -L'un sin a' denti, e l'altro sin al petto -partendo va di quella iniqua razza; -ch'alla sua spada non s'oppone elmetto, -né scudo, né panziera, né corazza: -ma da tutte le parti è così astretto, -che bisogno saria, per trovar piazza -e tener da sé largo il popul reo, -d'aver più braccia e man che Briareo. -Se di scoprire avesse avuto aviso -lo scudo che già fu del negromante -(io dico quel ch'abbarbagliava il viso, -quel ch'all'arcione avea lasciato Atlante), -subito avria quel brutto stuol conquiso -e fattosel cader cieco davante; -e forse ben, che disprezzò quel modo, -perché virtude usar volse, e non frodo. -Sia quel che può, più tosto vuol morire, -che rendersi prigione a sì vil gente. -Eccoti intanto da la porta uscire -del muro, ch'io dicea d'oro lucente, -due giovani ch'ai gesti ed al vestire -non eran da stimar nate umilmente, -né da pastor nutrite con disagi, -ma fra delizie di real palagi. -L'una e l'altra sedea s'un liocorno, -candido più che candido armelino; -l'una e l'altra era bella, e di sì adorno -abito, e modo tanto pellegrino, -che a l'uom, guardando e contemplando intorno, -bisognerebbe aver occhio divino -per far di lor giudizio: e tal saria -Beltà, s'avesse corpo, e Leggiadria. -L'una e l'altra n'andò dove nel prato -Ruggiero è oppresso da lo stuol villano. -Tutta la turba si levò da lato; -e quelle al cavallier porser la mano, -che tinto in viso di color rosato, -le donne ringraziò de l'atto umano: -e fu contento, compiacendo loro, -di ritornarsi a quella porta d'oro. -L'adornamento che s'aggira sopra -la bella porta e sporge un poco avante, -parte non ha che tutta non si cuopra -de le più rare gemme di Levante. -Da quattro parti si riposa sopra -grosse colonne d'integro diamante. -O ver o falso ch'all'occhio risponda, -non è cosa più bella o più gioconda. -Su per la soglia e fuor per le colonne -corron scherzando lascive donzelle, -che, se i rispetti debiti alle donne -servasser più, sarian forse più belle. -Tutte vestite eran di verdi gonne, -e coronate di frondi novelle. -Queste, con molte offerte e con buon viso, -Ruggier fecero entrar nel paradiso: -che si può ben così nomar quel loco, -ove mi credo che nascesse Amore. -Non vi si sta se non in danza e in giuoco, -e tutte in festa vi si spendon l'ore: -pensier canuto né molto né poco -si può quivi albergare in alcun core: -non entra quivi disagio né inopia, -ma vi sta ognor col corno pien la Copia. -Qui, dove con serena e lieta fronte -par ch'ognor rida il grazioso aprile, -gioveni e donne son: qual presso a fonte -canta con dolce e dilettoso stile; -qual d'un arbore all'ombra e qual d'un monte -o giuoca o danza o fa cosa non vile; -e qual, lungi dagli altri, a un suo fedele -discuopre l'amorose sue querele. -Per le cime dei pini e degli allori, -degli alti faggi e degl'irsuti abeti, -volan scherzando i pargoletti Amori: -di lor vittorie altri godendo lieti, -altri pigliando a saettare i cori, -la mira quindi, altri tendendo reti; -chi tempra dardi ad un ruscel più basso, -e chi gli aguzza ad un volubil sasso. -Quivi a Ruggier un gran corsier fu dato, -forte, gagliardo, e tutto di pel sauro, -ch'avea il bel guernimento ricamato -di preziose gemme e di fin auro; -e fu lasciato in guardia quello alato, -quel che solea ubidire al vecchio Mauro, -a un giovene che dietro lo menassi -al buon Ruggier, con men frettosi passi. -Quelle due belle giovani amorose -ch'avean Ruggier da l'empio stuol difeso, -da l'empio stuol che dianzi se gli oppose -su quel camin ch'avea a man destra preso, -gli dissero: — Signor, le virtuose -opere vostre che già abbiamo inteso, -ne fan sì ardite, che l'aiuto vostro -vi chiederemo a beneficio nostro. -Noi troverem tra via tosto una lama, -che fa due parti di questa pianura. -Una crudel, che Erifilla si chiama, -difende il ponte, e sforza e inganna e fura -chiunque andar ne l'altra ripa brama; -ed ella è gigantessa di statura, -li denti ha lunghi e velenoso il morso, -acute l'ugne, e graffia come un orso. -Oltre che sempre ci turbi il camino, -che libero saria se non fosse ella, -spesso, correndo per tutto il giardino, -va disturbando or questa cosa or quella. -Sappiate che del populo assassino -che vi assalì fuor de la porta bella, -molti suoi figli son, tutti seguaci, -empi, come ella, inospiti e rapaci. — -Ruggier rispose: — Non ch'una battaglia, -ma per voi sarò pronto a farne cento: -di mia persona, in tutto quel che vaglia, -fatene voi secondo il vostro intento; -che la cagion ch'io vesto piastra e maglia, -non è per guadagnar terre né argento, -ma sol per farne beneficio altrui, -tanto più a belle donne come vui. — -Le donne molte grazie riferiro -degne d'un cavallier, come quell'era: -e così ragionando ne veniro -dove videro il ponte e la riviera; -e di smeraldo ornata e di zaffiro -su l'arme d'or, vider la donna altiera. -Ma dir ne l'altro canto differisco, -come Ruggier con lei si pose a risco. Chi va lontan da la sua patria, vede -cose, da quel che già credea, lontane; -che narrandole poi, non se gli crede, -e stimato bugiardo ne rimane: -che 'l sciocco vulgo non gli vuol dar fede, -se non le vede e tocca chiare e piane. -Per questo io so che l'inesperienza -farà al mio canto dar poca credenza. -Poca o molta ch'io ci abbia, non bisogna -ch'io ponga mente al vulgo sciocco e ignaro. -A voi so ben che non parrà menzogna, -che 'l lume del discorso avete chiaro; -ed a voi soli ogni mio intento agogna -che 'l frutto sia di mie fatiche caro. -Io vi lasciai che 'l ponte e la riviera -vider, che 'n guardia avea Erifilla altiera. -Quell'era armata del più fin metallo, -ch'avean di più color gemme distinto: -rubin vermiglio, crisolito giallo, -verde smeraldo, con flavo iacinto. -Era montata, ma non a cavallo; -invece avea di quello un lupo spinto: -spinto avea un lupo ove si passa il fiume, -con ricca sella fuor d'ogni costume. -Non credo ch'un sì grande Apulia n'abbia: -egli era grosso ed alto più d'un bue. -Con fren spumar non gli facea le labbia, -né so come lo regga a voglie sue. -La sopravesta di color di sabbia -su l'arme avea la maledetta lue: -era, fuor che 'l color, di quella sorte -ch'i vescovi e i prelati usano in corte. -Ed avea ne lo scudo e sul cimiero -una gonfiata e velenosa botta. -Le donne la mostraro al cavalliero, -di qua dal ponte per giostrar ridotta, -e fargli scorno e rompergli il sentiero, -come ad alcuni usata era talotta. -Ella a Ruggier, che torni a dietro, grida: -quel piglia un'asta, e la minaccia e sfida. -Non men la gigantessa ardita e presta -sprona il gran lupo e ne l'arcion si serra, -e pon la lancia a mezzo il corso in resta, -e fa tremar nel suo venir la terra. -Ma pur sul prato al fiero incontro resta; -che sotto l'elmo il buon Ruggier l'afferra, -e de l'arcion con tal furor la caccia, -che la riporta indietro oltra sei braccia. -E già, tratta la spada ch'avea cinta, -venìa a levarne la testa superba: -e ben lo potea far, che come estinta -Erifilla giacea tra' fiori e l'erba. -Ma le donne gridar: — Basti sia vinta, -senza pigliarne altra vendetta acerba. -Ripon, cortese cavallier, la spada; -passiamo il ponte e seguitian la strada. — -Alquanto malagevole ed aspretta -per mezzo un bosco presero la via, -che oltra che sassosa fosse e stretta, -quasi su dritta alla collina gìa. -Ma poi che furo ascesi in su la vetta, -usciro in spaziosa prateria, -dove il più bel palazzo e 'l più giocondo -vider, che mai fosse veduto al mondo. -La bella Alcina venne un pezzo inante, -verso Ruggier fuor de le prime porte, -e lo raccolse in signoril sembiante, -in mezzo bella ed onorata corte. -Da tutti gli altri tanto onore e tante -riverenze fur fatte al guerrier forte, -che non potrian far più, se tra loro -fosse Dio sceso dal superno coro. -Non tanto il bel palazzo era eccellente, -perché vincesse ogn'altro di ricchezza, -quanto ch'avea la più piacevol gente -che fosse al mondo e di più gentilezza. -Poco era l'un da l'altro differente -e di fiorita etade e di bellezza: -sola di tutti Alcina era più bella, -sì come è bello il sol più d'ogni stella. -Di persona era tanto ben formata, -quanto me' finger san pittori industri; -con bionda chioma lunga ed annodata: -oro non è che più risplenda e lustri. -Spargeasi per la guancia delicata -misto color di rose e di ligustri; -di terso avorio era la fronte lieta, -che lo spazio finia con giusta meta. -Sotto duo negri e sottilissimi archi -son duo negri occhi, anzi duo chiari soli, -pietosi a riguardare, a mover parchi; -intorno cui par ch'Amor scherzi e voli, -e ch'indi tutta la faretra scarchi -e che visibilmente i cori involi: -quindi il naso per mezzo il viso scende, -che non truova l'invidia ove l'emende. -Sotto quel sta, quasi fra due vallette, -la bocca sparsa di natio cinabro; -quivi due filze son di perle elette, -che chiude ed apre un bello e dolce labro: -quindi escon le cortesi parolette -da render molle ogni cor rozzo e scabro; -quivi si forma quel suave riso, -ch'apre a sua posta in terra il paradiso. -Bianca nieve è il bel collo, e 'l petto latte; -il collo è tondo, il petto colmo e largo: -due pome acerbe, e pur d'avorio fatte, -vengono e van come onda al primo margo, -quando piacevole aura il mar combatte. -Non potria l'altre parti veder Argo: -ben si può giudicar che corrisponde -a quel ch'appar di fuor quel che s'asconde. -Mostran le braccia sua misura giusta; -e la candida man spesso si vede -lunghetta alquanto e di larghezza angusta, -dove né nodo appar, né vena eccede. -Si vede al fin de la persona augusta -il breve, asciutto e ritondetto piede. -Gli angelici sembianti nati in cielo -non si ponno celar sotto alcun velo. -Avea in ogni sua parte un laccio teso, -o parli o rida o canti o passo muova: -né maraviglia è se Ruggier n'è preso, -poi che tanto benigna se la truova. -Quel che di lei già avea dal mirto inteso, -com'è perfida e ria, poco gli giova; -ch'inganno o tradimento non gli è aviso -che possa star con sì soave riso. -Anzi pur creder vuol che da costei -fosse converso Astolfo in su l'arena -per li suoi portamenti ingrati e rei, -e sia degno di questa e di più pena: -e tutto quel ch'udito avea di lei, -stima esser falso; e che vendetta mena, -e mena astio ed invidia quel dolente -a lei biasmare, e che del tutto mente. -La bella donna che cotanto amava, -novellamente gli è dal cor partita; -che per incanto Alcina gli lo lava -d'ogni antica amorosa sua ferita; -e di sé sola e del suo amor lo grava, -e in quello essa riman sola sculpita: -sì che scusar il buon Ruggier si deve, -se si mostrò quivi incostante e lieve. -A quella mensa citare, arpe e lire, -e diversi altri dilettevol suoni -faceano intorno l'aria tintinire -d'armonia dolce e di concenti buoni. -Non vi mancava chie, cantando, dire -d'amor sapesse gaudi e passioni, -o con invenzioni e poesie -rappresentasse grate fantasie. -Qual mensa trionfante e suntuosa -di qualsivoglia successor di Nino, -o qual mai tanto celebre e famosa -di Cleopatra al vincitor latino, -potria a questa esser par, che l'amorosa -fata avea posta inanzi al paladino? -Tal non cred'io che s'apparecchi dove -ministra Ganimede al sommo Giove. -Tolte che fur le mense e le vivande, -facean, sedendo in cerchio, un giuoco lieto: -che ne l'orecchio l'un l'altro domande, -come più piace lor, qualche secreto; -il che agli amanti fu commodo grande -di scoprir l'amor lor senza divieto: -e furon lor conclusioni estreme -di ritrovarsi quella notte insieme. -Finir quel giuoco tosto, e molto inanzi -che non solea là dentro esser costume: -con torchi allora i paggi entrati inanzi, -le tenebre cacciar con molto lume. -Tra bella compagnia dietro e dinanzi -andò Ruggiero a ritrovar le piume -in una adorna e fresca cameretta, -per la miglior di tutte l'altre eletta. -E poi che di confetti e di buon vini -di nuovo fatti fur debiti inviti, -e partir gli altri riverenti e chini, -ed alle stanze lor tutti sono iti; -Ruggiero entrò ne' profumati lini -che pareano di man d'Aracne usciti, -tenendo tuttavia l'orecchie attente, -s'ancora venir la bella donna sente. -Ad ogni piccol moto ch'egli udiva, -sperando che fosse ella, il capo alzava: -sentir credeasi, e spesso non sentiva; -poi del suo errore accorto sospirava. -Talvolta uscia del letto e l'uscio apriva, -guatava fuori, e nulla vi trovava: -e maledì ben mille volte l'ora -che facea al trapassar tanta dimora. -Tra sé dicea sovente: — Or si parte ella; — -e cominciava a noverare i passi -ch'esser potean da la sua stanza a quella -donde aspettando sta che Alcina passi; -e questi ed altri, prima che la bella -donna vi sia, vani disegni fassi. -Teme di qualche impedimento spesso, -che tra il frutto e la man non gli sia messo. -Alcina, poi ch'a' preziosi odori -dopo gran spazio pose alcuna meta, -venuto il tempo che più non dimori, -ormai ch'in casa era ogni cosa cheta, -de la camera sua sola uscì fuori; -e tacita n'andò per via secreta -dove a Ruggiero avean timore e speme -gran pezzo intorno al cor pugnato insieme. -Come si vide il successor d'Astolfo -sopra apparir quelle ridenti stelle, -come abbia ne le vene acceso zolfo, -non par che capir possa ne la pelle. -Or sino agli occhi ben nuota nel golfo -de le delizie e de le cose belle: -salta del letto, e in braccio la raccoglie, -né può tanto aspettar ch'ella si spoglie; -ben che né gonna né faldiglia avesse; -che venne avolta in un leggier zendado -che sopra una camicia ella si messe, -bianca e suttil nel più eccellente grado. -Come Ruggiero abbracciò lei, gli cesse -il manto: e restò il vel suttile e rado, -che non copria dinanzi né di dietro, -più che le rose o i gigli un chiaro vetro. -Non così strettamente edera preme -pianta ove intorno abbarbicata s'abbia, -come si stringon li dui amanti insieme, -cogliendo de lo spirto in su le labbia -suave fior, qual non produce seme -indo o sabeo ne l'odorata sabbia. -Del gran piacer ch'avean, lor dicer tocca; -che spesso avean più d'una lingua in bocca. -Queste cose là dentro eran secrete, -o se pur non secrete, almen taciute; -che raro fu tener le labra chete -biasmo ad alcun, ma ben spesso virtute. -Tutte proferte ed accoglienze liete -fanno a Ruggier quelle persone astute: -ognun lo reverisce e se gli inchina; -che così vuol l'innamorata Alcina. -Non è diletto alcun che di fuor reste; -che tutti son ne l'amorosa stanza. -E due e tre volte il dì mutano veste, -fatte or ad una ora ad un'altra usanza. -Spesso in conviti, e sempre stanno in feste, -in giostre, in lotte, in scene, in bagno, in danza: -or presso ai fonti, all'ombre de' poggetti, -leggon d'antiqui gli amorosi detti; -or per l'ombrose valli e lieti colli -vanno cacciando le paurose lepri; -or con sagaci cani i fagian folli -con strepito uscir fan di stoppie e vepri; -or a' tordi lacciuoli, or veschi molli -tendon tra gli odoriferi ginepri; -or con ami inescati ed or con reti -turban a' pesci i grati lor secreti. -Stava Ruggiero in tanta gioia e festa, -mentre Carlo in travaglio ed Agramante, -di cui l'istoria io non vorrei per questa -porre in oblio, né lasciar Bradamante, -che con travaglio e con pena molesta -pianse più giorni il disiato amante, -ch'avea per strade disusate e nuove -veduto portar via, né sapea dove. -Di costei prima che degli altri dico, -che molti giorni andò cercando invano -pei boschi ombrosi e per lo campo aprico, -per ville, per città, per monte e piano; -né mai potè saper del caro amico, -che di tanto intervallo era lontano. -Ne l'oste saracin spesso venìa, -né mai del suo Ruggier ritrovò spia. -Ogni dì ne domanda a più di cento, -né alcun le ne sa mai render ragioni. -D'alloggiamento va in alloggiamento, -cercandone e trabacche e padiglioni: -e lo può far; che senza impedimento -passa tra cavallieri e tra pedoni, -mercè all'annel che fuor d'ogni uman uso -la fa sparir quando l'è in bocca chiuso. -Né può né creder vuol che morto sia; -perché di sì grande uom l'alta ruina -da l'onde idaspe udita si saria -fin dove il sole a riposar declina. -Non sa né dir né imaginar che via -far possa o in cielo o in terra; e pur meschina -lo va cercando, e per compagni mena -sospiri e pianti ed ogni acerba pena. -Pensò al fin di tornare alla spelonca -dove eran l'ossa di Merlin profeta, -e gridar tanto intorno a quella conca, -che 'l freddo marmo si movesse a pieta; -che se vivea Ruggiero, o gli avea tronca -l'alta necessità la vita lieta, -si sapria quindi: e poi s'appiglierebbe -a quel miglior consiglio che n'avrebbe. -Con questa intenzion prese il camino -verso le selve prossime a Pontiero, -dove la vocal tomba di Merlino -era nascosa in loco alpestro e fiero. -Ma quella maga che sempre vicino -tenuto a Bradamante avea il pensiero, -quella, dico io, che ne la bella grotta -l'avea de la sua stirpe istrutta e dotta; -quella benigna e saggia incantatrice, -la quale ha sempre cura di costei, -sappiendo ch'esser de' progenitrice -d'uomini invitti, anzi di semidei; -ciascun dì vuol sapere che fa, che dice, -e getta ciascun dì sorte per lei. -Di Ruggier liberato e poi perduto, -e dove in India andò, tutto ha saputo. -Ben veduto l'avea su quel cavallo -che regger non potea, ch'era sfrenato, -scostarsi di lunghissimo intervallo -per sentier periglioso e non usato; -e ben sapea che stava in giuoco e in ballo -e in cibo e in ozio molle e delicato, -né più memoria avea del suo signore, -né de la donna sua, né del suo onore. -E così il fior de li begli anni suoi -in lunga inerzia aver potria consunto -sì gentil cavallier, per dover poi -perdere il corpo e l'anima in un punto; -e quel odor che sol riman di noi, -poscia che 'l resto fragile è defunto, -che tra' l'uom del sepulcro e in vita il serba, -gli saria stato o tronco o svelto in erba. -Ma quella gentil maga, che più cura -n'avea ch'egli medesmo di se stesso, -pensò di trarlo per via alpestre e dura -alla vera virtù, mal grado d'esso: -come eccellente medico, che cura -con ferro e fuoco e con veneno spesso, -che se ben molto da principio offende, -poi giova al fine, e grazia se gli rende. -Ella non gli era facile, e talmente -fattane cieca di superchio amore, -che, come facea Atlante, solamente -a darli vita avesse posto il core. -Quel più tosto volea che lungamente -vivesse e senza fama e senza onore, -che, con tutta la laude che sia al mondo, -mancasse un anno al suo viver giocondo. -L'avea mandato all'isola d'Alcina, -perché obliasse l'arme in quella corte; -e come mago di somma dottrina, -ch'usar sapea gl'incanti d'ogni sorte, -avea il cor stretto di quella regina -ne l'amor d'esso d'un laccio sì forte, -che non se ne era mai per poter sciorre, -s'invecchiasse Ruggier più di Nestorre. -Or tornando a colei, ch'era presaga -di quanto de' avvenir, dico che tenne -la dritta via dove l'errante e vaga -figlia d'Amon seco a incontrar si venne. -Bradamante vedendo la sua maga, -muta la pena che prima sostenne, -tutta in speranza; e quella l'apre il vero: -ch'ad Alcina è condotto il suo Ruggiero. -La giovane riman presso che morta, -quando ode che 'l suo amante è così lunge; -e più, che nel suo amor periglio porta, -se gran rimedio e subito non giunge: -ma la benigna maga la conforta, -e presta pon l'impiastro ove il duol punge, -e le promette e giura, in pochi giorni -far che Ruggiero a riveder lei torni. -— Da che, donna (dicea), l'annello hai teco, -che val contra ogni magica fattura, -io non ho dubbio alcun, che s'io l'arreco -là dove Alcina ogni tuo ben ti fura, -ch'io non le rompa il suo disegno, e meco -non ti rimeni la tua dolce cura. -Me n'andrò questa sera alla prim'ora, -e sarò in India al nascer de l'aurora. — -E seguitando, del modo narrolle -che disegnato avea d'adoperarlo, -per trar del regno effeminato e molle -il caro amante, e in Francia rimenarlo. -Bradamante l'annel del dito tolle; -né solamente avria voluto darlo, -ma dato il core e dato avria la vita, -pur che n'avesse il suo Ruggiero aita. -Le dà l'annello e se le raccomanda; -e più le raccomanda il suo Ruggiero, -a cui per lei mille saluti manda: -poi prese vêr Provenza altro sentiero. -Andò l'incantatrice a un'altra banda; -e per porre in effetto il suo pensiero, -un palafren fece apparir la sera, -ch'avea un piè rosso, e ogn'altra parte nera. -Credo fosse un Alchino o un Farfarello, -che da l'Inferno in quella forma trasse; -e scinta e scalza montò sopra a quello, -a chiome sciolte e orribilmente passe: -ma ben di dito si levò l'annello, -perché gl'incanti suoi non le vietasse. -Poi con tal fretta andò, che la matina -si ritrovò ne l'isola d'Alcina. -Quivi mirabilmente transmutosse: -s'accrebbe più d'un palmo di statura, -e fe' le membra a proporzion più grosse; -e restò a punto di quella misura -che si pensò che 'l negromante fosse, -quel che nutrì Ruggier con sì gran cura. -Vestì di lunga barba le mascelle, -e fe' crespa la fronte e l'altra pelle. -Di faccia, di parole e di sembiante -sì lo seppe imitar, che totalmente -potea parer l'incantator Atlante. -Poi si nascose, e tanto pose mente, -che da Ruggiero allontanar l'amante -Alcina vide un giorno finalmente: -e fu gran sorte; che di stare o d'ire -senza esso un'ora potea mal patire. -Soletto lo trovò, come lo volle, -che si godea il matin fresco e sereno -lungo un bel rio che discorrea d'un colle -verso un laghetto limpido ed ameno. -Il suo vestir delizioso e molle -tutto era d'ozio e di lascivia pieno, -che de sua man gli avea di seta e d'oro -tessuto Alcina con sottil lavoro. -Di ricche gemme un splendido monile -gli discendea dal collo in mezzo il petto; -e ne l'uno e ne l'altro già virile -braccio girava un lucido cerchietto. -Gli avea forato un fil d'oro sottile -ambe l'orecchie, in forma d'annelletto; -e due gran perle pendevano quindi, -qua' mai non ebbon gli Arabi né gl'Indi. -Umide avea l'innanellate chiome -de' più suavi odor che sieno in prezzo: -tutto ne' gesti era amoroso, come -fosse in Valenza a servir donne avezzo: -non era in lui di sano altro che 'l nome; -corrotto tutto il resto, e più che mézzo. -Così Ruggier fu ritrovato, tanto -da l'esser suo mutato per incanto. -Ne la forma d'Atlante se gli affaccia -colei, che la sembianza ne tenea, -con quella grave e venerabil faccia -che Ruggier sempre riverir solea, -con quello occhio pien d'ira e di minaccia, -che sì temuto già fanciullo avea; -dicendo: — È questo dunque il frutto ch'io -lungamente atteso ho del sudor mio? -Di medolle già d'orsi e di leoni -ti porsi io dunque li primi alimenti; -t'ho per caverne ed orridi burroni -fanciullo avezzo a strangolar serpenti, -pantere e tigri disarmar d'ungioni -ed a vivi cingial trar spesso i denti, -acciò che, dopo tanta disciplina, -tu sii l'Adone o l'Atide d'Alcina? -È questo, quel che l'osservate stelle, -le sacre fibre e gli accoppiati punti, -responsi, auguri, sogni e tutte quelle -sorti, ove ho troppo i miei studi consunti, -di te promesso sin da le mammelle -m'avean, come quest'anni fusser giunti: -ch'in arme l'opre tue così preclare -esser dovean, che sarian senza pare? -Questo è ben veramente alto principio -onde si può sperar che tu sia presto -a farti un Alessandro, un Iulio, un Scipio! -Chi potea, ohimè! di te mai creder questo, -che ti facessi d'Alcina mancipio? -E perché ognun lo veggia manifesto, -al collo ed alle braccia hai la catena -con che ella a voglia sua preso ti mena. -Se non ti muovon le tue proprie laudi, -e l'opre eccelse a chi t'ha il cielo eletto, -la tua succession perché defraudi -del ben che mille volte io t'ho predetto? -deh, perché il ventre eternamente claudi, -dove il ciel vuol che sia per te concetto -la gloriosa e soprumana prole -ch'esser de' al mondo più chiara che 'l sole? -Deh non vietar che le più nobil alme, -che sian formate ne l'eterne idee, -di tempo in tempo abbian corporee salme -dal ceppo che radice in te aver dee! -Deh non vietar mille trionfi e palme, -con che, dopo aspri danni e piaghe ree, -tuoi figli, tuoi nipoti e successori -Italia torneran nei primi onori! -Non ch'a piegarti a questo tante e tante -anime belle aver dovesson pondo, -che chiare, illustri, inclite, invitte e sante -son per fiorir da l'arbor tuo fecondo; -ma ti dovria una coppia esser bastante: -Ippolito e il fratel; che pochi il mondo -ha tali avuti ancor fin al dì d'oggi, -per tutti i gradi onde a virtù si poggi. -Io solea più di questi dui narrarti, -ch'io non facea di tutti gli altri insieme; -sì perché essi terran le maggior parti, -che gli altri tuoi, ne le virtù supreme; -sì perché al dir di lor mi vedea darti -più attenzion, che d'altri del tuo seme: -vedea goderti che sì chiari eroi -esser dovessen dei nipoti tuoi. -Che ha costei che t'hai fatto regina, -che non abbian mill'altre meretrici? -costei che di tant'altri è concubina, -ch'al fin sai ben s'ella suol far felici. -Ma perché tu conosca chi sia Alcina, -levatone le fraudi e gli artifici, -tien questo annello in dito, e torna ad ella, -ch'aveder ti potrai come sia bella. — -Ruggier si stava vergognoso e muto -mirando in terra, e mal sapea che dire; -a cui la maga nel dito minuto -pose l'annello, e lo fe' risentire. -Come Ruggiero in sé fu rivenuto, -di tanto scorno si vide assalire, -ch'esser vorria sotterra mille braccia, -ch'alcun veder non lo potesse in faccia. -Ne la sua prima forma in uno istante, -così parlando, la maga rivenne; -né bisognava più quella d'Atlante, -seguitone l'effetto per che venne. -Per dirvi quel ch'io non vi dissi inante, -costei Melissa nominata venne, -ch'or diè a Ruggier di sé notizia vera, -e dissegli a che effetto venuta era; -mandata da colei, che d'amor piena -sempre il disia, né più può starne senza, -per liberarlo da quella catena -di che lo cinse magica violenza: -e preso avea d'Atlante di Carena -la forma, per trovar meglio credenza. -Ma poi ch'a sanità l'ha ormai ridutto, -gli vuole aprire e far che veggia il tutto. -— Quella donna gentil che t'ama tanto, -quella che del tuo amor degna sarebbe, -a cui, se non ti scorda, tu sai quanto -tua libertà, da lei servata, debbe; -questo annel che ripara ad ogni incanto, -ti manda: e così il cor mandato avrebbe, -s'avesse avuto il cor così virtute, -come l'annello, atta alla tua salute. — -E seguitò narrandogli l'amore -che Bradamante gli ha portato e porta; -di questa insieme comendò il valore, -in quanto il vero e l'affezion comporta; -ed usò modo e termine migliore -che si convenga a messaggera accorta: -ed in quel odio Alcina a Ruggier pose, -in che soglionsi aver l'orribil cose. -In odio gli la pose, ancor che tanto -l'amasse dianzi: e non vi paia strano, -quando il suo amor per forza era d'incanto, -ch'essendovi l'annel, rimase vano. -Fece l'annel palese ancor, che quanto -di beltà Alcina avea, tutto era estrano: -estrano avea, e non suo, dal piè alla treccia; -il bel ne sparve, e le restò la feccia. -Come fanciullo che maturo frutto -ripone, e poi si scorda ove è riposto, -e dopo molti giorni è ricondutto -là dove truova a caso il suo deposto, -si maraviglia di vederlo tutto -putrido e guasto, e non come fu posto; -e dove amarlo e caro aver solia, -l'odia, sprezza, n'ha schivo, e getta via: -così Ruggier, poi che Melissa fece -ch'a riveder se ne tornò la fata -con quell'annello inanzi a cui non lece, -quando s'ha in dito, usare opra incantata, -ritruova, contra ogni sua stima, invece -de la bella, che dianzi avea lasciata, -donna sì laida, che la terra tutta -né la più vecchia avea né la più brutta. -Pallido, crespo e macilente avea -Alcina il viso, il crin raro e canuto, -sua statura a sei palmi non giungea: -ogni dente di bocca era caduto; -che più d'Ecuba e più de la Cumea, -ed avea più d'ogn'altra mai vivuto. -Ma sì l'arti usa al nostro tempo ignote, -che bella e giovanetta parer puote. -Giovane e bella ella si fa con arte, -sì che molti ingannò come Ruggiero; -ma l'annel venne a interpretar le carte -che già molti anni avean celato il vero. -Miracol non è dunque, se si parte -de l'animo a Ruggier ogni pensiero -ch'avea d'amare Alcina, or che la truova -in guisa, che sua fraude non le giova. -Ma come l'avisò Melissa, stette -senza mutare il solito sembiante, -fin che l'arme sue, più dì neglette, -si fu vestito dal capo alle piante; -e per non farle ad Alcina suspette, -finse provar s'in esse era aiutante, -finse provar se gli era fatto grosso, -dopo alcun dì che non l'ha avute indosso. -E Balisarda poi si messe al fianco -(che così nome la sua spada avea); -e lo scudo mirabile tolse anco, -che non pur gli occhi abbarbagliar solea, -ma l'anima facea sì venir manco, -che dal corpo esalata esser parea. -Lo tolse, e col zendado in che trovollo, -che tutto lo copria, sel messe al collo. -Venne alla stalla, e fece briglia e sella -porre a un destrier più che la pece nero: -così Melissa l'avea istrutto; ch'ella -sapea quanto nel corso era leggiero. -Chi lo conosce, Rabican l'appella; -ed è quel proprio che col cavalliero -del quale i venti or presso al mar fan gioco, -portò già la balena in questo loco. -Potea aver l'ippogrifo similmente, -che presso a Rabicano era legato; -ma gli avea detto la maga: — Abbi mente, -ch'egli è (come tu sai) troppo sfrenato. — -E gli diede intenzion che 'l dì seguente -gli lo trarrebbe fuor di quello stato, -là dove ad agio poi sarebbe istrutto -come frenarlo e farlo gir per tutto. -Né sospetto darà, se non lo tolle, -de la tacita fuga ch'apparecchia. -Fece Ruggier come Melissa volle, -ch'invisibile ognor gli era all'orecchia. -Così fingendo, del lascivo e molle -palazzo uscì de la puttana vecchia; -e si venne accostando ad una porta, -donde è la via ch'a Logistilla il porta. -Assaltò li guardiani all'improviso, -e si cacciò tra lor col ferro in mano, -e qual lasciò ferito, e quale ucciso; -e corse fuor del ponte a mano a mano: -e prima che n'avesse Alcina aviso, -di molto spazio fu Ruggier lontano. -Dirò ne l'altro canto che via tenne; -poi come a Logistilla se ne venne. Oh quante sono incantatrici, oh quanti -incantator tra noi, che non si sanno! -che con lor arti uomini e donne amanti -di sé, cangiando i visi lor, fatto hanno. -Non con spirti costretti tali incanti, -né con osservazion di stelle fanno; -ma con simulazion, menzogne e frodi -legano i cor d'indissolubil nodi. -Chi l'annello d'Angelica, o più tosto -chi avesse quel de la ragion, potria -veder a tutti il viso, che nascosto -da finzione e d'arte non saria. -Tal ci par bello e buono, che, deposto -il liscio, brutto e rio forse parria. -Fu gran ventura quella di Ruggiero, -ch'ebbe l'annel che gli scoperse il vero. -Ruggier (come io dicea) dissimulando, -su Rabican venne alla porta armato: -trovò le guardie sprovedute, e quando -giunse tra lor, non tenne il brando a lato. -Chi morto e chi a mal termine lasciando, -esce del ponte, e il rastrello ha spezzato: -prende al bosco la via; ma poco corre, -ch'ad un de' servi de la fata occorre. -Il servo in pugno avea un augel grifagno -che volar con piacer facea ogni giorno, -ora a campagna, ora a un vicino stagno, -dove era sempre da far preda intorno: -avea da lato il can fido compagno: -cavalcava un ronzin non troppo adorno. -Ben pensò che Ruggier dovea fuggire, -quando lo vide in tal fretta venire. -Se gli fe' incontra, e con sembiante altiero -gli domandò perché in tal fretta gisse. -Risponder non gli volse il buon Ruggiero: -perciò colui, più certo che fuggisse, -di volerlo arrestar fece pensiero; -e distendendo il braccio manco, disse: -— Che dirai tu, se subito ti fermo? -se contra questo augel non avrai schermo? — -Spinge l'augello: e quel batte sì l'ale, -che non l'avanza Rabican di corso. -Del palafreno il cacciator giù sale, -e tutto a un tempo gli ha levato il morso. -Quel par da l'arco uno aventato strale, -di calci formidabile e di morso; -e 'l servo dietro sì veloce viene, -che par ch'il vento, anzi che il fuoco il mene. -Non vuol parere il can d'esser più tardo; -ma segue Rabican con quella fretta -con che le lepri suol seguire il pardo. -Vergogna a Ruggier par, se non aspetta. -Voltasi a quel che vien sì a piè gagliardo; -né gli vede arme, fuor ch'una bacchetta, -quella con che ubidire al cane insegna: -Ruggier di trar la spada si disdegna. -Quel se gli appressa, e forte lo percuote: -lo morde a un tempo il can nel piede manco. -Lo sfrenato destrier la groppa scuote -tre volte e più, né falla il destro fianco. -Gira l'augello e gli fa mille ruote, -e con l'ugna sovente il ferisce anco: -sì il destrier collo strido impaurisce, -ch'alla mano e allo spron poco ubidisce. -Ruggiero, al fin costretto, il ferro caccia: -e perché tal molestia se ne vada, -or gli animali, or quel villan minaccia -col taglio e con la punta de la spada. -Quella importuna turba più l'impaccia: -presa ha chi qua chi là tutta la strada. -Vede Ruggiero il disonore e il danno -che gli avverrà, se più tardar lo fanno. -Sa ch'ogni poco più ch'ivi rimane, -Alcina avrà col populo alle spalle: -di trombe, di tamburi e di campane -già s'ode alto rumore in ogni valle. -Contra un servo senza arme e contra un cane -gli par ch'a usar la spada troppo falle: -meglio e più breve è dunque che gli scopra -lo scudo che d'Atlante era stato opra. -Levò il drappo vermiglio in che coperto -già molti giorni lo scudo si tenne. -Fece l'effetto mille volte esperto -il lume, ove a ferir negli occhi venne: -resta dai sensi il cacciator deserto, -cade il cane e il ronzin, cadon le penne, -ch'in aria sostener l'augel non ponno. -Lieto Ruggier li lascia in preda al sonno. -Alcina, ch'avea intanto avuto aviso -di Ruggier, che sforzato avea la porta, -e de la guardia buon numero ucciso, -fu, vinta dal dolor, per restar morta. -Squarciossi i panni e si percosse il viso, -e sciocca nominossi e malaccorta; -e fece dar all'arme immantinente, -e intorno a sé raccor tutta sua gente. -E poi ne fa due parti, e manda l'una -per quella strada ove Ruggier camina; -al porto l'altra subito raguna, -imbarca, ed uscir fa ne la marina: -sotto le vele aperte il mar s'imbruna. -Con questi va la disperata Alcina, -che 'l desiderio di Ruggier sì rode, -che lascia sua città senza custode. -Non lascia alcuno a guardia del palagio: -il che a Melissa che stava alla posta -per liberar di quel regno malvagio -la gente ch'in miseria v'era posta, -diede commodità, diede grande agio -di gir cercando ogni cosa a sua posta, -imagini abbruciar, suggelli torre, -e nodi e rombi e turbini disciorre. -Indi pei campi accelerando i passi, -gli antiqui amanti, ch'erano in gran torma -conversi in fonti, in fere, in legni, in sassi, -fe' ritornar ne la lor prima forma. -E quei, poi ch'allargati furo i passi, -tutti del buon Ruggier seguiron l'orma: -a Logistilla si salvaro; ed indi -tornaro a Sciti, a Persi, a Greci, ad Indi. -Li rimandò Melissa in lor paesi, -con obligo di mai non esser sciolto. -Fu inanzi agli altri il duca degl'Inglesi -ad esser ritornato in uman volto; -che 'l parentado in questo e li cortesi -prieghi del buon Ruggier gli giovar molto: -oltre i prieghi, Ruggier le diè l'annello, -acciò meglio potesse aiutar quello. -A' prieghi dunque di Ruggier, rifatto -fu 'l paladin ne la sua prima faccia. -Nulla pare a Melissa d'aver fatto, -quando ricovrar l'arme non gli faccia, -e quella lancia d'or, ch'al primo tratto -quanti ne tocca de la sella caccia: -de l'Argalia, poi fu d'Astolfo lancia, -e molto onor fe' all'uno e a l'altro in Francia. -Trovò Melissa questa lancia d'oro, -ch'Alcina avea reposta nel palagio, -e tutte l'arme che del duca foro, -e gli fur tolte ne l'ostel malvagio. -Montò il destrier del negromante moro, -e fe' montar Astolfo in groppa ad agio; -e quindi a Logistilla si condusse -d'un'ora prima che Ruggier vi fusse. -Tra duri sassi e folte spine gìa -Ruggiero intanto invêr la fata saggia, -di balzo in balzo, e d'una in altra via -aspra, solinga, inospita e selvaggia; -tanto ch'a gran fatica riuscia -su la fervida nona in una spiaggia -tra 'l mare e 'l monte, al mezzodì scoperta, -arsiccia, nuda, sterile e deserta. -Percuote il sole ardente il vicin colle; -e del calor che si riflette a dietro, -in modo l'aria e l'arena ne bolle, -che saria troppo a far liquido il vetro. -Stassi cheto ogni augello all'ombra molle: -sol la cicala col noioso metro -fra i densi rami del fronzuto stelo -le valli e i monti assorda, e il mare e il cielo. -Quivi il caldo, la sete, e la fatica -ch'era di gir per quella via arenosa, -facean, lungo la spiaggia erma ed aprica, -a Ruggier compagnia grave e noiosa. -Ma perché non convien che sempre io dica, -né ch'io vi occupi sempre in una cosa, -io lascerò Ruggiero in questo caldo, -e girò in Scozia a ritrovar Rinaldo. -Era Rinaldo molto ben veduto -dal re, da la figliuola e dal paese. -Poi la cagion che quivi era venuto, -più ad agio il paladin fece palese: -ch'in nome del suo re chiedeva aiuto -e dal regno di Scozia e da l'Inglese; -ed ai preghi soggiunse anco di Carlo, -giustissime cagion di dover farlo. -Dal re, senza indugiar, gli fu risposto, -che di quanto sua forza s'estendea, -per utile ed onor sempre disposto -di Carlo e de l'Imperio esser volea; -e che fra pochi dì gli avrebbe posto -più cavallieri in punto che potea; -e se non ch'esso era oggimai pur vecchio, -capitano verria del suo apparecchio. -Né tal rispetto ancor gli parria degno -di farlo rimaner, se non avesse -il figlio, che di forza, e più d'ingegno, -dignissimo era a chi'l governo desse, -ben che non si trovasse allor nel regno; -ma che sperava che venir dovesse -mentre ch'insieme aduneria lo stuolo; -e ch'adunato il troveria il figliuolo. -Così mandò per tutta la sua terra -suoi tesorieri a far cavalli e gente; -navi apparecchia e munizion da guerra, -vettovaglia e danar maturamente. -Venne intanto Rinaldo in Inghilterra, -e 'l re nel suo partir cortesemente -insino a Beroicche accompagnollo; -e visto pianger fu quando lasciollo. -Spirando il vento prospero alla poppa, -monta Rinaldo, ed a Dio dice a tutti: -la fune indi al viaggio il nocchier sgroppa; -tanto che giunge ove nei salsi flutti -il bel Tamigi amareggiando intoppa. -Col gran flusso del mar quindi condutti -i naviganti per camin sicuro -a vela e remi insino a Londra furo. -Rinaldo avea da Carlo e dal re Otone, -che con Carlo in Parigi era assediato, -al principe di Vallia commissione -per contrasegni e lettere portato, -che ciò che potea far la regione -di fanti e di cavalli in ogni lato, -tutto debba a Calesio traghittarlo, -sì che aiutar si possa Francia e Carlo. -Il principe ch'io dico, ch'era, in vece -d'Oton, rimaso nel seggio reale, -a Rinaldo d'Amon tanto onor fece, -che non l'avrebbe al suo re fatto uguale: -indi alle sue domande satisfece; -perché a tutta la gente marziale -e di Bretagna e de l'isole intorno -di ritrovarsi al mar prefisse il giorno. -Signor, far mi convien come fa il buono -sonator sopra il suo istrumento arguto, -che spesso muta corda, e varia suono, -ricercando ora il grave, ora l'acuto. -Mentre a dir di Rinaldo attento sono, -d'Angelica gentil m'è sovenuto, -di che lasciai ch'era da lui fuggita, -e ch'avea riscontrato uno eremita. -Alquanto la sua istoria io vo' seguire. -Dissi che domandava con gran cura, -come potesse alla marina gire; -che di Rinaldo avea tanta paura, -che, non passando il mar, credea morire, -né in tutta Europa si tenea sicura: -ma l'eremita a bada la tenea, -perché di star con lei piacere avea. -Quella rara bellezza il cor gli accese, -e gli scaldò le frigide medolle: -ma poi che vide che poco gli attese, -e ch'oltra soggiornar seco non volle, -di cento punte l'asinello offese; -né di sua tardità però lo tolle: -e poco va di passo e men di trotto, -né stender gli si vuol la bestia sotto. -E perché molto dilungata s'era, -e poco più, n'avria perduta l'orma, -ricorse il frate alla spelonca nera, -e di demoni uscir fece una torma: -e ne sceglie uno di tutta la schiera, -e del bisogno suo prima l'informa; -poi lo fa entrare adosso al corridore, -che via gli porta con la donna il core. -E qual sagace can, nel monte usato -a volpi o lepri dar spesso la caccia, -che se la fera andar vede da un lato, -ne va da un altro, e par sprezzi la traccia; -al varco poi lo sentono arrivato, -che l'ha già in bocca, e l'apre il fianco e straccia: -tal l'eremita per diversa strada -aggiugnerà la donna ovunque vada. -Che sia il disegno suo, ben io comprendo: -e dirollo anco a voi, ma in altro loco. -Angelica di ciò nulla temendo, -cavalcava a giornate, or molto or poco. -Nel cavallo il demon si gìa coprendo, -come si cuopre alcuna volta il fuoco, -che con sì grave incendio poscia avampa, -che non si estingue, e a pena se ne scampa. -Poi che la donna preso ebbe il sentiero -dietro il gran mar che li Guasconi lava, -tenendo appresso all'onde il suo destriero, -dove l'umor la via più ferma dava; -quel le fu tratto dal demonio fiero -ne l'acqua sì, che dentro vi nuotava. -Non sa che far la timida donzella, -se non tenersi ferma in su la sella. -Per tirar briglia, non gli può dar volta: -più e più sempre quel si caccia in alto. -Ella tenea la vesta in su raccolta -per non bagnarla, e traea i piedi in alto. -Per le spalle la chioma iva disciolta, -e l'aura le facea lascivo assalto. -Stavano cheti tutti i maggior venti, -forse a tanta beltà, col mare, attenti. -Ella volgea i begli occhi a terra invano, -che bagnavan di pianto il viso e 'l seno, -e vedea il lito andar sempre lontano -e decrescer più sempre e venir meno. -Il destrier, che nuotava a destra mano, -dopo un gran giro la portò al terreno -tra scuri sassi e spaventose grotte, -già cominciando ad oscurar la notte. -Quando si vide sola in quel deserto, -che a riguardarlo sol, mettea paura, -ne l'ora che nel mar Febo coperto -l'aria e la terra avea lasciata oscura, -fermossi in atto ch'avria fatto incerto -chiunque avesse vista sua figura, -s'ella era donna sensitiva e vera, -o sasso colorito in tal maniera. -Stupida e fissa ne la incerta sabbia, -coi capelli disciolti e rabuffati, -con le man giunte e con l'immote labbia, -i languidi occhi al ciel tenea levati, -come accusando il gran Motor che l'abbia -tutti inclinati nel suo danno i fati. -Immota e come attonita stè alquanto; -poi sciolse al duol la lingua, e gli occhi al pianto. -Dicea: — Fortuna, che più a far ti resta -acciò di me ti sazi e ti disfami? -che dar ti posso omai più, se non questa -misera vita? ma tu non la brami; -ch'ora a trarla del mar sei stata presta, -quando potea finir suoi giorni grami: -perché ti parve di voler più ancora -vedermi tormentar prima ch'io muora. -Ma che mi possi nuocere non veggio, -più di quel che sin qui nociuto m'hai. -Per te cacciata son del real seggio, -dove più ritornar non spero mai: -ho perduto l'onor, ch'è stato peggio; -che, se ben con effetto io non peccai, -io do però materia ch'ognun dica, -ch'essendo vagabonda, io sia impudica. -Ch'aver può donna al mondo più di buono, -a cui la castità levata sia? -Mi nuoce, ahimè! ch'io son giovane, e sono -tenuta bella, o sia vero o bugia. -Già non ringrazio il ciel di questo dono; -che di qui nasce ogni ruina mia: -morto per questo fu Argalia mio frate, -che poco gli giovar l'arme incantate: -per questo il re di Tartaria Agricane -disfece il genitor mio Galafrone, -ch'in India, del Cataio era gran Cane; -onde io son giunta a tal condizione, -che muto albergo da sera a dimane. -Se l'aver, se l'onor, se le persone -m'hai tolto, e fatto il mal che far mi puoi, -a che più doglia anco serbar mi vuoi? -Se l'affogarmi in mar morte non era -a tuo senno crudel, pur ch'io ti sazi, -non recuso che mandi alcuna fera -che mi divori, e non mi tenga in strazi. -D'ogni martir che sia, pur ch'io ne pera, -esser non può ch'assai non ti ringrazi. — -Così dicea la donna con gran pianto, -quando le apparve l'eremita accanto. -Avea mirato da l'estrema cima -d'un rilevato sasso l'eremita -Angelica, che giunta alla parte ima -è dello scoglio, afflitta e sbigottita. -Era sei giorni egli venuto prima; -ch'un demonio il portò per via non trita: -e venne a lei fingendo divozione -quanta avesse mai Paulo o Ilarione. -Come la donna il cominciò a vedere, -prese, non conoscendolo, conforto; -e cessò a poco a poco il suo temere, -ben che ella avesse ancora il viso smorto. -Come fu presso, disse: — Miserere, -padre, di me, ch'i' son giunta a mal porto. — -E con voce interrotta dal singulto -gli disse quel ch'a lui non era occulto. -Comincia l'eremita a confortarla -con alquante ragion belle e divote; -e pon l'audaci man, mentre che parla, -or per lo seno, or per l'umide gote: -poi più sicuro va per abbracciarla; -ed ella sdegnosetta lo percuote -con una man nel petto, e lo rispinge, -e d'onesto rossor tutta si tinge. -Egli, ch'allato avea una tasca, aprilla, -e trassene una ampolla di liquore; -e negli occhi possenti, onde sfavilla -la più cocente face ch'abbia Amore, -spruzzò di quel leggiermente una stilla, -che di farla dormire ebbe valore. -Già resupina ne l'arena giace -a tutte voglie del vecchio rapace. -Egli l'abbraccia ed a piacer la tocca -ed ella dorme e non può fare ischermo. -Or le bacia il bel petto, ora la bocca; -non è chi 'l veggia in quel loco aspro ed ermo. -Ma ne l'incontro il suo destrier trabocca; -ch'al disio non risponde il corpo infermo: -era mal atto, perché avea troppi anni; -e potrà peggio, quanto più l'affanni. -Tutte le vie, tutti li modi tenta, -ma quel pigro rozzon non però salta. -Indarno il fren gli scuote, e lo tormenta; -e non può far che tenga la testa alta. -Al fin presso alla donna s'addormenta; -e nuova altra sciagura anco l'assalta: -non comincia Fortuna mai per poco, -quando un mortal si piglia a scherno e a gioco. -Bisogna, prima ch'io vi narri il caso, -ch'un poco dal sentier dritto mi torca. -Nel mar di tramontana invêr l'occaso, -oltre l'Irlanda una isola si corca, -Ebuda nominata; ove è rimaso -il popul raro, poi che la brutta orca -e l'altro marin gregge la distrusse, -ch'in sua vendetta Proteo vi condusse. -Narran l'antique istorie, o vere o false, -che tenne già quel luogo un re possente, -ch'ebbe una figlia, in cui bellezza valse -e grazia sì, che poté facilmente, -poi che mostrossi in su l'arene salse, -Proteo lasciare in mezzo l'acque ardente; -e quello, un dì che sola ritrovolla, -compresse, e di sé gravida lasciolla. -La cosa fu gravissima e molesta -al padre, più d'ogn'altro empio e severo: -né per iscusa o per pietà, la testa -le perdonò: sì può lo sdegno fiero. -Né per vederla gravida, si resta -di subito esequire il crudo impero: -e 'l nipotin che non avea peccato, -prima fece morir che fosse nato. -Proteo marin, che pasce il fiero armento -di Nettunno che l'onda tutta regge, -sente de la sua donna aspro tormento, -e per grand'ira, rompe ordine e legge; -sì che a mandare in terra non è lento -l'orche e le foche, e tutto il marin gregge, -che distruggon non sol pecore e buoi, -ma ville e borghi e li cultori suoi: -e spesso vanno alle città murate, -e d'ogn'intorno lor mettono assedio. -Notte e dì stanno le persone armate, -con gran timore e dispiacevol tedio: -tutte hanno le campagne abbandonate; -e per trovarvi al fin qualche rimedio, -andarsi a consigliar di queste cose -all'oracol, che lor così rispose: -che trovar bisognava una donzella -che fosse all'altra di bellezza pare, -ed a Proteo sdegnato offerir quella, -in cambio de la morta, in lito al mare. -S'a sua satisfazion gli parrà bella, -se la terrà, né li verrà a sturbare: -se per questo non sta, se gli appresenti -una ed un'altra, fin che si contenti. -E così cominciò la dura sorte -tra quelle che più grate eran di faccia, -ch'a Proteo ciascun giorno una si porte, -fin che trovino donna che gli piaccia. -La prima e tutte l'altre ebbero morte; -che tutte giù pel ventre se le caccia -un'orca, che restò presso alla foce, -poi che 'l resto partì del gregge atroce. -O vera o falsa che fosse la cosa -di Proteo (ch'io non so che me ne dica), -servosse in quella terra, con tal chiosa, -contra le donne un'empia lege antica: -che di lor carne l'orca mostruosa -che viene ogni dì al lito, si notrica. -Ben ch'esser donna sia in tutte le bande -danno e sciagura, quivi era pur grande. -Oh misere donzelle che trasporte -fortuna ingiuriosa al lito infausto! -dove le genti stan sul mare accorte -per far de le straniere empio olocausto; -che, come più di fuor ne sono morte, -il numer de le loro è meno esausto: -ma perché il vento ognor preda non mena, -ricercando ne van per ogni arena. -Van discorrendo tutta la marina -con fuste e grippi ed altri legni loro, -e da lontana parte e da vicina -portan sollevamento al lor martoro. -Molte donne han per forza e per rapina, -alcune per lusinghe, altre per oro; -e sempre da diverse regioni -n'hanno piene le torri e le prigioni. -Passando una lor fusta a terra a terra -inanzi a quella solitaria riva -dove fra sterpi in su l'erbosa terra -la sfortunata Angelica dormiva, -smontaro alquanti galeotti in terra -per riportarne e legna ed acqua viva; -e di quante mai fur belle e leggiadre -trovaro il fiore in braccio al santo padre. -Oh troppo cara, oh troppo eccelsa preda -per sì barbare genti e sì villane! -Oh Fortuna crudel, chi fia ch'il creda, -che tanta forza hai ne le cose umane, -che per cibo d'un mostro tu conceda -la gran beltà, ch'in India il re Agricane -fece venir da le caucasee porte -con mezza Scizia a guadagnar la morte? -La gran beltà, che fu da Sacripante -posta inanzi al suo onore e al suo bel regno; -la gran beltà, ch'al gran signor d'Anglante -macchiò la chiara fama e l'alto ingegno; -la gran beltà che fe' tutto Levante -sottosopra voltarsi e stare al segno, -ora non ha (così è rimasa sola) -chi le dia aiuto pur d'una parola. -La bella donna, di gran sonno oppressa, -incatenata fu prima che desta. -Portaro il frate incantator con essa -nel legno pien di turba afflitta e mesta. -La vela, in cima all'arbore rimessa, -rendé la nave all'isola funesta, -dove chiuser la donna in rocca forte, -fin a quel dì ch'a lei toccò la sorte. -Ma poté sì, per esser tanto bella, -la fiera gente muovere a pietade, -che molti dì le differiron quella -morte, e serbarla a gran necessitade; -e fin ch'ebber di fuore altra donzella, -perdonaro all'angelica beltade. -Al mostro fu condotta finalmente, -piangendo dietro a lei tutta la gente. -Chi narrerà l'angosce, i pianti, i gridi, -l'alta querela che nel ciel penetra? -maraviglia ho che non s'apriro i lidi, -quando fu posta in su la fredda pietra, -dove in catena, priva di sussidi, -morte aspettava abominosa e tetra. -Io nol dirò; che sì il dolor mi muove, -che mi sforza voltar le rime altrove, -e trovar versi non tanto lugubri, -fin che 'l mio spirto stanco si riabbia; -che non potrian li squalidi colubri, -né l'orba tigre accesa in maggior rabbia, -né ciò che da l'Atlante ai liti rubri -venenoso erra per la calda sabbia, -né veder né pensar senza cordoglio, -Angelica legata al nudo scoglio. -Oh se l'avesse il suo Orlando saputo, -ch'era per ritrovarla ito a Parigi; -o li dui ch'ingannò quel vecchio astuto -col messo che venìa dai luoghi stigi! -fra mille morti, per donarle aiuto, -cercato avrian gli angelici vestigi: -ma che fariano, avendone anco spia, -poi che distanti son di tanta via? -Parigi intanto avea l'assedio intorno -dal famoso figliuol del re Troiano; -e venne a tanta estremitade un giorno, -che n'andò quasi al suo nimico in mano: -e se non che li voti il ciel placorno, -che dilagò di pioggia oscura il piano, -cadea quel dì per l'africana lancia -il santo Impero e 'l gran nome di Francia. -Il sommo Creator gli occhi rivolse -al giusto lamentar del vecchio Carlo; -e con subita pioggia il fuoco tolse: -né forse uman saper potea smorzarlo. -Savio chiunque a Dio sempre si volse; -ch'altri non poté mai meglio aiutarlo. -Ben dal devoto re fu conosciuto, -che si salvò per lo divino aiuto. -La notte Orlando alle noiose piume -del veloce pensier fa parte assai. -Or quinci or quindi il volta, or lo rassume -tutto in un loco, e non l'afferma mai: -qual d'acqua chiara il tremolante lume, -dal sol percossa o da' notturni rai, -per gli ampli tetti va con lungo salto -a destra ed a sinistra, e basso ed alto. -La donna sua, che gli ritorna a mente, -anzi che mai non era indi partita, -gli raccende nel core e fa più ardente -la fiamma che nel dì parea sopita. -Costei venuta seco era in Ponente -fin dal Cataio; e qui l'avea smarrita, -né ritrovato poi vestigio d'ella -che Carlo rotto fu presso a Bordella. -Di questo Orlando avea gran doglia, e seco -indarno a sua sciocchezza ripensava. -— Cor mio (dicea), come vilmente teco -mi son portato! ohimè, quanto mi grava -che potendoti aver notte e dì meco, -quando la tua bontà non mel negava, -t'abbia lasciato in man di Namo porre, -per non sapermi a tanta ingiuria opporre! -Non aveva ragione io di scusarme? -e Carlo non m'avria forse disdetto: -se pur disdetto, e chi potea sforzarme? -chi ti mi volea torre al mio dispetto? -non poteva io venir più tosto all'arme? -lasciar più tosto trarmi il cor del petto? -Ma né Carlo né tutta la sua gente -di tormiti per forza era possente. -Almen l'avesse posta in guardia buona -dentro a Parigi o in qualche rocca forte. -Che l'abbia data a Namo mi consona, -sol perché a perder l'abbia a questa sorte. -Chi la dovea guardar meglio persona -di me? ch'io dovea farlo fino a morte; -guardarla più che 'l cor, che gli occhi miei: -e dovea e potea farlo, e pur nol fei. -Deh, dove senza me, dolce mia vita, -rimasa sei sì giovane e sì bella? -come, poi che la luce è dipartita, -riman tra' boschi la smarrita agnella, -che dal pastor sperando esser udita, -si va lagnando in questa parte e in quella; -tanto che 'l lupo l'ode da lontano, -e 'l misero pastor ne piagne invano. -Dove, speranza mia, dove ora sei? -vai tu soletta forse ancor errando? -o pur t'hanno trovata i lupi rei -senza la guardia del tuo fido Orlando? -e il fior ch'in ciel potea pormi fra i dei, -il fior ch'intatto io mi venìa serbando -per non turbarti, ohimè! l'animo casto, -ohimè! per forza avranno colto e guasto. -Oh infelice! oh misero! che voglio -se non morir, se 'l mio bel fior colto hanno? -O sommo Dio, fammi sentir cordoglio -prima d'ogn'altro, che di questo danno. -Se questo è ver, con le mie man mi toglio -la vita, e l'alma disperata danno. — -Così, piangendo forte e sospirando, -seco dicea l'addolorato Orlando. -Già in ogni parte gli animanti lassi -davan riposo ai travagliati spirti, -chi su le piume, e chi sui duri sassi, -e chi su l'erbe, e chi su faggi o mirti: -tu le palpebre, Orlando, a pena abbassi, -punto da' tuoi pensieri acuti ed irti; -né quel sì breve e fuggitivo sonno -godere in pace anco lasciar ti ponno. -Parea ad Orlando, s'una verde riva -d'odoriferi fior tutta dipinta, -mirare il bello avorio, e la nativa -purpura ch'avea Amor di sua man tinta, -e le due chiare stelle onde nutriva -ne le reti d'Amor l'anima avinta: -io parlo de' begli occhi e del bel volto, -che gli hanno il cor di mezzo il petto tolto. -Sentia il maggior piacer, la maggior festa -che sentir possa alcun felice amante: -ma ecco intanto uscire una tempesta -che struggea i fior, ed abbattea le piante: -non se ne suol veder simile a questa, -quando giostra aquilone, austro e levante. -Parea che per trovar qualche coperto, -andasse errando invan per un deserto. -Intanto l'infelice (e non sa come) -perde la donna sua per l'aer fosco; -onde di qua e di là del suo bel nome -fa risonare ogni campagna e bosco. -E mentre dice indarno: — Misero me! -chi ha cangiata mia dolcezza in tosco? — -ode la donna sua che gli domanda, -piangendo, aiuto, e se gli raccomanda. -Onde par ch'esca il grido, va veloce, -e quinci e quindi s'affatica assai. -Oh quanto è il suo dolore aspro ed atroce, -che non può rivedere i dolci rai! -Ecco ch'altronde ode da un'altra voce: -— Non sperar più gioirne in terra mai. — -A questo orribil grido risvegliossi, -e tutto pien di lacrime trovossi. -Senza pensar che sian l'immagin false -quando per tema o per disio si sogna, -de la donzella per modo gli calse, -che stimò giunta a danno od a vergogna, -che fulminando fuor del letto salse. -Di piastra e maglia, quanto gli bisogna, -tutto guarnissi, e Brigliadoro tolse; -né di scudiero alcun servigio volse. -E per poter entrare ogni sentiero, -che la sua dignità macchia non pigli, -non l'onorata insegna del quartiero, -distinta di color bianchi e vermigli, -ma portar volse un ornamento nero; -e forse acciò ch'al suo dolor simigli: -e quello avea già tolto a uno amostante, -ch'uccise di sua man pochi anni inante. -Da mezza notte tacito si parte, -e non saluta e non fa motto al zio; -né al fido suo compagno Brandimarte, -che tanto amar solea, pur dice a Dio. -Ma poi che 'l Sol con l'auree chiome sparte -del ricco albergo di Titone uscìo -e fe' l'ombra fugire umida e nera, -s'avide il re che 'l paladin non v'era. -Con suo gran dispiacer s'avede Carlo -che partito la notte è 'l suo nipote, -quando esser dovea seco e più aiutarlo; -e ritener la colera non puote, -ch'a lamentarsi d'esso, ed a gravarlo -non incominci di biasmevol note: -e minacciar, se non ritorna, e dire -che lo faria di tanto error pentire. -Brandimarte, ch'Orlando amava a pare -di sé medesmo, non fece soggiorno; -o che sperasse farlo ritornare, -o sdegno avesse udirne biasmo e scorno; -e volse a pena tanto dimorare, -ch'uscisse fuor ne l'oscurar del giorno. -A Fiordiligi sua nulla ne disse, -perché 'l disegno suo non gl'impedisse. -Era questa una donna che fu molto -da lui diletta, e ne fu raro senza; -di costumi, di grazia e di bel volto -dotata e d'accortezza e di prudenza: -e se licenza or non n'aveva tolto, -fu che sperò tornarle alla presenza -il dì medesmo; ma gli accadde poi, -che lo tardò più dei disegni suoi. -E poi ch'ella aspettato quasi un mese -indarno l'ebbe, e che tornar nol vide, -di desiderio sì di lui s'accese, -che si partì senza compagni o guide; -e cercandone andò molto paese, -come l'istoria al luogo suo dicide. -Di questi dua non vi dico or più inante; -che più m'importa il cavallier d'Anglante. -Il qual, poi che mutato ebbe d'Almonte -le gloriose insegne, andò alla porta, -e disse ne l'orecchio: — Io sono il conte — -a un capitan che vi facea la scorta; -e fattosi abassar subito il ponte, -per quella strada che più breve porta -agl'inimici, se n'andò diritto. -Quel che seguì, ne l'altro canto è scritto. Che non può far d'un cor ch'abbia suggetto -questo crudele e traditore Amore, -poi ch'ad Orlando può levar del petto -la tanta fe' che debbe al suo Signore? -Già savio e pieno fu d'ogni rispetto, -e de la santa Chiesa difensore; -or per un vano amor, poco del zio, -e di sé poco, e men cura di Dio. -Ma l'escuso io pur troppo, e mi rallegro -nel mio difetto aver compagno tale; -ch'anch'io sono al mio ben languido ed egro, -sano e gagliardo a seguitare il male. -Quel se ne va tutto vestito a negro, -né tanti amici abandonar gli cale; -e passa dove d'Africa e di Spagna -la gente era attendata alla campagna: -anzi non attendata, perché sotto -alberi e tetti l'ha sparsa la pioggia -a dieci, a venti, a quattro, a sette, ad otto; -chi più distante e chi più presso alloggia. -Ognuno dorme travagliato e rotto: -chi steso in terra, e chi alla man s'appoggia. -Dormono; e il conte uccider ne può assai: -né però stringe Durindana mai. -Di tanto core è il generoso Orlando, -che non degna ferir gente che dorma. -Or questo, e quando quel luogo cercando -va, per trovar de la sua donna l'orma. -Se truova alcun che veggi, sospirando -gli ne dipinge l'abito e la forma; -e poi lo priega che per cortesia -gl'insegni andar in parte ove ella sia. -E poi che venne il dì chiaro e lucente, -tutto cercò l'esercito moresco: -e ben lo potea far sicuramente, -avendo indosso l'abito arabesco; -ed aiutollo in questo parimente, -che sapeva altro idioma che francesco, -e l'africano tanto avea espedito, -che parea nato a Tripoli e nutrito. -Quivi il tutto cercò, dove dimora -fece tre giorni, e non per altro effetto; -poi dentro alle cittadi e a' borghi fuora -non spiò sol per Francia e suo distretto, -ma per Uvernia e per Guascogna ancora -rivide sin all'ultimo borghetto: -e cercò da Provenza alla Bretagna, -e dai Picardi ai termini di Spagna. -Tra il fin d'ottobre e il capo di novembre, -ne la stagion che la frondosa vesta -vede levarsi e discoprir le membre -trepida pianta, fin che nuda resta, -e van gli augelli a strette schiere insembre, -Orlando entrò ne l'amorosa inchiesta; -né tutto il verno appresso lasciò quella, -né la lasciò ne la stagion novella. -Passando un giorno, come avea costume, -d'un paese in un altro, arrivò dove -parte i Normandi dai Bretoni un fiume, -e verso il vicin mar cheto si muove; -ch'allora gonfio e bianco già di spume -per nieve sciolta e per montane piove: -e l'impeto de l'acqua avea disciolto -e tratto seco il ponte, e il passo tolto. -Con gli occhi cerca or questo lato or quello, -lungo le ripe il paladin, se vede -(quando né pesce egli non è, né augello) -come abbia a por ne l'altra ripa il piede: -ed ecco a sé venir vede un battello, -ne la cui poppa una donzella siede, -che di volere a lui venir fa segno; -né lascia poi ch'arrivi in terra il legno. -Prora in terra non pon; ché d'esser carca -contra sua volontà forse sospetta. -Orlando priega lei che ne la barca -seco lo tolga, ed oltre il fiume il metta. -Ed ella lui: — Qui cavallier non varca, -il qual su la sua fé non mi prometta -di fare una battaglia a mia richiesta, -la più giusta del mondo e la più onesta. -Sì che s'avete, cavallier, desire -di por per me ne l'altra ripa i passi, -promettetemi, prima che finire -quest'altro mese prossimo si lassi, -ch'al re d'Ibernia v'anderete a unire, -appresso al qual la bella armata fassi -per distrugger quell'isola d'Ebuda, -che, di quante il mar cinge, è la più cruda. -Voi dovete saper ch'oltre l'Irlanda, -fra molte che vi son, l'isola giace -nomata Ebuda, che per legge manda -rubando intorno il suo popul rapace; -e quante donne può pigliar, vivanda -tutte destina a un animal vorace, -che viene ogni dì al lito, e sempre nuova -donna o donzella, onde si pasca, truova; -che mercanti e corsar che vanno attorno, -ve ne fan copia, e più de le più belle. -Ben potete contare, una per giorno, -quante morte vi sian donne e donzelle. -Ma se pietade in voi truova soggiorno, -se non sete d'Amor tutto ribelle, -siate contento esser tra questi eletto, -che van per far sì fruttuoso effetto. — -Orlando volse a pena udire il tutto, -che giurò d'esser primo a quella impresa, -come quel ch'alcun atto iniquo e brutto -non può sentire, e d'ascoltar gli pesa: -e fu a pensare, indi a temere indutto, -che quella gente Angelica abbia presa; -poi che cercata l'ha per tanta via, -né potutone ancor ritrovar spia. -Questa imaginazion sì gli confuse -e sì gli tolse ogni primier disegno, -che, quanto in fretta più potea, conchiuse -di navigare a quello iniquo regno. -Né prima l'altro sol nel mar si chiuse, -che presso a San Malò ritrovò un legno, -nel qual si pose; e fatto alzar le vele, -passò la notte il monte San Michele. -Breaco e Landriglier lascia a man manca, -e va radendo il gran lito britone; -e poi si drizza invêr l'arena bianca, -onde Ingleterra si nomò Albione; -ma il vento, ch'era da meriggie, manca, -e soffia tra il ponente e l'aquilone -con tanta forza, che fa al basso porre -tutte le vele, e sé per poppa torre. -Quanto il navilio inanzi era venuto -in quattro giorni, in un ritornò indietro, -ne l'alto mar dal buon nochier tenuto, -che non dia in terra e sembri un fragil vetro. -Il vento, poi che furioso suto -fu quattro giorni, il quinto cangiò metro: -lasciò senza contrasto il legno entrare -dove il fiume d'Anversa ha foce in mare. -Tosto che ne la foce entrò lo stanco -nochier col legno afflitto, e il lito prese, -fuor d'una terra che sul destro fianco -di quel fiume sedeva, un vecchio scese, -di molta età, per quanto il crine bianco -ne dava indicio; il qual tutto cortese, -dopo i saluti, al conte rivoltosse, -che capo giudicò che di lor fosse. -E da parte il pregò d'una donzella, -ch'a lei venir non gli paresse grave, -la qual ritroverebbe, oltre che bella, -più ch'altra al mondo affabile e soave; -over fosse contento aspettar ch'ella -verrebbe a trovar lui fin alla nave: -né più restio volesse esser di quanti -quivi eran giunti cavallieri erranti; -che nessun altro cavallier, ch'arriva -o per terra o per mare a questa foce, -di ragionar con la donzella schiva, -per consigliarla in un suo caso atroce. -Udito questo, Orlando in su la riva -senza punto indugiarsi uscì veloce; -e come umano e pien di cortesia, -dove il vecchio il menò, prese la via. -Fu ne la terra il paladin condutto -dentro un palazzo, ove al salir le scale, -una donna trovò piena di lutto, -per quanto il viso ne facea segnale, -e i negri panni che coprian per tutto -e le logge e le camere e le sale; -la qual, dopo accoglienza grata e onesta -fattol seder, gli disse in voce mesta: -— Io voglio che sappiate che figliuola -fui del conte d'Olanda, a lui sì grata -(quantunque prole io non gli fossi sola, -ch'era da dui fratelli accompagnata), -ch'a quanto io gli chiedea, da lui parola -contraria non mi fu mai replicata. -Standomi lieta in questo stato, avenne -che ne la nostra terra un duca venne. -Duca era di Selandia, e se ne giva -verso Biscaglia a guerreggiar coi Mori. -La bellezza e l'età ch'in lui fioriva, -e li non più da me sentiti amori -con poca guerra me gli fer captiva; -tanto più che, per quel ch'apparea fuori, -io credea e credo, e creder credo il vero, -ch'amasse ed ami me con cor sincero. -Quei giorni che con noi contrario vento, -contrario agli altri, a me propizio, il tenne -(ch'agli altri fur quaranta, a me un momento; -così al fuggire ebbon veloci penne), -fummo più volte insieme a parlamento, -dove, che 'l matrimonio con solenne -rito al ritorno suo saria tra nui -mi promise egli, ed io 'l promisi a lui. -Bireno a pena era da noi partito -(che così ha nome il mio fedele amante), -che 'l re di Frisa (la qual, quanto il lito -del mar divide il fiume, è a noi distante), -disegnando il figliuol farmi marito, -ch'unico al mondo avea, nomato Arbante, -per li più degni del suo stato manda -a domandarmi al mio padre in Olanda. -Io ch'all'amante mio di quella fede -mancar non posso, che gli aveva data, -e anco ch'io possa, Amor non mi conciede -che poter voglia, e ch'io sia tanto ingrata; -per ruinar la pratica ch'in piede -era gagliarda, e presso al fin guidata, -dico a mio padre, che prima ch'in Frisa -mi dia marito, io voglio essere uccisa. -Il mio buon padre, al qual sol piacea quanto -a me piacea, né mai turbar mi volse, -per consolarmi e far cessare il pianto -ch'io ne facea, la pratica disciolse: -di che il superbo re di Frisa tanto -isdegno prese e a tanto odio si volse, -ch'entrò in Olanda, e cominciò la guerra -che tutto il sangue mio cacciò sotterra. -Oltre che sia robusto, e sì possente, -che pochi pari a nostra età ritruova, -e sì astuto in mal far, ch'altrui niente -la possanza, l'ardir, l'ingegno giova; -porta alcun'arme che l'antica gente -non vide mai, né fuor ch'a lui, la nuova: -un ferro bugio, lungo da dua braccia, -dentro a cui polve ed una palla caccia. -Col fuoco dietro ove la canna è chiusa, -tocca un spiraglio che si vede a pena; -a guisa che toccare il medico usa -dove è bisogno d'allacciar la vena: -onde vien con tal suon la palla esclusa, -che si può dir che tuona e che balena; -né men che soglia il fulmine ove passa, -ciò che tocca, arde, abatte, apre e fracassa. -Pose due volte il nostro campo in rotta -con questo inganno, e i miei fratelli uccise: -nel primo assalto il primo; che la botta, -rotto l'usbergo, in mezzo il cor gli mise; -ne l'altra zuffa a l'altro, il quale in frotta -fuggìa, dal corpo l'anima divise; -e lo ferì lontan dietro la spalla, -e fuor del petto uscir fece la palla. -Difendendosi poi mio padre un giorno -dentro un castel che sol gli era rimaso, -che tutto il resto avea perduto intorno, -lo fe' con simil colpo ire all'occaso; -che mentre andava e che facea ritorno, -provedendo or a questo or a quel caso, -dal traditor fu in mezzo gli occhi colto, -che l'avea di lontan di mira tolto. -Morto i fratelli e il padre, e rimasa io -de l'isola d'Olanda unica erede, -il re di Frisa, perché avea disio -di ben fermare in quello stato il piede, -mi fa sapere, e così al popul mio, -che pace e che riposo mi conciede, -quando io vogli or, quel che non volsi inante, -tor per marito il suo figliuolo Arbante. -Io per l'odio non sì, che grave porto -a lui e a tutta la sua iniqua schiatta, -il qual m'ha dui fratelli e 'l padre morto, -saccheggiata la patria, arsa e disfatta; -come perché a colui non vo' far torto, -a cui già la promessa aveva fatta, -ch'altr'uomo non saria che mi sposasse, -fin che di Spagna a me non ritornasse: -— Per un mal ch'io patisco, ne vo' cento -patir (rispondo), e far di tutto il resto; -esser morta, arsa viva, e che sia al vento -la cener sparsa, inanzi che far questo. — -Studia la gente mia di questo intento -tormi: chi priega, e chi mi fa protesto -di dargli in mano me e la terra, prima -che la mia ostinazion tutti ci opprima. -Così, poi che i protesti e i prieghi invano -vider gittarsi, e che pur stava dura, -presero accordo col Frisone, e in mano, -come avean detto, gli dier me e le mura. -Quel, senza farmi alcuno atto villano, -de la vita e del regno m'assicura, -pur ch'io indolcisca l'indurate voglie, -e che d'Arbante suo mi faccia moglie. -Io che sforzar così mi veggio, voglio, -per uscirgli di man, perder la vita; -ma se pria non mi vendico, mi doglio -più che di quanta ingiuria abbia patita. -Fo pensier molti; e veggio al mio cordoglio -che solo il simular può dare aita: -fingo ch'io brami, non che non mi piaccia, -che mi perdoni e sua nuora mi faccia. -Fra molti ch'al servizio erano stati -già di mio padre, io scelgo dui fratelli, -di grande ingegno e di gran cor dotati, -ma più di vera fede, come quelli -che cresciutici in corte ed allevati -si son con noi da teneri citelli; -e tanto miei, che poco lor parria -la vita por per la salute mia. -Communico con loro il mio disegno: -essi prometton d'essermi in aiuto. -L'un viene in Fiandra, e v'apparecchia un legno; -l'altro meco in Olanda ho ritenuto. -Or mentre i forestieri e quei del regno -s'invitano alle nozze, fu saputo -che Bireno in Biscaglia avea una armata, -per venire in Olanda, apparecchiata. -Però che, fatta la prima battaglia -dove fu rotto un mio fratello e ucciso, -spacciar tosto un corrier feci in Biscaglia, -che portassi a Bireno il tristo aviso; -il qual mentre che s'arma e si travaglia, -dal re di Frisa il resto fu conquiso. -Bireno, che di ciò nulla sapea, -per darci aiuto i legni sciolti avea. -Di questo avuto aviso il re frisone, -de le nozze al figliuol la cura lassa; -e con l'armata sua nel mar si pone: -truova il duca, lo rompe, arde e fracassa, -e, come vuol Fortuna, il fa prigione; -ma di ciò ancor la nuova a noi non passa. -Mi sposa intanto il giovene, e si vuole -meco corcar come si corchi il sole. -Io dietro alle cortine avea nascoso -quel mio fedele; il qual nulla si mosse -prima che a me venir vide lo sposo; -e non l'attese che corcato fosse, -ch'alzò un'accetta, e con sì valoroso -braccio dietro nel capo lo percosse, -che gli levò la vita e la parola: -io saltai presta, e gli segai la gola. -Come cadere il bue suole al macello, -cade il malnato giovene, in dispetto -del re Cimosco, il più d'ogn'altro fello; -che l'empio re di Frisa è così detto, -che morto l'uno e l'altro mio fratello -m'avea col padre, e per meglio suggetto -farsi il mio stato, mi volea per nuora; -e forse un giorno uccisa avria me ancora. -Prima ch'altro disturbo vi si metta, -tolto quel che più vale e meno pesa, -il mio compagno al mar mi cala in fretta -da la finestra a un canape sospesa, -là dove attento il suo fratello aspetta -sopra la barca ch'avea in Fiandra presa. -Demmo le vele ai venti e i remi all'acque, -e tutti ci salvian, come a Dio piacque. -Non so se 'l re di Frisa più dolente -del figliuol morto, o se più d'ira acceso -fosse contra di me, che 'l dì seguente -giunse là dove si trovò sì offeso. -Superbo ritornava egli e sua gente -de la vittoria e di Bireno preso; -e credendo venire a nozze e a festa, -ogni cosa trovò scura e funesta. -La pietà del figliuol, l'odio ch'aveva -a me, né dì né notte il lascia mai. -Ma perché il pianger morti non rileva, -e la vendetta sfoga l'odio assai, -la parte del pensier, ch'esser doveva -de la pietade in sospirare e in guai, -vuol che con l'odio a investigar s'unisca, -come egli m'abbia in mano e mi punisca. -Quei tutti che sapeva e gli era detto -che mi fossino amici, o di quei miei -che m'aveano aiutata a far l'effetto, -uccise, o lor beni arse, o li fe' rei. -Volse uccider Bireno in mio dispetto; -che d'altro sì doler non mi potrei: -gli parve poi, se vivo lo tenesse, -che per pigliarmi, in man la rete avesse. -Ma gli propone una crudele e dura -condizion: gli fa termine un anno, -al fin del qual gli darà morte oscura, -se prima egli per forza o per inganno, -con amici e parenti non procura, -con tutto ciò che ponno e ciò che sanno, -di darmigli in prigion: sì che la via -di lui salvare è sol la morte mia. -Ciò che si possa far per sua salute, -fuor che perder me stessa, il tutto ho fatto. -Sei castella ebbi in Fiandra, e l'ho vendute: -e 'l poco o 'l molto prezzo ch'io n'ho tratto, -parte, tentando per persone astute -i guardiani corrumpere, ho distratto; -e parte, per far muovere alli danni -di quell'empio or gl'Inglesi, or gli Alamanni. -I mezzi, o che non abbiano potuto, -o che non abbian fatto il dover loro, -m'hanno dato parole e non aiuto; -e sprezzano or che n'han cavato l'oro: -e presso al fine il termine è venuto, -dopo il qual né la forza né 'l tesoro -potrà giunger più a tempo, sì che morte -e strazio schivi al mio caro consorte. -Mio padre e' miei fratelli mi son stati -morti per lui; per lui toltomi il regno; -per lui quei pochi beni che restati -m'eran, del viver mio soli sostegno, -per trarlo di prigione ho disipati: -né mi resta ora in che più far disegno, -se non d'andarmi io stessa in mano a porre -di sì crudel nimico, e lui disciorre. -Se dunque da far altro non mi resta, -né si truova al suo scampo altro riparo -che per lui por questa mia vita, questa -mia vita per lui por mi sarà caro. -Ma sola una paura mi molesta, -che non saprò far patto così chiaro, -che m'assicuri che non sia il tiranno, -poi ch'avuta m'avrà, per fare inganno. -Io dubito che poi che m'avrà in gabbia -e fatto avrà di me tutti li strazi, -né Bireno per questo a lasciare abbia, -sì ch'esser per me sciolto mi ringrazi; -come periuro, e pien di tanta rabbia, -che di me sola uccider non si sazi: -e quel ch'avrà di me, né più né meno -faccia di poi del misero Bireno. -Or la cagion che conferir con voi -mi fa i miei casi, e ch'io li dico a quanti -signori e cavallier vengono a noi, -è solo acciò, parlandone con tanti, -m'insegni alcun d'assicurar che, poi -ch'a quel crudel mi sia condotta avanti, -non abbia a ritener Bireno ancora, -né voglia, morta me, ch'esso poi mora. -Pregato ho alcun guerrier, che meco sia -quando io mi darò in mano al re di Frisa; -ma mi prometta e la sua fe' mi dia, -che questo cambio sarà fatto in guisa, -ch'a un tempo io data, e liberato fia -Bireno: sì che quando io sarò uccisa, -morrò contenta, poi che la mia morte -avrà dato la vita al mio consorte. -Né fino a questo dì truovo chi toglia -sopra la fede sua d'assicurarmi, -che quando io sia condotta, e che mi voglia -aver quel re, senza Bireno darmi, -egli non lascierà contra mia voglia -che presa io sia: sì teme ognun quell'armi; -teme quell'armi, a cui par che non possa -star piastra incontra, e sia quanto vuol grossa. -Or, s'in voi la virtù non è diforme -dal fier sembiante e da l'erculeo aspetto, -e credete poter darmegli, e torme -anco da lui, quando non vada retto; -siate contento d'esser meco a porme -ne le man sue: ch'io non avrò sospetto, -quando voi siate meco, se ben io -poi ne morrò, che muora il signor mio. — -Qui la donzella il suo parlar conchiuse, -che con pianto e sospir spesso interroppe. -Orlando, poi ch'ella la bocca chiuse, -le cui voglie al ben far mai non fur zoppe, -in parole con lei non si diffuse; -che di natura non usava troppe: -ma le promise, e la sua fé le diede, -che farìa più di quel ch'ella gli chiede. -Non è sua intenzion ch'ella in man vada -del suo nimico per salvar Bireno: -ben salverà amendui, se la sua spada -e l'usato valor non gli vien meno. -Il medesimo dì piglian la strada, -poi c'hanno il vento prospero e sereno. -Il paladin s'affretta; che di gire -all'isola del mostro avea desire. -Or volta all'una, or volta all'altra banda -per gli alti stagni il buon nochier la vela: -scuopre un'isola e un'altra di Zilanda; -scuopre una inanzi, e un'altra a dietro cela. -Orlando smonta il terzo dì in Olanda; -ma non smonta colei che si querela -del re di Frisa: Orlando vuol che intenda -la morte di quel rio, prima che scenda. -Nel lito armato il paladino varca -sopra un corsier di pel tra bigio e nero, -nutrito in Fiandra e nato in Danismarca, -grande e possente assai più che leggiero; -però ch'avea, quando si messe in barca, -in Bretagna lasciato il suo destriero, -quel Brigliador sì bello e sì gagliardo, -che non ha paragon, fuor che Baiardo. -Giunge Orlando a Dordreche, e quivi truova -di molta gente armata in su la porta; -sì perché sempre, ma più quando è nuova, -seco ogni signoria sospetto porta; -sì perché dianzi giunta era una nuova, -che di Selandia con armata scorta -di navili e di gente un cugin viene -di quel signor che qui prigion si tiene. -Orlando prega uno di lor, che vada -e dica al re, ch'un cavalliero errante -disia con lui provarsi a lancia e a spada; -ma che vuol che tra lor sia patto inante: -che se 'l re fa che, chi lo sfida, cada, -la donna abbia d'aver, ch'uccise Arbante; -che 'l cavallier l'ha in loco non lontano -da poter sempremai darglila in mano; -ed all'incontro vuol che 'l re prometta, -ch'ove egli vinto ne la pugna sia, -Bireno in libertà subito metta, -e che lo lasci andare alla sua via. -Il fante al re fa l'ambasciata in fretta: -ma quel, che né virtù né cortesia -conobbe mai, drizzò tutto il suo intento -alla fraude, all'inganno, al tradimento. -Gli par ch'avendo in mano il cavalliero, -avrà la donna ancor, che sì l'ha offeso, -s'in possanza di lui la donna è vero -che si ritruovi, e il fante ha ben inteso. -Trenta uomini pigliar fece sentiero -diverso da la porta ov'era atteso, -che dopo occulto ed assai lungo giro, -dietro alle spalle al paladino usciro. -Il traditore intanto dar parole -fatto gli avea, sin che i cavalli e i fanti -vede esser giunti al loco ove gli vuole; -da la porta esce poi con altretanti. -Come le fere e il bosco cinger suole -perito cacciator da tutti i canti; -come appresso a Volana i pesci e l'onda -con lunga rete il pescator circonda: -così per ogni via dal re di Frisa, -che quel guerrier non fugga, si provede. -Vivo lo vuole, e non in altra guisa: -e questo far sì facilmente crede, -che 'l fulmine terrestre, con che uccisa -ha tanta e tanta gente, ora non chiede; -che quivi non gli par che si convegna, -dove pigliar, non far morir, disegna. -Qual cauto ucellator che serba vivi, -intento a maggior preda, i primi augelli, -acciò in più quantitade altri captivi -faccia col giuoco e col zimbel di quelli: -tal esser volse il re Cimosco quivi: -ma già non volse Orlando esser di quelli -che si lascin pigliar al primo tratto; -e tosto roppe il cerchio ch'avean fatto. -Il cavallier d'Anglante, ove più spesse -vide le genti e l'arme, abbassò l'asta; -ed uno in quella e poscia un altro messe, -e un altro e un altro, che sembrar di pasta; -e fin a sei ve n'infilzò, e li resse -tutti una lancia: e perch'ella non basta -a più capir, lasciò il settimo fuore -ferito sì, che di quel colpo muore. -Non altrimente ne l'estrema arena -veggiàn le rane de canali e fosse -dal cauto arcier nei fianchi e ne la schiena, -l'una vicina all'altra, esser percosse; -né da la freccia, fin che tutta piena -non sia da un capo all'altro, esser rimosse. -La grave lancia Orlando da sé scaglia, -e con la spada entrò ne la battaglia. -Rotta la lancia, quella spada strinse, -quella che mai non fu menata in fallo; -e ad ogni colpo, o taglio o punta, estinse -quando uomo a piedi, e quando uomo a cavallo: -dove toccò, sempre in vermiglio tinse -l'azzurro, il verde, il bianco, il nero, il giallo. -Duolsi Cimosco che la canna e il fuoco -seco or non ha, quando v'avrian più loco. -E con gran voce e con minacce chiede -che portati gli sian, ma poco è udito; -che chi ha ritratto a salvamento il piede -ne la città, non è d'uscir più ardito. -Il re frison, che fuggir gli altri vede, -d'esser salvo egli ancor piglia partito: -corre alla porta, e vuole alzare il ponte, -ma troppo è presto ad arrivare il conte. -Il re volta le spalle, e signor lassa -del ponte Orlando e d'amendue le porte; -e fugge, e inanzi a tutti gli altri passa, -mercé che 'l suo destrier corre più forte. -Non mira Orlando a quella plebe bassa: -vuole il fellon, non gli altri, porre a morte; -ma il suo destrier sì al corso poco vale, -che restio sembra, e chi fugge, abbia l'ale. -D'una in un'altra via si leva ratto -di vista al paladin; ma indugia poco, -che torna con nuove armi; che s'ha fatto -portare intanto il cavo ferro e il fuoco: -e dietro un canto postosi di piatto, -l'attende, come il cacciatore al loco, -coi cani armati e con lo spiedo, attende -il fier cingial che ruinoso scende; -che spezza i rami e fa cadere i sassi, -e ovunque drizzi l'orgogliosa fronte, -sembra a tanto rumor che si fracassi -la selva intorno, e che si svella il monte. -Sta Cimosco alla posta, acciò non passi -senza pagargli il fio l'audace conte: -tosto ch'appare, allo spiraglio tocca -col fuoco il ferro, e quel subito scocca. -Dietro lampeggia a guisa di baleno, -dinanzi scoppia, e manda in aria il tuono. -Trieman le mura, e sotto i piè il terreno; -il ciel ribomba al paventoso suono. -L'ardente stral, che spezza e venir meno -fa ciò ch'incontra, e dà a nessun perdono, -sibila e stride; ma, come è il desire -di quel brutto assassin, non va a ferire. -O sia la fretta, o sia la troppa voglia -d'uccider quel baron, ch'errar lo faccia; -o sia che il cor, tremando come foglia, -faccia insieme tremare e mani e braccia; -o la bontà divina che non voglia -che 'l suo fedel campion sì tosto giaccia: -quel colpo al ventre del destrier si torse; -lo cacciò in terra, onde mai più non sorse. -Cade a terra il cavallo e il cavalliero: -la preme l'un, la tocca l'altro a pena; -che si leva sì destro e sì leggiero, -come cresciuto gli sia possa e lena. -Quale il libico Anteo sempre più fiero -surger solea da la percossa arena, -tal surger parve, e che la forza, quando -toccò il terren, si radoppiasse a Orlando. -Chi vide mai dal ciel cadere il foco -che con sì orrendo suon Giove disserra, -e penetrare ove un richiuso loco -carbon con zolfo e con salnitro serra; -ch'a pena arriva, a pena tocca un poco, -che par ch'avampi il ciel, non che la terra; -spezza le mura, e i gravi marmi svelle, -e fa i sassi volar sin alle stelle; -s'imagini che tal, poi che cadendo -toccò la terra, il paladino fosse: -con sì fiero sembiante aspro ed orrendo, -da far tremar nel ciel Marte, si mosse. -Di che smarrito il re frison, torcendo -la briglia indietro, per fuggir voltosse; -ma gli fu dietro Orlando con più fretta, -che non esce da l'arco una saetta: -e quel che non avea potuto prima -fare a cavallo, or farà essendo a piede. -Lo seguita sì ratto, ch'ogni stima -di chi nol vide, ogni credenza eccede. -Lo giunse in poca strada; ed alla cima -de l'elmo alza la spada, e sì lo fiede, -che gli parte la testa fin al collo, -e in terra il manda a dar l'ultimo crollo. -Ecco levar ne la città si sente -nuovo rumor, nuovo menar di spade; -che 'l cugin di Bireno con la gente -ch'avea condutta da le sue contrade, -poi che la porta ritrovò patente, -era venuto dentro alla cittade, -dal paladino in tal timor ridutta, -che senza intoppo la può scorrer tutta. -Fugge il populo in rotta, che non scorge -chi questa gente sia, né che domandi; -ma poi ch'uno ed un altro pur s'accorge -all'abito e al parlar, che son Selandi, -chiede lor pace, e il foglio bianco porge; -e dice al capitan che gli comandi, -e dar gli vuol contro i Frisoni aiuto, -che 'l suo duca in prigion gli han ritenuto. -Quel popul sempre stato era nimico -del re di Frisa e d'ogni suo seguace, -perché morto gli avea il signore antico, -ma più perch'era ingiusto, empio e rapace. -Orlando s'interpose come amico -d'ambe le parti, e fece lor far pace; -le quali unite, non lasciar Frisone -che non morisse o non fosse prigione. -Le porte de le carceri gittate -a terra sono, e non si cerca chiave. -Bireno al conte con parole grate -mostra conoscer l'obligo che gli have. -Indi insieme e con molte altre brigate -se ne vanno ove attende Olimpia in nave: -così la donna, a cui di ragion spetta -il dominio de l'isola, era detta; -quella che quivi Orlando avea condutto -non con pensier che far dovesse tanto; -che la parea bastar, che posta in lutto -sol lei, lo sposo avesse a trar di pianto. -Lei riverisce e onora il popul tutto. -Lungo sarebbe a ricontarvi quanto -lei Bireno accarezzi, ed ella lui; -quai grazie al conte rendano ambidui. -Il popul la donzella nel paterno -seggio rimette, e fedeltà le giura. -Ella a Bireno, a cui con nodo eterno -la legò Amor d'una catena dura, -de lo stato e di sé dona il governo. -Ed egli tratto poi da un'altra cura, -de le fortezze e di tutto il domìno -de l'isola guardian lascia il cugino; -che tornare in Selandia avea disegno, -e menar seco la fedel consorte: -e dicea voler fare indi nel regno -di Frisa esperienza di sua sorte; -perché di ciò l'assicurava un pegno -ch'egli aveva in mano, e lo stimava forte: -la figliuola del re, che fra i captivi, -che vi fur molti, avea trovata quivi. -E dice ch'egli vuol ch'un suo germano, -ch'era minor d'età, l'abbia per moglie. -Quindi si parte il senator romano -il dì medesmo che Bireno scioglie. -Non volse porre ad altra cosa mano, -fra tante e tante guadagnate spoglie, -se non a quel tormento ch'abbiàn detto -ch'al fulmine assimiglia in ogni effetto. -L'intenzion non già, perché lo tolle, -fu per voglia d'usarlo in sua difesa; -che sempre atto stimò d'animo molle -gir con vantaggio in qualsivoglia impresa: -ma per gittarlo in parte, onde non volle -che mai potesse ad uomo più fare offesa: -e la polve e le palle e tutto il resto -seco portò, ch'apparteneva a questo. -E così, poi che fuor de la marea -nel più profondo mar si vide uscito, -sì che segno lontan non si vedea -del destro più né del sinistro lito; -lo tolse, e disse: — Acciò più non istea -mai cavallier per te d'esser ardito, -né quanto il buono val, mai più si vanti -il rio per te valer, qui giù rimanti. -O maladetto, o abominoso ordigno, -che fabricato nel tartareo fondo -fosti per man di Belzebù maligno -che ruinar per te disegnò il mondo, -all'inferno, onde uscisti, ti rasigno. — -Così dicendo, lo gittò in profondo. -Il vento intanto le gonfiate vele -spinge alla via de l'isola crudele. -Tanto desire il paladino preme -di saper se la donna ivi si truova, -ch'ama assai più che tutto il mondo insieme, -né un'ora senza lei viver gli giova; -che s'in Ibernia mette il piede, teme -di non dar tempo a qualche cosa nuova, -sì ch'abbia poi da dir invano: — Ahi lasso! -ch'al venir mio non affrettai più il passo. — -Né scala in Inghelterra né in Irlanda -mai lasciò far, né sul contrario lito. -Ma lasciamolo andar dove lo manda -il nudo arcier che l'ha nel cor ferito. -Prima che più io ne parli, io vo' in Olanda -tornare, e voi meco a tornarvi invito; -che, come a me, so spiacerebbe a voi, -che quelle nozze fosson senza noi. -Le nozze belle e sontuose fanno; -ma non sì sontuose né sì belle, -come in Selandia dicon che faranno. -Pur non disegno che vegnate a quelle; -perché nuovi accidenti a nascere hanno -per disturbarle, de' quai le novelle -all'altro canto vi farò sentire, -s'all'altro canto mi verrete a udire. Fra quanti amor, fra quante fede al mondo -mai si trovar, fra quanti cor constanti, -fra quante, o per dolente o per iocondo -stato, fer prove mai famosi amanti; -più tosto il primo loco ch'il secondo -darò ad Olimpia: e se pur non va inanti, -ben voglio dir che fra gli antiqui e nuovi -maggior de l'amor suo non si ritruovi; -e che con tante e con sì chiare note -di questo ha fatto il suo Bireno certo, -che donna più far certo uomo non puote, -quando anco il petto e 'l cor mostrasse aperto. -E s'anime sì fide e sì devote -d'un reciproco amor denno aver merto, -dico ch'Olimpia è degna che non meno, -anzi più che sé ancor, l'ami Bireno: -e che non pur l'abandoni mai -per altra donna, se ben fosse quella -ch'Europa ed Asia messe in tanti guai, -o s'altra ha maggior titolo di bella; -ma più tosto che lei, lasci coi rai -del sol l'udita e il gusto e la favella -e la vita e la fama, e s'altra cosa -dire o pensar si può più preciosa. -Se Bireno amò lei come ella amato -Bireno avea, se fu sì a lei fedele -come ella a lui, se mai non ha voltato -ad altra via, che a seguir lei, le vele; -o pur s'a tanta servitù fu ingrato, -a tanta fede e a tanto amor crudele, -io vi vo' dire, e far di maraviglia -stringer le labra ed inarcar le ciglia. -E poi che nota l'impietà vi fia, -che di tanta bontà fu a lei mercede, -donne, alcuna di voi mai più non sia, -ch'a parole d'amante abbia a dar fede. -L'amante, per aver quel che desia, -senza guardar che Dio tutto ode e vede, -aviluppa promesse e giuramenti, -che tutti spargon poi per l'aria i venti. -I giuramenti e le promesse vanno -dai venti in aria disipate e sparse, -tosto che tratta questi amanti s'hanno -l'avida sete che gli accese ed arse. -Siate a' prieghi ed a' pianti che vi fanno, -per questo esempio, a credere più scarse. -Bene è felice quel, donne mie care, -ch'essere accorto all'altrui spese impare. -Guardatevi da questi che sul fiore -de' lor begli anni il viso han sì polito; -che presto nasce in loro e presto muore, -quasi un foco di paglia, ogni appetito. -Come segue la lepre il cacciatore -al freddo, al caldo, alla montagna, al lito, -né più l'estima poi che presa vede; -e sol dietro a chi fugge affretta il piede: -così fan questi gioveni, che tanto -che vi mostrate lor dure e proterve, -v'amano e riveriscono con quanto -studio de' far chi fedelmente serve; -ma non sì tosto si potran dar vanto -de la vittoria, che, di donne, serve -vi dorrete esser fatte; e da voi tolto -vedrete il falso amore, e altrove volto. -Non vi vieto per questo (ch'avrei torto) -che vi lasciate amar; che senza amante -sareste come inculta vite in orto, -che non ha palo ove s'appoggi o piante. -Sol la prima lanugine vi esorto -tutta a fuggir, volubile e incostante, -e corre i frutti non acerbi e duri, -ma che non sien però troppo maturi. -Di sopra io vi dicea ch'una figliuola -del re di Frisa quivi hanno trovata, -che fia, per quanto n'han mosso parola, -da Bireno al fratel per moglie data. -Ma, a dire il vero, esso v'avea la gola; -che vivanda era troppo delicata: -e riputato avria cortesia sciocca, -per darla altrui, levarsela di bocca. -La damigella non passava ancora -quattordici anni, ed era bella e fresca, -come rosa che spunti alora alora -fuor de la buccia e col sol nuovo cresca. -Non pur di lei Bireno s'innamora, -ma fuoco mai così non accese esca, -né se lo pongan l'invide e nimiche -mani talor ne le mature spiche; -come egli se n'accese immantinente, -come egli n'arse fin ne le medolle, -che sopra il padre morto lei dolente -vide di pianto il bel viso far molle. -E come suol, se l'acqua fredda sente, -quella restar che prima al fuoco bolle; -così l'ardor ch'accese Olimpia, vinto -dal nuovo successore, in lui fu estinto. -Non pur sazio di lei, ma fastidito -n'è già così, che può vederla a pena; -e sì de l'altra acceso ha l'appetito, -che ne morrà se troppo in lungo il mena: -pur fin che giunga il dì c'ha statuito -a dar fine al disio, tanto l'affrena, -che par ch'adori Olimpia, non che l'ami, -e quel che piace a lei, sol voglia e brami. -E se accarezza l'altra (che non puote -far che non l'accarezzi più del dritto), -non è chi questo in mala parte note; -anzi a pietade, anzi a bontà gli è ascritto: -che rilevare un che Fortuna ruote -talora al fondo, e consolar l'afflitto, -mai non fu biasmo, ma gloria sovente; -tanto più una fanciulla, una innocente. -Oh sommo Dio, come i giudìci umani -spesso offuscati son da un nembo oscuro! -i modi di Bireno empi e profani, -pietosi e santi riputati furo. -I marinari, già messo le mani -ai remi, e sciolti dal lito sicuro, -portavan lieti pei salati stagni -verso Selandia il duca e i suoi compagni. -Già dietro rimasi erano e perduti -tutti di vista i termini d'Olanda -(che per non toccar Frisa, più tenuti -s'eran vêr Scozia alla sinistra banda), -quando da un vento fur sopravenuti, -ch'errando in alto mar tre dì li manda. -Sursero il terzo, già presso alla sera, -dove inculta e deserta un'isola era. -Tratti che si fur dentro un picciol seno, -Olimpia venne in terra; e con diletto -in compagnia de l'infedel Bireno -cenò contenta e fuor d'ogni sospetto: -indi con lui, là dove in loco ameno -teso era un padiglione, entrò nel letto. -Tutti gli altri compagni ritornaro, -e sopra i legni lor si riposaro. -Il travaglio del mare e la paura -che tenuta alcun dì l'aveano desta, -il ritrovarsi al lito ora sicura, -lontana da rumor ne la foresta, -e che nessun pensier, nessuna cura, -poi che 'l suo amante ha seco, la molesta; -fur cagion ch'ebbe Olimpia sì gran sonno, -che gli orsi e i ghiri aver maggior nol ponno. -Il falso amante che i pensati inganni -veggiar facean, come dormir lei sente, -pian piano esce del letto, e de' suoi panni -fatto un fastel, non si veste altrimente; -e lascia il padiglione; e come i vanni -nati gli sian, rivola alla sua gente, -e li risveglia; e senza udirsi un grido, -fa entrar ne l'alto e abandonare il lido. -Rimase a dietro il lido e la meschina -Olimpia, che dormì senza destarse, -fin che l'Aurora la gelata brina -da le dorate ruote in terra sparse, -e s'udir le Alcione alla marina -de l'antico infortunio lamentarse. -Né desta né dormendo, ella la mano -per Bireno abbracciar stese, ma invano. -Nessuno truova: a sé la man ritira: -di nuovo tenta, e pur nessuno truova. -Di qua l'un braccio, e di là l'altro gira, -or l'una or l'altra gamba; e nulla giova. -Caccia il sonno il timor: gli occhi apre, e mira: -non vede alcuno. Or già non scalda e cova -più le vedove piume, ma si getta -del letto e fuor del padiglione in fretta: -e corre al mar, graffiandosi le gote, -presaga e certa ormai di sua fortuna. -Si straccia i crini, e il petto si percuote, -e va guardando (che splendea la luna) -se veder cosa, fuor che 'l lito, puote; -né fuor che 'l lito, vede cosa alcuna. -Bireno chiama: e al nome di Bireno -rispondean gli Antri che pietà n'avieno. -Quivi surgea nel lito estremo un sasso, -ch'aveano l'onde, col picchiar frequente, -cavo e ridutto a guisa d'arco al basso; -e stava sopra il mar curvo e pendente. -Olimpia in cima vi salì a gran passo -(così la facea l'animo possente), -e di lontano le gonfiate vele -vide fuggir del suo signor crudele: -vide lontano, o le parve vedere; -che l'aria chiara ancor non era molto. -Tutta tremante si lasciò cadere, -più bianca e più che nieve fredda in volto; -ma poi che di levarsi ebbe potere, -al camin de le navi il grido volto, -chiamò, quanto potea chiamar più forte, -più volte il nome del crudel consorte: -e dove non potea la debil voce, -supliva il pianto e 'l batter' palma a palma. -— Dove fuggi, crudel, così veloce? -Non ha il tuo legno la debita salma. -Fa che lievi me ancor: poco gli nuoce -che porti il corpo, poi che porta l'alma. — -E con le braccia e con le vesti segno -fa tuttavia, perché ritorni il legno. -Ma i venti che portavano le vele -per l'alto mar di quel giovene infido, -portavano anco i prieghi e le querele -de l'infelice Olimpia, e 'l pianto e 'l grido; -la qual tre volte, a se stessa crudele, -per affogarsi si spiccò dal lido: -pur al fin si levò da mirar l'acque, -e ritornò dove la notte giacque. -E con la faccia in giù stesa sul letto, -bagnandolo di pianto, dicea lui: -— Iersera desti insieme a dui ricetto; -perché insieme al levar non siamo dui? -O perfido Bireno, o maladetto -giorno ch'al mondo generata fui! -Che debbo far? che poss'io far qui sola? -chi mi dà aiuto? ohimè, chi mi consola? -Uomo non veggio qui, non ci veggio opra -donde io possa stimar ch'uomo qui sia; -nave non veggio, a cui salendo sopra, -speri allo scampo mio ritrovar via. -Di disagio morrò; né chi mi cuopra -gli occhi sarà, né chi sepolcro dia, -se forse in ventre lor non me lo dànno -i lupi, ohimè, ch'in queste selve stanno. -Io sto in sospetto, e già di veder parmi -di questi boschi orsi o leoni uscire, -o tigri o fiere tal, che natura armi -d'aguzzi denti e d'ugne da ferire. -Ma quai fere crudel potriano farmi, -fera crudel, peggio di te morire? -darmi una morte, so, lor parrà assai; -e tu di mille, ohimè, morir mi fai. -Ma presupongo ancor ch'or ora arrivi -nochier che per pietà di qui mi porti; -e così lupi, orsi, leoni schivi, -strazi, disagi ed altre orribil morti: -mi porterà forse in Olanda, s'ivi -per te si guardan le fortezze e i porti? -mi porterà alla terra ove son nata, -se tu con fraude già me l'hai levata? -Tu m'hai lo stato mio, sotto pretesto -di parentado e d'amicizia, tolto. -Ben fosti a porvi le tue genti presto, -per avere il dominio a te rivolto. -Tornerò in Fiandra? ove ho venduto il resto -di che io vivea, ben che non fossi molto, -per sovenirti e di prigione trarte. -Mischina! dove andrò? non so in qual parte. -Debbo forse ire in Frisa, ove io potei, -e per te non vi volsi esser regina? -il che del padre e dei fratelli miei -e d'ogn'altro mio ben fu la ruina. -Quel c'ho fatto per te, non ti vorrei, -ingrato, improverar, né disciplina -dartene; che non men di me lo sai: -or ecco il guiderdon che me ne dai. -Deh, pur che da color che vanno in corso -io non sia presa, e poi venduta schiava! -Prima che questo, il lupo, il leon, l'orso -venga, e la tigre e ogn'altra fera brava, -di cui l'ugna mi stracci, e franga il morso; -e morta mi strascini alla sua cava. — -Così dicendo, le mani si caccia -ne' capei d'oro, e a chiocca a chiocca straccia. -Corre di nuovo in su l'estrema sabbia, -e ruota il capo e sparge all'aria il crine; -e sembra forsennata, e ch'adosso abbia -non un demonio sol, ma le decine; -o, qual Ecuba, sia conversa in rabbia, -vistosi morto Polidoro al fine. -Or si ferma s'un sasso, e guarda il mare; -né men d'un vero sasso, un sasso pare. -Ma lasciànla doler fin ch'io ritorno, -per voler di Ruggier dirvi pur anco, -che nel più intenso ardor del mezzo giorno -cavalca il lito, affaticato e stanco. -Percuote il sol nel colle e fa ritorno: -di sotto bolle il sabbion trito e bianco. -Mancava all'arme ch'avea indosso, poco -ad esser, come già, tutte di fuoco. -Mentre la sete, e de l'andar fatica -per l'alta sabbia e la solinga via -gli facean, lungo quella spiaggia aprica, -noiosa e dispiacevol compagnia; -trovò ch'all'ombra d'una torre antica -che fuor de l'onde appresso il lito uscia, -de la corte d'Alcina eran tre donne, -che le conobbe ai gesti ed alle gonne. -Corcate su tapeti allessandrini -godeansi il fresco rezzo in gran diletto, -fra molti vasi di diversi vini -e d'ogni buona sorte di confetto. -Presso alla spiaggia, coi flutti marini -scherzando, le aspettava un lor legnetto -fin che la vela empiesse agevol òra; -ch'un fiato pur non ne spirava allora. -Queste, ch'andar per la non ferma sabbia -vider Ruggier al suo viaggio dritto, -che sculta avea la sete in su le labbia, -tutto pien di sudore il viso afflitto, -gli cominciaro a dir che sì non abbia -il cor voluntaroso al camin fitto, -ch'alla fresca e dolce ombra non si pieghi, -e ristorar lo stanco corpo nieghi. -E di lor una s'accostò al cavallo -per la staffa tener, che ne scendesse; -l'altra con una coppa di cristallo -di vin spumante, più sete gli messe: -ma Ruggiero a quel suon non entrò in ballo; -perché d'ogni tardar che fatto avesse, -tempo di giunger dato avria ad Alcina, -che venìa dietro ed era omai vicina. -Non così fin salnitro e zolfo puro, -tocco dal fuoco, subito s'avampa; -né così freme il mar quando l'oscuro -turbo discende e in mezzo se gli accampa: -come, vedendo che Ruggier sicuro -al suo dritto camin l'arena stampa, -e che le sprezza (e pur si tenean belle), -d'ira arse e di furor la terza d'elle. -— Tu non sei né gentil né cavalliero -(dice gridando quanto può più forte), -ed hai rubate l'arme; e quel destriero -non saria tuo per veruna altra sorte: -e così, come ben m'appongo al vero, -ti vedessi punir di degna morte; -che fossi fatto in quarti, arso o impiccato, -brutto ladron, villan, superbo, ingrato. — -Oltr'a queste e molt'altre ingiuriose -parole che gli usò la donna altiera, -ancor che mai Ruggier non le rispose, -che di sì vil tenzon poco onor spera; -con le sorelle tosto ella si pose -sul legno in mar, che al lor servigio v'era: -ed affrettando i remi, lo seguiva, -vedendol tuttavia dietro alla riva. -Minaccia sempre, maledice e incarca; -che l'onte sa trovar per ogni punto. -Intanto a quello stretto, onde si varca -alla fata più bella, è Ruggier giunto; -dove un vecchio nochiero una sua barca -scioglier da l'altra ripa vede, a punto -come, avisato e già provisto, quivi -si stia aspettando che Ruggiero arrivi. -Scioglie il nochier, come venir lo vede, -di trasportarlo a miglior ripa lieto; -che, se la faccia può del cor dar fede, -tutto benigno e tutto era discreto. -Pose Ruggier sopra il navilio il piede, -Dio ringraziando; e per lo mar quieto -ragionando venìa col galeotto, -saggio e di lunga esperienza dotto. -Quel lodava Ruggier, che sì se avesse -saputo a tempo tor da Alcina, e inanti -che 'l calice incantato ella gli desse, -ch'avea al fin dato a tutti gli altri amanti; -e poi, che a Logistilla si traesse, -dove veder potria costumi santi, -bellezza eterna ed infinita grazia -che 'l cor notrisce e pasce, e mai non sazia. -— Costei (dicea) stupore e riverenza -induce all'alma, ove si scuopre prima. -Contempla meglio poi l'alta presenza: -ogn'altro ben ti par di poca stima. -Il suo amore ha dagli altri differenza: -speme o timor negli altri il cor ti lima; -in questo il desiderio più non chiede, -e contento riman come la vede. -Ella t'insegnerà studi più grati, -che suoni, danze, odori, bagni e cibi: -ma come i pensier tuoi meglio formati -poggin più ad alto, che per l'aria i nibi, -e come de la gloria de' beati -nel mortal corpo parte si delibi. — -Così parlando il marinar veniva, -lontano ancora alla sicura riva; -quando vide scoprire alla marina -molti navili, e tutti alla sua volta. -Con quei ne vien l'ingiuriata Alcina; -e molta di sua gente have raccolta -per por lo stato a se stessa in ruina, -o racquistar la cara cosa tolta. -E bene è amor di ciò cagion non lieve, -ma l'ingiuria non men che ne riceve. -Ella non ebbe sdegno, da che nacque, -di questo il maggior mai, ch'ora la rode; -onde fa i remi sì affrettar per l'acque, -che la spuma ne sparge ambe le prode. -Al gran rumor né mar né ripa tacque, -ed Ecco risonar per tutto s'ode. -— Scuopre, Ruggier, lo scudo, che bisogna; -se non, sei morto, o preso con vergogna. — -Così disse il nocchier di Logistilla: -ed oltre il detto, egli medesmo prese -la tasca e da lo scudo dipartilla, -e fe' il lume di quel chiaro e palese. -L'incantato splendor che ne sfavilla, -gli occhi degli aversari così offese, -che li fe' restar ciechi allora allora, -e cader chi da poppa e chi da prora. -Un ch'era alla veletta in su la rocca, -de l'armata d'Alcina si fu accorto; -e la campana martellando tocca, -onde il soccorso vien subito al porto. -L'artegliaria, come tempesta, fiocca -contra chi vuole al buon Ruggier far torto: -sì che gli venne d'ogni parte aita, -tal che salvò la libertà e la vita. -Giunte son quattro donne in su la spiaggia, -che subito ha mandate Logistilla: -la valorosa Andronica e la saggia -Fronesia e l'onestissima Dicilla -e Sofrosina casta, che, come aggia -quivi a far più che l'altre, arde e sfavilla. -L'esercito ch'al mondo è senza pare, -del castello esce, e si distende al mare. -Sotto il castel ne la tranquilla foce -di molti e grossi legni era una armata, -ad un botto di squilla, ad una voce -giorno e notte a battaglia apparecchiata. -E così fu la pugna aspra ed atroce, -e per acqua e per terra, incominciata; -per cui fu il regno sottosopra volto, -ch'avea già Alcina alla sorella tolto. -Oh di quante battaglie il fin successe -diverso a quel che si credette inante! -Non sol ch'Alcina alor non riavesse, -come stimossi, il fugitivo amante; -ma dele navi che pur dianzi spesse -fur sì, ch'a pena il mar ne capia tante, -fuor de la fiamma che tutt'altre avampa, -con un legnetto sol misera scampa. -Fuggesi Alcina, e sua misera gente -arsa e presa riman, rotta e sommersa. -D'aver Ruggier perduto, ella si sente -via più doler che d'altra cosa aversa: -notte e dì per lui geme amaramente, -e lacrime per lui dagli occhi versa; -e per dar fine a tanto aspro martire, -spesso si duol di non poter morire. -Morir non puote alcuna fata mai, -fin che 'l sol gira, o il ciel non muta stilo. -Se ciò non fosse, era il dolore assai -per muover Cloto ad inasparle il filo; -o, qual Didon, finia col ferro i guai; -o la regina splendida del Nilo -avria imitata con mortifer sonno: -ma le fate morir sempre non ponno. -Torniamo a quel di eterna gloria degno -Ruggiero; e Alcina stia ne la sua pena. -Dico di lui, che poi che fuor del legno -si fu condutto in più sicura arena, -Dio ringraziando che tutto il disegno -gli era successo, al mar voltò la schiena; -ed affrettando per l'asciutto il piede, -alla rocca ne va che quivi siede. -Né la più forte ancor né la più bella -mai vide occhio mortal prima né dopo. -Son di più prezzo le mura di quella, -che se diamante fossino o piropo. -Di tai gemme qua giù non si favella: -ed a chi vuol notizia averne, è d'uopo -che vada quivi; che non credo altrove, -se non forse su in ciel, se ne ritruove. -Quel che più fa che lor si inchina e cede -ogn'altra gemma, è che, mirando in esse, -l'uom sin in mezzo all'anima si vede; -vede suoi vizi e sue virtudi espresse, -sì che a lusinghe poi di sé non crede, -né a chi dar biasmo a torto gli volesse: -fassi, mirando allo specchio lucente -se stesso, conoscendosi, prudente. -Il chiaro lume lor, ch'imita il sole, -manda splendore in tanta copia intorno, -che chi l'ha, ovunque sia, sempre che vuole, -Febo, mal grado tuo, si può far giorno. -Né mirabil vi son le pietre sole; -ma la materia e l'artificio adorno -contendon sì, che mal giudicar puossi -qual de le due eccellenze maggior fossi. -Sopra gli altissimi archi, che puntelli -parean che del ciel fossino a vederli, -eran giardin sì spaziosi e belli, -che saria al piano anco fatica averli. -Verdeggiar gli odoriferi arbuscelli -si puon veder fra i luminosi merli, -ch'adorni son l'estate e il verno tutti -di vaghi fiori e di maturi frutti. -Di così nobili arbori non suole -prodursi fuor di questi bei giardini, -né di tai rose o di simil viole, -di gigli, di amaranti o di gesmini. -Altrove appar come a un medesmo sole -e nasca e viva, e morto il capo inchini, -e come lasci vedovo il suo stelo -il fior suggetto al variar del cielo: -ma quivi era perpetua la verdura, -perpetua la beltà de' fiori eterni: -non che benignità de la Natura -sì temperatamente li governi; -ma Logistilla con suo studio e cura, -senza bisogno de' moti superni -(quel che agli altri impossibile parea), -sua primavera ognor ferma tenea. -Logistilla mostrò molto aver grato -ch'a lei venisse un sì gentil signore; -e comandò che fosse accarezzato, -e che studiasse ognun di fargli onore. -Gran pezzo inanzi Astolfo era arrivato, -che visto da Ruggier fu di buon core. -Fra pochi giorni venner gli altri tutti, -ch'a l'esser lor Melissa avea ridutti. -Poi che si fur posati un giorno e dui, -venne Ruggiero alla fata prudente -col duca Astolfo, che non men di lui -avea desir di riveder Ponente. -Melissa le parlò per amendui; -e supplica la fata umilemente, -che li consigli, favorisca e aiuti, -sì che ritornin donde eran venuti. -Disse la fata: — Io ci porrò il pensiero, -e fra dui dì te li darò espediti. — -Discorre poi tra sé, come Ruggiero, -e dopo lui, come quel duca aiti: -conchiude infin che 'l volator destriero -ritorni il primo agli aquitani liti; -ma prima vuol che se gli faccia un morso, -con che lo volga, e gli raffreni il corso. -Gli mostra come egli abbia a far, se vuole -che poggi in alto, e come a far che cali; -e come, se vorrà che in giro vole, -o vada ratto, o che si stia su l'ali: -e quali effetti il cavallier far suole -di buon destriero in piana terra, tali -facea Ruggier che mastro ne divenne, -per l'aria, del destrier ch'avea le penne. -Poi che Ruggier fu d'ogni cosa in punto, -da la fata gentil comiato prese, -alla qual restò poi sempre congiunto -di grande amore; e uscì di quel paese. -Prima di lui che se n'andò in buon punto, -e poi dirò come il guerriero inglese -tornasse con più tempo e più fatica -al magno Carlo ed alla corte amica. -Quindi partì Ruggier, ma non rivenne -per quella via che fe' già suo mal grado, -allor che sempre l'ippogrifo il tenne -sopra il mare, e terren vide di rado: -ma potendogli or far batter le penne -di qua di là, dove più gli era a grado, -volse al ritorno far nuovo sentiero, -come, schivando Erode, i Magi fero. -Al venir quivi, era, lasciando Spagna, -venuto India a trovar per dritta riga, -là dove il mare oriental la bagna; -dove una fata avea con l'altra briga. -Or veder si dispose altra campagna, -che quella dove i venti Eolo istiga, -e finir tutto il cominciato tondo, -per aver, come il sol, girato il mondo. -Quinci il Cataio, e quindi Mangiana -sopra il gran Quinsaì vide passando: -volò sopra l'Imavo, e Sericana -lasciò a man destra; e sempre declinando -da l'iperborei Sciti a l'onda ircana, -giunse alle parti di Sarmazia: e quando -fu dove Asia da Europa si divide, -Russi e Pruteni e la Pomeria vide. -Ben che di Ruggier fosse ogni desire -di ritornare a Bradamante presto; -pur, gustato il piacer ch'avea di gire -cercando il mondo, non restò per questo, -ch'alli Pollacchi, agli Ungari venire -non volesse anco, alli Germani, e al resto -di quella boreale orrida terra: -e venne al fin ne l'ultima Inghilterra. -Non crediate, Signor, che però stia -per sì lungo camin sempre su l'ale: -ogni sera all'albergo se ne gìa, -schivando a suo poter d'alloggiar male. -E spese giorni e mesi in questa via, -sì di veder la terra e il mar gli cale. -Or presso a Londra giunto una matina, -sopra Tamigi il volator declina. -Dove ne' prati alla città vicini -vide adunati uomini d'arme e fanti, -ch'a suon di trombe e a suon di tamburini -venian, partiti a belle schiere, avanti -il buon Rinaldo, onor de' paladini; -del qual, se vi ricorda, io dissi inanti, -che mandato da Carlo, era venuto -in queste parti a ricercar aiuto. -Giunse a punto Ruggier, che si facea -la bella mostra fuor di quella terra; -e per sapere il tutto, ne chiedea -un cavallier, ma scese prima in terra: -e quel, ch'affabil era, gli dicea -che di Scozia e d'Irlanda e d'Inghilterra -e de l'isole intorno eran le schiere -che quivi alzate avean tante bandiere: -e finita la mostra che faceano, -alla marina se distenderanno, -dove aspettati per solcar l'Oceano -son dai navili che nel porto stanno. -I Franceschi assediati si ricreano, -sperando in questi che a salvar li vanno. -— Ma acciò tu te n'informi pienamente, -io ti distinguerò tutta la gente. -Tu vedi ben quella bandiera grande, -ch'insieme pon la fiordaligi e i pardi: -quella il gran capitano all'aria spande, -e quella han da seguir gli altri stendardi. -Il suo nome, famoso in queste bande, -è Leonetto, il fior de li gagliardi, -di consiglio e d'ardire in guerra mastro, -del re nipote, e duca di Lincastro. -La prima, appresso il gonfalon reale, -che 'l vento tremolar fa verso il monte, -e tien nel campo verde tre bianche ale, -porta Ricardo, di Varvecia conte. -Del duca di Glocestra è quel segnale, -c'ha duo corna di cervio e mezza fronte. -Del duca di Chiarenza è quella face; -quel arbore è del duca d'Eborace. -Vedi in tre pezzi una spezzata lancia: -gli è 'l gonfalon del duca di Nortfozia. -La fulgure è del buon conte di Cancia; -il grifone è del conte di Pembrozia. -Il duca di Sufolcia ha la bilancia. -Vedi quel giogo che due serpi assozia: -è del conte d'Esenia, e la ghirlanda -in campo azzurro ha quel di Norbelanda. -Il conte d'Arindelia è quel c'ha messo -in mar quella barchetta che s'affonda. -Vedi il marchese di Barclei; e appresso -di Marchia il conte e il conte di Ritmonda: -il primo porta in bianco un monte fesso, -l'altro la palma, il terzo un pin ne l'onda. -Quel di Dorsezia è conte, e quel d'Antona, -che l'uno ha il carro, e l'altro la corona. -Il falcon che sul nido i vanni inchina, -porta Raimondo, il conte di Devonia. -Il giallo e negro ha quel di Vigorina; -il can quel d'Erbia un orso quel d'Osonia. -La croce che là vedi cristallina, -è del ricco prelato di Battonia. -Vedi nel bigio una spezzata sedia: -è del duca Ariman di Sormosedia. -Gli uomini d'arme e gli arcieri a cavallo -di quarantaduomila numer fanno. -Sono duo tanti, o di cento non fallo, -quelli ch'a piè ne la battaglia vanno. -Mira quei segni, un bigio, un verde, un giallo, -e di nero e d'azzur listato un panno: -Gofredo, Enrigo, Ermante ed Odoardo -guidan pedoni, ognun col suo stendardo. -Duca di Bocchingamia è quel dinante; -Enrigo ha la contea di Sarisberia; -signoreggia Burgenia il vecchio Ermante; -quello Odoardo è conte di Croisberia. -Questi alloggiati più verso levante -sono gl'Inglesi. Or volgeti all'Esperia, -dove si veggion trentamila Scotti, -da Zerbin, figlio del lor re, condotti. -Vedi tra duo unicorni il gran leone, -che la spada d'argento ha ne la zampa: -quell'è del re di Scozia il gonfalone; -il suo figliol Zerbino ivi s'accampa. -Non è un sì bello in tante altre persone: -natura il fece, e poi roppe la stampa. -Non è in cui tal virtù, tal grazia luca, -o tal possanza: ed è di Roscia duca. -Porta in azzurro una dorata sbarra -il conte d'Ottonlei ne lo stendardo. -L'altra bandiera è del duca di Marra, -che nel travaglio porta il leopardo. -Di più colori e di più augei bizzarra -mira l'insegna d'Alcabrun gagliardo, -che non è duca, conte, né marchese, -ma primo nel salvatico paese. -Del duca di Trasfordia è quella insegna, -dove è l'augel ch'al sol tien gli occhi franchi. -Lurcanio conte, ch'in Angoscia regna, -porta quel tauro, c'ha duo veltri ai fianchi. -Vedi là il duca d'Albania, che segna -il campo di colori azzurri e bianchi. -Quel avoltor, ch'un drago verde lania, -è l'insegna del conte di Boccania. -Signoreggia Forbesse il forte Armano, -che di bianco e di nero ha la bandiera; -ed ha il conte d'Erelia a destra mano, -che porta in campo verde una lumiera. -Or guarda gl'Ibernesi appresso il piano: -sono duo squadre; e il conte di Childera -mena la prima, e il conte di Desmonda -da fieri monti ha tratta la seconda. -Ne lo stendardo il primo ha un pino ardente; -l'altro nel bianco una vermiglia banda. -Non dà soccorso a Carlo solamente -la terra inglese, e la Scozia e l'Irlanda; -ma vien di Svezia e di Norvegia gente, -da Tile, e fin da la remota Islanda: -da ogni terra, insomma, che là giace, -nimica naturalmente di pace. -Sedicimila sono, o poco manco, -de le spelonche usciti e de le selve; -hanno piloso il viso, il petto, il fianco, -e dossi e braccia e gambe, come belve. -Intorno allo stendardo tutto bianco -par che quel pian di lor lance s'inselve: -così Moratto il porta, il capo loro, -per dipingerlo poi di sangue Moro. — -Mentre Ruggier di quella gente bella, -che per soccorrer Francia si prepara, -mira le varie insegne e ne favella, -e dei signor britanni i nomi impara; -uno ed un altro a lui, per mirar quella -bestia sopra cui siede, unica o rara, -maraviglioso corre e stupefatto; -e tosto il cerchio intorno gli fu fatto. -Sì che per dare ancor più maraviglia, -e per pigliarne il buon Ruggier più gioco, -al volante corsier scuote la briglia, -e con gli sproni ai fianchi il tocca un poco: -quel verso il ciel per l'aria il camin piglia, -e lascia ognuno attonito in quel loco. -Quindi Ruggier, poi che di banda in banda -vide gl'Inglesi, andò verso l'Irlanda. -E vide Ibernia fabulosa, dove -il santo vecchiarel fece la cava, -in che tanta mercé par che si truove, -che l'uom vi purga ogni sua colpa prava. -Quindi poi sopra il mare il destrier muove -là dove la minor Bretagna lava: -e nel passar vide, mirando a basso, -Angelica legata al nudo sasso. -Al nudo sasso, all'Isola del pianto; -che l'Isola del pianto era nomata -quella che da crudele e fiera tanto -ed inumana gente era abitata, -che (come io vi dicea sopra nel canto) -per vari liti sparsa iva in armata -tutte le belle donne depredando, -per farne a un mostro poi cibo nefando. -Vi fu legata pur quella matina, -dove venìa per trangugiarla viva -quel smisurato mostro, orca marina, -che di aborrevole esca si nutriva. -Dissi di sopra, come fu rapina -di quei che la trovaro in su la riva -dormire al vecchio incantatore a canto, -ch'ivi l'avea tirata per incanto. -La fiera gente inospitale e cruda -alla bestia crudel nel lito espose -la bellissima donna, così ignuda -come Natura prima la compose. -Un velo non ha pure, in che richiuda -i bianchi gigli e le vermiglie rose, -da non cader per luglio o per dicembre, -di che son sparse le polite membre. -Creduto avria che fosse statua finta -o d'alabastro o d'altri marmi illustri -Ruggiero, e su lo scoglio così avinta -per artificio di scultori industri; -se non vedea la lacrima distinta -tra fresche rose e candidi ligustri -far rugiadose le crudette pome, -e l'aura sventolar l'aurate chiome. -E come ne' begli occhi gli occhi affisse, -de la sua Bradamante gli sovvenne. -Pietade e amore a un tempo lo trafisse, -e di piangere a pena si ritenne; -e dolcemente alla donzella disse, -poi che del suo destrier frenò le penne: -— O donna, degna sol de la catena -con chi i suoi servi Amor legati mena, -e ben di questo e d'ogni male indegna, -chi è quel crudel che con voler perverso -d'importuno livor stringendo segna -di queste belle man l'avorio terso? — -Forza è ch'a quel parlare ella divegna -quale è di grana un bianco avorio asperso, -di sé vedendo quelle parti ignude, -ch'ancor che belle sian, vergogna chiude. -E coperto con man s'avrebbe il volto, -se non eran legate al duro sasso; -ma del pianto, ch'almen non l'era tolto, -lo sparse, e si sforzò di tener basso. -E dopo alcun' signozzi il parlar sciolto, -incominciò con fioco suono e lasso: -ma non seguì; che dentro il fe' restare -il gran rumor che si sentì nel mare. -Ecco apparir lo smisurato mostro -mezzo ascoso ne l'onda e mezzo sorto. -Come sospinto suol da borea o d'ostro -venir lungo navilio a pigliar porto, -così ne viene al cibo che l'è mostro -la bestia orrenda; e l'intervallo è corto. -La donna è mezza morta di paura; -né per conforto altrui si rassicura. -Tenea Ruggier la lancia non in resta, -ma sopra mano, e percoteva l'orca. -Altro non so che s'assimigli a questa, -ch'una gran massa che s'aggiri e torca; -né forma ha d'animal, se non la testa, -c'ha gli occhi e i denti fuor, come di porca. -Ruggier in fronte la ferìa tra gli occhi; -ma par che un ferro o un duro sasso tocchi. -Poi che la prima botta poco vale, -ritorna per far meglio la seconda. -L'orca, che vede sotto le grandi ale -l'ombra di qua e di là correr su l'onda, -lascia la preda certa litorale, -e quella vana segue furibonda: -dietro quella si volve e si raggira. -Ruggier giù cala, e spessi colpi tira. -Come d'alto venendo aquila suole, -ch'errar fra l'erbe visto abbia la biscia, -o che stia sopra un nudo sasso al sole, -dove le spoglie d'oro abbella e liscia; -non assalir da quel lato la vuole -onde la velenosa e soffia e striscia, -ma da tergo la adugna, e batte i vanni, -acciò non se le volga e non la azzanni: -così Ruggier con l'asta e con la spada, -non dove era de' denti armato il muso, -ma vuol che 'l colpo tra l'orecchie cada, -or su le schene, or ne la coda giuso. -Se la fera si volta, ei muta strada, -ed a tempo giù cala, e poggia in suso: -ma come sempre giunga in un diaspro, -non può tagliar lo scoglio duro ed aspro. -Simil battaglia fa la mosca audace -contra il mastin nel polveroso agosto, -o nel mese dinanzi o nel seguace, -l'uno di spiche e l'altro pien di mosto: -negli occhi il punge e nel grifo mordace, -volagli intorno e gli sta sempre accosto; -e quel suonar fa spesso il dente asciutto: -ma un tratto che gli arrivi, appaga il tutto. -Sì forte ella nel mar batte la coda, -che fa vicino al ciel l'acqua inalzare; -tal che non sa se l'ale in aria snoda, -o pur se 'l suo destrier nuota nel mare. -Gli è spesso che disia trovarsi a proda; -che se lo sprazzo in tal modo ha a durare, -teme sì l'ale inaffi all'ippogrifo, -che brami invano avere o zucca o schifo. -Prese nuovo consiglio, e fu il migliore, -di vincer con altre arme il mostro crudo: -abbarbagliar lo vuol con lo splendore -ch'era incantato nel coperto scudo. -Vola nel lito; e per non fare errore, -alla donna legata al sasso nudo -lascia nel minor dito de la mano -l'annel, che potea far l'incanto vano: -dico l'annel che Bradamante avea, -per liberar Ruggier, tolto a Brunello, -poi per trarlo di man d'Alcina rea, -mandato in India per Melissa a quello. -Melissa (come dianzi io vi dicea) -in ben di molti adoperò l'annello; -indi l'avea a Ruggier restituito, -dal qual poi sempre fu portato in dito. -Lo dà ad Angelica ora, perché teme -che del suo scudo il fulgurar non viete, -e perché a lei ne sien difesi insieme -gli occhi che già l'avean preso alla rete. -Or viene al lito e sotto il ventre preme -ben mezzo il mar la smisurata cete. -Sta Ruggiero alla posta, e lieva il velo; -e par ch'aggiunga un altro sole al cielo. -Ferì negli occhi l'incantato lume -di quella fera, e fece al modo usato. -Quale o trota o scaglion va giù pel fiume -c'ha con calcina il montanar turbato, -tal si vedea ne le marine schiume -il mostro orribilmente riversciato. -Di qua di là Ruggier percuote assai, -ma di ferirlo via non truova mai. -La bella donna tuttavolta priega -ch'invan la dura squama oltre non pesti. -— Torna, per Dio, signor: prima mi slega -(dicea piangendo), che l'orca si desti: -portami teco e in mezzo il mar mi anniega: -non far ch'in ventre al brutto pesce io resti. — -Ruggier, commosso dunque al giusto grido, -slegò la donna, e la levò dal lido. -Il destrier punto, ponta i piè all'arena -e sbalza in aria, e per lo ciel galoppa; -e porta il cavalliero in su la schena, -e la donzella dietro in su la groppa. -Così privò la fera de la cena -per lei soave e delicata troppa. -Ruggier si va volgendo, e mille baci -figge nel petto e negli occhi vivaci. -Non più tenne la via, come propose -prima, di circundar tutta la Spagna; -ma nel propinquo lito il destrier pose, -dove entra in mar più la minor Bretagna. -Sul lito un bosco era di querce ombrose, -dove ognor par che Filomena piagna; -ch'in mezzo avea un pratel con una fonte, -e quinci e quindi un solitario monte. -Quivi il bramoso cavallier ritenne -l'audace corso, e nel pratel discese; -e fe' raccorre al suo destrier le penne, -ma non a tal che più le avea distese. -Del destrier sceso, a pena si ritenne -di salir altri; ma tennel l'arnese: -l'arnese il tenne, che bisognò trarre, -e contra il suo disir messe le sbarre. -Frettoloso, or da questo or da quel canto -confusamente l'arme si levava. -Non gli parve altra volta mai star tanto; -che s'un laccio sciogliea, dui n'annodava. -Ma troppo è lungo ormai, Signor, il canto, -e forse ch'anco l'ascoltar vi grava: -sì ch'io differirò l'istoria mia -in altro tempo che più grata sia. Quantunque debil freno a mezzo il corso -animoso destrier spesso raccolga, -raro è però che di ragione il morso -libidinosa furia a dietro volga, -quando il piacere ha in pronto; a guisa d'orso -che dal mel non sì tosto si distolga, -poi che gli n'è venuto odore al naso, -o qualche stilla ne gustò sul vaso. -Qual ragion fia che 'l buon Ruggier raffrene, -sì che non voglia ora pigliar diletto -d'Angelica gentil che nuda tiene -nel solitario e commodo boschetto? -Di Bradamante più non gli soviene, -che tanto aver solea fissa nel petto: -e se gli ne sovien pur come prima, -pazzo è se questa ancor non prezza e stima; -con la qual non saria stato quel crudo -Zenocrate di lui più continente. -Gittato avea Ruggier l'asta e lo scudo, -e si traea l'altre arme impaziente; -quando abbassando pel bel corpo ignudo -la donna gli occhi vergognosamente, -si vide in dito il prezioso annello -che già le tolse ad Albracca Brunello. -Questo è l'annel ch'ella portò già in Francia -la prima volta che fe' quel camino -col fratel suo, che v'arrecò la lancia, -la qual fu poi d'Astolfo paladino. -Con questo fe' gl'incanti uscire in ciancia -di Malagigi al petron di Merlino; -con questo Orlando ed altri una matina -tolse di servitù di Dragontina; -con questo uscì invisibil de la torre -dove l'avea richiusa un vecchio rio. -A che voglio io tutte sue prove accorre, -se le sapete voi così come io? -Brunel sin nel giron lel venne a torre; -ch'Agramante d'averlo ebbe disio. -Da indi in qua sempre Fortuna a sdegno -ebbe costei, fin che le tolse il regno. -Or che sel vede, come ho detto, in mano, -sì di stupore e d'allegrezza è piena, -che quasi dubbia di sognarsi invano, -agli occhi, alla man sua dà fede a pena. -Del dito se lo leva, e a mano a mano -sel chiude in bocca: e in men che non balena, -così dagli occhi di Ruggier si cela, -come fa il sol quando la nube il vela. -Ruggier pur d'ogn'intorno riguardava, -e s'aggirava a cerco come un matto; -ma poi che de l'annel si ricordava, -scornato vi rimase e stupefatto: -e la sua inavvertenza bestemiava, -e la donna accusava di quello atto -ingrato e discortese, che renduto -in ricompensa gli era del suo aiuto. -— Ingrata damigella, è questo quello -guiderdone (dicea), che tu mi rendi? -che più tosto involar vogli l'annello, -ch'averlo in don? Perché da me nol prendi? -Non pur quel, ma lo scudo e il destrier snello -e me ti dono, e come vuoi mi spendi; -sol che 'l bel viso tuo non mi nascondi. -Io so, crudel, che m'odi, e non rispondi. — -Così dicendo, intorno alla fontana -brancolando n'andava come cieco. -Oh quante volte abbracciò l'aria vana, -sperando la donzella abbracciar seco! -Quella, che s'era già fatta lontana, -mai non cessò d'andar, che giunse a un speco -che sotto un monte era capace e grande, -dove al bisogno suo trovò vivande. -Quivi un vecchio pastor, che di cavalle -un grande armento avea, facea soggiorno. -Le iumente pascean giù per la valle -le tenere erbe ai freschi rivi intorno. -Di qua di là da l'antro erano stalle, -dove fuggìano il sol del mezzo giorno. -Angelica quel dì lunga dimora -là dentro fece, e non fu vista ancora. -E circa il vespro, poi che rifrescossi, -e le fu aviso esser posata assai, -in certi drappi rozzi aviluppossi, -dissimil troppo ai portamenti gai, -che verdi, gialli, persi, azzurri e rossi -ebbe, e di quante fogge furon mai. -Non le può tor però tanto umil gonna, -che bella non rassembri e nobil donna. -Taccia chi loda Fillide, o Neera, -o Amarilli, o Galatea fugace; -che d'esse alcuna sì bella non era, -Titiro e Melibeo, con vostra pace. -La bella donna tra' fuor de la schiera -de le iumente una che più le piace. -Allora allora se le fece inante -un pensier di tornarsene in Levante. -Ruggiero intanto, poi ch'ebbe gran pezzo -indarno atteso s'ella si scopriva, -e che s'avide del suo error da sezzo, -che non era vicina e non l'udiva; -dove lasciato avea il cavallo, avezzo -in cielo e in terra, a rimontar veniva: -e ritrovò che s'avea tratto il morso, -e salia in aria a più libero corso. -Fu grave e mala aggiunta all'altro danno -vedersi anco restar senza l'augello. -Questo, non men che 'l feminile inganno, -gli preme al cor; ma più che questo e quello, -gli preme e fa sentir noioso affanno -l'aver perduto il prezioso annello; -per le virtù non tanto ch'in lui sono, -quanto che fu de la sua donna dono. -Oltremodo dolente si ripose -indosso l'arme, e lo scudo alle spalle; -dal mar slungossi, e per le piaggie erbose -prese il camin verso una larga valle, -dove per mezzo all'alte selve ombrose -vide il più largo e 'l più segnato calle. -Non molto va, ch'a destra, ove più folta -è quella selva, un gran strepito ascolta. -Strepito ascolta e spaventevol suono -d'arme percosse insieme; onde s'affretta -tra pianta e pianta, e trova dui, che sono -a gran battaglia in poca piazza e stretta. -Non s'hanno alcun riguardo né perdono, -per far, non so di che, dura vendetta. -L'uno è gigante, alla sembianza fiero; -ardito l'altro e franco cavalliero. -E questo con lo scudo e con la spada, -di qua di là saltando, si difende, -perché la mazza sopra non gli cada, -con che il gigante a due man sempre offende. -Giace morto il cavallo in su la strada. -Ruggier si ferma, e alla battaglia attende; -e tosto inchina l'animo, e disia -che vincitore il cavallier ne sia. -Non che per questo gli dia alcun aiuto; -ma si tira da parte, e sta a vedere. -Ecco col baston grave il più membruto -sopra l'elmo a due man del minor fere. -De la percossa è il cavallier caduto: -l'altro, che 'l vide attonito giacere, -per dargli morte l'elmo gli dislaccia; -e fa sì che Ruggier lo vede in faccia. -Vede Ruggier de la sua dolce e bella -e carissima donna Bradamante -scoperto il viso; e lei vede esser quella -a cui dar morte vuol l'empio gigante: -sì che a battaglia subito l'appella, -e con la spada nuda si fa inante: -ma quel, che nuova pugna non attende, -la donna tramortita in braccio prende; -e se l'arreca in spalla, e via la porta, -come lupo talor piccolo agnello, -o l'aquila portar ne l'ugna torta -suole o colombo o simile altro augello. -Vede Ruggier quanto il suo aiuto importa, -e vien correndo a più poter; ma quello -con tanta fretta i lunghi passi mena, -che con gli occhi Ruggier lo segue a pena. -Così correndo l'uno, e seguitando -l'altro, per un sentiero ombroso e fosco, -che sempre si venìa più dilatando, -in un gran prato uscir fuor di quel bosco. -Non più di questo; ch'io ritorno a Orlando, -che 'l fulgur che portò già il re Cimosco, -avea gittato in mar nel maggior fondo, -acciò mai più non si trovasse al mondo. -Ma poco ci giovò: che 'l nimico empio -de l'umana natura, il qual del telo -fu l'inventor, ch'ebbe da quel l'esempio, -ch'apre le nubi e in terra vien dal cielo; -con quasi non minor di quello scempio -che ci diè quando Eva ingannò col melo, -lo fece ritrovar da un negromante, -al tempo de' nostri avi, o poco inante. -La machina infernal, di più di cento -passi d'acqua ove stè ascosa molt'anni, -al sommo tratta per incantamento, -prima portata fu tra gli Alamanni; -li quali uno ed un altro esperimento -facendone, e il demonio a' nostri danni -assuttigliando lor via più la mente, -ne ritrovaro l'uso finalmente. -Italia e Francia e tutte l'altre bande -del mondo han poi la crudele arte appresa. -Alcuno il bronzo in cave forme spande, -che liquefatto ha la fornace accesa; -bùgia altri il ferro; e chi picciol, chi grande -il vaso forma, che più e meno pesa: -e qual bombarda e qual nomina scoppio, -qual semplice cannon, qual cannon doppio; -qual sagra, qual falcon, qual colubrina -sento nomar, come al suo autor più agrada; -che 'l ferro spezza, e i marmi apre e ruina, -e ovunque passa si fa dar la strada. -Rendi, miser soldato, alla fucina -per tutte l'arme c'hai, fin alla spada; -e in spalla un scoppio o un arcobugio prendi; -che senza, io so, non toccherai stipendi. -Come trovasti, o scelerata e brutta -invenzion, mai loco in uman core? -Per te la militar gloria è distrutta, -per te il mestier de l'arme è senza onore; -per te è il valore e la virtù ridutta, -che spesso par del buono il rio migliore: -non più la gagliardia, non più l'ardire -per te può in campo al paragon venire. -Per te son giti ed anderan sotterra -tanti signori e cavallieri tanti, -prima che sia finita questa guerra, -che 'l mondo, ma più Italia ha messo in pianti; -che s'io v'ho detto, il detto mio non erra, -che ben fu il più crudele e il più di quanti -mai furo al mondo ingegni empi e maligni, -ch'imaginò sì abominosi ordigni. -E crederò che Dio, perché vendetta -ne sia in eterno, nel profondo chiuda -del cieco abisso quella maladetta -anima, appresso al maladetto Giuda. -Ma seguitiamo il cavallier ch'in fretta -brama trovarsi all'isola d'Ebuda, -dove le belle donne e delicate -son per vivanda a un marin mostro date. -Ma quanto avea più fretta il paladino, -tanto parea che men l'avesse il vento. -Spiri o dal lato destro o dal mancino, -o ne le poppe, sempre è così lento, -che si può far con lui poco camino; -e rimanea talvolta in tutto spento: -soffia talor sì averso, che gli è forza -o di tornare, o d'ir girando all'orza. -Fu volontà di Dio che non venisse -prima che 'l re d'Ibernia in quella parte, -acciò con più facilità seguisse -quel ch'udir vi farò fra poche carte. -Sopra l'isola sorti, Orlando disse -al suo nochiero: — Or qui potrai fermarte, -e 'l battel darmi; che portar mi voglio -senz'altra compagnia sopra lo scoglio. -E voglio la maggior gomona meco, -e l'ancora maggior ch'abbi sul legno: -io ti farò veder perché l'arreco, -se con quel mostro ad affrontar mi vegno. — -Gittar fe' in mare il palischermo seco, -con tutto quel ch'era atto al suo disegno. -Tutte l'arme lasciò, fuor che la spada; -e vêr lo scoglio, sol, prese la strada. -Si tira i remi al petto, e tien le spalle -volte alla parte ove discender vuole; -a guisa che del mare o de la valle -uscendo al lito, il salso granchio suole. -Era ne l'ora che le chiome gialle -la bella Aurora avea spiegate al Sole, -mezzo scoperto ancora e mezzo ascoso, -non senza sdegno di Titon geloso. -Fattosi appresso al nudo scoglio, quanto -potria gagliarda man gittare un sasso, -gli pare udire e non udire un pianto; -sì all'orecchie gli vien debole e lasso. -Tutto si volta sul sinistro canto; -e posto gli occhi appresso all'onde al basso, -vede una donna, nuda come nacque, -legata a un tronco; e i piè le bagnan l'acque. -Perché gli è ancor lontana, e perché china -la faccia tien, non ben chi sia discerne. -Tira in fretta ambi i remi, e s'avicina -con gran disio di più notizia averne. -Ma muggiar sente in questo la marina, -e rimbombar le selve e le caverne: -gonfiansi l'onde; ed ecco il mostro appare, -che sotto il petto ha quasi ascoso il mare. -Come d'oscura valle umida ascende -nube di pioggia e di tempesta pregna, -che più che cieca notte si distende -per tutto 'l mondo, e par che 'l giorno spegna; -così nuota la fera, e del mar prende -tanto, che si può dir che tutto il tegna: -fremono l'onde. Orlando in sé raccolto, -la mira altier, né cangia cor né volto. -E come quel ch'avea il pensier ben fermo -di quanto volea far, si mosse ratto; -e perché alla donzella essere schermo, -e la fera assalir potesse a un tratto, -entrò fra l'orca e lei col palischermo, -nel fodero lasciando il brando piatto: -l'ancora con la gomona in man prese; -poi con gran cor l'orribil mostro attese. -Tosto che l'orca s'accostò, e scoperse -nel schifo Orlando con poco intervallo, -per ingiottirlo tanta bocca aperse, -ch'entrato un uomo vi saria a cavallo. -Si spinse Orlando inanzi, e se gl'immerse -con quella ancora in gola, e s'io non fallo, -col battello anco; e l'ancora attaccolle -e nel palato e ne la lingua molle: -sì che né più si puon calar di sopra, -né alzar di sotto le mascelle orrende. -Così chi ne le mine il ferro adopra, -la terra, ovunque si fa via, suspende, -che subita ruina non lo cuopra, -mentre malcauto al suo lavoro intende. -Da un amo all'altro l'ancora è tanto alta, -che non v'arriva Orlando, se non salta. -Messo il puntello, e fattosi sicuro -che 'l mostro più serrar non può la bocca, -stringe la spada, e per quel antro oscuro -di qua e di là con tagli e punte tocca. -Come si può, poi che son dentro al muro -giunti i nimici, ben difender rocca; -così difender l'orca si potea -dal paladin che ne la gola avea. -Dal dolor vinta, or sopra il mar si lancia, -e mostra i fianchi e le scagliose schene; -or dentro vi s'attuffa, e con la pancia -muove dal fondo e fa salir l'arene. -Sentendo l'acqua il cavallier di Francia, -che troppo abonda, a nuoto fuor ne viene: -lascia l'ancora fitta, e in mano prende -la fune che da l'ancora depende. -E con quella ne vien nuotando in fretta -verso lo scoglio; ove fermato il piede, -tira l'ancora a sé, ch'in bocca stretta -con le due punte il brutto mostro fiede. -L'orca a seguire il canape è costretta -da quella forza ch'ogni forza eccede, -da quella forza che più in una scossa -tira, ch'in dieci un argano far possa. -Come toro selvatico ch'al corno -gittar si senta un improvviso laccio, -salta di qua di là, s'aggira intorno, -si colca e lieva, e non può uscir d'impaccio; -così fuor del suo antico almo soggiorno -l'orca tratta per forza di quel braccio, -con mille guizzi e mille strane ruote -segue la fune, e scior non se ne puote. -Di bocca il sangue in tanta copia fonde, -che questo oggi il mar Rosso si può dire, -dove in tal guisa ella percuote l'onde, -ch'insino al fondo le vedreste aprire; -ed or ne bagna il cielo, e il lume asconde -del chiaro sol: tanto le fa salire. -Rimbombano al rumor ch'intorno s'ode, -le selve, i monti e le lontane prode. -Fuor de la grotta il vecchio Proteo, quando -ode tanto rumor, sopra il mare esce; -e visto entrare e uscir de l'orca Orlando, -e al lito trar sì smisurato pesce, -fugge per l'alto oceano, obliando -lo sparso gregge: e sì il tumulto cresce, -che fatto al carro i suoi delfini porre, -quel dì Nettuno in Etiopia corre. -Con Melicerta in collo Ino piangendo, -e le Nereide coi capelli sparsi, -Glauci e Tritoni, e gli altri, non sappiendo -dove, chi qua chi là van per salvarsi. -Orlando al lito trasse il pesce orrendo, -col qual non bisognò più affaticarsi; -che pel travaglio e per l'avuta pena, -prima morì, che fosse in su l'arena. -De l'isola non pochi erano corsi -a riguardar quella battaglia strana; -i quai da vana religion rimorsi, -così sant'opra riputar profana: -e dicean che sarebbe un nuovo torsi -Proteo nimico, e attizzar l'ira insana, -da farli porre il marin gregge in terra, -e tutta rinovar l'antica guerra; -e che meglio sarà di chieder pace -prima all'offeso dio, che peggio accada; -e questo si farà, quando l'audace -gittato in mare a placar Proteo vada. -Come dà fuoco l'una a l'altra face, -e tosto alluma tutta una contrada, -così d'un cor ne l'altro si difonde -l'ira ch'Orlando vuol gittar ne l'onde. -Chi d'una fromba e chi d'un arco armato, -chi d'asta, chi di spada, al lito scende; -e dinanzi e di dietro e d'ogni lato, -lontano e appresso, a più poter l'offende. -Di sì bestiale insulto e troppo ingrato -gran meraviglia il paladin si prende: -pel mostro ucciso ingiuria far si vede, -dove aver ne sperò gloria e mercede. -Ma come l'orso suol, che per le fiere -menato sia da Rusci o da Lituani, -passando per la via, poco temere -l'importuno abbaiar di picciol cani, -che pur non se li degna di vedere; -così poco temea di quei villani -il paladin, che con un soffio solo -ne potrà fracassar tutto lo stuolo. -E ben si fece far subito piazza -che lor si volse, e Durindana prese. -S'avea creduto quella gente pazza -che le dovesse far poche contese, -quando né indosso gli vedea corazza, -né scudo in braccio, né alcun altro arnese; -ma non sapea che dal capo alle piante -dura la pelle avea più che diamante. -Quel che d'Orlando agli altri far non lece, -di far degli altri a lui già non è tolto. -Trenta n'uccise, e furo in tutto diece -botte, o se più, non le passò di molto. -Tosto intorno sgombrar l'arena fece; -e per slegar la donna era già volto, -quando nuovo tumulto e nuovo grido -fe' risuonar da un'altra parte il lido. -Mentre avea il paladin da questa banda -così tenuto i barbari impediti, -eran senza contrasto quei d'Irlanda -da più parte ne l'isola saliti; -e spenta ogni pietà, strage nefanda -di quel popul facean per tutti i liti: -fosse iustizia, o fosse crudeltade, -né sesso riguardavano né etade. -Nessun ripar fan gl'isolani, o poco; -parte, ch'accolti son troppo improviso, -parte, che poca gente ha il picciol loco, -e quella poca è di nessun aviso. -L'aver fu messo a sacco; messo fuoco -fu ne le case: il populo fu ucciso: -le mura fur tutte adeguate al suolo: -non fu lasciato vivo un capo solo. -Orlando, come gli appertenga nulla -l'alto rumor, le strida e la ruina, -viene a colei che su la pietra brulla -avea da divorar l'orca marina. -Guarda, e gli par conoscer la fanciulla; -e più gli pare, e più che s'avicina: -gli pare Olimpia: ed era Olimpia certo, -che di sua fede ebbe sì iniquo merto. -Misera Olimpia! a cui dopo lo scorno -che gli fe' Amore, anco Fortuna cruda -mandò i corsari (e fu il medesmo giorno), -che la portaro all'isola d'Ebuda. -Riconosce ella Orlando nel ritorno -che fa allo scoglio: ma perch'ella è nuda, -tien basso il capo; e non che non gli parli, -ma gli occhi non ardisce al viso alzarli. -Orlando domandò ch'iniqua sorte -l'avesse fatta all'isola venire -di là dove lasciata col consorte -lieta l'avea, quanto si può più dire. -— Non so (disse ella) s'io v'ho, che la morte -voi mi schivaste, grazie a riferire, -o da dolermi che per voi non sia -oggi finita la miseria mia. -Io v'ho da ringraziar ch'una maniera -di morir mi schivaste troppo enorme; -che troppo saria enorme, se la fera -nel brutto ventre avesse avuto a porme. -Ma già non vi ringrazio ch'io non pera; -che morte sol può di miseria torme: -ben vi ringrazierò, se da voi darmi -quella vedrò, che d'ogni duol può trarmi. — -Poi con gran pianto seguitò, dicendo -come lo sposo suo l'avea tradita; -che la lasciò su l'isola dormendo, -donde ella poi fu dai corsar rapita. -E mentre ella parlava, rivolgendo -s'andava in quella guisa che scolpita -o dipinta è Diana ne la fonte, -che getta l'acqua ad Ateone in fronte; -che, quanto può, nasconde il petto e 'l ventre, -più liberal dei fianchi e de le rene. -Brama Orlando ch'in porto il suo legno entre; -che lei, che sciolta avea da le catene, -vorria coprir d'alcuna veste. Or mentre -ch'a questo è intento, Oberto sopraviene, -Oberto il re d'Ibernia, ch'avea inteso -che 'l marin mostro era sul lito steso; -e che nuotando un cavallier era ito -a porgli in gola un'ancora assai grave; -e che l'avea così tirato al lito, -come si suol tirar contr'acqua nave. -Oberto, per veder se riferito -colui da chi l'ha inteso, il vero gli have, -se ne vien quivi; e la sua gente intanto -arde e distrugge Ebuda in ogni canto. -Il re d'Ibernia, ancor che fosse Orlando, -di sangue tinto, e d'acqua molle e brutto, -brutto del sangue che si trasse quando -uscì de l'orca in ch'era entrato tutto, -pel conte l'andò pur raffigurando; -tanto più che ne l'animo avea indutto, -tosto che del valor sentì la nuova, -ch'altri ch'Orlando non faria tal pruova. -Lo conoscea, perch'era stato infante -d'onore in Francia, e se n'era partito -per pigliar la corona, l'anno inante, -del padre suo ch'era di vita uscito. -Tante volte veduto, e tante e tante -gli avea parlato, ch'era in infinito. -Lo corse ad abbracciare e a fargli festa, -trattasi la celata ch'avea in testa. -Non meno Orlando di veder contento -si mostrò il re, che 'l re di veder lui. -Poi che furo a iterar l'abbracciamento -una o due volte tornati amendui, -narrò ad Oberto Orlando il tradimento -che fu fatto alla giovane, e da cui -fatto le fu; dal perfido Bireno, -che via d'ogn'altro lo dovea far meno. -Le prove gli narrò, che tante volte -ella d'amarlo dimostrato avea: -come i parenti e le sustanze tolte -le furo, e al fin per lui morir volea; -e ch'esso testimonio era di molte, -e renderne buon conto ne potea. -Mentre parlava, i begli occhi sereni -de la donna di lagrime eran pieni. -Era il bel viso suo, quale esser suole -da primavera alcuna volta il cielo, -quando la pioggia cade, e a un tempo il sole -si sgombra intorno il nubiloso velo. -E come il rosignuol dolci carole -mena nei rami alor del verde stelo, -così alle belle lagrime le piume -si bagna Amore, e gode al chiaro lume. -E ne la face de' begli occhi accende -l'aurato strale, e nel ruscello amorza, -che tra vermigli e bianchi fiori scende: -e temprato che l'ha, tira di forza -contra il garzon, che né scudo difende, -né maglia doppia, né ferrigna scorza; -che mentre sta a mirar gli occhi e le chiome, -si sente il cor ferito, e non sa come. -Le bellezze d'Olimpia eran di quelle -che son più rare: e non la fronte sola, -gli occhi e le guance e le chiome avea belle, -la bocca, il naso, gli omeri e la gola; -ma discendendo giù da le mammelle, -le parti che solea coprir la stola, -fur di tanta eccellenza, ch'anteporse -a quante n'avea il mondo potean forse. -Vinceano di candor le nievi intatte, -ed eran più ch'avorio a toccar molli: -le poppe ritondette parean latte -che fuor dei giunchi allora allora tolli. -Spazio fra lor tal discendea, qual fatte -esser veggiàn fra picciolini colli -l'ombrose valli, in sua stagione amene, -che 'l verno abbia di nieve allora piene. -I rilevati fianchi e le belle anche, -e netto più che specchio il ventre piano, -pareano fatti, e quelle coscie bianche, -da Fidia a torno, o da più dotta mano. -Di quelle parti debbovi dir anche, -che pur celare ella bramava invano? -Dirò insomma, ch'in lei dal capo al piede, -quant'esser può beltà, tutta si vede. -Se fosse stata ne le valli Idee -vista dal Pastor frigio, io non so quanto -Vener, sebben vincea quell'altre dee, -portato avesse di bellezza il vanto: -né forse ito saria ne le Amiclee -contrade esso a violar l'ospizio santo; -ma detto avria: — Con Menelao ti resta, -Elena pur; ch'altra io non vo' che questa. — -E se fosse costei stata a Crotone, -quando Zeusi l'imagine far volse, -che por dovea nel tempio di Iunone, -e tante belle nude insieme accolse; -e che, per una farne in perfezione, -da chi una parte e da chi un'altra tolse: -non avea da torre altra che costei; -che tutte le bellezze erano in lei. -Io non credo che mai Bireno, nudo -vedesse quel bel corpo; ch'io son certo -che stato non saria mai così crudo, -che l'avesse lasciata in quel deserto. -Ch'Oberto se n'accende, io vi concludo, -tanto che 'l fuoco non può star coperto. -Si studia consolarla, e darle speme -ch'uscirà in bene il mal ch'ora la preme: -e le promette andar seco in Olanda; -né fin che ne lo stato la rimetta, -e ch'abbia fatto iusta e memoranda -di quel periuro e traditor vendetta, -non cesserà con ciò che possa Irlanda, -e lo farà quanto potrà più in fretta. -Cercare intanto in quelle case e in queste -facea di gonne e di feminee veste. -Bisogno non sarà, per trovar gonne, -ch'a cercar fuor de l'isola si mande; -ch'ogni dì se n'avea da quelle donne -che de l'avido mostro eran vivande. -Non fe' molto cercar, che ritrovonne -di varie fogge Oberto copia grande; -e fe' vestir Olimpia, e ben gl'increbbe -non la poter vestir come vorrebbe. -Ma né sì bella seta o sì fin'oro -mai Fiorentini industri tesser fenno; -né chi ricama fece mai lavoro, -postovi tempo, diligenza e senno, -che potesse a costui parer decoro, -se lo fêsse Minerva o il dio di Lenno, -e degno di coprir sì belle membre, -che forza è ad or ad or se ne rimembre. -Per più rispetti il paladino molto -si dimostrò di questo amor contento: -ch'oltre che 'l re non lascerebbe asciolto -Bireno andar di tanto tradimento, -sarebbe anch'esso per tal mezzo tolto -di grave e di noioso impedimento, -quivi non per Olimpia, ma venuto -per dar, se v'era, alla sua donna aiuto. -Ch'ella non v'era si chiarì di corto, -ma già non si chiarì se v'era stata; -perché ogn'uomo ne l'isola era morto, -né un sol rimaso di sì gran brigata. -Il dì seguente si partir del porto, -e tutti insieme andaro in una armata. -Con loro andò in Irlanda il paladino; -che fu per gire in Francia il suo camino. -A pena un giorno si fermò in Irlanda; -non valser preghi a far che più vi stesse: -Amor, che dietro alla sua donna il manda, -di fermarvisi più non gli concesse. -Quindi si parte; e prima raccomanda -Olimpia al re, che servi le promesse: -ben che non bisognasse; che gli attenne -molto più, che di far non si convenne. -Così fra pochi dì gente raccolse; -e fatto lega col re d'Inghilterra -e con l'altro di Scozia, gli ritolse -Olanda, e in Frisa non gli lasciò terra; -ed a ribellione anco gli volse -la sua Selandia: e non finì la guerra, -che gli diè morte; né però fu tale -la pena, ch'al delitto andasse eguale. -Olimpia Oberto si pigliò per moglie, -e di contessa la fe' gran regina. -Ma ritorniamo al paladin che scioglie -nel mar le vele, e notte e dì camina; -poi nel medesmo porto le raccoglie, -donde pria le spiegò ne la marina: -e sul suo Brigliadoro armato salse, -e lasciò dietro i venti e l'onde salse. -Credo che 'l resto di quel verno cose -facesse degne di tenerne conto; -ma fur sin a quel tempo sì nascose, -che non è colpa mia s'or non le conto; -perché Orlando a far l'opre virtuose, -più che a narrarle poi, sempre era pronto: -né mai fu alcun de li suoi fatti espresso, -se non quando ebbe i testimoni appresso. -Passò il resto del verno così cheto, -che di lui non si seppe cosa vera: -ma poi che 'l sol ne l'animal discreto -che portò Friso, illuminò la sfera, -e Zefiro tornò soave e lieto -a rimenar la dolce primavera; -d'Orlando usciron le mirabil pruove -coi vaghi fiori e con l'erbette nuove. -Di piano in monte, e di campagna in lido, -pien di travaglio e di dolor ne gìa; -quando all'entrar d'un bosco, un lungo grido, -un alto duol l'orecchie gli ferìa. -Spinge il cavallo, e piglia il brando fido, -e donde viene il suon, ratto s'invia: -ma diferisco un'altra volta a dire -quel che seguì, se mi vorrete udire. Cerere, poi che da la madre Idea -tornando in fretta alla solinga valle, -là dove calca la montagna Etnea -al fulminato Encelado le spalle, -la figlia non trovò dove l'avea -lasciata fuor d'ogni segnato calle; -fatto ch'ebbe alle guance, al petto, ai crini -e agli occhi danno, al fin svelse duo pini; -e nel fuoco gli accese di Vulcano, -e diè lor non potere esser mai spenti: -e portandosi questi uno per mano -sul carro che tiravan dui serpenti, -cercò le selve, i campi, il monte, il piano, -le valli, i fiumi, li stagni, i torrenti, -la terra e 'l mare; e poi che tutto il mondo -cercò di sopra, andò al tartareo fondo. -S'in poter fosse stato Orlando pare -all'Eleusina dea, come in disio, -non avria, per Angelica cercare, -lasciato o selva o campo o stagno o rio -o valle o monte o piano o terra o mare, -il cielo e 'l fondo de l'eterno oblio; -ma poi che 'l carro e i draghi non avea, -la gìa cercando al meglio che potea. -L'ha cercata per Francia: or s'apparecchia -per Italia cercarla e per Lamagna, -per la nuova Castiglia e per la vecchia, -e poi passare in Libia il mar di Spagna. -Mentre pensa così, sente all'orecchia -una voce venir, che par che piagna: -si spinge inanzi; e sopra un gran destriero -trottar si vede innanzi un cavalliero, -che porta in braccio e su l'arcion davante -per forza una mestissima donzella. -Piange ella, e si dibatte, e fa sembiante -di gran dolore; ed in soccorso appella -il valoroso principe d'Anglante; -che come mira alla giovane bella, -gli par colei, per cui la notte e il giorno -cercato Francia avea dentro e d'intorno. -Non dico ch'ella fosse, ma parea -Angelica gentil ch'egli tant'ama. -Egli, che la sua donna e la sua dea -vede portar sì addolorata e grama, -spinto da l'ira e da la furia rea, -con voce orrenda il cavallier richiama; -richiama il cavalliero e gli minaccia, -e Brigliadoro a tutta briglia caccia. -Non resta quel fellon, né gli risponde, -all'alta preda, al gran guadagno intento, -e sì ratto ne va per quelle fronde, -che saria tardo a seguitarlo il vento. -L'un fugge, e l'altro caccia; e le profonde -selve s'odon sonar d'alto lamento. -Correndo usciro in un gran prato; e quello -avea nel mezzo un grande e ricco ostello. -Di vari marmi con suttil lavoro -edificato era il palazzo altiero. -Corse dentro alla porta messa d'oro -con la donzella in braccio il cavalliero. -Dopo non molto giunse Brigliadoro, -che porta Orlando disdegnoso e fiero. -Orlando, come è dentro, gli occhi gira; -né più il guerrier, né la donzella mira. -Subito smonta, e fulminando passa -dove più dentro il bel tetto s'alloggia: -corre di qua, corre di là, né lassa -che non vegga ogni camera, ogni loggia. -Poi che i segreti d'ogni stanza bassa -ha cerco invan, su per le scale poggia; -e non men perde anco a cercar di sopra, -che perdessi di sotto, il tempo e l'opra. -D'oro e di seta i letti ornati vede: -nulla de muri appar né de pareti; -che quelle, e il suolo ove si mette il piede, -son da cortine ascose e da tapeti. -Di su di giù va il conte Orlando e riede; -né per questo può far gli occhi mai lieti -che riveggiano Angelica, o quel ladro -che n'ha portato il bel viso leggiadro. -E mentre or quinci or quindi invano il passo -movea, pien di travaglio e di pensieri, -Ferraù, Brandimarte e il re Gradasso, -re Sacripante ed altri cavallieri -vi ritrovò, ch'andavano alto e basso, -né men facean di lui vani sentieri; -e si ramaricavan del malvagio -invisibil signor di quel palagio. -Tutti cercando il van, tutti gli dànno -colpa di furto alcun che lor fatt'abbia: -del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno; -ch'abbia perduta altri la donna, arrabbia; -altri d'altro l'accusa: e così stanno, -che non si san partir di quella gabbia; -e vi son molti, a questo inganno presi, -stati le settimane intiere e i mesi. -Orlando, poi che quattro volte e sei -tutto cercato ebbe il palazzo strano, -disse fra sé: — Qui dimorar potrei, -gittare il tempo e la fatica invano: -e potria il ladro aver tratta costei -da un'altra uscita, e molto esser lontano. — -Con tal pensiero uscì nel verde prato, -dal qual tutto il palazzo era aggirato. -Mentre circonda la casa silvestra, -tenendo pur a terra il viso chino, -per veder s'orma appare, o da man destra -o da sinistra, di nuovo camino; -si sente richiamar da una finestra: -e leva gli occhi; e quel parlar divino -gli pare udire, e par che miri il viso, -che l'ha da quel che fu, tanto diviso. -Pargli Angelica udir, che supplicando -e piangendo gli dica: — Aita, aita! -la mia virginità ti raccomando -più che l'anima mia, più che la vita. -Dunque in presenza del mio caro Orlando -da questo ladro mi sarà rapita? -più tosto di tua man dammi la morte, -che venir lasci a sì infelice sorte. — -Queste parole una ed un'altra volta -fanno Orlando tornar per ogni stanza, -con passione e con fatica molta, -ma temperata pur d'alta speranza. -Talor si ferma, ed una voce ascolta, -che di quella d'Angelica ha sembianza -(e s'egli è da una parte, suona altronde), -che chieggia aiuto; e non sa trovar donde. -Ma tornando a Ruggier, ch'io lasciai quando -dissi che per sentiero ombroso e fosco -il gigante e la donna seguitando, -in un gran prato uscito era del bosco; -io dico ch'arrivò qui dove Orlando -dianzi arrivò, se 'l loco riconosco. -Dentro la porta il gran gigante passa: -Ruggier gli è appresso, e di seguir non lassa. -Tosto che pon dentro alla soglia il piede, -per la gran corte e per le logge mira; -né più il gigante né la donna vede, -e gli occhi indarno or quinci or quindi aggira. -Di su di giù va molte volte e riede; -né gli succede mai quel che desira: -né si sa imaginar dove sì tosto -con la donna il fellon si sia nascosto. -Poi che revisto ha quattro volte e cinque -di su di giù camere e logge e sale, -pur di nuovo ritorna, e non relinque -che non ne cerchi fin sotto le scale. -Con speme al fin che sian ne le propinque -selve, si parte: ma una voce, quale -richiamò Orlando, lui chiamò non manco; -e nel palazzo il fe' ritornar anco. -Una voce medesma, una persona -che paruta era Angelica ad Orlando, -parve a Ruggier la donna di Dordona, -che lo tenea di sé medesmo in bando. -Se con Gradasso o con alcun ragiona -di quei ch'andavan nel palazzo errando, -a tutti par che quella cosa sia, -che più ciascun per sé brama e desia. -Questo era un nuovo e disusato incanto -ch'avea composto Atlante di Carena, -perché Ruggier fosse occupato tanto -in quel travaglio, in quella dolce pena, -che 'l mal'influsso n'andasse da canto, -l'influsso ch'a morir giovene il mena. -Dopo il castel d'acciar, che nulla giova, -e dopo Alcina, Atlante ancor fa pruova. -Non pur costui, ma tutti gli altri ancora, -che di valore in Francia han maggior fama, -acciò che di lor man Ruggier non mora, -condurre Atlante in questo incanto trama. -E mentre fa lor far quivi dimora, -perché di cibo non patischin brama, -sì ben fornito avea tutto il palagio, -che donne e cavallier vi stanno ad agio. -Ma torniamo ad Angelica, che seco -avendo quell'annel mirabil tanto, -ch'in bocca a veder lei fa l'occhio cieco, -nel dito, l'assicura da l'incanto; -e ritrovato nel montano speco -cibo avendo e cavalla e veste e quanto -le fu bisogno, avea fatto disegno -di ritornare in India al suo bel regno. -Orlando volentieri o Sacripante -voluto avrebbe in compania: non ch'ella -più caro avesse l'un che l'altro amante; -anzi di par fu a' lor disii ribella: -ma dovendo, per girsene in Levante, -passar tante città, tante castella, -di compagnia bisogno avea e di guida, -né potea aver con altri la più fida. -Or l'uno or l'altro andò molto cercando, -prima ch'indizio ne trovasse o spia, -quando in cittade, e quando in ville, e quando -in alti boschi, e quando in altra via. -Fortuna al fin là dove il conte Orlando, -Ferraù e Sacripante era, la invia, -con Ruggier, con Gradasso ed altri molti -che v'avea Atlante in strano intrico avolti. -Quivi entra, che veder non la può il mago, -e cerca il tutto, ascosa dal suo annello; -e trova Orlando e Sacripante vago -di lei cercare invan per quello ostello. -Vede come, fingendo la sua immago, -Atlante usa gran fraude a questo e a quello. -Chi tor debba di lor, molto rivolve -nel suo pensier, né ben se ne risolve. -Non sa stimar chi sia per lei migliore, -il conte Orlando o il re dei fier Circassi. -Orlando la potrà con più valore -meglio salvar nei perigliosi passi: -ma se sua guida il fa, sel fa signore; -ch'ella non vede come poi l'abbassi, -qualunque volta, di lui sazia, farlo -voglia minore, o in Francia rimandarlo. -Ma il Circasso depor, quando le piaccia, -potrà, se ben l'avesse posto in cielo. -Questa sola cagion vuol ch'ella il faccia -sua scorta, e mostri avergli fede e zelo. -L'annel trasse di bocca, e di sua faccia -levò dagli occhi a Sacripante il velo. -Credette a lui sol dimostrarsi, e avenne -ch'Orlando e Ferraù le sopravenne. -Le sopravenne Ferraù ed Orlando; -che l'uno e l'altro parimente giva -di su di giù, dentro e di fuor cercando -del gran palazzo lei, ch'era lor diva. -Corser di par tutti alla donna, quando -nessuno incantamento gli impediva: -perché l'annel ch'ella si pose in mano, -fece d'Atlante ogni disegno vano. -L'usbergo indosso aveano e l'elmo in testa -dui di questi guerrier, dei quali io canto; -né notte o dì, dopo ch'entraro in questa -stanza, l'aveano mai messi da canto; -che facile a portar, come la vesta, -era lor, perché in uso l'avean tanto. -Ferraù il terzo era anco armato, eccetto -che non avea né volea avere elmetto, -fin che quel non avea, che 'l paladino -tolse Orlando al fratel del re Troiano; -ch'allora lo giurò, che l'elmo fino -cercò de l'Argalia nel fiume invano: -e se ben quivi Orlando ebbe vicino, -né però Ferraù pose in lui mano; -avenne, che conoscersi tra loro -non si poter, mentre là dentro foro. -Era così incantato quello albergo, -ch'insieme riconoscer non poteansi. -Né notte mai né dì, spada né usbergo -né scudo pur dal braccio rimoveansi. -I lor cavalli con la sella al tergo, -pendendo i morsi da l'arcion, pasceansi -in una stanza, che presso all'uscita, -d'orzo e di paglia sempre era fornita. -Atlante riparar non sa né puote, -ch'in sella non rimontino i guerrieri -per correr dietro alle vermiglie gote, -all'auree chiome ed a' begli occhi neri -de la donzella, ch'in fuga percuote -la sua iumenta, perché volentieri -non vede li tre amanti in compagnia, -che forse tolti un dopo l'altro avria. -E poi che dilungati dal palagio -gli ebbe sì, che temer più non dovea -che contra lor l'incantator malvagio -potesse oprar la sua fallacia rea; -l'annel che le schivò più d'un disagio, -tra le rosate labra si chiudea: -donde lor sparve subito dagli occhi, -e gli lasciò come insensati e sciocchi. -Come che fosse il suo primier disegno -di voler seco Orlando o Sacripante, -ch'a ritornar l'avessero nel regno -di Galafron ne l'ultimo Levante; -le vennero amendua subito a sdegno, -e si mutò di voglia in uno istante: -e senza più obligarsi o a questo o a quello, -pensò bastar per amendua il suo annello. -Volgon pel bosco or quinci or quindi in fretta -quelli scherniti la stupida faccia; -come il cane talor, se gli è intercetta -o lepre o volpe, a cui dava la caccia, -che d'improviso in qualche tana stretta -o in folta macchia o in un fosso si caccia. -Di lor si ride Angelica proterva, -che non è vista, e i lor progressi osserva. -Per mezzo il bosco appar sol una strada: -credono i cavallier che la donzella -inanzi a lor per quella se ne vada; -che non se ne può andar, se non per quella. -Orlando corre, e Ferraù non bada, -né Sacripante men sprona e puntella. -Angelica la briglia più ritiene, -e dietro lor con minor fretta viene. -Giunti che fur, correndo, ove i sentieri -a perder si venian ne la foresta, -e cominciar per l'erba i cavallieri -a riguardar se vi trovavan pesta; -Ferraù, che potea fra quanti altieri -mai fosser, gir con la corona in testa, -si volse con mal viso agli altri dui, -e gridò lor: — Dove venite vui? -Tornate a dietro, o pigliate altra via, -se non volete rimaner qui morti: -né in amar né in seguir la donna mia -si creda alcun, che compagnia comporti. — -Disse Orlando al Circasso: — Che potria -più dir costui, s'ambi ci avesse scorti -per le più vili e timide puttane -che da conocchie mai traesser lane? — -Poi volto a Ferraù, disse: — Uom bestiale, -s'io non guardassi che senza elmo sei, -di quel c'hai detto, s'hai ben detto o male, -senz'altra indugia accorger ti farei. — -Disse il Spagnuol: — Di quel ch'a me non cale, -perché pigliarne tu cura ti dei? -Io sol contra ambidui per far son buono -quel che detto ho, senza elmo come sono. — -— Deh (disse Orlando al re di Circassia), -in mio servigio a costui l'elmo presta, -tanto ch'io gli abbia tratta la pazzia; -ch'altra non vidi mai simile a questa. — -Rispose il re: — Chi più pazzo saria? -Ma se ti par pur la domanda onesta, -prestagli il tuo; ch'io non sarò men atto, -che tu sia forse, a castigare un matto. — -Soggiunse Ferraù: — Sciocchi voi, quasi -che, se mi fosse il portar elmo a grado, -voi senza non ne fosse già rimasi; -che tolti i vostri avrei, vostro mal grado. -Ma per narrarvi in parte li miei casi, -per voto così senza me ne vado, -ed anderò, fin ch'io non ho quel fino -che porta in capo Orlando paladino. — -— Dunque (rispose sorridente il conte) -ti pensi a capo nudo esser bastante -far ad Orlando quel che in Aspramonte -egli già fece al figlio d'Agolante? -Anzi credo io, se tel vedessi a fronte, -ne tremeresti dal capo alle piante; -non che volessi l'elmo, ma daresti -l'altre arme a lui di patto, che tu vesti. — -Il vantator Spagnuol disse: — Già molte -fiate e molte ho così Orlando astretto, -che facilmente l'arme gli avrei tolte, -quante indosso n'avea, non che l'elmetto; -e s'io nol feci, occorrono alle volte -pensier che prima non s'aveano in petto: -non n'ebbi, già fu, voglia; or l'aggio, e spero -che mi potrà succeder di leggiero. — -Non potè aver più pazienza Orlando -e gridò: — Mentitor, brutto marrano, -in che paese ti trovasti, e quando, -a poter più di me con l'arme in mano? -Quel paladin, di che ti vai vantando, -son io, che ti pensavi esser lontano. -Or vedi se tu puoi l'elmo levarme, -o s'io son buon per torre a te l'altre arme. -Né da te voglio un minimo vantaggio. — -Così dicendo, l'elmo si disciolse, -e lo suspese a un ramuscel di faggio; -e quasi a un tempo Durindana tolse. -Ferraù non perdè di ciò il coraggio: -trasse la spada, e in atto si raccolse, -onde con essa e col levato scudo -potesse ricoprirsi il capo nudo. -Così li duo guerrieri incominciaro, -lor cavalli aggirando, a volteggiarsi; -e dove l'arme si giungeano, e raro -era più il ferro, col ferro a tentarsi. -Non era in tutto 'l mondo un altro paro -che più di questo avessi ad accoppiarsi: -pari eran di vigor, pari d'ardire; -né l'un né l'altro si potea ferire. -Ch'abbiate, Signor mio, già inteso estimo, -che Ferraù per tutto era fatato, -fuor che là dove l'alimento primo -piglia il bambin nel ventre ancor serrato: -e fin che del sepolcro il tetro limo -la faccia gli coperse, il luogo armato -usò portar, dove era il dubbio, sempre -di sette piastre fatte a buone tempre. -Era ugualmente il principe d'Anglante -tutto fatato, fuor che in una parte: -ferito esser potea sotto le piante; -ma le guardò con ogni studio ed arte. -Duro era il resto lor più che diamante -(se la fama dal ver non si diparte); -e l'uno e l'altro andò, più per ornato -che per bisogno, alle sue imprese armato. -S'incrudelisce e inaspra la battaglia, -d'orrore in vista e di spavento piena. -Ferraù, quando punge e quando taglia, -né mena botta che non vada piena: -ogni colpo d'Orlando o piastra o maglia -e schioda e rompe ed apre e a straccio mena. -Angelica invisibile lor pon mente, -sola a tanto spettacolo presente. -Intanto il re di Circassia, stimando -che poco inanzi Angelica corresse, -poi ch'attaccati Ferraù ed Orlando -vide restar, per quella via si messe, -che si credea che la donzella, quando -da lor disparve, seguitata avesse: -sì che a quella battaglia la figliuola -di Galafron fu testimonia sola. -Poi che, orribil come era e spaventosa, -l'ebbe da parte ella mirata alquanto, -e che le parve assai pericolosa -così da l'un come da l'altro canto; -di veder novità voluntarosa, -disegnò l'elmo tor, per mirar quanto -fariano i duo guerrier, vistosel tolto; -ben con pensier di non tenerlo molto. -Ha ben di darlo al conte intenzione; -ma se ne vuole in prima pigliar gioco. -L'elmo dispicca, e in grembio se lo pone, -e sta a mirare i cavallieri un poco. -Di poi si parte, e non fa lor sermone; -e lontana era un pezzo da quel loco, -prima ch'alcun di lor v'avesse mente: -sì l'uno e l'altro era ne l'ira ardente. -Ma Ferraù, che prima v'ebbe gli occhi, -si dispiccò da Orlando, e disse a lui: -— Deh come n'ha da male accorti e sciocchi -trattati il cavallier ch'era con nui! -Che premio fia ch'al vincitor più tocchi, -se 'l bel elmo involato n'ha costui? — -Ritrassi Orlando, e gli occhi al ramo gira: -non vede l'elmo, e tutto avampa d'ira. -E nel parer di Ferraù concorse, -che 'l cavallier che dianzi era con loro -se lo portasse; onde la briglia torse, -e fe' sentir gli sproni a Brigliadoro. -Ferraù che del campo il vide torse, -gli venne dietro; e poi che giunti foro -dove ne l'erba appar l'orma novella -ch'avea fatto il Circasso e la donzella, -prese la strada alla sinistra il conte -verso una valle, ove il Circasso era ito: -si tenne Ferraù più presso al monte, -dove il sentiero Angelica avea trito. -Angelica in quel mezzo ad una fonte -giunta era, ombrosa e di giocondo sito, -ch'ognun che passa, alle fresche ombre invita, -né, senza ber, mai lascia far partita. -Angelica si ferma alle chiare onde, -non pensando ch'alcun le sopravegna; -e per lo sacro annel che la nasconde, -non può temer che caso rio le avegna. -A prima giunta in su l'erbose sponde -del rivo l'elmo a un ramuscel consegna; -poi cerca, ove nel bosco è miglior frasca, -la iumenta legar, perché si pasca. -Il cavallier di Spagna, che venuto -era per l'orme, alla fontana giunge. -Non l'ha sì tosto Angelica veduto, -che gli dispare, e la cavalla punge. -L'elmo, che sopra l'erba era caduto, -ritor non può, che troppo resta lunge. -Come il pagan d'Angelica s'accorse, -tosto vêr lei pien di letizia corse. -Gli sparve, come io dico, ella davante, -come fantasma al dipartir del sonno. -Cercando egli la va per quelle piante -né i miseri occhi più veder la ponno. -Bestemiando Macone e Trivigante, -e di sua legge ogni maestro e donno, -ritornò Ferraù verso la fonte, -u' ne l'erba giacea l'elmo del conte. -Lo riconobbe, tosto che mirollo, -per lettere ch'avea scritte ne l'orlo; -che dicean dove Orlando guadagnollo, -e come e quando, ed a chi fe' deporlo. -Armossene il pagano il capo e il collo, -che non lasciò, pel duol ch'avea, di torlo; -pel duol ch'avea di quella che gli sparve, -come sparir soglion notturne larve. -Poi ch'allacciato s'ha il buon elmo in testa, -aviso gli è, che a contentarsi a pieno, -sol ritrovare Angelica gli resta, -che gli appar e dispar come baleno. -Per lei tutta cercò l'alta foresta: -e poi ch'ogni speranza venne meno -di più poterne ritrovar vestigi, -tornò al campo spagnuol verso Parigi; -temperando il dolor che gli ardea il petto, -di non aver sì gran disir sfogato, -col refrigerio di portar l'elmetto -che fu d'Orlando, come avea giurato. -Dal conte, poi che 'l certo gli fu detto, -fu lungamente Ferraù cercato; -né fin quel dì dal capo gli lo sciolse, -che fra duo ponti la vita gli tolse. -Angelica invisibile e soletta -via se ne va, ma con turbata fronte; -che de l'elmo le duol, che troppa fretta -le avea fatto lasciar presso alla fonte. -— Per voler far quel ch'a me far non spetta -(tra sé dicea), levato ho l'elmo al conte: -questo, pel primo merito, è assai buono -di quanto a lui pur ubligata sono. -Con buona intenzione (e sallo Idio), -ben che diverso e tristo effetto segua, -io levai l'elmo: e solo il pensier mio -fu di ridur quella battaglia a triegua; -e non che per mio mezzo il suo disio -questo brutto Spagnuol oggi consegua. — -Così di sé s'andava lamentando -d'aver de l'elmo suo privato Orlando. -Sdegnata e malcontenta la via prese, -che le parea miglior, verso Oriente. -Più volte ascosa andò, talor palese, -secondo era oportuno, infra la gente. -Dopo molto veder molto paese, -giunse in un bosco, dove iniquamente -fra duo compagni morti un giovinetto -trovò, ch'era ferito in mezzo il petto. -Ma non dirò d'Angelica or più inante; -che molte cose ho da narrarvi prima: -né sono a Ferraù né a Sacripante, -sin a gran pezzo per donar più rima. -Da lor mi leva il principe d'Anglante, -che di sé vuol che inanzi agli altri esprima -le fatiche e gli affanni che sostenne -nel gran disio, di che a fin mai non venne. -Alla prima città ch'egli ritruova -(perché d'andare occulto avea gran cura) -si pone in capo una barbuta nuova, -senza mirar s'ha debil tempra o dura: -sia qual si vuol, poco gli nuoce o giova; -sì ne la fatagion si rassicura. -Così coperto seguita l'inchiesta; -né notte, o giorno, o pioggia, o sol l'arresta. -Era ne l'ora, che trae i cavalli -Febo del mar con rugiadoso pelo, -e l'Aurora di fior vermigli e gialli -venìa spargendo d'ogn'intorno il cielo; -e lasciato le stelle aveano i balli, -e per partirsi postosi già il velo: -quando appresso a Parigi un dì passando, -mostrò di sua virtù gran segno Orlando. -In dua squadre incontrossi: e Manilardo -ne reggea l'una, il Saracin canuto, -re di Norizia, già fiero e gagliardo, -or miglior di consiglio che d'aiuto; -guidava l'altra sotto il suo stendardo -il re di Tremisen, ch'era tenuto -tra gli Africani cavallier perfetto: -Alzirdo fu, da chi 'l conobbe, detto. -Questi con l'altro esercito pagano -quella invernata avean fatto soggiorno, -chi presso alla città, chi più lontano, -tutti alle ville o alle castella intorno: -ch'avendo speso il re Agramante invano, -per espugnar Parigi, più d'un giorno, -volse tentar l'assedio finalmente, -poi che pigliar non lo potea altrimente. -E per far questo avea gente infinita; -che oltre a quella che con lui giunt'era, -e quella che di Spagna avea seguita -del re Marsilio la real bandiera -molta di Francia n'avea al soldo unita; -che da Parigi insino alla riviera -d'Arli, con parte di Guascogna (eccetto -alcune rocche) avea tutto suggetto. -Or cominciando i trepidi ruscelli -a sciorre il freddo giaccio in tiepide onde, -e i prati di nuove erbe, e gli arbuscelli -a rivestirsi di tenera fronde; -ragunò il re Agramante tutti quelli -che seguian le fortune sue seconde, -per farsi rassegnar l'armata torma; -indi alle cose sue dar miglior forma. -A questo effetto il re di Tremisenne -con quel de la Norizia ne venìa, -per là giungere a tempo, ove si tenne -poi conto d'ogni squadra o buona o ria. -Orlando a caso ad incontrar si venne -(come io v'ho detto) in questa compagnia, -cercando pur colei, come egli era uso, -che nel carcer d'Amor lo tenea chiuso. -Come Alzirdo appressar vide quel conte -che di valor non avea pari al mondo, -in tal sembiante, in sì superba fronte, -che 'l dio de l'arme a lui parea secondo; -restò stupito alle fattezze conte, -al fiero sguardo, al viso furibondo: -e lo stimò guerrier d'alta prodezza; -ma ebbe del provar troppa vaghezza. -Era giovane Alzirdo, ed arrogante -per molta forza, e per gran cor pregiato. -Per giostrar spinse il suo cavallo inante: -meglio per lui, se fosse in schiera stato; -che ne lo scontro il principe d'Anglante -lo fe' cader per mezzo il cor passato. -Giva in fuga il destrier di timor pieno, -che su non v'era chi reggesse il freno. -Levasi un grido subito ed orrendo, -che d'ogn'intorno n'ha l'aria ripiena, -come si vede il giovene, cadendo, -spicciar il sangue di sì larga vena. -La turba verso il conte vien fremendo -disordinata, e tagli e punte mena; -ma quella è più, che con pennuti dardi -tempesta il fior dei cavallier gagliardi. -Con qual rumor la setolosa frotta -correr da monti suole o da campagne, -se 'l lupo uscito di nascosa grotta, -o l'orso sceso alle minor montagne, -un tener porco preso abbia talotta, -che con grugnito e gran stridor si lagne; -con tal lo stuol barbarico era mosso -verso il conte, gridando: — Addosso, addosso! — -Lance, saette e spade ebbe l'usbergo -a un tempo mille, e lo scudo altretante: -chi gli percuote con la mazza il tergo, -chi minaccia da lato, e chi davante. -Ma quel, ch'al timor mai non diede albergo, -estima la vil turba e l'arme tante, -quel che dentro alla mandra, all'aer cupo, -il numer de l'agnelle estimi il lupo. -Nuda avea in man quella fulminea spada -che posti ha tanti Saracini a morte: -dunque chi vuol di quanta turba cada -tenere il conto, ha impresa dura e forte. -Rossa di sangue già correa la strada, -capace a pena a tante genti morte; -perché né targa né capel difende -la fatal Durindana, ove discende, -né vesta piena di cotone, o tele -che circondino il capo in mille vòlti. -Non pur per l'aria gemiti e querele, -ma volan braccia e spalle e capi sciolti. -Pel campo errando va Morte crudele -in molti, vari, e tutti orribil volti; -e tra sé dice: — In man d'Orlando valci -Durindana per cento de mie falci. — -Una percossa a pena l'altra aspetta. -Ben tosto cominciar tutti a fuggire; -e quando prima ne veniano in fretta -(perch'era sol, credeanselo inghiottire), -non è chi per levarsi de la stretta -l'amico aspetti, e cerchi insieme gire: -chi fugge a piedi in qua, chi colà sprona; -nessun domanda se la strada è buona. -Virtude andava intorno con lo speglio -che fa veder ne l'anima ogni ruga: -nessun vi si mirò, se non un veglio -a cui il sangue l'età, non l'ardir, sciuga. -Vide costui quanto il morir sia meglio, -che con suo disonor mettersi in fuga: -dico il re di Norizia; onde la lancia -arrestò contra il paladin di Francia. -E la roppe alla penna de lo scudo -del fiero conte, che nulla si mosse. -Egli ch'avea alla posta il brando nudo, -re Manilardo al trapassar percosse. -Fortuna l'aiutò; che 'l ferro crudo -in man d'Orlando al venir giù voltosse: -tirare i colpi a filo ognor non lece; -ma pur di sella stramazzar lo fece. -Stordito de l'arcion quel re stramazza: -non si rivolge Orlando a rivederlo; -che gli altri taglia, tronca, fende, amazza; -a tutti pare in su le spalle averlo. -Come per l'aria, ove han sì larga piazza, -fuggon li storni da l'audace smerlo, -così di quella squadra ormai disfatta -altri cade, altri fugge, altri s'appiatta. -Non cessò pria la sanguinosa spada, -che fu di viva gente il campo voto. -Orlando è in dubbio a ripigliar la strada, -ben che gli sia tutto il paese noto. -O da man destra o da sinistra vada, -il pensier da l'andar sempre è remoto: -d'Angelica cercar, fuor ch'ove sia, -teme, e di far sempre contraria via. -Il suo camin (di lei chiedendo spesso) -or per li campi or per le selve tenne: -e sì come era uscito di se stesso, -uscì di strada; e a piè d'un monte venne, -dove la notte fuor d'un sasso fesso -lontan vide un splendor batter le penne. -Orlando al sasso per veder s'accosta, -se quivi fosse Angelica reposta. -Come nel bosco de l'umil ginepre, -o ne la stoppia alla campagna aperta, -quando si cerca la paurosa lepre -per traversati solchi e per via incerta, -si va ad ogni cespuglio, ad ogni vepre, -se per ventura vi fosse coperta; -così cercava Orlando con gran pena -la donna sua, dove speranza il mena. -Verso quel raggio andando in fretta il conte, -giunse ove ne la selva si diffonde -da l'angusto spiraglio di quel monte, -ch'una capace grotta in sé nasconde; -e trova inanzi ne la prima fronte -spine e virgulti, come mura e sponde, -per celar quei che ne la grotta stanno, -da chi far lor cercasse oltraggio e danno. -Di giorno ritrovata non sarebbe, -ma la facea di notte il lume aperta. -Orlando pensa ben quel ch'esser debbe; -pur vuol saper la cosa anco più certa. -Poi che legato fuor Brigliadoro ebbe, -tacito viene alla grotta coperta: -e fra li spessi rami ne la buca -entra, senza chiamar chi l'introduca. -Scende la tomba molti gradi al basso, -dove la viva gente sta sepolta. -Era non poco spazioso il sasso -tagliato a punte di scarpelli in volta; -né di luce diurna in tutto casso, -ben che l'entrata non ne dava molta; -ma ve ne venìa assai da una finestra -che sporgea in un pertugio da man destra. -In mezzo la spelonca, appresso a un fuoco, -era una donna di giocondo viso; -quindici anni passar dovea di poco, -quanto fu al conte, al primo sguardo, aviso: -ed era bella sì, che facea il loco -salvatico parere un paradiso; -ben ch'avea gli occhi di lacrime pregni, -del cor dolente manifesti segni. -V'era una vecchia; e facean gran contese -(come uso feminil spesso esser suole), -ma come il conte ne la grotta scese, -finiron le dispùte e le parole. -Orlando a salutarle fu cortese -(come con donne sempre esser si vuole), -ed elle si levaro immantinente, -e lui risalutar benignamente. -Gli è ver che si smarriro in faccia alquanto, -come improviso udiron quella voce, -e insieme entrare armato tutto quanto -vider là dentro un uom tanto feroce. -Orlando domandò qual fosse tanto -scortese, ingiusto, barbaro ed atroce, -che ne la grotta tenesse sepolto -un sì gentile ed amoroso volto. -La vergine a fatica gli rispose, -interrotta da fervidi signiozzi, -che dai coralli e da le preziose -perle uscir fanno i dolci accenti mozzi. -Le lacrime scendean tra gigli e rose, -là dove avien ch'alcuna se n'inghiozzi. -Piacciavi udir ne l'altro canto il resto, -Signor, che tempo è ormai di finir questo. Ben furo aventurosi i cavallieri -ch'erano a quella età, che nei valloni, -ne le scure spelonche e boschi fieri, -tane di serpi, d'orsi e di leoni, -trovavan quel che nei palazzi altieri -a pena or trovar puon giudici buoni: -donne, che ne la lor più fresca etade -sien degne d'aver titol di beltade. -Di sopra vi narrai che ne la grotta -avea trovato Orlando una donzella, -e che la dimandò ch'ivi condotta -l'avesse: or seguitando, dico ch'ella, -poi che più d'un signiozzo l'ha interrotta, -con dolce e suavissima favella -al conte fa le sue sciagure note, -con quella brevità che meglio puote. -— Ben che io sia certa (dice), o cavalliero, -ch'io porterò del mio parlar supplizio, -perché a colui che qui m'ha chiusa, spero -che costei ne darà subito indizio; -pur son disposta non celarti il vero, -e vada la mia vita in precipizio. -E ch'aspettar poss'io da lui più gioia, -che 'l si disponga un dì voler ch'io muoia? -Isabella sono io, che figlia fui -del re mal fortunato di Gallizia. -Ben dissi fui; ch'or non son più di lui, -ma di dolor, d'affanno e di mestizia. -Colpa d'Amor; ch'io non saprei di cui -dolermi più che de la sua nequizia, -che dolcemente nei principi applaude, -e tesse di nascosto inganno e fraude. -Già mi vivea di mia sorte felice, -gentil, giovane, ricca, onesta e bella: -vile e povera or sono, or infelice; -e s'altra è peggior sorte, io sono in quella. -Ma voglio sappi la prima radice -che produsse quel mal che mi flagella; -e ben ch'aiuto poi da te non esca, -poco non mi parrà, che te n'incresca. -Mio patre fe' in Baiona alcune giostre, -esser denno oggimai dodici mesi. -Trasse la fama ne le terre nostre -cavallieri a giostrar di più paesi. -Fra gli altri (o sia ch'Amor così mi mostre, -o che virtù pur se stessa palesi) -mi parve da lodar Zerbino solo, -che del gran re di Scozia era figliuolo. -Il qual poi che far pruove in campo vidi -miracolose di cavalleria, -fui presa del suo amore; e non m'avidi, -ch'io mi conobbi più non esser mia. -E pur, ben che 'l suo amor così mi guidi, -mi giova sempre avere in fantasia -ch'io non misi il mio core in luogo immondo, -ma nel più degno e bel ch'oggi sia al mondo. -Zerbino di bellezza e di valore -sopra tutti i signori era eminente. -Mostrammi, e credo mi portasse amore, -e che di me non fosse meno ardente. -Non ci mancò chi del commune ardore -interprete fra noi fosse sovente, -poi che di vista ancor fummo disgiunti; -che gli animi restar sempre congiunti. -Però che dato fine alla gran festa, -il mio Zerbino in Scozia fe' ritorno. -Se sai che cosa è amor, ben sai che mesta -restai, di lui pensando notte e giorno; -ed era certa che non men molesta -fiamma intorno al suo cor facea soggiorno. -Egli non fece al suo disio più schermi, -se non che cercò via di seco avermi. -E perché vieta la diversa fede -(essendo egli cristiano, io saracina) -ch'al mio padre per moglie non mi chiede, -per furto indi levarmi si destina. -Fuor de la ricca mia patria, che siede -tra verdi campi allato alla marina, -aveva un bel giardin sopra una riva, -che colli intorno e tutto il mar scopriva. -Gli parve il luogo a fornir ciò disposto, -che la diversa religion ci vieta; -e mi fa saper l'ordine che posto -avea di far la nostra vita lieta. -Appresso a Santa Marta avea nascosto -con gente armata una galea secreta, -in guardia d'Odorico di Biscaglia, -in mare e in terra mastro di battaglia. -Né potendo in persona far l'effetto, -perch'egli allora era dal padre antico -a dar soccorso al re di Francia astretto, -manderia in vece sua questo Odorico, -che fra tutti i fedeli amici eletto -s'avea pel più fedele e pel più amico: -e bene esser dovea, se i benefici -sempre hanno forza d'acquistar gli amici. -Verria costui sopra un navilio armato, -al terminato tempo indi a levarmi. -E così venne il giorno disiato, -che dentro il mio giardin lasciai trovarmi. -Odorico la notte, accompagnato -di gente valorosa all'acqua e all'armi, -smontò ad un fiume alla città vicino, -e venne chetamente al mio giardino. -Quindi fui tratta alla galea spalmata, -prima che la città n'avesse avisi. -De la famiglia ignuda e disarmata -altri fuggiro, altri restaro uccisi, -parte captiva meco fu menata. -Così da la mia terra io mi divisi, -con quanto gaudio non ti potrei dire, -sperando in breve il mio Zerbin fruire. -Voltati sopra Mongia eramo a pena, -quando ci assalse alla sinistra sponda -un vento che turbò l'aria serena, -e turbò il mare, e al ciel gli levò l'onda. -Salta un maestro ch'a traverso mena, -e cresce ad ora ad ora, e soprabonda; -e cresce e soprabonda con tal forza, -che val poco alternar poggia con orza. -Non giova calar vele, e l'arbor sopra -corsia legar, né ruinar castella; -che ci veggian mal grado portar sopra -acuti scogli, appresso alla Rocella. -Se non ci aiuta quel che sta di sopra, -ci spinge in terra la crudel procella. -Il vento rio ne caccia in maggior fretta, -che d'arco mai non si aventò saetta. -Vide il periglio il Biscaglino, e a quello -usò un rimedio che fallir suol spesso: -ebbe ricorso subito al battello; -calossi, e me calar fece con esso. -Sceser dui altri, e ne scendea un drappello, -se i primi scesi l'avesser concesso; -ma con le spade li tenner discosto, -tagliar la fune, e ci allargammo tosto. -Fummo gittati a salvamento al lito -noi che nel palischermo eramo scesi; -periron gli altri col legno sdrucito; -in preda al mare andar tutti gli arnesi. -All'eterna Bontade, all'infinito -Amor, rendendo grazie, le man stesi, -che non m'avessi dal furor marino -lasciato tor di riveder Zerbino. -Come ch'io avessi sopra il legno e vesti -lasciato e gioie e l'altre cose care, -pur che la speme di Zerbin mi resti, -contenta son che s'abbi il resto il mare. -Non sono, ove scendemo, i liti pesti -d'alcun sentier, né intorno albergo appare; -ma solo il monte, al qual mai sempre fiede -l'ombroso capo il vento, e 'l mare il piede. -Quivi il crudo tiranno Amor, che sempre -d'ogni promessa sua fu disleale, -e sempre guarda come involva e stempre -ogni nostro disegno razionale, -mutò con triste e disoneste tempre -mio conforto in dolor, mio bene in male; -che quell'amico, in chi Zerbin si crede, -di desire arse, ed agghiacciò di fede. -O che m'avesse in mar bramata ancora, -né fosse stato a dimostrarlo ardito, -o cominciassi il desiderio allora -che l'agio v'ebbe dal solingo lito; -disegnò quivi senza più dimora -condurre a fin l'ingordo suo appetito; -ma prima da sé torre un de li dui -che nel battel campati eran con nui. -Quell'era omo di Scozia, Almonio detto, -che mostrava a Zerbin portar gran fede; -e commendato per guerrier perfetto -da lui fu, quando ad Odorico il diede. -Disse a costui, che biasmo era e difetto, -se mi traeano alla Rocella a piede; -e lo pregò ch'inanti volesse ire -a farmi incontra alcun ronzin venire. -Almonio, che di ciò nulla temea, -immantinente inanzi il camin piglia -alla città che 'l bosco ci ascondea, -e non era lontana oltra sei miglia. -Odorico scoprir sua voglia rea -all'altro finalmente si consiglia; -sì perché tor non se lo sa d'appresso, -sì perché avea gran confidenza in esso. -Era Corebo di Bilbao nomato -quel di ch'io parlo, che con noi rimase; -che da fanciullo picciolo allevato -s'era con lui ne le medesme case. -Poter con lui communicar l'ingrato -pensiero il traditor si persuase, -sperando ch'ad amar saria più presto -il piacer de l'amico, che l'onesto. -Corebo, che gentile era e cortese, -non lo potè ascoltar senza gran sdegno: -lo chiamò traditore, e gli contese -con parole e con fatti il rio disegno. -Grande ira all'uno e all'altro il core accese, -e con le spade nude ne fer segno. -Al trar de' ferri, io fui da la paura -volta a fuggir per l'alta selva oscura. -Odorico, che maestro era di guerra, -in pochi colpi a tal vantaggio venne, -che per morto lasciò Corebo in terra, -e per le mie vestigie il camin tenne. -Prestògli Amor (se 'l mio creder non erra), -acciò potesse giungermi, le penne; -e gl'insegnò molte lusinghe e prieghi, -con che ad amarlo e compiacer mi pieghi. -Ma tutto è indarno; che fermata e certa -più tosto era a morir, ch'a satisfarli. -Poi ch'ogni priego, ogni lusinga esperta -ebbe e minacce, e non potean giovarli, -si ridusse alla forza a faccia aperta. -Nulla mi val che supplicando parli -de la fé ch'avea in lui Zerbino avuta, -e ch'io ne le sue man m'era creduta. -Poi che gittar mi vidi i prieghi invano, -né mi sperare altronde altro soccorso, -e che più sempre cupido e villano -a me venìa, come famelico orso; -io mi difesi con piedi e con mano, -ed adopra'vi sin a l'ugne e il morso: -pela'gli il mento, e gli graffiai la pelle, -con stridi che n'andavano alle stelle. -Non so se fosse caso, o li miei gridi -che si doveano udir lungi una lega, -o pur ch'usati sian correre ai lidi -quando navilio alcun si rompe o anniega; -sopra il monte una turba apparir vidi, -e questa al mare e verso noi si piega. -Come la vede il Biscaglin venire, -lascia l'impresa, e voltasi a fuggire. -Contra quel disleal mi fu adiutrice -questa turba, signor; ma a quella image -che sovente in proverbio il vulgo dice: -cader de la padella ne le brage. -Gli è ver ch'io non son stata sì infelice, -né le lor menti ancor tanto malvage, -ch'abbino violata mia persona: -non che sia in lor virtù, né cosa buona. -Ma perché se mi serban, come io sono, -vergine, speran vendermi più molto. -Finito è il mese ottavo e viene il nono, -che fu il mio vivo corpo qui sepolto. -Del mio Zerbino ogni speme abbandono; -che già, per quanto ho da lor detti accolto, -m'han promessa e venduta a un mercadante, -che portare al soldan mi de' in Levante. — -Così parlava la gentil donzella; -e spesso con signiozzi e con sospiri -interrompea l'angelica favella, -da muovere a pietade aspidi e tiri. -Mentre sua doglia così rinovella, -o forse disacerba i suoi martiri, -da venti uomini entrar ne la spelonca, -armati chi di spiedo e chi di ronca. -Il primo d'essi, uom di spietato viso, -ha solo un occhio, e sguardo scuro e bieco; -l'altro, d'un colpo che gli avea reciso -il naso e la mascella, è fatto cieco. -Costui vedendo il cavalliero assiso -con la vergine bella entro allo speco, -volto a' compagni, disse: — Ecco augel nuovo, -a cui non tesi, e ne la rete il truovo. — -Poi disse al conte: — Uomo non vidi mai -più commodo di te, né più opportuno. -Non so se ti se' apposto, o se lo sai -perché te l'abbia forse detto alcuno, -che sì bell'arme io desiava assai, -e questo tuo leggiadro abito bruno. -Venuto a tempo veramente sei, -per riparare agli bisogni miei. — -Sorrise amaramente, in piè salito, -Orlando, e fe' risposta al mascalzone: -— Io ti venderò l'arme ad un partito -che non ha mercadante in sua ragione. — -Del fuoco, ch'avea appresso, indi rapito -pien di fuoco e di fumo uno stizzone, -trasse, e percosse il malandrino a caso, -dove confina con le ciglia il naso. -Lo stizzone ambe le palpebre colse, -ma maggior danno fe' ne la sinistra; -che quella parte misera gli tolse, -che de la luce sola, era ministra. -Né d'acciecarlo contentar si volse -il colpo fier, s'ancor non lo registra -tra quelli spirti che con suoi compagni -fa star Chiron dentro ai bollenti stagni. -Ne la spelonca una gran mensa siede -grossa duo palmi, e spaziosa in quadro, -che sopra un mal pulito e grosso piede, -cape con tutta la famiglia il ladro. -Con quell'agevolezza che si vede -gittar la canna lo Spagnuol leggiadro, -Orlando il grave desco da sé scaglia -dove ristretta insieme è la canaglia. -A chi'l petto, a chi'l ventre, a chi la testa, -a chi rompe le gambe, a chi le braccia; -di ch'altri muore, altri storpiato resta: -chi meno è offeso, di fuggir procaccia. -Così talvolta un grave sasso pesta -e fianchi e lombi, e spezza capi e schiaccia, -gittato sopra un gran drapel di biscie, -che dopo il verno al sol si goda e liscie. -Nascono casi, e non saprei dir quanti: -una muore, una parte senza coda, -un'altra non si può muover davanti, -e 'l deretano indarno aggira e snoda; -un'altra, ch'ebbe più propizi i santi, -striscia fra l'erbe, e va serpendo a proda. -Il colpo orribil fu, ma non mirando, -poi che lo fece il valoroso Orlando. -Quei che la mensa o nulla o poco offese -(e Turpin scrive a punto che fur sette), -ai piedi raccomandan sue difese: -ma ne l'uscita il paladin si mette; -e poi che presi gli ha senza contese, -le man lor lega con la fune istrette, -con una fune al suo bisogno destra, -che ritrovò ne la casa silvestra. -Poi li trascina fuor de la spelonca, -dove facea grande ombra un vecchio sorbo. -Orlando con la spada i rami tronca, -e quelli attacca per vivanda al corbo. -Non bisognò catena in capo adonca; -che per purgare il mondo di quel morbo, -l'arbor medesmo gli uncini prestolli, -con che pel mento Orlando ivi attaccolli. -La donna vecchia, amica a' malandrini, -poi che restar tutti li vide estinti, -fuggì piangendo e con le mani ai crini, -per selve e boscherecci labirinti. -Dopo aspri e malagevoli camini, -a gravi passi e dal timor sospinti, -in ripa un fiume in un guerrier scontrosse; -ma diferisco a ricontar chi fosse: -e torno all'altra, che si raccomanda -al paladin che non la lasci sola; -e dice di seguirlo in ogni banda. -Cortesemente Orlando la consola; -e quindi, poi ch'uscì con la ghirlanda -di rose adorna e di purpurea stola -la bianca Aurora al solito camino, -partì con Isabella il paladino. -Senza trovar cosa che degna sia -d'istoria, molti giorni insieme andaro; -e finalmente un cavallier per via, -che prigione era tratto, riscontraro. -Chi fosse, dirò poi; ch'or me ne svia -tal, di chi udir non vi sarà men caro: -la figliuola d'Amon, la qual lasciai -languida dianzi in amorosi guai. -La bella donna, disiando invano -ch'a lei facesse il suo Ruggier ritorno, -stava a Marsilia, ove allo stuol pagano -dava da travagliar quasi ogni giorno; -il qual scorrea, rubando in monte e in piano, -per Linguadoca e per Provenza intorno: -ed ella ben facea l'ufficio vero -di savio duca e d'ottimo guerriero. -Standosi quivi, e di gran spazio essendo -passato il tempo che tornare a lei -il suo Ruggier dovea, né lo vedendo, -vivea in timor di mille casi rei. -Un dì fra gli altri, che di ciò piangendo -stava solinga, le arrivò colei -che portò ne l'annel la medicina -che sanò il cor ch'avea ferito Alcina. -Come a sé ritornar senza il suo amante, -dopo sì lungo termine, la vede, -resta pallida e smorta, e sì tremante, -che non ha forza di tenersi in piede: -ma la maga gentil le va davante -ridendo, poi che del timor s'avede; -e con viso giocondo la conforta, -qual aver suol chi buone nuove apporta. -— Non temer (disse) di Ruggier, donzella, -ch'è vivo e sano, e come suol, t'adora; -ma non è già in sua libertà; che quella -pur gli ha levata il tuo nemico ancora: -ed è bisogno che tu monti in sella, -se brami averlo, e che mi segui or ora; -che se mi segui, io t'aprirò la via -donde per te Ruggier libero fia. — -E seguitò, narrandole di quello -magico error che gli avea ordito Atlante: -che simulando d'essa il viso bello, -che captiva parea del rio gigante, -tratto l'avea ne l'incantato ostello, -dove sparito poi gli era davante; -e come tarda con simile inganno -le donne e i cavallier che di là vanno. -A tutti par, l'incantator mirando, -mirar quel che per sé brama ciascuno, -donna, scudier, compagno, amico; quando -il desiderio uman non è tutto uno. -Quindi il palagio van tutti cercando -con lungo affanno, senza frutto alcuno; -e tanta è la speranza e il gran disire -del ritrovar, che non ne san partire. -Come tu giungi (disse) in quella parte -che giace presso all'incantata stanza, -verrà l'incantatore a ritrovarte, -che terrà di Ruggiero ogni sembianza; -e ti farà parer con sua mal'arte, -ch'ivi lo vinca alcun di più possanza, -acciò che tu per aiutarlo vada -dove con gli altri poi ti tenga a bada. -Acciò l'inganni, in che son tanti e tanti -caduti, non ti colgan, sie avertita, -che se ben di Ruggier viso e sembianti -ti parrà di veder, che chieggia aita, -non gli dar fede tu; ma, come avanti -ti vien, fagli lasciar l'indegna vita: -né dubitar perciò che Ruggier muoia, -ma ben colui che ti dà tanta noia. -Ti parrà duro assai, ben lo conosco, -uccidere un che sembri il tuo Ruggiero: -pur non dar fede all'occhio tuo, che losco -farà l'incanto, e celeragli il vero. -Fermati, pria ch'io ti conduca al bosco, -sì che poi non si cangi il tuo pensiero; -che sempre di Ruggier rimarrai priva, -se lasci per viltà che 'l mago viva. — -La valorosa giovane, con questa -intenzion che 'l fraudolente uccida, -a pigliar l'arme ed a seguire è presta -Melissa; che sa ben quanto l'è fida. -Quella, or per terren culto, or per foresta, -a gran giornate e in gran fretta la guida, -cercando alleviarle tuttavia -con parlar grato la noiosa via. -E più di tutti i bei ragionamenti, -spesso le ripetea ch'uscir di lei -e di Ruggier doveano gli eccellenti -principi e gloriosi semidei. -Come a Melissa fossino presenti -tutti i secreti degli eterni dei, -tutte le cose ella sapea predire, -ch'avean per molti seculi a venire. -— Deh, come, o prudentissima mia scorta -(dicea a la maga l'inclita donzella), -molti anni prima tu m'hai fatta accorta -di tanta mia viril progenie bella; -così d'alcuna donna mi conforta, -che di mia stirpe sia, s'alcuna in quella -metter si può tra belle e virtuose. — -E la cortese maga le rispose: -— Da te uscir veggio le pudiche donne, -madri d'imperatori e di gran regi, -reparatrici e solide colonne -di case illustri e di domìni egregi; -che men degne non son ne le lor gonne, -ch'in arme i cavallier, di sommi pregi, -di pietà, di gran cor, di gran prudenza, -di somma e incomparabil continenza. -E s'io avrò da narrarti di ciascuna -che ne la stirpe tua sia d'onor degna, -troppo sarà; ch'io non ne veggio alcuna -che passar con silenzio mi convegna. -Ma ti farò, tra mille, scelta d'una -o di due coppie, acciò ch'a fin ne vegna. -Ne la spelonca perché nol dicesti? -che l'imagini ancor vedute avresti. -De la tua chiara stirpe uscirà quella -d'opere illustri e di bei studi amica, -ch'io non so ben se più leggiadra e bella -mi debba dire, o più saggia e pudica, -liberale e magnanima Isabella, -che del bel lume suo dì e notte aprica -farà la terra che sul Menzo siede, -a cui la madre d'Ocno il nome diede: -dove onorato e splendido certame -avrà col suo dignissimo consorte, -chi di lor più le virtù prezzi ed ame, -e chi meglio apra a cortesia le porte. -S'un narrerà ch'al Taro e nel Reame -fu a liberar da' Galli Italia forte; -l'altra dirà: — Sol perché casta visse -Penelope, non fu minor d'Ulisse. — -Gran cose e molte in brevi detti accolgo -di questa donna e più dietro ne lasso, -che in quelli dì ch'io mi levai dal volgo, -mi fe' chiare Merlin dal cavo sasso. -E s'in questo gran mar la vela sciolgo, -di lunga Tifi in navigar trapasso. -Conchiudo in somma, ch'ella avrà, per dono, -de la virtù e del ciel, ciò ch'è di buono. -Seco avrà la sorella Beatrice, -a cui si converrà tal nome a punto: -ch'essa non sol del ben che qua giù lice, -per quel che viverà, toccherà il punto; -ma avrà forza di far seco felice, -fra tutti i ricchi duci, il suo congiunto, -il qual, come ella poi lascerà il mondo, -così de l'infelici andrà nel fondo. -E Moro e Sforza e Viscontei colubri, -lei viva, formidabili saranno -da l'iperboree nievi ai lidi rubri, -da l'Indo ai monti ch'al tuo mar via danno: -lei morta, andran col regno degl'Insubri, -e con grave di tutta Italia danno, -in servitute; e fia stimata, senza -costei, ventura la somma prudenza. -Vi saranno altre ancor, ch'avranno il nome -medesmo, e nasceran molt'anni prima: -di ch'una s'ornerà le sacre chiome -de la corona di Pannonia opima; -un'altra, poi che le terrene some -lasciate avrà, fia ne l'ausonio clima -collocata nel numer de le dive, -ed avrà incensi e imagini votive. -De l'altre tacerò; che, come ho detto, -lungo sarebbe a ragionar di tante; -ben che per sé ciascuna abbia suggetto -degno, ch'eroica e chiara tuba cante. -Le Bianche, le Lucrezie io terrò in petto, -e le Costanze e l'altre, che di quante -splendide case Italia reggeranno, -reparatrici e madri ad esser hanno. -Più ch'altre fosser mai, le tue famiglie -saran ne le lor donne aventurose; -non dico in quella più de le lor figlie, -che ne l'alta onestà de le lor spose. -E acciò da te notizia anco si piglie -di questa parte che Merlin mi espose, -forse perch'io 'l dovessi a te ridire, -ho di parlarne non poco desire. -E dirò prima di Ricciarda, degno -esempio di fortezza e d'onestade: -vedova rimarrà, giovane, a sdegno -di Fortuna; il che spesso ai buoni accade. -I figli, privi del paterno regno, -esuli andar vedrà in strane contrade, -fanciulli in man degli aversari loro; -ma infine avrà il suo male amplo ristoro. -De l'alta stirpe d'Aragone antica -non tacerò la splendida regina, -di cui né saggia sì, né sì pudica -veggio istoria lodar greca o latina, -né a cui Fortuna più si mostri amica: -poi che sarà da la Bontà divina -elletta madre a parturir la bella -progenie, Alfonso, Ippolito e Isabella. -Costei sarà la saggia Leonora, -che nel tuo felice arbore s'inesta. -Che ti dirò de la seconda nuora, -succeditrice prossima di questa? -Lucrezia Borgia, di cui d'ora in ora -le beltà, la virtù, la fama onesta -e la fortuna crescerà, non meno -che giovin pianta in morbido terreno. -Qual lo stagno all'argento, il rame all'oro, -il campestre papavero alla rosa, -pallido salce al sempre verde alloro, -dipinto vetro a gemma preziosa; -tal a costei, ch'ancor non nata onoro, -sarà ciascuna insino a qui famosa -di singular beltà, di gran prudenza, -e d'ogni altra lodevole eccellenza. -E sopra tutti gli altri incliti pregi -che le saranno e a viva e a morta dati, -si loderà che di costumi regi -Ercole e gli altri figli avrà dotati, -e dato gran principio ai ricchi fregi -di che poi s'orneranno in toga e armati; -perché l'odor non se ne va sì in fretta, -ch'in nuovo vaso, o buono o rio, si metta. -Non voglio ch'in silenzio anco Renata -di Francia, nuora di costei, rimagna, -di Luigi il duodecimo re nata, -e de l'eterna gloria di Bretagna. -Ogni virtù ch'in donna mai sia stata, -di poi che 'l fuoco scalda e l'acqua bagna, -e gira intorno il cielo, insieme tutta -per Renata adornar veggio ridutta. -Lungo sarà che d'Alda di Sansogna -narri, o de la contessa di Celano, -o di Bianca Maria di Catalogna, -o de la figlia del re sicigliano, -o de la bella Lippa da Bologna, -e d'altre; che s'io vo' di mano in mano -venirtene dicendo le gran lode, -entro in un alto mar che non ha prode. — -Poi che le raccontò la maggior parte -de la futura stirpe a suo grand'agio, -più volte e più le replicò de l'arte -ch'avea tratto Ruggier dentro al palagio. -Melissa si fermò, poi che fu in parte -vicina al luogo del vecchio malvagio; -e non le parve di venir più inante, -acciò veduta non fosse da Atlante. -E la donzella di nuovo consiglia -di quel che mille volte ormai l'ha detto. -La lascia sola; e quella oltre a dua miglia -non cavalcò per un sentiero istretto, -che vide quel ch'al suo Ruggier simiglia; -e dui giganti di crudele aspetto -intorno avea, che lo stringean sì forte, -ch'era vicino esser condotto a morte. -Come la donna in tal periglio vede -colui che di Ruggiero ha tutti i segni, -subito cangia in sospizion la fede, -subito oblia tutti i suoi bei disegni. -Che sia in odio a Melissa Ruggier crede, -per nuova ingiuria e non intesi sdegni, -e cerchi far con disusata trama -che sia morto da lei che così l'ama. -Seco dicea: — Non è Ruggier costui, -che col cor sempre, ed or con gli occhi veggio? -e s'or non veggio e non conosco lui, -che mai veder o mai conoscer deggio? -perché voglio io de la credenza altrui -che la veduta mia giudichi peggio? -Che senza gli occhi ancor, sol per se stesso -può il cor sentir se gli è lontano o appresso. — -Mentre che così pensa, ode la voce -che le par di Ruggier, chieder soccorso; -e vede quello a un tempo, che veloce -sprona il cavallo e gli ralenta il morso, -e l'un nemico e l'altro suo feroce, -che lo segue e lo caccia a tutto corso. -Di lor seguir la donna non rimase, -che si condusse all'incantate case. -De le quai non più tosto entrò le porte, -che fu sommersa nel commune errore. -Lo cercò tutto per vie dritte e torte -invan di su e di giù, dentro e di fuore; -né cessa notte o dì, tanto era forte -l'incanto: e fatto avea l'incantatore, -che Ruggier vede sempre e gli favella, -né Ruggier lei, né lui riconosce ella. -Ma lasciàn Bradamante, e non v'incresca -udir che così resti in quello incanto; -che quando sarà il tempo ch'ella n'esca, -la farò uscire, e Ruggiero altretanto. -Come raccende il gusto il mutar esca, -così mi par che la mia istoria, quanto -or qua or là più variata sia, -meno a chi l'udirà noiosa fia. -Di molte fila esser bisogno parme -a condur la gran tela ch'io lavoro. -E però non vi spiaccia d'ascoltarme, -come fuor de le stanze il popul Moro -davanti al re Agramante ha preso l'arme, -che, molto minacciando ai Gigli d'oro, -lo fa assembrare ad una mostra nuova, -per saper quanta gente si ritruova. -Perch'oltre i cavallieri, oltre i pedoni -ch'al numero sottratti erano in copia, -mancavan capitani, e pur de' buoni, -e di Spagna e di Libia e d'Etiopia, -e le diverse squadre e le nazioni -givano errando senza guida propia; -per dare e capo ed ordine a ciascuna, -tutto il campo alla mostra si raguna. -In supplimento de le turbe uccise -ne le battaglie e ne' fieri conflitti, -l'un signore in Ispagna, e l'altro mise -in Africa, ove molti n'eran scritti; -e tutti alli lor ordini divise, -e sotto i duci lor gli ebbe diritti. -Differirò, Signor, con grazia vostra, -ne l'altro canto l'ordine e la mostra. Nei molti assalti e nei crudel conflitti, -ch'avuti avea con Francia, Africa e Spagna, -morti erano infiniti, e derelitti -al lupo, al corvo, all'aquila griffagna; -e ben che i Franchi fossero più afflitti, -che tutta avean perduta la campagna; -più si doleano i Saracin, per molti -principi e gran baron ch'eran lor tolti. -Ebbon vittorie così sanguinose, -che lor poco avanzò di che allegrarsi. -E se alle antique le moderne cose, -invitto Alfonso, denno assimigliarsi; -la gran vittoria, onde alle virtuose -opere vostre può la gloria darsi, -di ch'aver sempre lacrimose ciglia -Ravenna debbe, a queste s'assimiglia: -quando cedendo Morini e Picardi, -l'esercito normando e l'aquitano, -voi nel mezzo assaliste gli stendardi -del quasi vincitor nimico ispano, -seguendo voi quei gioveni gagliardi, -che meritar con valorosa mano -quel dì da voi, per onorati doni, -l'else indorate e gl'indorati sproni. -Con sì animosi petti che vi foro -vicini o poco lungi al gran periglio, -crollaste sì le ricche Giande d'oro, -sì rompeste il baston giallo e vermiglio, -ch'a voi si deve il trionfale alloro, -che non fu guasto né sfiorato il Giglio. -D'un'altra fronde v'orna anco la chioma -l'aver serbato il suo Fabrizio a Roma. -La gran Colonna del nome romano, -che voi prendeste, e che servaste intera, -vi dà più onor che se di vostra mano -fosse caduta la milizia fiera, -quanta n'ingrassa il campo ravegnano, -e quanta se n'andò senza bandiera -d'Aragon, di Castiglia e di Navarra, -veduto non giovar spiedi né carra. -Quella vittoria fu più di conforto, -che d'allegrezza; perché troppo pesa -contra la gioia nostra il veder morto -il capitan di Francia e de l'impresa; -e seco avere una procella absorto -tanti principi illustri, ch'a difesa -dei regni lor, dei lor confederati, -di qua da le fredd'Alpi eran passati. -Nostra salute, nostra vita in questa -vittoria suscitata si conosce, -che difende che 'l verno e la tempesta -di Giove irato sopra noi non crosce: -ma né goder potiam, né farne festa, -sentendo i gran ramarichi e l'angosce, -ch'in veste bruna e lacrimosa guancia -le vedovelle fan per tutta Francia. -Bisogna che proveggia il re Luigi -di nuovi capitani alle sue squadre, -che per onor de l'aurea Fiordaligi -castighino le man rapaci e ladre, -che suore, e frati e bianchi e neri e bigi -violato hanno, e sposa e figlia e madre; -gittato in terra Cristo in sacramento, -per torgli un tabernaculo d'argento. -O misera Ravenna, t'era meglio -ch'al vincitor non fêssi resistenza; -far ch'a te fosse inanzi Brescia speglio, -che tu lo fossi a Arimino e a Faenza. -Manda, Luigi, il buon Traulcio veglio, -ch'insegni a questi tuoi più continenza, -e conti lor quanti per simil torti -stati ne sian per tutta Italia morti. -Come di capitani bisogna ora -che 'l re di Francia al campo suo proveggia, -così Marsilio ed Agramante allora, -per dar buon reggimento alla sua greggia, -dai lochi dove il verno fe' dimora, -vuol ch'in campagna all'ordine si veggia; -perché vedendo ove bisogno sia, -guida e governo ad ogni schiera dia. -Marsilio prima, e poi fece Agramante -passar la gente sua schiera per schiera. -I Catalani a tutti gli altri inante -di Dorifebo van con la bandiera. -Dopo vien, senza il suo re Folvirante, -che per man di Rinaldo già morto era, -la gente di Navarra; e lo re ispano -halle dato Isolier per capitano. -Balugante del popul di Leone, -Grandonio cura degli Algarbi piglia; -il fratel di Marsilio, Falsirone, -ha seco armata la minor Castiglia. -Seguon di Madarasso il gonfalone -quei che lasciato han Malaga e Siviglia, -dal mar di Gade a Cordova feconda -le verdi ripe ovunque il Beti inonda. -Stordilano e Tesira e Baricondo, -l'un dopo l'altro, mostra la sua gente: -Granata al primo, Ulisbona al secondo, -e Maiorica al terzo è ubidiente. -Fu d'Ulisbona re (tolto dal mondo -Larbin) Tesira, di Larbin parente. -Poi vien Galizia, che sua guida, in vece -di Maricoldo, Serpentino fece. -Quei di Tolledo e quei di Calatrava, -di ch'ebbe Sinagon già la bandiera, -con tutta quella gente che si lava -in Guadiana e bee de la riviera, -l'audace Matalista governava; -Bianzardin quei d'Asturga in una schiera -con quei di Salamanca e di Piagenza, -d'Avila, di Zamora e di Palenza. -Di quei di Saragosa e de la corte -del re Marsilio ha Ferraù il governo: -tutta la gente è ben armata e forte. -In questi è Malgarino, Balinverno, -Malzarise e Morgante, ch'una sorte -avea fatto abitar paese esterno; -che, poi che i regni lor lor furon tolti, -gli avea Marsilio in corte sua raccolti. -In questa è di Marsilio il gran bastardo, -Follicon d'Almeria, con Doriconte, -Bavarte e Largalifa ed Analardo, -ed Archidante il sagontino conte, -e Lamirante e Langhiran gagliardo, -e Malagur ch'avea l'astuzie pronte, -ed altri ed altri, di quai penso, dove -tempo sarà, di far veder le pruove. -Poi che passò l'esercito di Spagna -con bella mostra inanzi al re Agramante, -con la sua squadra apparve alla campagna -il re d'Oran, che quasi era gigante. -L'altra che vien, per Martasin si lagna, -il qual morto le fu da Bradamante; -e si duol ch'una femina si vanti -d'aver ucciso il re de' Garamanti. -Segue la terza schiera di Marmonda, -ch'Argosto morto abbandonò in Guascogna: -a questa un capo, come alla seconda -e come anco alla quarta, dar bisogna. -Quantunque il re Agramante non abonda -di capitani, pur ne finge e sogna: -dunque Buraldo, Ormida, Arganio elesse, -e dove uopo ne fu, guida li messe. -Diede ad Arganio quei di Libicana, -che piangean morto il negro Dudrinasso. -Guida Brunello i suoi di Tingitana, -con viso nubiloso e ciglio basso; -che, poi che ne la selva non lontana -dal castel ch'ebbe Atlante in cima al sasso, -gli fu tolto l'annel da Bradamante, -caduto era in disgrazia al re Agramante: -e se 'l fratel di Ferraù, Isoliero, -ch'a l'arbore legato ritrovollo, -non facea fede inanzi al re del vero, -avrebbe dato in su le forche un crollo. -Mutò, a' prieghi di molti, il re pensiero, -già avendo fatto porgli il laccio al collo: -gli lo fece levar, ma riserbarlo -pel primo error; che poi giurò impiccarlo: -sì ch'avea causa di venir Brunello -col viso mesto e con la testa china. -Seguia poi Farurante, e dietro a quello -eran cavalli e fanti di Maurina. -Venìa Libanio appresso, il re novello: -la gente era con lui di Constantina; -però che la corona e il baston d'oro -gli ha dato il re, che fu di Pinadoro. -Con la gente d'Esperia Soridano, -e Dorilon ne vien con quei di Setta; -ne vien coi Nasamoni Puliano. -Quelli d'Amonia il re Agricalte affretta; -Malabuferso quelli di Fizano. -Da Finadurro è l'altra squadra retta, -che di Canaria viene e di Marocco; -Balastro ha quei che fur del re Tardocco. -Due squadre, una di Mulga, una d'Arzilla, -seguono: e questa ha 'l suo signore antico; -quella n'è priva; e però il re sortilla, -e diella a Corineo suo fido amico. -E così de la gente d'Almansilla, -ch'ebbe Tanfirion, fe' re Caico; -diè quella di Getulia a Rimedonte. -Poi vien con quei di Cosca Balinfronte. -Quell'altra schiera è la gente di Bolga: -suo re è Clarindo, e già fu Mirabaldo. -Vien Baliverzo, il qual vuò che tu tolga -di tutto il gregge pel maggior ribaldo. -Non credo in tutto il campo si disciolga -bandiera ch'abbia esercito più saldo -de l'altra, con che segue il re Sobrino, -né più di lui prudente Saracino. -Quei di Bellamarina, che Gualciotto -solea guidare, or guida il re d'Algieri -Rodomonte, e di Sarza, che condotto -di nuovo avea pedoni e cavallieri; -che mentre il sol fu nubiloso sotto -il gran centauro e i corni orridi e fieri, -fu in Africa mandato da Agramante, -onde venuto era tre giorni inante. -Non avea il campo d'Africa più forte, -né Saracin più audace di costui: -e più temean le parigine porte, -ed avean più cagion di temer lui, -che Marsilio, Agramante e la gran corte -ch'avea seguito in Francia questi dui: -e più d'ogni altro che facesse mostra, -era nimico de la fede nostra. -Vien Prusione, il re de l'Alvaracchie; -poi quel de la Zumara, Dardinello. -Non so s'abbiano o nottole o cornacchie, -o altro manco ed importuno augello, -il qual dai tetti e da le fronde gracchie -futuro mal, predetto a questo e a quello, -che fissa in ciel nel dì seguente è l'ora -che l'uno e l'altro in quella pugna muora. -In campo non aveano altri a venire, -che quei di Tremisenne e di Norizia; -né si vedea alla mostra comparire -il segno lor, né dar di sé notizia. -Non sapendo Agramante che si dire, -né che pensar di questa lor pigrizia, -uno scudiero al fin gli fu condutto -del re di Tremisen, che narrò il tutto. -E gli narrò ch'Alzirdo e Manilardo -con molti altri de' suoi giaceano al campo. -— Signor (diss'egli), il cavallier gagliardo -ch'ucciso ha i nostri, ucciso avria il tuo campo, -se fosse stato a torsi via più tardo -di me, ch'a pena ancor così ne scampo. -Fa quel de' cavallieri e de' pedoni, -che 'l lupo fa di capre e di montoni. — -Era venuto pochi giorni avante -nel campo del re d'Africa un signore; -né in Ponente era, né in tutto Levante, -di più forza di lui, né di più core. -Gli facea grande onore il re Agramante, -per esser costui figlio e successore -in Tartaria del re Agrican gagliardo: -suo nome era il feroce Mandricardo. -Per molti chiari gesti era famoso, -e di sua fama tutto il mondo empìa; -ma lo facea più d'altro glorioso, -ch'al castel de la fata di Soria -l'usbergo avea acquistato luminoso -ch'Ettor troian portò mille anni pria, -per strana e formidabile aventura, -che 'l ragionarne pur mette paura. -Trovandosi costui dunque presente -a quel parlar, alzò l'ardita faccia; -e si dispose andare immantinente, -per trovar quel guerrier, dietro alla traccia. -Ritenne occulto il suo pensiero in mente, -o sia perché d'alcun stima non faccia, -o perché tema, se 'l pensier palesa, -ch'un altro inanzi a lui pigli l'impresa. -Allo scudier fe' dimandar come era -la sopravesta di quel cavalliero. -Colui rispose: — Quella è tutta nera, -lo scudo nero, e non ha alcun cimiero. — -E fu, Signor, la sua risposta vera, -perché lasciato Orlando avea il quartiero; -che come dentro l'animo era in doglia, -così imbrunir di fuor volse la spoglia. -Marsilio a Mandricardo avea donato -un destrier baio a scorza di castagna, -con gambe e chiome nere; ed era nato -di frisa madre e d'un villan di Spagna. -Sopra vi salta Mandricardo armato, -e galoppando va per la campagna; -e giura non tornare a quelle schiere -se non truova il campion da l'arme nere. -Molta incontrò de la paurosa gente -che da le man d'Orlando era fuggita, -chi del figliuol, chi del fratel dolente, -ch'inanzi agli occhi suoi perdè la vita. -Ancora la codarda e trista mente -ne la pallida faccia era sculpita; -ancor, per la paura che avuta hanno, -pallidi, muti ed insensati vanno. -Non fe' lungo camin, che venne dove -crudel spettaculo ebbe ed inumano, -ma testimonio alle mirabil pruove -che fur raconte inanzi al re africano. -Or mira questi, or quelli morti, e muove, -e vuol le piaghe misurar con mano, -mosso da strana invidia ch'egli porta -al cavallier ch'avea la gente morta. -Come lupo o mastin ch'ultimo giugne -al bue lasciato morto da' villani, -che truova sol le corna, l'ossa e l'ugne, -del resto son sfamati augelli e cani; -riguarda invano il teschio che non ugne: -così fa il crudel barbaro in que' piani. -Per duol bestemmia, e mostra invidia immensa, -che venne tardi a così ricca mensa. -Quel giorno e mezzo l'altro segue incerto -il cavallier dal negro, e ne domanda. -Ecco vede un pratel d'ombre coperto, -che sì d'un alto fiume si ghirlanda, -che lascia a pena un breve spazio aperto, -dove l'acqua si torce ad altra banda. -Un simil luogo con girevol onda -sotto Ocricoli il Tevere circonda. -Dove entrar si potea, con l'arme indosso -stavano molti cavallieri armati. -Chiede il pagan, chi gli avea in stuol sì grosso, -ed a che effetto insieme ivi adunati. -Gli fe' risposta il capitano, mosso -dal signoril sembiante e da' fregiati -d'oro e di gemme arnesi di gran pregio, -che lo mostravan cavalliero egregio. -— Dal nostro re siàn (disse) di Granata -chiamati in compagnia de la figliuola, -la quale al re di Sarza ha maritata, -ben che di ciò la fama ancor non vola. -Come appresso la sera racchetata -la cicaletta sia, ch'or s'ode sola, -avanti al padre fra l'ispane torme -la condurremo: intanto ella si dorme. — -Colui, che tutto il mondo vilipende, -disegna di veder tosto la pruova, -se quella gente o bene o mal difende -la donna, alla cui guardia si ritruova. -Disse: — Costei, per quanto se n'intende, -è bella; e di saperlo ora mi giova. -A lei mi mena, o falla qui venire; -ch'altrove mi convien subito gire. — -— Esser per certo dei pazzo solenne, — -rispose il Granatin, né più gli disse. -Ma il Tartaro a ferir tosto lo venne -con l'asta bassa, e il petto gli trafisse; -che la corazza il colpo non sostenne, -e forza fu che morto in terra gisse. -L'asta ricovra il figlio d'Agricane, -perché altro da ferir non gli rimane. -Non porta spada né baston; che quando -l'arme acquistò, che fu d'Ettor troiano, -perché trovò che lor mancava il brando, -gli convenne giurar (né giurò invano) -che fin che non togliea quella d'Orlando, -mai non porrebbe ad altra spada mano: -Durindana ch'Almonte ebbe in gran stima, -e Orlando or porta, Ettor portava prima. -Grande è l'ardir del Tartaro, che vada -con disvantaggio tal contra coloro, -gridando: — Chi mi vuol vietar la strada? — -E con la lancia si cacciò tra loro. -Chi l'asta abbassa, e chi tra' fuor la spada; -e d'ogn'intorno subito gli foro. -Egli ne fece morir una frotta, -prima che quella lancia fosse rotta. -Rotta che se la vede, il gran troncone -che resta intero, ad ambe mani afferra; -e fa morir con quel tante persone, -che non fu vista mai più crudel guerra. -Come tra' Filistei l'ebreo Sansone -con la mascella che levò di terra, -scudi spezza, elmi schiaccia, e un colpo spesso -spenge i cavalli ai cavallieri appresso. -Correno a morte que' miseri a gara, -né perché cada l'un, l'altro andar cessa; -che la maniera del morire, amara -lor par più assai che non è morte istessa. -Patir non ponno che la vita cara -tolta lor sia da un pezzo d'asta fessa, -e sieno sotto alle picchiate strane -a morir giunti, come biscie o rane. -Ma poi ch'a spese lor si furo accorti -che male in ogni guisa era morire, -sendo già presso alli duo terzi morti, -tutto l'avanzo cominciò a fuggire. -Come del proprio aver via se gli porti, -il Saracin crudel non può patire -ch'alcun di quella turba sbigottita -da lui partir si debba con la vita. -Come in palude asciutta dura poco -stridula canna, o in campo àrrida stoppia -contra il soffio di borea e contra il fuoco -che 'l cauto agricultore insieme accoppia, -quando la vaga fiamma occupa il loco, -e scorre per li solchi, e stride e scoppia; -così costor contra la furia accesa -di Mandricardo fan poca difesa. -Poscia ch'egli restar vede l'entrata, -che mal guardata fu, senza custode; -per la via che di nuovo era segnata -ne l'erba, e al suono dei ramarchi ch'ode, -viene a veder la donna di Granata, -se di bellezze è pari alle sue lode: -passa tra i corpi de la gente morta, -dove gli dà, torcendo, il fiume porta. -E Doralice in mezzo il prato vede -(che così nome la donzella avea), -la qual, suffolta da l'antico piede -d'un frassino silvestre, si dolea. -Il pianto, come un rivo che succede -di viva vena, nel bel sen cadea; -e nel bel viso si vedea che insieme -de l'altrui mal si duole, e del suo teme. -Crebbe il timor, come venir lo vide -di sangue brutto e con faccia empia e oscura, -e 'l grido sin al ciel l'aria divide, -di sé e de la sua gente per paura; -che, oltre i cavallier, v'erano guide, -che de la bella infante aveano cura, -maturi vecchi, e assai donne e donzelle -del regno di Granata, e le più belle. -Come il Tartaro vede quel bel viso -che non ha paragone in tutta Spagna, -e c'ha nel pianto (or ch'esser de' nel riso?) -tesa d'Amor l'inestricabil ragna; -non sa se vive in terra o in paradiso: -né de la sua vittoria altro guadagna, -se non che in man de la sua prigioniera -si dà prigione, e non sa in qual maniera. -A lei però non si concede tanto, -che del travaglio suo le doni il frutto; -ben che piangendo ella dimostri, quanto -possa donna mostrar, dolore e lutto. -Egli, sperando volgerle quel pianto -in sommo gaudio, era disposto al tutto -menarla seco; e sopra un bianco ubino -montar la fece, e tornò al suo camino. -Donne e donzelle e vecchi ed altra gente, -ch'eran con lei venuti di Granata, -tutti licenziò benignamente, -dicendo: — Assai da me fia accompagnata; -io mastro, io balia, io le sarò sergente -in tutti i suoi bisogni: a Dio brigata. — -Così, non gli possendo far riparo, -piangendo e sospirando se n'andaro; -tra lor dicendo: — Quanto doloroso -ne sarà il padre, come il caso intenda! -quanta ira, quanto duol ne avrà il suo sposo! -oh come ne farà vendetta orrenda! -Deh, perché a tempo tanto bisognoso -non è qui presso a far che costui renda -il sangue illustre del re Stordilano, -prima che se lo porti più lontano? — -De la gran preda il Tartaro contento, -che fortuna e valor gli ha posta inanzi, -di trovar quel dal negro vestimento -non par ch'abbia la fretta ch'avea dianzi. -Correva dianzi: or viene adagio e lento; -e pensa tuttavia dove si stanzi, -dove ritruovi alcun commodo loco, -per esalar tanto amoroso foco. -Tuttavolta conforta Doralice, -ch'avea di pianto e gli occhi e 'l viso molle: -compone e finge molte cose, e dice -che per fama gran tempo ben le volle; -e che la patria, e il suo regno felice -che 'l nome di grandezza agli altri tolle, -lasciò, non per vedere o Spagna o Francia, -ma sol per contemplar sua bella guancia. -— Se per amar, l'uom debbe essere amato, -merito il vostro amor; che v'ho amat'io: -se per stirpe, di me chi è meglio nato? -che 'l possente Agrican fu il padre mio: -se per ricchezza, chi ha di me più stato? -che di dominio io cedo solo a Dio: -se per valor, credo oggi aver esperto -ch'esser amato per valore io merto. — -Queste parole ed altre assai, ch'Amore -a Mandricardo di sua bocca ditta, -van dolcemente a consolar il core -de la donzella di paura afflitta. -Il timor cessa, e poi cessa il dolore -che le avea quasi l'anima trafitta. -Ella comincia con più pazienza -a dar più grata al nuovo amante udienza; -poi con risposte più benigne molto -a mostrarsegli affabile e cortese, -e non negargli di fermar nel volto -talor le luci di pietade accese: -onde il pagan, che da lo stral fu colto -altre volte d'Amor, certezza prese, -non che speranza, che la donna bella -non saria a' suo' desir sempre ribella. -Con questa compagnia lieto e gioioso, -che sì gli satisfà, sì gli diletta, -essendo presso all'ora ch'a riposo -la fredda notte ogni animale alletta, -vedendo il sol già basso e mezzo ascoso, -comminciò a cavalcar con maggior fretta; -tanto ch'udì sonar zuffoli e canne, -e vide poi fumar ville e capanne. -Erano pastorali alloggiamenti, -miglior stanza e più commoda, che bella. -Quivi il guardian cortese degli armenti -onorò il cavalliero e la donzella, -tanto che si chiamar da lui contenti; -che non pur per cittadi e per castella, -ma per tuguri ancora e per fenili -spesso si trovan gli uomini gentili. -Quel che fosse dipoi fatto all'oscuro -tra Doralice e il figlio d'Agricane, -a punto racontar non m'assicuro; -sì ch'al giudicio di ciascun rimane. -Creder si può che ben d'accordo furo; -che si levar più allegri la dimane, -e Doralice ringraziò il pastore, -che nel suo albergo le avea fatto onore. -Indi d'uno in un altro luogo errando, -si ritrovaro al fin sopra un bel fiume -che con silenzio al mar va declinando, -e se vada o se stia, mal si prosume; -limpido e chiaro sì, ch'in lui mirando, -senza contesa al fondo porta il lume. -In ripa a quello, a una fresca ombra e bella, -trovar dui cavallieri e una donzella. -Or l'alta fantasia, ch'un sentier solo -non vuol ch'i'segua ognor, quindi mi guida, -e mi ritorna ove il moresco stuolo -assorda di rumor Francia e di grida, -d'intorno il padiglione ove il figliuolo -del re Troiano il santo Impero sfida, -e Rodomonte audace se gli vanta -arder Parigi e spianar Roma santa. -Venuto ad Agramante era all'orecchio, -che già l'Inglesi avean passato il mare: -però Marsilio e il re del Garbo vecchio -e gli altri capitan fece chiamare. -Consiglian tutti a far grande apparecchio, -sì che Parigi possino espugnare. -Ponno esser certi che più non s'espugna, -se nol fan prima che l'aiuto giugna. -Già scale innumerabili per questo -da' luoghi intorno avea fatto raccorre, -ed asse e travi, e vimine contesto, -che lo poteano a diversi usi porre; -e navi e ponti: e più facea che 'l resto, -il primo e il secondo ordine disporre -a dar l'assalto; ed egli vuol venire -tra quei che la città denno assalire. -L'imperatore il dì che 'l dì precesse -de la battaglia, fe' dentro a Parigi -per tutto celebrare uffici e messe -a preti, a frati bianchi, neri e bigi; -e le gente che dianzi eran confesse, -e di man tolte agl'inimici stigi, -tutti communicar, non altramente -ch'avessino a morir il dì seguente. -Ed egli tra baroni e paladini, -principi ed oratori, al maggior tempio -con molta religione a quei divini -atti intervenne, e ne diè agli altri esempio. -Con le man giunte e gli occhi al ciel supini, -disse: — Signor, ben ch'io sia iniquo ed empio, -non voglia tua bontà, pel mio fallire, -che 'l tuo popul fedele abbia a patire. -E se gli è tuo voler ch'egli patisca, -e ch'abbia il nostro error degni supplici, -almeno la punizion si differisca -sì, che per man non sia de' tuoi nemici; -che quando lor d'uccider noi sortisca, -che nome avemo pur d'esser tuo' amici, -i pagani diran che nulla puoi, -che perir lasci i partigiani tuoi. -E per un che ti sia fatto ribelle, -cento ti si faran per tutto il mondo; -tal che la legge falsa di Babelle -caccerà la tua fede e porrà al fondo. -Difendi queste genti, che son quelle -che 'l tuo sepulcro hanno purgato e mondo -da' brutti cani, e la tua santa Chiesa -con li vicari suoi spesso difesa. -So che i meriti nostri atti non sono -a satisfare al debito d'un'oncia; -né devemo sperar da te perdono, -se riguardiamo a nostra vita sconcia: -ma se vi aggiugni di tua grazia il dono, -nostra ragion fia ragguagliata e concia; -né del tuo aiuto disperar possiamo, -qualor di tua pietà ci ricordiamo. — -Così dicea l'imperator devoto, -con umiltade e contrizion di core. -Giunse altri prieghi e convenevol voto -al gran bisogno e all'alto suo splendore. -Non fu il caldo pregar d'effetto voto; -però che 'l genio suo, l'angel migliore, -i prieghi tolse e spiegò al ciel le penne, -ed a narrare al Salvator li venne. -E furo altri infiniti in quello instante -da tali messagger portati a Dio; -che come gli ascoltar l'anime sante, -dipinte di pietade il viso pio, -tutte miraro il sempiterno Amante, -e gli mostraro il commun lor disio, -che la giusta orazion fosse esaudita -del populo cristian che chiede aita. -E la Bontà ineffabile, ch'invano -non fu pregata mai da cor fedele, -leva gli occhi pietosi, e fa con mano -cenno che venga a sé l'angel Michele. -— Va (gli disse) all'esercito cristiano -che dianzi in Picardia calò le vele, -e al muro di Parigi l'appresenta -sì, che 'l campo nimico non lo senta. -Truova prima il Silenzio, e da mia parte -gli di' che teco a questa impresa venga; -ch'egli ben proveder con ottima arte -saprà di quanto proveder convenga. -Fornito questo, subito va in parte -dove il suo seggio la Discordia tenga: -dille che l'esca e il fucil seco prenda, -e nel campo de' Mori il fuoco accenda; -e tra quei che vi son detti più forti -sparga tante zizzanie e tante liti, -che combattano insieme; ed altri morti, -altri ne sieno presi, altri feriti, -e fuor del campo altri lo sdegno porti -sì che il lor re poco di lor s'aiti. — -Non replica a tal detto altra parola -il benedetto augel, ma dal ciel vola. -Dovunque drizza Michel angel l'ale, -fuggon le nubi, e torna il ciel sereno. -Gli gira intorno un aureo cerchio, quale -veggiàn di notte lampeggiar baleno. -Seco pensa tra via, dove si cale -il celeste corrier per fallir meno -a trovar quel nimico di parole, -a cui la prima commission far vuole. -Vien scorrendo ov'egli abiti, ov'egli usi; -e se accordaro infin tutti i pensieri, -che de frati e de monachi rinchiusi -lo può trovare in chiese e in monasteri, -dove sono i parlari in modo esclusi, -che 'l Silenzio, ove cantano i salteri, -ove dormeno, ove hanno la piatanza, -e finalmente è scritto in ogni stanza. -Credendo quivi ritrovarlo, mosse -con maggior fretta le dorate penne; -e di veder ch'ancor Pace vi fosse, -Quiete e Carità, sicuro tenne. -Ma da la opinion sua ritrovosse -tosto ingannato, che nel chiostro venne: -non è Silenzio quivi; e gli fu ditto -che non v'abita più, fuor che in iscritto. -Né Pietà, né Quiete, né Umiltade, -né quivi Amor, né quivi Pace mira. -Ben vi fur già, ma ne l'antiqua etade; -che le cacciar Gola, Avarizia ed Ira, -Superbia, Invidia, Inerzia e Crudeltade. -Di tanta novità l'angel si ammira: -andò guardando quella brutta schiera, -e vide ch'anco la Discordia v'era. -Quella che gli avea detto il Padre eterno, -dopo il Silenzio, che trovar dovesse. -Pensato avea di far la via d'Averno, -che si credea che tra' dannati stesse; -e ritrovolla in questo nuovo inferno -(ch'il crederia?) tra santi uffici e messe. -Par di strano a Michel ch'ella vi sia, -che per trovar credea di far gran via. -La conobbe al vestir di color cento, -fatto a liste inequali ed infinite, -ch'or la cuoprono or no; che i passi e 'l vento -le giano aprendo, ch'erano sdrucite. -I crini avea qual d'oro e qual d'argento, -e neri e bigi, e aver pareano lite; -altri in treccia, altri in nastro eran raccolti, -molti alle spalle, alcuni al petto sciolti. -Di citatorie piene e di libelli, -d'esamine e di carte di procure -avea le mani e il seno, e gran fastelli -di chiose, di consigli e di letture; -per cui le facultà de' poverelli -non sono mai ne le città sicure. -Aveva dietro e dinanzi e d'ambi i lati, -notai, procuratori ed avocati. -La chiama a sé Michele, e le commanda -che tra i più forti Saracini scenda, -e cagion truovi, che con memoranda -ruina insieme a guerreggiar gli accenda. -Poi del Silenzio nuova le domanda: -facilmente esser può ch'essa n'intenda, -sì come quella ch'accendendo fochi -di qua e di là, va per diversi lochi. -Rispose la Discordia: — Io non ho a mente -in alcun loco averlo mai veduto: -udito l'ho ben nominar sovente, -e molto commendarlo per astuto. -Ma la Fraude, una qui di nostra gente, -che compagnia talvolta gli ha tenuto, -penso che dir te ne saprà novella; — -e verso una alzò il dito, e disse: — È quella. — -Avea piacevol viso, abito onesto, -un umil volger d'occhi, un andar grave, -un parlar sì benigno e sì modesto, -che parea Gabriel che dicesse: Ave. -Era brutta e deforme in tutto il resto: -ma nascondea queste fattezze prave -con lungo abito e largo; e sotto quello, -attosicato avea sempre il coltello. -Domanda a costei l'angelo, che via -debba tener, sì che 'l Silenzio truove. -Disse la Fraude: — Già costui solia -fra virtudi abitare, e non altrove, -con Benedetto e con quelli d'Elia -ne le badie, quando erano ancor nuove: -fe' ne le scuole assai de la sua vita -al tempo di Pitagora e d'Archita. -Mancati quei filosofi e quei santi -che lo solean tener pel camin ritto, -dagli onesti costumi ch'avea inanti, -fece alle sceleraggini tragitto. -Cominciò andar la notte con gli amanti, -indi coi ladri, e fare ogni delitto. -Molto col Tradimento egli dimora: -veduto l'ho con l'Omicidio ancora. -Con quei che falsan le monete ha usanza -di ripararsi in qualche buca scura. -Così spesso compagni muta e stanza, -che 'l ritrovarlo ti saria ventura; -ma pur ho d'insegnartelo speranza: -se d'arrivare a mezza notte hai cura -alla casa del Sonno, senza fallo -potrai (che quivi dorme) ritrovallo. — -Ben che soglia la Fraude esser bugiarda, -pur è tanto il suo dir simile al vero, -che l'angelo le crede; indi non tarda -a volarsene fuor del monastero. -Tempra il batter de l'ale, e studia e guarda -giungere in tempo al fin del suo sentiero, -ch'alla casa del Sonno, che ben dove -era sapea, questo Silenzio truove. -Giace in Arabia una valletta amena, -lontana da cittadi e da villaggi, -ch'all'ombra di duo monti è tutta piena -d'antiqui abeti e di robusti faggi. -Il sole indarno il chiaro dì vi mena; -che non vi può mai penetrar coi raggi, -sì gli è la via da folti rami tronca: -e quivi entra sotterra una spelonca. -Sotto la negra selva una capace -e spaziosa grotta entra nel sasso, -di cui la fronte l'edera seguace -tutta aggirando va con storto passo. -In questo albergo il grave Sonno giace; -l'Ozio da un canto corpulento e grasso, -da l'altro la Pigrizia in terra siede, -che non può andare, e mal reggersi in piede. -Lo smemorato Oblio sta su la porta: -non lascia entrar, né riconosce alcuno; -non ascolta imbasciata, né riporta; -e parimente tien cacciato ognuno. -Il Silenzio va intorno, e fa la scorta: -ha le scarpe di feltro, e 'l mantel bruno; -ed a quanti n'incontra, di lontano, -che non debban venir, cenna con mano. -Se gli accosta all'orecchio e pianamente -l'angel gli dice: — Dio vuol che tu guidi -a Parigi Rinaldo con la gente -che per dar, mena, al suo signor sussidi: -ma che lo facci tanto chetamente, -ch'alcun de' Saracin non oda i gridi; -sì che più tosto che ritruovi il calle -la Fama d'avisar, gli abbia alle spalle. — -Altrimente il Silenzio non rispose, -che col capo accennando che faria; -e dietro ubidiente se gli pose; -e furo al primo volo in Picardia. -Michel mosse le squadre coraggiose, -e fe' lor breve un gran tratto di via; -sì che in un dì a Parigi le condusse, -né alcun s'avide che miracol fusse. -Discorreva il Silenzio, e tuttavolta, -e dinanzi alle squadre e d'ogn'intorno -facea girare un'alta nebbia in volta, -ed avea chiaro ogn'altra parte il giorno; -e non lasciava questa nebbia folta, -che s'udisse di fuor tromba né corno: -poi n'andò tra' pagani, e menò seco -un non so che, ch'ognun fe' sordo e cieco. -Mentre Rinaldo in tal fretta venìa, -che ben parea da l'angelo condotto, -e con silenzio tal, che non s'udia -nel campo saracin farsene motto; -il re Agramante avea la fanteria -messo ne' borghi di Parigi, e sotto -le minacciate mura in su la fossa, -per far quel dì l'estremo di sua possa. -Chi può contar l'esercito che mosso -questo dì contro Carlo ha 'l re Agramante, -conterà ancora in su l'ombroso dosso -del silvoso Apennin tutte le piante; -dirà quante onde, quando è il mar più grosso, -bagnano i piedi al mauritano Atlante; -e per quanti occhi il ciel le furtive opre -degli amatori a mezza notte scuopre. -Le campane si sentono a martello -di spessi colpi e spaventosi tocche; -si vede molto, in questo tempio e in quello, -alzar di mano e dimenar di bocche. -Se 'l tesoro paresse a Dio sì bello, -come alle nostre openioni sciocche, -questo era il dì che 'l santo consistoro -fatto avria in terra ogni sua statua d'oro. -S'odon ramaricare i vecchi giusti, -che s'erano serbati in quelli affanni, -e nominar felici i sacri busti -composti in terra già molti e molt'anni. -Ma gli animosi gioveni robusti -che miran poco i lor propinqui danni, -sprezzando le ragion de' più maturi, -di qua di là vanno correndo a' muri. -Quivi erano baroni e paladini, -re, duci, cavallier, marchesi e conti, -soldati forestieri e cittadini, -per Cristo e pel suo onore a morir pronti; -che per uscire adosso ai Saracini, -pregan l'imperator ch'abbassi i ponti. -Gode egli di veder l'animo audace, -ma di lasciarli uscir non li compiace. -E li dispone in oportuni lochi, -per impedire ai barbari la via: -là si contenta che ne vadan pochi, -qua non basta una grossa compagnia; -alcuni han cura maneggiare i fuochi, -le machine altri, ove bisogno sia. -Carlo di qua di là non sta mai fermo: -va soccorrendo, e fa per tutto schermo. -Siede Parigi in una gran pianura, -ne l'ombilico a Francia, anzi nel core; -gli passa la riviera entro le mura, -e corre, ed esce in altra parte fuore. -Ma fa un'isola prima, e v'assicura -de la città una parte, e la migliore; -l'altre due (ch'in tre parti è la gran terra) -di fuor la fossa, e dentro il fiume serra. -Alla città, che molte miglia gira, -da molte parti si può dar battaglia: -ma perché sol da un canto assalir mira, -né volentier l'esercito sbarraglia, -oltre il fiume Agramante si ritira -verso ponente, acciò che quindi assaglia; -però che né cittade né campagna -ha dietro, se non sua, fin alla Spagna. -Dovunque intorno il gran muro circonda, -gran munizioni avea già Carlo fatte, -fortificando d'argine ogni sponda -con scannafossi dentro e case matte; -onde entra ne la terra, onde esce l'onda, -grossissime catene aveva tratte; -ma fece, più ch'altrove, provedere -là dove avea più causa di temere. -Con occhi d'Argo il figlio di Pipino -previde ove assalir dovea Agramante; -e non fece disegno il Saracino, -a cui non fosse riparato inante. -Con Ferraù, Isoliero, Serpentino, -Grandonio, Falsirone e Balugante, -e con ciò che di Spagna avea menato, -restò Marsilio alla campagna armato. -Sobrin gli era a man manca in ripa a Senna, -con Pulian, con Dardinel d'Almonte, -col re d'Oran, ch'esser gigante accenna, -lungo sei braccia dai piedi alla fronte. -Deh perché a muover men son io la penna, -che quelle genti a muover l'arme pronte? -che 'l re di Sarza, pien d'ira e di sdegno, -grida e bestemmia e non può star più a segno. -Come assalire o vasi pastorali, -o le dolci reliquie de' convivi -soglion con rauco suon di stridule ali -le impronte mosche a' caldi giorni estivi; -come li storni a rosseggianti pali -vanno de mature uve: così quivi, -empiendo il ciel di grida e di rumori, -veniano a dare il fiero assalto i Mori. -L'esercito cristian sopra le mura -con lance, spade e scure e pietre e fuoco -difende la città senza paura, -e il barbarico orgoglio estima poco; -e dove Morte uno ed un altro fura, -non è chi per viltà ricusi il loco. -Tornano i Saracin giù ne le fosse -a furia di ferite e di percosse. -Non ferro solamente vi s'adopra, -ma grossi massi, e merli integri e saldi, -e muri dispiccati con molt'opra, -tetti di torri, e gran pezzi di spaldi. -L'acque bollenti che vengon di sopra, -portano a' Mori insupportabil caldi; -e male a questa pioggia si resiste, -ch'entra per gli elmi, e fa acciecar le viste. -E questa più nocea che 'l ferro quasi: -or che de' far la nebbia di calcine? -or che doveano far li ardenti vasi -con olio e zolfo e peci e trementine? -I cerchi in munizion non son rimasi, -che d'ogn'intorno hanno di fiamma il crine: -questi, scagliati per diverse bande, -mettono a' Saracini aspre ghirlande. -Intanto il re di Sarza avea cacciato -sotto le mura la schiera seconda, -da Buraldo, da Ormida accompagnato, -quel Garamante, e questo di Marmonda. -Clarindo e Soridan gli sono allato, -né par che 'l re di Setta si nasconda; -segue il re di Marocco e quel di Cosca, -ciascun perché il valor suo si conosca. -Ne la bandiera, ch'è tutta vermiglia, -Rodomonte di Sarza il leon spiega, -che la feroce bocca ad una briglia -che gli pon la sua donna, aprir non niega. -Al leon sé medesimo assimiglia; -e per la donna che lo frena e lega, -la bella Doralice ha figurata, -figlia di Stordilan re di Granata: -quella che tolto avea, come io narrava, -re Mandricardo, e dissi dove e a cui. -Era costei che Rodomonte amava -più che 'l suo regno e più che gli occhi sui; -e cortesia e valor per lei mostrava, -non già sapendo ch'era in forza altrui: -se saputo l'avesse, allora allora -fatto avria quel che fe' quel giorno ancora. -Sono appoggiate a un tempo mille scale, -che non han men di dua per ogni grado. -Spinge il secondo quel ch'inanzi sale; -che 'l terzo lui montar fa suo mal grado. -Chi per virtù, chi per paura vale: -convien ch'ognun per forza entri nel guado; -che qualunche s'adagia, il re d'Algiere, -Rodomonte crudele, uccide o fere. -Ognun dunque si sforza di salire -tra il fuoco e le ruine in su le mura. -Ma tutti gli altri guardano, se aprire -veggiano passo ove sia poca cura: -sol Rodomonte sprezza di venire, -se non dove la via meno è sicura. -Dove nel caso disperato e rio -gli altri fan voti, egli bestemmia Dio. -Armato era d'un forte duro usbergo, -che fu di drago una scagliosa pelle. -Di questo già si cinse il petto e 'l tergo -quello avol suo ch'edificò Babelle, -e si pensò cacciar de l'aureo albergo, -e torre a Dio il governo de le stelle: -l'elmo e lo scudo fece far perfetto, -e il brando insieme; e solo a questo effetto. -Rodomonte non già men di Nembrotte -indomito, superbo e furibondo, -che d'ire al ciel non tarderebbe a notte, -quando la strada si trovasse al mondo, -quivi non sta a mirar s'intere o rotte -sieno le mura, o s'abbia l'acqua fondo: -passa la fossa, anzi la corre e vola, -ne l'acqua e nel pantan fin alla gola. -Di fango brutto, e molle d'acqua vanne -tra il foco e i sassi e gli archi e le balestre, -come andar suol tra le palustri canne -de la nostra Mallea porco silvestre, -che col petto, col grifo e con le zanne -fa, dovunque si volge, ample finestre. -Con lo scudo alto il Saracin sicuro -ne vien sprezzando il ciel, non che quel muro. -Non sì tosto all'asciutto è Rodomonte, -che giunto si sentì su le bertresche, -che dentro alla muraglia facean ponte -capace e largo alle squadre francesche. -Or si vede spezzar più d'una fronte, -far chieriche maggior de le fratesche, -braccia e capi volare; e ne la fossa -cader da' muri una fiumana rossa. -Getta il pagan lo scudo, e a duo man prende -la crudel spada, e giunge il duca Arnolfo. -Costui venìa di là dove discende -l'acqua del Reno nel salato golfo. -Quel miser contra lui non si difende -meglio che faccia contra il fuoco il zolfo; -e cade in terra, e dà l'ultimo crollo, -dal capo fesso un palmo sotto il collo. -Uccide di rovescio in una volta -Anselmo, Oldrado, Spineloccio e Prando: -il luogo stretto e la gran turba folta -fece girar sì pienamente il brando. -Fu la prima metade a Fiandra tolta, -l'altra scemata al populo normando. -Divise appresso da la fronte al petto, -ed indi al ventre, il maganzese Orghetto. -Getta da' merli Andropono e Moschino -giù ne la fossa: il primo è sacerdote; -non adora il secondo altro che 'l vino, -e le bigonce a un sorso n'ha già vuote. -Come veneno e sangue viperino -l'acque fuggia quanto fuggir si puote: -or quivi muore; e quel che più l'annoia, -è 'l sentir che nell'acqua se ne muoia. -Tagliò in due parti il provenzal Luigi, -e passò il petto al tolosano Arnaldo. -Di Torse Oberto, Claudio, Ugo e Dionigi -mandar lo spirto fuor col sangue caldo; -e presso a questi, quattro da Parigi, -Gualtiero, Satallone, Odo ed Ambaldo, -ed altri molti: ed io non saprei come -di tutti nominar la patria e il nome. -La turba dietro a Rodomonte presta -le scale appoggia, e monta in più d'un loco. -Quivi non fanno i Parigin più testa; -che la prima difesa lor val poco. -San ben ch'agli nemici assai più resta -dentro da fare, e non l'avran da gioco; -perché tra il muro e l'argine secondo -discende il fosso orribile e profondo. -Oltra che i nostri facciano difesa -dal basso all'alto, e mostrino valore; -nuova gente succede alla contesa -sopra l'erta pendice interiore, -che fa con lance e con saette offesa -alla gran moltitudine di fuore, -che credo ben, che saria stata meno, -se non v'era il figliuol del re Ulieno. -Egli questi conforta, e quei riprende, -e lor mal grado inanzi se gli caccia: -ad altri il petto, ad altri il capo fende, -che per fuggir veggia voltar la faccia. -Molti ne spinge ed urta; alcuni prende -pei capelli, pel collo e per le braccia: -e sozzopra là giù tanti ne getta, -che quella fossa a capir tutti è stretta. -Mentre lo stuol de' barbari si cala, -anzi trabocca al periglioso fondo, -ed indi cerca per diversa scala -di salir sopra l'argine secondo; -il re di Sarza (come avesse un'ala -per ciascun de' suoi membri) levò il pondo -di sì gran corpo e con tant'arme indosso, -e netto si lanciò di là dal fosso. -Poco era men di trenta piedi, o tanto, -ed egli il passò destro come un veltro, -e fece nel cader strepito, quanto -avesse avuto sotto i piedi il feltro: -ed a questo ed a quello affrappa il manto, -come sien l'arme di tenero peltro, -e non di ferro, anzi pur sien di scorza: -tal la sua spada, e tanta è la sua forza! -In questo tempo i nostri, da chi tese -l'insidie son ne la cava profonda, -che v'han scope e fascine in copia stese, -intorno a quai di molta pece abonda -(né però alcuna si vede palese, -ben che n'è piena l'una e l'altra sponda -dal fondo cupo insino all'orlo quasi), -e senza fin v'hanno appiattati vasi, -qual con salnitro, qual con oglio, quale -con zolfo, qual con altra simil esca; -i nostri in questo tempo, perché male -ai Saracini il folle ardir riesca, -ch'eran nel fosso, e per diverse scale -credean montar su l'ultima bertresca; -udito il segno da oportuni lochi, -di qua e di là fenno avampare i fochi. -Tornò la fiamma sparsa tutta in una, -che tra una ripa e l'altra ha 'l tutto pieno; -e tanto ascende in alto, ch'alla luna -può d'appresso asciugar l'umido seno. -Sopra si volve oscura nebbia e bruna, -che 'l sole adombra, e spegne ogni sereno. -Sentesi un scoppio in un perpetuo suono, -simile a un grande e spaventoso tuono. -Aspro concento, orribile armonia -d'alte querele, d'ululi e di strida -de la misera gente che peria -nel fondo per cagion de la sua guida, -istranamente concordar s'udia -col fiero suon de la fiamma omicida. -Non più, Signor, non più di questo canto; -ch'io son già rauco e vo' posarmi alquanto. Fu il vincer sempremai laudabil cosa, -vincasi o per fortuna o per ingegno: -gli è ver che la vittoria sanguinosa -spesso far suole il capitan men degno; -e quella eternamente è gloriosa, -e dei divini onori arriva al segno, -quando servando i suoi senza alcun danno, -si fa che gl'inimici in rotta vanno. -La vostra, Signor mio, fu degna loda, -quando al Leone, in mar tanto feroce, -ch'avea occupata l'una e l'altra proda -del Po, da Francolin sin alla foce, -faceste sì, ch'ancor che ruggir l'oda, -s'io vedrò voi, non tremerò alla voce. -Come vincer si de', ne dimostraste; -ch'uccideste i nemici, e noi salvaste. -Questo il pagan, troppo in suo danno audace, -non seppe far; che i suoi nel fosso spinse, -dove la fiamma subita e vorace -non perdonò ad alcun, ma tutti estinse. -A tanti non saria stato capace -tutto il gran fosso, ma il fuoco restrinse, -restrinse i corpi e in polve li ridusse, -acciò ch'abile a tutti il luogo fusse. -Undicimila ed otto sopra venti -si ritrovar ne l'affocata buca, -che v'erano discesi malcontenti; -ma così volle il poco saggio duca. -Quivi fra tanto lume or sono spenti, -e la vorace fiamma li manuca: -e Rodomonte, causa del mal loro, -se ne va esente da tanto martoro: -che tra' nemici alla ripa più interna -era passato d'un mirabil salto. -Se con gli altri scendea ne la caverna, -questo era ben il fin d'ogni suo assalto. -Rivolge gli occhi a quella valle inferna; -e quando vede il fuoco andar tant'alto, -e di sua gente il pianto ode e lo strido, -bestemmia il ciel con spaventoso grido. -Intanto il re Agramante mosso avea -impetuoso assalto ad una porta; -che, mentre la crudel battaglia ardea -quivi ove è tanta gente afflitta e morta, -quella sprovista forse esser credea -di guardia, che bastasse alla sua scorta. -Seco era il re d'Arzilla Bambirago, -e Baliverzo, d'ogni vizio vago; -e Corineo di Mulga, e Prusione, -il ricco re dell'Isole beate; -Malabuferso che la regione -tien di Fizan, sotto continua estate; -altri signori, ed altre assai persone -esperte ne la guerra e bene armate; -e molti ancor senza valore e nudi, -che 'l cor non s'armerian con mille scudi. -Trovò tutto il contrario al suo pensiero -in questa parte il re de' Saracini: -perché in persona il capo de l'Impero -v'era, re Carlo, e de' suoi paladini, -re Salamone ed il danese Ugiero, -ed ambo i Guidi ed ambo gli Angelini, -e 'l duca di Bavera e Ganelone, -e Berlengier e Avolio e Avino e Otone; -gente infinita poi di minor conto, -de' Franchi, de' Tedeschi e de' Lombardi, -presente il suo signor, ciascuno pronto -a farsi riputar fra i più gagliardi. -Di questo altrove io vo' rendervi conto; -ch'ad un gran duca è forza ch'io riguardi, -il qual mi grida, e di lontano accenna, -e priega ch'io nol lasci ne la penna. -Gli è tempo ch'io ritorni ove lasciai -l'aventuroso Astolfo d'Inghilterra, -che 'l lungo esilio avendo in odio ormai, -di desiderio ardea de la sua terra; -come gli n'avea data pur assai -speme colei ch'Alcina vinse in guerra. -Ella di rimandarvilo avea cura -per la via più espedita e più sicura. -E così una galea fu apparechiata, -di che miglior mai non solcò marina; -e perché ha dubbio per tutta fiata, -che non gli turbi il suo viaggio Alcina, -vuol Logistilla che con forte armata -Andronica ne vada e Sofrosina, -tanto che nel mar d'Arabi, o nel golfo -de' Persi, giunga a salvamento Astolfo. -Più tosto vuol che volteggiando rada -gli Sciti e gl'Indi e i regni nabatei, -e torni poi per così lunga strada -a ritrovar i Persi e gli Eritrei; -che per quel boreal pelago vada, -che turban sempre iniqui venti e rei, -e sì, qualche stagion, pover di sole, -che starne senza alcuni mesi suole. -La fata, poi che vide acconcio il tutto, -diede licenza al duca di partire, -avendol prima ammaestrato e istrutto -di cose assai, che fôra lungo a dire; -e per schivar che non sia più ridutto -per arte maga, onde non possa uscire, -un bello ed util libro gli avea dato, -che per suo amore avesse ognora allato. -Come l'uom riparar debba agl'incanti -mostra il libretto che costei gli diede: -dove ne tratta o più dietro o più inanti, -per rubrica e per indice si vede. -Un altro don gli fece ancor, che quanti -doni fur mai, di gran vantaggio eccede: -e questo fu d'orribil suono un corno, -che fa fugire ognun che l'ode intorno. -Dico che 'l corno è di sì orribil suono, -ch'ovunque s'oda, fa fuggir la gente: -non può trovarsi al mondo un cor sì buono, -che possa non fuggir come lo sente: -rumor di vento e di termuoto, e 'l tuono, -a par del suon di questo, era niente. -Con molto riferir di grazie, prese -da la fata licenza il buono Inglese. -Lasciando il porto e l'onde più tranquille, -con felice aura ch'alla poppa spira, -sopra le ricche e populose ville -de l'odorifera India il duca gira, -scoprendo a destra ed a sinistra mille -isole sparse; e tanto va, che mira -la terra di Tomaso, onde il nocchiero -più a tramontana poi volge il sentiero. -Quasi radendo l'aurea Chersonesso, -la bella armata il gran pelago frange: -e costeggiando i ricchi liti, spesso -vede come nel mar biancheggi il Gange; -e Traprobane vede e Cori appresso; -e vede il mar che fra i duo liti s'ange. -Dopo gran via furo a Cochino, e quindi -usciro fuor dei termini degl'Indi. -Scorrendo il duca il mar con sì fedele -e sì sicura scorta, intender vuole, -e ne domanda Andronica, se de le -parti c'han nome dal cader del sole, -mai legno alcun che vada a remi e a vele, -nel mare orientale apparir suole; -e s'andar può senza toccar mai terra, -chi d'India scioglia, in Francia o in Inghilterra. -— Tu déi sapere (Andronica risponde) -che d'ogn'intorno il mar la terra abbraccia; -e van l'una ne l'altra tutte l'onde, -sia dove bolle o dove il mar s'aggiaccia; -ma perché qui davante si difonde, -e sotto il mezzodì molto si caccia -la terra d'Etiopia, alcuno ha detto -ch'a Nettuno ir più inanzi ivi è interdetto. -Per questo del nostro indico levante -nave non è che per Europa scioglia; -né si muove d'Europa navigante -ch'in queste nostre parti arrivar voglia. -Il ritrovarsi questa terra avante, -e questi e quelli al ritornare invoglia; -che credono, veggendola sì lunga, -che con l'altro emisperio si congiunga. -Ma volgendosi gli anni, io veggio uscire -da l'estreme contrade di ponente -nuovi Argonauti e nuovi Tifi, e aprire -la strada ignota infin al dì presente: -altri volteggiar l'Africa, e seguire -tanto la costa de la negra gente, -che passino quel segno onde ritorno -fa il sole a noi, lasciando il Capricorno; -e ritrovar del lungo tratto il fine, -che questo fa parer dui mar diversi; -e scorrer tutti i liti e le vicine -isole d'Indi, d'Arabi e di Persi: -altri lasciar le destre e le mancine -rive che due per opra Erculea fersi; -e del sole imitando il camin tondo, -ritrovar nuove terre e nuovo mondo. -Veggio la santa croce, e veggio i segni -imperial nel verde lito eretti: -veggio altri a guardia dei battuti legni, -altri all'acquisto del paese eletti: -veggio da dieci cacciar mille, e i regni -di là da l'India ad Aragon suggetti; -e veggio i capitan di Carlo quinto, -dovunque vanno, aver per tutto vinto. -Dio vuol ch'ascosa antiquamente questa -strada sia stata, e ancor gran tempo stia; -né che prima si sappia, che la sesta -e la settima età passata sia: -e serba a farla al tempo manifesta, -che vorrà porre il mondo a monarchia, -sotto il più saggio imperatore e giusto, -che sia stato o sarà mai dopo Augusto. -Del sangue d'Austria e d'Aragon io veggio -nascer sul Reno alla sinistra riva -un principe, al valor del qual pareggio -nessun valor, di cui si parli o scriva. -Astrea veggio per lui riposta in seggio, -anzi di morta ritornata viva; -e le virtù che cacciò il mondo, quando -lei cacciò ancora, uscir per lui di bando. -Per questi merti la Bontà suprema -non solamente di quel grande impero -ha disegnato ch'abbia diadema -ch'ebbe Augusto, Traian, Marco e Severo; -ma d'ogni terra e quinci e quindi estrema, -che mai né al sol né all'anno apre il sentiero: -e vuol che sotto a questo imperatore -solo un ovile sia, solo un pastore. -E perch'abbian più facile successo -gli ordini in cielo eternamente scritti, -gli pon la somma Providenza appresso -in mare e in terra capitani invitti. -Veggio Hernando Cortese, il qualo ha messo -nuove città sotto i cesarei editti, -e regni in Oriente sì remoti, -ch'a noi, che siamo in India, non son noti. -Veggio Prosper Colonna, e di Pescara -veggio un marchese, e veggio dopo loro -un giovene del Vasto, che fan cara -parer la bella Italia ai Gigli d'oro: -veggio ch'entrare inanzi si prepara -quel terzo agli altri a guadagnar l'alloro: -come buon corridor ch'ultimo lassa -le mosse, e giunge, e inanzi a tutti passa. -Veggio tanto il valor, veggio la fede -tanta d'Alfonso (che 'l suo nome è questo), -ch'in così acerba età, che non eccede -dopo il vigesimo anno ancora il sesto, -l'imperator l'esercito gli crede, -il qual salvando, salvar non che 'l resto, -ma farsi tutto il mondo ubidiente -con questo capitan sarà possente. -Come con questi, ovunque andar per terra -si possa, accrescerà l'imperio antico; -così per tutto il mar, ch'in mezzo serra -di là l'Europa e di qua l'Afro aprico, -sarà vittorioso in ogni guerra, -poi ch'Andrea Doria s'avrà fatto amico. -Questo è quel Doria che fa dai pirati -sicuro il vostro mar per tutti i lati. -Non fu Pompeio a par di costui degno, -se ben vinse e cacciò tutti i corsari; -però che quelli al più possente regno -che fosse mai, non poteano esser pari: -ma questo Doria, sol col proprio ingegno -e proprie forze purgherà quei mari; -sì che da Calpe al Nilo, ovunque s'oda -il nome suo, tremar veggio ogni proda. -Sotto la fede entrar, sotto la scorta -di questo capitan di ch'io ti parlo, -veggio in Italia, ove da lui la porta -gli sarà aperta, alla corona Carlo. -Veggio che 'l premio che di ciò riporta, -non tien per sé, ma fa alla patria darlo: -con prieghi ottien ch'in libertà la metta, -dove altri a sé l'avria forse suggetta. -Questa pietà, ch'egli alla patria mostra, -è degna di più onor d'ogni battaglia -ch'in Francia o in Spagna o ne la terra vostra -vincesse Iulio, o in Africa o in Tessaglia. -Né il grande Ottavio, né chi seco giostra -di par, Antonio, in più onoranza saglia -pei gesti suoi; ch'ogni lor laude amorza -l'avere usato alla lor patria forza. -Questi ed ogn'altro che la patria tenta -di libera far serva, si arrosisca; -né dove il nome d'Andrea Doria senta, -di levar gli occhi in viso d'uomo ardisca. -Veggio Carlo che 'l premio gli augumenta; -ch'oltre quel ch'in commun vuol che fruisca, -gli dà la ricca terra ch'ai Normandi -sarà principio a farli in Puglia grandi. -A questo capitan non pur cortese -il magnanimo Carlo ha da mostrarsi, -ma a quanti avrà ne le cesaree imprese -del sangue lor non ritrovati scarsi. -D'aver città, d'aver tutto un paese -donato a un suo fedel, più ralegrarsi -lo veggio, e a tutti quei che ne son degni, -che d'acquistar nuov'altri imperi e regni. — -Così de le vittorie, le qual, poi -ch'un gran numero d'anni sarà corso, -daranno a Carlo i capitani suoi, -facea col duca Andronica discorso: -e la compagna intanto ai venti eoi -viene allentando e raccogliendo il morso; -e fa ch'or questo or quel propizio l'esce, -e come vuol li minuisce e cresce. -Veduto aveano intanto il mar de' Persi -come in sì largo spazio si dilaghi; -onde vicini in pochi giorni fersi -al golfo che nomar gli antiqui Maghi. -Quivi pigliaro il porto, e fur conversi -con la poppa alla ripa i legni vaghi; -quindi sicur d'Alcina e di sua guerra, -Astolfo il suo camin prese per terra. -Passò per più d'un campo e più d'un bosco, -per più d'un monte e per più d'una valle; -ove ebbe spesso, all'aer chiaro e al fosco, -i ladroni or inanzi or alle spalle. -Vide leoni, e draghi pien di tosco, -ed altre fere attraversarsi il calle; -ma non sì tosto avea la bocca al corno, -che spaventati gli fuggian d'intorno. -Vien per l'Arabia ch'è detta Felice, -ricca di mirra e d'odorato incenso, -che per suo albergo l'unica fenice -eletto s'ha di tutto il mondo immenso; -fin che l'onda trovò vendicatrice -già d'Israel, che per divin consenso -Faraone sommerse e tutti i suoi: -e poi venne alla terra degli Eroi. -Lungo il fiume Traiano egli cavalca -su quel destrier ch'al mondo è senza pare, -che tanto leggiermente e corre e valca, -che ne l'arena l'orma non n'appare: -l'erba non pur, non pur la nieve calca; -coi piedi asciutti andar potria sul mare; -e sì si stende al corso, e sì s'affretta, -che passa e vento e folgore e saetta. -Questo è il destrier che fu de l'Argalia, -che di fiamma e di vento era concetto; -e senza fieno e biada, si nutria -de l'aria pura, e Rabican fu detto. -Venne, seguendo il Duca la sua via, -dove dà il Nilo a quel fiume ricetto; -e prima che giugnesse in su la foce, -vide un legno venire a sé veloce. -Naviga in su la poppa uno eremita -con bianca barba, a mezzo il petto lunga, -che sopra il legno il paladino invita, -e: — Figliuol mio (gli grida da la lunga), -se non t'è in odio la tua propria vita, -se non brami che morte oggi ti giunga, -venir ti piaccia su quest'altra arena; -ch'a morir quella via dritto ti mena. -Tu non andrai più che sei miglia inante, -che troverai la saguinosa stanza -dove s'alberga un orribil gigante -che d'otto piedi ogni statura avanza. -Non abbia cavallier né viandante -di partirsi da lui, vivo, speranza: -ch'altri il crudel ne scanna, altri ne scuoia, -molti ne squarta, e vivo alcun ne 'ngoia. -Piacer, fra tanta crudeltà, si prende -d'una rete ch'egli ha, molto ben fatta: -poco lontana al tetto suo la tende, -e ne la trita polve in modo appiatta, -che chi prima nol sa, non la comprende, -tanto è sottil, tanto egli ben l'adatta: -e con tai gridi i peregrin minaccia, -che spaventati dentro ve li caccia. -E con gran risa, aviluppati in quella -se li strascina sotto il suo coperto; -né cavallier riguarda né donzella, -o sia di grande o sia di picciol merto: -e mangiata la carne, e la cervella -succhiate e 'l sangue, dà l'ossa al deserto; -e de l'umane pelli intorno intorno -fa il suo palazzo orribilmente adorno. -Prendi quest'altra via, prendila, figlio, -che fin al mar ti fia tutta sicura. — -— Io ti ringrazio, padre, del consiglio -(rispose il cavallier senza paura), -ma non istimo per l'onor periglio, -di ch'assai più che de la vita ho cura. -Per far ch'io passi, invan tu parli meco; -anzi vo al dritto a ritrovar lo speco. -Fuggendo, posso con disnor salvarmi; -ma tal salute ho più che morte a schivo. -S'io vi vo, al peggio che potrà incontrarmi, -fra molti resterò di vita privo; -ma quando Dio così mi drizzi l'armi, -che colui morto, ed io rimanga vivo, -sicura a mille renderò la via: -sì che l'util maggior che 'l danno fia. -Metto all'incontro la morte d'un solo -alla salute di gente infinita. — -— Vattene in pace (rispose), figliuolo; -Dio mandi in difension de la tua vita -l'arcangelo Michel dal sommo polo: — -e benedillo il semplice eremita. -Astolfo lungo il Nil tenne la strada, -sperando più nel suon che ne la spada. -Giace tra l'alto fiume e la palude -picciol sentier nell'arenosa riva: -la solitaria casa lo richiude, -d'umanitade e di commercio priva. -Son fisse intorno teste e membra nude -de l'infelice gente che v'arriva. -Non v'è finestra, non v'è merlo alcuno, -onde penderne almen non si veggia uno. -Qual ne le alpine ville o ne' castelli -suol cacciator che gran perigli ha scorsi, -su le porte attaccar l'irsute pelli, -l'orride zampe e i grossi capi d'orsi; -tal dimostrava il fier gigante quelli -che di maggior virtù gli erano occorsi. -D'altri infiniti sparse appaion l'ossa; -ed è di sangue uman piena ogni fossa. -Stassi Caligorante in su la porta; -che così ha nome il dispietato mostro -ch'orna la sua magion di gente morta, -come alcun suol di panni d'oro o d'ostro. -Costui per gaudio a pena si comporta, -come il duca lontan se gli è dimostro; -ch'eran duo mesi, e il terzo ne venìa, -che non fu cavallier per quella via. -Vêr la palude, ch'era scura e folta -di verdi canne, in gran fretta ne viene; -che disegnato avea correre in volta, -e uscir al paladin dietro alle schene; -che ne la rete, che tenea sepolta -sotto la polve, di cacciarlo ha spene, -come avea fatto gli altri peregrini -che quivi tratto avean lor rei destini. -Come venire il paladin lo vede, -ferma il destrier, non senza gran sospetto -che vada in quelli lacci a dar del piede, -di che il buon vecchiarel gli avea predetto. -Quivi il soccorso del suo corno chiede, -e quel sonando fa l'usato effetto: -nel cor fere il gigante che l'ascolta, -di tal timor, ch'a dietro i passi volta. -Astolfo suona, e tuttavolta bada; -che gli par sempre che la rete scocchi. -Fugge il fellon, né vede ove si vada; -che, come il core, avea perduti gli occhi. -Tanta è la tema, che non sa far strada, -che ne li propri aguati non trabocchi: -va ne la rete; e quella si disserra, -tutto l'annoda, e lo distende in terra. -Astolfo, ch'andar giù vede il gran peso, -già sicuro per sé, v'accorre in fretta; -e con la spada in man, d'arcion disceso, -va per far di mill'anime vendetta. -Poi gli par che s'uccide un che sia preso, -viltà, più che virtù, ne sarà detta; -che legate le braccia, i piedi e il collo -gli vede sì, che non può dare un crollo. -Avea la rete già fatta Vulcano -di sottil fil d'acciar, ma con tal arte, -che saria stata ogni fatica invano -per ismagliarne la più debol parte; -ed era quella che già piedi e mano -avea legate a Venere ed a Marte. -La fe' il geloso, e non ad altro effetto, -che per pigliarli insieme ambi nel letto. -Mercurio al fabbro poi la rete invola; -che Cloride pigliar con essa vuole, -Cloride bella che per l'aria vola -dietro all'Aurora, all'apparir del sole, -e dal raccolto lembo de la stola -gigli spargendo va, rose e viole. -Mercurio tanto questa ninfa attese, -che con la rete in aria un dì la prese. -Dove entra in mare il gran fiume etiopo, -par che la dea presa volando fosse. -Poi nei tempio d'Anubide a Canopo -la rete molti seculi serbosse. -Caligorante tremila anni dopo, -di là, dove era sacra, la rimosse: -se ne portò la rete il ladrone empio, -ed arse la cittade, e rubò il tempio. -Quivi adattolla in modo in su l'arena, -che tutti quei ch'avean da lui la caccia -vi davan dentro; ed era tocca a pena, -che lor legava e collo e piedi e braccia. -Di questa levò Astolfo una catena, -e le man dietro a quel fellon n'allaccia; -le braccia e 'l petto in guisa gli ne fascia, -che non può sciorsi: indi levar lo lascia, -dagli altri nodi avendol sciolto prima, -ch'era tornato uman più che donzella. -Di trarlo seco e di mostrarlo stima -per ville, per cittadi e per castella. -Vuol la rete anco aver, di che né lima -né martel fece mai cosa più bella: -ne fa somier colui ch'alla catena -con pompa trionfal dietro si mena. -L'elmo e lo scudo anche a portar gli diede, -come a valletto, e seguitò il camino, -di gaudio empiendo, ovunque metta il piede, -ch'ir possa ormai sicuro il peregrino. -Astolfo se ne va tanto, che vede -ch'ai sepolcri di Memfi è già vicino, -Memfi per le piramidi famoso: -vede all'incontro il Cairo populoso. -Tutto il popul correndo si traea -per vedere il gigante smisurato. -— Come è possibil (l'un l'altro dicea) -che quel piccolo il grande abbia legato? — -Astolfo a pena inanzi andar potea, -tanto la calca il preme da ogni lato: -e come cavallier d'alto valore -ognun l'ammira, e gli fa grande onore. -Non era grande il Cairo così allora, -come se ne ragiona a nostra etade: -che 'l populo capir, che vi dimora, -non puon diciottomila gran contrade; -e che le case hanno tre palchi, e ancora -ne dormono infiniti in su le strade; -e che 'l soldano v'abita un castello -mirabil di grandezza, e ricco e bello; -e che quindicimila suoi vasalli, -che son cristiani rinegati tutti, -con mogli, con famiglie e con cavalli -ha sotto un tetto sol quivi ridutti. -Astolfo veder vuole ove s'avalli, -e quanto il Nilo entri nei salsi flutti -a Damiata; ch'avea quivi inteso, -qualunque passa restar morto o preso. -Però ch'in ripa al Nilo in su la foce -si ripara un ladron dentro una torre, -ch'a paesani e a peregrini nuoce, -e fin al Cairo, ognun rubando scorre. -Non gli può alcun resistere; ed ha voce -che l'uom gli cerca invan la vita torre: -centomila ferite egli ha già avuto, -né ucciderlo però mai s'è potuto. -Per veder se può far rompere il filo -alla Parca di lui, sì che non viva, -Astolfo viene a ritrovare Orrilo -(così avea nome), e a Damiata arriva; -ed indi passa ove entra in mare il Nilo, -e vede la gran torre in su la riva, -dove s'alberga l'anima incantata -che d'un folletto nacque e d'una fata. -Quivi ritruova che crudel battaglia -era tra Orrilo e dui guerrieri accesa. -Orrilo è solo; e sì que' dui travaglia, -ch'a gran fatica gli puon far difesa: -e quando in arme l'uno e l'altro vaglia, -a tutto il mondo la fama palesa. -Questi erano i dui figli d'Oliviero, -Grifone il bianco ed Aquilante il nero. -Gli è ver che 'l negromante venuto era -alla battaglia con vantaggio grande; -che seco tratto in campo avea una fera, -la qual si truova solo in quelle bande: -vive sul lito e dentro alla rivera; -e i corpi umani son le sue vivande, -de le persone misere ed incaute -de viandanti e d'infelici naute. -La bestia ne l'arena appresso al porto -per man dei duo fratei morta giacea; -e per questo ad Orril non si fa torto, -s'a un tempo l'uno e l'altro gli nocea. -Più volte l'han smembrato e non mai morto, -né, per smembrarlo, uccider si potea; -che se tagliato o mano o gamba gli era, -la rapiccava, che parea di cera. -Or fin a' denti il capo gli divide -Grifone, or Aquilante fin al petto. -Egli dei colpi lor sempre si ride: -s'adiran essi, che non hanno effetto. -Chi mai d'alto cader l'argento vide, -che gli alchimisti hanno mercurio detto, -e sparger e raccor tutti i suo' membri, -sentendo di costui, se ne rimembri. -Se gli spiccano il capo, Orrilo scende, -né cessa brancolar fin che lo truovi; -ed or pel crine ed or pel naso il prende, -lo salda al collo, e non so con che chiovi. -Piglial talor Grifone, e 'l braccio stende, -nel fiume il getta, e non par ch'anco giovi; -che nuota Orrilo al fondo come un pesce, -e col suo capo salvo alla ripa esce. -Due belle donne onestamente ornate, -l'una vestita a bianco e l'altra a nero, -che de la pugna causa erano state, -stavano a riguardar l'assalto fiero. -Queste eran quelle due benigne fate -ch'avean notriti i figli d'Oliviero, -poi che li trasson teneri citelli -dai curvi artigli di duo grandi augelli, -che rapiti gli avevano a Gismonda, -e portati lontan dal suo paese. -Ma non bisogna in ciò ch'io mi diffonda, -ch'a tutto il mondo è l'istoria palese; -ben che l'autor nel padre si confonda, -ch'un per un altro (io non so come) prese. -Or la battaglia i duo gioveni fanno, -che le due donne ambi pregati n'hanno. -Era in quel clima già sparito il giorno, -all'isole ancor alto di Fortuna; -l'ombre avean tolto ogni vedere a torno -sotto l'incerta e mal compresa luna; -quando alla rocca Orril fece ritorno, -poi ch'alla bianca e alla sorella bruna -piacque di differir l'aspra battaglia -fin che 'l sol nuovo all'orizzonte saglia. -Astolfo, che Grifone ed Aquilante, -ed all'insegne e più al ferir gagliardo, -riconosciuto avea gran pezzo inante, -lor non fu altiero a salutar né tardo. -Essi vedendo che quel che 'l gigante -traea legato, era il baron dal pardo -(che così in corte era quel duca detto), -raccolser lui con non minore affetto. -Le donne a riposare i cavallieri -menaro a un lor palagio indi vicino. -Donzelle incontra vennero e scudieri -con torchi accesi, a mezzo del camino. -Diero a chi n'ebbe cura i lor destrieri, -trassonsi l'arme; e dentro un bel giardino -trovar ch'apparechiata era la cena -ad una fonte limpida ed amena. -Fan legare il gigante alla verdura -Con un'altra catena molto grossa -ad una quercia di molt'anni dura, -che non si romperà per una scossa; -e da dieci sergenti averne cura, -che la notte discior non se ne possa, -ed assalirli, e forse far lor danno, -mentre sicuri e senza guardia stanno. -All'abondante e sontuosa mensa, -dove il manco piacer fur le vivande, -del ragionar gran parte si dispensa -sopra d'Orrilo e del miracol grande, -che quasi par un sogno a chi vi pensa, -ch'or capo or braccio a terra se gli mande, -ed egli lo raccolga e lo raggiugna, -e più feroce ognor torni alla pugna. -Astolfo nel suo libro avea già letto -(quel ch'agl'incanti riparare insegna) -ch'ad Orril non trarrà l'alma del petto -fin ch'un crine fatal nel capo tegna; -ma, se lo svelle o tronca, fia costretto -che suo mal grado fuor l'alma ne vegna. -Questo ne dice il libro; ma non come -conosca il crine in così folte chiome. -Non men de la vittoria si godea, -che se n'avesse Astolfo già la palma; -come chi speme in pochi colpi avea -svellere il crine al negromante e l'alma. -Però di quella impresa promettea -tor su gli omeri suoi tutta la salma: -Orril farà morir, quando non spiaccia -ai duo fratei, ch'egli la pugna faccia. -Ma quei gli danno volentier l'impresa, -certi che debbia affaticarsi invano. -Era già l'altra aurora in cielo ascesa, -quando calò dai muri Orrilo al piano. -Tra il duca e lui fu la battaglia accesa: -la mazza l'un, l'altro ha la spada in mano. -Di mille attende Astolfo un colpo trarne, -che lo spirto gli sciolga da la carne. -Or cader gli fa il pugno con la mazza, -or l'uno or l'altro braccio con la mano; -quando taglia a traverso la corazza, -e quando il va troncando a brano a brano: -ma ricogliendo sempre de la piazza -va le sue membra Orrilo, e si fa sano. -S'in cento pezzi ben l'avesse fatto, -redintegrarsi il vedea Astolfo a un tratto. -Al fin di mille colpi un gli ne colse -sopra le spalle ai termini del mento: -la testa e l'elmo dal capo gli tolse, -né fu d'Orrilo a dismontar più lento. -La sanguinosa chioma in man s'avolse, -e risalse a cavallo in un momento; -e la portò correndo incontra 'l Nilo, -che riaver non la potesse Orrilo. -Quel sciocco, che del fatto non s'accorse, -per la polve cercando iva la testa: -ma come intese il corridor via torse, -portare il capo suo per la foresta; -immantinente al suo destrier ricorse, -sopra vi sale, e di seguir non resta. -Volea gridare: — Aspetta, volta, volta! — -ma gli avea il duca già la bocca tolta. -Pur, che non gli ha tolto anco le calcagna -si riconforta, e segue a tutta briglia. -Dietro il lascia gran spazio di campagna -quel Rabican che corre a maraviglia. -Astolfo intanto per la cuticagna -va da la nuca fin sopra le ciglia -cercando in fretta, se 'l crine fatale -conoscer può, ch'Orril tiene immortale. -Fra tanti e innumerabili capelli, -un più de l'altro non si stende o torce: -qual dunque Astolfo sceglierà di quelli, -che per dar morte al rio ladron raccorce? -— Meglio è (disse) che tutti io tagli o svelli: — -né si trovando aver rasoi né force, -ricorse immantinente alla sua spada, -che taglia sì, che si può dir che rada. -E tenendo quel capo per lo naso, -dietro e dinanzi lo dischioma tutto. -Trovò fra gli altri quel fatale a caso: -si fece il viso allor pallido e brutto, -travolse gli occhi, e dimostrò all'occaso, -per manifesti segni, esser condutto; -e 'l busto che seguia troncato al collo, -di sella cadde, e diè l'ultimo crollo. -Astolfo, ove le donne e i cavallieri -lasciato avea, tornò col capo in mano, -che tutti avea di morte i segni veri, -e mostrò il tronco ove giacea lontano. -Non so ben se lo vider volentieri, -ancor che gli mostrasser viso umano; -che la intercetta lor vittoria forse -d'invidia ai duo germani il petto morse. -Né che tal fin quella battuglia avesse, -credo più fosse alle due donne grato. -Queste, perché più in lungo si traesse -de' duo fratelli il doloroso fato -ch'in Francia par ch'in breve esser dovesse, -con loro Orrilo avean quivi azzuffato, -con speme di tenerli tanto a bada, -che la trista influenza se ne vada. -Tosto che 'l castellan di Damiata -certificossi ch'era morto Orrilo, -la columba lasciò, ch'avea legata -sotto l'ala la lettera col filo. -Quella andò al Cairo; ed indi fu lasciata -un'altra altrove, come quivi è stilo: -sì che in pochissime ore andò l'aviso -per tutto Egitto, ch'era Orrilo ucciso. -Il duca, come al fin trasse l'impresa, -confortò molto i nobili garzoni, -ben che da sé v'avean la voglia intesa, -né bisognavan stimuli né sproni, -che per difender de la santa Chiesa -e del romano Imperio le ragioni, -lasciasser le battaglie d'Oriente, -e cercassino onor ne la lor gente. -Così Grifone ed Aquilante tolse -ciascuno da la sua donna licenza; -le quali, ancor che lor ne 'ncrebbe e dolse, -non vi seppon però far resistenza. -Con essi Astolfo a man destra si volse; -che si deliberar far riverenza -ai santi luoghi ove Dio in carne visse, -prima che verso Francia si venisse. -Potuto avrian pigliar la via mancina, -ch'era più dilettevole e più piana, -e mai non si scostar da la marina; -ma per la destra andaro orrida e strana, -perché l'alta città di Palestina -per questa sei giornate è men lontana. -Acqua si truova ed erba in questa via: -di tutti gli altri ben v'è carestia. -Sì che prima ch'entrassero in viaggio, -ciò che lor bisognò, fecion raccorre, -e carcar sul gigante il carriaggio, -ch'avria portato in collo anco una torre. -Al finir del camino aspro e selvaggio, -da l'alto monte alla lor vista occorre -la santa terra, ove il superno Amore -lavò col proprio sangue il nostro errore. -Trovano in su l'entrar de la cittade -un giovene gentil, lor conoscente, -Sansonetto da Meca, oltre l'etade, -ch'era nel primo fior, molto prudente; -d'alta cavalleria, d'alta bontade -famoso, e riverito fra la gente. -Orlando lo converse a nostra fede, -e di sua man battesmo anco gli diede. -Quivi lo trovan che disegna a fronte -del calife d'Egitto una fortezza; -e circondar vuole il Calvario monte -di muro di duo miglia di lunghezza. -Da lui raccolti fur con quella fronte -che può d'interno amor dar più chiarezza, -e dentro accompagnati, e con grande agio -fatti alloggiar nel suo real palagio. -Avea in governo egli la terra, e in vece -di Carlo vi reggea l'imperio giusto. -Il duca Astolfo a costui dono fece -di quel sì grande e smisurato busto, -ch'a portar pesi gli varrà per diece -bestie da soma, tanto era robusto. -Diegli Astolfo il gigante, e diegli appresso -la rete ch'in sua forza l'avea messo. -Sansonetto all'incontro al duca diede -per la spada una cinta ricca e bella; -e diede spron per l'uno e l'altro piede, -che d'oro avean la fibbia e la girella; -ch'esser del cavallier stati si crede, -che liberò dal drago la donzella: -al Zaffo avuti con molt'altro arnese -Sansonetto gli avea, quando lo prese. -Purgati de lor colpe a un monasterio -che dava di sé odor di buoni esempi, -de la passion di Cristo ogni misterio -contemplando n'andar per tutti i tempi -ch'or con eterno obbrobrio e vituperio -agli cristiani usurpano i Mori empi. -L'Europa è in arme, e di far guerra agogna -in ogni parte, fuor ch'ove bisogna. -Mentre avean quivi l'animo divoto, -a perdonanze e a cerimonie intenti, -un peregrin di Grecia, a Grifon noto, -novelle gli arrecò gravi e pungenti, -dal suo primo disegno e lungo voto -troppo diverse e troppo differenti; -e quelle il petto gl'infiammaron tanto, -che gli scacciar l'orazion da canto. -Amava il cavallier, per sua sciagura, -una donna ch'avea nome Orrigille: -di più bel volto e di miglior statura -non se ne sceglierebbe una fra mille; -ma disleale e di sì rea natura, -che potresti cercar cittadi e ville, -la terra ferma e l'isole del mare, -né credo ch'una le trovassi pare. -Ne la città di Costantin lasciata -grave l'avea di febbre acuta e fiera. -Or quando rivederla alla tornata -più che mai bella, e di goderla spera, -ode il meschin, ch'in Antiochia andata -dietro un suo nuovo amante ella se n'era, -non le parendo ormai di più patire -ch'abbia in sì fresca età sola a dormire. -Da indi in qua ch'ebbe la trista nuova, -sospirava Grifon notte e dì sempre. -Ogni piacer ch'agli altri aggrada e giova, -par ch'a costui più l'animo distempre: -pensilo ognun, ne li cui danni pruova -Amor, se li suoi strali han buone tempre. -Ed era grave sopra ogni martire, -che 'l mal ch'avea si vergognava a dire. -Questo, perché mille fiate inante -già ripreso l'avea di quello amore, -di lui più saggio, il fratello Aquilante, -e cercato colei trargli del core, -colei ch'al suo giudicio era di quante -femine rie si trovin la peggiore. -Grifon l'escusa, se 'l fratel la danna; -e le più volte il parer proprio inganna. -Però fece pensier, senza parlarne -con Aquilante, girsene soletto -sin dentro d'Antiochia, e quindi trarne -colei che tratto il cor gli avea del petto; -trovar colui che gli l'ha tolta, e farne -vendetta tal, che ne sia sempre detto. -Dirò, come ad effetto il pensier messe, -nell'altro canto, e ciò che ne successe. Gravi pene in amor si provan molte, -di che patito io n'ho la maggior parte, -e quelle in danno mio sì ben raccolte, -ch'io ne posso parlar come per arte. -Però s'io dico e s'ho detto altre volte, -e quando in voce e quando in vive carte, -ch'un mal sia lieve, un altro acerbo e fiero, -date credenza al mio giudicio vero. -Io dico e dissi, e dirò fin ch'io viva, -che chi si truova in degno laccio preso, -se ben di sé vede sua donna schiva, -se in tutto aversa al suo desire acceso; -se bene Amor d'ogni mercede il priva, -poscia che 'l tempo e la fatica ha speso; -pur ch'altamente abbia locato il core, -pianger non de', se ben languisce e muore. -Pianger de' quel che già sia fatto servo -di duo vaghi occhi e d'una bella treccia, -sotto cui si nasconda un cor protervo, -che poco puro abbia con molta feccia. -Vorria il miser fuggire; e come cervo -ferito, ovunque va, porta la freccia: -ha di se stesso e del suo amor vergogna, -né l'osa dire, e invan sanarsi agogna. -In questo caso è il giovene Grifone, -che non si può emendare, e il suo error vede, -vede quanto vilmente il suo cor pone -in Orrigille iniqua e senza fede; -pur dal mal uso è vinta la ragione, -e pur l'arbitrio all'appetito cede: -perfida sia quantunque, ingrata e ria, -sforzato è di cercar dove ella sia. -Dico, la bella istoria ripigliando, -ch'uscì de la città secretamente, -né parlarne s'ardì col fratel, quando -ripreso invan da lui ne fu sovente. -Verso Rama, a sinistra declinando, -prese la via più piana e più corrente. -Fu in sei giorni a Damasco di Soria; -indi verso Antiochia se ne gìa. -Scontrò presso a Damasco il cavalliero -a cui donato aveva Orrigille il core: -e convenian di rei costumi in vero, -come ben si convien l'erba col fiore; -che l'uno e l'altro era di cor leggiero, -perfido l'uno e l'altro e traditore; -e copria l'uno e l'altro il suo difetto, -con danno altrui, sotto cortese aspetto. -Come io vi dico, il cavallier venìa -s'un gran destrier con molta pompa armato: -la perfida Orrigille in compagnia, -in un vestire azzur d'oro fregiato, -e duo valletti, donde si servia -a portar elmo e scudo, aveva allato; -come quel che volea con bella mostra -comparire in Damasco ad una giostra. -Una splendida festa che bandire -fece il re di Damasco in quelli giorni, -era cagion di far quivi venire -i cavallier quanto potean più adorni. -Tosto che la puttana comparire -vede Grifon, ne teme oltraggi e scorni: -sa che l'amante suo non è sì forte, -che contra lui l'abbia a campar da morte. -Ma sì come audacissima e scaltrita, -ancor che tutta di paura trema, -s'acconcia il viso, e sì la voce aita, -che non appar in lei segno di tema. -Col drudo avendo già l'astuzia ordita, -corre, e fingendo una letizia estrema, -verso Grifon l'aperte braccia tende, -lo stringe al collo, e gran pezzo ne pende. -Dopo, accordando affettuosi gesti -alla suavità de le parole, -dicea piangendo: — Signor mio, son questi -debiti premi a chi t'adora e cole? -che sola senza te già un anno resti, -e va per l'altro, e ancor non te ne duole? -E s'io stava aspettare il suo ritorno, -non so se mai veduto avrei quel giorno! -Quando aspettava che di Nicosia, -dove tu te n'andasti alla gran corte, -tornassi a me che con la febbre ria -lasciata avevi in dubbio de la morte, -intesi che passato eri in Soria: -il che a patir mi fu sì duro e forte, -che non sapendo come io ti seguissi, -quasi il cor di man propria mi traffissi. -Ma Fortuna di me con doppio dono -mostra d'aver, quel che non hai tu, cura: -mandommi il fratel mio, col quale io sono -sin qui venuta del mio onor sicura; -ed or mi manda questo incontro buono -di te, ch'io stimo sopra ogni aventura: -e bene a tempo il fa; che più tardando, -morta sarei, te, signor mio, bramando. — -E seguitò la donna fraudolente, -di cui l'opere fur più che di volpe, -la sua querela così astutamente, -che riversò in Grifon tutte le colpe. -Gli fa stimar colui, non che parente, -ma che d'un padre seco abbia ossa e polpe: -e con tal modo sa tesser gl'inganni, -che men verace par Luca e Giovanni. -Non pur di sua perfidia non riprende -Grifon la donna iniqua più che bella; -non pur vendetta di colui non prende, -che fatto s'era adultero di quella: -ma gli par far assai, se si difende -che tutto il biasmo in lui non riversi ella; -e come fosse suo cognato vero, -d'accarezzar non cessa il cavalliero. -E con lui se ne vien verso le porte -di Damasco, e da lui sente tra via, -che là dentro dovea splendida corte -tenere il ricco re de la Soria; -e ch'ognun quivi, di qualunque sorte, -o sia cristiano, o d'altra legge sia, -dentro e di fuori ha la città sicura -per tutto il tempo che la festa dura. -Non però son di seguitar sì intento -l'istoria de la perfida Orrigille, -ch'a' giorni suoi non pur un tradimento -fatto agli amanti avea, ma mille e mille; -ch'io non ritorni a riveder dugento -mila persone, o più de le scintille -del fuoco stuzzicato, ove alle mura -di Parigi facean danno e paura. -Io vi lasciai, come assaltato avea -Agramante una porta de la terra, -che trovar senza guardia si credea: -né più riparo altrove il passo serra; -perché in persona Carlo la tenea, -ed avea seco i mastri de la guerra, -duo Guidi, duo Angelini; uno Angeliero, -Avino, Avolio, Otone e Berlingiero. -Inanzi a Carlo, inanzi al re Agramante -l'un stuolo e l'altro si vuol far vedere, -ove gran loda, ove mercé abondante -si può acquistar, facendo il suo dovere. -I Mori non però fer pruove tante, -che par ristoro al danno abbiano avere; -perché ve ne restar morti parecchi, -ch'agli altri fur di folle audacia specchi. -Grandine sembran le spesse saette -dal muro sopra gli nimici sparte. -Il grido insin al ciel paura mette, -che fa la nostra e la contraria parte. -Ma Carlo un poco ed Agramante aspette; -ch'io vo' cantar de l'africano Marte, -Rodomonte terribile ed orrendo, -che va per mezzo la città correndo. -Non so, Signor, se più vi ricordiate, -di questo Saracin tanto sicuro, -che morte le sue genti avea lasciate -tra il secondo riparo e 'l primo muro, -da la rapace fiamma devorate, -che non fu mai spettacolo più oscuro. -Dissi ch'entrò d'un salto ne la terra -sopra la fossa che la cinge e serra. -Quando fu noto il Saracino atroce -all'arme istrane, alla scagliosa pelle, -là dove i vecchi e 'l popul men feroce -tendean l'orecchie a tutte le novelle, -levossi un pianto, un grido, un'alta voce, -con un batter di man ch'andò alle stelle; -e chi poté fuggir non vi rimase, -per serrarsi ne' templi e ne le case. -Ma questo a pochi il brando rio conciede, -ch'intorno ruota il Saracin robusto. -Qui fa restar con mezza gamba un piede, -là fa un capo sbalzar lungi dal busto; -l'un tagliare a traverso se gli vede, -dal capo all'anche un altro fender giusto: -e di tanti ch'uccide, fere e caccia, -non se gli vede alcun segnare in faccia. -Quel che la tigre de l'armento imbelle -ne' campi ircani o là vicino al Gange, -o 'l lupo de le capre e de l'agnelle -nel monte che Tifeo sotto si frange; -quivi il crudel pagan facea di quelle -non dirò squadre, non dirò falange, -ma vulgo e populazzo voglio dire, -degno, prima che nasca, di morire. -Non ne trova un che veder possa in fronte, -fra tanti che ne taglia, fora e svena. -Per quella strada che vien dritto al ponte -di san Michel, sì popolata e piena, -corre il fiero e terribil Rodomonte, -e la sanguigna spada a cerco mena: -non riguarda né al servo né al signore, -né al giusto ha più pietà ch'al peccatore. -Religion non giova al sacerdote, -né la innocenza al pargoletto giova: -per sereni occhi o per vermiglie gote -mercé né donna né donzella truova: -la vecchiezza si caccia e si percuote; -né quivi il Saracin fa maggior pruova -di gran valor, che di gran crudeltade; -che non discerne sesso, ordine, etade. -Non pur nel sangue uman l'ira si stende -de l'empio re, capo e signor degli empi, -ma contra i tetti ancor, sì che n'incende -le belle case e i profanati tempi. -Le case eran, per quel che se n'intende, -quasi tutte di legno in quelli tempi: -e ben creder si può; ch'in Parigi ora -de le diece le sei son così ancora. -Non par, quantunque il fuoco ogni cosa arda, -che sì grande odio ancor saziar si possa. -Dove s'aggrappi con le mani, guarda, -sì che ruini un tetto ad ogni scossa. -Signor, avete a creder che bombarda -mai non vedeste a Padova sì grossa, -che tanto muro possa far cadere, -quanto fa in una scossa il re d'Algiere. -Mentre quivi col ferro il maledetto -e con le fiamme facea tanta guerra, -se di fuor Agramante avesse astretto, -perduta era quel dì tutta la terra: -ma non v'ebbe agio; che gli fu interdetto -dal paladin che venìa d'Inghilterra -col populo alle spalle inglese e scotto, -dal Silenzio e da l'angelo condotto. -Dio volse che all'entrar che Rodomonte -fe' ne la terra, e tanto fuoco accese, -che presso ai muri il fior di Chiaramonte, -Rinaldo, giunse, e seco il campo inglese. -Tre leghe sopra avea gittato il ponte, -e torte vie da man sinistra prese; -che disegnando i barbari assalire, -il fiume non l'avesse ad impedire. -Mandato avea seimila fanti arcieri -sotto l'altiera insegna d'Odoardo, -e duomila cavalli, e più, leggieri -dietro alla guida d'Ariman gagliardo; -e mandati gli avea per li sentieri -che vanno e vengon dritto al mar picardo, -ch'a porta San Martino e San Dionigi -entrassero a soccorso di Parigi. -I cariaggi e gli altri impedimenti -con lor fece drizzar per questa strada. -Egli con tutto il resto de le genti -più sopra andò girando la contrada. -Seco avean navi e ponti ed argumenti -da passar Senna che non ben si guada. -Passato ognuno, e dietro i ponti rotti, -ne le lor schiere ordinò Inglesi e Scotti. -Ma prima quei baroni e capitani -Rinaldo intorno avendosi ridutti, -sopra la riva ch'alta era dai piani -sì, che poteano udirlo e veder tutti, -disse: — Signor, ben a levar le mani -avete a Dio, che qui v'abbia condutti, -acciò, dopo un brevissimo sudore, -sopra ogni nazion vi doni onore. -Per voi saran dui principi salvati, -se levate l'assedio a quelle porte: -il vostro re, che voi sete ubligati -da servitù difendere e da morte; -ed uno imperator de' più lodati -che mai tenuto al mondo abbiano corte; -e con loro altri re, duci e marchesi, -signori e cavallier di più paesi. -Sì che, salvando una città, non soli -Parigini ubligati vi saranno, -che molto più che per li propri duoli, -timidi, afflitti e sbigottiti stanno -per le lor mogli e per li lor figliuoli -ch'a un medesmo pericolo seco hanno, -e per le sante vergini richiuse, -ch'oggi non sien dei voti lor deluse: -dico, salvando voi questa cittade, -v'ubligate non solo i Parigini, -ma d'ogn'intorno tutte le contrade. -Non parlo sol dei populi vicini; -ma non è terra per Cristianitade, -che non abbia qua dentro cittadini: -sì che, vincendo, avete da tenere -che più che Francia v'abbia obligo avere. -Se donavan gli antiqui una corona -a chi salvasse a un cittadin la vita, -or che degna mercede a voi si dona, -salvando multitudine infinita? -Ma se da invidia o da viltà sì buona -e sì santa opra rimarrà impedita, -credetemi che prese quelle mura, -né Italia né Lamagna anco è sicura; -né qualunque altra parte ove s'adori -quel che volse per noi pender sul legno. -Né voi crediate aver lontani i Mori, -né che pel mar sia forte il vostro regno: -che s'altre volte quelli, uscendo fuori -di Zibeltaro e de l'Erculeo segno, -riportar prede da l'isole vostre, -che faranno or, s'avran le terre nostre? -Ma quando ancor nessuno onor, nessuno -util v'inanimasse a questa impresa, -commun debito è ben soccorrer l'uno -l'altro, che militiàn sotto una Chiesa. -Ch'io non vi dia rotti i nemici, alcuno -non sia chi tema, e con poca contesa; -che gente male esperta tutta parmi, -senza possanza, senza cor, senz'armi. — -Poté con queste e con miglior ragioni, -con parlare espedito e chiara voce -eccitar quei magnanimi baroni -Rinaldo, e quello esercito feroce: -e fu, com'è in proverbio, aggiunger sproni -al buon corsier che già ne va veloce. -Finito il ragionar, fece le schiere -muover pian pian sotto le lor bandiere. -Senza strepito alcun, senza rumore -fa il tripartito esercito venire: -lungo il fiume a Zerbin dona l'onore -di dover prima i barbari assalire; -e fa quelli d'Irlanda con maggiore -volger di via più tra campagna gire; -e i cavallieri e i fanti d'Inghilterra -col duca di Lincastro in mezzo serra. -Drizzati che gli ha tutti al lor camino, -cavalca il paladin lungo la riva, -e passa inanzi al buon duca Zerbino -e a tutto il campo che con lui veniva; -tanto ch'al re d'Orano e al re Sobrino -e agli altri lor compagni soprarriva, -che mezzo miglio appresso a quei di Spagna -guardavan da quel canto la campagna. -L'esercito cristian che con sì fida -e sì sicura scorta era venuto, -ch'ebbe il Silenzio e l'angelo per guida, -non poté ormai patir più di star muto. -Sentiti gli nimici, alzò le grida, -e de le trombe udir fe' il suono arguto: -e con l'alto rumor ch'arrivò al cielo, -mandò ne l'ossa a' Saracini il gelo. -Rinaldo inanzi agli altri il destrier punge; -e con la lancia per cacciarla in resta -lascia gli Scotti un tratto d'arco lunge, -ch'ogni indugio a ferir sì lo molesta. -Come groppo di vento talor giunge, -che si tra' dietro un'orrida tempesta, -tal fuor di squadra il cavallier gagliardo -venìa spronando il corridor Baiardo. -Al comparir del paladin di Francia, -dan segno i Mori alle future angosce: -tremare a tutti in man vedi la lancia, -i piedi in staffa, e ne l'arcion le cosce. -Re Puliano sol non muta guancia, -che questo esser Rinaldo non conosce; -né pensando trovar sì duro intoppo, -gli muove il destrier contra di galoppo: -e su la lancia nel partir si stringe, -e tutta in sé raccoglie la persona; -poi con ambo gli sproni il destrier spinge, -e le redine inanzi gli abandona. -Da l'altra parte il suo valor non finge, -e mostra in fatti quel ch'in nome suona, -quanto abbia nel giostrare e grazia ed arte, -il figliuolo d'Amone, anzi di Marte. -Furo al segnar degli aspri colpi, pari, -che si posero i ferri ambi alla testa: -ma furo in arme ed in virtù dispari, -che l'un via passa, e l'altro morto resta. -Bisognan di valor segni più chiari, -che por con leggiadria la lancia in resta: -ma fortuna anco più bisogna assai; -che senza, val virtù raro o non mai. -La buona lancia il paladin racquista, -e verso il re d'Oran ratto si spicca, -che la persona avea povera e trista -di cor, ma d'ossa e di gran polpe ricca. -Questo por tra bei colpi si può in lista, -ben ch'in fondo allo scudo gli l'appicca: -e chi non vuol lodarlo, abbialo escuso, -perché non si potea giunger più in suso. -Non lo ritien lo scudo, che non entre, -ben che fuor sia d'acciar, dentro di palma; -e che da quel gran corpo uscir pel ventre -non faccia l'inequale e piccola alma. -Il destrier che portar si credea, mentre -durasse il lungo dì, sì grave salma, -riferì in mente sua grazie a Rinaldo, -ch'a quello incontro gli schivò un gran caldo. -Rotta l'asta, Rinaldo il destrier volta -tanto legger, che fa sembrar ch'abbia ale; -e dove la più stretta e maggior folta -stiparsi vede, impetuoso assale. -Mena Fusberta sanguinosa in volta -che fa l'arme parer di vetro frale: -tempra di ferro il suo tagliar non schiva, -che non vada a trovar la carne viva. -Ritrovar poche tempre e pochi ferri -può la tagliente spada, ove s'incappi, -ma targhe, altre di cuoio, altre di cerri, -giupe trapunte e attorcigliati drappi. -Giusto è ben dunque che Rinaldo atterri -qualunque assale, e fori e squarci e affrappi; -che non più si difende da sua spada, -ch'erba da falce, o da tempesta biada. -La prima schiera era già messa in rotta, -quando Zerbin con l'antiguardia arriva. -Il cavallier inanzi alla gran frotta -con la lancia arrestata ne veniva. -La gente sotto il suo pennon condotta, -con non minor fierezza lo seguiva: -tanti lupi parean, tanti leoni -ch'andassero assalir capre o montoni. -Spinse a un tempo ciascuno il suo cavallo, -poi che fur presso; e sparì immantinente -quel breve spazio, quel poco intervallo -che si vedea fra l'una e l'altra gente. -Non fu sentito mai più strano ballo; -che ferian gli Scozzesi solamente: -solamente i pagani eran distrutti, -come sol per morir fosser condutti. -Parve più freddo ogni pagan che ghiaccio; -parve ogni Scotto più che fiamma caldo. -I Mori si credean ch'avere il braccio -dovesse ogni cristian, ch'ebbe Rinaldo. -Mosse Sobrino i suoi schierati avaccio, -senza aspettar che lo 'nvitasse araldo: -de l'altra squadra questa era migliore -di capitano, d'arme e di valore. -D'Africa v'era la men trista gente; -ben che né questa ancor gran prezzo vaglia. -Dardinel la sua mosse incontinente, -e male armata, e peggio usa in battaglia; -ben ch'egli in capo avea l'elmo lucente, -e tutto era coperto a piastra e a maglia. -Io credo che la quarta miglior sia, -con la qual Isolier dietro venìa. -Trasone intanto, il buon duca di Marra, -che ritrovarsi all'alta impresa gode, -ai cavallieri suoi leva la sbarra, -e seco invita alle famose lode, -poi ch'Isolier con quelli di Navarra -entrar ne la battaglia vede ed ode. -Poi mosse Ariodante la sua schiera, -che nuovo duca d'Albania fatt'era. -L'alto rumor de le sonore trombe, -de' timpani e de' barbari stromenti, -giunti al continuo suon d'archi, di frombe, -di machine, di ruote e di tormenti; -e quel di che più par che 'l ciel ribombe, -gridi, tumulti, gemiti e lamenti; -rendeno un alto suon ch'a quel s'accorda, -con che i vicin, cadendo, il Nilo assorda. -Grande ombra d'ogn'intorno il cielo involve, -nata dal saettar de li duo campi; -l'alito, il fumo del sudor, la polve -par che ne l'aria oscura nebbia stampi. -Or qua l'un campo, or l'altro là si volve: -vedresti or come un segua, or come scampi; -ed ivi alcuno, o non troppo diviso, -rimaner morto ove ha il nimico ucciso. -Dove una squadra per stanchezza è mossa, -un'altra si fa tosto andare inanti. -Di qua di là la gente d'arme ingrossa: -là cavallieri, e qua si metton fanti. -La terra che sostien l'assalto, è rossa: -mutato ha il verde ne' sanguigni manti; -e dov'erano i fiori azzurri e gialli, -giaceno uccisi or gli uomini e i cavalli. -Zerbin facea le più mirabil pruove -che mai facesse di sua età garzone: -l'esercito pagan che 'ntorno piove, -taglia ed uccide e mena a destruzione. -Ariodante alle sue genti nuove -mostra di sua virtù gran paragone; -e dà di sé timore e meraviglia -a quelli di Navarra e di Castiglia. -Chelindo e Mosco, i duo figli bastardi -del morto Calabrun re d'Aragona, -ed un che reputato fra' gagliardi -era, Calamidor da Barcelona, -s'avean lasciato a dietro gli stendardi; -e credendo acquistar gloria e corona -per uccider Zerbin, gli furo adosso; -e ne' fianchi il destrier gli hanno percosso. -Passato da tre lance il destrier morto -cade; ma il buon Zerbin subito è in piede; -ch'a quei ch'al suo cavallo han fatto torto, -per vendicarlo va dove gli vede: -e prima a Mosco, al giovene inaccorto, -che gli sta sopra, e di pigliar sel crede, -mena di punta, e lo passa nel fianco, -e fuor di sella il caccia freddo e bianco. -Poi che si vide tor, come di furto, -Chelindo il fratel suo, di furor pieno -venne a Zerbino, e pensò dargli d'urto; -ma gli prese egli il corridor pel freno: -trasselo in terra, onde non è mai surto, -e non mangiò mai più biada né fieno; -che Zerbin sì gran forza a un colpo mise, -che lui col suo signor d'un taglio uccise. -Come Calamidor quel colpo mira, -volta la briglia per levarsi in fretta; -ma Zerbin dietro un gran fendente tira, -dicendo: — Traditore, aspetta, aspetta! — -Non va la botta ove n'andò la mira, -non che però lontana vi si metta; -lui non poté arrivar, ma il destrier prese -sopra la groppa, e in terra lo distese. -Colui lascia il cavallo, e via carpone -va per campar, ma poco gli successe; -che venne caso che 'l duca Trasone -gli passò sopra, e col peso l'oppresse. -Ariodante e Lurcanio si pone -dove Zerbino è fra le genti spesse; -e seco hanno altri e cavallieri e conti, -che fanno ogn'opra che Zerbin rimonti. -Menava Ariodante il brando in giro, -e ben lo seppe Artalico e Margano; -ma molto più Etearco e Casimiro -la possanza sentir di quella mano: -i primi duo feriti se ne giro, -rimaser gli altri duo morti sul piano. -Lurcanio fa veder quanto sia forte; -che fere, urta, riversa e mette a morte. -Non crediate, Signor, che fra campagna -pugna minor che presso al fiume sia, -né ch'a dietro l'esercito rimagna, -che di Lincastro il buon duca seguia. -Le bandiere assalì questo di Spagna, -e molto ben di par la cosa gìa; -che fanti, cavallieri e capitani -di qua e di là sapean menar le mani. -Dinanzi vien Oldrado e Fieramonte, -un duca di Glocestra, un d'Eborace; -con lor Ricardo, di Varvecia conte, -e di Chiarenza il duca, Enrigo audace. -Han Matalista e Follicone a fronte, -e Baricondo ed ogni lor seguace. -Tiene il primo Almeria, tiene il secondo -Granata, tien Maiorca Baricondo. -La fiera pugna un pezzo andò di pare, -che vi si discernea poco vantaggio. -Vedeasi or l'uno or l'altro ire e tornare, -come le biade al ventolin di maggio, -o come sopra 'l lito un mobil mare -or viene or va, né mai tiene un viaggio. -Poi che fortuna ebbe scherzato un pezzo, -dannosa ai Mori ritornò da sezzo. -Tutto in un tempo il duca di Glocestra -a Matalista fa votar l'arcione; -ferito a un tempo ne la spalla destra -Fieramonte riversa Follicone: -e l'un pagano e l'altro si sequestra, -e tra gl'Inglesi se ne va prigione. -E Baricondo a un tempo riman senza -vita per man del duca di Chiarenza. -Indi i pagani tanto a spaventarsi, -indi i fedeli a pigliar tanto ardire, -che quei non facean altro che ritrarsi -e partirsi da l'ordine e fuggire, -e questi andar inanzi ed avanzarsi -sempre terreno, e spingere e seguire: -e se non vi giungea chi lor dié aiuto, -il campo da quel lato era perduto. -Ma Ferraù, che sin qui mai non s'era -dal re Marsilio suo troppo disgiunto, -quando vide fuggir quella bandiera, -e l'esercito suo mezzo consunto, -spronò il cavallo, e dove ardea più fiera -la battaglia, lo spinse; e arrivò a punto -che vide dal destrier cadere in terra -col capo fesso Olimpio da la Serra; -un giovinetto che col dolce canto, -concorde al suon de la cornuta cetra, -d'intenerire un cor si dava vanto, -ancor che fosse più duro che pietra. -Felice lui, se contentar di tanto -onor sapeasi, e scudo, arco e faretra -aver in odio, e scimitarra e lancia, -che lo fecer morir giovine in Francia! -Quando lo vide Ferraù cadere, -che solea amarlo e avere in molta estima, -si sente di lui sol via più dolere, -che di mill'altri che periron prima: -e sopra chi l'uccise in modo fere, -che gli divide l'elmo da la cima -per la fronte, per gli occhi e per la faccia, -per mezzo il petto, e morto a terra il caccia. -Né qui s'indugia; e il brando intorno ruota, -ch'ogni elmo rompe, ogni lorica smaglia; -a chi segna la fronte, a chi la gota, -ad altri il capo, ad altri il braccio taglia; -or questo or quel di sangue e d'alma vota: -e ferma da quel canto la battaglia, -onde la spaventata ignobil frotta -senza ordine fuggia spezzata e rotta. -Entr�� ne la battaglia il re Agramante, -d'uccider gente e di far pruove vago; -e seco ha Baliverzo, Farurante, -Prusion, Soridano e Bambirago. -Poi son le genti senza nome tante, -che del lor sangue oggi faranno un lago, -che meglio conterei ciascuna foglia, -quando l'autunno gli arbori ne spoglia. -Agramante dal muro una gran banda -di fanti avendo e di cavalli tolta, -col re di Feza subito li manda, -che dietro ai padiglion piglin la volta, -e vadano ad opporsi a quei d'Irlanda, -le cui squadre vedea con fretta molta, -dopo gran giri e larghi avolgimenti, -venir per occupar gli alloggiamenti. -Fu 'l re di Feza ad esequir ben presto; -ch'ogni tardar troppo nociuto avria. -Raguna intanto il re Agramante il resto; -parte le squadre, e alla battaglia invia. -Egli va al fiume; che gli par ch'in questo -luogo del suo venir bisogno sia: -e da quel canto un messo era venuto -del re Sobrino a domandare aiuto. -Menava in una squadra più di mezzo -il campo dietro; e sol del gran rumore -tremar gli Scotti, e tanto fu il ribrezzo, -ch'abbandonavan l'ordine e l'onore. -Zerbin, Lurcanio e Ariodante in mezzo -vi restar soli incontra a quel furore; -e Zerbin, ch'era a pié, vi peria forse, -ma 'l buon Rinaldo a tempo se n'accorse. -Altrove intanto il paladin s'avea -fatto inanzi fuggir cento bandiere. -Or che l'orecchie la novella rea -del gran periglio di Zerbin gli fere, -ch'a piedi fra la gente cirenea -lasciato solo aveano le sue schiere, -volta il cavallo, e dove il campo scotto -vede fuggir, prende la via di botto. -Dove gli Scotti ritornar fuggendo -vede, s'appara, e grida: — Or dove andate? -perché tanta viltade in voi comprendo, -che a sì vil gente il campo abbandonate? -Ecco le spoglie, de le quali intendo -ch'esser dovean le vostre chiese ornate. -Oh che laude, oh che gloria, che 'l figliuolo -del vostro re si lasci a piedi e solo! — -D'un suo scudier una grossa asta afferra, -e vede Prusion poco lontano, -re d'Alvaracchie, e adosso se gli serra, -e de l'arcion lo porta morto al piano. -Morto Agricalte e Bambirago atterra: -dopo fere aspramante Soridano; -e come gli altri l'avria messo a morte, -se nel ferir la lancia era più forte. -Stringe Fusberta, poi che l'asta è rotta, -e tocca Serpentin, quel da la Stella. -Fatate l'arme avea, ma quella botta -pur tramortito il manda fuor di sella. -E così al duca de la gente scotta -fa piazza intorno spaziosa e bella; -sì che senza contesa un destrier puote -salir di quei che vanno a selle vote. -E ben si ritrovò salito a tempo, -che forse nol facea, se più tardava: -perché Agramante e Dardinello a un tempo, -Sobrin col re Balastro v'arrivava. -Ma egli, che montato era per tempo, -di qua e di là col brando s'aggirava, -mandando or questo or quel giù ne l'inferno -a dar notizia del viver moderno. -Il buon Rinaldo, il quale a porre in terra -i più dannosi avea sempre riguardo, -la spada contra il re Agramante afferra, -che troppo gli parea fiero e gagliardo -(facea egli sol più che mille altri guerra); -e se gli spinse adosso con Baiardo: -lo fere a un tempo ed urta di traverso, -sì che lui col destrier manda riverso. -Mentre di fuor con sì crudel battaglia, -odio, rabbia, furor l'un l'altro offende, -Rodomonte in Parigi il popul taglia, -le belle case e i sacri templi accende. -Carlo, ch'in altra parte si travaglia, -questo non vede, e nulla ancor ne 'ntende: -Odoardo raccoglie ed Arimanno -ne la città, col lor popul britanno. -A lui venne un scudier pallido in volto, -che potea a pena trar del petto il fiato. -— Ahimè! signor, ahimè — replica molto, -prima ch'abbia a dir altro incominciato: -— Oggi il romano Imperio, oggi è sepolto; -oggi ha il suo popul Cristo abandonato: -il demonio dal cielo è piovuto oggi, -perché in questa città più non s'alloggi. -Satanasso (perch'altri esser non puote) -strugge e ruina la città infelice. -Volgiti e mira le fumose ruote -de la rovente fiamma predatrice; -ascolta il pianto che nel ciel percuote; -e faccian fede a quel che 'l servo dice. -Un solo è quel ch'a ferro e a fuoco strugge -la bella terra, e inanzi ognun gli fugge. — -Quale è colui che prima oda il tumulto, -e de le sacre squille il batter spesso, -che vegga il fuoco a nessun altro occulto, -ch'a sé, che più gli tocca, e gli è più presso; -tal è il re Carlo, udendo il nuovo insulto, -e conoscendol poi con l'occhio istesso: -onde lo sforzo di sua miglior gente -al grido drizza e al gran rumor che sente. -Dei paladini e dei guerrier più degni -Carlo si chiama dietro una gran parte, -e vêr la piazza fa drizzare i segni; -che 'l pagan s'era tratto in quella parte. -Ode il rumor, vede gli orribil segni -di crudeltà, l'umane membra sparte. -Ora non più: ritorni un'altra volta -chi voluntier la bella istoria ascolta. Il giusto Dio, quando i peccati nostri -hanno di remission passato il segno, -acciò che la giustizia sua dimostri -uguale alla pietà, spesso dà regno -a tiranni atrocissimi ed a mostri, -e dà lor forza e di mal fare ingegno. -Per questo Mario e Silla pose al mondo, -e duo Neroni e Caio furibondo, -Domiziano e l'ultimo Antonino; -e tolse da la immonda e bassa plebe, -ed esaltò all'imperio Massimino; -e nascer prima fe' Creonte a Tebe; -e dié Mezenzio al populo Agilino, -che fe' di sangue uman grasse le glebe; -e diede Italia a tempi men remoti -in preda agli Unni, ai Longobardi, ai Goti. -Che d'Atila dirò? che de l'iniquo -Ezzellin da Roman? che d'altri cento? -che dopo un lungo andar sempre in obliquo, -ne manda Dio per pena e per tormento. -Di questo abbiàn non pur al tempo antiquo, -ma ancora al nostro, chiaro esperimento, -quando a noi, greggi inutili e malnati, -ha dato per guardian lupi arrabbiati: -a cui non par ch'abbi a bastar lor fame, -ch'abbi il lor ventre a capir tanta carne; -e chiaman lupi di più ingorde brame -da boschi oltramontani a divorarne. -Di Trasimeno l'insepulto ossame -e di Canne e di Trebia poco parne -verso quel che le ripe e i campi ingrassa, -dov'Ada e Mella e Ronco e Tarro passa. -Or Dio consente che noi siàn puniti -da populi di noi forse peggiori, -per li multiplicati ed infiniti -nostri nefandi, obbrobriosi errori. -Tempo verrà ch'a depredar lor liti -andremo noi, se mai saren migliori, -e che i peccati lor giungano al segno, -che l'eterna Bontà muovano a sdegno. -Doveano allora aver gli eccessi loro -di Dio turbata la serena fronte, -che scórse ogni lor luogo il Turco e 'l Moro -con stupri, uccision, rapine ed onte: -ma più di tutti gli altri danni, foro -gravati dal furor di Rodomonte. -Dissi ch'ebbe di lui la nuova Carlo, -e che 'n piazza venia per ritrovarlo. -Vede tra via la gente sua troncata, -arsi i palazzi, e ruinati i templi, -gran parte de la terra desolata; -mai non si vider sì crudeli esempli. -— Dove fuggite, turba spaventata? -Non è tra voi chi 'l danno suo contempli? -Che città, che refugio più vi resta, -quando si perda sì vilmente questa? -Dunque un uom solo in vostra terra preso, -cinto di mura onde non può fuggire, -si partirà che non l'avrete offeso, -quando tutti v'avrà fatto morire? — -Così Carlo dicea, che d'ira acceso -tanta vergogna non potea patire. -E giunse dove inanti alla gran corte -vide il pagan por la sua gente a morte. -Quivi gran parte era del populazzo, -sperandovi trovare aiuto, ascesa; -perché forte di mura era il palazzo, -con munizion da far lunga difesa. -Rodomonte, d'orgoglio e d'ira pazzo, -solo s'avea tutta la piazza presa: -e l'una man, che prezza il mondo poco, -ruota la spada, e l'altra getta il fuoco. -E de la regal casa, alta e sublime, -percuote e risuonar fa le gran porte. -Gettan le turbe da le eccelse cime -e merli e torri, e si metton per morte. -Guastare i tetti non è alcun che stime; -e legne e pietre vanno ad una sorte, -lastre e colonne, e le dorate travi -che furo in prezzo agli lor padri e agli avi. -Sta su la porta il re d'Algier, lucente -di chiaro acciar che 'l capo gli arma e 'l busto, -come uscito di tenebre serpente, -poi c'ha lasciato ogni squalor vetusto, -del nuovo scoglio altiero, e che si sente -ringiovenito e più che mai robusto: -tre lingue vibra, ed ha negli occhi foco; -dovunque passa, ogn'animal dà loco. -Non sasso, merlo, trave, arco o balestra, -né ciò che sopra il Saracin percuote, -ponno allentar la sanguinosa destra -che la gran porta taglia, spezza e scuote: -e dentro fatto v'ha tanta finestra, -che ben vedere e veduto esser puote -dai visi impressi di color di morte, -che tutta piena quivi hanno la corte. -Suonar per gli alti e spaziosi tetti -s'odono gridi e feminil lamenti: -l'afflitte donne, percotendo i petti, -corron per casa pallide e dolenti; -e abbraccian gli usci e i geniali letti -che tosto hanno a lasciare a strane genti. -Tratta la cosa era in periglio tanto, -quando 'l re giunse, e suoi baroni accanto. -Carlo si volse a quelle man robuste -ch'ebbe altre volte a gran bisogni pronte. -— Non sète quelli voi, che meco fuste -contra Agolante (disse) in Aspramonte? -Sono le forze vostre ora sì fruste, -che, s'uccideste lui, Troiano e Almonte -con centomila, or ne temete un solo -pur di quel sangue e pur di quello stuolo? -Perché debbo vedere in voi fortezza -ora minor ch'io la vedessi allora? -Mostrate a questo can vostra prodezza, -a questo can che gli uomini devora. -Un magnanimo cor morte non prezza, -presta o tarda che sia, pur che ben muora. -Ma dubitar non posso ove voi sète, -che fatto sempre vincitor m'avete. — -Al fin de le parole urta il destriero, -con l'asta bassa, al Saracino adosso. -Mossesi a un tratto il paladino Ugiero, -a un tempo Namo ed Ulivier si è mosso, -Avino, Avolio, Otone e Berlingiero, -ch'un senza l'altro mai veder non posso: -e ferir tutti sopra a Rodomonte -e nel petto e nei fianchi e ne la fronte. -Ma lasciamo, per Dio, Signore, ormai -di parlar d'ira e di cantar di morte; -e sia per questa volta detto assai -del Saracin non men crudel che forte: -che tempo è ritornar dov'io lasciai -Grifon, giunto a Damasco in su le porte -con Orrigille perfida, e con quello -ch'adulter era, e non di lei fratello. -De le più ricche terre di Levante, -de le più populose e meglio ornate -si dice esser Damasco, che distante -siede a Ierusalem sette giornate, -in un piano fruttifero e abondante, -non men giocondo il verno, che l'estate. -A questa terra il primo raggio tolle -de la nascente aurora un vicin colle. -Per la città duo fiumi cristallini -vanno inaffiando per diversi rivi -un numero infinito di giardini, -non mai di fior, non mai di fronde privi. -Dicesi ancor, che macinar molini -potrian far l'acque lanfe che son quivi; -e chi va per le vie vi sente, fuore -di tutte quelle case, uscire odore. -Tutta coperta è la strada maestra -di panni di diversi color lieti; -e d'odorifera erba, e di silvestra -fronda la terra e tutte le pareti. -Adorna era ogni porta, ogni finestra -di finissimi drappi e di tapeti, -ma più di belle e ben ornate donne -di ricche gemme e di superbe gonne. -Vedeasi celebrar dentr'alle porte, -in molti lochi, solazzevol balli; -il popul, per le vie, di miglior sorte -maneggiar ben guarniti e bei cavalli: -facea più bel veder la ricca corte -de' signor, de' baroni e de' vasalli, -con ciò che d'India e d'eritree maremme -di perle aver si può, d'oro e di gemme. -Venia Grifone e la sua compagnia -mirando e quinci e quindi il tutto ad agio, -quando fermolli un cavalliero in via, -e gli fece smontare a un suo palagio; -e per l'usanza e per sua cortesia -di nulla lasciò lor patir disagio. -Li fe' nel bagno entrar, poi con serena -fronte gli accolse a sontuosa cena. -E narrò lor come il re Norandino, -re di Damasco e di tutta Soria, -fatto avea il paesano e 'l peregrino -ch'ordine avesse di cavalleria, -alla giostra invitar, ch'al matutino -del dì sequente in piazza si faria; -e che s'avean valor pari al sembiante, -potrian mostrarlo senza andar più inante. -Ancor che quivi non venne Grifone -a questo effetto, pur lo 'nvito tenne; -che qual volta se n'abbia occasione, -mostrar virtude mai non disconvenne. -Interrogollo poi de la cagione -di quella festa, e s'ella era solenne -usata ogn'anno, o pure impresa nuova -del re ch'i suoi veder volesse in pruova. -Rispose il cavallier: — La bella festa -s'ha da far sempre ad ogni quarta luna: -de l'altre che verran, la prima è questa: -ancora non se n'è fatta più alcuna. -Sarà in memoria che salvò la testa -il re in tal giorno da una gran fortuna, -dopo che quattro mesi in doglie e 'n pianti -sempre era stato, e con la morte inanti. -Ma per dirvi la cosa pienamente, -il nostro re, che Norandin s'appella, -molti e molt'anni ha avuto il core ardente -de la leggiadra e sopra ogn'altra bella -figlia del re di Cipro: e finalmente -avutala per moglie, iva con quella, -con cavallieri e donne in compagnia; -e dritto avea il camin verso Soria. -Ma poi che fummo tratti a piene vele -lungi dal porto nel Carpazio iniquo, -la tempesta saltò tanto crudele, -che sbigottì sin al padrone antiquo. -Tre dì e tre notti andammo errando ne le -minacciose onde per camino obliquo. -Uscimo al fin nel lito stanchi e molli, -tra freschi rivi, ombrosi e verdi colli. -Piantare i padiglioni, e le cortine -fra gli arbori tirar facemo lieti. -S'apparechiano i fuochi e le cucine; -le mense d'altra parte in su tapeti. -Intanto il re cercando alle vicine -valli era andato e a' boschi più secreti, -se ritrovasse capre o daini o cervi; -e l'arco gli portar dietro duo servi. -Mentre aspettamo, in gran piacer sedendo, -che da cacciar ritorni il signor nostro, -vedemo l'Orco a noi venir correndo -lungo il lito del mar, terribil mostro. -Dio vi guardi, signor, che 'l viso orrendo -de l'Orco agli occhi mai vi sia dimostro: -meglio è per fama aver notizia d'esso, -ch'andargli, si che lo veggiate, appresso. -Non gli può comparir quanto sia lungo, -sì smisuratamente è tutto grosso. -In luogo d'occhi, di color di fungo -sotto la fronte ha duo coccole d'osso. -Verso noi vien (come vi dico) lungo -il lito, e par ch'un monticel sia mosso. -Mostra le zanne fuor, come fa il porco; -ha lungo il naso, il sen bavoso e sporco. -Correndo viene, e 'l muso a guisa porta -che 'l bracco suol, quando entra in su la traccia. -Tutti che lo veggiam, con faccia smorta -in fuga andamo ove il timor ne caccia. -Poco il veder lui cieco ne conforta, -quando, fiutando sol, par che più faccia, -ch'altri non fa, ch'abbia odorato e lume: -e bisogno al fuggire eran le piume. -Corron chi qua chi là; ma poco lece -da lui fuggir, veloce più che 'l Noto. -Di quaranta persone, a pena diece -sopra il navilio si salvaro a nuoto. -Sotto il braccio un fastel d'alcuni fece, -né il grembio si lasciò né il seno voto; -un suo capace zaino empissene anco, -che gli pendea, come a pastor, dal fianco. -Portòci alla sua tana il mostro cieco, -cavata in lito al mar dentr'uno scoglio. -Di marmo così bianco è quello speco, -come esser soglia ancor non scritto foglio. -Quivi abitava una matrona seco, -di dolor piena in vista e di cordoglio; -ed avea in compagnia donne e donzelle -d'ogni età, d'ogni sorte, e brutte e belle. -Era presso alla grotta in ch'egli stava, -quasi alla cima del giogo superno, -un'altra non minor di quella cava, -dove del gregge suo facea governo. -Tanto n'avea, che non si numerava; -e n'era egli il pastor l'estate e 'l verno. -Ai tempi suoi gli apriva e tenea chiuso, -per spasso che n'avea, più che per uso. -L'umana carne meglio gli sapeva: -e prima il fa veder ch'all'antro arrivi; -che tre de' nostri giovini ch'aveva, -tutti li mangia, anzi trangugia vivi. -Viene alla stalla, e un gran sasso ne leva: -ne caccia il gregge, e noi riserra quivi. -Con quel sen va dove il suol far satollo, -sonando una zampogna ch'avea in collo. -Il signor nostro intanto ritornato -alla marina, il suo danno comprende; -che truova gran silenzio in ogni lato, -voti frascati, padiglioni e tende. -Né sa pensar chi sì l'abbia rubato; -e pien di gran timore al lito scende, -onde i nocchieri suoi vede in disparte -sarpar lor ferri e in opra por le sarte. -Tosto ch'essi lui veggiono sul lito, -il palischermo mandano a levarlo: -ma non sì tosto ha Norandino udito -de l'Orco che venuto era a rubarlo, -che, senza più pensar, piglia partito, -dovunque andato sia, di seguitarlo. -Vedersi tor Lucina sì gli duole, -ch'o racquistarla, o non più viver vuole. -Dove vede apparir lungo la sabbia -la fresca orma, ne va con quella fretta -con che lo spinge l'amorosa rabbia, -fin che giunge alla tana ch'io v'ho detta; -ove con tema la maggior che s'abbia -a patir mai, l'Orco da noi s'aspetta: -ad ogni suono di sentirlo parci, -ch'affamato ritorni a divorarci. -Quivi Fortuna il re da tempo guida, -che senza l'Orco in casa era la moglie. -Come ella 'l vede: — Fuggine! (gli grida) -misero te, se l'Orco ti ci coglie! — -— Coglia (disse) o non coglia, o salvi o uccida, -che miserrimo i' sia non mi si toglie. -Disir mi mena, e non error di via, -c'ho di morir presso alla moglie mia. — -Poi seguì, dimandandole novella -di quei che prese l'Orco in su la riva; -prima degli altri, di Lucina bella, -se l'avea morta, o la tenea captiva. -La donna umanamente gli favella, -e lo conforta, che Lucina è viva, -e che non è alcun dubbio ch'ella muora; -che mai femina l'Orco non divora. -— Esser di ciò argumento ti poss'io, -e tutte queste donne che son meco: -né a me né a lor mai l'Orco è stato rio, -pur che non ci scostian da questo speco. -A chi cerca fuggir, pon grave fio; -né pace mai puon ritrovar più seco: -o le sotterra vive, o l'incatena, -o fa star nude al sol sopra l'arena. -Quando oggi egli portò qui la tua gente, -le femine dai maschi non divise; -ma, sì come gli avea, confusamente -dentro a quella spelonca tutti mise. -Sentirà a naso il sesso differente. -Le donne non temer che sieno uccise: -gli uomini, siene certo; ed empieranne -di quattro, il giorno, o sei, l'avide canne. -Di levar lei di qui non ho consiglio -che dar ti possa; e contentar ti puoi -che ne la vita sua non è periglio: -starà qui al ben e al mal ch'avremo noi. -Ma vattene, per Dio, vattene, figlio, -che l'Orco non ti senta e non t'ingoi. -Tosto che giunge, d'ogn'intorno annasa, -e sente sin a un topo che sia in casa. — -Rispose il re, non si voler partire, -se non vedea la sua Lucina prima; -e che più tosto appresso a lei morire, -che viverne lontan, faceva stima. -Quando vede ella non potergli dire -cosa che 'l muova da la voglia prima, -per aiutarlo fa nuovo disegno, -e ponvi ogni sua industria, ogni suo ingegno. -Morte avea in casa, e d'ogni tempo appese, -con lor mariti, assai capre ed agnelle, -onde a sé ed alle sue facea le spese; -e dal tetto pendea più d'una pelle. -La donna fe' che 'l re del grasso prese, -ch'avea un gran becco intorno alle budelle, -e che se n'unse dal capo alle piante, -fin che l'odor cacciò ch'egli ebbe inante. -E poi che 'l tristo puzzo aver le parve, -di che il fetido becco ognora sape, -piglia l'irsuta pelle, e tutto entrarve -lo fe'; ch'ella è sì grande che lo cape. -Coperto sotto a così strane larve, -facendol gir carpon, seco lo rape -là dove chiuso era d'un sasso grave -de la sua donna il bel viso soave. -Norandino ubidisce; ed alla buca -de la spelonca ad aspettar si mette, -acciò col gregge dentro si conduca; -e fin a sera disiando stette. -Ode la sera il suon de la sambuca, -con che 'nvita a lassar l'umide erbette, -e ritornar le pecore all'albergo -il fier pastor che lor venìa da tergo. -Pensate voi se gli tremava il core, -quando l'Orco sentì che ritornava, -e che 'l viso crudel pieno d'orrore -vide appressare all'uscio de la cava; -ma poté la pietà più che 'l timore: -s'ardea, vedete, o se fingendo amava. -Vien l'Orco inanzi, e leva il sasso, ed apre: -Norandino entra fra pecore e capre. -Entrato il gregge, l'Orco a noi descende; -ma prima sopra sé l'uscio si chiude. -Tutti ne va fiutando: al fin duo prende; -che vuol cenar de le lor carni crude. -Al rimembrar di quelle zanne orrende, -non posso far ch'ancor non trieme e sude. -Partito l'Orco, il re getta la gonna -ch'avea di becco, e abbraccia la sua donna. -Dove averne piacer deve e conforto, -vedendol quivi, ella n'ha affanno e noia: -lo vede giunto ov'ha da restar morto; -e non può far però ch'essa non muoia. -— Con tutto 'l mal (diceagli) ch'io supporto, -signor, sentia non mediocre gioia, -che ritrovato non t'eri con nui -quando da l'Orco oggi qui tratta fui. -Che se ben il trovarmi ora in procinto -d'uscir di vita m'era acerbo e forte; -pur mi sarei, come è commune istinto, -dogliuta sol de la mia trista sorte: -ma ora, o prima o poi che tu sia estinto, -più mi dorrà la tua che la mia morte. — -E seguitò, mostrando assai più affanno -di quel di Norandin, che del suo danno. -— La speme (disse il re) mi fa venire, -c'ho di salvarti, e tutti questi teco: -e s'io nol posso far, meglio è morire, -che senza te, mio sol, viver poi cieco. -Come io ci venni, mi potrò partire; -e voi tutt'altri ne verrete meco, -se non avrete, come io non ho avuto, -schivo a pigliare odor d'animal bruto. — -La fraude insegnò a noi, che contra il naso -de l'Orco insegnò a lui la moglie d'esso; -di vestirci le pelli, in ogni caso -ch'egli ne palpi ne l'uscir del fesso. -Poi che di questo ognun fu persuaso; -quanti de l'un, quanti de l'altro sesso -ci ritroviamo, uccidian tanti becchi, -quelli che più fetean, ch'eran più vecchi. -Ci ungemo i corpi di quel grasso opimo -che ritroviamo all'intestina intorno, -e de l'orride pelli ci vestimo. -Intanto uscì da l'aureo albergo il giorno. -Alla spelonca, come apparve il primo -raggio del sol, fece il pastor ritorno; -e dando spirto alle sonore canne, -chiamò il suo gregge fuor de le capanne. -Tenea la mano al buco de la tana, -acciò col gregge non uscissin noi: -ci prendea al varco; e quando pelo o lana -sentia sul dosso, ne lasciava poi. -Uomini e donne uscimmo per sì strana -strada, coperti dagl'irsuti cuoi: -e l'Orco alcun di noi mai non ritenne, -fin che con gran timor Lucina venne. -Lucina, o fosse perch'ella non volle -ungersi come noi, che schivo n'ebbe; -o ch'avesse l'andar più lento e molle, -che l'imitata bestia non avrebbe; -o quando l'Orco la groppa toccolle, -gridasse per la tema che le accrebbe; -o che se le sciogliessero le chiome; -sentita fu, né ben so dirvi come. -Tutti eravam sì intenti al caso nostro, -che non avemmo gli occhi agli altrui fatti. -Io mi rivolsi al grido; e vidi il mostro -che già gl'irsuti spogli le avea tratti, -e fattola tornar nel cavo chiostro. -Noi altri dentro a nostre gonne piatti -col gregge andamo ove 'l pastor ci mena, -tra verdi colli in una piaggia amena. -Quivi attendiamo infin che steso all'ombra -d'un bosco opaco il nasuto Orco dorma. -Chi lungo il mar, chi verso 'l monte sgombra: -sol Norandin non vuol seguir nostr'orma. -L'amor de la sua donna sì lo 'ngombra, -ch'alla grotta tornar vuol fra la torma, -né partirsene mai sin alla morte, -se non racquista la fedel consorte: -che quando dianzi avea all'uscir del chiuso -vedutala restar captiva sola, -fu per gittarsi, dal dolor confuso, -spontaneamente al vorace Orco in gola; -e si mosse, e gli corse infino al muso, -né fu lontano a gir sotto la mola: -ma pur lo tenne in mandra la speranza -ch'avea di trarla ancor di quella stanza. -La sera, quando alla spelonca mena -il gregge l'Orco, e noi fuggiti sente, -e c'ha da rimaner privo di cena, -chiama Lucina d'ogni mal nocente, -e la condanna a star sempre in catena -allo scoperto in sul sasso eminente. -Vedela il re per sua cagion patire, -e si distrugge, e sol non può morire. -Matina e sera l'infelice amante -la può veder come s'affliga e piagna; -che le va misto fra le capre avante, -torni alla stalla o torni alla campagna. -Ella con viso mesto e supplicante -gli accenna che per Dio non vi rimagna, -perché vi sta a gran rischio de la vita, -né però a lei può dare alcuna aita. -Così la moglie ancor de l'Orco priega -il re che se ne vada, ma non giova; -che d'andar mai senza Lucina niega, -e sempre più costante si ritruova. -In questa servitude, in che lo lega -Pietate e Amor, stette con lunga pruova -tanto, ch'a capitar venne a quel sasso -il figlio d'Agricane e 'l re Gradasso. -Dove con loro audacia tanto fenno, -che liberaron la bella Lucina; -ben che vi fu aventura più che senno: -e la portar correndo alla marina; -e al padre suo, che quivi era, la denno: -e questo fu ne l'ora matutina, -che Norandin con l'altro gregge stava -a ruminar ne la montana cava. -Ma poi che 'l giorno aperta fu la sbarra, -e seppe il re la donna esser partita -(che la moglie de l'Orco gli lo narra), -e come a punto era la cosa gita; -grazie a Dio rende, e con voto n'inarra, -ch'essendo fuor di tal miseria uscita, -faccia che giunga onde per arme possa, -per prieghi o per tesoro, esser riscossa. -Pien di letizia va con l'altra schiera -del simo gregge, e viene ai verdi paschi; -e quivi aspetta fin ch'all'ombra nera -il mostro per dormir ne l'erba caschi. -Poi ne vien tutto il giorno e tutta sera; -e al fin sicur che l'Orco non lo 'ntaschi, -sopra un navilio monta in Satalia; -e son tre mesi ch'arrivò in Soria. -In Rodi, in Cipro, e per città e castella -e d'Africa e d'Egitto e di Turchia, -il re cercar fe' di Lucina bella; -né fin l'altr'ieri aver ne poté spia. -L'altr'ier n'ebbe dal suocero novella, -che seco l'avea salva in Nicosia, -dopo che molti dì vento crudele -era stato contrario alle sue vele. -Per allegrezza de la buona nuova -prepara il nostro re la ricca festa; -e vuol ch'ad ogni quarta luna nuova, -una se n'abbia a far simile a questa: -che la memoria rifrescar gli giova -dei quattro mesi che 'n irsuta vesta -fu tra il gregge de l'Orco; e un giorno, quale -sarà dimane, uscì di tanto male. -Questo ch'io v'ho narrato, in parte vidi, -in parte udi' da chi trovossi al tutto; -dal re, vi dico, che calende ed idi -vi stette, fin che volse in riso il lutto: -e se n'udite mai far altri gridi, -direte a chi gli fa, che mal n'è istrutto. — -Il gentiluomo in tal modo a Grifone -de la festa narrò l'alta cagione. -Un gran pezzo di notte si dispensa -dai cavallieri in tal ragionamento; -e conchiudon ch'amore e pietà immensa -mostrò quel re con grande esperimento. -Andaron, poi che si levar da mensa, -ove ebbon grato e buono alloggiamento. -Nel seguente matin sereno e chiaro, -al suon de l'allegrezze si destaro. -Vanno scorrendo timpani e trombette, -e ragunando in piazza la cittade. -Or, poi che de cavalli e de carrette -e ribombar de gridi odon le strade, -Grifon le lucide arme si rimette, -che son di quelle che si trovan rade; -che l'avea impenetrabili e incantate -la Fata bianca di sua man temprate. -Quel d'Antiochia, più d'ogn'altro vile, -armossi seco, e compagnia gli tenne. -Preparate avea lor l'oste gentile -nerbose lance, e salde e grosse antenne, -e del suo parentado non umìle -compagnia tolta; e seco in piazza venne; -e scudieri a cavallo, e alcuni a piede, -a tal servigi attissimi, lor diede. -Giunsero in piazza, e trassonsi in disparte, -né pel campo curar far di sé mostra, -per veder meglio il bel popul di Marte, -ch'ad uno, o a dua, o a tre, veniano in giostra. -Chi con colori accompagnati ad arte -letizia o doglia alla sua donna mostra; -chi nel cimier, chi nel dipinto scudo -disegna Amor, se l'ha benigno o crudo. -Soriani in quel tempo aveano usanza -d'armarsi a questa guisa di Ponente. -Forse ve gli inducea la vicinanza -che de' Franceschi avean continuamente, -che quivi allor reggean la sacra stanza -dove in carne abitò Dio onnipotente; -ch'ora i superbi e miseri cristiani, -con biasmi lor, lasciano in man de' cani. -Dove abbassar dovrebbono la lancia -in augumento de la santa fede, -tra lor si dan nel petto e ne la pancia -a destruzion del poco che si crede. -Voi, gente ispana, e voi, gente di Francia, -volgete altrove, e voi, Svizzeri, il piede, -e voi, Tedeschi, a far più degno acquisto; -che quanto qui cercate è già di Cristo. -Se Cristianissimi esser voi volete, -e voi altri Catolici nomati, -perché di Cristo gli uomini uccidete? -perché de' beni lor son dispogliati? -Perché Ierusalem non riavete, -che tolto è stato a voi da' rinegati? -Perché Costantinopoli e del mondo -la miglior parte occupa il Turco immondo? -Non hai tu, Spagna, l'Africa vicina, -che t'ha via più di questa Italia offesa? -E pur, per dar travaglio alla meschina, -lasci la prima tua sì bella impresa. -O d'ogni vizio fetida sentina, -dormi, Italia imbriaca, e non ti pesa -ch'ora di questa gente, ora di quella -che già serva ti fu, sei fatta ancella? -Se 'l dubbio di morir ne le tue tane, -Svizzer, di fame, in Lombardia ti guida, -e tra noi cerchi o chi ti dia del pane, -o, per uscir d'inopia, chi t'uccida; -le richezze del Turco hai non lontane: -caccial d'Europa, o almen di Grecia snida; -così potrai o del digiuno trarti, -o cader con più merto in quelle parti. -Quel ch'a te dico, io dico al tuo vicino -tedesco ancor; là le richezze sono, -che vi portò da Roma Costantino: -portonne il meglio, e fe' del resto dono. -Pattolo ed Ermo onde si tra' l'or fino, -Migdonia e Lidia, e quel paese buono -per tante laudi in tante istorie noto, -non è, s'andar vi vuoi, troppo remoto. -Tu, gran Leone, a cui premon le terga -de le chiavi del ciel le gravi some, -non lasciar che nel sonno si sommerga -Italia, se la man l'hai ne le chiome. -Tu sei Pastore; e Dio t'ha quella verga -data a portare, e scelto il fiero nome, -perché tu ruggi, e che le braccia stenda, -sì che dai lupi il grege tuo difenda. -Ma d'un parlar ne l'altro, ove sono ito -sì lungi, dal camin ch'io faceva ora? -Non lo credo però sì aver smarrito, -ch'io non lo sappia ritrovare ancora. -Io dicea ch'in Soria si tenea il rito -d'armarsi, che i Franceschi aveano allora: -sì che bella in Damasco era la piazza -di gente armata d'elmo e di corazza. -Le vaghe donne gettano dai palchi -sopra i giostranti fior vermigli e gialli, -mentre essi fanno a suon degli oricalchi -levare a salti ed aggirar cavalli. -Ciascuno, o bene o mal ch'egli cavalchi, -vuol far quivi vedersi, e sprona e dàlli: -di ch'altri ne riporta pregio e lode; -mentre altri a riso, e gridar dietro s'ode. -De la giostra era il prezzo un'armatura -che fu donata al re pochi dì inante, -che su la strada ritrovò a ventura, -ritornando d'Armenia, un mercatante. -Il re di nobilissima testura -le sopraveste all'arme aggiunse, e tante -perle vi pose intorno e gemme ed oro, -che la fece valer molto tesoro. -Se conosciute il re quell'arme avesse, -care avute l'avria sopra ogni arnese; -né in premio de la giostra l'avria messe, -come che liberal fosse e cortese. -Lungo saria chi raccontar volesse -chi l'avea sì sprezzate e vilipese, -che 'n mezzo de la strada le lasciasse, -preda chiunque o inanzi o indietro andasse. -Di questo ho da contarvi più di sotto: -or dirò di Grifon, ch'alla sua giunta -un paio e più di lance trovò rotto, -menato più d'un taglio e d'una punta. -Dei più cari e più fidi al re fur otto -che quivi insieme avean lega congiunta; -gioveni; in arme pratichi ed industri, -tutti o signori o di famiglie illustri. -Quei rispondean ne la sbarrata piazza -per un dì, ad uno ad uno, a tutto 'l mondo, -prima con lancia, e poi con spada o mazza, -fin ch'al re di guardarli era giocondo; -e si foravan spesso la corazza: -per giuoco in somma qui facean, secondo -fan gli nimici capitali, eccetto -che potea il re partirli a suo diletto. -Quel d'Antiochia, un uom senza ragione, -che Martano il codardo nominosse, -come se de la forza di Grifone, -poi ch'era seco, participe fosse, -audace entrò nel marziale agone; -e poi da canto ad aspettar fermosse, -sin che finisce una battaglia fiera -che tra duo cavallier cominciata era. -Il signor di Seleucia, di quell'uno, -ch'a sostener l'impresa aveano tolto, -combattendo in quel tempo con Ombruno, -lo ferì d'una punta in mezzo 'l volto, -sì che l'uccise: e pietà n'ebbe ognuno, -perché buon cavallier lo tenean molto; -ed oltra la bontade, il più cortese -non era stato in tutto quel paese. -Veduto ciò, Martano ebbe paura -che parimente a sé non avvenisse; -e ritornando ne la sua natura, -a pensar cominciò come fugisse. -Grifon, che gli era appresso e n'avea cura, -lo spinse pur, poi ch'assai fece e disse, -contra un gentil guerrier che s'era mosso, -come si spinge il cane al lupo adosso; -che dieci passi gli va dietro o venti, -e poi si ferma, ed abbaiando guarda -come digrigni i minacciosi denti, -come negli occhi orribil fuoco gli arda. -Quivi ov'erano e principi presenti -e tanta gente nobile e gagliarda, -fuggì lo 'ncontro il timido Martano, -e torse 'l freno e 'l capo a destra mano. -Pur la colpa potea dar al cavallo, -chi di scusarlo avesse tolto il peso; -ma con la spada poi fe' sì gran fallo, -che non l'avria Demostene difeso. -Di carta armato par, non di metallo; -sì teme da ogni colpo essere offeso. -Fuggesi al fine, e gli ordini disturba, -ridendo intorno a lui tutta la turba. -Il batter de le mani, il grido intorno -se gli levò del populazzo tutto. -Come lupo cacciato, fe' ritorno -Martano in molta fretta al suo ridutto. -Resta Grifone; e gli par de lo scorno -del suo compagno esser macchiato e brutto: -esser vorrebbe stato in mezzo il foco, -più tosto che trovarsi in questo loco. -Arde nel core, e fuor nel viso avampa, -come sia tutta sua quella vergogna; -perché l'opere sue di quella stampa -vedere aspetta il populo ed agogna: -sì che rifulga chiara più che lampa -sua virtù, questa volta gli bisogna; -ch'un'oncia, un dito sol d'error che faccia, -per la mala impression parrà sei braccia. -Già la lancia avea tolta su la coscia -Grifon, ch'errare in arme era poco uso: -spinse il cavallo a tutta briglia, e poscia -ch'alquanto andato fu, la messe suso, -e portò nel ferire estrema angoscia -al baron di Sidonia, ch'andò giuso. -Ognun maravigliando in pié si leva; -che 'l contrario di ciò tutto attendeva. -Tornò Grifon con la medesma antenna, -che 'ntiera e ferma ricovrata avea, -ed in tre pezzi la roppe alla penna -de lo scudo al signor di Lodicea. -Quel per cader tre volte e quattro accenna, -che tutto steso alla groppa giacea: -pur rilevato al fin la spada strinse, -voltò il cavallo, e vêr Grifon si spinse. -Grifon, che 'l vede in sella, e che non basta -sì fiero incontro perché a terra vada, -dice fra sé: — Quel che non poté l'asta, -in cinque colpi o 'n sei farà la spada. — -E su la tempia subito l'attasta -d'un dritto tal, che par che dal ciel cada; -e un altro gli accompagna e un altro appresso, -tanto che l'ha stordito e in terra messo. -Quivi erano d'Apamia duo germani, -soliti in giostra rimaner di sopra, -Tirse e Corimbo; ed ambo per le mani -del figlio d'Uliver cader sozzopra. -L'uno gli arcion lascia allo scontro vani; -con l'altro messa fu la spada in opra. -Già per commun giudicio si tien certo -che di costui fia de la giostra il merto. -Ne la lizza era entrato Salinterno, -gran diodarro e maliscalco regio, -e che di tutto 'l regno avea il governo, -e di sua mano era guerriero egregio. -Costui, sdegnoso ch'un guerriero esterno -debba portar di quella giostra il pregio, -piglia una lancia, e verso Grifon grida, -e molto minacciandolo lo sfida. -Ma quel con un lancion gli fa risposta, -ch'avea per lo miglior fra dieci eletto, -e per non far error, lo scudo apposta, -e via lo passa e la corazza e 'l petto: -passa il ferro crudel tra costa e costa, -e fuor pel tergo un palmo esce di netto. -Il colpo, eccetto al re, fu a tutti caro; -ch'ognuno odiava Salinterno avaro. -Grifone, appresso a questi, in terra getta -duo di Damasco, Ermofilo e Carmondo. -La milizia del re dal primo è retta; -del mar grande almiraglio è quel secondo. -Lascia allo scontro l'un la sella in fretta: -adosso all'altro si riversa il pondo -del rio destrier, che sostener non puote -l'alto valor con che Grifon percuote. -Il signor di Seleucia ancor restava, -miglior guerrier di tutti gli altri sette; -e ben la sua possanza accompagnava -con destrier buono e con arme perfette. -Dove de l'elmo la vista si chiava, -l'asta allo scontro l'uno e l'altro mette; -pur Grifon maggior colpo al pagan diede, -che lo fe' staffeggiar dal manco piede. -Gittaro i tronchi, e si tornaro adosso -pieni di molto ardir coi brandi nudi. -Fu il pagan prima da Grifon percosso -d'un colpo che spezzato avria gl'incudi. -Con quel fender si vide e ferro ed osso -d'un ch'eletto s'avea tra mille scudi; -e se non era doppio e fin l'arnese, -ferìa la coscia ove cadendo scese. -Ferì quel di Seleucia alla visera -Grifone a un tempo; e fu quel colpo tanto, -che l'avria aperta e rotta, se non era -fatta, come l'altr'arme, per incanto. -Gli è un perder tempo che 'l pagan più fera: -così son l'arme dure in ogni canto: -e 'n più parti Grifon già fessa e rotta -ha l'armatura a lui, né perde botta. -Ognun potea veder quanto di sotto -il signor di Seleucia era a Grifone; -e se partir non li fa il re di botto, -quel che sta peggio, la vita vi pone. -Fe' Norandino alla sua guardia motto -ch'entrasse a distaccar l'aspra tenzone. -Quindi fu l'uno, e quindi l'altro tratto; -e fu lodato il re di sì buon atto. -Gli otto che dianzi avean col mondo impresa, -e non potuto durar poi contra uno, -avendo mal la parte lor difesa, -usciti eran dal campo ad uno ad uno. -Gli altri ch'eran venuti a lor contesa, -quivi restar senza contrasto alcuno, -avendo lor Grifon, solo, interrotto -quel che tutti essi avean da far contra otto. -E durò quella festa così poco, -ch'in men d'un'ora il tutto fatto s'era: -ma Norandin, per far più lungo il giuoco -e per continuarlo infino a sera, -dal palco scese, e fe' sgombrare il loco; -e poi divise in due la grossa schiera, -indi, secondo il sangue e la lor prova, -gli andò accoppiando, e fe' una giostra nova. -Grifone intanto avea fatto ritorno -alla sua stanza pien d'ira e di rabbia -e più gli preme di Martan lo scorno -che non giova l'onor ch'esso vinto abbia. -Quivi, per tor l'obbrobrio ch'avea intorno, -Martano adopra le mendaci labbia: -e l'astuta e bugiarda meretrice, -come meglio sapea, gli era adiutrice. -O sì o no che 'l giovin gli credesse, -pur la scusa accettò, come discreto: -e pel suo meglio allora allora elesse -quindi levarsi tacito e secreto, -per tema che, se 'l populo vedesse -Martano comparir, non stesse cheto. -Così per una via nascosa e corta -usciro al camin lor fuor de la porta. -Grifone, o ch'egli o che 'l cavallo fosse -stanco, o gravasse il sonno pur le ciglia, -al primo albergo che trovar, fermosse, -che non erano andati oltre a dua miglia. -Si trasse l'elmo, e tutto disarmosse, -e trar fece a' cavalli e sella e briglia; -e poi serrossi in camera soletto, -e nudo per dormire entrò nel letto. -Non ebbe così tosto il capo basso, -che chiuse gli occhi, e fu dal sonno oppresso -così profundamente, che mai tasso -né ghiro mai s'addormentò quanto esso. -Martano in tanto ed Orrigille a spasso -entraro in un giardin ch'era lì appresso; -ed un inganno ordir, che fu il più strano -che mai cadesse in sentimento umano. -Martano disegnò torre il destriero, -i panni e l'arme che Grifon s'ha tratte; -e andare inanzi al re pel cavalliero -che tante pruove avea giostrando fatte. -L'effetto ne seguì, fatto il pensiero: -tolle il destrier più candido che latte, -scudo e cimiero ed arme e sopraveste, -e tutte di Grifon l'insegne veste. -Con gli scudieri e con la donna, dove -era il popolo ancora, in piazza venne; -e giunse a tempo che finian le pruove -di girar spade e d'arrestare antenne. -Commanda il re che 'l cavallier si truove, -che per cimier avea le bianche penne, -bianche le vesti e bianco il corridore; -che 'l nome non sapea del vincitore. -Colui ch'indosso il non suo cuoio aveva, -come l'asino già quel del leone, -chiamato, se n'andò, come attendeva, -a Norandino, in loco di Grifone. -Quel re cortese incontro se gli leva, -l'abbraccia e bacia, e allato se lo pone: -né gli basta onorarlo e dargli loda, -che vuol che 'l suo valor per tutto s'oda. -E fa gridarlo al suon degli oricalchi -vincitor de la giostra di quel giorno. -L'alta voce ne va per tutti i palchi, -che 'l nome indegno udir fa d'ogn'intorno. -Seco il re vuol ch'a par a par cavalchi, -quando al palazzo suo poi fa ritorno; -e di sua grazia tanto gli comparte, -che basteria, se fosse Ercole o Marte. -Bello ed ornato alloggiamento dielli -in corte, ed onorar fece con lui -Orrigille anco; e nobili donzelli -mandò con essa, e cavallieri sui. -Ma tempo è ch'anco di Grifon favelli, -il qual né dal compagno né d'altrui -temendo inganno, addormentato s'era, -né mai si risvegliò fin alla sera. -Poi che fu desto, e che de l'ora tarda -s'accorse, uscì di camera con fretta, -dove il falso cognato e la bugiarda -Orrigille lasciò con l'altra setta; -e quando non gli truova, e che riguarda -non v'esser l'arme né i panni, sospetta; -ma il veder poi più sospettoso il fece -l'insegne del compagno in quella vece. -Sopravien l'oste, e di colui l'informa -che già gran pezzo, di bianch'arme adorno, -con la donna e col resto de la torma -avea ne la città fatto ritorno. -Truova Grifone a poco a poco l'orma -ch'ascosa gli avea Amor fin a quel giorno; -e con suo gran dolor vede esser quello -adulter d'Orrigille, e non fratello. -Di sua sciocchezza indarno ora si duole, -ch'avendo il ver dal peregrino udito, -lasciato mutar s'abbia alle parole -di chi l'avea più volte già tradito. -Vendicar si potea, né seppe; or vuole -l'inimico punir, che gli è fuggito; -ed è costretto con troppo gran fallo -a tor di quel vil uom l'arme e 'l cavallo. -Eragli meglio andar senz'arme e nudo, -che porsi indosso la corazza indegna, -o ch'imbracciar l'abominato scudo, -o por su l'elmo la beffata insegna; -ma per seguir la meretrice e 'l drudo, -ragione in lui pari al disio non regna. -A tempo venne alla città, ch'ancora -il giorno avea quasi di vivo un'ora. -Presso alla porta ove Grifon venìa, -siede a sinistra un splendido castello, -che, più che forte e ch'a guerre atto sia, -di ricche stanze è accommodato e bello. -I re, i signori, i primi di Soria -con alte donne in un gentil drappello -celebravano quivi in loggia amena -la real sontuosa e lieta cena. -La bella loggia sopra 'l muro usciva -con l'alta rocca fuor de la cittade; -e lungo tratto di lontan scopriva -i larghi campi e le diverse strade. -Or che Grifon verso la porta arriva -con quell'arme d'obbrobrio e di viltade, -fu con non troppa aventurosa sorte -dal re veduto e da tutta la corte: -e riputato quel di ch'avea insegna, -mosse le donne e i cavallieri a riso. -Il vil Martano, come quel che regna -in gran favor, dopo 'l re è 'l primo assiso, -e presso a lui la donna di sé degna; -dai quali Norandin con lieto viso -volse saper chi fosse quel codardo -che così avea al suo onor poco riguardo; -che dopo una sì trista e brutta pruova, -con tanta fronte or gli tornava inante. -Dicea: — Questa mi par cosa assai nuova, -ch'essendo voi guerrier degno e prestante, -costui compagno abbiate, che non truova, -di viltà, pari in terra di Levante. -Il fate forse per mostrar maggiore, -per tal contrario, il vostro alto valore. -Ma ben vi giuro per gli eterni dei, -che se non fosse ch'io riguardo a vui, -la publica ignominia gli farei, -ch'io soglio fare agli altri pari a lui. -Perpetua ricordanza gli darei, -come ognor di viltà nimico fui. -Ma sappia, s'impunito se ne parte, -grado a voi che 'l menaste in questa parte. — -Colui che fu de tutti i vizi il vaso, -rispose: — Alto signor, dir non sapria -chi sia costui; ch'io l'ho trovato a caso, -venendo d'Antiochia, in su la via. -Il suo sembiante m'avea persuaso -che fosse degno di mia compagnia; -ch'intesa non n'avea pruova né vista, -se non quella che fece oggi assai trista. -La qual mi spiacque sì, che restò poco, -che per punir l'estrema sua viltade, -non gli facessi allora allora un gioco, -che non toccasse più lance né spade: -ma ebbi, più ch'a lui, rispetto al loco, -e riverenza a vostra maestade. -Né per me voglio che gli sia guadagno -l'essermi stato un giorno o dua compagno: -di che contaminato anco esser parme; -e sopra il cor mi sarà eterno peso, -se, con vergogna del mestier de l'arme, -io lo vedrò da noi partire illeso: -e meglio che lasciarlo, satisfarme -potrete, se sarà d'un merlo impeso; -e fia lodevol opra e signorile, -perch'el sia esempio e specchio ad ogni vile. — -Al detto suo Martano Orrigille have, -senza accennar, confermatrice presta. -— Non son (rispose il re) l'opre sì prave, -ch'al mio parer v'abbia d'andar la testa. -Voglio per pena del peccato grave, -che sol rinuovi al populo la festa. — -E tosto a un suo baron, che fe' venire, -impose quanto avesse ad esequire. -Quel baron molti armati seco tolse, -ed alla porta de la terra scese; -e quivi con silenzio li raccolse, -e la venuta di Grifone attese: -e ne l'entrar sì d'improviso il colse, -che fra i duo ponti a salvamento il prese; -e lo ritenne con beffe e con scorno -in una oscura stanza insin al giorno. -Il Sole a pena avea il dorato crine -tolto di grembio alla nutrice antica, -e cominciava da le piagge alpine -a cacciar l'ombre e far la cima aprica; -quando temendo il vil Martan ch'al fine -Grifone ardito la sua causa dica, -e ritorni la colpa ond'era uscita, -tolse licenza, e fece indi partita, -trovando idonia scusa al priego regio, -che non stia allo spettacolo ordinato. -Altri doni gli avea fatto, col pregio -de la non sua vittoria, il signor grato; -e sopra tutto un amplo privilegio, -dov'era d'altri onori al sommo ornato. -Lasciànlo andar; ch'io vi prometto certo, -che la mercede avrà secondo il merto. -Fu Grifon tratto a gran vergogna in piazza, -quando più si trovò piena di gente. -Gli avean levato l'elmo e la corazza, -e lasciato in farsetto assai vilmente; -e come il conducessero alla mazza, -posto l'avean sopra un carro eminente, -che lento lento tiravan due vacche -da lunga fame attenuate e fiacche. -Venian d'intorno alla ignobil quadriga -vecchie sfacciate e disoneste putte, -di che n'era una ed or un'altra auriga, -e con gran biasmo lo mordeano tutte. -Lo poneano i fanciulli in maggior briga, -che, oltre le parole infami e brutte, -l'avrian coi sassi insino a morte offeso, -se dai più saggi non era difeso. -L'arme che del suo male erano state -cagion, che di lui fer non vero indicio, -da la coda del carro strascinate -patian nel fango debito supplicio. -Le ruote inanzi a un tribunal fermate -gli fero udir de l'altrui maleficio -la sua ignominia, che 'n sugli occhi detta -gli fu, gridando un publico trombetta. -Lo levar quindi, e lo mostrar per tutto -dinanzi a templi, ad officine e a case, -dove alcun nome scelerato e brutto, -che non gli fosse detto, non rimase. -Fuor de la terra all'ultimo cundutto -fu da la turba, che si persuase -bandirlo e cacciare indi a suon di busse, -non conoscendo ben ch'egli si fusse. -Sì tosto a pena gli sferraro i piedi -e liberargli l'una e l'altra mano, -che tor lo scudo ed impugnar gli vedi -la spada, che rigò gran pezzo il piano. -Non ebbe contra sé lance né spiedi; -che senz'arme venìa il populo insano. -Ne l'altro canto diferisco il resto; -che tempo è omai, Signor, di finir questo. Magnanimo Signore, ogni vostro atto -ho sempre con ragion laudato e laudo: -ben che col rozzo stil duro e mal atto -gran parte de la gloria vi defraudo. -Ma più de l'altre una virtù m'ha tratto, -a cui col core e con la lingua applaudo; -che s'ognun truova in voi ben grata udienza, -non vi truova però facil credenza. -Spesso in difesa del biasmato assente -indur vi sento una ed un'altra scusa, -o riserbargli almen, fin che presente -sua causa dica, l'altra orecchia chiusa; -e sempre, prima che dannar la gente, -vederla in faccia, e udir la ragion ch'usa; -differir anco e giorni e mesi ed anni, -prima che giudicar negli altrui danni. -Se Norandino il simil fatto avesse, -fatto a Grifon non avria quel che fece. -A voi utile e onor sempre successe: -denigrò sua fama egli più che pece. -Per lui sue genti a morte furon messe; -che fe' Grifone in dieci tagli, e in diece -punte che trasse pien d'ira e bizzarro, -che trenta ne cascaro appresso al carro. -Van gli altri in rotta ove il timor li caccia, -chi qua chi là, pei campi e per le strade; -e chi d'entrar ne la città procaccia, -e l'un su l'altro ne la porta cade. -Grifon non fa parole e non minaccia; -ma lasciando lontana ogni pietade, -mena tra il vulgo inerte il ferro intorno, -e gran vendetta fa d'ogni suo scorno. -Di quei che primi giunsero alla porta, -che le piante a levarsi ebbeno pronte, -parte, al bisogno suo molto più accorta -che degli amici, alzò subito il ponte; -piangendo parte, o con la faccia smorta -fuggendo andò senza mai volger fronte, -e ne la terra per tutte le bande -levò grido e tumulto e rumor grande. -Grifon gagliardo duo ne piglia in quella -che 'l ponte si levò per lor sciagura. -Sparge de l'uno al campo le cervella; -che lo percuote ad una cote dura: -prende l'altro nel petto, e l'arrandella -in mezzo alla città sopra le mura. -Scorse per l'ossa ai terrazzani il gelo, -quando vider colui venir dal cielo. -Fur molti che temer che 'l fier Grifone -sopra le mura avesse preso un salto. -Non vi sarebbe più confusione, -s'a Damasco il soldan desse l'assalto. -Un muover d'arme, un correr di persone, -e di talacimanni un gridar d'alto, -e di tamburi un suon misto e di trombe -il mondo assorda, e 'l ciel par ne rimbombe. -Ma voglio a un'altra volta differire -a ricontar ciò che di questo avenne. -Del buon re Carlo mi convien seguire, -che contra Rodomonte in fretta venne, -il qual le genti gli facea morire. -Io vi dissi ch'al re compagnia tenne -il gran Danese e Namo ed Oliviero -e Avino e Avolio e Otone e Berlingiero. -Otto scontri di lance, che da forza -di tali otto guerrier cacciati foro, -sostenne a un tempo la scagliosa scorza -di ch'avea armato il petto il crudo Moro. -Come legno si drizza, poi che l'orza -lenta il nochier che crescer sente il Coro, -così presto rizzossi Rodomonte -dai colpi che gittar doveano un monte. -Guido, Ranier, Ricardo, Salamone, -Ganelon traditor, Turpin fedele, -Angioliero, Angiolino, Ughetto, Ivone, -Marco e Matteo dal pian di san Michele, -e gli otto di che dianzi fei menzione, -son tutti intorno al Saracin crudele, -Arimanno e Odoardo d'Inghilterra, -ch'entrati eran pur dianzi ne la terra. -Non così freme in su lo scoglio alpino -di ben fondata rocca alta parete, -quando il furor di borea o di garbino -svelle dai monti il frassino e l'abete; -come freme d'orgoglio il Saracino, -di sdegno acceso e di sanguigna sete: -e com'a un tempo è il tuono e la saetta, -così l'ira de l'empio e la vendetta. -Mena alla testa a quel che gli è più presso, -che gli è il misero Ughetto di Dordona: -lo pone in terra insino ai denti fesso, -come che l'elmo era di tempra buona. -Percosso fu tutto in un tempo anch'esso -da molti colpi in tutta la persona; -ma non gli fan più ch'all'incude l'ago: -sì duro intorno ha lo scaglioso drago. -Furo tutti i ripar, fu la cittade -d'intorno intorno abandonata tutta; -che la gente alla piazza, dove accade -maggior bisogno, Carlo avea ridutta. -Corre alla piazza da tutte le strade -la turba, a chi il fuggir sì poco frutta. -La persona del re sì i cori accende, -ch'ognun prend'arme, ognuno animo prende. -Come se dentro a ben rinchiusa gabbia -d'antiqua leonessa usata in guerra, -perch'averne piacere il popul abbia, -talvolta il tauro indomito si serra; -i leoncin che veggion per la sabbia -come altiero e mugliando animoso erra, -e veder sì gran corna non son usi, -stanno da parte timidi e confusi: -ma se la fiera madre a quel si lancia, -e ne l'orecchio attacca il crudel dente, -vogliono anch'essi insanguinar la guancia, -e vengono in soccorso arditamente; -chi morde al tauro il dosso e chi la pancia: -così contra il pagan fa quella gente. -Da tetti e da finestre e più d'appresso -sopra gli piove un nembo d'arme e spesso. -Dei cavallieri e de la fanteria -tanta è la calca, ch'a pena vi cape. -La turba che vi vien per ogni via, -v'abbonda ad or ad or spessa come ape; -che quando, disarmata e nuda, sia -più facile a tagliar che torsi o rape, -non la potria, legata a monte a monte, -in venti giorni spenger Rodomonte. -Al pagan, che non sa come ne possa -venir a capo, omai quel gioco incresce. -Poco, per far di mille, o di più, rossa -la terra intorno, il populo discresce. -Il fiato tuttavia più se gl'ingrossa, -sì che comprende al fin che, se non esce -or c'ha vigore e in tutto il corpo è sano, -vorrà da tempo uscir, che sarà invano. -Rivolge gli occhi orribili, e pon mente -che d'ogn'intorno sta chiusa l'uscita; -ma con ruina d'infinita gente -l'aprirà tosto, e la farà espedita. -Ecco, vibrando la spada tagliente, -che vien quel empio, ove il furor lo 'nvita, -ad assalire il nuovo stuol britanno, -che vi trasse Odoardo ed Arimanno. -Chi ha visto in piazza rompere steccato, -a cui la folta turba ondeggi intorno, -immansueto tauro accaneggiato, -stimulato e percosso tutto 'l giorno; -che 'l popul se ne fugge ispaventato, -ed egli or questo or quel leva sul corno: -pensi che tale o più terribil fosse -il crudele African quando si mosse. -Quindici o venti ne tagliò a traverso, -altritanti lasciò del capo tronchi, -ciascun d'un colpo sol dritto o riverso; -che viti o salci par che poti e tronchi. -Tutto di sangue il fier pagano asperso, -lasciando capi fessi e bracci monchi, -e spalle e gambe ed altre membra sparte, -ovunque il passo volga, al fin si parte. -De la piazza si vede in guisa torre, -che non si può notar ch'abbia paura; -ma tuttavolta col pensier discorre, -dove sia per uscir via più sicura. -Capita al fin dove la Senna corre -sotto all'isola, e va fuor de le mura. -La gente d'arme e il popul fatto audace -lo stringe e incalza, e gir nol lascia in pace. -Qual per le selve nomade o massile -cacciata va la generosa belva, -ch'ancor fuggendo mostra il cor gentile, -e minacciosa e lenta si rinselva; -tal Rodomonte, in nessun atto vile, -da strana circondato e fiera selva -d'aste e di spade e di volanti dardi, -si tira al fiume a passi lunghi e tardi. -E sì tre volte e più l'ira il sospinse, -ch'essendone già fuor, vi tornò in mezzo, -ove di sangue la spada ritinse, -e più di cento ne levò di mezzo. -Ma la ragione al fin la rabbia vinse -di non far sì, ch'a Dio n'andasse il lezzo; -e da la ripa, per miglior consiglio, -si gittò all'acqua, e uscì di gran periglio. -Con tutte l'arme andò per mezzo l'acque, -come s'intorno avesse tante galle. -Africa, in te pare a costui non nacque, -ben che d'Anteo ti vanti e d'Anniballe. -Poi che fu giunto a proda, gli dispiacque, -che si vide restar dopo le spalle -quella città ch'avea trascorsa tutta, -e non l'avea tutta arsa né distrutta. -E sì lo rode la superbia e l'ira, -che, per tornarvi un'altra volta, guarda, -e di profondo cor geme e sospira, -né vuolne uscir, che non la spiani ed arda. -Ma lungo il fiume, in questa furia, mira -venir chi l'odio estingue e l'ira tarda. -Chi fosse io vi farò ben tosto udire; -ma prima un'altra cosa v'ho da dire. -Io v'ho da dir de la Discordia altiera, -a cui l'angel Michele avea commesso -ch'a battaglia accendesse e a lite fiera -quei che più forti avea Agramante appresso. -Uscì de' frati la medesma sera, -avendo altrui l'ufficio suo commesso: -lasciò la Fraude a guerreggiare il loco, -fin che tornasse, e a mantenervi il fuoco. -E le parve ch'andria con più possanza, -se la Superbia ancor seco menasse; -e perché stavan tutte in una stanza, -non fu bisogno ch'a cercar l'andasse. -La Superbia v'andò, ma non che sanza -la sua vicaria il monaster lasciasse: -per pochi dì che credea starne assente, -lasciò l'Ipocrisia locotenente. -L'implacabil Discordia in compagnia -de la Superbia si messe in camino, -e ritrovò che la medesma via -facea, per gire al campo saracino, -l'afflitta e sconsolata Gelosia; -e venìa seco un nano piccolino, -il qual mandava Doralice bella -al re di Sarza a dar di sé novella. -Quando ella venne a Mandricardo in mano -(ch'io v'ho già raccontato e come e dove), -tacitamente avea commesso al nano, -che ne portasse a questo re le nuove. -Ella sperò che nol saprebbe invano, -ma che far si vedria mirabil pruove, -per riaverla con crudel vendetta -da quel ladron che gli l'avea intercetta. -La Gelosia quel nano avea trovato; -e la cagion del suo venir compresa, -a caminar se gli era messa allato, -parendo d'aver luogo a questa impresa. -Alla Discordia ritrovar fu grato -la Gelosia; ma più quando ebbe intesa -la cagion del venir, che le potea -molto valere in quel che far volea. -D'inimicar con Rodomonte il figlio -del re Agrican le pare aver suggetto: -troverà a sdegnar gli altri altro consiglio; -a sdegnar questi duo questo è perfetto. -Col nano se ne vien dove l'artiglio -del fier pagano avea Parigi astretto; -e capitaro a punto in su la riva, -quando il crudel del fiume a nuoto usciva. -Tosto che riconobbe Rodomonte -costui de la sua donna esser messaggio, -estinse ogn'ira, e serenò la fronte, -e si sentì brillar dentro il coraggio. -Ogn'altra cosa aspetta che gli conte, -prima ch'alcuno abbia a lei fatto oltraggio. -Va contra il nano, e lieto gli domanda: -— Ch'è de la donna nostra? ove ti manda? — -Rispose il nano: — Né più tua né mia -donna dirò quella ch'è serva altrui. -Ieri scontrammo un cavallier per via, -che ne la tolse, e la menò con lui. — -A quello annunzio entrò la Gelosia, -fredda come aspe, ed abbracciò costui. -Seguita il nano, e narragli in che guisa -un sol l'ha presa, e la sua gente uccisa. -L'acciaio allora la Discordia prese, -e la pietra focaia, e picchiò un poco, -e l'esca sotto la Superbia stese, -e fu attaccato in un momento il fuoco; -e sì di questo l'anima s'accese -del Saracin, che non trovava loco: -sospira e freme con sì orribil faccia, -che gli elementi e tutto il ciel minaccia. -Come la tigre, poi ch'invan discende -nel voto albergo, e per tutto s'aggira, -e i cari figli all'ultimo comprende -essergli tolti, avampa di tant'ira, -a tanta rabbia, a tal furor s'estende, -che né a monte né a rio né a notte mira; -né lunga via, né grandine raffrena -l'odio che dietro al predator la mena: -così furendo il Saracin bizzarro -si volge al nano, e dice: — Or là t'invia; — -e non aspetta né destrier né carro, -e non fa motto alla sua compagnia. -Va con più fretta che non va il ramarro, -quando il ciel arde, a traversar la via. -Destrier non ha, ma il primo tor disegna, -sia di chi vuol, ch'ad incontrar lo vegna. -La Discordia ch'udì questo pensiero, -guardò, ridendo, la Superbia, e disse -che volea gire a trovare un destriero -che gli apportasse altre contese e risse; -e far volea sgombrar tutto il sentiero, -ch'altro che quello in man non gli venisse: -e già pensato avea dove trovarlo. -Ma costei lascio, e torno a dir di Carlo. -Poi ch'al partir del Saracin si estinse -Carlo d'intorno il periglioso fuoco, -tutte le genti all'ordine ristrinse. -Lascionne parte in qualche debol loco: -adosso il resto ai Saracini spinse, -per dar lor scacco, e guadagnarsi il giuoco; -e gli mandò per ogni porta fuore, -da San Germano infin a San Vittore. -E commandò ch'a porta San Marcello, -dov'era gran spianata di campagna, -aspettasse l'un l'altro, e in un drappello -si ragunasse tutta la compagna. -Quindi animando ognuno a far macello -tal, che sempre ricordo ne rimagna, -ai lor ordini andar fe' le bandiere, -e di battaglia dar segno alle schiere. -Il re Agramante in questo mezzo in sella, -mal grado dei cristian, rimesso s'era; -e con l'inamorato d'Isabella -facea battaglia perigliosa e fiera: -col re Sobrin Lurcanio si martella: -Rinaldo incontra avea tutta una schiera; -e con virtude e con fortuna molta -l'urta, l'apre, ruina e mette in volta. -Essendo la battaglia in questo stato, -l'imperatore assalse il retroguardo -dal canto ove Marsilio avea fermato -il fior di Spagna intorno al suo stendardo. -Con fanti in mezzo e cavallieri allato, -re Carlo spinse il suo popul gagliardo -con tal rumor di timpani e di trombe, -che tutto 'l mondo par che ne rimbombe. -Cominciavan le schiere a ritirarse -de' Saracini, e si sarebbon volte -tutte a fuggir, spezzate, rotte e sparse, -per mai più non potere esser raccolte; -ma 'l re Grandonio e Falsiron comparse, -che stati in maggior briga eran più volte, -e Balugante e Serpentin feroce, -e Ferraù che lor dicea a gran voce: -— Ah (dicea) valentuomini, ah compagni, -ah fratelli, tenete il luogo vostro. -I nimici faranno opra di ragni, -se non manchiamo noi del dover nostro. -Guardate l'alto onor, gli ampli guadagni -che Fortuna, vincendo, oggi ci ha mostro: -guardate la vergogna e il danno estremo, -ch'essendo vinti, a patir sempre avremo. — -Tolto in quel tempo una gran lancia avea, -e contra Berlingier venne di botto, -che sopra Largaliffa combattea, -e l'elmo ne la fronte gli avea rotto: -gittollo in terra, e con la spada rea -appresso a lui ne fe' cader forse otto. -Per ogni botta almanco, che disserra, -cader fa sempre un cavalliero in terra. -In altra parte ucciso avea Rinaldo -tanti pagan, ch'io non potrei contarli. -Dinanzi a lui non stava ordine saldo: -vedreste piazza in tutto 'l campo darli. -Non men Zerbin, non men Lurcanio è caldo: -per modo fan, ch'ognun sempre ne parli: -questo di punta avea Balastro ucciso, -e quello a Finadur l'elmo diviso. -L'esercito d'Alzerbe avea il primiero, -che poco inanzi aver solea Tardocco; -l'altro tenea sopra le squadre impero -di Zamor e di Saffi e di Marocco. -— Non è tra gli Africani un cavalliero -che di lancia ferir sappia o di stocco? — -mi si potrebbe dir: ma passo passo -nessun di gloria degno a dietro lasso. -Del re de la Zumara non si scorda -il nobil Dardinel figlio d'Almonte, -che con la lancia Uberto da Mirforda, -Claudio dal Bosco, Elio e Dulfin dal Monte, -e con la spada Anselmo da Stanforda, -e da Londra Raimondo e Pinamonte -getta per terra (ed erano pur forti), -dui storditi, un piagato, e quattro morti. -Ma con tutto 'l valor che di sé mostra, -non può tener sì ferma la sua gente, -sì ferma, ch'aspettar voglia la nostra -di numero minor, ma più valente. -Ha più ragion di spada e più di giostra -e d'ogni cosa a guerra appertinente. -Fugge la gente maura, di Zumara, -di Setta, di Marocco e di Canara. -Ma più degli altri fuggon quei d'Alzerbe, -a cui s'oppose il nobil giovinetto; -ed or con prieghi, or con parole acerbe -ripor lor cerca l'animo nel petto. -— S'Almonte meritò ch'in voi si serbe -di lui memoria, or ne vedrò l'effetto: -io vedrò (dicea lor) se me, suo figlio, -lasciar vorrete in così gran periglio. -State, vi priego per mia verde etade, -in cui solete aver sì larga speme: -deh non vogliate andar per fil di spade, -ch'in Africa non torni di noi seme. -Per tutto ne saran chiuse le strade, -se non andiam raccolti e stretti insieme: -troppo alto muro e troppo larga fossa -è il monte e il mar, pria che tornar si possa. -Molto è meglio morir qui, ch'ai supplici -darsi e alla discrezion di questi cani. -State saldi, per Dio, fedeli amici; -che tutti son gli altri rimedi vani. -Non han di noi più vita gli nimici; -più d'un'alma non han, più di due mani. — -Così dicendo, il giovinetto forte -al conte d'Otonlei diede la morte. -Il rimembrare Almonte così accese -l'esercito african che fuggia prima, -che le braccia e le mani in sue difese -meglio, che rivoltar le spalle, estima. -Guglielmo da Burnich era uno Inglese -maggior di tutti, e Dardinello il cima, -e lo pareggia agli altri; e apresso taglia -il capo ad Aramon di Cornovaglia. -Morto cadea questo Aramone a valle; -e v'accorse il fratel per dargli aiuto: -ma Dardinel l'aperse per le spalle -fin giù dove lo stomaco è forcuto. -Poi forò il ventre a Bogio da Vergalle, -e lo mandò del debito assoluto: -avea promesso alla moglier fra sei -mesi, vivendo, di tornare a lei. -Vide non lungi Dardinel gagliardo -venir Lurcanio, ch'avea in terra messo -Dorchin, passato ne la gola, e Gardo -per mezzo il capo e insin ai denti fesso; -e ch'Alteo fuggir volse, ma fu tardo, -Alteo ch'amò quanto il suo core istesso; -che dietro alla collottola gli mise -il fier Lurcanio un colpo che l'uccise. -Piglia una lancia, e va per far vendetta, -dicendo al suo Macon (s'udir lo puote), -che se morto Lurcanio in terra getta, -ne la moschea ne porrà l'arme vote. -Poi traversando la campagna in fretta, -con tanta forza il fianco gli percuote, -che tutto il passa sin all'altra banda; -ed ai suoi, che lo spoglino, commanda. -Non è da domandarmi, se dolere -se ne dovesse Ariodante il frate; -se desiasse di sua man potere -por Dardinel fra l'anime dannate: -ma nol lascian le genti adito avere, -non men de le 'nfedel le battezzate. -Vorria pur vendicarsi, e con la spada -di qua di là spianando va la strada. -Urta, apre, caccia, atterra, taglia e fende -qualunque lo 'mpedisce o gli contrasta. -E Dardinel che quel disire intende, -a volerlo saziar già non sovrasta: -ma la gran moltitudine contende -con questa ancora, e i suoi disegni guasta. -Se' Mori uccide l'un, l'altro non manco -gli Scotti uccide e il campo inglese e 'l franco. -Fortuna sempremai la via lor tolse, -che per tutto quel dì non s'accozzaro. -A più famosa man serbar l'un volse; -che l'uomo il suo destin fugge di raro. -Ecco Rinaldo a questa strada volse, -perch'alla vita d'un non sia riparo: -ecco Rinaldo vien: Fortuna il guida -per dargli onor che Dardinello uccida. -Ma sia per questa volta detto assai -dei gloriosi fatti di Ponente. -Tempo è ch'io torni ove Grifon lasciai, -che tutto d'ira e di disdegno ardente -facea, con più timor ch'avesse mai, -tumultuar la sbigottita gente. -Re Norandino a quel rumor corso era -con più di mille armati in una schiera. -Re Norandin con la sua corte armata, -vedendo tutto 'l populo fuggire, -venne alla porta in battaglia ordinata, -e quella fece alla sua giunta aprire. -Grifone intanto avendo già cacciata -da sé la turba sciocca e senza ardire, -la sprezzata armatura in sua difesa -(qual la si fosse) avea di nuovo presa; -e presso a un tempio ben murato e forte, -che circondato era d'un'alta fossa, -in capo un ponticel si fece forte, -perché chiuderlo in mezzo alcun non possa. -Ecco, gridando e minacciando forte, -fuor de la porta esce una squadra grossa. -L'animoso Grifon non muta loco, -e fa sembiante che ne tema poco. -E poi ch'avicinar questo drappello -si vide, andò a trovarlo in su la strada; -e molta strage fattane e macello -(che menava a due man sempre la spada), -ricorso avea allo stretto ponticello, -e quindi li tenea non troppo a bada: -di nuovo usciva e di nuovo tornava; -e sempre orribil segno vi lasciava. -Quando di dritto e quando di riverso -getta or pedoni or cavallieri in terra. -Il popul contra lui tutto converso -più e più sempre inaspera la guerra. -Teme Grifone al fin restar sommerso: -sì cresce il mar che d'ogn'intorno il serra; -e ne la spalla e ne la coscia manca -è già ferito, e pur la lena manca. -Ma la virtù, ch'ai suoi spesso soccorre, -gli fa appo Norandin trovar perdono. -Il re, mentre al tumulto in dubbio corre, -vede che morti già tanti ne sono: -vede le piaghe che di man d'Ettorre -pareano uscite: un testimonio buono, -che dianzi esso avea fatto indegnamente -vergogna a un cavallier molto eccellente. -Poi, come gli è più presso, e vede in fronte -quel che la gente a morte gli ha condutta, -e fattosene avanti orribil monte, -e di quel sangue il fosso e l'acqua brutta; -gli è aviso di veder proprio sul ponte -Orazio sol contra Toscana tutta: -e per suo onore, e perché gli ne 'ncrebbe, -ritrasse i suoi, né gran fatica v'ebbe. -Ed alzando la man nuda e senz'arme, -antico segno di tregua o di pace, -disse a Grifon: — Non so, se non chiamarme -d'avere il torto, e dir che mi dispiace: -ma il mio poco giudicio, e lo istigarme -altrui, cadere in tanto error mi face. -Quel che di fare io mi credea al più vile -guerrier del mondo, ho fatto al più gentile. -E se bene alla ingiuria ed a quell'onta -ch'oggi fatta ti fu per ignoranza, -l'onor che ti fai qui s'adegua e sconta, -o (per più vero dir) supera e avanza; -la satisfazion ci serà pronta -a tutto mio sapere e mia possanza, -quando io conosca di poter far quella -per oro o per cittadi o per castella. -Chiedimi la metà di questo regno, -ch'io son per fartene oggi possessore; -che l'alta tua virtù non ti fa degno -di questo sol, ma ch'io ti doni il core: -e la tua mano in questo mezzo, pegno -di fé mi dona e di perpetuo amore. — -Così dicendo, da cavallo scese, -e vêr Grifon la destra mano stese. -Grifon, vedendo il re fatto benigno -venirgli per gittar le braccia al collo, -lasciò la spada e l'animo maligno, -e sotto l'anche ed umile abbracciollo. -Lo vide il re di due piaghe sanguigno, -e tosto fe' venir chi medicollo; -indi portar ne la cittade adagio, -e riposar nel suo real palagio. -Dove, ferito, alquanti giorni, inante -che si potesse armar, fece soggiorno. -Ma lascio lui, ch'al suo frate Aquilante -ed ad Astolfo in Palestina torno, -che di Grifon, poi che lasciò le sante -mura, cercare han fatto più d'un giorno -in tutti i lochi in Solima devoti, -e in molti ancor da la città remoti. -Or né l'uno né l'altro è sì indovino, -che di Grifon possa saper che sia: -ma venne lor quel Greco peregrino, -nel ragionare, a caso a darne spia, -dicendo ch'Orrigille avea il camino -verso Antiochia preso di Soria, -d'un nuovo drudo, ch'era di quel loco, -di subito arsa e d'improviso fuoco. -Dimandògli Aquilante, se di questo -così notizia avea data a Grifone: -e come l'affermò, s'avisò il resto, -perché fosse partito, e la cagione. -Ch'Orrigille ha seguito è manifesto -in Antiochia con intenzione -di levarla di man del suo rivale -con gran vendetta e memorabil male. -Non tolerò Aquilante che 'l fratello -solo e senz'esso a quell'impresa andasse; -e prese l'arme, e venne dietro a quello: -ma prima pregò il duca che tardasse -l'andata in Francia ed al paterno ostello, -fin ch'esso d'Antiochia ritornasse. -Scende al Zaffo e s'imbarca, che gli pare -e più breve e miglior la via del mare. -Ebbe un ostro—silocco allor possente -tanto nel mare, e sì per lui disposto, -che la terra del Surro il dì seguente -vide e Saffetto, un dopo l'altro tosto. -Passa Barutti e il Zibeletto, e sente -che da man manca gli è Cipro discosto. -A Tortosa da Tripoli, e alla Lizza -e al golfo di Laiazzo il camin drizza. -Quindi a levante fe' il nocchier la fronte -del navilio voltar snello e veloce; -ed a sorger n'andò sopra l'Oronte, -e colse il tempo, e ne pigliò la foce. -Gittar fece Aquilante in terra il ponte, -e n'uscì armato sul destrier feroce; -e contra il fiume il camin dritto tenne, -tanto ch'in Antiochia se ne venne. -Di quel Martano ivi ebbe ad informarse; -ed udì ch'a Damasco se n'era ito -con Orrigille, ove una giostra farse -dovea solenne per reale invito. -Tanto d'andargli dietro il desir l'arse, -certo che 'l suo german l'abbia seguito, -che d'Antiochia anco quel dì si tolle; -ma già per mar più ritornar non volle. -Verso Lidia e Larissa il camin piega: -resta più sopra Aleppe ricca e piena. -Dio, per mostrar ch'ancor di qua non niega -mercede al bene, ed al contrario pena, -Martano appresso a Mamuga una lega -ad incontrarsi in Aquilante mena. -Martano si facea con bella mostra -portare inanzi il pregio de la giostra. -Pensò Aquilante al primo comparire, -che 'l vil Martano il suo fratello fosse; -che l'ingannaron l'arme, e quel vestire -candido più che nievi ancor non mosse: -e con quell'oh! che d'allegrezza dire -si suole, incominciò; ma poi cangiosse -tosto di faccia e di parlar, ch'appresso -s'avide meglio, che non era desso. -Dubitò che per fraude di colei -ch'era con lui, Grifon gli avesse ucciso; -e: — Dimmi (gli gridò) tu ch'esser déi -un ladro e un traditor, come n'hai viso, -onde hai quest'arme avute? onde ti sei -sul buon destrier del mio fratello assiso? -Dimmi se 'l mio fratello è morto o vivo; -come de l'arme e del destrier l'hai privo. — -Quando Orrigille udì l'irata voce, -a dietro il palafren per fuggir volse; -ma di lei fu Aquilante più veloce, -e fecela fermar, volse o non volse. -Martano al minacciar tanto feroce -del cavallier, che sì improviso il colse, -pallido triema, come al vento fronda, -né sa quel che si faccia o che risponda. -Grida Aquilante, e fulminar non resta, -e la spada gli pon dritto alla strozza; -e giurando minaccia che la testa -ad Orrigille e a lui rimarrà mozza, -se tutto il fatto non gli manifesta. -Il mal giunto Martano alquanto ingozza, -e tra sé volve se può sminuire -sua grave colpa, e poi comincia a dire: -— Sappi, signor, che mia sorella è questa, -nata di buona e virtuosa gente, -ben che tenuta in vita disonesta -l'abbia Grifone obbrobriosamente: -e tale infamia essendomi molesta, -né per forza sentendomi possente -di torla a sì grande uom, feci disegno -d'averla per astuzia e per ingegno. -Tenni modo con lei, ch'avea desire -di ritornare a più lodata vita, -ch'essendosi Grifon messo a dormire, -chetamente da lui fêsse partita. -Così fece ella; e perché egli a seguire -non n'abbia, ed a turbar la tela ordita, -noi lo lasciammo disarmato e a piedi; -e qua venuti siàn, come tu vedi. — -Poteasi dar di somma astuzia vanto, -che colui facilmente gli credea; -e, fuor che 'n torgli arme e destrier e quanto -tenesse di Grifon, non gli nocea; -se non volea pulir sua scusa tanto, -che la facesse di menzogna rea: -buona era ogn'altra parte, se non quella -che la femina a lui fosse sorella. -Avea Aquilante in Antiochia inteso -essergli concubina, da più genti; -onde gridando, di furore acceso: -— Falsissimo ladron, tu te ne menti! — -un pugno gli tirò di tanto peso, -che ne la gola gli cacciò duo denti: -e senza più contesa, ambe le braccia -gli volge dietro, e d'una fune allaccia; -e parimente fece ad Orrigille, -ben che in sua scusa ella dicesse assai. -Quindi li trasse per casali e ville, -né li lasciò fin a Damasco mai; -e de le miglia mille volte mille -tratti gli avrebbe con pene e con guai, -fin ch'avesse trovato il suo fratello, -per farne poi come piacesse a quello. -Fece Aquilante lor scudieri e some -seco tornare, ed in Damasco venne, -e trovò di Grifon celebre il nome -per tutta la città batter le penne: -piccoli e grandi, ognun sapea già come -egli era, che sì ben corse l'antenne, -ed a cui tolto fu con falsa mostra -dal compagno la gloria de la giostra. -Il popul tutto al vil Martano infesto, -l'uno all'altro additandolo, lo scuopre. -— Non è (dicean), non è il ribaldo questo, -che si fa laude con l'altrui buone opre? -e la virtù di chi non è ben desto, -con la sua infamia e col suo obbrobrio copre? -Non è l'ingrata femina costei, -la qual tradisce i buoni e aiuta i rei? — -Altri dicean: — Come stan bene insieme -segnati ambi d'un marchio e d'una razza! — -Chi li bestemmia, chi lor dietro freme, -chi grida: — Impicca, abrucia, squarta, amazza! — -La turba per veder s'urta, si preme, -e corre inanzi alle strade, alla piazza. -Venne la nuova al re, che mostrò segno -d'averla cara più ch'un altro regno. -Senza molti scudier dietro o davante, -come si ritrovò, si mosse in fretta, -e venne ad incontrarsi in Aquilante, -ch'avea del suo Grifon fatto vendetta; -e quello onora con gentil sembiante, -seco lo 'nvita, e seco lo ricetta; -di suo consenso avendo fatto porre -i duo prigioni in fondo d'una torre. -Andaro insieme ove del letto mosso -Grifon non s'era, poi che fu ferito, -che vedendo il fratel, divenne rosso; -che ben stimò ch'avea il suo caso udito. -E poi che motteggiando un poco adosso -gli andò Aquilante, messero a partito -di dare a quelli duo iusto martoro, -venuti in man degli avversari loro. -Vuole Aquilante, vuole il re che mille -strazi ne sieno fatti; ma Grifone -(perché non osa dir sol d'Orrigille) -all'uno e all'altro vuol che si perdone. -Disse assai cose, e molto ben ordille; -fugli risposto; or per conclusione -Martano è disegnato in mano al boia, -ch'abbia a scoparlo, e non però che moia. -Legar lo fanno, e non tra' fiori e l'erba, -e per tutto scopar l'altra matina. -Orrigille captiva si riserba -fin che ritorni la bella Lucina, -al cui saggio parere, o lieve o acerba, -rimetton quei signor la disciplina. -Quivi stette Aquilante a ricrearsi -fin che 'l fratel fu sano e poté armarsi. -Re Norandin, che temperato e saggio -divenuto era dopo un tanto errore, -non potea non aver sempre il coraggio -di penitenza pieno e di dolore, -d'aver fatto a colui danno ed oltraggio, -che degno di mercede era e d'onore: -sì che dì e notte avea il pensiero intento -par farlo rimaner di sé contento. -E statuì nel publico cospetto -de la città, di tanta ingiuria rea, -con quella maggior gloria ch'a perfetto -cavallier per un re dar si potea, -di rendergli quel premio ch'intercetto -con tanto inganno il traditor gli avea: -e perciò fe' bandir per quel paese, -che faria un'altra giostra indi ad un mese. -Di ch'apparecchio fa tanto solenne, -quanto a pompa real possibil sia: -onde la Fama con veloci penne -portò la nuova per tutta Soria; -ed in Fenicia e in Palestina venne, -e tanto, ch'ad Astolfo ne diè spia, -il qual col viceré deliberosse -che quella giostra senza lor non fosse. -Per guerrier valoroso e di gran nome -la vera istoria Sansonetto vanta. -Gli diè battesmo Orlando, e Carlo (come -v'ho detto) a governar la Terra Santa. -Astolfo con costui levò le some, -per ritrovarsi ove la Fama canta, -sì che d'intorno n'ha piena ogni orecchia, -ch'in Damasco la giostra s'apparecchia. -Or cavalcando per quelle contrade -con non lunghi viaggi, agiati e lenti, -per ritrovarsi freschi alla cittade -poi di Damasco il dì de' torniamenti, -scontraro in una croce di due strade -persona ch'al vestire e a' movimenti -avea sembianza d'uomo, e femin' era, -ne le battaglie a maraviglia fiera. -La vergine Marfisa si nomava, -di tal valor, che con la spada in mano -fece più volte al gran signor di Brava -sudar la fronte e a quel di Montalbano; -e 'l dì e la notte armata sempre andava -di qua di là cercando in monte e in piano -con cavallieri erranti riscontrarsi, -ed immortale e gloriosa farsi. -Com'ella vide Astolfo e Sansonetto, -ch'appresso le venian con l'arme indosso, -prodi guerrier le parvero all'aspetto; -ch'erano ambeduo grandi e di buono osso: -e perché di provarsi avria diletto, -per isfidarli avea il destrier già mosso; -quando, affissando l'occhio più vicino, -conosciuto ebbe il duca paladino. -De la piacevolezza le sovenne -del cavallier, quando al Catai seco era: -e lo chiamò per nome, e non si tenne -la man nel guanto, e alzossi la visiera; -e con gran festa ad abbracciarlo venne, -come che sopra ogn'altra fosse altiera. -Non men da l'altra parte riverente -fu il paladino alla donna eccellente. -Tra lor si domandaron di lor via: -e poi ch'Astolfo, che prima rispose, -narrò come a Damasco se ne gìa, -dove le genti in arme valorose -avea invitato il re de la Soria -a dimostrar lor opre virtuose; -Marfisa, sempre a far gran pruove accesa, -— Voglio esser con voi (disse) a questa impresa. — -Sommamente ebbe Astolfo grata questa -compagna d'arme, e così Sansonetto. -Furo a Damasco il dì inanzi la festa, -e di fuora nel borgo ebbon ricetto: -e sin all'ora che dal sonno desta -l'Aurora il vecchiarel già suo diletto, -quivi si riposar con maggior agio, -che se smontati fossero al palagio. -E poi che 'l nuovo sol lucido e chiaro -per tutto sparsi ebbe i fulgenti raggi, -la bella donna e i duo guerrier s'armaro, -mandato avendo alla città messaggi; -che, come tempo fu, lor rapportaro -che per veder spezzar frassini e faggi -re Norandino era venuto al loco -ch'avea costituito al fiero gioco. -Senza più indugio alla città ne vanno, -e per la via maestra alla gran piazza, -dove aspettando il real segno stanno -quinci e quindi i guerrier di buona razza. -I premi che quel giorno si daranno -a chi vince, è uno stocco ed una mazza -guerniti riccamente, e un destrier, quale -sia convenevol dono a un signor tale. -Avendo Norandin fermo nel core -che, come il primo pregio, il secondo anco, -e d'ambedue le giostre il sommo onore -si debba guadagnar Grifone il bianco; -per dargli tutto quel ch'uom di valore -dovrebbe aver, né debbe far con manco, -posto con l'arme in questo ultimo pregio -ha stocco e mazza e destrier molto egregio. -L'arme che ne la giostra fatta dianzi -si doveano a Grifon che 'l tutto vinse, -e che usurpate avea con tristi avanzi -Martano che Grifone esser si finse, -quivi si fece il re pendere inanzi, -e il ben guernito stocco a quelle cinse, -e la mazza all'arcion del destrier messe, -perché Grifon l'un pregio e l'altro avesse. -Ma che sua intenzione avesse effetto -vietò quella magnanima guerriera, -che con Astolfo e col buon Sansonetto -in piazza nuovamente venuta era. -Costei, vedendo l'arme ch'io v'ho detto, -subito n'ebbe conoscenza vera: -però che già sue furo, e l'ebbe care -quanto si suol le cose ottime e rare; -ben che l'avea lasciate in su la strada -a quella volta che le fur d'impaccio, -quando per riaver sua buona spada -correa dietro a Brunel degno di laccio. -Questa istoria non credo che m'accada -altrimenti narrar; però la taccio. -Da me vi basti intendere a che guisa -quivi trovasse l'arme sue Marfisa. -Intenderete ancor, che come l'ebbe -riconosciute a manifeste note, -per altro che sia al mondo, non le avrebbe -lasciate un dì di sua persona vote. -Se più tenere un modo o un altro debbe -per racquistarle, ella pensar non puote: -ma se gli accosta a un tratto, e la man stende, -e senz'altro rispetto se le prende; -e per la fretta ch'ella n'ebbe, avenne -ch'altre ne prese, altre mandonne in terra. -Il re, che troppo offeso se ne tenne, -con uno sguardo sol le mosse guerra; -che 'l popul, che l'ingiuria non sostenne, -per vendicarlo e lance e spade afferra, -non rammentando ciò ch'i giorni inanti -nocque il dar noia ai cavallieri erranti. -Né fra vermigli fiori, azzurri e gialli -vago fanciullo alla stagion novella, -né mai si ritrovò fra suoni e balli -più volentieri ornata donna e bella; -che fra strepito d'arme e di cavalli, -e fra punte di lance e di quadrella, -dove si sparga sangue e si dia morte, -costei si truovi, oltre ogni creder forte. -Spinge il cavallo, e ne la turba sciocca -con l'asta bassa impetuosa fere; -e chi nel collo e chi nel petto imbrocca, -e fa con l'urto or questo or quel cadere: -poi con la spada uno ed un altro tocca, -e fa qual senza capo rimanere, -e qual rotto, e qual passato al fianco, -e qual del braccio privo o destro o manco. -L'ardito Astolfo e il forte Sansonetto, -ch'avean con lei vestita e piastra e maglia, -ben che non venner già per tal effetto, -pur, vedendo attaccata la battaglia, -abbassan la visiera de l'elmetto, -e poi la lancia per quella canaglia; -ed indi van con la tagliente spada -di qua di là facendosi far strada. -I cavallieri di nazion diverse, -ch'erano per giostrar quivi ridutti, -vedendo l'arme in tal furor converse, -e gli aspettati giuochi in gravi lutti -(che la cagion ch'avesse di dolerse -la plebe irata non sapeano tutti, -né ch'al re tanta ingiuria fosse fatta), -stavan con dubbia mente e stupefatta. -Di ch'altri a favorir la turba venne, -che tardi poi non se ne fu a pentire; -altri, a cui la città più non attenne -che gli stranieri, accorse a dipartire; -altri, più saggio, in man la briglia tenne, -mirando dove questo avesse a uscire. -Di quelli fu Grifone ed Aquilante, -che per vendicar l'arme andaro inante. -Essi vedendo il re che di veneno -avea le luci inebriate e rosse, -ed essendo da molti istrutti a pieno -de la cagion che la discordia mosse, -e parendo a Grifon che sua, non meno -che del re Norandin, l'ingiuria fosse; -s'avean le lance fatte dar con fretta, -e venian fulminando alla vendetta. -Astolfo d'altra parte Rabicano -venìa spronando a tutti gli altri inante, -con l'incantata lancia d'oro in mano, -ch'al fiero scontro abbatte ogni giostrante. -Ferì con essa e lasciò steso al piano -prima Grifone, e poi trovò Aquilante; -e de lo scudo toccò l'orlo a pena, -che lo gittò riverso in su l'arena. -I cavallier di pregio e di gran pruova -votan le selle inanzi a Sansonetto. -L'uscita de la piazza il popul truova: -il re n'arrabbia d'ira e di dispetto. -Con la prima corazza e con la nuova -Marfisa intanto, e l'uno e l'altro elmetto, -poi che si vide a tutti dare il tergo, -vincitrice venìa verso l'albergo. -Astolfo e Sansonetto non fur lenti -a seguitarla, e seco a ritornarsi -verso la porta (che tutte le genti -gli davan loco), ed al rastrel fermarsi. -Aquilante e Grifon, troppo dolenti -di vedersi a uno incontro riversarsi, -tenean per gran vergogna il capo chino, -né ardian venire inanzi a Norandino. -Presi e montati c'hanno i lor cavalli, -spronano dietro agli nimici in fretta. -Li segue il re con molti suoi vasalli, -tutti pronti o alla morte o alla vendetta. -La sciocca turba grida: — Dàlli dàlli —; -e sta lontana, e le novelle aspetta. -Grifone arriva ove volgean la fronte -i tre compagni, ed avean preso il ponte. -A prima giunta Astolfo raffigura, -ch'avea quelle medesime divise, -avea il cavallo, avea quella armatura -ch'ebbe dal dì ch'Orril fatale uccise. -Né miratol, né posto gli avea cura, -quando in piazza a giostrar seco si mise: -quivi il conobbe e salutollo; e poi -gli domandò de li compagni suoi; -e perché tratto avean quell'arme a terra, -portando al re sì poca riverenza. -Di suoi compagni il duca d'Inghilterra -diede a Grifon non falsa conoscenza: -de l'arme ch'attaccate avean la guerra, -disse che non n'avea troppa scienza; -ma perché con Marfisa era venuto, -dar le volea con Sansonetto aiuto. -Quivi con Grifon stando il paladino, -viene Aquilante, e lo conosce tosto -che parlar col fratel l'ode vicino, -e il voler cangia, ch'era mal disposto. -Giungean molti di quei di Norandino, -ma troppo non ardian venire accosto; -e tanto più, vedendo i parlamenti, -stavano cheti, e per udire intenti. -Alcun ch'intende quivi esser Marfisa, -che tiene al mondo il vanto in esser forte, -volta il cavallo, e Norandino avisa -che s'oggi non vuol perder la sua corte, -proveggia, prima che sia tutta uccisa, -di man trarla a Tesifone e alla Morte; -perché Marfisa veramente è stata, -che l'armatura in piazza gli ha levata. -Come re Norandino ode quel nome -così temuto per tutto Levante, -che facea a molti anco arricciar le chiome, -ben che spesso da lor fosse distante, -è certo che ne debbia venir come -dice quel suo, se non provede inante; -però gli suoi, che già mutata l'ira -hanno in timore, a sé richiama e tira. -Da l'altra parte i figli d'Oliviero -con Sansonetto e col figliuol d'Otone, -supplicando a Marfisa, tanto fero, -che si diè fine alla crudel tenzone. -Marfisa, giunta al re, con viso altiero -disse: — Io non so, signor, con che ragione -vogli quest'arme dar, che tue non sono, -al vincitor de le tue giostre in dono. -Mie sono l'arme, e 'n mezzo de la via -che vien d'Armenia, un giorno le lasciai, -perché seguire a piè mi convenia -un rubator che m'avea offesa assai: -e la mia insegna testimon ne fia, -che qui si vede, se notizia n'hai. — -E la mostrò ne la corazza impressa, -ch'era in tre parti una corona fessa. -— Gli è ver (rispose il re) che mi fur date, -son pochi dì, da un mercatante armeno; -e se voi me l'avesse domandate, -l'avreste avute, o vostre o no che sièno; -ch'avenga ch'a Grifon già l'ho donate, -ho tanta fede in lui, che nondimeno, -acciò a voi darle avessi anche potuto, -volentieri il mio don m'avria renduto. -Non bisogna allegar, per farmi fede -che vostre sien, che tengan vostra insegna: -basti il dirmelo voi; che vi si crede -più ch'a qual altro testimonio vegna. -Che vostre sian vostr'arme si concede -alla virtù di maggior premio degna. -Or ve l'abbiate, e più non si contenda; -e Grifon maggior premio da me prenda. — -Grifon che poco a cor avea quell'arme, -ma gran disio che 'l re si satisfaccia, -gli disse: — Assai potete compensarme, -se mi fate saper ch'io vi compiaccia. — -Tra sé disse Marfisa: — Esser qui parme -l'onor mio in tutto: — e con benigna faccia -volle a Grifon de l'arme esser cortese; -e finalmente in don da lui le prese. -Ne la città con pace e con amore -tornaro, ove le feste raddoppiarsi. -Poi la giostra si fe', di che l'onore -e 'l pregio Sansonetto fece darsi; -ch'Astolfo e i duo fratelli e la migliore -di lor, Marfisa, non volson provarsi, -cercando, com'amici e buon compagni, -che Sansonetto il pregio ne guadagni. -Stati che sono in gran piacere e in festa -con Norandino otto giornate o diece, -perché l'amor di Francia gli molesta, -che lasciar senza lor tanto non lece, -tolgon licenza; e Marfisa, che questa -via disiava, compagnia lor fece. -Marfisa avuto avea lungo disire -al paragon dei paladin venire; -e far esperienza se l'effetto -si pareggiava a tanta nominanza. -Lascia un altro in suo loco Sansonetto, -che di Ierusalem regga la stanza. -Or questi cinque in un drappello eletto, -che pochi pari al mondo han di possanza, -licenziati dal re Norandino, -vanno a Tripoli e al mar che v'è vicino. -E quivi una caracca ritrovaro, -che per Ponente mercanzie raguna. -Per loro e pei cavalli s'accordaro -con un vecchio patron ch'era da Luna. -Mostrava d'ogn'intorno il tempo chiaro, -ch'avrian per molti dì buona fortuna. -Sciolser dal lito, avendo aria serena, -e di buon vento ogni lor vela piena. -L'isola sacra all'amorosa dea -diede lor sotto un'aria il primo porto, -che non ch'a offender gli uomini sia rea, -ma stempra il ferro, e quivi è 'l viver corto. -Cagion n'è un stagno: e certo non dovea -Natura a Famagosta far quel torto -d'appressarvi Costanza acre e maligna, -quando al resto di Cipro è sì benigna. -Il grave odor che la palude esala -non lascia al legno far troppo soggiorno. -Quindi a un greco—levante spiegò ogni ala, -volando da man destra a Cipro intorno, -e surse a Pafo, e pose in terra scala; -e i naviganti uscir nel lito adorno, -chi per merce levar, chi per vedere -la terra d'amor piena e di piacere. -Dal mar sei miglia o sette, a poco a poco -si va salendo inverso il colle ameno. -Mirti e cedri e naranci e lauri il loco, -e mille altri soavi arbori han pieno. -Serpillo e persa e rose e gigli e croco -spargon da l'odorifero terreno -tanta suavità, ch'in mar sentire -la fa ogni vento che da terra spire. -Da limpida fontana tutta quella -piaggia rigando va un ruscel fecondo. -Ben si può dir che sia di Vener bella -il luogo dilettevole e giocondo; -che v'è ogni donna affatto, ogni donzella -piacevol più ch'altrove sia nel mondo: -e fa la dea che tutte ardon d'amore, -giovani e vecchie, infino all'ultime ore. -Quivi odono il medesimo ch'udito -di Lucina e de l'Orco hanno in Soria, -e come di tornare ella a marito -facea nuovo apparecchio in Nicosia. -Quindi il padrone (essendosi espedito, -e spirando buon vento alla sua via) -l'ancore sarpa, e fa girar la proda -verso ponente, ed ogni vela snoda. -Al vento di maestro alzò la nave -le vele all'orza, ed allargossi in alto. -Un ponente—libecchio, che soave -parve a principio e fin che 'l sol stette alto, -e poi si fe' verso la sera grave, -le leva incontra il mar con fiero assalto, -con tanti tuoni e tanto ardor di lampi, -che par che 'l ciel si spezzi e tutto avampi. -Stendon le nubi un tenebroso velo -che né sole apparir lascia né stella. -Di sotto il mar, di sopra mugge il cielo, -il vento d'ogn'intorno, e la procella -che di pioggia oscurissima e di gelo -i naviganti miseri flagella: -e la notte più sempre si diffonde -sopra l'irate e formidabil onde. -I naviganti a dimostrare effetto -vanno de l'arte in che lodati sono: -chi discorre fischiando col fraschetto, -e quanto han gli altri a far, mostra col suono; -chi l'ancore apparechia da rispetto, -e chi al mainare e chi alla scotta è buono; -chi 'l timone, chi l'arbore assicura, -chi la coperta di sgombrare ha cura. -Crebbe il tempo crudel tutta la notte, -caliginosa e più scura ch'inferno. -Tien per l'alto il padrone, ove men rotte -crede l'onde trovar, dritto il governo; -e volta ad or ad or contra le botte -del mar la proda, e de l'orribil verno, -non senza speme mai che, come aggiorni, -cessi fortuna, o più placabil torni. -Non cessa e non si placa, e più furore -mostra nel giorno, se pur giorno è questo, -che si conosce al numerar de l'ore, -non che per lume già sia manifesto. -Or con minor speranza e più timore -si dà in poter del vento il padron mesto: -volta la poppa all'onde, e il mar crudele -scorrendo se ne va con umil vele. -Mentre Fortuna in mar questi travaglia, -non lascia anco posar quegli altri in terra, -che sono in Francia, ove s'uccide e taglia -coi Saracini il popul d'Inghilterra. -Quivi Rinaldo assale, apre e sbaraglia -le schiere avverse, e le bandiere atterra. -Dissi di lui, che 'l suo destrier Baiardo -mosso avea contra a Dardinel gagliardo. -Vide Rinaldo il segno del quartiero, -di che superbo era il figliuol d'Almonte; -e lo stimò gagliardo e buon guerriero, -che concorrer d'insegna ardia col conte. -Venne più appresso, e gli parea più vero; -ch'avea d'intorno uomini uccisi a monte. -— Meglio è (gridò) che prima io svella e spenga -questo mal germe, che maggior divenga. — -Dovunque il viso drizza il paladino, -levasi ognuno, e gli dà larga strada; -né men sgombra il fedel, che 'l Saracino, -sì reverita è la famosa spada. -Rinaldo, fuor che Dardinel meschino, -non vede alcuno, e lui seguir non bada. -Grida: — Fanciullo, gran briga ti diede -chi ti lasciò di questo scudo erede. -Vengo a te per provar, se tu m'attendi, -come ben guardi il quartier rosso e bianco; -che s'ora contra me non lo difendi, -difender contra Orlando il potrai manco. — -Rispose Dardinello: — Or chiaro apprendi -che s'io lo porto, il so difender anco; -e guadagnar più onor, che briga, posso -del paterno quartier candido e rosso. -Perché fanciullo io sia, non creder farme -però fuggire, o che 'l quartier ti dia: -la vita mi torrai, se mi toi l'arme; -ma spero in Dio ch'anzi il contrario fia. -Sia quel che vuol, non potrà alcun biasmarme -che mai traligni alla progenie mia. — -Così dicendo, con la spada in mano -assalse il cavallier da Montalbano. -Un timor freddo tutto 'l sangue oppresse, -che gli Africani aveano intorno al core, -come vider Rinaldo che si messe -con tanta rabbia incontra a quel signore, -con quanta andria un leon ch'al prato avesse -visto un torel ch'ancor non senta amore. -Il primo che ferì, fu 'l Saracino; -ma picchiò invan su l'elmo di Mambrino. -Rise Rinaldo, e disse: — Io vo' tu senta, -s'io so meglio di te trovar la vena. — -Sprona, e a un tempo al destrier la briglia allenta, -e d'una punta con tal forza mena, -d'una punta ch'al petto gli appresenta, -che gli la fa apparir dietro alla schena. -Quella trasse, al tornar, l'alma col sangue: -di sella il corpo uscì freddo ed esangue. -Come purpureo fior languendo muore, -che 'l vomere al passar tagliato lassa; -o come carco di superchio umore -il papaver ne l'orto il capo abbassa: -così, giù de la faccia ogni colore -cadendo, Dardinel di vita passa; -passa di vita, e fa passar con lui -l'ardire e la virtù de tutti i sui. -Qual soglion l'acque per umano ingegno -stare ingorgate alcuna volta e chiuse, -che quando lor vien poi rotto il sostegno, -cascano, e van con gran rumor difuse; -tal gli African, ch'avean qualche ritegno -mentre virtù lor Dardinello infuse, -ne vanno or sparti in questa parte e in quella, -che l'han veduto uscir morto di sella. -Chi vuol fuggir, Rinaldo fuggir lassa, -ed attende a cacciar chi vuol star saldo. -Si cade ovunque Ariodante passa, -che molto va quel dì presso a Rinaldo. -Altri Lionetto, altri Zerbin fracassa, -a gara ognuno a far gran prove caldo. -Carlo fa il suo dover, lo fa Oliviero, -Turpino e Guido e Salamone e Ugiero. -I Mori fur quel giorno in gran periglio -che 'n Pagania non ne tornasse testa; -ma 'l saggio re di Spagna dà di piglio, -e se ne va con quel che in man gli resta. -Restar in danno tien miglior consiglio, -che tutti i denar perdere e la vesta: -meglio è ritrarsi e salvar qualche schiera, -che, stando, esser cagion che 'l tutto pèra. -Verso gli alloggiamenti i segni invia, -ch'eron serrati d'argine e di fossa, -con Stordilan, col re d'Andologia, -col Portughese in una squadra grossa. -Manda a pregar il re di Barbaria, -che si cerchi ritrar meglio che possa; -e se quel giorno la persona e 'l loco -potrà salvar, non avrà fatto poco. -Quel re che si tenea spacciato al tutto, -né mai credea più riveder Biserta, -che con viso sì orribile e sì brutto -unquanco non avea Fortuna esperta, -s'allegrò che Marsilio avea ridutto -parte del campo in sicurezza certa: -ed a ritrarsi cominciò, e a dar volta -alle bandiere, e fe' sonar raccolta. -Ma la più parte de la gente rotta -né tromba né tambur né segno ascolta: -tanta fu la viltà, tanta la dotta, -ch'in Senna se ne vide affogar molta. -Il re Agramante vuol ridur la frotta: -seco ha Sobrino, e van scorrendo in volta; -e con lor s'affatica ogni buon duca, -che nei ripari il campo si riduca. -Ma né il re, né Sobrin, né duca alcuno -con prieghi, con minacce, con affanno -ritrar può il terzo, non ch'io dica ognuno, -dove l'insegne mal seguite vanno. -Morti o fuggiti ne son dua, per uno -che ne rimane, e quel non senza danno: -ferito è chi di dietro e chi davanti; -ma travagliati e lassi tutti quanti. -E con gran tema fin dentro alle porte -dei forti alloggiamenti ebbon la caccia: -ed era lor quel luogo anco mal forte, -con ogni proveder che vi si faccia -(che ben pigliar nel crin la buona sorte -Carlo sapea, quando volgea la faccia), -se non venia la notte tenebrosa, -che staccò il fatto, ed acquetò ogni cosa; -dal Creator accelerata forse, -che de la sua fattura ebbe pietade. -Ondeggiò il sangue per campagna, e corse -come un gran fiume, e dilagò le strade. -Ottantamila corpi numerorse, -che fur quel dì messi per fil di spade. -Villani e lupi uscir poi de le grotte -a dispogliargli e a devorar la notte. -Carlo non torna più dentro alla terra, -ma contra gli nimici fuor s'accampa, -ed in assedio le lor tende serra, -ed alti e spessi fuochi intorno avampa. -Il pagan si provede, e cava terra, -fossi e ripari e bastioni stampa; -va rivedendo, e tien le guardie deste, -né tutta notte mai l'arme si sveste. -Tutta la notte per gli alloggiamenti -dei malsicuri Saracini oppressi -si versan pianti, gemiti e lamenti, -ma quanto più si può, cheti e soppressi. -Altri, perché gli amici hanno e i parenti -lasciati morti, ed altri per se stessi, -che son feriti, e con disagio stanno: -ma più è la tema del futuro danno. -Duo Mori ivi fra gli altri si trovaro, -d'oscura stirpe nati in Tolomitta; -de' quai l'istoria, per esempio raro -di vero amore, è degna esser descritta. -Cloridano e Medor si nominaro, -ch'alla fortuna prospera e alla afflitta -aveano sempre amato Dardinello, -ed or passato in Francia il mar con quello. -Cloridan, cacciator tutta sua vita, -di robusta persona era ed isnella: -Medoro avea la guancia colorita -e bianca e grata ne la età novella; -e fra la gente a quella impresa uscita -non era faccia più gioconda e bella: -occhi avea neri, e chioma crespa d'oro: -angel parea di quei del sommo coro. -Erano questi duo sopra i ripari -con molti altri a guardar gli alloggiamenti, -quando la Notte fra distanze pari -mirava il ciel con gli occhi sonnolenti. -Medoro quivi in tutti i suoi parlari -non può far che 'l signor suo non rammenti, -Dardinello d'Almonte, e che non piagna -che resti senza onor ne la campagna. -Volto al compagno, disse: — O Cloridano, -io non ti posso dir quanto m'incresca -del mio signor, che sia rimaso al piano, -per lupi e corbi, ohimé! troppo degna esca. -Pensando come sempre mi fu umano, -mi par che quando ancor questa anima esca -in onor di sua fama, io non compensi -né sciolga verso lui gli oblighi immensi. -Io voglio andar, perché non stia insepulto -in mezzo alla campagna, a ritrovarlo: -e forse Dio vorrà ch'io vada occulto -là dove tace il campo del re Carlo. -Tu rimarrai; che quando in ciel sia sculto -ch'io vi debba morir, potrai narrarlo: -che se Fortuna vieta sì bell'opra, -per fama almeno il mio buon cor si scuopra. — -Stupisce Cloridan, che tanto core, -tanto amor, tanta fede abbia un fanciullo: -e cerca assai, perché gli porta amore, -di fargli quel pensiero irrito e nullo; -ma non gli val, perch'un sì gran dolore -non riceve conforto né trastullo. -Medoro era disposto o di morire, -o ne la tomba il suo signor coprire. -Veduto che nol piega e che nol muove, -Cloridan gli risponde: — E verrò anch'io, -anch'io vuo' pormi a sì lodevol pruove, -anch'io famosa morte amo e disio. -Qual cosa sarà mai che più mi giove, -s'io resto senza te, Medoro mio? -Morir teco con l'arme è meglio molto, -che poi di duol, s'avvien che mi sii tolto. — -Così disposti, messero in quel loco -le successive guardie, e se ne vanno. -Lascian fosse e steccati, e dopo poco -tra' nostri son, che senza cura stanno. -Il campo dorme, e tutto è spento il fuoco, -perché dei Saracin poca tema hanno. -Tra l'arme e' carriaggi stan roversi, -nel vin, nel sonno insino agli occhi immersi. -Fermossi alquanto Cloridano, e disse: -— Non son mai da lasciar l'occasioni. -Di questo stuol che 'l mio signor trafisse, -non debbo far, Medoro, occisioni? -Tu, perché sopra alcun non ci venisse, -gli occhi e l'orecchi in ogni parte poni; -ch'io m'offerisco farti con la spada -tra gli nimici spaziosa strada. — -Così disse egli, e tosto il parlar tenne, -ed entrò dove il dotto Alfeo dormia, -che l'anno inanzi in corte a Carlo venne, -medico e mago e pien d'astrologia: -ma poco a questa volta gli sovenne; -anzi gli disse in tutto la bugia. -Predetto egli s'avea, che d'anni pieno -dovea morire alla sua moglie in seno: -ed or gli ha messo il cauto Saracino -la punta de la spada ne la gola. -Quattro altri uccide appresso all'indovino, -che non han tempo a dire una parola: -menzion dei nomi lor non fa Turpino, -e 'l lungo andar le lor notizie invola: -dopo essi Palidon da Moncalieri, -che sicuro dormia fra duo destrieri. -Poi se ne vien dove col capo giace -appoggiato al barile il miser Grillo: -avealo voto, e avea creduto in pace -godersi un sonno placido e tranquillo. -Troncògli il capo il Saracino audace: -esce col sangue il vin per uno spillo, -di che n'ha in corpo più d'una bigoncia; -e di ber sogna, e Cloridan lo sconcia. -E presso a Grillo, un Greco ed un Tedesco -spenge in dui colpi, Andropono e Conrado, -che de la notte avean goduto al fresco -gran parte, or con la tazza, ora col dado: -felici, se vegghiar sapeano a desco -fin che de l'Indo il sol passassi il guado. -Ma non potria negli uomini il destino, -se del futuro ognun fosse indovino. -Come impasto leone in stalla piena, -che lunga fame abbia smacrato e asciutto, -uccide, scanna, mangia, a strazio mena -l'infermo gregge in sua balìa condutto; -così il crudel pagan nel sonno svena -la nostra gente, e fa macel per tutto. -La spada di Medoro anco non ebe; -ma si sdegna ferir l'ignobil plebe. -Venuto era ove il duca di Labretto -con una dama sua dormia abbracciato; -e l'un con l'altro si tenea sì stretto, -che non saria tra lor l'aere entrato. -Medoro ad ambi taglia il capo netto. -Oh felice morire! oh dolce fato! -che come erano i corpi, ho così fede -ch'andar l'alme abbracciate alla lor sede. -Malindo uccise e Ardalico il fratello, -che del conte di Fiandra erano figli; -e l'uno e l'altro cavallier novello -fatto avea Carlo, e aggiunto all'arme i gigli, -perché il giorno amendui d'ostil macello -con gli stocchi tornar vide vermigli: -e terre in Frisa avea promesso loro, -e date avria; ma lo vietò Medoro. -Gl'insidiosi ferri eran vicini -ai padiglioni che tiraro in volta -al padiglion di Carlo i paladini, -facendo ognun la guardia la sua volta; -quando da l'empia strage i Saracini -trasson le spade, e diero a tempo volta; -ch'impossibil lor par, tra sì gran torma, -che non s'abbia a trovar un che non dorma. -E ben che possan gir di preda carchi, -salvin pur sé, che fanno assai guadagno. -Ove più creda aver sicuri i varchi -va Cloridano, e dietro ha il suo compagno. -Vengon nel campo, ove fra spade ed archi -e scudi e lance in un vermiglio stagno -giaccion poveri e ricchi, e re e vassalli, -e sozzopra con gli uomini i cavalli. -Quivi dei corpi l'orrida mistura, -che piena avea la gran campagna intorno, -potea far vaneggiar la fedel cura -dei duo compagni insino al far del giorno, -se non traea fuor d'una nube oscura, -a' prieghi di Medor, la Luna il corno. -Medoro in ciel divotamente fisse -verso la Luna gli occhi, e così disse: -— O santa dea, che dagli antiqui nostri -debitamente sei detta triforme; -ch'in cielo, in terra e ne l'inferno mostri -l'alta bellezza tua sotto più forme, -e ne le selve, di fere e di mostri -vai cacciatrice seguitando l'orme; -mostrami ove 'l mio re giaccia fra tanti, -che vivendo imitò tuoi studi santi. — -La luna a quel pregar la nube aperse -(o fosse caso o pur la tanta fede), -bella come fu allor ch'ella s'offerse, -e nuda in braccio a Endimion si diede. -Con Parigi a quel lume si scoperse -l'un campo e l'altro; e 'l monte e 'l pian si vede: -si videro i duo colli di lontano, -Martire a destra, e Lerì all'altra mano, -Rifulse lo splendor molto più chiaro -ove d'Almonte giacea morto il figlio. -Medoro andò, piangendo, al signor caro; -che conobbe il quartier bianco e vermiglio: -e tutto 'l viso gli bagnò d'amaro -pianto, che n'avea un rio sotto ogni ciglio, -in sì dolci atti, in sì dolci lamenti, -che potea ad ascoltar fermare i venti. -Ma con sommessa voce e a pena udita; -non che riguardi a non si far sentire, -perch'abbia alcun pensier de la sua vita, -più tosto l'odia, e ne vorrebbe uscire: -ma per timor che non gli sia impedita -l'opera pia che quivi il fe' venire. -Fu il morto re sugli omeri sospeso -di tramendui, tra lor partendo il peso. -Vanno affrettando i passi quanto ponno, -sotto l'amata soma che gl'ingombra. -E già venìa chi de la luce è donno -le stelle a tor del ciel, di terra l'ombra; -quando Zerbino, a cui del petto il sonno -l'alta virtude, ove è bisogno, sgombra, -cacciato avendo tutta notte i Mori, -al campo si traea nei primi albori. -E seco alquanti cavallieri avea, -che videro da lunge i dui compagni. -Ciascuno a quella parte si traea, -sperandovi trovar prede e guadagni. -— Frate, bisogna (Cloridan dicea) -gittar la soma, e dare opra ai calcagni; -che sarebbe pensier non troppo accorto, -perder duo vivi per salvar un morto. — -E gittò il carco, perché si pensava -che 'l suo Medoro il simil far dovesse: -ma quel meschin, che 'l suo signor più amava, -sopra le spalle sue tutto lo resse. -L'altro con molta fretta se n'andava, -come l'amico a paro o dietro avesse: -se sapea di lasciarlo a quella sorte, -mille aspettate avria, non ch'una morte. -Quei cavallier, con animo disposto -che questi a render s'abbino o a morire, -chi qua chi là si spargono, ed han tosto -preso ogni passo onde si possa uscire. -Da loro il capitan poco discosto, -più degli altri è sollicito a seguire; -ch'in tal guisa vedendoli temere, -certo è che sian de le nimiche schiere. -Era a quel tempo ivi una selva antica, -d'ombrose piante spessa e di virgulti, -che, come labirinto, entro s'intrica -di stretti calli e sol da bestie culti. -Speran d'averla i duo pagan sì amica, -ch'abbi a tenerli entro a' suoi rami occulti. -Ma chi del canto mio piglia diletto, -un'altra volta ad ascoltarlo aspetto. Alcun non può saper da chi sia amato, -quando felice in su la ruota siede: -però c'ha i veri e i finti amici a lato, -che mostran tutti una medesma fede. -Se poi si cangia in tristo il lieto stato, -volta la turba adulatrice il piede; -e quel che di cor ama riman forte, -ed ama il suo signor dopo la morte. -Se, come il viso, si mostrasse il core, -tal ne la corte è grande e gli altri preme, -e tal è in poca grazia al suo signore, -che la lor sorte muteriano insieme. -Questo umil diverria tosto il maggiore: -staria quel grande infra le turbe estreme. -Ma torniamo a Medor fedele e grato, -che 'n vita e in morte ha il suo signore amato. -Cercando già nel più intricato calle -il giovine infelice di salvarsi; -ma il grave peso ch'avea su le spalle, -gli facea uscir tutti i partiti scarsi. -Non conosce il paese, e la via falle, -e torna fra le spine a invilupparsi. -Lungi da lui tratto al sicuro s'era -l'altro, ch'avea la spalla più leggiera. -Cloridan s'è ridutto ove non sente -di chi segue lo strepito e il rumore: -ma quando da Medor si vede assente, -gli pare aver lasciato a dietro il core. -— Deh, come fui (dicea) sì negligente, -deh, come fui sì di me stesso fuore, -che senza te, Medor, qui mi ritrassi, -né sappia quando o dove io ti lasciassi! — -Così dicendo, ne la torta via -de l'intricata selva si ricaccia; -ed onde era venuto si ravvia, -e torna di sua morte in su la traccia. -Ode i cavalli e i gridi tuttavia, -e la nimica voce che minaccia: -all'ultimo ode il suo Medoro, e vede -che tra molti a cavallo è solo a piede. -Cento a cavallo, e gli son tutti intorno: -Zerbin commanda e grida che sia preso. -L'infelice s'aggira com'un torno, -e quanto può si tien da lor difeso, -or dietro quercia, or olmo, or faggio, or orno, -né si discosta mai dal caro peso. -L'ha riposato al fin su l'erba, quando -regger nol puote, e gli va intorno errando: -come orsa, che l'alpestre cacciatore -ne la pietrosa tana assalita abbia, -sta sopra i figli con incerto core, -e freme in suono di pietà e di rabbia: -ira la 'nvita e natural furore -a spiegar l'ugne e a insanguinar le labbia; -amor la 'ntenerisce, e la ritira -a riguardare ai figli in mezzo l'ira. -Cloridan, che non sa come l'aiuti, -e ch'esser vuole a morir seco ancora, -ma non ch'in morte prima il viver muti, -che via non truovi ove più d'un ne mora; -mette su l'arco un de' suoi strali acuti, -e nascoso con quel sì ben lavora, -che fora ad uno Scotto le cervella, -e senza vita il fa cader di sella. -Volgonsi tutti gli altri a quella banda -ond'era uscito il calamo omicida. -Intanto un altro il Saracin ne manda, -perché 'l secondo a lato al primo uccida; -che mentre in fretta a questo e a quel domanda -chi tirato abbia l'arco, e forte grida, -lo strale arriva e gli passa la gola, -e gli taglia pel mezzo la parola. -Or Zerbin, ch'era il capitano loro, -non poté a questo aver più pazienza. -Con ira e con furor venne a Medoro, -dicendo: — Ne farai tu penitenza. — -Stese la mano in quella chioma d'oro, -e strascinollo a sé con violenza: -ma come gli occhi a quel bel volto mise, -gli ne venne pietade, e non l'uccise. -Il giovinetto si rivolse a' prieghi, -e disse: — Cavallier, per lo tuo Dio, -non esser sì crudel, che tu mi nieghi -ch'io sepelisca il corpo del re mio. -Non vo' ch'altra pietà per me ti pieghi, -né pensi che di vita abbi disio: -ho tanta di mia vita, e non più, cura, -quanta ch'al mio signor dia sepultura. -E se pur pascer vòi fiere ed augelli, -che 'n te il furor sia del teban Creonte, -fa lor convito di miei membri, e quelli -sepelir lascia del figliuol d'Almonte. — -Così dicea Medor con modi belli, -e con parole atte a voltare un monte; -e sì commosso già Zerbino avea, -che d'amor tutto e di pietade ardea. -In questo mezzo un cavallier villano, -avendo al suo signor poco rispetto, -ferì con una lancia sopra mano -al supplicante il delicato petto. -Spiacque a Zerbin l'atto crudele e strano; -tanto più, che del colpo il giovinetto -vide cader sì sbigottito e smorto, -che 'n tutto giudicò che fosse morto. -E se ne sdegnò in guisa e se ne dolse, -che disse: — Invendicato già non fia! — -e pien di mal talento si rivolse -al cavallier che fe' l'impresa ria: -ma quel prese vantaggio, e se gli tolse -dinanzi in un momento, e fuggì via. -Cloridan, che Medor vede per terra, -salta del bosco a discoperta guerra. -E getta l'arco, e tutto pien di rabbia -tra gli nimici il ferro intorno gira, -più per morir, che per pensier ch'egli abbia -di far vendetta che pareggi l'ira. -Del proprio sangue rosseggiar la sabbia -fra tante spade, e al fin venir si mira; -e tolto che si sente ogni potere, -si lascia a canto al suo Medor cadere. -Seguon gli Scotti ove la guida loro -per l'alta selva alto disdegno mena, -poi che lasciato ha l'uno e l'altro Moro, -l'un morto in tutto, e l'altro vivo a pena. -Giacque gran pezzo il giovine Medoro, -spicciando il sangue da sì larga vena, -che di sua vita al fin saria venuto, -se non sopravenia chi gli diè aiuto. -Gli sopravenne a caso una donzella, -avolta in pastorale ed umil veste, -ma di real presenza e in viso bella, -d'alte maniere e accortamente oneste. -Tanto è ch'io non ne dissi più novella, -ch'a pena riconoscer la dovreste: -questa, se non sapete, Angelica era, -del gran Can del Catai la figlia altiera. -Poi che 'l suo annello Angelica riebbe, -di che Brunel l'avea tenuta priva, -in tanto fasto, in tanto orgoglio crebbe, -ch'esser parea di tutto 'l mondo schiva. -Se ne va sola, e non si degnerebbe -compagno aver qual più famoso viva: -si sdegna a rimembrar che già suo amante -abbia Orlando nomato, o Sacripante. -E sopra ogn'altro error via più pentita -era del ben che già a Rinaldo volse, -troppo parendole essersi avilita, -ch'a riguardar sì basso gli occhi volse. -Tant'arroganza avendo Amor sentita, -più lungamente comportar non volse: -dove giacea Medor, si pose al varco, -e l'aspettò, posto lo strale all'arco. -Quando Angelica vide il giovinetto -languir ferito, assai vicino a morte, -che del suo re che giacea senza tetto, -più che del proprio mal si dolea forte; -insolita pietade in mezzo al petto -si sentì entrar per disusate porte, -che le fe' il duro cor tenero e molle, -e più, quando il suo caso egli narrolle. -E rivocando alla memoria l'arte -ch'in India imparò già di chirugia -(che par che questo studio in quella parte -nobile e degno e di gran laude sia; -e senza molto rivoltar di carte, -che 'l patre ai figli ereditario il dia), -si dispose operar con succo d'erbe, -ch'a più matura vita lo riserbe. -E ricordossi che passando avea -veduta un'erba in una piaggia amena; -fosse dittamo, o fosse panacea, -o non so qual, di tal effetto piena, -che stagna il sangue, e de la piaga rea -leva ogni spasmo e perigliosa pena. -La trovò non lontana, e quella colta, -dove lasciato avea Medor, diè volta. -Nel ritornar s'incontra in un pastore -ch'a cavallo pel bosco ne veniva, -cercando una iuvenca, che già fuore -duo dì di mandra e senza guardia giva. -Seco lo trasse ove perdea il vigore -Medor col sangue che del petto usciva; -e già n'avea di tanto il terren tinto, -ch'era omai presso a rimanere estinto. -Del palafreno Angelica giù scese, -e scendere il pastor seco fece anche. -Pestò con sassi l'erba, indi la prese, -e succo ne cavò fra le man bianche; -ne la piaga n'infuse, e ne distese -e pel petto e pel ventre e fin a l'anche: -e fu di tal virtù questo liquore, -che stagnò il sangue, e gli tornò il vigore; -e gli diè forza, che poté salire -sopra il cavallo che 'l pastor condusse. -Non però volse indi Medor partire -prima ch'in terra il suo signor non fusse. -E Cloridan col re fe' sepelire; -e poi dove a lei piacque si ridusse. -Ed ella per pietà ne l'umil case -del cortese pastor seco rimase. -Né fin che nol tornasse in sanitade, -volea partir: così di lui fe' stima, -tanto se intenerì de la pietade -che n'ebbe, come in terra il vide prima. -Poi vistone i costumi e la beltade, -roder si sentì il cor d'ascosa lima; -roder si sentì il core, e a poco a poco -tutto infiammato d'amoroso fuoco. -Stava il pastore in assai buona e bella -stanza, nel bosco infra duo monti piatta, -con la moglie e coi figli; ed avea quella -tutta di nuovo e poco inanzi fatta. -Quivi a Medoro fu per la donzella -la piaga in breve a sanità ritratta: -ma in minor tempo si sentì maggiore -piaga di questa avere ella nel core. -Assai più larga piaga e più profonda -nel cor sentì da non veduto strale, -che da' begli occhi e da la testa bionda -di Medoro aventò l'Arcier c'ha l'ale. -Arder si sente, e sempre il fuoco abonda; -e più cura l'altrui che 'l proprio male: -di sé non cura, e non è ad altro intenta, -ch'a risanar chi lei fere e tormenta. -La sua piaga più s'apre e più incrudisce, -quanto più l'altra si ristringe e salda. -Il giovine si sana: ella languisce -di nuova febbre, or agghiacciata, or calda. -Di giorno in giorno in lui beltà fiorisce: -la misera si strugge, come falda -strugger di nieve intempestiva suole, -ch'in loco aprico abbia scoperta il sole. -Se di disio non vuol morir, bisogna -che senza indugio ella se stessa aiti: -e ben le par che di quel ch'essa agogna, -non sia tempo aspettar ch'altri la 'nviti. -Dunque, rotto ogni freno di vergogna, -la lingua ebbe non men che gli occhi arditi: -e di quel colpo domandò mercede, -che, forse non sapendo, esso le diede. -O conte Orlando, o re di Circassia, -vostra inclita virtù, dite, che giova? -Vostro alto onor dite in che prezzo sia, -o che mercé vostro servir ritruova. -Mostratemi una sola cortesia -che mai costei v'usasse, o vecchia o nuova, -per ricompensa e guidardone e merto -di quanto avete già per lei sofferto. -Oh se potessi ritornar mai vivo, -quanto ti parria duro, o re Agricane! -che già mostrò costei sì averti a schivo -con repulse crudeli ed inumane. -O Ferraù, o mille altri ch'io non scrivo, -ch'avete fatto mille pruove vane -per questa ingrata, quanto aspro vi fôra, -s'a costu' in braccio voi la vedesse ora! -Angelica a Medor la prima rosa -coglier lasciò, non ancor tocca inante: -né persona fu mai sì aventurosa, -ch'in quel giardin potesse por le piante. -Per adombrar, per onestar la cosa, -si celebrò con cerimonie sante -il matrimonio, ch'auspice ebbe Amore, -e pronuba la moglie del pastore. -Fersi le nozze sotto all'umil tetto -le più solenni che vi potean farsi; -e più d'un mese poi stero a diletto -i duo tranquilli amanti a ricrearsi. -Più lunge non vedea del giovinetto -la donna, né di lui potea saziarsi; -né, per mai sempre pendergli dal collo, -il suo disir sentia di lui satollo. -Se stava all'ombra o se del tetto usciva, -avea dì e notte il bel giovine a lato: -matino e sera or questa or quella riva -cercando andava, o qualche verde prato: -nel mezzo giorno un antro li copriva, -forse non men di quel commodo e grato, -ch'ebber, fuggendo l'acque, Enea e Dido, -de' lor secreti testimonio fido. -Fra piacer tanti, ovunque un arbor dritto -vedesse ombrare o fonte o rivo puro, -v'avea spillo o coltel subito fitto; -così, se v'era alcun sasso men duro: -ed era fuori in mille luoghi scritto, -e così in casa in altritanti il muro, -Angelica e Medoro, in vari modi -legati insieme di diversi nodi. -Poi che le parve aver fatto soggiorno -quivi più ch'a bastanza, fe' disegno -di fare in India del Catai ritorno, -e Medor coronar del suo bel regno. -Portava al braccio un cerchio d'oro, adorno -di ricche gemme, in testimonio e segno -del ben che 'l conte Orlando le volea; -e portato gran tempo ve l'avea. -Quel donò già Morgana a Ziliante, -nel tempo che nel lago ascoso il tenne; -ed esso, poi ch'al padre Monodante, -per opra e per virtù d'Orlando venne, -lo diede a Orlando: Orlando ch'era amante, -di porsi al braccio il cerchio d'or sostenne, -avendo disegnato di donarlo -alla regina sua di ch'io vi parlo. -Non per amor del paladino, quanto -perch'era ricco e d'artificio egregio, -caro avuto l'avea la donna tanto, -che più non si può aver cosa di pregio. -Se lo serbò ne l'Isola del pianto, -non so già dirvi con che privilegio, -là dove esposta al marin mostro nuda -fu da la gente inospitale e cruda. -Quivi non si trovando altra mercede -ch'al buon pastor ed alla moglie dessi, -che serviti gli avea con sì gran fede -dal dì che nel suo albergo si fur messi, -levò dal braccio il cerchio e gli lo diede, -e volse per suo amor che lo tenessi. -Indi saliron verso la montagna -che divide la Francia da la Spagna. -Dentro a Valenza o dentro a Barcellona -per qualche giorno avea pensato porsi, -fin che accadesse alcuna nave buona -che per Levante apparecchiasse a sciorsi. -Videro il mar scoprir sotto a Girona -ne lo smontar giù dei montani dorsi; -e costeggiando a man sinistra il lito, -a Barcellona andar pel camin trito. -Ma non vi giunser prima, ch'un uom pazzo -giacer trovato in su l'estreme arene, -che, come porco, di loto e di guazzo -tutto era brutto e volto e petto e schene. -Costui si scagliò lor come cagnazzo -ch'assalir forestier subito viene; -e diè lor noia, e fu per far lor scorno. -Ma di Marfisa a ricontarvi torno. -Di Marfisa, d'Astolfo, d'Aquilante, -di Grifone e degli altri io vi vuo' dire, -che travagliati, e con la morte inante, -mal si poteano incontra il mar schermire: -che sempre più superba e più arrogante -crescea fortuna le minacce e l'ire; -e già durato era tre dì lo sdegno, -né di placarsi ancor mostrava segno. -Castello e ballador spezza e fracassa -l'onda nimica e 'l vento ognor più fiero: -se parte ritta il verno pur ne lassa, -la taglia e dona al mar tutta il nocchiero. -Chi sta col capo chino in una cassa -su la carta appuntando il suo sentiero -a lume di lanterna piccolina, -e chi col torchio giù ne la sentina. -Un sotto poppe, un altro sotto prora -si tiene inanzi l'oriuol da polve: -e torna a rivedere ogni mezz'ora -quanto è già corso, ed a che via si volve: -indi ciascun con la sua carta fuora -a mezza nave il suo parer risolve, -là dove a un tempo i marinari tutti -sono a consiglio dal padron ridutti. -Chi dice: — Sopra Linmissò venuti -siamo, per quel ch'io trovo, alle seccagne; — -chi: — Di Tripoli appresso i sassi acuti, -dove il mar le più volte i legni fragne; — -chi dice: — Siamo in Satalia perduti, -per cui più d'un nocchier sospira e piagne. — -Ciascun secondo il parer suo argomenta, -ma tutti ugual timor preme e sgomenta. -Il terzo giorno con maggior dispetto -gli assale il vento, e il mar più irato freme; -e l'un ne spezza e portane il trinchetto, -e 'l timon l'altro, e chi lo volge insieme. -Ben è di forte e di marmoreo petto -e più duro ch'acciar, ch'ora non teme. -Marfisa, che già fu tanto sicura, -non negò che quel giorno ebbe paura. -Al monte Sinaì fu peregrino, -a Gallizia promesso, a Cipro, a Roma, -al Sepolcro, alla Vergine d'Ettino, -e se celebre luogo altro si noma. -Sul mare intanto, e spesso al ciel vicino -l'afflitto e conquassato legno toma, -di cui per men travaglio avea il padrone -fatto l'arbor tagliar de l'artimone. -E colli e casse e ciò che v'è di grave -gitta da prora e da poppe e da sponde; -e fa tutte sgombrar camere e giave, -e dar le ricche merci all'avide onde. -Altri attende alle trombe, e a tor di nave -l'acque importune, e il mar nel mar rifonde; -soccorre altri in sentina, ovunque appare -legno da legno aver sdrucito il mare. -Stero in questo travaglio, in questa pena -ben quattro giorni, e non avean più schermo; -e n'avria avuto il mar vittoria piena, -poco più che 'l furor tenesse fermo: -ma diede speme lor d'aria serena -la disiata luce di santo Ermo, -ch'in prua s'una cocchina a por si venne; -che più non v'erano arbori né antenne. -Veduto fiammeggiar la bella face, -s'inginocchiaro tutti i naviganti, -e domandaro il mar tranquillo e pace -con umidi occhi e con voci tremanti. -La tempesta crudel, che pertinace -fu sin allora, non andò più inanti: -Maestro e Traversia più non molesta, -e sol del mar tiràn Libecchio resta. -Questo resta sul mar tanto possente, -e da la negra bocca in modo esala, -ed è con lui sì il rapido corrente -de l'agitato mar ch'in fretta cala, -che porta il legno più velocemente, -che pelegrin falcon mai facesse ala, -con timor del nocchier ch'al fin del mondo -non lo trasporti, o rompa, o cacci al fondo. -Rimedio a questo il buon nocchier ritruova, -che commanda gittar per poppa spere, -e caluma la gomona, e fa pruova -di duo terzi del corso ritenere. -Questo consiglio, e più l'augurio giova -di chi avea acceso in proda le lumiere: -questo il legno salvò che peria forse, -e fe' ch'in alto mar sicuro corse. -Nel golfo di Laiazzo invêr Soria -sopra una gran città si trovò sorto, -e sì vicino al lito, che scopria -l'uno e l'altro castel che serra il porto. -Come il padron s'accorse de la via -che fatto avea, ritornò in viso smorto; -che né porto pigliar quivi volea, -né stare in alto, né fuggir potea. -Né potea stare in alto, né fuggire, -che gli arbori e l'antenne avea perdute: -eran tavole e travi pel ferire -del mar, sdrucite, macere e sbattute. -E 'l pigliar porto era un voler morire, -o perpetuo legarsi in servitute; -che riman serva ogni persona, o morta, -che quivi errore o ria fortuna porta. -E 'l stare in dubbio era con gran periglio -che non salisser genti de la terra -con legni armati, e al suo desson di piglio, -mal atto a star sul mar, non ch'a far guerra. -Mentre il padron non sa pigliar consiglio, -fu domandato da quel d'Inghilterra, -chi gli tenea sì l'animo suspeso, -e perché già non avea il porto preso. -Il padron narrò lui che quella riva -tutta tenean le femine omicide, -di quai l'antiqua legge ognun ch'arriva -in perpetuo tien servo, o che l'uccide; -e questa sorte solamente schiva -chi nel campo dieci uomini conquide, -e poi la notte può assaggiar nel letto -diece donzelle con carnal diletto. -E se la prima pruova gli vien fatta, -e non fornisca la seconda poi, -egli vien morto, e chi è con lui si tratta -da zappatore o da guardian di buoi. -Se di far l'uno e l'altro è persona atta, -impetra libertade a tutti i suoi; -a sé non già, c'ha da restar marito -di diece donne, elette a suo appetito. -Non poté udire Astolfo senza risa -de la vicina terra il rito strano. -Sopravien Sansonetto, e poi Marfisa, -indi Aquilante, e seco il suo germano. -Il padron parimente lor divisa -la causa che dal porto il tien lontano: -— Voglio (dicea) che inanzi il mar m'affoghi, -ch'io senta mai di servitude i gioghi. — -Del parer del padrone i marinari -e tutti gli altri naviganti furo; -ma Marfisa e' compagni eran contrari, -che, più che l'acque, il lito avean sicuro. -Via più il vedersi intorno irati i mari, -che centomila spade, era lor duro. -Parea lor questo e ciascun altro loco -dov'arme usar potean, da temer poco. -Bramavano i guerrier venire a proda, -ma con maggior baldanza il duca inglese; -che sa, come del corno il rumor s'oda, -sgombrar d'intorno si farà il paese. -Pigliare il porto l'una parte loda, -e l'altra il biasma, e sono alle contese; -ma la più forte in guisa il padron stringe, -ch'al porto, suo malgrado, il legno spinge. -Già, quando prima s'erano alla vista -de la città crudel sul mar scoperti, -veduto aveano una galea provista -di molta ciurma e di nochieri esperti -venire al dritto a ritrovar la trista -nave, confusa di consigli incerti; -che, l'alta prora alle sua poppe basse -legando, fuor de l'empio mar la trasse. -Entrar nel porto remorchiando, e a forza -di remi più che per favor di vele; -però che l'alternar di poggia e d'orza -avea levato il vento lor crudele. -Intanto ripigliar la dura scorza -i cavallieri e il brando lor fedele; -ed al padrone ed a ciascun che teme -non cessan dar con lor conforti speme. -Fatto è 'l porto a sembianza d'una luna, -e gira più di quattro miglia intorno: -seicento passi è in bocca, ed in ciascuna -parte una rocca ha nel finir del corno. -Non teme alcuno assalto di fortuna, -se non quando gli vien dal mezzogiorno. -A guisa di teatro se gli stende -la città a cerco, e verso il poggio ascende. -Non fu quivi sì tosto il legno sorto -(già l'aviso era per tutta la terra), -che fur seimila femine sul porto, -con gli archi in mano, in abito di guerra; -e per tor de la fuga ogni conforto, -tra l'una rocca e l'altra il mar si serra: -da navi e da catene fu rinchiuso, -che tenean sempre istrutte a cotal uso. -Una che d'anni alla Cumea d'Apollo -poté uguagliarsi e alla madre d'Ettorre, -fe' chiamare il padrone, e domandollo -se si volean lasciar la vita torre, -o se voleano pur al giogo il collo, -secondo la costuma, sottoporre. -Degli dua l'uno aveano a torre: o quivi -tutti morire, o rimaner captivi. -— Gli è ver (dicea) che s'uom si ritrovasse -tra voi così animoso e così forte, -che contra dieci nostri uomini osasse -prender battaglia, e desse lor la morte, -e far con diece femine bastasse -per una notte ufficio di consorte; -egli si rimarria principe nostro, -e gir voi ne potreste al camin vostro. -E sarà in vostro arbitrio il restar anco, -vogliate o tutti o parte; ma con patto, -che chi vorrà restare, e restar franco, -marito sia per diece femine atto. -Ma quando il guerrier vostro possa manco -dei dieci che gli fian nimici a un tratto, -o la seconda pruova non fornisca, -vogliàn voi siate schiavi, egli perisca. — -Dove la vecchia ritrovar timore -credea nei cavallier, trovò baldanza; -che ciascun si tenea tal feritore, -che fornir l'uno e l'altro avea speranza: -ed a Marfisa non mancava il core, -ben che mal atta alla seconda danza; -ma dove non l'aitasse la natura, -con la spada supplir stava sicura. -Al padron fu commessa la risposta, -prima conchiusa per commun consiglio: -ch'avean chi lor potria di sé a lor posta -ne la piazza e nel letto far periglio. -Levan l'offese, ed il nocchier s'accosta, -getta la fune e le fa dar di piglio; -e fa acconciare il ponte, onde i guerrieri -escono armati, e tranno i lor destrieri. -E quindi van per mezzo la cittade, -e vi ritruovan le donzelle altiere, -succinte cavalcar per le contrade, -ed in piazza armeggiar come guerriere. -Né calciar quivi spron, né cinger spade, -né cosa d'arme puoi gli uomini avere, -se non dieci alla volta, per rispetto -de l'antiqua costuma ch'io v'ho detto. -Tutti gli altri alla spola, all'aco, al fuso, -al pettine ed all'aspo sono intenti, -con vesti feminil che vanno giuso -insin al piè, che gli fa molli e lenti. -Si tengono in catena alcuni ad uso -d'arar la terra o di guardar gli armenti. -Son pochi i maschi, e non son ben, per mille -femine, cento, fra cittadi e ville. -Volendo tôrre i cavallieri a sorte -chi di lor debba, per commune scampo -l'una decina in piazza porre a morte, -e poi l'altra ferir ne l'altro campo; -non disegnavan di Marfisa forte, -stimando che trovar dovesse inciampo -ne la seconda giostra de la sera, -ch'ad averne vittoria abil non era. -Ma con gli altri esser volse ella sortita: -or sopra lei la sorte in somma cade. -Ella dicea: — Prima v'ho a por la vita, -che v'abbiate a por voi la libertade; -ma questa spada (e lor la spada addita, -che cinta avea) vi do per securtade -ch'io vi sciorrò tutti gl'intrichi al modo -che fe' Alessandro il gordiano nodo. -Non vuo' mai più che forestier si lagni -di questa terra, fin che 'l mondo dura. — -Così disse; e non potero i compagni -torle quel che le dava sua aventura. -Dunque, o ch'in tutto perda, o lor guadagni -la libertà, le lasciano la cura. -Ella di piastre già guernita e maglia, -s'appresentò nel campo alla battaglia. -Gira una piazza al sommo de la terra, -di gradi a seder atti intorno chiusa; -che solamente a giostre, a simil guerra, -a cacce, a lotte, e non ad altro s'usa: -quattro porte ha di bronzo, onde si serra. -Quivi la moltitudine confusa -de l'armigere femine si trasse; -e poi fu detto a Marfisa ch'entrasse. -Entrò Marfisa s'un destrier leardo, -tutto sparso di macchie e di rotelle, -di piccol capo e d'animoso sguardo, -d'andar superbo e di fattezze belle. -Pel maggiore e più vago e più gagliardo, -di mille che n'avea con briglie e selle, -scelse in Damasco, e realmente ornollo, -ed a Marfisa Norandin donollo. -Da mezzogiorno e da la porta d'austro -entrò Marfisa; e non vi stette guari, -ch'appropinquare e risonar pel claustro -udì di trombe acuti suoni e chiari: -e vide poi di verso il freddo plaustro -entrar nel campo i dieci suoi contrari. -Il primo cavallier ch'apparve inante, -di valer tutto il resto avea sembiante. -Quel venne in piazza sopra un gran destriero, -che, fuor ch'in fronte e nel piè dietro manco, -era, più che mai corbo, oscuro e nero: -nel piè e nel capo avea alcun pelo bianco. -Del color del cavallo il cavalliero -vestito, volea dir che, come manco -del chiaro era l'oscuro, era altretanto -il riso in lui verso l'oscuro pianto. -Dato che fu de la battaglia il segno, -nove guerrier l'aste chinaro a un tratto: -ma quel dal nero ebbe il vantaggio a sdegno; -si ritirò, né di giostrar fece atto. -Vuol ch'alle leggi inanzi di quel regno, -ch'alla sua cortesia, sia contrafatto. -Si tra' da parte e sta a veder le pruove -ch'una sola asta farà contra a nove. -Il destrier, ch'avea andar trito e soave, -portò all'incontro la donzella in fretta, -che nel corso arrestò lancia sì grave, -che quattro uomini avriano a pena retta. -L'avea pur dianzi al dismontar di nave -per la più salda in molte antenne eletta. -Il fier sembiante con ch'ella si mosse, -mille facce imbiancò, mille cor scosse. -Aperse al primo che trovò sì il petto, -che fôra assai che fosse stato nudo: -gli passò la corazza e il soprapetto, -ma prima un ben ferrato e grosso scudo. -Dietro le spalle un braccio il ferro netto -si vide uscir: tanto fu il colpo crudo. -Quel fitto ne la lancia a dietro lassa, -e sopra gli altri a tutta briglia passa. -E diede d'urto a chi venìa secondo, -ed a chi terzo sì terribil botta, -che rotto ne la schiena uscir del mondo -fe' l'uno e l'altro, e de la sella a un'otta; -sì duro fu l'incontro e di tal pondo, -sì stretta insieme ne venìa la frotta. -Ho veduto bombarde a quella guisa -le squadre aprir, che fe' lo stuol Marfisa. -Sopra di lei più lance rotte furo; -ma tanto a quelli colpi ella si mosse, -quanto nel giuoco de le cacce un muro -si muova a' colpi de le palle grosse. -L'usbergo suo di tempra era sì duro, -che non gli potean contra le percosse; -e per incanto al fuoco de l'Inferno -cotto, e temprato all'acque fu d'Averno. -Al fin del campo il destrier tenne e volse, -e fermò alquanto: e in fretta poi lo spinse -incontra gli altri, e sbarragliolli e sciolse, -e di lor sangue insin all'elsa tinse. -All'uno il capo, all'altro il braccio tolse; -e un altro in guisa con la spada cinse, -che 'l petto in terra andò col capo ed ambe -le braccia, e in sella il ventre era e le gambe. -Lo partì, dico, per dritta misura, -de le coste e de l'anche alle confine, -e lo fe' rimaner mezza figura, -qual dinanzi all'imagini divine, -poste d'argento, e più di cera pura -son da genti lontane e da vicine, -ch'a ringraziarle e sciorre il voto vanno -de le domande pie ch'ottenute hanno. -Ad uno che fuggia, dietro si mise, -né fu a mezzo la piazza, che lo giunse; -e 'l capo e 'l collo in modo gli divise, -che medico mai più non lo raggiunse. -In somma tutti un dopo l'altro uccise, -o ferì sì ch'ogni vigor n'emunse; -e fu sicura che levar di terra -mai più non si potrian per farle guerra. -Stato era il cavallier sempre in un canto, -che la decina in piazza avea condutta; -però che contra un solo andar con tanto -vantaggio opra gli parve iniqua e brutta. -Or che per una man torsi da canto -vide sì tosto la compagna tutta, -per dimostrar che la tardanza fosse -cortesia stata e non timor, si mosse. -Con man fe' cenno di volere, inanti -che facesse altro, alcuna cosa dire; -e non pensando in sì viril sembianti -che s'avesse una vergine a coprire, -le disse; — Cavalliero, omai di tanti -esser déi stanco, c'hai fatto morire; -e s'io volessi, più di quel che sei, -stancarti ancor, discortesia farei. -Che ti risposi in sino al giorno nuovo, -e doman torni in campo, ti concedo. -Non mi fia onor se teco oggi mi pruovo, -che travagliato e lasso esser ti credo. — -— Il travagliare in arme non m'è nuovo, -né per sì poco alla fatica cedo -(disse Marfisa); e spero ch'a tuo costo -io ti farò di questo aveder tosto. -De la cortese offerta ti ringrazio, -ma riposare ancor non mi bisogna; -e ci avanza del giorno tanto spazio, -ch'a porlo tutto in ozio è pur vergogna. — -Rispose il cavallier: — Fuss'io sì sazio -d'ogn'altra cosa che 'l mio core agogna, -come t'ho in questo da saziar; ma vedi -che non ti manchi il dì più che non credi. — -Così disse egli, e fe' portare in fretta -due grosse lance, anzi due gravi antenne; -ed a Marfisa dar ne fe' l'eletta: -tolse l'altra per sé, ch'indietro venne. -Già sono in punto, ed altro non s'aspetta -ch'un alto suon che lor la giostra accenne. -Ecco la terra e l'aria e il mar rimbomba -nel mover loro al primo suon di tromba. -Trar fiato, bocca aprir, o battere occhi -non si vedea de' riguardanti alcuno: -tanto a mirare a chi la palma tocchi -dei duo campioni, intento era ciascuno. -Marfisa, acciò che de l'arcion trabocchi, -sì che mai non si levi, il guerrier bruno, -drizza la lancia; e il guerrier bruno forte -studia non men di por Marfisa a morte. -Le lance ambe di secco e suttil salce, -non di cerro sembrar grosso ed acerbo, -così n'andaro in tronchi fin al calce; -e l'incontro ai destrier fu sì superbo, -che parimente parve da una falce -de le gambe esser lor tronco ogni nerbo. -Cadero ambi ugualmente; ma i campioni -fur presti a disbrigarsi dagli arcioni. -A mille cavallieri alla sua vita -al primo incontro avea la sella tolta -Marfisa, ed ella mai non n'era uscita; -e n'uscì, come udite, a questa volta. -Del caso strano non pur sbigottita, -ma quasi fu per rimanerne stolta. -Parve anco strano al cavallier dal nero, -che non solea cader già di leggiero. -Tocca avean nel cader la terra a pena, -che furo in piedi e rinovar l'assalto. -Tagli e punte a furor quivi si mena, -quivi ripara or scudo, or lama, or salto. -Vada la botta vota o vada piena, -l'aria ne stride e ne risuona in alto. -Quelli elmi, quelli usberghi, quelli scudi -mostrar ch'erano saldi più ch'incudi. -Se de l'aspra donzella il braccio è grave, -né quel del cavallier nimico è lieve. -Ben la misura ugual l'un da l'altro have: -quanto a punto l'un dà, tanto riceve. -Chi vol due fiere audaci anime brave, -cercar più là di queste due non deve, -né cercar più destrezza né più possa; -che n'han tra lor quanto più aver si possa. -Le donne, che gran pezzo mirato hanno -continuar tante percosse orrende, -e che nei cavallier segno d'affanno -e di stanchezza ancor non si comprende; -dei duo miglior guerrier lode lor danno, -che sien tra quanto il mar sua braccia estende. -Par lor che, se non fosser più che forti, -esser dovrian sol del travaglio morti. -Ragionando tra sé, dicea Marfisa: -— Buon fu per me, che costui non si mosse; -ch'andava a risco di restarne uccisa, -se dianzi stato coi compagni fosse, -quando io mi truovo a pena a questa guisa -di potergli star contra alle percosse. — -Così dice Marfisa; e tuttavolta -non resta di menar la spada in volta. -— Buon fu per me (dicea quell'altro ancora), -che riposar costui non ho lasciato. -Difender me ne posso a fatica ora -che de la prima pugna è travagliato. -Se fin al nuovo dì facea dimora -a ripigliar vigor, che saria stato? -Ventura ebbi io, quanto più possa aversi, -che non volesse tor quel ch'io gli offersi. — -La battaglia durò fin alla sera, -né chi avesse anco il meglio era palese; -né l'un né l'altro più senza lumiera -saputo avria come schivar l'offese. -Giunta la notte, all'inclita guerriera -fu primo a dir il cavallier cortese: -— Che faren, poi che con ugual fortuna -n'ha sopragiunti la notte importuna? -Meglio mi par che 'l viver tuo prolunghi -almeno insino a tanto che s'aggiorni. -Io non posso concederti che aggiunghi -fuor ch'una notte picciola ai tua giorni. -E di ciò che non gli abbi aver più lunghi, -la colpa sopra me non vuo' che torni: -torni pur sopra alla spietata legge -del sesso feminil che 'l loco regge. -Se di te duolmi e di quest'altri tuoi, -lo sa colui che nulla cosa ha oscura. -Con tuoi compagni star meco tu puoi: -con altri non avrai stanza sicura; -perché la turba, a cu' i mariti suoi -oggi uccisi hai, già contra te congiura. -Ciascun di questi a cui dato hai la morte, -era di diece femine consorte. -Del danno c'han da te ricevut'oggi, -disian novanta femine vendetta: -sì che se meco ad albergar non poggi, -questa notte assalito esser t'aspetta. — -Disse Marfisa: — Accetto che m'alloggi, -con sicurtà che non sia men perfetta -in te la fede e la bontà del core, -che sia l'ardire e il corporal valore. -Ma che t'incresca che m'abbi ad uccidere, -ben ti può increscere anco del contrario. -Fin qui non credo che l'abbi da ridere, -perch'io sia men di te duro avversario. -O la pugna seguir vogli o dividere, -o farla all'uno o all'altro luminario, -ad ogni cenno pronta tu m'avrai, -e come ed ogni volta che vorrai. — -Così fu differita la tenzone -fin che di Gange uscisse il nuovo albore, -e si restò senza conclusione -chi d'essi duo guerrier fosse il migliore. -Ad Aquilante venne ed a Grifone -e così agli altri il liberal signore, -e li pregò che fin al nuovo giorno -piacesse lor di far seco soggiorno. -Tenner lo 'nvito senza alcun sospetto: -indi, a splendor de bianchi torchi ardenti, -tutti saliro ov'era un real tetto, -distinto in molti adorni alloggiamenti. -Stupefatti al levarsi de l'elmetto, -mirandosi, restaro i combattenti; -che 'l cavallier, per quanto apparea fuora, -non eccedeva i diciotto anni ancora. -Si maraviglia la donzella, come -in arme tanto un giovinetto vaglia; -si maraviglia l'altro, ch'alle chiome -s'avede con chi avea fatto battaglia: -e si domandan l'un con l'altro il nome, -e tal debito tosto si ragguaglia. -Ma come si nomasse il giovinetto, -ne l'altro canto ad ascoltar v'aspetto. Le donne antique hanno mirabil cose -fatto ne l'arme e ne le sacre muse; -e di lor opre belle e gloriose -gran lume in tutto il mondo si diffuse. -Arpalice e Camilla son famose, -perché in battaglia erano esperte ed use; -Safo e Corinna, perché furon dotte, -splendono illustri, e mai non veggon notte. -Le donne son venute in eccellenza -Di ciascun'arte ove hanno posto cura; -e qualunque all'istorie abbia avvertenza, -ne sente ancor la fama non oscura. -Se 'l mondo n'è gran tempo stato senza, -non però sempre il mal influsso dura; -e forse ascosi han lor debiti onori -l'invidia o il non saper degli scrittori. -Ben mi par di veder ch'al secol nostro -tanta virtù fra belle donne emerga, -che può dare opra a carte ed ad inchiostro, -perché nei futuri anni si disperga, -e perché, odiose lingue, il mal dir vostro -con vostra eterna infamia si sommerga: -e le lor lode appariranno in guisa, -che di gran lunga avanzeran Marfisa. -Or pur tornando a lei, questa donzella -al cavallier che l'usò cortesia, -de l'esser suo non niega dar novella, -quando esso a lei voglia contar chi sia. -Sbrigossi tosto del suo debito ella: -tanto il nome di lui saper disia. -— Io son (disse) Marfisa: — e fu assai questo; -che si sapea per tutto 'l mondo il resto. -L'altro comincia, poi che tocca a lui, -con più proemio a darle di sé conto, -dicendo: — Io credo che ciascun di vui -abbia de la mia stirpe il nome in pronto; -che non pur Francia e Spagna e i vicin sui, -ma l'India, l'Etiopia e il freddo Ponto -han chiara cognizion di Chiaramonte, -onde uscì il cavallier ch'uccise Almonte, -quel ch'a Chiariello e al re Mambrino -diede la morte, e il regno lor disfece. -Di questo sangue, dove ne l'Eusino -l'Istro ne vien con otto corna o diece, -al duca Amone, il qual già peregrino -vi capitò, la madre mia mi fece: -e l'anno è ormai ch'io la lasciai dolente, -per gire in Francia a ritrovar mia gente. -Ma non potei finire il mio viaggio, -che qua mi spinse un tempestoso Noto. -Son dieci mesi o più che stanza v'aggio, -che tutti i giorni e tutte l'ore noto. -Nominato son io Guidon Selvaggio, -di poca pruova ancora e poco noto. -Uccisi qui Argilon da Melibea -con dieci cavallier che seco avea. -Feci la pruova ancor de le donzelle: -così n'ho diece a' miei piaceri allato; -ed alla scelta mia son le più belle, -e son le più gentil di questo stato. -E queste reggo e tutte l'altre; ch'elle -di sé m'hanno governo e scettro dato: -così daranno a qualunque altro arrida -Fortuna sì, che la decina ancida. — -I cavallier domandano a Guidone, -com'ha sì pochi maschi il tenitoro; -e s'alle moglie hanno suggezione, -come esse l'han negli altri lochi a loro. -Disse Guidon: — Più volte la cagione -udita n'ho da poi che qui dimoro; -e vi sarà, secondo ch'io l'ho udita, -da me, poi che v'aggrada, riferita. -Al tempo che tornar dopo anni venti -da Troia i Greci (che durò l'assedio -dieci, e dieci altri da contrari venti -furo agitati in mar con troppo tedio), -trovar che le lor donne agli tormenti -di tanta assenza avean preso rimedio: -tutte s'avean gioveni amanti eletti, -per non si raffreddar sole nei letti. -Le case lor trovaro i Greci piene -de l'altrui figli; e per parer commune -perdonano alle mogli, che san bene -che tanto non potean viver digiune: -ma ai figli degli adulteri conviene -altrove procacciarsi altre fortune; -che tolerar non vogliono i mariti -che più alle spese lor sieno notriti. -Sono altri esposti, altri tenuti occulti -da le lor madri e sostenuti in vita. -In vane squadre quei ch'erano adulti -feron, chi qua chi là, tutti partita. -Per altri l'arme son, per altri culti -gli studi e l'arti; altri la terra trita; -serve altri in corte; altri è guardian di gregge, -come piace a colei che qua giù regge. -Partì fra gli altri un giovinetto, figlio -di Clitemnestra, la crudel regina, -di diciotto anni, fresco come un giglio, -o rosa colta allor di su la spina. -Questi, armato un suo legno, a dar di piglio -si pose e a depredar per la marina -in compagnia di cento giovinetti -del tempo suo, per tutta Grecia eletti. -I Cretesi, in quel tempo che cacciato -il crudo Idomeneo del regno aveano, -e per assicurarsi il nuovo stato, -d'uomini e d'arme adunazion faceano; -fero con bon stipendio lor soldato -Falanto (così al giovine diceano), -e lui con tutti quei che seco avea, -poser per guardia alla città Dictea. -Fra cento alme città ch'erano in Creta, -Dictea più ricca e più piacevol era, -di belle donne ed amorose lieta, -lieta di giochi da matino a sera: -e com'era ogni tempo consueta -d'accarezzar la gente forestiera, -fe' a costor sì, che molto non rimase -a fargli anco signor de le lor case. -Eran gioveni tutti e belli affatto -(che 'l fior di Grecia avea Falanto eletto): -sì ch'alle belle donne, al primo tratto -che v'apparir, trassero i cor del petto. -Poi che non men che belli, ancora in fatto -si dimostrar buoni e gagliardi al letto, -si fero ad esse in pochi dì sì grati, -che sopra ogn'altro ben n'erano amati. -Finita che d'accordo è poi la guerra -per cui stato Falanto era condutto, -e lo stipendio militar si serra, -sì che non v'hanno i gioveni più frutto, -e per questo lasciar voglion la terra; -fan le donne di Creta maggior lutto, -e per ciò versan più dirotti pianti, -che se i lor padri avesson morti avanti. -Da le lor donne i gioveni assai foro, -ciascun per sé, di rimaner pregati: -né volendo restare, esse con loro -n'andar, lasciando e padri e figli e frati, -di ricche gemme e di gran summa d'oro -avendo i lor dimestici spogliati; -che la pratica fu tanto secreta, -che non sentì la fuga uomo di Creta. -Sì fu propizio il vento, sì fu l'ora -commoda, che Falanto a fuggir colse, -che molte miglia erano usciti fuora, -quando del danno suo Creta si dolse. -Poi questa spiaggia, inabitata allora, -trascorsi per fortuna li raccolse. -Qui si posaro, e qui sicuri tutti -meglio del furto lor videro i frutti. -Questa lor fu per dieci giorni stanza -di piaceri amorosi tutta piena. -Ma come spesso avvien, che l'abondanza -seco in cor giovenil fastidio mena, -tutti d'accordo fur di restar sanza -femine, e liberarsi di tal pena; -che non è soma da portar sì grave, -come aver donna, quando a noia s'have. -Essi che di guadagno e di rapine -eran bramosi, e di dispendio parchi, -vider ch'a pascer tante concubine, -d'altro che d'aste avean bisogno e d'archi: -sì che sole lasciar qui le meschine, -e se n'andar di lor ricchezze carchi -là dove in Puglia in ripa al mar poi sento -ch'edificar la terra di Tarento. -Le donne, che si videro tradite -dai loro amanti in che più fede aveano, -restar per alcun dì sì sbigottite, -che statue immote in lito al mar pareano. -Visto poi che da gridi e da infinite -lacrime alcun profitto non traeano, -a pensar cominciaro e ad aver cura -come aiutarsi in tanta lor sciagura. -E proponendo in mezzo i lor pareri, -altre diceano: in Creta è da tornarsi; -e più tosto all'arbitrio de' severi -padri e d'offesi lor mariti darsi, -che nei deserti liti e boschi fieri, -di disagio e di fame consumarsi. -Altre dicean che lor saria più onesto -affogarsi nel mar, che mai far questo; -e che manco mal era meretrici -andar pel mondo, andar mendiche o schiave, -che se stesse offerire agli supplici -di ch'eran degne l'opere lor prave. -Questi e simil partiti le infelici -si proponean, ciascun più duro e grave. -Tra loro al fine una Orontea levosse, -ch'origine traea dal re Minosse; -la più gioven de l'artre e la più bella -e la più accorta, e ch'avea meno errato: -amato avea Falanto, e a lui pulzella -datasi, e per lui il padre avea lasciato. -Costei mostrando in viso ed in favella -il magnanimo cor d'ira infiammato, -redarguendo di tutte altre il detto, -suo parer disse, e fe' seguirne effetto. -Di questa terra a lei non parve torsi, -che conobbe feconda e d'aria sana, -e di limpidi fiumi aver discorsi, -di selve opaca, e la più parte piana; -con porti e foci, ove dal mar ricorsi -per ria fortuna avea la gente estrana, -ch'or d'Africa portava, ora d'Egitto -cose diverse e necessarie al vitto. -Qui parve a lei fermarsi, e far vendetta -del viril sesso che le avea sì offese: -vuol ch'ogni nave, che da venti astretta -a pigliar venga porto in suo paese, -a sacco, a sangue, a fuoco al fin si metta; -né de la vita a un sol si sia cortese. -Così fu detto e così fu concluso, -e fu fatta la legge e messa in uso. -Come turbar l'aria sentiano, armate -le femine correan su la marina, -da l'implacabile Orontea guidate, -che diè lor legge e si fe' lor regina: -e de le navi ai liti lor cacciate -faceano incendi orribili e rapina, -uom non lasciando vivo, che novella -dar ne potesse o in questa parte o in quella. -Così solinghe vissero qualch'anno -aspre nimiche del sesso virile: -ma conobbero poi, che 'l proprio danno -procaccierian, se non mutavan stile; -che se di lor propagine non fanno, -sarà lor legge in breve irrita e vile, -e mancherà con l'infecondo regno, -dove di farla eterna era il disegno. -Sì che, temprando il suo rigore un poco -scelsero, in spazio di quattro anni interi, -di quanti capitaro in questo loco -dieci belli e gagliardi cavallieri, -che per durar ne l'amoroso gioco -contr'esse cento fosser buon guerrieri. -Esse in tutto eran cento; e statuito -ad ogni lor decina fu un marito. -Prima ne fur decapitati molti -che riusciro al paragon mal forti. -Or questi dieci a buona pruova tolti, -del letto e del governo ebbon consorti; -facendo lor giurar che, se più colti -altri uomini verriano in questi porti, -essi sarian che, spenta ogni pietade, -li porriano ugualmente a fil di spade. -Ad ingrossare, ed a figliar appresso -le donne, indi a temere incominciaro -che tanti nascerian del viril sesso, -che contra lor non avrian poi riparo; -e al fine in man degli uomini rimesso -saria il governo ch'elle avean sì caro: -sì ch'ordinar, mentre eran gli anni imbelli, -far sì, che mai non fosson lor ribelli. -Acciò il sesso viril non le soggioghi, -uno ogni madre vuol la legge orrenda, -che tenga seco; gli altri, o li suffoghi, -o fuor del regno li permuti o venda. -Ne mandano per questo in vari luoghi: -e a chi gli porta dicono che prenda -femine, se a baratto aver ne puote; -se non, non torni almen con le man vote. -Né uno ancora alleverian, se senza -potesson fare, e mantenere il gregge. -Questa è quanta pietà, quanta clemenza -più ai suoi ch'agli altri usa l'iniqua legge: -gli altri condannan con ugual sentenza; -e solamente in questo si corregge, -che non vuol che, secondo il primiero uso, -le femine gli uccidano in confuso. -Se dieci o venti o più persone a un tratto -vi fosser giunte, in carcere eran messe: -e d'una al giorno, e non di più, era tratto -il capo a sorte, che perir dovesse -nel tempio orrendo ch'Orontea avea fatto, -dove un altare alla Vendetta eresse; -e dato all'un de' dieci il crudo ufficio -per sorte era di farne sacrificio. -Dopo molt'anni alle ripe omicide -a dar venne di capo un giovinetto, -la cui stirpe scendea dal buono Alcide, -di gran valor ne l'arme, Elbanio detto. -Qui preso fu, ch'a pena se n'avide, -come quel che venìa senza sospetto; -e con gran guardia in stretta parte chiuso, -con gli altri era serbato al crudel uso. -Di viso era costui bello e giocondo, -e di maniere e di costumi ornato, -e di parlar sì dolce e sì facondo, -ch'un aspe volentier l'avria ascoltato: -sì che, come di cosa rara al mondo, -de l'esser suo fu tosto rapportato -ad Alessandra figlia d'Orontea, -che di molt'anni grave anco vivea. -Orontea vivea ancora; e già mancate -tutt'eran l'altre ch'abitar qui prima: -e diece tante e più n'erano nate, -e in forza eran cresciute e in maggior stima; -né tra diece fucine che serrate -stavan pur spesso, avean più d'una lima; -e dieci cavallieri anco avean cura -di dare a chi venìa fiera aventura. -Alessandra, bramosa di vedere -il giovinetto ch'avea tante lode, -da la sua matre in singular piacere -impetra sì, ch'Elbanio vede ed ode; -e quando vuol partirne, rimanere -si sente il core ove è chi 'l punge e rode: -legar si sente e non sa far contesa, -e al fin dal suo prigion si trova presa. -Elbanio disse a lei: — Se di pietade -s'avesse, donna, qui notizia ancora, -come se n'ha per tutt'altre contrade, -dovunque il vago sol luce e colora; -io vi osarei, per vostr'alma beltade -ch'ogn'animo gentil di sé inamora, -chiedervi in don la vita mia, che poi -saria ognor presto a spenderla per voi. -Or quando fuor d'ogni ragion qui sono -privi d'umanitade i cori umani, -non vi domanderò la vita in dono, -che i prieghi miei so ben che sarian vani; -ma che da cavalliero, o tristo o buono -ch'io sia, possi morir con l'arme in mani, -e non come dannato per giudicio, -o come animal bruto in sacrificio. — -Alessandra gentil, ch'umidi avea, -per la pietà del giovinetto, i rai, -rispose: — Ancor che più crudele e rea -sia questa terra, ch'altra fosse mai; -non concedo però che qui Medea -ogni femina sia, come tu fai: -e quando ogn'altra così fosse ancora, -me sola di tant'altre io vo' trar fuora. -E se ben per adietro io fossi stata -empia e crudel, come qui sono tante, -dir posso che suggetto ove mostrata -per me fosse pietà, non ebbi avante. -Ma ben sarei di tigre più arrabbiata, -e più duro avre' il cor che di diamante, -se non m'avesse tolto ogni durezza -tua beltà, tuo valor, tua gentilezza. -Così non fosse la legge più forte, -che contra i peregrini è statuita, -come io non schiverei con la mia morte -di ricomprar la tua più degna vita. -Ma non è grado qui di sì gran sorte, -che ti potesse dar libera aita; -e quel che chiedi ancor, ben che sia poco, -difficile ottener fia in questo loco. -Pur io vedrò di far che tu l'ottenga, -ch'abbi inanzi al morir questo contento; -ma mi dubito ben che te n'avenga, -tenendo il morir lungo, più tormento. — -Suggiunse Elbanio: — Quando incontra io venga -a dieci armato, di tal cor mi sento, -che la vita ho speranza di salvarme, -e uccider lor, se tutti fosser arme. — -Alessandra a quel detto non rispose -se non un gran sospiro, e dipartisse, -e portò nel partir mille amorose -punte nel cor, mai non sanabil, fisse. -Venne alla madre, e voluntà le pose -di non lasciar che 'l cavallier morisse, -quando si dimostrasse così forte, -che, solo, avesse posto i dieci a morte. -La regina Orontea fece raccorre -il suo consiglio, e disse: — A noi conviene -sempre il miglior che ritroviamo, porre -a guardar nostri porti e nostre arene; -e per saper chi ben lasciar, chi torre, -prova è sempre da far quando gli avviene; -per non patir con nostro danno a torto, -che regni il vile, e chi ha valor sia morto. -A me par, se a voi par, che statuito -sia, ch'ogni cavallier per lo avvenire, -che fortuna abbia tratto al nostro lito, -prima ch'al tempio si faccia morire, -possa egli sol, se gli piace il partito, -incontra i dieci alla battaglia uscire; -e se di tutti vincerli è possente, -guardi egli il porto, e seco abbia altra gente. -Parlo così, perché abbian qui un prigione -che par che vincer dieci s'offerisca. -Quando, sol, vaglia tante altre persone, -dignissimo è, per Dio, che s'esaudisca. -Così in contrario avrà punizione, -quando vaneggi e temerario ardisca. — -Orontea fine al suo parlar qui pose, -a cui de le più antique una rispose: -— La principal cagion ch'a far disegno -sul comercio degli uomini ci mosse, -non fu perch'a difender questo regno -del loro aiuto alcun bisogno fosse; -che per far questo abbiamo ardire e ingegno -da noi medesme, e a sufficienza posse: -così senza sapessimo far anco, -che non venisse il propagarci a manco! -Ma poi che senza lor questo non lece, -tolti abbiàn, ma non tanti, in compagnia, -che mai ne sia più d'uno incontra diece, -sì ch'aver di noi possa signoria. -Per conciper di lor questo si fece, -non che di lor difesa uopo ci sia. -La lor prodezza sol ne vaglia in questo, -e sieno ignavi e inutili nel resto. -Tra noi tenere un uom che sia sì forte, -contrario è in tutto al principal disegno. -Se può un solo a dieci uomini dar morte, -quante donne farà stare egli al segno? -Se i dieci nostri fosser di tal sorte, -il primo dì n'avrebbon tolto il regno. -Non è la via di dominar, se vuoi -por l'arme in mano a chi può più di noi. -Pon mente ancor, che quando così aiti -Fortuna questo tuo, che i dieci uccida, -di cento donne che de' lor mariti -rimarran prive, sentirai le grida. -Se vuol campar, proponga altri partiti, -ch'esser di dieci gioveni omicida. -Pur, se per far con cento donne è buono -quel che dieci fariano, abbi perdono. — -Fu d'Artemia crudel questo il parere -(così avea nome), e non mancò per lei -di far nel tempio Elbanio rimanere -scannato inanzi agli spietati dèi. -Ma la madre Orontea che compiacere -volse alla figlia, replicò a colei -altre ed altre ragioni, e modo tenne -che nel senato il suo parer s'ottenne. -L'aver Elbanio di bellezza il vanto -sopra ogni cavallier che fosse al mondo, -fu nei cor de le giovani di tanto, -ch'erano in quel consiglio, e di tal pondo, -che 'l parer de le vecchie andò da canto, -che con Artemia volean far secondo -l'ordine antiquo; né lontan fu molto -ad esser per favore Elbanio assolto. -Di perdonargli in somma fu concluso, -ma poi che la decina avesse spento, -e che ne l'altro assalto fosse ad uso -di diece donne buono, e non di cento. -Di carcer l'altro giorno fu dischiuso; -e avuto arme e cavallo a suo talento, -contra dieci guerrier, solo, si mise, -e l'uno appresso all'altro in piazza uccise. -Fu la notte seguente a prova messo -contra diece donzelle ignudo e solo, -dove ebbe all'ardir suo sì buon successo, -che fece il saggio di tutto lo stuolo. -E questo gli acquistò tal grazia appresso -ad Orontea, che l'ebbe per figliuolo; -e gli diede Alessandra e l'altre nove -con ch'avea fatto le notturne prove. -E lo lasciò con Alessandra bella, -che poi diè nome a questa terra, erede, -con patto, ch'a servare egli abbia quella -legge, ed ogn'altro che da lui succede: -che ciascun che già mai sua fiera stella -farà qui por lo sventurato piede, -elegger possa, o in sacrificio darsi, -o con dieci guerrier, solo, provarsi. -E se gli avvien che 'l dì gli uomini uccida, -la notte con le femine si provi; -e quando in questo ancor tanto gli arrida -la sorte sua, che vincitor si trovi, -sia del femineo stuol principe e guida, -e la decina a scelta sua rinovi, -con la qual regni, fin ch'un altro arrivi, -che sia più forte, e lui di vita privi. -Appresso a duamila anni il costume empio -si è mantenuto, e si mantiene ancora; -e sono pochi giorni che nel tempio -uno infelice peregrin non mora. -Se contra dieci alcun chiede, ad esempio -d'Elbanio, armarsi (che ve n'è talora), -spesso la vita al primo assalto lassa; -né di mille uno all'altra prova passa. -Pur ci passano alcuni, ma sì rari, -che su le dita annoverar si ponno. -Uno di questi fu Argilon: ma guari -con la decina sua non fu qui donno; -che cacciandomi qui venti contrari, -gli occhi gli chiusi in sempiterno sonno. -Così fossi io con lui morto quel giorno, -prima che viver servo in tanto scorno. -Che piaceri amorosi e riso e gioco, -che suole amar ciascun de la mia etade, -le purpure e le gemme e l'aver loco -inanzi agli altri ne la sua cittade, -potuto hanno, per Dio, mai giovar poco -all'uom che privo sia di libertade: -e 'l non poter mai più di qui levarmi, -servitù grave e intolerabil parmi. -Il vedermi lograr dei miglior anni -il più bel fiore in sì vile opra e molle, -tiemmi il cor sempre in stimulo e in affanni, -ed ogni gusto di piacer mi tolle. -La fama del mio sangue spiega i vanni -per tutto 'l mondo, e fin al ciel s'estolle; -che forse buona parte anch'io n'avrei, -s'esser potessi coi fratelli miei. -Parmi ch'ingiuria il mio destin mi faccia, -avendomi a sì vil servigio eletto; -come chi ne l'armento il destrier caccia, -il qual d'occhi o di piedi abbia difetto, -o per altro accidente che dispiaccia, -sia fatto all'arme e a miglior uso inetto: -né sperando io, se non per morte, uscire -di sì vil servitù, bramo morire. — -Guidon qui fine alle parole pose, -e maledì quel giorno per isdegno, -il qual dei cavallieri e de le spose -gli diè vittoria in acquistar quel regno. -Astolfo stette a udire, e si nascose -tanto, che si fe' certo a più d'un segno, -che, come detto avea, questo Guidone -era figliol del suo parente Amone. -Poi gli rispose: — Io sono il duca inglese, -il tuo cugino Astolfo; — ed abbracciollo, -e con atto amorevole e cortese, -non senza sparger lagrime, baciollo. -— Caro parente mio, non più palese -tua madre ti potea por segno al collo; -ch'a farne fede che tu sei de' nostri, -basta il valor che con la spada mostri. — -Guidon, ch'altrove avria fatto gran festa -d'aver trovato un sì stretto parente, -quivi l'accolse con la faccia mesta, -perché fu di vedervilo dolente. -Se vive, sa ch'Astolfo schiavo resta, -né il termine è più là che 'l dì seguente; -se fia libero Astolfo, ne more esso: -sì che 'l ben d'uno è il mal de l'altro espresso. -Gli duol che gli altri cavallieri ancora -abbia, vincendo, a far sempre captivi; -né più, quando esso in quel contrasto mora, -potrà giovar che servitù lor schivi: -che se d'un fango ben gli porta fuora, -e poi s'inciampi come all'altro arrivi, -avrà lui senza pro vinto Marfisa; -ch'essi pur ne fien schiavi, ed ella uccisa. -Da l'altro canto avea l'acerba etade, -la cortesia e il valor del giovinetto -d'amore intenerito e di pietade -tanto a Marfisa ed ai compagni il petto, -che, con morte di lui lor libertade -esser dovendo, avean quasi a dispetto: -e se Marfisa non può far con manco -ch'uccider lui, vuol essa morir anco. -Ella disse a Guidon: — Vientene insieme -con noi, ch'a viva forza usciren quinci. — -— Deh (rispose Guidon) lascia ogni speme -di mai più uscirne, o perdi meco o vinci. — -Ella suggiunse: — Il mio cor mai non teme -di non dar fine a cosa che cominci; -né trovar so la più sicura strada -di quella ove mi sia guida la spada. -Tal ne la piazza ho il tuo valor provato, -che, s'io son teco, ardisco ad ogn'impresa. -Quando la turba intorno allo steccato -sarà domani in sul teatro ascesa, -io vo' che l'uccidian per ogni lato, -o vada in fuga o cerchi far difesa, -e ch'agli lupi e agli avoltoi del loco -lasciamo i corpi, e la cittade al fuoco. — -Suggiunse a lei Guidon: — Tu m'avrai pronto -a seguitarti ed a morirti a canto, -ma vivi rimaner non facciàn conto; -bastar ne può di vendicarci alquanto: -che spesso diecimila in piazza conto -del popul feminile, ed altretanto -resta a guardare e porto e rocca e mura, -né alcuna via d'uscir trovo sicura. — -Disse Marfisa: — E molto più sieno elle -degli uomini che Serse ebbe già intorno, -e sieno più de l'anime ribelle -ch'uscir del ciel con lor perpetuo scorno; -se tu sei meco, o almen non sie con quelle, -tutte le voglio uccidere in un giorno. — -Guidon suggiunse: — Io non ci so via alcuna -ch'a valer n'abbia, se non val quest'una. -Ne può sola salvar, se ne succede, -quest'una ch'io dirò, ch'or mi soviene. -Fuor ch'alle donne, uscir non si concede, -né metter piede in su le salse arene: -e per questo commettermi alla fede -d'una de le mie donne mi conviene, -del cui perfetto amor fatta ho sovente -più pruova ancor, ch'io non farò al presente. -Non men di me tormi costei disia -di servitù, pur che ne venga meco, -che così spera, senza compagnia -de le rivali sue, ch'io viva seco. -Ella nel porto o fuste o saettia -farà ordinar, mentre è ancor l'aer cieco, -che i marinai vostri troveranno -acconcia a navigar, come vi vanno. -Dietro a me tutti in un drappel ristretti, -cavallieri, mercanti e galeotti, -ch'ad albergarvi sotto a questi tetti -meco, vostra merce, sète ridotti, -avrete a farvi amplo sentier coi petti, -se del nostro camin siamo interrotti: -così spero, aiutandoci le spade, -ch'io vi trarrò de la crudel cittade. — -— Tu fa come ti par (disse Marfisa), -ch'io son per me d'uscir di qui sicura. -Più facil fia che di mia mano uccisa -la gente sia, che è dentro a queste mura, -che mi veggi fuggire, o in altra guisa -alcun possa notar ch'abbi paura. -Vo' uscir di giorno, e sol per forza d'arme; -che per ogn'altro modo obbrobrio parme. -S'io ci fossi per donna conosciuta, -so ch'avrei da le donne onore e pregio; -e volentieri io ci sarei tenuta -e tra le prime forse del collegio: -ma con costoro essendoci venuta, -non ci vo' d'essi aver più privilegio. -Troppo error fôra ch'io mi stessi o andassi -libera, e gli altri in servitù lasciassi. — -Queste parole ed altre seguitando, -mostrò Marfisa che 'l rispetto solo -ch'avea al periglio de' compagni (quando -potria loro il suo ardir tornare in duolo), -la tenea che con alto e memorando -segno d'ardir non assalia lo stuolo: -e per questo a Guidon lascia la cura -d'usar la via che più gli par sicura. -Guidon la notte con Aleria parla -(così avea nome la più fida moglie), -né bisogno gli fu molto pregarla, -che la trovò disposta alle sue voglie. -Ella tolse una nave e fece armarla, -e v'arrecò le sue più ricche spoglie, -fingendo di volere al nuovo albore -con le compagne uscire in corso fuore. -Ella avea fatto nel palazzo inanti -spade e lance arrecar, corazze e scudi, -onde armar si potessero i mercanti -e i galeotti ch'eran mezzo nudi. -Altri dormiro, ed altri ster vegghianti, -compartendo tra lor gli ozi e gli studi; -spesso guardando, e pur con l' arme indosso, -se l'oriente ancor si facea rosso. -Dal duro volto de la terra il sole -non tollea ancora il velo oscuro ed atro; -a pena avea la licaonia prole -per li solchi del ciel volto l'aratro: -quando il femineo stuol, che veder vuole -il fin de la battaglia, empì il teatro, -come ape del suo claustro empie la soglia, -che mutar regno al nuovo tempo voglia. -Di trombe, di tambur, di suon de corni -il popul risonar fa cielo e terra, -così citando il suo signor, che torni -a terminar la cominciata guerra. -Aquilante e Grifon stavano adorni -de le lor arme, e il duca d'Inghilterra, -Guidon, Marfisa, Sansonetto e tutti -gli altri, chi a piedi e chi a cavallo istrutti. -Per scender dal palazzo al mare e al porto, -la piazza traversar si convenia, -né v'era altro camin lungo né corto: -così Guidon disse alla compagnia. -E poi che di ben far molto conforto -lor diede, entrò senza rumore in via; -e ne la piazza, dove il popul era, -s'appresentò con più di cento in schiera. -Molto affrettando i suoi compagni, andava -Guidone all'altra porta per uscire: -ma la gran moltitudine che stava -intorno armata, e sempre atta a ferire, -pensò, come lo vide che menava -seco quegli altri, che volea fuggire; -e tutta a un tratto agli archi suoi ricorse, -e parte, onde s'uscia, venne ad opporse. -Guidone e gli altri cavallier gagliardi, -e sopra tutti lor Marfisa forte, -al menar de le man non furon tardi, -e molto fer per isforzar le porte: -ma tanta e tanta copia era dei dardi -che, con ferite dei compagni e morte, -pioveano lor di sopra e d'ogn'intorno, -ch'al fin temean d'averne danno e scorno. -D'ogni guerrier l'usbergo era perfetto; -che se non era, avean più da temere. -Fu morto il destrier sotto a Sansonetto; -quel di Marfisa v'ebbe a rimanere. -Astolfo tra sé disse: — Ora, ch'aspetto -che mai mi possa il corno più valere? -Io vo' veder, poi che non giova spada, -s'io so col corno assicurar la strada. — -Come aiutar ne le fortune estreme -sempre si suol, si pone il corno a bocca. -Par che la terra e tutto 'l mondo trieme, -quando l'orribil suon ne l'aria scocca. -Sì nel cor de la gente il timor preme, -che per disio di fuga si trabocca -giù del teatro sbigottita e smorta, -non che lasci la guardia de la porta. -Come talor si getta e si periglia -e da finestra e da sublime loco -l'esterrefatta subito famiglia, -che vede appresso e d'ogn'intorno il fuoco, -che mentre le tenea gravi le ciglia -il pigro sonno, crebbe a poco a poco: -così messa la vita in abandono, -ognun fuggia lo spaventoso suono. -Di qua di là, di su di giù smarrita -surge la turba, e di fuggir procaccia. -Son più di mille a un tempo ad ogni uscita: -cascano a monti, e l'una l'altra impaccia. -In tanta calca perde altra la vita; -da palchi e da finestre altra si schiaccia: -più d'un braccio si rompe e d'una testa, -di ch'altra morta, altra storpiata resta. -Il pianto e 'l grido insino al ciel saliva, -d'alta ruina misto e di fraccasso. -Affretta, ovunque il suon del corno arriva, -la turba spaventata in fuga il passo. -Se udite dir che d'ardimento priva -la vil plebe si mostri e di cor basso, -non vi maravigliate, che natura -è de la lepre aver sempre paura. -Ma che direte del già tanto fiero -cor di Marfisa e di Guidon Selvaggio? -dei dua giovini figli d'Oliviero, -che già tanto onoraro il lor lignaggio? -Già centomila avean stimato un zero; -e in fuga or se ne van senza coraggio, -come conigli, o timidi colombi -a cui vicino alto rumor rimbombi. -Così noceva ai suoi come agli strani -la forza che nel corno era incantata. -Sansonetto, Guidone e i duo germani -fuggon dietro a Marfisa spaventata; -né fuggendo ponno ir tanto lontani, -che lor non sia l'orecchia anco intronata. -Scorre Astolfo la terra in ogni lato, -dando via sempre al corno maggior fiato. -Chi scese al mare, e chi poggiò su al monte, -e chi tra i boschi ad occultar si venne: -alcuna, senza mai volger la fronte, -fuggir per dieci dì non si ritenne: -uscì in tal punto alcuna fuor del ponte, -ch'in vita sua mai più non vi rivenne. -Sgombraro in modo e piazze e templi e case, -che quasi vota la città rimase. -Marfisa e 'l bon Guidone e i duo fratelli -e Sansonetto, pallidi e tremanti, -fuggiano inverso il mare, e dietro a quelli -fuggian i marinari e i mercatanti; -ove Aleria trovar, che, fra i castelli, -loro avea un legno apparecchiato inanti. -Quindi, poi ch'in gran fretta li raccolse, -diè i remi all'acqua ed ogni vela sciolse. -Dentro e d'intorno il duca la cittade -avea scorsa dai colli insino all'onde; -fatto avea vote rimaner le strade: -ognun lo fugge, ognun se gli nasconde. -Molte trovate fur, che per viltade -s'eran gittate in parti oscure e immonde; -e molte, non sappiendo ove s'andare, -messesi a nuoto ed affogate in mare. -Per trovare i compagni il duca viene, -che si credea di riveder sul molo. -Si volge intorno, e le deserte arene -guarda per tutto, e non v'appare un solo. -Leva più gli occhi, e in alto a vele piene -da sé lontani andar li vede a volo: -sì che gli convien fare altro disegno -al suo camin, poi che partito è il legno. -Lasciamolo andar pur — né vi rincresca -che tanta strada far debba soletto -per terra d'infedeli e barbaresca, -dove mai non si va senza sospetto: -non è periglio alcuno, onde non esca -con quel suo corno, e n'ha mostrato effetto; — -e dei compagni suoi pigliamo cura, -ch'al mar fuggian tremando di paura. -A piena vela si cacciaron lunge -da la crudele e sanguinosa spiaggia: -e poi che di gran lunga non li giunge -l'orribil suon ch'a spaventar più gli aggia, -insolita vergogna sì gli punge, -che, com'un fuoco, a tutti il viso raggia. -L'un non ardisce a mirar l'altro, e stassi -tristo, senza parlar, con gli occhi bassi. -Passa il nocchiero, al suo viaggio intento, -e Cipro e Rodi, e giù per l'onda egea -da sé vede fuggire isole cento -col periglioso capo di Malea; -e con propizio ed immutabil vento -asconder vede la greca Morea; -volta Sicilia, e per lo mar Tirreno -costeggia de l'Italia il lito ameno: -e sopra Luna ultimamente sorse, -dove lasciato avea la sua famiglia. -Dio ringraziando che 'l pelago corse -senza più danno, il noto lito piglia. -Quindi un nochier trovar per Francia sciorse, -il qual di venir seco li consiglia: -e nel suo legno ancor quel dì montaro, -ed a Marsilia in breve si trovaro. -Quivi non era Bradamante allora, -ch'aver solea governo del paese; -che se vi fosse, a far seco dimora -gli avria sforzati con parlar cortese. -Sceser nel lito, e la medesima ora -dai quattro cavallier congedo prese -Marfisa, e da la donna del Selvaggio; -e pigliò alla ventura il suo viaggio, -dicendo che lodevole non era -ch'andasser tanti cavallieri insieme: -che gli storni e i colombi vanno in schiera, -i daini e i cervi e ogn'animal che teme; -ma l'audace falcon, l'aquila altiera, -che ne l'aiuto altrui non metton speme -orsi, tigri, leon, soli ne vanno; -che di più forza alcun timor non hanno. -Nessun degli altri fu di quel pensiero; -sì ch'a lei sola toccò a far partita. -Per mezzo i boschi e per strano sentiero -dunque ella se n'andò sola e romita. -Grifone il bianco ed Aquilante il nero -pigliar con gli altri duo la via più trita, -e giunsero a un castello il dì seguente, -dove albergati fur cortesemente. -Cortesemente dico in apparenza, -ma tosto vi sentir contrario effetto; -che 'l signor del castel, benivolenza -fingendo e cortesia, lor dè ricetto: -e poi la notte, che sicuri senza -timor dormian, gli fe' pigliar nel letto; -né prima li lasciò, che d'osservare -una costuma ria li fe' giurare. -Ma vo' seguir la bellicosa donna, -prima, Signor, che di costor più dica. -Passò Druenza, il Rodano e la Sonna, -e venne a piè d'una montagna aprica. -Quivi lungo un torrente, in negra gonna -vide venire una femina antica, -che stanca e lassa era di lunga via, -ma via più afflitta di malenconia. -Questa è la vecchia che solea servire -ai malandrin nel cavernoso monte, -là dove alta giustizia fe' venire -e dar lor morte il paladino conte. -La vecchia, che timore ha di morire -per le cagion che poi vi saran conte, -già molti dì va per via oscura e fosca, -fuggendo ritrovar chi la conosca. -Quivi d'estrano cavallier sembianza -l'ebbe Marfisa all'abito e all'arnese; -e perciò non fuggì, com'avea usanza -fuggir dagli altri ch'eran del paese; -anzi con sicurezza e con baldanza -si fermò al guado, e di lontan l'attese: -al guado del torrente, ove trovolla, -la vecchia le uscì incontra e salutolla. -Poi la pregò che seco oltr'a quell'acque -ne l'altra ripa in groppa la portasse. -Marfisa che gentil fu da che nacque, -di là dal fiumicel seco la trasse; -e portarla anch'un pezzo non le spiacque, -fin ch'a miglior camin la ritornasse, -fuor d'un gran fango; e al fin di quel sentiero -si videro all'incontro un cavalliero. -Il cavallier su ben guernita sella, -di lucide arme e di bei panni ornato, -verso il fiume venìa da una donzella -e da un solo scudiero accompagnato. -La donna ch'avea seco era assai bella, -ma d'altiero sembiante e poco grato, -tutta d'orgoglio e di fastidio piena, -del cavallier ben degna che la mena. -Pinabello, un de' conti maganzesi, -era quel cavallier ch'ella avea seco; -quel medesmo che dianzi a pochi mesi -Bradamante gittò nel cavo speco. -Quei sospir, quei singulti così accesi, -quel pianto che lo fe' già quasi cieco, -tutto fu per costei ch'or seco avea, -che 'l negromante allor gli ritenea. -Ma poi che fu levato di sul colle -l'incantato castel del vecchio Atlante, -e che poté ciascuno ire ove volle, -per opra e per virtù di Bradamante; -costei, ch'agli disii facile e molle -di Pinabel sempre era stata inante, -si tornò a lui, ed in sua compagnia -da un castello ad un altro or se ne gìa. -E sì come vezzosa era e mal usa, -quando vide la vecchia di Marfisa, -non si poté tenere a bocca chiusa -di non la motteggiar con beffe e risa. -Marfisa altiera, appresso a cui non s'usa -sentirsi oltraggio in qualsivoglia guisa, -rispose d'ira accesa alla donzella, -che di lei quella vecchia era più bella; -e ch'al suo cavallier volea provallo, -con patto di poi torre a lei la gonna -e il palafren ch'avea, se da cavallo -gittava il cavallier di ch'era donna. -Pinabel che faria, tacendo, fallo, -di risponder con l'arme non assonna: -piglia lo scudo e l'asta, e il destrier gira, -poi vien Marfisa a ritrovar con ira. -Marfisa incontra una gran lancia afferra, -e ne la vista a Pinabel l'arresta, -e sì stordito lo riversa in terra, -che tarda un'ora a rilevar la testa. -Marfisa vincitrice de la guerra, -fe' trarre a quella giovane la vesta, -ed ogn'altro ornamento le fe' porre, -e ne fe' il tutto alla sua vecchia torre: -e di quel giovenile abito volse -che si vestisse e se n'ornasse tutta; -e fe' che 'l palafreno anco si tolse, -che la giovane avea quivi condutta. -Indi al preso camin con lei si volse, -che quant'era più ornata, era più brutta. -Tre giorni se n'andar per lunga strada, -senza far cosa onde a parlar m'accada. -Il quarto giorno un cavallier trovaro, -che venìa in fretta galoppando solo. -Se di saper chi sia forse v'è caro, -dicovi ch'è Zerbin, di re figliuolo, -di virtù esempio e di bellezza raro, -che se stesso rodea d'ira e di duolo -di non aver potuto far vendetta -d'un che gli avea gran cortesia interdetta. -Zerbino indarno per la selva corse -dietro a quel suo che gli avea fatto oltraggio; -ma sì a tempo colui seppe via torse, -sì seppe nel fuggir prender vantaggio, -sì il bosco e sì una nebbia lo soccorse, -ch'avea offuscato il matutino raggio, -che di man di Zerbin si levò netto, -fin che l'ira e il furor gli uscì del petto. -Non poté, ancor che Zerbin fosse irato, -tener, vedendo quella vecchia, il riso; -che gli parea dal giovenile ornato -troppo diverso il brutto antiquo viso; -ed a Marfisa, che le venìa a lato, -disse: — Guerrier, tu sei pien d'ogni aviso, -che damigella di tal sorte guidi, -che non temi trovar chi te la invidi. -Avea la donna (se la crespa buccia -può darne indicio) più de la Sibilla, -e parea, così ornata, una bertuccia, -quando per muover riso alcun vestilla; -ed or più brutta par, che si coruccia, -e che dagli occhi l'ira le sfavilla: -ch'a donna non si fa maggior dispetto, -che quando o vecchia o brutta le vien detto. -Mostrò turbarse l'inclita donzella, -per prenderne piacer, come si prese; -e rispose a Zerbin: — Mia donna è bella, -per Dio, via più che tu non sei cortese; -come ch'io creda che la tua favella -da quel che sente l'animo non scese: -tu fingi non conoscer sua beltade, -per escusar la tua somma viltade. -E chi saria quel cavallier, che questa -sì giovane e sì bella ritrovasse -senza più compagnia ne la foresta, -e che di farla sua non si provasse? — -— Sì ben (disse Zerbin) teco s'assesta, -che saria mal ch'alcun te la levasse; -ed io per me non son così indiscreto, -che te ne privi mai; stanne pur lieto. -S'in altro conto aver vuoi a far meco, -di quel ch'io vaglio son per farti mostra; -ma per costei non mi tener sì cieco, -che solamente far voglia una giostra. -O brutta o bella sia, restisi teco: -non vo' partir tanta amicizia vostra. -Ben vi sète accoppiati: io giurerei, -com'ella è bella, tu gagliardo sei. — -Suggiunse a lui Marfisa: — Al tuo dispetto -di levarmi costei provar convienti. -Non vo' patir ch'un sì leggiadro aspetto -abbi veduto, e guadagnar nol tenti. — -Rispose a lei Zerbin — Non so a ch'effetto -l'uom si metta a periglio e si tormenti, -per riportarne una vittoria, poi, -che giovi al vinto, e al vincitore annoi. — -— Se non ti par questo partito buono, -te ne do un altro, e ricusar nol dei -(disse a Zerbin Marfisa): che s'io sono -vinto da te, m'abbia a restar costei; -ma s'io te vinco, a forza te la dono. -Dunque provian chi de' star senza lei: -se perdi, converrà che tu le faccia -compagnia sempre, ovunque andar le piaccia. — -— E così sia, — Zerbin rispose; e volse -a pigliar campo subito il cavallo. -Si levò su le staffe e si raccolse -fermo in arcione, e per non dare in fallo, -lo scudo in mezzo alla donzella colse; -ma parve urtasse un monte di metallo: -ed ella in guisa a lui toccò l'elmetto, -che stordito il mandò di sella netto. -Troppo spiacque a Zerbin l'esser caduto, -ch'in altro scontro mai più non gli avvenne, -e n'avea mille e mille egli abbattuto; -ed a perpetuo scorno se lo tenne. -Stette per lungo spazio in terra muto; -e più gli dolse poi che gli sovenne -ch'avea promesso e che gli convenia -aver la brutta vecchia in compagnia. -Tornando a lui la vincitrice in sella, -disse ridendo: — Questa t'appresento; -e quanto più la veggio e grata e bella, -tanto, ch'ella sia tua, più mi contento. -Or tu in mio loco sei campion di quella; -ma la tua fé non se ne porti il vento, -che per sua guida e scorta tu non vada -(come hai promesso) ovunque andar l'aggrada. — -Senza aspettar risposta urta il destriero -per la foresta, e subito s'imbosca. -Zerbin, che la stimava un cavalliero, -dice alla vecchia: — Fa ch'io lo conosca. — -Ed ella non gli tiene ascoso il vero, -onde sa che lo 'ncende e che l'attosca: -— Il colpo fu di man d'una donzella, -che t'ha fatto votar (disse) la sella. -Per suo valor costei debitamente -usurpa a' cavallieri e scudo e lancia; -e venuta è pur dianzi d'Oriente -per assaggiare i paladin di Francia. — -Zerbin di questo tal vergogna sente, -che non pur tinge di rossor la guancia, -ma restò poco di non farsi rosso -seco ogni pezzo d'arme ch'avea indosso. -Monta a cavallo, e se stesso rampogna -che non seppe tener strette le cosce. -Tra sé la vecchia ne sorride, e agogna -di stimularlo e di più dargli angosce. -Gli ricorda ch'andar seco bisogna: -e Zerbin, ch'ubligato si conosce, -l'orecchie abbassa, come vinto e stanco -destrier c'ha in bocca il fren, gli sproni al fianco. -E sospirando: — Ohimè, Fortuna fella -(dicea), che cambio è questo che tu fai? -Colei che fu sopra le belle bella, -ch'esser meco dovea, levata m'hai. -Ti par ch'in luogo ed in ristor di quella -si debba por costei ch'ora mi dai? -Stare in danno del tutto era men male, -che fare un cambio tanto diseguale. -Colei che di bellezze e di virtuti -unqua non ebbe e non avrà mai pare, -sommersa e rotta tra gli scogli acuti -hai data ai pesci ed agli augei del mare; -e costei che dovria già aver pasciuti -sotterra i vermi, hai tolta a perservare -dieci o venti anni più che non devevi, -per dar più peso agli mie' affanni grevi. — -Zerbin così parlava; né men tristo -in parole e in sembianti esser parea -di questo nuovo suo sì odioso acquisto, -che de la donna che perduta avea. -La vecchia, ancor che non avesse visto -mai più Zerbin, per quel ch'ora dicea, -s'avvide esser colui di che notizia -le diede già Issabella di Galizia. -Se 'l vi ricorda quel ch'avete udito, -costei da la spelonca ne veniva, -dove Issabella, che d'amor ferito -Zerbino avea, fu molti dì captiva. -Più volte ella le avea già riferito -come lasciasse la paterna riva, -e come rotta in mar da la procella, -si salvasse alla spiaggia di Rocella. -E sì spesso dipinto di Zerbino -le avea il bel viso e le fattezze conte, -ch'ora udendol parlare, e più vicino -gli occhi alzandogli meglio ne la fronte, -vide esser quel per cui sempre meschino -fu d'Issabella il cor nel cavo monte; -che di non veder lui più si lagnava, -che d'esser fatta ai malandrini schiava. -La vecchia, dando alle parole udienza, -che con sdegno e con duol Zerbino versa, -s'avede ben ch'egli ha falsa credenza -che sia Issabella in mar rotta e sommersa: -e ben ch'ella del certo abbia scienza, -per non lo rallegrar, pur la perversa -quel che far lieto lo potria, gli tace, -e sol gli dice quel che gli dispiace. -— Odi tu (gli disse ella), tu che sei -cotanto altier, che sì mi scherni e sprezzi, -se sapessi che nuova ho di costei -che morta piangi, mi faresti vezzi: -ma più tosto che dirtelo, torrei -che mi strozzassi o fêssi in mille pezzi; -dove, s'eri vêr me più mansueto, -forse aperto t'avrei questo secreto. — -Come il mastin che con furor s'aventa -adosso al ladro, ad achetarsi è presto, -che quello o pane o cacio gli appresenta, -o che fa incanto appropriato a questo; -così tosto Zerbino umil diventa, -e vien bramoso di sapere il resto, -che la vecchia gli accenna che di quella, -che morta piange, gli sa dir novella. -E volto a lei con più piacevol faccia, -la supplica, la prega, la scongiura -per gli uomini, per Dio, che non gli taccia -quanto ne sappia, o buona o ria ventura. -— Cosa non udirai che pro ti faccia -(disse la vecchia pertinace e dura): -non è Issabella, come credi, morta; -ma viva sì, ch'a' morti invidia porta. -È capitata in questi pochi giorni -che non n'udisti, in man di più di venti; -sì che, qualora anco in man tua ritorni, -ve' se sperar di corre il fior convienti. — -Ah vecchia maladetta, come adorni -la tua menzogna! e tu sai pur se menti. -Se ben in man de venti ell'era stata, -non l'avea alcun però mai violata. -Dove l'avea veduta domandolle -Zerbino, e quando, ma nulla n'invola; -che la vecchia ostinata più non volle -a quel c'ha detto aggiungere parola. -Prima Zerbin le fece un parlar molle, -poi minacciolle di tagliar la gola: -ma tutto è invan ciò che minaccia e prega; -che non può far parlar la brutta strega. -Lasciò la lingua all'ultimo in riposo -Zerbin, poi che 'l parlar gli giovò poco; -per quel ch'udito avea, tanto geloso, -che non trovava il cor nel petto loco; -d'Issabella trovar sì disioso, -che saria per vederla ito nel fuoco: -ma non poteva andar più che volesse -colei, poi ch'a Marfisa lo promesse. -E quindi per solingo e strano calle, -dove a lei piacque, fu Zerbin condotto; -né per o poggiar monte o scender valle, -mai si guardaro in faccia o si fer motto. -Ma poi ch'al mezzodì volse le spalle -il vago sol, fu il lor silenzio rotto -da un cavallier che nel cammin scontraro. -Quel che seguì, ne l'altro canto è chiaro. Né fune intorto crederò che stringa -soma così, né così legno chiodo, -come la fé ch'una bella alma cinga -del suo tenace indissolubil nodo. -Né dagli antiqui par che si dipinga -la santa Fé vestita in altro modo, -che d'un vel bianco che la cuopra tutta: -ch'un sol punto, un sol neo la può far brutta. -La fede unqua non debbe esser corrotta, -o data a un solo, o data insieme a mille; -e così in una selva, in una grotta, -lontan da le cittadi e da le ville, -come dinanzi a tribunali, in frotta -di testimon, di scritti e di postille, -senza giurare o segno altro più espresso, -basti una volta che s'abbia promesso. -Quella servò, come servar si debbe -in ogni impresa, il cavallier Zerbino: -e quivi dimostrò che conto n'ebbe, -quando si tolse dal proprio camino -per andar con costei, la qual gl'increbbe, -come s'avesse il morbo sì vicino, -o pur la morte istessa; ma potea, -più che 'l disio, quel che promesso avea. -Dissi di lui, che di vederla sotto -la sua condotta tanto al cor gli preme, -che n'arrabbia di duol, né le fa motto, -e vanno muti e taciturni insieme: -dissi che poi fu quel silenzio rotto, -ch'al mondo il sol mostrò le ruote estreme, -da un cavalliero aventuroso errante, -ch'in mezzo del camin lor si fe' inante. -La vecchia che conobbe il cavalliero, -ch'era nomato Ermonide d'Olanda, -che per insegna ha ne lo scudo nero -attraversata una vermiglia banda, -posto l'orgoglio e quel sembiante altiero, -umilmente a Zerbin si raccomanda, -e gli ricorda quel ch'esso promise -alla guerriera ch'in sua man la mise. -Perché di lei nimico e di sua gente -era il guerrier che contra lor venìa: -ucciso ad essa avea il padre innocente, -e un fratello che solo al mondo avia; -e tuttavolta far del rimanente, -come degli altri, il traditor disia. -— Fin ch'alla guardia tua, donna, mi senti -(dicea Zerbin), non vo' che tu paventi. — -Come più presso il cavallier si specchia -in quella faccia che sì in odio gli era: -— O di combatter meco t'apparecchia -(gridò con voce minacciosa e fiera), -o lascia la difesa de la vecchia, -che di mia man secondo il merto pera. -Se combatti per lei, rimarrai morto; -che così avviene a chi s'appiglia al torto. — -Zerbin cortesemente a lui risponde -che gli è desir di bassa e mala sorte, -ed a cavalleria non corrisponde -che cerchi dare ad una donna morte: -se pur combatter vuol, non si nasconde; -ma che prima consideri ch'importe -ch'un cavallier, com'era egli, gentile, -voglia por man nel sangue feminile, -Queste gli disse e più parole invano; -e fu bisogno al fin venire a' fatti. -Poi che preso a bastanza ebbon del piano, -tornarsi incontra a tutta briglia ratti. -Non van sì presti i razzi fuor di mano, -ch'al tempo son de le allegrezze tratti, -come andaron veloci i duo destrieri -ad incontrare insieme i cavallieri. -Ermonide d'Olanda segnò basso, -che per passare il destro fianco attese: -ma la sua debol lancia andò in fracasso, -e poco il cavallier di Scozia offese. -Non fu già l'altro colpo vano e casso: -roppe lo scudo, e sì la spalla prese, -che la forò da l'uno all'altro lato, -e riversar fe' Ermonide sul prato. -Zerbin che si pensò d'averlo ucciso, -di pietà vinto, scese in terra presto, -e levò l'elmo da lo smorto viso; -e quel guerrier, come dal sonno desto, -senza parlar guardò Zerbino fiso; -e poi gli disse: — Non m'è già molesto -ch'io sia da te abbattuto, ch'ai sembianti -mostri esser fior de' cavallier erranti; -ma ben mi duol che questo per cagione -d'una femina perfida m'avviene, -a cui non so come tu sia campione, -che troppo al tuo valor si disconviene. -E quando tu sapessi la cagione -ch'a vendicarmi di costei mi mene, -avresti, ognor che rimembrassi, affanno -d'aver, per campar lei, fatto a me danno. -E se spirto a bastanza avrò nel petto -ch'io il possa dir (ma del contrario temo), -io ti farò veder ch'in ogni effetto -scelerata è costei più ch'in estremo. -Io ebbi già un fratel che giovinetto -d'Olanda si partì, donde noi semo, -e si fece d'Eraclio cavalliero, -ch'allor tenea de' Greci il sommo impero. -Quivi divenne intrinseco e fratello -d'un cortese baron di quella corte, -che nei confin di Servia avea un castello -di sito ameno e di muraglia forte. -Nomossi Argeo colui di ch'io favello, -di questa iniqua femina consorte, -la quale egli amò sì, che passò il segno -ch'a un uom si convenia, come lui, degno. -Ma costei, più volubile che foglia -quando l'autunno è più priva d'umore, -che l' freddo vento gli arbori ne spoglia -e le soffia dinanzi al suo furore; -verso il marito cangiò tosto voglia, -che fisso qualche tempo ebbe nel core; -e volse ogni pensiero, ogni disio -d'acquistar per amante il fratel mio. -Ma né sì saldo all'impeto marino -l'Acrocerauno d'infamato nome, -né sta sì duro incontra borea il pino -che rinovato ha più di cento chiome, -che quanto appar fuor de lo scoglio alpino, -tanto sotterra ha le radici; come -il mio fratello a' prieghi di costei, -nido de tutti i vizi infandi e rei. -Or, come avviene a un cavallier ardito, -che cerca briga e la ritrova spesso, -fu in una impresa il mio fratel ferito, -molto al castel del suo compagno appresso, -dove venir senza aspettare invito -solea, fosse o non fosse Argeo con esso; -e dentro a quel per riposar fermosse -tanto che del suo mal libero fosse. -Mentre egli quivi si giacea, convenne -ch'in certa sua bisogna andasse Argeo. -Tosto questa sfacciata a tentar venne -il mio fratello, ed a sua usanza feo; -ma quel fedel non oltre più sostenne -avere ai fianchi un stimulo sì reo: -elesse, per servar sua fede a pieno, -di molti mal quel che gli parve meno. -Tra molti mal gli parve elegger questo: -lasciar d'Argeo l'intrinsichezza antiqua; -lungi andar sì, che non sia manifesto -mai più il suo nome alla femina iniqua. -Ben che duro gli fosse, era più onesto -che satisfare a quella voglia obliqua, -o ch'accusar la moglie al suo signore, -da cui fu amata a par del proprio core. -E de le sue ferite ancora infermo -l'arme si veste, e del castel si parte; -e con animo va costante e fermo -di non mai più tornare in quella parte. -Ma che gli val? ch'ogni difesa e schermo -gli disipa Fortuna con nuova arte; -ecco il marito che ritorna intanto, -e trova la moglier che fa gran pianto, -e scapigliata e con la faccia rossa; -e le domanda di che sia turbata. -Prima ch'ella a rispondere sia mossa, -pregar si lascia più d'una fiata, -pensando tuttavia come si possa -vendicar di colui che l'ha lasciata: -e ben convenne al suo mobile ingegno -cangiar l'amore in subitano sdegno. -— Deh (disse al fine), a che l'error nascondo -c'ho commesso, signor, ne la tua assenza? -che quando ancora io 'l celi a tutto 'l mondo, -celar nol posso alla mia coscienza. -L'alma che sente il suo peccato immondo, -pate dentro da sé tal penitenza, -ch'avanza ogn'altro corporal martire -che dar mi possa alcun del mio fallire; -quando fallir sia quel che si fa a forza: -ma sia quel che si vuol, tu sappil'anco; -poi con la spada da la immonda scorza -scioglie lo spirto imaculato e bianco, -e le mie luci eternamente ammorza; -che dopo tanto vituperio, almanco -tenerle basse ognor non mi bisogni, -e di ciascun ch'io vegga, io mi vergogni. -Il tuo compagno ha l'onor mio distrutto: -questo corpo per forza ha violato; -e perché teme ch'io ti narri il tutto, -or si parte il villan senza commiato. — -In odio con quel dir gli ebbe ridutto -colui che più d'ogn'altro gli fu grato. -Argeo lo crede, ed altro non aspetta; -ma piglia l'arme e corre a far vendetta. -E come quel ch'avea il paese noto, -lo giunse che non fu troppo lontano; -che 'l mio fratello, debole ed egroto, -senza sospetto se ne gìa pian piano: -e brevemente, in un loco remoto -pose, per vendicarsene, in lui mano. -Non trova il fratel mio scusa che vaglia; -ch'in somma Argeo con lui vuol la battaglia. -Era l'un sano e pien di nuovo sdegno, -infermo l'altro, ed all'usanza amico: -sì ch'ebbe il fratel mio poco ritegno -contra il compagno fattogli nimico. -Dunque Filandro di tal sorte indegno -(de l'infelice giovene ti dico: -così avea nome), non sofrendo il peso -di sì fiera battaglia, restò preso. -— Non piaccia a Dio che mi conduca a tale -il mio giusto furore e il tuo demerto -(gli disse Argeo), che mai sia omicidiale -di te ch'amava; e me tu amavi certo, -ben che nel fin me l'hai mostrato male; -pur voglio a tutto il mondo fare aperto -che, come fui nel tempo de l'amore, -così ne l'odio son di te migliore. -Per altro modo punirò il tuo fallo, -che le mie man più nel tuo sangue porre. — -Così dicendo, fece sul cavallo -di verdi rami una bara comporre, -e quasi morto in quella riportallo -dentro al castello in una chiusa torre, -dove in perpetuo per punizione -candannò l'innocente a star prigione. -Non però ch'altra cosa avesse manco, -che la libertà prima del partire; -perché nel resto, come sciolto e franco -vi comandava e si facea ubidire. -Ma non essendo ancor l'animo stanco -di questa ria del suo pensier fornire, -quasi ogni giorno alla prigion veniva; -ch'avea le chiavi, e a suo piacer l'apriva: -e movea sempre al mio fratello assalti, -e con maggiore audacia che di prima. -— Questa tua fedeltà (dicea) che valti, -poi che perfidia per tutto si stima? -Oh che trionfi gloriosi ed alti! -oh che superbe spoglie e preda opima! -oh che merito al fin te ne risulta, -se, come a traditore, ognun t'insulta! -Quanto utilmente, quanto con tuo onore -m'avresti dato quel che da te volli! -Di questo sì ostinato tuo rigore -la gran mercé che tu guadagni, or tolli: -in prigion sei, né crederne uscir fuore, -se la durezza tua prima non molli. -Ma quando mi compiacci, io farò trama -di racquistarti e libertade e fama. — -— No, no (disse Filandro) aver mai spene -che non sia, come suol, mia vera fede, -se ben contra ogni debito mi avviene -ch'io ne riporti sì dura mercede, -e di me creda il mondo men che bene: -basta che inanti a quel che 'l tutto vede -e mi può ristorar di grazia eterna, -chiara la mia innocenza si discerna. -Se non basta ch'Argeo mi tenga preso, -tolgami ancor questa noiosa vita. -Forse non mi fia il premio in ciel conteso -de la buona opra, qui poco gradita. -Forse egli, che da me si chiama offeso, -quando sarà quest'anima partita, -s'avedrà poi d'avermi fatto torto, -e piangerà il fedel compagno morto. — -Così più volte la sfacciata donna -tenta Filandro, e torna senza frutto. -Ma il cieco suo desir, che non assonna -del scelerato amor traer costrutto, -cercando va più dentro ch'alla gonna -suoi vizi antiqui, e ne discorre il tutto. -Mille pensier fa d'uno in altro modo, -prima che fermi in alcun d'essi il chiodo. -Stette sei mesi che non messe piede, -come prima facea, ne la prigione; -di che il miser Filandro e spera e crede -che costei più non gli abbia affezione. -Ecco Fortuna, al mal propizia, diede -a questa scelerata occasione -di metter fin con memorabil male -al suo cieco appetito irrazionale. -Antiqua nimicizia avea il marito -con un baron detto Morando il bello, -che, non v'essendo Argeo, spesso era ardito -di correr solo, e sin dentro al castello; -ma s'Argeo v'era, non tenea lo 'nvito, -né s'accostava a dieci miglia a quello. -Or, per poterlo indur che ci venisse, -d'ire in Ierusalem per voto disse. -Disse d'andare; e partesi ch'ognuno -lo vede, e fa di ciò sparger le grida: -né il suo pensier, fuor che la moglie, alcuno -puote saper; che sol di lei si fida. -Torna poi nel castello all'aer bruno, -né mai, se non la notte, ivi s'annida; -e con mutate insegne al nuovo albore, -senza vederlo alcun, sempre esce fuore. -Se ne va in questa e in quella parte errando, -e volteggiando al suo castello intorno, -pur per veder se credulo Morando -volesse far, come solea, ritorno. -Stava il dì tutto alla foresta; e quando -ne la marina vedea ascoso il giorno, -venìa al castello, e per nascose porte -lo togliea dentro l'infedel consorte. -Crede ciascun, fuor che l'iniqua moglie, -che molte miglia Argeo lontan si trove. -Dunque il tempo oportuno ella si toglie: -al fratel mio va con malizie nuove. -Ha di lagrime a tutte le sue voglie -un nembo che dagli occhi al sen le piove. -— Dove potrò (dicea) trovare aiuto, -che in tutto l'onor mio non sia perduto? -E col mio quel del mio marito insieme, -il qual se fosse qui, non temerei. -Tu conosci Morando, e sai se teme, -quando Argeo non ci sente, omini e dei. -Questi or pregando, or minacciando, estreme -prove fa tuttavia, né alcun de' miei -lascia che non contamini, per trarmi -a' suoi desii, né so s'io potrò aitarmi. -Or c'ha inteso il partir del mio consorte, -e ch'al ritorno non sarà sì presto, -ha avuto ardir d'entrar ne la mia corte -senza altra scusa e senz'altro pretesto; -che se ci fosse il mio signor per sorte, -non sol non avria audacia di far questo, -ma non si terria ancor, per Dio, sicuro -d'appressarsi a tre miglia a questo muro. -E quel che già per messi ha ricercato, -oggi me l'ha richiesto a fronte a fronte, -e con tai modi, che gran dubbio è stato -de lo avvenirmi disonore ed onte, -e se non che parlar dolce gli ho usato, -e finto le mie voglie alle sue pronte, -saria a forza, di quel suto rapace, -che spera aver per mie parole in pace. -Promesso gli ho, non già per osservargli -(che fatto per timor, nullo è il contratto); -ma la mia intenzion fu per vietargli -quel che per forza avrebbe allora fatto. -Il caso è qui: tu sol pòi rimediargli; -del mio onor altrimenti sarà tratto, -e di quel del mio Argeo, che già m'hai detto -aver o tanto, o più che 'l proprio, a petto. -E se questo mi nieghi, io dirò dunque -ch'in te non sia la fé di che ti vanti; -ma che fu sol per crudeltà, qualunque -volta hai sprezzati i miei supplici pianti; -non per rispetto alcun d'Argeo, quantunque -m'hai questo scudo ognora opposto inanti. -Saria stato tra noi la cosa occulta; -ma di qui aperta infamia mi risulta. — -— Non si convien (disse Filandro) tale -prologo a me, per Argeo mio disposto. -Narrami pur quel che tu vuoi, che quale -sempre fui, di sempre essere ho proposto; -e ben ch'a torto io ne riporti male, -a lui non ho questo peccato imposto. -Per lui son pronto andare anco alla morte, -e siami contra il mondo e la mia sorte. — -Rispose l'empia: — Io voglio che tu spenga -colui che 'l nostro disonor procura. -Non temer ch'alcun mal di ciò t'avenga; -ch'io te ne mostrerò la via sicura. -Debbe egli a me tornar come rivenga -su l'ora terza la notte più scura; -e fatto un segno de ch'io l'ho avvertito, -io l'ho a tor dentro, che non sia sentito. -A te non graverà prima aspettarme -ne la camera mia dove non luca, -tanto che dispogliar gli faccia l'arme, -e quasi nudo in man te lo conduca. — -Così la moglie conducesse parme -il suo marito alla tremenda buca; -se per dritto costei moglie s'appella, -più che furia infernal crudele e fella. -Poi che la notte scelerata venne, -fuor trasse il mio fratel con l'arme in mano; -e ne l'oscura camera lo tenne, -fin che tornasse il miser castellano. -Come ordine era dato, il tutto avvenne; -che 'l consiglio del mal va raro invano. -Così Filandro il buon Argeo percosse, -che si pensò che quel Morando fosse. -Con esso un colpo il capo fesse e il collo; -ch'elmo non v'era, e non vi fu riparo. -Pervenne Argeo, senza pur dare un crollo, -de la misera vita al fine amaro: -e tal l'uccise, che mai non pensollo, -né mai l'avria creduto: oh caso raro! -che cercando giovar, fece all'amico -quel di che peggio non si fa al nimico. -Poscia ch'Argeo non conosciuto giacque, -rende a Gabrina il mio fratel la spada. -Gabrina è il nome di costei, che nacque -sol per tradire ognun che in man le cada. -Ella, che 'l ver fin a quell'ora tacque, -vuol che Filandro a riveder ne vada -col lume in mano il morto ond'egli è reo: -e gli dimostra il suo compagno Argeo. -E gli minaccia poi, se non consente -all'amoroso suo lungo desire, -di palesare a tutta quella gente -quel ch'egli ha fatto, e nol può contradire; -e lo farà vituperosamente -come assassino e traditor morire: -e gli ricorda che sprezzar la fama -non de', se ben la vita sì poco ama. -Pien di paura e di dolor rimase -Filandro, poi che del suo error s'accorse. -Quasi il primo furor gli persuase -d'uccider questa, e stette un pezzo in forse: -e se non che ne le nimiche case -si ritrovò (che la ragion soccorse), -non si trovando avere altr'arme in mano, -coi denti la stracciava a brano a brano. -Come ne l'alto mar legno talora, -che da duo venti sia percosso e vinto, -ch'ora uno inanzi l'ha mandato, ed ora -un altro al primo termine respinto, -e l'han girato da poppa e da prora, -dal più possente al fin resta sospinto; -così Filandro, tra molte contese -de' duo pensieri, al manco rio s'apprese. -Ragion gli dimostrò il pericol grande, -oltre al morir, del fine infame e sozzo, -se l'omicidio nel castel si spande; -e del pensare il termine gli è mozzo. -Voglia o non voglia, al fin convien che mande -l'amarissimo calice nel gozzo. -Pur finalmente ne l'afflitto core -più de l'ostinazion poté il timore. -Il timor del supplicio infame e brutto -prometter fece con mille scongiuri, -che faria di Gabrina il voler tutto, -se di quel luogo se partian sicuri. -Così per forza colse l'empia il frutto -del suo desire, e poi lasciar quei muri. -Così Filandro a noi fece ritorno, -di sé lasciando in Grecia infamia e scorno. -E portò nel cor fisso il suo compagno -che così scioccamente ucciso avea, -per far con sua gran noia empio guadagno -d'una Progne crudel, d'una Medea. -E se la fede e il giuramento, magno -e duro freno, non lo ritenea, -come al sicuro fu, morta l'avrebbe; -ma, quanto più si puote, in odio l'ebbe. -Non fu da indi in qua rider mai visto: -tutte le sue parole erano meste, -sempre sospir gli uscian dal petto tristo, -ed era divenuto un nuovo Oreste, -poi che la madre uccise e il sacro Egisto, -e che l'ultrice Furie ebbe moleste. -E senza mai cessar, tanto l'afflisse -questo dolor, ch'infermo al letto il fisse. -Or questa meretrice, che si pensa -quanto a quest'altro suo poco sia grata, -muta la fiamma già d'amore intensa -in odio, in ira ardente ed arrabbiata; -né meno è contra al mio fratello accensa, -che fosse contra Argeo la scelerata: -e dispone tra sé levar dal mondo, -come il primo marito, anco il secondo. -Un medico trovò d'inganni pieno, -sufficiente ed atto a simil uopo, -che sapea meglio uccider di veneno, -che risanar gl'infermi di silopo; -e gli promesse, inanzi più che meno -di quel che domandò, donargli, dopo -ch'avesse con mortifero liquore -levatole dagli occhi il suo signore. -Già in mia presenza e d'altre più persone -venìa col tosco in mano il vecchio ingiusto, -dicendo ch'era buona pozione -da ritornare il mio fratel robusto. -Ma Gabrina con nuova intenzione, -pria che l'infermo ne turbasse il gusto, -per torsi il consapevole d'appresso, -o per non dargli quel ch'avea promesso, -la man gli prese, quando a punto dava -la tazza dove il tosco era celato, -dicendo: — Ingiustamente è se 'l ti grava -ch'io tema per costui c'ho tanto amato. -Voglio esser certa che bevanda prava -tu non gli dia, né succo avelenato; -e per questo mi par che 'l beveraggio -non gli abbi a dar, se non ne fai tu il saggio. — -Come pensi, signor, che rimanesse -il miser vecchio conturbato allora? -La brevità del tempo sì l'oppresse, -che pensar non poté che meglio fôra; -pur, per non dar maggior sospetto, elesse -il calice gustar senza dimora: -e l'infermo, seguendo una tal fede, -tutto il resto pigliò, che si gli diede. -Come sparvier che nel piede grifagno -tenga la starna e sia per trarne pasto, -dal can che si tenea fido compagno, -ingordamente è sopragiunto e guasto; -così il medico intento al rio guadagno, -donde sperava aiuto ebbe contrasto. -Odi di summa audacia esempio raro! -e così avvenga a ciascun altro avaro. -Fornito questo, il vecchio s'era messo, -per ritornare alla sua stanza, in via, -ed usar qualche medicina appresso, -che lo salvasse da la peste ria; -ma da Gabrina non gli fu concesso, -dicendo non voler ch'andasse pria -che 'l succo ne lo stomaco digesto -il suo valor facesse manifesto. -Pregar non val, né far di premio offerta, -che lo voglia lasciar quindi partire. -Il disperato, poi che vede certa -la morte sua, né la poter fuggire, -ai circostanti fa la cosa aperta; -né la seppe costei troppo coprire. -E così quel che fece agli altri spesso, -quel buon medico al fin fece a se stesso: -e sequitò con l'alma quella ch'era -già de mio frate caminata inanzi. -Noi circostanti, che la cosa vera -del vecchio udimmo, che fe' pochi avanzi, -pigliammo questa abominevol fera, -più crudel di qualunque in selva stanzi; -e la serrammo in tenebroso loco, -per condannarla al meritato foco. — -Questo Ermonide disse, e più voleva -seguir, com'ella di prigion levossi; -ma il dolor de la piaga sì l'aggreva, -che pallido ne l'erba riversossi. -Intanto duo scudier, che seco aveva, -fatto una bara avean di rami grossi: -Ermonide si fece in quella porre; -ch'indi altrimente non si potea torre. -Zerbin col cavallier fece sua scusa, -che gl'increscea d'averli fatto offesa; -ma, come pur tra cavallieri s'usa, -colei che venìa seco avea difesa: -ch'altrimente sua fé saria confusa; -perché, quando in sua guardia l'avea presa, -promesse a sua possanza di salvarla -contra ognun che venisse a disturbarla. -E s'in altro potea gratificargli, -prontissimo offeriase alla sua voglia. -Rispose il cavallier, che ricordargli -sol vuol, che da Gabrina si discioglia -prima ch'ella abbia cosa a machinargli, -di ch'esso indarno poi si penta e doglia. -Gabrina tenne sempre gli occhi bassi, -perché non ben risposta al vero dassi. -Con la vecchia Zerbin quindi partisse -al già promesso debito viaggio; -e tra sé tutto il dì la maledisse, -che far gli fece a quel barone oltraggio. -Ed or che pel gran mal che gli ne disse -chi lo sapea, di lei fu istrutto e saggio, -se prima l'avea a noia e a dispiacere, -or l'odia sì che non la può vedere. -Ella che di Zerbin sa l'odio a pieno, -né in mala voluntà vuole esser vinta, -un'oncia a lui non ne riporta meno: -la tien di quarta, e la rifà di quinta. -Nel cor era gonfiata di veneno, -e nel viso altrimente era dipinta. -Dunque ne la concordia ch'io vi dico, -tenean lor via per mezzo il bosco antico. -Ecco, volgendo il sol verso la sera, -udiron gridi e strepiti e percosse, -che facean segno di battaglia fiera -che, quanto era il rumor, vicina fosse. -Zerbino, per veder la cosa ch'era, -verso il rumore in gran fretta si mosse: -non fu Gabrina lenta a seguitarlo. -Di quel ch'avvenne, all'altro canto io parlo. Cortesi donne e grate al vostro amante, -voi che d'un solo amor sète contente, -come che certo sia, fra tante e tante, -che rarissime siate in questa mente; -non vi dispiaccia quel ch'io dissi inante, -quando contra Gabrina fui sì ardente, -e s'ancor son per spendervi alcun verso, -di lei biasmando l'animo perverso. -Ella era tale; e come imposto fummi -da chi può in me, non preterisco il vero. -Per questo io non oscuro gli onor summi -d'una e d'un'altra ch'abbia il cor sincero. -Quel che 'l Maestro suo per trenta nummi -diede a' Iudei, non nocque a Ianni o a Piero; -né d'Ipermestra è la fama men bella, -se ben di tante inique era sorella. -Per una che biasmar cantando ardisco -(che l'ordinata istoria così vuole), -lodarne cento incontra m'offerisco, -e far lor virtù chiara più che 'l sole. -Ma tornando al lavor che vario ordisco, -ch'a molti, lor mercé, grato esser suole, -del cavallier di Scozia io vi dicea, -ch'un alto grido appresso udito avea. -Fra due montagne entrò in un stretto calle -onde uscia il grido, e non fu molto inante, -che giunse dove in una chiusa valle -si vide un cavallier morto davante. -Chi sia dirò; ma prima dar le spalle -a Francia voglio, e girmene in Levante, -tanto ch'io trovi Astolfo paladino, -che per Ponente avea preso il camino. -Io lo lasciai ne la città crudele, -onde col suon del formidabil corno -avea cacciato il populo infedele, -e gran periglio toltosi d'intorno, -ed a' compagni fatto alzar le vele, -e dal lito fuggir con grave scorno. -Or seguendo di lui, dico che prese -la via d'Armenia, e uscì di quel paese. -E dopo alquanti giorni in Natalia -trovossi, e inverso Bursia il camin tenne; -onde, continuando la sua via -di qua dal mare, in Tracia se ne venne. -Lungo il Danubio andò per l'Ungaria; -e come avesse il suo destrier le penne, -i Moravi e i Boemi passò in meno -di venti giorni e la Franconia e il Reno. -Per la selva d'Ardenna in Aquisgrana -giunse e in Barbante, e in Fiandra al fin s'imbarca. -L'aura che soffia verso tramontana, -la vela in guisa in su la prora carca, -ch'a mezzo giorno Astolfo non lontana -vede Inghilterra, ove nel lito varca. -Salta a cavallo, e in tal modo lo punge, -ch'a Londra quella sera ancora giunge. -Quivi sentendo poi che 'l vecchio Otone -già molti mesi inanzi era in Parigi, -e che di nuovo quasi ogni barone -avea imitato i suoi degni vestigi; -d'andar subito in Francia si dispone: -e così torna al porto di Tamigi, -onde con le vele alte uscendo fuora, -verso Calessio fe' drizzar la prora. -Un ventolin che leggiermente all'orza -ferendo, avea adescato il legno all'onda, -a poco a poco cresce e si rinforza; -poi vien sì, ch'al nocchier ne soprabonda. -Che li volti la poppa al fine è forza; -se non, gli caccerà sotto la sponda. -Per la schena del mar tien dritto il legno, -e fa camin diverso al suo disegno. -Or corre a destra, or a sinistra mano, -di qua di là, dove fortuna spinge, -e piglia terra al fin presso a Roano; -e come prima il dolce lito attinge, -fa rimetter la sella a Rabicano, -e tutto s'arma e la spada si cinge. -Prende il camino, ed ha seco quel corno -che gli val più che mille uomini intorno. -E giunse, traversando una foresta, -a piè d'un colle ad una chiara fonte, -ne l'ora che 'l monton di pascer resta, -chiuso in capanna, o sotto un cavo monte. -E dal gran caldo e da la sete infesta -vinto, si trasse l'elmo da la fronte; -legò il destrier tra le più spesse fronde, -e poi venne per bere alle fresche onde. -Non avea messo ancor le labra in molle, -ch'un villanel che v'era ascoso appresso, -sbuca fuor d'una macchia, e il destrier tolle, -sopra vi sale, e se ne va con esso. -Astolfo il rumor sente, e'l capo estolle; -e poi che 'l danno suo vede sì espresso, -lascia la fonte, e sazio senza bere, -gli va dietro correndo a più potere. -Quel ladro non si stende a tutto corso, -che dileguato si saria di botto; -ma or lentando or raccogliendo il morso, -se ne va di galoppo e di buon trotto. -Escon del bosco dopo un gran discorso; -e l'uno e l'altro al fin si fu ridotto -là dove tanti nobili baroni -eran senza prigion più che prigioni. -Dentro il palagio il villanel si caccia -con quel destrier che i venti al corso adegua. -Forza è ch'Astolfo, il qual lo scudo impaccia, -l'elmo e l'altr'arme, di lontan lo segua. -Pur giunge anch'egli, e tutta quella traccia -che fin qui avea seguita, si dilegua; -che più né Rabican né 'l ladro vede, -e gira gli occhi, e indarno affretta il piede; -affretta il piede e va cercando invano -e le logge e le camere e le sale; -ma per trovare il perfido villano, -di sua fatica nulla si prevale. -Non sa dove abbia ascoso Rabicano, -quel suo veloce sopra ogni animale; -e senza frutto alcun tutto quel giorno -cercò di su di giù, dentro e d'intorno. -Confuso e lasso d'aggirarsi tanto, -s'avvide che quel loco era incantato; -e del libretto ch'avea sempre a canto, -che Logistilla in India gli avea dato, -acciò che, ricadendo in nuovo incanto, -potessi aitarsi, si fu ricordato: -all'indice ricorse, e vide tosto -a quante carte era il rimedio posto. -Del palazzo incantato era difuso -scritto nel libro; e v'eran scritti i modi -di fare il mago rimaner confuso, -e a tutti quei prigion di sciorre i nodi. -Sotto la soglia era uno spirto chiuso, -che facea questi inganni e queste frodi: -e levata la pietra ov'è sepolto, -per lui sarà il palazzo in fumo sciolto. -Desideroso di condurre a fine -il paladin sì gloriosa impresa, -non tarda più che 'l braccio non inchine -a provar quanto il grave marmo pesa. -Come Atlante le man vede vicine -per far che l'arte sua sia vilipesa, -sospettoso di quel che può avvenire, -lo va con nuovi incanti ad assalire. -Lo fa con diaboliche sue larve -parer da quel diverso, che solea: -gigante ad altri, ad altri un villan parve, -ad altri un cavallier di faccia rea. -Ognuno in quella forma in che gli apparve -nel bosco il mago, il paladin vedea; -sì che per riaver quel che gli tolse -il mago, ognuno al paladin si volse. -Ruggier, Gradasso, Iroldo, Bradamante, -Brandimarte, Prasildo, altri guerrieri -in questo nuovo error si fero inante, -per distruggere il duca accesi e fieri. -Ma ricordossi il corno in quello istante, -che fe' loro abbassar gli animi altieri. -Se non si soccorrea col grave suono, -morto era il paladin senza perdono. -Ma tosto che si pon quel corno a bocca -e fa sentire intorno il suono orrendo, -a guisa dei colombi, quando scocca -lo scoppio, vanno i cavallier fuggendo. -Non meno al negromante fuggir tocca, -non men fuor de la tana esce temendo -pallido e sbigottito, e se ne slunga -tanto, che 'l suono orribil non lo giunga. -Fuggì il guardian coi suo' prigioni; e dopo -de le stalle fuggir molti cavalli, -ch'altro che fune a ritenerli era uopo, -e seguiro i patron per vari calli. -In casa non restò gatta né topo -al suon che par che dica: Dàlli, dàlli. -Sarebbe ito con gli altri Rabicano, -se non ch'all'uscir venne al duca in mano. -Astolfo, poi ch'ebbe cacciato il mago, -levò di su la soglia il grave sasso, -e vi ritrovò sotto alcuna imago, -ed altre cose che di scriver lasso: -e di distrugger quello incanto vago, -di ciò che vi trovò, fece fraccasso, -come gli mostra il libro che far debbia; -e si sciolse il palazzo in fumo e in nebbia. -Quivi trovò che di catena d'oro -di Ruggiero il cavallo era legato, -parlo di quel che 'l negromante moro -per mandarlo ad Alcina gli avea dato; -a cui poi Logistilla fe' il lavoro -del freno, ond'era in Francia ritornato, -e girato da l'India all'Inghilterra -tutto avea il lato destro de la terra. -Non so se vi ricorda che la briglia -lasciò attaccata all'arbore quel giorno -che nuda da Ruggier sparì la figlia -di Galafrone, e gli fe' l'alto scorno. -Fe' il volante destrier, con maraviglia -di chi lo vide, al mastro suo ritorno; -e con lui stette infin al giorno sempre, -che de l'incanto fur rotte le tempre. -Non potrebbe esser stato più giocondo -d'altra aventura Astolfo, che di questa; -che per cercar la terra e il mar, secondo -ch'avea desir, quel ch'a cercar gli resta, -e girar tutto in pochi giorni il mondo, -troppo venìa questo ippogrifo a sesta. -Sapea egli ben quanto a portarlo era atto, -che l'avea altrove assai provato in fatto. -Quel giorno in India lo provò, che tolto -da la savia Melissa fu di mano -a quella scelerata che travolto -gli avea in mirto silvestre il viso umano: -e ben vide e notò come raccolto -gli fu sotto la briglia il capo vano -da Logistilla, e vide come istrutto -fosse Ruggier di farlo andar per tutto. -Fatto disegno l'ippogrifo torsi, -la sella sua, ch'appresso avea, gli messe; -e gli fece, levando da più morsi -una cosa ed un'altra, un che lo resse; -che dei destrier ch'in fuga erano corsi, -quivi attaccate eran le briglie spesse. -Ora un pensier di Rabicano solo -lo fa tardar che non si leva a volo. -D'amar quel Rabicano avea ragione; -che non v'era un miglior per correr lancia, -e l'avea da l'estrema regione -de l'India cavalcato insin in Francia. -Pensa egli molto; e in somma si dispone -darne più tosto ad un suo amico mancia, -che, lasciandolo quivi in su la strada, -se l'abbia il primo ch'a passarvi accada. -Stava mirando se vedea venire -pel bosco o cacciatore o alcun villano, -da cui far si potesse indi seguire -a qualche terra, e trarvi Rabicano. -Tutto quel giorno e sin all'apparire -de l'altro stette riguardando invano. -L'altro matin, ch'era ancor l'aer fosco, -veder gli parve un cavallier pel bosco. -Ma mi bisogna, s'io vo' dirvi il resto, -ch'io trovi Ruggier prima e Bradamante. -Poi che si tacque il corno, e che da questo -loco la bella coppia fu distante, -guardò Ruggiero, e fu a conoscer presto -quel che fin qui gli avea nascoso Atlante: -fatto avea Atlante che fin a quell'ora -tra lor non s'eran conosciuti ancora. -Ruggier riguarda Bradamante, ed ella -riguarda lui con alta maraviglia, -che tanti dì l'abbia offuscato quella -illusion sì l'animo e le ciglia. -Ruggiero abbraccia la sua donna bella, -che più che rosa ne divien vermiglia; -e poi di su la bocca i primi fiori -cogliendo vien dei suoi beati amori. -Tornaro ad iterar gli abbracciamenti -mille fiate, ed a tenersi stretti -i duo felici amanti, e sì contenti, -ch'a pena i gaudi lor capiano i petti. -Molto lor duol che per incantamenti, -mentre che fur negli errabondi tetti, -tra lor non s'eran mai riconosciuti, -e tanti lieti giorni eran perduti. -Bradamante, disposta di far tutti -i piaceri che far vergine saggia -debbia ad un suo amator, sì che di lutti, -senza il suo onore offendere, il sottraggia; -dice a Ruggier, se a dar gli ultimi frutti -lei non vuol sempre aver dura e selvaggia, -la faccia domandar per buoni mezzi -al padre Amon: ma prima si battezzi. -Ruggier, che tolto avria non solamente -viver cristiano per amor di questa, -com'era stato il padre, e antiquamente -l'avolo e tutta la sua stirpe onesta; -ma, per farle piacere, immantinente -data le avria la vita che gli resta: -— Non che ne l'acqua (disse), ma nel fuoco -per tuo amor porre il capo mi fia poco. — -Per battezzarsi dunque, indi per sposa -la donna aver, Ruggier si messe in via, -guidando Bradamante a Vallombrosa -(così fu nominata una badia -ricca e bella, né men religiosa, -e cortese a chiunque vi venìa); -e trovaro all'uscir de la foresta -donna che molto era nel viso mesta. -Ruggier, che sempre uman, sempre cortese -era a ciascun, ma più alle donne molto, -come le belle lacrime comprese -cader rigando il delicato volto, -n'ebbe pietade, e di disir s'accese -di saper il suo affanno; ed a lei volto, -dopo onesto saluto, domandolle -perch'avea sì di pianto il viso molle. -Ed ella, alzando i begli umidi rai, -umanissimamente gli rispose, -e la cagion de' suoi penosi guai, -poi che le domandò, tutta gli espose. -— Gentil signor (disse ella), intenderai -che queste guance son sì lacrimose -per la pietà ch'a un giovinetto porto, -ch'in un castel qui presso oggi fia morto. -Amando una gentil giovane e bella, -che di Marsilio re di Spagna è figlia, -sotto un vel bianco e in feminil gonella, -finta la voce e il volger de le ciglia, -egli ogni notte si giacea con quella, -senza darne sospetto alla famiglia: -ma sì secreto alcuno esser non puote, -ch'al lungo andar non sia chi 'l vegga e note. -Se n'accorse uno, e ne parlò con dui; -gli dui con altri, insin ch'al re fu detto. -Venne un fedel del re l'altr'ieri a nui, -che questi amanti fe' pigliar nel letto; -e ne la rocca gli ha fatto ambedui -divisamente chiudere in distretto: -né credo per tutto oggi ch'abbia spazio -il gioven, che non mora in pena e in strazio. -Fuggita me ne son per non vedere -tal crudeltà; che vivo l'arderanno: -né cosa mi potrebbe più dolere, -che faccia di sì bel giovine il danno; -né potrò aver giamai tanto piacere, -che non si volga subito in affanno, -che de la crudel fiamma mi rimembri, -ch'abbia arsi i belli e delicati membri. — -Bradamante ode, e par ch'assai le prema -questa novella, e molto il cor l'annoi; -né par che men per quel dannato tema, -che se fosse uno dei fratelli suoi. -Né certo la paura in tutto scema -era di causa, come io dirò poi. -Si volse ella a Ruggiero, e disse: — Parme -ch'in favor di costui sien le nostr'arme. — -E disse a quella mesta: — Io ti conforto -che tu vegga di porci entro alle mura, -che se 'l giovine ancor non avran morto, -più non l'uccideran, stanne sicura. — -Ruggiero, avendo il cor benigno scorto -de la sua donna e la pietosa cura, -sentì tutto infiammarsi di desire -di non lasciare il giovine morire. -Ed alla donna, a cui dagli occhi cade -un rio di pianto, dice: — Or che s'aspetta? -Soccorrer qui, non lacrimare accade: -fa ch'ove è questo tuo, pur tu ci metta. -Di mille lance trar, di mille spade -tel promettian, pur che ci meni in fretta: -ma studia il passo più che puoi, che tarda -non sia l'aita, e intanto il fuoco l'arda. — -L'alto parlare e la fiera sembianza -di quella coppia a maraviglia ardita, -ebbon di tornar forza la speranza -colà dond'era già tutta fuggita; -ma perch'ancor, più che la lontananza, -temeva il ritrovar la via impedita, -e che saria per questo indarno presa, -stava la donna in sé tutta sospesa. -Poi disse lor: — Facendo noi la via -che dritta e piana va fin a quel loco, -credo ch'a tempo vi si giungeria, -che non sarebbe ancora acceso il fuoco: -ma gir convien per così torta e ria, -che 'l termine d'un giorno saria poco -a riuscirne; e quando vi saremo, -che troviam morto il giovine mi temo. — -— E perché non andian (disse Ruggiero) -per la più corta? — E la donna rispose: -— Perché un castel de' conti da Pontiero -tra via si trova, ove un costume pose, -non son tre giorni ancora, iniquo e fiero -a cavallieri e a donne aventurose, -Pinabello, il peggior uomo che viva, -figliuol del conte Anselmo d'Altariva. -Quindi né cavallier né donna passa, -che se ne vada senza ingiuria e danni: -l'uno e l'altro a piè resta; ma vi lassa -il guerrier l'arme, e la donzella i panni. -Miglior cavallier lancia non abbassa, -e non abbassò in Francia già molt'anni, -di quattro che giurato hanno al castello -la legge mantener di Pinabello. -Come l'usanza (che non è più antiqua -di tre dì) cominciò, vi vo' narrare; -e sentirete se fu dritta o obliqua -cagion che i cavallier fece giurare. -Pinabello ha una donna così iniqua, -così bestial, ch'al mondo è senza pare; -che con lui, non so dove, andando un giorno, -ritrovò un cavallier che le fe' scorno. -Il cavallier, perché da lei beffato -fu d'una vecchia che portava in groppa, -giostrò con Pinabel ch'era dotato -di poca forza e di superbia troppa; -ed abbattello, e lei smontar nel prato -fece, e provò s'andava dritta o zoppa: -lasciolla a piede, e fe' de la gonella -di lei vestir l'antiqua damigella. -Quella ch'a piè rimase, dispettosa, -e di vendetta ingorda e sitibonda, -congiunta a Pinabel che d'ogni cosa -dove sia da mal far, ben la seconda, -né giorno mai, né notte mai riposa, -e dice che non fia mai più gioconda, -se mille cavallieri e mille donne -non mette a piedi, e lor tolle arme e gonne. -Giunsero il dì medesmo, come accade, -quattro gran cavallieri ad un suo loco, -li quai di rimotissime contrade -venuti a queste parti eran di poco; -di tal valor, che non ha nostra etade -tant'altri buoni al bellicoso gioco: -Aquilante, Grifone e Sansonetto, -ed un Guidon Selvaggio giovinetto. -Pinabel con sembiante assai cortese -al castel ch'io v'ho detto gli raccolse. -La notte poi tutti nel letto prese, -e presi tenne; e prima non li sciolse, -che li fece giurar ch'un anno e un mese -(questo fu a punto il termine che tolse) -stariano quivi, e spogliarebbon quanti -vi capitasson cavallieri erranti; -e le donzelle ch'avesson con loro -porriano a piedi, e torrian lor le vesti. -Così giurar, così costretti foro -ad osservar, ben che turbati e mesti. -Non par che fin a qui contra costoro -alcun possa giostrar, ch'a piè non resti: -e capitati vi sono infiniti, -ch'a piè e senz'arme se ne son partiti. -È ordine tra lor, che chi per sorte -esce fuor prima, vada a correr solo: -ma se trova il nimico così forte, -che resti in sella, e getti lui nel suolo, -sono ubligati gli altri infin a morte -pigliar l'impresa tutti in uno stuolo. -Vedi or, se ciascun d'essi è così buono, -quel ch'esser de', se tutti insieme sono. -Poi non conviene all'importanza nostra -che ne vieta ogni indugio, ogni dimora, -che punto vi fermiate a quella giostra; -e presuppongo che vinciate ancora, -che vostra alta presenza lo dimostra, -ma non è cosa da fare in un'ora; -ed è gran dubbio che 'l giovine s'arda, -se tutto oggi a soccorrerlo si tarda. — -Disse Ruggier: — Non riguardiamo a questo: -facciàn nui quel che si può far per nui; -abbia chi regge il ciel cura del resto, -o la Fortuna, se non tocca a lui. -Ti fia per questa giostra manifesto, -se buoni siamo d'aiutar colui -che per cagion sì debole e sì lieve, -come n'hai detto, oggi bruciar si deve. — -Senza risponder altro, la donzella -si messe per la via ch'era più corta. -Più di tre miglia non andar per quella, -che si trovaro al ponte ed alla porta -dove si perdon l'arme e la gonnella, -e de la vita gran dubbio si porta. -Al primo apparir lor, di su la rocca -è chi duo botti la campana tocca. -Ed ecco de la porta con gran fretta, -trottando s'un ronzino, un vecchio uscìo; -e quel venìa gridando: — Aspetta aspetta: -restate olà, che qui si paga il fio: -e se l'usanza non v'è stata detta, -che qui si tiene, or ve la vo' dir io. — -E contar loro incominciò di quello -costume, che servar fa Pinabello. -Poi seguitò, volendo dar consigli, -com'era usato agli altri cavallieri: -— Fate spogliar la donna (dicea), figli, -e voi l'arme lasciateci e i destrieri; -e non vogliate mettervi a perigli -d'andare incontra a tai quattro guerrieri. -Per tutto vesti, arme e cavalli s'hanno: -la vita sol mai non ripara il danno. — -— Non più (disse Ruggier), non più; ch'io sono -del tutto informatissimo, e qui venni -per far prova di me, se così buono -in fatti son, come nel cor mi tenni. -Arme, vesti e cavallo altrui non dono, -s'altro non sento che minacce e cenni; -e son ben certo ancor, che per parole -il mio compagno le sue dar non vuole. -Ma, per Dio, fa ch'io vegga tosto in fronte -quei che ne voglion torre arme e cavallo; -ch'abbiamo da passar anco quel monte, -e qui non si può far troppo intervallo. — -Rispose il vecchio: — Eccoti fuor del ponte -chi vien per farlo: — e non lo disse in fallo; -ch'un cavallier n'uscì, che sopraveste -vermiglie avea, di bianchi fior conteste. -Bradamante pregò molto Ruggiero -che le lasciasse in cortesia l'assunto -di gittar de la sella il cavalliero, -ch'avea di fiori il bel vestir trapunto; -ma non poté impetrarlo, e fu mestiero -a lei far ciò che Ruggier volse a punto. -Egli volse l'impresa tutta avere, -e Bradamante si stesse a vedere. -Ruggiero al vecchio domandò chi fosse -questo primo ch'uscia fuor de la porta. -— È Sansonetto (disse); che le rosse -veste conosco e i bianchi fior che porta. — -L'uno di qua, l'altro di là si mosse -senza parlarsi, e fu l'indugia corta; -che s'andaro a trovar coi ferri bassi, -molto affrettando i lor destrieri i passi. -In questo mezzo de la rocca usciti -eran con Pinabel molti pedoni, -presti per levar l'arme ed espediti -ai cavallier ch'uscian fuor degli arcioni. -Veniansi incontra i cavallieri arditi, -fermando in su le reste i gran lancioni, -grossi duo palmi, di nativo cerro, -che quasi erano uguali insino al ferro. -Di tali n'avea più d'una decina -fatto tagliar di su lor ceppi vivi -Sansonetto a una selva indi vicina, -e portatone duo per giostrar quivi. -Aver scudo e corazza adamantina -bisogna ben, che le percosse schivi. -Aveane fatto dar, tosto che venne, -l'uno a Ruggier, l'altro per sé ritenne. -Con questi, che passar dovean gl'incudi -(sì ben ferrate avean le punte estreme), -di qua e di là fermandoli agli scudi, -a mezzo il corso si scontraro insieme. -Quel di Ruggiero, che i demòni ignudi -fece sudar, poco del colpo teme: -de lo scudo vo' dir che fece Atlante, -de le cui forze io v'ho già detto inante. -Io v'ho già detto che con tanta forza -l'incantato splendor negli occhi fere, -ch'al discoprirsi ogni veduta ammorza, -e tramortito l'uom fa rimanere: -perciò, s'un gran bisogno non lo sforza, -d'un vel coperto lo solea tenere. -Si crede ch'anco impenetrabil fosse, -poi ch'a questo incontrar nulla si mosse. -L'altro, ch'ebbe l'artefice men dotto, -il gravissimo colpo non sofferse. -Come tocco da fulmine, di botto -diè loco al ferro, e pel mezzo s'aperse; -diè loco al ferro, e quel trovò di sotto -il braccio ch'assai mal si ricoperse; -sì che ne fu ferito Sansonetto, -e de la sella tratto al suo dispetto. -E questo il primo fu di quei compagni -che quivi mantenean l'usanza fella, -che de le spoglie altrui non fe' guadagni, -e ch'alla giostra uscì fuor de la sella. -Convien chi ride, anco talor si lagni, -e Fortuna talor trovi ribella. -Quel da la rocca, replicando il botto, -ne fece agli altri cavallieri motto. -S'era accostato Pinabello intanto -a Bradamante, per saper chi fusse -colui che con prodezza e valor tanto -il cavallier del suo castel percusse. -La giustizia di Dio, per dargli quanto -era il merito suo, vi lo condusse -su quel destrier medesimo ch'inante -tolto avea per inganno a Bradamante. -Fornito a punto era l'ottavo mese -che, con lei ritrovandosi a camino, -(se 'l vi raccorda) questo Maganzese -la gittò ne la tomba di Merlino, -quando da morte un ramo la difese, -che seco cadde, anzi il suo buon destino; -e trassene, credendo ne lo speco -ch'ella fosse sepolta, il destrier seco. -Bradamante conosce il suo cavallo, -e conosce per lui l'iniquo conte; -e poi ch'ode la voce, e vicino hallo -con maggiore attenzion mirato in fronte: -— Questo è il traditor (disse), senza fallo, -che procacciò di farmi oltraggio ed onte: -ecco il peccato suo, che l'ha condutto -ove avrà de' suoi merti il premio tutto. — -Il minacciare e il por mano alla spada -fu tutto a un tempo, e lo aventarsi a quello; -ma inanzi tratto gli levò la strada, -che non poté fuggir verso il castello. -Tolta è la speme ch'a salvar si vada, -come volpe alla tana, Pinabello. -Egli gridando e senza mai far testa, -fuggendo si cacciò ne la foresta. -Pallido e sbigottito il miser sprona, -che posto ha nel fuggir l'ultima speme. -L'animosa donzella di Dordona -gli ha il ferro ai fianchi, e lo percuote e preme: -vien con lui sempre, e mai non l'abbandona. -Grande è il rumore, e il bosco intorno geme. -Nulla al castel di questo ancor s'intende, -però ch'ognuno a Ruggier solo attende. -Gli altri tre cavallier de la fortezza -intanto erano usciti in su la via; -ed avean seco quella male avezza -che v'avea posta la costuma ria. -A ciascun di lor tre, che 'l morir prezza -più ch'aver vita che con biasmo sia, -di vergogna arde il viso, e il cor di duolo, -che tanti ad assalir vadano un solo. -La crudel meretrice ch'avea fatto -por quella iniqua usanza ed osservarla, -il giuramento lor ricorda e il patto -ch'essi fatti l'avean, di vendicarla. -— Se sol con questa lancia te gli abbatto, -perché mi vòi con altre accompagnarla? -(dicea Guidon Selvaggio): e s'io ne mento, -levami il capo poi, ch'io son contento. — -Così dicea Grifon, così Aquilante. -Giostrar da sol a sol volea ciascuno, -e preso e morto rimanere inante -ch'incontra un sol volere andar più d'uno. -La donna dicea loro: — A che far tante -parole qui senza profitto alcuno? -Per torre a colui l'arme io v'ho qui tratti, -non per far nuove leggi e nuovi patti. -Quando io v'avea in prigione, era da farme -queste escuse, e non ora, che son tarde. -Voi dovete il preso ordine servarme, -non vostre lingue far vane e bugiarde. — -Ruggier gridava lor: — Eccovi l'arme, -ecco il destrier c'ha nuovo e sella e barde; -i panni de la donna eccovi ancora: -se li volete, a che più far dimora? — -La donna del castel da un lato preme, -Ruggier da l'altro li chiama e rampogna, -tanto ch'a forza si spiccaro insieme, -ma nel viso infiammati di vergogna. -Dinanzi apparve l'uno e l'altro seme -del marchese onorato di Borgogna; -ma Guidon, che più grave ebbe il cavallo, -venìa lor dietro con poco intervallo. -Con la medesima asta con che avea -Sansonetto abbattuto, Ruggier viene, -coperto da lo scudo che solea -Atlante aver sui monti di Pirene: -dico quello incantato, che splendea -tanto, ch'umana vista nol sostiene; -a cui Ruggier per l'ultimo soccorso -nei più gravi perigli avea ricorso. -Ben che sol tre fiate bisognolli, -e certo in gran perigli, usarne il lume: -le prime due, quando dai regni molli -si trasse a più lodevole costume; -la terza, quando i denti mal satolli -lasciò de l'orca alle marine spume, -che dovean devorar la bella nuda -che fu a chi la campò poi così cruda. -Fuor che queste tre volte, tutto 'l resto -lo tenea sotto un velo in modo ascoso, -ch'a discoprirlo esser potea ben presto, -che del suo aiuto fosse bisognoso. -Quivi alla giostra ne venìa con questo, -come io v'ho detto ancora, sì animoso, -che quei tre cavallier che vedea inanti, -manco temea che pargoletti infanti. -Ruggier scontra Grifone, ove la penna -de lo scudo alla vista si congiunge. -Quel di cader da ciascun lato accenna, -ed al fin cade, e resta al destrier lunge. -Mette allo scudo a lui Grifon l'antenna; -ma pel traverso e non pel dritto giunge: -e perché lo trovò forbito e netto, -l'andò strisciando, e fe' contrario effetto. -Roppe il velo e squarciò, che gli copria -lo spaventoso ed incantato lampo, -al cui splendor cader si convenia -con gli occhi ciechi, e non vi s'ha alcun scampo. -Aquilante, ch'a par seco venìa, -stracciò l'avanzo, e fe' lo scudo vampo. -Lo splendor ferì gli occhi ai duo fratelli -ed a Guidon, che correa dopo quelli. -Chi di qua, chi di là cade per terra: -lo scudo non pur lor gli occhi abbarbaglia, -ma fa che ogn'altro senso attonito erra. -Ruggier, che non sa il fin de la battaglia, -volta il cavallo; e nel voltare afferra -la spada sua che sì ben punge e taglia: -e nessun vede che gli sia all'incontro, -che tutti eran caduti a quello scontro. -I cavallieri e insieme quei ch'a piede -erano usciti, e così le donne anco, -e non meno i destrieri in guisa vede, -che par che per morir battano il fianco. -Prima si maraviglia, e poi s'avvede -che 'l velo ne pendea dal lato manco: -dico il velo di seta, in che solea -chiuder la luce di quel caso rea. -Presto si volge, e nel voltar, cercando -con gli occhi va l'amata sua guerriera; -e vien là dove era rimasa, quando -la prima giostra cominciata s'era. -Pensa ch'andata sia (non la trovando) -a vietar che quel giovine non pera, -per dubbio ch'ella ha forse che non s'arda -in questo mezzo ch'a giostrar si tarda. -Fra gli altri che giacean vede la donna, -la donna che l'avea quivi guidato. -Dinanzi se la pon, sì come assonna, -e via cavalca tutto conturbato. -D'un manto ch'essa avea sopra la gonna, -poi ricoperse lo scudo incantato; -e i sensi riaver le fece, tosto -che 'l nocivo splendore ebbe nascosto. -Via se ne va Ruggier con faccia rossa -che, per vergogna, di levar non osa: -gli par ch'ognuno improverar gli possa -quella vittoria poco gloriosa. -— Ch'emenda poss'io fare, onde rimossa -mi sia una colpa tanto obbrobriosa? -che ciò ch'io vinsi mai, fu per favore, -diran, d'incanti, e non per mio valore. — -Mentre così pensando seco giva, -venne in quel che cercava a dar di cozzo; -che 'n mezzo de la strada soprarriva -dove profondo era cavato un pozzo. -Quivi l'armento alla calda ora estiva -si ritraea, poi ch'avea pieno il gozzo. -Disse Ruggiero: — Or proveder bisogna, -che non mi facci, o scudo, più vergogna. -Più non starai tu meco; e questo sia -l'ultimo biasmo c'ho d'averne al mondo. — -Così dicendo, smonta ne la via: -piglia una grossa pietra e di gran pondo, -e la lega allo scudo, ed ambi invia -per l'alto pozzo a ritrovarne il fondo; -e dice: — Costà giù statti sepulto, -e teco stia sempre il mio obbrobrio occulto. — -Il pozzo è cavo, e pieno al sommo d'acque: -grieve è lo scudo, e quella pietra grieve. -Non si fermò fin che nel fondo giacque: -sopra si chiuse il liquor molle e lieve. -Il nobil atto e di splendor non tacque -la vaga Fama, e divulgollo in breve; -e di rumor n'empì, suonando il corno, -e Francia e Spagna e le province intorno. -Poi che di voce in voce si fe' questa -strana aventura in tutto il mondo nota, -molti guerrier si missero all'inchiesta -e di parte vicina e di remota: -ma non sapean qual fosse la foresta -dove nel pozzo il sacro scudo nuota; -che la donna che fe' l'atto palese, -dir mai non volse il pozzo né il paese. -Al partir che Ruggier fe' dal castello, -dove avea vinto con poca battaglia; -che i quattro gran campion di Pinabello -fece restar come uomini di paglia; -tolto lo scudo, avea levato quello -lume che gli occhi e gli animi abbarbaglia: -e quei che giaciuti eran come morti, -pieni di meraviglia eran risorti. -Né per tutto quel giorno si favella -altro fra lor, che de lo strano caso, -e come fu che ciascun d'essi a quella -orribil luce vinto era rimaso. -Mentre parlan di questo, la novella -vien lor di Pinabel giunto all'occaso: -che Pinabello è morto hanno l'aviso, -ma non sanno però chi l'abbia ucciso. -L'ardita Bradamante in questo mezzo -giunto avea Pinabello a un passo stretto; -e cento volte gli avea fin a mezzo -messo il brando pei fianchi e per lo petto. -Tolto ch'ebbe dal mondo il puzzo e 'l lezzo -che tutto intorno avea il paese infetto, -le spalle al bosco testimonio volse -con quel destrier che già il fellon le tolse. -Volse tornar dove lasciato avea -Ruggier; né seppe mai trovar la strada. -Or per valle or per monte s'avvolgea: -tutta quasi cercò quella contrada. -Non volse mai la sua fortuna rea, -che via trovasse onde a Ruggier si vada. -Questo altro canto ad ascoltare aspetto -chi de l'istoria mia prende diletto. Studisi ognun giovare altrui; che rade -volte il ben far senza il suo premio fia: -e se pur senza, almen non te ne accade -morte né danno né ignominia ria. -Chi nuoce altrui, tardi o per tempo cade -il debito a scontar, che non s'oblia. -Dice il proverbio, ch'a trovar si vanno -gli uomini spesso, e i monti fermi stanno. -Or vedi quel ch'a Pinabello avviene -per essersi portato iniquamente: -è giunto in somma alle dovute pene, -dovute e giuste alla sua ingiusta mente. -E Dio, che le più volte non sostiene -veder patire a torto uno innocente, -salvò la donna; e salverà ciascuno -che d'ogni fellonia viva digiuno. -Credette Pinabel questa donzella -già d'aver morta, e colà giù sepulta; -né la pensava mai veder, non ch'ella -gli avesse a tor degli error suoi la multa. -Né il ritrovarsi in mezzo le castella -del padre, in alcun util gli risulta. -Quivi Altaripa era tra monti fieri -vicina al tenitorio di Pontieri. -Tenea quell'Altaripa il vecchio conte -Anselmo, di ch'uscì questo malvagio, -che, per fuggir la man di Chiaramonte, -d'amici e di soccorso ebbe disagio. -La donna al traditore a piè d'un monte -tolse l'indegna vita a suo grande agio; -che d'altro aiuto quel non si provede, -che d'alti gridi e di chiamar mercede. -Morto ch'ella ebbe il falso cavalliero -che lei voluto avea già porre a morte, -volse tornare ove lasciò Ruggiero; -ma non lo consentì sua dura sorte, -che la fe' traviar per un sentiero -che la portò dov'era spesso e forte, -dove più strano e più solingo il bosco, -lasciando il sol già il mondo all'aer fosco. -Né sappiendo ella ove potersi altrove -la notte riparar, si fermò quivi -sotto le frasche in su l'erbette nuove, -parte dormendo, fin che 'l giorno arrivi, -parte mirando ora Saturno or Giove, -Venere e Marte e gli altri erranti divi; -ma sempre, o vegli o dorma, con la mente -contemplando Ruggier come presente. -Spesso di cor profondo ella sospira, -di pentimento e di dolor compunta, -ch'abbia in lei, più ch'amor, potuto l'ira. -— L'ira (dicea) m'ha dal mio amor disgiunta: -almen ci avessi io posta alcuna mira, -poi ch'avea pur la mala impresa assunta, -di saper ritornar donde io veniva; -che ben fui d'occhi e di memoria priva. — -Queste ed altre parole ella non tacque, -e molto più ne ragionò col core. -Il vento intanto di sospiri, e l'acque -di pianto facean pioggia di dolore. -Dopo una lunga aspettazion pur nacque -in oriente il disiato albore: -ed ella prese il suo destrier ch'intorno -giva pascendo, ed andò contra il giorno. -Né molto andò, che si trovò all'uscita -del bosco, ove pur dianzi era il palagio, -là dove molti dì l'avea schernita -con tanto error l'incantator malvagio. -Ritrovò quivi Astolfo, che fornita -la briglia all'ippogrifo avea a grande agio, -e stava in gran pensier di Rabicano, -per non sapere a chi lasciarlo in mano. -A caso si trovò che fuor di testa -l'elmo allor s'avea tratto il paladino; -sì che tosto ch'uscì de la foresta, -Bradamante conobbe il suo cugino. -Di lontan salutollo, e con gran festa -gli corse, e l'abbracciò poi più vicino; -e nominossi, ed alzò la visiera, -e chiaramente fe' veder ch'ell'era. -Non potea Astolfo ritrovar persona -a chi il suo Rabican meglio lasciasse, -perché dovesse averne guardia buona -e renderglielo poi come tornasse, -de la figlia del duca di Dordona; -e parvegli che Dio gli la mandasse. -Vederla volentier sempre solea, -ma pel bisogno or più ch'egli n'avea. -Da poi che due o tre volte ritornati -fraternamente ad abbracciar si foro, -e si for l'uno a l'altro domandati -con molta affezion de l'esser loro, -Astolfo disse: — Ormai, se dei pennati -vo' 'l paese cercar, troppo dimoro: — -ed aprendo alla donna il suo pensiero, -veder le fece il volator destriero. -A lei non fu di molta maraviglia -veder spiegare a quel destrier le penne; -ch'altra volta, reggendogli la briglia -Atlante incantator, contra le venne; -e le fece doler gli occhi e le ciglia: -sì fisse dietro a quel volar le tenne -quel giorno, che da lei Ruggier lontano -portato fu per camin lungo e strano. -Astolfo disse a lei, che le volea -dar Rabican, che sì nel corso affretta, -che, se scoccando l'arco si movea, -si solea lasciar dietro la saetta; -e tutte l'arme ancor, quante n'avea, -che vuol che a Montalban gli le rimetta, -e gli le serbi fin al suo ritorno; -che non gli fanno or di bisogno intorno. -Volendosene andar per l'aria a volo, -aveasi a far quanto potea più lieve. -Tiensi la spada e 'l corno, ancor che solo -bastargli il corno ad ogni risco deve. -Bradamante la lancia che 'l figliuolo -portò di Galafrone, anco riceve; -la lancia che di quanti ne percuote -fa le selle restar subito vote. -Salito Astolfo sul destrier volante, -lo fa mover per l'aria lento lento; -indi lo caccia sì, che Bradamante -ogni vista ne perde in un momento. -Così si parte col pilota inante -il nochier che gli scogli teme e 'l vento; -e poi che 'l porto e i liti a dietro lassa, -spiega ogni vela e inanzi ai venti passa. -La donna, poi che fu partito il duca, -rimase in gran travaglio de la mente; -che non sa come a Montalban conduca -l'armatura e il destrier del suo parente; -però che 'l cuor le cuoce e le manuca -l'ingorda voglia e il desiderio ardente -di riveder Ruggier, che, se non prima, -a Vallombrosa ritrovar lo stima. -Stando quivi suspesa, per ventura -si vede inanzi giungere un villano, -dal qual fa rassettar quella armatura, -come si puote, e por su Rabicano; -poi di menarsi dietro gli diè cura -i duo cavalli, un carco e l'altro a mano: -ella n'avea duo prima; ch'avea quello -sopra il qual levò l'altro a Pinabello. -Di Vallombrosa pensò far la strada, -che trovar quivi il suo Ruggier ha speme; -ma qual più breve o qual miglior vi vada, -poco discerne, e d'ire errando teme. -Il villan non avea de la contrada -pratica molta; ed erreranno insieme. -Pur andare a ventura ella si messe, -dove pensò che 'l loco esser dovesse. -Di qua di là si volse, né persona -incontrò mai da domandar la via. -Si trovò uscir del bosco in su la nona -dove un castel poco lontan scoprìa, -il qual la cima a un monticel corona. -Lo mira, e Montalban le par che sia: -ed era certo Montalbano; e in quello -avea la matre ed alcun suo fratello. -Come la donna conosciuto ha il loco, -nel cor s'attrista, e più ch'i' non so dire: -sarà scoperta, se si ferma un poco, -né più le sarà lecito a partire; -se non si parte, l'amoroso foco -l'arderà sì, che la farà morire: -non vedrà più Ruggier, né farà cosa -di quel ch'era ordinato a Vallombrosa. -Stette alquanto a pensar; poi si risolse -di voler dar a Montalban le spalle: -e verso la badia pur si rivolse, -che quindi ben sapea qual era il calle. -Ma sua fortuna, o buona o trista, volse -che prima ch'ella uscisse de la valle, -scontrasse Alardo, un de' fratelli sui; -né tempo di celarsi ebbe da lui. -Veniva da partir gli alloggiamenti -per quel contado a cavallieri e a fanti; -ch'ad istanza di Carlo nuove genti -fatto avea de le terre circostanti. -I saluti e i fraterni abbracciamenti -con le grate accoglienze andaro inanti; -e poi, di molte cose a paro a paro -tra lor parlando, in Montalban tornaro. -Entrò la bella donna in Montalbano, -dove l'avea con lacrimosa guancia -Beatrice molto desiata invano, -e fattone cercar per tutta Francia. -Or quivi i baci e il giunger mano a mano -di matre e di fratelli estimò ciancia -verso gli avuti con Ruggier complessi, -ch'avrà ne l'alma eternamente impressi. -Non potendo ella andar, fece pensiero -ch'a Vallombrosa altri in suo nome andasse -immantinente ad avisar Ruggiero -de la cagion ch'andar lei non lasciasse; -e lui pregar (s'era pregar mestiero) -che quivi per suo amor si battezzasse, -e poi venisse a far quanto era detto, -sì che si desse al matrimonio effetto. -Pel medesimo messo fe' disegno -di mandar a Ruggiero il suo cavallo, -che gli solea tanto esser caro: e degno -d'essergli caro era ben senza fallo; -che non s'avria trovato in tutto 'l regno -dei Saracin, né sotto il signor Gallo, -più bel destrier di questo o più gagliardo, -eccetti Brigliador, soli, e Baiardo. -Ruggier, quel dì che troppo audace ascese -su l'ippogrifo, e verso il ciel levosse, -lasciò Frontino, e Bradamante il prese -(Frontino, che 'l destrier così nomosse); -mandollo a Montalbano, e a buone spese -tener lo fece, e mai non cavalcosse, -se non per breve spazio e a picciol passo; -sì ch'era più che mai lucido e grasso. -Ogni sua donna tosto, ogni donzella -pon seco in opra, e con suttil lavoro -fa sopra seta candida e morella -tesser ricamo di finissimo oro; -e di quel cuopre ed orna briglia e sella -del buon destrier: poi sceglie una di loro -figlia di Callitrefia sua nutrice, -d'ogni secreto suo fida uditrice. -Quanto Ruggier l'era nel core impresso, -mille volte narrato avea a costei; -la beltà, la virtude, i modi d'esso -esaltato l'avea fin sopra i dei. -A sé chiamolla, e disse: — Miglior messo -a tal bisogno elegger non potrei; -che di te né più fido né più saggio -imbasciator, Ippalca mia, non aggio. — -Ippalca la donzella era nomata. -— Va, — le dice, e l'insegna ove de' gire; -e pienamente poi l'ebbe informata -di quanto avesse al suo signore a dire; -e far la scusa se non era andata -al monaster: che non fu per mentire; -ma che Fortuna, che di noi potea -più che noi stessi, da imputar s'avea. -Montar la fece s'un ronzino, e in mano -la ricca briglia di Frontin le messe: -e se sì pazzo alcuno o sì villano -trovasse, che levar le lo volesse; -per fargli a una parola il cervel sano, -di chi fosse il destrier sol gli dicesse; -che non sapea sì ardito cavalliero, -che non tremasse al nome di Ruggiero. -Di molte cose l'ammonisce e molte, -che trattar con Ruggier abbia in sua vece; -le qual poi ch'ebbe Ippalca ben raccolte, -si pose in via, né più dimora fece. -Per strade e campi e selve oscure e folte -cavalcò de le miglia più di diece; -che non fu a darle noia chi venisse, -né a domandarla pur dove ne gisse. -A mezzo il giorno, nel calar d'un monte, -in una stretta e malagevol via -si venne ad incontrar con Rodomonte, -ch'armato un piccol nano e a piè seguia. -Il Moro alzò vêr lei l'altiera fronte, -e bestemmiò l'eterna Ierarchia, -poi che sì bel destrier, sì bene ornato, -non avea in man d'un cavallier trovato. -Avea giurato che 'l primo cavallo -torria per forza, che tra via incontrasse. -Or questo è stato il primo; e trovato hallo -più bello e più per lui, che mai trovasse: -ma torlo a una donzella gli par fallo; -e pur agogna averlo, e in dubbio stasse. -Lo mira, lo contempla, e dice spesso: -— Deh perché il suo signor non è con esso! — -— Deh ci fosse egli! (gli rispose Ippalca) -che ti faria cangiar forse pensiero. -Assai più di te val chi lo cavalca, -né lo pareggia al mondo altro guerriero. — -— Chi è (le disse il Moro) che sì calca -l'onore altrui? — Rispose ella: — Ruggiero. — -E quel suggiunse: — Adunque il destrier voglio, -poi ch'a Ruggier, sì gran campion, lo toglio. -Il qual, se sarà ver, come tu parli, -che sia sì forte, e più d'ogn'altro vaglia, -non che il destrier, ma la vettura darli -converrammi, e in suo albitrio fia la taglia. -Che Rodomonte io sono, hai da narrarli, -e che, se pur vorrà meco battaglia, -mi troverà; ch'ovunque io vada o stia, -mi fa sempre apparir la luce mia. -Dovunque io vo, sì gran vestigio resta, -che non lo lascia il fulmine maggiore. — -Così dicendo, avea tornate in testa -le redine dorate al corridore: -sopra gli salta; e lacrimosa e mesta -rimane Ippalca, e spinta dal dolore -minaccia Rodomonte e gli dice onta: -non l'ascolta egli, e su pel poggio monta. -Per quella via dove lo guida il nano -per trovar Mandricardo e Doralice, -gli viene Ippalca dietro di lontano, -e lo bestemmia sempre e maledice. -Ciò che di questo avvenne, altrove è piano. -Turpin, che tutta questa istoria dice, -fa qui digresso, e torna in quel paese -dove fu dianzi morto il Maganzese. -Dato avea a pena a quel loco le spalle -la figliuola d'Amon, ch'in fretta gìa, -che v'arrivò Zerbin per altro calle -con la fallace vecchia in compagnia: -e giacer vide il corpo ne la valle -del cavallier, che non sa già chi sia; -ma, come quel ch'era cortese e pio, -ebbe pietà del caso acerbo e rio. -Giaceva Pinabello in terra spento, -versando il sangue per tante ferite, -ch'esser doveano assai, se più di cento -spade in sua morte si fossero unite. -Il cavallier di Scozia non fu lento -per l'orme che di fresco eran scolpite -a porsi in avventura, se potea -saper chi l'omicidio fatto avea. -Ed a Gabrina dice che l'aspette; -che senza indugio a lei farà ritorno. -Ella presso al cadavero si mette, -e fissamente vi pon gli occhi intorno; -perché, se cosa v'ha che le dilette, -non vuol ch'un morto invan più ne sia adorno, -come colei che fu, tra l'altre note, -quanto avara esser più femina puote. -Se di portarne il furto ascosamente -avesse avuto modo o alcuna speme, -la sopravesta fatta riccamente -gli avrebbe tolta, e le bell'arme insieme. -Ma quel che può celarsi agevolmente, -si piglia, e 'l resto fin al cor le preme. -Fra l'altre spoglie un bel cinto levonne, -e se ne legò i fianchi infra due gonne. -Poco dopo arrivò Zerbin, ch'avea -seguito invan di Bradamante i passi, -perché trovò il sentier che si torcea -in molti rami ch'ivano alti e bassi: -e poco ormai del giorno rimanea, -né volea al buio star fra quelli sassi; -e per trovare albergo diè le spalle -con l'empia vecchia alla funesta valle. -Quindi presso a dua miglia ritrovaro -un gran castel che fu detto Altariva, -dove per star la notte si fermaro, -che già a gran volo inverso il ciel saliva. -Non vi ster molto, ch'un lamento amaro -l'orecchie d'ogni parte lor feriva; -e veggon lacrimar da tutti gli occhi, -come la cosa a tutto il popul tocchi. -Zerbino dimandonne, e gli fu detto -che venut'era al cont'Anselmo aviso, -che fra duo monti in un sentiero istretto -giacea il suo figlio Pinabello ucciso. -Zerbin, per non ne dar di sé sospetto, -di ciò si finge nuovo, e abbassa il viso; -ma pensa ben, che senza dubbio sia -quel ch'egli trovò morto in su la via. -Dopo non molto la bara funèbre -giunse, a splendor di torchi e di facelle, -là dove fece le strida più crebre -con un batter di man gire alle stelle, -e con più vena fuor de le palpèbre -le lacrime inundar per le mascelle: -ma più de l'altre nubilose ed atre -era la faccia del misero patre. -Mentre apparecchio si facea solenne -di grandi esequie e di funèbri pompe, -secondo il modo ed ordine che tenne -l'usanza antiqua e ch'ogni età corrompe; -da parte del signore un bando venne, -che tosto il popular strepito rompe, -e promette gran premio a chi dia aviso -chi stato sia che gli abbia il figlio ucciso. -Di voce in voce e d'una in altra orecchia -il grido e 'l bando per la terra scorse, -fin che l'udì la scelerata vecchia -che di rabbia avanzò le tigri e l'orse; -e quindi alla ruina s'apparecchia -di Zerbino, o per l'odio che gli ha forse, -o per vantarsi pur, che sola priva -d'umanitade in uman corpo viva; -o fosse pur per guadagnarsi il premio: -a ritrovar n'andò quel signor mesto; -e dopo un verisimil suo proemio, -gli disse che Zerbin fatto avea questo: -e quel bel cinto si levò di gremio, -che 'l miser padre a riconoscer presto, -appresso il testimonio e tristo uffizio -de l'empia vecchia, ebbe per chiaro indizio. -E lacrimando al ciel leva le mani, -che 'l figliuol non sarà senza vendetta. -Fa circundar l'albergo ai terrazzani; -che tutto 'l popul s'è levato in fretta. -Zerbin che gli nimici aver lontani -si crede, e questa ingiuria non aspetta, -dal conte Anselmo, che si chiama offeso -tanto da lui, nel primo sonno è preso; -e quella notte in tenebrosa parte -incatenato, e in gravi ceppi messo. -Il sole ancor non ha le luci sparte, -che l'ingiusto supplicio è già commesso; -che nel loco medesimo si squarte, -dove fu il mal c'hanno imputato ad esso. -Altra esamina in ciò non si facea: -bastava che 'l signor così credea. -Poi che l'altro matin la bella Aurora -l'aer seren fe' bianco e rosso e giallo, -tutto 'l popul gridando: — Mora, mora, — -vien per punir Zerbin del non suo fallo. -Lo sciocco vulgo l'accompagna fuora, -senz'ordine, chi a piede e chi a cavallo, -e 'l cavallier di Scozia a capo chino -ne vien legato in s'un piccol ronzino. -Ma Dio, che spesso gl'innocenti aiuta, -né lascia mai ch'in sua bontà si fida, -tal difesa gli avea già proveduta, -che non v'è dubbio più ch'oggi s'uccida. -Quivi Orlando arrivò, la cui venuta -alla via del suo scampo gli fu guida. -Orlando giù nel pian vide la gente -che trae a morte il cavallier dolente. -Era con lui quella fanciulla, quella -che ritrovò ne la selvaggia grotta, -del re galego la figlia Issabella, -in poter già de' malandrin condotta, -poi che lasciato avea ne la procella -del truculento mar la nave rotta: -quella che più vicino al core avea -questo Zerbin, che l'alma onde vivea. -Orlando se l'avea fatta compagna, -poi che de la caverna la riscosse. -Quando costei li vide alla campagna, -domandò Orlando, chi la turba fosse. -— Non so, — diss'egli; e poi su la montagna -lasciolla, e verso il pian ratto si mosse. -Guardò Zerbino, ed alla vista prima -lo giudicò baron di molta stima. -E fattosegli appresso, domandollo -per che cagione e dove il menin preso. -Levò il dolente cavalliero il collo, -e meglio avendo il paladino inteso, -rispose il vero; e così ben narrollo, -che meritò dal conte esser difeso. -Bene avea il conte alle parole scorto -ch'era innocente, e che moriva a torto. -E poi che 'ntese che commesso questo -era dal conte Anselmo d'Altariva, -fu certo ch'era torto manifesto; -ch'altro da quel fellon mai non deriva. -Ed oltre a ciò, l'uno era all'altro infesto -per l'antiquissimo odio che bolliva -tra il sangue di Maganza e di Chiarmonte; -e tra lor eran morti e danni ed onte. -— Slegate il cavallier (gridò), canaglia, -(il conte a' masnadieri), o ch'io v'uccido. — -— Chi è costui che sì gran colpi taglia? -(rispose un che parer volle il più fido). -Se di cera noi fussimo o di paglia, -e di fuoco egli, assai fôra quel grido. — -E venne contra il paladin di Francia: -Orlando contra lui chinò la lancia. -La lucente armatura il Maganzese, -che levata la notte avea a Zerbino, -e postasela indosso, non difese -contro l'aspro incontrar del paladino. -Sopra la destra guancia il ferro prese: -l'elmo non passò già, perch'era fino; -ma tanto fu de la percossa il crollo, -che la vita gli tolse e roppe il collo. -Tutto in un corso, senza tor di resta -la lancia, passò un altro in mezzo 'l petto: -quivi lasciolla, e la mano ebbe presta -a Durindana; e nel drappel più stretto -a chi fece due parti de la testa, -a chi levò dal busto il capo netto; -forò la gola a molti; e in un momento -n'uccise e messe in rotta più di cento. -Più del terzo n'ha morto, e 'l resto caccia -e taglia e fende e fiere e fora e tronca. -Chi lo scudo, e chi l'elmo che lo 'mpaccia, -e chi lascia lo spiedo e chi la ronca; -chi al lungo, chi al traverso il camin spaccia; -altri s'appiatta in bosco, altri in spelonca. -Orlando, di pietà questo dì privo, -a suo poter non vuol lasciarne un vivo. -Di cento venti (che Turpin sottrasse -il conto), ottanta ne periro almeno. -Orlando finalmente si ritrasse -dove a Zerbin tremava il cor nel seno. -S'al ritornar d'Orlando s'allegrasse, -non si potria contare in versi a pieno. -Se gli saria per onorar prostrato; -ma si trovò sopra il ronzin legato. -Mentre ch'Orlando, poi che lo disciolse, -l'aiutava a ripor l'arme sue intorno, -ch'al capitan de la sbirraglia tolse, -che per suo mal se n'era fatto adorno; -Zerbino gli occhi ad Issabella volse, -che sopra il colle avea fatto soggiorno, -e poi che de la pugna vide il fine, -portò le sue bellezze più vicine. -Quando apparir Zerbin si vide appresso -la donna che da lui fu amata tanto, -la bella donna che per falso messo -credea sommersa, e n'ha più volte pianto; -com'un ghiaccio nel petto gli sia messo, -sente dentro aggelarsi, e triema alquanto: -ma tosto il freddo manca, ed in quel loco -tutto s'avampa d'amoroso fuoco. -Di non tosto abbracciarla lo ritiene -la riverenza del signor d'Anglante; -perché si pensa, e senza dubbio tiene -ch'Orlando sia de la donzella amante. -Così cadendo va di pene in pene, -e poco dura il gaudio ch'ebbe inante: -il vederla d'altrui peggio sopporta, -che non fe' quando udì ch'ella era morta. -E molto più gli duol che sia in podesta -del cavalliero a cui cotanto debbe; -perché volerla a lui levar né onesta -né forse impresa facile sarebbe. -Nessuno altro da sé lassar con questa -preda partir senza romor vorrebbe: -ma verso il conte il suo debito chiede -che se lo lasci por sul collo il piede. -Giunsero taciturni ad una fonte, -dove smontaro e fer qualche dimora. -Trassesi l'elmo il travagliato conte, -ed a Zerbin lo fece trarre ancora. -Vede la donna il suo amatore in fronte, -e di subito gaudio si scolora; -poi torna come fiore umido suole -dopo gran pioggia all'apparir del sole. -E senza indugio e senza altro rispetto -corre al suo caro amante, e il collo abbraccia; -e non può trar parola fuor del petto, -ma di lacrime il sen bagna e la faccia. -Orlando attento all'amoroso affetto, -senza che più chiarezza se gli faccia, -vide a tutti gl'indizi manifesto -ch'altri esser, che Zerbin, non potea questo. -Come la voce aver poté Issabella, -non bene asciutta ancor l'umida guancia, -sol de la molta cortesia favella, -che l'avea usata il paladin di Francia. -Zerbino, che tenea questa donzella -con la sua vita pare a una bilancia, -si getta a' piè del conte, e quello adora -come a chi gli ha due vite date a un'ora. -Molti ringraziamenti e molte offerte -erano per seguir tra i cavallieri, -se non udian sonar le vie coperte -dagli arbori di frondi oscuri e neri. -Presti alle teste lor, ch'eran scoperte, -posero gli elmi, e presero i destrieri: -ed ecco un cavalliero e una donzella -lor sopravien, ch'a pena erano in sella. -Era questo guerrier quel Mandricardo -che dietro Orlando in fretta si condusse -per vendicar Alzirdo e Manilardo, -che 'l paladin con gran valor percusse: -quantunque poi lo seguitò più tardo; -che Doralice in suo poter ridusse, -la quale avea con un troncon di cerro -tolta a cento guerrier carchi di ferro. -Non sapea il Saracin però, che questo, -ch'egli seguia, fosse il signor d'Anglante: -ben n'avea indizio e segno manifesto -ch'esser dovea gran cavalliero errante. -A lui mirò più ch'a Zerbino, e presto -gli andò con gli occhi dal capo alle piante; -e i dati contrasegni ritrovando, -disse: — Tu se' colui ch'io vo cercando. -Sono omai dieci giorni (gli soggiunse) -che di cercar non lascio i tuo' vestigi: -tanto la fama stimolommi e punse, -che di te venne al campo di Parigi, -quando a fatica un vivo sol vi giunse -di mille che mandasti ai regni stigi; -e la strage contò, che da te venne -sopra i Norizi e quei di Tremisenne. -Non fui, come lo seppi, a seguir lento, -e per vederti e per provarti appresso: -e perché m'informai del guernimento -c'hai sopra l'arme, io so che tu sei desso; -e se non l'avessi anco, e che fra cento -per celarti da me ti fossi messo, -il tuo fiero sembiante mi faria -chiaramente veder che tu quel sia. — -— Non si può (gli rispose Orlando) dire -che cavallier non sii d'alto valore; -però che sì magnanimo desire -non mi credo albergasse in umil core. -Se 'l volermi veder ti fa venire, -vo' che mi veggi dentro, come fuore: -mi leverò questo elmo da le tempie, -acciò ch'a punto il tuo desire adempie. -Ma poi che ben m'avrai veduto in faccia, -all'altro desiderio ancora attendi: -resta ch'alla cagion tu satisfaccia, -che fa che dietro questa via mi prendi; -che veggi se 'l valor mio si confaccia -a quel sembiante fier che sì commendi. — -— Orsù (disse il pagano), al rimanente; -ch'al primo ho satisfatto interamente. — -Il conte tuttavia dal capo al piede -va cercando il pagan tutto con gli occhi: -mira ambi i fianchi, indi l'arcion; né vede -pender né qua né là mazze né stocchi. -Gli domanda di ch'arme si provede, -s'avvien che con la lancia in fallo tocchi. -Rispose quel: — Non ne pigliar tu cura: -così a molt'altri ho ancor fatto paura. -Ho sacramento di non cinger spada, -fin ch'io non tolgo Durindana al conte; -e cercando lo vo per ogni strada, -acciò più d'una posta meco sconte. -Lo giurai (se d'intenderlo t'aggrada) -quando mi posi quest'elmo alla fronte, -il qual con tutte l'altr'arme ch'io porto, -era d'Ettòr, che già mill'anni è morto. -La spada sola manca alle buone arme: -come rubata fu, non ti so dire. -Or che la porti il paladino, parme; -e di qui vien ch'egli ha sì grande ardire. -Ben penso, se con lui posso accozzarme, -fargli il mal tolto ormai ristituire. -Cercolo ancor, che vendicar disio -il famoso Agrican genitor mio. -Orlando a tradimento gli diè morte: -ben so che non potea farlo altrimente. — -Il conte più non tacque, e gridò forte: -— E tu e qualunque il dice, se ne mente. -Ma quel che cerchi t'è venuto in sorte: -io sono Orlando, e uccisil giustamente; -e questa è quella spada che tu cerchi, -che tua sarà, se con virtù la merchi. -Quantunque sia debitamente mia, -tra noi per gentilezza si contenda: -né voglio in questa pugna ch'ella sia -più tua che mia; ma a un arbore s'appenda. -Levala tu liberamente via, -s'avvien che tu m'uccida o che mi prenda. — -Così dicendo, Durindana prese, -e 'n mezzo il campo a un arbuscel l'appese. -Già l'un da l'altro è dipartito lunge, -quanto sarebbe un mezzo tratto d'arco: -già l'uno contra l'altro il destrier punge, -né de le lente redine gli è parco: -già l'uno e l'altro di gran colpo aggiunge -dove per l'elmo la veduta ha varco. -Parveno l'aste, al rompersi, di gielo; -e in mille schegge andar volando al cielo. -L'una e l'altra asta è forza che si spezzi; -che non voglion piegarsi i cavallieri, -i cavallier che tornano coi pezzi -che son restati appresso i calci interi. -Quelli, che sempre fur nel ferro avezzi, -or, come duo villan per sdegno fieri -nel partir acque o termini de prati, -fan crudel zuffa di duo pali armati. -Non stanno l'aste a quattro colpi salde, -e mancan nel furor di quella pugna. -Di qua e di là si fan l'ire più calde; -né da ferir lor resta altro che pugna. -Schiodano piastre, e straccian maglie e falde, -pur che la man, dove s'aggraffi, giugna. -Non desideri alcun, perché più vaglia, -martel più grave o più dura tanaglia. -Come può il Saracin ritrovar sesto -di finir con suo onore il fiero invito? -Pazzia sarebbe il perder tempo in questo, -che nuoce al feritor più ch'al ferito. -Andò alle strette l'uno e l'altro, e presto -il re pagano Orlando ebbe ghermito: -lo strigne al petto; e crede far le prove -che sopra Anteo fe' già il figliol di Giove. -Lo piglia con molto impeto a traverso: -quando lo spinge, e quando a sé lo tira; -ed è ne la gran colera sì immerso, -ch'ove resti la briglia poco mira. -Sta in sé raccolto Orlando, e ne va verso -il suo vantaggio, e alla vittoria aspira: -gli pon la cauta man sopra le ciglia -del cavallo, e cader ne fa la briglia. -Il Saracino ogni poter vi mette, -che lo soffoghi, o de l'arcion lo svella: -negli urti il conte ha le ginocchia strette; -né in questa parte vuol piegar né in quella. -Per quel tirar che fa il pagan, costrette -le cingie son d'abandonar la sella. -Orlando è in terra, e a pena sel conosce: -ch'i piedi ha in staffa, e stringe ancor le cosce. -Con quel rumor ch'un sacco d'arme cade, -risuona il conte, come il campo tocca. -Il destrier c'ha la testa in libertade, -quello a chi tolto il freno era di bocca, -non più mirando i boschi che le strade, -con ruinoso corso si trabocca, -spinto di qua e di là dal timor cieco; -e Mandricardo se ne porta seco. -Doralice che vede la sua guida -uscir dal campo e torlesi d'appresso, -e mal restarne senza si confida, -dietro, correndo, il suo ronzin gli ha messo. -Il pagan per orgoglio al destrier grida, -e con mani e con piedi il batte spesso; -e, come non sia bestia, lo minaccia -perché si fermi, e tuttavia più il caccia. -La bestia, ch'era spaventosa e poltra, -sanza guardarsi ai piè, corre a traverso. -Già corso avea tre miglia, e seguiva oltra, -s'un fosso a quel desir non era avverso; -che, sanza aver nel fondo o letto o coltra, -riceve l'uno e l'altro in sé riverso. -Diè Mandricardo in terra aspra percossa; -né però si fiaccò né si roppe ossa. -Quivi si ferma il corridore al fine, -ma non si può guidar, che non ha freno. -Il Tartaro lo tien preso nel crine, -e tutto è di furore e d'ira pieno. -Pensa, e non sa quel che di far destine. -— Pongli la briglia del mio palafreno -(la donna gli dicea); che non è molto -il mio feroce, o sia col freno o sciolto. — -Al Saracin parea discortesia -la proferta accettar di Doralice; -ma fren gli farà aver per altra via -Fortuna a' suoi disii molto fautrice. -Quivi Gabrina scelerata invia, -che, poi che di Zerbin fu traditrice, -fuggia, come la lupa che lontani -oda venire i cacciatori e i cani. -Ella avea ancora indosso la gonnella, -e quei medesimi giovenili ornati -che furo alla vezzosa damigella -di Pinabel, per lei vestir, levati; -ed avea il palafreno anco di quella, -dei buon del mondo e degli avantaggiati. -La vecchia sopra il Tartaro trovosse, -ch'ancor non s'era accorta che vi fosse. -L'abito giovenil mosse la figlia -di Stordilano, e Mandricardo a riso, -vedendolo a colei che rassimiglia -a un babuino, a un bertuccione in viso. -Disegna il Saracin torle la briglia -pel suo destriero, e riuscì l'aviso. -Toltogli il morso, il palafren minaccia, -gli grida, lo spaventa, e in fuga il caccia. -Quel fugge per la selva, e seco porta -la quasi morta vecchia di paura -per valli e monti e per via dritta e torta, -per fossi e per pendici alla ventura. -Ma il parlar di costei sì non m'importa, -ch'io non debba d'Orlando aver più cura, -ch'alla sua sella ciò ch'era di guasto, -tutto ben racconciò sanza contrasto. -Rimontò sul destriero, e ste' gran pezzo -a riguardar che 'l Saracin tornasse. -Nol vedendo apparir, volse da sezzo -egli esser quel ch'a ritrovarlo andasse; -ma, come costumato e bene avezzo, -non prima il paladin quindi si trasse, -che con dolce parlar grato e cortese -buona licenza dagli amanti prese. -Zerbin di quel partir molto si dolse; -di tenerezza ne piangea Issabella: -voleano ir seco, ma il conte non volse -lor compagnia, ben ch'era e buona e bella; -e con questa ragion se ne disciolse, -ch'a guerrier non è infamia sopra quella -che, quando cerchi un suo nimico, prenda -compagno che l'aiuti e che 'l difenda. -Li pregò poi, che quando il Saracino, -prima ch'in lui, si riscontrasse in loro, -gli dicesser ch'Orlando avria vicino -ancor tre giorni per quel tenitoro; -ma dopo, che sarebbe il suo camino -verso le 'nsegne dei bei gigli d'oro, -per esser con l'esercito di Carlo, -acciò, volendol, sappia onde chiamarlo. -Quelli promiser farlo volentieri, -e questa e ogn'altra cosa al suo comando. -Feron camin diverso i cavallieri, -di qua Zerbino, e di là il conte Orlando. -Prima che pigli il conte altri sentieri, -all'arbor tolse, e a sé ripose il brando; -e dove meglio col pagan pensosse -di potersi incontrare, il destrier mosse. -Lo strano corso che tenne il cavallo -del Saracin pel bosco senza via, -fece ch'Orlando andò duo giorni in fallo, -né lo trovò, né poté averne spia. -Giunse ad un rivo che parea cristallo, -ne le cui sponde un bel pratel fioria, -di nativo color vago e dipinto, -e di molti e belli arbori distinto. -Il merigge facea grato l'orezzo -al duro armento ed al pastore ignudo; -sì che né Orlando sentia alcun ribrezzo, -che la corazza avea, l'elmo e lo scudo. -Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo; -e v'ebbe travaglioso albergo e crudo, -e più che dir si possa empio soggiorno, -quell'infelice e sfortunato giorno. -Volgendosi ivi intorno, vide scritti -molti arbuscelli in su l'ombrosa riva. -Tosto che fermi v'ebbe gli occhi e fitti, -fu certo esser di man de la sua diva. -Questo era un di quei lochi già descritti, -ove sovente con Medor veniva -da casa del pastore indi vicina -la bella donna del Catai regina. -Angelica e Medor con cento nodi -legati insieme, e in cento lochi vede. -Quante lettere son, tanti son chiodi -coi quali Amore il cor gli punge e fiede. -Va col pensier cercando in mille modi -non creder quel ch'al suo dispetto crede: -ch'altra Angelica sia, creder si sforza, -ch'abbia scritto il suo nome in quella scorza. -Poi dice: — Conosco io pur queste note: -di tal'io n'ho tante vedute e lette. -Finger questo Medoro ella si puote: -forse ch'a me questo cognome mette. — -Con tali opinion dal ver remote -usando fraude a sé medesmo, stette -ne la speranza il malcontento Orlando, -che si seppe a se stesso ir procacciando. -Ma sempre più raccende e più rinuova, -quanto spenger più cerca, il rio sospetto: -come l'incauto augel che si ritrova -in ragna o in visco aver dato di petto, -quanto più batte l'ale e più si prova -di disbrigar, più vi si lega stretto. -Orlando viene ove s'incurva il monte -a guisa d'arco in su la chiara fonte. -Aveano in su l'entrata il luogo adorno -coi piedi storti edere e viti erranti. -Quivi soleano al più cocente giorno -stare abbracciati i duo felici amanti. -V'aveano i nomi lor dentro e d'intorno, -più che in altro dei luoghi circostanti, -scritti, qual con carbone e qual con gesso, -e qual con punte di coltelli impresso. -Il mesto conte a piè quivi discese; -e vide in su l'entrata de la grotta -parole assai, che di sua man distese -Medoro avea, che parean scritte allotta. -Del gran piacer che ne la grotta prese, -questa sentenza in versi avea ridotta. -Che fosse culta in suo linguaggio io penso; -ed era ne la nostra tale il senso: -— Liete piante, verdi erbe, limpide acque, -spelunca opaca e di fredde ombre grata, -dove la bella Angelica che nacque -di Galafron, da molti invano amata, -spesso ne le mie braccia nuda giacque; -de la commodità che qui m'è data, -io povero Medor ricompensarvi -d'altro non posso, che d'ognor lodarvi: -e di pregare ogni signore amante, -e cavallieri e damigelle, e ognuna -persona, o paesana o viandante, -che qui sua volontà meni o Fortuna; -ch'all'erbe, all'ombre, all'antro, al rio, alle piante -dica: benigno abbiate e sole e luna, -e de le ninfe il coro, che proveggia -che non conduca a voi pastor mai greggia. — -Era scritto in arabico, che 'l conte -intendea così ben come latino: -fra molte lingue e molte ch'avea pronte, -prontissima avea quella il paladino; -e gli schivò più volte e danni ed onte, -che si trovò tra il popul saracino: -ma non si vanti, se già n'ebbe frutto; -ch'un danno or n'ha, che può scontargli il tutto. -Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto -quello infelice, e pur cercando invano -che non vi fosse quel che v'era scritto; -e sempre lo vedea più chiaro e piano: -ed ogni volta in mezzo il petto afflitto -stringersi il cor sentia con fredda mano. -Rimase al fin con gli occhi e con la mente -fissi nel sasso, al sasso indifferente. -Fu allora per uscir del sentimento -sì tutto in preda del dolor si lassa. -Credete a chi n'ha fatto esperimento, -che questo è 'l duol che tutti gli altri passa. -Caduto gli era sopra il petto il mento, -la fronte priva di baldanza e bassa; -né poté aver (che 'l duol l'occupò tanto) -alle querele voce, o umore al pianto. -L'impetuosa doglia entro rimase, -che volea tutta uscir con troppa fretta. -Così veggiàn restar l'acqua nel vase, -che largo il ventre e la bocca abbia stretta; -che nel voltar che si fa in su la base, -l'umor che vorria uscir, tanto s'affretta, -e ne l'angusta via tanto s'intrica, -ch'a goccia a goccia fuore esce a fatica. -Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come -possa esser che non sia la cosa vera: -che voglia alcun così infamare il nome -de la sua donna e crede e brama e spera, -o gravar lui d'insopportabil some -tanto di gelosia, che se ne pera; -ed abbia quel, sia chi si voglia stato, -molto la man di lei bene imitato. -In così poca, in così debol speme -sveglia gli spiriti e gli rifranca un poco; -indi al suo Brigliadoro il dosso preme, -dando già il sole alla sorella loco. -Non molto va, che da le vie supreme -dei tetti uscir vede il vapor del fuoco, -sente cani abbaiar, muggiare armento: -viene alla villa, e piglia alloggiamento. -Languido smonta, e lascia Brigliadoro -a un discreto garzon che n'abbia cura; -altri il disarma, altri gli sproni d'oro -gli leva, altri a forbir va l'armatura. -Era questa la casa ove Medoro -giacque ferito, e v'ebbe alta avventura. -Corcarsi Orlando e non cenar domanda, -di dolor sazio e non d'altra vivanda. -Quanto più cerca ritrovar quiete, -tanto ritrova più travaglio e pena; -che de l'odiato scritto ogni parete, -ogni uscio, ogni finestra vede piena. -Chieder ne vuol: poi tien le labra chete; -che teme non si far troppo serena, -troppo chiara la cosa che di nebbia -cerca offuscar, perché men nuocer debbia. -Poco gli giova usar fraude a se stesso; -che senza domandarne, è chi ne parla. -Il pastor che lo vede così oppresso -da sua tristizia, e che voria levarla, -l'istoria nota a sé, che dicea spesso -di quei duo amanti a chi volea ascoltarla, -ch'a molti dilettevole fu a udire, -gl'incominciò senza rispetto a dire: -come esso a prieghi d'Angelica bella -portato avea Medoro alla sua villa, -ch'era ferito gravemente; e ch'ella -curò la piaga, e in pochi dì guarilla: -ma che nel cor d'una maggior di quella -lei ferì Amor; e di poca scintilla -l'accese tanto e sì cocente fuoco, -che n'ardea tutta, e non trovava loco: -e sanza aver rispetto ch'ella fusse -figlia del maggior re ch'abbia il Levante, -da troppo amor costretta si condusse -a farsi moglie d'un povero fante. -All'ultimo l'istoria si ridusse, -che 'l pastor fe' portar la gemma inante, -ch'alla sua dipartenza, per mercede -del buono albergo, Angelica gli diede. -Questa conclusion fu la secure -che 'l capo a un colpo gli levò dal collo, -poi che d'innumerabil battiture -si vide il manigoldo Amor satollo. -Celar si studia Orlando il duolo; e pure -quel gli fa forza, e male asconder pòllo: -per lacrime e suspir da bocca e d'occhi -convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi. -Poi ch'allargare il freno al dolor puote -(che resta solo e senza altrui rispetto), -giù dagli occhi rigando per le gote -sparge un fiume di lacrime sul petto: -sospira e geme, e va con spesse ruote -di qua di là tutto cercando il letto; -e più duro ch'un sasso, e più pungente -che se fosse d'urtica, se lo sente. -In tanto aspro travaglio gli soccorre -che nel medesmo letto in che giaceva, -l'ingrata donna venutasi a porre -col suo drudo più volte esser doveva. -Non altrimenti or quella piuma abborre, -né con minor prestezza se ne leva, -che de l'erba il villan che s'era messo -per chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso. -Quel letto, quella casa, quel pastore -immantinente in tant'odio gli casca, -che senza aspettar luna, o che l'albore -che va dinanzi al nuovo giorno nasca, -piglia l'arme e il destriero, ed esce fuore -per mezzo il bosco alla più oscura frasca; -e quando poi gli è aviso d'esser solo, -con gridi ed urli apre le porte al duolo. -Di pianger mai, mai di gridar non resta; -né la notte né 'l dì si dà mai pace. -Fugge cittadi e borghi, e alla foresta -sul terren duro al discoperto giace. -Di sé si meraviglia ch'abbia in testa -una fontana d'acqua sì vivace, -e come sospirar possa mai tanto; -e spesso dice a sé così nel pianto: -— Queste non son più lacrime, che fuore -stillo dagli occhi con sì larga vena. -Non suppliron le lacrime al dolore: -finir, ch'a mezzo era il dolore a pena. -Dal fuoco spinto ora il vitale umore -fugge per quella via ch'agli occhi mena; -ed è quel che si versa, e trarrà insieme -e 'l dolore e la vita all'ore estreme. -Questi ch'indizio fan del mio tormento, -sospir non sono, né i sospir sono tali. -Quelli han triegua talora; io mai non sento -che 'l petto mio men la sua pena esali. -Amor che m'arde il cor, fa questo vento, -mentre dibatte intorno al fuoco l'ali. -Amor, con che miracolo lo fai, -che 'n fuoco il tenghi, e nol consumi mai? -Non son, non sono io quel che paio in viso: -quel ch'era Orlando è morto ed è sotterra; -la sua donna ingratissima l'ha ucciso: -sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra. -Io son lo spirto suo da lui diviso, -ch'in questo inferno tormentandosi erra, -acciò con l'ombra sia, che sola avanza, -esempio a chi in Amor pone speranza. — -Pel bosco errò tutta la notte il conte; -e allo spuntar de la diurna fiamma -lo tornò il suo destin sopra la fonte -dove Medoro isculse l'epigramma. -Veder l'ingiuria sua scritta nel monte -l'accese sì, ch'in lui non restò dramma -che non fosse odio, rabbia, ira e furore; -né più indugiò, che trasse il brando fuore. -Tagliò lo scritto e 'l sasso, e sin al cielo -a volo alzar fe' le minute schegge. -Infelice quell'antro, ed ogni stelo -in cui Medoro e Angelica si legge! -Così restar quel dì, ch'ombra né gielo -a pastor mai non daran più, né a gregge: -e quella fonte, già si chiara e pura, -da cotanta ira fu poco sicura; -che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle -non cessò di gittar ne le bell'onde, -fin che da sommo ad imo sì turbolle -che non furo mai più chiare né monde. -E stanco al fin, e al fin di sudor molle, -poi che la lena vinta non risponde -allo sdegno, al grave odio, all'ardente ira, -cade sul prato, e verso il ciel sospira. -Afflitto e stanco al fin cade ne l'erba, -e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto. -Senza cibo e dormir così si serba, -che 'l sole esce tre volte e torna sotto. -Di crescer non cessò la pena acerba, -che fuor del senno al fin l'ebbe condotto. -Il quarto dì, da gran furor commosso, -e maglie e piastre si stracciò di dosso. -Qui riman l'elmo, e là riman lo scudo, -lontan gli arnesi, e più lontan l'usbergo: -l'arme sue tutte, in somma vi concludo, -avean pel bosco differente albergo. -E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo -l'ispido ventre e tutto 'l petto e 'l tergo; -e cominciò la gran follia, sì orrenda, -che de la più non sarà mai ch'intenda. -In tanta rabbia, in tanto furor venne, -che rimase offuscato in ogni senso. -Di tor la spada in man non gli sovenne; -che fatte avria mirabil cose, penso. -Ma né quella, né scure, né bipenne -era bisogno al suo vigore immenso. -Quivi fe' ben de le sue prove eccelse, -ch'un alto pino al primo crollo svelse: -e svelse dopo il primo altri parecchi, -come fosser finocchi, ebuli o aneti; -e fe' il simil di querce e d'olmi vecchi, -di faggi e d'orni e d'illici e d'abeti. -Quel ch'un ucellator che s'apparecchi -il campo mondo, fa, per por le reti, -dei giunchi e de le stoppie e de l'urtiche, -facea de cerri e d'altre piante antiche. -I pastor che sentito hanno il fracasso, -lasciando il gregge sparso alla foresta, -chi di qua, chi di là, tutti a gran passo -vi vengono a veder che cosa è questa. -Ma son giunto a quel segno il qual s'io passo -vi potria la mia istoria esser molesta; -ed io la vo' più tosto diferire, -che v'abbia per lunghezza a fastidire. Chi mette il piè su l'amorosa pania, -cerchi ritrarlo, e non v'inveschi l'ale; -che non è in somma amor, se non insania, -a giudizio de' savi universale: -e se ben come Orlando ognun non smania, -suo furor mostra a qualch'altro segnale. -E quale è di pazzia segno più espresso -che, per altri voler, perder se stesso? -Vari gli effetti son, ma la pazzia -è tutt'una però, che li fa uscire. -Gli è come una gran selva, ove la via -conviene a forza, a chi vi va, fallire: -chi su, chi giù, chi qua, chi là travia. -Per concludere in somma, io vi vo' dire: -a chi in amor s'invecchia, oltr'ogni pena, -si convengono i ceppi e la catena. -Ben mi si potria dir: — Frate, tu vai -l'altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo. — -Io vi rispondo che comprendo assai, -or che di mente ho lucido intervallo; -ed ho gran cura (e spero farlo ormai) -di riposarmi e d'uscir fuor di ballo: -ma tosto far, come vorrei, nol posso; -che 'l male è penetrato infin all'osso. -Signor, ne l'altro canto io vi dicea -che 'l forsennato e furioso Orlando -trattesi l'arme e sparse al campo avea, -squarciati i panni, via gittato il brando, -svelte le piante, e risonar facea -i cavi sassi e l'alte selve; quando -alcun' pastori al suon trasse in quel lato -lor stella, o qualche lor grave peccato. -Viste del pazzo l'incredibil prove -poi più d'appresso e la possanza estrema, -si voltan per fuggir, ma non sanno ove, -sì come avviene in subitana tema. -Il pazzo dietro lor ratto si muove: -uno ne piglia, e del capo lo scema -con la facilità che torria alcuno -da l'arbor pome, o vago fior dal pruno. -Per una gamba il grave tronco prese, -e quello usò per mazza adosso al resto: -in terra un paio addormentato stese, -ch'al novissimo dì forse fia desto. -Gli altri sgombraro subito il paese, -ch'ebbono il piede e il buono aviso presto. -Non saria stato il pazzo al seguir lento, -se non ch'era già volto al loro armento. -Gli agricultori, accorti agli altru'esempli, -lascian nei campi aratri e marre e falci: -chi monta su le case e chi sui templi -(poi che non son sicuri olmi né salci), -onde l'orrenda furia si contempli, -ch'a pugni, ad urti, a morsi, a graffi, a calci, -cavalli e buoi rompe, fraccassa e strugge; -e ben è corridor chi da lui fugge. -Già potreste sentir come ribombe -l'alto rumor ne le propinque ville -d'urli e di corni, rusticane trombe, -e più spesso che d'altro, il suon di squille; -e con spuntoni ed archi e spiedi e frombe -veder dai monti sdrucciolarne mille, -ed altritanti andar da basso ad alto, -per fare al pazzo un villanesco assalto. -Qual venir suol nel salso lito l'onda -mossa da l'austro ch'a principio scherza, -che maggior de la prima è la seconda, -e con più forza poi segue la terza; -ed ogni volta più l'umore abonda, -e ne l'arena più stende la sferza: -tal contra Orlando l'empia turba cresce, -che giù da balze scende e di valli esce. -Fece morir diece persone e diece, -che senza ordine alcun gli andaro in mano: -e questo chiaro esperimento fece, -ch'era assai più sicur starne lontano. -Trar sangue da quel corpo a nessun lece, -che lo fere e percuote il ferro invano. -Al conte il re del ciel tal grazia diede, -per porlo a guardia di sua santa fede. -Era a periglio di morire Orlando, -se fosse di morir stato capace. -Potea imparar ch'era a gittare il brando, -e poi voler senz'arme essere audace. -La turba già s'andava ritirando, -vedendo ogni suo colpo uscir fallace. -Orlando, poi che più nessun l'attende, -verso un borgo di case il camin prende. -Dentro non vi trovò piccol né grande, -che 'l borgo ognun per tema avea lasciato. -V'erano in copia povere vivande, -convenienti a un pastorale stato. -Senza pane discerner da le giande, -dal digiuno e da l'impeto cacciato, -le mani e il dente lasciò andar di botto -in quel che trovò prima, o crudo o cotto. -E quindi errando per tutto il paese, -dava la caccia e agli uomini e alle fere; -e scorrendo pei boschi, talor prese -i capri isnelli e le damme leggiere. -Spesso con orsi e con cingiai contese, -e con man nude li pose a giacere: -e di lor carne con tutta la spoglia -più volte il ventre empì con fiera voglia. -Di qua, di là, di su, di giù discorre -per tutta Francia; e un giorno a un ponte arriva, -sotto cui largo e pieno d'acqua corre -un fiume d'alta e di scoscesa riva. -Edificato accanto avea una torre -che d'ogn'intorno e di lontan scopriva. -Quel che fe' quivi, avete altrove a udire; -che di Zerbin mi convien prima dire. -Zerbin, da poi ch'Orlando fu partito, -dimorò alquanto, e poi prese il sentiero -che 'l paladino inanzi gli avea trito, -e mosse a passo lento il suo destriero. -Non credo che duo miglia anco fosse ito, -che trar vide legato un cavalliero -sopra un picciol ronzino, e d'ogni lato -la guardia aver d'un cavalliero armato. -Zerbin questo prigion conobbe tosto -che gli fu appresso, e così fe' Issabella: -era Odorico il Biscaglin, che posto -fu come lupo a guardia de l'agnella. -L'avea a tutti gli amici suoi preposto -Zerbino in confidargli la donzella, -sperando che la fede che nel resto -sempre avea avuta, avesse ancora in questo. -Come era a punto quella cosa stata, -venìa Issabella raccontando allotta: -come nel palischermo fu salvata, -prima ch'avesse il mar la nave rotta; -la forza che l'avea Odorico usata; -e come tratta poi fosse alla grotta. -Né giunt'era anco al fin di quel sermone, -che trarre il malfattor vider prigione. -I duo ch'in mezzo avean preso Odorico, -d'Issabella notizia ebbeno vera; -e s'avisaro esser di lei l'amico, -e 'l signor lor, colui ch'appresso l'era; -ma più, che ne lo scudo il segno antico -vider dipinto di sua stirpe altiera: -e trovar poi, che guardar meglio al viso, -che s'era al vero apposto il loro aviso. -Saltaro a piedi, e con aperte braccia -correndo se n'andar verso Zerbino, -e l'abbracciaro ove il maggior s'abbraccia, -col capo nudo e col ginocchio chino. -Zerbin, guardando l'uno e l'altro in faccia, -vide esser l'un Corebo il Biscaglino, -Almonio l'altro, ch'egli avea mandati -con Odorico in sul navilio armati. -Almonio disse: — Poi che piace a Dio -(la sua mercé) che sia Issabella teco, -io posso ben comprender, signor mio, -che nulla cosa nuova ora t'arreco, -s'io vo' dir la cagion che questo rio -fa che così legato vedi meco; -che da costei, che più sentì l'offesa, -a punto avrai tutta l'istoria intesa. -Come dal traditore io fui schernito -quando da sé levommi, saper déi; -e come poi Corebo fu ferito, -ch'a difender s'avea tolto costei. -Ma quanto al mio ritorno sia seguito, -né veduto né inteso fu da lei, -che te l'abbia potuto riferire: -di questa parte dunque io ti vo' dire. -Da la cittade al mar ratto io veniva -con cavalli ch'in fretta avea trovati, -sempre con gli occhi intenti s'io scopriva -costor che molto a dietro eran restati. -Io vengo inanzi, io vengo in su la riva -del mare, al luogo ove io gli avea lasciati; -io guardo, né di loro altro ritrovo, -che ne l'arena alcun vestigio nuovo. -La pesta seguitai, che mi condusse -nel bosco fier; né molto adentro fui, -che, dove il suon l'orecchie mi percusse, -giacere in terra ritrovai costui. -Gli domandai che de la donna fusse, -che d'Odorico, e chi aveva offeso lui. -Io me n'andai, poi che la cosa seppi, -il traditor cercando per quei greppi. -Molto aggirando vommi, e per quel giorno -altro vestigio ritrovar non posso. -Dove giacea Corebo al fin ritorno, -che fatto appresso avea il terren sì rosso, -che poco più che vi facea soggiorno, -gli saria stato di bisogno il fosso -e i preti e i frati più per sotterrarlo, -ch'i medici e che 'l letto per sanarlo. -Dal bosco alla città feci portallo, -e posi in casa d'uno ostier mio amico, -che fatto sano in poco termine hallo -per cura ed arte d'un chirurgo antico. -Poi d'arme proveduti e di cavallo -Corebo ed io cercammo d'Odorico, -ch'in corte del re Alfonso di Biscaglia -trovammo; e quivi fui seco a battaglia. -La giustizia del re, che il loco franco -de la pugna mi diede, e la ragione, -ed oltre alla ragion la Fortuna anco, -che spesso la vittoria, ove vuol, pone, -mi giovar sì, che di me poté manco -il traditore; onde fu mio prigione. -Il re, udito il gran fallo, mi concesse -di poter farne quanto mi piacesse. -Non l'ho voluto uccider né lasciarlo, -ma, come vedi, trarloti in catena; -perché vo' ch'a te stia di giudicarlo, -se morire o tener si deve in pena. -L'avere inteso ch'eri appresso a Carlo, -e 'l desir di trovarti qui mi mena. -Ringrazio Dio che mi fa in questa parte, -dove lo sperai meno, ora trovarte. -Ringraziolo anco, che la tua Issabella -io veggo (e non so come) che teco hai; -di cui, per opera del fellon, novella -pensai che non avessi ad udir mai. — -Zerbino ascolta Almonio e non favella, -fermando gli occhi in Odorico assai; -non sì per odio, come che gl'incresce -ch'a sì mal fin tanta amicizia gli esce. -Finito ch'ebbe Almonio il suo sermone, -Zerbin riman gran pezzo sbigottito, -che chi d'ogn'altro men n'avea cagione, -sì espressamente il possa aver tradito. -Ma poi che d'una lunga ammirazione -fu, sospirando, finalmente uscito, -al prigion domandò se fosse vero -quel ch'avea di lui detto il cavalliero. -Il disleal con le ginocchia in terra -lasciò cadersi, e disse: — Signor mio, -ognun che vive al mondo pecca ed erra: -né differisce in altro il buon dal rio, -se non che l'uno è vinto ad ogni guerra -che gli vien mossa da un piccol disio; -l'altro ricorre all'arme e si difende, -ma se 'l nimico è forte, anco ei si rende. -Se tu m'avessi posto alla difesa -d'una tua rocca, e ch'al primiero assalto -alzate avessi, senza far contesa, -degl'inimici le bandiere in alto; -di viltà, o tradimento, che più pesa, -sugli occhi por mi si potria uno smalto: -ma s'io cedessi a forza, son ben certo -che biasmo non avrei, ma gloria e merto. -Sempre che l'inimico è più possente, -più chi perde accettabile ha la scusa. -Mia fé guardar dovea non altrimente -ch'una fortezza d'ogn'intorno chiusa: -così, con quanto senno e quanta mente -da la somma Prudenza m'era infusa, -io mi sforzai guardarla; ma al fin vinto -da intolerando assalto, ne fui spinto. — -Così disse Odorico, e poi soggiunse -(che saria lungo a ricontarvi il tutto) -mostrando che gran stimolo lo punse, -e non per lieve sferza s'era indutto. -Se mai per prieghi ira di cor si emunse, -s'umiltà di parlar fece mai frutto, -quivi far lo dovea; che ciò che muova -di cor durezza, ora Odorico trova. -Pigliar di tanta ingiuria alta vendetta, -tra il sì Zerbino e il no resta confuso: -il vedere il demerito lo alletta -a far che sia il fellon di vita escluso; -il ricordarsi l'amicizia stretta -ch'era stata tra lor per sì lungo uso, -con l'acqua di pietà l'accesa rabbia -nel cor gli spegne, e vuol che mercé n'abbia. -Mentre stava così Zerbino in forse -di liberare, o di menar captivo, -o pur il disleal dagli occhi torse -per morte, o pur tenerlo in pena vivo; -quivi rignando il palafreno corse, -che Mandricardo avea di briglia privo; -e vi portò la vecchia che vicino -a morte dianzi avea tratto Zerbino. -Il palafren, ch'udito di lontano -avea quest'altri, era tra lor venuto, -e la vecchia portatavi, ch'invano -venìa piangendo e domandando aiuto. -Come Zerbin lei vide, alzò la mano -al ciel che sì benigno gli era suto, -che datogli in arbitrio avea que' dui -che soli odiati esser dovean da lui. -Zerbin fa ritener la mala vecchia, -tanto che pensi quel che debba farne: -tagliarle il naso e l'una e l'altra orecchia -pensa, ed esempio a' malfattori darne; -poi gli par assai meglio, s'apparecchia -un pasto agli avoltoi di quella carne. -Punizion diversa tra sé volve; -e così finalmente si risolve. -Si rivolta ai compagni, e dice: — Io sono -di lasciar vivo il disleal contento; -che s'in tutto non merita perdono, -non merita anco sì crudel tormento. -Che viva e che slegato sia gli dono, -però ch'esser d'Amor la colpa sento; -e facilmente ogni scusa s'ammette, -quando in Amor la colpa si reflette. -Amore ha volto sottosopra spesso -senno più saldo che non ha costui, -ed ha condotto a via maggiore eccesso -di questo, ch'oltraggiato ha tutti nui. -Ad Odorico debbe esser rimesso: -punito esser debbo io, che cieco fui, -cieco a dargline impresa, e non por mente -che 'l fuoco arde la paglia facilmente. — -Poi mirando Odorico: — Io vo' che sia -(gli disse) del tuo error la penitenza, -che la vecchia abbi un anno in compagnia, -né di lasciarla mai ti sia licenza; -ma notte e giorno, ove tu vada o stia, -un'ora mai non te ne trovi senza; -e fin a morte sia da te difesa -contra ciascun che voglia farle offesa. -Vo', se da lei ti sarà commandato, -che pigli contra ognun contesa e guerra: -vo' in questo tempo, che tu sia ubligato -tutta Francia cercar di terra in terra. — -Così dicea Zerbin; che pel peccato -meritando Odorico andar sotterra, -questo era porgli inanzi un'alta fossa, -che fia gran sorte che schivar la possa. -Tante donne, tanti uomini traditi -avea la vecchia, e tanti offesi e tanti, -che chi sarà con lei, non senza liti -potrà passar de' cavallieri erranti. -Così di par saranno ambi puniti: -ella de' suoi commessi errori inanti, -egli di torne la difesa a torto; -né molto potrà andar che non sia morto. -Di dover servar questo, Zerbin diede -ad Odorico un giuramento forte, -con patto che se mai rompe la fede, -e ch'inanzi gli capiti per sorte, -senza udir prieghi e averne più mercede, -lo debba far morir di cruda morte. -Ad Almonio e a Corebo poi rivolto, -fece Zerbin che fu Odorico sciolto. -Corebo, consentendo Almonio, sciolse -il traditore al fin, ma non in fretta; -ch'all'uno e all'altro esser turbato dolse -da sì desiderata sua vendetta. -Quindi partissi il disleale, e tolse -in compagnia la vecchia maledetta. -Non si legge in Turpin che n'avvenisse; -ma vidi già un autor che più ne scrisse. -Scrive l'autore, il cui nome mi taccio, -che non furo lontani una giornata, -che per torsi Odorico quello impaccio, -contra ogni patto ed ogni fede data, -al collo di Gabrina gittò un laccio, -e che ad un olmo la lasciò impiccata; -e ch'indi a un anno (ma non dice il loco) -Almonio a lui fece il medesmo giuoco. -Zerbin che dietro era venuto all'orma -del paladin, né perder la vorrebbe, -manda a dar di sé nuove alla sua torma, -che star senza gran dubbio non ne debbe: -Almonio manda, e di più cose informa, -che lungo il tutto a ricontar sarebbe; -Almonio manda, e a lui Corebo appresso; -né tien, fuor ch'Issabella, altri con esso. -Tant'era l'amor grande che Zerbino, -e non minor del suo quel che Issabella -portava al virtuoso paladino; -tanto il desir d'intender la novella -ch'egli avesse trovato il Saracino -che del destrier lo trasse con la sella; -che non farà all'esercito ritorno, -se non finito che sia il terzo giorno; -il termine ch'Orlando aspettar disse -il cavallier ch'ancor non porta spada. -Non è alcun luogo dove il conte gisse, -che Zerbin pel medesimo non vada. -Giunse al fin tra quegli arbori che scrisse -l'ingrata donna, un poco fuor di strada; -e con la fonte e col vicino sasso -tutti li ritruovò messi in fracasso. -Vede lontan non sa che luminoso, -e trova la corazza esser del conte; -e trova l'elmo poi, non quel famoso -ch'armò già il capo all'africano Almonte. -Il destrier ne la selva più nascoso -sente anitrire, e leva al suon la fronte; -e vede Brigliador pascer per l'erba, -che dall'arcion pendente il freno serba. -Durindana cercò per la foresta, -e fuor la vide del fodero starse. -Trovò, ma in pezzi, ancor la sopravesta -ch'in cento lochi il miser conte sparse. -Issabella e Zerbin con faccia mesta -stanno mirando, e non san che pensarse: -pensar potrian tutte le cose, eccetto -che fosse Orlando fuor dell'intelletto. -Se di sangue vedessino una goccia, -creder potrian che fosse stato morto. -Intanto lungo la corrente doccia -vider venire un pastorello smorto. -Costui pur dianzi avea di su la roccia -l'alto furor de l'infelice scorto, -come l'arme gittò, squarciossi i panni, -pastori uccise, e fe' mill'altri danni. -Costui, richiesto da Zerbin, gli diede -vera informazion di tutto questo. -Zerbin si maraviglia, e a pena il crede; -e tuttavia n'ha indizio manifesto. -Sia come vuole, egli discende a piede, -pien di pietade, lacrimoso e mesto; -e ricogliendo da diversa parte -le reliquie ne va ch'erano sparte. -Del palafren discende anco Issabella, -e va quell'arme riducendo insieme. -Ecco lor sopraviene una donzella -dolente in vista, e di cor spesso geme. -Se mi domanda alcun chi sia, perch'ella -così s'affligge, e che dolor la preme, -io gli risponderò che è Fiordiligi -che de l'amante suo cerca i vestigi. -Da Brandimarte senza farle motto -lasciata fu ne la città di Carlo, -dov'ella l'aspettò sei mesi od otto; -e quando al fin non vide ritornarlo, -da un mare all'altro si mise, fin sotto -Pirene e l'Alpe, e per tutto a cercarlo: -l'andò cercando in ogni parte, fuore -ch'al palazzo d'Atlante incantatore. -Se fosse stata a quell'ostel d'Atlante, -veduto con Gradasso andare errando -l'avrebbe, con Ruggier, con Bradamante, -e con Ferraù prima e con Orlando; -ma poi che cacciò Astolfo il negromante -col suono del corno orribile e mirando, -Brandimarte tornò verso Parigi: -ma non sapea già questo Fiordiligi. -Come io vi dico, sopraggiunta a caso -a quei duo amanti Fiordiligi bella, -conobbe l'arme, e Brigliador rimaso -senza il patrone e col freno alla sella. -Vide con gli occhi il miserabil caso, -e n'ebbe per udita anco novella; -che similmente il pastorel narrolle -aver veduto Orlando correr folle. -Quivi Zerbin tutte raguna l'arme, -e ne fa come un bel trofeo su 'n pino; -e volendo vietar che non se n'arme -cavallier paesan né peregrino, -scrive nel verde ceppo in breve carme: -— Armatura d'Orlando paladino; — -come volesse dir: nessun la muova, -che star non possa con Orlando a prova. -Finito ch'ebbe la lodevol opra, -tornava a rimontar sul suo destriero; -ed ecco Mandricardo arrivar sopra, -che visto il pin di quelle spoglie altiero, -lo priega che la cosa gli discuopra: -e quel gli narra, come ha inteso, il vero. -Allora il re pagan lieto non bada, -che viene al pino, e ne leva la spada, -dicendo: — Alcun non me ne può riprendere; -non è pur oggi ch'io l'ho fatta mia, -ed il possesso giustamente prendere -ne posso in ogni parte, ovunque sia. -Orlando che temea quella difendere, -s'ha finto pazzo, e l'ha gittata via; -ma quando sua viltà pur così scusi, -non debbe far ch'io mia ragion non usi. — -Zerbino a lui gridava: — Non la torre, -o pensa non l'aver senza questione. -Se togliesti così l'arme d'Ettorre, -tu l'hai di furto, più che di ragione. — -Senz'altro dir l'un sopra l'altro corre, -d'animo e di virtù gran paragone. -Di cento colpi già rimbomba il suono, -né bene ancor ne la battaglia sono. -Di prestezza Zerbin pare una fiamma -a torsi ovunque Durindana cada: -di qua di là saltar come una damma -fa 'l suo destrier dove è miglior la strada. -E ben convien che non ne perda dramma; -ch'andrà, s'un tratto il coglie quella spada, -a ritrovar gl'innamorati spirti -ch'empion la selva degli ombrosi mirti. -Come il veloce can che 'l porco assalta -che fuor del gregge errar vegga nei campi, -lo va aggirando, e quinci e quindi salta; -ma quello attende ch'una volta inciampi: -così, se vien la spada o bassa od alta, -sta mirando Zerbin come ne scampi; -come la vita e l'onor salvi a un tempo, -tien sempre l'occhio, e fiere e fugge a tempo. -Da l'altra parte, ovunque il Saracino -la fiera spada vibra o piena o vota, -sembra fra due montagne un vento alpino -ch'una frondosa selva il marzo scuota; -ch'ora la caccia a terra a capo chino, -or gli spezzati rami in aria ruota. -Ben che Zerbin più colpi e fùggia e schivi, -non può schivare al fin, ch'un non gli arrivi. -Non può schivare al fine un gran fendente -che tra 'l brando e lo scudo entra sul petto. -Grosso l'usbergo, e grossa parimente -era la piastra, e 'l panziron perfetto: -pur non gli steron contra, ed ugualmente -alla spada crudel dieron ricetto. -Quella calò tagliando ciò che prese, -la corazza e l'arcion fin su l'arnese. -E se non che fu scarso il colpo alquanto, -permezzo lo fendea come una canna; -ma penetra nel vivo a pena tanto, -che poco più che la pelle gli danna: -la non profunda piaga è lunga quanto -non si misureria con una spanna. -Le lucid'arme il caldo sangue irriga -per sino al piè di rubiconda riga. -Così talora un bel purpureo nastro -ho veduto partir tela d'argento -da quella bianca man più ch'alabastro, -da cui partire il cor spesso mi sento. -Quivi poco a Zerbin vale esser mastro -di guerra, ed aver forza e più ardimento; -che di finezza d'arme e di possanza -il re di Tartaria troppo l'avanza. -Fu questo colpo del pagan maggiore -in apparenza, che fosse in effetto; -tal ch'Issabella se ne sente il core -fendere in mezzo all'agghiacciato petto. -Zerbin pien d'ardimento e di valore -tutto s'infiamma d'ira e di dispetto; -e quanto più ferire a due man puote, -in mezzo l'elmo il Tartaro percuote. -Quasi sul collo del destrier piegosse -per l'aspra botta il Saracin superbo; -e quando l'elmo senza incanto fosse, -partito il capo gli avria il colpo acerbo. -Con poco differir ben vendicosse, -né disse: A un'altra volta io te la serbo: -e la spada gli alzò verso l'elmetto, -sperandosi tagliarlo infin al petto. -Zerbin che tenea l'occhio ove la mente, -presto il cavallo alla man destra volse; -non sì presto però, che la tagliente -spada fuggisse, che lo scudo colse. -Da sommo ad imo ella il partì ugualmente, -e di sotto il braccial roppe e disciolse -e lui ferì nel braccio, e poi l'arnese -spezzògli, e ne la coscia anco gli scese. -Zerbin di qua di là cerca ogni via, -né mai di quel che vuol, cosa gli avviene; -che l'armatura sopra cui feria, -un piccol segno pur non ne ritiene. -Da l'altra parte il re di Tartaria -sopra Zerbino a tal vantaggio viene, -che l'ha ferito in sette parti o in otto, -tolto lo scudo, e mezzo l'elmo rotto. -Quel tuttavia più va perdendo il sangue; -manca la forza, e ancor par che nol senta: -il vigoroso cor che nulla langue, -val sì, che 'l debol corpo ne sostenta. -La donna sua, per timor fatta esangue, -intanto a Doralice s'appresenta, -e la priega e la supplica per Dio, -che partir voglia il fiero assalto e rio. -Cortese come bella, Doralice, -né ben sicura come il fatto segua, -fa volentier quel ch'Issabella dice, -e dispone il suo amante a pace e a triegua. -Così a' prieghi de l'altra l'ira ultrice -di cor fugge a Zerbino e si dilegua: -ed egli, ove a lei par, piglia la strada, -senza finir l'impresa de la spada. -Fiordiligi, che mal vede difesa -la buona spada del misero conte, -tacita duolsi, e tanto le ne pesa, -che d'ira piange e battesi la fronte. -Vorria aver Brandimarte a quella impresa; -e se mai lo ritrova e gli lo conte, -non crede poi che Mandricardo vada -lunga stagione altier di quella spada. -Fiordiligi cercando pure invano -va Brandimarte suo matina e sera; -e fa camin da lui molto lontano, -da lui che già tornato a Parigi era. -Tanto ella se n'andò per monte e piano, -che giunse ove, al passar d'una riviera, -vide e conobbe il miser paladino; -ma diciàn quel ch'avvenne di Zerbino: -che 'l lasciar Durindana sì gran fallo -gli par, che più d'ogn'altro mal gl'incresce; -quantunque a pena star possa a cavallo -pel molto sangue che gli è uscito ed esce. -Or poi che dopo non troppo intervallo -cessa con l'ira il caldo, il dolor cresce: -cresce il dolor sì impetuosamente, -che mancarsi la vita se ne sente. -Per debolezza più non potea gire; -sì che fermossi appresso una fontana. -Non sa che far né che si debba dire -per aiutarlo la donzella umana. -Sol di disagio lo vede morire; -che quindi è troppo ogni città lontana, -dove in quel punto al medico ricorra, -che per pietade o premio gli soccorra. -Ella non sa se non invan dolersi, -chiamar fortuna e il cielo empio e crudele. -— Perché, ahi lassa! (dicea) non mi sommersi -quando levai ne l'Oceàn le vele? — -Zerbin che i languidi occhi ha in lei conversi, -sente più doglia ch'ella si querele, -che de la passion tenace e forte -che l'ha condutto omai vicino a morte. -— Così, cor mio, vogliate (le diceva), -dopo ch'io sarò morto, amarmi ancora, -come solo il lasciarvi è che m'aggreva -qui senza guida, e non già perch'io mora: -che se in sicura parte m'accadeva -finir de la mia vita l'ultima ora, -lieto e contento e fortunato a pieno -morto sarei, poi ch'io vi moro in seno. -Ma poi che 'l mio destino iniquo e duro -vol ch'io vi lasci, e non so in man di cui; -per questa bocca e per questi occhi giuro, -per queste chiome onde allacciato fui, -che disperato nel profondo oscuro -vo de lo 'nferno, ove il pensar di vui -ch'abbia così lasciata, assai più ria -sarà d'ogn'altra pena che vi sia. — -A questo la mestissima Issabella, -declinando la faccia lacrimosa -e congiungendo la sua bocca a quella -di Zerbin, languidetta come rosa, -rosa non colta in sua stagion, sì ch'ella -impallidisca in su la siepe ombrosa, -disse: — Non vi pensate già, mia vita, -far senza me quest'ultima partita. -Di ciò, cor mio, nessun timor vi tocchi; -ch'io vo' seguirvi o in cielo o ne lo 'nferno. -Convien che l'uno e l'altro spirto scocchi, -insieme vada, insieme stia in eterno. -Non sì tosto vedrò chiudervi gli occhi, -o che m'ucciderà il dolore interno, -o se quel non può tanto, io vi prometto -con questa spada oggi passarmi il petto. -De' corpi nostri ho ancor non poca speme, -che me' morti che vivi abbian ventura. -Qui forse alcun capiterà, ch'insieme, -mosso a pietà, darà lor sepoltura. — -Così dicendo, le reliquie estreme -de lo spirto vital che morte fura, -va ricogliendo con le labra meste, -fin ch'una minima aura ve ne reste. -Zerbin la debol voce riforzando, -disse: — Io vi priego e supplico, mia diva, -per quello amor che mi mostraste, quando -per me lasciaste la paterna riva; -e se commandar posso, io vel commando, -che fin che piaccia a Dio, restiate viva; -né mai per caso pogniate in oblio -che quanto amar si può, v'abbia amato io. -Dio vi provederà d'aiuto forse, -per liberarvi d'ogni atto villano, -come fe' quando alla spelonca torse, -per indi trarvi, il senator romano. -Così (la sua mercé) già vi soccorse -nel mare e contra il Biscaglin profano: -e se pure avverrà che poi si deggia -morire, allora il minor mal s'elleggia. — -Non credo che quest'ultime parole -potesse esprimer sì, che fosse inteso; -e finì come il debol lume suole, -cui cera manchi od altro in che sia acceso. -Chi potrà dire a pien come si duole, -poi che si vede pallido e disteso, -la giovanetta, e freddo come ghiaccio -il suo caro Zerbin restare in braccio? -Sopra il sanguigno corpo s'abbandona, -e di copiose lacrime lo bagna, -e stride sì, ch'intorno ne risuona -a molte miglia il bosco e la campagna. -Né alle guance né al petto si perdona, -che l'uno e l'altro non percuota e fragna; -e straccia a torto l'auree crespe chiome, -chiamando sempre invan l'amato nome. -In tanta rabbia, in tal furor sommersa -l'avea la doglia sua, che facilmente -avria la spada in se stessa conversa, -poco al suo amante in questo ubidiente; -s'uno eremita ch'alla fresca e tersa -fonte avea usanza di tornar sovente -da la sua quindi non lontana cella, -non s'opponea, venendo, al voler d'ella. -Il venerabile uom, ch'alta bontade -avea congiunta a natural prudenza, -ed era tutto pien di caritade, -di buoni esempi ornato e d'eloquenza, -alla giovan dolente persuade -con ragioni efficaci pazienza; -e inanzi le puon, come uno specchio, -donne del Testamento e nuovo e vecchio. -Poi le fece veder, come non fusse -alcun, se non in Dio, vero contento, -e ch'eran l'altre transitorie e flusse -speranze umane, e di poco momento; -e tanto seppe dir, che la ridusse -da quel crudele ed ostinato intento, -che la vita sequente ebbe disio -tutta al servigio dedicar di Dio. -Non che lasciar del suo signor voglia unque -né 'l grand'amor, né le reliquie morte: -convien che l'abbia ovunque stia ed ovunque -vada, e che seco e notte e dì le porte. -Quindi aiutando l'eremita dunque, -ch'era de la sua età valido e forte, -sul mesto suo destrier Zerbin posaro, -e molti dì per quelle selve andaro. -Non volse il cauto vecchio ridur seco, -sola con solo, la giovane bella -là dove ascosa in un selvaggio speco -non lungi avea la solitaria cella; -fra sé dicendo: — Con periglio arreco -in una man la paglia e la facella. — -Né si fida in sua età né in sua prudenza, -che di sé faccia tanta esperienza. -Di condurla in Provenza ebbe pensiero -non lontano a Marsilia in un castello, -dove di sante donne un monastero -ricchissimo era, e di edificio bello: -e per portarne il morto cavalliero, -composto in una cassa aveano quello, -che 'n un castel ch'era tra via, si fece -lunga e capace, e ben chiusa di pece. -Più e più giorni gran spazio di terra -cercaro, e sempre per lochi più inculti; -che pieno essendo ogni cosa di guerra, -voleano gir più che poteano occulti. -Al fine un cavallier la via lor serra, -che lor fe' oltraggi e disonesti insulti; -di cui dirò quando il suo loco fia; -ma ritorno ora al re di Tartaria. -Avuto ch'ebbe la battaglia il fine -che già v'ho detto, il giovin si raccolse -alle fresche ombre e all'onde cristalline; -ed al destrier la sella e 'l freno tolse, -e lo lasciò per l'erbe tenerine -del prato andar pascendo ove egli volse: -ma non ste' molto, che vide lontano -calar dal monte un cavalliero al piano. -Conobbel, come prima alzò la fronte, -Doralice, e mostrollo a Mandricardo, -dicendo: — Ecco il superbo Rodomonte, -se non m'inganna di lontan lo sguardo. -Per far teco battaglia cala il monte: -or ti potrà giovar l'esser gagliardo. -Perduta avermi a grande ingiuria tiene, -ch'era sua sposa, e a vendicar si viene. — -Qual buono astor che l'anitra o l'acceggia, -starna o colombo o simil altro augello -venirsi incontra di lontano veggia, -leva la testa e si fa lieto e bello; -tal Mandricardo, come certo deggia -di Rodomonte far strage e macello, -con letizia e baldanza il destrier piglia, -le staffe ai piedi, e dà alla man la briglia. -Quando vicini fur sì, ch'udir chiare -tra lor poteansi le parole altiere, -con le mani e col capo a minacciare -incominciò gridando il re d'Algiere, -ch'a penitenza gli faria tornare -che per un temerario suo piacere -non avesse rispetto a provocarsi -lui ch'altamente era per vendicarsi. -Rispose Mandricardo: — Indarno tenta -chi mi vuol impaurir per minacciarme: -così fanciulli o femine spaventa, -o altri che non sappia che sieno arme; -me non, cui la battaglia più talenta -d'ogni riposo; e son per adoprarme -a piè, a cavallo, armato e disarmato, -sia alla campagna, o sia ne lo steccato. — -Ecco sono agli oltraggi, al grido, all'ire, -al trar de' brandi, al crudel suon de' ferri; -come vento che prima a pena spire, -poi cominci a crollar frassini e cerri, -ed indi oscura polve in cielo aggire, -indi gli arbori svella e case atterri, -sommerga in mare, e porti ria tempesta -che 'l gregge sparso uccida alla foresta. -De' duo pagani, senza pari in terra, -gli audacissimi cor, le forze estreme -parturiscono colpi, ed una guerra -conveniente a sì feroce seme. -Del grande e orribil suon triema la terra, -quando le spade son percosse insieme: -gettano l'arme insin al ciel scintille, -anzi lampadi accese a mille a mille. -Senza mai riposarsi o pigliar fiato -dura fra quei duo re l'aspra battaglia, -tentando ora da questo, or da quel lato -aprir le piastre e penetrar la maglia. -Né perde l'un, né l'altro acquista il prato, -ma come intorno sian fosse o muraglia, -o troppo costi ogn'oncia di quel loco, -non si parton d'un cerchio angusto e poco. -Fra mille colpi il Tartaro una volta -colse a duo mani in fronte il re d'Algiere; -che gli fece veder girare in volta -quante mai furon fiacole e lumiere. -Come ogni forza all'African sia tolta, -le groppe del destrier col capo fere: -perde la staffa, ed è, presente quella -che cotant'ama, per uscir di sella. -Ma come ben composto e valido arco -di fino acciaio in buona somma greve, -quanto si china più, quanto è più carco, -e più lo sforzan martinelli e lieve; -con tanto più furor, quanto è poi scarco, -ritorna, e fa più mal che non riceve: -così quello African tosto risorge, -e doppio il colpo all'inimico porge. -Rodomonte a quel segno ove fu colto, -colse a punto il figliol del re Agricane. -Per questo non poté nuocergli al volto, -ch'in difesa trovò l'arme troiane; -ma stordì in modo il Tartaro, che molto -non sapea s'era vespero o dimane. -L'irato Rodomonte non s'arresta, -che mena l'altro, e pur segna alla testa. -Il cavallo del Tartaro, ch'aborre -la spada che fischiando cala d'alto, -al suo signor con suo gran mal soccorre, -perché s'arretra, per fuggir, d'un salto: -il brando in mezzo il capo gli trascorre, -ch'al signor, non a lui, movea l'assalto. -Il miser non avea l'elmo di Troia, -come il patrone; onde convien che muoia. -Quel cade, e Mandricardo in piedi guizza, -non più stordito, e Durindana aggira. -Veder morto il cavallo entro gli adizza, -e fuor divampa un grave incendio d'ira. -L'African, per urtarlo, il destrier drizza; -ma non più Mandricardo si ritira, -che scoglio far soglia da l'onde: e avvenne -che 'l destrier cadde, ed egli in piè si tenne. -L'African che mancarsi il destrier sente, -lascia le staffe e sugli arcion si ponta, -e resta in piedi e sciolto agevolmente: -così l'un l'altro poi di pari affronta. -La pugna più che mai ribolle ardente, -e l'odio e l'ira e la superbia monta: -ed era per seguir; ma quivi giunse -in fretta un messagger che gli disgiunse. -Vi giunse un messagger del popul Moro, -di molti che per Francia eran mandati -a richiamare agli stendardi loro -i capitani e i cavallier privati; -perché l'imperator dai gigli d'oro -gli avea gli alloggiamenti già assediati; -e se non è il soccorso a venir presto, -l'eccidio suo conosce manifesto. -Riconobbe il messaggio i cavallieri, -oltre all'insegne, oltre alle sopraveste, -al girar de le spade, e ai colpi fieri -ch'altre man non farebbeno che queste. -Tra lor però non osa entrar, che speri -che fra tant'ira sicurtà gli preste -l'esser messo del re; né si conforta -per dir ch'imbasciator pena non porta. -Ma viene a Doralice, ed a lei narra -ch'Agramante, Marsilio e Stordilano, -con pochi dentro a mal sicura sbarra -sono assediati dal popul cristiano. -Narrato il caso, con prieghi ne inarra -che faccia il tutto ai duo guerrieri piano, -e che gli accordi insieme, e per lo scampo -del popul saracin li meni in campo. -Tra i cavallier la donna di gran core -si mette, e dice loro: — Io vi comando, -per quanto so che mi portate amore, -che riserbiate a miglior uso il brando, -e ne vegnate subito in favore -del nostro campo saracino, quando -si trova ora assediato ne le tende, -e presto aiuto, o gran ruina attende. — -Indi il messo soggiunse il gran periglio -dei Saracini, e narrò il fatto a pieno; -e diede insieme lettere del figlio -del re Troiano al figlio d'Ulieno. -Si piglia finalmente per consiglio -che i duo guerrier, deposto ogni veneno, -facciano insieme triegua fin al giorno -che sia tolto l'assedio ai Mori intorno; -e senza più dimora, come pria -liberato d'assedio abbian lor gente, -non s'intendano aver più compagnia, -ma crudel guerra e inimicizia ardente, -fin che con l'arme diffinito sia -chi la donna aver de' meritamente. -Quella, ne le cui man giurato fue, -fece la sicurtà per amendue. -Quivi era la Discordia impaziente, -inimica di pace e d'ogni triegua; -e la Superbia v'è, che non consente -né vuol patir che tale accordo segua. -Ma più di lor può Amor quivi presente, -di cui l'alto valor nessuno adegua; -e fe' ch'indietro, a colpi di saette, -e la Discordia e la Superbia stette. -Fu conclusa la triegua fra costoro -sì come piacque a chi di lor potea. -Vi mancava uno dei cavalli loro, -che morto quel del Tartaro giacea: -però vi venne a tempo Brigliadoro, -che le fresche erbe lungo il rio pascea. -Ma al fin del canto io mi trovo esser giunto; -sì ch'io farò, con vostra grazia, punto. Oh gran contrasto in giovenil pensiero, -desir di laude ed impeto d'amore! -né chi più vaglia, ancor si trova il vero; -che resta or questo or quel superiore. -Ne l'uno ebbe e ne l'altro cavalliero -quivi gran forza il debito e l'onore; -che l'amorosa lite s'intermesse, -fin che soccorso il campo lor s'avesse. -Ma più ve l'ebbe Amor: che se non era -che così commandò la donna loro, -non si sciogliea quella battaglia fiera, -che l'un n'avrebbe il triunfale alloro; -ed Agramante invan con la sua schiera -l'aiuto avria aspettato di costoro. -Dunque Amor sempre rio non si ritrova: -se spesso nuoce, anco talvolta giova. -Or l'uno e l'altro cavallier pagano, -che tutti ha differiti i suoi litigi, -va, per salvar l'esercito africano, -con la donna gentil verso Parigi; -e va con essi ancora il piccol nano -che seguitò del Tartaro i vestigi, -fin che con lui condotto a fronte a fronte -avea quivi il geloso Rodomonte. -Capitaro in un prato ove a diletto -erano cavallier sopra un ruscello, -duo disarmati e duo ch'avean l'elmetto, -e una donna con lor di viso bello. -Chi fosser quelli, altrove vi fia detto; -or no, che di Ruggier prima favello, -del buon Ruggier di cui vi fu narrato -che lo scudo nel pozzo avea gittato. -Non è dal pozzo ancor lontano un miglio, -che venire un corrier vede in gran fretta, -di quei che manda di Troiano il figlio -ai cavallieri onde soccorso aspetta; -dal qual ode che Carlo in tal periglio -la gente saracina tien ristretta, -che, se non è chi tosto le dia aita, -tosto l'onor vi lascerà o la vita. -Fu da molti pensier ridutto in forse -Ruggier, che tutti l'assaliro a un tratto; -ma qual per lo miglior dovesse torse, -né luogo avea né tempo a pensar atto. -Lasciò andare il messaggio, e 'l freno torse -là dove fu da quella donna tratto, -ch'ad or ad or in modo egli affrettava, -che nessun tempo d'indugiar le dava. -Quindi seguendo il camin preso, venne -(già declinando il sole) ad una terra -che 'l re Marsilio in mezzo Francia tenne, -tolta di man di Carlo in quella guerra. -Né al ponte né alla porta si ritenne, -che non gli niega alcuno il passo o serra, -ben ch'intorno al rastrello e in su le fosse -gran quantità d'uomini e d'arme fosse. -Perch'era conosciuta da la gente -quella donzella ch'avea in compagnia, -fu lasciato passar liberamente, -né domandato pure onde venìa. -Giunse alla piazza, e di fuoco lucente, -e piena la trovò di gente ria; -e vide in mezzo star con viso smorto -il giovine dannato ad esser morto. -Ruggier come gli alzò gli occhi nel viso, -che chino a terra e lacrimoso stava, -di veder Bradamante gli fu aviso, -tanto il giovine a lei rassimigliava. -Più dessa gli parea, quanto più fiso -al volto e alla persona il riguardava; -e fra sé disse: — O questa è Bradamante, -o ch'io non son Ruggier com'era inante. -Per troppo ardir si sarà forse messa -del garzon condennato alla difesa; -e poi che mal la cosa l'è successa, -ne sarà stata, come io veggo, presa. -Deh perché tanta fretta, che con essa -io non potei trovarmi a questa impresa? -Ma Dio ringrazio che ci son venuto, -ch'a tempo ancora io potrò darle aiuto. — -E sanza più indugiar la spada stringe -(ch'avea all'altro castel rotta la lancia), -e adosso il vulgo inerme il destrier spinge -per lo petto, pei fianchi e per la pancia. -Mena la spada a cerco, ed a chi cinge -la fronte, a chi la gola, a chi la guancia. -Fugge il popul gridando; e la gran frotta -resta o sciancata o con la testa rotta. -Come stormo d'augei ch'in ripa a un stagno -vola sicuro e a sua pastura attende, -s'improviso dal ciel falcon grifagno -gli dà nel mezzo ed un ne batte o prende, -si sparge in fuga, ognun lascia il compagno, -e de lo scampo suo cura si prende; -così veduto avreste far costoro, -tosto che 'l buon Ruggier diede fra loro. -A quattro o sei dai colli i capi netti -levò Ruggier, ch'indi a fuggir fur lenti; -ne divise altretanti infin ai petti, -fin agli occhi infiniti e fin ai denti. -Concederò che non trovasse elmetti, -ma ben di ferro assai cuffie lucenti: -e s'elmi fini anco vi fosser stati, -così gli avrebbe, o poco men, tagliati. -La forza di Ruggier non era quale -or si ritrovi in cavallier moderno, -né in orso né in leon né in animale -altro più fiero, o nostrale od esterno. -Forse il tremuoto le sarebbe uguale, -forse il Gran Diavol: non quel de lo 'nferno, -ma quel del mio signor, che va col fuoco -ch'a cielo e a terra e a mar si fa dar loco. -D'ogni suo colpo mai non cadea manco -d'un uomo in terra, e le più volte un paio; -e quattro a un colpo e cinque n'uccise anco, -sì che si venne tosto al centinaio. -Tagliava il brando che trasse dal fianco, -come un tenero latte, il duro acciaio. -Falerina, per dar morte ad Orlando, -fe' nel giardin d'Orgagna il crudel brando. -Averlo fatto poi ben le rincrebbe, -che 'l suo giardin disfar vide con esso. -Che strazio dunque, che ruina debbe -far or ch'in man di tal guerriero è messo? -Se mai Ruggier furor, se mai forza ebbe, -se mai fu l'alto suo valore espresso, -qui l'ebbe, il pose qui, qui fu veduto, -sperando dare alla sua donna aiuto. -Qual fa la lepre contra i cani sciolti, -facea la turba contra lui riparo. -Quei che restaro uccisi, furo molti; -furo infiniti quei ch'in fuga andaro. -Avea la donna intanto i lacci tolti, -ch'ambe le mani al giovine legaro; -e come poté meglio, presto armollo, -gli diè una spada in mano e un scudo al collo. -Egli che molto è offeso, più che puote -si cerca vendicar di quella gente: -e quivi son sì le sue forze note, -che riputar si fa prode e valente. -Già avea attuffato le dorate ruote -il Sol ne la marina d'occidente, -quando Ruggier vittorioso e quello -giovine seco uscir fuor del castello. -Quando il garzon sicuro de la vita -con Ruggier si trovò fuor de le porte, -gli rendé molta grazia ed infinita -con gentil modi e con parole accorte, -che non lo conoscendo, a dargli aita -si fosse messo a rischio de la morte; -e pregò che 'l suo nome gli dicesse, -per sapere a chi tanto obligo avesse. -— Veggo (dicea Ruggier) la faccia bella -e le belle fattezze e 'l bel sembiante, -ma la suavità de la favella -non odo già de la mia Bradamante; -né la relazion di grazie è quella -ch'ella usar debba al suo fedele amante. -Ma se pur questa è Bradamante, or come -ha sì tosto in oblio messo il mio nome? — -Per ben saperne il certo, accortamente -Ruggier le disse: — Io v'ho veduto altrove; -ed ho pensato e penso, e finalmente -non so né posso ricordarmi dove. -Ditemel voi, se vi ritorna a mente, -e fate che 'l nome anco udir mi giove, -acciò che saper possa a cui mia aita -dal fuoco abbia salvata oggi la vita. — -— Che voi m'abbiate visto esser potria -(rispose quel), che non so dove o quando: -ben vo pel mondo anch'io la parte mia, -strane aventure or qua or là cercando. -Forse una mia sorella stata fia, -che veste l'arme e porta al lato il brando; -che nacque meco, e tanto mi somiglia, -che non ne può discerner la famiglia. -Né primo né secondo né ben quarto -sète di quei ch'errore in ciò preso hanno: -né 'l padre né i fratelli né chi a un parto -ci produsse ambi, scernere ci sanno. -Gli è ver che questo crin raccorcio e sparto -ch'io porto, come gli altri uomini fanno, -ed il suo lungo e in treccia al capo avvolta, -ci solea far già differenza molta: -ma poi ch'un giorno ella ferita fu -nel capo (lungo saria a dirvi come), -e per sanarla un servo di Iesù -a mezza orecchia le tagliò le chiome, -alcun segno tra noi non restò più -di differenza, fuor che 'l sesso e 'l nome. -Ricciardetto son io, Bradamante ella; -io fratel di Rinaldo, essa sorella. -E se non v'increscesse l'ascoltarmi, -cosa direi che vi faria stupire, -la qual m'occorse per assimigliarmi -a lei: gioia al principio e al fin martìre. — -Ruggiero il qual più graziosi carmi, -più dolce istoria non potrebbe udire, -che dove alcun ricordo intervenisse -de la sua donna, il pregò sì, che disse. -— Accadde a questi dì, che pei vicini -boschi passando la sorella mia, -ferita da uno stuol de Saracini -che senza l'elmo la trovar per via, -fu di scorciarsi astretta i lunghi crini, -se sanar volse d'una piaga ria -ch'avea con gran periglio ne la testa; -e così scorcia errò per la foresta. -Errando giunse ad una ombrosa fonte; -e perché afflitta e stanca ritrovosse, -dal destrier scese e disarmò la fronte, -e su le tenere erbe addormentosse. -Io non credo che fabula si conte, -che più di questa istoria bella fosse. -Fiordispina di Spagna soprarriva, -che per cacciar nel bosco ne veniva. -E quando ritrovò la mia sirocchia -tutta coperta d'arme, eccetto il viso, -ch'avea la spada in luogo di conocchia, -le fu vedere un cavalliero aviso. -La faccia e le viril fattezze adocchia -tanto, che se ne sente il cor conquiso; -la invita a caccia, e tra l'ombrose fronde -lunge dagli altri al fin seco s'asconde. -Poi che l'ha seco in solitario loco -dove non teme d'esser sopraggiunta, -con atti e con parole a poco a poco -le scopre il fisso cuor di grave punta. -Con gli occhi ardenti e coi sospir di fuoco -le mostra l'alma di disio consunta. -Or si scolora in viso, or si raccende; -tanto s'arrischia, ch'un bacio ne prende. -La mia sorella avea ben conosciuto -che questa donna in cambio l'avea tolta: -né dar poteale a quel bisogno aiuto, -e si trovava in grande impaccio avvolta. -— Gli è meglio (dicea seco) s'io rifiuto -questa avuta di me credenza stolta -e s'io mi mostro femina gentile, -che lasciar riputarmi un uomo vile. — -E dicea il ver; ch'era viltade espressa, -conveniente a un uom fatto di stucco, -con cui sì bella donna fosse messa, -piena di dolce e di nettareo succo, -e tuttavia stesse a parlar con essa, -tenendo basse l'ale come il cucco. -Con modo accorto ella il parlar ridusse, -che venne a dir come donzella fusse; -che gloria, qual già Ippolita e Camilla, -cerca ne l'arme; e in Africa era nata -in lito al mar ne la città d'Arzilla, -a scudo e a lancia da fanciulla usata. -Per questo non si smorza una scintilla -del fuoco de la donna inamorata. -Questo rimedio all'alta piaga è tardo: -tant'avea Amor cacciato inanzi il dardo. -Per questo non le par men bello il viso, -men bel lo sguardo e men belli i costumi; -per ciò non torna il cor, che già diviso -da lei, godea dentro gli amati lumi. -Vedendola in quell'abito, l'è aviso -che può far che 'l desir non la consumi; -e quando, ch'ella è pur femina, pensa, -sospira e piange e mostra doglia immensa. -Chi avesse il suo ramarico e 'l suo pianto -quel giorno udito, avria pianto con lei. -— Quai tormenti (dicea) furon mai tanto -crudel, che più non sian crudeli i miei? -D'ogn'altro amore, o scelerato o santo, -il desiato fin sperar potrei; -saprei partir la rosa da le spine: -solo il mio desiderio è senza fine! -Se pur volevi, Amor, darmi tormento -che t'increscesse il mio felice stato, -d'alcun martìr dovevi star contento, -che fosse ancor negli altri amanti usato. -Né tra gli uomini mai né tra l'armento, -che femina ami femina ho trovato: -non par la donna all'altre donne bella, -né a cervie cervia, né all'agnelle agnella. -In terra, in aria, in mar, sola son io -che patisco da te sì duro scempio; -e questo hai fatto acciò che l'error mio -sia ne l'imperio tuo l'ultimo esempio. -La moglie del re Nino ebbe disio, -il figlio amando, scelerato ed empio, -e Mirra il padre, e la Cretense il toro: -ma gli è più folle il mio, ch'alcun dei loro. -La femina nel maschio fe' disegno, -speronne il fine, ed ebbelo, come odo: -Pasife ne la vacca entrò del legno, -altre per altri mezzi e vario modo. -Ma se volasse a me con ogni ingegno -Dedalo, non potria scioglier quel nodo -che fece il mastro troppo diligente, -Natura d'ogni cosa più possente. — -Così si duole e si consuma ed ange -la bella donna, e non s'accheta in fretta. -Talor si batte il viso e il capel frange, -e di sé contra sé cerca vendetta. -La mia sorella per pietà ne piange, -ed è a sentir di quel dolor costretta. -Del folle e van disio si studia trarla, -ma non fa alcun profitto, e invano parla. -Ella ch'aiuto cerca e non conforto, -sempre più si lamenta e più si duole. -Era del giorno il termine ormai corto, -che rosseggiava in occidente il sole, -ora oportuna da ritrarsi in porto -a chi la notte al bosco star non vuole; -quando la donna invitò Bradamante -a questa terra sua poco distante. -Non le seppe negar la mia sorella: -e così insieme ne vennero al loco, -dove la turba scelerata e fella -posto m'avria, se tu non v'eri, al fuoco. -Fece là dentro Fiordispina bella -la mia sirocchia accarezzar non poco: -e rivestita di feminil gonna, -conoscer fe' a ciascun ch'ella era donna. -Però che conoscendo che nessuno -util traea da quel virile aspetto, -non le parve anco di voler ch'alcuno -biasmo di sé per questo fosse detto: -féllo anco, acciò che 'l mal ch'avea da l'uno -virile abito, errando, già concetto, -ora con l'altro, discoprendo il vero, -provassi di cacciar fuor del pensiero. -Commune il letto ebbon la notte insieme, -ma molto differente ebbon riposo; -che l'una dorme, e l'altra piange e geme -che sempre il suo desir sia più focoso. -E se 'l sonno talor gli occhi le preme, -quel breve sonno è tutto imaginoso: -le par veder che 'l ciel l'abbia concesso -Bradamante cangiata in miglior sesso. -Come l'infermo acceso di gran sete, -s'in quella ingorda voglia s'addormenta, -nell'interrotta e turbida quiete, -d'ogn'acqua che mai vide si ramenta; -così a costei di far sue voglie liete -l'imagine del sonno rappresenta. -Si desta; e nel destar mette la mano, -e ritrova pur sempre il sogno vano. -Quanti prieghi la notte, quanti voti, -offerse al suo Macone e a tutti i dei, -che con miracoli apparenti e noti -mutassero in miglior sesso costei! -ma tutti vede andar d'effetto voti, -e forse ancora il ciel ridea di lei. -Passa la notte; e Febo il capo biondo -traea del mare, e dava luce al mondo. -Poi che 'l dì venne e che lasciaro il letto, -a Fiordispina s'augumenta doglia; -che Bradamante ha del partir già detto, -ch'uscir di questo impaccio avea gran voglia. -La gentil donna un ottimo ginetto -in don da lei vuol che partendo toglia, -guernito d'oro, ed una sopravesta -che riccamente ha di sua man contesta. -Accompagnolla un pezzo Fiordispina, -poi fe' piangendo al suo castel ritorno. -La mia sorella sì ratto camina, -che venne a Montalbano anco quel giorno. -Noi suoi fratelli e la madre meschina -tutti le siamo festeggiando intorno; -che di lei non sentendo, avuto forte -dubbio e tema avevàn de la sua morte. -Mirammo (al trar de l'elmo) al mozzo crine, -ch'intorno al capo prima s'avolgea; -così le sopraveste peregrine -ne fer meravigliar, ch'indosso avea. -Ed ella il tutto dal principio al fine -narronne, come dianzi io vi dicea: -come ferita fosse al bosco, e come -lasciasse, per guarir, le belle chiome; -e come poi dormendo in ripa all'acque, -la bella cacciatrice sopragiunse, -a cui la falsa sua sembianza piacque; -e come da la schiera la disgiunse. -Del lamento di lei poi nulla tacque, -che di pietade l'anima ci punse; -e come alloggiò seco, e tutto quello -che fece fin che ritornò al castello. -Di Fiordispina gran notizia ebb'io, -ch'in Siragozza e già la vidi in Francia, -e piacquer molto all'appetito mio -i suoi begli occhi e la polita guancia: -ma non lasciai fermarvisi il disio, -che l'amar senza speme è sogno e ciancia. -Or, quando in tal ampiezza mi si porge, -l'antiqua fiamma subito risorge. -Di queste speme Amor ordisce i nodi, -che d'altre fila ordir non li potea, -onde mi piglia: e mostra insieme i modi -che da la donna avrei quel ch'io chiedea. -A succeder saran facil le frodi; -che come spesso altri ingannato avea -la simiglianza c'ho di mia sorella, -forse anco ingannerà questa donzella. -Faccio o nol faccio? Al fin mi par che buono -sempre cercar quel che diletti sia. -Del mio pensier con altri non ragiono, -né vo' ch'in ciò consiglio altri mi dia. -Io vo la notte ove quell'arme sono -che s'avea tratte la sorella mia: -tolgole, e col destrier suo via camino, -né sto aspettar che luca il matutino. -Io me ne vo la notte (Amore è duce) -a ritrovar la bella Fiordispina; -e v'arrivai che non era la luce -del sole ascosa ancor ne la marina. -Beato è chi correndo si conduce -prima degli altri a dirlo alla regina, -da lei sperando per l'annunzio buono -acquistar grazia e riportarne dono. -Tutti m'aveano tolto così in fallo, -com'hai tu fatto ancor, per Bradamante; -tanto più che le vesti ebbi e 'l cavallo -con che partita era ella il giorno inante. -Vien Fiordispina di poco intervallo -con feste incontra e con carezze tante, -e con sì allegro viso e sì giocondo, -che più gioia mostrar non potria al mondo. -Le belle braccia al collo indi mi getta, -e dolcemente stringe, e bacia in bocca. -Tu puoi pensar s'allora la saetta -dirizzi Amor, s'in mezzo il cor mi tocca. -Per man mi piglia, e in camera con fretta -mi mena; e non ad altri, ch'a lei, tocca -che da l'elmo allo spron l'arme mi slacci -e nessun altro vuol che se n'impacci. -Poi fattasi arrecare una sua veste -adorna e ricca, di sua man la spiega, -e come io fossi femina, mi veste, -e in reticella d'oro il crin mi lega. -Io muovo gli occhi con maniere oneste, -né ch'io sia donna alcun mio gesto niega. -La voce ch'accusar mi potea forse, -sì ben usai, ch'alcun non se n'accorse. -Uscimmo poi là dove erano molte -persone in sala, e cavallieri e donne, -dai quali fummo con l'onor raccolte, -ch'alle regine fassi e gran madonne. -Quivi d'alcuni mi risi io più volte, -che non sappiendo ciò che sotto gonne -si nascondesse valido e gagliardo, -mi vagheggiavan con lascivo sguardo. -Poi che si fece la notte più grande, -e già un pezzo la mensa era levata, -la mensa, che fu d'ottime vivande, -secondo la stagione, apparecchiata; -non aspetta la donna ch'io domande -quel che m'era cagion del venir stata: -ella m'invita per sua cortesia, -che quella notte a giacer seco io stia. -Poi che donne e donzelle ormai levate -si furo, e paggi e camerieri intorno, -essendo ambe nel letto dispogliate, -coi torchi accesi che parea di giorno, -io cominciai: — Non vi maravigliate, -madonna, se sì tosto a voi ritorno; -che forse v'andavate imaginando -di non mi riveder fin Dio sa quando. -Dirò prima la causa del partire, -poi del ritorno l'udirete ancora. -Se 'l vostro ardor, madonna, intiepidire -potuto avessi col mio far dimora, -vivere in vostro servizio e morire -voluto avrei, né starne senza un'ora; -ma visto quanto il mio star vi nocessi, -per non poter far meglio, andare elessi. -Fortuna mi tirò fuor del camino -in mezzo un bosco d'intricati rami, -dove odo un grido risonar vicino, -come di donna che soccorso chiami. -V'accorro, e sopra un lago cristallino -ritrovo un fauno ch'avea preso agli ami -in mezzo l'acqua una donzella nuda, -e mangiarsi, il crudel, la volea cruda. -Colà mi trassi, e con la spada in mano -(perch'aiutar non la potea altrimente) -tolsi di vita il pescator villano: -ella saltò ne l'acqua immantinente. -— Non m'avrai (disse) dato aiuto invano: -ben ne sarai premiato e riccamente -quanto chieder saprai, perché son ninfa -che vivo dentro a questa chiara linfa; -ed ho possanza far cose stupende, -e sforzar gli elementi e la natura. -Chiedi tu, quanto il mio valor s'estende, -poi lascia a me di satisfarti cura. -Dal ciel la luna al mio cantar discende, -s'agghiaccia il fuoco, e l'aria si fa dura; -ed ho talor con semplici parole -mossa la terra, ed ho fermato il sole. — -Non le domando a questa offerta unire -tesor, né dominar populi e terre, -né in più virtù né in più vigor salire, -né vincer con onor tutte le guerre; -ma sol che qualche via donde il desire -vostro s'adempia, mi schiuda e disserre: -né più le domando un ch'un altro effetto, -ma tutta al suo giudicio mi rimetto. -Ebbile a pena mia domanda esposta, -ch'un'altra volta la vidi attuffata; -né fece al mio parlare altra risposta, -che di spruzzar vêr me l'acqua incantata: -la qual non prima al viso mi s'accosta, -ch'io (non so come) son tutta mutata. -Io 'l veggo, io 'l sento, e a pena vero parmi: -sento in maschio, di femina, mutarmi. -E se non fosse che senza dimora -vi potete chiarir, nol credereste: -e qual nell'altro sesso, in questo ancora -ho le mie voglie ad ubbidirvi preste. -Commandate lor pur, che fieno or ora -e sempremai per voi vigile e deste. — -Così le dissi; e feci ch'ella istessa -trovò con man la veritade espressa. -Come interviene a chi già fuor di speme -di cosa sia che nel pensier molt'abbia, -che mentre più d'esserne privo geme, -più se n'afflige e se ne strugge e arrabbia; -se ben la trova poi, tanto gli preme -l'aver gran tempo seminato in sabbia, -e la disperazion l'ha sì male uso, -che non crede a se stesso, e sta confuso: -così la donna, poi che tocca e vede -quel di ch'avuto avea tanto desire, -agli occhi, al tatto, a se stessa non crede, -e sta dubbiosa ancor di non dormire; -e buona prova bisognò a far fede, -che sentia quel che le parea sentire. -— Fa, Dio (disse ella), se son sogni questi, -ch'io dorma sempre, e mai più non mi desti. — -Non rumor di tamburi o suon di trombe -furon principio all'amoroso assalto, -ma baci ch'imitavan le colombe, -davan segno or di gire, or di fare alto. -Usammo altr'arme che saette o frombe. -Io senza scale in su la rocca salto -e lo stendardo piantovi di botto, -e la nimica mia mi caccio sotto. -Se fu quel letto la notte dinanti -pien di sospiri e di querele gravi, -non stette l'altra poi senza altretanti -risi, feste, gioir, giochi soavi. -Non con più nodi i flessuosi acanti -le colonne circondano e le travi, -di quelli con che noi legammo stretti -e colli e fianchi e braccia e gambe e petti. -La cosa stava tacita fra noi, -sì che durò il piacer per alcun mese: -pur si trovò chi se n'accorse poi, -tanto che con mio danno il re lo 'ntese. -Voi che mi liberaste da quei suoi -che ne la piazza avean le fiamme accese, -comprendere oggimai potete il resto; -ma Dio sa ben con che dolor ne resto. — -Così a Ruggier narrava Ricciardetto, -e la notturna via facea men grave, -salendo tuttavia verso un poggetto -cinto di ripe e di pendici cave. -Un erto calle e pien di sassi e stretto -apria il camin con faticosa chiave. -Sedea al sommo un castel detto Agrismonte, -ch'ave' in guardia Aldigier di Chiaramonte. -Di Buovo era costui figliuol bastardo, -fratel di Malagigi e di Viviano; -chi legitimo dice di Gherardo, -è testimonio temerario e vano. -Fosse come si voglia, era gagliardo, -prudente, liberal, cortese, umano; -e facea quivi le fraterne mura -la notte e il dì guardar con buona cura. -Raccolse il cavallier cortesemente, -come dovea, il cugin suo Ricciardetto, -ch'amò come fratello; e parimente -fu ben visto Ruggier per suo rispetto. -Ma non gli uscì già incontra allegramente, -come era usato, anzi con tristo aspetto, -perch'uno aviso il giorno avuto avea, -che nel viso e nel cor mesto il facea. -A Ricciardetto in cambio di saluto -disse: — Fratello, abbiàn nuova non buona. -Per certissimo messo oggi ho saputo -che Bertolagi iniquo di Baiona -con Lanfusa crudel s'è convenuto, -che preziose spoglie esso a lei dona, -ed essa a lui pon nostri frati in mano, -il tuo bon Malagigi e il tuo Viviano. -Ella dal dì che Ferraù li prese, -gli ha ognor tenuti in loco oscuro e fello, -fin che 'l brutto contratto e discortese -n'ha fatto con costui di ch'io favello. -Gli de' mandar domane al Maganzese -nei confin tra Baiona e un suo castello. -Verrà in persona egli a pagar la mancia -che compra il miglior sangue che sia in Francia. -Rinaldo nostro n'ho avisato or ora, -ed ho cacciato il messo di galoppo; -ma non mi par ch'arrivar possa ad ora -che non sia tarda, che 'l camino è troppo. -Io non ho meco gente da uscir fuora: -l'animo è pronto, ma il potere è zoppo. -Se gli ha quel traditor, li fa morire: -sì che non so che far, non so che dire. — -La dura nuova a Ricciardetto spiace, -e perché spiace a lui, spiace a Ruggiero; -che poi che questo e quel vede che tace, -né tra' profitto alcun del suo pensiero, -disse con grande ardir: — Datevi pace: -sopra me quest'impresa tutta chero; -e questa mia varrà per mille spade -a riporvi i fratelli in libertade. -Io non voglio altra gente, altri sussidi, -ch'io credo bastar solo a questo fatto; -io vi domando solo un che mi guidi -al luogo ove si dee fare il baratto. -Io vi farò sin qui sentire i gridi -di chi sarà presente al rio contratto. — -Così dicea; né dicea cosa nuova -all'un de' dui, che n'avea visto pruova. -L'altro non l'ascoltava, se non quanto -s'ascolti un ch'assai parli e sappia poco: -ma Ricciardetto gli narrò da canto -come fu per costui tratto del fuoco; -e ch'era certo che maggior del vanto -faria veder l'effetto a tempo e a loco. -Gli diede allor udienza più che prima, -e riverillo, e fe' di lui gran stima. -Ed alla mensa, ove la Copia fuse -il corno, l'onorò come suo donno. -Quivi senz'altro aiuto si concluse -che liberare i duo fratelli ponno. -Intanto sopravenne e gli occhi chiuse -ai signori e ai sergenti il pigro Sonno, -fuor ch'a Ruggier; che, per tenerlo desto, -gli punge il cor sempre un pensier molesto. -L'assedio d'Agramante ch'avea il giorno -udito dal corrier, gli sta nel core. -Ben vede ch'ogni minimo soggiorno -che faccia d'aiutarlo, è suo disnore. -Quanta gli sarà infamia, quanto scorno, -se coi nemici va del suo signore! -Oh come a gran viltade, a gran delitto, -battezzandosi alor, gli sarà ascritto! -Potria in ogn'altro tempo esser creduto -che vera religion l'avesse mosso; -ma ora che bisogna col suo aiuto -Agramante d'assedio esser riscosso, -più tosto da ciascun sarà tenuto -che timore e viltà l'abbia percosso, -ch'alcuna opinion di miglior fede: -questo il cor di Ruggier stimula e fiede. -Che s'abbia da partire anco lo punge -senza licenza de la sua regina. -Quando questo pensier, quando quel giunge, -che 'l dubio cor diversamente inchina. -Gli era l'aviso riuscito lunge -di trovarla al castel di Fiordispina, -dove insieme dovean, come ho già detto, -in soccorso venir di Ricciardetto. -Poi gli sovien ch'egli le avea promesso -di seco a Vallombrosa ritrovarsi. -Pensa ch'andar v'abbi ella, e quivi d'esso -che non vi trovi poi, maravigliarsi. -Potesse almen mandar lettera o messo, -sì ch'ella non avesse a lamentarsi -che, oltre ch'egli mal le avea ubbidito, -senza far motto ancor fosse partito. -Poi che più cose imaginate s'ebbe, -pensa scriverle al fin quanto gli accada; -e ben ch'egli non sappia come debbe -la lettera inviar, sì che ben vada, -non però vuol restar; che ben potrebbe -alcun messo fedel trovar per strada. -Più non s'indugia, e salta de le piume; -si fa dar carta, inchiostro, penna e lume. -I camarier discreti ed aveduti -arrecano a Ruggier ciò che commanda. -Egli comincia a scrivere, e i saluti -(come si suol) nei primi versi manda: -poi narra degli avisi che venuti -son dal suo re, ch'aiuto gli domanda; -e se l'andata sua non è ben presta, -o morto o in man degli nimici resta. -Poi seguita, ch'essendo a tal partito, -e ch'a lui per aiuto si volgea, -vedesse ella che 'l biasmo era infinito -s'a quel punto negar gli lo volea; -e ch'esso, a lei dovendo esser marito, -guardarsi da ogni macchia si dovea; -che non si convenia con lei, che tutta -era sincera, alcuna cosa brutta. -E se mai per adietro un nome chiaro, -ben oprando, cercò di guadagnarsi, -e guadagnato poi, se avuto caro, -se cercato l'avea di conservarsi; -or lo cercava, e n'era fatto avaro, -poi che dovea con lei participarsi, -la qual sua moglie, e totalmente in dui -corpi esser dovea un'anima con lui. -E sì come già a bocca le avea detto, -le ridicea per questa carta ancora: -finito il tempo in che per fede astretto -era al suo re, quando non prima muora, -che si farà cristian così d'effetto, -come di buon voler stato era ogni ora; -e ch'al padre e a Rinaldo e agli altri suoi -per moglie domandar la farà poi. -— Voglio (le soggiungea), quando vi piaccia, -l'assedio al mio signor levar d'intorno, -acciò che l'ignorante vulgo taccia, -il qual direbbe, a mia vergogna e scorno: -Ruggier, mentre Agramante ebbe bonaccia, -mai non l'abandonò notte né giorno; -or che Fortuna per Carlo si piega, -egli col vincitor l'insegna spiega. -Voglio quindici dì termine o venti, -tanto che comparir possa una volta, -sì che degli africani alloggiamenti -la grave ossedion per me sia tolta. -Intanto cercherò convenienti -cagioni, e che sian giuste, di dar volta. -Io vi domando per mio onor sol questo: -tutto poi vostro è di mia vita il resto. — -In simili parole si diffuse -Ruggier, che tutte non so dirvi a pieno; -e seguì con molt'altre, e non concluse -fin che non vide tutto il foglio pieno; -e poi piegò la lettera e la chiuse, -e suggellata se la pose in seno, -con speme che gli occorra il dì seguente -chi alla donna la dia secretamente. -Chiusa ch'ebbe la lettera, chiuse anco -gli occhi sul letto, e ritrovò quiete; -che 'l Sonno venne, e sparse il corpo stanco -col ramo intinto nel liquor di Lete: -e posò fin ch'un nembo rosso e bianco -di fiori sparse le contrade liete -del lucido oriente d'ogn'intorno, -ed indi uscì de l'aureo albergo il giorno. -E poi ch'a salutar la nuova luce -pei verdi rami incominciar gli augelli, -Aldigier che voleva essere il duce -di Ruggiero e de l'altro, e guidar quelli -ove faccin che dati in mano al truce -Bertolagi non siano i duo fratelli, -fu 'l primo in piede; e quando sentir lui, -del letto usciro anco quegli altri dui. -Poi che vestiti furo e bene armati, -coi duo cugin Ruggier si mette in via, -già molto indarno avendoli pregati -che questa impresa a lui tutta si dia; -ma essi, pel desir c'han de' lor frati, -e perché lor parea discortesia, -steron negando più duri che sassi, -né consentiron mai che solo andassi. -Giunsero al loco il dì che si dovea -Malagigi mutar nei carriaggi. -Era un'ampla campagna che giacea -tutta scoperta agli apollinei raggi. -Quivi né allor né mirto si vedea, -né cipressi né frassini né faggi, -ma nuda ghiara, e qualche umil virgulto -non mai da marra o mai da vomer culto. -I tre guerrieri arditi si fermaro -dove un sentier fendea quella pianura; -e giunger quivi un cavallier miraro, -ch'avea d'oro fregiata l'armatura, -e per insegna in campo verde il raro -e bello augel che più d'un secol dura. -Signor, non più, che giunto al fin mi veggio -di questo canto, e riposarmi chieggio. Cortesi donne ebbe l'antiqua etade, -che le virtù, non le ricchezze, amaro: -al tempo nostro si ritrovan rade -a cui, più del guadagno, altro sia caro. -Ma quelle che per lor vera bontade -non seguon de le più lo stile avaro, -vivendo, degne son d'esser contente; -gloriose e immortal poi che fian spente. -Degna d'eterna laude è Bradamante, -che non amò tesor, non amò impero, -ma la virtù, ma l'animo prestante, -ma l'alta gentilezza di Ruggiero; -e meritò che ben le fosse amante -un così valoroso cavalliero, -e per piacere a lei facesse cose -nei secoli avenir miracolose. -Ruggier, come di sopra vi fu detto, -coi duo di Chiaramonte era venuto, -dico con Aldigier, con Ricciardetto, -per dare ai duo fratei prigioni aiuto. -Vi dissi ancor che di superbo aspetto -venire un cavalliero avean veduto, -che portava l'augel che si rinuova, -e sempre unico al mondo si ritrova. -Come di questi il cavallier s'accorse, -che stavan per ferir quivi su l'ale, -in prova disegnò di voler porse, -s'alla sembianza avean virtude uguale. -— È di voi (disse loro) alcuno forse -che provar voglia chi di noi più vale -a' colpi o de la lancia o de la spada, -fin che l'un resti in sella e l'altro cada? — -— Farei (disse Aldigier) teco, o volessi -menar la spada a cerco, o correr l'asta; -ma un'altra impresa che, se qui tu stessi, -veder potresti, questa in modo guasta, -ch'a parlar teco, non che ci traessi -a correr giostra, a pena tempo basta: -seicento uomini al varco, o più, attendiamo, -coi qua' d'oggi provarci obligo abbiamo. -Per tor lor duo de' nostri che prigioni -quinci trarran, pietade e amor n'ha mosso. — -E seguitò narrando le cagioni -che li fece venir con l'arme indosso. -— Sì giusta è questa escusa che m'opponi -(disse il guerrier), che contradir non posso; -e fo certo giudicio che voi siate -tre cavallier che pochi pari abbiate. -Io chiedea un colpo o dui con voi scontrarme, -per veder quanto fosse il valor vostro; -ma quando all'altrui spese dimostrarme -lo vogliate, mi basta, e più non giostro. -Vi priego ben, che por con le vostr'arme -quest'elmo io possa e questo scudo nostro; -e spero dimostrar, se con voi vegno, -che di tal compagnia non sono indegno. — -Parmi veder ch'alcun saper desia -il nome di costui, che quivi giunto -a Ruggiero e a' compagni si offeria -compagno d'arme al periglioso punto. -Costei (non più costui detto vi sia) -era Marfisa che diede l'assunto -al misero Zerbin de la ribalda -vecchia Gabrina ad ogni mal sì calda. -I duo di Chiaramonte e il buon Ruggiero -l'accettar volentier ne la lor schiera, -ch'esser credeano certo un cavalliero, -e non donzella, e non quella ch'ella era. -Non molto dopo scoperse Aldigiero -e veder fe' ai compagni una bandiera -che facea l'aura tremolare in volta, -e molta gente intorno avea raccolta. -E poi che più lor fur fatti vicini, -e che meglio notar l'abito moro, -conobbero che gli eran Saracini, -e videro i prigioni in mezzo a loro -legati e tratti su piccol ronzini -a' Maganzesi, per cambiarli in oro. -Disse Marfisa agli altri: — Ora che resta, -poi che son qui, di cominciar la festa? — -Ruggier rispose: — Gl'invitati ancora -non ci son tutti, e manca una gran parte. -Gran ballo s'apparecchia di fare ora; -e perché sia solenne, usiamo ogn'arte: -ma far non ponno omai lunga dimora. — -Così dicendo, veggono in disparte -venire i traditori di Maganza: -sì ch'eran presso a cominciar la danza. -Giungean da l'una parte i Maganzesi, -e conducean con loro i muli carchi -d'oro e di vesti e d'altri ricchi arnesi; -da l'altra in mezzo a lance, spade ed archi, -venian dolenti i duo germani presi, -che si vedeano essere attesi ai varchi: -e Bertolagi, empio inimico loro, -udian parlar col capitano Moro. -Né di Buovo il figliuol né quel d'Amone, -veduto il Maganzese, indugiar puote: -la lancia in resta l'uno e l'altro pone, -e l'uno e l'altro il traditor percuote. -L'un gli passa la pancia e 'l primo arcione, -e l'altro il viso per mezzo le gote. -Così n'andasser pur tutti i malvagi, -come a quei colpi n'andò Bertolagi. -Marfisa con Ruggiero a questo segno -si muove, e non aspetta altra trombetta; -né prima rompe l'arrestato legno, -che tre, l'un dopo l'altro, in terra getta. -De l'asta di Ruggier fu il pagan degno, -che guidò gli altri, e uscì di vita in fretta; -e per quella medesima con lui -uno ed un altro andò nei regni bui. -Di qui nacque un error tra gli assaliti, -che lor causò lor ultima ruina. -Da un lato i Maganzesi esser traditi -credeansi da la squadra saracina; -da l'altro i Mori in tal modo feriti, -l'altra schiera chiamavano assassina: -e tra lor cominciar con fiera clade -a tirare archi e a menar lance e spade. -Salta ora in questa squadra ed ora in quella -Ruggiero, e via ne toglie or dieci or venti: -altritanti per man de la donzella -di qua e di là ne son scemati e spenti. -Tanti si veggon gir morti di sella, -quanti ne toccan le spade taglienti, -a cui dan gli elmi e le corazze loco, -come nel bosco i secchi legni al fuoco. -Se mai d'aver veduto vi raccorda, -o rapportato v'ha fama all'orecchie, -come, allor che 'l collegio si discorda, -e vansi in aria a far guerra le pecchie, -entri fra lor la rondinella ingorda, -e mangi e uccida e guastine parecchie; -dovete imaginar che similmente -Ruggier fosse e Marfisa in quella gente. -Non così Ricciardetto e il suo cugino -tra le due genti variavan danza, -perché, lasciando il campo saracino, -sol tenean l'occhio all'altro di Maganza. -Il fratel di Rinaldo paladino -con molto animo avea molta possanza, -e quivi raddoppiar glie la facea -l'odio che contra ai Maganzesi avea. -Facea parer questa medesma causa -un leon fiero il bastardo di Buovo, -che con la spada senza indugio e pausa -fende ogn'elmo, o lo schiaccia come un ovo. -E qual persona non saria stata ausa, -non saria comparita un Ettor nuovo, -Marfisa avendo in compagnia e Ruggiero, -ch'eran la scelta e 'l fior d'ogni guerriero? -Marfisa tuttavolta combattendo, -spesso ai compagni gli occhi rivoltava; -e di lor forza paragon vedendo, -con maraviglia tutti li lodava: -ma di Ruggier pur il valor stupendo -e senza pari al mondo le sembrava; -e talor si credea che fosse Marte -sceso dal quinto cielo in quella parte. -Mirava quelle orribili percosse, -miravale non mai calare in fallo: -parea che contra Balisarda fosse -il ferro carta e non duro metallo. -Gli elmi tagliava e le corazze grosse, -e gli uomini fendea fin sul cavallo, -e li mandava in parte uguali al prato, -tanto da l'un quanto da l'altro lato. -Continuando la medesma botta, -uccidea col signore il cavallo anche. -I capi dalle spalle alzava in frotta, -e spesso i busti dipartia da l'anche. -Cinque e più a un colpo ne tagliò talotta: -e se non che pur dubito che manche -credenza al ver c'ha faccia di menzogna, -di più direi; ma di men dir bisogna. -Il buon Turpin, che sa che dice il vero, -e lascia creder poi quel ch'a l'uom piace, -narra mirabil cose di Ruggiero, -ch'udendolo, il direste voi mendace. -Così parea di ghiaccio ogni guerriero -contra Marfisa, ed ella ardente face; -e non men di Ruggier gli occhi a sé trasse, -ch'ella di lui l'alto valor mirasse. -E s'ella lui Marte stimato avea, -stimato egli avria lei forse Bellona, -se per donna così la conoscea, -come parea il contrario alla persona. -E forse emulazion tra lor nascea -per quella gente misera, non buona, -ne la cui carne e sangue e nervi ed ossa -fan prova chi di loro abbia più possa. -Bastò di quattro l'animo e il valore -a far ch'un campo e l'altro andasse rotto. -Non restava arme, a chi fuggia, migliore -che quella che si porta più di sotto. -Beato chi il cavallo ha corridore, -ch'in prezzo non è quivi ambio né trotto; -e chi non ha destrier, quivi s'avede, -quanto il mestier de l'arme è tristo a piede. -Riman la preda e 'l campo ai vincitori -che non è fante o mulatier che resti. -Là Maganzesi, e qua fuggono i Mori: -quei lasciano i prigion, le some questi. -Furon, con lieti visi e più coi cori, -Malagigi e Viviano a scioglier presti; -non fur men diligenti a sciorre i paggi, -e por le some in terra e i carriaggi. -Oltre una buona quantità d'argento -ch'in diverse vasella era formato, -ed alcun muliebre vestimento -di lavoro bellissimo fregiato, -e per stanze reali un paramento -d'oro e di seta in Fiandra lavorato, -ed altre cose ricche in copia grande; -fiaschi di vin trovar, pane e vivande. -Al trar degli elmi, tutti vider come -avea lor dato aiuto una donzella: -fu conosciuta all'auree crespe chiome -ed alla faccia delicata e bella. -L'onoran molto, e pregano che 'l nome -di gloria degno non asconda; ed ella, -che sempre tra gli amici era cortese, -a dar di sé notizia non contese. -Non si ponno saziar di riguardarla; -che tal vista l'avean ne la battaglia. -Sol mira ella Ruggier, sol con lui parla: -altri non prezza, altri non par che vaglia. -Vengono i servi intanto ad invitarla -coi compagni a goder la vettovaglia, -ch'apparecchiata avean sopra una fonte -che difendea dal raggio estivo un monte. -Era una de le fonti di Merlino, -de le quattro di Francia da lui fatte, -d'intorno cinta di bel marmo fino, -lucido e terso, e bianco più che latte. -Quivi d'intaglio con lavor divino -avea Merlino imagini ritratte: -direste che spiravano, e, se prive -non fossero di voce, ch'eran vive. -Quivi una bestia uscir de la foresta -parea, di crudel vista, odiosa e brutta, -ch'avea l'orecchie d'asino, e la testa -di lupo e i denti, e per gran fame asciutta; -branche avea di leon; l'altro che resta, -tutto era volpe: e parea scorrer tutta -e Francia e Italia e Spagna ed Inghelterra, -l'Europa e l'Asia, e al fin tutta la terra. -Per tutto avea genti ferite e morte, -la bassa plebe e i più superbi capi: -anzi nuocer parea molto più forte -a re, a signori, a principi, a satrapi. -Peggio facea ne la romana corte, -che v'avea uccisi cardinali e papi: -contaminato avea la bella sede -di Pietro e messo scandol ne la fede. -Par che dinanzi a questa bestia orrenda -cada ogni muro, ogni ripar che tocca. -Non si vede città che si difenda: -se l'apre incontra ogni castello e rocca. -Par che agli onor divini anco s'estenda, -e sia adorata da la gente sciocca, -e che le chiavi s'arroghi d'avere -del cielo e de l'abisso in suo potere. -Poi si vedea d'imperiale alloro -cinto le chiome un cavallier venire -con tre giovini a par, che i gigli d'oro -tessuti avean nel lor real vestire; -e, con insegna simile, con loro -parea un leon contra quel mostro uscire: -avean lor nomi chi sopra la testa, -e chi nel lembo scritto de la vesta. -L'un ch'avea fin a l'elsa ne la pancia -la spada immersa alla maligna fera, -Francesco primo, avea scritto, di Francia; -Massimigliano d'Austria a par seco era; -e Carlo quinto imperator, di lancia -avea passato il mostro alla gorgiera; -e l'altro, che di stral gli fige il petto, -l'ottavo Enrigo d'Inghilterra è detto. -Decimo ha quel Leon scritto sul dosso, -ch'al brutto mostro i denti ha ne l'orecchi; -e tanto l'ha già travagliato e scosso, -che vi sono arrivati altri parecchi. -Parea del mondo ogni timor rimosso; -ed in emenda degli errori vecchi -nobil gente accorrea, non però molta, -onde alla belva era la vita tolta. -I cavallieri stavano e Marfisa -con desiderio di conoscer questi -per le cui mani era la bestia uccisa, -che fatti avea tanti luoghi atri e mesti. -Avenga che la pietra fosse incisa -dei nomi lor, non eran manifesti. -Si pregavan tra lor, che se sapesse -l'istoria alcuno, agli altri la dicesse. -Voltò Viviano a Malagigi gli occhi, -che stava a udire, e non facea lor motto: -— A te (disse) narrar l'istoria tocchi, -ch'esser ne déi, per quel ch'io vegga, dotto. -Chi son costor che con saette e stocchi -e lance a morte han l'animal condotto? — -Rispose Malagigi: — Non è istoria -di ch'abbia autor fin qui fatto memoria. -Sappiate che costor che qui scritto hanno -nel marmo i nomi, al mondo mai non furo; -ma fra settecento anni vi saranno, -con grande onor del secolo futuro. -Merlino, il savio incantator britanno, -fe' far la fonte al tempo del re Arturo; -e di cose ch'al mondo hanno a venire, -la fe' da buoni artefici scolpire. -Questa bestia crudele uscì del fondo -de lo 'nferno a quel tempo che fur fatti -alle campagne i termini, e fu il pondo -trovato e la misura, e scritti i patti. -Ma non andò a principio in tutto 'l mondo: -di sé lasciò molti paesi intatti. -Al tempo nostro in molti lochi sturba; -ma i populari offende e la vil turba. -Dal suo principio infin al secol nostro -sempre è cresciuto, e sempre andrà crescendo: -sempre crescendo, al lungo andar fia il mostro -il maggior che mai fosse e lo più orrendo. -Quel Fiton che per carte e per inchiostro -s'ode che fu sì orribile e stupendo, -alla metà di questo non fu tutto, -né tanto abominevol né sì brutto. -Farà strage crudel, né sarà loco -che non guasti, contamini ed infetti: -e quanto mostra la scultura, è poco -de' suoi nefandi e abominosi effetti. -Al mondo, di gridar mercé già roco, -questi, dei quali i nomi abbiamo letti, -che chiari splenderan più che piropo, -verranno a dare aiuto al maggior uopo. -Alla fera crudele il più molesto -non sarà di Francesco il re de' Franchi: -e ben convien che molti ecceda in questo, -e nessun prima e pochi n'abbia a' fianchi; -quando in splendor real, quando nel resto -di virtù farà molti parer manchi, -che già parver compiuti; come cede -tosto ogn'altro splendor, che 'l sol si vede. -L'anno primier del fortunato regno, -non ferma ancor ben la corona in fronte, -passerà l'Alpe, e romperà il disegno -di chi all'incontro avrà occupato il monte, -da giusto spinto e generoso sdegno, -che vendicate ancor non sieno l'onte -che dal furor da paschi e mandre uscito -l'esercito di Francia avrà patito. -E quindi scenderà nel ricco piano -di Lombardia, col fior di Francia intorno, -e sì l'Elvezio spezzerà, ch'invano -farà mai più pensier d'alzare il corno. -Con grande e de la Chiesa e de l'ispano -campo e del fiorentin vergogna e scorno -espugnerà il castel che prima stato -sarà non espugnabile stimato. -Sopra ogn'altr'arme, ad espugnarlo, molto -più gli varrà quella onorata spada -con la qual prima avrà di vita tolto -il mostro corruttor d'ogni contrada. -Convien ch'inanzi a quella sia rivolto -in fuga ogni stendardo, o a terra vada; -né fossa, né ripar, né grosse mura -possan da lei tener città sicura. -Questo principe avrà quanta eccellenza -aver felice imperator mai debbia: -l'animo del gran Cesar, la prudenza -di chi mostrolla a Transimeno e a Trebbia, -con la fortuna d'Alessandro, senza -cui saria fumo ogni disegno, e nebbia. -Sarà sì liberal, ch'io lo contemplo -qui non aver né paragon né esemplo. — -Così diceva Malagigi, e messe -desire a' cavallier d'aver contezza -del nome d'alcun altro ch'uccidesse -l'infernal bestia, uccider gli altri avezza. -Quivi un Bernardo tra' primi si lesse, -che Merlin molto nel suo scritto apprezza. -— Fia nota per costui (dicea) Bibiena, -quanto Fiorenza sua vicina e Siena. — -Non mette piede inanzi ivi persona -a Sismondo, a Giovanni, a Ludovico: -un Gonzaga, un Salviati, un d'Aragona, -ciascuno al brutto mostro aspro nimico. -V'è Francesco Gonzaga, né abandona -le sue vestigie il figlio Federico; -ed ha il cognato e il genero vicino, -quel di Ferrara, e quel duca d'Urbino. -De l'un di questi il figlio Guidobaldo -non vuol che 'l padre o ch'altri a dietro il metta. -Con Otobon dal Flisco, Sinibaldo -caccia la fera, e van di pari in fretta. -Luigi da Gazolo il ferro caldo -fatto nel collo le ha d'una saetta, -che con l'arco gli diè Febo, quando anco -Marte la spada sua gli messe al fianco. -Duo Erculi, duo Ippoliti da Este, -un altro Ercule, un altro Ippolito anco, -da Gonzaga, de' Medici, le peste -seguon del mostro, e l'han, cacciando, stanco. -Né Giuliano al figliuol, né par che reste -Ferrante al fratel dietro; né che manco -Andrea Doria sia pronto; né che lassi -Francesco Sforza, ch'ivi uomo lo passi. -Del generoso, illustre e chiaro sangue -d'Avalo vi son dui ch'han per insegna -lo scoglio, che dal capo ai piedi d'angue -par che l'empio Tifeo sotto si tegna. -Non è di questi duo, per fare esangue -l'orribil mostro, che più inanzi vegna: -l'uno Francesco di Pescara invitto, -l'altro Alfonso del Vasto ai piedi ha scritto. -Ma Consalvo Ferrante ove ho lasciato, -l'ispano onor, ch'in tanto pregio v'era, -che fu da Malagigi sì lodato, -che pochi il pareggiar di quella schiera? -Guglielmo si vedea di Monferrato -fra quei che morto avean la brutta fera; -ed eran pochi verso gl'infiniti -ch'ella v'avea chi morti e chi feriti. -In giuochi onesti e parlamenti lieti, -dopo mangiar, spesero il caldo giorno, -corcati su finissimi tapeti -tra gli arbuscelli ond'era il rivo adorno. -Malagigi e Vivian, perché quieti -più fosser gli altri, tenean l'arme intorno; -quando una donna senza compagnia -vider, che verso lor ratto venìa. -Questa era quella Ippalca a cui fu tolto -Frontino, il bon destrier, da Rodomonte. -L'avea il dì inanzi ella seguito molto, -pregandolo ora, ora dicendogli onte; -ma non giovando, avea il camin rivolto -per ritrovar Ruggiero in Agrismonte. -Tra via le fu (non so già come) detto -che quivi il troveria con Ricciardetto. -E perché il luogo ben sapea (che v'era -stata altre volte), se ne venne al dritto -alla fontana; ed in quella maniera -ve lo trovò, ch'io v'ho di sopra scritto. -Ma come buona e cauta messaggera -che sa meglio esequir che non l'è ditto, -quando vide il fratel di Bradamante, -non conoscer Ruggier fece sembiante. -A Ricciardetto tutta rivoltosse, -sì come drittamente a lui venisse; -e quel che la conobbe, se le mosse -incontra, e domandò dove ne gisse. -Ella ch'ancora avea le luci rosse -del pianger lungo, sospirando disse; -ma disse forte, acciò che fosse espresso -a Ruggiero il suo dir, che gli era presso. -— Mi traea dietro (disse) per la briglia, -come imposto m'avea la tua sorella, -un bel cavallo e buono a maraviglia, -ch'ella molto ama e che Frontino appella; -e l'avea tratto più di trenta miglia -verso Marsilia, ove venir debbe ella -fra pochi giorni, e dove ella mi disse -ch'io l'aspettassi fin che vi venisse. -Era sì baldanzoso il creder mio, -ch'io non stimava alcun di cor sì saldo, -che me l'avesse a tor, dicendogli io -ch'era de la sorella di Rinaldo. -Ma vano il mio disegno ieri m'uscìo, -che me lo tolse un Saracin ribaldo; -né per udir di chi Frontino fusse, -a volermelo rendere s'indusse. -Tutto ieri ed oggi l'ho pregato; e quando -ho visto uscir prieghi e minacce invano, -maledicendol molto e bestemmiando, -l'ho lasciato di qui poco lontano, -dove il cavallo e sé molto affannando, -s'aiuta, quanto può, con l'arme in mano -contra un guerrier ch'in tal travaglio il mette, -che spero ch'abbia a far le mie vendette. — -Ruggiero a quel parlar salito in piede, -ch'avea potuto a pena il tutto udire, -si volta a Ricciardetto, e per mercede -e premio e guidardon del ben servire -(prieghi aggiungendo senza fin) gli chiede -che con la donna solo il lasci gire -tanto che 'l Saracin gli sia mostrato, -ch'a lei di mano ha il buon destrier levato. -A Ricciardetto, ancor che discortese -il concedere altrui troppo paresse -di terminar le a sé debite imprese, -al voler di Ruggier pur si rimesse: -e quel licenza dai compagni prese, -e con Ippalca a ritornar si messe, -lasciando a quei che rimanean, stupore, -con maraviglia pur del suo valore. -Poi che dagli altri allontanato alquanto -Ippalca l'ebbe, gli narrò ch'ad esso -era mandata da colei che tanto -avea nel core il suo valore impresso; -e senza finger più, seguitò quanto -la sua donna al partir le avea commesso, -e che se dianzi avea altrimente detto, -per la presenza fu di Ricciardetto. -Disse, che chi le avea tolto il destriero, -ancor detto l'avea con molto orgoglio: -— Perché so che 'l cavallo è di Ruggiero, -più volontier per questo te lo toglio. -S'egli di racquistarlo avrà pensiero, -fagli saper (ch'asconder non gli voglio) -ch'io son quel Rodomonte il cui valore -mostra per tutto 'l mondo il suo splendore. — -Ascoltando, Ruggier mostra nel volto, -di quanto sdegno acceso il cor gli sia, -sì perché caro avria Frontino molto, -sì perché venìa il dono onde venìa -sì perché in suo dispregio gli par tolto; -vede che biasmo e disonor gli fia, -se torlo a Rodomonte non s'affretta, -e sopra lui non fa degna vendetta. -La donna Ruggier guida, e non soggiorna, -che por lo brama col Pagano a fronte; -e giunge ove la strada fa dua corna: -l'un va giù al piano, e l'altro va su al monte; -e questo e quel ne la vallea ritorna, -dov'ella avea lasciato Rodomonte. -Aspra, ma breve era la via del colle; -l'altra più lunga assai, ma piana e molle. -Il desiderio che conduce Ippalca -d'aver Frontino e vendicar l'oltraggio, -fa che 'l sentier de la montagna calca, -onde molto più corto era il viaggio. -Per l'altra intanto il re d'Algier cavalca -col Tartaro e cogli altri che detto aggio; -e giù nel pian la via più facil tiene, -né con Ruggier ad incontrar si viene. -Già son le lor querele differite -fin che soccorso ad Agramante sia -(questo sapete); ed han d'ogni lor lite -la cagion, Doralice, in compagnia. -Ora il successo de l'istoria udite. -Alla fontana è la lor dritta via, -ove Aldigier, Marfisa, Ricciardetto, -Malagigi e Vivian stanno a diletto. -Marfisa a' prieghi de' compagni avea -veste da donna ed ornamenti presi, -di quelli ch'a Lanfusa si credea -mandare il traditor de' Maganzesi; -e ben che veder raro si solea -senza l'osbergo e gli altri buoni arnesi, -pur quel dì se li trasse; e come donna, -a' prieghi lor lasciò vedersi in gonna. -Tosto che vede il Tartaro Marfisa, -per la credenza c'ha di guadagnarla, -in ricompensa e in cambio ugual s'avisa -di Doralice, a Rodomonte darla; -sì come Amor si regga a questa guisa, -che vender la sua donna o permutarla -possa l'amante, né a ragion s'attrista, -se quando una ne perde, una n'acquista. -Per dunque provedergli di donzella, -acciò per sé quest'altra si ritegna, -Marfisa, che gli par leggiadra e bella, -e d'ogni cavallier femina degna, -come abbia ad aver questa, come quella, -subito cara, a lui donar disegna; -e tutti i cavallier che con lei vede, -a giostra seco ed a battaglia chiede. -Malagigi e Vivian, che l'arme aveano -come per guardia e sicurtà del resto, -si mossero dal luogo ove sedeano, -l'un come l'altro alla battaglia presto, -perché giostrar con amenduo credeano; -ma l'African che non venìa per questo, -non ne fe' segno o movimento alcuno: -sì che la giostra restò lor contra uno. -Viviano è il primo, e con gran cor si muove, -e nel venire abbassa un'asta grossa: -e 'l re pagan da le famose pruove -da l'altra parte vien con maggior possa. -Dirizza l'uno e l'altro, e segna dove -crede meglio fermar l'aspra percossa. -Viviano indarno a l'elmo il pagan fere; -che non lo fa piegar, non che cadere. -Il re pagan, ch'avea più l'asta dura, -fe' lo scudo a Vivian parer di ghiaccio; -e fuor di sella in mezzo alla verdura, -all'erbe e ai fiori il fe' cadere in braccio. -Vien Malagigi, e ponsi in aventura -di vendicare il suo fratello avaccio; -ma poi d'andargli appresso ebbe tal fretta, -che gli fe' compagnia più che vendetta. -L'altro fratel fu prima del cugino -coll'arme indosso, e sul destrier salito; -e disfidato contra il Saracino -venne a scontrarlo a tutta briglia ardito. -Risonò il colpo in mezzo a l'elmo fino -di quel pagan sotto la vista un dito: -volò al ciel l'asta in quattro tronchi rotta; -ma non mosse il pagan per quella botta. -Il pagan ferì lui dal lato manco; -e perché il colpo fu con troppa forza, -poco lo scudo, e la corazza manco -gli valse, che s'aprir come una scorza. -Passò il ferro crudel l'omero bianco: -piegò Aldigier ferito a poggia e ad orza; -tra fiori ed erbe al fin si vide avolto, -rosso su l'arme, e pallido nel volto. -Con molto ardir vien Ricciardetto appresso; -e nel venire arresta sì gran lancia, -che mostra ben, come ha mostrato spesso, -che degnamente è paladin di Francia: -ed al pagan ne facea segno espresso, -se fosse stato pari alla bilancia; -ma sozzopra n'andò, perché il cavallo -gli cadde adosso, e non già per suo fallo. -Poi ch'altro cavallier non si dimostra, -ch'al pagan per giostrar volti la fronte, -pensa aver guadagnato de la giostra -la donna, e venne a lei presso alla fonte; -e disse: — Damigella, sète nostra, -s'altri non è per voi ch'in sella monte. -Nol potete negar, né farne iscusa; -che di ragion di guerra così s'usa. — -Marfisa, alzando con un viso altiero -la faccia, disse: — Il tuo parer molto erra. -Io ti concedo che diresti il vero, -ch'io sarei tua per la ragion di guerra, -quando mio signor fosse o cavalliero -alcun di questi ch'hai gittato in terra. -Io sua non son, né d'altri son che mia: -dunque me tolga a me chi mi desia. -So scudo e lancia adoperare anch'io, -e più d'un cavalliero in terra ho posto. — -— Datemi l'arme, disse, e il destrier mio, — -agli scudier che l'ubbidiron tosto. -Trasse la gonna, ed in farsetto uscìo; -e le belle fattezze e il ben disposto -corpo mostrò, ch'in ciascuna sua parte, -fuor che nel viso, assimigliava a Marte. -Poi che fu armata, la spada si cinse -e sul destrier montò d'un leggier salto; -e qua e là tre volte e più lo spinse, -e quinci e quindi fe' girare in alto; -e poi, sfidando il Saracino, strinse -la grossa lancia e cominciò l'assalto. -Tal nel campo troian Pentesilea -contra il tessalo Achille esser dovea. -Le lance infin al calce si fiaccaro -a quel superbo scontro, come vetro; -né pero chi le corsero, piegaro, -che si notasse, un dito solo a dietro. -Marfisa che volea conoscer chiaro -s'a più stretta battaglia simil metro -le serverebbe contra il fier pagano, -se gli rivolse con la spada in mano. -Bestemmiò il cielo e gli elementi il crudo -pagan, poi che restar la vide in sella: -ella, che gli pensò romper lo scudo, -non men sdegnosa contra il ciel favella. -Già l'uno e l'altro ha in mano il ferro nudo -e su le fatal arme si martella: -l'arme fatali han parimente intorno, -che mai non bisognar più di quel giorno. -Sì buona è quella piastra e quella maglia, -che spada o lancia non le taglia o fora; -sì che potea seguir l'aspra battaglia -tutto quel giorno e l'altro appresso ancora. -Ma Rodomonte in mezzo lor si scaglia, -e riprende il rival de la dimora, -dicendo: — Se battaglia pur far vuoi, -finiàn la cominciata oggi fra noi. -Facemmo, come sai, triegua con patto -di dar soccorso alla milizia nostra. -Non debbiàn, prima che sia questo fatto, -incominciare altra battaglia o giostra. — -Indi a Marfisa, riverente in atto -si volta, e quel messaggio le dimostra; -e le racconta come era venuto -a chieder lor per Agramante aiuto. -La priega poi che le piaccia non solo -lasciar quella battaglia o differire, -ma che voglia in aiuto del figliuolo -del re Troian con essi lor venire; -onde la fama sua con maggior volo -potrà far meglio infin al ciel salire, -che, per querela di poco momento, -dando a tanto disegno impedimento. -Marfisa, che fu sempre disiosa -di provar quei di Carlo a spada e a lancia, -né l'avea indotta a venire altra cosa -di sì lontana regione in Francia, -se non per esser certa se famosa -lor nominanza era per vero o ciancia, -tosto d'andar con lor partito prese, -che d'Agramante il gran bisogno intese. -Ruggiero in questo mezzo avea seguito -indarno Ippalca per la via del monte; -e trovò, giunto al loco, che partito -per altra via se n'era Rodomonte: -e pensando che lungi non era ito, -e che 'l sentier tenea dritto alla fonte, -trottando in fretta dietro gli venìa -per l'orme ch'eran fresche in su la via. -Volse che Ippalca a Montalban pigliasse -la via, ch'una giornata era vicino; -perché s'alla fontana ritornasse, -si torria troppo dal dritto camino. -E disse a lei, che già non dubitasse -che non s'avesse a ricovrar Frontino: -ben le farebbe a Montalbano, o dove -ella si trovi, udir tosto le nuove. -E le diede la lettera che scrisse -in Agrismonte, e che si portò in seno; -e molte cose a bocca anco le disse, -e la pregò che l'escusasse a pieno. -Ne la memoria Ippalca il tutto fisse, -prese licenza e voltò il palafreno; -e non cessò la buona messaggera, -ch'in Montalban si ritrovò la sera. -Seguia Ruggiero in fretta il Saracino -per l'orme ch'apparian ne la via piana, -ma non lo giunse prima che vicino -con Mandricardo il vide alla fontana. -Già promesso s'avean che per camino -l'un non farebbe all'altro cosa strana, -né fin ch'al campo si fosse soccorso, -a cui Carlo era appresso a porre il morso. -Quivi giunto Ruggier, Frontin conobbe, -e conobbe per lui chi adosso gli era; -e su la lancia fe' le spalle gobbe, -e sfidò l'African con voce altiera. -Rodomonte quel dì fe' più che Iobbe, -poi che domò la sua superbia fiera; -e ricusò la pugna ch'avea usanza -di sempre egli cercar con ogni istanza. -Il primo giorno e l'ultimo, che pugna -mai ricusasse il re d'Algier, fu questo; -ma tanto il desiderio che si giugna, -in soccorso al suo re gli pare onesto, -che se credesse aver Ruggier ne l'ugna -più che mai lepre il pardo isnello e presto, -non se vorria fermar tanto con lui, -che fêsse un colpo de la spada o dui. -Aggiungi che sapea ch'era Ruggiero -che seco per Frontin facea battaglia, -tanto famoso, ch'altro cavalliero -non è ch'a par di lui di gloria saglia, -l'uom che bramato ha di saper per vero -esperimento quanto in arme vaglia; -e pur non vuol seco accettar l'impresa: -tanto l'assedio del suo re gli pesa. -Trecento miglia sarebbe ito e mille, -se ciò non fosse, a comperar tal lite; -ma se l'avesse oggi sfidato Achille, -più fatto non avria di quel ch'udite: -tanto a quel punto sotto le faville -le fiamme avea del suo furor sopite. -Narra a Ruggier perché pugna rifiuti; -ed anco il priega che l'impresa aiuti: -che facendol, farà quel che far deve -al suo signore un cavallier fedele. -Sempre che questo assedio poi si leve, -avran ben tempo da finir querele. -Ruggier rispose a lui: — Mi sarà lieve -differir questa pugna, fin che de le -forze di Carlo si traggia Agramante, -pur che mi rendi il mio Frontino inante. -Se di provarti c'hai fatto gran fallo, -e fatto hai cosa indegna ad un uom forte, -d'aver tolto a una donna il mio cavallo, -vuoi ch'io prolunghi fin che siamo in corte, -lascia Frontino, e nel mio arbitrio dàllo. -Non pensare altrimente ch'io sopporte -che la battaglia qui tra noi non segua, -o ch'io ti faccia sol d'un'ora triegua. — -Mentre Ruggiero all'African domanda -o Frontino o battaglia allora allora, -e quello in lungo e l'uno e l'altro manda, -né vuol dare il destrier, né far dimora; -Mandricardo ne vien da un'altra banda, -e mette in campo un'altra lite ancora, -poi che vede Ruggier che per insegna -porta l'augel che sopra gli altri regna. -Nel campo azzur l'aquila bianca avea, -che de' Troiani fu l'insegna bella: -perché Ruggier l'origine traea -dal fortissimo Ettòr, portava quella. -Ma questo Mandricardo non sapea; -né vuol patire, e grande ingiuria appella, -che ne lo scudo un altro debba porre -l'aquila bianca del famoso Ettorre. -Portava Mandricardo similmente -l'augel che rapì in Ida Ganimede. -Come l'ebbe quel dì che fu vincente -al castel periglioso, per mercede, -credo vi sia con l'altre istorie a mente, -e come quella fata gli lo diede -con tutte le bell'arme che Vulcano -avea già date al cavallier troiano. -Altra volta a battaglia erano stati -Mandricardo e Ruggier solo per questo; -e per che caso fosser distornati, -io nol dirò, che già v'è manifesto. -Dopo non s'eran mai più raccozzati, -se non quivi ora; e Mandricardo presto, -visto lo scudo alzò il superbo grido -minacciando, e a Ruggier disse: — Io ti sfido. -Tu la mia insegna, temerario, porti; -né questo è il primo dì ch'io te l'ho detto. -E credi, pazzo, ancor ch'io tel comporti, -per una volta ch'io t'ebbi rispetto? -Ma poi che né minacce né conforti -ti pôn questa follia levar del petto, -ti mostrerò quanto miglior partito -t'era d'avermi subito ubbidito. — -Come ben riscaldato arrido legno -a piccol soffio subito s'accende, -così s'avampa di Ruggier lo sdegno -al primo motto che di questo intende. -— Ti pensi (disse) farmi stare al segno, -perché quest'altro ancor meco contende? -Ma mostrerotti ch'io son buon per torre -Frontino a lui, lo scudo a te d'Ettorre. -Un'altra volta pur per questo venni -teco a battaglia, e non è gran tempo anco; -ma d'ucciderti allora mi contenni, -perché tu non avevi spada al fianco. -Questi fatti saran, quelli fur cenni; -e mal sarà per te quell'augel bianco, -ch'antiqua insegna è stata di mia gente: -tu te l'usurpi, io 'l porto giustamente. — -— Anzi t'usurpi tu l'insegna mia! — -rispose Mandricardo; e trasse il brando, -quello che poco inanzi per follia -avea gittato alla foresta Orlando. -Il buon Ruggier, che di sua cortesia -non può non sempre ricordarsi, quando -vide il Pagan ch'avea tratta la spada, -lasciò cader la lancia ne la strada. -E tutto a un tempo Balisarda stringe, -la buona spada, e me' lo scudo imbraccia: -ma l'Africano in mezzo il destrier spinge, -e Marfisa con lui presta si caccia; -e l'uno questo, e l'altro quel respinge, -e priegano amendui che non si faccia. -Rodomonte si duol che rotto il patto -due volte ha Mandricardo, che fu fatto. -Prima, credendo d'acquistar Marfisa, -fermato s'era a far più d'una giostra; -or per privar Ruggier d'una divisa, -di curar poco il re Agramante mostra. -— Se pur (dicea) déi fare a questa guisa, -finiàn prima tra noi la lite nostra, -conveniente e più debita assai, -ch'alcuna di quest'altre che prese hai. -Con tal condizion fu stabilita -la triegua e questo accordo ch'è fra nui. -Come la pugna teco avrò finita, -poi del destrier risponderò a costui. -Tu del tuo scudo, rimanendo in vita, -la lite avrai da terminar con lui; -ma ti darò da far tanto, mi spero, -che non n'avanzarà troppo a Ruggiero. — -— La parte che ti pensi, non n'avrai -(rispose Mandricardo a Rodomonte): -io te ne darò più che non vorrai, -e ti farò sudar dal piè alla fronte: -e me ne rimarrà per darne assai -(come non manca mai l'acqua del fonte) -ed a Ruggiero ed a mill'altri seco, -e a tutto il mondo che la voglia meco. — -Moltiplicavan l'ire e le parole -quando da questo e quando da quel lato: -con Rodomonte e con Ruggier la vuole -tutto in un tempo Mandricardo irato; -Ruggier, ch'oltraggio sopportar non suole, -non vuol più accordo, anzi litigio e piato. -Marfisa or va da questo or da quel canto -per riparar, ma non può sola tanto. -Come il villan, se fuor per l'alte sponde -trapela il fiume e cerca nuova strada, -frettoloso a vietar che non affonde -i verdi paschi e la sperata biada, -chiude una via ed un'altra, e si confonde; -che se ripara quinci che non cada, -quindi vede lassar gli argini molli, -e fuor l'acqua spicciar con più rampolli: -così, mentre Ruggiero e Mandricardo -e Rodomonte son tutti sozzopra, -ch'ognun vuol dimostrarsi più gagliardo, -ed ai compagni rimaner di sopra, -Marfisa ad acchetarli have riguardo, -e s'affatica, e perde il tempo e l'opra; -che, come ne spicca uno e lo ritira, -gli altri duo risalir vede con ira. -Marfisa, che volea porgli d'accordo, -dicea: — Signori, udite il mio consiglio: -differire ogni lite è buon ricordo -fin ch'Agramante sia fuor di periglio. -S'ognun vuole al suo fatto essere ingordo, -anch'io con Mandricardo mi ripiglio; -e vo' vedere al fin se guadagnarme, -come egli ha detto, è buon per forza d'arme. -Ma se si de' soccorrere Agramante, -soccorrasi, e tra noi non si contenda. — -— Per me non si starà d'andare inante -(disse Ruggier), pur che 'l destrier si renda. -O che mi dia il cavallo, a far di tante -una parola, o che da me il difenda: -o che qui morto ho da restare, o ch'io -in campo ho da tornar sul destrier mio. — -Rispose Rodomonte: — Ottener questo -non fia così, come quell'altro, lieve. — -E seguitò dicendo: — Io ti protesto -che, s'alcun danno il nostro re riceve, -fia per tua colpa; ch'io per me non resto -di fare a tempo quel che far si deve. — -Ruggiero a quel protesto poco bada; -ma stretto dal furor stringe la spada. -Al re d'Algier come cingial si scaglia, -e l'urta con lo scudo e con la spalla; -e in modo lo disordina e sbarraglia, -che fa che d'una staffa il piè gli falla. -Mandricardo gli grida: — O la battaglia -differisci, Ruggiero, o meco falla; — -e crudele e fellon più che mai fosse, -Ruggier su l'elmo in questo dir percosse. -Fin sul collo al destrier Ruggier s'inchina, -né, quando vuolsi rilevar, si puote; -perché gli sopragiunge la ruina -del figlio d'Ulien che lo percuote. -Se non era di tempra adamantina, -fesso l'elmo gli avria fin tra le gote. -Apre Ruggier le mani per l'ambascia, -e l'una il fren, l'altra la spada lascia. -Se lo porta il destrier per la campagna: -dietro gli resta in terra Balisarda. -Marfisa che quel dì fatta compagna -se gli era d'arme, par ch'avampi ed arda, -che solo fra que' duo così rimagna: -e come era magnanima e gagliarda, -si drizza a Mandricardo, e col potere -ch'avea maggior, sopra la testa il fiere. -Rodomonte a Ruggier dietro si spinge: -vinto è Frontin, s'un'altra gli n'appicca; -ma Ricciardetto con Vivian si stringe, -e tra Ruggiero e 'l Saracin si ficca. -L'uno urta Rodomonte e lo rispinge, -e da Ruggier per forza lo dispicca; -l'altro la spada sua, che fu Viviano, -pone a Ruggier, già risentito, in mano. -Tosto che 'l buon Ruggiero in sé ritorna, -e che Vivian la spada gli appresenta, -a vendicar l'ingiuria non soggiorna, -e verso il re d'Algier ratto s'aventa, -come il leon che tolto su le corna -dal bue sia stato, e che 'l dolor non senta: -sì sdegno ed ira ed impeto l'affretta, -stimula e sferza a far la sua vendetta. -Ruggier sul capo al Saracin tempesta: -e se la spada sua si ritrovasse, -che, come ho detto, al comminciar di questa -pugna, di man gran fellonia gli trasse, -mi credo ch'a difendere la testa -di Rodomonte l'elmo non bastasse, -l'elmo che fece il re far di Babelle -quando muover pensò guerra alle stelle. -La Discordia, credendo non potere -altro esser quivi che contese e risse, -né vi dovesse mai più luogo avere -o pace o triegua, alla sorella disse -ch'omai sicuramente a rivedere -i monachetti suoi seco venisse. -Lasciànle andare, e stiàn noi dove in fronte -Ruggiero avea ferito Rodomonte. -Fu il colpo di Ruggier di sì gran forza, -che fece in su la groppa di Frontino -percuoter l'elmo e quella dura scorza -di ch'avea armato il dosso il Saracino, -e lui tre volte e quattro a poggia e ad orza -piegar per gire in terra a capo chino; -e la spada egli ancora avria perduta, -se legata alla man non fosse suta. -Avea Marfisa a Mandricardo intanto -fatto sudar la fronte, il viso e il petto, -ed egli aveva a lei fatto altretanto; -ma sì l'osbergo d'ambi era perfetto, -che mai poter falsarlo in nessun canto, -e stati eran sin qui pari in effetto: -ma in un voltar che fece il suo destriero, -bisogno ebbe Marfisa di Ruggiero. -Il destrier di Marfisa in un voltarsi -che fece stretto, ov'era molle il prato, -sdrucciolò in guisa, che non poté aitarsi -di non tutto cader sul destro lato; -e nel volere in fretta rilevarsi, -da Brigliador fu pel traverso urtato, -con che il pagan poco cortese venne; -sì che cader di nuovo gli convenne. -Ruggier che la donzella a mal partito -vide giacer, non differì il soccorso, -or che l'agio n'avea, poi che stordito -da sé lontan quell'altro era trascorso: -ferì su l'elmo il Tartaro; e partito -quel colpo gli avria il capo, come un torso, -se Ruggier Balisarda avesse avuta, -o Mandricardo in capo altra barbuta. -Il re d'Algier che si risente in questo, -si volge intorno, e Ricciardetto vede; -e si ricorda che gli fu molesto -dianzi, quando soccorso a Ruggier diede. -A lui si drizza, e saria stato presto -a darli del ben fare aspra mercede, -se con grande arte e nuovo incanto tosto -non se gli fosse Malagigi opposto. -Malagigi, che sa d'ogni malia -quel che ne sappia alcun mago eccellente, -ancor che 'l libro suo seco non sia, -con che fermare il sole era possente, -pur la scongiurazione onde solia -commandare ai demoni aveva a mente: -tosto in corpo al ronzino un ne costringe -di Doralice, ed in furor lo spinge. -Nel mansueto ubino che sul dosso -avea la figlia del re Stordilano, -fece entrar un degli angel di Minosso -sol con parole il frate di Viviano: -e quel che dianzi mai non s'era mosso, -se non quanto ubidito avea alla mano, -or d'improviso spiccò in aria un salto, -che trenta piè fu lungo e sedeci alto. -Fu grande il salto, non però di sorte -che ne dovesse alcun perder la sella. -Quando si vide in alto, gridò forte -(che si tenne per morta) la donzella. -Quel ronzin, come il diavol se lo porte, -dopo un gran salto se ne va con quella, -che pur grida soccorso, in tanta fretta, -che non l'avrebbe giunto una saetta. -Da la battaglia il figlio d'Ulieno -si levò al primo suon di quella voce; -e dove furiava il palafreno, -per la donna aiutar n'andò veloce. -Mandricardo di lui non fece meno, -né più a Ruggier, né più a Marfisa nòce; -ma, senza chieder loro o paci o tregue, -e Rodomonte e Doralice segue. -Marfisa intanto si levò di terra, -e tutta ardendo di disdegno e d'ira, -credesi far la sua vendetta, ed erra; -che troppo lungi il suo nimico mira. -Ruggier, ch'aver tal fin vede la guerra, -rugge come un leon, non che sospira. -Ben sanno che Frontino e Brigliadoro -giunger non ponno coi cavalli loro. -Ruggier non vuol cessar fin che decisa -col re d'Algier non l'abbia del cavallo: -non vuol quietar il Tartaro Marfisa, -che provato a suo senno anco non hallo. -Lasciar la sua querela a questa guisa -parrebbe all'uno e all'altro troppo fallo. -Di commune parer disegno fassi -di chi offesi gli avea seguire i passi. -Nel campo saracin li troveranno, -quando non possan ritrovarli prima; -che per levar l'assedio iti seranno, -prima che 'l re di Francia il tutto opprima. -Così dirittamente se ne vanno -dove averli a man salva fanno stima. -Già non andò Ruggier così di botto, -che non facesse ai suoi compagni motto. -Ruggier se ne ritorna ove in disparte -era il fratel de la sua donna bella, -e se gli proferisce in ogni parte -amico, per fortuna e buona e fella: -indi lo priega (e lo fa con bella arte) -che saluti in suo nome la sorella; -e questo così ben gli venne detto, -che né a lui diè né agli altri alcun sospetto. -E da lui, da Vivian, da Malagigi, -dal ferito Aldigier tolse commiato. -Si proferiro anch'essi alli servigi -di lui, debitor sempre in ogni lato. -Marfisa avea sì il cor d'ire a Parigi, -che 'l salutar gli amici avea scordato; -ma Malagigi andò tanto e Viviano, -che pur la salutaron di lontano; -e così Ricciardetto; ma Aldigiero -giace, e convien che suo malgrado resti. -Verso Parigi avean preso il sentiero -quelli duo prima, ed or lo piglian questi. -Dirvi, Signor, ne l'altro canto spero -miracolosi e sopraumani gesti, -che con danno degli uomini di Carlo -ambe le coppie fer, di ch'io vi parlo. Molti consigli de le donne sono -meglio improviso, ch'a pensarvi, usciti; -che questo è speziale e proprio dono -fra tanti e tanti lor dal ciel largiti. -Ma può mal quel degli uomini esser buono, -che maturo discorso non aiti, -ove non s'abbia a ruminarvi sopra -speso alcun tempo e molto studio ed opra. -Parve, e non fu però buono il consiglio -di Malagigi, ancor che (come ho detto) -per questo di grandissimo periglio -liberassi il cugin suo Ricciardetto. -A levare indi Rodomonte e il figlio -del re Agrican, lo spirto avea costretto, -non avvertendo che sarebbon tratti -dove i cristian ne rimarrian disfatti. -Ma se spazio a pensarvi avesse avuto, -creder si può che dato similmente -al suo cugino avria debito aiuto, -né fatto danno alla cristiana gente. -Commandare allo spirto avria potuto, -ch'alla via di levante o di ponente -sì dilungata avesse la donzella, -che non n'udisse Francia più novella. -Così gli amanti suoi l'avrian seguìta, -come a Parigi, anco in ogn'altro loco; -ma fu questa avvertenza inavvertita -da Malagigi, per pensarvi poco: -e la Malignità dal ciel bandita, -che sempre vorria sangue e strage e fuoco, -prese la via donde più Carlo afflisse, -poi che nessuna il mastro gli prescrisse. -Il palafren ch'avea il demonio al fianco, -portò la spaventata Doralice, -che non poté arrestarla fiume, e manco -fossa, bosco, palude, erta o pendice; -fin che per mezzo il campo inglese e franco, -e l'altra moltitudine fautrice -de l'insegne di Cristo, rassegnata -non l'ebbe al padre suo re di Granata. -Rodomonte col figlio d'Agricane -la seguitaro il primo giorno un pezzo, -che le vedean le spalle, ma lontane: -di vista poi perderonla da sezzo, -e venner per la traccia, come il cane -la lepre o il capriol trovare avezzo; -né si fermar, che furo in parte, dove -di lei ch'era col padre ebbono nuove. -Guardati, Carlo, che 'l ti viene addosso -tanto furor, ch'io non ti veggo scampo: -né questi pur, ma 'l re Gradasso è mosso -con Sacripante a danno del tuo campo. -Fortuna, per toccarti fin all'osso, -ti tolle a un tempo l'uno e l'altro lampo -di forza e di saper, che vivea teco; -e tu rimaso in tenebre sei cieco. -Io ti dico d'Orlando e di Rinaldo; -che l'uno al tutto furioso e folle, -al sereno, alla pioggia, al freddo, al caldo, -nudo va discorrendo il piano e 'l colle: -l'altro, con senno non troppo più saldo, -d'appresso al gran bisogno ti si tolle; -che non trovando Angelica in Parigi, -si parte, e va cercandone vestigi. -Un fraudolente vecchio incantatore -gli fe' (come a principio vi si disse) -creder per un fantastico suo errore, -che con Orlando Angelica venisse: -ondè di gelosia tocco nel core, -de la maggior ch'amante mai sentisse, -venne a Parigi, e come apparve in corte, -d'ire in Bretagna gli toccò per sorte. -Or fatta la battaglia onde portonne -egli l'onor d'aver chiuso Agramante, -tornò a Parigi, e monister di donne -e case e rocche cercò tutte quante. -Se murata non è tra le colonne, -l'avria trovata il curioso amante. -Vedendo al fin ch'ella non v'è né Orlando, -amenduo va con gran disio cercando. -Pensò che dentro Anglante o dentro a Brava -se la godesse Orlando in festa e in giuoco; -e qua e là per ritrovarla andava, -né in quel la ritrovò né in questo loco. -A Parigi di nuovo ritornava, -pensando che tardar dovesse poco -di capitare il paladino al varco; -che 'l suo star fuor non era senza incarco. -Un giorno o duo ne la città soggiorna -Rinaldo; e poi ch'Orlando non arriva, -or verso Anglante, or verso Brava torna, -cercando se di lui novella udiva. -Cavalca e quando annotta e quando aggiorna, -alla fresca alba e all'ardente ora estiva; -e fa al lume del sole e de la luna -dugento volte questa via, non ch'una. -Ma l'antiquo aversario, il qual fece Eva -all'interdetto pome alzar la mano, -a Carlo un giorno i lividi occhi leva, -che 'l buon Rinaldo era da lui lontano; -e vedendo la rotta che poteva -darsi in quel punto al populo cristiano, -quanta eccellenza d'arme al mondo fusse -fra tutti i Saracini, ivi condusse. -Al re Gradasso e al buon re Sacripante, -ch'eran fatti compagni all'uscir fuore -de la piena d'error casa d'Atlante, -di venire in soccorso messe in core -alle genti assediate d'Agramante, -e a distruzion di Carlo imperatore: -ed egli per l'incognite contrade -fe' lor la scorta e agevolò le strade. -Ed ad un altro suo diede negozio -d'affrettar Rodomonte e Mandricardo -per le vestigie donde l'altro sozio -a condur Doralice non è tardo. -Ne manda ancora un altro, perché in ozio -non stia Marfisa né Ruggier gagliardo; -ma chi guidò l'ultima coppia tenne -la briglia più, né quando gli altri venne. -La coppia di Marfisa e di Ruggiero -di mezza ora più tarda si condusse; -però ch'astutamente l'angel nero, -volendo agli cristian dar de le busse, -provide che la lite del destriero -per impedire il suo desir non fusse, -che rinovata si saria, se giunto -fosse Ruggiero e Rodomonte a un punto. -I quattro primi si trovaro insieme -onde potean veder gli alloggiamenti -de l'esercito oppresso e di chi 'l preme, -e le bandiere in che feriano i venti. -Si consigliaro alquanto; e fur l'estreme -conclusion dei lor ragionamenti -di dare aiuto, mal grado di Carlo, -al re Agramante, e de l'assedio trarlo. -Stringonsi insieme, e prendono la via -per mezzo ove s'alloggiano i cristiani, -gridando Africa e Spagna tuttavia; -e si scopriro in tutto esser pagani. -Pel campo, arme, arme risonar s'udia; -ma menar si sentir prima le mani: -e de la retroguardia una gran frotta, -non ch'assalita sia, ma fugge in rotta. -L'esercito cristian mosso a tumulto -sozzopra va senza sapere il fatto. -Estima alcun che sia un usato insulto -che Svizzari o Guasconi abbino fatto. -Ma perch'alla più parte è il caso occulto, -s'aduna insieme ogni nazion di fatto, -altri a suon di tamburo, altri di tromba: -grande è 'l rumore, e fin al ciel rimbomba. -Il magno imperator, fuor che la testa, -è tutto armato, e i paladini ha presso; -e domandando vien che cosa è questa -che le squadre in disordine gli ha messo; -e minacciando, or questi or quelli arresta; -e vede a molti il viso o il petto fesso, -ad altri insanguinare o il capo o il gozzo, -alcun tornar con mano o braccio mozzo. -Giunge più inanzi, e ne ritrova molti -giacere in terra, anzi in vermiglio lago -nel proprio sangue orribilmente involti, -né giovar lor può medico né mago; -e vede dagli busti i capi sciolti -e braccia e gambe con crudele imago; -e ritrova dai primi alloggiamenti -agli ultimi per tutto uomini spenti. -Dove passato era il piccol drappello, -di chiara fama eternamente degno, -per lunga riga era rimaso quello -al mondo sempre memorabil segno. -Carlo mirando va il crudel macello, -maraviglioso, e pien d'ira e di sdegno, -come alcun, in cui danno il fulgur venne, -cerca per casa ogni sentier che tenne. -Non era agli ripari anco arrivato -del re african questo primiero aiuto, -che con Marfisa fu da un altro lato -l'animoso Ruggier sopravenuto. -Poi ch'una volta o due l'occhio aggirato -ebbe la degna coppia, e ben veduto -qual via più breve per soccorrer fosse -l'assediato signor, ratto si mosse. -Come quando si dà fuoco alla mina, -pel lungo solco de la negra polve -licenziosa fiamma arde e camina -sì ch'occhio a dietro a pena se le volve; -e qual si sente poi l'alta ruina -che 'l duro sasso o il grosso muro solve: -così Ruggiero e Marfisa veniro, -e tai ne la battaglia si sentiro. -Per lungo e per traverso a fender teste -incominciaro, e tagliar braccia e spalle -de le turbe che male erano preste -ad espedire e sgombrar loro il calle. -C'ha notato il passar de le tempeste, -ch'una parte d'un monte o d'una valle -offende, e l'altra lascia, s'appresenti -la via di questi duo fra quelle genti. -Molti che dal furor di Rodomonte -e di quegli altri primi eran fuggiti, -Dio ringraziavan ch'avea lor sì pronte -gambe concesse, e piedi sì spediti; -e poi, dando del petto e de la fronte -in Marfisa e in Ruggier, vedean scherniti, -come l'uom né per star né per fuggire, -al suo fisso destin può contradire. -Chi fugge l'un pericolo, rimane -ne l'altro, e paga il fio d'ossa e di polpe. -Così cader coi figli in bocca al cane -suol, sperando fuggir, timida volpe, -poi che la caccia de l'antique tane -il suo vicin che le dà mille colpe, -e cautamente con fumo e con fuoco -turbata l'ha da non temuto loco. -Negli ripari entrò de' Saracini -Marfisa con Ruggiero a salvamento. -Quivi tutti con gli occhi al ciel supini -Dio ringraziar del buono avvenimento. -Or non v'è più timor de' paladini: -il più tristo pagan ne sfida cento; -ed è concluso che senza riposo -si torni a fare il campo sanguinoso. -Corni, bussoni, timpani moreschi -empieno il ciel di formidabil suoni: -ne l'aria tremolare ai venti freschi -si veggon le bandiere e i gonfaloni. -Da l'altra parte i capitan carleschi -stringon con Alamanni e con Britoni -quei di Francia, d'Italia e d'Inghilterra; -e si mesce aspra e sanguinosa guerra. -La forza del terribil Rodomonte, -quella di Mandricardo furibondo, -quella del buon Ruggier, di virtù fonte, -del re Gradasso, sì famoso al mondo, -e di Marfisa l'intrepida fronte, -col re circasso a nessun mai secondo, -feron chiamar san Gianni e san Dionigi -al re di Francia, e ritrovar Parigi. -Di questi cavallieri e di Marfisa -l'ardire invitto e la mirabil possa -non fu, Signor, di sorte, non fu in guisa -ch'imaginar, non che descriver possa. -Quindi si può stimar che gente uccisa -fosse quel giorno, e che crudel percossa -avesse Carlo. Arroge poi con loro, -con Ferraù più d'un famoso Moro. -Molti per fretta s'affogaro in Senna -(che 'l ponte non potea supplire a tanti), -e desiar, come Icaro, la penna, -perché la morte avean dietro e davanti. -Eccetto Uggieri e il marchese di Vienna, -i paladin fur presi tutti quanti. -Olivier ritornò ferito sotto -la spalla destra, Uggier col capo rotto. -E se, come Rinaldo e come Orlando, -lasciato Brandimarte avesse il giuoco, -Carlo n'andava di Parigi in bando, -se potea vivo uscir di sì gran fuoco. -Ciò che poté, fe' Brandimarte, e quando -non poté più, diede alla furia loco. -Così Fortuna ad Agramante arrise, -ch'un'altra volta a Carlo assedio mise. -Di vedovelle i gridi e le querele, -e d'orfani fanciulli e di vecchi orbi, -ne l'eterno seren dove Michele -sedea, salir fuor di questi aer torbi; -e gli fecion veder come il fedele -popul preda de' lupi era e de' corbi, -di Francia, d'Inghilterra e di Lamagna, -che tutta avea coperta la campagna. -Nel viso s'arrossì l'angel beato, -parendogli che mal fosse ubidito -al Creatore, e si chiamò ingannato -da la Discordia perfida e tradito. -D'accender liti tra i pagani dato -le avea l'assunto, e mal era esequito; -anzi tutto il contrario al suo disegno -parea aver fatto, a chi guardava al segno. -Come servo fedel, che più d'amore -che di memoria abondi, e che s'aveggia -aver messo in oblio cosa ch'a core -quanto la vita e l'anima aver deggia, -studia con fretta d'emendar l'errore, -né vuol che prima il suo signor lo veggia: -così l'angelo a Dio salir non volse, -se de l'obligo prima non si sciolse. -Al monister, dove altre volte avea -la Discordia veduta, drizzò l'ali. -Trovolla ch'in capitulo sedea -a nuova elezion degli ufficiali; -e di veder diletto si prendea, -volar pel capo a' frati i breviali. -Le man le pose l'angelo nel crine, -e pugna e calci le diè senza fine. -Indi le roppe un manico di croce -per la testa, pel dosso e per le braccia. -Mercé grida la misera a gran voce, -e le genocchia al divin nunzio abbraccia. -Michel non l'abandona, che veloce -nel campo del re d'Africa la caccia; -e poi le dice: — Aspettati aver peggio, -se fuor di questo campo più ti veggio. — -Come che la Discordia avesse rotto -tutto il dosso e le braccia, pur temendo -un'altra volta ritrovarsi sotto -a quei gran colpi, a quel furor tremendo, -corre a pigliare i mantici di botto, -ed agli accesi fuochi esca aggiungendo, -ed accendendone altri, fa salire -da molti cori un alto incendio d'ire. -E Rodomonte e Mandricardo e insieme -Ruggier n'infiamma sì, che inanzi al Moro -li fa tutti venire, or che non preme -Carlo i pagani, anzi il vantaggio è loro. -Le differenze narrano, ed il seme -fanno saper, da cui produtte foro; -poi del re si rimettono al parere, -chi di lor prima il campo debba avere. -Marfisa del suo caso anco favella, -e dice che la pugna vuol finire, -che cominciò col Tartaro; perch'ella -provocata da lui vi fu a venire: -né, per dar loco all'altre, volea quella -un'ora, non che un giorno, differire; -ma d'esser prima fa l'instanza grande, -ch'alla battaglia il Tartaro domande. -Non men vuol Rodomonte il primo campo -da terminar col suo rival l'impresa, -che per soccorrer l'africano campo -ha già interrotta, e fin a qui sospesa. -Mette Ruggier le sue parole a campo, -e dice che patir troppo gli pesa -che Rodomonte il suo destrier gli tenga, -e ch'a pugna con lui prima non venga. -Per più intricarla il Tartaro viene anche, -e niega che Ruggiero ad alcun patto -debba l'aquila aver da l'ale bianche; -e d'ira e di furore è così matto, -che vuol, quando dagli altri tre non manche, -combatter tutte le querele a un tratto. -Né più dagli altri ancor saria mancato, -se 'l consenso del re vi fosse stato. -Con prieghi il re Agramante e buon ricordi -fa quanto può, perché la pace segua; -e quando al fin tutti li vede sordi -non volere assentire a pace o a triegua, -va discorrendo come almen gli accordi -sì, che l'un dopo l'altro il campo assegua: -e pel miglior partito al fin gli occorre -ch'ognuno a sorte il campo s'abbia a torre. -Fe' quattro brevi porre: un Mandricardo -e Rodomonte insieme scritto avea; -ne l'altro era Ruggiero e Mandricardo. -Rodomonte e Ruggier l'altro dicea; -dicea l'altro Marfisa e Mandricardo. -Indi all'arbitrio de l'instabil dea -li fece trarre: e 'l primo fu il signore -di Sarza a uscir con Mandricardo fuore. -Mandricardo e Ruggier fu nel secondo; -nel terzo fu Ruggiero e Rodomonte; -restò Marfisa e Mandricardo in fondo, -di che la donna ebbe turbata fronte. -Né Ruggier più di lei parve giocondo: -sa che le forze dei duo primi pronte -han tra lor da finir le liti in guisa, -che non ne fia per sé né per Marfisa. -Giacea non lungi da Parigi un loco, -che volgea un miglio o poco meno intorno: -lo cingea tutto un argine non poco -sublime, a guisa d'un teatro adorno. -Un castel già vi fu, ma a ferro e a fuoco -le mura e i tetti ed a ruina andorno. -Un simil può vederne in su la strada, -qual volta a Borgo il Parmigiano vada. -In questo loco fu la lizza fatta, -di brevi legni d'ogn'intorno chiusa, -per giusto spazio quadra, al bisogno atta, -con due capaci porte, come s'usa. -Giunto il dì ch'al re par che si combatta -tra i cavallier che non ricercan scusa, -furo appresso alle sbarre in ambi i lati -contra i rastrelli i padiglion tirati. -Nel padiglion ch'è più verso ponente -sta il re d'Algier, c'ha membra di gigante. -Gli pon lo scoglio indosso del serpente -l'ardito Ferraù con Sacripante. -Il re Gradasso e Falsiron possente -sono in quell'altro al lato di levante, -e metton di sua man l'arme troiane -indosso al successor del re Agricane. -Sedeva in tribunale amplo e sublime -il re d'Africa, e seco era l'Ispano; -poi Stordilano, e l'altre genti prime -che riveria l'esercito pagano. -Beato a chi pôn dare argini e cime -d'arbori stanza che gli alzi dal piano! -Grande è la calca, e grande in ogni lato -populo ondeggia intorno al gran steccato. -Eran con la regina di Castiglia -regine e principesse e nobil donne -d'Aragon, di Granata e di Siviglia, -e fin di presso all'atlantee colonne: -tra quai di Stordilan sedea la figlia, -che di duo drappi avea le ricche gonne, -l'un d'un rosso mal tinto, e l'altro verde; -ma 'l primo quasi imbianca e il color perde. -In abito succinta era Marfisa, -qual si convenne a donna ed a guerriera. -Termoodonte forse a quella guisa -vide Ippolita ornarsi e la sua schiera. -Già, con la cotta d'arme alla divisa -del re Agramante, in campo venut'era -l'araldo a far divieto e metter leggi, -che né in fatto né in detto alcun parteggi. -La spessa turba aspetta disiando -la pugna, e spesso incolpa il venir tardo -dei duo famosi cavallieri; quando -s'ode dal padiglion di Mandricardo -alto rumor che vien moltiplicando. -Or sappiate, Signor, che 'l re gagliardo -di Sericana e 'l Tartaro possente -fanno il tumulto e 'l grido che si sente. -Avendo armato il re di Sericana -di sua man tutto il re di Tartaria, -per porgli al fianco la spada soprana -che già d'Orlando fu, se ne venìa; -quando nel pome scritto Durindana -vide, e 'l quartier ch'Almonte aver solia, -ch'a quel meschin fu tolto ad una fonte -dal giovenetto Orlando in Aspramonte. -Vedendola, fu certo ch'era quella -tanto famosa del signor d'Anglante, -per cui con grande armata, e la più bella -che giamai si partisse di Levante, -soggiogato avea il regno di Castella, -e Francia vinta esso pochi anni inante: -ma non può imaginarsi come avenga -ch'or Mandricardo in suo poter la tenga. -E dimandògli se per forza o patto -l'avesse tolta al conte, e dove e quando. -E Mandricardo disse ch'avea fatto -gran battaglia per essa con Orlando; -e come finto quel s'era poi matto, -così coprire il suo timor sperando, -ch'era d'aver continua guerra meco, -fin che la buona spada avesse seco. -E dicea ch'imitato avea il castore, -il qual si strappa i genitali sui, -vedendosi alle spalle il cacciatore, -che sa che non ricerca altro da lui. -Gradasso non udì tutto il tenore, -che disse: — Non vo' darla a te né altrui: -tanto oro, tanto affanno e tanta gente -ci ho speso, che è ben mia debitamente. -Cercati pur fornir d'un'altra spada, -ch'io voglio questa, e non ti paia nuovo. -Pazzo o saggio ch'Orlando se ne vada, -averla intendo, ovunque io la ritrovo. -Tu senza testimoni in su la strada -te l'usurpasti: io qui lite ne muovo. -La mia ragion dirà mia scimitarra, -e faremo il giudicio ne la sbarra. -Prima, di guadagnarla t'apparecchia, -che tu l'adopri contra a Rodomonte. -Di comprar prima l'arme è usanza vecchia, -ch'alla battaglia il cavallier s'affronte. — -— Più dolce suon non mi viene all'orecchia -(rispose alzando il Tartaro la fronte), -che quando di battaglia alcun mi tenta; -ma fa che Rodomonte lo consenta. -Fa che sia tua la prima, e che si tolga -il re di Sarza la tenzon seconda: -e non ti dubitar ch'io non mi volga, -e ch'a te ed ad ogni altro io non risponda. — -Ruggier gridò: — Non vo' che si disciolga -il patto, o più la sorte si confonda: -o Rodomonte in campo prima saglia, -o sia la sua dopo la mia battaglia. -Se di Gradasso la ragion prevale, -prima acquistar che porre in opra l'arme; -né tu l'aquila mia da le bianche ale -prima usar déi, che non me ne disarme: -ma poi ch'è stato il mio voler già tale, -di mia sentenza non voglio appellarme, -che sia seconda la battaglia mia, -quando del re d'Algier la prima sia. -Se turbarete voi l'ordine in parte, -io totalmente turbarollo ancora. -Io non intendo il mio scudo lasciarte, -se contra me non lo combatti or ora. — -— Se l'uno e l'altro di voi fosse Marte -(rispose Mandricardo irato allora), -non saria l'un né l'altro atto a vietarme -la buona spada o quelle nobili arme. — -E tratto da la colera, aventosse -col pugno chiuso al re di Sericana; -e la man destra in modo gli percosse, -ch'abandonar gli fece Durindana. -Gradasso, non credendo ch'egli fosse -di così folle audacia e così insana, -colto improviso fu, che stava a bada, -e tolta si trovò la buona spada. -Così scornato, di vergogna e d'ira -nel viso avampa, e par che getti fuoco; -e più l'affligge il caso e lo martira, -poi che gli accade in sì palese loco. -Bramoso di vendetta si ritira, -a trar la scimitarra, a dietro un poco. -Mandricardo in sé tanto si confida, -che Ruggiero anco alla battaglia sfida. -— Venite pure inanzi amenduo insieme, -e vengane pel terzo Rodomonte, -Africa e Spagna e tutto l'uman seme; -ch'io son per sempremai volger la fronte. — -Così dicendo, quel che nulla teme, -mena d'intorno la spada d'Almonte; -lo scudo imbraccia, disdegnoso e fiero, -contra Gradasso e contra il buon Ruggiero. -— Lascia la cura a me (dicea Gradasso), -ch'io guarisca costui de la pazzia. — -— Per Dio (dicea Ruggier), non te la lasso, -ch'esser convien questa battaglia mia. — -— Va indietro tu! — Vavvi pur tu! — né passo -però tornando, gridan tuttavia; -ed attaccossi la battaglia in terzo, -ed era per uscirne un strano scherzo, -se molti non si fossero interposti -a quel furor, non con troppo consiglio; -ch'a spese lor quasi imparar che costi -voler altri salvar con suo periglio. -Né tutto 'l mondo mai gli avria composti, -se non venia col re d'Ispagna il figlio -del famoso Troiano, al cui cospetto -tutti ebbon riverenza e gran rispetto. -Si fe' Agramante la cagione esporre -di questa nuova lite così ardente: -poi molto affaticossi per disporre -che per quella giornata solamente -a Mandricardo la spada d'Ettorre -concedesse Gradasso umanamente, -tanto ch'avesse fin l'aspra contesa -ch'avea già incontra a Rodomonte presa. -Mentre studia placarli il re Agramante, -ed or con questo ed or con quel ragiona; -da l'altro padiglion tra Sacripante -e Rodomonte un'altra lite suona. -Il re circasso (come è detto inante) -stava di Rodomonte alla persona, -ed egli e Ferraù gli aveano indotte -l'arme del suo progenitor Nembrotte. -Ed eran poi venuti ove il destriero -facea, mordendo, il ricco fren spumoso; -io dico il buon Frontin, per cui Ruggiero -stava iracondo e più che mai sdegnoso. -Sacripante ch'a por tal cavalliero -in campo avea, mirava curioso -se ben ferrato e ben guernito e in punto -era il destrier, come doveasi a punto. -E venendo a guardargli più a minuto -i segni, le fattezze isnelle ed atte, -ebbe, fuor d'ogni dubbio, conosciuto -che questo era il destrier suo Frontalatte, -che tanto caro già s'avea tenuto, -per cui già avea mille querele fatte; -e poi che gli fu tolto, un tempo volse -sempre ire a piedi: in modo gliene dolse. -Inanzi Albracca glie l'avea Brunello -tolto di sotto quel medesmo giorno -ch'ad Angelica ancor tolse l'annello, -al conte Orlando Balisarda e 'l corno, -e la spada a Marfisa: ed avea quello, -dopo che fece in Africa ritorno, -con Balisarda insieme a Ruggier dato, -il qual l'avea Frontin poi nominato. -Quando conobbe non si apporre in fallo, -disse il Circasso, al re d'Algier rivolto: -— Sappi, signor, che questo è mio cavallo, -ch'ad Albracca di furto mi fu tolto. -Bene avrei testimoni da provallo; -ma perché son da noi lontani molto, -s'alcun lo niega, io gli vo' sostenere -con l'arme in man le mie parole vere. -Ben son contento, per la compagnia -in questi pochi dì stata fra noi, -che prestato il cavallo oggi ti sia, -ch'io veggo ben che senza far non puoi; -però con patto, se per cosa mia -e prestata da me conoscer vuoi: -altrimente d'averlo non far stima, -o se non lo combatti meco prima. — -Rodomonte, del quale un più orgoglioso -non ebbe mai tutto il mestier de l'arme; -al quale in esser forte e coraggioso -alcuno antico d'uguagliar non parme; -rispose: — Sacripante, ogn'altro ch'oso, -fuor che tu, fosse in tal modo a parlarme, -con suo mal si saria tosto avveduto -che meglio era per lui di nascer muto. -Ma per la compagnia che, come hai detto, -novellamente insieme abbiamo presa, -ti son contento aver tanto rispetto, -ch'io t'ammonisca a tardar questa impresa, -fin che de la battaglia veggi effetto, -che fra il Tartaro e me tosto fia accesa: -dove porti uno esempio inanzi spero, -ch'avrai di grazia a dirmi: Abbi il destriero. — -— Gli è teco cortesia l'esser villano -(disse il Circasso pien d'ira e di isdegno); -ma più chiaro ti dico ora e più piano, -che tu non faccia in quel destrier disegno: -che te lo defendo io, tanto ch'in mano -questa vindice mia spada sostegno; -e metteròvi insino l'ugna e il dente, -se non potrò difenderlo altrimente. — -Venner da le parole alle contese, -ai gridi, alle minacce, alla battaglia, -che per molt'ira in più fretta s'accese, -che s'accendesse mai per fuoco paglia. -Rodomonte ha l'osbergo ed ogni arnese, -Sacripante non ha piastra né maglia; -ma par (sì ben con lo schermir s'adopra) -che tutto con la spada si ricuopra. -Non era la possanza e la fierezza -di Rodomonte, ancor ch'era infinita, -più che la providenza e la destrezza -con che sue forze Sacripante aita. -Non voltò ruota mai con più prestezza -il macigno sovran che 'l grano trita, -che faccia Sacripante or mano or piede -di qua di là, dove il bisogno vede. -Ma Ferraù, ma Serpentino arditi -trasson le spade, e si cacciar tra loro, -dal re Grandonio, da Isolier seguiti, -da molt'altri signor del popul Moro. -Questi erano i romori, i quali uditi -ne l'altro padiglion fur da costoro, -quivi per accordar venuti invano -col Tartaro, Ruggiero e 'l Sericano. -Venne chi la novella al re Agramante -riportò certa, come pel destriero -avea con Rodomonte Sacripante -incominciato un aspro assalto e fiero. -Il re, confuso di discordie tante, -disse a Marsilio: — Abbi tu qui pensiero -che fra questi guerrier non segua peggio, -mentre all'altro disordine io proveggio. — -Rodomonte, che 'l re, suo signor, mira, -frena l'orgoglio, e torna indietro il passo; -né con minor rispetto si ritira -al venir d'Agramante il re circasso. -Quel domanda la causa di tant'ira -con real viso e parlar grave e basso: -e cerca, poi che n'ha compreso il tutto, -porli d'accordo; e non vi fa alcun frutto. -Il re circasso il suo destrier non vuole -ch'al re d'Algier più lungamente resti, -se non s'umilia tanto di parole, -che lo venga a pregar che glie lo presti. -Rodomonte, superbo come suole, -gli risponde: — Né 'l ciel, né tu faresti -che cosa che per forza aver potessi, -da altri, che da me, mai conoscessi. — -Il re chiede al Circasso, che ragione -ha nel cavallo, e come gli fu tolto: -e quel di parte in parte il tutto espone, -ed esponendo s'arrossisce in volto, -quando gli narra che 'l sottil ladrone, -ch'in un alto pensier l'aveva colto, -la sella su quattro aste gli suffolse, -e di sotto il destrier nudo gli tolse. -Marfisa che tra gli altri al grido venne, -tosto che 'l furto del cavallo udì, -in viso si turbò, che le sovenne -che perdé la sua spada ella quel dì: -e quel destrier che parve aver le penne -da lei fuggendo, riconobbe qui: -riconobbe anco il buon re Sacripante, -che non avea riconosciuto inante. -Gli altri ch'erano intorno, e che vantarsi -Brunel di questo aveano udito spesso, -verso lui cominciaro a rivoltarsi, -e far palesi cenni ch'era desso; -Marfisa sospettando, ad informarsi -da questo e da quell'altro ch'avea appresso, -tanto che venne a ritrovar che quello -che le tolse la spada era Brunello: -e seppe che pel furto onde era degno -che gli annodasse il collo un capestro unto, -dal re Agramante al tingitano regno -fu, con esempio inusitato, assunto. -Marfisa, rinfrescando il vecchio sdegno, -disegnò vendicarsene a quel punto, -e punir scherni e scorni che per strada -fatti l'avea sopra la tolta spada. -Dal suo scudier l'elmo allacciar si fece; -che del resto de l'arme era guernita. -Senza osbergo io non trovo che mai diece -volte fosse veduta alla sua vita, -dal giorno ch'a portarlo assuefece -la sua persona, oltre ogni fede ardita. -Con l'elmo in capo andò dove fra i primi -Brunel sedea negli argini sublimi. -Gli diede a prima giunta ella di piglio -in mezzo il petto, e da terra levollo, -come levar suol col falcato artiglio -talvolta la rapace aquila il pollo; -e là dove la lite inanzi al figlio -era del re Troian, così portollo. -Brunel, che giunto in male man si vede, -pianger non cessa e domandar mercede. -Sopra tutti i rumor, strepiti e gridi, -di che 'l campo era pien quasi ugualmente, -Brunel, ch'ora pietade ora sussidi -domandando venìa, così si sente, -ch'al suono de' ramarichi e de' stridi -si fa d'intorno accor tutta la gente. -Giunta inanzi al re d'Africa, Marfisa -con viso altier gli dice in questa guisa: -— Io voglio questo ladro tuo vasallo -con le mie mani impender per la gola, -perché il giorno medesmo che 'l cavallo -a costui tolle, a me la spada invola. -Ma se gli è alcun che voglia dir ch'io fallo, -facciasi inanzi e dica una parola; -ch'in tua presenza gli vo' sostenere -che se ne mente, e ch'io fo il mio dovere. -Ma perché si potria forse imputarme -c'ho atteso a farlo in mezzo a tante liti, -mentre che questi più famosi in arme -d'altre querele son tutti impediti; -tre giorni ad impiccarlo io vo' indugiarme: -intanto o vieni, o manda chi l'aiti; -che dopo, se non fia chi me lo vieti, -farò di lui mille uccellacci lieti. -Di qui presso a tre leghe a quella torre -che siede inanzi ad un piccol boschetto, -senza più compagnia mi vado a porre, -che d'una mia donzella e d'un valletto. -S'alcuno ardisce di venirmi a torre -questo ladron, là venga, ch'io l'aspetto. — -Così disse ella; e dove disse, prese -tosto la via, né più risposta attese. -Sul collo inanzi del destrier si pone -Brunel, che tuttavia tien per le chiome. -Piange il misero e grida, e le persone, -in che sperar solìa, chiama per nome. -Resta Agramante in tal confusione -di questi intrichi, che non vede come -poterli sciorre; e gli par via più greve -che Marfisa Brunel così gli leve. -Non che l'apprezzi o che gli porti amore, -anzi più giorni son che l'odia molto; -e spesso ha d'impiccarlo avuto in core, -dopo che gli era stato l'annel tolto. -Ma questo atto gli par contra il suo onore, -sì che n'avampa di vergogna in volto. -Vuole in persona egli seguirla in fretta, -e a tutto suo poter farne vendetta. -Ma il re Sobrino, il quale era presente, -da questa impresa molto il dissuade, -dicendogli che mal conveniente -era all'altezza di sua maestade, -se ben avesse d'esserne vincente -ferma speranza e certa sicurtade: -più ch'onor, gli fia biasmo, che si dica -ch'abbia vinta una femina a fatica. -Poco l'onore, e molto era il periglio -d'ogni battaglia che con lei pigliasse; -e che gli dava per miglior consiglio, -che Brunello alle forche aver lasciasse; -e se credesse ch'uno alzar di ciglio -a torlo dal capestro gli bastasse, -non dovea alzarlo, per non contradire -che s'abbia la giustizia ad esequire. -— Potrai mandare un che Marfisa prieghi -(dicea) ch'in questo giudice ti faccia, -con promission ch'al ladroncel si leghi -il laccio al collo, e a lei si sodisfaccia; -e quando anco ostinata te lo nieghi, -se l'abbia, e il suo desir tutto compiaccia: -pur che da tua amicizia non si spicchi, -Brunello e gli altri ladri tutti impicchi. — -Il re Agramante volentier s'attenne -al parer di Sobrin discreto e saggio; -e Marfisa lasciò, che non le venne, -né patì ch'altri andasse a farle oltraggio, -né di farla pregare anco sostenne: -e tolerò, Dio sa con che coraggio, -per poter acchetar liti maggiori, -e del suo campo tor tanti romori. -Di ciò si ride la Discordia pazza, -che pace o triegua ormai più teme poco. -Scorre di qua e di là tutta la piazza, -né può trovar per allegrezza loco. -La Superbia con lei salta e gavazza, -e legne ed esca va aggiungendo al fuoco: -e grida sì, che fin ne l'alto regno -manda a Michel de la vittoria segno. -Tremò Parigi e turbidossi Senna -all'alta voce, a quello orribil grido; -rimbombò il suon fin alla selva Ardenna -sì che lasciar tutte le fiere il nido. -Udiron l'Alpi e il monte di Gebenna, -di Blaia e d'Arli e di Roano il lido; -Rodano e Sonna udì, Garonna e il Reno: -si strinsero le madri i figli al seno. -Son cinque cavallier c'han fisso il chiodo -d'essere i primi a terminar sua lite, -l'una ne l'altra aviluppata in modo, -che non l'avrebbe Apolline espedite. -Commincia il re Agramante a sciorre il nodo -de le prime tenzon ch'aveva udite, -che per la figlia del re Stordilano -eran tra il re di Scizia e il suo Africano. -Il re Agramante andò per porre accordo -di qua e di là più volte a questo e a quello, -e a questo e a quel più volte diè ricordo -da signor giusto e da fedel fratello: -e quando parimente trova sordo -l'un come l'altro, indomito e rubello -di volere esser quel che resti senza -la donna da cui vien lor differenza; -s'appiglia al fin, come a miglior partito, -di che amendui si contentar gli amanti, -che de la bella donna sia marito -l'uno de' duo, quel che vuole essa inanti; -e da quanto per lei sia stabilito, -più non si possa andar dietro né avanti. -All'uno e all'altro piace il compromesso, -sperando ch'esser debbia a favor d'esso. -Il re di Sarza, che gran tempo prima -di Mandricardo amava Doralice, -ed ella l'avea posto in su la cima -d'ogni favor ch'a donna casta lice; -che debba in util suo venire estima -la gran sentenza che 'l può far felice: -né egli avea questa credenza solo, -ma con lui tutto il barbaresco stuolo. -Ognun sapea ciò ch'egli avea già fatto -per essa in giostre, in torniamenti, in guerra; -e che stia Mandricardo a questo patto, -dicono tutti che vaneggia ed erra. -Ma quel che più fiate e più di piatto -con lei fu mentre il sol stava sotterra, -e sapea quanto avea di certo in mano, -ridea del popular giudicio vano. -Poi lor convenzion ratificaro -in man del re quei duo prochi famosi, -ed indi alla donzella se n'andaro. -Ed ella abbassò gli occhi vergognosi, -e disse che più il Tartaro avea caro: -di che tutti restar maravigliosi; -Rodomonte sì attonito e smarrito, -che di levar non era il viso ardito. -Ma poi che l'usata ira cacciò quella -vergogna che gli avea la faccia tinta, -ingiusta e falsa la sentenza appella; -e la spada impugnando, ch'egli ha cinta, -dice, udendo il re e gli altri, che vuol ch'ella -gli dia perduta questa causa o vinta, -e non l'arbitrio di femina lieve -che sempre inchina a quel che men far deve. -Di nuovo Mandricardo era risorto, -dicendo: — Vada pur come ti pare: — -sì che prima che 'l legno entrasse in porto, -v'era a solcare un gran spazio di mare: -se non che 'l re Agramante diede torto -a Rodomonte, che non può chiamare -più Mandricardo per quella querela; -e fe' cadere a quel furor la vela. -Or Rodomonte che notar si vede -dinanzi a quei signor di doppio scorno, -dal suo re, a cui per riverenza cede, -e da la donna sua, tutto in un giorno, -quivi non volse più fermare il piede; -e de la molta turba ch'avea intorno -seco non tolse più che duo sergenti, -ed uscì dei moreschi alloggiamenti. -Come, partendo, afflitto tauro suole, -che la giuvenca al vincitor cesso abbia, -cercar le selve e le rive più sole -lungi dai paschi, o qualche arrida sabbia; -dove muggir non cessa all'ombra e al sole, -né però scema l'amorosa rabbia: -così sen va di gran dolor confuso -il re d'Algier da la sua donna escluso. -Per riavere il buon destrier si mosse -Ruggier, che già per questo s'era armato; -ma poi di Mandricardo ricordasse, -a cui de la battaglia era ubligato: -non seguì Rodomonte, e ritornosse -per entrar col re tartaro in steccato -prima che 'ntrasse il re di Sericana, -che l'altra lite avea di Durindana. -Veder torsi Frontin troppo gli pesa -dinanzi agli occhi, e non poter vietarlo; -ma dato ch'abbia fine a questa impresa, -ha ferma intenzion di ricovrarlo. -Ma Sacripante, che non ha contesa, -come Ruggier, che possa distornarlo, -e che non ha da far altro che questo, -per l'orme vien di Rodomonte presto. -E tosto l'avria giunto, se non era -un caso strano che trovò tra via, -che lo fe' dimorar fin alla sera, -e perder le vestigie che seguia. -Trovò una donna che ne la riviera -di Senna era caduta, e vi peria, -s'a darle tosto aiuto non veniva: -saltò ne l'acqua e la ritrasse a riva. -Poi quando in sella volse risalire, -aspettato non fu dal suo destriero, -che fin a sera si fece seguire, -e non si lasciò prender di leggiero: -preselo al fin, ma non seppe venire -più, donde s'era tolto dal sentiero: -ducento miglia errò tra piano e monte, -prima che ritrovasse Rodomonte. -Dove trovollo, e come fu conteso -con disvantaggio assai di Sacripante, -come perdé il cavallo e restò preso, -or non dirò; c'ho da narrarvi inante -di quanto sdegno e di quanta ira acceso -contra la donna e contra il re Agramante -del campo Rodomonte si partisse, -e ciò che contra all'uno e all'altro disse. -Di cocenti sospir l'aria accendea -dovunque andava il Saracin dolente: -Ecco per la pietà che gli n'avea, -da' cavi sassi rispondea sovente. -— Oh feminile ingegno (egli dicea), -come ti volgi e muti facilmente, -contrario oggetto proprio de la fede! -Oh infelice, oh miser chi ti crede! -Né lunga servitù, né grand'amore -che ti fu a mille prove manifesto, -ebbono forza di tenerti il core, -che non fossi a cangiarsi almen sì presto. -Non perch'a Mandricardo inferiore -io ti paressi, di te privo resto; -né so trovar cagione ai casi miei, -se non quest'una, che femina sei. -Credo che t'abbia la Natura e Dio -produtto, o scelerato sesso, al mondo -per una soma, per un grave fio -de l'uom, che senza te saria giocondo: -come ha produtto anco il serpente rio -e il lupo e l'orso, e fa l'aer fecondo -e di mosche e di vespe e di tafani, -e loglio e avena fa nascer tra i grani. -Perché fatto non ha l'alma Natura, -che senza te potesse nascer l'uomo, -come s'inesta per umana cura -l'un sopra l'altro il pero, il corbo e 'l pomo? -Ma quella non può far sempre a misura: -anzi, s'io vo' guardar come io la nomo, -veggo che non può far cosa perfetta, -poi che Natura femina vien detta. -Non siate però tumide e fastose, -donne, per dir che l'uom sia vostro figlio; -che de le spine ancor nascon le rose, -e d'una fetida erba nasce il giglio: -importune, superbe, dispettose, -prive d'amor, di fede e di consiglio, -temerarie, crudeli, inique, ingrate, -per pestilenza eterna al mondo nate. — -Con queste ed altre ed infinite appresso -querele il re di Sarza se ne giva, -or ragionando in un parlar sommesso, -quando in un suon che di lontan s'udiva, -in onta e in biasmo del femineo sesso: -e certo da ragion si dipartiva; -che per una o per due che trovi ree, -che cento buone sien creder si dee. -Se ben di quante io n'abbia fin qui amate, -non n'abbia mai trovata una fedele, -perfide tutte io non vo' dir né ingrate, -ma darne colpa al mio destin crudele. -Molte or ne sono, e più già ne son state, -che non dan causa ad uom che si querele; -ma mia fortuna vuol che s'una ria -ne sia tra cento, io di lei preda sia. -Pur vo' tanto cercar prima ch'io mora, -anzi prima che 'l crin più mi s'imbianchi, -che forse dirò un dì, che per me ancora -alcuna sia che di sua fé non manchi. -Se questo avvien (che di speranza fuora -io non ne son), non fia mai ch'io mi stanchi -di farla, a mia possanza, gloriosa -con lingua e con inchiostro, e in verso e in prosa. -Il Saracin non avea manco sdegno -contra il suo re, che contra la donzella; -e così di ragion passava il segno, -biasmando lui, come biasmando quella. -Ha disio di veder che sopra il regno -gli cada tanto mal, tanta procella, -ch'in Africa ogni casa si funesti, -né pietra salda sopra pietra resti; -e che spinto del regno, in duolo e in lutto -viva Agramante misero e mendico: -e ch'esso sia che poi gli renda il tutto, -e lo riponga nel suo seggio antico, -e de la fede sua produca il frutto; -e gli faccia veder ch'un vero amico -a dritto e a torto esser dovea preposto, -se tutto 'l mondo se gli fosse opposto. -E così quando al re, quando alla donna -volgendo il cor turbato, il Saracino -cavalca a gran giornate, e non assonna, -e poco riposar lascia Frontino. -Il dì seguente o l'altro in su la Sonna -si ritrovò, ch'avea dritto il camino -verso il mar di Provenza, con disegno -di navigare in Africa al suo regno. -Di barche e di sottil legni era tutto -fra l'una ripa e l'altra il fiume pieno, -ch'ad uso de l'esercito condutto -da molti lochi vettovaglie avieno; -perché in poter de' Mori era ridutto, -venendo da Parigi al lito ameno -d'Acquamorta, e voltando invêr la Spagna, -ciò che v'è da man destra di campagna. -Le vettovaglie in carra ed in iumenti, -tolte fuor de le navi, erano carche, -e tratte con la scorta de le genti, -ove venir non si potea con barche. -Avean piene le ripe i grassi armenti -quivi condotti da diverse marche; -e i conduttori intorno alla riviera -per vari tetti albergo avean la sera. -Il re d'Algier, perché gli sopravenne -quivi la notte e l'aer nero e cieco, -d'un ostier paesan lo 'nvito tenne, -che lo pregò che rimanesse seco. -Adagiato il destrier, la mensa venne -di vari cibi e di vin corso e greco; -che 'l Saracin nel resto alla moresca -ma volse far nel bere alla francesca. -L'oste con buona mensa e miglior viso -studiò di fare a Rodomonte onore; -che la presenza gli diè certo aviso -ch'era uomo illustre e pien d'alto valore: -ma quel che da se stesso era diviso, -né quella sera avea ben seco il core -(che mal suo grado s'era ricondotto -alla donna già sua), non facea motto. -Il buon ostier, che fu dei diligenti -che mai si sien per Francia ricordati, -quando tra le nimiche e strane genti -l'albergo e' beni suoi s'avea salvati, -per servir, quivi, alcuni suoi parenti, -a tal servigio pronti, avea chiamati; -de' quai non era alcun di parlar oso, -vedendo il Saracin muto e pensoso. -Di pensiero in pensiero andò vagando -da se stesso lontano il pagan molto, -col viso a terra chino, né levando -sì gli occhi mai, ch'alcun guardasse in volto. -Dopo un lungo star cheto, suspirando, -sì come d'un gran sonno allora sciolto, -tutto si scosse, e insieme alzò le ciglia, -e voltò gli occhi all'oste e alla famiglia. -Indi roppe il silenzio, e con sembianti -più dolci un poco e viso men turbato, -domandò all'oste e agli altri circostanti -se d'essi alcuno avea mogliere a lato. -Che l'oste e che quegli altri tutti quanti -l'aveano, per risposta gli fu dato. -Domanda lor quel che ciascun si crede -de la sua donna nel servargli fede. -Eccetto l'oste, fer tutti risposta, -che si credeano averle e caste e buone. -Disse l'oste: — Ognun pur creda a sua posta; -ch'io so ch'avete falsa opinione. -Il vostro sciocco credere vi costa -ch'io stimi ognun di voi senza ragione; -e così far questo signor deve anco, -se non vi vuol mostrar nero per bianco. -Perché, sì come è sola la fenice, -né mai più d'una in tutto il mondo vive, -così né mai più d'uno esser si dice, -che de la moglie i tradimenti schive. -Ognun si crede d'esser quel felice, -d'esser quel sol ch'a questa palma arrive. -Come è possibil che v'arrivi ognuno, -se non ne può nel mondo esser più d'uno? -Io fui già ne l'error che siete voi, -che donna casta anco più d'una fusse. -Un gentilomo di Vinegia poi, -che qui mia buona sorte già condusse, -seppe far sì con veri esempi suoi, -che fuor de l'ignoranza mi ridusse. -Gian Francesco Valerio era nomato; -che 'l nome suo non mi s'è mai scordato. -Le fraudi che le mogli e che l'amiche -sogliano usar, sapea tutte per conto: -e sopra ciò moderne istorie e antiche, -e proprie esperienze avea sì in pronto, -che mi mostrò che mai donne pudiche -non si trovaro, o povere o di conto; -e s'una casta più de l'altra parse, -venìa, perché più accorta era a celarse. -E fra l'altre (che tante me ne disse, -che non ne posso il terzo ricordarmi), -sì nel capo una istoria mi si scrisse, -che non si scrisse mai più saldo in marmi: -e ben parria a ciascuno che l'udisse, -di queste rie quel ch'a me parve e parmi. -E se, signor, a voi non spiace udire, -a lor confusion ve la vo' dire. — -Rispose il Saracin: — Che puoi tu farmi, -che più al presente mi diletti e piaccia, -che dirmi istoria e qualche esempio darmi -che con l'opinion mia si confaccia? -Perch'io possa udir meglio, e tu narrarmi, -siedemi incontra, ch'io ti vegga in faccia. — -Ma nel canto che segue io v'ho da dire -quel che fe' l'oste a Rodomonte udire. Donne, e voi che le donne avete in pregio, -per Dio, non date a questa istoria orecchia, -a questa che l'ostier dire in dispregio -e in vostra infamia e biasmo s'apparecchia; -ben che né macchia vi può dar né fregio -lingua sì vile, e sia l'usanza vecchia -che 'l volgare ignorante ognun riprenda, -e parli più di quel che meno intenda. -Lasciate questo canto, che senza esso -può star l'istoria, e non sarà men chiara. -Mettendolo Turpino, anch'io l'ho messo, -non per malivolenza né per gara. -Ch'io v'ami, oltre mia lingua che l'ha espresso, -che mai non fu di celebrarvi avara, -n'ho fatto mille prove; e v'ho dimostro -ch'io son, né potrei esser se non vostro. -Passi, chi vuol, tre carte o quattro, senza -leggerne verso, e chi pur legger vuole, -gli dia quella medesima credenza -che si suol dare a finzioni e a fole. -Ma tornando al dir nostro, poi ch'udienza -apparecchiata vide a sue parole, -e darsi luogo incontra al cavalliero, -così l'istoria incominciò l'ostiero. -— Astolfo, re de' Longobardi, quello -a cui lasciò il fratel monaco il regno, -fu ne la giovinezza sua sì bello, -che mai poch'altri giunsero a quel segno. -N'avria a fatica un tal fatto a penello -Apelle, o Zeusi, o se v'è alcun più degno. -Bello era, ed a ciascun così parea: -ma di molto egli ancor più si tenea. -Non stimava egli tanto per l'altezza -del grado suo, d'avere ognun minore; -né tanto, che di genti e di ricchezza, -di tutti i re vicini era il maggiore; -quanto che di presenza e di bellezza -avea per tutto 'l mondo il primo onore. -Godea di questo, udendosi dar loda, -quanto di cosa volentier più s'oda. -Tra gli altri di sua corte avea assai grato -Fausto Latini, un cavallier romano: -con cui sovente essendosi lodato -or del bel viso or de la bella mano, -ed avendolo un giorno domandato -se mai veduto avea, presso o lontano, -altro uom di forma così ben composto; -contra quel che credea, gli fu risposto. -— Dico (rispose Fausto) che secondo -ch'io veggo e che parlarne odo a ciascuno, -ne la bellezza hai pochi pari al mondo; -e questi pochi io li restringo in uno. -Quest'uno è un fratel mio, detto Iocondo. -Eccetto lui, ben crederò ch'ognuno -di beltà molto a dietro tu ti lassi; -ma questo sol credo t'adegui e passi. — -Al re parve impossibil cosa udire, -che sua la palma infin allora tenne; -e d'aver conoscenza alto desire -di sì lodato giovene gli venne. -Fe' sì con Fausto, che di far venire -quivi il fratel prometter gli convenne; -ben ch'a poterlo indur che ci venisse, -saria fatica, e la cagion gli disse: -che 'l suo fratello era uom che mosso il piede -mai non avea di Roma alla sua vita, -che del ben che Fortuna gli concede, -tranquilla e senza affanni avea notrita: -la roba di che 'l padre il lasciò erede, -né mai cresciuta avea né minuita; -e che parrebbe a lui Pavia lontana -più che non parria a un altro ire alla Tana. -E la difficultà saria maggiore -a poterlo spiccar da la mogliere, -con cui legato era di tanto amore, -che non volendo lei, non può volere. -Pur per ubbidir lui che gli è signore, -disse d'andare e fare oltre il potere. -Giunse il re a' prieghi tali offerte e doni, -che di negar non gli lasciò ragioni. -Partisse, e in pochi giorni ritrovosse -dentro di Roma alle paterne case. -Quivi tanto pregò, che 'l fratel mosse -sì ch'a venire al re gli persuase; -e fece ancor (ben che difficil fosse) -che la cognata tacita rimase, -proponendole il ben che n'usciria, -oltre ch'obligo sempre egli l'avria. -Fisse Iocondo alla partita il giorno: -trovò cavalli e servitori intanto; -vesti fe' far per comparire adorno, -che talor cresce una beltà un bel manto. -La notte a lato, e 'l dì la moglie intorno, -con gli occhi ad or ad or pregni di pianto, -gli dice che non sa come patire -potrà tal lontananza e non morire; -che pensandovi sol, da la radice -sveller si sente il cor nel lato manco. -— Deh, vita mia, non piagnere (le dice -Iocondo, e seco piagne egli non manco); -così mi sia questo camin felice, -come tornar vo' fra duo mesi almanco: -né mi faria passar d'un giorno il segno, -se mi donasse il re mezzo il suo regno. — -Né la donna perciò si riconforta: -dice che troppo termine si piglia; -e s'al ritorno non la trova morta, -esser non può se non gran maraviglia. -Non lascia il duol che giorni e notte porta, -che gustar cibo, e chiuder possa ciglia; -tal che per la pietà Iocondo spesso -si pente ch'al fratello abbia promesso. -Dal collo un suo monile ella si sciolse, -ch'una crocetta avea ricca di gemme, -e di sante reliquie che raccolse -in molti luoghi un peregrin boemme; -ed il padre di lei, ch'in casa il tolse -tornando infermo, di Ierusalemme, -venendo a morte poi ne lasciò erede: -questa levossi ed al marito diede. -E che la porti per suo amore al collo -lo prega, sì che ognor gli ne sovenga. -Piacque il dono al marito, ed accettollo; -non perché dar ricordo gli convenga: -che né tempo né assenza mai dar crollo, -né buona o ria fortuna che gli avenga, -potrà a quella memoria salda e forte -c'ha di lei sempre, e avrà dopo la morte. -La notte ch'andò inanzi a quella aurora -che fu il termine estremo alla partenza, -al suo Iocondo par ch'in braccio muora -la moglie, che n'ha tosto da star senza. -Mai non si dorme; e inanzi al giorno un'ora -viene il marito all'ultima licenza. -Montò a cavallo e si partì in effetto; -e la moglier si ricorcò nel letto. -Iocondo ancor duo miglia ito non era, -che gli venne la croce raccordata, -ch'avea sotto il guancial messo la sera, -poi per oblivion l'avea lasciata. -— Lasso! (dicea tra sé) di che maniera -troverò scusa che mi sia accettata, -che mia moglie non creda che gradito -poco da me sia l'amor suo infinito? — -Pensa la scusa, e poi gli cade in mente -che non sarà accettabile né buona, -mandi famigli, mandivi altra gente, -s'egli medesmo non vi va in persona. -Si ferma, e al fratel dice: — Or pianamente -fin a Baccano al primo albergo sprona; -che dentro a Roma è forza ch'io rivada: -e credo anco di giugnerti per strada. -Non potria fare altri il bisogno mio: -né dubitar, ch'io sarò tosto teco. — -voltò il ronzin di trotto, e disse a Dio; -né de' famigli suoi volse alcun seco. -Già cominciava, quando passò il rio, -dinanzi al sole a fuggir l'aer cieco. -Smonta in casa, va al letto, e la consorte -quivi ritrova addormentata forte. -La cortina levò senza far motto, -e vide quel che men veder credea: -che la sua casta e fedel moglie, sotto -la coltre, in braccio a un giovene giacea. -Riconobbe l'adultero di botto, -per la pratica lunga che n'avea; -ch'era de la famiglia sua un garzone, -allevato da lui, d'umil nazione. -S'attonito restasse e malcontento, -meglio è pensarlo e farne fede altrui, -ch'esserne mai per far l'esperimento -che con suo gran dolor ne fe' costui. -Da lo sdegno assalito, ebbe talento -di trar la spada e uccidergli ambedui: -ma da l'amor che porta, al suo dispetto, -all'ingrata moglier, gli fu interdetto. -Né lo lasciò questo ribaldo Amore -(vedi se sì l'avea fatto vasallo) -destarla pur, per non le dar dolore -che fosse da lui colta in sì gran fallo. -Quanto poté più tacito uscì fuore, -scese le scale, e rimontò a cavallo; -e punto egli d'amor, così lo punse, -ch'all'albergo non fu, che 'l fratel giunse. -Cambiato a tutti parve esser nel volto; -vider tutti che 'l cor non avea lieto: -ma non v'è chi s'apponga già di molto, -e possa penetrar nel suo secreto. -Credeano che da lor si fosse tolto -per gire a Roma, e gito era a Corneto. -Ch'amor sia del mal causa ognun s'avisa; -ma non è già chi dir sappia in che guisa. -Estimasi il fratel, che dolor abbia -d'aver la moglie sua sola lasciata; -e pel contrario duolsi egli ed arrabbia -che rimasa era troppo accompagnata. -Con fronte crespa e con gonfiate labbia -sta l'infelice, e sol la terra guata. -Fausto ch'a confortarlo usa ogni prova, -perché non sa la causa, poco giova. -Di contrario liquor la piaga gli unge, -e dove tor dovria, gli accresce doglie; -dove dovria saldar, più l'apre e punge: -questo gli fa col ricordar la moglie. -Né posa dì né notte: il sonno lunge -fugge col gusto, e mai non si raccoglie: -e la faccia, che dianzi era sì bella, -si cangia sì, che più non sembra quella. -Par che gli occhi se ascondin ne la testa; -cresciuto il naso par nel viso scarno: -de la beltà sì poca gli ne resta, -che ne potrà far paragone indarno. -Col duol venne una febbre sì molesta, -che lo fe' soggiornar all'Arbia e all'Arno: -e se di bello avea serbata cosa, -tosto restò come al sol colta rosa. -Oltre ch'a Fausto incresca del fratello -che veggia a simil termine condutto, -via più gl'incresce che bugiardo a quello -principe, a chi lodollo, parrà in tutto: -mostrar di tutti gli uomini il più bello -gli avea promesso, e mostrerà il più brutto. -Ma pur continuando la sua via, -seco lo trasse al fin dentro a Pavia. -Già non vuol che lo vegga il re improviso, -per non mostrarsi di giudicio privo: -ma per lettere inanzi gli dà aviso -che 'l suo fratel ne viene a pena vivo; -e ch'era stato all'aria del bel viso -un affanno di cor tanto nocivo, -accompagnato da una febbre ria, -che più non parea quel ch'esser solia. -Grata ebbe la venuta di Iocondo -quanto potesse il re d'amico avere; -che non avea desiderato al mondo -cosa altretanto, che di lui vedere. -Né gli spiace vederselo secondo, -e di bellezza dietro rimanere; -ben che conosca, se non fosse il male, -che gli saria superiore o uguale. -Giunto, lo fa alloggiar nel suo palagio, -lo visita ogni giorno, ogni ora n'ode; -fa gran provision che stia con agio, -e d'onorarlo assai si studia e gode. -Langue Iocondo, che 'l pensier malvagio -c'ha de la ria moglier, sempre lo rode: -né 'l veder giochi, né musici udire, -dramma del suo dolor può minuire. -Le stanze sue, che sono appresso al tetto -l'ultime, inanzi hanno una sala antica. -Quivi solingo (perché ogni diletto, -perch'ogni compagnia prova nimica) -si ritraea, sempre aggiungendo al petto -di più gravi pensier nuova fatica: -e trovò quivi (or chi lo crederia?) -chi lo sanò de la sua piaga ria. -In capo de la sala, ove è più scuro -(che non vi s'usa le finestre aprire,) -vede che 'l palco mal si giunge al muro, -e fa d'aria più chiara un raggio uscire. -Pon l'occhio quindi, e vede quel che duro -a creder fôra a chi l'udisse dire: -non l'ode egli d'altrui, ma se lo vede; -ed anco agli occhi suoi propri non crede. -Quindi scopria de la regina tutta -la più secreta stanza e la più bella, -ove persona non verria introdutta, -se per molto fedel non l'avesse ella. -Quindi mirando vide in strana lutta -ch'un nano aviticchiato era con quella: -ed era quel piccin stato sì dotto, -che la regina avea messa di sotto. -Attonito Iocondo e stupefatto, -e credendo sognarsi, un pezzo stette; -e quando vide pur che gli era in fatto -e non in sogno, a se stesso credette. -— A uno sgrignuto mostro e contrafatto -dunque (disse) costei si sottomette, -che 'l maggior re del mondo ha per marito, -più bello e più cortese? oh che appetito! — -E de la moglie sua, che così spesso -più d'ogn'altra biasmava, ricordosse, -perché 'l ragazzo s'avea tolto appresso: -ed or gli parve che escusabil fosse. -Non era colpa sua più che del sesso, -che d'un solo uomo mai non contentosse: -e s'han tutte una macchia d'uno inchiostro, -almen la sua non s'avea tolto un mostro. -Il dì seguente, alla medesima ora, -al medesimo loco fa ritorno; -e la regina e il nano vede ancora, -che fanno al re pur il medesmo scorno. -Trova l'altro dì ancor che si lavora, -e l'altro; e al fin non si fa festa giorno: -e la regina (che gli par più strano) -sempre si duol che poco l'ami il nano. -Stette fra gli altri un giorno a veder, ch'ella -era turbata e in gran malenconia, -che due volte chiamar per la donzella -il nano fatto avea, n'ancor venìa. -Mandò la terza volta, ed udì quella, -che: — Madonna, egli giuoca (riferia); -e per non stare in perdita d'un soldo, -a voi niega venire il manigoldo. — -A sì strano spettacolo Iocondo -raserena la fronte e gli occhi e il viso; -e quale in nome, diventò giocondo -d'effetto ancora, e tornò il pianto in riso. -Allegro torna e grasso e rubicondo, -che sembra un cherubin del paradiso; -che 'l re, il fratello e tutta la famiglia -di tal mutazion si maraviglia. -Se da Iocondo il re bramava udire -onde venisse il subito conforto, -non men Iocondo lo bramava dire, -e fare il re di tanta ingiuria accorto; -ma non vorria che, più di sé, punire -volesse il re la moglie di quel torto; -sì che per dirlo e non far danno a lei, -il re fece giurar su l'agnusdei. -Giurar lo fe' che né per cosa detta, -né che gli sia mostrata che gli spiaccia, -ancor ch'egli conosca che diretta— -mente a sua Maestà danno si faccia, -tardi o per tempo mai farà vendetta; -e di più vuole ancor che se ne taccia, -sì che né il malfattor giamai comprenda -in fatto o in detto, che 'l re il caso intenda. -Il re, ch'ogn'altra cosa, se non questa, -creder potria, gli giurò largamente. -Iocondo la cagion gli manifesta, -ond'era molti dì stato dolente: -perché trovata avea la disonesta -sua moglie in braccio d'un suo vil sergente; -e che tal pena al fin l'avrebbe morto, -se tardato a venir fosse il conforto. -Ma in casa di sua Altezza avea veduto -cosa che molto gli scemava il duolo; -che se bene in obbrobrio era caduto, -era almen certo di non v'esser solo. -Così dicendo, e al bucolin venuto, -gli dimostrò il bruttissimo omiciuolo -che la giumenta altrui sotto si tiene, -tocca di sproni e fa giuocar di schene. -Se parve al re vituperoso l'atto, -lo crederete ben, senza ch'io 'l giuri. -Ne fu per arrabbiar, per venir matto; -ne fu per dar del capo in tutti i muri; -fu per gridar, fu per non stare al patto: -ma forza è che la bocca al fin si turi, -e che l'ira trangugi amara ed acra, -poi che giurato avea su l'ostia sacra. -— Che debbo far, che mi consigli, frate, -(disse a Iocondo), poi che tu mi tolli -che con degna vendetta e crudeltate -questa giustissima ira io non satolli? — -— Lasciàn (disse Iocondo) queste ingrate, -e proviam se son l'altre così molli: -facciàn de le lor femine ad altrui -quel ch'altri de le nostre han fatto a nui. -Ambi gioveni siamo, e di bellezza, -che facilmente non troviamo pari. -Qual femina sarà che n'usi asprezza, -se contra i brutti ancor non han ripari? -Se beltà non varrà né giovinezza, -varranne almen l'aver con noi danari. -Non vo' che torni, che non abbi prima -di mille moglie altrui la spoglia opima. -La lunga assenza, il veder vari luoghi, -praticare altre femine di fuore, -par che sovente disacerbi e sfoghi -de l'amorose passioni il core. — -Lauda il parer, né vuol che si proròghi -il re l'andata; e fra pochissime ore, -con due scudieri, oltre alla compagnia -del cavallier roman, si mette in via. -Travestiti cercaro Italia, Francia, -le terre de' Fiaminghi e de l'Inglesi; -e quante ne vedean di bella guancia, -trovavan tutte ai prieghi lor cortesi. -Davano, e dato loro era la mancia; -e spesso rimetteano i danar spesi. -Da loro pregate foro molte, e foro -anch'altretante che pregaron loro. -In questa terra un mese, in quella dui -soggiornando, accertarsi a vera prova -che non men ne le lor, che ne l'altrui -femine, fede e castità si trova. -Dopo alcun tempo increbbe ad ambedui -di sempre procacciar di cosa nuova; -che mal poteano entrar ne l'altrui porte, -senza mettersi a rischio de la morte. -Gli è meglio una trovarne che di faccia -e di costumi ad ambi grata sia; -che lor communemente sodisfaccia, -e non n'abbin d'aver mai gelosia. -— E perché (dicea il re) vo' che mi spiaccia -aver più te ch'un altro in compagnia? -So ben ch'in tutto il gran femineo stuolo -una non è che stia contenta a un solo. -Una, senza sforzar nostro potere, -ma quando il natural bisogno inviti, -in festa goderemoci e in piacere, -che mai contese non avren né liti. -Né credo che si debba ella dolere: -che s'anco ogn'altra avesse duo mariti, -più ch'ad un solo, a duo saria fedele; -né forse s'udirian tante querele. — -Di quel che disse il re, molto contento -rimaner parve il giovine romano. -Dunque fermati in tal proponimento, -cercar molte montagne e molto piano: -trovaro al fin, secondo il loro intento, -una figliuola d'uno ostiero ispano, -che tenea albergo al porto di Valenza, -bella di modi e bella di presenza. -Era ancor sul fiorir di primavera -sua tenerella e quasi acerba etade. -Di molti figli il padre aggravat'era, -e nimico mortal di povertade; -sì ch'a disporlo fu cosa leggiera, -che desse lor la figlia in potestade; -ch'ove piacesse lor potesson trarla, -poi che promesso avean di ben trattarla. -Pigliano la fanciulla, e piacer n'hanno -or l'un or l'altro in caritade e in pace, -come a vicenda i mantici che danno, -or l'uno or l'altro, fiato alla fornace. -Per veder tutta Spagna indi ne vanno, -e passar poi nel regno di Siface; -e 'l dì che da Valenza si partiro, -ad albergare a Zattiva veniro. -I patroni a veder strade e palazzi -ne vanno, e lochi publici e divini; -ch'usanza han di pigliar simil solazzi -in ogni terra ove entran peregrini; -e la fanciulla resta coi ragazzi. -Altri i letti, altri acconciano i ronzini, -altri hanno cura che sia alla tornata -dei signor lor la cena apparecchiata. -Ne l'albergo un garzon stava per fante, -ch'in casa de la giovene già stette -a' servigi del padre, e d'essa amante -fu da' primi anni, e del suo amor godette. -Ben s'adocchiar, ma non ne fer sembiante, -ch'esser notato ognun di lor temette: -ma tosto ch'i patroni e la famiglia -lor dieron luogo, alzar tra lor le ciglia. -Il fante domandò dove ella gisse, -e qual dei duo signor l'avesse seco. -A punto la Fiammetta il fatto disse -(così avea nome, e quel garzone il Greco). -— Quando sperai che 'l tempo ohimè! venisse -(il Greco le dicea) di viver teco, -Fiammetta, anima mia, tu te ne vai, -e non so più di rivederti mai. -Fannosi i dolci miei disegni amari, -poi che sei d'altri, e tanto mi ti scosti. -Io disegnava, avendo alcun' danari -con gran fatica e gran sudor riposti, -ch'avanzato m'avea de' miei salari -e de le bene andate di molti osti, -di tornare a Valenza, e domandarti -al padre tuo per moglie, e di sposarti. — -La fanciulla negli omeri si stringe, -e risponde che fu tardo a venire. -Piange il Greco e sospira, e parte finge: -— Vuommi (dice) lasciar così morire? -Con le tuo braccia i fianchi almen mi cinge, -lasciami disfogar tanto desire: -ch'inanzi che tu parta, ogni momento -che teco io stia mi fa morir contento. — -La pietosa fanciulla rispondendo: -— Credi (dicea) che men di te nol bramo; -ma né luogo né tempo ci comprendo -qui, dove in mezzo di tanti occhi siamo. — -Il Greco soggiungea: — Certo mi rendo, -che s'un terzo ami me di quel ch'io t'amo, -in questa notte almen troverai loco -che ci potren godere insieme un poco. — -— Come potrò (diceagli la fanciulla), -che sempre in mezzo a duo la notte giaccio? -e meco or l'uno or l'altro si trastulla, -e sempre a l'un di lor mi trovo in braccio? — -— Questo ti fia (suggiunse il Greco) nulla; -che ben ti saprai tor di questo impaccio, -e uscir di mezzo lor, pur che tu voglia: -e déi voler, quando di me ti doglia. — -Pensa ella alquanto, e poi dice che vegna -quando creder potrà ch'ognuno dorma; -e pianamente come far convegna, -e de l'andare e del tornar l'informa. -Il Greco, sì come ella gli disegna, -quando sente dormir tutta la torma, -viene all'uscio e lo spinge, e quel gli cede: -entra pian piano, e va a tenton col piede. -Fa lunghi i passi, e sempre in quel di dietro -tutto si ferma, e l'altro par che muova -a guisa che di dar tema nel vetro, -non che 'l terreno abbia a calcar, ma l'uova; -e tien la mano inanzi simil metro, -va brancolando infin che 'l letto trova: -e di là dove gli altri avean le piante, -tacito si cacciò col capo inante. -Fra l'una e l'altra gamba di Fiammetta, -che supina giacea, diritto venne; -e quando le fu a par, l'abbracciò stretta, -e sopra lei sin presso al dì si tenne. -Cavalcò forte, e non andò a staffetta; -che mai bestia mutar non gli convenne: -che questa pare a lui che sì ben trotte, -che scender non ne vuol per tutta notte. -Avea Iocondo ed avea il re sentito -il calpestio che sempre il letto scosse; -e l'uno e l'altro, d'uno error schernito, -s'avea creduto che 'l compagno fosse. -Poi ch'ebbe il Greco il suo camin fornito, -sì come era venuto, anco tornosse. -Saettò il sol da l'orizzonte i raggi; -sorse Fiammetta, e fece entrare i paggi. -Il re disse al compagno motteggiando: -— Frate, molto camin fatto aver déi; -e tempo è ben che ti riposi, quando -stato a cavallo tutta notte sei. — -Iocondo a lui rispose di rimando, -e disse: — Tu di' quel ch'io a dire avrei. -A te tocca posare, e pro ti faccia, -che tutta notte hai cavalcato a caccia. — -— Anch'io (suggiunse il re) senza alcun fallo -lasciato avria il mio can correre un tratto, -se m'avessi prestato un po' il cavallo, -tanto che 'l mio bisogno avessi fatto. — -Iocondo replicò: — Son tuo vasallo, -e puoi far meco e rompere ogni patto: -sì che non convenia tal cenni usare; -ben mi potevi dir: lasciala stare. — -Tanto replica l'un, tanto soggiunge -l'altro, che sono a grave lite insieme. -Vengon da' motti ad un parlar che punge, -ch'ad amenduo l'esser beffato preme. -Chiaman Fiammetta (che non era lunge, -e de la fraude esser scoperta teme) -per fare in viso l'uno all'altro dire -quel che negando ambi parean mentire. -— Dimmi (le disse il re con fiero sguardo), -e non temer di me né di costui; -chi tutta notte fu quel sì gagliardo, -che ti godé senza far parte altrui? — -Credendo l'un provar l'altro bugiardo, -la risposta aspettavano ambedui. -Fiammetta a' piedi lor si gittò, incerta -di viver più, vedendosi scoperta. -Domandò lor perdono, che d'amore -ch'a un giovinetto avea portato, spinta, -e da pietà d'un tormentato core -che molto avea per lei patito, vinta, -caduta era la notte in quello errore; -e seguitò, senza dir cosa finta, -come tra lor con speme si condusse, -ch'ambi credesson che 'l compagno fusse. -Il re e Iocondo si guardaro in viso, -di maraviglia e di stupor confusi; -né d'aver anco udito lor fu aviso, -ch'altri duo fusson mai così delusi. -Poi scoppiaro ugualmente in tanto riso, -che con la bocca aperta e gli occhi chiusi, -potendo a pena il fiato aver del petto, -a dietro si lasciar cader sul letto. -Poi ch'ebbon tanto riso, che dolere -se ne sentiano il petto, e pianger gli occhi, -disson tra lor: — Come potremo avere -guardia, che la moglier non ne l'accocchi, -se non giova tra duo questa tenere, -e stretta sì, che l'uno e l'altro tocchi? -Se più che crini avesse occhi il marito, -non potria far che non fosse tradito. -Provate mille abbiamo, e tutte belle; -né di tante una è ancor che ne contraste. -Se provian l'altre, fian simili anch'elle; -ma per ultima prova costei baste. -Dunque possiamo creder che più felle -non sien le nostre, o men de l'altre caste: -e se son come tutte l'altre sono, -che torniamo a godercile fia buono. — -Conchiuso ch'ebbon questo, chiamar fero -per Fiammetta medesima il suo amante; -e in presenza di molti gli la diero -per moglie, e dote gli fu bastante. -Poi montaro a cavallo, e il lor sentiero -ch'era a ponente, volsero a levante; -ed alle mogli lor se ne tornaro, -di ch'affanno mai più non si pigliaro. — -L'ostier qui fine alla sua istoria pose, -che fu con molta attenzione udita. -Udilla il Saracin, né gli rispose -parola mai, fin che non fu finita. -Poi disse: — Io credo ben che de l'ascose -feminil frode sia copia infinita; -né si potria de la millesma parte -tener memoria con tutte le carte. — -Quivi era un uom d'età, ch'avea più retta -opinion degli altri, e ingegno e ardire; -e non potendo ormai, che sì negletta -ogni femina fosse, più patire, -si volse a quel ch'avea l'istoria detta, -e gli disse: — Assai cose udimo dire, -che veritade in sé non hanno alcuna: -e ben di queste è la tua favola una. -A chi te la narrò non do credenza, -s'evangelista ben fosse nel resto; -ch'opinione, più ch'esperienza -ch'abbia di donne, lo facea dir questo. -L'avere ad una o due malivolenza, -fa ch'odia e biasma l'altre oltre all'onesto; -ma se gli passa l'ira, io vo' tu l'oda, -più ch'ora biasmo, anco dar lor gran loda. -E se vorrà lodarne, avrà maggiore -il campo assai, ch'a dirne mal non ebbe: -di cento potrà dir degne d'onore -verso una trista che biasmar si debbe. -Non biasmar tutte, ma serbarne fuore -la bontà d'infinite si dovrebbe; -e se 'l Valerio tuo disse altrimente, -disse per ira, e non per quel che sente. -Ditemi un poco: è di voi forse alcuno -ch'abbia servato alla sua moglie fede? -che nieghi andar, quando gli sia oportuno, -all'altrui donna, e darle ancor mercede? -credete in tutto 'l mondo trovarne uno? -chi 'l dice, mente; e folle è ben chi 'l crede. -Trovatene vo' alcuna che vi chiami? -(non parlo de le publiche ed infami). -Conoscete alcun voi, che non lasciasse -la moglie sola, ancor che fosse bella, -per seguire altra donna, se sperasse -in breve e facilmente ottener quella? -Che farebbe egli, quando lo pregasse -o desse premio a lui donna o donzella? -Credo, per compiacere or queste or quelle, -che tutti lasciaremmovi la pelle. -Quelle che i lor mariti hanno lasciati, -le più volte cagione avuta n'hanno. -Del suo di casa, li veggon svogliati, -e che fuor, de l'altrui bramosi, vanno. -Dovriano amar, volendo essere amati, -e tor con la misura ch'a lor danno. -Io farei (se a me stesse il darla e torre) -tal legge, ch'uom non vi potrebbe opporre. -Saria la legge, ch'ogni donna colta -in adulterio, fosse messa a morte, -se provar non potesse ch'una volta -avesse adulterato il suo consorte: -se provar lo potesse, andrebbe asciolta, -né temeria il marito né la corte. -Cristo ha lasciato nei precetti suoi: -non far altrui quel che patir non vuoi. -La incontinenza è quanto mal si puote -imputar lor, non già a tutto lo stuolo. -Ma in questo chi ha di noi più brutte note? -che continente non si trova un solo. -E molto più n'ha ad arrossir le gote, -quando bestemmia, ladroneccio, dolo, -usura ed omicidio, e se v'è peggio, -raro, se non dagli uomini, far veggio. — -Appresso alle ragioni avea il sincero -e giusto vecchio in pronto alcuno esempio -di donne, che né in fatto né in pensiero -mai di lor castità patiron scempio. -Ma il Saracin, che fuggia udire il vero, -lo minacciò con viso crudo ed empio, -sì che lo fece per timor tacere; -ma già non lo mutò di suo parere. -Posto ch'ebbe alle liti e alle contese -termine il re pagan, lasciò la mensa; -indi nel letto per dormir si stese -fin al partir de l'aria scura e densa: -ma de la notte, a sospirar l'offese -più de la donna ch'a dormir, dispensa. -Quindi parte all'uscir del nuovo raggio, -e far disegna in nave il suo viaggio. -Però ch'avendo tutto quel rispetto -ch'a buon cavallo dee buon cavalliero, -a quel suo bello e buono, ch'a dispetto -tenea di Sacripante e di Ruggiero; -vedendo per duo giorni averlo stretto -più che non si dovria sì buon destriero, -lo pon, per riposarlo, e lo rassetta -in una barca, e per andar più in fretta. -Senza indugio al nocchier varar la barca, -e dar fa i remi all'acqua da la sponda. -Quella, non molto grande e poco carca, -se ne va per la Sonna giù a seconda. -Non fugge il suo pensier né se ne scarca -Rodomonte per terra né per onda: -lo trova in su la proda e in su la poppa; -e se cavalca, il porta dietro in groppa. -Anzi nel capo, o sia nel cor gli siede, -e di fuor caccia ogni conforto e serra. -Di ripararsi il misero non vede, -da poi che gli nimici ha ne la terra. -Non sa da chi sperar possa mercede, -se gli fanno i domestici suoi guerra: -la notte e 'l giorno e sempre è combattuto -da quel crudel che dovria dargli aiuto. -Naviga il giorno e la notte seguente -Rodomonte col cor d'affanni grave; -e non si può l'ingiuria tor di mente, -che da la donna e dal suo re avuto have; -e la pena e il dolor medesmo sente, -che sentiva a cavallo, ancora in nave: -né spegner può, per star ne l'acqua, il fuoco, -né può stato mutar, per mutar loco. -Come l'infermo, che dirotto e stanco -di febbre ardente, va cangiando lato; -o sia su l'uno o sia su l'altro fianco -spera aver, se si volge, miglior stato; -né sul destro riposa né sul manco, -e per tutto ugualmente è travagliato: -così il pagano al male ond'era infermo -mal trova in terra e male in acqua schermo. -Non puote in nave aver più pazienza, -e si fa porre in terra Rodomonte. -Lion passa e Vienna, indi Valenza -e vede in Avignone il ricco ponte; -che queste terre ed altre ubidienza, -che son tra il fiume e 'l celtibero monte, -rendean al re Agramante e al re di Spagna -dal dì che fur signor de la campagna. -Verso Acquamorta a man dritta si tenne -con animo in Algier passare in fretta; -e sopra un fiume ad una villa venne -e da Bacco e da Cerere diletta, -che per le spesse ingiurie, che sostenne -dai soldati, a votarsi fu costretta. -Quinci il gran mare, e quindi ne l'apriche -valli vede ondeggiar le bionde spiche. -Quivi ritrova una piccola chiesa -di nuovo sopra un monticel murata, -che poi ch'intorno era la guerra accesa, -i sacerdoti vota avean lasciata. -Per stanza fu da Rodomonte presa; -che pel sito, e perch'era sequestrata -dai campi, onde avea in odio udir novella, -gli piacque sì, che mutò Algieri in quella. -Mutò d'andare in Africa pensiero, -sì commodo gli parve il luogo e bello. -Famigli e carriaggi e il suo destriero -seco alloggiar fe' nel medesmo ostello. -Vicino a poche leghe a Mompoliero -e ad alcun altro ricco e buon castello -siede il villaggio allato alla riviera; -sì che d'avervi ogn'agio il modo v'era. -Standovi un giorno il Saracin pensoso -(come pur era il più del tempo usato), -vide venir per mezzo un prato erboso, -che d'un piccol sentiero era segnato, -una donzella di viso amoroso -in compagnia d'un monaco barbato; -e si traeano dietro un gran destriero -sotto una soma coperta di nero. -Chi la donzella, chi 'l monaco sia, -chi portin seco, vi debbe esser chiaro. -Conoscere Issabella si dovria, -che 'l corpo avea del suo Zerbino caro. -Lasciai che vêr Provenza ne venìa -sotto la scorta del vecchio preclaro, -che le avea persuaso tutto il resto -dicare a Dio del suo vivere onesto. -Come ch'in viso pallida e smarrita -sia la donzella ed abbia i crini inconti; -e facciano i sospir continua uscita -del petto acceso, e gli occhi sien duo fonti; -ed altri testimoni d'una vita -misera e grave in lei si veggan pronti; -tanto però di bello anco le avanza, -che con le Grazie Amor vi può aver stanza. -Tosto che 'l Saracin vide la bella -donna apparir, messe il pensiero al fondo, -ch'avea di biasmar sempre e d'odiar quella -schiera gentil che pur adorna il mondo. -E ben gli par dignissima Issabella, -in cui locar debba il suo amor secondo, -e spenger totalmente il primo, a modo -che da l'asse si trae chiodo con chiodo. -Incontra se le fece, e col più molle -parlar che seppe, e col miglior sembiante, -di sua condizione domandolle; -ed ella ogni pensier gli spiegò inante; -come era per lasciare il mondo folle, -e farsi amica a Dio con opre sante. -Ride il pagano altier ch'in Dio non crede, -d'ogni legge nimico e d'ogni fede. -E chiama intenzione erronea e lieve, -e dice che per certo ella troppo erra; -né men biasmar che l'avaro si deve, -che 'l suo ricco tesor metta sotterra: -alcuno util per sé non ne riceve, -e da l'uso degli altri uomini il serra. -Chiuder leon si denno, orsi e serpenti, -e non le cose belle ed innocenti. -Il monaco, ch'a questo avea l'orecchia, -e per soccorrer la giovane incauta, -che ritratta non sia per la via vecchia, -sedea al governo qual pratico nauta, -quivi di spiritual cibo apparecchia -tosto una mensa sontuosa e lauta. -Ma il Saracin, che con mal gusto nacque, -non pur la saporò, che gli dispiacque: -e poi ch'invano il monaco interroppe, -e non poté mai far sì che tacesse, -e che di pazienza il freno roppe, -le mani adosso con furor gli messe. -Ma le parole mie parervi troppe -potriano omai, se più se ne dicesse: -sì che finirò il canto; e mi fia specchio -quel che per troppo dire accade al vecchio. O degli uomini inferma e instabil mente! -come siàn presti a variar disegno! -Tutti i pensier mutamo facilmente, -più quei che nascon d'amoroso sdegno. -Io vidi dianzi il Saracin sì ardente -contra le donne, e passar tanto il segno, -che non che spegner l'odio, ma pensai -che non dovesse intiepidirlo mai. -Donne gentil, per quel ch'a biasmo vostro -parlò contra il dover, sì offeso sono, -che sin che col suo mal non gli dimostro -quanto abbia fatto error, non gli perdono. -Io farò sì con penna e con inchiostro, -ch'ognun vedrà che gli era utile e buono -aver taciuto, e mordersi anco poi -prima la lingua, che dir mal di voi. -Ma che parlò come ignorante e sciocco, -ve lo dimostra chiara esperienza. -Incontra tutte trasse fuor lo stocco -de l'ira, senza farvi differenza: -poi d'Issabella un sguardo sì l'ha tocco, -che subito gli fa mutar sentenza. -Già in cambio di quell'altra la disia, -l'ha vista a pena, e non sa ancor chi sia. -E come il nuovo amor lo punge e scalda, -muove alcune ragion di poco frutto, -per romper quella mente intera e salda -ch'ella avea fissa al Creator del tutto. -Ma l'eremita che l'è scudo e falda, -perché il casto pensier non sia distrutto, -con argumenti più validi e fermi, -quanto più può, le fa ripari e schermi. -Poi che l'empio pagan molto ha sofferto -con lunga noia quel monaco audace, -e che gli ha detto invan ch'al suo deserto -senza lei può tornar quando gli piace; -e che nuocer si vede a viso aperto, -e che seco non vuol triegua né pace: -la mano al mento con furor gli stese, -e tanto ne pelò, quanto ne prese. -E sì crebbe la furia, che nel collo -con man lo stringe a guisa di tanaglia; -e poi ch'una e due volte raggirollo, -da sé per l'aria e verso il mar lo scaglia. -Che n'avenisse, né dico né sollo: -varia fama è di lui, né si raguaglia. -Dice alcun che sì rotto a un sasso resta, -che 'l piè non si discerne da la testa; -ed altri, ch'a cadere andò nel mare, -ch'era più di tre miglia indi lontano, -e che morì per non saper notare, -fatti assai prieghi e orazioni invano; -altri, ch'un santo lo venne aiutare, -lo trasse al lito con visibil mano. -Di queste, qual si vuol, la vera sia: -di lui non parla più l'istoria mia. -Rodomonte crudel, poi che levato -s'ebbe da canto il garrulo eremita, -si ritornò con viso men turbato -verso la donna mesta e sbigottita; -e col parlar ch'è fra gli amanti usato, -dicea ch'era il suo core e la sua vita -e 'l suo conforto e la sua cara speme, -ed altri nomi tai che vanno insieme. -E si mostrò sì costumato allora, -che non le fece alcun segno di forza. -Il sembiante gentil che l'innamora, -l'usato orgoglio in lui spegne ed ammorza: -e ben che 'l frutto trar ne possa fuora, -passar non però vuole oltre a la scorza; -che non gli par che potesse esser buono, -quando da lei non lo accettasse in dono. -E così di disporre a poco a poco -a' suoi piaceri Issabella credea. -Ella, che in sì solingo e strano loco, -qual topo in piede al gatto si vedea, -vorria trovarsi inanzi in mezzo il fuoco; -e seco tuttavolta rivolgea -s'alcun partito, alcuna via fosse atta -a trarla quindi immaculata e intatta. -Fa ne l'animo suo proponimento -di darsi con sua man prima la morte, -che 'l barbaro crudel n'abbia il suo intento, -e che le sia cagion d'errar sì forte -contra quel cavallier ch'in braccio spento -l'avea crudele e dispietata sorte; -a cui fatto have col pensier devoto -de la sua castità perpetuo voto. -Crescer più sempre l'appetito cieco -vede del re pagan, né sa che farsi. -Ben sa che vuol venire all'atto bieco, -ove i contrasti suoi tutti fien scarsi. -Pur discorrendo molte cose seco, -il modo trovò al fin di ripararsi, -e di salvar la castità sua, come -io vi dirò, con lungo e chiaro nome. -Al brutto Saracin, che le venìa -già contra con parole e con effetti -privi di tutta quella cortesia -che mostrata le avea ne' primi detti: -— Se fate che con voi sicura io sia -del mio onor (disse) e ch'io non ne sospetti, -cosa all'incontro vi darò, che molto -più vi varrà, ch'avermi l'onor tolto. -Per un piacer di sì poco momento, -di che n'ha sì abondanza tutto 'l mondo, -non disprezzate un perpetuo contento, -un vero gaudio a nullo altro secondo. -Potrete tuttavia ritrovar cento -e mille donne di viso giocondo; -ma chi vi possa dar questo mio dono, -nessuno al mondo, o pochi altri ci sono. -Ho notizia d'un'erba, e l'ho veduta -venendo, e so dove trovarne appresso, -che bollita con elera e con ruta -ad un fuoco di legna di cipresso, -e fra mano innocenti indi premuta, -manda un liquor, che, chi si bagna d'esso -tre volte il corpo, in tal modo l'indura, -che dal ferro e dal fuoco l'assicura. -Io dico, se tre volte se n'immolla, -un mese invulnerabile si trova. -Oprar conviensi ogni mese l'ampolla; -che sua virtù più termine non giova. -Io so far l'acqua, ed oggi ancor farolla, -ed oggi ancor voi ne vedrete prova: -e vi può, s'io non fallo, esser più grata, -che d'aver tutta Europa oggi acquistata. -Da voi domando in guiderdon di questo, -che su la fede vostra mi giuriate -che né in detto né in opera molesto -mai più sarete alla mia castitate. — -Così dicendo, Rodomonte onesto -fe' ritornar; ch'in tanta voluntate -venne ch'inviolabil si facesse, -che più ch'ella non disse, le promesse: -e servaralle fin che vegga fatto -de la mirabil acqua esperienza; -e sforzerasse intanto a non fare atto, -a non far segno alcun di violenza. -Ma pensa poi di non tenere il patto, -perché non ha timor né riverenza -di Dio o di santi; e nel mancar di fede -tutta a lui la bugiarda Africa cede. -Ad Issabella il re d'Algier scongiuri -di non la molestar fe' più di mille, -pur ch'essa lavorar l'acqua procuri, -che far lo può qual fu già Cigno e Achille. -Ella per balze e per valloni oscuri -da le città lontana e da le ville -ricoglie di molte erbe; e il Saracino -non l'abandona, e l'è sempre vicino. -Poi ch'in più parti quant'era a bastanza -colson de l'erbe e con radici e senza, -tardi si ritornaro alla lor stanza; -dove quel paragon di continenza -tutta la notte spende, che l'avanza, -a bollir erbe con molta avertenza: -e a tutta l'opra e a tutti quei misteri -si trova ognor presente il re d'Algieri. -Che producendo quella notte in giuoco -con quelli pochi servi ch'eran seco, -sentia, per lo calor del vicin fuoco -ch'era rinchiuso in quello angusto speco, -tal sete, che bevendo or molto or poco, -duo baril votar pieni di greco, -ch'aveano tolto uno o duo giorni inanti -i suoi scudieri a certi viandanti. -Non era Rodomonte usato al vino, -perché la legge sua lo vieta e danna: -e poi che lo gustò, liquor divino -gli par, miglior che 'l nettare o la manna; -e riprendendo il rito saracino, -gran tazze e pieni fiaschi ne tracanna. -Fece il buon vino, ch'andò spesso intorno, -girare il capo a tutti come un torno. -La donna in questo mezzo la caldaia -dal fuoco tolse, ove quell'erbe cosse; -e disse a Rodomonte: — Acciò che paia -che mie parole al vento non ho mosse, -quella che 'l ver da la bugia dispaia, -e che può dotte far le genti grosse, -te ne farò l'esperienza ancora, -non ne l'altrui, ma nel mio corpo or ora. -Io voglio a far il saggio esser la prima -del felice liquor di virtù pieno, -acciò tu forse non facessi stima -che ci fosse mortifero veneno. -Di questo bagnerommi da la cima -del capo giù pel collo e per lo seno: -tu poi tua forza in me prova e tua spada, -se questo abbia vigor, se quella rada. — -Bagnossi, come disse, e lieta porse -all'incauto pagano il collo ignudo, -incauto, e vinto anco dal vino forse, -incontra a cui non vale elmo né scudo. -Quel uom bestial le prestò fede, e scorse -sì con la mano e sì col ferro crudo, -che del bel capo, già d'Amore albergo, -fe' tronco rimanere il petto e il tergo. -Quel fe' tre balzi; e funne udita chiara -voce, ch'uscendo nominò Zerbino, -per cui seguire ella trovò sì rara -via di fuggir di man del Saracino. -Alma, ch'avesti più la fede cara, -e 'l nome quasi ignoto e peregrino -al tempo nostro, de la castitade, -che la tua vita e la tua verde etade, -vattene in pace, alma beata e bella! -Così i miei versi avesson forza, come -ben m'affaticherei con tutta quella -arte che tanto il parlar orna e come, -perché mille e mill'anni e più, novella -sentisse il mondo del tuo chiaro nome. -Vattene in pace alla superna sede, -e lascia all'altre esempio di tua fede. -All'atto incomparabile e stupendo, -dal cielo il Creator giù gli occhi volse, -e disse: — Più di quella ti commendo, -la cui morte a Tarquinio il regno tolse; -e per questo una legge fare intendo -tra quelle mie, che mai tempo non sciolse, -la qual per le inviolabil'acque giuro -che non muterà seculo futuro. -Per l'avvenir vo' che ciascuna ch'aggia -il nome tuo, sia di sublime ingegno, -e sia bella, gentil, cortese e saggia, -e di vera onestade arrivi al segno: -onde materia agli scrittori caggia -di celebrare il nome inclito e degno; -tal che Parnasso, Pindo ed Elicone -sempre Issabella, Issabella risuone. — -Dio così disse, e fe' serena intorno -l'aria, e tranquillo il mar più che mai fusse. -Fe' l'alma casta al terzo ciel ritorno, -e in braccio al suo Zerbin si ricondusse. -Rimase in terra con vergogna e scorno -quel fier senza pietà nuovo Breusse; -che poi che 'l troppo vino ebbe digesto, -biasmò il suo errore, e ne restò funesto. -Placare o in parte satisfar pensosse -a l'anima beata d'Issabella, -se, poi ch'a morte il corpo le percosse, -desse almen vita alla memoria d'ella. -Trovò per mezzo, acciò che così fosse, -di convertirle quella chiesa, quella -dove abitava e dove ella fu uccisa, -in un sepolcro; e vi dirò in che guisa. -Di tutti i lochi intorno fa venire -mastri, chi per amore e chi per tema; -e fatto ben seimila uomini unire, -de' gravi sassi i vicin monti scema, -e ne fa una gran massa stabilire, -che da la cima era alla parte estrema -novanta braccia; e vi rinchiude dentro -la chiesa, che i duo amanti have nel centro. -Imita quasi la superba mole -che fe' Adriano all'onda tiberina. -Presso al sepolcro una torre alta vuole; -ch'abitarvi alcun tempo si destina. -Un ponte stretto e di due braccia sole -fece su l'acqua che correa vicina. -Lungo il ponte, ma largo era sì poco, -che dava a pena a duo cavalli loco; -a duo cavalli che venuti a paro, -o ch'insieme si fossero scontrati: -e non avea né sponda né riparo, -e si potea cader da tutti i lati. -Il passar quindi vuol che costi caro -a guerrieri o pagani o battezzati; -che de le spoglie lor mille trofei -promette al cimiterio di costei. -In dieci giorni e in manco fu perfetta -l'opra del ponticel che passa il fiume; -ma non fu già il sepolcro così in fretta, -né la torre condutta al suo cacume: -pur fu levata sì, ch'alla veletta -starvi in cima una guardia avea costume, -che d'ogni cavallier che venìa al ponte, -col corno facea segno a Rodomonte. -E quel s'armava, e se gli venìa a opporre -ora su l'una, ora su l'altra riva; -che se 'l guerrier venìa di vêr la torre, -su l'altra proda il re d'Algier veniva. -Il ponticello è il campo ove si corre; -e se 'l destrier poco del segno usciva, -cadea nel fiume, ch'alto era e profondo: -ugual periglio a quel non avea il mondo. -Aveasi imaginato il Saracino, -che, per gir spesso a rischio di cadere -dal ponticel nel fiume a capo chino, -dove gli converria molt'acqua bere, -del fallo a che l'indusse il troppo vino, -dovesse netto e mondo rimanere; -come l'acqua, non men che 'l vino, estingua -l'error che fa pel vino o mano o lingua. -Molti fra pochi dì vi capitaro: -alcuni la via dritta vi condusse, -ch'a quei che verso Italia o Spagna andaro -altra non era che più trita fusse; -altri l'ardire, e, più che vita caro, -l'onore, a farvi di sé prova indusse. -E tutti, ove acquistar credean la palma, -lasciavan l'arme, e molti insieme l'alma. -Di quelli ch'abbattea, s'eran pagani, -si contentava d'aver spoglie ed armi; -e di chi prima furo, i nomi piani -vi facea sopra, e sospendeale ai marmi: -ma ritenea in prigion tutti i cristiani; -e che in Algier poi li mandasse parmi. -Finita ancor non era l'opra, quando -vi venne a capitare il pazzo Orlando. -A caso venne il furioso conte -a capitar su questa gran riviera, -dove, come io vi dico, Rodomonte -fare in fretta facea, né finito era -la torre né il sepolcro, e a pena il ponte: -e di tutte arme, fuor che di visiera, -a quell'ora il pagan si trovò in punto, -ch'Orlando al fiume e al ponte è sopragiunto. -Orlando (come il suo furor lo caccia) -salta la sbarra e sopra il ponte corre. -Ma Rodomonte con turbata faccia, -a piè, com'era inanzi a la gran torre, -gli grida di lontano e gli minaccia, -né se gli degna con la spada opporre: -— Indiscreto villan, ferma le piante, -temerario, importuno ed arrogante! -Sol per signori e cavallieri è fatto -il ponte, non per te, bestia balorda. — -Orlando, ch'era in gran pensier distratto, -vien pur inanzi e fa l'orecchia sorda. -— Bisogna ch'io castighi questo matto — -disse il pagano; e con la voglia ingorda -venìa per traboccarlo giù ne l'onda, -non pensando trovar chi gli risponda. -In questo tempo una gentil donzella, -per passar sovra il ponte, al fiume arriva, -leggiadramente ornata e in viso bella, -e nei sembianti accortamente schiva. -Era (se vi ricorda, Signor) quella -che per ogni altra via cercando giva -di Brandimarte, il suo amator, vestigi, -fuor che, dove era, dentro da Parigi. -Ne l'arrivar di Fiordiligi al ponte -(che così la donzella nomata era), -Orlando s'attaccò con Rodomonte -che lo volea gittar ne la riviera. -La donna, ch'avea pratica del conte, -subito n'ebbe conoscenza vera: -e restò d'alta maraviglia piena, -de la follia che così nudo il mena. -Fermasi a riguardar che fine avere -debba il furor dei duo tanti possenti. -Per far del ponte l'un l'altro cadere -a por tutta lor forza sono intenti. -— Come è ch'un pazzo debba sì valere? — -seco il fiero pagan dice tra' denti; -e qua e là si volge e si raggira, -pieno di sdegno e di superbia e d'ira. -Con l'una e l'altra man va ricercando -far nuova presa, ove il suo meglio vede; -or tra le gambe, or fuor gli pone, quando -con arte il destro, e quando il manco piede. -Simiglia Rodomonte intorno a Orlando -lo stolido orso che sveller si crede -l'arbor onde è caduto; e come n'abbia -quello ogni colpa, odio gli porta e rabbia. -Orlando, che l'ingegno avea sommerso, -io non so dove, e sol la forza usava, -l'estrema forza a cui per l'universo -nessuno o raro paragon si dava, -cader del ponte si lasciò riverso -col pagano abbracciato come stava. -Cadon nel fiume e vanno al fondo insieme: -ne salta in aria l'onda, e il lito geme. -L'acqua gli fece distaccare in fretta. -Orlando è nudo, e nuota com'un pesce: -di qua le braccia, e di là i piedi getta, -e viene a proda; e come di fuor esce, -correndo va, né per mirare aspetta, -se in biasmo o in loda questo gli riesce. -Ma il pagan, che da l'arme era impedito, -tornò più tardo e con più affanno al lito. -Sicuramente Fiordiligi intanto -avea passato il ponte e la riviera; -e guardato il sepolcro in ogni canto, -se del suo Brandimarte insegna v'era, -poi che né l'arme sue vede né il manto, -di ritrovarlo in altra parte spera. -Ma ritorniamo a ragionar del conte, -che lascia a dietro e torre e fiume e ponte. -Pazzia sarà, se le pazzie d'Orlando -prometto raccontarvi ad una ad una; -che tante e tante fur, ch'io non so quando -finir: ma ve n'andrò scegliendo alcuna -solenne ed atta da narrar cantando, -e ch'all'istoria mi parrà oportuna; -né quella tacerò miraculosa, -che fu nei Pirenei sopra Tolosa. -Trascorso avea molto paese il conte, -come dal grave suo furor fu spinto; -ed al fin capitò sopra quel monte -per cui dal Franco è il Tarracon distinto; -tenendo tuttavia volta la fronte -verso là dove il sol ne viene estinto: -e quivi giunse in uno angusto calle, -che pendea sopra una profonda valle. -Si vennero a incontrar con esso al varco -duo boscherecci gioveni, ch'inante -avean di legna un loro asino carco; -e perché ben s'accorsero al sembiante, -ch'avea di cervel sano il capo scarco, -gli gridano con voce minacciante, -o ch'a dietro o da parte se ne vada, -e che si levi di mezzo la strada. -Orlando non risponde altro a quel detto, -se non che con furor tira d'un piede, -e giunge a punto l'asino nel petto -con quella forza che tutte altre eccede; -ed alto il leva, sì, ch'uno augelletto -che voli in aria, sembra a chi lo vede. -Quel va a cadere alla cima d'un colle, -ch'un miglio oltre la valle il giogo estolle. -Indi verso i duo gioveni s'aventa, -dei quali un, più che senno, ebbe aventura, -che da la balza, che due volte trenta -braccia cadea, si gittò per paura. -A mezzo il tratto trovò molle e lenta -una macchia di rubi e di verzura, -a cui bastò graffiargli un poco il volto: -del resto lo mandò libero e sciolto. -L'altro s'attacca ad un scheggion ch'usciva -fuor de la roccia, per salirvi sopra; -perché si spera, s'alla cima arriva, -di trovar via che dal pazzo lo cuopra. -Ma quel nei piedi (che non vuol che viva) -lo piglia, mentre di salir s'adopra: -e quanto più sbarrar puote le braccia, -le sbarra sì, ch'in duo pezzi lo straccia; -a quella guisa che veggiàn talora -farsi d'uno aeron, farsi d'un pollo, -quando si vuol de le calde interiora -che falcone o ch'astor resti satollo. -Quanto è bene accaduto che non muora -quel che fu a risco di fiaccarsi il collo! -ch'ad altri poi questo miracol disse, -sì che l'udì Turpino, e a noi lo scrisse. -E queste ed altre assai cose stupende -fece nel traversar de la montagna. -Dopo molto cercare, al fin discende -verso meriggie alla terra di Spagna; -e lungo la marina il camin prende, -ch'intorno a Taracona il lito bagna: -e come vuol la furia che lo mena, -pensa farsi uno albergo in quella arena, -dove dal sole alquanto si ricuopra; -e nel sabbion si caccia arrido e trito. -Stando così, gli venne a caso sopra -Angelica la bella e il suo marito, -ch'eran (sì come io vi narrai di sopra) -scesi dai monti in su l'ispano lito. -A men d'un braccio ella gli giunse appresso, -perché non s'era accorta ancora d'esso. -Che fosse Orlando, nulla le soviene: -troppo è diverso da quel ch'esser suole. -Da indi in qua che quel furor lo tiene, -è sempre andato nudo all'ombra e al sole: -se fosse nato all'aprica Siene, -o dove Ammone il Garamante cole, -o presso ai monti onde il gran Nilo spiccia, -non dovrebbe la carne aver più arsiccia. -Quasi ascosi avea gli occhi ne la testa, -la faccia macra, e come un osso asciutta, -la chioma rabuffata, orrida e mesta, -la barba folta, spaventosa e brutta. -Non più a vederlo Angelica fu presta, -che fosse a ritornar, tremando tutta: -tutta tremando, e empiendo il ciel di grida, -si volse per aiuto alla sua guida. -Come di lei s'accorse Orlando stolto, -per ritenerla si levò di botto: -così gli piacque il delicato volto, -così ne venne immantinente giotto. -D'averla amata e riverita molto -ogni ricordo era in lui guasto e rotto. -Gli corre dietro, e tien quella maniera -che terria il cane a seguitar la fera. -Il giovine che 'l pazzo seguir vede -la donna sua, gli urta il cavallo adosso, -e tutto a un tempo lo percuote e fiede, -come lo trova che gli volta il dosso. -Spiccar dal busto il capo se gli crede: -ma la pelle trovò dura come osso, -anzi via più ch'acciar; ch'Orlando nato -impenetrabile era ed affatato. -Come Orlando sentì battersi dietro, -girossi, e nel girare il pugno strinse, -e con la forza che passa ogni metro, -ferì il destrier che 'l Saracino spinse. -Feril sul capo, e come fosse vetro, -lo spezzò sì, che quel cavallo estinse: -e rivoltosse in un medesmo istante -dietro a colei che gli fuggiva inante. -Caccia Angelica in fretta la giumenta, -e con sferza e con spron tocca e ritocca; -che le parrebbe a quel bisogno lenta, -se ben volasse più che stral da cocca. -De l'annel c'ha nel dito si ramenta, -che può salvarla, e se lo getta in bocca: -e l'annel, che non perde il suo costume, -la fa sparir come ad un soffio il lume. -O fosse la paura, o che pigliasse -tanto disconcio nel mutar l'annello, -o pur, che la giumenta traboccasse, -che non posso affermar questo né quello; -nel medesmo momento che si trasse -l'annello in bocca e celò il viso bello, -levò le gambe ed uscì de l'arcione, -e si trovò riversa in sul sabbione. -Più corto che quel salto era dua dita, -aviluppata rimanea col matto, -che con l'urto le avria tolta la vita; -ma gran ventura l'aiutò a quel tratto. -Cerchi pur, ch'altro furto le dia aita -d'un'altra bestia, come prima ha fatto; -che più non è per riaver mai questa -ch'inanzi al paladin l'arena pesta. -Non dubitate già ch'ella non s'abbia -a provedere; e seguitiamo Orlando, -in cui non cessa l'impeto e la rabbia -perché si vada Angelica celando. -Segue la bestia per la nuda sabbia, -e se le vien più sempre approssimando: -già già la tocca, ed ecco l'ha nel crine, -indi nel freno, e la ritiene al fine. -Con quella festa il paladin la piglia, -ch'un altro avrebbe fatto una donzella: -le rassetta le redine e la briglia, -e spicca un salto ed entra ne la sella; -e correndo la caccia molte miglia, -senza riposo, in questa parte e in quella: -mai non le leva né sella né freno, -né le lascia gustare erba né fieno. -Volendosi cacciare oltre una fossa, -sozzopra se ne va con la cavalla. -Non nocque a lui, né sentì la percossa; -ma nel fondo la misera si spalla. -Non vede Orlando come trar la possa; -e finalmente se l'arreca in spalla, -e su ritorna, e va con tutto il carco, -quanto in tre volte non trarrebbe un arco. -Sentendo poi che gli gravava troppo, -la pose in terra, e volea trarla a mano. -Ella il seguia con passo lento e zoppo; -dicea Orlando: — Camina! — e dicea invano. -Se l'avesse seguito di galoppo, -assai non era al desiderio insano. -Al fin dal capo le levò il capestro, -e dietro la legò sopra il piè destro; -e così la strascina, e la conforta -che lo potrà seguir con maggior agio. -Qual leva il pelo, e quale il cuoio porta, -dei sassi ch'eran nel camin malvagio. -La mal condotta bestia restò morta -finalmente di strazio e di disagio. -Orlando non le pensa e non la guarda, -e via correndo il suo camin non tarda. -Di trarla, anco che morta, non rimase, -continoando il corso ad occidente; -e tuttavia saccheggia ville e case, -se bisogno di cibo aver si sente; -e frutte e carne e pan, pur ch'egli invase, -rapisce; ed usa forza ad ogni gente: -qual lascia morto e qual storpiato lassa; -poco si ferma, e sempre inanzi passa. -Avrebbe così fatto, o poco manco, -alla sua donna, se non s'ascondea; -perché non discernea il nero dal bianco, -e di giovar, nocendo si credea. -Deh maledetto sia l'annello ed anco -il cavallier che dato le l'avea! -che se non era, avrebbe Orlando fatto -di sé vendetta e di mill'altri a un tratto. -Né questa sola, ma fosser pur state -in man d'Orlando quante oggi ne sono; -ch'ad ogni modo tutte sono ingrate, -né si trova tra loro oncia di buono. -Ma prima che le corde rallentate -al canto disugual rendano il suono, -fia meglio differirlo a un'altra volta, -acciò men sia noioso a chi l'ascolta. Quando vincer da l'impeto e da l'ira -si lascia la ragion, né si difende, -e che 'l cieco furor sì inanzi tira -o mano o lingua, che gli amici offende; -se ben dipoi si piange e si sospira, -non è per questo che l'error s'emende. -Lasso! io mi doglio e affliggo invan di quanto -dissi per ira al fin de l'altro canto. -Ma simile son fatto ad uno infermo, -che dopo molta pazienza e molta, -quando contra il dolor non ha più schermo, -cede alla rabbia e a bestemmiar si volta. -Manca il dolor, né l'impeto sta fermo, -che la lingua al dir mal facea sì sciolta; -e si ravvede e pente e n'ha dispetto: -ma quel c'ha detto, non può far non detto. -Ben spero, donne, in vostra cortesia -aver da voi perdon, poi ch'io vel chieggio. -Voi scusarete, che per frenesia, -vinto da l'aspra passion, vaneggio. -Date la colpa alla nimica mia, -che mi fa star, ch'io non potrei star peggio, -e mi fa dir quel di ch'io son poi gramo: -sallo Idio, s'ella ha il torto; essa, s'io l'amo. -Non men son fuor di me, che fosse Orlando; -e non son men di lui di scusa degno, -ch'or per li monti, or per le piagge errando, -scorse in gran parte di Marsilio il regno, -molti dì la cavalla strascinando -morta, come era, senza alcun ritegno; -ma giunto ove un gran fiume entra nel mare, -gli fu forza il cadavero lasciare. -E perché sa nuotar come una lontra, -entra nel fiume, e surge all'altra riva. -Ecco un pastor sopra un cavallo incontra, -che per abeverarlo al fiume arriva. -Colui, ben che gli vada Orlando incontra, -perché egli è solo e nudo, non lo schiva. -— Vorrei del tuo ronzin (gli disse il matto) -con la giumenta mia far un baratto. -Io te la mostrerò di qui, se vuoi; -che morta là su l'altra ripa giace: -la potrai far tu medicar dipoi; -altro diffetto in lei non mi dispiace. -Con qualche aggiunta il ronzin dar mi puoi: -smontane in cortesia, perché mi piace. — -Il pastor ride, e senz'altra risposta -va verso il guado, e dal pazzo si scosta. -— Io voglio il tuo cavallo: olà non odi? — -suggiunse Orlando, e con furor si mosse. -Avea un baston con nodi spessi e sodi -quel pastor seco, e il paladin percosse. -La rabbia e l'ira passò tutti i modi -del conte; e parve fier più che mai fosse. -Sul capo del pastore un pugno serra, -che spezza l'osso, e morto il caccia in terra. -Salta a cavallo, e per diversa strada -va discorrendo, e molti pone a sacco. -Non gusta il ronzin mai fieno né biada, -tanto ch'in pochi dì ne riman fiacco: -ma non però ch'Orlando a piedi vada, -che di vetture vuol vivere a macco; -e quante ne trovò, tante ne mise -in uso, poi che i lor patroni uccise. -Capitò al fin a Malega, e più danno -vi fece, ch'egli avesse altrove fatto: -che oltre che ponesse a saccomanno -il popul sì, che ne restò disfatto, -né si poté rifar quel né l'altr'anno; -tanti n'uccise il periglioso matto, -vi spianò tante case e tante accese, -che disfe' più che 'l terzo del paese. -Quindi partito, venne ad una terra, -Zizera detta, che siede allo stretto -di Zibeltarro, o vuoi di Zibelterra, -che l'uno e l'altro nome le vien detto; -ove una barca che sciogliea da terra -vide piena di gente da diletto, -che solazzando all'aura matutina, -gìa per la tranquillissima marina. -Cominciò il pazzo a gridar forte: — Aspetta! — -che gli venne disio d'andare in barca. -Ma bene invano e i gridi e gli urli getta; -che volentier tal merce non si carca. -Per l'acqua il legno va con quella fretta -che va per l'aria irondine che varca. -Orlando urta il cavallo e batte e stringe, -e con un mazzafrusto all'acqua spinge. -Forza è ch'al fin nell'acqua il cavallo entre, -ch'invan contrasta, e spende invano ogni opra: -bagna i genocchi, e poi la groppa e 'l ventre, -indi la testa, e a pena appar di sopra. -Tornare a dietro non si speri, mentre -la verga tra l'orecchie se gli adopra. -Misero! o si convien tra via affogare, -o nel lito african passare il mare. -Non vede Orlando più poppe né sponde -che tratto in mar l'avean dal lito asciutto; -che son troppo lontane, e le nasconde -agli occhi bassi l'alto e mobil flutto: -e tuttavia il destrier caccia tra l'onde, -ch'andar di là dal mar dispone in tutto. -Il destrier, d'acqua pieno e d'alma voto, -finalmente finì la vita e il nuoto. -Andò nel fondo, e vi traea la salma, -se non si tenea Orlando in su le braccia. -Mena le gambe e l'una e l'altra palma, -e soffia, e l'onda spinge da la faccia. -Era l'aria soave e il mare in calma: -e ben vi bisognò più che bonaccia; -ch'ogni poco che 'l mar fosse più sorto, -restava il paladin ne l'acqua morto. -Ma la Fortuna, che dei pazzi ha cura, -del mar lo trasse nel lito di Setta, -in una spiaggia, lungi da le mura -quanto sarian duo tratti di saetta. -Lungo il mar molti giorni alla ventura -verso levante andò correndo in fretta; -fin che trovò, dove tendea sul lito -di nera gente esercito infinito. -Lasciamo il paladin ch'errando vada: -ben di parlar di lui tornerà tempo. -Quanto, Signore, ad Angelica accada -dopo ch'uscì di man del pazzo a tempo; -e come a ritornare in sua contrada -trovasse e buon navilio e miglior tempo, -e de l'India a Medor desse lo scettro, -forse altri canterà con miglior plettro. -Io sono a dir tante altre cose intento, -che di seguir più questa non mi cale. -Volger conviemmi il bel ragionamento -al Tartaro, che spinto il suo rivale, -quella bellezza si godea contento, -a cui non resta in tutta Europa uguale, -poscia che se n'è Angelica partita, -e la casta Issabella al ciel salita. -De la sentenza Mandricardo altiero, -ch'in suo favor la bella donna diede, -non può fruir tutto il diletto intero; -che contra lui son altre liti in piede. -L'una gli muove il giovene Ruggiero, -perché l'aquila bianca non gli cede; -l'altra il famoso re di Sericana, -che da lui vuol la spada Durindana. -S'affatica Agramante, né disciorre, -né Marsilio con lui, sa questo intrico: -né solamente non li può disporre -che voglia l'un de l'altro essere amico; -ma che Ruggiero a Mandricardo torre -lasci lo scudo del Troiano antico, -o Gradasso la spada non gli vieti, -tanto che questa o quella lite accheti. -Ruggier non vuol ch'in altra pugna vada -con lo suo scudo; né Gradasso vuole -che, fuor che contra sé porti la spada -che 'l glorioso Orlando portar suole. -— Al fin veggiamo in cui la sorte cada -(disse Agramante), e non sian più parole; -veggiàn quel che Fortuna ne disponga, -e sia preposto quel ch'ella preponga. -E se compiacer meglio mi volete, -onde d'aver ve n'abbia obligo ognora, -chi de' di voi combatter, sortirete; -ma con patto, ch'al primo ch'esca fuora, -amendue le querele in man porrete: -sì che, per sé vincendo, vinca ancora -pel compagno; e perdendo l'un di vui, -così perduto abbia per ambidui. -Tra Gradasso e Ruggier credo che sia -di valor nulla o poca differenza; -e di lor qual si vuol venga fuor pria, -so ch'in arme farà per eccellenza. -Poi la vittoria da quel canto stia, -che vorrà la divina providenza. -Il cavallier non avrà colpa alcuna, -ma il tutto imputerassi alla Fortuna. — -Steron taciti al detto d'Agramante -e Ruggiero e Gradasso; ed accordarsi -che qualunque di loro uscirà inante, -e l'una briga e l'altra abbia a pigliarsi. -Così in duo brevi, ch'avean simigliante -ed ugual forma, i nomi lor notarsi; -e dentro un'urna quelli hanno rinchiusi, -versati molto, e sozzopra confusi. -Un semplice fanciul nell'urna messe -la mano, e prese un breve; e venne a caso -ch'in questo il nome di Ruggier si lesse, -essendo quel del Serican rimaso. -Non si può dir quanta allegrezza avesse, -quando Ruggier si sentì trar del vaso, -e d'altra parte il Sericano doglia; -ma quel che manda il ciel, forza è che toglia. -Ogni suo studio il Sericano, ogni opra -a favorire, ad aiutar converte -perché Ruggiero abbia a restar di sopra: -e le cose in suo pro, ch'avea già esperte, -come or di spada, or di scudo si cuopra, -qual sien botte fallaci e qual sien certe, -quando tentar, quando schivar fortuna -si dee, gli torna a mente ad una ad una. -Il resto di quel dì, che da l'accordo -e dal trar de le sorti sopravanza, -è speso dagli amici in dar ricordo, -chi a l'un guerrier chi all'altro, come è usanza. -Il popul, di veder la pugna ingordo, -s'affretta a gara d'occupar la stanza: -né basta a molti inanzi giorno andarvi, -che voglion tutta notte anco veggiarvi. -La sciocca turba disiosa attende -ch'i duo buon cavallier vengano in prova; -che non mira più lungi né comprende -di quel ch'inanzi agli occhi si ritrova. -Ma Sobrino e Marsilio, e chi più intende -e vede ciò che nuoce e ciò che giova, -biasma questa battaglia, ed Agramante, -che voglia comportar che vada inante. -Né cessan raccordargli il grave danno -che n'ha d'avere il popul saracino, -muora Ruggiero o il tartaro tiranno, -quel che prefisso è dal suo fier destino: -d'un sol di lor via più bisogno avranno -per contrastare al figlio di Pipino, -che di dieci altri mila che ci sono, -tra' quai fatica è ritrovare un buono. -Conosce il re Agramante che gli è vero, -ma non può più negar ciò c'ha promesso. -Ben prega Mandricardo e il buon Ruggiero, -che gli ridonin quel c'ha lor concesso; -e tanto più che 'l lor litigio è un zero, -né degno in prova d'arme esser rimesso: -e s'in ciò pur nol vogliono ubbidire, -voglino almen la pugna differire. -Cinque o sei mesi il singular certame, -o meno o più, si differisca, tanto -che cacciato abbin Carlo del reame, -tolto lo scettro, la corona e il manto. -Ma l'un e l'altro, ancor che voglia e brame -il re ubbidir, pur sta duro da canto; -che tale accordo obbrobrioso stima -a chi 'l consenso suo vi darà prima. -Ma più del re, ma più d'ognun ch'invano -spenda a placare il Tartaro parole, -la bella figlia del re Stordilano -supplice il priega, e si lamenta e duole: -lo prega che consenta al re africano -e voglia quel che tutto il campo vuole; -si lamenta e si duol che per lui sia -timida sempre e piena d'angonia. -— Lassa! (dicea) che ritrovar poss'io -rimedio mai ch'a riposar mi vaglia, -s'or contra questo, or quel, nuovo disio -vi trarrà sempre a vestir piastra e maglia? -C'ha potuto giovare al petto mio -il gaudio che sia spenta la battaglia -per me da voi contra quell'altro presa, -se un'altra non minor se n'è già accesa? -Ohimè! ch'invano i' me n'andava altiera -ch'un re sì degno, un cavallier sì forte -per me volesse in perigliosa e fiera -battaglia porsi al risco de la morte; -ch'or veggo per cagion tanto leggiera -non meno esporvi alla medesma sorte. -Fu natural ferocità di core -ch'a quella v'istigò, più che 'l mio amore. -Ma se gli è ver che 'l vostro amor sia quello -che vi sforzate di mostrarmi ognora, -per lui vi prego, e per quel gran flagello -che mi percuote l'alma e che m'accora, -che non vi caglia se 'l candido augello -ha ne lo scudo quel Ruggiero ancora. -Utile o danno a voi non so ch'importi, -che lasci quella insegna o che la porti. -Poco guadagno, e perdita uscir molta -de la battaglia può, che per far sète: -quando abbiate a Ruggier l'aquila tolta, -poca mercé d'un gran travaglio avrete; -ma se Fortuna le spalle vi volta -(che non però nel crin presa tenete), -causate un danno, ch'a pensarvi solo -mi sento il petto già sparrar di duolo. -Quando la vita a voi per voi non sia -cara, e più amate un'aquila dipinta, -vi sia almen cara per la vita mia: -non sarà l'una senza l'altra estinta. -Non già morir con voi grave mi fia: -son di seguirvi in vita e in morte accinta; -ma non vorrei morir sì malcontenta -come io morrò, se dopo voi son spenta. — -Con tai parole e simili altre assai, -che le lacrime accompagnano e sospiri, -pregar non cessa tutta notte mai -perch'alla pace il suo amator ritiri; -e quel, suggendo dagli umidi rai -quel dolce pianto, e quei dolci martiri -da le vermiglie labra più che rose, -lacrimando egli ancor, così rispose: -— Deh, vita mia, non vi mettete affanno, -deh non, per Dio, di così lieve cosa; -che se Carlo e 'l re d'Africa, e ciò c'hanno -qui di gente moresca e di franciosa, -spiegasson le bandiere in mio sol danno, -voi pur non ne dovreste esser pensosa. -Ben mi mostrate in poco conto avere, -se per me un Ruggier sol vi fa temere. -E vi dovria pur ramentar che, solo -(e spada io non avea né scimitarra), -con un troncon di lancia a un grosso stuolo -d'armati cavallier tolsi la sbarra. -Gradasso, ancor che con vergogna e duolo -lo dica, pure, a chi 'l domanda, narra -che fu in Soria a un castel mio prigioniero; -ed è pur d'altra fama che Ruggiero. -Non niega similmente il re Gradasso, -e sallo Isolier vostro e Sacripante, -io dico Sacripante, il re circasso, -e 'l famoso Grifone ed Aquilante, -cent'altri e più, che pure a questo passo -stati eran presi alcuni giorni inante, -macometani e gente di battesmo, -che tutti liberai quel dì medesmo. -Non cessa ancor la maraviglia loro -de la gran prova ch'io feci quel giorno, -maggior, che se l'esercito del Moro -e del Franco inimici avessi intorno. -Ed or potrà Ruggier, giovine soro, -farmi da solo a solo o danno o scorno? -Ed or c'ho Durindana e l'armatura -d'Ettòr, vi de' Ruggier metter paura? -Deh, perché dianzi in prova non venni io, -se far di voi con l'arme io potea acquisto? -So che v'avrei sì aperto il valor mio, -ch'avresti il fin già di Ruggier previsto. -Asciugate le lacrime, e, per Dio, -non mi fate uno augurio così tristo; -e siate certa che 'l mio onor m'ha spinto, -non ne lo scudo il bianco augel dipinto. — -Così disse egli; e molto ben risposto -gli fu da la mestissima sua donna, -che non pur lui mutato di proposto, -ma di luogo avria mossa una colonna. -Ella era per dover vincer lui tosto, -ancor ch'armato, e ch'ella fosse in gonna; -e l'avea indutto a dir, se 'l re gli parla -d'accordo più, che volea contentarla. -E lo facea; se non, tosto ch'al Sole -la vaga Aurora fe' l'usata scorta, -l'animoso Ruggier, che mostrar vuole -che con ragion la bella aquila porta, -per non udir più d'atti e di parole -dilazion, ma far la lite corta, -dove circonda il popul lo steccato, -sonando il corno s'appresenta armato. -Tosto che sente il Tartaro superbo, -ch'alla battaglia il suono altier lo sfida, -non vuol più de l'accordo intender verbo, -ma si lancia del letto, ed arme grida; -e si dimostra sì nel viso acerbo, -che Doralice istessa non si fida -di dirgli più di pace né di triegua: -e forza è infin che la battaglia segua. -Subito s'arma, ed a fatica aspetta -da' suoi scudieri i debiti servigi; -poi monta sopra il buon cavallo in fretta, -che del gran difensor fu di Parigi; -e vien correndo invêr la piazza eletta -a terminar con l'arme i gran litigi. -Vi giunse il re e la corte allora allora; -sì ch'all'assalto fu poca dimora. -Posti lor furo ed allacciati in testa -i lucidi elmi, e date lor le lance. -Siegue la tromba a dare il segno presta, -che fece a mille impallidir le guance. -Posero l'aste i cavallieri in resta, -e i corridori punsero alle pance; -e venner con tale impeto a ferirsi, -che parve il ciel cader, la terra aprirsi. -Quinci e quindi venir si vede il bianco -augel che Giove per l'aria sostenne; -come ne la Tessalia si vide anco -venir più volte, ma con altre penne. -Quanto sia l'uno e l'altro ardito e franco, -mostra il portar de le massicce antenne; -e molto più, ch'a quello incontro duro, -quai torri ai venti, o scogli all'onde furo. -I tronchi fin al ciel ne sono ascesi: -scrive Turpin, verace in questo loco, -che dui o tre giù ne tornaro accesi, -ch'eran saliti alla sfera del fuoco. -I cavallieri i brandi aveano presi: -e come quei che si temeano poco, -si ritornaro incontra; e a prima giunta -ambi alla vista si ferir di punta. -Ferirsi alla visiera al primo tratto; -e non miraron, per mettersi in terra, -dare ai cavalli morte, ch'è mal atto, -perch'essi non han colpa de la guerra. -Chi pensa che tra lor fosse tal patto, -non sa l'usanza antiqua, e di molto erra: -senz'altro patto, era vergogna e fallo -e biasmo eterno a chi feria il cavallo. -Ferirsi alla visiera, ch'era doppia, -ed a pena anco a tanta furia resse. -L'un colpo appresso all'altro si raddoppia: -le botte più che grandine son spesse, -che spezza fronde e rami e grano e stoppia, -e uscir invan fa la sperata messe. -Se Durindana e Balisarda taglia, -sapete, e quanto in queste mani vaglia. -Ma degno di sé colpo ancor non fanno, -sì l'uno e l'altro ben sta su l'aviso. -Uscì da Mandricardo il primo danno, -per cui fu quasi il buon Ruggiero ucciso: -d'uno di quei gran colpi che far sanno, -gli fu lo scudo pel mezzo diviso, -e la corazza apertagli di sotto; -e fin sul vivo il crudel brando ha rotto. -L'aspra percossa agghiacciò il cor nel petto, -per dubbio di Ruggiero, ai circostanti, -nel cui favor si conoscea lo affetto -dei più inchinar, se non di tutti quanti. -E se Fortuna ponesse ad effetto -quel che la maggior parte vorria inanti, -già Mandricardo saria morto o preso: -sì che 'l suo colpo ha tutto il campo offeso. -Io credo che qualche agnol s'interpose -per salvar da quel colpo il cavalliero. -Ma ben senza più indugio gli rispose, -terribil più che mai fosse, Ruggiero. -La spada in capo a Mandricardo pose; -ma sì lo sdegno fu subito e fiero, -e tal fretta gli fe', ch'io men l'incolpo -se non mandò a ferir di taglio il colpo. -Se Balisarda lo giungea pel dritto, -l'elmo d'Ettorre era incantato invano. -Fu sì del colpo Mandricardo afflitto, -che si lasciò la briglia uscir di mano. -D'andar tre volte accenna a capo fitto, -mentre scorrendo va d'intorno il piano -quel Brigliador che conoscete al nome, -dolente ancor de le mutate some. -Calcata serpe mai tanto non ebbe, -né ferito leon, sdegno e furore, -quanto il Tartaro, poi che si riebbe -dal colpo che di sé lo trasse fuore. -E quanto l'ira e la superbia crebbe, -tanto e più crebbe in lui forza e valore: -fece spiccare a Brigliadoro un salto -verso Ruggiero, e alzò la spada in alto. -Levossi in su le staffe, ed all'elmetto -segnolli; e si credette veramente -partirlo a quella volta fin al petto: -ma fu di lui Ruggier più diligente; -che, pria che 'l braccio scenda al duro effetto, -gli caccia sotto la spada pungente, -e gli fa ne la maglia ampla finestra, -che sotto difendea l'ascella destra. -E Balisarda al suo ritorno trasse -di fuori il sangue tiepido e vermiglio, -e vietò a Durindana che calasse -impetuosa con tanto periglio; -ben che fin su la groppa si piegasse -Ruggiero, e per dolor strignesse il ciglio: -e s'elmo in capo avea di peggior tempre, -gli era quel colpo memorabil sempre. -Ruggier non cessa, e spinge il suo cavallo, -e Mandricardo al destro fianco trova. -Quivi scelta finezza di metallo -e ben condutta tempra poco giova -contra la spada che non scende in fallo, -che fu incantata non per altra prova, -che per far ch'a' suoi colpi nulla vaglia -piastra incantata ed incantata maglia. -Taglionne quanto ella ne prese, e insieme -lasciò ferito il Tartaro nel fianco, -che 'l ciel bestemmia, e di tant'ira freme, -che 'l tempestoso mare è orribil manco. -Or s'apparecchia a por le forze estreme: -lo scudo ove in azzurro è l'augel bianco, -vinto da sdegno, si gittò lontano, -e messe al brando e l'una e l'altra mano. -— Ah (disse a lui Ruggier), senza più basti -a mostrar che non merti quella insegna, -ch'or tu la getti, e dianzi la tagliasti; -né potrai dir mai più che ti convegna. — -Così dicendo, forza è che egli attasti -con quanta furia Durindana vegna; -che sì gli grava e sì gli pesa in fronte, -che più leggier potea cadervi un monte. -E per mezzo gli fende la visiera; -buon per lui che dal viso si discosta: -poi calò su l'arcion che ferrato era, -né lo difese averne doppia crosta: -giunse al fin su l'arnese, e come cera -l'aperse con la falda sopraposta; -e ferì gravemente ne la coscia -Ruggier, sì ch'assai stette a guarir poscia. -De l'un, come de l'altro, fatte rosse -il sangue l'arme avea con doppia riga; -tal che diverso era il parer, chi fosse -di lor, ch'avesse il meglio in quella briga. -Ma quel dubbio Ruggier tosto rimosse -con la spada che tanti ne castiga: -mena di punta, e drizza il colpo crudo -onde gittato avea colui lo scudo. -Fora de la corazza il lato manco, -e di venire al cor trova la strada, -che gli entra più d'un palmo sopra il fianco: -sì che convien che Mandricardo cada -d'ogni ragion che può ne l'augel bianco, -o che può aver ne la famosa spada; -e da la cara vita cada insieme, -che, più che spada e scudo, assai gli preme. -Non morì quel meschin senza vendetta; -ch'a quel medesmo tempo che fu colto, -la spada, poco sua, menò di fretta; -ed a Ruggier avria partito il volto, -se già Ruggier non gli avesse intercetta -prima la forza, e assai del vigor tolto: -di forza e di vigor troppo gli tolse -dianzi, che sotto il destro braccio il colse. -Da Mandricardo fu Ruggier percosso -nel punto ch'egli a lui tolse la vita; -tal ch'un cerchio di ferro, anco che grosso, -e una cuffia d'acciar ne fu partita. -Durindana tagliò cotenna ed osso, -e nel capo a Ruggiero entrò due dita. -Ruggier stordito in terra si riversa, -e di sangue un ruscel dal capo versa. -Il primo fu Ruggier, ch'andò per terra; -e dipoi stette l'altro a cader tanto, -che quasi crede ognun che de la guerra -riporti Mandricardo il pregio e il vanto: -e Doralice sua, che con gli altri erra, -e che quel dì più volte ha riso e pianto, -Dio ringraziò con mani al ciel supine, -ch'avesse avuta la pugna tal fine. -Ma poi ch'appare a manifesti segni -vivo chi vive, e senza vita il morto, -nei petti dei fautor mutano regni: -di là mestizia, e di qua vien conforto. -I re, i signori, i cavallier più degni, -con Ruggier ch'a fatica era risorto, -a rallegrarsi ed abbracciarsi vanno, -e gloria senza fine e onor gli danno. -Ognun s'allegra con Ruggiero, e sente -il medesmo nel cor, c'ha ne la bocca. -Sol Gradasso il pensiero ha differente -tutto da quel che fuor la lingua scocca: -mostra gaudio nel viso; e occultamente -del glorioso acquisto invidia il tocca; -e maledice o sia destino o caso, -il qual trasse Ruggier prima del vaso. -Che dirò del favor, che de le tante -carezze e tante, affettuose e vere, -che fece a quel Ruggiero il re Agramante, -senza il qual dare al vento le bandiere, -né volse muover d'Africa le piante, -né senza lui si fidò in tante schiere? -Or che del re Agricane ha spento il seme, -prezza più lui, che tutto il mondo insieme. -Né di tal volontà gli uomini soli -eran verso Ruggier, ma le donne anco, -che d'Africa e di Spagna fra gli stuoli -eran venute al tenitorio franco. -E Doralice istessa, che con duoli -piangea l'amante suo pallido e bianco, -forse con l'altre ita sarebbe in schiera, -se di vergogna un duro fren non era. -Io dico forse, non ch'io ve l'accerti, -ma potrebbe esser stato di leggiero: -tal la bellezza e tali erano i merti, -i costumi e i sembianti di Ruggiero. -Ella, per quel che già ne siamo esperti, -sì facile era a variar pensiero, -che per non si veder priva d'amore, -avria potuto in Ruggier porre il core. -Per lei buono era vivo Mandricardo: -ma che ne volea far dopo la morte? -Proveder le convien d'un che gagliardo -sia notte e dì ne' suoi bisogni, e forte. -Non era stato intanto a venir tardo -il più perito medico di corte, -che di Ruggier veduta ogni ferita, -già l'avea assicurato de la vita. -Con molta diligenza il re Agramante -fece colcar Ruggier ne le sue tende; -che notte e dì veder sel vuole inante: -sì l'ama, sì di lui cura si prende. -Lo scudo al letto e l'arme tutte quante, -che fur di Mandricardo, il re gli appende; -tutte le appende, eccetto Durindana, -che fu lasciata al re di Sericana. -Con l'arme l'altre spoglie a Ruggier sono -date di Mandricardo, e insieme dato -gli è Brigliador, quel destrier bello e buono, -che per furore Orlando avea lasciato. -Poi quello al re diede Ruggiero in dono, -che s'avide ch'assai gli saria grato. -Non più di questo; che tornar bisogna -a chi Ruggiero invan sospira e agogna. -Gli amorosi tormenti che sostenne -Bradamante aspettando, io v'ho da dire. -A Montalbano Ippalca a lei rivenne -e nuova le arrecò del suo desire. -Prima, di quanto di Frontin le avenne -con Rodomonte, l'ebbe a riferire; -poi di Ruggier, che ritrovò alla fonte -con Ricciardetto e' frati d'Agrismonte: -e che con esso lei s'era partito -con speme di trovare il Saracino, -e punirlo di quanto avea fallito -d'aver tolto a una donna il suo Frontino; -e che 'l disegno poi non gli era uscito, -perché diverso avea fatto il camino. -La cagione anco, perché non venisse -a Montalban Ruggier, tutta le disse; -e riferille le parole a pieno, -ch'in sua scusa Ruggier le avea commesse. -Poi si trasse la lettera di seno, -ch'egli le diè, perch'ella a lei la desse. -Con viso più turbato che sereno -prese la carta Bradamante, e lesse; -che, se non fosse la credenza stata -già di veder Ruggier, fôra più grata. -L'aver Ruggiero ella aspettato, e invece -di lui vedersi ora appagar d'un scritto, -del bel viso turbar l'aria le fece -di timor, di cordoglio e di despitto. -Baciò la carta diece volte e diece, -avendo a chi la scrisse il cor diritto. -Le lacrime vietar, che su vi sparse, -che con sospiri ardenti ella non l'arse. -Lesse la carta quattro volte e sei, -e volse ch'altretante l'imbasciata -replicata le fosse da colei -che l'una e l'altra avea quivi arrecata, -pur tuttavia piangendo: e crederei -che mai non si saria più racchetata, -se non avesse avuto pur conforto -di riveder il suo Ruggier di corto. -Termine a ritornar quindici o venti -giorni avea Ruggier tolto, ed affermato -l'avea ad Ippalca poi con giuramenti -da non temer che mai fosse mancato. -— Chi m'assicura, ohimè, degli accidenti -(ella dicea), c'han forza in ogni lato, -ma ne le guerre più, che non distorni -alcun tanto Ruggier, che più non torni? -Ohimè! Ruggiero, ohimè! chi arìa creduto -ch'avendoti amato io più di me stessa, -tu più di me, non ch'altri, ma potuto -abbi amar gente tua inimica espressa? -A chi opprimer dovresti, doni aiuto: -chi tu dovresti aitare, è da te oppressa. -Non so se biasmo o laude esser ti credi, -ch'al premiar e al punir sì poco vedi. -Fu morto da Troian (non so se 'l sai) -il padre tuo; ma fin ai sassi il sanno: -e tu del figlio di Troian cura hai -che non riceva alcun disnor né danno. -È questa la vendetta che ne fai, -Ruggiero? e a quei che vendicato l'hanno, -rendi tal premio, che del sangue loro -me fai morir di strazio e di martoro? — -Dicea la donna al suo Ruggiero assente -queste parole ed altre, lacrimando, -non una sola volta, ma sovente. -Ippalca la venìa pur confortando, -che Ruggier servarebbe interamente -sua fede, e ch'ella l'aspettasse, quando -altro far non potea, fin a quel giorno -ch'avea Ruggier prescritto al suo ritorno. -I conforti d'Ippalca, e la speranza -che degli amanti suole esser compagna, -alla tema e al dolor tolgon possanza -di far che Bradamante ognora piagna; -in Montalban senza mutar mai stanza -voglion che fin al termine rimagna, -fino al promesso termine e giurato, -che poi fu da Ruggier male osservato. -Ma ch'egli alla promessa sua mancasse -non però debbe aver la colpa affatto; -ch'una causa ed un'altra sì lo trasse, -che gli fu forza preterire il patto. -Convenne che nel letto si colcasse, -e più d'un mese si stesse di piatto -in dubbio di morir, sì il dolor crebbe -dopo la pugna che col Tartaro ebbe. -L'innamorata giovane l'attese -tutto quel giorno e desiollo invano, -né mai ne seppe, fuor quanto ne 'ntese -ora da Ippalca, e poi dal suo germano, -che le narrò che Ruggier lui difese, -e Malagigi liberò e Viviano. -Questa novella, ancor ch'avesse grata, -pur di qualche amarezza era turbata: -che di Marfisa in quel discorso udito -l'alto valore e le bellezze avea: -udì come Ruggier s'era partito -con esso lei, e che d'andar dicea -là dove con disagio in debol sito -malsicuro Agramante si tenea. -Sì degna compagnia la donna lauda -ma non che se n'allegri, o che l'applauda. -Né picciolo è il sospetto che la preme; -che se Marfisa è bella, come ha fama, -e che fin a quel dì sien giti insieme, -è maraviglia se Ruggier non l'ama. -Pur non vuol creder anco, e spera e teme: -e 'l giorno che la può far lieta e grama, -misera aspetta; e sospirando stassi, -da Montalban mai non movendo i passi. -Stando ella quivi, il principe, il signore -del bel castello, il primo de' suoi frati -(io non dico d'etade, ma d'onore, -che di lui prima dui n'erano nati), -Rinaldo, che di gloria e di splendore -gli ha, come il sol le stelle, illuminati, -giunse al castello un giorno in su la nona; -né, fuor ch'un paggio, era con lui persona. -Cagion del suo venir fu, che da Brava -ritornandosi un dì verso Parigi -(come v'ho detto che sovente andava -per ritrovar d'Angelica vestigi), -avea sentita la novella prava -del suo Viviano e del suo Malagigi, -ch'eran per essere dati al Maganzese; -e perciò ad Agrismonte la via prese. -Dove intendendo poi ch'eran salvati, -e gli aversari lor morti e distrutti, -e Marfisa e Ruggiero erano stati, -che gli aveano a quei termini ridutti; -e suoi fratelli e suoi cugin tornati -a Montalbano insieme erano tutti; -gli parve un'ora un anno di trovarsi -con esso lor là dentro ad abbracciarsi. -Venne Rinaldo a Montalbano, e quivi -madre, moglie abbracciò, figli e fratelli, -e i cugini che dianzi eran captivi; -e parve, quando egli arrivò tra quelli, -dopo gran fame irondine ch'arrivi -col cibo in bocca ai pargoletti augelli. -E poi ch'un giorno vi fu stato o dui, -partissi, e fe' partire altri con lui. -Ricciardo, Alardo, Ricciardetto, e d'essi -figli d'Amone, il più vecchio Guicciardo, -Malagigi e Vivian, si furon messi -in arme dietro al paladin gagliardo. -Bradamante aspettando che s'appressi -il tempo ch'al disio suo ne vien tardo, -inferma disse agli fratelli ch'era, -e non volse con lor venire in schiera. -E ben lor disse il ver, ch'ella era inferma, -ma non per febbre o corporal dolore: -era il disio che l'alma dentro inferma, -e le fa alterazion patir d'amore. -Rinaldo in Montalban più non si ferma, -e seco mena di sua gente il fiore. -Come a Parigi appropinquosse, e quanto -Carlo aiutò, vi dirà l'altro canto. Che dolce più, che più giocondo stato -saria di quel d'un amoroso core? -che viver più felice e più beato, -che ritrovarsi in servitù d'Amore? -se non fosse l'uom sempre stimulato -da quel sospetto rio, da quel timore, -da quel martìr, da quella frenesia, -da quella rabbia detta gelosia. -Però ch'ogni altro amaro che si pone -tra questa soavissima dolcezza, -è un augumento, una perfezione, -ed è un condurre amore a più finezza. -L'acque parer fa saporite e buone -la sete, e il cibo pel digiun s'apprezza: -non conosce la pace e non l'estima -chi provato non ha la guerra prima. -Se ben non veggon gli occhi ciò che vede -ognora il core, in pace si sopporta. -Lo star lontano, poi quando si riede, -quanto più lungo fu, più riconforta. -Lo stare in servitù senza mercede -(pur che non resti la speranza morta) -patir si può: che premio al ben servire -pur viene al fin, se ben tarda a venire. -Gli sdegni, le repulse, e finalmente -tutti i martìr d'amor, tutte le pene, -fan per lor rimembranza, che si sente -con miglior gusto un piacer quando viene. -Ma se l'infernal peste una egra mente -avvien ch'infetti, ammorbi ed avelene; -se ben segue poi festa ed allegrezza, -non la cura l'amante e non l'apprezza. -Questa è la cruda e avelenata piaga -a cui non val liquor, non vale impiastro, -né murmure, né imagine di saga, -né val lungo osservar di benigno astro, -né quanta esperienza d'arte maga -fece mai l'inventor suo Zoroastro: -piaga crudel che sopra ogni dolore -conduce l'uom, che disperato muore. -Oh incurabil piaga che nel petto -d'un amator sì facile s'imprime, -non men per falso che per ver sospetto! -piaga che l'uom sì crudelmente opprime, -che la ragion gli offusca e l'intelletto, -e lo tra' fuor de le sembianze prime! -Oh iniqua gelosia, che così a torto -levasti a Bradamante ogni conforto! -Non di questo ch'Ippalca e che 'l fratello -le avea nel core amaramente impresso, -ma dico d'uno annunzio crudo e fello -che le fu dato pochi giorni appresso. -Questo era nulla a paragon di quello -ch'io vi dirò, ma dopo alcun digresso. -Di Rinaldo ho da dir primieramente, -che vêr Parigi vien con la sua gente. -Scontraro il dì seguente invêr la sera -un cavallier ch'avea una donna al fianco, -con scudo e sopravesta tutta nera, -se non che per traverso ha un fregio bianco. -Sfidò alla giostra Ricciardetto, ch'era -dinanzi, e vista avea di guerrier franco: -e quel, che mai nessun ricusar volse, -girò la briglia e spazio a correr tolse. -Senza dir altro, o più notizia darsi -de l'esser lor, si vengono all'incontro. -Rinaldo e gli altri cavallier fermarsi -per veder come seguiria lo scontro. -— Tosto costui per terra ha da versarsi, -se in luogo fermo a mio modo lo incontro — -dicea tra sé medesmo Ricciardetto; -ma contrario al pensier seguì l'effetto: -però che lui sotto la vista offese -di tanto colpo il cavalliero istrano, -che lo levò di sella, e lo distese -più di due lance al suo destrier lontano. -Di vendicarlo incontinente prese -l'assunto Alardo, e ritrovossi al piano -stordito e male acconcio: sì fu crudo -lo scontro fier, che gli spezzò lo scudo. -Guicciardo pone incontinente in resta -l'asta, che vede i duo germani in terra, -ben che Rinaldo gridi: — Resta, resta; -che mia convien che sia la terza guerra: — -ma l'elmo ancor non ha allacciato in testa -sì che Guicciardo al corso si disserra; -né più degli altri si seppe tenere, -e ritrovossi subito a giacere. -Vuol Ricciardo, Viviano e Malagigi, -e l'un prima de l'altro essere in giostra: -ma Rinaldo pon fine ai lor litigi; -ch'inanzi a tutti armato si dimostra, -dicendo loro: — È tempo ire a Parigi; -e saria troppo la tardanza nostra, -s'io volesse aspettar fin che ciascuno -di voi fosse abbattuto ad uno ad uno. — -Dissel tra sé, ma non che fosse inteso, -che saria stato agli altri ingiuria e scorno. -L'uno e l'altro del campo avea già preso, -e si faceano incontra aspro ritorno. -Non fu Rinaldo per terra disteso, -che valea tutti gli altri ch'avea intorno; -le lance si fiaccar, come di vetro, -né i cavallier si piegar oncia a dietro. -L'uno e l'altro cavallo in guisa urtosse, -che gli fu forza in terra a por le groppe. -Baiardo immantinente ridrizzosse, -tanto ch'a pena il correre interroppe. -Sinistramente sì l'altro percosse, -che la spalla e la schena insieme roppe. -Il cavallier che 'l destrier morto vede, -lascia le staffe ed è subito in piede. -Ed al figlio d'Amon, che già rivolto -tornava a lui con la man vota, disse: -— Signore, il buon destrier che tu m'hai tolto, -perché caro mi fu mentre che visse, -mi faria uscir del mio debito molto, -se così invendicato si morisse: -sì che vientene, e fa ciò che tu puoi, -perché battaglia esser convien tra noi. — -Disse Rinaldo a lui: — Se 'l destrier morto, -e non altro ci de' porre a battaglia, -un de' miei ti darò, piglia conforto, -che men del tuo non crederò che vaglia. — -Colui soggiunse: — Tu sei malaccorto, -se creder vuoi che d'un destrier mi caglia. -Ma poi che non comprendi ciò ch'io voglio, -ti spiegherò più chiaramente il foglio. -Vo' dir che mi parria commetter fallo, -se con la spada non ti provassi anco, -e non sapessi s'in quest'altro ballo -tu mi sia pari, o se più vali o manco. -Come ti piace, o scendi, o sta a cavallo: -pur che le man tu non ti tegna al fianco, -io son contento ogni vantaggio darti: -tanto alla spada bramo di provarti. — -Rinaldo molto non lo tenne in lunga, -e disse: — La battaglia ti prometto; -e perché tu sia ardito, e non ti punga -di questi c'ho d'intorno alcun sospetto, -andranno inanzi fin ch'io gli raggiunga; -né meco resterà fuor ch'un valletto -che mi tenga il cavallo: — e così disse -alla sua compagnia che se ne gisse. -La cortesia del paladin gagliardo -commendò molto il cavalliero estrano. -Smontò Rinaldo, e del destrier Baiardo -diede al valletto le redine in mano: -e poi che più non vede il suo stendardo, -il qual di lungo spazio è già lontano, -lo scudo imbraccia e stringe il brando fiero, -e sfida alla battaglia il cavalliero. -E quivi s'incomincia una battaglia -di ch'altra mai non fu più fiera in vista. -Non crede l'un che tanto l'altro vaglia, -che troppo lungamente gli resista. -Ma poi che 'l paragon ben gli ragguaglia, -né l'un de l'altro più s'allegra o attrista, -pongon l'orgoglio ed il furor da parte, -ed al vantaggio loro usano ogn'arte. -S'odon lor colpi dispietati e crudi -intorno rimbombar con suono orrendo, -ora i canti levando a' grossi scudi, -schiodando or piastre, e quando maglie aprendo. -Né qui bisogna tanto che si studi -a ben ferir, quanto a parar, volendo -star l'uno a l'altro par; ch'eterno danno -lor può causar il primo error che fanno. -Durò l'assalto un'ora e più che 'l mezzo -d'un'altra; ed era il sol già sotto l'onde, -ed era sparso il tenebroso rezzo -de l'orizzon fin all'estreme sponde; -né riposato o fatto altro intermezzo -aveano alle percosse furibonde -questi guerrier, che non ira o rancore, -ma tratto all'arme avea disio d'onore. -Rivolve tuttavia tra sé Rinaldo -chi sia l'estrano cavallier sì forte, -che non pur gli sta contra ardito e saldo, -ma spesso il mena a risco de la morte; -e già tanto travaglio e tanto caldo -gli ha posto, che del fin dubita forte: -e volentier, se con suo onor potesse, -vorria che quella pugna rimanesse. -Da l'altra parte il cavallier estrano, -che similmente non avea notizia -che quel fosse il signor di Montalbano, -quel sì famoso in tutta la milizia, -che gli avea incontra con la spada in mano -condotto così poca nimicizia, -era certo che d'uom di più eccellenza -non potesson dar l'arme esperienza. -Vorrebbe de l'impresa esser digiuno, -ch'avea di vendicare il suo cavallo; -e se potesse senza biasmo alcuno, -si trarria fuor del periglioso ballo. -Il mondo era già tanto oscuro e bruno, -che tutti i colpi quasi ivano in fallo. -Poco ferire e men parar sapeano, -ch'a pena in man le spade si vedeano. -Fu quel da Montalbano il primo a dire -che far battaglia non denno allo scuro, -ma quella indugiar tanto e differire, -ch'avesse dato volta il pigro Arturo; -e che può intanto al padiglion venire, -ove di sé non sarà men sicuro, -ma servito, onorato e ben veduto, -quanto in loco ove mai fosse venuto. -Non bisognò a Rinaldo pregar molto, -che 'l cortese baron tenne lo 'nvito. -Ne vanno insieme ove il drappel raccolto -di Montalbano era in sicuro sito. -Rinaldo al suo scudiero avea già tolto -un bel cavallo e molto ben guernito, -a spada e a lancia e ad ogni prova buono, -ed a quel cavallier fattone dono. -Il guerrier peregrin conobbe quello -esser Rinaldo, che venìa con esso; -che prima che giungessero all'ostello, -venuto a caso era a nomar se stesso: -e perché l'un de l'altro era fratello, -si sentìr dentro di dolcezza oppresso, -e di pietoso affetto tocco il core; -e lacrimar per gaudio e per amore. -Questo guerriero era Guidon selvaggio, -che dianzi con Marfisa e Sansonetto -e' figli d'Olivier molto viaggio -avea fatto per mar, come v'ho detto. -Di non veder più tosto il suo lignaggio -il fellon Pinabel gli avea interdetto, -avendol preso e a bada poi tenuto -alla difesa del suo rio statuto. -Guidon, che questo esser Rinaldo udio, -famoso sopra ogni famoso duce, -ch'avuto avea più di veder disio, -che non ha il cieco la perduta luce, -con molto gaudio disse: — O signor mio, -qual fortuna a combatter mi conduce -con voi, che lungamente ho amato ed amo, -e sopra tutto il mondo onorar bramo? -Mi partorì Costanza ne le estreme -ripe del mar Eusino: io son Guidone, -concetto de lo illustre inclito seme, -come ancor voi, del generoso Amone. -Di voi vedere e gli altri nostri insieme -il desiderio è del venir cagione; -e dove mia intenzion fu d'onorarvi, -mi veggo esser venuto a ingiuriarvi. -Ma scusimi apo voi d'un error tanto, -ch'io non ho voi né gli altri conosciuto; -e s'emendar si può, ditemi quanto -far debbo, ch'in ciò far nulla rifiuto. — -Poi che si fu da questo e da quel canto -de' complessi iterati al fin venuto, -rispose a lui Rinaldo: — Non vi caglia -meco scusarvi più de la battaglia: -che per certificarne che voi sète -di nostra antiqua stirpe un vero ramo, -dar miglior testimonio non potete, -che 'l gran valor ch'in voi chiaro proviamo. -Se più pacifiche erano e quiete -vostre maniere, mal vi credevamo; -che la damma non genera il leone, -né le colombe l'aquila o il falcone. — -Non, per andar, di ragionar lasciando, -non di seguir, per ragionar, lor via, -vennero ai padiglioni; ove narrando -il buon Rinaldo alla sua compagnia -che questo era Guidon, che disiando -veder, tanto aspettato aveano pria, -molto gaudio apportò ne le sue squadre; -e parve a tutti assimigliarsi al padre. -Non dirò l'accoglienze che gli fero -Alardo, Ricciardetto e gli altri dui; -che gli fece Viviano ed Aldigiero, -e Malagigi, frati e cugin sui; -ch'ogni signor gli fece e cavalliero; -ciò ch'egli disse a loro, ed essi a lui: -ma vi concluderò che finalmente -fu ben veduto da tutta la gente. -Caro Guidone a' suoi fratelli stato -credo sarebbe in ogni tempo assai; -ma lor fu al gran bisogno ora più grato, -ch'esser potesse in altro tempo mai. -Poscia che 'l nuovo sole incoronato -del mare uscì di luminosi rai, -Guidon coi frati e coi parenti in schiera -se ne tornò sotto la lor bandiera. -Tanto un giorno ed un altro se n'andaro, -che di Parigi alle assediate porte -a men di dieci miglia s'accostaro -in ripa a Senna; ove per buona sorte -Grifone ed Aquilante ritrovaro, -i duo guerrier da l'armatura forte: -Grifone il bianco ed Aquilante il nero, -che partorì Gismonda d'Oliviero. -Con essi ragionava una donzella, -non già di vil condizione in vista, -che di sciamito bianco la gonnella -fregiata intorno avea d'aurata lista; -molto leggiadra in apparenza e bella, -fosse quantunque lacrimosa e trista: -e mostrava ne' gesti e nel sembiante -di cosa ragionar molto importante. -Conobbe i cavallier, come essi lui, -Guidon, che fu con lor pochi dì inanzi; -ed a Rinaldo disse: — Eccovi dui -a cui van pochi di valore inanzi; -e se per Carlo ne verran con nui, -non ne staranno i Saracini inanzi. — -Rinaldo di Guidon conferma il detto, -che l'uno e l'altro era guerrier perfetto. -Gli avea riconosciuti egli non manco; -però che quelli sempre erano usati, -l'un tutto nero, e l'altro tutto bianco -vestir su l'arme, e molto andare ornati. -Da l'altra parte essi conobbero anco -e salutar Guidon, Rinaldo e i frati; -ed abbracciar Rinaldo come amico, -messo da parte ogni lor odio antico. -S'ebbero un tempo in urta e in gran dispetto -per Truffaldin, che fôra lungo a dire; -ma quivi insieme con fraterno affetto -s'accarezzar, tutte obliando l'ire. -Rinaldo poi si volse a Sansonetto, -ch'era tardato un poco più a venire, -e lo raccolse col debito onore, -a pieno istrutto del suo gran valore. -Tosto che la donzella più vicino -vide Rinaldo, e conosciuto l'ebbe -(ch'avea notizia d'ogni paladino), -gli disse una novella che gl'increbbe; -e cominciò: — Signore, il tuo cugino, -a cui la Chiesa e l'alto Imperio debbe, -quel già sì saggio ed onorato Orlando, -è fatto stolto, e va pel mondo errando. -Onde causato così strano e rio -accidente gli sia, non so narrarte. -La sua spada e l'altr'arme ho vedute io, -che per li campi avea gittate e sparte; -e vidi un cavallier cortese e pio -che le andò raccogliendo da ogni parte, -e poi di tutte quelle un arbuscello -fe', a guisa di trofeo, pomposo e bello. -Ma la spada ne fu tosto levata -dal figliuol d'Agricane il dì medesmo. -Tu pòi considerar quanto sia stata -gran perdita alla gente del battesmo -l'essere un'altra volta ritornata -Durindana in poter del paganesmo. -Né Brigliadoro men, ch'errava sciolto -intorno all'arme, fu dal pagan tolto. -Son pochi dì ch'Orlando correr vidi -senza vergogna e senza senno, ignudo, -con urli spaventevoli e con gridi: -ch'è fatto pazzo in somma ti conchiudo; -e non avrei, fuor ch'a questi occhi fidi, -creduto mai sì acerbo caso e crudo. — -Poi narrò che lo vide giù dal ponte -abbracciato cader con Rodomonte. -— A qualunque io non creda esser nimico -d'Orlando (soggiungea) di ciò favello, -acciò ch'alcun di tanti a ch'io lo dico, -mosso a pietà del caso strano e fello, -cerchi o a Parigi o in altro luogo amico -ridurlo, fin che si purghi il cervello. -Ben so, se Brandimarte n'avrà nuova, -sarà per farne ogni possibil prova. — -Era costei la bella Fiordiligi, -più cara a Brandimarte che se stesso, -la qual, per lui trovar, venìa a Parigi: -e de la spada ella suggiunse appresso, -che discordia e contesa e gran litigi -tra il Sericano e 'l Tartaro avea messo; -e ch'avuta l'avea, poi fu casso, -di vita Mandricardo, al fin Gradasso. -Di così strano e misero accidente -Rinaldo senza fin si lagna e duole; -né il core intenerir men se ne sente, -che soglia intenerirsi il ghiaccio al sole: -e con disposta ed immutabil mente, -ovunque Orlando sia, cercar lo vuole, -con speme, poi che ritrovato l'abbia, -di farlo risanar di quella rabbia. -Ma già lo stuolo avendo fatto unire, -sia volontà del cielo o sia aventura, -vuol fare i Saracin prima fuggire, -e liberar le parigine mura. -Ma consiglia l'assalto differire, -che vi par gran vantaggio, a notte scura, -ne la terza vigilia o ne la quarta, -ch'avrà l'acqua di Lete il Sonno sparta. -Tutta la gente alloggiar fece al bosco, -e quivi la posò per tutto 'l giorno; -ma poi che 'l sol, lasciando il mondo fosco, -alla nutrice antiqua fe' ritorno, -ed orsi e capre e serpi senza tosco -e l'altre fere ebbeno il cielo adorno, -che state erano ascose al maggior lampo, -mosse Rinaldo il taciturno campo: -e venne con Grifon, con Aquilante, -con Vivian, con Alardo e con Guidone, -con Sansonetto, agli altri un miglio inante, -a cheti passi e senza alcun sermone. -Trovò dormir l'ascolta d'Agramante: -tutta l'uccise, e non ne fe' un prigione. -Indi arrivò tra l'altra gente Mora, -che non fu visto né sentito ancora. -Del campo d'infedeli a prima giunta -la ritrovata guardia all'improviso -lasciò Rinaldo sì rotta e consunta, -ch'un sol non ne restò, se non ucciso. -Spezzata che lor fu la prima punta, -i Saracin non l'avean più da riso, -che sonnolenti, timidi ed inermi, -poteano a tai guerrier far pochi schermi. -Fece Rinaldo per maggior spavento -dei Saracini, al mover de l'assalto, -a trombe e a corni dar subito vento, -e, gridando, il suo nome alzar in alto. -Spinse Baiardo, e quel non parve lento; -che dentro all'alte sbarre entrò d'un salto, -e versò cavallier, pestò pedoni, -ed atterrò trabacche e padiglioni. -Non fu sì ardito tra il popul pagano, -a cui non s'arricciassero le chiome, -quando sentì Rinaldo e Montalbano -sonar per l'aria, il formidato nome. -Fugge col campo d'Africa l'ispano, -né perde tempo a caricar le some; -ch'aspettar quella furia più non vuole, -ch'aver provata anco si piagne e duole. -Guidon lo segue, e non fa men di lui; -né men fanno i duo figli d'Oliviero, -Alardo e Ricciardetto, e gli altri dui: -col brando Sansonetto apre il sentiero: -Aldigiero e Vivian provar altrui -fan quanto in arme l'uno e l'altro è fiero. -Così fa ognun che segue lo stendardo -di Chiaramonte, da guerrier gagliardo. -Settecento con lui tenea Rinaldo -in Montalbano e intorno a quelle ville, -usati a portar l'arme al freddo e al caldo, -non già più rei dei Mirmidon d'Achille. -Ciascun d'essi al bisogno era sì saldo, -che cento insieme non fuggian per mille; -e se ne potean molti sceglier fuori, -che d'alcun dei famosi eran migliori. -E se Rinaldo ben non era molto -ricco né di città né di tesoro, -facea sì con parole e con buon volto, -e ciò ch'avea partendo ognor con loro, -ch'un di quel numer mai non gli fu tolto -per offerire altrui più somma d'oro. -Questi da Montalban mai non rimuove, -se non lo stringe un gran bisogno altrove. -Ed or, perch'abbia il Magno Carlo aiuto, -lasciò con poca guardia il suo castello. -Tra gli African questo drappel venuto, -questo drappel del cui valor favello, -ne fece quel che del gregge lanuto -sul falanteo Galeso il lupo fello, -o quel che soglia, del barbato, appresso -il barbaro Cinifio, il leon spesso. -Carlo, ch'aviso da Rinaldo avuto -avea che presso era a Parigi giunto, -e che la notte il campo sproveduto -volea assalir, stato era in arme e in punto; -e quando bisognò, venne in aiuto -coi paladini; e ai paladini aggiunto -avea il figliol del ricco Monodante, -di Fiordiligi il fido e saggio amante; -ch'ella più giorni per sì lunga via -cercato avea per tutta Francia invano. -Quivi all'insegne che portar solia, -fu da lei conosciuto di lontano. -Come lei Brandimarte vide pria, -lasciò la guerra, e tornò tutto umano, -e corse ad abbracciarla; e d'amor pieno, -mille volte baciolla o poco meno. -De le lor donne e de le lor donzelle -si fidar molto a quella antica etade. -Senz'altra scorta andar lasciano quelle -per piani e monti e per strane contrade; -ed al ritorno l'han per buone e belle, -né mai tra lor suspizione accade. -Fiordiligi narrò quivi al suo amante, -che fatto stolto era il signor d'Anglante. -Brandimarte sì strana e ria novella -credere ad altri a pena avria potuto; -ma lo credette a Fiordiligi bella, -a cui già maggior cose avea creduto. -Non pur d'averlo udito gli dice ella, -ma che con gli occhi propri l'ha veduto -(c'ha conoscenza e pratica d'Orlando, -quanto alcun altro), e dice dove e quando -E gli narra del ponte periglioso, -che Rodomonte ai cavallier difende, -ove un sepolcro adorna e fa pomposo -di sopraveste e d'arme di chi prende. -Narra c'ha visto Orlando furioso -far cose quivi orribili e stupende; -che nel fiume il pagan mandò riverso, -con gran periglio di restar summerso. -Brandimarte, che 'l conte amava quanto -si può compagno amar, fratello o figlio, -disposto di cercarlo, e di far tanto, -non ricusando affanno né periglio, -che per opra di medico o d'incanto -si ponga a quel furor qualche consiglio, -così come trovossi armato in sella, -si mise in via con la sua donna bella. -Verso la parte ove la donna il conte -avea veduto, il lor camin drizzaro, -di giornata in giornata, fin ch'al ponte -che guarda il re d'Algier, si ritrovaro. -La guardia ne fe' segno a Rodomonte; -e gli scudieri a un tempo gli arrecaro -l'arme e il cavallo: e quel si trovò in punto, -quando fu Brandimarte al passo giunto. -Con voce qual conviene al suo furore -il Saracino a Brandimarte grida: -— Qualunque tu ti sia, che, per errore -di via o di mente, qui tua sorte guida, -scendi e spogliati l'arme, e fanne onore -al gran sepolcro, inanzi ch'io t'uccida, -e che vittima all'ombre tu sia offerto: -ch'io 'l farò poi, né te n'avrò alcun merto. — -Non volse Brandimarte a quell'altiero -altra risposta dar, che de la lancia. -Sprona Batoldo, il suo gentil destriero, -e inverso quel con tanto ardir si lancia, -che mostra che può star d'animo fiero -con qual si voglia al mondo alla bilancia: -e Rodomonte, con la lancia in resta, -lo stretto ponte a tutta briglia pesta. -Il suo destrier ch'avea continuo uso -d'andarvi sopra, e far di quel sovente -quando uno e quando un altro cader giuso, -alla giostra correa sicuramente; -l'altro, del corso insolito confuso, -venìa dubbioso, timido e tremente. -Trema anco il ponte, e par cader ne l'onda, -oltre che stretto e che sia senza sponda. -I cavallier, di giostra ambi maestri, -che le lance avean grosse come travi, -tali qual fur nei lor ceppi silvestri, -si dieron colpi non troppo soavi. -Ai lor cavalli esser possenti e destri -non giovò molto agli aspri colpi e gravi; -che si versar di pari ambi sul ponte, -e seco i signor lor tutti in un monte. -Nel volersi levar con quella fretta -che lo spronar de' fianchi insta e richiede, -l'asse del ponticel lor fu sì stretta, -che non trovaro ove fermare il piede; -sì che una sorte uguale ambi li getta -ne l'acqua; e gran rimbombo al ciel ne riede, -simile a quel ch'uscì del nostro fiume, -quando ci cadde il mal rettor del lume. -I duo cavalli con tutto 'l pondo -dei cavallier, che steron fermi in sella, -a cercar la rivera insin al fondo, -se v'era ascosa alcuna ninfa bella. -Non è già il primo salto né 'l secondo, -che giù del ponte abbia il pagano in quella -onda spiccato col destrero audace; -però sa ben come quel fondo giace: -sa dove è saldo e sa dove è più molle, -sa dove è l'acqua bassa e dove è l'alta. -Dal fiume il capo e il petto e i fianchi estolle, -e Brandimarte a gran vantaggio assalta. -Brandimarte il corrente in giro tolle: -ne la sabbia il destrier, che 'l fondo smalta, -tutto si ficca, e non può riaversi, -con rischio di restarvi ambi sommersi. -L'onda si leva e li fa andar sozzopra, -e dove è più profonda li trasporta: -va Brandimarte sotto, e 'l destrier sopra. -Fiordiligi dal ponte afflitta e smorta -e le lacrime e i voti e i prieghi adopra: -— Ah Rodomonte, per colei che morta -tu riverisci, non esser sì fiero, -ch'affogar lasci un tanto cavalliero! -Deh, cortese signor, s'unque tu amasti, -di me, ch'amo costui, pietà ti vegna. -Di farlo tuo prigion, per Dio, ti basti; -che s'orni il sasso tuo di quella insegna, -di quante spoglie mai tu gli arrecasti, -questa fia la più bella e la più degna. — -E seppe sì ben dir, ch'ancor che fosse -sì crudo il re pagan, pur lo commosse; -e fe' che 'l suo amator ratto soccorse, -che sotto acqua il destrier tenea sepolto, -e de la vita era venuto in forse, -e senza sete avea bevuto molto. -Ma aiuto non però prima gli porse, -che gli ebbe il brando e dipoi l'elmo tolto. -De l'acqua mezzo morto il trasse, e porre -con molti altri lo fe' ne la sua torre. -Fu ne la donna ogni allegrezza spenta, -quando prigion vide il suo amante gire; -ma di questo pur meglio si contenta, -che di vederlo nel fiume perire. -Di se stessa, e non d'altri, si lamenta, -che fu cagion di farlo ivi venire, -per averli narrato ch'avea il conte -riconosciuto al periglioso ponte. -Quindi si parte, avendo già concetto -di menarvi Rinaldo paladino, -o il Selvaggio Guidone, o Sansonetto, -o altri de la corte di Pipino, -in acqua e in terra cavallier perfetto -da poter contrastar col Saracino; -se non più forte, almen più fortunato -che Brandimarte suo non era stato. -Va molti giorni, prima che s'abbatta -in alcun cavallier ch'abbia sembiante -d'esser come lo vuol, perché combatta -col Saracino e liberi il suo amante. -Dopo molto cercar di persona atta -al suo bisogno, un le vien pur avante, -che sopravesta avea ricca ed ornata, -a tronchi di cipressi ricamata. -Chi costui fosse, altrove ho da narrarvi; -che prima ritornar voglio a Parigi, -e de la gran sconfitta seguitarvi, -ch'a' Mori diè Rinaldo e Malagigi. -Quei che fuggiro io non saprei contarvi, -né quei che fur cacciati ai fiumi stigi. -Levò a Turpino il conto l'aria oscura, -che di contarli s'avea preso cura. -Nel primo sonno dentro al padiglione -dormia Agramante; e un cavallier lo desta, -dicendogli che fia fatto prigione, -se la fuga non è via più che presta. -Guarda il re intorno, e la confusione -vede dei suoi, che van senza far testa -chi qua chi là fuggendo inermi e nudi, -che non han tempo di pur tor gli scudi. -Tutto confuso e privo di consiglio -si facea porre indosso la corazza, -quando con Falsiron vi giunse il figlio, -Grandonio e Balugante e quella razza; -e al re Agramante mostrano il periglio -di restar morto o preso in quella piazza: -e che può dir, se salva la persona, -che Fortuna gli sia propizia e buona. -Così Marsilio e così il buon Sobrino, -e così dicon gli altri ad una voce, -ch'a sua distruzion tanto è vicino, -quanto a Rinaldo il qual ne vien veloce; -che s'aspetta che giunga il paladino -con tanta gente, e un uom tanto feroce, -render certo si può ch'egli e i suo' amici -rimarran morti, o in man degli nimici. -Ma ridur si può in Arli o sia in Narbona -con quella poca gente c'ha d'intorno; -che l'una e l'altra terra è forte e buona -da mantener la guerra più d'un giorno: -e quando salva sia la sua persona, -si potrà vendicar di questo scorno, -rifacendo l'esercito in un tratto, -onde al fin Carlo ne sarà disfatto. -Il re Agramante al parer lor s'attenne, -ben che 'l partito fosse acerbo e duro. -Andò verso Arli, e parve aver le penne, -per quel camin che più trovò sicuro. -Oltre alle guide, in gran favor gli venne -che la partita fu per l'aer scuro. -Ventimila tra d'Africa e di Spagna -fur, ch'a Rinaldo uscir fuor de la ragna. -Quei ch'egli uccise e quei che i suoi fratelli, -quei che i duo figli del signor di Vienna, -quei che provaro empi nimici e felli -i settecento a cui Rinaldo accenna, -e quei che spense Sansonetto, e quelli -che ne la fuga s'affogaro in Senna, -chi potesse contar, conteria ancora -ciò che sparge d'april Favonio e Flora. -Istima alcun che Malagigi parte -ne la vittoria avesse de la notte; -non che di sangue le campagne sparte -fosser per lui, né per lui teste rotte: -ma che gl'infernali angeli per arte -facesse uscir da le tartaree grotte, -e con tante bandiere e tante lance, -ch'insieme più non ne porrian due France; -e che facesse udir tanti metalli, -tanti tamburi e tanti varii suoni, -tanti anitriri in voce di cavalli, -tanti gridi e tumulti di pedoni, -che risonare e piani e monti e valli -dovean de le longique regioni: -ed ai Mori con questo un timor diede, -che li fece voltare in fuga il piede. -Non si scordò il re d'Africa Ruggiero, -ch'era ferito e stava ancora grave. -Quanto poté più acconcio s'un destriero -lo fece por, ch'avea l'andar soave; -e poi che l'ebbe tratto ove il sentiero -fu più sicuro, il fe' posar in nave, -e verso Arli portar commodamente, -dove s'avea a raccor tutta la gente. -Quei ch'a Rinaldo e a Carlo dier le spalle -(fur, credo, centomila o poco manco), -per campagne, per boschi e monte e valle -cercaro uscir di man del popul franco; -ma la più parte trovò chiuso il calle, -e fece rosso ov'era verde e bianco. -Così non fece il re di Sericana, -ch'avea da lor la tenda più lontana: -anzi, come egli sente che 'l signore -di Montalbano è questo che gli assalta, -gioisce di tal iubilo nel core, -che qua e là per allegrezza salta. -Loda e ringrazia il suo sommo Fattore, -che quella notte gli occorra tant'alta -e sì rara aventura d'acquistare -Baiardo, quel destrier che non ha pare. -Avea quel re gran tempo desiato -(credo ch'altrove voi l'abbiate letto) -d'aver la buona Durindana a lato, -e cavalcar quel corridor perfetto. -E già con più di centomila armato -era venuto in Francia a questo effetto; -e con Rinaldo già sfidato s'era -per quel cavallo alla battaglia fiera; -e sul lito del mar s'era condutto -ove dovea la pugna diffinire: -ma Malagigi a turbar venne il tutto, -che fe' il cugin, mal grado suo, partire, -avendol sopra un legno in mar ridutto. -Lungo saria tutta l'istoria dire. -Da indi in qua stimò timido e vile -sempre Gradasso il paladin gentile. -Or che Gradasso esser Rinaldo intende -costui ch'assale il campo, se n'allegra. -Si veste l'arme, e la sua alfana prende, -e cercando lo va per l'aria negra: -e quanti ne riscontra, a terra stende; -ed in confuso lascia afflitta ed egra -la gente, o sia di Libia o sia di Francia: -tutti li mena a un par la buona lancia. -Lo va di qua di là tanto cercando, -chiamando spesso e quanto può più forte, -e sempre a quella parte declinando, -ove più folte son le genti morte, -ch'al fin s'incontra in lui brando per brando -poi che le lance loro ad una sorte -eran salite in mille schegge rotte -sin al carro stellato de la Notte. -Quando Gradasso il paladin gagliardo -conosce, e non perché ne vegga insegna, -ma per gli orrendi colpi e per Baiardo, -che par che sol tutto quel campo tegna; -non è, gridando, a improverargli tardo -la prova che di sé fece non degna: -ch'al dato campo il giorno non comparse, -che tra lor la battaglia dovea farse. -Suggiunse poi: — Tu forse avevi speme, -se potevi nasconderti quel punto, -che non mai più per raccozzarci insieme -fossimo al mondo: or vedi ch'io t'ho giunto. -Sie certo, se tu andassi ne l'estreme -fosse di Stige, o fossi in cielo assunto, -ti seguirò, quando abbi il destrier teco, -ne l'alta luce e giù nel mondo cieco. -Se d'aver meco a far non ti dà il core, -e vedi già che non puoi starmi a paro, -e più stimi la vita che l'onore, -senza periglio ci puoi far riparo, -quando mi lasci in pace il corridore; -e viver puoi, se sì t'è il viver caro: -ma vivi a piè, che non merti cavallo, -s'alla cavalleria fai sì gran fallo. — -A quel parlar si ritrovò presente -con Ricciardetto il cavallier Selvaggio; -e le spade ambi trassero ugualmente, -per far parere il Serican mal saggio. -Ma Rinaldo s'oppose immantinente, -e non patì che se gli fêsse oltraggio, -dicendo: — Senza voi dunque non sono -a chi m'oltraggia per risponder buono? — -Poi se ne ritornò verso il pagano, -e disse: — Odi, Gradasso; io voglio farte, -e tu m'ascolti, manifesto e piano -ch'io venni alla marina a ritrovarte: -e poi ti sosterrò con l'arme in mano, -che t'avrò detto il vero in ogni parte; -e sempre che tu dica mentirai, -ch'alla cavalleria mancass'io mai. -Ma ben ti priego che prima che sia -pugna tra noi, che pianamente intenda -la giustissima e vera scusa mia, -acciò ch'a torto più non mi riprenda; -e poi Baiardo al termine di pria -tra noi vorrò ch'a piedi si contenda -da solo a solo in solitario lato, -sì come a punto fu da te ordinato. — -Era cortese il re di Sericana, -come ogni cor magnanimo esser suole; -ed è contento udir la cosa piana, -e come il paladin scusar si vuole. -Con lui ne viene in ripa alla fiumana, -ove Rinaldo in semplici parole -alla sua vera istoria trasse il velo, -e chiamò in testimonio tutto 'l cielo: -e poi chiamar fece il figliuol di Buovo, -l'uom che di questo era informato a pieno, -ch'a parte a parte replicò di nuovo -l'incanto suo, né disse più né meno. -Soggiunse poi Rinaldo: — Ciò ch'io provo -col testimonio, io vo' che l'arme sieno, -che ora e in ogni tempo che ti piace, -te n'abbiano a far prova più verace. — -Il re Gradasso, che lasciar non volle -per la seconda la querela prima, -le scuse di Rinaldo in pace tolle, -ma se son vere o false in dubbio stima. -Non tolgon campo più sul lito molle -di Barcelona, ove lo tolser prima; -ma s'accordaro per l'altra matina -trovarsi a una fontana indi vicina: -ove Rinaldo seco abbia il cavallo, -che posto sia communemente in mezzo: -se 'l re uccide Rinaldo o il fa vassallo, -se ne pigli il destrier senz'altro mezzo, -ma se Gradasso è quel che faccia fallo, -che sia condotto all'ultimo ribrezzo, -o, per più non poter, che gli si renda, -da lui Rinaldo Durindana prenda. -Con maraviglia molta e più dolore -(come v'ho detto) avea Rinaldo udito -da Fiordiligi bella, ch'era fuore -de l'intelletto il suo cugino uscito. -Avea de l'arme inteso anco il tenore, -e del litigio che n'era seguito; -e ch'in somma Gradasso avea quel brando -ch'ornò di mille e mille palme Orlando. -Poi che furon d'accordo, ritornosse -il re Gradasso ai servitori sui -ben che dal paladin pregato fosse -che ne venisse ad alloggiar con lui. -Come fu giorno, il re pagano armosse; -così Rinaldo: e giunsero ambedui -ove dovea non lungi alla fontana -combattersi Baiardo e Durindana. -De la battaglia che Rinaldo avere -con Gradasso dovea da solo a solo, -parean gli amici suoi tutti temere, -e inanzi il caso ne faceano il duolo. -Molto ardir, molta forza, alto sapere -avea Gradasso; ed or che del figliuolo -del gran Milone avea la spada al fianco, -di timor per Rinaldo era ognun bianco. -E più degli altri il frate di Viviano -stava di questa pugna in dubbio e in tema, -ed anco volentier vi porria mano -per farla rimaner d'effetto scema: -ma non vorria che quel da Montalbano -seco venisse a inimicizia estrema; -ch'anco avea di quell'altra seco sdegno, -che gli turbò, quando il levò sul legno. -Ma stiano gli altri in dubbio, in tema, in doglia: -Rinaldo se ne va lieto e sicuro, -sperando ch'ora il biasmo se gli toglia, -ch'avere a torto gli parea pur duro; -sì che quei da Pontieri e d'Altafoglia -faccia cheti restar, come mai furo. -Va con baldanza e sicurtà di core -di riportarne il trionfale onore. -Poi che l'un quinci e l'altro quindi giunto -fu quasi a un tempo in su la chiara fonte, -s'accarezzaro, e fero a punto a punto -così serena ed amichevol fronte, -come di sangue e d'amistà congiunto -fosse Gradasso a quel di Chiaramonte. -Ma come poi s'andassero a ferire, -vi voglio a un'altra volta differire. Soviemmi che cantar io vi dovea -(già lo promisi, e poi m'uscì di mente) -d'una sospizion che fatto avea -la bella donna di Ruggier dolente, -de l'altra più spiacevole e più rea, -e di più acuto e venenoso dente, -che per quel ch'ella udì da Ricciardetto, -a devorare il cor l'entrò nel petto. -Dovea cantarne, ed altro incominciai, -perché Rinaldo in mezzo sopravenne; -e poi Guidon mi diè che fare assai, -che tra camino a bada un pezzo il tenne. -D'una cosa in un'altra in modo entrai, -che mal di Bradamante mi sovenne: -sovienmene ora, e vo' narrarne inanti -che di Rinaldo e di Gradasso io canti. -Ma bisogna anco, prima ch'io ne parli, -che d'Agramante io vi ragioni un poco, -ch'avea ridutte le reliquie in Arli, -che gli restar del gran notturno fuoco, -quando a raccor lo sparso campo e a darli -soccorso e vettovaglie era atto il loco: -l'Africa incontra, e la Spagna ha vicina, -ed è in sul fiume assiso alla marina. -Per tutto 'l regno fa scriver Marsilio -gente a piedi e a cavallo, e trista e buona. -Per forza e per amore ogni navilio -atto a battaglia s'arma in Barcelona. -Agramante ogni dì chiama a concilio; -né a spesa né a fatica si perdona. -Intanto gravi esazioni e spesse -tutte hanno le città d'Africa oppresse. -Egli ha fatto offerire a Rodomonte, -perché ritorni (ed impetrar nol puote), -una cugina sua, figlia d'Almonte, -e 'l bel regno d'Oran dargli per dote. -Non si volse l'altier muover dal ponte, -ove tant'arme e tante selle vote -di quei che son già capitati al passo -ha ragunate, che ne cuopre il sasso. -Già non volse Marfisa imitar l'atto -di Rodomonte: anzi com'ella intese -ch'Agramante da Carlo era disfatto, -sue genti morte, saccheggiate e prese, -e che con pochi in Arli era ritratto, -senza aspettare invito, il camin prese: -venne in aiuto de la sua corona, -e l'aver gli proferse e la persona. -E gli menò Brunello, e gli ne fece -libero dono, il qual non avea offeso: -l'avea tenuto dieci giorni e diece -notti sempre in timor d'essere appeso; -e poi che né con forza né con prece -da nessun vide il patrocinio preso, -in sì sprezzato sangue non si volse -bruttar l'altiere mani, e lo disciolse. -Tutte l'antique ingiurie gli remesse, -e seco in Arli ad Agramante il trasse. -Ben dovete pensar che gaudio avesse -il re di lei ch'ad aiutarlo andasse: -e del gran conto ch'egli ne facesse, -volse che Brunel prova le mostrasse; -che quel di ch'ella gli avea fatto cenno, -di volerlo impiccar, fe' da buon senno. -Il manigoldo, in loco inculto ed ermo, -pasto di corvi e d'avoltoi lasciollo. -Ruggier ch'un'altra volta gli fu schermo, -e che 'l laccio gli avria tolto dal collo, -la giustizia di Dio fa ch'ora infermo -s'è ritrovato, ed aiutar non puollo: -e quando il seppe, era già il fatto occorso; -sì che restò Brunel senza soccorso. -Intanto Bradamante iva accusando -che così lunghi sian quei venti giorni, -li quai finiti, il termine era quando -a lei Ruggiero ed alla fede torni. -A chi aspetta di carcere o di bando -uscir, non par che 'l tempo più soggiorni -a dargli libertade, o de l'amata -patria vista gioconda e disiata. -In quel duro aspettare ella talvolta -pensa ch'Eto e Piròo sia fatto zoppo; -o sia la ruota guasta, ch'a dar volta -le par che tardi, oltr'all'usato, troppo. -Più lungo di quel giorno a cui, per molta -fede, nel cielo il giusto Ebreo fe' intoppo, -più de la notte ch'Ercole produsse, -parea lei ch'ogni notte, ogni dì fusse. -Oh quante volte da invidiar le diero -e gli orsi e i ghiri e i sonnacchiosi tassi! -che quel tempo voluto avrebbe intero -tutto dormir, che mai non si destassi; -né potere altro udir, fin che Ruggiero -dal pigro sonno lei non richiamassi. -Ma non pur questo non può far, ma ancora -non può dormir di tutta notte un'ora. -Di qua di là va le noiose piume -tutte premendo, e mai non si riposa. -Spesso aprir la finestra ha per costume, -per veder s'anco di Titon la sposa -sparge dinanzi al matutino lume -il bianco giglio e la vermiglia rosa: -non meno ancor, poi che nasciuto è 'l giorno, -brama vedere il ciel di stelle adorno. -Poi che fu quattro o cinque giorni appresso -il termine a finir, piena di spene -stava aspettando d'ora in ora il messo -che le apportasse: — Ecco Ruggier che viene. — -Montava sopra un'alta torre spesso, -ch'i folti boschi e le campagne amene -scopria d'intorno, e parte de la via -onde di Francia a Montalban si gìa. -Se di lontano o splendor d'arme vede, -o cosa tal ch'a cavallier simiglia, -che sia il suo disiato Ruggier crede, -e rasserena i begli occhi e le ciglia; -se disarmato o viandante a piede, -che sia messo di lui speranza piglia: -e se ben poi fallace la ritrova, -pigliar non cessa una ed un'altra nuova. -Credendolo incontrar, talora armossi, -scese dal monte e giù calò nel piano; -né lo trovando, si sperò che fossi -per altra strada giunto a Montalbano: -e col disir con ch'avea i piedi mossi -fuor del castel, ritornò dentro invano. -Né qua né là trovollo; e passò intanto -il termine aspettato da lei tanto. -Il termine passò d'uno, di dui, -di tre giorni, di sei, d'otto e di venti; -né vedendo il suo sposo, né di lui -sentendo nuova, incominciò lamenti -ch'avrian mosso a pietà nei regni bui -quelle Furie crinite di serpenti; -e fece oltraggio a' begli occhi divini, -al bianco petto, all'aurei crespi crini. -— Dunque fia ver (dicea) che mi convegna -cercare un che mi fugge e mi s'asconde? -Dunque debbo prezzare un che mi sdegna? -Debbo pregar chi mai non mi risponde? -Patirò che chi m'odia, il cor mi tegna? -un che sì stima sue virtù profonde, -che bisogno sarà che dal ciel scenda -immortal dea che 'l cor d'amor gli accenda. -Sa questo altier ch'io l'amo e ch'io l'adoro, -né mi vuol per amante né per serva. -Il crudel sa che per lui spasmo e moro, -e dopo morte a darmi aiuto serva. -E perché io non gli narri il mio martoro -atto a piegar la sua voglia proterva, -da me s'asconde, come aspide suole, -che, per star empio, il canto udir non vuole. -Deh, ferma, Amor, costui che così sciolto -dinanzi al lento mio correr s'affretta; -o tornami nel grado onde m'hai tolto -quando né a te né ad altri era suggetta! -Deh, come è il mio sperar fallace e stolto, -ch'in te con prieghi mai pietà si metta; -che ti diletti, anzi ti pasci e vivi -di trar dagli occhi lacrimosi rivi! -Ma di che debbo lamentarmi, ahi lassa -fuor che del mio desire irrazionale? -ch'alto mi leva, e sì ne l'aria passa, -ch'arriva in parte ove s'abbrucia l'ale; -poi non potendo sostener, mi lassa -dal ciel cader: né qui finisce il male; -che le rimette, e di nuovo arde: ond'io -non ho mai fine al precipizio mio. -Anzi via più che del disir, mi deggio -di me doler, che sì gli apersi il seno; -onde cacciata ha la ragion di seggio, -ed ogni mio poter può di lui meno. -Quel mi trasporta ognor di male in peggio, -né lo posso frenar, che non ha freno: -e mi fa certa che mi mena a morte, -perch'aspettando il mal noccia più forte. -Deh perché voglio anco di me dolermi? -Ch'error, se non d'amarti, unqua commessi? -Che maraviglia, se fragili e infermi -feminil sensi fur subito oppressi? -Perché dovev'io usar ripari e schermi -che la somma beltà non mi piacessi, -gli alti sembianti e le sagge parole? -Misero è ben chi veder schiva il sole! -Ed oltre al mio destino, io ci fui spinta -da le parole altrui degne di fede: -somma felicità mi fu dipinta, -ch'esser dovea di questo amor mercede. -Se la persuasione, ohimè! fu finta, -se fu inganno il consiglio che mi diede -Merlin, posso di lui ben lamentarmi, -ma non d'amar Ruggier posso ritrarmi. -Di Merlin posso e di Melissa insieme -dolermi, e mi dorrò d'essi in eterno, -che dimostrare i frutti del mio seme -mi fero dagli spirti de lo 'nferno, -per pormi sol con questa falsa speme -in servitù; né la cagion discerno, -se non ch'erano forse invidiosi -dei miei dolci, sicuri, almi riposi. — -Sì l'occupa il dolor, che non avanza -loco ove in lei conforto abbia ricetto; -ma, mal grado di quel, vien la speranza -e vi vuole alloggiare in mezzo il petto, -rifrescandole pur la rimembranza -di quel ch'al suo partir l'ha Ruggier detto: -e vuol, contra il parer degli altri affetti, -che d'ora in ora il suo ritorno aspetti. -Questa speranza dunque la sostenne, -finito i venti giorni, un mese appresso; -sì che il dolor sì forte non le tenne, -come tenuto avria, l'animo oppresso. -Un dì che per la strada se ne venne, -che per trovar Ruggier solea far spesso, -novella udì la misera, ch'insieme -fe' dietro all'altro ben fuggir la speme. -Venne a incontrare un cavallier guascone -che dal campo african venìa diritto, -ove era stato da quel dì prigione, -che fu inanzi a Parigi il gran conflitto. -Da lei fu molto posto per ragione, -fin che si venne al termine prescritto. -Domandò di Ruggiero, e in lui fermosse; -né fuor di questo segno più si mosse. -Il cavallier buon conto ne rendette, -che ben conoscea tutta quella corte: -e narrò di Ruggier, che contrastette -da solo a solo a Mandricardo forte; -e come egli l'uccise, e poi ne stette -ferito più d'un mese presso a morte: -e s'era la sua istoria qui conclusa, -fatto avria di Ruggier la vera escusa. -Ma come poi soggiunse, una donzella -esser nel campo, nomata Marfisa, -che men non era che gagliarda, bella, -né meno esperta d'arme in ogni guisa; -che lei Ruggiero amava e Ruggiero ella, -ch'egli da lei, ch'ella da lui divisa -si vedea raro, e ch'ivi ognuno crede -che s'abbiano tra lor data la fede; -e che come Ruggier si faccia sano, -il matrimonio publicar si deve; -e ch'ogni re, ogni principe pagano -gran piacere e letizia ne riceve, -che de l'uno e de l'altro sopraumano -conoscendo il valor, sperano in breve -far una razza d'uomini da guerra -la più gagliarda che mai fosse in terra; -credea il Guascon quel che dicea, non senza -cagion; che ne l'esercito de' Mori -openione e universal credenza, -e publico parlar n'era di fuori. -I molti segni di benivolenza -stati tra lor facean questi romori; -che tosto o buona o ria che la fama esce -fuor d'una bocca, in infinito cresce. -L'esser venuta a' Mori ella in aita -con lui, né senza lui comparir mai, -avea questa credenza stabilita; -ma poi l'avea accresciuta pur assai, -ch'essendosi del campo già partita -portandone Brunel (come io contai), -senza esservi d'alcuno richiamata, -sol per veder Ruggier v'era tornata. -Sol per lui visitar, che gravemente -languia ferito, in campo venuta era, -non una sola volta, ma sovente; -vi stava il giorno e si partia la sera: -e molto più da dir dava alla gente, -ch'essendo conosciuta così altiera, -che tutto 'l mondo a sé le parea vile, -solo a Ruggier fosse benigna e umile; -come il Guascon questo affermò per vero, -fu Bradamante da cotanta pena, -da cordoglio assalita così fiero, -che di quivi cader si tenne a pena. -Voltò, senza far motto, il suo destriero, -di gelosia, d'ira e di rabbia piena; -e da sé discacciata ogni speranza, -ritornò furibonda alla sua stanza. -E senza disarmarsi, sopra il letto, -col viso volta in giù, tutta si stese, -ove per non gridar, sì che sospetto -di sé facesse, i panni in bocca prese; -e ripetendo quel che l'avea detto -il cavalliero, in tal dolor discese, -che più non lo potendo sofferire, -fu forza a disfogarlo, e così a dire: -— Misera! a chi mai più creder debb'io? -Vo' dir ch'ognuno è perfido e crudele, -se perfido e crudel sei, Ruggier mio, -che sì pietoso tenni e sì fedele. -Qual crudeltà, qual tradimento rio -unqua s'udì per tragiche querele, -che non trovi minor, se pensar mai -al mio merto e al tuo debito vorai? -Perché, Ruggier, come di te non vive -cavallier di più ardir, di più bellezza, -né che a gran pezzo al tuo valore arrive, -né a' tuoi costumi, né a tua gentilezza; -perché non fai che fra tue illustri e dive -virtù, si dica ancor ch'abbi fermezza? -si dica ch'abbi inviolabil fede? -a chi ogn'altra virtù s'inchina e cede. -Non sai che non compar, se non v'è quella, -alcun valore, alcun nobil costume? -come né cosa (e sia quanto vuol bella) -si può vedere ove non splenda lume. -Facil ti fu ingannare una donzella -di cui tu signore eri, idolo e nume, -a cui potevi far con tue parole -creder che fosse oscuro e freddo il sole. -Crudel, di che peccato a doler t'hai, -se d'uccider chi t'ama non ti penti? -Se 'l mancar di tua fé sì leggier fai, -di ch'altro peso il cor gravar ti senti? -Come tratti il nimico, se tu dai -a me, che t'amo sì, questi tormenti? -Ben dirò che giustizia in ciel non sia, -s'a veder tardo la vendetta mia. -Se d'ogn'altro peccato assai più quello -de l'empia ingratitudine l'uomo grava, -e per questo dal ciel l'angel più bello -fu relegato in parte oscura e cava; -e se gran fallo aspetta gran flagello -quando debita emenda il cor non lava; -guarda ch'aspro flagello in te non scenda, -che mi se' ingrato e non vuoi farne emenda. -Di furto ancora, oltre ogni vizio rio, -di te, crudele, ho da dolermi molto. -Che tu mi tenga il cor, non ti dico io; -di questo io vo' che tu ne vada assolto: -dico di te, che t'eri fatto mio -e poi contra ragion mi ti sei tolto. -Renditi, iniquo, a me; che tu sai bene -che non si può salvar chi l'altrui tiene. -Tu m'hai, Ruggier, lasciata: io te non voglio, -né lasciarti volendo anco potrei; -ma per uscir d'affanno e di cordoglio, -posso e voglio, finire i giorni miei. -Di non morirti in grazia sol mi doglio; -che se concesso m'avessero i dei -ch'io fossi morta quando t'era grata, -morte non fu giamai tanto beata. — -Così dicendo, di morir disposta, -salta dal letto, e di rabbia infiammata -si pon la spada alla sinistra costa; -ma si ravvede poi che tutta è armata. -Il miglior spirto in questo le s'accosta, -e nel cor le ragiona: — O donna nata -di tant'alto lignaggio, adunque vuoi -finir con sì gran biasmo i giorni tuoi? -Non è meglio ch'al campo tu ne vada, -ove morir si può con laude ognora? -Quivi, s'avvien ch'inanzi a Ruggier cada, -del morir tuo si dorrà forse ancora: -ma s'a morir t'avvien per la sua spada, -chi sarà mai che più contenta muora? -Ragione è ben che di vita ti privi, -poi ch'è cagion ch'in tanta pena vivi. -Verrà forse anco che prima che muori -farai vendetta di quella Marfisa -che t'ha con fraudi e disonesti amori, -da te Ruggiero alienando, uccisa. — -Questi pensieri parveno migliori -alla donzella; e tosto una divisa -si fe' su l'arme, che volea inferire -disperazione e voglia di morire. -Era la sopraveste del colore -in che riman la foglia che s'imbianca -quando del ramo è tolta, o che l'umore -che facea vivo l'arbore le manca. -Ricamata a tronconi era, di fuore, -di cipresso che mai non si rinfranca, -poi ch'ha sentita la dura bipenne; -l'abito al suo dolor molto convenne. -Tolse il destrier ch'Astolfo aver solea, -e quella lancia d'or, che, sol toccando, -cader di sella i cavallier facea. -Perché la le diè Astolfo, e dove e quando, -e da chi prima avuta egli l'avea, -non credo che bisogni ir replicando. -Ella la tolse, non però sapendo -che fosse del valor ch'era, stupendo. -Senza scudiero e senza compagnia -scese dal monte, e si pose in camino -verso Parigi alla più dritta via, -ove era dianzi il campo saracino; -che la novella ancora non s'udia, -che l'avesse Rinaldo paladino, -aiutandolo Carlo e Malagigi, -fatto tor da l'assedio di Parigi. -Lasciati avea i Cadurci e la cittade -di Caorse alle spalle, e tutto 'l monte -ove nasce Dordona, e le contrade -scopria di Monferrante e di Clarmonte, -quando venir per le medesme strade -vide una donna di benigna fronte, -ch'uno scudo all'arcione avea attaccato; -e le venian tre cavallieri a lato. -Altre donne e scudier venivano anco, -qual dietro e qual dinanzi, in lunga schiera. -Domandò ad un che le passò da fianco, -la figlia d'Amon, chi la donna era; -e quel le disse: — Al re del popul franco -questa donna, mandata messaggera -fin di là dal polo artico, è venuta -per lungo mar da l'Isola Perduta. -Altri Perduta, altri ha nomata Islanda -l'isola, donde la regina d'essa, -di beltà sopra ogni beltà miranda, -dal ciel non mai, se non a lei, concessa, -lo scudo che vedete, a Carlo manda; -ma ben con patto e condizione espressa, -ch'al miglior cavallier lo dia, secondo -il suo parer, ch'oggi si trovi al mondo. -Ella, come si stima, e come in vero -è la più bella donna che mai fosse, -così vorria trovare un cavalliero -che sopra ogn'altro avesse ardire e posse: -perché fondato e fisso è il suo pensiero, -da non cader per centomila scosse, -che sol chi terrà in arme il primo onore, -abbia d'esser suo amante e suo signore. -Spera ch'in Francia, alla famosa corte -di Carlo Magno, il cavallier si trove, -che d'esser più d'ogn'altro ardito e forte -abbia fatto veder con mille prove. -I tre che son con lei come sue scorte, -re sono tutti, e dirovvi anco dove: -uno in Svezia, uno in Gotia, in Norvegia uno, -che pochi pari in arme hanno o nessuno. -Questi tre, la cui terra non vicina, -ma men lontana è all'Isola Perduta -(detta così, perché quella marina -da pochi naviganti è conosciuta), -erano amanti, e son, de la regina, -e a gara per moglier l'hanno voluta; -e per aggradir lei, cose fatt'hanno, -che, fin che giri il ciel, dette saranno. -Ma né questi ella, né alcun altro vuole, -ch'al mondo in arme esser non creda il primo. -— Ch'abbiate fatto prove (lor dir suole) -in questi luoghi appresso, poco istimo; -e s'un di voi, qual fra le stelle il sole, -fra gli altri duo sarà, ben lo sublimo: -ma non però che tenga il vanto parme -del miglior cavallier ch'oggi port'arme. -A Carlo Magno, il quale io stimo e onoro -pel più savio signor ch'al mondo sia, -son per mandare un ricco scudo d'oro, -con patto e condizion ch'esso lo dia -al cavalliero il quale abbia fra loro -il vanto e il primo onor di gagliardia. -Sia il cavalliero o suo vasallo o d'altri, -il parer di quel re vo' che mi scaltri. -Se, poi che Carlo avrà lo scudo avuto, -e l'avrà dato a quel sì ardito e forte, -che d'ogn'altro migliore abbia creduto, -che 'n sua si trovi o in alcun'altra corte, -uno di voi sarà, che con l'aiuto -di sua virtù lo scudo mi riporte; -porrò in quello ogni amore, ogni disio, -e quel sarà il marito e 'l signor mio. — -Queste parole han qui fatto venire -questi tre re dal mar tanto discosto, -che riportarne lo scudo, o morire -per man di chi l'avrà, s'hanno proposto. — -Ste' molto attenta Bradamante a udire -quanto le fu da lo scudier risposto; -il qual poi l'entrò inanzi, e così punse -il suo cavallo, che i compagni giunse. -Dietro non gli galoppa né gli corre -ella; ch'adagio il suo camin dispensa, -e molte cose tuttavia discorre, -che son per accadere: e in somma pensa -che questo scudo di Francia sia per porre -discordia e rissa e nimicizia immensa -fra paladini ed altri, se vuol Carlo -chiarir chi sia il miglior, e a colui darlo. -Le preme il cor questo pensier; ma molto -più le lo preme e strugge in peggior guisa -quel ch'ebbe prima, di Ruggier, che tolto -il suo amor le abbia e datolo a Marfisa. -Ogni suo senso in questo è sì sepolto, -che non mira la strada, né divisa -ove arrivar, né se troverà inanzi -commodo albergo ove la notte stanzi. -Come nave, che vento da la riva, -o qualch'altro accidente abbia disciolta, -va di nochiero e di governo priva -ove la porti o meni il fiume in volta; -così l'amante giovane veniva, -tutta a pensare al suo Ruggier rivolta, -ove vuol Rabican; che molte miglia -lontano è il cor che de' girar la briglia. -Leva al fin gli occhi, e vede il sol che 'l tergo -avea mostrato alle città di Bocco, -e poi s'era attuffato, come il mergo, -in grembo alla nutrice oltr'a Marocco: -e se disegna che la frasca albergo -le dia ne' campi, fa pensier di sciocco; -che soffia un vento freddo, e l'aria grieve -pioggia la notte le minaccia o nieve. -Con maggior fretta fa movere il piede -al suo cavallo; e non fece via molta, -che lasciar le campagne a un pastor vede, -che s'avea la sua gregge inanzi tolta. -La donna lui con molta istanza chiede -che le 'nsegni ove possa esser raccolta -o ben o mal; che mal sì non s'alloggia, -che non sia peggio star fuori alla pioggia. -Disse il pastore: — Io non so loco alcuno -ch'io vi sappia insegnar, se non lontano -più di quattro o di sei leghe, for ch'uno -che si chiama la rocca di Tristano. -Ma d'alloggiarvi non succede a ognuno; -perché bisogna, con la lancia in mano -che se l'acquisti e che se la difenda -il cavallier che d'alloggiarvi intenda. -Se, quando arriva un cavallier, si trova -vota la stanza, il castellan l'accetta; -ma vuol se sopravien poi gente nuova, -ch'uscir fuori alla giostra gli prometta. -Se non vien, non accade che si mova: -se vien, forza è che l'arme si rimetta -e con lui giostri, e chi di lor val meno, -ceda l'albergo ed esca al ciel sereno. -Se duo, tre, quattro o più guerrieri a un tratto -vi giungon prima, in pace albergo v'hanno; -e chi di poi vien solo, ha peggior patto, -perché seco giostrar quei più lo fanno. -Così, se prima un sol si sarà fatto -quivi alloggiar, con lui giostrar voranno -in duo, tre, quattro o più che verran dopo; -sì che, s'avrà valor, gli fia a grande uopo. -Non men, se donna capita o donzella, -accompagnata o sola a questa rocca, -e poi v'arrivi un'altra, alla più bella -l'albergo, ed alla men star di fuor tocca. — -Domanda Bradamante ove sia quella; -e il buon pastor non pur dice con bocca, -ma le dimostra il loco anco con mano, -da cinque o da sei miglia indi lontano. -La donna, ancor che Rabican ben trotte, -solecitar però non lo sa tanto -per quelle vie tutte fangose e rotte -da la stagion ch'era piovosa alquanto, -che prima arrivi, che la cieca notte -fatt'abbia oscuro il mondo in ogni canto. -Trovò chiusa la porta; e a chi n'avea -la guardia disse ch'alloggiar volea. -Rispose quel, ch'era occupato il loco -da donne e da guerrier che venner dianzi, -e stavano aspettando intorno al fuoco -che posta fosse lor la cena inanzi. -— Per lor non credo l'avrà fatta il cuoco, -s'ella v'è ancor, né l'han mangiata inanzi -(disse la donna): or va, che qui gli attendo; -che so l'usanza, e di servarla intendo. — -Parte la guardia, e porta l'imbasciata -là dove i cavallier stanno a grand'agio, -la qual non poté lor troppo esser grata, -ch'all'aer li fa uscir freddo e malvagio; -ed era una gran pioggia incomminciata. -Si levan pure, e piglian l'arme adagio: -restano gli altri; e quei non troppo in fretta -escono insieme ove la donna aspetta. -Eran tre cavallier che valean tanto, -che pochi al mondo valean più di loro; -ed eran quei che 'l dì medesmo a canto -veduti a quella messaggiera foro; -quei ch'in Islanda s'avean dato vanto -di Francia riportar lo scudo d'oro: -e perché avean meglio i cavalli punti, -prima di Bradamante eran giunti. -Di loro in arme pochi erano migliori, -ma di quei pochi ella sarà ben l'una; -ch'a nessun patto rimaner di fuori -quella notte intendea molle e digiuna. -Quei dentro alle finestre e ai corridori -miran la giostra al lume de la luna, -che mal grado de' nugoli lo spande -e fa veder, ben che la pioggia è grande. -Come s'allegra un bene acceso amante -ch'ai dolci furti per entrar si trova, -quando al fin senta dopo indugie tante, -che 'l taciturno chiavistel si muova; -così volontarosa Bradamante -di far di sé coi cavallieri prova, -s'allegrò quando udì le porte aprire, -calare il ponte, e fuor li vide uscire. -Tosto che fuor del ponte i guerrier vede -uscire insieme o con poco intervallo, -si volge a pigliar campo, e di poi riede -cacciando a tutta briglia il buon cavallo, -e la lancia arrestando, che le diede -il suo cugin, che non si corre in fallo, -che fuor di sella è forza che trabocchi, -se fosse Marte, ogni guerrier che tocchi. -Il re di Svezia, che primier si mosse, -fu primier anco a riversciarsi al piano: -con tanta forza l'elmo gli percosse -l'asta che mai non fu abbassata invano. -Poi corse il re di Gotia, e ritrovosse -coi piedi in aria al suo destrier lontano. -Rimase il terzo sottosopra volto, -ne l'acqua e nel pantan mezzo sepolto. -Tosto ch'ella ai tre colpi tutti gli ebbe -fatto andar coi piedi alti e i capi bassi, -alla rocca ne va, dove aver debbe -la notte albergo; ma prima che passi, -v'è chi la fa giurar che n'uscirebbe, -sempre ch'a giostrar fuori altri chiamassi. -Il signor de là dentro, che 'l valore -ben n'ha veduto, le fa grande onore. -Così le fa la donna che venuta -era con quegli tre quivi la sera, -come io dicea, da l'Isola Perduta, -mandata al re di Francia messaggiera. -Cortesemente a lei che la saluta, -sì come graziosa e affabil era, -si leva incontra, e con faccia serena -piglia per mano, e seco al fuoco mena. -La donna, cominciando a disarmarsi, -s'avea lo scudo e dipoi l'elmo tratto; -quando una cuffia d'oro, in che celarsi -soleano i capei lunghi e star di piatto, -uscì con l'elmo; onde caderon sparsi -giù per le spalle, e la scopriro a un tratto -e la feron conoscer per donzella, -non men che fiera in arme, in viso bella. -Quale al cader de le cortine suole -parer fra mille lampade la scena, -d'archi e di più d'una superba mole, -d'oro e di statue e di pitture piena; -o come suol fuor de la nube il sole -scoprir la faccia limpida e serena: -così, l'elmo levandosi dal viso, -mostrò la donna aprisse il paradiso. -Già son cresciute e fatte lunghe in modo -le belle chiome che tagliolle il frate, -che dietro al capo ne può fare un nodo, -ben che non sian come son prima state. -Che Bradamante sia, tien fermo e sodo -(che ben l'avea veduta altre fiate) -il signor de la rocca; e più che prima -or l'accarezza e mostra farne stima. -Siedono al fuoco, e con giocondo e onesto -ragionamento dan cibo all'orecchia, -mentre, per ricreare ancora il resto -del corpo, altra vivanda s'apparecchia. -La donna all'oste domandò se questo -modo d'albergo è nuova usanza o vecchia, -e quando ebbe principio, e chi la pose; -e 'l cavalliero a lei così rispose: -— Nel tempo che regnava Fieramonte, -Clodione, il figliuolo, ebbe una amica -leggiadra e bella e di maniere conte -quant'altra fosse a quella etade antica; -la quale amava tanto, che la fronte -non rivolgea da lei, più che si dica -che facesse da Ione il suo pastore, -perch'avea ugual la gelosia all'amore. -Qui la tenea; che 'l luogo avuto in dono -avea dal padre, e raro egli n'uscia; -e con lui dieci cavallier ci sono, -e dei miglior di Francia tuttavia. -Qui stando, venne a capitarci il buono -Tristano, ed una donna in compagnia, -liberata da lui poch'ore inante, -che traea presa a forza un fier gigante. -Tristano ci arrivò che 'l sol già volto -avea le spalle ai liti di Siviglia; -e domandò qui dentro esser raccolto, -perché non c'è altra stanza a dieci miglia. -Ma Clodion, che molto amava e molto -era geloso, in somma si consiglia -che forestier, sia chi si voglia, mentre -ci stia la bella donna, qui non entre. -Poi che con lunghe ed iterate preci -non poté aver qui albergo il cavalliero: -— Or quel che far con prieghi io non ti feci, -che 'l facci (disse) tuo mal grado, spero, — -E sfidò Clodion con tutti i dieci -che tenea appresso, e con un grido altiero -se gli offerse con lancia e spada in mano -provar che discortese era e villano; -con patto, che se fa che con lo stuolo -suo cada in terra, ed ei stia in sella forte, -ne la rocca alloggiar vuole egli solo, -e vuol gli altri serrar fuor de le porte. -Per non patir quest'onta, va il figliuolo -del re di Francia a rischio de la morte; -ch'aspramente percosso cade in terra, -e cadon gli altri, e Tristan fuor li serra. -Entrato ne la rocca, trova quella -la qual v'ho detta a Clodion sì cara, -e ch'avea, a par d'ogn'altra, fatto bella -Natura, a dar bellezze così avara. -Con lei ragiona: intanto arde e martella -di fuor l'amante aspra passione amara; -il qual non differisce a mandar prieghi -al cavallier, che dar non gli la nieghi. -Tristano, ancor che lei molto non prezze, -né prezzar, fuor ch'Isotta, altra potrebbe -(ch'altra né ch'ami vuol né ch'accarezze -la pozion che già incantata bebbe), -pur, perché vendicarsi de l'asprezze -che Clodion gli ha usate si vorebbe: -— Di far gran torto mi parria (gli disse) -che tal bellezza del suo albergo uscisse. -E quando a Clodion dormire incresca -solo alla frasca, e compagnia domandi, -una giovane ho meco bella e fresca, -non però di bellezze così grandi. -Questa sarò contento che fuor esca, -e ch'ubbidisca a tutti i suoi comandi; -ma la più bella mi par dritto e giusto -che stia con quel di noi ch'è più robusto. — -Escluso Clodione e malcontento, -andò sbuffando tutta notte in volta, -come s'a quei che ne l'alloggiamento -dormiano ad agio, fêsse egli l'ascolta; -e molto più che del freddo e del vento, -si dolea de la donna che gli è tolta. -La mattina Tristano a cui ne 'ncrebbe, -gli la rendé, donde il dolor fin ebbe: -perché gli disse, e lo fe' chiaro e certo, -che qual trovolla, tal gli la rendea; -e ben che degno era d'ogni onta in merto -de la discortesia ch'usata avea, -pur contentar d'averlo allo scoperto -fatto star tutta notte si volea: -né l'escusa accettò, che fosse Amore -stato cagion di così grave errore; -ch'Amor de' far gentile un cor villano, -e non far d'un gentil contrario effetto. -Partito che si fu di qui Tristano, -Clodion non ste' molto a mutar tetto; -ma prima consegnò la rocca in mano -a un cavallier, che molto gli era accetto, -con patto ch'egli e chi da lui venisse, -quest'uso in albergar sempre seguisse: -che 'l cavallier ch'abbia maggior possanza, -e la donna beltà, sempre ci alloggi; -e chi vinto riman, voti la stanza, -dorma sul prato, o altrove scenda e poggi. -E finalmente ci fe' por l'usanza -che vedete durar fin al dì d'oggi. — -Or, mentre il cavallier questo dicea, -lo scalco por la mensa fatto avea. -Fatto l'avea ne la gran sala porre, -di che non era al mondo la più bella; -indi con torchi accesi venne a torre -le belle donne, e le condusse in quella. -Bradamante, all'entrar, con gli occhi scorre, -e similmente fa l'altra donzella; -e tutte piene le superbe mura -veggon di nobilissima pittura. -Di sì belle figure è adorno il loco, -che per mirarle oblian la cena quasi, -ancor che ai corpi non bisogni poco, -pel travaglio del dì lassi rimasi, -e lo scalco si doglia e doglia il coco, -che i cibi lascin raffreddar nei vasi. -Pur fu chi disse: — Meglio fia che voi -pasciate prima il ventre, e gli occhi poi. — -S'erano assisi, e porre alle vivande -voleano man, quando il signor s'avide -che l'alloggiar due donne è un error grande: -l'una ha da star, l'altra convien che snide. -Stia la più bella, e la men fuor si mande, -dove la pioggia bagna e 'l vento stride. -Perché non vi son giunte amendue a un'ora, -l'una ha a partire, e l'altra a far dimora. -Chiama duo vecchi, e chiama alcune sue -donne di casa, a tal giudizio buone; -e le donzelle mira, e di lor due -chi la più bella sia, fa paragone. -Finalmente parer di tutti fue -ch'era più bella la figlia d'Amone; -e non men di beltà l'altra vincea, -che di valore i guerrier vinti avea. -Alla donna d'Islanda, che non sanza -molta sospizion stava di questo, -il signor disse: — Che serviàn l'usanza, -non v'ha, donna, a parer se non onesto. -A voi convien procacciar d'altra stanza, -quando a noi tutti è chiaro e manifesto -che costei di bellezze e di sembianti, -ancor ch'inculta sia, vi passa inanti. — -Come si vede in un momento oscura -nube salir d'umida valle al cielo, -che la faccia che prima era sì pura -cuopre del sol con tenebroso velo; -così la donna alla sentenza dura -che fuor la caccia ove è la pioggia e 'l gielo, -cangiar si vide, e non parer più quella -che fu pur dianzi sì gioconda e bella. -S'impallidisce e tutta cangia in viso, -che tal sentenza udir poco le aggrada. -Ma Bradamante con un saggio aviso, -che per pietà non vuol che se ne vada, -rispose: — A me non par che ben deciso, -né che ben giusto alcun giudicio cada, -ove prima non s'oda quanto nieghi -la parte o affermi, e sue ragioni alleghi. -Io ch'a difender questa causa toglio, -dico: o più bella o men ch'io sia di lei, -non venni come donna qui, né voglio -che sian di donna ora i progressi miei. -Ma chi dirà, se tutta non mi spoglio, -s'io sono o s'io non son quel ch'è costei? -E quel che non si sa non si de' dire, -e tanto men, quando altri n'ha a patire. -Ben son degli altri ancor, c'hanno le chiome -lunghe, com'io, né donne son per questo. -Se come cavallier la stanza, o come -donna acquistata m'abbia, è manifesto: -perché dunque volete darmi nome -di donna, se di maschio è ogni mio gesto? -La legge vostra vuol che ne sian spinte -donne da donne, e non da guerrier vinte. -Poniamo ancor, che, come a voi pur pare, -io donna sia (che non però il concedo), -ma che la mia beltà non fosse pare -a quella di costei; non però credo -che mi vorreste la mercé levare -di mia virtù, se ben di viso io cedo. -Perder per men beltà giusto non parmi -quel c'ho acquistato per virtù con l'armi. -E quando ancor fosse l'usanza tale, -che chi perde in beltà ne dovesse ire, -io ci vorrei restare, o bene o male -che la mia ostinazion dovesse uscire. -Per questo, che contesa diseguale -è tra me e questa donna, vo' inferire -che, contendendo di beltà, può assai -perdere, e meco guadagnar non mai. -E se guadagni e perdite non sono -in tutto pari, ingiusto è ogni partito: -sì ch'a lei per ragion, sì ancor per dono -spezial, non sia l'albergo proibito. -E s'alcuno di dir che non sia buono -e dritto il mio giudizio sarà ardito, -sarò per sostenergli a suo piacere, -che 'l mio sia vero, e falso il suo parere. — -La figliuola d'Amon, mossa a pietade -che questa gentil donna debba a torto -esser cacciata ove la pioggia cade, -ove né tetto, ove né pure è un sporto, -al signor de l'albergo persuade -con ragion molte e con parlare accorto, -ma molto più con quel ch'al fin concluse, -che resti cheto e accetti le sue scuse. -Qual sotto il più cocente ardore estivo, -quando di ber più desiosa è l'erba, -il fior ch'era vicino a restar privo -di tutto quell'umor ch'in vita il serba, -sente l'amata pioggia e si fa vivo; -così, poi che difesa sì superba -si vide apparecchiar la messaggera, -lieta e bella tornò come prim'era. -La cena, stata lor buon pezzo avante, -né ancor pur tocca, al fin godersi in festa, -senza che più di cavalliero errante -nuova venuta fosse lor molesta. -La goder gli altri, ma non Bradamante, -pure all'usanza addolorata e mesta; -che quel timor, che quel sospetto ingiusto -che sempre avea nel cor, le tollea il gusto. -Finita ch'ella fu (che saria forse -stata più lunga, se 'l desir non era -di cibar gli occhi), Bradamante sorse, -e sorse appresso a lei la messaggera. -Accennò quel signore ad un che corse -e prestamente allumò molta cera, -che splender fe' la sala in ogni canto. -Quel che seguì dirò ne l'altro canto. Timagora, Parrasio, Polignoto, -Protogene, Timante, Apollodoro, -Apelle, più di tutti questi noto, -e Zeusi, e gli altri ch'a quei tempi foro; -di quai la fama (mal grado di Cloto, -che spinse i corpi e dipoi l'opre loro) -sempre starà, fin che si legga e scriva, -mercé degli scrittori, al mondo viva: -e quei che furo a' nostri dì, o sono ora, -Leonardo, Andrea Mantegna, Gian Bellino, -duo Dossi, e quel ch'a par sculpe e colora, -Michel, più che mortale, angel divino; -Bastiano, Rafael, Tizian, ch'onora -non men Cador, che quei Venezia e Urbino; -e gli altri di cui tal l'opra si vede, -qual de la prisca età si legge e crede: -questi che noi veggiàn pittori, e quelli -che già mille e mill'anni in pregio furo, -le cose che son state, coi pennelli -fatt'hanno, altri su l'asse, altri sul muro. -Non però udiste antiqui, né novelli -vedeste mai dipingere il futuro: -e pur si sono istorie anco trovate, -che son dipinte inanzi che sian state. -Ma di saperlo far non si dia vanto -pittore antico né pittor moderno; -e ceda pur quest'arte al solo incanto, -del qual trieman gli spirti de lo 'nferno. -La sala ch'io dicea ne l'altro canto, -Merlin col libro, o fosse al lago Averno, -o fosse sacro alle Nursine grotte, -fece far dai demonii in una notte. -Quest'arte, con che i nostri antiqui fenno -mirande prove, a nostra etade è estinta. -Ma ritornando ove aspettar mi denno -quei che la sala hanno a veder dipinta, -dico ch'a uno scudier fu fatto cenno, -ch'accese i torchi; onde la notte, vinta -dal gran splendor, si dileguò d'intorno; -né più vi si vedria, se fosse giorno. -Quel signor disse lor: — Vo' che sappiate, -che de le guerre che son qui ritratte, -fin al dì d'oggi poche ne son state; -e son prima dipinte, che sian fatte. -Chi l'ha dipinte, ancor l'ha indovinate. -Quando vittoria avran, quando disfatte -in Italia saran le genti nostre, -potrete qui veder come si mostre. -Le guerre ch'i Franceschi da far hanno -di là da l'Alpe, o bene o mal successe, -dal tempo suo fin al millesim'anno, -Merlin profeta in questa sala messe; -il qual mandato fu dal re britanno -al franco re ch'a Marcomir successe: -e perché lo mandassi, e perché fatto -da Merlin fu il lavor, vi dirò a un tratto. -Re Fieramonte, che passò primiero -con l'esercito franco in Gallia il Reno, -poi che quella occupò, facea pensiero -di porre alla superba Italia il freno. -Faceal perciò, che più 'l romano Impero -vedea di giorno in giorno venir meno: -e per tal causa col britanno Arturo -volse far lega; ch'ambi a un tempo furo. -Artur, ch'impresa ancor senza consiglio -del profeta Merlin non fece mai, -di Merlin, dico, del demonio figlio, -che del futuro antivedeva assai, -per lui seppe, e saper fece il periglio -a Fieramonte, a che di molti guai -porrà sua gente, s'entra ne la terra -ch'Apenin parte, e il mare e l'Alpe serra. -Merlin gli fe' veder che quasi tutti -gli altri che poi di Francia scettro avranno, -o di ferro gli eserciti distrutti, -o di fame o di peste si vedranno; -e che brevi allegrezze e lunghi lutti, -poco guadagno ed infinito danno -riporteran d'Italia; che non lice -che 'l Giglio in quel terreno abbia radice. -Re Fieramonte gli prestò tal fede, -ch'altrove disegnò volger l'armata; -e Merlin, che così la cosa vede, -ch'abbia a venir, come se già sia stata, -avere a' prieghi di quel re si crede -la sala per incanto istoriata, -ove dei Franchi ogni futuro gesto, -come già stato sia, fa manifesto. -Acciò chi poi succederà, comprenda -che, come ha d'acquistar vittoria e onore, -qualor d'Italia la difesa prenda -incontra ogn'altro barbaro furore; -così, s'avvien ch'a danneggiarla scenda, -per porle il giogo e farsene signore, -comprenda, dico, e rendasi ben certo -ch'oltre a quei monti avrà il sepulcro aperto. — -Così disse; e menò le donne dove -incomincian l'istorie: e Singiberto -fa lor veder, che per tesor si muove, -che gli ha Maurizio imperatore offerto. -— Ecco che scende dal monte di Giove -nel pian da l'Ambra e dal Ticino aperto. -Vedete Eutar, che non pur l'ha respinto, -ma volto in fuga e fracassato e vinto. -Vedete Clodoveo, ch'a più di cento -mila persone fa passare il monte: -vedete il duca là di Benevento, -che con numer dispar vien loro a fronte. -Ecco finge lasciar l'alloggiamento, -e pon gli aguati: ecco, con morti ed onte, -al vin lombardo la gente francesca -corre, e riman come la lasca all'esca. -Ecco in Italia Childiberto quanta -gente di Francia e capitani invia; -né più che Clodoveo, si gloria e vanta -ch'abbia spogliata o vinta Lombardia; -che la spada del ciel scende con tanta -strage de' suoi, che n'è piena ogni via, -morti di caldo e di profluvio d'alvo; -sì che di dieci un non ne torna salvo. — -Mostra Pipino, e mostra Carlo appresso, -come in Italia un dopo l'altro scenda, -e v'abbia questo e quel lieto successo, -che venuto non v'è perché l'offenda; -ma l'uno, acciò il pastor Stefano oppresso, -l'altro Adriano, e poi Leon difenda: -l'un doma Aistulfo, e l'altro vince e prende -il successore, e al papa il suo onor rende. -Lor mostra appresso un giovene Pipino, -che con sua gente par che tutto cuopra -da le Fornaci al lito pelestino; -e faccia con gran spesa e con lung'opra -il ponte a Malamocco, e che vicino -giunga a Rialto, e vi combatta sopra. -Poi fuggir sembra, e che i suoi lasci sotto -l'acque; che 'l ponte il vento e 'l mar gli han rotto. -— Ecco Luigi Borgognon, che scende -là dove par che resti vinto e preso, -e che giurar gli faccia chi lo prende, -che più da l'arme sue non sarà offeso. -Ecco che 'l giuramento vilipende; -ecco di nuovo cade al laccio teso; -ecco vi lascia gli occhi, e come talpe -lo riportano i suoi di qua da l'Alpe. -Vedete un Ugo d'Arli far gran fatti, -e che d'Italia caccia i Berengari; -e due o tre volte gli ha rotti e disfatti, -or dagli Unni rimessi, or dai Bavari. -Poi da più forza è stretto di far patti -con l'inimico, e non sta in vita guari; -né guari dopo lui vi sta l'erede, -e 'l regno intero a Berengario cede. -Vedete un altro Carlo, che a' conforti -del buon Pastor fuoco in Italia ha messo; -e in due fiere battaglie ha duo re morti, -Manfredi prima, e Coradino appresso. -Poi la sua gente, che con mille torti -sembra tenere il nuovo regno oppresso, -di qua e di là per le città divisa, -vedete a un suon di vespro tutta uccisa. — -Lor mostra poi (ma vi parea intervallo -di molti e molti, non ch'anni, ma lustri) -scender dai monti un capitano Gallo, -e romper guerra ai gran Visconti illustri; -e con gente francesca a piè e a cavallo -par ch'Alessandria intorno cinga e lustri; -e che 'l duca il presidio dentro posto, -e fuor abbia l'aguato un po' discosto; -e la gente di Francia malaccorta, -tratta con arte ove la rete è tesa, -col conte Armeniaco, la cui scorta -l'avea condotta all'infelice impresa, -giaccia per tutta la campagna morta, -parte sia tratta in Alessandria presa: -e di sangue non men che d'acqua grosso, -il Tanaro si vede il Po far rosso. -Un, detto de la Marca, e tre Angioini -mostra l'un dopo l'altro, e dice: — Questi -a Bruci, a Dauni, a Marsi, a Salentini -vedete come son spesso molesti. -Ma né de' Franchi val né de' Latini -aiuto sì, ch'alcun di lor vi resti: -ecco li caccia fuor del regno, quante -volte vi vanno, Alfonso e poi Ferrante. -Vedete Carlo ottavo, che discende -da l'Alpe, e seco ha il fior di tutta Francia, -che passa il Liri e tutto 'l regno prende -senza mai stringer spada o abbassar lancia, -fuor che lo scoglio ch'a Tifeo si stende -su le braccia, sul petto e su la pancia; -che del buon sangue d'Avalo al contrasto -la virtù trova d'Inico del Vasto. — -Il signor de la rocca, che venìa -quest'istoria additando a Bradamante, -mostrato che l'ebbe Ischia, disse: — Pria -ch'a vedere altro più vi meni avante, -io vi dirò quel ch'a me dir solia -il bisavolo mio, quand'io era infante, -e quel che similmente mi dicea -che da suo padre udito anch'esso avea; -e 'l padre suo da un altro, o padre o fosse -avolo, e l'un da l'altro sin a quello -ch'a udirlo da quel proprio ritrovosse, -che l'imagini fe' senza pennello, -che qui vedete bianche, azzurre e rosse: -udì che, quando al re mostrò il castello -ch'or mostro a voi su quest'altiero scoglio, -gli disse quel ch'a voi riferir voglio. -Udì che gli dicea ch'in in questo loco -di quel buon cavallier che lo difende -con tanto ardir, che par disprezzi il fuoco -che d'ogn'intorno e sino al Faro incende, -nascer debbe in quei tempi o dopo poco -(e ben gli disse l'anno e le calende) -un cavalliero, a cui sarà secondo -ogn'altro che sin qui sia stato al mondo. -Non fu Nireo sì bel, non sì eccellente -di forze Achille, e non sì ardito Ulisse, -non sì veloce Lada, non prudente -Nestor, che tanto seppe e tanto visse, -non tanto liberal, tanto clemente, -l'antica fama Cesare descrisse; -che verso l'uom ch'in Ischia nascer deve, -non abbia ogni lor vanto a restar lieve. -E se si gloriò l'antiqua Creta, -quando il nipote in lei nacque di Celo, -se Tebe fece Ercole e Bacco lieta, -se si vantò dei duo gemelli Delo; -né questa isola avrà da starsi cheta, -che non s'esalti e non si levi in cielo, -quando nascerà in lei quel gran marchese -ch'avrà sì d'ogni grazia il ciel cortese. -Merlin gli disse, e replicògli spesso, -ch'era serbato a nascere all'etade -che più il romano Imperio saria oppresso, -acciò per lui tornasse in libertade. -Ma perché alcuno de' suoi gesti appresso -vi mostrerò, predirli non accade. — -Così disse; e tornò all'istoria dove -di Carlo si vedean l'inclite prove. -— Ecco (dicea) si pente Ludovico -d'aver fatto in Italia venir Carlo; -che sol per travagliar l'emulo antico -chiamato ve l'avea, non per cacciarlo; -e se gli scuopre al ritornar nimico -con Veneziani in lega, e vuol pigliarlo. -Ecco la lancia il re animoso abbassa, -apre la strada e, lor mal grado, passa. -Ma la sua gente ch'a difesa resta -del nuovo regno, ha ben contraria sorte; -che Ferrante, con l'opra che gli presta -il signor mantuan, torna sì forte, -ch'in pochi mesi non ne lascia testa, -o in terra o in mar, che non sia messa a morte: -poi per un uom che gli è con fraude estinto, -non par che senta il gaudio d'aver vinto. — -Così dicendo, mostragli il marchese -Alfonso di Pescara, e dice: — Dopo -che costui comparito in mille imprese -sarà più risplendente che piropo, -ecco qui ne l'insidie che gli ha tese -con un trattato doppio il rio Etiopo, -come scannato di saetta cade -il miglior cavallier di quella etade. -Poi mostra ove il duodecimo Luigi -passa con scorta italiana i monti, -e svelto il Moro, pon la Fiordaligi -nel fecondo terren già de' Visconti. -Indi manda sua gente pei vestigi -di Carlo, a far sul Garigliano i ponti; -la quale appresso andar rotta e dispersa -si vede, e morta e nel fiume summersa. -Vedete in Puglia non minor macello -de l'esercito franco in fuga volto; -e Consalvo Ferrante ispano è quello -che due volte alla trappola l'ha colto. -E come qui turbato, così bello -mostra Fortuna al re Luigi il volto -nel ricco pian che, fin dove Adria stride, -tra l'Apenino e l'Alpe il Po divide. — -Così dicendo, se stesso riprende -che quel ch'avea a dir prima abbia lasciato; -e torna a dietro, e mostra uno che vende -il castel che 'l signor suo gli avea dato; -mostra il perfido Svizzero che prende -colui ch'a sua difesa l'ha assoldato: -le quai due cose, senza abbassar lancia, -han dato la vittoria al re di Francia. -Poi mostra Cesar Borgia col favore -di questo re farsi in Italia grande; -ch'ogni baron di Roma, ogni signore -suggietto a lei, par ch'in esilio mande. -Poi mostra il re che di Bologna fuore -leva la Sega, e vi fa entrar le Giande; -poi come volge i Genovesi in fuga -fatti ribelli, e la città suggiuga. -— Vedete (dice poi) di gente morta -coperta in Giaradada la campagna. -Par ch'apra ogni cittade al re la porta, -e che Venezia a pena vi rimagna. -Vedete come al papa non comporta -che, passati i confini di Romagna, -Modana al duca di Ferrara toglia, -né qui si fermi, e 'l resto tor gli voglia: -e fa, all'incontro, a lui Bologna torre; -che v'entra la Bentivola famiglia. -Vedete il campo de' Francesi porre -a sacco Brescia, poi che la ripiglia; -e quasi a un tempo Felsina soccorre, -e 'l campo ecclesiastico sgombiglia: -e l'uno e l'altro poi nei luoghi bassi -par si riduca del lito de Chiassi. -Di qua la Francia, e di là il campo ingrossa -la gente ispana; e la battaglia è grande. -Cader si vede e far la terra rossa -la gente d'arme in amendua le bande. -Piena di sangue uman pare ogni fossa: -Marte sta in dubbio u' la vittoria mande. -Per virtù d'un Alfonso al fin si vede -che resta il Franco, e che l'Ispano cede, -e che Ravenna saccheggiata resta. -Si morde il papa per dolor le labbia, -e fa da' monti, a guisa di tempesta, -scendere in fretta una tedesca rabbia, -ch'ogni Francese, senza mai far testa, -di qua da l'Alpe par che cacciat'abbia, -e che posto un rampollo abbia del Moro -nel giardino onde svelse i Gigli d'oro. -Ecco torna il Francese: eccolo rotto -da l'infedele Elvezio ch'in suo aiuto -con troppo rischio ha il giovine condotto, -del quale il padre avea preso e venduto. -Vedete poi l'esercito, che sotto -la ruota di Fortuna era caduto, -creato il novo re, che si prepara -de l'onta vendicar ch'ebbe a Novara: -e con migliore auspizio ecco ritorna. -Vedete il re Francesco inanzi a tutti, -che così rompe a' Svizzeri le corna, -che poco resta a non gli aver distrutti: -sì che 'l titolo mai più non gli adorna, -ch'usurpato s'avran quei villan brutti, -che domator de' principi, e difesa -si nomeran de la cristiana Chiesa. -Ecco, mal grado de la lega, prende -Milano, e accorda il giovene Sforzesco. -Ecco Borbon che la città difende -pel re di Francia dal furor tedesco. -Eccovi poi, che mentre altrove attende -ad altre magne imprese il re Francesco, -né sa quanta superbia e crudeltade -usino i suoi, gli è tolta la cittade. -Ecco un altro Francesco ch'assimiglia -di virtù all'avo, e non di nome solo; -che, fatto uscirne i Galli, si ripiglia -col favor de la Chiesa il patrio suolo. -Francia anco torna, ma ritien la briglia, -né scorre Italia, come suole, a volo; -che 'l bon duca di Mantua sul Ticino -le chiude il passo, e le taglia il camino. -Federico, ch'ancor non ha la guancia -de' primi fiori sparsa, si fa degno -di gloria eterna, ch'abbia con la lancia, -ma più con diligenza e con ingegno, -Pavia difesa dal furor di Francia, -e del Leon del mar rotto il disegno. -Vedete duo marchesi, ambi terrore -di nostre genti, ambi d'Italia onore; -ambi d'un sangue, ambi in un nido nati. -Di quel marchese Alfonso il primo è figlio, -il qual tratto dal Negro negli aguati, -vedeste il terren far di sé vermiglio. -Vedete quante volte son cacciati -d'Italia i Franchi pel costui consiglio. -L'altro di sì benigno e lieto aspetto -il Vasto signoreggia, e Alfonso è detto. -Questo è il buon cavallier, di cui dicea, -quando l'isola d'Ischia vi mostrai, -che già profetizzando detto avea -Merlino a Fieramonte cose assai: -che diferire a nascere dovea -nel tempo che d'aiuto più che mai -l'afflitta Italia, la Chiesa e l'Impero -contra ai barbari insulti avria mistiero. -Costui dietro al cugin suo di Pescara -con l'auspicio di Prosper Colonnese, -vedete come la Bicocca cara -fa parere all'Elvezio e più al Francese. -Ecco di nuovo Francia si prepara -di ristaurar le mal successe imprese: -scende il re con un campo in Lombardia, -un altro per pigliar Napoli invia. -Ma quella che di noi fa come il vento -d'arida polve, che l'aggira in volta, -la leva fin al cielo, e in un momento -a terra la ricaccia, onde l'ha tolta; -fa ch'intorno a Pavia crede di cento -mila persone aver fatto raccolta -il re, che mira a quel che di man gli esce, -non se la gente sua si scema o cresce. -Così per colpa de' ministri avari, -e per bontà del re che se ne fida, -sotto l'insegne si raccoglion rari, -quando la notte il campo all'arme grida, -che si vede assalir dentro ai ripari -dal sagace Spagnuol, che con la guida -di duo del sangue d'Avalo ardiria -farsi nel cielo e ne lo 'nferno via. -Vedete il meglio de la nobiltade -di tutta Francia alla campagna estinto. -Vedete quante lance e quante spade -han d'ogn'intorno il re animoso cinto; -vedete che 'l destrier sotto gli cade: -né per questo si rende o chiama vinto, -ben ch'a lui solo attenda, a lui sol corra -lo stuol nimico, e non è chi 'l soccorra. -Il re gagliardo si difende a piede, -e tutto de l'ostil sangue si bagna: -ma virtù al fine a troppa forza cede. -Ecco il re preso, ed eccolo in Ispagna: -ed a quel di Pescara dar si vede, -ed a chi mai da lui non si scompagna, -a quel del Vasto, le prime corone -del campo rotto e del gran re prigione. -Rotto a Pavia l'un campo, l'altro ch'era, -per dar travaglio a Napoli, in camino, -restar si vede, come, se la cera -gli manca o l'oglio, resta il lumicino. -Ecco che 'l re ne la prigione ibera -lascia i figliuoli, e torna al suo domìno: -ecco fa a un tempo egli in Italia guerra; -ecco altri la fa a lui ne la sua terra. -Vedete gli omicidi e le rapine -in ogni parte far Roma dolente; -e con incendi e stupri le divine -e le profane cose ire ugualmente. -Il campo de la lega le ruine -mira d'appresso, e 'l pianto e 'l grido sente; -e dove ir dovria inanzi, torna indietro, -e prender lascia il successor di Pietro. -Manda Lotrecco il re con nuove squadre, -non più per fare in Lombardia l'impresa, -ma per levar de le mani empie e ladre -il capo e l'altre membra de la Chiesa; -che tarda sì, che trova al Santo Padre -non esser più la libertà contesa. -Assedia la cittade ove sepolta -è la sirena, e tutto il regno volta. -Ecco l'armata imperial si scioglie -per dar soccorso alla città assediata; -ed ecco il Doria che la via le toglie, -e l'ha nel mar sommersa, arsa e spezzata. -Ecco Fortuna come cangia voglie, -sin qui a' Francesi sì propizia stata; -che di febbre gli uccide, e non di lancia, -sì che di mille un non ne torna in Francia. — -La sala queste ed altre istorie molte, -che tutte saria lungo riferire, -in vari e bei colori avea raccolte; -ch'era ben tal che le potea capire. -Tornano a rivederle due e tre volte, -né par che se ne sappiano partire; -e rilegon più volte quel ch'in oro -si vedea scritto sotto il bel lavoro. -Le belle donne e gli altri quivi stati -mirando e ragionando insieme un pezzo, -fur dal signore a riposar menati, -ch'onorar gli osti suoi molt'era avezzo. -Già sendo tutti gli altri addormentati, -Bradamante a corcar si va da sezzo, -e si volta or su questo or su quel fianco, -né può dormir sul destro né sul manco. -Pur chiude alquanto appresso all'alba i lumi, -e di veder le pare il suo Ruggiero, -il qual le dica: — Perché ti consumi, -dando credenza a quel che non è vero? -Tu vedrai prima all'erta andare i fiumi, -ch'ad altri mai, ch'a te, volga il pensiero. -S'io non amassi te, né il cor potrei -né le pupille amar degli occhi miei. — -E par che le suggiunga: — Io son venuto -per battezzarmi e far quanto ho promesso; -e s'io son stato tardi, m'ha tenuto -altra ferita, che d'amore, oppresso. — -Fuggesi in questo il sonno, né veduto -è più Ruggier che se ne va con esso. -Rinuova allora i pianti la donzella, -e ne la mente sua così favella: -— Fu quel che piacque, un falso sogno; e questo -che mi tormenta, ahi lassa! è un veggiar vero. -Il ben fu sogno a dileguarsi presto, -ma non è sogno il martire aspro e fiero. -Perch'or non ode e vede il senso desto -quel ch'udire e veder parve al pensiero? -A che condizione, occhi miei, sete, -che chiusi il ben, e aperti il mal vedete? -Il dolce sonno mi promise pace, -ma l'amaro veggiar mi torna in guerra: -il dolce sonno è ben stato fallace, -ma l'amaro veggiare, ohimè! non erra. -Se 'l vero annoia, e il falso sì mi piace, -non oda o vegga mai più vero in terra: -se 'l dormir mi dà gaudio, e il veggiar guai, -possa io dormir senza destarmi mai. -O felice animal ch'un sonno forte -sei mesi tien senza mai gli occhi aprire! -Che s'assimigli tal sonno alla morte, -tal veggiare alla vita, io non vo' dire; -ch'a tutt'altre contraria la mia sorte -sente morte a veggiar, vita a dormire: -ma s'a tal sonno morte s'assimiglia, -deh, Morte, or ora chiudimi le ciglia! — -De l'orizzonte il sol fatte avea rosse -l'estreme parti, e dileguato intorno -s'eran le nubi, e non parea che fosse -simile all'altro il cominciato giorno; -quando svegliata Bradamante armosse -per fare a tempo al suo camin ritorno, -rendute avendo grazie a quel signore -del buono albergo e de l'avuto onore. -E trovò che la donna messaggera, -con damigelle sue, con suoi scudieri -uscita de la rocca, venut'era -là dove l'attendean quei tre guerrieri; -quei che con l'asta d'oro essa la sera -fatto avea riversar giù dei destrieri, -e che patito avean con gran disagio -la notte l'acqua e il vento e il ciel malvagio. -Arroge a tanto mal, ch'a corpo voto -ed essi e i lor cavalli eran rimasi, -battendo i denti e calpestando il loto: -ma quasi lor più incresce, e senza quasi -incresce e preme più, che farà noto -la messaggera, appresso agli altri casi, -alla sua donna, che la prima lancia -gli abbia abbattuti, c'han trovata in Francia. -E presti o di morire, o di vendetta -subito far del ricevuto oltraggio, -acciò la messaggera, che fu detta -Ullania, che nomata più non aggio, -la mala opinion ch'avea concetta -forse di lor, si tolga del coraggio, -la figliuola d'Amon sfidano a giostra, -tosto che fuor del ponte ella si mostra; -non pensando però che sia donzella, -che nessun gesto di donzella avea. -Bradamante ricusa, come quella -ch'in fretta gìa, né soggiornar volea. -Pur tanto e tanto fur molesti, ch'ella, -che negar senza biasmo non potea, -abbassò l'asta, ed a tre colpi in terra -li mandò tutti; e qui finì la guerra: -che senza più voltarsi mostrò loro -lontan le spalle, e dileguossi tosto. -Quei che, per guadagnar lo scudo d'oro, -di paese venian tanto discosto, -poi che senza parlar ritti si foro, -che ben l'avean con ogni ardir deposto, -stupefatti parean di maraviglia, -né verso Ullania ardian d'alzar le ciglia; -che con lei molte volte per camino -dato s'avean troppo orgogliosi vanti: -che non è cavallier né paladino -ch'al minor di lor tre durasse avanti. -La donna, perché ancor più a capo chino -vadano, e più non sian così arroganti, -fa lor saper che fu femina quella, -non paladin, che li levò di sella. -— Or che dovete (diceva ella), quando -così v'abbia una femina abbattuti, -pensar che sia Rinaldo o che sia Orlando, -non senza causa in tant'onore avuti? -S'un d'essi avrà lo scudo, io vi domando -se migliori di quel che siate suti -contra una donna, contra lor sarete? -Non credo io già, né voi forse il credete. -Questo vi può bastar; né vi bisogna -del valor vostro aver più chiara prova: -e quel di voi che temerario aggogna -far di sé in Francia esperienza nuova, -cerca giungere il danno alla vergogna -in che ieri ed oggi s'è trovato e trova; -se forse egli non stima utile e onore, -qualor per man di tai guerrier si muore. — -Poi che ben certi i cavallieri fece -Ullania, che quell'era una donzella, -la qual fatto avea nera più che pece -la fama lor, ch'esser solea sì bella; -e dove una bastava, più di diece -persone il detto confermar di quella; -essi fur per voltar l'arme in se stessi, -da tal dolor, da tanta rabbia oppressi. -E da lo sdegno e da la furia spinti, -l'arme si spoglian, quante n'hanno indosso; -né si lascian la spada onde eran cinti, -e del castel la gittano nel fosso: -e giuran, poi che gli ha una donna vinti, -e fatto sul terren battere il dosso, -che, per purgar sì grave error, staranno -senza mai vestir l'arme intero un anno; -e che n'andranno a piè pur tuttavia, -o sia la strada piana, o scenda e saglia; -né, poi che l'anno anco finito sia, -saran per cavalcare o vestir maglia, -s'altr'arme, altro destrier da lor non fia -guadagnato per forza di battaglia. -Così senz'arme, per punir lor fallo, -essi a piè se n'andar, gli altri a cavallo. -Bradamante la sera ad un castello -ch'alla via di Parigi si ritrova, -di Carlo e di Rinaldo suo fratello, -ch'avean rotto Agramante, udì la nuova. -Quivi ebbe buona mensa e buono ostello: -ma questo ed ogn'altro agio poco giova; -che poco mangia e poco dorme, e poco, -non che posar, ma ritrovar può loco. -Non però di costei voglio dir tanto, -ch'io non ritorni a quei duo cavallieri -che d'accordo legato aveano a canto -la solitaria fonte i duo destrieri. -La pugna lor, di che vo' dirvi alquanto, -non è per acquistar terre né imperi, -ma perché Durindana il più gagliardo -abbia ad avere, e a cavalcar Baiardo. -Senza che tromba o segno altro accennasse -quando a muover s'avean, senza maestro -che lo schermo e 'l ferir lor ricordasse, -e lor pungesse il cor d'animoso estro, -l'uno e l'altro d'accordo il ferro trasse, -e si venne a trovare agile e destro. -I spessi e gravi colpi a farsi udire -incominciaro, ed a scaldarsi l'ire. -Due spade altre non so per prova elette -ad esser ferme e solide e ben dure, -ch'a tre colpi di quei si fosser rette, -ch'erano fuor di tutte le misure: -ma quelle fur di tempre sì perfette, -per tante esperienze sì sicure, -che ben poteano insieme riscontrarsi -con mille colpi e più, senza spezzarsi. -Or qua Rinaldo, or là mutando il passo, -con gran destrezza e molta industria ed arte -fuggia di Durindana il gran fracasso, -che sa ben come spezza il ferro e parte. -Ferìa maggior percosse il re Gradasso; -ma quasi tutte al vento erano sparte: -se coglieva talor, coglieva in loco -ove potea gravare e nuocer poco. -L'altro con più ragion sua spada inchina, -e fa spesso al pagan stordir le braccia; -e quando ai fianchi e quando ove confina -la corazza con l'elmo, gli la caccia: -ma trova l'armatura adamantina, -sì ch'una maglia non ne rompe o straccia. -Se dura e forte la ritrova tanto, -avvien perch'ella è fatta per incanto. -Senza prender riposo erano stati -gran pezzo tanto alla battaglia fisi, -che volti gli occhi in nessun mai de' lati -aveano, fuor che nei turbati visi; -quando da un'altra zuffa distornati, -e da tanto furor furon divisi. -Ambi voltaro a un gran strepito il ciglio, -e videro Baiardo in gran periglio. -Vider Baiardo a zuffa con un mostro -ch'era più di lui grande, ed era augello: -avea più lungo di tre braccia il rostro; -l'altre fattezze avea di vipistrello; -avea la piuma negra come inchiostro; -avea l'artiglio grande, acuto e fello; -occhi di fuoco, e sguardo avea crudele; -l'ale avea grandi, che parean due vele. -Forse era vero augel, ma non so dove -o quando un altro ne sia stato tale. -Non ho veduto mai, né letto altrove, -fuor ch'in Turpin, d'un sì fatto animale: -questo rispetto a credere mi muove, -che l'augel fosse un diavolo infernale -che Malagigi in quella forma trasse, -acciò che la battaglia disturbasse. -Rinaldo il credette anco, e gran parole -e sconce poi con Malagigi n'ebbe. -Egli già confessar non glielo vuole; -e perché tor di colpa si vorrebbe, -giura pel lume che dà lume al sole, -che di questo imputato esser non debbe. -Fosse augello o demonio, il mostro scese -sopra Baiardo, e con l'artiglio il prese. -Le redine il destrier, ch'era possente, -subito rompe, e con sdegno e con ira -contra l'augello i calci adopra e 'l dente; -ma quel veloce in aria si ritira: -indi ritorna, e con l'ugna pungente -lo va battendo, e d'ogn'intorno aggira. -Baiardo offeso, e che non ha ragione -di schermo alcun, ratto a fuggir si pone. -Fugge Baiardo alla vicina selva, -e va cercando le più spesse fronde. -Segue di sopra la pennuta belva -con gli occhi fisi ove la via seconde; -ma pure il buon destrier tanto s'inselva, -ch'al fin sotto una grotta si nasconde. -Poi che l'alato ne perde la traccia, -ritorna in cielo, e cerca nuova caccia. -Rinaldo e 'l re Gradasso, che partire -veggono la cagion de la lor pugna, -restan d'accordo quella differire -fin che Baiardo salvino da l'ugna -che per la scura selva il fa fuggire; -con patto, che qual d'essi lo raggiugna, -a quella fonte lo restituisca, -ove la lite lor poi si finisca. -Seguendo, si partir da la fontana, -l'erbe novellamente in terra peste. -Molto da lor Baiardo s'allontana, -ch'ebbon le piante in seguir lui mal preste. -Gradasso, che non lungi avea l'alfana, -sopra vi salse, e per quelle foreste -molto lontano il paladin lasciosse, -tristo e peggio contento che mai fosse. -Rinaldo perdé l'orme in pochi passi -del suo destrier, che fe' strano viaggio; -ch'andò rivi cercando, arbori e sassi, -il più spinoso luogo, il più selvaggio, -acciò che da quella ugna si celassi, -che cadendo dal ciel gli facea oltraggio. -Rinaldo, dopo la fatica vana, -ritornò ad aspettarlo alla fontana, -se da Gradasso vi fosse condutto, -sì come tra lor dianzi si convenne. -Ma poi che far si vide poco frutto, -dolente e a piedi in campo se ne venne. -Or torniamo a quell'altro, al quale in tutto -diverso da Rinaldo il caso avvenne. -Non per ragion, ma per suo gran destino -sentì anitrire il buon destrier vicino; -e lo trovò ne la spelonca cava, -da l'avuta paura anco sì oppresso, -ch'uscire allo scoperto non osava: -perciò l'ha in suo potere il pagan messo. -Ben de la convenzion si raccordava, -ch'alla fonte tornar dovea con esso; -ma non è più disposto d'osservarla, -e così in mente sua tacito parla: -— Abbial chi aver lo vuol con lite e guerra: -io d'averlo con pace più disio. -Da l'uno all'altro capo de la terra -già venni, e sol per far Baiardo mio. -Or ch'io l'ho in mano, ben vaneggia ed erra -chi crede che depor lo volesse io. -Se Rinaldo lo vuol, non disconviene, -come io già in Francia, or s'egli in India viene. -Non men sicura a lui fia Sericana, -che già due volte Francia a me sia stata. — -Così dicendo, per la via più piana -ne venne in Arli, e vi trovò l'armata; -e quindi con Baiardo e Durindana -si partì sopra una galea spalmata. -Ma questo a un'altra volta; ch'or Gradasso, -Rinaldo e tutta Francia a dietro lasso. -Voglio Astolfo seguir, ch'a sella e a morso, -a uso facea andar di palafreno -l'ippogrifo per l'aria a sì gran corso, -che l'aquila e il falcon vola assai meno. -Poi che de' Galli ebbe il paese scorso -da un mare a l'altro e da Pirene al Reno, -tornò verso ponente alla montagna -che separa la Francia da la Spagna. -Passò in Navarra, ed indi in Aragona, -lasciando a chi 'l vedea gran maraviglia. -Restò lungi a sinistra Taracona, -Biscaglia a destra, ed arrivò in Castiglia. -Vide Gallizia e 'l regno d'Ulisbona, -poi volse il corso a Cordova e Siviglia; -né lasciò presso al mar né fra campagna -città, che non vedesse tutta Spagna. -Vide le Gade e la meta che pose -ai primi naviganti Ercole invitto. -Per l'Africa vagar poi si dispose -dal mar d'Atlante ai termini d'Egitto. -Vide le Baleariche famose, -e vide Eviza appresso al camin dritto. -Poi volse il freno, e tornò verso Arzilla -sopra 'l mar che da Spagna dipartilla. -Vide Marocco, Feza, Orano, Ippona, -Algier, Buzea, tutte città superbe, -c'hanno d'altre città tutte corona, -corona d'oro, e non di fronde o d'erbe. -Verso Biserta e Tunigi poi sprona: -vide Capisse e l'isola d'Alzerbe -e Tripoli e Bernicche e Tolomitta, -sin dove il Nilo in Asia si tragitta. -Tra la marina e la silvosa schena -del fiero Atlante vide ogni contrada. -Poi diè le spalle ai monti di Carena, -e sopra i Cirenei prese la strada; -e traversando i campi de l'arena, -venne a' confin di Nubia in Albaiada. -Rimase dietro il cimiter di Batto -e l'gran tempio d'Amon, ch'oggi è disfatto. -Indi giunse ad un'altra Tremisenne, -che di Maumetto pur segue lo stilo. -Poi volse agli altri Etiopi le penne, -che contra questi son di là dal Nilo. -Alla città di Nubia il camin tenne -tra Dobada e Coalle in aria a filo. -Questi cristiani son, quei saracini; -e stan con l'arme in man sempre a' confini. -Senapo imperator de la Etiopia, -ch'in loco tien di scettro in man la croce, -di gente, di cittadi e d'oro ha copia -quindi fin là dove il mar Rosso ha foce; -e serva quasi nostra fede propia, -che può salvarlo da l'esilio atroce. -Gli è, s'io non piglio errore, in questo loco -ove al battesmo loro usano un fuoco. -Dismontò il duca Astolfo alla gran corte -dentro di Nubia, e visitò il Senapo. -Il castello è più ricco assai che forte, -ove dimora d'Etiopia il capo. -Le catene dei ponti e de le porte, -gangheri e chiavistei da piedi a capo, -e finalmente tutto quel lavoro -che noi di ferro usiamo, ivi usan d'oro. -Ancor che del finissimo metallo -vi sia tale abondanza, è pur in pregio. -Colonnate di limpido cristallo -son le gran logge del palazzo regio. -Fan rosso, bianco, verde, azzurro e giallo -sotto i bei palchi un relucente fregio, -divisi tra proporzionati spazi, -rubin, smeraldi, zafiri e topazi. -In mura, in tetti, in pavimenti sparte -eran le perle, eran le ricche gemme. -Quivi il balsamo nasce; e poca parte -n'ebbe appo questi mai Ierusalemme. -Il muschio ch'a noi vien, quindi si parte; -quindi vien l'ambra, e cerca altre maremme: -vengon le cose in somma da quel canto, -che nei paesi nostri vaglion tanto. -Si dice che 'l soldan, re de l'Egitto, -a quel re dà tributo e sta suggetto, -perch'è in poter di lui dal camin dritto -levare il Nilo, e dargli altro ricetto, -e per questo lasciar subito afflitto -di fame il Cairo e tutto quel distretto. -Senapo detto è dai sudditi suoi; -gli diciàn Presto o Preteianni noi. -Di quanti re mai d'Etiopia foro, -il più ricco fu questi e il più possente; -ma con tutta sua possa e suo tesoro, -gli occhi perduti avea miseramente. -E questo era il minor d'ogni martoro: -molto era più noioso e più spiacente, -che, quantunque ricchissimo si chiame, -cruciato era da perpetua fame. -Se per mangiare o ber quello infelice -venìa cacciato dal bisogno grande, -tosto apparia l'infernal schiera ultrice, -le mostruose arpie brutte e nefande, -che col griffo e con l'ugna predatrice -spargeano i vasi, e rapian le vivande; -e quel che non capia lor ventre ingordo, -vi rimanea contaminato e lordo. -E questo, perch'essendo d'anni acerbo, -e vistosi levato in tanto onore, -che, oltre alle ricchezze, di più nerbo -era di tutti gli altri e di più core; -divenne, come Lucifer, superbo, -e pensò muover guerra al suo Fattore. -Con la sua gente la via prese al dritto -al monte onde esce il gran fiume d'Egitto. -Inteso avea che su quel monte alpestre, -ch'oltre alle nubi e presso al ciel si leva, -era quel paradiso che terrestre -si dice, ove abitò già Adamo ed Eva. -Con camelli, elefanti, e con pedestre -esercito, orgoglioso si moveva -con gran desir, se v'abitava gente, -di farla alle sue leggi ubbidiente. -Dio gli ripresse il temerario ardire, -e mandò l'angel suo tra quelle frotte, -che centomila ne fece morire, -e condannò lui di perpetua notte. -Alla sua mensa poi fece venire -l'orrendo mostro da l'infernal grotte, -che gli rapisce e contamina i cibi, -né lascia che ne gusti o ne delibi. -Ed in desperazion continua il messe -uno che già gli avea profetizzato -che le sue mense non sariano oppresse -da la rapina e da l'odore ingrato, -quando venir per l'aria si vedesse -un cavallier sopra un cavallo alato. -Perché dunque impossibil parea questo, -privo d'ogni speranza vivea mesto. -Or che con gran stupor vede la gente -sopra ogni muro e sopra ogn'alta torre -entrare il cavalliero, immantinente -è chi a narrarlo al re di Nubia corre, -a cui la profezia ritorna a mente; -ed obliando per letizia torre -la fedel verga, con le mani inante -vien brancolando al cavallier volante. -Astolfo ne la piazza del castello -con spaziose ruote in terra scese. -Poi che fu il re condotto inanzi a quello, -inginochiossi, e le man giunte stese, -e disse: — Angel di Dio, Messi novello, -s'io non merto perdono a tante offese, -mira che proprio è a noi peccar sovente, -a voi perdonar sempre a chi si pente. -Del mio error consapevole, non chieggio -né chiederti ardirei gli antiqui lumi. -Che tu lo possa far, ben creder deggio, -che sei de' cari a Dio beati numi. -Ti basti il gran martìr ch'io non ci veggio, -senza ch'ognor la fame mi consumi: -almen discaccia le fetide arpie, -che non rapiscan le vivande mie. -E di marmore un tempio ti prometto -edificar de l'alta regia mia, -che tutte d'oro abbia le porte e 'l tetto, -e dentro e fuor di gemme ornato sia; -e dal tuo santo nome sarà detto, -e del miracol tuo scolpito fia. — -Così dicea quel re che nulla vede, -cercando invan baciare al duca il piede. -Rispose Astolfo: — Né l'angel di Dio, -né son Messia novel, né dal cielo vegno; -ma son mortale e peccatore anch'io, -di tanta grazia a me concessa indegno. -Io farò ogn'opra acciò che 'l mostro rio, -per morte o fuga, io ti levi del regno. -S'io il fo, me non, ma Dio ne loda solo, -che per tuo aiuto qui mi drizzò il volo. -Fa questi voti a Dio, debiti a lui; -a lui le chiese edifica e gli altari. — -Così parlando, andavano ambidui -verso il castello fra i baron preclari. -Il re commanda ai servitori sui -che subito il convito si prepari, -sperando che non debba essergli tolta -la vivanda di mano a questa volta. -Dentro una ricca sala immantinente -apparecchiossi il convito solenne. -Col Senapo s'assise solamente -il duca Astolfo, e la vivanda venne. -Ecco per l'aria lo stridor si sente, -percossa intorno da l'orribil penne; -ecco venir l'arpie brutte e nefande, -tratte dal cielo a odor de le vivande. -Erano sette in una schiera, e tutte -volto di donne avean, pallide e smorte, -per lunga fame attenuate e asciutte, -orribili a veder più che la morte. -L'alaccie grandi avean, deformi e brutte; -le man rapaci, e l'ugne incurve e torte; -grande e fetido il ventre, e lunga coda, -come di serpe che s'aggira e snoda. -Si sentono venir per l'aria, e quasi -si veggon tutte a un tempo in su la mensa -rapire i cibi e riversare i vasi: -e molta feccia il ventre lor dispensa, -tal che gli è forza d'atturare i nasi; -che non si può patir la puzza immensa. -Astolfo, come l'ira lo sospinge, -contra gli ingordi augelli il ferro stringe. -Uno sul collo, un altro su la groppa -percuote, e chi nel petto, e chi ne l'ala; -ma come fera in su 'n sacco di stoppa, -poi langue il colpo, e senza effetto cala: -e quei non vi lasciar piatto né coppa -che fosse intatta, né sgombrar la sala, -prima che le rapine e il fiero pasto -contaminato il tutto avesse e guasto. -Avuto avea quel re ferma speranza -nel duca, che l'arpie gli discacciassi; -ed or che nulla ove sperar gli avanza, -sospira e geme, e disperato stassi. -Viene al duca del corno rimembranza, -che suole aitarlo ai perigliosi passi; -e conchiude tra sé, che questa via -per discacciare i mostri ottima sia. -E prima fa che 'l re con suoi baroni -di calda cera l'orecchia si serra, -acciò che tutti, come il corno suoni, -non abbiano a fuggir fuor de la terra. -Prende la briglia, e salta sugli arcioni -de l'ippogrifo, ed il bel corno afferra; -e con cenni allo scalco poi commanda -che riponga la mensa e la vivanda. -E così in una loggia s'apparecchia -con altra mensa altra vivanda nuova. -Ecco l'arpie che fan l'usanza vecchia: -Astolfo il corno subito ritrova. -Gli augelli, che non han chiusa l'orecchia, -udito il suon, non puon stare alla prova; -ma vanno in fuga pieni di paura, -né di cibo né d'altro hanno più cura. -Subito il paladin dietro lor sprona: -volando esce il destrier fuor de la loggia, -e col castel la gran città abandona, -e per l'aria, cacciando i mostri, poggia. -Astolfo il corno tuttavolta suona: -fuggon l'arpie verso la zona roggia, -tanto che sono all'altissimo monte -ove il Nilo ha, se in alcun luogo ha, fonte. -Quasi de la montagna alla radice -entra sotterra una profonda grotta, -che certissima porta esser si dice -di ch'allo 'nferno vuol scender talotta. -Quivi s'è quella turba predatrice, -come in sicuro albergo, ricondotta, -e giù sin di Cocito in su la proda -scesa, e più là, dove quel suon non oda. -All'infernal caliginosa buca -ch'apre la strada a chi abandona il lume, -finì l'orribil suon l'inclito duca, -e fe' raccorre al suo destrier le piume. -Ma prima che più inanzi io lo conduca, -per non mi dipartir dal mio costume, -poi che da tutti i lati ho pieno il foglio, -finire il canto, e riposar mi voglio. Oh famelice, inique e fiere arpie -ch'all'accecata Italia e d'error piena, -per punir forse antique colpe rie, -in ogni mensa alto giudicio mena! -Innocenti fanciulli e madri pie -cascan di fame, e veggon ch'una cena -di questi mostri rei tutto divora -ciò che del viver lor sostegno fôra. -Troppo fallò chi le spelonche aperse, -che già molt'anni erano state chiuse; -onde il fetore e l'ingordigia emerse, -ch'ad ammorbare Italia si diffuse. -Il bel vivere allora si summerse; -e la quiete in tal modo s'escluse, -ch'in guerre, in povertà sempre e in affanni -è dopo stata, ed è per star molt'anni: -fin ch'ella un giorno ai neghitosi figli -scuota la chioma, e cacci fuor di Lete, -gridando lor: — Non fia chi rassimigli -alla virtù di Calai e di Zete? -che le mense dal puzzo e dagli artigli -liberi, e torni a lor mondizia liete, -come essi già quelle di Fineo, e dopo -fe' il paladin quelle del re etiopo. — -Il paladin col suono orribil venne -le brutte arpie cacciando in fuga e in rotta, -tanto ch'a piè d'un monte si ritenne, -ove esse erano entrate in una grotta. -L'orecchie attente allo spiraglio tenne, -e l'aria ne sentì percossa e rotta -da pianti e d'urli e da lamento eterno: -segno evidente quivi esser lo 'nferno. -Astolfo si pensò d'entrarvi dentro, -e veder quei c'hanno perduto il giorno, -e penetrar la terra fin al centro, -e le bolge infernal cercare intorno. -— Di che debbo temer (dicea) s'io v'entro, -che mi posso aiutar sempre col corno? -Farò fuggir Plutone e Satanasso, -e 'l can trifauce leverò dal passo. — -De l'alato destrier presto discese, -e lo lasciò legato a un arbuscello: -poi si calò ne l'antro, e prima prese -il corno, avendo ogni sua speme in quello. -Non andò molto inanzi, che gli offese -il naso e gli occhi un fumo oscuro e fello, -più che di pece grave e che di zolfo: -non sta d'andar per questo inanzi Astolfo. -Ma quando va più inanzi, più s'ingrossa -il fumo e la caligine, e gli pare -ch'andare inanzi più troppo non possa; -che sarà forza a dietro ritornare. -Ecco, non sa che sia, vede far mossa -da la volta di sopra, come fare -il cadavero appeso al vento suole, -che molti dì sia stato all'acqua e al sole. -Sì poco, e quasi nulla era di luce -in quella affumicata e nera strada, -che non comprende e non discerne il duce -chi questo sia che sì per l'aria vada; -e per notizia averne si conduce -a dargli uno o due colpi de la spada. -Stima poi ch'un spirto esser quel debbia; -che gli par di ferir sopra la nebbia. -Allor sentì parlar con voce mesta: -— Deh, senza fare altrui danno, giù cala! -Pur troppo il negro fumo mi molesta, -che dal fuoco infernal qui tutto esala. — -Il duca stupefatto allor s'arresta, -e dice all'ombra: — Se Dio tronchi ogni ala -al fumo, sì ch'a te più non ascenda, -non ti dispiaccia che 'l tuo stato intenda. -E se vuoi che di te porti novella -nel mondo su, per satisfarti sono. — -L'ombra rispose: — Alla luce alma e bella -tornar per fama ancor sì mi par buono, -che le parole è forza che mi svella -il gran desir c'ho d'aver poi tal dono, -e che 'l mio nome e l'esser mio ti dica, -ben che 'l parlar mi sia noia e fatica. — -E cominciò: — Signor, Lidia sono io, -del re di Lidia in grande altezza nata, -qui dal giudicio altissimo di Dio -al fumo eternamente condannata, -per esser stata al fido amante mio, -mentre io vissi, spiacevole ed ingrata. -D'altre infinite è questa grotta piena, -poste per simil fallo in simil pena. -Sta la cruda Anassarete più al basso, -ove è maggiore il fumo e più martire. -Restò converso al mondo il corpo in sasso -e l'anima qua giù venne a patire, -poi che veder per lei l'afflitto e lasso -suo amante appeso poté sofferire. -Qui presso è Dafne, ch'or s'avvede quanto -errasse a fare Apollo correr tanto. -Lungo saria se gl'infelici spirti -de le femine ingrate, che qui stanno, -volesse ad uno ad uno riferirti; -che tanti son, ch'in infinito vanno. -Più lungo ancor saria gli uomini dirti, -a' quai l'essere ingrato ha fatto danno, -e che puniti sono in peggior loco, -ove il fumo gli accieca, e cuoce il fuoco. -Perché le donne più facili e prone -a creder son, di più supplicio è degno -chi lor fa inganno. Il sa Teseo e Iasone -e chi turbò a Latin l'antiquo regno; -sallo ch'incontra sé il frate Absalone -per Tamar trasse a sanguinoso sdegno; -ed altri ed altre: che sono infiniti, -che lasciato han chi moglie e chi mariti. -Ma per narrar di me più che d'altrui, -e palesar l'error che qui mi trasse, -bella, ma altiera più, sì in vita fui, -che non so s'altra mai mi s'aguagliasse: -né ti saprei ben dir, di questi dui, -s'in me l'orgoglio o la beltà avanzasse; -quantunque il fasto o l'alterezza nacque -da la beltà ch'a tutti gli occhi piacque. -Era in quel tempo in Tracia un cavalliero -estimato il miglior del mondo in arme, -il qual da più d'un testimonio vero -di singular beltà sentì lodarme; -tal che spontaneamente fe' pensiero -di volere il suo amor tutto donarme, -stimando meritar per suo valore, -che caro aver di lui dovessi il core. -In Lidia venne; e d'un laccio più forte -vinto restò, poi che veduta m'ebbe. -Con gli altri cavallier si messe in corte -del padre mio, dove in gran fama crebbe. -L'alto valore e le più d'una sorte -prodezze che mostrò, lungo sarebbe -a raccontarti, e il suo merto infinito, -quando egli avesse a più grato uom servito. -Panfilia e Caria e il regno de' Cilici -per opra di costui mio padre vinse; -che l'esercito mai contra i nimici, -se non quanto volea costui, non spinse. -Costui, poi che gli parve i benefici -suoi meritarlo, un dì col re si strinse -a domandargli in premio de le spoglie -tante arrecate, ch'io fossi sua moglie. -Fu repulso dal re, ch'in grande stato -maritar disegnava la figliuola, -non a costui che cavallier privato -altro non tien che la virtude sola: -e 'l padre mio troppo al guadagno dato, -e all'avarizia, d'ogni vizio scuola, -tanto apprezza costumi, o virtù ammira, -quanto l'asino fa il suon de la lira. -Alceste, il cavallier di ch'io ti parlo -(che così nome avea), poi che si vede -repulso da chi più gratificarlo -era più debitor, commiato chiede; -e lo minaccia, nel partir, di farlo -pentir che la figliuola non gli diede. -Se n'andò al re d'Armenia, emulo antico -del re di Lidia e capital nimico; -e tanto stimulò, che lo dispose -a pigliar l'arme e far guerra a mio padre. -Esso per l'opre sue chiare e famose -fu fatto capitan di quelle squadre. -Pel re d'Armenia tutte l'altre cose -disse ch'acquisteria: sol le leggiadre -e belle membra mie volea per frutto -de l'opra sua, vinto ch'avesse il tutto. -Io non ti potre' esprimere il gran danno -ch'Alceste al padre mio fa in quella guerra. -Quattro eserciti rompe, e in men d'un anno -lo mena a tal, che non gli lascia terra, -fuor ch'un castel ch'alte pendici fanno -fortissimo; e là dentro il re si serra -con la famiglia che più gli era accetta, -e col tesor che trar vi puote in fretta. -Quivi assedionne Alceste; ed in non molto -termine a tal disperazion ne trasse, -che per buon patto avria mio padre tolto -che moglie e serva ancor me gli lasciasse -con la metà del regno, s'indi assolto -restar d'ogni altro danno si sperasse. -Vedersi in breve de l'avanzo privo -era ben certo, e poi morir captivo. -Tentar, prima ch'accada, si dispone -ogni rimedio che possibil sia; -e me, che d'ogni male era cagione, -fuor de la rocca, ov'era Alceste invia. -Io vo ad Alceste con intenzione -di dargli in preda la persona mia, -e pregar che la parte che vuol tolga -del regno nostro, e l'ira in pace volga. -Come ode Alceste ch'io vo a ritrovarlo, -mi viene incontra pallido e tremante: -di vinto e di prigione, a riguardarlo, -più che di vincitore, have sembiante. -Io che conosco ch'arde, non gli parlo -sì come avea già disegnato inante: -vista l'occasion, fo pensier nuovo -conveniente al grado in ch'io lo trovo. -A maledir comincio l'amor d'esso, -e di sua crudeltà troppo a dolermi, -ch'iniquamente abbia mio padre oppresso, -e che per forza abbia cercato avermi; -che con più grazia gli saria successo -indi a non molti dì, se tener fermi -saputo avesse i modi cominciati, -ch'al re ed a tutti noi sì furon grati. -E se ben da principio il padre mio -gli avea negata la domanda onesta -(però che di natura è un poco rio, -né mai si piega alla prima richiesta), -farsi per ciò di ben servir restio -non doveva egli, e aver l'ira sì presta; -anzi, ognor meglio oprando, tener certo -venire in breve al desiato merto. -E quando anco mio padre a lui ritroso -stato fosse, io l'avrei tanto pregato, -ch'avria l'amante mio fatto mio sposo. -Pur, se veduto io l'avessi ostinato, -avrei fatto tal opra di nascoso, -che di me Alceste si saria lodato. -Ma poi ch'a lui tentar parve altro modo, -io di mai non l'amar fisso avea il chiodo. -E se ben era a lui venuta, mossa -da la pietà ch'al mio padre portava, -sia certo che non molto fruir possa -il piacer ch'al dispetto mio gli dava; -ch'era per far di me la terra rossa, -tosto ch'io avessi alla sua voglia prava -con questa mia persona satisfatto -di quel che tutto a forza saria fatto. -Queste parole e simili altre usai, -poi che potere in lui mi vidi tanto; -e 'l più pentito lo rendei, che mai -si trovasse ne l'eremo alcun santo. -Mi cadde a' piedi, e supplicommi assai, -che col coltel che si levò da canto -(e volea in ogni modo ch'io 'l pigliassi) -di tanto fallo suo mi vendicassi. -Poi ch'io lo trovo tale, io fo disegno -la gran vittoria insin al fin seguire: -gli do speranza di farlo anco degno -che la persona mia potrà fruire, -s'emendando il suo error, l'antiquo regno -al padre mio farà restituire; -e nel tempo a venir vorrà acquistarme -servendo, amando, e non mai più per arme. -Così far mi promesse, e ne la rocca -intatta mi mandò, come a lui venni, -né di baciarmi pur s'ardì la bocca: -vedi s'al collo il giogo ben gli tenni; -vedi se bene Amor per me lo tocca, -se convien che per lui più strali impenni. -Al re d'Armenia andò, di cui dovea -esser per patto ciò che si prendea: -e con quel miglior modo ch'usar puote, -lo priega ch'al mio padre il regno lassi, -del qual le terre ha depredate e vote, -ed a goder l'antiqua Armenia passi. -Quel re, d'ira infiammando ambe le gote, -disse ad Alceste che non vi pensassi; -che non si volea tor da quella guerra, -fin che mio padre avea palmo di terra. -E s'Alceste è mutato alle parole -d'una vil feminella, abbiasi il danno. -Già a' prieghi esso di lui perder non vuole -quel ch'a fatica ha preso in tutto un anno. -Di nuovo Alceste il priega, e poi si duole -che seco effetto i prieghi suoi non fanno. -All'ultimo s'adira, e lo minaccia -che vuol, per forza o per amor, lo faccia. -L'ira multiplicò sì, che li spinse -da le male parole ai peggior fatti. -Alceste contra il re la spada strinse -fra mille ch'in suo aiuto s'eran tratti, -e mal grado lor tutti, ivi l'estinse; -e quel dì ancor gli Armeni ebbe disfatti, -con l'aiuto de' Cilici e de' Traci -che pagava egli, e d'altri suoi seguaci. -Seguitò la vittoria, ed a sue spese, -senza dispendio alcun del padre mio, -ne rendé tutto il regno in men d'un mese. -Poi per ricompensarne il danno rio, -oltr'alle spoglie che ne diede, prese -in parte, e gravò in parte di gran fio -Armenia e Capadocia che confina, -e scorse Ircania fin su la marina. -In luogo di trionfo, al suo ritorno, -facemmo noi pensier dargli la morte. -Restammo poi, per non ricever scorno; -che lo veggiàn troppo d'amici forte. -Fingo d'amarlo, e più di giorno in giorno -gli do speranza d'essergli consorte; -ma prima contra altri nimici nostri -dico voler che sua virtù dimostri. -E quando sol, quando con poca gente -lo mando a strane imprese e perigliose, -da farne morir mille agevolmente: -ma lui successer ben tutte le cose; -che tornò con vittoria, e fu sovente -con orribil persone e mostruose, -con Griganti a battaglia e Lestrigoni, -ch'erano infesti a nostre regioni. -Non fu da Euristeo mai, non fu mai tanto -da la matrigna esercitato Alcide -in Lerna, in Nemea, in Tracia, in Erimanto, -alle valli d'Etolia, alle Numide, -sul Tevre, su l'Ibero e altrove; quanto -con prieghi finti e con voglie omicide -esercitato fu da me il mio amante, -cercando io pur di torlomi davante. -Né potendo venire al primo intento, -vengone ad un di non minore effetto: -gli fo quei tutti ingiuriar, ch'io sento -che per lui sono, e a tutti in odio il metto. -Egli che non sentia maggior contento -che d'ubbidirmi, senza alcun rispetto -le mani ai cenni miei sempre avea pronte, -senza guardare un più d'un altro in fronte. -Poi che mi fu, per questo mezzo, aviso -spento aver del mio padre ogni nimico, -e per lui stesso Alceste aver conquiso, -che non si avea, per noi, lasciato amico; -quel ch'io gli avea con simulato viso -celato fin allor, chiaro gli esplico: -che grave e capitale odio gli porto, -e pur tuttavia cerco che sia morto. -Considerando poi, s'io lo facessi, -ch'in publica ignominia ne verrei -(sapeasi troppo quanto io gli dovessi, -e crudel detta sempre ne sarei), -mi parve fare assai ch'io gli togliessi -di mai venir più inanzi agli occhi miei. -Né veder né parlar mai più gli volsi, -né messo udi', né lettera ne tolsi. -Questa mia ingratitudine gli diede -tanto martìr, ch'al fin dal dolor vinto, -e dopo un lungo domandar mercede, -infermo cadde, e ne rimase estinto. -Per pena ch'al fallir mio si richiede, -or gli occhi ho lacrimosi, e il viso tinto -del negro fumo: e così avrò in eterno; -che nulla redenzione è ne l'inferno. — -Poi che non parla più Lidia infelice, -va il duca per saper s'altri vi stanzi: -ma la caligine alta ch'era ultrice -de l'opre ingrate, si gl'ingrossa inanzi, -ch'andare un palmo sol più non gli lice; -anzi a forza tornar gli conviene, anzi, -perché la vita non gli sia intercetta -dal fumo, i passi accelerar con fretta. -Il mutar spesso de le piante ha vista -di corso, e non di chi passeggia o trotta. -Tanto, salendo inverso l'erta, acquista, -che vede dove aperta era la grotta; -e l'aria, già caliginosa e trista, -dal lume cominciava ad esser rotta. -Al fin con molto affanno e grave ambascia -esce de l'antro, e dietro il fumo lascia. -E perché del tornar la via sia tronca -a quelle bestie c'han sì ingorde l'epe, -raguna sassi, e molti arbori tronca, -che v'eran qual d'amomo e qual di pepe; -e come può, dinanzi alla spelonca -fabrica di sua man quasi una siepe: -e gli succede così ben quell'opra, -che più l'arpie non torneran di sopra. -Il negro fumo de la scura pece, -mentre egli fu ne la caverna tetra, -non macchiò sol quel ch'apparia, ed infece, -ma sotto i panni ancora entra e penètra; -sì che per trovare acqua andar lo fece -cercando un pezzo; e al fin fuor d'una pietra -vide una fonte uscir ne la foresta, -ne la qual si lavò dal piè alla testa. -Poi monta il volatore, e in aria s'alza -per giunger di quel monte in su la cima, -che non lontan con la superna balza -dal cerchio de la luna esser si stima. -Tanto è il desir che di veder lo 'ncalza, -ch'al cielo aspira, e la terra non stima. -De l'aria più e più sempre guadagna, -tanto ch'al giogo va de la montagna. -Zafir, rubini, oro, topazi e perle, -e diamanti e crisoliti e iacinti -potriano i fiori assimigliar, che per le -liete piaggie v'avea l'aura dipinti: -sì verdi l'erbe, che possendo averle -qua giù, ne fôran gli smeraldi vinti; -né men belle degli arbori le frondi, -e di frutti e di fior sempre fecondi. -Cantan fra i rami gli augelletti vaghi -azzurri e bianchi e verdi e rossi e gialli. -Murmuranti ruscelli e cheti laghi -di limpidezza vincono i cristalli. -Una dolce aura che ti par che vaghi -a un modo sempre e dal suo stil non falli, -facea sì l'aria tremolar d'intorno, -che non potea noiar calor del giorno: -e quella ai fiori, ai pomi e alla verzura -gli odor diversi depredando giva, -e di tutti faceva una mistura -che di soavità l'alma notriva. -Surgea un palazzo in mezzo alla pianura, -ch'acceso esser parea di fiamma viva: -tanto splendore intorno e tanto lume -raggiava, fuor d'ogni mortal costume. -Astolfo il suo destrier verso il palagio -che più di trenta miglia intorno aggira, -a passo lento fa muovere ad agio, -e quinci e quindi il bel paese ammira; -e giudica, appo quel, brutto e malvagio, -e che sia al ciel ed a natura in ira -questo ch'abitian noi fetido mondo: -tanto è soave quel, chiaro e giocondo. -Come egli è presso al luminoso tetto, -attonito riman di maraviglia; -che tutto d'una gemma è 'l muro schietto, -più che carbonchio lucida e vermiglia. -O stupenda opra, o dedalo architetto! -Qual fabrica tra noi le rassimiglia? -Taccia qualunque le mirabil sette -moli del mondo in tanta gloria mette. -Nel lucente vestibulo di quella -felice casa un vecchio al duca occorre, -che 'l manto ha rosso, e bianca la gonnella, -che l'un può al latte, e l'altro al minio opporre. -I crini ha bianchi, e bianca la mascella -di folta barba ch'al petto discorre; -ed è sì venerabile nel viso, -ch'un degli eletti par del paradiso. -Costui con lieta faccia al paladino, -che riverente era d'arcion disceso, -disse: — O baron, che per voler divino -sei nel terrestre paradiso asceso; -come che né la causa del camino, -né il fin del tuo desir da te sia inteso; -pur credi che non senza alto misterio -venuto sei da l'artico emisperio. -Per imparar come soccorrer déi -Carlo, e la santa fé tor di periglio -venuto meco a consigliar ti sei -per così lunga via, senza consiglio. -Né a tuo saper, né a tua virtù vorrei -ch'esser qui giunto attribuissi, o figlio; -che né il tuo corno, né il cavallo alato -ti valea, se da Dio non t'era dato. -Ragionerem più ad agio insieme poi, -e ti dirò come a procedere hai: -ma prima vienti a ricrear con noi; -che 'l digiun lungo de' noiarti ormai. — -Continuando il vecchio i detti suoi, -fece meravigliare il duca assai, -quando scoprendo il nome suo, gli disse -esser colui che l'evangelio scrisse: -quel tanto al Redentor caro Giovanni, -per cui il sermone tra i fratelli uscìo, -che non dovea per morte finir gli anni; -sì che fu causa che 'l figliuol di Dio -a Pietro disse: — Perché pur t'affanni, -s'io vo' che così aspetti il venir mio? — -Ben che non disse: egli non de' morire, -si vede pur che così volse dire. -Quivi fu assunto, e trovò compagnia, -che prima Enoch, il patriarca, v'era; -eravi insieme il gran profeta Elia, -che non han vista ancor l'ultima sera; -e fuor de l'aria pestilente e ria -si goderan l'eterna primavera, -fin che dian segno l'angeliche tube, -che torni Cristo in su la bianca nube. -Con accoglienza grata il cavalliero -fu dai santi alloggiato in una stanza; -fu provisto in un'altra al suo destriero -di buona biada, che gli fu a bastanza. -De' frutti a lui del paradiso diero, -di tal sapor, ch'a suo giudicio, sanza -scusa non sono i duo primi parenti, -se per quei fur sì poco ubbidienti. -Poi ch'a natura il duca aventuroso -satisfece di quel che se le debbe, -come col cibo, così col riposo, -che tutti e tutti i commodi quivi ebbe; -lasciando già l'Aurora il vecchio sposo, -ch'ancor per lunga età mai non l'increbbe, -si vide incontra ne l'uscir del letto -il discipul da Dio tanto diletto; -che lo prese per mano, e seco scorse -di molte cose di silenzio degne: -e poi disse: — Figliuol, tu non sai forse -che in Francia accada, ancor che tu ne vegne. -Sappi che 'l vostro Orlando, perché torse -dal camin dritto le commesse insegne, -è punito da Dio, che più s'accende -contra chi egli ama più, quando s'offende. -Il vostro Orlando, a cui nascendo diede -somma possanza Dio con sommo ardire, -e fuor de l'uman uso gli concede -che ferro alcun non lo può mai ferire; -perché a difesa di sua santa fede -così voluto l'ha costituire, -come Sansone incontra a' Filistei -costituì a difesa degli Ebrei: -renduto ha il vostro Orlando al suo Signore -di tanti benefici iniquo merto; -che quanto aver più lo dovea in favore, -n'è stato il fedel popul più deserto. -Sì accecato l'avea l'incesto amore -d'una pagana, ch'avea già sofferto -due volte e più venire empio e crudele, -per dar la morte al suo cugin fedele. -E Dio per questo fa ch'egli va folle, -e mostra nudo il ventre, il petto e il fianco; -e l'intelletto sì gli offusca e tolle, -che non può altrui conoscere, e sé manco. -A questa guisa si legge che volle -Nabuccodonosor Dio punir anco, -che sette anni il mandò il furor pieno, -sì che, qual bue, pasceva l'erba e il fieno. -Ma perch'assai minor del paladino, -che di Nabucco, è stato pur l'eccesso, -sol di tre mesi dal voler divino -a purgar questo error termine è messo. -Né ad altro effetto per tanto camino -salir qua su t'ha il Redentor concesso, -se non perché da noi modo tu apprenda, -come ad Orlando il suo senno si renda. -Gli è ver che ti bisogna altro viaggio -far meco, e tutta abbandonar la terra. -Nel cerchio de la luna a menar t'aggio, -che dei pianeti a noi più prossima erra, -perché la medicina che può saggio -rendere Orlando, là dentro si serra. -Come la luna questa notte sia -sopra noi giunta, ci porremo in via. — -Di questo e d'altre cose fu diffuso -il parlar de l'apostolo quel giorno. -Ma poi che 'l sol s'ebbe nel mar rinchiuso, -e sopra lor levò la luna il corno, -un carro apparecchiòsi, ch'era ad uso -d'andar scorrendo per quei cieli intorno: -quel già ne le montagne di Giudea -da' mortali occhi Elia levato avea. -Quattro destrier via più che fiamma rossi -al giogo il santo evangelista aggiunse; -e poi che con Astolfo rassettossi, -e prese il freno, inverso il ciel li punse. -Ruotando il carro, per l'aria levossi, -e tosto in mezzo il fuoco eterno giunse; -che 'l vecchio fe' miracolosamente, -che, mentre lo passar, non era ardente. -Tutta la sfera varcano del fuoco, -ed indi vanno al regno de la luna. -Veggon per la più parte esser quel loco -come un acciar che non ha macchia alcuna; -e lo trovano uguale, o minor poco -di ciò ch'in questo globo si raguna, -in questo ultimo globo de la terra, -mettendo il mar che la circonda e serra. -Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia: -che quel paese appresso era sì grande, -il quale a un picciol tondo rassimiglia -a noi che lo miriam da queste bande; -e ch'aguzzar conviengli ambe le ciglia, -s'indi la terra e 'l mar ch'intorno spande, -discerner vuol; che non avendo luce, -l'imagin lor poco alta si conduce. -Altri fiumi, altri laghi, altre campagne -sono là su, che non son qui tra noi; -altri piani, altre valli, altre montagne, -c'han le cittadi, hanno i castelli suoi, -con case de le quai mai le più magne -non vide il paladin prima né poi: -e vi sono ample e solitarie selve, -ove le ninfe ognor cacciano belve. -Non stette il duca a ricercar il tutto; -che là non era asceso a quello effetto. -Da l'apostolo santo fu condutto -in un vallon fra due montagne istretto, -ove mirabilmente era ridutto -ciò che si perde o per nostro diffetto, -o per colpa di tempo o di Fortuna: -ciò che si perde qui, là si raguna. -Non pur di regni o di ricchezze parlo, -in che la ruota instabile lavora; -ma di quel ch'in poter di tor, di darlo -non ha Fortuna, intender voglio ancora. -Molta fama è là su, che, come tarlo, -il tempo al lungo andar qua giù divora: -là su infiniti prieghi e voti stanno, -che da noi peccatori a Dio si fanno. -Le lacrime e i sospiri degli amanti, -l'inutil tempo che si perde a giuoco, -e l'ozio lungo d'uomini ignoranti, -vani disegni che non han mai loco, -i vani desideri sono tanti, -che la più parte ingombran di quel loco: -ciò che in somma qua giù perdesti mai, -là su salendo ritrovar potrai. -Passando il paladin per quelle biche, -or di questo or di quel chiede alla guida. -Vide un monte di tumide vesiche, -che dentro parea aver tumulti e grida; -e seppe ch'eran le corone antiche -e degli Assiri e de la terra lida, -e de' Persi e de' Greci, che già furo -incliti, ed or n'è quasi il nome oscuro. -Ami d'oro e d'argento appresso vede -in una massa, ch'erano quei doni -che si fan con speranza di mercede -ai re, agli avari principi, ai patroni. -Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede, -ed ode che son tutte adulazioni. -Di cicale scoppiate imagine hanno -versi ch'in laude dei signor si fanno. -Di nodi d'oro e di gemmati ceppi -vede c'han forma i mal seguiti amori. -V'eran d'aquile artigli; e che fur, seppi, -l'autorità ch'ai suoi danno i signori. -I mantici ch'intorno han pieni i greppi, -sono i fumi dei principi e i favori -che danno un tempo ai ganimedi suoi, -che se ne van col fior degli anni poi. -Ruine di cittadi e di castella -stavan con gran tesor quivi sozzopra. -Domanda, e sa che son trattati, e quella -congiura che sì mal par che si cuopra. -Vide serpi con faccia di donzella, -di monetieri e di ladroni l'opra: -poi vide bocce rotte di più sorti, -ch'era il servir de le misere corti. -Di versate minestre una gran massa -vede, e domanda al suo dottor ch'importe. -— L'elemosina è (dice) che si lassa -alcun, che fatta sia dopo la morte. — -Di vari fiori ad un gran monte passa, -ch'ebbe già buono odore, or putia forte. -Questo era il dono (se però dir lece) -che Costantino al buon Silvestro fece. -Vide gran copia di panie con visco, -ch'erano, o donne, le bellezze vostre. -Lungo sarà, se tutte in verso ordisco -le cose che gli fur quivi dimostre; -che dopo mille e mille io non finisco, -e vi son tutte l'occurrenze nostre: -sol la pazzia non v'è poca né assai; -che sta qua giù, né se ne parte mai. -Quivi ad alcuni giorni e fatti sui, -ch'egli già avea perduti, si converse; -che se non era interprete con lui, -non discernea le forme lor diverse. -Poi giunse a quel che par sì averlo a nui, -che mai per esso a Dio voti non ferse; -io dico il senno: e n'era quivi un monte, -solo assai più che l'altre cose conte. -Era come un liquor suttile e molle, -atto a esalar, se non si tien ben chiuso; -e si vedea raccolto in varie ampolle, -qual più, qual men capace, atte a quell'uso. -Quella è maggior di tutte, in che del folle -signor d'Anglante era il gran senno infuso; -e fu da l'altre conosciuta, quando -avea scritto di fuor: Senno d'Orlando. -E così tutte l'altre avean scritto anco -il nome di color di chi fu il senno. -Del suo gran parte vide il duca franco; -ma molto più maravigliar lo fenno -molti ch'egli credea che dramma manco -non dovessero averne, e quivi dénno -chiara notizia che ne tenean poco; -che molta quantità n'era in quel loco. -Altri in amar lo perde, altri in onori, -altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze; -altri ne le speranze de' signori, -altri dietro alle magiche sciocchezze; -altri in gemme, altri in opre di pittori, -ed altri in altro che più d'altro aprezze. -Di sofisti e d'astrologhi raccolto, -e di poeti ancor ve n'era molto. -Astolfo tolse il suo; che gliel concesse -lo scrittor de l'oscura Apocalisse. -L'ampolla in ch'era al naso sol si messe, -e par che quello al luogo suo ne gisse: -e che Turpin da indi in qua confesse -ch'Astolfo lungo tempo saggio visse; -ma ch'uno error che fece poi, fu quello -ch'un'altra volta gli levò il cervello. -La più capace e piena ampolla, ov'era -il senno che solea far savio il conte, -Astolfo tolle; e non è sì leggiera, -come stimò, con l'altre essendo a monte. -Prima che 'l paladin da quella sfera -piena di luce alle più basse smonte, -menato fu da l'apostolo santo -in un palagio ov'era un fiume a canto; -ch'ogni sua stanza avea piena di velli -di lin, di seta, di coton, di lana, -tinti in vari colori e brutti e belli. -Nel primo chiostro una femina cana -fila a un aspo traea da tutti quelli, -come veggiàn l'estate la villana -traer dai bachi le bagnate spoglie, -quando la nuova seta si raccoglie. -V'è chi, finito un vello, rimettendo -ne viene un altro, e chi ne porta altronde: -un'altra de le filze va scegliendo -il bel dal brutto che quella confonde. -— Che lavor si fa qui, ch'io non l'intendo? — -dice a Giovanni Astolfo; e quel risponde: -— Le vecchie son le Parche, che con tali -stami filano vite a voi mortali. -Quanto dura un de' velli, tanto dura -l'umana vita, e non di più un momento. -Qui tien l'occhio e la Morte e la Natura, -per saper l'ora ch'un debba esser spento. -Sceglier le belle fila ha l'altra cura, -perché si tesson poi per ornamento -del paradiso; e dei più brutti stami -si fan per li dannati aspri legami. — -Di tutti i velli ch'erano già messi -in aspo, e scelti a farne altro lavoro, -erano in brevi piastre i nomi impressi, -altri di ferro, altri d'argento o d'oro: -e poi fatti n'avean cumuli spessi, -de' quali, senza mai farvi ristoro, -portarne via non si vedea mai stanco -un vecchio, e ritornar sempre per anco. -Era quel vecchio sì espedito e snello, -che per correr parea che fosse nato; -e da quel monte il lembo del mantello -portava pien del nome altrui segnato. -Ove n'andava, e perché facea quello, -ne l'altro canto vi sarà narrato, -se d'averne piacer segno farete -con quella grata udienza che solete. Chi salirà per me, madonna, in cielo -a riportarne il mio perduto ingegno? -che, poi ch'uscì da' bei vostri occhi il telo -che 'l cor mi fisse, ognor perdendo vegno. -Né di tanta iattura mi querelo, -pur che non cresca, ma stia a questo segno; -ch'io dubito, se più si va scemando, -di venir tal, qual ho descritto Orlando. -Per riaver l'ingegno mio m'è aviso -che non bisogna che per l'aria io poggi -nel cerchio de la luna o in paradiso; -che 'l mio non credo che tanto alto alloggi. -Ne' bei vostri occhi e nel sereno viso, -nel sen d'avorio e alabastrini poggi -se ne va errando; ed io con queste labbia -lo corrò, se vi par ch'io lo riabbia. -Per gli ampli tetti andava il paladino -tutte mirando le future vite, -poi ch'ebbe visto sul fatal molino -volgersi quelle ch'erano già ordite: -e scorse un vello che più che d'or fino -splender parea; né sarian gemme trite, -s'in filo si tirassero con arte, -da comparargli alla millesma parte. -Mirabilmente il bel vello gli piacque, -che tra infiniti paragon non ebbe; -e di sapere alto disio gli nacque, -quando sarà tal vita, e a chi si debbe. -L'evangelista nulla gliene tacque: -che venti anni principio prima avrebbe -che col .M. e col .D. fosse notato -l'anno corrente dal Verbo incarnato, -E come di splendore e di beltade -quel vello non avea simile o pare, -così saria la fortunata etade -che dovea uscirne al mondo singulare; -perché tutte le grazie inclite e rade -ch'alma Natura, o proprio studio dare, -o benigna Fortuna ad uomo puote, -avrà in perpetua ed infallibil dote. -— Del re de' fiumi tra l'altiere corna -or siede umil (diceagli) e piccol borgo: -dinanzi il Po, di dietro gli soggiorna -d'alta palude un nebuloso gorgo; -che, volgendosi gli anni, la più adorna -di tutte le città d'Italia scorgo, -non pur di mura e d'ampli tetti regi, -ma di bei studi e di costumi egregi. -Tanta esaltazione e così presta, -non fortuìta o d'aventura casca; -ma l'ha ordinata il ciel, perché sia questa -degna in che l'uom di ch'io ti parlo, nasca: -che, dove il frutto ha da venir, s'inesta -e con studio si fa crescer la frasca; -e l'artefice l'oro affinar suole, -in che legar gemma di pregio vuole. -Né sì leggiadra né sì bella veste -unque ebbe altr'alma in quel terrestre regno; -e raro è sceso e scenderà da queste -sfere superne un spirito sì degno, -come per farne Ippolito da Este -n'have l'eterna mente alto disegno. -Ippolito da Este sarà detto -l'uom a chi Dio sì ricco dono ha eletto. -Quegli ornamenti che divisi in molti, -a molti basterian per tutti ornarli, -in suo ornamento avrà tutti raccolti -costui, di c'hai voluto ch'io ti parli. -Le virtudi per lui, per lui soffolti -saran gli studi; e s'io vorrò narrar li -alti suoi merti, al fin son sì lontano, -ch'Orlando il senno aspetterebbe invano. — -Così venìa l'imitator di Cristo -ragionando col duca: e poi che tutte -le stanze del gran luogo ebbono visto, -onde l'umane vite eran condutte, -sul fiume usciro, che d'arena misto -con l'onde discorrea turbide e brutte; -e vi trovar quel vecchio in su la riva, -che con gl'impressi nomi vi veniva. -Non so se vi sia a mente, io dico quello -ch'al fin de l'altro canto vi lasciai, -vecchio di faccia, e sì di membra snello, -che d'ogni cervio è più veloce assai. -Degli altrui nomi egli si empìa il mantello; -scemava il monte, e non finiva mai: -ed in quel fiume che Lete si noma, -scarcava, anzi perdea la ricca soma. -Dico che, come arriva in su la sponda -del fiume, quel prodigo vecchio scuote -il lembo pieno, e ne la turbida onda -tutte lascia cader l'impresse note. -Un numer senza fin se ne profonda, -ch'un minimo uso aver non se ne puote; -e di cento migliaia che l'arena -sul fondo involve, un se ne serva a pena. -Lungo e d'intorno quel fiume volando -givano corvi ed avidi avoltori, -mulacchie e vari augelli, che gridando -facean discordi strepiti e romori; -ed alla preda correan tutti, quando -sparger vedean gli amplissimi tesori: -e chi nel becco, e chi ne l'ugna torta -ne prende; ma lontan poco li porta. -Come vogliono alzar per l'aria i voli, -non han poi forza che 'l peso sostegna; -sì che convien che Lete pur involi -de' ricchi nomi la memoria degna. -Fra tanti augelli son duo cigni soli, -bianchi, Signor, come è la vostra insegna, -che vengon lieti riportando in bocca -sicuramente il nome che lor tocca. -Così contra i pensieri empi e maligni -del vecchio che donar li vorria al fiume, -alcuno ne salvan gli augelli benigni: -tutto l'avanzo oblivion consume. -Or se ne van notando i sacri cigni, -ed or per l'aria battendo le piume, -fin che presso alla ripa del fiume empio -trovano un colle, e sopra il colle un tempio. -All'Immortalitade il luogo è sacro, -ove una bella ninfa giù del colle -viene alla ripa del leteo lavacro, -e di bocca dei cigni i nomi tolle; -e quelli affige intorno al simulacro -ch'in mezzo il tempio una colonna estolle, -quivi li sacra, e ne fa tal governo, -che vi si pôn veder tutti in eterno. -Chi sia quel vecchio, e perché tutti al rio -senza alcun frutto i bei nomi dispensi, -e degli augelli, e di quel luogo pio -onde la bella ninfa al fiume viensi, -aveva Astolfo di saper desio -i gran misteri e gl'incogniti sensi; -e domandò di tutte queste cose -l'uomo di Dio, che così gli rispose: -— Tu déi saper che non si muove fronda -là giù che segno qui non se ne faccia. -Ogni effetto convien che corrisponda -in terra e in ciel, ma con diversa faccia. -Quel vecchio, la cui barba il petto inonda, -veloce sì che mai nulla l'impaccia, -gli effetti pari e la medesima opra -che 'l Tempo fa là giù, fa qui di sopra. -Volte che son le fila in su la ruota, -là giù la vita umana arriva al fine. -La fama là, qui ne riman la nota; -ch'immortali sariano ambe e divine, -se non che qui quel da la irsuta gota, -e là giù il Tempo ognor ne fa rapine. -Questi le getta, come vedi, al rio; -e quel l'immerge ne l'eterno oblio. -E come qua su i corvi e gli avoltori -e le mulacchie e gli altri varii augelli -s'affaticano tutti per trar fuori -de l'acqua i nomi che veggion più belli: -così là giù ruffiani, adulatori, -buffon, cinedi, accusatori, e quelli -che viveno alle corti e che vi sono -più grati assai che 'l virtuoso e 'l buono, -e son chiamati cortigian gentili, -perché sanno imitar l'asino e 'l ciacco; -de' lor signor, tratto che n'abbia i fili -la giusta Parca, anzi Venere e Bacco, -questi di ch'io ti dico, inerti e vili, -nati solo ad empir di cibo il sacco, -portano in bocca qualche giorno il nome; -poi ne l'oblio lascian cader le some. -Ma come i cigni che cantando lieti -rendeno salve le medaglie al tempio, -così gli uomini degni da' poeti -son tolti da l'oblio, più che morte empio. -Oh bene accorti principi e discreti, -che seguite di Cesare l'esempio, -e gli scrittor vi fate amici, donde -non avete a temer di Lete l'onde! -Son, come i cigni, anco i poeti rari, -poeti che non sian del nome indegni; -sì perché il ciel degli uomini preclari -non pate mai che troppa copia regni, -sì per gran colpa dei signori avari -che lascian mendicare i sacri ingegni; -che le virtù premendo, ed esaltando -i vizi, caccian le buone arti in bando. -Credi che Dio questi ignoranti ha privi -de lo 'ntelletto, e loro offusca i lumi; -che de la poesia gli ha fatto schivi, -acciò che morte il tutto ne consumi. -Oltre che del sepolcro uscirian vivi, -ancor ch'avesser tutti i rei costumi, -pur che sapesson farsi amica Cirra, -più grato odore avrian che nardo o mirra. -Non sì pietoso Enea, né forte Achille -fu, come è fama, né sì fiero Ettorre; -e ne son stati e mille e mille e mille -che lor si puon con verità anteporre: -ma i donati palazzi e le gran ville -dai descendenti lor, gli ha fatto porre -in questi senza fin sublimi onori -da l'onorate man degli scrittori. -Non fu sì santo né benigno Augusto -come la tuba di Virgilio suona. -L'aver avuto in poesia buon gusto -la proscrizion iniqua gli perdona. -Nessun sapria se Neron fosse ingiusto, -né sua fama saria forse men buona, -avesse avuto e terra e ciel nimici, -se gli scrittor sapea tenersi amici. -Omero Agamennòn vittorioso, -e fe' i Troian parer vili ed inerti; -e che Penelopea fida al suo sposo -dai Prochi mille oltraggi avea sofferti. -E se tu vuoi che 'l ver non ti sia ascoso, -tutta al contrario l'istoria converti: -che i Greci rotti, e che Troia vittrice, -e che Penelopea fu meretrice. -Da l'altra parte odi che fama lascia -Elissa, ch'ebbe il cor tanto pudico; -che riputata viene una bagascia, -solo perché Maron non le fu amico. -Non ti maravigliar ch'io n'abbia ambascia, -e se di ciò diffusamente io dico. -Gli scrittori amo, e fo il debito mio; -ch'al vostro mondo fui scrittore anch'io. -E sopra tutti gli altri io feci acquisto -che non mi può levar tempo né morte: -e ben convenne al mio lodato Cristo -rendermi guidardon di sì gran sorte. -Duolmi di quei che sono al tempo tristo, -quando la cortesia chiuso ha le porte; -che con pallido viso e macro e asciutto -la notte e 'l dì vi picchian senza frutto. -Sì che continuando il primo detto, -sono i poeti e gli studiosi pochi; -che dove non han pasco né ricetto, -insin le fere abbandonano i lochi. — -Così dicendo il vecchio benedetto -gli occhi infiammò, che parveno duo fuochi; -poi volto al duca con un saggio riso -tornò sereno il conturbato viso. -Resti con lo scrittor de l'evangelo -Astolfo ormai, ch'io voglio far un salto, -quanto sia in terra a venir fin dal cielo; -ch'io non posso più star su l'ali in alto. -Torno alla donna a cui con grave telo -mosso avea gelosia crudele assalto. -Io la lasciai ch'avea con breve guerra -tre re gittati, un dopo l'altro, in terra; -e che giunta la sera ad un castello -ch'alla via di Parigi si ritrova, -d'Agramante, che rotto dal fratello -s'era ridotto in Arli, ebbe la nuova. -Certa che 'l suo Ruggier fosse con quello, -tosto ch'apparve in ciel la luce nuova, -verso Provenza, dove ancora intese -che Carlo lo seguia, la strada prese. -Verso Provenza per la via più dritta -andando, s'incontrò in una donzella, -ancor che fosse lacrimosa e afflitta, -bella di faccia e di maniere bella. -Questa era quella sì d'amor traffitta -per lo figliuol di Monodante, quella -donna gentil ch'avea lasciato al ponte -l'amante suo prigion di Rodomonte. -Ella venìa cercando un cavalliero, -ch'a far battaglia usato, come lontra, -in acqua e in terra fosse, e così fiero, -che lo potesse al pagan porre incontra. -La sconsolata amica di Ruggiero, -come quest'altra sconsolata incontra, -cortesemente la saluta, e poi -le chiede la cagion dei dolor suoi. -Fiordiligi lei mira, e veder parle -un cavallier ch'al suo bisogno fia; -e comincia del ponte a ricontarle, -ove impedisce il re d'Algier la via; -e ch'era stato appresso di levarle -l'amante suo: non che più forte sia; -ma sapea darsi il Saracino astuto -col ponte stretto e con quel fiume aiuto. -— Se sei (dicea) sì ardito e sì cortese, -come ben mostri l'uno e l'altro in vista, -mi vendica, per Dio, di chi mi prese -il mio signore, e mi fa gir sì trista; -o consigliami almeno in che paese -possa io trovare un ch'a colui resista, -e sappia tanto d'arme e di battaglia, -che 'l fiume e 'l ponte al pagan poco vaglia. -Oltre che tu farai quel che conviensi -ad uom cortese e a cavalliero errante, -in beneficio il tuo valor dispensi -del più fedel d'ogni fedele amante. -De l'altre sue virtù non appertiensi -a me narrar; che sono tante e tante, -che chi non n'ha notizia, si può dire -che sia del veder privo e de l'udire. — -La magnanima donna, a cui fu grata -sempre ogni impresa che può farla degna -d'esser con laude e gloria nominata, -subito al ponte di venir disegna: -ed ora tanto più, ch'è disperata, -vien volentier, quando anco a morir vegna; -che credendosi, misera! esser priva -del suo Ruggiero, ha in odio d'esser viva. -— Per quel ch'io vaglio, giovane amorosa -(rispose Bradamante), io m'offerisco -di far l'impresa dura e perigliosa, -per altre cause ancor, ch'io preterisco; -ma più, che del tuo amante narri cosa -che narrar di pochi uomini avvertisco, -che sia in amor fedel; ch'a fé ti giuro -ch'in ciò pensai ch'ognun fosse pergiuro. — -Con un sospir quest'ultime parole -finì, con un sospir ch'uscì dal core; -poi disse: — Andiamo; — e nel seguente sole -giunsero al fiume, al passo pien d'orrore. -Scoperte da la guardia che vi suole -farne segno col corno al suo signore, -il pagan s'arma; e quale è 'l suo costume, -sul ponte s'apparecchia in ripa al fiume: -e come vi compar quella guerriera, -di porla a morte subito minaccia, -quando de l'arme e del destrier su ch'era, -al gran sepolcro oblazion non faccia. -Bradamante che sa l'istoria vera, -come per lui morta Issabella giaccia, -che Fiordiligi detto le l'avea, -al Saracin superbo rispondea: -— Perché vuoi tu, bestial, che gli innocenti -facciano penitenza del tuo fallo? -Del sangue tuo placar costei convienti: -tu l'uccidesti, e tutto 'l mondo sallo. -Sì che di tutte l'arme e guernimenti -di tanti che gittati hai da cavallo, -oblazione e vittima più accetta -avrà, ch'io te l'uccida in sua vendetta. -E di mia man le fia più grato il dono, -quando, come ella fu, son donna anch'io: -né qui venuta ad altro effetto sono, -ch'a vendicarla; e questo sol disio. -Ma far tra noi prima alcun patto è buono, -che 'l tuo valor si compari col mio. -S'abbattuta sarò, di me farai -quel che degli altri tuoi prigion fatt'hai: -ma s'io t'abbatto, come io credo e spero, -guadagnar voglio il tuo cavallo e l'armi, -e quelle offerir sole al cimitero, -e tutte l'altre distaccar da' marmi; -e voglio che tu lasci ogni guerriero. — -Rispose Rodomonte: — Giusto parmi -che sia come tu di'; ma i prigion darti -già non potrei, ch'io non gli ho in queste parti. -Io gli ho al mio regno in Africa mandati: -ma ti prometto, e ti do ben la fede, -che se m'avvien per casi inopinati -che tu stia in sella e ch'io rimanga a piede, -farò che saran tutti liberati -in tanto tempo quanto si richiede -di dare a un messo ch'in fretta si mandi -e far quel che, s'io perdo, mi commandi. -Ma s'a te tocca star di sotto, come -piu si conviene, e certo so che fia, -non vo' che lasci l'arme, né il tuo nome, -come di vinta, sottoscritto sia: -al tuo bel viso, a' begli occhi, alle chiome, -che spiran tutti amore e leggiadria, -voglio donar la mia vittoria; e basti -che ti disponga amarmi, ove m'odiasti. -Io son di tal valor, son di tal nerbo, -ch'aver non déi d'andar di sotto a sdegno. — -Sorrise alquanto, ma d'un riso acerbo -che fece d'ira, più che d'altro, segno, -la donna, né rispose a quel superbo; -ma tornò in capo al ponticel di legno, -spronò il cavallo, e con la lancia d'oro -venne a trovar quell'orgoglioso Moro. -Rodomonte alla giostra s'apparecchia: -viene a gran corso; ed è sì grande il suono -che rende il ponte, ch'intronar l'orecchia -può forse a molti che lontan ne sono. -La lancia d'oro fe' l'usanza vecchia; -che quel pagan, sì dianzi in giostra buono, -levò di sella, e in aria lo sospese, -indi sul ponte a capo in giù lo stese. -Nel trapassar ritrovò a pena loco -ove entrar col destrier quella guerriera; -e fu a gran risco, e ben vi mancò poco, -ch'ella non traboccò ne la riviera: -ma Rabicano, il quale il vento e 'l fuoco -concetto avean, sì destro ed agil era, -che nel margine estremo trovò strada; -e sarebbe ito anco su 'n fil di spada. -Ella si volta, e contra l'abbattuto -pagan ritorna; e con leggiadro motto: -— Or puoi (disse) veder chi abbia perduto, -e a chi di noi tocchi di star di sotto. — -Di maraviglia il pagan resta muto, -ch'una donna a cader l'abbia condotto; -e far risposta non poté o non volle, -e fu come uom pien di stupore e folle. -Di terra si levò tacito e mesto; -e poi ch'andato fu quattro o sei passi, -lo scudo e l'elmo, e de l'altre arme il resto -tutto si trasse, e gittò contra i sassi; -e solo e a piè fu a dileguarsi presto: -non che commission prima non lassi -a un suo scudier, che vada a far l'effetto -dei prigion suoi, secondo che fu detto. -Partissi; e nulla poi più se n'intese, -se non che stava in una grotta scura. -Intanto Bradamante avea sospese -di costui l'arme all'alta sepoltura, -e fattone levar tutto l'arnese, -il qual dei cavallieri, alla scrittura, -conobbe de la corte esser di Carlo; -non levò il resto, e non lasciò levarlo. -Oltr'a quel del figliuol di Monodante, -v'è quel di Sansonetto e d'Oliviero, -che per trovare il principe d'Anglante, -quivi condusse il più dritto sentiero. -Quivi fur presi, e furo il giorno inante -mandati via dal Saracino altiero. -Di questi l'arme fe' la donna torre -da l'alta mole, e chiuder ne la torre. -Tutte l'altre lasciò pender dai sassi, -che fur spogliate ai cavallier pagani. -V'eran l'arme d'un re, del quale i passi -per Frontalatte mal fur spesi e vani: -io dico l'arme del re de' Circassi, -che dopo lungo errar per colli e piani, -venne quivi a lasciar l'altro destriero; -e poi senz'arme andossene leggiero. -S'era partito disarmato e a piede -quel re pagan dal periglioso ponte, -sì come gli altri ch'eran di sua fede, -partir da sé lasciava Rodomonte. -Ma di tornar più al campo non gli diede -il cor; ch'ivi apparir non avria fronte: -che per quel che vantossi, troppo scorno -gli saria farvi in tal guisa ritorno. -Di pur cercar nuovo desir lo prese -colei che sol avea fissa nel core. -Fu l'aventura sua, che tosto intese -(io non vi saprei dir chi ne fu autore) -ch'ella tornava verso il suo paese: -onde esso, come il punge e sprona Amore, -dietro alla pesta subito si pone. -Ma tornar voglio alla figlia d'Amone. -Poi che narrato ebbe con altro scritto -come da lei fu liberato il passo; -a Fiordiligi ch'avea il core afflitto, -e tenea il viso lacrimoso e basso, -domandò umanamente ov'ella dritto -volea che fosse, indi partendo, il passo. -Rispose Fiordiligi: — Il mio camino -vo' che sia in Arli al campo saracino, -ove navilio e buona compagnia -spero trovar da gir ne l'altro lito. -Mai non mi fermerò fin ch'io non sia -venuta al mio signore e mio marito. -Voglio tentar, perché in prigion non stia, -più modi e più; che se mi vien fallito -questo che Rodomonte t'ha promesso, -ne voglio avere uno ed un altro appresso. — -— Io m'offerisco (disse Bradamante) -d'accompagnarti un pezzo de la strada, -tanto che tu ti vegga Arli davante, -ove per amor mio vo' che tu vada -a trovar quel Ruggier del re Agramante, -che del suo nome ha piena ogni contrada; -e che gli rendi questo buon destriero, -onde abbattuto ho il Saracino altiero. -Voglio ch'a punto tu gli dica questo: -— Un cavallier che di provar si crede, -e fare a tutto 'l mondo manifesto -che contra lui sei mancator di fede; -acciò ti trovi apparecchiato e presto, -questo destrier, perch'io tel dia, mi diede. -Dice che trovi tua piastra e tua maglia, -e che l'aspetti a far teco battaglia. — -Digli questo, e non altro; e se quel vuole -saper da te ch'io son, di' che nol sai. — -Quella rispose umana come suole: -— Non sarò stanca in tuo servizio mai, -spender la vita, non che le parole; -che tu ancora per me così fatto hai. — -Grazie le rende Bradamante, e piglia -Frontino, e le lo porge per la briglia. -Lungo il fiume le belle e pellegrine -giovani vanno a gran giornate insieme, -tanto che veggono Arli, e le vicine -rive odon risonar del mar che freme. -Bradamante si ferma alle confine -quasi de' borghi ed alle sbarre estreme, -per dare a Fiordiligi atto intervallo, -che condurre a Ruggier possa il cavallo. -Vien Fiordiligi, ed entra nel rastrello, -nel ponte e ne la porta; e seco prende -chi le fa compagnia fin all'ostello -ove abita Ruggiero, e quivi scende; -e, secondo il mandato, al damigello -fa l'imbasciata, e il buon Frontin gli rende: -indi va, che risposta non aspetta, -ad eseguire il suo bisogno in fretta. -Ruggier riman confuso e in pensier grande, -e non sa ritrovar capo né via -di saper chi lo sfide, e chi gli mande -a dire oltraggio e a fargli cortesia. -Che costui senza fede lo domande, -o possa domandar uomo che sia, -non sa veder né imaginare; e prima, -ch'ogn'altro sia che Bradamante, istima. -Che fosse Rodomonte, era più presto -ad aver, che fosse altri, opinione; -e perché ancor da lui debba udir questo, -pensa, né imaginar può la cagione. -Fuor che con lui, non sa di tutto 'l resto -del mondo, con chi lite abbia e tenzone. -Intanto la donzella di Dordona -chiede battaglia, e forte il corno suona. -Vien la nuova a Marsilio e ad Agramante, -ch'un cavallier di fuor chiede battaglia. -A caso Serpentin loro era avante, -ed impetrò di vestir piastra e maglia, -e promesse pigliar questo arrogante. -Il popul venne sopra la muraglia; -né fanciullo restò, né restò veglio, -che non fosse a veder chi fêsse meglio. -Con ricca sopravesta e bello arnese -Serpentin da la Stella in giostra venne. -Al primo scontro in terra si distese: -il destrier aver parve a fuggir penne. -Dietro gli corse la donna cortese, -e per la briglia al Saracin lo tenne, -e disse: — Monta, e fa che 'l tuo signore -mi mandi un cavallier di te migliore. — -Il re african, ch'era con gran famiglia -sopra le mura alla giostra vicino, -del cortese atto assai si maraviglia, -ch'usato ha la donzella a Serpentino. -— Di ragion può pigliarlo, e non lo piglia, — -diceva, udendo il popul saracino. -Serpentin giunge, e come ella commanda, -un miglior da sua parte al re domanda. -Grandonio di Volterna furibondo, -il più superbo cavallier di Spagna, -pregando fece sì, che fu il secondo, -ed uscì con minacce alla campagna. -— Tua cortesia nulla ti vaglia al mondo; -che, quando da me vinto tu rimagna, -al mio signor menar preso ti voglio: -ma qui morrai, s'io posso, come soglio. — -La donna disse lui: — Tua villania -non vo' che men cortese far mi possa, -ch'io non ti dica che tu torni pria -che sul duro terren ti doglian l'ossa. -Ritorna, e di' al tuo re da parte mia, -che per simile a te non mi son mossa; -ma per trovar guerrier che 'l pregio vaglia, -son qui venuta a domandar battaglia. — -Il mordace parlare, acre ed acerbo, -gran fuoco al cor del Saracino attizza; -sì che senza poter replicar verbo, -volta il destrier con colera e con stizza. -Volta la donna, e contra quel superbo -la lancia d'oro e Rabicano drizza. -Come l'asta fatal lo scudo tocca, -coi piedi al cielo il Saracin trabocca. -Il destrier la magnanima guerriera -gli prese, e disse: — Pur tel prediss'io, -che far la mia imbasciata meglio t'era, -che de la giostra aver tanto disio. -Di', al re, ti prego, che fuor de la schiera -elegga un cavallier che sia par mio; -né voglia con voi altri affaticarme, -ch'avete poca esperienza d'arme. — -Quei da le mura, che stimar non sanno -chi sia il guerriero in su l'arcion sì saldo, -quei più famosi nominando vanno, -che tremar li fan spesso al maggior caldo. -Che Brandimarte sia, molti detto hanno: -la più parte s'accorda esser Rinaldo: -molti su Orlando avrian fatto disegno; -ma il suo caso sapean di pietà degno. -La terza giostra il figlio di Lanfusa -chiedendo, disse: — Non che vincer speri, -ma perché di cader più degna scusa -abbian, cadendo anch'io, questi guerrieri. — -E poi di tutto quel ch'in giostra s'usa -si messe in punto; e di cento destrieri -che tenea in stalla, d'un tolse l'eletta, -ch'avea il correre acconcio, e di gran fretta. -Contra la donna per giostrar si fece; -ma prima salutolla, ed ella lui. -Disse la donna: — Se saper mi lece, -ditemi in cortesia che siate vui. — -Di questo Ferraù le satisfece, -ch'usò di rado di celarsi altrui. -Ella soggiunse: — Voi già non rifiuto, -ma avria più volentieri altri voluto. — -— E chi? — Ferraù disse. Ella rispose: -— Ruggiero; — e a pena il poté proferire, -e sparse d'un color come di rose -la bellissima faccia in questo dire. -Soggiunse al detto poi: — Le cui famose -lode a tal prova m'han fatto venire. -Altro non bramo, e d'altro non mi cale, -che di provar come egli in giostra vale. — -Semplicemente disse le parole -che forse alcuno ha già prese a malizia. -Rispose Ferraù: — Prima si vuole -provar tra noi chi sa più di milizia. -Se di me avvien quel che di molti suole, -poi verrà ad emendar la mia tristizia -quel gentil cavallier che tu dimostri -aver tanto desio che teco giostri. — -Parlando tuttavolta la donzella -teneva la visiera alta dal viso. -Mirando Ferraù la faccia bella, -si sente rimaner mezzo conquiso, -e taciturno dentro a sé favella: -— Questo un angel mi par del paradiso; -e ancor che con la lancia non mi tocchi, -abbattuto son già da' suoi begli occhi. — -Preson del campo; e come agli altri avvenne, -Ferraù se n'uscì di sella netto. -Bradamante il destrier suo gli ritenne, -e disse: — Torna, e serva quel c'hai detto. — -Ferraù vergognoso se ne venne, -e ritrovò Ruggier ch'era al cospetto -del re Agramante; e gli fece sapere -ch'alla battaglia il cavallier lo chere. -Ruggier non conoscendo ancor chi fosse -chi a sfidar lo mandava alla battaglia, -quasi certo di vincere, allegrosse; -e le piastre arrecar fece e la maglia: -né l'aver visto alle gravi percosse, -che gli altri sian caduti, il cor gli smaglia. -Come s'armasse, e come uscisse, e quanto -poi ne seguì, lo serbo all'altro canto. Convien ch'ovunque sia, sempre cortese -sia un cor gentil, ch'esser non può altrimente; -che per natura e per abito prese -quel che di mutar poi non è possente. -Convien ch'ovunque sia, sempre palese -un cor villan si mostri similmente. -Natura inchina al male, e viene a farsi -l'abito poi difficile a mutarsi. -Di cortesia, di gentilezza esempi -fra gli antiqui guerrier si vider molti, -e pochi fra i moderni; ma degli empi -costumi avvien ch'assai ne vegga e ascolti -in quella guerra, Ippolito, che i tempi -di segni ornaste agli nimici tolti, -e che traeste lor galee captive -di preda carche alle paterne rive. -Tutti gli atti crudeli ed inumani -ch'usasse mai Tartaro o Turco o Moro, -(non già con volontà de' Veneziani, -che sempre esempio di giustizia foro), -usaron l'empie e scelerate mani -di rei soldati, mercenari loro. -Io non dico or di tanti accesi fuochi -ch'arson le ville e i nostri ameni lochi: -ben che fu quella ancor brutta vendetta, -massimamente contra voi, ch'appresso -Cesare essendo, mentre Padua stretta -era d'assedio, ben sapea che spesso -per voi più d'una fiamma fu interdetta, -e spento il fuoco ancor, poi che fu messo, -da villaggi e da templi, come piacque, -all'alta cortesia che con voi nacque. -Io non parlo di questo né di tanti -altri lor discortesi e crudeli atti; -ma sol di quel che trar dai sassi i pianti -debbe poter, qual volta se ne tratti: -quel dì, Signor, che la famiglia inanti -vostra mandaste là dove ritratti -dai legni lor con importuni auspici -s'erano in luogo forte gl'inimici. -Qual Ettorre ed Enea sin dentro ai flutti, -per abbruciar le navi greche, andaro; -un Ercol vidi e un Alessandro, indutti -da troppo ardir, partirsi a paro a paro, -e spronando i destrier, passarci tutti, -e i nemici turbar fin nel riparo, -e gir sì inanzi, ch'al secondo molto -aspro fu il ritornare, e al primo tolto. -Salvossi il Ferruffin, restò il Cantelmo. -Che cor, duca di Sora, che consiglio -fu allora il tuo, che trar vedesti l'elmo -fra mille spade al generoso figlio, -e menar preso a nave, e sopra un schelmo -troncargli il capo? Ben mi maraviglio -che darti morte lo spettacol solo -non poté, quanto il ferro a tuo figliuolo. -Schiavon crudele, onde hai tu il modo appreso -de la milizia? In qual Scizia s'intende -ch'uccider si debba un, poi che gli è preso, -che rende l'arme, e più non si difende? -Dunque uccidesti lui, perché ha difeso -la patria? Il sole a torto oggi risplende, -crudel seculo, poi che pieno sei -di Tiesti, di Tantali e di Atrei. -Festi, barbar crudel, del capo scemo -il più ardito garzon che di sua etade -fosse da un polo e l'altro, e da l'estremo -lito degl'Indi a quello ove il sol cade. -Potea in Antropofàgo, in Polifemo -la beltà e gli anni suoi trovar pietade; -ma non in te, più crudo e più fellone -d'ogni Ciclope e d'ogni Lestrigone. -Simile esempio non credo che sia -fra gli antiqui guerrier, di quai li studi -tutti fur gentilezza e cortesia; -né dopo la vittoria erano crudi. -Bradamante non sol non era ria -a quei ch'avea, toccando lor gli scudi, -fatto uscir de la sella, ma tenea -loro i cavalli, e rimontar facea. -Di questa donna valorosa e bella -io vi dissi di sopra, che abbattuto -avea Serpentin quel da la Stella, -Grandonio di Volterna e Ferrauto, -e ciascun d'essi poi rimesso in sella; -e dissi ancor che 'l terzo era venuto, -da lei mandato a disfidar Ruggiero, -là dove era stimata un cavalliero. -Ruggier tenne lo 'nvito allegramente, -e l'armatura sua fece venire. -Or mentre che s'armava al re presente, -tornaron quei signor di nuovo a dire -chi fosse il cavallier tanto eccellente, -che di lancia sapea sì ben ferire; -e Ferraù, che parlato gli avea, -fu domandato se lo conoscea. -Rispose Ferraù: — Tenete certo -che non è alcun di quei ch'avete detto. -A me parea, ch'il vidi a viso aperto, -il fratel di Rinaldo giovinetto: -ma poi ch'io n'ho l'alto valore esperto, -e so che non può tanto Ricciardetto, -penso che sia la sua sorella, molto -(per quel ch'io n'odo) a lui simil di volto. -Ella ha ben fama d'esser forte a pare -del suo Rinaldo e d'ogni paladino; -ma, per quanto io ne veggo oggi, mi pare -che val più del fratel, più del cugino. — -Come Ruggier lei sente ricordare, -del vermiglio color che 'l matutino -sparge per l'aria, si dipinge in faccia, -e nel cor triema, e non sa che si faccia. -A questo annunzio, stimulato e punto -da l'amoroso stral, dentro infiammarse, -e per l'ossa sentì tutto in un punto -correre un giaccio che 'l timor vi sparse, -timor ch'un nuovo sdegno abbia consunto -quel grande amor che già per lui sì l'arse. -Di ciò confuso non si risolveva, -s'incontra uscirle, o pur restar doveva. -Or quivi ritrovandosi Marfisa, -che d'uscire alla giostra avea gran voglia, -ed era armata, perché in altra guisa -è raro, o notte o dì, che tu la coglia; -sentendo che Ruggier s'arma, s'avisa -che di quella vittoria ella si spoglia -se lascia che Ruggiero esca fuor prima: -pensa ire inanzi, e averne il pregio stima. -Salta a cavallo, e vien spronando in fretta -ove nel campo la figlia d'Amone -con palpitante cor Ruggiero aspetta, -desiderosa farselo prigione, -e pensa solo ove la lancia metta, -perché del colpo abbia minor lesione. -Marfisa se ne vien fuor de la porta, -e sopra l'elmo una fenice porta; -o sia per sua superbia, dinotando -se stessa unica al mondo in esser forte, -o pur sua casta intenzion lodando -di viver sempremai senza consorte. -La figliuola d'Amon la mira; e quando -le fattezze ch'amava non ha scorte, -come si nomi le domanda, ed ode -esser colei che del suo amor si gode; -o per dir meglio, esser colei che crede -che goda del suo amor, colei che tanto -ha in odio e in ira, che morir si vede, -se sopra lei non vendica il suo pianto. -Volta il cavallo, e con gran furia riede, -non per desir di porla in terra, quanto -di passarle con l'asta in mezzo il petto, -e libera restar d'ogni suspetto. -Forza è a Marfisa ch'a quel colpo vada -a provar se 'l terreno è duro o molle; -e cosa tanto insolita le accada, -ch'ella n'è per venir di sdegno folle. -Fu in terra a pena, che trasse la spada, -e vendicar di quel cader si volle. -La figliuola d'Amon non meno altiera -gridò: — Che fai? tu sei mia prigioniera. -Se bene uso con gli altri cortesia, -usar teco, Marfisa, non la voglio, -come a colei che d'ogni villania -odo che sei dotata e d'ogni orgoglio. — -Marfisa a quel parlar fremer s'udia -come un vento marino in uno scoglio. -Grida, ma sì per rabbia si confonde, -che non può esprimer fuor quel che risponde. -Mena la spada, e più ferir non mira -lei, che 'l destrier, nel petto e ne la pancia: -ma Bradamante al suo la briglia gira, -e quel da parte subito si lancia; -e tutto a un tempo con isdegno ed ira -la figliuola d'Amon spinge la lancia, -e con quella Marfisa tocca a pena, -che la fa riversar sopra l'arena. -A pena ella fu in terra, che rizzosse, -cercando far con la spada mal'opra. -Di nuovo l'asta Bradamante mosse, -e Marfisa di nuovo andò sozzopra. -Ben che possente Bradamante fosse, -non però sì a Marfisa era di sopra, -che l'avesse ogni colpo riversata; -ma tal virtù ne l'asta era incantata. -Alcuni cavallieri in questo mezzo, -alcuni, dico, de la parte nostra, -se n'erano venuti dove, in mezzo -l'un campo e l'altro, si facea la giostra -(che non eran lontani un miglio e mezzo), -veduta la virtù che 'l suo dimostra; -il suo che non conoscono altrimente -che per un cavallier de la lor gente. -Questi vedendo il generoso figlio -di Troiano alle mura approssimarsi, -per ogni caso, per ogni periglio -non volse sproveduto ritrovarsi; -e fe' che molti all'arme dier di piglio, -e che fuor dei ripari appresentarsi. -Tra questi fu Ruggiero, a cui la fretta -di Marfisa la giostra avea intercetta. -L'inamorato giovene mirando -stava il successo, e gli tremava il core, -de la sua cara moglie dubitando; -che di Marfisa ben sapea il valore. -Dubitò, dico, nel principio, quando -si mosse l'una e l'altra con furore; -ma visto poi come successe il fatto, -restò maraviglioso e stupefatto: -e poi che fin la lite lor non ebbe, -come avean l'altre avute, al primo incontro, -nel cor profundamente gli ne 'ncrebbe, -dubbioso pur di qualche strano incontro. -De l'una egli e de l'altra il ben vorrebbe; -ch'ama amendue: non che da porre incontro -sien questi amori: è l'un fiamma e furore, -l'altro benivolenza più ch'amore. -Partita volentier la pugna avria, -se con suo onor potuto avesse farlo. -Ma quei ch'egli avea seco in compagnia, -perché non vinca la parte di Carlo, -che già lor par che superior ne sia, -saltan nel campo, e vogliono turbarlo. -Da l'altra parte i cavallier cristiani -si fanno inanzi, e son quivi alle mani. -Di qua di là gridar si sente all'arme, -come usati eran far quasi ogni giorno. -Monti chi è a piè, chi non è armato s'arme, -alla bandiera ognun faccia ritorno! -dicea con chiaro e bellicoso carme -più d'una tromba che scorrea d'intorno: -e come quelle svegliano i cavalli, -svegliano i fanti i timpani e i taballi. -La scaramuccia fiera e sanguinosa, -quanto si possa imaginar, si mesce. -La donna di Dordona valorosa, -a cui mirabilmente aggrava e incresce -che quel di ch'era tanto disiosa, -di por Marfisa a morte, non riesce; -di qua di là si volge e si raggira, -se Ruggier può veder, per cui sospira. -Lo riconosce all'aquila d'argento -c'ha nello scudo azzurro il giovinetto. -Ella con gli occhi e col pensiero intento -si ferma a contemplar le spalle e 'l petto, -le leggiadre fattezze, e 'l movimento -pieno di grazia; e poi con gran dispetto, -imaginando ch'altra ne gioisse, -da furore assalita così disse: -— Dunque baciar sì belle e dolce labbia -deve altra, se baciar non le poss'io? -Ah non sia vero già ch'altra mai t'abbia; -che d'altra esser non déi, se non sei mio. -Più tosto che morir sola di rabbia, -che meco di mia man mori, disio; -che se ben qui ti perdo, almen l'inferno -poi mi ti renda, e stii meco in eterno. -Se tu m'occidi, è ben ragion che deggi -darmi de la vendetta anco conforto; -che voglion tutti gli ordini e le leggi, -che chi dà morte altrui debba esser morto. -Né par ch'anco il tuo danno il mio pareggi; -che tu mori a ragione, io moro a torto. -Farò morir chi brama, ohimè! ch'io muora; -ma tu, crudel, chi t'ama e chi t'adora. -Perché non déi tu, mano, essere ardita -d'aprir col ferro al mio nimico il core? -che tante volte a morte m'ha ferita -sotto la pace in sicurtà d'amore, -ed or può consentir tormi la vita, -né pur aver pietà del mio dolore. -Contra questo empio ardisci, animo forte: -vendica mille mie con la sua morte. — -Gli sprona contra in questo dir, ma prima: -— Guardati (grida), perfido Ruggiero: -tu non andrai, s'io posso, de la opima -spoglia del cor d'una donzella altiero. — -Come Ruggiero ode il parlare, estima -che sia la moglie sua, com'era in vero, -la cui voce in memoria sì bene ebbe, -ch'in mille riconoscer la potrebbe. -Ben pensa quel che le parole denno -volere inferir più; ch'ella l'accusa -che la convenzion ch'insieme fenno, -non le osservava: onde per farne iscusa, -di volerle parlar le fece cenno: -ma quella già con la visiera chiusa -venìa dal dolor spinta e da la rabbia, -per porlo, e forse ove non era sabbia. -Quando Ruggier la vede tanto accesa, -si ristringe ne l'arme e ne la sella: -la lancia arresta; ma la tien sospesa, -piegata in parte ove non nuoccia a quella. -La donna, ch'a ferirlo e a fargli offesa -venìa con mente di pietà rubella, -non poté sofferir, come fu appresso, -di porlo in terra e fargli oltraggio espresso. -Così lor lance van d'effetto vote -a quello incontro; e basta ben s'Amore -con l'un giostra e con l'altro, e gli percuote -d'una amorosa lancia in mezzo il core. -Poi che la donna sofferir non puote -di far onta a Ruggier, volge il furore -che l'arde il petto, altrove; e vi fa cose -che saran, fin che giri il ciel, famose. -In poco spazio ne gittò per terra -trecento e più con quella lancia d'oro. -Ella sola quel dì vinse la guerra, -messe ella sola in fuga il popul Moro. -Ruggier di qua di là s'aggira ed erra -tanto, che se le accosta e dice: — Io moro, -s'io non ti parlo: ohimè! che t'ho fatto io, -che mi debbi fuggire? Odi, per Dio! — -Come ai meridional tiepidi venti, -che spirano dal mare il fiato caldo, -le nievi si disciolveno e i torrenti, -e il ghiaccio che pur dianzi era sì saldo; -così a quei prieghi, a quei brevi lamenti -il cor de la sorella di Rinaldo -subito ritornò pietoso e molle, -che l'ira, più che marmo, indurar volle. -Non vuol dargli, o non puote, altra risposta; -ma da traverso sprona Rabicano, -e quanto può dagli altri si discosta, -ed a Ruggiero accenna con la mano. -Fuor de la moltitudine in reposta -valle si trasse, ov'era un piccol piano -ch'in mezzo avea un boschetto di cipressi -che parean d'una stampa, tutti impressi. -In quel boschetto era di bianchi marmi -fatta di nuovo un'alta sepoltura. -Chi dentro giaccia, era con brevi carmi -notato a chi saperlo avesse cura. -Ma quivi giunta Bradamante, parmi -che già non pose mente alla scrittura. -Ruggier dietro il cavallo affretta e punge -tanto, ch'al bosco e alla donzella giunge. -Ma ritorniamo a Marfisa che s'era -in questo mezzo in sul destrier rimessa, -e venìa per trovar quella guerriera -che l'avea al primo scontro in terra messa: -e la vide partir fuor de la schiera, -e partir Ruggier vide e seguir essa; -né si pensò che per amor seguisse, -ma per finir con l'arme ingiurie e risse. -Urta il cavallo, e vien dietro alla pesta -tanto, ch'a un tempo con lor quasi arriva. -Quanto sua giunta ad ambi sia molesta, -chi vive amando, il sa, senza ch'io 'l scriva. -Ma Bradamante offesa più ne resta, -che colei vede, onde il suo mal deriva. -Chi le può tor che non creda esser vero -che l'amor ve la sproni di Ruggiero? -E perfido Ruggier di nuovo chiama. -— Non ti bastava, perfido (disse ella), -che tua perfidia sapessi per fama, -se non mi facevi anco veder quella? -Di cacciarmi da te veggo c'hai brama: -e per sbramar tua voglia iniqua e fella, -io vo' morir; ma sforzerommi ancora -che muora meco chi è cagion ch'io mora. — -Sdegnosa più che vipera, si spicca, -così dicendo, e va contra Marfisa; -ed allo scudo l'asta sì le appicca, -che la fa a dietro riversare in guisa, -che quasi mezzo l'elmo in terra ficca; -né si può dir che sia colta improvisa: -anzi fa incontra ciò che far si puote; -e pure in terra del capo percuote. -La figliuola d'Amon, che vuol morire -o dar morte a Marfisa, è in tanta rabbia, -che non ha mente di nuovo a ferire -con l'asta, onde a gittar di nuovo l'abbia; -ma le pensa dal busto dipartire -il capo mezzo fitto ne la sabbia: -getta da sé la lancia d'oro, e prende -la spada, e del destrier subito scende. -Ma tarda è la sua giunta; che si trova -Marfisa incontra, e di tanta ira piena -(poi che s'ha vista alla seconda prova -cader sì facilmente su l'arena), -che pregar nulla, e nulla gridar giova -a Ruggier che di questo avea gran pena: -sì l'odio e l'ira le guerriere abbaglia, -che fan da disperate la battaglia. -A mezzo spada vengono di botto; -e per la gran superbia che l'ha accese, -van pur inanzi, e si son già sì sotto, -ch'altro non puon che venire alle prese. -Le spade, il cui bisogno era interrotto, -lascian cadere, e cercan nuove offese. -Priega Ruggiero e supplica amendue, -ma poco frutto han le parole sue. -Quando pur vede che 'l pregar non vale, -di partirle per forza si dispone: -leva di mano ad amendua il pugnale, -ed al piè d'un cipresso li ripone. -Poi che ferro non han più da far male, -con prieghi e con minaccie s'interpone: -ma tutto è invan; che la battaglia fanno -a pugni e a calci, poi ch'altro non hanno. -Ruggier non cessa: or l'una or l'altra prende -per le man, per le braccia, e la ritira; -e tanto fa, che di Marfisa accende -contra di sé, quanto si può più, l'ira. -Quella che tutto il mondo vilipende, -alla amicizia di Ruggier non mira. -Poi che da Bradamante si distacca, -corre alla spada, e con Ruggier s'attacca. -— Tu fai da discortese e da villano, -Ruggiero, a disturbar la pugna altrui; -ma ti farò pentir con questa mano -che vo' che basti a vincervi ambedui. — -Cerca Ruggier con parlar molto umano -Marfisa mitigar; ma contra lui -la trova in modo disdegnosa e fiera, -ch'un perder tempo ogni parlar seco era. -All'ultimo Ruggier la spada trasse, -poi che l'ira anco lui fe' rubicondo. -Non credo che spettacolo mirasse -Atene o Roma o luogo altro del mondo, -che così a' riguardanti dilettasse, -come dilettò questo e fu giocondo -alla gelosa Bradamante, quando -questo le pose ogni sospetto in bando. -La sua spada avea tolta ella di terra, -e tratta s'era a riguardar da parte; -e le parea veder che 'l dio di guerra -fosse Ruggiero alla possanza e all'arte. -Una furia infernal quando si sferra -sembra Marfisa, se quel sembra Marte. -Vero è ch'un pezzo il giovene gagliardo -di non far il potere ebbe riguardo. -Sapea ben la virtù de la sua spada; -che tante esperienze n'ha già fatto. -Ove giunge, convien che se ne vada -l'incanto, o nulla giovi, e stia di piatto: -sì che ritien che 'l colpo suo non cada -di taglio o punta, ma sempre di piatto. -Ebbe a questo Ruggier lunga avvertenza: -ma perdé pure un tratto la pazienza; -perché Marfisa una percossa orrenda -gli mena per dividergli la testa. -Leva lo scudo che 'l capo difenda -Ruggiero, e 'l colpo in su l'aquila pesta. -Vieta lo 'ncanto che lo spezzi o fenda; -ma di stordir non però il braccio resta: -e s'avea altr'arme che quelle d'Ettorre, -gli potea il fiero colpo il braccio torre: -e saria sceso indi alla testa, dove -disegnò di ferir l'aspra donzella. -Ruggiero il braccio manco a pena muove, -a pena più sostien l'aquila bella. -Per questo ogni pietà da sé rimuove; -par che negli occhi avampi una facella: -e quanto può cacciar, caccia una punta. -Marfisa, mal per te, se n'eri giunta! -Io non vi so ben dir come si fosse: -la spada andò a ferire in un cipresso, -e un palmo e più ne l'arbore cacciosse: -in modo era piantato il luogo spesso. -In quel momento il monte e il piano scosse -un gran tremuoto; e si sentì con esso -da quell'avel ch'in mezzo il bosco siede, -gran voce uscir, ch'ogni mortale eccede. -Grida la voce orribile: — Non sia -lite tra voi: gli è ingiusto ed inumano -ch'alla sorella il fratel morte dia, -o la sorella uccida il suo germano. -Tu, mio Ruggiero, e tu, Marfisa mia, -credete al mio parlar che non è vano: -in un medesimo utero d'un seme -foste concetti, e usciste al mondo insieme. -Concetti foste da Ruggier secondo: -vi fu Galaciella genitrice, -i cui fratelli avendole dal mondo -cacciato il genitor vostro infelice, -senza guardar ch'avesse in corpo il pondo -di voi, ch'usciste pur di lor radice, -la fer, perché s'avesse ad affogare, -s'un debol legno porre in mezzo al mare. -Ma Fortuna che voi, ben che non nati, -avea già eletti a gloriose imprese, -fece che 'l legno ai liti inabitati -sopra le Sirti a salvamento scese; -ove, poi che nel mondo v'ebbe dati, -l'anima eletta al paradiso ascese. -Come Dio volse e fu vostro destino, -a questo caso io mi trovai vicino. -Diedi alla madre sepoltura onesta, -qual potea darsi in sì deserta arena; -e voi teneri avolti ne la vesta -meco portai sul monte di Carena; -e mansueta uscir de la foresta -feci e lasciare i figli una leena, -de le cui poppe dieci mesi e dieci -ambi nutrir con molto studio feci. -Un giorno che d'andar per la contrada -e da la stanza allontanar m'occorse, -vi sopravenne a caso una masnada -d'Arabi (e ricordarvene de' forse), -che te, Marfisa, tolser ne la strada, -ma non poter Ruggier, che meglio corse. -Restai de la tua perdita dolente, -e di Ruggier guardian più diligente. -Ruggier, se ti guardò, mentre che visse, -il tuo maestro Atlante, tu lo sai. -Di te senti' predir le stelle fisse, -che tra' cristiani a tradigion morrai; -e perché il male influsso non seguisse, -tenertene lontan m'affaticai: -né ostare al fin potendo alla tua voglia, -infermo caddi, e mi mori' di doglia. -Ma inanzi a morte, qui dove previdi -che con Marfisa aver pugna dovevi, -feci raccor con infernal sussidi -a formar questa tomba i sassi grevi; -ed a Caron dissi con alti gridi: -— Dopo morte non vo' lo spirto levi -di questo bosco, fin che non ci giugna -Ruggier con la sorella per far pugna. — -Così lo spirto mio per le belle ombre -ha molti dì aspettato il venir vostro: -sì che mai gelosia più non t'ingombre, -o Bradamante, ch'ami Ruggier nostro. -Ma tempo è ormai che de la luce io sgombre, -e mi conduca al tenebroso chiostro. — -Qui si tacque; e a Marfisa ed alla figlia -d'Amon lasciò e a Ruggier gran maraviglia. -Riconosce Marfisa per sorella -Ruggier con molto gaudio, ed ella lui; -e ad abbracciarsi, senza offender quella -che per Ruggiero ardea, vanno ambidui: -e rammentando de l'età novella -alcune cose: i' feci, io dissi, io fui; -vengon trovando con più certo effetto, -tutto esser ver quel c'ha lo spirto detto. -Ruggiero alla sorella non ascose -quanto avea nel cor fissa Bradamante; -e narrò con parole affettuose -de le obligazion che le avea tante: -e non cessò, ch'in grand'amor compose -le discordie ch'insieme ebbono avante; -e fe', per segno di pacificarsi, -ch'umanamente andaro ad abbracciarsi. -A domandar poi ritornò Marfisa -chi stato fosse, e di che gente il padre; -e chi l'avesse morto, ed a che guisa, -s'in campo chiuso o fra l'armate squadre; -e chi commesso avea che fosse uccisa -dal mar atroce la misera madre: -che se già l'avea udito da fanciulla, -or ne tenea poca memoria o nulla. -Ruggiero incominciò, che da' Troiani -per la linea d'Ettorre erano scesi; -che poi che Astianatte de le mani -campò d'Ulisse e da li aguati tesi, -avendo un de' fanciulli coetani -per lui lasciato, uscì di quei paesi; -e dopo un lungo errar per la marina, -venne in Sicilia e dominò Messina. -— I descendenti suoi di qua dal Faro -signoreggiar de la Calabria parte; -e dopo più successioni andaro -ad abitar ne la città di Marte. -Più d'uno imperatore e re preclaro -fu di quel sangue in Roma e in altra parte, -cominciando a Costante e a Costantino, -sino a re Carlo figlio de Pipino. -Fu Ruggier primo e Gianbaron di questi, -Buovo, Rambaldo, al fin Ruggier secondo, -che fe', come d'Atlante udir potesti, -di nostra madre l'utero fecondo. -De la progenie nostra i chiari gesti -per l'istorie vedrai celebri al mondo. — -Seguì poi, come venne il re Agolante -con Almonte e col padre d'Agramante; -e come menò seco una donzella -ch'era sua figlia, tanto valorosa, -che molti paladin gittò di sella; -e di Ruggiero al fin venne amorosa, -e per suo amor del padre fu ribella, -e battezzossi, e diventògli sposa. -Narrò come Beltramo traditore -per la cognata arse d'incesto amore; -e che la patria e 'l padre e duo fratelli -tradì, così sperando acquistar lei; -aperse Risa agli nimici, e quelli -fer di lor tutti i portamenti rei; -come Agolante e i figli iniqui e felli -poser Galaciella, che di sei -mesi era grave, in mar senza governo, -quando fu tempestoso al maggior verno. -Stava Marfisa con serena fronte -fisa al parlar che 'l suo german facea: -ed esser scesa da la bella fonte -ch'avea sì chiari rivi, si godea. -Quindi Mongrana e quindi Chiaramonte -le due progenie derivar sapea, -ch'al mondo fu molti e molt'anni e lustri -splendide, e senza par d'uomini illustri. -Poi che 'l fratello al fin le venne a dire -che 'l padre d'Agramante e l'avo e 'l zio -Ruggiero a tradigion feron morire, -e posero la moglie a caso rio; -non lo poté più la sorella udire, -che lo 'nterroppe, e disse: — Fratel mio -(salva tua grazia), avuto hai troppo torto -a non ti vendicar del padre morto. -Se in Almonte e in Troian non ti potevi -insanguinar, ch'erano morti inante, -dei figli vendicar tu ti dovevi. -Perché, vivendo tu, vive Agramante? -Questa è una macchia che mai non ti levi -dal viso; poi che dopo offese tante -non pur posto non hai questo re a morte, -ma vivi al soldo suo ne la sua corte. -Io fo ben voto a Dio (ch'adorar voglio -Cristo Dio vero, ch'adorò mio padre) -che di questa armatura non mi spoglio, -fin che Ruggier non vendico e mia madre. -E vo' dolermi, e fin ora mi doglio, -di te, se più ti veggo fra le squadre -del re Agramante o d'altro signor Moro, -se non col ferro in man per danno loro. — -Oh come a quel parlar leva la faccia -la bella Bradamante, e ne gioisce! -E conforta Ruggier che così faccia -come Marfisa sua ben l'ammonisce; -e venga a Carlo, e conoscer si faccia, -che tanto onora, lauda e riverisce -del suo padre Ruggier la chiara fama, -ch'ancor guerrier senza alcun par lo chiama. -Ruggiero accortamente le rispose -che da principio questo far dovea; -ma per non bene aver note le cose, -come ebbe poi, tardato troppo avea. -Ora, essendo Agramante che gli pose -la spada al fianco, farebbe opra rea -dandogli morte, e saria traditore; -che già tolto l'avea per suo signore. -Ben, come a Bradamante già promesse, -promettea a lei di tentare ogni via, -tanto ch'occasione, onde potesse -levarsi con suo onor, nascer faria. -E se già fatto non l'avea, non desse -la colpa a lui, m'al re di Tartaria, -dal qual ne la battaglia che seco ebbe, -lasciato fu, come saper si debbe. -Ed ella ch'ogni dì gli venìa al letto, -buon testimon, quanto alcun altro, n'era. -Fu sopra questo assai risposto e detto -da l'una e da l'altra inclita guerriera. -L'ultima conclusion, l'ultimo effetto -è che Ruggier ritorni alla bandiera -del suo signor, fin che cagion gli accada, -che giustamente a Carlo se ne vada. -— Lascialo pur andar (dicea Marfisa -a Bradamante), e non aver timore: -fra pochi giorni io farò bene in guisa -che non gli fia Agramante più signore. — -Così dice ella, né però devisa -quanto di voler fare abbia nel core. -Tolta da lor licenza, al fin Ruggiero -per tornare al suo re volgea il destriero; -quando un pianto s'udì da le vicine -valli sonar, che li fe' tutti attenti. -A quella voce fan l'orecchie chine, -che di femina par che si lamenti. -Ma voglio questo canto abbia qui fine, -e di quel che voglio io, siate contenti; -che miglior cose vi prometto dire, -s'all'altro canto mi verrete a udire. Se, come in acquistar qualch'altro dono -che senza industria non può dar Natura, -affaticate notte e dì si sono -con somma diligenza e lunga cura -le valorose donne, e se con buono -successo n'è uscit'opra non oscura; -così si fosson poste a quelli studi -ch'immortal fanno le mortal virtudi; -e che per sé medesime potuto -avesson dar memoria alle sue lode, -non mendicar dagli scrittori aiuto, -ai quali astio ed invidia il cor sì rode, -che 'l ben che ne puon dir, spesso è taciuto, -e 'l mal, quanto ne san, per tutto s'ode; -tanto il lor nome sorgeria, che forse -viril fama a tal grado unqua non sorse. -Non basta a molti di prestarsi l'opra -in far l'un l'altro glorioso al mondo, -ch'anco studian di far che si discuopra -ciò che le donne hanno fra lor d'immondo. -Non le vorrian lasciar venir di sopra, -e quanto puon, fan per cacciarle al fondo: -dico gli antiqui; quasi l'onor debbia -d'esse il lor oscurar, come il sol nebbia. -Ma non ebbe e non ha mano né lingua, -formando in voce o discrivendo in carte -(quantunque il mal, quanto può, accresce e impingua, -e minuendo il ben va con ogni arte), -poter però, che de le donne estingua -la gloria sì, che non ne resti parte; -ma non già tal, che presso al segno giunga, -né ch'anco se gli accosti di gran lunga: -ch'Arpalice non fu, non fu Tomiri, -non fu chi Turno, non chi Ettor soccorse; -non chi seguita da Sidoni e Tiri -andò per lungo mare in Libia a porse; -non Zenobia, non quella che gli Assiri, -i Persi e gl'Indi con vittoria scorse: -non fur queste e poch'altre degne sole, -di cui per arme eterna fama vole. -E di fedeli e caste e sagge e forti -stato ne son, non pur in Grecia e in Roma, -ma in ogni parte ove fra gl'Indi e gli Orti -de le Esperide il Sol spiega la chioma: -de le quai sono i pregi agli onor morti, -sì ch'a pena di mille una si noma; -e questo, perché avuto hanno ai lor tempi -gli scrittori bugiardi, invidi ed empi. -Non restate però, donne, a cui giova -il bene oprar, di seguir vostra via; -né da vostra alta impresa vi rimuova -tema che degno onor non vi si dia: -che, come cosa buona non si trova -che duri sempre, così ancor né ria. -Se le carte sin qui state e gl'inchiostri -per voi non sono, or sono a' tempi nostri. -Dianzi Marullo ed il Pontan per vui -sono, e duo Strozzi, il padre e 'l figlio, stati: -c'è il Bembo, c'è il Capel, c'è chi, qual lui -vediamo, ha tali i cortigian formati: -c'è un Luigi Alaman: ce ne son dui, -di par da Marte e da le Muse amati, -ambi del sangue che regge la terra -che 'l Menzo fende e d'alti stagni serra. -Di questi l'uno, oltre che 'l proprio istinto -ad onorarvi e a riverirvi inchina, -e far Parnasso risonare e Cinto -di vostra laude, e porla al ciel vicina; -l'amor, la fede, il saldo e non mai vinto -per minacciar di strazi e di ruina, -animo ch'Issabella gli ha dimostro, -lo fa, assai più che di se stesso, vostro: -sì che non è per mai trovarsi stanco -di farvi onor nei suoi vivaci carmi: -e s'altri vi dà biasmo, non è ch'anco -sia più pronto di lui per pigliar l'armi: -e non ha il mondo cavallier che manco -la vita sua per la virtù rispiarmi. -Dà insieme egli materia ond'altri scriva, -e fa la gloria altrui, scrivendo, viva. -Ed è ben degno che sì ricca donna, -ricca di tutto quel valor che possa -esser fra quante al mondo portin gonna, -mai non si sia di sua costanza mossa; -e sia stata per lui vera colonna, -sprezzando di Fortuna ogni percossa: -di lei degno egli, e degna ella di lui; -né meglio s'accoppiaro unque altri dui. -Nuovi trofei pon su la riva d'Oglio; -ch'in mezzo a ferri, a fuochi, a navi, a ruote -ha sparso alcun tanto ben scritto foglio, -che 'l vicin fiume invidia aver gli puote. -Appresso a questo un Ercol Bentivoglio -fa chiaro il vostro onor con chiare note, -e Renato Trivulcio, e 'l mio Guidetto, -e 'l Molza, a dir di voi da Febo eletto. -C'è 'l duca de' Carnuti Ercol, figliuolo -del duca mio, che spiega l'ali come -canoro cigno, e va cantando a volo, -e fin al cielo udir fa il vostro nome. -C'è il mio signor del Vasto, a cui non solo -di dare a mille Atene e a mille Rome -di sé materia basta, ch'anco accenna -volervi eterne far con la sua penna. -Ed oltre a questi ed altri ch'oggi avete, -che v'hanno dato gloria e ve la danno, -voi per voi stesse dar ve la potete; -poi che molte, lasciando l'ago e 'l panno, -son con le Muse a spegnersi la sete -al fonte d'Aganippe andate, e vanno; -e ne ritornan tai, che l'opra vostra -è più bisogno a noi, ch'a voi la nostra. -Se chi sian queste, e di ciascuna voglio -render buon conto, e degno pregio darle, -bisognerà ch'io verghi più d'un foglio, -e ch'oggi il canto mio d'altro non parle: -e s'a lodarne cinque o sei ne toglio, -io potrei l'altre offendere e sdegnarle. -Che farò dunque? Ho da tacer d'ognuna, -o pur fra tante sceglierne sol una? -Sceglieronne una; e sceglierolla tale, -che superato avrà l'invidia in modo, -che nessun'altra potrà avere a male, -se l'altre taccio, e se lei sola lodo. -Quest'una ha non pur sé fatta immortale -col dolce stil di che il meglior non odo; -ma può qualunque di cui parli o scriva, -trar del sepolcro, e far ch'eterno viva. -Come Febo la candida sorella -fa più di luce adorna, e più la mira, -che Venere o che Maia o ch'altra stella -che va col cielo o che da sé si gira: -così facundia, più ch'all'altre, a quella -di ch'io vi parlo, e più dolcezza spira; -e dà tal forza all'alte sue parole, -ch'orna a' dì nostri il ciel d'un altro sole. -Vittoria è 'l nome; e ben conviensi a nata -fra le vittorie, ed a chi, o vada o stanzi, -di trofei sempre e di trionfi ornata, -la vittoria abbia seco, o dietro o inanzi. -Questa è un'altra Artemisia, che lodata -fu di pietà verso il suo Mausolo; anzi -tanto maggior, quanto è più assai bell'opra, -che por sotterra un uom, trarlo di sopra. -Se Laodamìa se la moglier di Bruto, -s'Arria, s'Argia, s'Evadne, e s'altre molte -meritar laude per aver voluto, -morti i mariti, esser con lor sepolte; -quanto onore a Vittoria è più dovuto, -che di Lete e del rio che nove volte -l'ombre circonda, ha tratto il suo consorte, -mal grado de le Parche e de la Morte! -S'al fiero Achille invidia de la chiara -meonia tromba il Macedonico ebbe, -quanto, invitto Francesco di Pescara, -maggior a te, se vivesse or, l'avrebbe! -che sì casta mogliere e a te sì cara -canti l'eterno onor che ti si debbe, -e che per lei sì 'l nome tuo rimbombe, -che da bramar non hai più chiare trombe. -Se quanto dir se ne potrebbe, o quanto -io n'ho desir, volessi porre in carte, -ne direi lungamente; ma non tanto, -ch'a dir non ne restasse anco gran parte: -e di Marfisa e dei compagni intanto -la bella istoria rimarria da parte, -la quale io vi promisi di seguire, -s'in questo canto mi verreste a udire. -Ora essendo voi qui per ascoltarmi, -ed io per non mancar de la promessa, -serberò a maggior ozio di provarmi -ch'ogni laude di lei sia da me espressa; -non perch'io creda bisognar miei carmi -a chi se ne fa copia da se stessa; -ma sol per satisfare a questo mio, -c'ho d'onorarla e di lodar, disio. -Donne, io conchiudo in somma, ch'ogni etate -molte ha di voi degne d'istoria avute; -ma per invidia di scrittori state -non sete dopo morte conosciute: -il che più non sarà, poi che voi fate -per voi stesse immortal vostra virtute. -Se far le due cognate sapean questo, -si sapria meglio ogni lor degno gesto. -Di Bradamante e di Marfisa dico, -le cui vittoriose inclite prove -di ritornare in luce m'affatico; -ma de le diece mancanmi le nove. -Queste ch'io so, ben volentieri esplìco; -sì perché ogni bell'opra si de', dove -occulta sia, scoprir, sì perché bramo -a voi, donne, aggradir, ch'onoro ed amo. -Stava Ruggier, com'io vi dissi, in atto -di partirsi, ed avea commiato preso, -e dall'arbore il brando già ritratto, -che, come dianzi, non gli fu conteso; -quando un gran pianto, che non lungo tratto -era lontan, lo fe' restar sospeso; -e con le donne a quella via si mosse, -per aiutar, dove bisogno fosse. -Spingonsi inanzi, e via più chiaro il suon ne -viene, e via più son le parole intese. -Giunti ne la vallea, trovan tre donne -che fan quel duolo, assai strane in arnese; -che fin all'ombilico ha lor le gonne -scorciate non so chi poco cortese: -e per non saper meglio elle celarsi, -sedeano in terra, e non ardian levarsi. -Come quel figlio di Vulcan, che venne -fuor de la polve senza madre in vita, -e Pallade nutrir fe' con solenne -cura d'Aglauro, al veder troppo ardita, -sedendo, ascosi i brutti piedi tenne -su la quadriga da lui prima ordita; -così quelle tre giovani le cose -secrete lor tenean, sedendo, ascose. -Lo spettacolo enorme e disonesto -l'una e l'altra magnanima guerriera -fe' del color che nei giardin di Pesto -esser la rosa suol da primavera. -Riguardò Bradamante, e manifesto -tosto le fu ch'Ullania una d'esse era, -Ullania che da l'Isola Perduta -in Francia messaggera era venuta: -e riconobbe non men l'altre due; -che dove vide lei, vide esse ancora. -Ma se n'andaron le parole sue -a quella de le tre ch'ella più onora; -e le domanda chi sì iniquo fue, -e sì di legge e di costumi fuora, -che quei segreti agli occhi altrui riveli, -che, quanto può, par che Natura celi. -Ullania che conosce Bradamante, -non meno ch'alle insegne, alla favella, -esser colei che pochi giorni inante -avea gittati i tre guerrier di sella, -narra che ad un castel poco distante -una ria gente e di pietà ribella, -oltre all'ingiuria di scorciarle i panni, -l'avea battuta e fattol'altri danni. -Né le sa dir che de lo scudo sia, -né dei tre re che per tanti paesi -fatto le avean sì lunga compagnia: -non sa se morti, o sian restati presi; -e dice c'ha pigliata questa via, -ancor ch'andare a piè molto le pesi, -per richiamarsi de l'oltraggio a Carlo, -sperando che non sia per tolerarlo. -Alle guerriere ed a Ruggier, che meno -non han pietosi i cor, ch'audaci e forti, -de' bei visi turbò l'aer sereno -l'udire, e più il veder sì gravi torti: -et obliando ogn'altro affar che avieno, -e senza che li prieghi o che gli esorti -la donna afflitta a far la sua vendetta, -piglian la via verso quel luogo in fretta. -Di commune parer le sopraveste, -mosse da gran bontà, s'aveano tratte, -ch'a ricoprir le parti meno oneste -di quelle sventurate assai furo atte. -Bradamante non vuol ch'Ullania peste -le strade a piè, ch'avea a piede anco fatte, -e se la leva in groppa del destriero; -l'altra Marfisa, l'altra il buon Ruggiero. -Ullania a Bradamante che la porta, -mostra la via che va al castel più dritta: -Bradamante all'incontro lei conforta, -che la vendicherà di chi l'ha afflitta. -Lascian la valle, e per via lunga e torta -sagliono un colle or a man manca or ritta; -e prima il sol fu dentro il mare ascoso, -che volesser tra via prender riposo. -Trovaro una villetta che la schena -d'un erto colle, aspro a salir, tenea; -ove ebbon buono albergo e buona cena, -quale avere in quel loco si potea. -Si mirano d'intorno, e quivi piena -ogni parte di donne si vedea, -quai giovani, quai vecchie; e in tanto stuolo -faccia non v'apparia d'un uomo solo. -Non più a Iason di maraviglia denno, -né agli Argonauti che venian con lui, -le donne che i mariti morir fenno -e i figli e i padri coi fratelli sui, -sì che per tutta l'isola di Lenno -di viril faccia non si vider dui; -che Ruggier quivi, e chi con Ruggier era -maraviglia ebbe all'alloggiar la sera. -Fero ad Ullania ed alle damigelle -che venivan con lei, le due guerriere -la sera proveder di tre gonnelle, -se non così polite, almeno intere. -A sé chiama Ruggiero una di quelle -donne ch'abitan quivi, e vuol sapere -ove gli uomini sian, ch'un non ne vede; -ed ella a lui questa risposta diede: -— Questa che forse è maraviglia a voi, -che tante donne senza uomini siamo, -è grave e intolerabil pena a noi, -che qui bandite misere viviamo. -E perché il duro esilio più ci annoi, -padri, figli e mariti, che sì amiamo, -aspro e lungo divorzio da noi fanno, -come piace al crudel nostro tiranno. -Da le sue terre, le quai son vicine -a noi due leghe, e dove noi siàn nate, -qui ci ha mandato il barbaro in confine, -prima di mille scorni ingiuriate; -ed ha gli uomini nostri e noi meschine -di morte e d'ogni strazio minacciate, -se quelli a noi verranno, o gli fia detto -che noi diàn lor, venendoci, ricetto. -Nimico è sì costui del nostro nome, -che non ci vuol, più ch'io vi dico, appresso, -né ch'a noi venga alcun de' nostri, come -l'odor l'ammorbi del femineo sesso. -Già due volte l'onor de le lor chiome -s'hanno spogliato gli alberi e rimesso, -da indi in qua che 'l rio signor vaneggia -in furor tanto: e non è chi 'l correggia; -che 'l populo ha di lui quella paura -che maggior aver può l'uom de la morte; -ch'aggiunto al mal voler gli ha la natura -una possanza fuor d'umana sorte. -Il corpo suo di gigantea statura -è più, che di cent'altri insieme, forte. -Né pure a noi sue suddite è molesto, -ma fa alle strane ancor peggio di questo. -Se l'onor vostro, e queste tre vi sono -punto care, ch'avete in compagnia, -più vi sarà sicuro, utile e buono -non gir più inanzi, e trovar altra via. -Questa al castel de l'uom di ch'io ragiono, -a provar mena la costuma ria -che v'ha posta il crudel con scorno e danno -di donne e di guerrier che di là vanno. -Marganor il fellon (così si chiama -il signore, il tiran di quel castello), -del qual Nerone, o s'altri è ch'abbia fama -di crudeltà, non fu più iniquo e fello, -il sangue uman, ma 'l feminil più brama, -che 'l lupo non lo brama de l'agnello. -Fa con onta scacciar le donne tutte -da lor ria sorte a quel castel condutte. — -Perché quell'empio in tal furor venisse, -volson le donne intendere e Ruggiero: -pregar colei, ch'in cortesia seguisse, -anzi che cominciasse il conto intero. -— Fu il signor del castel (la donna disse) -sempre crudel, sempre inumano e fiero; -ma tenne un tempo il cor maligno ascosto, -né si lasciò conoscer così tosto: -che mentre duo suoi figli erano vivi, -molto diversi dai paterni stili, -ch'amavan forestieri, ed eran schivi -di crudeltade e degli altri atti vili; -quivi le cortesie fiorivan, quivi -i bei costumi e l'opere gentili: -che 'l padre mai, quantunque avaro fosse, -da quel che lor piacea non li rimosse. -Le donne e i cavallier che questa via -facean talor, venian sì ben raccolti, -che si partian de l'alta cortesia -dei duo germani inamorati molti. -Amendui questi di cavalleria -parimente i santi ordini avean tolti: -Cilandro l'un, l'altro Tanacro detto, -gagliardi, arditi e di reale aspetto. -Ed eran veramente, e sarian stati -sempre di laude degni e d'ogni onore, -s'in preda non si fossino sì dati -a quel desir che nominiamo amore; -per cui dal buon sentier fur traviati -al labirinto ed al camin d'errore; -e ciò che mai di buono aveano fatto, -restò contaminato e brutto a un tratto. -Capitò quivi un cavallier di corte -del greco imperator, che seco avea -una sua donna di maniere accorte, -bella quanto bramar più si potea. -Cilandro in lei s'inamorò sì forte, -che morir, non l'avendo, gli parea: -gli parea che dovesse, alla partita -di lei, partire insieme la sua vita. -E perché i prieghi non v'avriano loco, -di volerla per forza si dispose. -Armossi, e dal castel lontano un poco, -ove passar dovean, cheto s'ascose. -L'usata audacia e l'amoroso fuoco -non gli lasciò pensar troppo le cose: -sì che vedendo il cavallier venire, -l'andò lancia per lancia ad assalire. -Al primo incontro credea porlo in terra, -portar la donna e la vittoria indietro: -ma 'l cavallier, che mastro era di guerra, -l'osbergo gli spezzò come di vetro. -Venne la nuova al padre ne la terra, -che lo fe' riportar sopra un ferètro; -e ritrovandol morto, con gran pianto -gli diè sepulcro agli antiqui avi a canto. -Né più però né manco si contese -l'albergo e l'accoglienza a questo e a quello, -perché non men Tanacro era cortese, -né meno era gentil di suo fratello. -L'anno medesmo di lontan paese -con la moglie un baron venne al castello, -a maraviglia egli gagliardo, ed ella, -quanto si possa dir, leggiadra e bella; -né men che bella, onesta e valorosa, -e degna veramente d'ogni loda: -il cavallier, di stirpe generosa, -di tanto ardir, quanto più d'altri s'oda. -E ben conviensi a tal valor, che cosa -di tanto prezzo e sì eccellente goda. -Olindro il cavallier da Lungavilla, -la donna nominata era Drusilla. -Non men di questa il giovene Tanacro -arse, che 'l suo fratel di quella ardesse, -che gli fe' gustar fine acerbo ed acro -del desiderio ingiusto ch'in lei messe. -Non men di lui di violar del sacro -e santo ospizio ogni ragione ellesse, -più tosto che patir che 'l duro e forte -nuovo desir lo conducesse a morte. -Ma perch'avea dinanzi agli occhi il tema -del suo fratel che n'era stato morto, -pensa di torla in guisa, che non tema -ch'Olindro s'abbia a vendicar del torto. -Tosto s'estingue in lui, non pur si scema -quella virtù su che solea star sorto; -ché non lo sommergean dei vizi l'acque, -de le quai sempre al fondo il padre giacque. -Con gran silenzio fece quella notte -seco raccor da vent'uomini armati; -e lontan dal castel, fra certe grotte -che si trovan tra via, messe gli aguati. -Quivi ad Olindro il dì le strade rotte, -e chiusi i passi fur da tutti i lati; -e ben che fe' lunga difesa e molta, -pur la moglie e la vita gli fu tolta. -Ucciso Olindro, ne menò captiva -la bella donna, addolorata in guisa, -ch'a patto alcun restar non volea viva, -e di grazia chiedea d'essere uccisa. -Per morir si gittò giù d'una riva -che vi trovò sopra un vallone assisa; -e non poté morir, ma con la testa -rotta rimase, e tutta fiacca e pesta. -Altrimente Tanacro riportarla -a casa non poté che s'una bara. -Fece con diligenza medicarla; -che perder non volea preda sì cara. -E mentre che s'indugia a risanarla, -di celebrar le nozze si prepara: -ch'aver sì bella donna e sì pudica -debbe nome di moglie, e non d'amica. -Non pensa altro Tanacro, altro non brama, -d'altro non cura, e d'altro mai non parla. -Si vede averla offesa, e se ne chiama -in colpa, e ciò che può, fa d'emendarla. -Ma tutto è invano: quanto egli più l'ama, -quanto più s'affatica di placarla, -tant'ella odia più lui, tanto è più forte, -tanto è più ferma in voler porlo a morte. -Ma non però quest'odio così ammorza -la conoscenza in lei, che non comprenda -che, se vuol far quanto disegna, è forza -che simuli, ed occulte insidie tenda; -e che 'l desir sotto contraria scorza -(il quale è sol come Tanacro offenda) -veder gli faccia; e che si mostri tolta -dal primo amore, e tutto a lui rivolta. -Simula il viso pace; ma vendetta -chiama il cor dentro, e ad altro non attende. -Molte cose rivolge, alcune accetta, -altre ne lascia, ed altre in dubbio appende. -Le par che quando essa a morir si metta, -avrà il suo intento; e quivi al fin s'apprende. -E dove meglio può morire, o quando, -che 'l suo caro marito vendicando? -Ella si mostra tutta lieta, e finge -di queste nozze aver sommo disio; -e ciò che può indugiarle, a dietro spinge, -non ch'ella mostri averne il cor restio. -Più de l'altre s'adorna e si dipinge: -Olindro al tutto par messo in oblio. -Ma che sian fatte queste nozze vuole, -come ne la sua patria far si suole. -Non era però ver che questa usanza -che dir volea, ne la sua patria fosse: -ma, perché in lei pensier mai non avanza, -che spender possa altrove, imaginosse -una bugia, la qual le diè speranza -di far morir chi 'l suo signor percosse: -e disse di voler le nozze a guisa -de la sua patria, e 'l modo gli devisa. -— La vedovella che marito prende, -deve, prima (dicea) ch'a lui s'appresse, -placar l'alma del morto ch'ella offende, -facendo celebrargli offici e messe, -in remission de le passate mende, -nel tempio ove di quel son l'ossa messe; -e dato fin ch'al sacrificio sia, -alla sposa l'annel lo sposo dia: -ma ch'abbia in questo mezzo il sacerdote -sul vino ivi portato a tale effetto -appropriate orazion devote, -sempre il liquor benedicendo, detto; -indi che 'l fiasco in una coppa vote, -e dia alli sposi il vino benedetto: -ma portare alla sposa il vino tocca, -ed esser prima a porvi su la bocca. — -Tanacro, che non mira quanto importe -ch'ella le nozze alla sua usanza faccia, -le dice: — Pur che 'l termine si scorte -d'essere insieme, in questo si compiaccia. — -Né s'avede il meschin ch'essa la morte -d'Olindro vendicar così procaccia, -e sì la voglia ha in uno oggetto intensa, -che sol di quello, e mai d'altro non pensa. -Avea seco Drusilla una sua vecchia, -che seco presa, seco era rimasa. -A sé chiamolla, e le disse all'orecchia, -sì che non poté udire uomo di casa: -— Un subitano tosco m'apparecchia, -qual so che sai comporre, e me lo invasa; -c'ho trovato la via di vita torre -il traditor figliuol di Marganorre. -E me so come, e te salvar non meno: -ma diferisco a dirtelo più ad agio. — -Andò la vecchia, e apparecchiò il veneno, -ed acconciollo, e ritornò al palagio. -Di vin dolce di Candia un fiasco pieno -trovò da por con quel succo malvagio, -e lo serbò pel giorno de le nozze; -ch'omai tutte l'indugie erano mozze. -Lo statuito giorno al tempio venne, -di gemme ornata e di leggiadre gonne, -ove d'Olindro, come gli convenne, -fatto avea l'arca alzar su due colonne. -Quivi l'officio si cantò solenne: -trasseno a udirlo tutti, uomini e donne, -e lieto Marganor più de l'usato, -venne col figlio e con gli amici a lato. -Tosto ch'al fin le sante esequie foro, -e fu col tosco il vino benedetto, -il sacerdote in una coppa d'oro -lo versò, come avea Drusilla detto. -Ella ne bebbe quanto al suo decoro -si conveniva, e potea far l'effetto: -poi diè allo sposo con viso giocondo -il nappo; e quel gli fe' apparire il fondo. -Renduto il nappo al sacerdote, lieto -per abbracciar Drusilla apre le braccia. -Or quivi il dolce stile e mansueto -in lei si cangia e quella gran bonaccia. -Lo spinge a dietro, e gli ne fa divieto, -e par ch'arda negli occhi e ne la faccia; -e con voce terribile e incomposta -gli grida: — Traditor, da me ti scosta! -Tu dunque avrai da me solazzo e gioia, -io lagrime da te, martìri e guai? -Io vo' per le mie man ch'ora tu muoia: -questo è stato venen, se tu nol sai. -Ben mi duol c'hai troppo onorato boia, -che troppo lieve e facil morte fai; -che mani e pene io non so sì nefande, -che fosson pari al tuo peccato grande. -Mi duol di non vedere in questa morte -il sacrificio mio tutto perfetto: -che s'io 'l poteva far di quella sorte -ch'era il disio, non avria alcun difetto. -Di ciò mi scusi il dolce mio consorte: -riguardi al buon volere, e l'abbia accetto; -che non potendo come avrei voluto, -io t'ho fatto morir come ho potuto. -E la punizion che qui, secondo -il desiderio mio, non posso darti, -spero l'anima tua ne l'altro mondo -veder patire; ed io starò a mirarti. — -Poi disse, alzando con viso giocondo -i turbidi occhi alle superne parti: -— Questa vittima, Olindro, in tua vendetta -col buon voler de la tua moglie accetta; -ed impetra per me dal Signor nostro -grazia, ch'in paradiso oggi io sia teco. -Se ti dirà che senza merto al vostro -regno anima non vien, di' ch'io l'ho meco; -che di questo empio e scelerato mostro -le spoglie opime al santo tempio arreco. -E che merti esser puon maggior di questi, -spegner sì brutte e abominose pesti? — -Finì il parlare insieme con la vita; -e morta anco parea lieta nel volto -d'aver la crudeltà così punita -di chi il caro marito le avea tolto. -Non so se prevenuta, o se seguita -fu da lo spirto di Tanacro sciolto: -fu prevenuta, credo; ch'effetto ebbe -prima il veneno in lui, perché più bebbe. -Marganor che cader vede il figliuolo, -e poi restar ne le sue braccia estinto, -fu per morir con lui, dal grave duolo -ch'alla sprovista lo trafisse, vinto. -Duo n'ebbe un tempo, or si ritrova solo: -due femine a quel termine l'han spinto. -La morte a l'un da l'una fu causata; -e l'altra all'altro di sua man l'ha data. -Amor, pietà, sdegno, dolore ed ira, -disio di morte e di vendetta insieme -quell'infelice ed orbo padre aggira, -che, come il mar che turbi il vento, freme. -Per vendicarsi va a Drusilla, e mira -che di sua vita ha chiuse l'ore estreme; -e come il punge e sferza l'odio ardente, -cerca offendere il corpo che non sente. -Qual serpe che ne l'asta ch'alla sabbia -la tenga fissa, indarno i denti metta; -o qual mastin ch'al ciottolo che gli abbia -gittato il viandante, corra in fretta, -e morda invano con stizza e con rabbia, -né se ne voglia andar senza vendetta: -tal Marganor d'ogni mastin, d'ogni angue -via più crudel, fa contra il corpo esangue. -E poi che per stracciarlo e farne scempio -non si sfoga il fellon né disacerba, -vien fra le donne di che è pieno il tempio, -né più l'una de l'altra ci riserba; -ma di noi fa col brando crudo ed empio -quel che fa con la falce il villan d'erba. -Non vi fu alcun ripar, ch'in un momento -trenta n'uccise, e ne ferì ben cento. -Egli da la sua gente è sì temuto, -ch'uomo non fu ch'ardisse alzar la testa. -Fuggon le donne col popul minuto -fuor de la chiesa, e chi può uscir, non resta. -Quel pazzo impeto al fin fu ritenuto -dagli amici con prieghi e forza onesta, -e lasciando ogni cosa in pianto al basso, -fatto entrar ne la rocca in cima al sasso. -E tuttavia la colera durando, -di cacciar tutte per partito prese; -poi che gli amici e 'l populo pregando, -che non ci uccise a fatto, gli contese: -e quel medesmo dì fe' andare un bando, -che tutte gli sgombrassimo il paese; -e darci qui gli piacque le confine. -Misera chi al castel più s'avvicine! -Da le mogli così furo i mariti, -da le madri così i figli divisi. -S'alcuni sono a noi venire arditi, -nol sappia già chi Marganor n'avisi; -che di multe gravissime puniti -n'ha molti, e molti crudelmente uccisi. -Al suo castello ha poi fatto una legge, -di cui peggior non s'ode né si legge. -Ogni donna che trovin ne la valle, -la legge vuol (ch'alcuna pur vi cade) -che percuotan con vimini alle spalle, -e la faccian sgombrar queste contrade: -ma scorciar prima i panni, e mostrar falle -quel che Natura asconde ed Onestade; -e s'alcuna vi va, ch'armata scorta -abbia di cavallier, vi resta morta. -Quelle c'hanno per scorta cavallieri, -son da questo nimico di pietate, -come vittime, tratte ai cimiteri -dei morti figli, e di sua man scannate. -Leva con ignominia arme e destrieri, -e poi caccia in prigion chi l'ha guidate: -e lo può far; che sempre notte e giorno -si trova più di mille uomini intorno. -E dir di più vi voglio ancora, ch'esso, -s'alcun ne lascia, vuol che prima giuri -su l'ostia sacra, che 'l femineo sesso -in odio avrà fin che la vita duri. -Se perder queste donne e voi appresso -dunque vi pare, ite a veder quei muri -ove alberga il fellone, e fate prova -s'in lui più forza o crudeltà si trova. — -Così dicendo, le guerriere mosse -prima a pietade, e poscia a tanto sdegno, -che se, come era notte, giorno fosse, -sarian corse al castel senza ritegno. -La bella compagnia quivi pososse; -e tosto che l'Aurora fece segno -che dar dovesse al Sol loco ogni stella, -ripigliò l'arme e si rimesse in sella. -Già sendo in atto di partir, s'udiro -le strade risonar dietro le spalle -d'un lungo calpestio, che gli occhi in giro -fece a tutti voltar giù ne la valle. -E lungi quanto esser potrebbe un tiro -di mano, andar per uno istretto calle -vider da forse venti armati in schiera, -di che parte in arcion, parte a pied'era; -e che traean con lor sopra un cavallo -donna ch'al viso aver parea molt'anni, -a guisa che si mena un che per fallo -a fuoco o a ceppo o a laccio si condanni: -la qual fu, non ostante l'intervallo, -tosto riconosciuta al viso e ai panni. -La riconobber queste de la villa -esser la cameriera di Drusilla: -la cameriera che con lei fu presa -dal rapace Tanacro, come ho detto, -ed a chi fu dipoi data l'impresa -di quel venen che fe' 'l crudele effetto. -Non era entrata ella con l'altre in chiesa; -che di quel che seguì stava in sospetto: -anzi in quel tempo, de la villa uscita, -ove esser sperò salva, era fugita. -Avuto Marganor poi di lei spia, -la qual s'era ridotta in Ostericche, -non ha cessato mai di cercar via -come in man l'abbia, acciò l'abruci o impicche: -e finalmente l'Avarizia ria, -mossa da doni e da proferte ricche, -ha fatto ch'un baron, ch'assicurata -l'avea in sua terra, a Marganor l'ha data: -e mandata glie l'ha fin a Costanza -sopra un somier, come la merce s'usa, -legata e stretta, e toltole possanza -di far parole, e in una cassa chiusa: -onde poi questa gente l'ha ad istanza -de l'uom ch'ogni pietade ha da sé esclusa, -quivi condotta con disegno ch'abbia -l'empio a sfogar sopra di lei sua rabbia. -Come il gran fiume che di Vesulo esce, -quanto più inanzi e verso il mar discende, -e che con lui Lambra e Ticin si mesce, -ed Ada e gli altri onde tributo prende, -tanto più altiero e impetuoso cresce; -così Ruggier, quante più colpe intende -di Marganor, così le due guerriere -se gli fan contra più sdegnose e fiere. -Elle fur d'odio, elle fur d'ira tanta -contra il crudel, per tante colpe, accese, -che di punirlo, mal grado di quanta -gente egli avea, conclusion si prese. -Ma dargli presta morte troppo santa -pena lor parve e indegna a tante offese; -ed era meglio fargliela sentire, -fra strazio prolungandola e martìre. -Ma prima liberar la donna è onesto, -che sia condotta da quei birri a morte. -Lentar di briglia col calcagno presto -fece a' presti destrier far le vie corte. -Non ebbon gli assaliti mai di questo -uno incontro più acerbo né più forte; -sì che han di grazia di lasciar gli scudi -e la donna e l'arnese, e fuggir nudi: -sì come il lupo che di preda vada -carco alla tana, e quando più si crede -d'esser sicur, dal cacciator la strada -e da' suoi cani attraversar si vede, -getta la soma, e dove appar men rada -la scura macchia inanzi, affretta il piede. -Già men presti non fur quelli a fuggire, -che li fusson quest'altri ad assalire. -Non pur la donna e l'arme vi lasciaro, -ma de' cavalli ancor lasciaron molti, -e da rive e da grotte si lanciaro, -parendo lor così d'esser più sciolti. -Il che alle donne ed a Ruggier fu caro; -che tre di quei cavalli ebbono tolti -per portar quelle tre che 'l giorno d'ieri -feron sudar le groppe ai tre destrieri. -Quindi espediti segueno la strada -verso l'infame e dispietata villa. -Voglion che seco quella vecchia vada, -per veder la vendetta di Drusilla. -Ella che teme che non ben le accada, -lo niega indarno, e piange e grida e strilla; -ma per forza Ruggier la leva in groppa -del buon Frontino, e via con lei galoppa. -Giunseno in somma onde vedeano al basso -di molte case un ricco borgo e grosso, -che non serrava d'alcun lato il passo, -perché né muro intorno avea né fosso. -Avea nel mezzo un rilevato sasso -ch'un'alta rocca sostenea sul dosso. -A quella si drizzar con gran baldanza, -ch'esser sapean di Marganor la stanza. -Tosto che son nel borgo, alcuni fanti -che v'erano alla guardia de l'entrata, -dietro chiudon la sbarra, e già davanti -veggion che l'altra uscita era serrata: -ed ecco Marganorre, e seco alquanti -a piè e a cavallo, e tutta gente armata; -che con brevi parole, ma orgogliose, -la ria costuma di sua terra espose. -Marfisa, la qual prima avea composta -con Bradamante e con Ruggier la cosa, -gli spronò incontro in cambio di risposta; -e com'era possente e valorosa, -senza ch'abbassi lancia, o che sia posta -in opra quella spada sì famosa, -col pugno in guisa l'elmo gli martella, -che lo fa tramortir sopra la sella. -Con Marfisa la giovane di Francia -spinge a un tempo il destrier, né Ruggier resta -ma con tanto valor corre la lancia, -che sei, senza levarsela di resta, -n'uccide, uno ferito ne la pancia, -duo nel petto, un nel collo, un ne la testa: -nel sesto che fuggia l'asta si roppe, -ch'entrò alle schene e riuscì alle poppe. -La figliuola d'Amon quanti ne tocca -con la sua lancia d'or, tanti n'atterra: -fulmine par, che 'l cielo ardendo scocca, -che ciò ch'incontra, spezza e getta a terra. -Il popul sgombra, chi verso la rocca, -chi verso il piano; altri si chiude e serra, -chi ne le chiese e chi ne le sue case; -né, fuor che morti, in piazza uomo rimase. -Marfisa Marganorre avea legato -intanto con le man dietro alle rene, -ed alla vecchia di Drusilla dato, -ch'appagata e contenta se ne tiene. -D'arder quel borgo poi fu ragionato, -s'a penitenza del suo error non viene: -levi la legge ria di Marganorre, -e questa accetti, ch'essa vi vuol porre. -Non fu già d'ottener questo fatica; -con quella gente, oltre al timor ch'avea -che più faccia Marfisa che non dica, -ch'uccider tutti ed abbruciar volea, -di Marganorre affatto era nimica -e de la legge sua crudele e rea. -Ma 'l populo facea come i più fanno, -ch'ubbidiscon più a quei che più in odio hanno. -Però che l'un de l'altro non si fida, -e non ardisce conferir sua voglia, -lo lascian ch'un bandisca, un altro uccida, -a quel l'avere, a questo l'onor toglia. -Ma il cor che tace qui, su nel ciel grida, -fin che Dio e santi alla vendetta invoglia; -la qual, se ben tarda a venir, compensa -l'indugio poi con punizione immensa. -Or quella turba d'ira e d'odio pregna -con fatti e con mal dir cerca vendetta: -com'è in proverbio, ognun corre a far legna -all'arbore che 'l vento in terra getta. -Sia Marganorre esempio di chi regna; -che chi mal opra, male al fine aspetta. -Di vederlo punir de' suoi nefandi -peccati, avean piacer piccioli e grandi. -Molti a chi fur le mogli o le sorelle -o le figlie o le madri da lui morte, -non più celando l'animo ribelle, -correan per dargli di lor man la morte: -e con fatica lo difeser quelle -magnanime guerriere e Ruggier forte; -che disegnato avean farlo morire -d'affanno, di disagio e di martire. -A quella vecchia che l'odiava quanto -femina odiare alcun nimico possa, -nudo in mano lo dier, legato tanto, -che non si scioglierà per una scossa; -ed ella, per vendetta del suo pianto, -gli andò facendo la persona rossa -con un stimulo aguzzo ch'un villano, -che quivi si trovò, le pose in mano. -La messaggera e le sue giovani anco, -che quell'onta non son mai per scordarsi, -non s'hanno più a tener le mani al fianco, -né meno che la vecchia, a vendicarsi; -ma sì è il desir d'offenderlo, che manco -viene il potere, e pur vorrian sfogarsi: -chi con sassi il percuote, chi con l'unge; -altra lo morde, altra cogli aghi il punge. -Come torrente che superbo faccia -lunga pioggia talvolta o nievi sciolte, -va ruinoso, e giù da' monti caccia -gli arbori e i sassi e i campi e le ricolte; -vien tempo poi, che l'orgogliosa faccia -gli cade, e sì le forze gli son tolte, -ch'un fanciullo, una femina per tutto -passar lo puote, e spesso a piede asciutto: -così già fu che Marganorre intorno -fece tremar, dovunque udiasi il nome; -or venuto è chi gli ha spezzato il corno -di tanto orgoglio, e sì le forze dome, -che gli puon far sin a' bambini scorno, -chi pelargli la barba e chi le chiome. -Quindi Ruggiero e le donzelle il passo -alla rocca voltar, ch'era sul sasso. -La diè senza contrasto in poter loro -chi v'era dentro, e così i ricchi arnesi, -ch'in parte messi a sacco, in parte foro -dati ad Ullania ed a' compagni offesi. -Ricovrato vi fu lo scudo d'oro, -e quei tre re ch'avea il tiranno presi, -li quai venendo quivi, come parmi -d'avervi detto, erano a piè senz'armi; -perché dal dì che fur tolti di sella -da Bradamante, a piè sempre eran iti -senz'arme, in compagnia de la donzella -la qual venìa da sì lontani liti. -Non so se meglio o peggio fu di quella, -che di lor armi non fusson guerniti. -Era ben meglio esser da lor difesa; -ma peggio assai, se ne perdean l'impresa: -perché stata saria, com'eran tutte -quelle ch'armate avean seco le scorte, -al cimitero misere condutte -dei due fratelli, e in sacrificio morte. -Gli è pur men che morir, mostrar le brutte -e disoneste parti, duro e forte; -e sempre questo e ogn'altro obbrobrio amorza -il poter dir che le sia fatto a forza. -Prima ch'indi si partan le guerriere, -fan venir gli abitanti a giuramento, -che daranno i mariti alle mogliere -de la terra e del tutto il reggimento; -e castigato con pene severe -sarà chi contrastare abbia ardimento. -In somma quel ch'altrove è del marito, -che sia qui de la moglie è statuito. -Poi si feccion promettere ch'a quanti -mai verrian quivi, non darian ricetto, -o fosson cavallieri, o fosson fanti, -né 'ntrar li lascerian pur sotto un tetto, -se per Dio non giurassino e per santi, -o s'altro giuramento v'è più stretto, -che sarian sempre de le donne amici, -e dei nimici lor sempre nimici; -e s'avranno in quel tempo, e se saranno, -tardi o più tosto, mai per aver moglie, -che sempre a quelle sudditi saranno, -e ubbidienti a tutte le lor voglie. -Tornar Marfisa, prima ch'esca l'anno, -disse, e che perdan gli arbori le foglie; -e se la legge in uso non trovasse, -fuoco e ruina il borgo s'aspettasse. -Né quindi si partir, che de l'immondo -luogo dov'era, fer Drusilla torre, -e col marito in uno avel, secondo -ch'ivi potean più riccamente porre. -La vecchia facea intanto rubicondo -con lo stimulo il dosso a Marganorre: -sol si dolea di non aver tal lena, -che potesse non dar triegua alla pena. -L'animose guerriere a lato un tempio -videno quivi una colonna in piazza, -ne la qual fatt'avea quel tiranno empio -scriver la legge sua crudele e pazza. -Elle, imitando d'un trofeo l'esempio, -lo scudo v'attaccaro e la corazza -di Marganorre e l'elmo; e scriver fenno -la legge appresso, ch'esse al loco denno. -Quivi s'indugiar tanto, che Marfisa -fe' por la legge sua ne la colonna, -contraria a quella che già v'era incisa -a morte ed ignominia d'ogni donna. -Da questa compagnia restò divisa -quella d'Islanda, per rifar la gonna; -che comparire in corte obbrobrio stima, -se non si veste ed orna come prima. -Quivi rimase Ullania; e Marganorre -di lei restò in potere: ed essa poi, -perché non s'abbia in qualche modo a sciorre, -e le donzelle un'altra volta annoi, -lo fe' un giorno saltar giù d'una torre, -che non fe' il maggior salto a' giorni suoi. -Non più di lei, né più dei suoi si parli, -ma de la compagnia che va verso Arli. -Tutto quel giorno, e l'altro fin appresso -l'ora di terza andaro; e poi che furo -giunti dove in due strade è il camin fesso -(l'una va al campo, e l'altra d'Arli al muro), -tornar gli amanti ad abbracciarsi, e spesso -a tor commiato, e sempre acerbo e duro. -Al fin le donne in campo, e in Arli è gito -Ruggiero; ed io il mio canto ho qui finito. Cortesi donne, che benigna udienza -date a' miei versi, io vi veggo al sembiante, -che quest'altra sì subita partenza -che fa Ruggier da la sua fida amante, -vi dà gran noia, e avete displicenza -poco minor ch'avesse Bradamante; -e fate anco argumento ch'esser poco -in lui dovesse l'amoroso fuoco. -Per ogni altra cagion ch'allontanato -contra la voglia d'essa se ne fusse, -ancor ch'avesse più tesor sperato -che Creso o Crasso insieme non ridusse, -io crederia con voi, che penetrato -non fosse al cor lo stral che lo percusse; -ch'un almo gaudio, un così gran contento -non potrebbe comprare oro né argento. -Pur, per salvar l'onor, non solamente -d'escusa, ma di laude è degno ancora; -per salvar, dico, in caso ch'altrimente -facendo, biasmo ed ignominia fôra: -e se la donna fosse renitente -ed ostinata in fargli far dimora, -darebbe di sé indizio e chiaro segno -o d'amar poco o d'aver poco ingegno. -Che se l'amante de l'amato deve -la vita amar più de la propria, o tanto -(io parlo d'uno amante a cui non lieve -colpo d'Amor passò più là del manto); -al piacer tanto più, ch'esso riceve, -l'onor di quello antepor deve, quanto -l'onore è di più pregio che la vita, -ch'a tutti altri piaceri è preferita. -Fece Ruggiero il debito a seguire -il suo signor, che non se ne potea, -se non con ignominia, dipartire; -che ragion di lasciarlo non avea. -E s'Almonte gli fe' il padre morire, -tal colpa in Agramante non cadea; -ch'in molti effetti avea con Ruggier poi -emendato ogni error dei maggior suoi. -Farà Ruggiero il debito a tornare -al suo signore; ed ella ancor lo fece, -che sforzar non lo volse di restare, -come potea, con iterata prece. -Ruggier potrà alla donna satisfare -a un altro tempo, s'or non satisfece: -ma all'onor, chi gli manca d'un momento, -non può in cento anni satisfar né in cento. -Torna Ruggiero in Arli, ove ha ritratta -Agramante la gente che gli avanza. -Bradamante e Marfisa, che contratta -col parentado avean grande amistanza, -andaro insieme ove re Carlo fatta -la maggior prova avea di sua possanza, -sperando, o per battaglia o per assedio, -levar di Francia così lungo tedio. -Di Bradamante, poi che conosciuta -in campo fu, si fe' letizia e festa: -ognun la riverisce e la saluta; -ed ella a questo e a quel china la testa. -Rinaldo, come udì la sua venuta, -le venne incontra; né Ricciardo resta -né Ricciardetto od altri di sua gente, -e la raccoglion tutti allegramente. -Come s'intese poi che la compagna -era Marfisa, in arme sì famosa, -che dal Cataio ai termini di Spagna -di mille chiare palme iva pomposa; -non è povero o ricco che rimagna -nel padiglion: la turba disiosa -vien quinci e quindi, e s'urta, storpia e preme -sol per veder sì bella coppia insieme. -A Carlo riverenti appresentarsi. -Questo fu il primo dì (scrive Turpino) -che fu vista Marfisa inginocchiarsi; -che sol le parve il figlio di Pipino -degno, a cui tanto onor dovesse farsi, -tra quanti, o mai nel popul saracino -o nel cristiano, imperatori e regi -per virtù vide o per ricchezza egregi. -Carlo benignamente la raccolse, -e le uscì incontra fuor dei padiglioni; -e che sedesse a lato suo poi volse -sopra tutti re, principi e baroni. -Si diè licenza a chi non se la tolse; -sì che tosto restaro in pochi e buoni: -restaro i paladini e i gran signori; -la vilipesa plebe andò di fuori. -Marfisa cominciò con grata voce: -— Eccelso, invitto e glorioso Augusto, -che dal mar Indo alla Tirinzia foce, -dal bianco Scita all'Etiope adusto -riverir fai la tua candida croce, -né di te regna il più saggio o 'l più giusto; -tua fama, ch'alcun termine non serra, -qui tratto m'ha fin da l'estrema terra. -E, per narrarti il ver, sola mi mosse -invidia, e sol per farti guerra io venni, -acciò che sì possente un re non fosse, -che non tenesse la legge ch'io tenni. -Per questo ho fatto le campagne rosse -del cristian sangue; ed altri fieri cenni -era per farti da crudel nimica, -se non cadea chi mi t'ha fatto amica. -Quando nuocer pensai più alle tue squadre, -io trovo (e come sia dirò più adagio) -che 'l bon Ruggier di Risa fu mio padre, -tradito a torto dal fratel malvagio. -Portommi in corpo mia misera madre -di là dal mare, e nacqui in gran disagio. -Nutrimmi un mago infin al settimo anno, -a cui gli Arabi poi rubata m'hanno. -E mi vendero in Persia per ischiava -a un re che poi cresciuta io posi a morte; -che mia virginità tor mi cercava. -Uccisi lui con tutta la sua corte; -tutta cacciai la sua progenie prava, -e presi il regno; e tal fu la mia sorte, -che diciotto anni d'uno o di due mesi -io non passai, che sette regni presi. -E di tua fama invidiosa, come -io t'ho già detto, avea fermo nel core -la grande altezza abbatter del tuo nome: -forse il faceva, o forse era in errore. -Ma ora avvien che questa voglia dome, -e faccia cader l'ale al mio furore, -l'aver inteso, poi che qui son giunta, -come io ti son d'affinità congiunta. -E come il padre mio parente e servo -ti fu, ti son parente e serva anch'io: -e quella invidia e quell'odio protervo -il qual io t'ebbi un tempo, or tutto oblio; -anzi contra Agramante io lo riservo, -e contra ogn'altro che sia al padre o al zio -di lui stato parente, che fur rei -di porre a morte i genitori miei. — -E seguitò, voler cristiana farsi, -e dopo ch'avrà estinto il re Agramante, -voler piacendo a Carlo, ritornarsi -a battezzare il suo regno in Levante; -ed indi contra tutto il mondo armarsi, -ove Macon s'adori e Trivigante; -e con promission, ch'ogni suo acquisto -sia de l'Impero e de la fé di Cristo. -L'imperator, che non meno eloquente -era, che fosse valoroso e saggio, -molto esaltando la donna eccellente, -e molto il padre e molto il suo lignaggio, -rispose ad ogni parte umanamente, -e mostrò in fronte aperto il suo coraggio; -e conchiuse ne l'ultima parola, -per parente accettarla e per figliuola. -E qui si leva, e di nuovo l'abbraccia, -e, come figlia, bacia ne la fronte. -Vengono tutti con allegra faccia -quei di Mongrana e quei di Chiaramonte. -Lungo a dir fôra, quanto onor le faccia -Rinaldo, che di lei le prove conte -vedute avea più volte al paragone, -quando Albracca assediar col suo girone. -Lungo a dir fôra, quanto il giovinetto -Guidon s'allegri di veder costei, -Aquilante e Grifone e Sansonetto -ch'alla città crudel furon con lei; -Malagigi e Viviano e Ricciardetto, -ch'all'occision de' Maganzesi rei -e di quei venditori empi di Spagna -l'aveano avuta sì fedel compagna. -Apparecchiar per lo seguente giorno, -ed ebbe cura Carlo egli medesmo, -che fosse un luogo riccamente adorno, -ove prendesse Marfisa battesmo. -I vescovi e gran chierici d'intorno, -che le leggi sapean del cristianesmo, -fece raccorre, acciò da lor in tutta -la santa fé fosse Marfisa istrutta. -Venne in pontificale abito sacro -l'arcivesco Turpino, e battizzolla: -Carlo dal salutifero lavacro -con cerimonie debite levolla. -Ma tempo è ormai ch'al capo voto e macro -di senno si soccorra con l'ampolla, -con che dal ciel più basso ne venìa -il duca Astolfo sul carro d'Elia. -Sceso era Astolfo dal giro lucente -alla maggiore altezza de la terra, -con la felice ampolla che la mente -dovea sanare al gran mastro di guerra. -Un'erba quivi di virtù eccellente -mostra Giovanni al duca d'Inghilterra: -con essa vuol ch'al suo ritorno tocchi -al re di Nubia e gli risani gli occhi; -acciò per questi e per li primi merti -gente gli dia con che Biserta assaglia. -E come poi quei populi inesperti -armi ed acconci ad uso di battaglia, -e senza danno passi pei deserti -ove l'arena gli uomini abbarbaglia, -a punto a punto l'ordine che tegna, -tutto il vecchio santissimo gl'insegna. -Poi lo fe' rimontar su quello alato -che di Ruggiero, e fu prima d'Atlante. -Il paladin lasciò, licenziato -da San Giovanni, le contrade sante; -e secondando il Nilo a lato a lato, -tosto i Nubi apparir si vide inante; -e ne la terra che del regno è capo -scese da l'aria, e ritrovò il Senapo. -Molto fu il gaudio e molta fu la gioia -che portò a quel signor nel suo ritorno; -che ben si raccordava de la noia -che gli avea tolta, de l'arpie, d'intorno. -Ma poi che la grossezza gli discuoia -di quello umor che già gli tolse il giorno, -e che gli rende la vista di prima, -l'adora e cole, e come un Dio sublima: -sì che non pur la gente che gli chiede -per muover guerra al regno di Biserta, -ma centomila sopra gli ne diede, -e gli fe' ancor di sua persona offerta. -La gente a pena, ch'era tutta a piede, -potea capir ne la campagna aperta; -che di cavalli ha quel paese inopia, -ma d'elefanti e de camelli copia. -La notte inanzi il dì che a suo camino -l'esercito di Nubia dovea porse, -montò su l'ippogrifo il paladino, -e verso mezzodì con fretta corse, -tanto che giunse al monte che l'austrino -vento produce e spira contra l'Orse. -Trovò la cava, onde per stretta bocca, -quando si desta, il furioso scocca. -E come raccordògli il suo maestro, -avea seco arrecato un utre voto, -il qual, mentre ne l'antro oscuro e alpestro, -affaticato dorme il fiero Noto, -allo spiraglio pon tacito e destro: -ed è l'aguato in modo al vento ignoto, -che, credendosi uscir fuor la dimane, -preso e legato in quello utre rimane. -Di tanta preda il paladino allegro, -ritorna in Nubia, e la medesma luce -si pone a caminar col popul negro, -e vettovaglia dietro si conduce. -A salvamento con lo stuolo integro -verso l'Atlante il glorioso duce -pel mezzo vien de la minuta sabbia, -senza temer che 'l vento a nuocer gli abbia. -E giunto poi di qua dal giogo, in parte -onde il pian si discuopre e la marina, -Astolfo elegge la più nobil parte -del campo, e la meglio atta a disciplina; -e qua e là per ordine la parte -a piè d'un colle, ove nel pian confina. -Quivi la lascia, e su la cima ascende -in vista d'uom ch'a gran pensieri intende. -Poi che, inchinando le ginocchia, fece -al santo suo maestro orazione, -sicuro che sia udita la sua prece, -copia di sassi a far cader si pone. -Oh quanto a chi ben crede in Cristo, lece! -I sassi, fuor di natural ragione -crescendo, si vedean venire in giuso, -e formar ventre e gambe e collo e muso: -e con chiari anitrir giù per quei calli -venian saltando, e giunti poi nel piano -scuotean le groppe, e fatti eran cavalli, -chi baio e chi leardo e chi rovano. -La turba ch'aspettando ne le valli -stava alla posta, lor dava di mano: -sì che in poche ore fur tutti montati; -che con sella e con freno erano nati. -Ottantamila cento e dua in un giorno -fe', di pedoni, Astolfo cavallieri. -Con questi tutta scorse Africa intorno, -facendo prede, incendi e prigionieri. -Posto Agramante avea fin al ritorno -il re di Fersa e 'l re degli Algazeri, -col re Branzardo a guardia del paese: -e questi si fer contra al duca inglese; -prima avendo spacciato un suttil legno, -ch'a vele e a remi andò battendo l'ali, -ad Agramante aviso, come il regno -patia dal re de' Nubi oltraggi e mali. -Giorno e notte andò quel senza ritegno, -tanto che giunse ai liti provenzali; -e trovò in Arli il suo re mezzo oppresso, -che 'l campo avea di Carlo un miglio appresso. -Sentendo il re Agramante a che periglio, -per guadagnare il regno di Pipino, -lasciava il suo, chiamar fece a consiglio -principi e re del popul saracino. -E poi ch'una o due volte girò il ciglio -quinci a Marsilio e quindi al re Sobrino, -i quai d'ogni altro fur, che vi venisse, -i duo più antiqui e saggi, così disse: -— Quantunque io sappia come mal convegna -a un capitano dir: non mel pensai, -pur lo dirò; che quando un danno vegna -da ogni discorso uman lontano assai, -a quel fallir par che sia escusa degna: -e qui si versa il caso mio; ch'errai -a lasciar d'arme l'Africa sfornita, -se da li Nubi esser dovea assalita. -Ma chi pensato avria, fuor che Dio solo, -a cui non è cosa futura ignota, -che dovesse venir con sì gran stuolo -a farne danno gente sì remota? -tra i quali e noi giace l'instabil suolo -di quella arena ognor da' venti mota. -Pur è venuta ad assediar Biserta, -ed ha in gran parte l'Africa deserta. -Or sopra ciò vostro consiglio chieggio: -se partirmi di qui senza far frutto, -o pur seguir tanto l'impresa deggio, -che prigion Carlo meco abbi condutto; -o come insieme io salvi il nostro seggio, -e questo imperial lasci distrutto. -S'alcun di voi sa dir, priego nol taccia, -acciò si trovi il meglio, e quel si faccia. — -Così disse Agramante; e volse gli occhi -al re di Spagna, che gli sedea appresso, -come mostrando di voler che tocchi -di quel c'ha detto, la risposta ad esso. -E quel, poi che surgendo ebbe i ginocchi -per riverenza, e così il capo flesso, -nel suo onorato seggio si raccolse; -indi la lingua a tai parole sciolse: -— O bene o mal che la Fama ci apporti, -signor, di sempre accrescere ha in usanza. -Perciò non sarà mai ch'io mi sconforti, -o mai più del dover pigli baldanza -per casi o buoni o rei, che sieno sorti: -ma sempre avrò di par tema e speranza -ch'esser debban minori, e non del modo -ch'a noi per tante lingue venir odo. -E tanto men prestar gli debbo fede, -quanto più al verisimile s'oppone. -Or se gli è verisimile si vede, -ch'abbia con tanto numer di persone -posto ne la pugnace Africa il piede -un re di sì lontana regione, -traversando l'arene a cui Cambise -con male augurio il popul suo commise. -Crederò ben, che sian gli Arabi scesi -da le montagne, ed abbian dato il guasto, -e saccheggiato, e morti uomini e presi, -ove trovato avran poco contrasto; -e che Branzardo che di quei paesi -luogotenente e viceré è rimasto, -per le decine scriva le migliaia, -acciò la scusa sua più degna paia. -Vo' concedergli ancor che sieno i Nubi -per miracol dal ciel forse piovuti: -o forse ascosi venner ne le nubi; -poi che non fur mai per camin veduti. -Temi tu che tal gente Africa rubi, -se ben di più soccorso non l'aiuti? -Il tuo presidio avria ben trista pelle, -quando temesse un populo sì imbelle. -Ma se tu mandi ancor che poche navi, -pur che si veggan gli stendardi tuoi, -non scioglieran di qua sì tosto i cavi, -che fuggiranno nei confini suoi -questi, o sien Nubi o sieno Arabi ignavi, -ai quali il ritrovarti qui con noi, -separato pel mar da la tua terra, -ha dato ardir di romperti la guerra. -Or piglia il tempo che, per esser senza -il suo nipote Carlo, hai di vendetta: -poi ch'Orlando non c'è, far resistenza -non ti può alcun de la nimica setta. -Se per non veder lasci, o negligenza, -l'onorata vittoria che t'aspetta, -volterà il calvo, ove ora il crin ne mostra, -con molto danno e lunga infamia nostra. — -Con questo ed altri detti accortamente -l'Ispano persuader vuol nel concilio -che non esca di Francia questa gente, -fin che Carlo non sia spinto in esilio. -Ma il re Sobrin, che vide apertamente -il camino a che andava il re Marsilio, -che più per l'util proprio queste cose, -che pel commun dicea, così rispose: -— Quando io ti confortava a stare in pace, -fosse io stato, signor, falso indovino; -o tu, se io dovea pure esser verace, -creduto avessi al tuo fedel Sobrino, -e non più tosto a Rodomonte audace, -a Marbalusto, a Alzirdo e a Martasino, -li quali ora vorrei qui avere a fronte: -ma vorrei più degli altri Rodomonte, -per rinfacciargli che volea di Francia -far quel che si faria d'un fragil vetro, -e in cielo e ne lo 'nferno la tua lancia -seguire, anzi lasciarsela di dietro; -poi nel bisogno si gratta la pancia -ne l'ozio immerso abominoso e tetro: -ed io, che per predirti il vero allora -codardo detto fui, son teco ancora; -e sarò sempremai, fin ch'io finisca -questa vita ch'ancor che d'anni grave, -porsi incontra ogni dì per te s'arrisca -a qualunque di Francia più nome have. -Né sarà alcun, sia chi si vuol, ch'ardisca -di dir che l'opre mie mai fosser prave: -e non han più di me fatto, né tanto, -molti che si donar di me più vanto. -Dico così, per dimostrar che quello -ch'io dissi allora, e che ti voglio or dire, -né da viltade vien né da cor fello, -ma d'amor vero e da fedel servire. -Io ti conforto ch'al paterno ostello, -più tosto che tu pòi, vogli redire; -che poco saggio si può dir colui -che perde il suo per acquistar l'altrui. -S'acquisto c'è, tu 'l sai. Trentadui fummo -re tuoi vassalli a uscir teco del porto: -or, se di nuovo il conto ne rassummo, -c'è a pena il terzo, e tutto 'l resto è morto. -Che non ne cadan più, piaccia a Dio summo: -ma se tu vuoi seguir, temo di corto, -che non ne rimarrà quarto né quinto; -e 'l miser popul tuo fia tutto estinto. -Ch'Orlando non ci sia, ne aiuta; ch'ove -siàn pochi, forse alcun non ci saria. -Ma per questo il periglio non rimuove, -se ben prolunga nostra sorte ria. -Ecci Rinaldo, che per molte prove -mostra che non minor d'Orlando sia: -c'è il suo lignaggio e tutti i paladini, -timore eterno a' nostri Saracini. -Ed hanno appresso quel secondo Marte -(ben che i nimici al mio dispetto lodo), -io dico il valoroso Brandimarte, -non men d'Orlando ad ogni prova sodo; -del qual provata ho la virtude in parte, -parte ne veggo all'altrui spese ed odo. -Poi son più dì che non c'è Orlando stato; -e più perduto abbiàn che guadagnato. -Se per adietro abbiàn perduto, io temo -che da qui inanzi perderen più in grosso. -Del nostro campo Mandricardo è scemo: -Gradasso il suo soccorso n'ha rimosso: -Marfisa n'ha lasciata al punto estremo, -e così il re d'Algier, di cui dir posso -che, se fosse fedel come gagliardo, -poco uopo era Gradasso o Mandricardo. -Ove sono a noi tolti questi aiuti, -e tante mila son dei nostri morti; -e quei ch'a venir han, son già venuti, -né s'aspetta altro legno che n'apporti: -quattro son giunti a Carlo, non tenuti -manco d'Orlando o di Rinaldo forti; -e con ragion; che da qui sino a Battro -potresti mal trovar tali altri quattro. -Non so se sai chi sia Guidon Selvaggio -e Sansonetto e i figli d'Oliviero. -Di questi fo più stima e più tema aggio, -che d'ogni altro lor duca e cavalliero -che di Lamagna o d'altro stran linguaggio -sia contra noi per aiutar l'Impero: -ben ch'importa anco assai la gente nuova -ch'a' nostri danni in campo si ritrova. -Quante volte uscirai alla campagna, -tanto avrai la peggiore, o sarai rotto. -Se spesso perdé il campo Africa e Spagna, -quando siàn stati sedici per otto, -che sarà poi ch'Italia e che Lamagna -con Francia è unita, e 'l populo anglo e scotto, -e che sei contra dodici saranno? -Ch'altro si può sperar, che biasmo e danno? -La gente qui, là perdi a un tempo il regno, -s'in questa impresa più duri ostinato; -ove, s'al ritornar muti disegno, -l'avanzo di noi servi con lo stato. -Lasciar Marsilio è di te caso indegno, -ch'ognun te ne terrebbe molto ingrato: -ma c'è rimedio, far con Carlo pace; -ch'a lui deve piacer, se a te pur piace. -Pur se ti par che non ci sia il tuo onore, -se tu, che prima offeso sei, la chiedi; -e la battaglia più ti sta nel core, -che, come sia fin qui successa, vedi; -studia almen di restarne vincitore: -il che forse averrà, se tu mi credi; -se d'ogni tua querela a un cavalliero -darai l'assunto, e se quel fia Ruggiero. -Io 'l so, e tu 'l sai che Ruggier nostro è tale, -che già da solo a sol con l'arme in mano -non men d'Orlando o di Rinaldo vale, -né d'alcun altro cavallier cristiano. -Ma se tu vuoi far guerra universale, -ancor che 'l valor suo sia sopraumano, -egli però non sarà più ch'un solo, -ed avrà di par suoi contra uno stuolo. -A me par, s'a te par, ch'a dir si mandi -al re cristian, che per finir le liti, -e perché cessi il sangue che tu spandi -ognor de' suoi, egli de' tuo' infiniti; -che contra un tuo guerrier tu gli domandi -che metta in campo uno dei suoi più arditi; -e faccian questi duo tutta la guerra, -fin che l'un vinca, e l'altro resti in terra: -con patto, che qual d'essi perde, faccia -che 'l suo re all'altro re tributo dia. -Questa condizion non credo spiaccia -a Carlo, ancor che sul vantaggio sia. -Mi fido sì ne le robuste braccia -poi di Ruggier, che vincitor ne fia; -e ragion tanta è da la nostra parte, -che vincerà, s'avesse incontra Marte. — -Con questi ed altri più efficaci detti -fece Sobrin sì che 'l partito ottenne; -e gl'interpreti fur quel giorno eletti, -e quel dì a Carlo l'imbasciata venne. -Carlo ch'avea tanti guerrier perfetti, -vinta per sé quella battaglia tenne, -di cui l'impresa al buon Rinaldo diede, -in ch'avea, dopo Orlando, maggior fede. -Di questo accordo lieto parimente -l'uno esercito e l'altro si godea; -che 'l travaglio del corpo e de la mente -tutti avea stanchi e a tutti rincrescea. -Ognun di riposare il rimanente -de la sua vita disegnato avea; -ognun maledicea l'ire e i furori -ch'a risse e a gare avean lor desti i cori. -Rinaldo che esaltar molto si vede, -che Carlo in lui di quel che tanto pesa, -via più ch'in tutti gli altri, ha avuto fede, -lieto si mette all'onorata impresa. -Ruggier non stima; e veramente crede -che contra sé non potrà far difesa: -che suo pari esser possa non gli è aviso, -se ben in campo ha Mandricardo ucciso. -Ruggier da l'altra parte, ancor che molto -onor gli sia che 'l suo re l'abbia eletto, -e pel miglior di tutti i buoni tolto, -a cui commetta un sì importante effetto; -pur mostra affanno e gran mestizia in volto, -non per paura che gli turbi il petto; -che non ch'un sol Rinaldo, ma non teme -se fosse con Rinaldo Orlando insieme: -ma perché vede esser di lui sorella -la sua cara e fidissima consorte -ch'ognor scrivendo stimula e martella, -come colei ch'è ingiuriata forte. -Or s'alle vecchie offese aggiunge quella -d'entrare in campo a porle il frate a morte, -se la farà, d'amante, così odiosa, -ch'a placarla mai più fia dura cosa. -Se tacito Ruggier s'affligge ed ange -de la battaglia che mal grado prende, -la sua cara moglier lacrima e piange, -come la nuova indi a poche ore intende. -Batte il bel petto, e l'auree chiome frange, -e le guance innocenti irriga e offende; -e chiama con ramarichi e querele -Ruggiero ingrato, e il suo destin crudele. -D'ogni fin che sortisca la contesa, -a lei non può venir altro che doglia. -Ch'abbia a morir Ruggiero in questa impresa, -pensar non vuol; che par che 'l cor le toglia. -Quando anco, per punir più d'una offesa, -la ruina di Francia Cristo voglia, -oltre che sarà morto il suo fratello, -seguirà un danno a lei più acerbo e fello: -che non potrà, se non con biasmo e scorno, -e nimicizia di tutta sua gente, -fare al marito suo mai più ritorno, -sì che lo sappia ognun publicamente, -come s'avea, pensando notte e giorno, -più volte disegnato ne la mente: -e tra lor era la promessa tale, -che 'l ritrarsi e il pentir più poco vale. -Ma quella usata ne le cose avverse -di non mancarle di soccorsi fidi, -dico Melissa maga, non sofferse -udirne il pianto e i dolorosi gridi; -e venne a consolarla, e le proferse, -quando ne fosse il tempo, alti sussidi, -e disturbar quella pugna futura -di ch'ella piange e si pon tanta cura. -Rinaldo intanto e l'inclito Ruggiero -apparechiavan l'arme alla tenzone, -di cui dovea l'eletta al cavalliero -che del romano Imperio era campione: -e come quel, che poi che 'l buon destriero -perdé Baiardo, andò sempre pedone, -si elesse a piè, coperto a piastra e a maglia, -con l'azza e col pugnal far la battaglia. -O fosse caso, o fosse pur ricordo -di Malagigi suo provido e saggio, -che sapea quanto Balisarda ingordo -il taglio avea di fare all'arme oltraggio; -combatter senza spada fur d'accordo -l'uno e l'altro guerrier, come detto aggio. -Del luogo s'accordar presso alle mura -de l'antiquo Arli, in una gran pianura. -A pena avea la vigilante Aurora -da l'ostel di Titon fuor messo il capo, -per dare al giorno terminato, e all'ora -ch'era prefissa alla battaglia, capo; -quando di qua e di là vennero fuora -i deputati; e questi in ciascun capo -degli steccati i padiglion tiraro, -appresso ai quali ambi un altar fermaro. -Non molto dopo, istrutto a schiera a schiera, -si vide uscir l'esercito pagano. -In mezzo armato e suntuoso v'era -di barbarica pompa il re africano; -e s'un baio corsier di chioma nera, -di fronte bianca, e di duo piè balzano, -a par a par con lui venìa Ruggiero, -a cui servir non è Marsilio altiero. -L'elmo, che dianzi con travaglio tanto -trasse di testa al re di Tartaria, -l'elmo, che celebrato in maggior canto -portò il troiano Ettòr mill'anni pria, -gli porta il re Marsilio a canto a canto: -altri principi ed altra baronia -s'hanno partite l'altr'arme fra loro, -ricche di gioie e ben fregiate d'oro. -Da l'altra parte fuor dei gran ripari -re Carlo uscì con la sua gente d'arme, -con gli ordini medesmi e modi pari -che terria se venisse al fatto d'arme. -Cingonlo intorno i suoi famosi pari; -e Rinaldo è con lui con tutte l'arme, -fuor che l'elmo che fu del re Mambrino, -che porta Ugier Danese paladino. -E di due azze ha il duca Namo l'una, -e l'altra Salamon re di Bretagna. -Carlo da un lato i suoi tutti raguna; -da l'altro son quei d'Africa e di Spagna. -Nel mezzo non appar persona alcuna: -voto riman gran spazio di campagna, -che per bando commune a chi vi sale, -eccetto ai duo guerrieri, è capitale. -Poi che de l'arme la seconda eletta -si diè al campion del populo pagano, -duo sacerdoti, l'un de l'una setta, -l'altro de l'altra, uscir coi libri in mano. -In quel del nostro è la vita perfetta -scritta di Cristo; e l'altro è l'Alcorano. -Con quel de l'Evangelio si fe' inante -l'imperator, con l'altro il re Agramante. -Giunto Carlo all'altar che statuito -i suoi gli aveano, al ciel levò le palme, -e disse: — O Dio, c'hai di morir patito -per redimer da morte le nostr'alme; -o Donna, il cui valor fu sì gradito, -che Dio prese da te l'umane salme, -e nove mesi fu nel tuo santo alvo, -sempre serbando il fior virgineo salvo: -siatemi testimoni, ch'io prometto -per me e per ogni mia successione -al re Agramante, ed a chi dopo eletto -sarà al governo di sua regione, -dar venti some ogni anno d'oro schietto, -s'oggi qui riman vinto il mio campione; -e ch'io prometto subito la triegua -incominciar, che poi perpetua segua: -e se 'n ciò manco, subito s'accenda -la formidabil ira d'ambidui, -la qual me solo e i miei figliuoli offenda, -non alcun altro che sia qui con nui; -sì che in brevissima ora si comprenda -che sia il mancar de la promessa a vui. — -Così dicendo, Carlo sul Vangelo -tenea la mano, e gli occhi fissi al cielo. -Si levan quindi, e poi vanno all'altare -che riccamente avean pagani adorno; -ove giurò Agramante, ch'oltre al mare -con l'esercito suo faria ritorno, -ed a Carlo daria tributo pare, -se restasse Ruggier vinto quel giorno; -e perpetua tra lor triegua saria, -coi patti ch'avea Carlo detti pria. -E similmente con parlar non basso, -chiamando in testimonio il gran Maumette, -sul libro ch'in man tiene il suo papasso, -ciò che detto ha, tutto osservar promette. -Poi del campo si partono a gran passo, -e tra i suoi l'uno e l'altro si rimette: -poi quel par di campioni a giurar venne; -e 'l giuramento lor questo contenne: -Ruggier promette, se de la tenzone -il suo re viene o manda a disturbarlo, -che né suo guerrier più, né suo barone -esser mai vuol, ma darsi tutto a Carlo. -Giura Rinaldo ancor, che se cagione -sarà del suo signor quindi levarlo, -fin che non resti vinto egli o Ruggiero, -si farà d'Agramante cavalliero. -Poi che le cerimonie finite hanno, -si ritorna ciascun da la sua parte; -né v'indugiano molto, che lor danno -le chiare trombe segno al fiero marte. -Or gli animosi a ritrovar si vanno, -con senno i passi dispensando ed arte. -Ecco si vede incominciar l'assalto, -sonar il ferro, or girar basso, or alto. -Or inanzi col calce, or col martello -accennan quando al capo e quando al piede, -con tal destrezza e con modo sì snello, -ch'ogni credenza il raccontarlo eccede. -Ruggier che combattea contro il fratello -di chi la misera alma gli possiede, -a ferir lo venìa con tal riguardo, -che stimato ne fu manco gagliardo. -Era a parar, più ch'a ferire, intento, -e non sapea egli stesso il suo desire: -spegner Rinaldo saria malcontento, -né vorria volentieri egli morire. -Ma ecco giunto al termine mi sento, -ove convien l'istoria diferire. -Ne l'altro canto il resto intenderete, -s'udir ne l'altro canto mi vorrete. L'affanno di Ruggier ben veramente -è sopra ogn'altro duro, acerbo e forte, -di cui travaglia il corpo, e più la mente, -poi che di due fuggir non può una morte; -o da Rinaldo, se di lui possente -fia meno, o se fia più, da la consorte: -che se 'l fratel le uccide, sa ch'incorre -ne l'odio suo, che più che morte aborre. -Rinaldo, che non ha simil pensiero, -in tutti i modi alla vittoria aspira: -mena de l'azza dispettoso e fiero; -quando alle braccia e quando al capo mira. -Volteggiando con l'asta il buon Ruggiero -ribatte il colpo, e quinci e quindi gìra; -e se percuote pur, disegna loco -ove possa a Rinaldo nuocer poco. -Alla più parte dei signor pagani -troppo par disegual esser la zuffa: -troppo è Ruggier pigro a menar le mani, -troppo Rinaldo il giovine ribuffa. -Smarrito in faccia il re degli Africani -mira l'assalto, e ne sospira e sbuffa: -ed accusa Sobrin, da cui procede -tutto l'error, che 'l mal consiglio diede. -Melissa in questo tempo, ch'era fonte -di quanto sappia incantatore o mago, -avea cangiata la feminil fronte, -e del gran re d'Algier presa l'imago: -sembrava al viso, ai gesti Rodomonte, -e parea armata di pelle di drago; -e tal lo scudo e tal la spada al fianco -avea, quale usava egli, e nulla manco. -Spinse il demonio inanzi al mesto figlio -del re Troiano, in forma di cavallo; -e con gran voce e con turbato ciglio -disse: — Signor, questo è pur troppo fallo, -ch'un giovene inesperto a far periglio, -contra un sì forte e sì famoso Gallo -abbiate eletto in cosa di tal sorte, -che 'l regno e l'onor d'Africa n'importe. -Non si lassi seguir questa battaglia, -che ne sarebbe in troppo detrimento. -Su Rodomonte sia, né ve ne caglia, -l'avere il patto rotto e 'l giuramento. -Dimostri ognun come sua spada taglia: -poi ch'io ci sono, ognun di voi val cento. — -Poté questo parlar sì in Agramante, -che senza più pensar si cacciò inante. -Il creder d'aver seco il re d'Algieri -fece che si curò poco del patto; -e non avria di mille cavallieri -giunti in suo aiuto sì gran stima fatto. -Perciò lance abbassar, spronar destrieri -di qua di là veduto fu in un tratto. -Melissa, poi che con sue finte larve -la battaglia attaccò, subito sparve. -I duo campion che vedeno turbarsi -contra ogni accordo, contra ogni promessa, -senza più l'un con l'altro travagliarsi, -anzi ogni ingiuria avendosi rimessa, -fede si dàn né qua né là impacciarsi, -fin che la cosa non sia meglio espressa, -chi stato sia che i patti ha rotto inante, -o 'l vecchio Carlo, o 'l giovene Agramante. -E replican con nuovi giuramenti -d'esser nimici a chi mancò di fede. -Sozzopra se ne van tutte le genti: -chi porta inanzi e chi ritorna il piede. -Chi sia fra i vili, e chi tra i più valenti -in un atto medesimo si vede: -son tutti parimente al correr presti; -ma quei corrono inanzi, e indietro questi. -Come levrier che la fugace fera -correre intorno ed aggirarsi mira, -né può con gli altri cani andare in schiera, -che 'l cacciator lo tien, si strugge d'ira, -si tormenta, s'affligge e si dispera, -schiattisce indarno, e si dibatte e tira; -così sdegnosa infin allora stata -Marfisa era quel dì con la cognata. -Fin a quell'ora avean quel dì vedute -sì ricche prede in spazioso piano; -e che fosser dal patto ritenute -di non poter seguirle e porvi mano, -ramaricate s'erano e dolute, -e n'avean molto sospirato invano. -Or che i patti e le triegue vider rotte, -liete saltar ne l'africane frotte. -Marfisa cacciò l'asta per lo petto -al primo che scontrò, due braccia dietro: -poi trasse il brando, e in men che non l'ho detto, -spezzò quattro elmi, che sembrar di vetro. -Bradamante non fe' minore effetto; -ma l'asta d'or tenne diverso metro: -tutti quei che toccò, per terra mise; -duo tanti fur, né però alcuno uccise. -Questo sì presso l'una all'altra fero, -che testimonie se ne fur tra loro; -poi si scostaro, ed a ferir si diero, -ove le trasse l'ira, il popul Moro. -Chi potrà conto aver d'ogni guerriero -ch'a terra mandi quella lancia d'oro? -o d'ogni testa che tronca o divisa -sia da la orribil spada di Marfisa? -Come al soffiar de' più benigni venti, -quando Apennin scuopre l'erbose spalle, -muovonsi a par duo turbidi torrenti -che nel cader fan poi diverso calle; -svellono i sassi e gli arbori eminenti -da l'alte ripe, e portan ne la valle -le biade e i campi; e quasi a gara fanno -a chi far può nel suo camin più danno: -così le due magnanime guerriere, -scorrendo il campo per diversa strada, -gran strage fan ne l'africane schiere, -l'una con l'asta, e l'altra con la spada. -Tiene Agramante a pena alle bandiere -la gente sua, ch'in fuga non ne vada. -Invan domanda, invan volge la fronte; -né può saper che sia di Rodomonte. -A conforto di lui rotto avea il patto -(così credea) che fu solennemente, -i dei chiamando in testimonio, fatto; -poi s'era dileguato sì repente. -Né Sobrin vede ancor: Sobrin ritratto -in Arli s'era, e dettosi innocente; -perché di quel pergiuro aspra vendetta -sopra Agramante il dì medesmo aspetta. -Marsilio anco è fuggito ne la terra: -sì la religion gli preme il core. -Perciò male Agramante il passo serra -a quei che mena Carlo imperatore, -d'Italia, di Lamagna e d'Inghilterra, -che tutte gente son d'alto valore; -ed hanno i paladin sparsi tra loro, -come le gemme in un riccamo d'oro: -e presso ai paladini alcun perfetto -quanto esser possa al mondo cavalliero, -Guidon Selvaggio, l'intrepido petto, -e i duo famosi figli d'Oliviero. -Io non voglio ridir, ch'io l'ho già detto, -di quel par di donzelle ardito e fiero. -Questi uccidean di genti saracine -tanto, che non v'è numero né fine. -Ma differendo questa pugna alquanto, -io vo' passar senza navilio il mare. -Non ho con quei di Francia da far tanto, -ch'io non m'abbia d'Astolfo a ricordare. -La grazia che gli diè l'apostol santo -io v'ho già detto, e detto aver mi pare, -che 'l re Branzardo e il re de l'Algazera -per girli incontra armasse ogni sua schiera. -Furon di quei ch'aver poteano in fretta, -le schiere di tutta Africa raccolte, -non men d'inferma età che di perfetta; -quasi ch'ancor le femine fur tolte. -Agramante ostinato alla vendetta -avea già vota l'Africa due volte. -Poche genti rimase erano, e quelle -esercito facean timido e imbelle. -Ben lo mostrar; che gli nimici a pena -vider lontan, che se n'andaron rotti. -Astolfo, come pecore, li mena -dinanzi ai suoi di guerreggiar più dotti, -e fa restarne la campagna piena: -pochi a Biserta se ne son ridotti. -Prigion rimase Bucifar gagliardo; -salvossi ne la terra il re Branzardo, -via più dolente sol di Bucifaro, -che se tutto perduto avesse il resto. -Biserta è grande, e farle gran riparo -bisogna, e senza lui mal può far questo: -poterlo riscattar molto avria caro. -Mentre vi pensa e ne sta afflitto e mesto, -gli viene in mente come tien prigione -già molti mesi il paladin Dudone. -Lo prese sotto a Monaco in riviera -il re di Sarza nel primo passaggio. -Da indi in qua prigion sempre stato era -Dudon che del Danese fu lignaggio. -Mutar costui col re de l'Algazera -pensò Branzardo, e ne mandò messaggio -al capitan de' Nubi, perché intese -per vera spia, ch'egli era Astolfo inglese. -Essendo Astolfo paladin, comprende -che dee aver caro un paladino sciorre. -Il gentil duca, come il caso intende, -col re Branzardo in un voler concorre. -Liberato Dudon, grazie ne rende -al duca, e seco si mette a disporre -le cose che appertengono alla guerra, -così quelle da mar, come da terra. -Avendo Astolfo esercito infinito -da non gli far sette Afriche difesa; -e rammentando come fu ammonito -dal santo vecchio che gli diè l'impresa -di tor Provenza e d'Acquamorta il lito -di man di Saracin che l'avean presa; -d'una gran turba fece nuova eletta, -quella ch'al mar gli parve manco inetta. -Ed avendosi piene ambe le palme, -quanto potean capir, di varie fronde -a lauri, a cedri tolte, a olive, a palme, -venne sul mare, e le gittò ne l'onde. -Oh felici, e dal ciel ben dilette alme! -Grazia che Dio raro a' mortali infonde! -Oh stupendo miracolo che nacque -di quelle frondi, come fur ne l'acque! -Crebbero in quantità fuor d'ogni stima; -si feron curve e grosse e lunghe e gravi; -le vene ch'attraverso aveano prima, -mutaro in dure spranghe e in grosse travi: -e rimanendo acute inver la cima, -tutte in un tratto diventaro navi -di differenti qualitadi, e tante, -quante raccolte fur da varie piante. -Miracol fu veder le fronde sparte -produr fuste, galee, navi da gabbia. -Fu mirabile ancor, che vele e sarte -e remi avean, quanto alcun legno n'abbia. -Non mancò al duca poi chi avesse l'arte -di governarsi alla ventosa rabbia; -che di Sardi e di Corsi non remoti, -nocchier, padron, pennesi ebbe e piloti. -Quelli che entraro in mar, contati foro -ventiseimila, e gente d'ogni sorte. -Dudon andò per capitano loro, -cavallier saggio, e in terra e in acqua forte. -Stava l'armata ancora al lito moro, -miglior vento aspettando, che la porte, -quando un navilio giunse a quella riva, -che di presi guerrier carco veniva. -Portava quei ch'al periglioso ponte, -ove alla giostre il campo era sì stretto, -pigliato avea l'audace Rodomonte, -come più volte io v'ho di sopra detto. -Il cognato tra questi era del conte, -e 'l fedel Brandimarte e Sansonetto, -ed altri ancor, che dir non mi bisogna, -d'Alemagna, d'Italia e di Guascogna. -Quivi il nocchier, ch'ancor non s'era accorto -degli inimici, entrò con la galea, -lasciando molte miglia a dietro il porto -d'Algieri, ove calar prima volea, -per un vento gagliardo ch'era sorto, -e spinto oltre il dover la poppa avea. -Venir tra i suoi credette e in loco fido, -come vien Progne al suo loquace nido. -Ma come poi l'imperiale augello, -i gigli d'oro e i pardi vide appresso, -restò pallido in faccia, come quello -che 'l piede incauto d'improviso ha messo -sopra il serpente venenoso e fello, -dal pigro sonno in mezzo l'erbe oppresso; -che spaventato e smorto si ritira, -fuggendo quel, ch'è pien di tosco e d'ira. -Già non poté fuggir quindi il nocchiero, -né tener seppe i prigion suoi di piatto. -Con Brandimarte fu, con Oliviero, -con Sansonetto e con molti altri tratto -ove dal duca e dal figliuol d'Uggiero -fu lieto viso agli suo' amici fatto; -e per mercede lui che li condusse, -volson che condannato al remo fusse. -Come io vi dico, dal figliuol d'Otone -i cavallier cristian furon ben visti, -e di mensa onorati al padiglione, -d'arme e di ciò che bisognò provisti. -Per amor d'essi differì Dudone -l'andata sua; che non minori acquisti -di ragionar con tai baroni estima, -che d'esser gito uno o duo giorni prima. -In che stato, in che termine si trove -e Francia e Carlo, istruzion vera ebbe; -e dove più sicuramente, e dove, -per far miglior effetto, calar debbe. -Mentre da lor venìa intendendo nuove, -s'udì un rumor che tuttavia più crebbe; -e un dar all'arme ne seguì sì fiero, -che fece a tutti far più d'un pensiero. -Il duca Astolfo e la compagnia bella, -che ragionando insieme si trovaro, -in un momento armati furo e in sella, -e verso il maggior grido in fretta andaro, -di qua di là cercando pur novella -di quel romore; e in loco capitaro, -ove videro un uom tanto feroce, -che nudo e solo a tutto 'l campo nuoce. -Menava un suo baston di legno in volta, -che era sì duro e sì grave e sì fermo, -che declinando quel, facea ogni volta -cader in terra un uom peggio ch'infermo. -Già a più di cento avea la vita tolta; -né più se gli facea riparo o schermo, -se non tirando di lontan saette: -d'appresso non è alcun già che l'aspette. -Dudone, Astolfo, Brandimarte, essendo -corsi in fretta al romore, ed Oliviero, -de la gran forza e del valor stupendo -stavan maravigliosi di quel fiero; -quando venir s'un palafren correndo -videro una donzella in vestir nero, -che corse a Brandimarte e salutollo, -e gli alzò a un tempo ambe le braccia al collo. -Questa era Fiordiligi, che sì acceso -avea d'amor per Brandimarte il core, -che quando al ponte stretto il lasciò preso, -vicina ad impazzar fu di dolore. -Di là dal mare era passata, inteso -avendo dal pagan che ne fu autore, -che mandato con molti cavallieri -era prigion ne la città d'Algieri. -Quando fu per passare, avea trovato -a Marsilia una nave di Levante, -ch'un vecchio cavalliero avea portato -de la famiglia del re Monodante; -il qual molte province avea cercato, -quando per mar, quando per terra errante, -per trovar Brandimarte; che nuova ebbe -tra via di lui, ch'in Francia il troverebbe. -Ed ella, conosciuto che Bardino -era costui, Bardino che rapito -al padre Brandimarte piccolino, -ed a Rocca Silvana avea notrito, -e la cagione intesa del camino, -seco fatto l'avea scioglier dal lito, -avendogli narrato in che maniera -Brandimarte passato in Africa era. -Tosto che furo a terra, udir le nuove, -ch'assediata d'Astolfo era Biserta: -che seco Brandimarte si ritrove -udito avean, ma non per cosa certa. -Or Fiordiligi in tal fretta si muove, -come lo vede, che ben mostra aperta -quella allegrezza ch'i precessi guai -le fero la maggior ch'avesse mai. -Il gentil cavallier, non men giocondo -di veder la diletta e fida moglie -ch'amava più che cosa altra del mondo, -l'abraccia e stringe e dolcemente accoglie: -né per saziare al primo né al secondo -né al terzo bacio era l'accese voglie; -se non ch'alzando gli occhi ebbe veduto -Bardin che con la donna era venuto. -Stese le mani, ed abbracciar lo volle, -e insieme domandar perché venìa; -ma di poterlo far tempo gli tolle -il campo ch'in disordine fuggia -dinanzi a quel baston che 'l nudo folle -menava intorno, e gli facea dar via. -Fiordiligi mirò quel nudo in fronte, -e gridò a Brandimarte: — Eccovi il conte! — -Astolfo tutto a un tempo, ch'era quivi, -che questo Orlando fosse, ebbe palese -per alcun segno che dai vecchi divi -su nel terrestre paradiso intese. -Altrimente restavan tutti privi -di cognizion di quel signor cortese; -che per lungo sprezzarsi, come stolto, -avea di fera, più che d'uomo, il volto. -Astolfo per pietà che gli traffisse -il petto e il cor, si volse lacrimando; -ed a Dudon (che gli era appresso) disse, -ed indi ad Oliviero: — Eccovi Orlando! — -Quei gli occhi alquanto e le palpèbre fisse -tenendo in lui, l'andar raffigurando; -e 'l ritrovarlo in tal calamitade, -gli empì di meraviglie e di pietade. -Piangeano quei signor per la più parte: -sì lor ne dolse, e lor ne 'ncrebbe tanto. -— Tempo è (lor disse Astolfo) trovar arte -di risanarlo, e non di fargli il pianto. — -E saltò a piedi, e così Brandimarte, -Sansonetto, Oliviero e Dudon santo; -e s'aventaro al nipote di Carlo -tutti in un tempo; che volean pigliarlo. -Orlando che si vide fare il cerchio, -menò il baston da disperato e folle; -ed a Dudon che si facea coperchio -al capo de lo scudo ed entrar volle, -fe' sentir ch'era grave di soperchio: -e se non che Olivier col brando tolle -parte del colpo, avria il bastone ingiusto -rotto lo scudo, l'elmo, il capo e il busto. -Lo scudo roppe solo, e su l'elmetto -tempestò sì, che Dudon cadde in terra. -Menò la spada a un tempo Sansonetto; -e del baston più di duo braccia afferra -con valor tal, che tutto il taglia netto. -Brandimarte ch'addosso se gli serra, -gli cinge i fianchi, quanto può, con ambe -le braccia, e Astolfo il piglia ne le gambe. -Scuotesi Orlando, e lungi dieci passi -da sé l'Inglese fe' cader riverso: -non fa però che Brandimarte il lassi, -che con più forza l'ha preso a traverso. -Ad Olivier che troppo inanzi fassi, -menò un pugno sì duro e sì perverso, -che lo fe' cader pallido ed esangue, -e dal naso e dagli occhi uscirgli il sangue. -E se non era l'elmo più che buono, -ch'avea Olivier, l'avria quel pugno ucciso: -cadde però, come se fatto dono -avesse de lo spirto al paradiso. -Dudone e Astolfo che levati sono, -ben che Dudone abbia gonfiato il viso, -e Sansonetto che 'l bel colpo ha fatto, -adosso a Orlando son tutti in un tratto. -Dudon con gran vigor dietro l'abbraccia, -pur tentando col piè farlo cadere: -Astolfo e gli altri gli han prese le braccia, -né lo puon tutti insieme anco tenere. -C'ha visto toro a cui si dia la caccia, -e ch'alle orecchie abbia le zanne fiere, -correr mugliando, e trarre ovunque corre -i cani seco, e non potersi sciorre; -imagini ch'Orlando fosse tale, -che tutti quei guerrier seco traea. -In quel tempo Olivier di terra sale, -là dove steso il gran pugno l'avea; -e visto che così si potea male -far di lui quel ch'Astolfo far volea, -si pensò un modo, ed ad effetto il messe, -di far cader Orlando, e gli successe. -Si fe' quivi arrecar più d'una fune, -e con nodi correnti adattò presto; -ed alle gambe ed alle braccia alcune -fe' porre al conte, ed a traverso il resto. -Di quelle i capi poi partì in commune, -e li diede a tenere a quello e a questo. -Per quella via che maniscalco atterra -cavallo o bue, fu tratto Orlando in terra. -Come egli è in terra, gli son tutti adosso, -e gli legan più forte e piedi e mani. -Assai di qua di là s'è Orlando scosso, -ma sono i suoi risforzi tutti vani. -Commanda Astolfo che sia quindi mosso, -che dice voler far che si risani. -Dudon ch'è grande, il leva in su le schene, -e porta al mar sopra l'estreme arene. -Lo fa lavar Astolfo sette volte; -e sette volte sotto acqua l'attuffa; -sì che dal viso e da le membra stolte -leva la brutta rugine e la muffa: -poi con certe erbe, a questo effetto colte, -la bocca chiuder fa, che soffia e buffa; -che non volea ch'avesse altro meato -onde spirar, che per lo naso, il fiato. -Aveasi Astolfo apparecchiato il vaso -in che il senno d'Orlando era rinchiuso; -e quello in modo appropinquogli al naso, -che nel tirar che fece il fiato in suso, -tutto il votò: maraviglioso caso! -che ritornò la mente al primier uso; -e ne' suoi bei discorsi l'intelletto -rivenne, più che mai lucido e netto. -Come chi da noioso e grave sonno, -ove o vedere abominevol forme -di mostri che non son, né ch'esser ponno, -o gli par cosa far strana ed enorme, -ancor si maraviglia, poi che donno -è fatto de' suoi sensi, e che non dorme; -così, poi che fu Orlando d'error tratto, -restò maraviglioso e stupefatto. -E Brandimarte, e il fratel d'Aldabella, -e quel che 'l senno in capo gli ridusse, -pur pensando riguarda, e non favella, -come egli quivi e quando si condusse. -Girava gli occhi in questa parte e in quella, -né sapea imaginar dove si fusse. -Si maraviglia che nudo si vede, -e tante funi ha da le spalle al piede. -Poi disse, come già disse Sileno -a quei che lo legar nel cavo speco: -_Solvite me_, con viso sì sereno, -con guardo sì men de l'usato bieco, -che fu slegato; e de' panni ch'avieno -fatti arrecar participaron seco, -consolandolo tutti del dolore, -che lo premea, di quel passato errore. -Poi che fu all'esser primo ritornato -Orlando più che mai saggio e virile, -d'amor si trovò insieme liberato; -sì che colei, che sì bella e gentile -gli parve dianzi, e ch'avea tanto amato, -non stima più se non per cosa vile. -Ogni suo studio, ogni disio rivolse -a racquistar quanto già amor gli tolse. -Narrò Bardino intanto a Brandimarte, -che morto era il suo padre Monodante; -e che a chiamarlo al regno egli da parte -veniva prima del fratel Gigliante, -poi de le genti ch'abitan le sparte -isole in mare, e l'ultime in Levante; -di che non era un altro regno al mondo -sì ricco, populoso, o sì giocondo. -Disse, tra più ragion che dovea farlo, -che dolce cosa era la patria; e quando -si disponesse di voler gustarlo, -avria poi sempre in odio andare errando. -Brandimarte rispose voler Carlo -servir per tutta questa guerra e Orlando; -e se potea vederne il fin, che poi -penseria meglio sopra i casi suoi. -Il d�� seguente la sua armata spinse -verso Provenza il figlio del Danese. -Indi Orlando col duca si ristrinse, -ed in che stato era la guerra, intese: -tutta Biserta poi d'assedio cinse, -dando però l'onore al duca inglese -d'ogni vittoria; ma quel duca il tutto -facea, come dal conte venìa istrutto. -Ch'ordine abbian tra lor, come s'assaglia -la gran Biserta, e da che lato e quando, -come fu presa alla prima battaglia, -chi ne l'onor parte ebbe con Orlando, -s'io non vi séguito ora, non vi caglia; -ch'io non me ne vo molto dilungando. -In questo mezzo di saper vi piaccia, -come dai Franchi i Mori hanno la caccia. -Fu quasi il re Agramante abbandonato -nel pericol maggior di quella guerra; -che con molti pagani era tornato -Marsilio e 'l re Sobrin dentro alla terra, -poi su l'armata è questo e quel montato, -che dubbio avean di non salvarsi in terra; -e duci e cavallier del popul Moro -molti seguito avean l'esempio loro. -Pure Agramante la pugna sostiene; -e quando finalmente più non puote, -volta le spalle, e la via dritta tiene -alle porte non troppo indi remote. -Rabican dietro in gran fretta gli viene, -che Bradamante stimola e percuote: -d'ucciderlo era disiosa molto; -che tante volte il suo Ruggier le ha tolto. -Il medesmo desir Marfisa avea, -per far del padre suo tarda vendetta; -e con gli sproni, quanto più potea, -facea il destrier sentir ch'ella avea fretta. -Ma né l'una né l'altra vi giungea -sì a tempo, che la via fosse intercetta -al re d'entrar ne la città serrata, -ed indi poi salvarsi in su l'armata. -Come due belle e generose parde -che fuor del lascio sien di pari uscite, -poscia ch'i cervi o le capre gagliarde -indarno aver si veggano seguite, -vergognandosi quasi, che fur tarde, -sdegnose se ne tornano e pentite; -così tornar le due donzelle, quando -videro il pagan salvo, sospirando. -Non però si fermar; ma ne la frotta -degli altri che fuggivano, cacciarsi, -di qua di là facendo ad ogni botta -molti cader senza mai più levarsi. -A mal partito era la gente rotta, -che per fuggir non potea ancor salvarsi; -ch'Agramante avea fatto per suo scampo -chiuder la porta ch'uscia verso il campo, -e fatto sopra il Rodano tagliare -i ponti tutti. Ah sfortunata plebe, -che dove del tiranno utile appare, -sempre è in conto di pecore e di zebe! -Chi s'affoga nel fiume e chi nel mare, -chi sanguinose fa di sé le glebe. -Molti perir, pochi restar prigioni; -che pochi a farsi taglia erano buoni. -De la gran moltitudine ch'uccisa -fu da ogni parte in questa ultima guerra -(ben che la cosa non fu ugual divisa; -ch'assai più andar dei Saracin sotterra -per man di Bradamante e di Marfisa), -se ne vede ancor segno in quella terra; -che presso ad Arli, ove il Rodano stagna, -piena di sepolture è la campagna. -Fatto avea intanto il re Agramante sciorre -e ritirar in alto i legni gravi, -lasciando alcuni, e i più leggieri, a torre -quei che volean salvarsi in su le navi. -Vi ste' duo dì per chi fuggia raccorre, -e perché venti eran contrari e pravi. -Fece lor dar le vele il terzo giorno; -ch'in Africa credea di far ritorno. -Il re Marsilio che sta in gran paura -ch'alla sua Spagna il fio pagar non tocche, -e la tempesta orribilmente oscura -sopra suoi campi all'ultimo non scocche; -si fe' porre a Valenza, e con gran cura -cominciò a riparar castella e rocche, -e preparar la guerra che fu poi -la sua ruina e degli amici suoi. -Verso Africa Agramante alzò le vele -de' legni male armati, e voti quasi; -d'uomini voti, e pieni di querele, -perch'in Francia i tre quarti eran rimasi. -Chi chiama il re superbo, chi crudele, -chi stolto; e come avviene in simil casi, -tutti gli voglion mal ne' lor secreti; -ma timor n'hanno, e stan per forza cheti. -Pur duo talora o tre schiudon le labbia, -ch'amici sono, e che tra lor s'han fede, -e sfogano la colera e la rabbia; -e 'l misero Agramante ancor si crede -ch'ognun gli porti amore, e pietà gli abbia: -e questo gl'intervien, perché non vede -mai visi se non finti, e mai non ode -se non adulazion, menzogne e frode. -Erasi consigliato il re africano -di non smontar nel porto di Biserta, -però ch'avea del popul nubiano, -che quel lito tenea, novella certa; -ma tenersi di sopra sì lontano, -che non fosse acre la discesa ed erta; -mettersi in terra, e ritornare al dritto -a dar soccorso al suo populo afflitto. -Ma il suo fiero destin che non risponde -a quella intenzion provida e saggia, -vuol che l'armata che nacque di fronde -miracolosamente ne la spiaggia, -e vien solcando inverso Francia l'onde, -con questa ad incontrar di notte s'aggia, -a nubiloso tempo, oscuro e tristo, -perché sia in più disordine sprovisto. -Non ha avuto Agramante ancora spia, -ch'Astolfo mandi una armata sì grossa; -né creduto anco a chi 'l dicesse, avria, -che cento navi un ramuscel far possa: -e vien senza temer ch'intorno sia -che contra lui s'ardisca di far mossa; -né pone guardie né veletta in gabbia, -che di ciò che si scuopre avisar abbia. -Sì che i navili che d'Astolfo avuti -avea Dudon, di buona gente armati, -e che la sera avean questi veduti, -ed alla volta lor s'eran drizzati, -assalir gli nimici sproveduti, -gittaro i ferri, e sonsi incatenati, -poi ch'al parlar certificati foro, -ch'erano Mori e gli nimici loro. -Ne l'arrivar i gran navili fenno -(spirando il vento a' lor desir secondo), -nei Saracin con tale impeto denno, -che molti legni ne cacciaro al fondo. -Poi cominciaro oprar le mani e il senno, -e ferro e fuoco e sassi di gran pondo -tirar con tanta e sì fiera tempesta, -che mai non ebbe il mar simile a questa. -Quei di Dudone, a cui possanza e ardire -più del solito è lor dato di sopra -(che venuto era il tempo di punire -i Saracin di più d'una mal'opra), -sanno appresso e lontan sì ben ferire, -che non trova Agramante ove si cuopra. -Gli cade sopra un nembo di saette; -da lato ha spade e graffi e picche e accette. -D'alto cader sente gran sassi e gravi -da machine cacciati e da tormenti; -e prore e poppe fraccassar de navi, -ed aprire usci al mar larghi e patenti; -e 'l maggior danno è de l'incendi pravi, -a nascer presti, ad ammorzarsi lenti. -La sfortunata ciurma si vuol torre -del gran periglio, e via più ognor vi corre. -Altri che 'l ferro e l'inimico caccia, -nel mar si getta, e vi s'affoga e resta: -altri che muove a tempo piedi e braccia, -va per salvarsi o in quella barca o in questa; -ma quella, grave oltre il dover, lo scaccia, -e la man, per salir troppo molesta, -fa restare attaccata ne la sponda: -ritorna il resto a far sanguigna l'onda. -Altri che spera in mar salvar la vita, -o perderlavi almen con minor pena, -poi che notando non ritrova aita, -e mancar sente l'animo e la lena, -alla vorace fiamma c'ha fuggita, -la tema di annegarsi anco rimena: -s'abbraccia a un legno ch'arde, e per timore -c'ha di due morte, in ambe se ne muore. -Altri per tema di spiedo o d'accetta -che vede appresso, al mar ricorre invano, -perché dietro gli vien pietra o saetta -che non lo lascia andar troppo lontano. -Ma saria forse, mentre che diletta -il mio cantar, consiglio utile e sano -di finirlo, più tosto che seguire -tanto, che v'annoiasse il troppo dire. Lungo sarebbe, se i diversi casi -volessi dir di quel naval conflitto; -e raccontarlo a voi mi parria quasi, -magnanimo figliuol d'Ercole invitto, -portar, come si dice, a Samo vasi, -nottole Atene, e crocodili a Egitto; -che quanto per udita io ve ne parlo, -Signor, miraste, e feste altrui mirarlo. -Ebbe lungo spettacolo il fedele -vostro popul la notte e 'l dì che stette, -come in teatro, l'inimiche vele -mirando in Po tra ferro e fuoco astrette. -Che gridi udir si possano e querele, -ch'onde veder di sangue umano infette, -per quanti modi in tal pugna si muora, -vedeste, e a molti il dimostraste allora. -Nol vide io già, ch'era sei giorni inanti, -mutando ogn'ora altre vetture, corso -con molta fretta e molta ai piedi santi -del gran Pastore a domandar soccorso: -poi né cavalli bisognar né fanti; -ch'intanto al Leon d'or l'artiglio e 'l morso -fu da voi rotto sì, che più molesto -non l'ho sentito da quel giorno a questo. -Ma Alfonsin Trotto il qual si trovò in fatto, -Annibal e Pier Moro e Afranio e Alberto, -e tre Ariosti, e il Bagno e il Zerbinatto -tanto me ne contar, ch'io ne fui certo: -me ne chiarir poi le bandiere affatto, -vistone al tempio il gran numero offerto, -e quindice galee ch'a queste rive -con mille legni star vidi captive. -Chi vide quelli incendi e quei naufragi, -le tante uccisioni e sì diverse, -che, vendicando i nostri arsi palagi, -fin che fu preso ogni navilio, ferse; -potrà, veder le morti anco e i disagi -che 'l miser popul d'Africa sofferse -col re Agramante in mezzo l'onde salse, -la scura notte che Dudon l'assalse. -Era la notte, e non si vedea lume, -quando s'incominciar l'aspre contese: -ma poi che 'l zolfo e la pece e 'l bitume -sparso in gran copia, ha prore e sponde accese, -e la vorace fiamma arde e consume -le navi e le galee poco difese; -sì chiaramente ognun si vedea intorno, -che la notte parea mutata in giorno. -Onde Agramante che per l'aer scuro, -non avea l'inimico in sì gran stima, -né aver contrasto si credea sì duro, -che, resistendo, al fin non lo reprima; -poi che rimosse le tenèbre furo, -e vide quel che non credeva in prima, -che le navi nimiche eran duo tante, -fece pensier diverso a quel d'avante. -Smonta con pochi, ove in più lieve barca -ha Brigliadoro e l'altre cose care. -Tra legno e legno taciturno varca, -fin che si trova in più sicuro mare -da' suoi lontan, che Dudon preme e carca, -e mena a condizioni acri ed amare. -Gli arde il foco, il mar sorbe, il ferro strugge: -egli che n'è cagion, via se ne fugge. -Fugge Agramante ed ha con lui Sobrino, -con cui si duol di non gli aver creduto, -quando previde con occhio divino, -e 'l mal gli annunziò, ch'or gli è avvenuto. -Ma torniamo ad Orlando paladino, -che, prima che Biserta abbia altro aiuto, -consiglia Astolfo che la getti in terra, -sì che a Francia mai più non faccia guerra. -E così fu publicamente detto -che 'l campo in arme al terzo dì sia istrutto. -Molti navili Astolfo a questo effetto -tenuti avea, né Dudon n'ebbe il tutto; -di quai diede il governo a Sansonetto, -sì buon guerrier al mar come all'asciutto: -e quel si pose, in su l'ancore sorto, -contra a Biserta, un miglio appresso al porto. -Come veri cristiani Astolfo e Orlando, -che senza Dio non vanno a rischio alcuno, -ne l'esercito fan publico bando, -che sieno orazion fatte e digiuno; -e che si trovi il terzo giorno, quando -si darà il segno, apparecchiato ognuno -per espugnar Biserta, che data hanno, -vinta che s'abbia, a fuoco e a saccomanno. -E così, poi che le astinenze e i voti -devotamente celebrati foro, -parenti, amici, e gli altri insieme noti -si cominciaro a convitar tra loro. -Dato restauro a' corpi esausti e voti, -abbracciandosi insieme lacrimoro, -tra loro usando i modi e le parole -che tra i più cari al dipartir si suole. -Dentro a Biserta i sacerdoti santi -supplicando col populo dolente, -battonsi il petto, e con dirotti pianti -chiamano il lor Macon che nulla sente. -Quante vigilie, quante offerte, quanti -doni promessi son privatamente! -quanto in publico templi, statue, altari, -memoria eterna de' lor casi amari! -E poi che dal Cadì fu benedetto, -prese il populo l'arme, e tornò al muro. -Ancor giacea col suo Titon nel letto -la bella Aurora, ed era il cielo oscuro, -quando Astolfo da un canto, e Sansonetto -da un altro, armati agli ordini lor furo: -e poi che 'l segno che diè il conte udiro, -Biserta con grande impeto assaliro. -Avea Biserta da duo canti il mare, -sedea dagli altri duo nel lito asciutto. -Con fabrica eccellente e singulare -fu antiquamente il suo muro costrutto. -Poco altro ha che l'aiuti o la ripare; -che poi che 'l re Branzardo fu ridutto -dentro da quella, pochi mastri, e poco -poté aver tempo a riparare il loco. -Astolfo dà l'assunto al re de' Neri, -che faccia a' merli tanto nocumento -con falariche, fonde e con arcieri, -che levi d'affacciarsi ogni ardimento; -sì che passin pedoni e cavallieri -fin sotto la muraglia a salvamento, -che vengon, chi di pietre e chi di travi, -chi d'asce e chi d'altra materia gravi. -Chi questa cosa e chi quell'altra getta -dentro alla fossa, e vien di mano in mano; -di cui l'acqua il dì inanzi fu intercetta, -sì che in più parti si scopria il pantano. -Ella fu piena ed atturata in fretta, -e fatto uguale insin al muro il piano. -Astolfo, Orlando ed Olivier procura -di far salir i fanti in su le mura. -I Nubi d'ogni indugio impazienti, -da la speranza del guadagno tratti, -non mirando a' pericoli imminenti, -coperti da testuggini e da gatti, -con arieti e loro altri istrumenti -a forar torri, e porte rompere atti, -tosto si fero alla città vicini; -né trovaro sprovisti i Saracini: -che ferro e fuoco e merli e tetti gravi -cader facendo a guisa di tempeste, -per forza aprian le tavole e le travi -de le machine in lor danno conteste. -Ne l'aria oscura e nei principi pravi -molto patir le battezzate teste; -ma poi che 'l sole uscì del ricco albergo, -voltò Fortuna ai Saracini il tergo. -Da tutti i canti risforzar l'assalto -fe' il conte Orlando e da mare e da terra. -Sansonetto ch'avea l'armata in alto, -entrò nel porto e s'accostò alla terra; -e con frombe e con archi facea d'alto, -e con vari tormenti estrema guerra; -e facea insieme espedir lance e scale, -ogni apparecchio e munizion navale. -Facea Oliviero, Orlando e Brandimarte, -e quel che fu sì dianzi in aria ardito, -aspra e fiera battaglia da la parte -che lungi al mare era più dentro al lito. -Ciascun d'essi venìa con una parte -de l'oste che s'avean quadripartito. -Quale a mur, quale a porte, e quale altrove, -tutti davan di sé lucide prove. -Il valor di ciascun meglio si puote -veder così, che se fosser confusi: -chi sia degno di premio e chi di note, -appare inanzi a mill'occhi non chiusi. -Torri di legno trannosi con ruote, -e gli elefanti altre ne portano usi, -che su lor dossi così in alto vanno, -che i merli sotto a molto spazio stanno. -Vien Brandimarte, e pon la scala a' muri, -e sale, e di salir altri conforta: -lo seguon molti intrepidi e sicuri; -che non può dubitar chi l'ha in sua scorta. -Non è chi miri, o chi mirar si curi, -se quella scala il gran peso comporta. -Sol Brandimarte agli nimici attende; -pugnando sale, e al fine un merlo prende. -E con mano e con piè quivi s'attacca, -salta sui merli, e mena il brando in volta, -urta, riversa e fende e fora e ammacca, -e di sé mostra esperienza molta. -Ma tutto a un tempo la scala si fiacca, -che troppa soma e di soperchio ha tolta: -e for che Brandimarte, giù nel fosso -vanno sozzopra, e l'uno all'altro adosso. -Per ciò non perde il cavallier l'ardire, -né pensa riportare a dietro il piede; -ben che de' suoi non vede alcun seguire, -ben che berzaglio alla città si vede. -Pregavan molti (e non volse egli udire) -che ritornasse; ma dentro si diede: -dico che giù ne la città d'un salto -dal muro entrò, che trenta braccia era alto. -Come trovato avesse o piume o paglia, -presse il duro terren senza alcun danno; -e quei c'ha intorno affrappa e fora e taglia, -come s'affrappa e taglia e fora il panno. -Or contra questi or contra quei si scaglia; -e quelli e questi in fuga se ne vanno. -Pensano quei di fuor, che l'han veduto -dentro saltar, che tardo fia ogni aiuto. -Per tutto 'l campo alto rumor si spande -di voce in voce, e 'l mormorio e 'l bisbiglio. -La vaga Fama intorno si fa grande, -e narra, ed accrescendo va il periglio. -Ove era Orlando (perché da più bande -si dava assalto), ove d'Otone il figlio, -ove Olivier, quella volando venne, -senza posar mai le veloci penne. -Questi guerrier, e più di tutti Orlando, -ch'amano Brandimarte e l'hanno in pregio, -udendo che se van troppo indugiando, -perderanno un compagno così egregio, -piglian le scale, e qua e là montando, -mostrano a gara animo altiero e regio, -con sì audace sembiante e sì gagliardo, -che i nimici tremar fan con lo sguardo. -Come nel mar che per tempesta freme, -assaglion l'acque il temerario legno, -ch'or da la prora, or da le parti estreme -cercano entrar con rabbia e con isdegno; -il pallido nocchier sospira e geme, -ch'aiutar deve, e non ha cor né ingegno; -una onda viene al fin, ch'occupa il tutto, -e dove quella entrò, segue ogni flutto: -così dipoi ch'ebbono presi i muri -questi tre primi, fu sì largo il passo, -che gli altri ormai seguir ponno sicuri, -che mille scale hanno fermate al basso. -Aveano intanto gli arieti duri -rotto in più lochi, e con sì gran fraccasso, -che si poteva in più che in una parte -soccorrer l'animoso Brandimarte. -Con quel furor che 'l re de' fiumi altiero, -quando rompe talvolta argini e sponde, -e che nei campi Ocnei s'apre il sentiero, -e i grassi solchi e le biade feconde, -e con le sue capanne il gregge intero, -e coi cani i pastor porta ne l'onde; -guizzano i pesci agli olmi in su la cima, -ove solean volar gli augelli in prima: -con quel furor l'impetuosa gente, -là dove avea in più parti il muro rotto, -entrò col ferro e con la face ardente -a distruggere il popul mal condotto. -Omicidio, rapina e man violente -nel sangue e ne l'aver, trasse di botto -la ricca e trionfal città a ruina, -che fu di tutta l'Africa regina. -D'uomini morti pieno era per tutto; -e de le innumerabili ferite -fatto era un stagno più scuro e più brutto -di quel che cinge la città di Dite. -Di casa in casa un lungo incendio indutto -ardea palagi, portici e meschite. -Di pianti e d'urli e di battuti petti -suonano i voti e depredati tetti. -I vincitori uscir de le funeste -porte vedeansi di gran preda onusti, -chi con bei vasi e chi con ricche veste, -chi con rapiti argenti a' dei vetusti: -chi traea i figli, e chi le madri meste: -fur fatti stupri e mille altri atti ingiusti, -dei quali Orlando una gran parte intese, -né lo poté vietar, né 'l duca inglese. -Fu Bucifar de l'Algazera morto -con esso un colpo da Olivier gagliardo. -Perduta ogni speranza, ogni conforto, -s'uccise di sua mano il re Branzardo, -con tre ferite, onde morì di corto, -fu preso Folvo dal duca dal Pardo. -Questi eran tre ch'al suo partir lasciato -avea Agramante a guardia de lo stato. -Agramante ch'intanto avea deserta -l'armata, e con Sobrin n'era fuggito, -pianse da lungi e sospirò Biserta, -veduto sì gran fiamma arder sul lito. -Poi più d'appresso ebbe novella certa -come de la sua terra il caso era ito: -e d'uccider se stesso in pensier venne, -e lo facea; ma il re Sobrin lo tenne. -Dicea Sobrin: — Che più vittoria lieta, -signor, potrebbe il tuo inimico avere, -che la tua morte udire, onde quieta -si speraria poi l'Africa godere? -Questo contento il viver tuo gli vieta: -quindi avrà cagion sempre di temere. -Sa ben che lungamente Africa sua -esser non può, se non per morte tua. -Tutti i sudditi tuoi, morendo, privi -de la speranza, un ben che sol ne resta. -Spero che n'abbi a liberar, se vivi, -e trar d'affanno e ritornarne in festa. -So che, se muori, siàn sempre captivi, -Africa sempre tributaria e mesta. -Dunque, s'in util tuo viver non vuoi, -vivi, signor, per non far danno ai tuoi. -Dal soldano d'Egitto, tuo vicino, -certo esser puoi d'aver danari e gente: -malvolentieri il figlio di Pipino -in Africa vedrà tanto potente. -Verrà con ogni sforzo Norandino -per ritornarti in regno, il tuo parente: -Armeni, Turchi, Persi, Arabi e Medi, -tutti in soccorso avrai, se tu li chiedi. — -Con tali e simil detti il vecchio accorto -studia tornare il suo signore in speme -di racquistarsi l'Africa di corto; -ma nel suo cor forse il contrario teme: -sa ben quanto è a mal termine e a mal porto, -e come spesso invan sospira e geme -chiunque il regno suo si lascia torre, -e per soccorso a' barbari ricorre. -Annibal e Iugurta di ciò foro -buon testimoni, ed altri al tempo antico: -al tempo nostro Ludovico il Moro, -dato in poter d'un altro Ludovico. -Vostro fratello Alfonso da costoro -ben ebbe esempio (a voi, Signor mio, dico), -che sempre ha riputato pazzo espresso -chi più si fida in altri ch'in se stesso. -E però ne la guerra che gli mosse -del pontifice irato un duro sdegno, -ancor che ne le deboli sue posse -non potessi egli far molto disegno, -e chi lo difendea, d'Italia fosse -spinto, e n'avesse il suo nimico il regno; -né per minacce mai né per promesse -s'indusse che lo stato altrui cedesse. -Il re Agramante all'oriente avea -volta la prora, e s'era spinto in alto, -quando da terra una tempesta rea -mosse da banda impetuoso assalto. -Il nocchier ch'al governo vi sedea: -— Io veggo (disse alzando gli occhi ad alto) -una procella apparecchiar sì grave, -che contrastar non le potrà la nave. -S'attendete, signori, al mio consiglio, -qui da man manca ha un'isola vicina, -a cui mi par ch'abbiamo a dar di piglio, -fin che passi il furor de la marina. — -Consentì il re Agramante; e di periglio -uscì, pigliando la spiaggia mancina, -che per salute de' nocchier giace -tra gli Afri e di Vulcan l'alta fornace. -D'abitazioni è l'isoletta vota, -piena d'umil mortelle e di ginepri, -ioconda solitudine e remota -a cervi, a daini, a capriuoli, a lepri; -e fuor ch'a piscatori, è poco nota, -ove sovente a rimondati vepri -sospendon, per seccar, l'umide reti: -dormeno intanto i pesci in mar quieti. -Quivi trovar che s'era un altro legno, -cacciato da fortuna, già ridutto: -il gran guerrier ch'in Sericana ha regno, -levato d'Arli, avea quivi condutto. -Con modo riverente e di sé degno -l'un re con l'altro s'abbracciò all'asciutto; -ch'erano amici, e poco inanzi furo -compagni d'arme al parigino muro. -Con molto dispiacer Gradasso intese -del re Agramante le fortune avverse: -poi confortollo, e come re cortese, -con la propria persona se gli offerse: -ma che egli andasse all'infedel paese -d'Egitto, per aiuto, non sofferse. -— Che vi sia (disse) periglioso gire, -dovria Pompeio i profugi ammonire. -E perché detto m'hai che con l'aiuto -degli Etiopi, sudditi al Senapo, -Astolfo a torti l'Africa è venuto, -e ch'arsa ha la città che n'era capo; -e ch'Orlando è con lui, che diminuto -poco inanzi di senno aveva il capo; -mi pare al tutto un ottimo rimedio -aver pensato a farti uscir di tedio. -Io piglierò per amor tuo l'impresa -d'entrar col conte a singular certame. -Contra me so che non avrà difesa, -se tutto fosse di ferro o di rame. -Morto lui, stimo la cristiana Chiesa, -quel che l'agnelle il lupo ch'abbia fame. -Ho poi pensato (e mi fia cosa lieve) -di fare i Nubi uscir d'Africa in breve. -Farò che gli altri Nubi che da loro -il Nilo parte e la diversa legge, -e gli Arabi e i Macrobi, questi d'oro -ricchi e di gente, e quei d'equino gregge, -Persi e Caldei (perché tutti costoro -con altri molti il mio scettro corregge); -farò ch'in Nubia lor faran tal guerra, -che non si fermeran ne la tua terra. — -Al re Agramante assai parve oportuna -del re Gradasso la seconda offerta; -e si chiamò obligato alla Fortuna, -che l'avea tratto all'isola deserta: -ma non vuol torre a condizione alcuna, -se racquistar credesse indi Biserta, -che battaglia per lui Gradasso prenda; -che 'n ciò gli par che l'onor troppo offenda. -— S'a disfidar s'ha Orlando, son quell'io -(rispose) a cui la pugna più conviene: -e pronto vi sarò; poi faccia Dio -di me, come gli pare, o male o bene. — -— Facciàn (disse Gradasso) al modo mio, -a un nuovo modo ch'in pensier mi viene: -questa battaglia pigliamo ambedui -incontra Orlando, e un altro sia con lui. — -— Pur ch'io non resti fuor, non me ne lagno -(disse Agramante), o sia primo o secondo: -ben so ch'in arme ritrovar compagno -di te miglior non si può in tutto 'l mondo. — -— Ed io (disse Sobrin) dove rimagno? -E se vecchio vi paio, vi rispondo -ch'io debbo esser più esperto, e nel periglio -presso alla forza è buono aver consiglio. — -D'una vecchiezza valida e robusta -era Sobrino, e di famosa prova; -e dice ch'in vigor l'età vetusta -si sente pari alla già verde e nuova. -Stimata fu la sua domanda giusta; -e senza indugio un messo si ritrova, -il qual si mandi agli africani lidi, -e da lor parte il conte Orlando sfidi; -che s'abbia a ritrovar con numer pare -di cavallieri armati in Lipadusa. -Una isoletta è questa, che dal mare -medesmo che li cinge, è circonfusa. -Non cessa il messo a vela e a remi andare, -come quel che prestezza al bisogno usa, -che fu a Biserta; e trovò Orlando quivi, -ch'a suoi le spoglie dividea e i captivi. -Lo 'nvito di Gradasso e d'Agramante -e di Sobrino in publico fu espresso, -tanto giocondo al principe d'Anglante, -che d'ampli doni onorar fece il messo. -Avea dai suoi compagni udito inante, -che Durindana al fianco s'avea messo -il re Gradasso: onde egli, per desire -di racquistarla, in India volea gire, -stimando non aver Gradasso altrove, -poi ch'udì che di Francia era partito. -Or più vicin gli è offerto luogo, dove -spera che 'l suo gli fia restituito. -Il bel corno d'Almonte anco lo muove -ad accettar sì volentier lo 'nvito, -e Brigliador non men; che sapea in mano -esser venuti al figlio di Troiano. -Per compagno s'elegge alla battaglia -il fedel Brandimarte e 'l suo cognato. -Provato ha quanto l'uno e l'altro vaglia; -sa che da trambi è sommamente amato. -Buon destrier, buona piastra e buona maglia, -e spade cerca e lance in ogni lato -a sé e a' compagni: che sappiate parme, -che nessun d'essi avea le solite arme. -Orlando (come io v'ho detto più volte) -de le sue sparse per furor la terra: -agli altri ha Rodomonte le lor tolte, -ch'or alta torre in ripa un fiume serra. -Non se ne può per Africa aver molte; -sì perché in Francia avea tratto alla guerra -il re Agramante ciò ch'era di buono, -sì perché poche in Africa ne sono. -Ciò che di ruginoso e di brunito -aver si può, fa ragunare Orlando; -e coi compagni intanto va pel lito -de la futura pugna ragionando. -Gli avvien ch'essendo fuor del campo uscito -più di tre miglia, e gli occhi al mare alzando, -vide calar con le vele alte un legno -verso il lito african senza ritegno. -Senza nocchieri e senza naviganti, -sol come il vento e sua fortuna il mena, -venìa con le vele alte il legno avanti, -tanto che se ritenne in su l'arena. -Ma prima che di questo più vi canti, -l'amor ch'a Ruggier porto mi rimena -alla sua istoria, e vuol ch'io vi racconte -di lui e del guerrier di Chiaramonte. -Di questi duo guerrier dissi che tratti -s'erano fuor del marziale agone, -viste convenzion rompere e patti, -e turbarsi ogni squadra e legione. -Chi prima i giuramenti abbia disfatti, -e stato sia di tanto mal cagione, -o l'imperator Carlo, o il re Agramante, -studian saper da chi lor passa avante. -Un servitor intanto di Ruggiero, -ch'era fedele e pratico ed astuto, -né pel conflitto dei duo campi fiero -avea di vista il patron mai perduto, -venne a trovarlo, e la spada e 'l destriero -gli diede, perché a' suoi fosse in aiuto. -Montò Ruggiero e la sua spada tolse, -ma ne la zuffa entrar non però volse. -Quindi si parte; ma prima rinuova -la convenzion che con Rinaldo avea; -che se pergiuro il suo Agramante trova, -lo lascierà con la sua setta rea. -Per quel giorno Ruggier fare altra prova -d'arme non volse; ma solo attendea -a fermar questo e quello, e a domandarlo -chi prima roppe, o 'l re Agramante, o Carlo. -Ode da tutto 'l mondo, che la parte -del re Agramante fu, che roppe prima. -Ruggiero ama Agramante, e se si parte -da lui per questo, error non lieve stima. -Fur le gente africane e rotte e sparte -(questo ho già detto inanzi), e da la cima -de la volubil ruota tratte al fondo, -come piacque a colei ch'aggira il mondo. -Tra sé volve Ruggiero e fa discorso, -se restar deve, o il suo signor seguire. -Gli pon l'amor de la sua donna un morso -per non lasciarlo in Africa più gire: -lo volta e gira, ed a contrario corso -lo sprona, e lo minaccia di punire, -se l' patto e 'l giuramento non tien saldo, -che fatto avea col paladin Rinaldo. -Non men da l'altra parte sferza e sprona -la vigilante e stimulosa cura, -che s'Agramante in quel caso abbandona, -a viltà gli sia ascritto ed a paura. -Se del restar la causa parrà buona -a molti, a molti ad accettar fia dura. -Molti diran che non si de' osservare -quel ch'era ingiusto e illicito a giurare. -Tutto quel giorno e la notte seguente -stette solingo, e così l'altro giorno, -pur travagliando la dubbiosa mente, -se partir deve o far quivi soggiorno. -Pel signor suo conclude finalmente -di fargli dietro in Africa ritorno. -Potea in lui molto il coniugale amore, -ma vi potea più il debito e l'onore. -Torna verso Arli; che trovarvi spera -l'armata ancor, ch'in Africa il trasporti: -né legno in mar né dentro alla rivera, -né Saracini vede, se non morti. -Seco al partire ogni legno che v'era -trasse Agramante, e 'l resto arse nei porti. -Fallitogli il pensier, prese il camino -verso Marsilia pel lito marino. -A qualche legno pensa dar di piglio, -ch'a prieghi o forza il porti all'altra riva. -Già v'era giunto del Danese il figlio -con l'armata de' barbari captiva. -Non si avrebbe potuto un gran di miglio -gittar ne l'acqua: tanto la copriva -la spessa moltitudine de navi, -di vincitori e di prigioni, gravi. -Le navi de' pagani, ch'avanzaro -dal fuoco e dal naufragio quella notte, -eccetto poche ch'in fuga n'andaro, -tutte a Marsilia avea Dudon condotte. -Sette di quei ch'in Africa regnaro, -che, poi che le lor genti vider rotte, -con sette legni lor s'eran renduti, -stavan dolenti, lacrimosi e muti. -Era Dudon sopra la spiaggia uscito, -ch'a trovar Carlo andar volea quel giorno; -e de' captivi e de lor spoglie ordito -con lunga pompa avea un trionfo adorno. -Eran tutti i prigion stesi nel lito, -e i Nubi vincitori allegri intorno, -che faceano del nome di Dudone -intorno risonar la regione. -Venne in speranza di lontan Ruggiero, -che questa fosse armata d'Agramante; -e, per saperne il vero, urtò il destriero: -ma riconobbe, come fu più inante, -il re de Nasamona prigionero, -Bambirago, Agricalte e Farurante, -Manilardo e Balastro e Rimedonte, -che piangendo tenean bassa la fronte. -Ruggier che gli ama, sofferir non puote -che stian ne la miseria in che li trova. -Quivi sa ch'a venir con le man vote, -senza usar forza, il pregar poco giova. -La lancia abbassa, e chi li tien percuote; -e fa del suo valor l'usata prova; -stringe la spada, e in un piccol momento -ne fa cadere intorno più di cento. -Dudone ode il rumor, la strage vede -che fa Ruggier, ma chi sia non conosce. -Vede i suoi c'hanno in fuga volto il piede -con gran timor, con pianto e con angosce. -Presto il destrier, lo scudo e l'elmo chiede; -che già avea armato e petto e braccia e cosce: -salta a cavallo e si fa dar la lancia, -e non oblia ch'è paladin di Francia. -Grida che si ritiri ognun da canto, -spinge il cavallo e fa sentir gli sproni. -Ruggier cent'altri n'avea uccisi intanto, -e gran speranza dato a quei prigioni: -e come venir vide Dudon santo -solo a cavallo, e gli altri esser pedoni, -stimò che capo e che signor lor fosse; -e contra lui con gran desir si mosse. -Già mosso prima era Dudon; ma quando -senza lancia Ruggier vide venire, -lunge da sé la sua gittò, sdegnando -con tal vantaggio il cavallier ferire. -Ruggiero, al cortese atto riguardando, -disse fra sé: — Costui non può mentire, -ch'uno non sia di quei guerrier perfetti -che paladin di Francia sono detti. -S'impetrar lo potrò, vo' che 'l suo nome, -inanzi che segua altro, mi palese; — -e così domandollo: e seppe come -era Dudon figliuol d'Uggier danese. -Dudon gravò Ruggier poi d'ugual some, -e parimente lo trovò cortese. -Poi che i nomi tra lor s'ebbono detti, -si disfidaro, e vennero agli effetti. -Avea Dudon quella ferrata mazza -ch'in mille imprese gli diè eterno onore: -con essa mostra ben ch'egli è di razza -di quel Danese pien d'alto valore. -La spada ch'apre ogni elmo, ogni corazza, -di che non era al mondo la migliore, -trasse Ruggiero, e fece paragone -di sua virtude al paladin Dudone. -Ma perché in mente ognora avea di meno -offender la sua donna, che potea; -ed era certo, se spargea il terreno -del sangue di costui, che la offendea -(de le case di Francia istrutto a pieno, -la madre di Dudone esser sapea -Armelina sorella di Beatrice, -ch'era di Bradamante genitrice): -per questo mai di punta non gli trasse, -e di taglio rarissimo ferìa. -Schermiasi, ovunque la mazza calasse, -or ribattendo, or dandole la via. -Crede Turpin che per Ruggier restasse, -che Dudon morto in pochi colpi avria: -né mai, qualunque volta si scoperse, -ferir, se non di piatto, lo sofferse. -Di piatto usar potea, come di taglio, -Ruggier la spada sua ch'avea gran schena; -e quivi a strano giuoco di sonaglio -sopra Dudon con tanta forza mena, -che spesso agli occhi gli pon tal barbaglio, -che si ritien di non cadere a pena. -Ma per esser più grato a chi mi ascolta, -io differisco il canto a un'altra volta. L'odor ch'è sparso in ben notrita e bella -o chioma o barba o delicata vesta -di giovene leggiadro o di donzella, -ch'Amor sovente lacrimando desta, -se spira e fa sentir di sé novella, -e dopo molti giorni ancora resta; -mostra con chiaro ed evidente effetto, -come a principio buono era e perfetto. -L'almo liquor che ai meditori suoi -fece Icaro gustar con suo gran danno, -e che si dice che già Celte e Boi -fe' passar l'Alpe e non sentir l'affanno; -mostra che dolce era a principio, poi -che si serva ancor dolce al fin de l'anno. -L'arbor ch'al tempo rio foglia non perde, -mostra ch'a primavera era ancor verde. -L'inclita stirpe che per tanti lustri -mostrò di cortesia sempre gran lume, -e par ch'ognor più ne risplenda e lustri, -fa che con chiaro indizio si presume, -che chi progenerò gli Estensi illustri, -dovea d'ogni laudabile costume -che sublimar al ciel gli uomini suole, -splender non men che fra le stelle il sole. -Ruggier, come in ciascun suo degno gesto, -d'alto valor, di cortesia solea -dimostrar chiaro segno e manifesto, -e sempre più magnanimo apparea; -così verso Dudon lo mostrò in questo, -col qual (come di sopra io vi dicea) -dissimulato avea quanto era forte, -per pietà che gli avea di porlo a morte. -Avea Dudon ben conosciuto certo, -ch'ucciderlo Ruggier non l'ha voluto; -perch'or s'ha ritrovato allo scoperto, -or stanco sì, che più non ha potuto. -Poi che chiaro comprende, e vede aperto -che gli ha rispetto, e che va ritenuto; -quando di forza e di vigor val meno, -di cortesia non vuol cedergli almeno. -— Per Dio (dice), signor, pace facciamo; -ch'esser non può più la vittoria mia: -esser non può più mia; che già mi chiamo -vinto e prigion de la tua cortesia. — -Ruggier rispose: — Ed io la pace bramo -non men di te; ma che con patto sia, -che questi sette re c'hai qui legati, -lasci ch'in libertà mi sieno dati. — -E gli mostrò quei sette re ch'io dissi -che stavano legati a capo chino; -e gli soggiunse che non gli impedissi -pigliar con essi in Africa il camino. -E così furo in libertà remissi -quei re; che gliel concesse il paladino; -e gli concesse ancor ch'un legno tolse, -quel ch'a lui parve, e verso Africa sciolse. -Il legno sciolse, e fe' scioglier la vela, -e se diè al vento perfido in possanza, -che da principio la gonfiata tela -drizzò a camino, e diè al nocchier baldanza. -Il lito fugge, e in tal modo si cela, -che par che ne sia il mar rimaso sanza. -Ne l'oscurar del giorno fece il vento -chiara la sua perfidia e 'l tradimento. -Mutossi da la poppa ne le sponde, -indi alla prora, e qui non rimase anco: -ruota la nave, ed i nocchier confonde; -ch'or di dietro or dinanzi or loro è al fianco. -Surgono altiere e minacciose l'onde: -mugliando sopra il mar va il gregge bianco. -Di tante morti in dubbio e in pena stanno, -quanto son l'acque ch'a ferir li vanno. -Or da fronte or da tergo il vento spira; -e questo inanzi, e quello a dietro caccia: -un altro da traverso il legno aggira; -e ciascun pur naufragio gli minaccia. -Quel che siede al governo, alto sospira -pallido e sbigottito ne la faccia; -e grida invano, e invan con mano accenna -or di voltare, or di calar l'antenna. -Ma poco il cenno, e 'l gridar poco vale: -tolto è 'l veder da la piovosa notte. -La voce, senza udirsi, in aria sale, -in aria che ferìa con maggior botte -de' naviganti il grido universale, -e 'l fremito de l'onde insieme rotte: -e in prora e in poppa e in amendue le bande -non si può cosa udir, che si commande. -Da la rabbia del vento che si fende -ne le ritorte, escono orribil suoni: -di spessi lampi l'aria si raccende, -risuona 'l ciel di spaventosi tuoni. -V'è chi corre al timon, chi i remi prende; -van per uso agli uffici a che son buoni: -chi s'affatica a sciorre e chi a legare; -vota altri l'acqua, e torna il mar nel mare. -Ecco stridendo l'orribil procella -che 'l repentin furor di borea spinge, -la vela contra l'arbore flagella: -il mar si leva, e quasi il cielo attinge. -Frangonsi i remi; e di fortuna fella -tanto la rabbia impetuosa stringe, -che la prora si volta, e verso l'onda -fa rimaner la disarmata sponda. -Tutta sotto acqua va la destra banda, -e sta per riversar di sopra il fondo. -Ognun, gridando, a Dio si raccomanda; -che più che certi son gire al profondo. -D'uno in un altro mal fortuna manda: -il primo scorre, e vien dietro il secondo. -Il legno vinto in più parti si lassa, -e dentro l'inimica onda vi passa. -Muove crudele e spaventoso assalto -da tutti i lati il tempestoso verno. -Veggon talvolta il mar venir tant'alto, -che par ch'arrivi insin al ciel superno. -Talor fan sopra l'onde in su tal salto, -ch'a mirar giù par lor veder lo 'nferno. -O nulla o poca speme è che conforte; -e sta presente inevitabil morte. -Tutta la notte per diverso mare -scorsero errando ove cacciolli il vento; -il fiero vento che dovea cessare -nascendo il giorno, e ripigliò augumento. -Ecco dinanzi un nudo scoglio appare: -voglion schivarlo, e non v'hanno argumento. -Li porta, lor mal grado, a quella via -il crudo vento e la tempesta ria. -Tre volte e quattro il pallido nocchiero -mette vigor perché 'l timon sia volto -e trovi più sicuro altro sentiero; -ma quel si rompe, e poi dal mar gli è tolto. -Ha sì la vela piena il vento fiero, -che non si può calar poco né molto: -né tempo han di riparo o di consiglio; -che troppo appresso è quel mortal periglio. -Poi che senza rimedio si comprende -la irreparabil rotta de la nave, -ciascuno al suo privato utile attende, -ciascun salvar la vita sua cura have. -Chi può più presto al palischermo scende; -ma quello è fatto subito sì grave -per tanta gente che sopra v'abbonda, -che poco avanza a gir sotto la sponda. -Ruggier che vide il comite e 'l padrone -e gli altri abbandonar con fretta il legno, -come senz'arme si trovò in giubbone, -campar su quel battel fece disegno: -ma lo trovò sì carco di persone, -e tante venner poi, che l'acque il segno -passaro in guisa, che per troppo pondo -con tutto il carco andò il legnetto al fondo: -del mare al fondo: e seco trasse quanti -lasciaro a sua speranza il maggior legno. -Allor s'udì con dolorosi pianti -chiamar soccorso dal celeste regno: -ma quelle voci andaro poco inanti, -che venne il mar pien d'ira e di disdegno, -e subito occupò tutta la via -onde il lamento e il flebil grido uscia. -Altri là giù, senza apparir più, resta; -altri risorge e sopra l'onde sbalza; -chi vien nuotando e mostra fuor la testa, -chi mostra un braccio, e chi una gamba scalza. -Ruggier che 'l minacciar de la tempesta -temer non vuol, dal fondo al sommo s'alza, -e vede il nudo scoglio non lontano, -ch'egli e i compagni avean fuggito invano. -Spera, per forza di piedi e di braccia -nuotando, di salir sul lito asciutto. -Soffiando viene, e lungi da la faccia -l'onda respinge e l'importuno flutto. -Il vento intanto e la tempesta caccia -il legno voto, e abbandonato in tutto -da quelli che per lor pessima sorte -il disio di campar trasse alla morte. -Oh fallace degli uomini credenza! -campò la nave che dovea perire; -quando il padrone e i galleotti senza -governo alcun l'avean lasciata gire. -Parve che si mutasse di sentenza -il vento, poi che ogni uom vide fuggire: -fece che 'l legno a miglior via si torse, -né toccò terra, e in sicura onda corse. -E dove col nocchier tenne via incerta, -poi che non l'ebbe, andò in Africa al dritto, -e venne a capitar presso a Biserta -tre miglia o due, dal lato verso Egitto; -e ne l'arena sterile e deserta -restò, mancando il vento e l'acqua, fitto. -Or quivi sopravenne, a spasso andando, -come di sopra io vi narrava, Orlando. -E disioso di saper se fusse -la nave sola, e fusse o vota o carca, -con Brandimarte a quella si condusse -e col cognato, in su una lieve barca. -Poi che sotto coverta s'introdusse, -tutta la ritrovò d'uomini scarca: -vi trovò sol Frontino il buon destriero, -l'armatura e la spada di Ruggiero; -di cui fu per campar tanto la fretta, -ch'a tor la spada non ebbe pur tempo. -Conobbe quella il paladin, che detta -fu Balisarda, e che già sua fu un tempo. -So che tutta l'istoria avete letta, -come la tolse a Falerina, al tempo -che le distrusse anco il giardin sì bello, -e come a lui poi la rubò Brunello; -e come sotto il monte di Carena -Brunel ne fe' a Ruggier libero dono. -Di che taglio ella fosse e di che schena, -n'avea già fatto esperimento buono; -io dico Orlando: e però n'ebbe piena -letizia, e ringrazionne il sommo Trono; -e si credette (e spesso il disse dopo), -che Dio gliele mandasse a sì grande uopo: -a sì grande uopo, come era, dovendo -condursi col signor di Sericana; -ch'oltre che di valor fosse tremendo, -sapea ch'avea Baiardo e Durindana. -L'altra armatura, non la conoscendo, -non apprezzò per cosa sì soprana, -come chi ne fe' prova apprezzò quella, -per buona sì, ma per più ricca e bella. -E perché gli facean poco mestiero -l'arme (ch'era inviolabile e affatato), -contento fu che l'avesse Oliviero; -il brando no, che sel pose egli a lato: -a Brandimarte consegnò il destriero. -Così diviso ed ugualmente dato -volse che fosse a ciaschedun compagno -ch'insieme si trovar, di quel guadagno. -Pel dì de la battaglia ogni guerriero -studia aver ricco e nuovo abito indosso. -Orlando riccamar fa nel quartiero -l'alto Babel dal fulmine percosso. -Un can d'argento aver vuole Oliviero, -che giaccia, e che la lassa abbia sul dosso, -con un motto che dica: Fin che vegna: -e vuol d'oro la vesta e di sé degna. -Fece disegno Brandimarte, il giorno -de la battaglia, per amor del padre, -e per suo onor, di non andare adorno -se non di sopraveste oscure ed adre. -Fiordiligi le fe' con fregio intorno, -quanto più seppe far, belle e leggiadre. -Di ricche gemme il fregio era contesto; -d'un schietto drappo e tutto nero il resto. -Fece la donna di sua man le sopra— -vesti a cui l'arme converrian più fine, -de' quai l'osbergo il cavallier si cuopra, -e la groppa al cavallo e 'l petto e 'l crine. -Ma da quel dì che cominciò quest'opra, -continuando a quel che le diè fine, -e dopo ancora, mai segno di riso -far non poté, né d'allegrezza in viso. -Sempre ha timor nel cor, sempre tormento -che Brandimarte suo non le sia tolto. -Già l'ha veduto in cento lochi e cento -in gran battaglie e perigliose avvolto; -né mai, come ora, simile spavento -le agghiacciò il sangue e impallidille il volto: -e questa novità d'aver timore -le fa tremar di doppia tema il core. -Poi che son d'arme e d'ogni arnese in punto, -alzano al vento i cavallier le vele. -Astolfo e Sansonetto con l'assunto -riman del grande esercito fedele. -Fiordiligi col cor di timor punto, -empiendo il ciel di voti e di querele, -quanto con vista seguitar le puote, -segue le vele in alto mar remote. -Astolfo a gran fatica e Sansonetto -poté levarla dal mirar ne l'onda -e ritrarla al palagio, ove sul letto -la lasciaro affannata e tremebonda. -Portava intanto il bel numero eletto -dei tre buon cavallier l'aura seconda. -Andò il legno a trovar l'isola al dritto, -ove far si dovea tanto conflitto. -Sceso nel lito il cavallier d'Anglante, -il cognato Oliviero e Brandimarte, -col padiglione il lato di levante -primi occupar; né forse il fer senz'arte. -Giunse quel dì medesimo Agramante, -e s'accampò da la contraria parte; -ma perché molto era inchinata l'ora, -differir la battaglia ne l'aurora. -Di qua e di là sin alla nuova luce -stanno alla guardia i servitori armati. -La sera Brandimarte si conduce -là dove i Saracin sono alloggiati, -e parla, con licenza del suo duce, -al re african; ch'amici erano stati: -e Brandimarte già con la bandiera -del re Agramante in Francia passato era. -Dopo i saluti e 'l giunger mano a mano, -molte ragion, sì come amico, disse -il fedel cavalliero al re pagano, -perché a questa battaglia non venisse: -e di riporgli ogni cittade in mano, -che sia tra 'l Nilo e 'l segno ch'Ercol fisse, -con volontà d'Orlando gli offeria, -se creder volea al Figlio di Maria. -— Perché sempre v'ho amato ed amo molto, -questo consiglio (gli dicea) vi dono; -e quando già, signor, per me l'ho tolto, -creder potete ch'io l'estimo buono. -Cristo conobbi Dio, Maumette stolto; -e bramo voi por ne la via in ch'io sono: -ne la via di salute, signor, bramo -che siate meco, e tutti gli altri ch'amo. -Qui consiste il ben vostro; né consiglio -altro potete prender, che vi vaglia; -e men di tutti gli altri, se col figlio -di Milon vi mettete alla battaglia; -che 'l guadagno del vincere al periglio -de la perdita grande non si agguaglia. -Vincendo voi, poco acquistar potete; -ma non perder già poco, se perdete. -Quando uccidiate Orlando, e noi venuti -qui per morire o vincere con lui, -io non veggo per questo che i perduti -domini a racquistar s'abbian per vui. -Né dovete sperar che sì si muti -lo stato de le cose, morti nui, -ch'uomini a Carlo manchino da porre -quivi a guardar fin all'estrema torre. — -Così parlava Brandimarte, ed era -per suggiungere ancor molte altre cose; -ma fu con voce irata e faccia altiera -dal pagano interrotto, che rispose: -— Temerità per certo e pazzia vera -è la tua, e di qualunque che si pose -a consigliar mai cosa o buona o ria, -ove chiamato a consigliar non sia. -E che 'l consiglio che mi dai, proceda -da ben che m'hai voluto e vuommi ancora, -io non so, a dire il ver, come io tel creda, -quando qui con Orlando ti veggo ora. -Crederò ben, tu che ti vedi in preda -di quel dragon che l'anime devora, -che brami teco nel dolore eterno -tutto 'l mondo poter trarre all'inferno. -Ch'io vinca o perda, o debba nel mio regno -tornare antiquo, o sempre starne in bando, -in mente sua n'ha Dio fatto disegno, -il qual né io, né tu, né vede Orlando. -Sia quel che vuol, non potrà ad atto indegno -di re inchinarmi mai timor nefando. -S'io fossi certo di morir, vo' morto -prima restar, ch'al sangue mio far torto. -Or ti puoi ritornar; che se migliore -non sei dimani in questo campo armato, -che tu mi sia paruto oggi oratore, -mal troverassi Orlando accompagnato. — -Queste ultime parole usciron fuore -del petto acceso d'Agramante irato. -Ritornò l'uno e l'altro, e ripososse, -fin che del mare il giorno uscito fosse. -Nel biancheggiar de la nuova alba armati, -e in un momento fur tutti a cavallo. -Pochi sermon si son tra loro usati: -non vi fu indugio, non vi fu intervallo, -che i ferri de le lance hanno abbassati. -Ma mi parria, Signor, far troppo fallo, -se, per voler di costor dir, lasciassi -tanto Ruggier nel mar, che v'affogassi. -Il giovinetto con piedi e con braccia -percotendo venìa l'orribil onde. -Il vento e la tempesta gli minaccia; -ma più la coscienza lo confonde. -Teme che Cristo ora vendetta faccia; -che, poi che battezzar ne l'acque monde, -quando ebbe tempo, sì poco gli calse, -or si battezzi in queste amare e salse. -Gli ritornano a mente le promesse -che tante volte alla sua donna fece; -quel che giurato avea quando si messe -contra Rinaldo, e nulla satisfece. -A Dio, ch'ivi punir non lo volesse, -pentito disse quattro volte e diece; -e fece voto di core e di fede -d'esser cristian, se ponea in terra il piede: -e mai più non pigliar spada né lancia -contra ai fedeli in aiuto de' Mori; -ma che ritorneria subito in Francia, -e a Carlo renderia debiti onori; -né Bradamante più terrebbe a ciancia, -e verria a fine onesto dei suo' amori. -Miracol fu, che sentì al fin del voto -crescersi forza e agevolarsi il nuoto. -Cresce la forza e l'animo indefesso: -Ruggier percuote l'onde e le respinge, -l'onde che seguon l'una all'altra presso, -di che una il leva, un'altra lo sospinge. -Così montando e discendendo spesso -con gran travaglio, al fin l'arena attinge; -e da la parte onde s'inchina il colle -più verso il mar, esce bagnato e molle. -Fur tutti gli altri che nel mar si diero, -vinti da l'onde, e al fin restar ne l'acque. -Nel solitario scoglio uscì Ruggiero, -come all'alta Bontà divina piacque. -Poi che fu sopra il monte inculto e fiero -sicur dal mar, nuovo timor gli nacque -d'avere esilio in sì strette confine, -e di morirvi di disagio al fine. -Ma pur col core indomito, e costante -di patir quanto è in ciel di lui prescritto, -pei duri sassi l'intrepide piante -mosse, poggiando invêr la cima al dritto. -Non era cento passi andato inante, -che vide d'anni e d'astinenze afflitto -uom ch'avea d'eremita abito e segno, -di molta riverenza e d'onor degno; -che, come gli fu presso: — Saulo, Saulo, -(gridò), perché persegui la mia fede? -(come allor il Signor disse a san Paulo, -che 'l colpo salutifero gli diede). -Passar credesti il mar, né pagar naulo, -e defraudare altrui de la mercede. -Vedi che Dio, c'ha lunga man, ti giunge -quando tu gli pensasti esser più lunge. — -E seguitò il santissimo eremita, -il qual la notte inanzi avuto avea -in vision da Dio, che con sua aita -allo scoglio Ruggier giunger dovea: -e di lui tutta la passata vita, -e la futura, e ancor la morte rea, -figli e nipoti ed ogni discendente -gli avea Dio rivelato interamente. -Seguitò l'eremita riprendendo -prima Ruggiero; e al fin poi confortollo. -Lo riprendea ch'era ito differendo -sotto il soave giogo a porre il collo; -e quel che dovea far, libero essendo, -mentre Cristo pregando a sé chiamollo, -fatto avea poi con poca grazia, quando -venir con sferza il vide minacciando. -Poi confortollo che non niega il cielo -tardi o per tempo Cristo a chi gliel chiede; -e di quelli operarii del Vangelo -narrò, che tutti ebbono ugual mercede. -Con caritade e con devoto zelo -lo venne ammaestrando ne la fede, -verso la cella sua con lento passo, -ch'era cavata a mezzo il duro sasso. -Di sopra siede alla devota cella -una piccola chiesa che risponde -all'oriente, assai commoda e bella: -di sotto un bosco scende sin all'onde, -di lauri e di ginepri e di mortella, -e di palme fruttifere e feconde; -che riga sempre una liquida fonte, -che mormorando cade giù dal monte. -Eran degli anni ormai presso a quaranta -che su lo scoglio il fraticel si messe; -ch'a menar vita solitaria e santa -luogo oportuno il Salvator gli elesse. -Di frutte colte or d'una or d'altra pianta, -e d'acqua pura la sua vita resse, -che valida e robusta e senza affanno -era venuta all'ottantesimo anno. -Dentro la cella il vecchio accese il fuoco, -e la mensa ingombrò di vari frutti, -ove si ricreò Ruggiero un poco, -poscia ch'i panni e i capelli ebbe asciutti. -Imparò poi più ad agio in questo loco -de nostra fede i gran misteri tutti; -ed alla pura fonte ebbe battesmo -il dì seguente dal vecchio medesmo. -Secondo il luogo, assai contento stava -quivi Ruggier; che 'l buon servo di Dio -fra pochi giorni intenzion gli dava -di rimandarlo ove più avea disio. -Di molte cose intanto ragionava -con lui sovente, or al regno di Dio, -or agli propri casi appertinenti, -or del suo sangue alle future genti. -Avea il Signor, che 'l tutto intende e vede, -rivelato al santissimo eremita, -che Ruggier da quel dì ch'ebbe la fede, -dovea sette anni, e non più, stare in vita; -che per la morte che sua donna diede -a Pinabel, ch'a lui fia attribuita, -saria, e per quella ancor di Bertolagi, -morto dai Maganzesi empi e malvagi. -E che quel tradimento andrà sì occulto, -che non se n'udirà di fuor novella; -perché nel proprio loco fia sepulto -ove anco ucciso da la gente fella: -per questo tardi vendicato ed ulto -fia da la moglie e da la sua sorella. -E che col ventre pien per lunga via -da la moglie fedel cercato fia. -Fra l'Adice e la Brenta a piè de' colli -ch'al troiano Antenòr piacqueno tanto, -con le sulfuree vene e rivi molli, -con lieti solchi e prati ameni a canto, -che con l'alta Ida volentier mutolli, -col sospirato Ascanio e caro Xanto, -a parturir verrà ne le foreste -che son poco lontane al frigio Ateste. -E ch'in bellezza ed in valor cresciuto -il parto suo, che pur Ruggier fia detto, -e del sangue troian riconosciuto -da quei Troiani, in lor signor fia elletto; -e poi da Carlo, a cui sarà in aiuto -incontra i Longobardi giovinetto, -dominio giusto avrà del bel paese, -e titolo onorato di marchese. -E perché dirà Carlo in latino: — _Este_ -signori qui, — quando faragli il dono, -nel secolo futur nominato Este -sarà il bel luogo con augurio buono; -e così lascierà il nome d'Ateste -de le due prime note il vecchio suono. -Avea Dio ancora al servo suo predetta -di Ruggier la futura aspra vendetta: -ch'in visione alla fedel consorte -apparirà dinanzi al giorno un poco; -e le dirà chi l'avrà messo a morte, -e, dove giacerà, mostrerà il loco: -onde ella poi con la cognata forte -distruggerà Pontieri a ferro e a fuoco; -né farà a' Maganzesi minor danni -il figlio suo Ruggiero, ov'abbia gli anni. -D'Azzi, d'Alberti, d'Obici discorso -fatto gli aveva, e di lor stirpe bella, -insino a Nicolò, Leonello, Borso, -Ercole, Alfonso, Ippolito e Issabella. -Ma il santo vecchio, ch'alla lingua ha il morso, -non di quanto egli sa però favella: -narra a Ruggier quel che narrar conviensi; -e quel ch'in sé de' ritener, ritiensi. -In questo tempo Orlando e Brandimarte -e 'l marchese Olivier col ferro basso -vanno a trovare il saracino Marte -(che così nominar si può Gradasso) -e gli altri duo che da contraria parte -han mosso i buon destrier più che di passo; -io dico il re Agramante e 'l re Sobrino: -rimbomba al corso il lito e 'l mar vicino. -Quando allo scontro vengono a trovarsi, -e in tronchi vola al ciel rotta ogni lancia, -del gran rumor fu visto il mar gonfiarsi, -del gran rumor che s'udì sino in Francia. -Venne Orlando e Gradasso a riscontrarsi; -e potea stare ugual questa bilancia, -se non era il vantaggio di Baiardo, -che fe' parer Gradasso più gagliardo. -Percosse egli il destrier di minor forza, -ch'Orlando avea, d'un urto così strano, -che lo fece piegare a poggia e ad orza, -e poi cader, quanto era lungo, al piano. -Orlando di levarlo si risforza -tre volte e quattro, e con sproni e con mano; -e quando al fin nol può levar, ne scende, -lo scudo imbraccia, e Balisarda prende. -Scontrossi col re d'Africa Oliviero; -e fur di quello incontro a paro a paro. -Brandimarte restar senza destriero -fece Sobrin: ma non si seppe chiaro -se v'ebbe il destrier colpa o il cavalliero; -ch'avezzo era cader Sobrin di raro. -O del destriero o suo pur fosse il fallo, -Sobrin si ritrovò giù del cavallo. -Or Brandimarte che vide per terra -il re Sobrin, non l'assalì altrimente, -ma contra il re Gradasso si disserra, -ch'avea abbattuto Orlando parimente. -Tra il marchese e Agramante andò la guerra -come fu cominciata primamente: -poi che si roppon l'aste negli scudi, -s'eran tornati incontra a stocchi ignudi. -Orlando, che Gradasso in atto vede, -che par ch'a lui tornar poco gli caglia; -né tornar Brandimarte gli concede, -tanto lo stringe e tanto lo travaglia; -si volge intorno, e similmente a piede -vede Sobrin che sta senza battaglia. -Vêr lui s'aventa; e al muover de le piante -fa il ciel tremar del suo fiero sembiante. -Sobrin che di tanto uom vede l'assalto, -stretto ne l'arme s'apparecchia tutto: -come nocchiero a cui vegna a gran salto -muggendo incontra il minaccioso flutto, -drizza la prora; e quando il mar tant'alto -vede salire, esser vorria all'asciutto. -Sobrin lo scudo oppone alla ruina -che da la spada vien di Falerina. -Di tal finezza è quella Balisarda, -che l'arme le puon far poco riparo; -in man poi di persona sì gagliarda, -in man d'Orlando, unico al mondo o raro, -taglia lo scudo; e nulla la ritarda, -perché cerchiato sia tutto d'acciaro: -taglia lo scudo e sino al fondo fende, -e sotto a quello in su la spalla scende. -Scende alla spalla; e perché la ritrovi -di doppia lama e di maglia coperta, -non vuol però che molto ella le giovi, -che di gran piaga non la lasci aperta. -Mena Sobrin; ma indarno è che si provi -ferire Orlando, a cui per grazia certa -diede il Motor del cielo e de le stelle, -che mai forar non se gli può la pelle. -Radoppia il colpo il valoroso conte, -e pensa da le spalle il capo torgli. -Sobrin che sa il valor di Chiaramonte, -e che poco gli val lo scudo opporgli, -s'arretra, ma non tanto, che la fronte -non venisse anco Balisarda a corgli. -Di piatto fu, ma il colpo tanto fello, -ch'amaccò l'elmo, e gl'intronò il cervello. -Cadde Sobrin del fiero colpo in terra, -onde a gran pezzo poi non è risorto. -Crede finita aver con lui la guerra -il paladino, e che si giaccia morto; -e verso il re Gradasso si disserra, -che Brandimarte non meni a mal porto: -che 'l pagan d'arme e di spada l'avanza -e di destriero, e forse di possanza. -L'ardito Brandimarte in su Frontino, -quel buon destrier che di Ruggier fu dianzi, -si porta così ben col Saracino, -che non par già che quel troppo l'avanzi: -e s'egli avesse osbergo così fino -come il pagan, gli staria meglio inanzi; -ma gli convien (che mal si sente armato) -spesso dar luogo or d'uno or d'altro lato. -Altro destrier non è che meglio intenda -di quel Frontino il cavalliero a cenno: -par che dovunque Durindana scenda, -or quinci or quindi abbia a schivarla senno. -Agramante e Olivier battaglia orrenda -altrove fanno, e giudicar si denno -per duo guerrier di pari in arme accorti, -e pochi differenti in esser forti. -Avea lasciato, come io dissi, Orlando -Sobrino in terra; e contra il re Gradasso, -soccorrer Brandimarte disiando, -come si trovò a piè, venìa a gran passo. -Era vicin per assalirlo, quando -vide in mezzo del campo andare a spasso -il buon cavallo onde Sobrin fu spinto; -e per averlo, presto si fu accinto. -Ebbe il destrier, che non trovò contesa, -e levò un salto, ed entrò ne la sella. -Ne l'una man la spada tien sospesa, -mette l'altra alla briglia ricca e bella. -Gradasso vede Orlando, e non gli pesa, -ch'a lui ne viene, e per nome l'appella. -Ad esso e a Brandimarte e all'altro spera -far parer notte, e che non sia ancor sera. -Voltasi al conte, e Brandimarte lassa, -e d'una punta lo trova al camaglio: -fuor che la carne, ogni altra cosa passa: -per forar quella è vano ogni travaglio. -Orlando a un tempo Balisarda abbassa: -non vale incanto ov'ella mette il taglio. -L'elmo, lo scudo, l'osbergo e l'arnese, -venne fendendo in giù ciò ch'ella prese; -e nel volto e nel petto e ne la coscia -lasciò ferito il re di Sericana, -di cui non fu mai tratto sangue, poscia -ch'ebbe quell'arme: or gli par cosa strana -che quella spada (e n'ha dispetto e angoscia) -le tagli or sì; né pur è Durindana. -E se più lungo il colpo era o più appresso, -l'avria dal capo insino al ventre fesso. -Non bisogna più aver ne l'arme fede, -come avea dianzi; che la prova è fatta. -Con più riguardo e più ragion procede, -che non solea; meglio al parar si adatta. -Brandimarte ch'Orlando entrato vede, -che gli ha di man quella battaglia tratta, -si pone in mezzo all'una e all'altra pugna, -perché in aiuto, ove è bisogno, giugna. -Essendo la battaglia in tale istato, -Sobrin, ch'era giaciuto in terra molto, -si levò, poi ch'in sé fu ritornato; -e molto gli dolea la spalla e 'l volto: -alzò la vista e mirò in ogni lato; -poi dove vide il suo signor, rivolto, -per dargli aiuto i lunghi passi torse -tacito sì, ch'alcun non se n'accorse. -Vien dietro ad Olivier che tenea gli occhi -al re Agramante e poco altro attendea; -e gli ferì nei deretan ginocchi -il destrier di percossa in modo rea, -che senza indugio è forza che trabocchi. -Cade Olivier, né 'l piede aver potea, -il manco piè, ch'al non pensato caso -sotto il cavallo in staffa era rimaso. -Sobrin radoppia il colpo, e di riverso -gli mena, e se gli crede il capo torre; -ma lo vieta l'acciar lucido e terso, -che temprò già Vulcan, portò già Ettorre. -Vede il periglio Brandimarte, e verso -il re Sobrino a tutta briglia corre; -e lo fere in sul capo, e gli dà d'urto; -ma il fiero vecchio è tosto in piè risurto; -e torna ad Olivier per dargli spaccio, -sì ch'espedito all'altra vita vada; -o non lasciare almen ch'esca d'impaccio, -ma che si stia sotto 'l cavallo a bada. -Olivier c'ha di sopra il miglior braccio, -sì che si può difender con la spada, -di qua di là tanto percuote e punge, -che, quanta è lunga, fa Sobrin star lunge. -Spera, s'alquanto il tien da sé rispinto, -in poco spazio uscir di quella pena. -Tutto di sangue il vede molle e tinto, -e che ne versa tanto in su l'arena, -che gli par ch'abbia tosto a restar vinto: -debole è sì, che si sostiene a pena. -Fa per levarsi Olivier molte prove, -né da dosso il destrier però si muove. -Trovato ha Brandimarte il re Agramante, -e cominciato a tempestargli intorno: -or con Frontin gli è al fianco, or gli è davante, -con quel Frontin che gira come un torno. -Buon cavallo ha il figliuol di Monodante: -non l'ha peggiore il re di Mezzogiorno; -ha Brigliador che gli donò Ruggiero -poi che lo tolse a Mandricardo altiero. -Vantaggio ha bene assai de l'armatura; -a tutta prova l'ha buona e perfetta. -Brandimarte la sua tolse a ventura, -qual poté avere a tal bisogno in fretta: -ma sua animosità sì l'assicura, -ch'in miglior tosto di cangiarla aspetta; -come che 'l re african d'aspra percossa -la spalla destra gli avea fatta rossa; -e serbi da Gradasso anco nel fianco -piaga da non pigliar però da giuoco. -Tanto l'attese al varco il guerrier franco, -che di cacciar la spada trovò loco. -Spezzò lo scudo, e ferì il braccio manco, -e poi ne la man destra il toccò un poco. -Ma questo un scherzo si può dire e un spasso -verso quel che fa Orlando e 'l re Gradasso. -Gradasso ha mezzo Orlando disarmato; -l'elmo gli ha in cima e da dui lati rotto, -e fattogli cader lo scudo al prato, -osbergo e maglia apertagli di sotto: -non l'ha ferito già, ch'era affatato. -Ma il paladino ha lui peggio condotto: -in faccia, ne la gola, in mezzo il petto -l'ha ferito, oltre a quel che già v'ho detto. -Gradasso disperato, che si vede -del proprio sangue tutto molle e brutto, -e ch'Orlando del suo dal capo al piede -sta dopo tanti colpi ancora asciutto; -leva il brando a due mani, e ben si crede -partirgli il capo, il petto, il ventre e 'l tutto: -e a punto, come vuol, sopra la fronte -percuote a mezza spada il fiero conte. -E s'era altro ch'Orlando, l'avria fatto, -l'avria sparato fin sopra la sella: -ma, come colto l'avesse di piatto, -la spada ritornò lucida e bella. -De la percossa Orlando stupefatto, -vide, mirando in terra, alcuna stella: -lasciò la briglia, e 'l brando avria lasciato; -ma di catena al braccio era legato. -Del suon del colpo fu tanto smarrito -il corridor ch'Orlando avea sul dorso, -che discorrendo il polveroso lito, -mostrando gìa quanto era buono al corso. -De la percossa il conte tramortito, -non ha valor di ritenergli il morso. -Segue Gradasso, e l'avria tosto giunto, -poco più che Baiardo avesse punto. -Ma nel voltar degli occhi, il re Agramante -vide condotto all'ultimo periglio: -che ne l'elmo il figliuol di Monodante -col braccio manco gli ha dato di piglio; -e glie l'ha dislacciato già davante, -e tenta col pugnal nuovo consiglio: -né gli può far quel re difesa molta, -perché di man gli ha ancor la spada tolta. -Volta Gradasso, e più non segue Orlando, -ma, dove vede il re Agramante, accorre. -L'incauto Brandimarte, non pensando -ch'Orlando costui lasci da sé torre, -non gli ha né gli occhi né 'l pensiero, instando -il coltel ne la gola al pagan porre. -Giunge Gradasso, e a tutto suo potere -con la spada a due man l'elmo gli fere. -Padre del ciel, dà fra gli eletti tuoi -spiriti luogo al martir tuo fedele, -che giunto al fin de' tempestosi suoi -viaggi, in porto ormai lega le vele. -Ah Durindana, dunque esser tu puoi -al tuo signore Orlando sì crudele, -che la più grata compagnia e più fida -ch'egli abbia al mondo, inanzi tu gli uccida? -Di ferro un cerchio grosso era duo dita -intorno all'elmo, e fu tagliato e rotto -dal gravissimo colpo, e fu partita -la cuffia de l'acciar ch'era di sotto. -Brandimarte con faccia sbigottita -giù del destrier si riversciò di botto; -e fuor del capo fe' con larga vena -correr di sangue un fiume in su l'arena. -Il conte si risente, e gli occhi gira, -ed ha il suo Brandimarte in terra scorto; -e sopra in atto il Serican gli mira, -che ben conoscer può che glie l'ha morto. -Non so se in lui poté più il duolo o l'ira; -ma da piangere il tempo avea sì corto, -che restò il duolo, e l'ira uscì più in fretta. -Ma tempo è ormai che fine al canto io metta. -Qual duro freno o qual ferrigno nodo, -qual, s'esser può, catena di diamante -farà che l'ira servi ordine e modo, -che non trascorra oltre al prescritto inante, -quando persona che con saldo chiodo -t'abbia già fissa Amor nel cor costante, -tu vegga o per violenza o per inganno -patire o disonore o mortal danno? -E s'a crudel, s'ad inumano effetto -quell'impeto talor l'animo svia, -merita escusa, perché allor del petto -non ha ragione imperio né balìa. -Achille, poi che sotto il falso elmetto -vide Patròclo insanguinar la via, -d'uccider chi l'uccise non fu sazio, -se nol traea, se non ne facea strazio. -Invitto Alfonso, simile ira accese -la vostra gente il dì che vi percosse -la fronte il grave sasso, e sì v'offese, -ch'ognun pensò che l'alma gita fosse: -l'accese in tal furor, che non difese -vostri inimici argini o mura o fosse, -che non fossino insieme tutti morti, -senza lasciar chi la novella porti. -Il vedervi cader causò il dolore -che i vostri a furor mosse e a crudeltade. -S'eravate in piè voi, forse minore -licenza avriano avute le lor spade. -Eravi assai, che la Bastia in manche ore -v'aveste ritornata in potestade, -che tolta in giorni a voi non era stata -da gente cordovese e di Granata. -Forse fu da Dio vindice permesso -che vi trovaste a quel caso impedito, -acciò che 'l crudo e scelerato eccesso -che dianzi fatto avean, fosse punito: -che, poi ch'in lor man vinto si fu messo -il miser Vestidel, lasso e ferito, -senz'arme fu tra cento spade ucciso -dal popul la più parte circonciso. -Ma perch'io vo' concludere, vi dico -che nessun'altra quell'ira pareggia, -quando signor, parente, o sozio antico -dinanzi agli occhi ingiuriar ti veggia. -Dunque è ben dritto per sì caro amico, -che subit'ira il cor d'Orlando feggia; -che de l'orribil colpo che gli diede -il re Gradasso, morto in terra il vede. -Quel nomade pastor che vedut'abbia -fuggir strisciando l'orrido serpente -che il figliuol che giocava ne la sabbia, -ucciso gli ha col venenoso dente, -stringe il baston con colera e con rabbia; -tal la spada d'ogni altra più tagliente -stringe con ira il cavallier d'Anglante: -il primo che trovò, fu 'l re Agramante; -che sanguinoso e de la spada privo, -con mezzo scudo e con l'elmo disciolto, -e ferito in più parti ch'io non scrivo, -s'era di man di Brandimarte tolto, -come di piè all'astor sparvier mal vivo, -a cui lasciò alla coda invido o stolto. -Orlando giunse, e messe il colpo giusto -ove il capo si termina col busto. -Sciolto era l'elmo e disarmato il collo, -sì che lo tagliò netto come un giunco. -Cadde, e diè nel sabbion l'ultimo crollo -del regnator di Libia il grave trunco. -Corse lo spirto all'acque, onde tirollo -Caron nel legno suo col graffio adunco. -Orlando sopra lui non si ritarda, -ma trova il Serican con Balisarda. -Come vide Gradasso d'Agramante -cadere il busto dal capo diviso; -quel ch'accaduto mai non gli era inante, -tremò nel core e si smarrì nel viso; -e all'arrivar del cavallier d'Anglante, -presago del suo mal, parve conquiso. -Per schermo suo partito alcun non prese, -quando il colpo mortal sopra gli scese. -Orlando lo ferì nel destro fianco -sotto l'ultima costa; e il ferro, immerso -nel ventre, un palmo uscì dal lato manco, -di sangue sin all'elsa tutto asperso. -Mostrò ben che di man fu del più franco -e del meglior guerrier de l'universo -il colpo ch'un signor condusse a morte, -di cui non era in Pagania il più forte. -Di tal vittoria non troppo gioioso, -presto di sella il paladin si getta; -e col viso turbato e lacrimoso -a Brandimarte suo corre a gran fretta. -Gli vede intorno il campo sanguinoso: -l'elmo che par ch'aperto abbia una accetta, -se fosse stato fral più che di scorza, -difeso non l'avria con minor forza. -Orlando l'elmo gli levò dal viso, -e ritrovò che 'l capo sino al naso -fra l'uno e l'altro ciglio era diviso: -ma pur gli è tanto spirto anco rimaso, -che de' suoi falli al Re del paradiso -può domandar perdono anzi l'occaso; -e confortare il conte, che le gote -sparge di pianto, a pazienza puote; -e dirgli: — Orlando, fa che ti raccordi -di me ne l'orazion tue grate a Dio; -né men ti raccomando la mia Fiordi... — -ma dir non poté: — ... ligi —, e qui finio. -E voci e suoni d'angeli concordi -tosto in aria s'udir, che l'alma uscìo; -la qual disciolta dal corporeo velo -fra dolce melodia salì nel cielo. -Orlando, ancor che far dovea allegrezza -di sì devoto fine, e sapea certo -che Brandimarte alla suprema altezza -salito era (che 'l ciel gli vide aperto); -pur da la umana volontade, avezza -coi fragil sensi, male era sofferto -ch'un tal più che fratel gli fosse tolto, -e non aver di pianto umido il volto. -Sobrin che molto sangue avea perduto, -che gli piovea sul fianco e su le gote, -riverso già gran pezzo era caduto, -e aver ne dovea ormai le vene vote. -Ancor giacea Olivier, né riavuto -il piede avea, né riaver lo puote -se non ismosso, e de lo star che tanto -gli fece il destrier sopra, mezzo infranto: -e se 'l cognato non venìa ad aitarlo -(sì come lacrimoso era e dolente), -per sé medesmo non potea ritrarlo; -e tanta doglia e tal martìr ne sente, -che ritratto che l'ebbe, né a mutarlo -né a fermarvisi sopra era possente; -e n'ha insieme la gamba sì stordita, -che muover non si può, se non si aita. -De la vittoria poco rallegrosse -Orlando; e troppo gli era acerbo e duro -veder che morto Brandimarte fosse, -né del cognato molto esser sicuro. -Sobrin, che vivea ancora, ritrovosse, -ma poco chiaro avea con molto oscuro; -che la sua vita per l'uscito sangue -era vicina a rimanere esangue. -Lo fece tor, che tutto era sanguigno, -il conte, e medicar discretamente; -e confortollo con parlar benigno, -come se stato gli fosse parente; -che dopo il fatto nulla di maligno -in sé tenea, ma tutto era clemente. -Fece dei morti arme e cavalli torre; -del resto a' servi lor lasciò disporre. -Qui de la istoria mia, che non sia vera, -Federigo Fulgoso è in dubbio alquanto; -che con l'armata avendo la riviera -di Barberia trascorsa in ogni canto, -capitò quivi, e l'isola sì fiera, -montuosa e inegual ritrovò tanto, -che non è, dice, in tutto il luogo strano, -ove un sol piè si possa metter piano: -né verisimil tien che ne l'alpestre -scoglio sei cavallieri, il fior del mondo, -potesson far quella battaglia equestre. -Alla quale obiezion così rispondo: -ch'a quel tempo una piazza de le destre, -che sieno a questo, avea lo scoglio al fondo; -ma poi, ch'un sasso che 'l tremuoto aperse, -le cadde sopra, e tutta la coperse. -Sì che, o chiaro fulgor de la Fulgosa -stirpe, o serena, o sempre viva luce, -se mai mi riprendeste in questa cosa, -e forse inanti a quello invitto duce -per cui la vostra patria or si riposa, -lascia ogni odio, e in amor tutta s'induce; -vi priego che non siate a dirgli tardo, -ch'esser può che né in questo io sia bugiardo. -In questo tempo, alzando gli occhi al mare, -vide Orlando venire a vela in fretta -un navilio leggier, che di calare -facea sembiante sopra l'isoletta. -Di chi si fosse, io non voglio or contare, -perc'ho più d'uno altrove che m'aspetta. -Veggiamo in Francia, poi che spinto n'hanno -i Saracin, se mesti o lieti stanno. -Veggiàn che fa quella fedele amante -che vede il suo contento ir sì lontano; -dico la travagliata Bradamante, -poi che ritrova il giuramento vano, -ch'avea fatto Ruggier pochi dì inante, -udendo il nostro e l'altro stuol pagano. -Poi ch'in questo ancor manca, non le avanza -in ch'ella debba più metter speranza. -E ripetendo i pianti e le querele -che pur troppo domestiche le furo, -tornò a sua usanza a nominar crudele -Ruggiero, e 'l suo destin spietato e duro. -Indi sciogliendo al gran dolor le vele, -il ciel, che consentia tanto pergiuro, -né fatto n'avea ancor segno evidente, -ingiusto chiama, debole e impotente. -Ad accusar Melissa si converse, -e maledir l'oracol de la grotta; -ch'a lor mendace suasion s'immerse -nel mar d'amore, ov'è a morir condotta. -Poi con Marfisa ritornò a dolerse -del suo fratel che le ha la fede rotta: -con lei grida e si sfoga, e le domanda, -piangendo, aiuto, e se le raccomanda. -Marfisa si ristringe ne le spalle, -e, quel sol che pò far, le dà conforto; -né crede che Ruggier mai così falle, -ch'a lei non debba ritornar di corto. -E se non torna pur, sua fede dalle, -ch'ella non patirà sì grave torto; -o che battaglia piglierà con esso, -o gli farà osservar ciò c'ha promesso. -Così fa ch'ella un poco il duol raffrena; -ch'avendo ove sfogarlo, è meno acerbo. -Or ch'abbiam vista Bradamante in pena, -chiamar Ruggier pergiuro, empio e superbo; -veggiamo ancor, se miglior vita mena -il fratel suo che non ha polso o nerbo, -osso o medolla che non senta caldo -de le fiamme d'amor; dico Rinaldo. -dico Rinaldo, il qual, come sapete, -Angelica la bella amava tanto; -né l'avea tratto all'amorosa rete -sì la beltà di lei, come l'incanto. -Aveano gli altri paladin quiete, -essendo ai Mori ogni vigore affranto: -tra i vincitori era rimaso solo -egli captivo in amoroso duolo. -Cento messi a cercar che di lei fusse -avea mandato, e cerconne egli stesso. -Al fine a Malagigi si ridusse, -che nei bisogni suoi l'aiutò spesso. -A narrar il suo amor se gli condusse -col viso rosso e col ciglio demesso; -indi lo priega che gli insegni dove -la desiata Angelica si trove. -Gran maraviglia di sì strano caso -va rivolgendo a Malagigi il petto. -Sa che sol per Rinaldo era rimaso -d'averla cento volte e più nel letto: -ed egli stesso, acciò che persuaso -fosse di questo, avea assai fatto e detto -con prieghi e con minacce per piegarlo; -né mai avuto avea poter di farlo: -e tanto più, ch'allor Rinaldo avrebbe -tratto fuor Malagigi di prigione. -Fare or spontaneamente lo vorrebbe, -che nulla giova, e n'ha minor cagione. -Poi priega lui che ricordar si debbe -pur quanto ha offeso in questo oltr'a ragione; -che per negargli già, vi mancò poco -di non farlo morire in scuro loco. -Ma quanto a Malagigi le domande -di Rinaldo importune più pareano, -tanto, che l'amor suo fosse più grande, -indizio manifesto gli faceano. -I prieghi che con lui vani non spande, -fan che subito immerge ne l'oceano -ogni memoria de la ingiuria vecchia, -e che a dargli soccorso s'apparecchia. -Termine tolse alla risposta, e spene -gli diè, che favorevol gli saria, -e che gli saprà dir la via che tiene -Angelica, o sia in Francia o dove sia. -E quindi Malagigi al luogo viene -ove i demoni scongiurar solia, -ch'era fra monti inaccessibil grotta: -apre il libro, e li spirti chiama in frotta. -Poi ne sceglie un che de' casi d'amore -avea notizia, e da lui saper volle, -come sia che Rinaldo ch'avea il core -dianzi sì duro, or l'abbia tanto molle: -e di quelle due fonti ode il tenore, -di che l'una dà il fuoco, e l'altra il tolle; -e al mal che l'una fa, nulla soccorre, -se non l'altra acqua che contraria corre. -Ed ode come avendo già di quella -che l'amor caccia, beuto Rinaldo, -ai lunghi prieghi d'Angelica bella -si dimostrò così ostinato e saldo; -e che poi giunto per sua iniqua stella -a ber ne l'altra l'amoroso caldo, -tornò ad amar, per forza di quelle acque, -lei che pur dianzi oltr'al dover gli spiacque. -Da iniqua stella e fier destin fu giunto -a ber la fiamma in quel ghiacciato rivo; -perché Angelica venne quasi a un punto -a ber ne l'altro di dolcezza privo, -che d'ogni amor le lasciò il cor sì emunto, -ch'indi ebbe lui più che le serpi a schivo: -egli amò lei, e l'amor giunse al segno -in ch'era già di lei l'odio e lo sdegno. -Del caso strano di Rinaldo a pieno -fu Malagigi dal demonio istrutto, -che gli narrò d'Angelica non meno, -ch'a un giovine african si donò in tutto; -e come poi lasciato avea il terreno -tutto d'Europa, e per l'instabil flutto -verso India sciolto avea dai liti ispani -su l'audaci galee de' Catallani. -Poi che venne il cugin per la risposta, -molto gli disuase Malagigi -di più Angelica amar, che s'era posta -d'un vilissimo barbaro ai servigi; -ed ora sì da Francia si discosta, -che mal seguir se ne potria i vestigi: -ch'era oggimai più là ch'a mezza strada, -per andar con Medoro in sua contrada. -La partita d'Angelica non molto -sarebbe grave all'animoso amante; -né pur gli avria turbato il sonno, o tolto -il pensier di tornarsene in Levante: -ma sentendo ch'avea del suo amor colto -un Saracino le primizie inante, -tal passione e tal cordoglio sente, -che non fu in vita sua, mai, più dolente. -Non ha poter d'una risposta sola; -triema il cor dentro, e trieman fuor le labbia; -non può la lingua disnodar parola; -la bocca ha amara, e par che tosco v'abbia. -Da Malagigi subito s'invola; -e come il caccia la gelosa rabbia, -dopo gran pianto e gran ramaricarsi, -verso Levante fa pensier tornarsi. -Chiede licenza al figlio di Pipino: -e trova scusa che 'l destrier Baiardo, -che ne mena Gradasso saracino -contra il dover di cavallier gagliardo, -lo muove per suo onore a quel camino, -acciò che vieti al Serican bugiardo -di mai vantarsi che con spada o lancia -l'abbia levato a un paladin di Francia. -Lasciollo andar con sua licenza Carlo, -ben che ne fu con tutta Francia mesto; -ma finalmente non seppe negarlo, -tanto gli parve il desiderio onesto. -Vuol Dudon, vuol Guidone accompagnarlo; -ma lo niega Rinaldo a quello e a questo. -Lascia Parigi, e se ne va via solo, -pien di sospiri e d'amoroso duolo. -Sempre ha in memoria, e mai non se gli tolle, -ch'averla mille volte avea potuto, -e mille volte avea ostinato e folle -di sì rara beltà fatto rifiuto; -e di tanto piacer ch'aver non volle, -sì bello e sì buon tempo era perduto: -ed ora eleggerebbe un giorno corto -averne solo, e rimaner poi morto. -Ha sempre in mente, e mai non se ne parte, -come esser puote ch'un povero fante -abbia del cor di lei spinto da parte -merito e amor d'ogni altro primo amante. -Con tal pensier che 'l cor gli straccia e parte, -Rinaldo se ne va verso Levante; -e dritto al Reno e a Basilea si tiene, -fin che d'Ardenna alla gran selva viene. -Poi che fu dentro a molte miglia andato -il paladin pel bosco aventuroso, -da ville e da castella allontanato, -ove aspro era più il luogo e periglioso, -tutto in un tratto vide il ciel turbato, -sparito il sol tra nuvoli nascoso, -ed uscir fuor d'una caverna oscura -un strano mostro in feminil figura. -Mill'occhi in capo avea senza palpèbre; -non può serrarli, e non credo che dorma: -non men che gli occhi, avea l'orecchie crebre; -avea in loco de crin serpi a gran torma. -Fuor de le diaboliche tenèbre -nel mondo uscì la spaventevol forma. -Un fiero e maggior serpe ha per la coda, -che pel petto si gira e che l'annoda. -Quel ch'a Rinaldo in mille e mille imprese -più non avvenne mai, quivi gli avviene; -che come vede il mostro ch'all'offese -se gli apparecchia, e ch'a trovar lo viene, -tanta paura, quanta mai non scese -in altri forse, gli entra ne le vene: -ma pur l'usato ardir simula e finge, -e con trepida man la spada stringe. -S'acconcia il mostro in guisa al fiero assalto, -che si può dir che sia mastro di guerra: -vibra il serpente venenoso in alto, -e poi contra Rinaldo si disserra; -di qua di là gli vien sopra a gran salto. -Rinaldo contra lui vaneggia ed erra: -colpi a dritto e a riverso tira assai, -ma non ne tira alcun che fera mai. -Il mostro al petto il serpe ora gli appicca, -che sotto l'arme e sin nel cor l'agghiaccia; -ora per la visiera gliele ficca, -e fa ch'erra pel collo e per la faccia. -Rinaldo da l'impresa si dispicca, -e quanto può con sproni il destrier caccia: -ma la Furia infernal già non par zoppa, -che spicca un salto, e gli è subito in groppa. -Vada al traverso, al dritto, ove si voglia, -sempre ha con lui la maledetta peste; -né sa modo trovar, che se ne scioglia, -ben che 'l destrier di calcitrar non reste. -Triema a Rinaldo il cor come una foglia: -non ch'altrimente il serpe lo moleste; -ma tanto orror ne sente e tanto schivo, -che stride e geme, e duolsi ch'egli è vivo. -Nel più tristo sentier, nel peggior calle -scorrendo va, nel più intricato bosco, -ove ha più asprezza il balzo, ove la valle -è più spinosa, ov'è l'aer più fosco, -così sperando torsi da le spalle -quel brutto, abominoso, orrido tosco; -e ne saria mal capitato forse, -se tosto non giungea chi lo soccorse. -Ma lo soccorse a tempo un cavalliero -di bello armato e lucido metallo, -che porta un giogo rotto per cimiero, -di rosse fiamme ha pien lo scudo giallo; -così trapunto il suo vestire altiero, -così la sopravesta del cavallo: -la lancia ha in pugno, e la spada al suo loco, -e la mazza all'arcion, che getta foco. -Piena d'un foco eterno è quella mazza, -che senza consumarsi ognora avampa: -né per buon scudo o tempra di corazza -o per grossezza d'elmo se ne scampa. -Dunque si debbe il cavallier far piazza, -giri ove vuol l'inestinguibil lampa: -né manco bisognava al guerrier nostro, -per levarlo di man del crudel mostro. -E come cavallier d'animo saldo, -ove ha udito il rumor, corre e galoppa, -tanto che vede il mostro che Rinaldo -col brutto serpe in mille nodi agroppa, -e sentir fagli a un tempo freddo e caldo; -che non ha via di torlosi di groppa. -Va il cavalliero, e fere il mostro al fianco, -e lo fa trabboccar dal lato manco. -Ma quello è a pena in terra che si rizza, -e il lungo serpe intorno aggira e vibra. -Quest'altro più con l'asta non l'attizza; -ma di farla col fuoco si delibra. -La mazza impugna, e dove il serpe guizza, -spessi come tempesta i colpi libra; -né lascia tempo a quel brutto animale, -che possa farne un solo o bene o male: -e mentre a dietro il caccia o tiene a bada, -e lo percuote, e vendica mille onte, -consiglia il paladin che se ne vada -per quella via che s'alza verso il monte. -Quel s'appiglia al consiglio ed alla strada; -e senza dietro mai volger la fronte, -non cessa, che di vista se gli tolle, -ben che molto aspro era a salir quel colle. -Il cavallier, poi ch'alla scura buca -fece tornare il mostro da l'inferno, -ove rode se stesso e si manuca, -e da mille occhi versa il pianto eterno; -per esser di Rinaldo guida e duca -gli salì dietro, e sul giogo superno -gli fu alle spalle, e si mise con lui -per trarlo fuor de' luoghi oscuri e bui. -Come Rinaldo il vide ritornato, -gli disse che gli avea grazia infinita, -e ch'era debitore in ogni lato -di porre a beneficio suo la vita. -Poi lo domanda come sia nomato, -acciò dir sappia chi gli ha dato aita, -e tra guerrieri possa e inanzi a Carlo -de l'alta sua bontà sempre esaltarlo. -Rispose il cavallier: — Non ti rincresca -se 'l nome mio scoprir non ti vogli'ora: -ben tel dirò prima ch'un passo cresca -l'ombra; che ci sarà poca dimora. — -Trovaro, andando insieme, un'acqua fresca -che col suo mormorio facea talora -pastori e viandanti al chiaro rio -venire, e berne l'amoroso oblio. -Signor, queste eran quelle gelide acque, -quelle che spengon l'amoroso caldo; -di cui bevendo, ad Angelica nacque -l'odio ch'ebbe di poi sempre a Rinaldo. -E s'ella un tempo a lui prima dispiacque, -e se ne l'odio il ritrovò sì saldo, -non derivò, Signor, la causa altronde, -se non d'aver beuto di queste onde. -Il cavallier che con Rinaldo viene, -come si vede inanzi al chiaro rivo, -caldo per la fatica il destrier tiene, -e dice: — Il posar qui non fia nocivo. — -— Non fia (disse Rinaldo) se non bene; -ch'oltre che prema il mezzogiorno estivo, -m'ha così il brutto mostro travagliato, -che 'l riposar mi fia commodo e grato. — -L'un e l'altro smontò del suo cavallo, -e pascer lo lasciò per la foresta; -e nel fiorito verde a rosso e a giallo -ambi si trasson l'elmo de la testa. -Corse Rinaldo al liquido cristallo, -spinto da caldo e da sete molesta, -e cacciò, a un sorso del freddo liquore, -dal petto ardente e la sete e l'amore. -Quando lo vide l'altro cavalliero -la bocca sollevar de l'acqua molle, -e ritrarne pentito ogni pensiero -di quel desir ch'ebbe d'amor sì folle; -si levò ritto, e con sembiante altiero -gli disse quel che dianzi dir non volle: -— Sappi, Rinaldo, il nome mio è lo Sdegno, -venuto sol per sciorti il giogo indegno. — -Così dicendo, subito gli sparve, -e sparve insieme il suo destrier con lui. -Questo a Rinaldo un gran miracol parve; -s'aggirò intorno, e disse: — Ove è costui? — -Stimar non sa se sian magiche larve, -che Malagigi un de' ministri sui -gli abbia mandato a romper la catena -che lungamente l'ha tenuto in pena: -o pur che Dio da l'alta ierarchia -gli abbia per ineffabil sua bontade -mandato, come già mandò a Tobia, -un angelo a levar di cecitade. -Ma buono o rio demonio, o quel che sia, -che gli ha renduta la sua libertade, -ringrazia e loda; e da lui sol conosce -che sano ha il cor da l'amorose angosce. -Gli fu nel primier odio ritornata -Angelica; e gli parve troppo indegna -d'esser, non che sì lungi seguitata, -ma che per lei pur mezza lega vegna. -Per Baiardo riaver tutta fiata -verso India in Sericana andar disegna, -sì perché l'onor suo lo stringe a farlo, -sì per averne già parlato a Carlo. -Giunse il giorno seguente a Basilea, -ove la nuova era venuta inante, -che 'l conte Orlando aver pugna dovea -contra Gradasso e contro il re Agramante. -Né questo per aviso si sapea, -ch'avesse dato il cavallier d'Anglante; -ma di Sicilia in fretta venut'era -chi la novella v'apportò per vera. -Rinaldo vuol trovarsi con Orlando -alla battaglia, e se ne vede lunge. -Di dieci in dieci miglia va mutando -cavalli e guide, e corre e sferza e punge. -Passa il Reno a Costanza, e in su volando, -traversa l'Alpe, ed in Italia giunge. -Verona a dietro, a dietro Mantua lassa; -sul Po si trova, e con gran fretta il passa. -Già s'inchinava il sol molto alla sera, -e già apparia nel ciel la prima stella, -quando Rinaldo in ripa alla riviera -stando in pensier s'avea da mutar sella, -o tanto soggiornar, che l'aria nera -fuggisse inanzi all'altra aurora bella, -venir si vede un cavalliero inanti -cortese ne l'aspetto e nei sembianti. -Costui, dopo il saluto, con bel modo -gli domandò s'aggiunto a moglie fosse. -Disse Rinaldo: — Io son nel giugal nodo: — -ma di tal domandar maravigliosse. -Soggiunse quel: — Che sia così, ne godo. — -Poi, per chiarir perché tal detto mosse, -disse: — Io ti priego che tu sia contento -ch'io ti dia questa sera alloggiamento; -che ti farò veder cosa che debbe -ben volentieri veder chi ha moglie a lato. — -Rinaldo, sì perché posar vorrebbe, -ormai di correr tanto affaticato; -sì perché di vedere e d'udire ebbe -sempre aventure un desiderio innato; -accettò l'offerir del cavalliero, -e dietro gli pigliò nuovo sentiero. -Un tratto d'arco fuor di strada usciro, -e inanzi un gran palazzo si trovaro, -onde scudieri in gran frotta veniro -con torchi accesi, e fero intorno chiaro. -Entrò Rinaldo, e voltò gli occhi in giro, -e vide loco il qual si vede raro, -di gran fabrica e bella e bene intesa; -né a privato uom convenia tanta spesa. -Di serpentin, di porfido le dure -pietre fan de la porta il ricco volto. -Quel che chiude è di bronzo, con figure -che sembrano spirar, muovere il volto. -Sotto un arco poi s'entra, ove misture -di bel musaico ingannan l'occhio molto. -Quindi si va in un quadro ch'ogni faccia -de le sue logge ha lunga cento braccia. -La sua porta ha per sé ciascuna loggia, -e tra la porta e sé ciascuna ha un arco: -d'ampiezza pari son, ma varia foggia -fe' d'ornamenti il mastro lor non parco. -Da ciascuno arco s'entra, ove si poggia -sì facil, ch'un somier vi può gir carco. -Un altro arco di su trova ogni scala; -e s'entra per ogni arco in una sala. -Gli archi di sopra escono fuor del segno -tanto, che fan coperchio alle gran porte; -e ciascun due colonne ha per sostegno, -altre di bronzo, altre di pietra forte. -Lungo sarà, se tutti vi disegno -gli ornati alloggiamenti de la corte; -e oltr'a quel ch'appar, quanti agi sotto -la cava terra il mastro avea ridotto. -L'alte colonne e i capitelli d'oro, -da che i gemmati palchi eran suffulti, -i peregrini marmi che vi foro -da dotta mano in varie forme sculti, -pitture e getti, e tant'altro lavoro -(ben che la notte agli occhi il più ne occulti), -mostran che non bastaro a tanta mole -di duo re insieme le ricchezze sole. -Sopra gli altri ornamenti ricchi e belli, -ch'erano assai ne la gioconda stanza, -v'era una fonte che per più ruscelli -spargea freschissime acque in abondanza. -Poste le mense avean quivi i donzelli; -ch'era nel mezzo per ugual distanza: -vedeva, e parimente veduta era -da quattro porte de la casa altiera. -Fatta da mastro diligente e dotto -la fonte era con molta e suttil opra, -di loggia a guisa, o padiglion ch'in otto -facce distinto, intorno adombri e cuopra. -Un ciel d'oro, che tutto era di sotto -colorito di smalto, le sta sopra; -ed otto statue son di marmo bianco, -che sostengon quel ciel col braccio manco. -Ne la man destra il corno d'Amaltea -sculto aveva lor l'ingenioso mastro, -onde con grato murmure cadea -l'acqua di fuore in vaso d'alabastro; -ed a sembianza di gran donna avea -ridutto con grande arte ogni pilastro. -Son d'abito e di faccia differente, -ma grazia hanno e beltà tutte ugualmente. -Fermava il piè ciascuno di questi segni -sopra due belle imagini più basse, -che con la bocca aperta facean segni -che 'l canto e l'armonia lor dilettasse; -e quell'atto in che son, par che disegni -che l'opra e studio lor tutto lodasse -le belle donne che sugli omeri hanno, -se fosser quei di cu' in sembianza stanno. -I simulacri inferiori in mano -avean lunghe ed amplissime scritture, -ove facean con molta laude piano -i nomi de le più degne figure; -e mostravano ancor poco lontano -i propri loro in note non oscure. -Mirò Rinaldo a lume di doppieri -le donne ad una ad una e i cavallieri. -La prima iscrizion ch'agli occhi occorre, -con lungo onor Lucrezia Borgia noma, -la cui bellezza ed onestà preporre -debbe all'antiqua la sua patria Roma. -I duo che voluto han sopra sé torre -tanto eccellente ed onorata soma, -noma lo scritto, Antonio Tebaldeo, -Ercole Strozza: un Lino ed uno Orfeo. -Non men gioconda statua né men bella -si vede appresso, e la scrittura dice: -— Ecco la figlia d'Ercole, Issabella, -per cui Ferrara si terrà felice -via più, perché in lei nata sarà quella, -che d'altro ben che prospera e fautrice -e benigna Fortuna dar le deve, -volgendo gli anni nel suo corso lieve. — -I duo che mostran disiosi affetti -che la gloria di lei sempre risuone, -Gian Iacobi ugualmente erano detti, -l'uno Calandra, e l'altro Bardelone. -Nel terzo e quarto loco ove per stretti -rivi l'acqua esce fuor del padiglione, -due donne son, che patria, stirpe, onore -hanno di par, di par beltà e valore. -Elissabetta l'una e Leonora -nominata era l'altra: e fia, per quanto -narrava il marmo sculto, d'esse ancora -sì gloriosa la terra di Manto, -che di Vergilio, che tanto l'onora, -più che di queste, non si darà vanto. -Avea la prima a piè del sacro lembo -Iacobo Sadoletto e Pietro Bembo. -Uno elegante Castiglione, e un culto -Muzio Arelio de l'altra eran sostegni. -Di questi nomi era il bel marmo sculto, -ignoti allora, or sì famosi e degni. -Veggon poi quella a cui dal cielo indulto -tanta virtù sarà, quanta ne regni, -o mai regnata in alcun tempo sia, -versata da Fortuna or buona or ria. -Lo scritto d'oro esser costei dichiara -Lucrezia Bentivoglia; e fra le lode -pone di lei, che 'l duca di Ferrara -d'esserle padre si rallegra e gode. -Di costei canta con soave e chiara -voce un Camil che 'l Reno e Felsina ode -con tanta attenzion, tanto stupore, -con quanta Anfriso udì già il suo pastore; -ed un per cui la terra, ove l'Isauro -le sue dolci acque insala in maggior vase, -nominata sarà da l'Indo al Mauro, -e da l'austrine all'iperboree case, -via più che per pesare il romano auro, -di che perpetuo nome le rimase; -Guido Postumo, a cui doppia corona -Pallade quinci, e quindi Febo dona. -L'altra che segue in ordine, è Diana. -— Non guardar (dice il marmo scritto) ch'ella -sia altiera in vista; che nel core umana -non sarà però men ch'in viso bella. — -Il dotto Celio Calcagnin lontana -farà la gloria e 'l bel nome di quella -nel regno di Monese, in quel di Iuba, -in India e Spagna udir con chiara tuba: -ed un Marco Cavallo, che tal fonte -farà di poesia nascer d'Ancona, -qual fe' il cavallo alato uscir del monte, -non so se di Parnasso o d'Elicona. -Beatrice appresso a questo alza la fronte, -di cui lo scritto suo così ragiona: -— Beatrice bea, vivendo, il suo consorte, -e lo lascia infelice alla sua morte; -anzi tutta l'Italia, che con lei -fia triunfante, e senza lei, captiva. — -Un signor di Coreggio di costei -con alto stil par che cantando scriva, -e Timoteo, l'onor de' Bendedei: -ambi faran tra l'una e l'altra riva -fermare al suon de' lor soavi plettri -il fiume ove sudar gli antiqui elettri. -Tra questo loco e quel de la colonna -che fu sculpita in Borgia, com'è detto, -formata in alabastro una gran donna -era di tanto e sì sublime aspetto, -che sotto puro velo, in nera gonna, -senza oro e gemme, in un vestire schietto, -tra le più adorne non parea men bella, -che sia tra l'altre la ciprigna stella. -Non si potea, ben contemplando fiso, -conoscer se più grazia o più beltade, -o maggior maestà fosse nel viso, -o più indizio d'ingegno o d'onestade. -— Chi vorrà di costei (dicea l'inciso -marmo) parlar, quanto parlar n'accade, -ben torrà impresa più d'ogn'altra degna; -ma non però ch'a fin mai se ne vegna. — -Dolce quantunque e pien di grazia tanto -fosse il suo bello e ben formato segno, -parea sdegnarsi che con umil canto -ardisse lei lodar sì rozzo ingegno, -com'era quel che sol, senz'altri a canto -(non so perché), le fu fatto sostegno. -Di tutto 'l resto erano i nomi sculti; -sol questi due l'artefice avea occulti. -Fanno le statue in mezzo un luogo tondo, -che 'l pavimento asciutto ha di corallo, -di freddo soavissimo giocondo, -che rendea il puro e liquido cristallo, -che di fuor cade in un canal fecondo, -che 'l prato verde, azzurro, bianco e giallo -rigando, scorre per vari ruscelli, -grato alle morbide erbe e agli arbuscelli. -Col cortese oste ragionando stava -il paladino a mensa; e spesso spesso, -senza più differir, gli ricordava -che gli attenesse quanto avea promesso: -e ad or ad or mirandolo, osservava -ch'avea di grande affanno il core oppresso; -che non può star momento che non abbia -un cocente sospiro in su le labbia. -Spesso la voce dal disio cacciata -viene a Rinaldo sin presso alla bocca -per domandarlo; e quivi, raffrenata -di cortese modestia, fuor non scocca. -Ora essendo la cena terminata, -ecco un donzello a chi l'ufficio tocca, -pon su la mensa un bel nappo d'or fino, -di fuor di gemme, e dentro pien di vino. -Il signor de la casa allora alquanto -sorridendo, a Rinaldo levò il viso; -ma chi ben lo notava, più di pianto -parea ch'avesse voglia che di riso. -Disse: — Ora a quel che mi ricordi tanto, -che tempo sia di sodisfar m'è aviso; -mostrarti un paragon ch'esser de' grato -di vedere a ciascun c'ha moglie allato. -Ciascun marito, a mio giudizio, deve -sempre spiar se la sua donna l'ama; -saper s'onore o biasmo ne riceve, -se per lei bestia, o se pur uom si chiama. -L'incarco de le corna è lo più lieve -ch'al mondo sia, se ben l'uom tanto infama: -lo vede quasi tutta l'altra gente; -e chi l'ha in capo, mai non se lo sente. -Se tu sai che fedel la moglie sia, -hai di più amarla e d'onorar ragione, -che non ha quel che la conosce ria, -o quel che ne sta in dubbio e in passione. -Di molte n'hanno a torto gelosia -i lor mariti, che son caste e buone: -molti di molte anco sicuri stanno, -che con le corna in capo se ne vanno. -Se vuoi saper se la tua sia pudica -(come io credo che credi, e creder déi; -ch'altrimente far credere è fatica, -se chiaro già per prova non ne sei), -tu per te stesso, senza ch'altri il dica, -te n'avvedrai, s'in questo vaso bei; -che per altra cagion non è qui messo, -che per mostrarti quanto io t'ho promesso. -Se béi con questo, vedrai grande effetto; -che se porti il cimier di Cornovaglia, -il vin ti spargerai tutto sul petto, -né gocciola sarà ch'in bocca saglia: -ma s'hai moglie fedel, tu berai netto. -Or di veder tua sorte ti travaglia. — -Così dicendo, per mirar tien gli occhi, -ch'in seno il vin Rinaldo si trabbocchi. -Quasi Rinaldo di cercar suaso -quel che poi ritrovar non vorria forse, -messa la mano inanzi, e preso il vaso, -fu presso di volere in prova porse: -poi, quanto fosse periglioso il caso -a porvi i labri, col pensier discorse. -Ma lasciate, Signor, ch'io mi ripose; -poi dirò quel che 'l paladin rispose. -O esecrabile Avarizia, o ingorda -fame d'avere, io non mi maraviglio -ch'ad alma vile e d'altre macchie lorda, -sì facilmente dar possi di piglio; -ma che meni legato in una corda, -e che tu impiaghi del medesmo artiglio -alcun, che per altezza era d'ingegno, -se te schivar potea, d'ogni onor degno. -Alcun la terra e 'l mare e 'l ciel misura, -e render sa tutte le cause a pieno -d'ogni opra, d'ogni effetto di Natura, -e poggia sì ch'a Dio riguarda in seno; -e non può aver più ferma e maggior cura, -morso dal tuo mortifero veleno, -ch'unir tesoro: e questo sol gli preme, -e ponvi ogni salute, ogni sua speme. -Rompe eserciti alcuno, e ne le porte -si vede entrar di bellicose terre, -ed esser primo a porre il petto forte, -ultimo a trarre, in perigliose guerre; -e non può riparar che sino a morte -tu nel tuo cieco carcere nol serre. -Altri d'altre arti e d'altri studi industri, -oscuri fai, che sarian chiari e illustri. -Che d'alcune dirò belle e gran donne -ch'a bellezza, a virtù de fidi amanti, -a lunga servitù, più che colonne -io veggo dure, immobili e costanti? -Veggo venir poi l'Avarizia, e ponne -far sì, che par che subito le incanti: -in un dì, senza amor (chi fia che 'l creda?) -a un vecchio, a un brutto, a un mostro le dà in preda. -Non è senza cagion s'io me ne doglio: -intendami chi può, che m'intend'io. -Né però di proposito mi toglio, -né la materia del mio canto oblio; -ma non più a quel c'ho detto, adattar voglio, -ch'a quel ch'io v'ho da dire, il parlar mio. -Or torniamo a contar del paladino -ch'ad assaggiare il vaso fu vicino. -Io vi dicea ch'alquanto pensar volle, -prima ch'ai labri il vaso s'appressasse. -Pensò, e poi disse: — Ben sarebbe folle -chi quel che non vorria trovar, cercasse. -Mia donna è donna, ed ogni donna è molle: -lasciàn star mia credenza come stasse. -Sin qui m'ha il creder mio giovato, e giova: -che poss'io megliorar per farne prova? -Potria poco giovare e nuocer molto; -che 'l tentar qualche volta Idio disdegna. -Non so s'in questo io mi sia saggio o stolto; -ma non vo' più saper, che mi convegna. -Or questo vin dinanzi mi sia tolto: -sete non n'ho, né vo' che me ne vegna; -che tal certezza ha Dio più proibita, -ch'al primo padre l'arbor de la vita. -Che come Adam, poi che gustò del pomo -che Dio con propria bocca gl'interdisse, -da la letizia al pianto fece un tomo, -onde in miseria poi sempre s'afflisse; -così, se de la moglie sua vuol l'uomo -tutto saper quanto ella fece e disse, -cade de l'allegrezze in pianti e in guai, -onde non può più rilevarsi mai. — -Così dicendo il buon Rinaldo, e intanto -respingendo da sé l'odiato vase, -vide abondare un gran rivo di pianto -dagli occhi del signor di quelle case, -che disse, poi che racchetossi alquanto: -— Sia maledetto chi mi persuase -ch'io facesse la prova, ohimè! di sorte, -che mi levò la dolce mia consorte. -Perché non ti conobbi già dieci anni, -sì che io mi fossi consigliato teco, -prima che cominciassero gli affanni, -e 'l lungo pianto onde io son quasi cieco? -Ma vo' levarti da la scena i panni; -che 'l mio mal vegghi, e te ne dogli meco: -e ti dirò il principio e l'argumento -del mio non comparabile tormento. -Qua su lasciasti una città vicina, -a cui fa intorno un chiaro fiume laco, -che poi si stende e in questo Po declina, -e l'origine sua vien di Benaco. -Fu fatta la città, quando a ruina -le mura andar de l'agenoreo draco. -Quivi nacque io di stirpe assai gentile, -ma in pover tetto e in facultade umile. -Se Fortuna di me non ebbe cura -sì che mi desse al nascer mio ricchezza, -al diffetto di lei supplì Natura, -che sopra ogni mio ugual mi diè bellezza. -Donne e donzelle già di mia figura -arder più d'una vidi in giovanezza; -ch'io ci seppi accoppiar cortesi modi; -ben che stia mal che l'uom se stesso lodi. -Ne la nostra cittade era un uom saggio, -di tutte l'arti oltre ogni creder dotto, -che quando chiuse gli occhi al febeo raggio, -contava gli anni suoi cento e ventotto. -Visse tutta sua età solo e selvaggio, -se non l'estrema; che d'Amor condotto, -con premio ottenne una matrona bella, -e n'ebbe di nascosto una cittella. -E per vietar che simil la figliuola -alla matre non sia, che per mercede -vendé sua castità che valea sola -più che quanto oro al mondo si possiede, -fuor del commercio popular la invola; -ed ove più solingo il luogo vede, -questo amplo e bel palagio e ricco tanto -fece fare a' demoni per incanto. -A vecchie donne e caste fe' nutrire -la figlia qui, ch'in gran beltà poi venne; -né che potesse altr'uom veder, né udire -pur ragionarne in quella età, sostenne. -E perch'avesse esempio da seguire, -ogni pudica donna che mai tenne -contra illicito amor chiuse le sbarre, -ci fe' d'intaglio o di color ritrarre: -non quelle sol che di virtude amiche -hanno sì il mondo all'età prisca adorno; -di quai la fama per l'istorie antiche -non è per veder mai l'ultimo giorno: -ma nel futuro ancora altre pudiche -che faran bella Italia d'ogn'intorno, -ci fe' ritrarre in lor fattezze conte, -come otto che ne vedi a questa fonte. -Poi che la figlia al vecchio par matura -sì, che ne possa l'uom cogliere i frutti; -o fosse mia disgrazia o mia aventura, -eletto fui degno di lei fra tutti. -I lati campi oltre alle belle mura, -non meno i pescarecci, che gli asciutti, -che ci son d'ogn'intorno a venti miglia, -mi consegnò per dote de la figlia. -Ella era bella e costumata tanto, -che più desiderar non si potea. -Di bei trapunti e di riccami, quanto -mai ne sapesse Pallade, sapea. -Vedila andare, odine il suono e 'l canto: -celeste e non mortal cosa parea. -E in modo all'arti liberali attese, -che, quanto il padre, o poco men n'intese. -Con grande ingegno, e non minor bellezza -che fatta l'avria amabil fin ai sassi, -era giunto un amore, una dolcezza, -che par ch'a rimembrarne il cor mi passi. -Non aveva più piacer né più vaghezza, -che d'esser meco ov'io mi stessi o andassi. -Senza aver lite mai stemmo gran pezzo: -l'avemmo poi, per colpa mia, da sezzo. -Morto il suocero mio dopo cinque anni -ch'io sottoposi il collo al giugal nodo, -non stero molto a cominciar gli affanni -ch'io sento ancora, e ti dirò in che modo. -Mentre mi rinchiudea tutto coi vanni -l'amor di questa mia che sì ti lodo, -una femina nobil del paese, -quanto accender si può, di me s'accese. -Ella sapea d'incanti e di malie -quel che saper ne possa alcuna maga: -rendea la notte chiara, oscuro il die -fermava il sol, facea la terra vaga. -Non potea trar però le voglie mie, -che le sanassin l'amorosa piaga -col rimedio che dar non le potria -senza alta ingiuria de la donna mia. -Non perché fosse assai gentile e bella, -né perché sapess'io che sì me amassi, -né per gran don, né per promesse ch'ella -mi fêsse molte, e di continuo instassi, -ottener poté mai ch'una fiammella, -per darla a lei, del primo amor levassi; -ch'a dietro ne traea tutte mie voglie -il conoscermi fida la mia moglie. -La speme, la credenza, la certezza -che de la fede di mia moglie avea, -m'avria fatto sprezzar quanta bellezza -avesse mai la giovane ledea, -o quanto offerto mai senno e ricchezza -fu al gran pastor de la montagna Idea. -Ma le repulse mie non valean tanto, -che potesson levarmela da canto. -Un dì che mi trovò fuor del palagio -la maga, che nomata era Melissa, -e mi poté parlare a suo grande agio, -modo trovò da por mia pace in rissa, -e con lo spron di gelosia malvagio -cacciar del cor la fé che v'era fissa. -Comincia a comendar la intenzion mia, -ch'io sia fedele a chi fedel mi sia. -— Ma che ti sia fedel, tu non puoi dire, -prima che di sua fé prova non vedi. -S'ella non falle, e che potria fallire, -che sia fedel, che sia pudica credi. -Ma se mai senza te non la lasci ire, -se mai vedere altr'uom non le concedi, -onde hai questa baldanza, che tu dica -e mi vogli affermar che sia pudica? -Scostati un poco, scostati da casa; -fa che le cittadi odano e i villaggi, -che tu sia andato, e ch'ella sia rimasa; -agli amanti dà commodo e ai messaggi. -S'a prieghi, a doni non fia persuasa -di fare al letto maritale oltraggi, -e che, facendol, creda che si cele, -allora dir potrai che sia fedele. — -Con tal parole e simili non cessa -l'incantatrice, fin che mi dispone -che de la donna mia la fede espressa -veder voglia, e provare a paragone. -— Ora pogniamo (le soggiungo) ch'essa -sia qual non posso averne opinione: -come potrò di lei poi farmi certo -che sia di punizion degna o di merto? — -Disse Melissa: — Io ti darò un vasello -fatto da ber, di virtù rara e strana; -qual già per fare accorto il suo fratello -del fallo di Genevra, fe' Morgana. -Chi la moglie ha pudica, bee con quello: -ma non vi può già ber chi l'ha puttana; -che 'l vin, quando lo crede in bocca porre, -tutto si sparge, e fuor nel petto scorre. -Prima che parti, ne farai la prova, -e per lo creder mio tu berai netto; -che credo ch'ancor netta si ritrova -la moglie tua: pur ne vedrai l'effetto. -Ma s'al ritorno esperienza nuova -poi ne farai, non t'assicuro il petto: -che se tu non lo immolli, e netto bèi, -d'ogni marito il più felice sei. — -L'offerta accetto; il vaso ella mi dona: -ne fo la prova, e mi succede a punto; -che, com'era il disio, pudica e buona -la cara moglie mia trovo a quel punto. -Dice Melissa: — Un poco l'abbandona; -per un mese o per duo stanne disgiunto: -poi torna; poi di nuovo il vaso tolli; -prova se bevi, o pur se 'l petto immolli. — -A me duro parea pur di partire; -non perché di sua fe' sì dubitassi, -come ch'io non potea duo dì patire, -né un'ora pur, che senza me restassi. -Disse Melissa: — Io ti farò venire -a conoscere il ver con altri passi. -Vo' che muti il parlare e i vestimenti, -e sotto viso altrui te l'appresenti. — -Signor, qui presso una città difende -il Po fra minacciose e fiere corna; -la cui iuridizion di qui si stende -fin dove il mar fugge dal lito e torna. -Cede d'antiquità, ma ben contende -con le vicine in esser ricca e adorna. -Le reliquie troiane la fondaro, -che dal flagello d'Attila camparo. -Astringe e lenta a questa terra il morso -un cavallier giovene, ricco e bello, -che dietro un giorno a un suo falcone iscorso, -essendo capitato entro il mio ostello, -vide la donna, e sì nel primo occorso -gli piacque, che nel cor portò il suggello; -né cessò molte pratiche far poi, -per inchinarla ai desideri suoi. -Ella gli fece dar tante repulse, -che più tentarla al fine egli non volse; -ma la beltà di lei, ch'Amor vi sculse, -di memoria però non se gli tolse. -Tanto Melissa allosingommi e mulse, -ch'a tor la forma di colui mi volse; -e mi mutò (né so ben dirti come) -di faccia, di parlar, d'occhi e di chiome. -Già con mia moglie avendo simulato -d'esser partito e gitone in Levante, -nel giovene amator così mutato -l'andar, la voce, l'abito e 'l sembiante, -me ne ritorno, ed ho Melissa a lato, -che s'era trasformata, e parea un fante; -e le più ricche gemme avea con lei, -che mai mandassin gl'Indi o gli Eritrei. -Io che l'uso sapea del mio palagio, -entro sicuro e vien Melissa meco; -e madonna ritrovo a sì grande agio, -che non ha né scudier né donna seco. -I miei prieghi le espongo, indi il malvagio -stimulo inanzi del mal far le arreco: -i rubini, i diamanti e gli smeraldi, -che mosso arebbon tutti i cor più saldi. -E le dico che poco è questo dono -verso quel che sperar da me dovea: -de la commodità poi le ragiono, -che, non v'essendo il suo marito, avea: -e le ricordo che gran tempo sono -stato suo amante, com'ella sapea; -e che l'amar mio lei con tanta fede -degno era avere al fin qualche mercede. -Turbossi nel principio ella non poco, -divenne rossa, ed ascoltar non volle; -ma il veder fiammeggiar poi, come fuoco, -le belle gemme, il duro cor fe' molle: -e con parlar rispose breve e fioco, -quel che la vita a rimembrar mi tolle; -che mi compiaceria, quando credesse -ch'altra persona mai nol risapesse. -Fu tal risposta un venenato telo -di che me ne senti' l'alma traffissa: -per l'ossa andommi e per le vene un gelo; -ne le fauci restò la voce fissa. -Levando allora del suo incanto il velo, -ne la mia forma mi tornò Melissa. -Pensa di che color dovesse farsi, -ch'in tanto error da me vide trovarsi. -Divenimmo ambi di color di morte, -muti ambi, ambi restiàn con gli occhi bassi. -Potei la lingua a pena aver sì forte, -e tanta voce a pena, ch'io gridassi: -— Me tradiresti dunque tu, consorte, -quando tu avessi chi 'l mio onor comprassi? — -Altra risposta darmi ella non puote, -che di rigar di lacrime le gote. -Ben la vergogna è assai, ma più lo sdegno -ch'ella ha, da me veder farsi quella onta; -e multiplica sì senza ritegno, -ch'in ira al fine e in crudele odio monta. -Da me fuggirsi tosto fa disegno; -e ne l'ora che 'l Sol del carro smonta, -al fiume corre, e in una sua barchetta -si fa calar tutta la notte in fretta: -e la matina s'appresenta avante -al cavallier che l'avea un tempo amata, -sotto il cui viso, sotto il cui sembiante -fu contra l'onor mio da me tentata. -A lui che n'era stato ed era amante, -creder si può che fu la giunta grata. -Quindi ella mi fe' dir ch'io non sperassi -che mai più fosse mia, né più m'amassi. -Ah lasso! da quel dì con lui dimora -in gran piacere, e di me prende giuoco; -ed io del mal che procacciammi allora, -ancor languisco, e non ritrovo loco. -Cresce il mal sempre, e giusto è ch'io ne muora; -e resta omai da consumarci poco. -Ben credo che 'l primo anno sarei morto, -se non mi dava aiuto un sol conforto. -Il conforto ch'io prendo, è che di quanti -per dieci anni mai fur sotto al mio tetto -(ch'a tutti questo vaso ho messo inanti), -non ne trovo un che non s'immolli il petto. -Aver nel caso mio compagni tanti -mi dà fra tanto mal qualche diletto. -Tu tra infiniti sol sei stato saggio, -che far negasti il periglioso saggio. -Il mio voler cercare oltre alla meta -che de la donna sua cercar si deve, -fa che mai più trovare ora quieta -non può la vita mia, sia lunga o breve. -Di ciò Melissa fu a principio lieta: -ma cessò tosto la sua gioia lieve; -ch'essendo causa del mio mal stata ella, -io l'odiai sì, che non potea vedella. -Ella d'esser odiata impaziente -da me che dicea amar più che sua vita, -ove donna restarne immantinente -creduto avea, che l'altra ne fosse ita; -per non aver sua doglia sì presente, -non tardò molto a far di qui partita; -e in modo abbandonò questo paese, -che dopo mai per me non se n'intese. — -Così narrava il mesto cavalliero: -e quando fine alla sua istoria pose, -Rinaldo alquanto ste' sopra pensiero, -da pietà vinto, e poi così rispose: -— Mal consiglio ti diè Melissa in vero, -che d'attizzar le vespe ti propose; -e tu fusti a cercar poco avveduto -quel che tu avresti non trovar voluto. -Se d'avarizia la tua donna vinta -a voler fede romperti fu indutta, -non t'ammirar; né prima ella né quinta -fu de le donne prese in sì gran lutta; -e mente via più salda ancora è spinta -per minor prezzo a far cosa più brutta. -Quanti uomini odi tu, che già per oro -han traditi padroni e amici loro? -Non dovevi assalir con sì fiere armi, -se bramavi veder farle difesa. -Non sai tu, contra l'oro, che né i marmi -né 'l durissimo acciar sta alla contesa? -Che più fallasti tu a tentarla parmi, -di lei che così tosto restò presa. -Se te altretanto avesse ella tentato, -non so se tu più saldo fossi stato. — -Qui Rinaldo fe' fine, e da la mensa -levossi a un tempo, e domandò dormire; -che riposare un poco, e poi si pensa -inanzi al dì d'un'ora o due partire. -Ha poco tempo, e 'l poco c'ha, dispensa -con gran misura, e invan nol lascia gire. -Il signor di là dentro, a suo piacere, -disse, che si potea porre a giacere; -ch'apparecchiata era la stanza e 'l letto: -ma che se volea far per suo consiglio, -tutta notte dormir potria a diletto, -e dormendo avanzarsi qualche miglio. -— Acconciar ti farò (disse) un legnetto, -con che volando, e senz'alcun periglio -tutta notte dormendo vo' che vada, -e una giornata avanzi de la strada. — -La proferta a Rinaldo accettar piacque, -e molto ringraziò l'oste cortese: -poi senza indugio là, dove ne l'acque -da' naviganti era aspettato, scese. -Quivi a grande agio riposato giacque, -mentre il corso del fiume il legno prese, -che da sei remi spinto, lieve e snello -pel fiume andò, come per l'aria augello. -Così tosto come ebbe il capo chino, -il cavallier di Francia adormentosse; -imposto avendo già, come vicino -giungea a Ferrara, che svegliato fosse. -Restò Melara nel lito mancino; -nel lito destro Sermide restosse: -Figarolo e Stellata il legno passa, -ove le corna il Po iracondo abbassa. -De le due corna il nocchier prese il destro, -e lasciò andar verso Vinegia il manco; -passò il Bondeno: e già il color cilestro -si vedea in oriente venir manco, -che votando di fior tutto il canestro, -l'Aurora vi facea vermiglio e bianco; -quando, lontan scoprendo di Tealdo -ambe le rocche, il capo alzò Rinaldo. -— O città bene aventurosa (disse), -di cui già Malagigi, il mio cugino, -contemplando le stelle erranti e fisse, -e costringendo alcun spirto indovino, -nei secoli futuri mi predisse -(già ch'io facea con lui questo camino) -ch'ancor la gloria tua salirà tanto, -ch'avrai di tutta Italia il pregio e 'l vanto. — -Così dicendo, e pur tuttavia in fretta -su quel battel che parea aver le penne, -scorrendo il re de' fiumi, all'isoletta -ch'alla cittade è più propinqua, venne: -e ben che fosse allora erma e negletta, -pur s'allegrò di rivederla, e fenne -non poca festa; che sapea quanto ella, -volgendo gli anni, saria ornata e bella. -Altra fiata che fe' questa via, -udì da Malagigi, il qual seco era, -che settecento volte che si sia -girata col monton la quarta sfera, -questa la più ioconda isola fia -di quante cinga mar, stagno o riviera; -sì che, veduta lei, non sarà ch'oda -dar più alla patria di Nausicaa loda. -Udì che di bei tetti posta inante -sarebbe a quella sì a Tiberio cara; -che cederian l'Esperide alle piante -ch'avria il bel loco, d'ogni sorte rara; -che tante spezie d'animali, quante -vi fien, né in mandra Circe ebbe né in hara; -che v'avria con le Grazie e con Cupido -Venere stanza, e non più in Cipro o in Gnido: -e che sarebbe tal per studio e cura -di chi al sapere ed al potere unita -la voglia avendo, d'argini e di mura -avria sì ancor la sua città munita, -che contra tutto il mondo star sicura -potria, senza chiamar di fuori aita: -e che d'Ercol figliuol, d'Ercol sarebbe -padre il signor che questo e quel far debbe. -Così venìa Rinaldo ricordando -quel che già il suo cugin detto gli avea, -de le future cose divinando, -che spesso conferir seco solea. -E tuttavia l'umil città mirando: -— Come esser può ch'ancor (seco dicea) -debban così fiorir queste paludi -de tutti i liberali e degni studi? -e crescer abbia di sì piccol borgo -ampla cittade e di sì gran bellezza? -e ciò ch'intorno è tutto stagno e gorgo, -sien lieti e pieni campi di ricchezza? -Città, sin ora a riverire assorgo -l'amor, la cortesia, la gentilezza -de' tuoi signori, e gli onorati pregi -dei cavallier, dei cittadini egregi. -L'ineffabil bontà del Redentore, -de' tuoi principi il senno e la iustizia, -sempre con pace, sempre con amore -ti tenga in abondanza ed in letizia; -e ti difenda contra ogni furore -de' tuoi nimici, e scuopra lor malizia: -del tuo contento ogni vicino arrabbi, -più tosto che tu invidia ad alcuno abbi. — -Mentre Rinaldo così parla, fende -con tanta fretta il suttil legno l'onde, -che con maggiore a logoro non scende -falcon ch'al grido del padron risponde. -Del destro corno il destro ramo prende -quindi il nocchiero, e mura e tetti asconde: -San Georgio a dietro, a dietro s'allontana -la torre e de la Fossa e di Gaibana. -Rinaldo, come accade ch'un pensiero -un altro dietro, e quello un altro mena, -si venne a ricordar del cavalliero -nel cui palagio fu la sera a cena; -che per questa cittade, a dire il vero, -avea giusta cagion di stare in pena: -e ricordossi del vaso da bere, -che mostra altrui l'error de la mogliere; -e ricordossi insieme de la prova -che d'aver fatta il cavallier narrolli; -che di quanti avea esperti, uomo non trova -che bea nel vaso, e 'l petto non s'immolli. -Or si pente, or tra sé dice: — E' mi giova -ch'a tanto paragon venir non volli. -Riuscendo, accertava il creder mio; -non riuscendo, a che partito era io? -Gli è questo creder mio, come io l'avessi -ben certo, e poco accrescer lo potrei: -sì che, s'al paragon mi succedessi, -poco il meglio saria ch'io ne trarrei; -ma non già poco il mal, quando vedessi -quel di Clarice mia, ch'io non vorrei. -Metter saria mille contra uno a giuoco; -che perder si può molto, e acquistar poco. — -Stando in questo pensoso il cavalliero -di Chiaramonte, e non alzando il viso, -con molta attenzion fu da un nocchiero -che gli era incontra, riguardato fiso: -e perché di veder tutto il pensiero -che l'occupava tanto, gli fu aviso, -come uom che ben parlava ed avea ardire, -a seco ragionar lo fece uscire. -La somma fu del lor ragionamento, -che colui malaccorto era ben stato, -che ne la moglie sua l'esperimento -maggior che può far donna, avea tentato; -che quella che da l'oro e da l'argento -difende il cor di pudicizia armato, -tra mille spade via più facilmente -difenderallo, e in mezzo al fuoco ardente. -Il nocchier suggiungea: — Ben gli dicesti, -che non dovea offerirle sì gran doni; -che contrastare a questi assalti e a questi -colpi non sono tutti i petti buoni. -Non so se d'una giovane intendesti -(ch'esser pò che tra voi se ne ragioni), -che nel medesmo error vide il consorte, -di ch'esso avea lei condannata a morte. -Dovea in memoria avere il signor mio, -che l'oro e 'l premio ogni durezza inchina; -ma, quando bisognò, l'ebbe in oblio, -ed ei si procacciò la sua ruina. -Così sapea lo esempio egli, com'io, -che fu in questa città di qui vicina, -sua patria e mia, che 'l lago e la palude -del rifrenato Menzo intorno chiude: -d'Adonio voglio dir, che 'l ricco dono -fe' alla moglie del giudice, d'un cane. — -— Di questo (disse il paladino) il suono -non passa l'Alpe, e qui tra voi rimane; -perché né in Francia, né dove ito sono, -parlar n'udi' ne le contrade estrane: -sì che dì pur, se non t'incresce il dire; -che volentieri io mi t'acconcio a udire. — -Il nocchier cominciò: — Già fu di questa -terra un Anselmo di famiglia degna, -che la sua gioventù con lunga vesta -spese in saper ciò ch'Ulpiano insegna -e di nobil progenie, bella e onesta -moglie cercò, ch'al grado suo convegna; -e d'una terra quindi non lontana -n'ebbe una di bellezza sopraumana; -e di bei modi e tanto graziosi, -che parea tutto amore e leggiadria; -e di molto più forse, ch'ai riposi, -ch'allo stato di lui non convenia. -Tosto che l'ebbe, quanti mai gelosi -al mondo fur, passò di gelosia: -non già ch'altra cagion gli ne desse ella, -che d'esser troppo accorta e troppo bella. -Ne la città medesma un cavalliero -era d'antiqua e d'onorata gente, -che discendea da quel lignaggio altiero -ch'uscì d'una mascella di serpente, -onde già Manto, e chi con essa fero -la patria mia, disceser similmente. -Il cavallier, ch'Adonio nominosse, -di questa bella donna inamorosse. -E per venire a fin di questo amore, -a spender cominciò senza ritegno -in vestire, in conviti, in farsi onore, -quanto può farsi un cavallier più degno. -Il tesor di Tiberio imperatore -non saria stato a tante spese al segno. -Io credo ben che non passar duo verni, -ch'egli uscì fuor di tutti i ben paterni. -La casa ch'era dianzi frequentata -matina e sera tanto dagli amici, -sola restò, tosto che fu privata -di starne, di fagian, di coturnici. -Egli che capo fu de la brigata, -rimase dietro, e quasi fra mendici. -Pensò, poi ch'in miseria era venuto, -d'andare ove non fosse conosciuto. -Con questa intenzione una mattina, -senza far motto altrui, la patria lascia; -e con sospiri e lacrime camina -lungo lo stagno che le mura fascia. -La donna che del cor gli era regina, -già non oblia per la seconda ambascia. -Ecco un'alta aventura che lo viene -di sommo male a porre in sommo bene. -Vede un villan che con un gran bastone -intorno alcuni sterpi s'affatica. -Quivi Adonio si ferma, e la cagione -di tanto travagliar vuol che gli dica. -Disse il villan, che dentro a quel macchione -veduto avea una serpe molto antica, -di che più lunga e grossa a' giorni suoi -non vide, né credea mai veder poi; -e che non si voleva indi partire, -che non l'avesse ritrovata e morta. -Come Adonio lo sente così dire, -con poca pazienza lo sopporta. -Sempre solea le serpi favorire; -che per insegna il sangue suo le porta -in memoria ch'uscì sua prima gente -de' denti seminati di serpente. -e disse e fece col villano in guisa -che, suo mal grado, abbandonò l'impresa; -sì che da lui non fu la serpe uccisa, -né più cercata, né altrimenti offesa. -Adonio ne va poi dove s'avisa -che sua condizion sia meno intesa; -e dura con disagio e con affanno -fuor de la patria appresso al settimo anno. -Né mai per lontananza, né strettezza -del viver, che i pensier non lascia ir vaghi, -cessa Amor che sì gli ha la mano avezza, -ch'ognor non li arda il core, ognor impiaghi. -È forza al fin che torni alla bellezza -che son di riveder sì gli occhi vaghi. -Barbuto, afflitto, e assai male in arnese, -là donde era venuto, il camin prese. -In questo tempo alla mia patria accade -mandare uno oratore al Padre santo, -che resti appresso alla sua Santitade -per alcun tempo e non fu detto quanto. -Gettan la sorte, e nel giudice cade. -Oh giorno a lui cagion sempre di pianto! -Fe' scuse, pregò assai, diede e promesse -per non partirsi; e al fin sforzato cesse. -Non gli parea crudele e duro manco -a dover sopportar tanto dolore, -che se veduto aprir s'avesse il fianco, -e vedutosi trar con mano il core. -Di geloso timor pallido e bianco -per la sua donna, mentre staria fuore, -lei con quei modi che giovar si crede, -supplice priega a non mancar di fede: -dicendole ch'a donna né bellezza, -né nobiltà, né gran fortuna basta, -sì che di vero onor monti in altezza, -se per nome e per opre non è casta; -e che quella virtù via più si prezza, -che di sopra riman quando contrasta, -e ch'or gran campo avria per questa assenza, -di far di pudicizia esperienza. -Con tai le cerca ed altre assai parole -persuader ch'ella gli sia fedele. -De la dura partita ella si duole, -con che lacrime, oh Dio! con che querele! -E giura che più tosto oscuro il sole -vedrassi, che gli sia mai sì crudele, -che rompa fede; e che vorria morire -più tosto ch'aver mai questo desire. -Ancor ch'a sue promesse e a suoi scongiuri -desse credenza e si achetasse alquanto, -non resta che più intender non procuri, -e che materia non procacci al pianto. -Avea uno amico suo, che dei futuri -casi predir teneva il pregio e 'l vanto; -e d'ogni sortilegio e magica arte, -o il tutto, o ne sapea la maggior parte. -Diegli, pregando di vedere assunto, -se la sua moglie, nominata Argia, -nel tempo che da lei starà disgiunto, -fedele e casta, o pel contario fia. -Colui da prieghi vinto, tolle il punto, -il ciel figura come par che stia. -Anselmo il lascia in opra, e l'altro giorno -a lui per la risposta fa ritorno. -L'astrologo tenea le labra chiuse, -per non dire al dottor cosa che doglia, -e cerca di tacer con molte scuse. -Quando pur del suo mal vede c'ha voglia, -che gli romperà fede gli concluse, -tosto ch'egli abbia il piè fuor de la soglia, -non da bellezza né da prieghi indotta, -ma da guadagno e da prezzo corrotta. -Giunte al timore, al dubbio ch'avea prima, -queste minacce dei superni moti, -come gli stesse il cor, tu stesso stima, -se d'amor gli accidenti ti son noti. -E sopra ogni mestizia che l'opprima, -e che l'afflitta mente aggiri e arruoti, -è 'l saper come, vinta d'avarizia, -per prezzo abbia a lasciar sua pudicizia. -Or per far quanti potea far ripari -da non lasciarla in quel error cadere -(perché il bisogno a dispogliar gli altari -tra' l'uom talvolta, che sel trova avere), -ciò che tenea di gioie e di danari -(che n'avea somma) pose in suo potere: -rendite e frutti d'ogni possessione, -e ciò c'ha al mondo, in man tutto le pone. -— Con facultade (disse) che ne' tuoi -non sol bisogni te li goda e spenda, -ma che ne possi far ciò che ne vuoi, -li consumi, li getti, e doni e venda; -altro conto saper non ne vo' poi, -pur che, qual ti lascio or, tu mi ti renda: -pur che, come or tu sei, mi sie rimasa, -fa che io non trovi né poder né casa. — -La prega che non faccia, se non sente -ch'egli ci sia, ne la città dimora; -ma ne la villa, ove più agiatamente -viver potrà d'ogni commercio fuora. -Questo dicea, però che l'umil gente -che nel gregge o ne' campi gli lavora, -non gli era aviso che le caste voglie -contaminar potessero alla moglie. -Tenendo tuttavia le belle braccia -al timido marito al collo Argia, -e di lacrime empiendogli la faccia, -ch'un fiumicel dagli occhi le n'uscia; -s'attrista che colpevole la faccia, -come di fé mancata già gli sia; -che questa sua sospizion procede, -perché non ha ne la sua fede fede. -Troppo sarà, s'io voglio ir rimembrando -ciò ch'al partir da tramendua fu detto. -— Il mio onor (dice al fin) ti raccomando: — -piglia licenza, e partesi in effetto; -e ben si sente veramente, quando -volge il cavallo, uscire il cor del petto. -Ella lo segue, quanto seguir puote, -con gli occhi che le rigano le gote. -Adonio intanto misero e tapino, -e (come io dissi) pallido e barbuto, -verso la patria avea preso il camino, -sperando di non esser conosciuto. -Sul lago giunse alla città vicino, -là dove avea dato alla biscia aiuto, -ch'era assediata entro la macchia forte -da quel villan che por la volea a morte. -Quivi arrivando in su l'aprir del giorno, -ch'ancor splendea nel cielo alcuna stella, -si vede in peregrino abito adorno -venir pel lito incontra una donzella -in signoril sembiante, ancor ch'intorno -non l'apparisse né scudier né ancella. -Costei con grata vista lo raccolse, -e poi la lingua a tai parole sciolse: -— Se ben non mi conosci, o cavalliero, -son tua parente, e grande obligo t'aggio: -parente son, perché da Cadmo fiero -scende d'amenduo noi l'alto lignaggio. -Io son la fata Manto, che 'l primiero -sasso messi a fondar questo villaggio; -e dal mio nome (come ben forse hai -contare udito) Mantua la nomai. -De le fate io son una; ed il fatale -stato per farti anco saper ch'importe, -nascemo a un punto, che d'ogn'altro male -siamo capaci, fuor che de la morte. -Ma giunto è con questo essere immortale -condizion non men del morir forte; -ch'ogni settimo giorno ogniuna è certa -che la sua forma in biscia si converta. -Il vedersi coprir del brutto scoglio, -e gir serpendo, è cosa tanto schiva, -che non è pare al mondo altro cordoglio; -tal che bestemmia ogniuna d'esser viva. -E l'obbligo ch'io t'ho (perché ti voglio -insiememente dire onde deriva), -tu saprai che quel dì, per esser tali, -siamo a periglio d'infiniti mali. -Non è sì odiato altro animale in terra, -come la serpe; e noi, che n'abbiàn faccia, -patimo da ciascuno oltraggio e guerra; -che chi ne vede, ne percuote e caccia. -Se non troviamo ove tornar sotterra, -sentiamo quanto pesa altrui le braccia. -Meglio saria poter morir, che rotte -e storpiate restar sotto le botte. -L'obligo ch'io t'ho grande, è ch'una volta -che tu passavi per quest'ombre amene, -per te di mano fui d'un villan tolta, -che gran travagli m'avea dati e pene. -Se tu non eri, io non andava asciolta, -ch'io non portassi rotto e capo e schene, -e che sciancata non restassi e storta, -se ben non vi potea rimaner morta: -perché quei giorni che per terra il petto -traemo avvolte in serpentile scorza, -il ciel ch'in altri tempi è a noi suggetto, -niega ubbidirci, e prive siàn di forza. -In altri tempi ad un sol nostro detto -il sol si ferma e la sua luce ammorza; -l'immobil terra gira e muta loco; -s'infiamma il ghiaccio, e si congela il fuoco. -Ora io son qui per renderti mercede -del beneficio che mi festi allora. -Nessuna grazia indarno or mi si chiede -ch'io son del manto viperino fuora. -Tre volte più che di tuo padre erede -non rimanesti, io ti fo ricco or ora: -né vo' che mai più povero diventi, -ma quanto spendi più, che più augumenti. -E perché so che ne l'antiquo nodo, -in che già Amor t'avinse, anco ti trovi, -voglioti dimostrar l'ordine e 'l modo -ch'a disbramar tuoi desideri giovi. -Io voglio, or che lontano il marito odo, -che senza indugio il mio consiglio provi; -vadi a trovar la donna che dimora -fuori alla villa, e sarò teco io ancora. — -E seguitò narrandogli in che guisa -alla sua donna vuol che s'appresenti; -dico come vestir, come precisa— -mente abbia a dir, come la prieghi e tenti; -e che forma essa vuol pigliar, devisa; -che, fuor che 'l giorno ch'erra tra serpenti, -in tutti gli altri si può far, secondo -che più le pare, in quante forme ha il mondo. -Messe in abito lui di peregrino -il qual per Dio di porta in porta accatti: -mutosse ella in un cane, il più piccino -di quanti mai n'abbia Natura fatti, -di pel lungo, più bianco ch'armellino, -di grato aspetto e di mirabili atti. -Così trasfigurato, entraro in via -verso la casa de la bella Argia: -e dei lavoratori alle capanne -prima ch'altrove, il giovene fermosse; -e cominciò a sonar certe sue canne, -al cui suono danzando il can rizzosse. -La voce e 'l grido alla padrona vanne, -e fece sì, che per veder si mosse. -Fece il romeo chiamar ne la sua corte, -sì come del dottor traea la sorte. -E quivi Adonio a comandare al cane -incominciò, ed il cane a ubbidir lui, -e far danze nostral, farne d'estrane, -con passi e continenze e modi sui, -e finalmente con maniere umane -far ciò che comandar sapea colui, -con tanta attenzion, che chi lo mira, -non batte gli occhi, e a pena il fiato spira. -Gran maraviglia, ed indi gran desire -venne alla donna di quel can gentile; -e ne fa per la balia proferire -al cauto peregrin prezzo non vile. -— S'avessi più tesor, che mai sitire -potesse cupidigia feminile -(colui rispose), non saria mercede -di comprar degna del mio cane un piede. — -E per mostrar che veri i detti foro, -con la balia in un canto si ritrasse, -e disse al cane, ch'una marca d'oro -a quella donna in cortesia donasse. -Scossesi il cane, e videsi il tesoro. -Disse Adonio alla balia, che pigliasse, -soggiungendo: — Ti par che prezzo sia, -per cui sì bello e util cane io dia? -Cosa, qual vogli sia, non gli domando, -di ch'io ne torni mai con le man vote; -e quando perle, e quando annella, e quando -leggiadra veste e di gran prezzo scuote. -Pur di' a madonna, che fia al suo comando; -per oro no, ch'oro pagar nol puote: -ma se vuol ch'una notte seco io giaccia, -abbiasi il cane, e 'l suo voler ne faccia. — -Così dice: e una gemma allora nata -le dà, ch'alla padrona l'appresenti. -Pare alla balia averne più derata, -che di pagar dieci ducati o venti. -Torna alla donna, e le fa l'imbasciata; -e la conforta poi, che si contenti -d'acquistare il bel cane; ch'acquistarlo -per prezzo può, che non si perde a darlo. -La bella Argia sta ritrosetta in prima; -parte, che la sua fé romper non vuole, -parte, ch'esser possibile non stima -tutto ciò che ne suonan le parole. -La balia le ricorda, e rode e lima, -che tanto ben di rado avvenir suole; -e fe' che l'agio un altro dì si tolse, -che 'l can veder senza tanti occhi volse. -Quest'altro comparir ch'Adonio fece, -fu la ruina e del dottor la morte. -Facea nascer le doble a diece a diece, -filze di perle, e gemme d'ogni sorte: -sì che il superbo cor mansuefece, -che tanto meno a contrastar fu forte, -quanto poi seppe che costui ch'inante -gli fa partito, è 'l cavallier suo amante. -De la puttana sua balia i conforti, -i prieghi de l'amante e la presenza, -il veder che guadagno se l'apporti, -del misero dottor la lunga assenza, -lo sperar ch'alcun mai non lo rapporti, -fero ai casti pensier tal violenza, -ch'ella accettò il bel cane, e per mercede -in braccio e in preda al suo amator si diede. -Adonio lungamente frutto colse -de la sua bella donna, a cui la fata -grande amor pose, e tanto le ne volse, -che sempre star con lei si fu ubligata. -Per tutti i segni il sol prima si volse, -ch'al giudice licenza fosse data: -al fin tornò, ma pien di gran sospetto -per quel che già l'astrologo avea detto. -Fa, giunto ne la patria, il primo volo -a casa de l'astrologo, e gli chiede, -se la sua donna fatto inganno e dolo, -o pur servato gli abbia amore e fede. -Il sito figurò colui del polo, -ed a tutti i pianeti il luogo diede: -poi rispose che quel ch'avea temuto, -come predetto fu, gli era avvenuto; -che da doni grandissimi corrotta, -data ad altri s'avea la donna in preda. -Questa al dottor nel cor fu sì gran botta, -che lancia e spiedo io vo' che ben le ceda. -Per esserne più certo, ne va allotta -(ben che pur troppo allo indivino creda) -ov'è la balia, e la tira da parte, -e per saperne il certo usa grande arte. -Con larghi giri circondando prova -or qua or là di ritrovar la traccia; -e da principio nulla ne ritrova, -con ogni diligenza che ne faccia; -ch'ella, che non avea tal cosa nuova, -stava negando con immobil faccia; -e come bene istrutta, più d'un mese -tra il dubbio e 'l certo il suo patron sospese. -Quanto dovea parergli il dubio buono, -se pensava il dolor ch'avria del certo! -Poi ch'indarno provò con priego e dono, -che da la balia il ver gli fosse aperto, -né toccò tasto ove sentisse suono -altro che falso; come uom ben esperto, -aspettò che discordia vi venisse; -ch'ove femine son, son liti e risse. -E come egli aspettò, così gli avvenne; -ch'al primo sdegno che tra loro nacque, -senza suo ricercar, la balia venne -il tutto a ricontargli, e nulla tacque. -Lungo a dir fôra ciò che 'l cor sostenne, -come la mente costernata giacque -del giudice meschin, che fu sì oppresso, -che stette per uscir fuor di se stesso: -e si dispose al fin, da l'ira vinto, -morir, ma prima uccider la sua moglie; -e che d'amendue i sangui un ferro tinto -levassi lei di biasmo, e sé di doglie. -Ne la città se ne ritorna, spinto -da così furibonde e cieche voglie; -indi alla villa un suo fidato manda, -e quanto esequir debba, gli commanda. -Commanda al servo, ch'alla moglie Argia -torni alla villa, e in nome suo le dica -ch'egli è da febbre oppresso così ria, -che di trovarlo vivo avrà fatica; -sì che, senza aspettar più compagnia, -venir debba con lui, s'ella gli è amica -(verrà: sa ben che non farà parola); -e che tra via le seghi egli la gola. -A chiamar la patrona andò il famiglio, -per far di lei quanto il signor commesse. -Dato prima al suo cane ella di piglio, -montò a cavallo ed a camin si messe. -L'avea il cane avisata del periglio, -ma che d'andar per questo ella non stesse; -ch'avea ben disegnato e proveduto -onde nel gran bisogno avrebbe aiuto. -Levato il servo del camino s'era; -e per diverse e solitarie strade -a studio capitò su una riviera -che d'Apennino in questo fiume cade; -ov'era bosco e selva oscura e nera, -lungi da villa e lungi da cittade. -Gli parve loco tacito e disposto -per l'effetto crudel che gli fu imposto. -Trasse la spada e alla padrona disse -quanto commesso il suo signor gli avea; -sì che chiedesse, prima che morisse, -perdono a Dio d'ogni colpa rea. -Non ti so dir com'ella si coprisse: -quando il servo ferirla si credea, -più non la vide, e molto d'ogn'intorno -l'andò cercando, e al fin restò con scorno. -Torna al patron con gran vergogna ed onta, -tutto attonito in faccia e sbigottito; -e l'insolito caso gli racconta, -ch'egli non sa come si sia seguito. -Ch'a' suoi servigi abbia la moglie pronta -la fata Manto, non sapea il marito; -che la balia onde il resto avea saputo, -questo, non so perché, gli avea taciuto. -Non sa che far; che né l'oltraggio grave -vendicato ha, né le sue pene ha sceme. -Quel ch'era una festuca, ora è una trave, -tanto gli pesa, tanto al cor gli preme. -L'error che sapean pochi, or sì aperto have, -che senza indugio si palesi, teme. -Potea il primo celarsi; ma il secondo, -publico in breve fia per tutto il mondo. -Conosce ben che, poi che 'l cor fellone -avea scoperto il misero contra essa, -ch'ella, per non tornargli in suggezione, -d'alcun potente in man si sarà messa; -il qual se la terrà con irrisione -ed ignominia del marito espressa; -e forse anco verrà d'alcuno in mano, -che ne fia insieme adultero e ruffiano. -Sì che, per rimediarvi, in fretta manda -intorno messi e lettere a cercarne: -ch'in quel loco, ch'in questo ne domanda -per Lombardia, senza città lasciarne. -Poi va in persona, e non si lascia banda -ove o non vada o mandivi a spiarne: -né mai può ritrovar capo né via -di venire a notizia, che ne sia. -Al fin chiama quel servo a chi fu imposta -l'opra crudel che poi non ebbe effetto, -e fa che lo conduce ove nascosta -se gli era Argia, sì come gli avea detto; -che forse in qualche macchia il dì reposta, -la notte si ripara ad alcun tetto. -Lo guida il servo ove trovar si crede -la folta selva, e un gran palagio vede. -Fatto avea farsi alla sua fata intanto -la bella Argia con subito lavoro -d'alabastri un palagio per incanto, -dentro e di fuor tutto fregiato d'oro. -Né lingua dir, né cor pensar può quanto -avea beltà di fuor, dentro tesoro. -Quel che iersera sì ti parve bello, -del mio signor, saria un tugurio a quello. -E di panni di razza, e di cortine -tessute riccamente e a varie fogge, -ornate eran le stalle e le cantine, -non sale pur, non pur camere e logge; -vasi d'oro e d'argento senza fine, -gemme cavate, azzurre e verdi e rogge, -e formate in gran piatti e in coppe e in nappi, -e senza fin d'oro e di seta drappi. -Il giudice, sì come io vi dicea, -venne a questo palagio a dar di petto, -quando né una capanna si credea -di ritrovar, ma solo il bosco schietto. -Per l'alta maraviglia che n'avea, -esser si credea uscito d'intelletto: -non sapea se fosse ebbro o se sognassi, -o pur se 'l cervel scemo a volo andassi. -Vede inanzi alla porta uno Etiopo -con naso e labri grossi; e ben gli è avviso -che non vedesse mai, prima né dopo, -un così sozzo e dispiacevol viso; -poi di fattezze, qual si pinge Esopo, -d'attristar, se vi fosse, il paradiso; -bisunto e sporco, e d'abito mendico: -né a mezzo ancor di sua bruttezza io dico. -Anselmo che non vede altro da cui -possa saper di chi la casa sia, -a lui s'accosta, e ne domanda a lui; -ed ei risponde: — Questa casa è mia. — -Il giudice è ben certo che colui -lo beffi e che gli dica la bugia: -ma con scongiuri il negro ad affermare -che sua è la casa, e ch'altri non v'ha a fare; -e gli offerisce, se la vuol vedere, -che dentro vada, e cerchi come voglia; -e se v'ha cosa che gli sia in piacere -o per sé o per gli amici, se la toglia. -Diede il cavallo al servo suo a tenere -Anselmo, e messe il piè dentro alla soglia; -e per sale e per camere condutto, -da basso e d'alto andò mirando il tutto. -La forma, il sito, il ricco e bel lavoro -va contemplando, e l'ornamento regio; -e spesso dice: — Non potria quant'oro -è sotto il sol pagare il loco egregio. — -A questo gli risponde il brutto Moro, -e dice: — E questo ancor trova il suo pregio: -se non d'oro o d'argento, nondimeno -pagar lo può quel che vi costa meno. — -E gli fa la medesima richiesta -ch'avea già Adonio alla sua moglie fatta. -De la brutta domanda e disonesta, -persona lo stimò bestiale e matta. -Per tre repulse e quattro egli non resta; -e tanti modi a persuaderlo adatta, -sempre offerendo in merito il palagio, -che fe' inchinarlo al suo voler malvagio. -La moglie Argia che stava appresso ascosa, -poi che lo vide nel suo error caduto, -saltò fuora gridando: — Ah degna cosa -che io veggo di dottor saggio tenuto! — -Trovato in sì mal'opra e viziosa, -pensa se rosso far si deve e muto. -O terra, acciò ti si gettassi dentro, -perché allor non t'apristi insino al centro? -La donna in suo discarco, ed in vergogna -d'Anselmo, il capo gl'intronò di gridi, -dicendo: — Come te punir bisogna -di quel che far con sì vil uom ti vidi, -se per seguir quel che natura agogna, -me, vinta a' prieghi del mio amante, uccidi? -ch'era bello e gentile; e un dono tale -mi fe', ch'a quel nulla il palagio vale. -S'io ti parvi esser degna d'una morte, -conosci che ne sei degno di cento: -e ben ch'in questo loco io sia sì forte, -ch'io possa di te fare il mio talento; -pure io non vo' pigliar di peggior sorte -altra vendetta del tuo fallimento. -Di par l'avere e 'l dar, marito, poni; -fa, com'io a te, che tu a me ancor perdoni: -e sia la pace e sia l'accordo fatto, -ch'ogni passato error vada in oblio; -né ch'in parole io possa mai né in atto -ricordarti il tuo error, né a me tu il mio. — -Il marito ne parve aver buon patto, -né dimostrossi al perdonar restio. -Così a pace e concordia ritornaro, -e sempre poi fu l'uno all'altro caro. — -Così disse il nocchiero; e mosse a riso -Rinaldo al fin de la sua istoria un poco; -e diventar gli fece a un tratto il viso, -per l'onta del dottor, come di fuoco. -Rinaldo Argia molto lodò, ch'avviso -ebbe d'alzare a quello augello un gioco -ch'alla medesma rete fe' cascallo, -in che cadde ella, ma con minor fallo. -Poi che più in alto il sole il camin prese, -fe' il paladino apparecchiar la mensa, -ch'avea la notte il Mantuan cortese -provista con larghissima dispensa. -Fugge a sinistra intanto il bel paese, -ed a man destra la palude immensa: -viene e fuggesi Argenta e 'l suo girone -col lito ove Santerno il capo pone. -Allora la Bastia credo non v'era, -di che non troppo si vantar Spagnuoli -d'avervi su tenuta la bandiera; -ma più da pianger n'hanno i Romagniuoli. -E quindi a filo alla dritta riviera -cacciano il legno, e fan parer che voli. -Lo volgon poi per una fossa morta, -ch'a mezzodì presso a Ravenna il porta. -Ben che Rinaldo con pochi danari -fosse sovente, pur n'avea sì alora, -che cortesia ne fece a' marinari, -prima che li lasciasse alla buon'ora. -Quindi mutando bestie e cavallari, -Arimino passò la sera ancora; -né in Montefiore aspetta il matutino, -e quasi a par col sol giunge in Urbino. -Quivi non era Federico allora, -né l'Issabetta, né 'l buon Guido v'era, -né Francesco Maria, né Leonora, -che con cortese forza e non altiera -avesse astretto a far seco dimora -sì famoso guerrier più d'una sera; -come fer già molti anni, ed oggi fanno -a donne e a cavallier che di là vanno. -Poi che quivi alla briglia alcun nol prende, -smonta Rinaldo a Cagli alla via dritta. -Pel monte che 'l Metauro o il Gauno fende, -passa Apennino e più non l'ha a man ritta; -passa gli Ombri e gli Etrusci, e a Roma scende; -da Roma ad Ostia; e quindi si tragitta -per mare alla cittade a cui commise -il pietoso figliuol l'ossa d'Anchise. -Muta ivi legno, e verso l'isoletta -di Lipadusa fa ratto levarsi; -quella che fu dai combattenti eletta, -ed ove già stati erano a trovarsi. -Insta Rinaldo, e gli nocchieri affretta, -ch'a vela e a remi fan ciò che può farsi; -ma i venti avversi e per lui mal gagliardi, -lo fecer, ma di poco, arrivar tardi. -Giunse ch'a punto il principe d'Anglante -fatta avea l'utile opra e gloriosa: -avea Gradasso ucciso ed Agramante, -ma con dura vittoria e sanguinosa. -Morto n'era il figliuol di Monodante; -e di grave percossa e perigliosa -stava Olivier languendo in su l'arena, -e del piè guasto avea martìre e pena. -Tener non poté il conte asciutto il viso, -quando abbracciò Rinaldo, e che narrolli -che gli era stato Brandimarte ucciso, -che tanta fede e tanto amor portolli. -Né men Rinaldo, quando sì diviso -vide il capo all'amico, ebbe occhi molli: -poi quindi ad abbracciar si fu condotto -Olivier che sedea col piede rotto. -La consolazion che seppe, tutta -diè lor, ben che per sé tor non la possa; -che giunto si vedea quivi alle frutta, -anzi poi che la mensa era rimossa. -Andaro i servi alla città distrutta, -e di Gradasso e d'Agramante l'ossa -ne le ruine ascoser di Biserta, -e quivi divulgar la cosa certa. -De la vittoria ch'avea avuto Orlando, -s'allegrò Astolfo e Sansonetto molto; -non sì però, come avrian fatto, quando -non fosse a Brandimarte il lume tolto. -Sentir lui morto il gaudio va scemando -sì, che non ponno asserenare il volto. -Or chi sarà di lor, ch'annunzio voglia -a Fiordiligi dar di sì gran doglia? -La notte che precesse a questo giorno, -Fiordiligi sognò che quella vesta -che, per mandarne Brandimarte adorno, -avea trapunta e di sua man contesta, -vedea per mezzo sparsa e d'ogn'intorno -di gocce rosse, a guisa di tempesta: -parea che di sua man così l'avesse -riccamata ella, e poi se ne dogliessse. -E parea dir: — Pur hammi il signor mio -commesso ch'io la faccia tutta nera: -or perché dunque riccamata holl'io -contra sua voglia in sì strana maniera? — -Di questo sogno fe' giudicio rio; -poi la novella giunse quella sera: -ma tanto Astolfo ascosa le la tenne, -ch'a lei con Sansonetto se ne venne. -Tosto ch'entraro, e ch'ella loro il viso -vide di gaudio in tal vittoria privo; -senz'altro annunzio sa, senz'altro avviso, -che Brandimarte suo non è più vivo. -Di ciò le resta il cor così conquiso, -e così gli occhi hanno la luce a schivo, -e così ogn'altro senso se le serra, -che come morta andar si lascia in terra. -Al tornar de lo spirto, ella alle chiome -caccia le mani; ed alle belle gote, -indarno ripetendo il caro nome, -fa danno ed onta più che far lor puote: -straccia i capelli e sparge; e grida, come -donna talor che 'l demon rio percuote, -o come s'ode che già a suon di corno -Menade corse, ed aggirossi intorno. -Or questo or quel pregando va, che porto -le sia un coltel, sì che nel cor si fera: -or correr vuol là dove il legno in porto -dei duo signor defunti arrivato era, -e de l'uno e de l'altro così morto -far crudo strazio e vendetta acra e fiera: -or vuol passare il mare, e cercar tanto, -che possa al suo signor morire a canto. -— Deh perché, Brandimarte, ti lasciai -senza me andare a tanta impresa? (disse). -Vedendoti partir, non fu più mai -che Fiordiligi tua non ti seguisse. -T'avrei giovato, s'io veniva, assai, -ch'avrei tenute in te le luci fisse; -e se Gradasso avessi dietro avuto, -con un sol grido io t'avrei dato aiuto; -o forse esser potrei stata sì presta, -ch'entrando in mezzo, il colpo t'avrei tolto: -fatto scudo t'avrei con la mia testa; -che morendo io, non era il danno molto. -Ogni modo io morrò; né fia di questa -dolente morte alcun profitto colto, -che, quando io fossi morta in tua difesa, -non potrei meglio aver la vita spesa. -Se pur ad aiutarti i duri fati -avessi avuti e tutto il cielo avverso, -gli ultimi baci almeno io t'avrei dati, -almen t'avrei di pianto il viso asperso; -e prima che con gli angeli beati -fosse lo spirto al suo Fattor converso, -detto gli avrei: Va in pace, e là m'aspetta; -ch'ovunque sei, son per seguirti in fretta. -È questo, Brandimarte, è questo il regno -di che pigliar lo scettro ora dovevi? -Or così teco a Dammogire io vegno? -così nel real seggio mi ricevi? -Ah Fortuna crudel, quanto disegno -mi rompi! oh che speranze oggi mi levi! -Deh, che cesso io, poi c'ho perduto questo -tanto mio ben, ch'io non perdo anco il resto? — -Questo ed altro dicendo, in lei risorse -il furor con tanto impeto e la rabbia, -ch'a stracciare il bel crin di nuovo corse, -come il bel crin tutta la colpa n'abbia. -Le mani insieme si percosse e morse, -nel sen si cacciò l'ugne e ne le labbia. -Ma torno a Orlando ed a' compagni, intanto -ch'ella si strugge e si consuma in pianto. -Orlando, col cognato che non poco -bisogno avea di medico e di cura, -ed altretanto, perché in degno loco -avesse Brandimarte sepultura, -verso il monte ne va che fa col fuoco -chiara la notte, e il dì di fumo oscura. -Hanno propizio il vento, e a destra mano -non è quel lito lor molto lontano. -Con fresco vento ch'in favor veniva, -sciolser la fune al declinar del giorno, -mostrando lor la taciturna diva -la dritta via col luminoso corno; -e sorser l'altro dì sopra la riva -ch'amena giace ad Agringento intorno. -Quivi Orlando ordinò per l'altra sera -ciò ch'a funeral pompa bisogno era. -Poi che l'ordine suo vide essequito, -essendo omai del sole il lume spento, -fra molta nobiltà ch'era allo 'nvito -de' luoghi intorno corsa in Agringento, -d'accesi torchi tutto ardendo 'l lito, -e di grida sonando e di lamento, -tornò Orlando ove il corpo fu lasciato, -che vivo e morto avea con fede amato. -Quivi Bardin di soma d'anni grave -stava piangendo alla bara funèbre, -che pel gran pianto ch'avea fatto in nave, -dovrìa gli occhi aver pianti e le palpèbre. -Chiamando il ciel crudel, le stelle prave, -ruggia come un leon ch'abbia la febre. -Le mani erano intanto empie e ribelle -ai crin canuti e alla rugosa pelle. -Levossi, al ritornar del paladino, -maggiore il grido, e raddoppiossi il pianto. -Orlando, fatto al corpo più vicino, -senza parlar stette a mirarlo alquanto, -pallido come colto al matutino -è da sera il ligustro o il molle acanto; -e dopo un gran sospir, tenendo fisse -sempre le luci in lui, così gli disse: -— O forte, o caro, o mio fedel compagno, -che qui sei morto, e so che vivi in cielo, -e d'una vita v'hai fatto guadagno, -che non ti può mai tor caldo né gielo, -perdonami, se ben vedi ch'io piagno; -perché d'esser rimaso mi querelo, -e ch'a tanta letizia io non son teco; -non già perché qua giù tu non sia meco. -Solo senza te son; né cosa in terra -senza te posso aver più, che mi piaccia. -Se teco era in tempesta e teco in guerra, -perché non anco in ozio ed in bonaccia? -Ben grande e 'l mio fallir, poi che mi serra -di questo fango uscir per la tua traccia. -Se negli affanni teco fui, perch'ora -non sono a parte del guadagno ancora? -Tu guadagnato, e perdita ho fatto io: -sol tu all'acquisto, io non son solo al danno. -Partecipe fatto è del dolor mio -l'Italia, il regno franco e l'alemanno. -Oh quanto, quanto il mio signore e zio, -oh quanto i paladin da doler s'hanno! -quanto l'Imperio e la cristiana Chiesa, -che perduto han la sua maggior difesa! -Oh quanto si torrà per la tua morte -di terrore a' nimici e di spavento! -Oh quanto Pagania sarà più forte! -quanto animo n'avrà, quanto ardimento! -Oh come star ne dee la tua consorte! -Sin qui ne veggo il pianto, e 'l grido sento. -So che m'accusa, e forse odio mi porta, -che per me teco ogni sua speme è morta. -Ma, Fiordiligi, almen resti un conforto -a noi che siàn di Brandimarte privi; -ch'invidiar lui con tanta gloria morto -denno tutti i guerrier ch'oggi son vivi. -Quei Deci, e quel nel roman foro absorto, -quel sì lodato Codro dagli Argivi, -non con più altrui profitto e più suo onore -a morte si donar, del tuo signore. — -Queste parole ed altre dicea Orlando. -Intanto i bigi, i bianchi, i neri frati, -e tutti gli altri chierci, seguitando -andavan con lungo ordine accoppiati, -per l'alma del defunto Dio pregando, -che gli donasse requie tra' beati. -Lumi inanzi e per mezzo e d'ogn'intorno, -mutata aver parean la notte in giorno. -Levan la bara, ed a portarla foro -messi a vicenda conti e cavallieri. -Purpurea seta la copria, che d'oro -e di gran perle avea compassi altieri: -di non men bello e signoril lavoro -avean gemmati e splendidi origlieri; -e giacea quivi il cavallier con vesta -di color pare, e d'un lavor contesta. -Trecento agli altri eran passati inanti, -de' più poveri tolti de la terra, -parimente vestiti tutti quanti -di panni negri e lunghi sin a terra. -Cento paggi seguian sopra altretanti -grossi cavalli e tutti buoni a guerra; -e i cavalli coi paggi ivano il suolo -radendo col lor abito di duolo. -Molte bandiere inanzi e molte dietro, -che di diverse insegne eran dipinte, -spiegate accompagnavano il ferètro; -le quai già tolte a mille schiere vinte, -e guadagnate a Cesare ed a Pietro -avean le forze ch'or giaceano estinte. -Scudi v'erano molti, che di degni -guerrieri, a chi fur tolti, aveano i segni. -Venian cento e cent'altri a diversi usi -de l'esequie ordinati; ed avean questi, -come anco il resto, accesi torchi; e chiusi, -più che vestiti, eran di nere vesti. -Poi seguia Orlando, e ad or ad or suffusi -di lacrime avea gli occhi e rossi e mesti; -né più lieto di lui Rinaldo venne: -il piè Olivier, che rotto avea, ritenne. -Lungo sarà s'io vi vo' dire in versi -le cerimonie, e raccontarvi tutti -i dispensati manti oscuri e persi, -gli accesi torchi che vi furon strutti. -Quindi alla chiesa catedral conversi, -dovunque andar, non lasciaro occhi asciutti: -sì bel, sì buon, sì giovene a pietade -mosse ogni sesso, ogni ordine, ogni etade. -Fu posto in chiesa; e poi che da le donne -di lacrime e di pianti inutil opra, -e che dai sacerdoti ebbe eleisonne -e gli altri santi detti avuto sopra, -in una arca il serbar su due colonne: -e quella vuole Orlando che si cuopra -di ricco drappo d'or, sin che reposto -in un sepulcro sia di maggior costo. -Orlando di Sicilia non si parte, -che manda a trovar porfidi e alabastri. -Fece fare il disegno, e di quell'arte -inarrar con gran premio i miglior mastri. -Fe' le lastre, venendo in questa parte, -poi drizzar Fiordiligi, e i gran pilastri; -che quivi (essendo Orlando già partito) -si fe' portar da l'africano lito. -E vedendo le lacrime indefesse, -ed ostinati a uscir sempre i sospiri, -né per far sempre dire uffici e messe, -mai satisfar potendo a' suoi disiri; -di non partirsi quindi in cor si messe, -fin che del corpo l'anima non spiri: -e nel sepolcro fe' fare una cella, -e vi si chiuse, e fe' sua vita in quella. -Oltre che messi e lettere le mande, -vi va in persona Orlando per levarla. -Se viene in Francia, con pension ben grande -compagna vuol di Galerana farla: -quando tornare al padre anco domande, -sin alla Lizza vuole accompagnarla: -edificar le vuole un monastero, -quando servire a Dio faccia pensiero. -Stava ella nel sepulcro; e quivi attrita -da penitenza, orando giorno e notte, -non durò lunga età, che di sua vita -da la Parca le fur le fila rotte. -Già fatto avea da l'isola partita, -ove i Ciclopi avean l'antique grotte, -i tre guerrier di Francia, afflitti e mesti -che 'l quarto lor compagno a dietro resti. -Non volean senza medico levarsi, -che d'Olivier s'avesse a pigliar cura; -la qual, perché a principio mal pigliarsi -poté, fatt'era faticosa e dura: -e quello udiano in modo lamentarsi, -che del suo caso avean tutti paura. -Tra lor di ciò parlando, al nocchier nacque -un pensiero, e lo disse; e a tutti piacque. -Disse ch'era di là poco lontano -in un solingo scoglio uno eremita, -a cui ricorso mai non s'era invano, -o fosse per consiglio o per aita; -e facea alcuno effetto soprumano, -dar lume a ciechi, e tornar morti a vita, -fermare il vento ad un segno di croce, -e far tranquillo il mar quando è più atroce: -e che non denno dubitare, andando -a ritrovar quel uomo a Dio sì caro, -che lor non renda Olivier sano, quando -fatto ha di sua virtù segno più chiaro. -Questo consiglio sì piacque ad Orlando, -che verso il santo loco si drizzaro; -né mai piegando dal camin la prora, -vider lo scoglio al sorger de l'aurora. -Scorgendo il legno uomini in acqua dotti, -sicuramente s'accostaro a quello. -Quivi aiutando servi e galeotti, -declinano il marchese nel battello: -e per le spumose onde fur condotti -nel duro scoglio, ed indi al santo ostello; -al santo ostello, a quel vecchio medesmo, -per le cui mani ebbe Ruggier battesmo. -Il servo del Signor del paradiso -raccolse Orlando ed i compagni suoi, -e benedilli con giocondo viso, -e de' lor casi dimandolli poi; -ben che de lor venuta avuto avviso -avesse prima dai celesti eroi. -Orlando gli rispose esser venuto -per ritrovare al suo Oliviero aiuto; -ch'era, pugnando per la fé di Cristo, -a periglioso termine ridutto. -Levògli il santo ogni sospetto tristo, -e gli promisse di sanarlo in tutto. -Né d'unguento trovandosi provisto, -né d'altra umana medicina istrutto, -andò alla chiesa, ed orò al Salvatore; -ed indi uscì con gran baldanza fuore: -e in nome de le eterne tre Persone, -Padre e Figliuolo e Spirto Santo, diede -ad Olivier la sua benedizione. -Oh virtù che dà Cristo a chi gli crede! -Cacciò dal cavalliero ogni passione, -e ritornolli a sanitade il piede, -più fermo e più espedito che mai fosse: -e presente Sobrino a ciò trovosse. -Giunto Sobrin de le sue piaghe a tanto, -che star peggio ogni giorno se ne sente, -tosto che vede del monaco santo -il miracolo grande ed evidente, -si dispon di lasciar Macon da canto, -e Cristo confessar vivo e potente: -e domanda con cor di fede attrito, -d'iniciarsi al nostro sacro rito. -Così l'uom giusto lo battezza, ed anco -gli rende, orando, ogni vigor primiero. -Orlando e gli altri cavallier non manco -di tal conversion letizia fero, -che di veder che liberato e franco -del periglioso mal fosse Oliviero. -Maggior gaudio degli altri Ruggier ebbe; -e molto in fede e in devozione accrebbe. -Era Ruggier dal dì che giunse a nuoto -su questo scoglio, poi statovi ognora. -Fra quei guerrieri il vecchiarel devoto -sta dolcemente, e li conforta ed ora -a voler, schivi di pantano e loto, -mondi passar per questa morta gora -c'ha nome vita, che sì piace a' sciocchi; -ed alla via del ciel sempre aver gli occhi. -Orlando un suo mandò sul legno, e trarne -fece pane e buon vin, cacio e persutti; -e l'uom di Dio, ch'ogni sapor di starne -pose in oblio, poi ch'avvezzossi a' frutti, -per carità mangiar fecero carne, -e ber del vino, e far quel che fer tutti. -Poi ch'alla mensa consolati foro, -di molte cose ragionar tra loro. -E come accade nel parlar sovente, -ch'una cosa vien l'altra dimostrando, -Ruggier riconosciuto finalmente -fu da Rinaldo, da Olivier, da Orlando, -per quel Ruggiero in arme sì eccellente, -il cui valor s'accorda ognun lodando: -né Rinaldo l'avea raffigurato -per quel che provò già ne lo steccato. -Ben l'avea il re Sobrin riconosciuto, -tosto che 'l vide col vecchio apparire; -ma volse inanzi star tacito e muto, -che porsi in aventura di fallire. -Poi ch'a notizia agli altri fu venuto -che questo era Ruggier, di cui l'ardire, -la cortesia e 'l valore alto e profondo -si facea nominar per tutto il mondo; -e sapendosi già ch'era cristiano, -tutti con lieta e con serena faccia -vengono a lui: chi gli tocca la mano, -e chi lo bacia, e chi lo stringe e abbraccia. -Sopra gli altri il signor di Montalbano -d'accarezzarlo e fargli onor procaccia. -Perch'esso più degli altri, io 'l serbo a dire -ne l'altro canto, se 'l vorrete udire. -Spesso in poveri alberghi e in picciol tetti, -ne le calamitadi e nei disagi, -meglio s'aggiungon d'amicizia i petti, -che fra ricchezze invidiose ed agi -de le piene d'insidie e di sospetti -corti regali e splendidi palagi, -ove la caritade è in tutto estinta, -né si vede amicizia, se non finta. -Quindi avvien che tra principi e signori -patti e convenzion son sì frali. -Fan lega oggi re, papi e imperatori; -doman saran nimici capitali: -perché, qual l'apparenze esteriori, -non hanno i cor, non han gli animi tali; -che non mirando al torto più ch'al dritto, -attendon solamente al lor profitto. -Questi, quantunque d'amicizia poco -sieno capaci, perché non sta quella -ove per cose gravi, ove per giuoco -mai senza finzion non si favella; -pur, se talor gli ha tratti in umil loco -insieme una fortuna acerba e fella, -in poco tempo vengono a notizia -(quel che in molto non fer) de l'amicizia. -Il santo vecchiarel ne la sua stanza -giunger gli ospiti suoi con nodo forte -ad amor vero meglio ebbe possanza, -ch'altri non avria fatto in real corte. -Fu questo poi di tal perseveranza, -che non si sciolse mai fin alla morte. -Il vecchio li trovò tutti benigni, -candidi più nel cor, che di fuor cigni. -Trovolli tutti amabili e cortesi, -non de la iniquità ch'io v'ho dipinta -di quei che mai non escono palesi, -ma sempre van con apparenza finta. -Di quanto s'eran per adietro offesi -ogni memoria fu tra loro estinta; -e se d'un ventre fossero e d'un seme, -non si potriano amar più tutti insieme. -Sopra gli altri il signor di Montalbano -accarezzava e riveria Ruggiero; -sì perché già l'avea con l'arme in mano -provato quanto era animoso e fiero, -sì per trovarlo affabile ed umano -più che mai fosse al mondo cavalliero: -ma molto più, che da diverse bande -si conoscea d'avergli obligo grande. -Sapea che di gravissimo periglio -egli avea liberato Ricciardetto, -quando il re ispano gli fe' dar di piglio -e con la figlia prendere nel letto; -e ch'avea tratto l'uno e l'altro figlio -del duca Buovo (com'io v'ho detto) -di man dei Saracini e dei malvagi -ch'eran col maganzese Bertolagi. -Questo debito a lui parea di sorte, -ch'ad amar lo stringeano e ad onorarlo; -e gli ne dolse e gli ne 'ncrebbe forte, -che prima non avea potuto farlo, -quando era l'un ne l'africana corte, -e l'altro agli servigi era di Carlo. -Or che fatto cristian quivi lo trova, -quel che non fece prima, or far gli giova. -Proferte senza fine, onore e festa -fece a Ruggiero il paladin cortese. -Il prudente eremita, come questa -benivolenza vide, adito prese. -Entrò dicendo: — A fare altro non resta -(e lo spero ottener senza contese), -che come l'amicizia è tra voi fatta, -tra voi sia ancora affinità contratta; -acciò che de le due progenie illustri -che non han par di nobiltade al mondo, -nasca un lignaggio che più chiaro lustri, -che 'l chiaro sol, per quanto gira a tondo; -e come andran più inanzi ed anni e lustri, -sarà più bello, e durerà (secondo -che Dio m'ispira, acciò ch'a voi nol celi) -fin che terran l'usato corso i cieli. — -E seguitando il suo parlar più inante, -fa il santo vecchio sì, che persuade -che Rinaldo a Ruggier dia Bradamante, -ben che pregar né l'un né l'altro accade. -Loda Olivier col principe d'Anglante, -che far si debba questa affinitade; -il che speran ch'approvi Amone e Carlo, -e debba tutta Francia commendarlo. -Così dicean; ma non sapean ch'Amone, -con voluntà del figlio di Pipino, -n'avea dato in quei giorni intenzione -all'imperator greco Costantino, -che gliele domandava per Leone -suo figlio e successor nel gran domìno. -Se n'era, pel valor che n'avea inteso, -senza vederla, il giovinetto acceso. -Risposto gli avea Amon, che da sé solo -non era per concludere altramente, -né pria che ne parlasse col figliuolo -Rinaldo, da la corte allora assente; -il qual credea che vi verrebbe a volo, -e che di grazia avria sì gran parente: -pur, per molto rispetto che gli avea, -risolver senza lui non si volea. -Or Rinaldo lontan dal padre, quella -pratica imperial tutta ignorando, -quivi a Ruggier promette la sorella -di suo parere, e di parer d'Orlando -e degli altri ch'avea seco alla cella, -ma sopra tutti l'eremita instando: -e crede veramente che piacere -debba ad Amon quel parentado avere. -Quel dì e la notte, e del seguente giorno -steron gran parte col monaco saggio, -quasi obliando al legno far ritorno, -ben che il vento spirasse al lor viaggio. -Ma i lor nocchieri, a cui tanto soggiorno -increscea omai, mandar più d'un messaggio, -che sì li stimular de la partita, -ch'a forza li spiccar da l'eremita. -Ruggier che stato era in esilio tanto, -né da lo scoglio avea mai mosso il piede, -tolse licenza da quel mastro santo -ch'insegnata gli avea la vera fede. -La spada Orlando gli rimesse a canto, -l'arme d'Ettorre, e il buon Frontin gli diede; -sì per mostrar del suo amor segno espresso, -sì per saper che dianzi erano d'esso. -E quantunque miglior ne l'incantata -spada ragione avesse il paladino, -che con pena e travaglio già levata -l'avea dal formidabile giardino, -che non avea Ruggiero a cui donata -dal ladro fu, che gli diè ancor Frontino; -pur volentier gliele donò col resto -de l'arme, tosto che ne fu richiesto. -Fur benedetti dal vecchio devoto, -e sul navilio al fin si ritornaro. -I remi all'acqua, e dier le vele al Noto; -e fu lor sì sereno il tempo e chiaro, -che non vi bisognò priego né voto, -fin che nel porto di Marsilia entraro. -Ma quivi stiano tanto, ch'io conduca -insieme Astolfo, il glorioso duca. -Poi che de la vittoria Astolfo intese, -che sanguinosa e poco lieta s'ebbe; -vedendo che sicura da l'offese -d'Africa oggimai Francia esser potrebbe, -pensò che 'l re de' Nubi in suo paese -con l'esercito suo rimanderebbe -per la strada medesima che tenne -quando contra Biserta se ne venne. -L'armata che i pagan roppe ne l'onde, -già rimandata avea il figliuol d'Ugiero; -di cui, nuovo miracolo, le sponde -(tosto che ne fu uscito il popul nero) -e le poppe e le prore mutò in fronde, -e ritornolle al suo stato primiero: -poi venne il vento, e come cosa lieve -levolle in aria, e fe' sparire in breve. -Chi a piedi e chi in arcion tutte partita -d'Africa fer le nubiane schiere. -Ma prima Astolfo si chiamò infinita -grazia al Senapo ed immortale avere; -che gli venne in persona a dare aita -con ogni sforzo ed ogni suo potere. -Astolfo lor ne l'uterino claustro -a portar diede il fiero e turbido austro. -Negli utri, dico, il vento diè lor chiuso, -ch'uscir di mezzodì suol con tal rabbia, -che muove a guisa d'onde, e leva in suso, -e ruota fin in ciel l'arrida sabbia; -acciò se lo portassero a lor uso, -che per camino a far danno non abbia; -e che poi, giunti ne la lor regione, -avessero a lassar fuor di prigione. -Scrive Turpino, come furo ai passi -de l'alto Atlante, che i cavalli loro -tutti in un tempo diventaron sassi; -sì che, come venir, se ne tornoro. -Ma tempo è omai ch'Astolfo in Francia passi; -e così, poi che del paese moro -ebbe provisto ai luoghi principali, -all'ippogrifo suo fe' spiegar l'ali. -Volò in Sardigna in un batter di penne, -e di Sardigna andò nel lito corso; -e quindi sopra il mar la strada tenne, -torcendo alquanto a man sinistra il morso. -Ne le maremme all'ultimo ritenne -de la ricca Provenza il leggier corso; -dove seguì de l'ippogrifo quanto -gli disse già l'evangelista santo. -Hagli commesso il santo evangelista, -che più, giunto in Provenza, non lo sproni; -e ch'all'impeto fier più non resista -con sella e fren, ma libertà gli doni. -Già avea il più basso ciel che sempre acquista -del perder nostro, al corno tolti i suoni; -che muto era restato, non che roco, -tosto ch'entrò 'l guerrier nel divin loco. -Venne Astolfo a Marsilia, e venne a punto -il dì che v'era Orlando ed Oliviero -e quel da Montalbano insieme giunto -col buon Sobrino e col meglior Ruggiero. -La memoria del sozio lor defunto -vietò che i paladini non potero -insieme così a punto rallegrarsi, -come in tanta vittoria dovea farsi. -Carlo avea di Sicilia avuto avviso -dei duo re morti e di Sobrino preso, -e ch'era stato Brandimarte ucciso; -poi di Ruggiero avea non meno inteso: -e ne stava col lor lieto e col viso -d'aver gittato intolerabil peso, -che gli fu sopra gli omeri sì greve, -che starà un pezzo pria che si rileve. -Per onorar costor ch'eran sostegno -del santo Imperio e la maggior colonna, -Carlo mandò la nobiltà del regno -ad incontrarli fin sopra la Sonna. -Egli uscì poi col suo drappel più degno -di re e di duci, e con la propria donna, -fuor de le mura, in compagnia di belle -e ben ornate e nobili donzelle. -L'imperator con chiara e lieta fronte, -i paladini e gli amici e i parenti, -la nobiltà, la plebe fanno al conte -ed agli altri d'amor segni evidenti: -gridar s'ode Mongrana e Chiaramonte. -Sì tosto non finir gli abbracciamenti, -Rinaldo e Orlando insieme ed Oliviero -al signor loro appresentar Ruggiero; -e gli narrar che di Ruggier di Risa -era figliuol, di virtù uguale al padre: -se sia animoso e forte, ed a che guisa -sappia ferir, san dir le nostre squadre. -Con Bradamante in questo vien Marfisa, -le due compagne nobili e leggiadre: -ad abbracciar Ruggier vien la sorella; -con più rispetto sta l'altra donzella. -L'imperator Ruggier fa risalire, -ch'era per riverenza sceso a piede, -e lo fa a par a par seco venire, -e di ciò ch'a onorarlo si richiede, -un punto sol non lassa preterire. -Ben sapea che tornato era alla fede; -che tosto che i guerrier furo all'asciutto, -certificato avean Carlo del tutto. -Con pompa trionfal, con festa grande -tornaro insieme dentro alla cittade, -che di frondi verdeggia e di ghirlande: -coperte a panni son tutte le strade: -nembo d'erbe e di fior d'alto si spande, -e sopra e intorno ai vincitori cade, -che da verroni e da finestre amene -donne e donzelle gittano a man piene. -Al volgersi dei canti in vari lochi -trovano archi e trofei subito fatti, -che di Biserta le ruine e i fochi -mostran dipinti, ed altri degni fatti; -altrove palchi con diversi giuochi -e spettacoli e mimmi e scenici atti: -ed è per tutti i canti il titol vero -scritto: — Ai liberatori de l'Impero. — -Fra il suon d'argute trombe e di canore -pifare e d'ogni musica armonia, -fra riso e plauso, iubilo e favore -del populo ch'a pena vi capia, -smontò al palazzo il magno imperatore, -ove più giorni quella compagnia -con torniamenti, personaggi e farse, -danze e conviti attese a dilettarse. -Rinaldo un giorno al padre fe' sapere -che la sorella a Ruggier dar volea; -ch'in presenza d'Orlando per mogliere, -e d'Olivier, promessa glie l'avea; -li quali erano seco d'un parere, -che parentado far non si potea -per nobiltà di sangue e per valore, -che fosse a questo par, non che migliore. -Ode Amone il figliuol con qualche sdegno, -che, senza conferirlo seco, gli osa -la figlia maritar, ch'esso ha disegno -che del figliuol di Costantin sia sposa, -non di Ruggier, il qual non ch'abbi regno, -ma non può al mondo dir: questa è mia cosa; -né sa che nobiltà poco si prezza, -e men virtù, se non v'è ancor ricchezza. -Ma più d'Amon la moglie Beatrice -biasma il figliuolo e chiamalo arrogante; -e in segreto e in palese contradice -che di Ruggier sia moglie Bradamante: -a tutta sua possanza imperatrice -ha disegnato farla di Levante. -Sta Rinaldo ostinato che non vuole -che manchi un iota de le sue parole. -La madre, ch'aver crede alle sue voglie -la magnanima figlia, la conforta -che dica che, più tosto ch'esser moglie -d'un pover cavallier, vuole esser morta; -né mai più per figliuola la raccoglie, -se questa ingiuria dal fratel sopporta: -nieghi pur con audacia, e tenga saldo; -che per sforzar non la sarà Rinaldo. -Sta Bradamante tacita, né al detto -de la madre s'arrisca a contradire; -che l'ha in tal riverenza e in tal rispetto, -che non potria pensar non l'ubbidire. -Da l'altra parte terria gran difetto, -se quel che non vuol far, volesse dire. -Non vuol, perché non può; che 'l poco e 'l molto -poter di sé disporre Amor le ha tolto. -Né negar, né mostrarsene contenta -s'ardisce; e sol sospira, e non risponde: -poi quando è in luogo ch'altri non la senta, -versan lacrime gli occhi a guisa d'onde; -e parte del dolor che la tormenta, -sentir fa al petto ed alle chiome bionde, -che l'un percuote, e l'altro straccia e frange; -e così parla, e così seco piange: -— Ahimè! vorrò quel che non vuol chi deve -poter del voler mio più che poss'io? -Il voler di mia madre avrò in sì lieve -stima, ch'io lo posponga al voler mio? -Deh! qual peccato puote esser sì grieve -a una donzella, qual biasmo sì rio, -come questo sarà, se, non volendo -chi sempre ho da ubbidir, marito prendo? -Avrà, misera me! dunque possanza -la materna pietà, ch'io t'abandoni, -o mio Ruggiero, e ch'a nuova speranza, -a desir nuovo, a nuovo amor mi doni? -O pur la riverenza e l'osservanza -ch'ai buoni padri denno i figli buoni, -porrò da parte, e solo avrò rispetto -al mio bene, al mio gaudio, al mio diletto? -So quanto, ahi lassa! debbo far, so quanto -di buona figlia al debito conviensi; -io 'l so: ma che mi val, se non può tanto -la ragion, che non possino più i sensi? -s'Amor la caccia e la far star da canto, -né lassa ch'io disponga, né ch'io pensi -di me dispor, se non quanto a lui piaccia, -e sol, quanto egli detti, io dica e faccia? -Figlia d'Amone e di Beatrice sono, -e son, misera me! serva d'Amore. -Dai genitori miei trovar perdono -spero e pietà, s'io caderò in errore: -ma s'io offenderò Amor, chi sarà buono -a schivarmi con prieghi il suo furore, -che sol voglia una di mie scuse udire, -e non mi faccia subito morire? -Ohimè! con lunga ed ostinata prova -ho cercato Ruggier trarre alla fede; -ed hollo tratto al fin: ma che mi giova, -se 'l mio ben fare in util d'altri cede? -Così, ma non per sé, l'ape rinuova -il mele ogni anno, e mai non lo possiede. -Ma vo' prima morir, che mai sia vero, -ch'io pigli altro marito, che Ruggiero. -S'io non sarò al mio padre ubbidiente, -né alla mia madre, io sarò al mio fratello, -che molto e molto è più di lor prudente, -né gli ha la troppa età tolto il cervello. -E a questo che Rinaldo vuol, consente -Orlando ancora; e per me ho questo e quello: -li quali duo più onora il mondo e teme, -che l'altra nostra gente tutta insieme. -Se questi il fior, se questi ognuno stima -la gloria e lo splendor di Chiaramonte; -se sopra gli altri ognun gli alza e sublima -più che non è del piede alta la fronte; -perché debbo voler che di me prima -Amon disponga, che Rinaldo e 'l conte? -Voler nol debbo, tanto men, che messa -in dubbio al Greco, e a Ruggier fui promessa. — -Se la donna s'affligge e si tormenta, -né di Ruggier la mente è più quieta; -ch'ancor che di ciò nuova non si senta -per la città, pur non è a lui segreta. -Seco di sua fortuna si lamenta, -la qual fruir tanto suo ben gli vieta, -poi che ricchezze non gli ha date e regni, -di che è stata sì larga a mille indegni. -Di tutti gli altri beni, o che concede -Natura al mondo, o proprio studio acquista, -aver tanta e tal parte egli si vede, -qual e quanta altri aver mai s'abbia vista; -ch'a sua bellezza ogni bellezza cede, -ch'a sua possanza è raro chi resista: -di magnanimità, di splendor regio -a nessun, più ch'a lui, si debbe il pregio. -Ma il volgo, nel cui arbitrio son gli onori, -che, come pare a lui, li leva e dona -(né dal nome del volgo voglio fuori, -eccetto l'uom prudente, trar persona; -che né papi né re né imperatori -non ne tra' scettro, mitra né corona; -ma la prudenza, ma il giudizio buono, -grazie che dal ciel date a pochi sono); -questo volgo (per dir quel ch'io vo' dire) -ch'altro non riverisce che ricchezza, -né vede cosa al mondo, che più ammire, -e senza, nulla cura e nulla apprezza, -sia quanto voglia la beltà, l'ardire, -la possanza del corpo, la destrezza, -la virtù, il senno, la bontà; e più in questo -di ch'ora vi ragiono, che nel resto. -Dicea Ruggier: — Se pur è Amon disposto -che la figliuola imperatrice sia, -con Leon non concluda così tosto: -almen termine un anno anco mi dia; -ch'io spero intanto, che da me deposto -Leon col padre de l'imperio fia; -e poi che tolto avrò lor le corone, -genero indegno non sarò d'Amone. -Ma se fa senza indugio, come ha detto, -suocero de la figlia Costantino; -s'alla promessa non avrà rispetto -di Rinaldo e d'Orlando suo cugino, -fattami inanzi al vecchio benedetto, -al marchese Uliviero, al re Sobrino, -che farò? vo' patir sì grave torto? -o, prima che patirlo, esser pur morto? -Deh che farò? farò dunque vendetta -contra il padre di lei di questo oltraggio? -Non miro ch'io non son per farlo in fretta, -o s'in tentarlo io mi sia stolto o saggio. -Ma voglio presupor ch'a morte io metta -l'iniquo vecchio e tutto il suo lignaggio: -questo non mi farà però contento; -anzi in tutto sarà contra il mio intento. -E fu sempre il mio intento, ed è, che m'ami -la bella donna, e non che mi sia odiosa: -ma, quando Amone uccida, o facci o trami -cosa al fratello o agli altri suoi dannosa, -non le do iusta causa che mi chiami -nimico, e più non voglia essermi sposa? -Che debbo dunque far? debbol patire? -Ah non, per Dio! più tosto io vo' morire. -Anzi non vo' morir; ma vo' che muoia -con più ragion questo Leone Augusto, -venuto a disturbar tanta mia gioia: -o vo' che muoia egli e 'l suo padre ingiusto. -Elena bella all'amator di Troia -non costò sì, né a tempo più vetusto -Proserpina a Piritoo, come voglio -ch'al padre e al figlio costi il mio cordoglio. -Può esser, vita mia, che non ti doglia -lasciare il tuo Ruggier per questo Greco? -Potrà tuo padre far che tu lo toglia, -ancor ch'avesse i tuoi fratelli seco? -Ma sto in timor, ch'abbi più tosto voglia -d'esser d'accordo con Amon, che meco; -e che ti paia assai miglior partito -Cesare aver, ch'un privato uom marito. -Sarà possibil mai che nome regio, -titolo imperial, grandezza e pompa, -di Bradamante mia l'animo egregio, -il gran valor, l'alta virtù corrompa? -sì ch'abbia da tenere in minor pregio -la data fede, e le promesse rompa? -né più tosto d'Amon farsi nimica, -che quel che detto m'ha, sempre non dica? — -Diceva queste ed altre cose molte -ragionando fra sé Ruggiero; e spesso -le dicea in guisa ch'erano raccolte -da chi talor se gli trovava appresso: -sì che il tormento suo più di due volte -era a colei per cui pativa, espresso, -a cui non dolea meno il sentir lui -così doler, che i propri affanni sui. -Ma più d'ogni altro duol che le sia detto, -che tormenti Ruggier, di questo ha doglia, -ch'intende che s'affligge per sospetto -ch'ella lui lasci, e che quel Greco voglia. -Onde, acciò si conforti, e che del petto -questa credenza e questo error si toglia, -per una di sue fide cameriere -gli fe' queste parole un dì sapere: -— Ruggier, qual sempre fui, tal esser voglio -fin alla morte, e più, se più si puote. -O siami Amor benigno o m'usi orgoglio, -o me Fortuna in alto o in basso ruote, -immobil son di vera fede scoglio -che d'ogn'intorno il vento e il mar percuote: -né già mai per bonaccia né per verno -luogo mutai, né muterò in eterno. -Scarpello si vedrà di piombo o lima -formare in varie imagini diamante, -prima che colpo di Fortuna, o prima -ch'ira d'Amor rompa il mio cor costante; -e si vedrà tornar verso la cima -de l'alpe il fiume turbido e sonante, -che per nuovi accidenti, o buoni o rei, -faccino altro viaggio i pensier miei. -A voi, Ruggier, tutto il dominio ho dato -di me, che forse è più ch'altri non crede. -So ben ch'a nuovo principe giurato -non fu di questa mai la maggior fede. -So che né al mondo il più sicuro stato -di questo, re né imperator possiede. -Non vi bisogna far fossa né torre, -per dubbio ch'altri a voi lo venga a torre. -Che, senza ch'assoldiate altra persona, -non verrà assalto a cui non si resista. -Non è ricchezza ad espugnarmi buona, -né sì vil prezzo un cor gentile acquista. -Né nobiltà, né altezza di corona, -ch'al sciocco volgo abbagliar suol la vista, -non beltà, ch'in lieve animo può assai, -vedrò, che più di voi mi piaccia mai. -Non avete a temer ch'in forma nuova -intagliare il mio cor mai più si possa: -sì l'imagine vostra si ritrova -sculpita in lui, ch'esser non può rimossa. -Che 'l cor non ho di cera, è fatto prova; -che gli diè cento, non ch'una percossa, -Amor, prima che scaglia ne levasse, -quando all'imagin vostra lo ritrasse. -Avorio e gemma ed ogni pietra dura -che meglio da l'intaglio si difende, -romper si può; ma non ch'altra figura -prenda, che quella ch'una volta prende. -Non è il mio cor diverso alla natura -del marmo o d'altro ch'al ferro contende. -Prima esser può che tutto Amor lo spezze, -che lo possa sculpir d'altre bellezze. — -Suggiunse a queste altre parole molte, -piene d'amor, di fede e di conforto, -da ritornarlo in vita mille volte, -se stato mille volte fosse morto. -Ma quando più de la tempesta tolte -queste speranze esser credeano in porto, -da un nuovo turbo impetuoso e scuro -rispinte in mar, lungi dal lito, furo: -però che Bradamante, ch'eseguire -vorria molto più ancor, che non ha detto, -rivocando nel cor l'usato ardire, -e lasciando ir da parte ogni rispetto, -s'appresenta un dì a Carlo, e dice: — Sire, -s'a vostra Maestade alcuno effetto -io feci mai, che le paresse buono, -contenta sia di non negarmi un dono. -E prima che più espresso io le lo chieggia, -su la real sua fede mi prometta -farmene grazia; e vorrò poi, che veggia -che sarà iusta la domanda e retta. — -— Merta la tua virtù che dar ti deggia -ciò che domandi, o giovane diletta -(rispose Carlo); e giuro, se ben parte -chiedi del regno mio, di contentarte. — -— Il don ch'io bramo da l'Altezza vostra, -è che non lasci mai marito darme -(disse la damigella), se non mostra -che più di me sia valoroso in arme. -Con qualunche mi vuol, prima o con giostra -o con la spada in mano ho da provarme. -Il primo che mi vinca, mi guadagni: -chi vinto sia, con altra s'accompagni. — -Disse l'imperator con viso lieto, -che la domanda era di lei ben degna; -e che stesse con l'animo quieto, -che farà a punto quanto ella disegna. -Non è questo parlar fatto in segreto -sì, ch'a notizia altrui tosto non vegna; -e quel giorno medesimo alla vecchia -Beatrice e al vecchio Amon corre all'orecchia. -Li quali parimente arser di grande -sdegno contro alla figlia, e di grand'ira; -che vider ben con queste sue domande, -ch'ella a Ruggier più ch'a Leone aspira: -e presti per vietar che non si mande -questo ad effetto, a ch'ella intende e mira, -la levaro con fraude de la corte, -e la menaron seco a Roccaforte. -Quest'era una fortezza ch'ad Amone -donato Carlo avea pochi dì inante, -tra Pirpignano assisa e Carcassone, -in loco a ripa il mar, molto importante. -Quivi la ritenean come in prigione -con pensier di mandarla un dì in Levante; -sì ch'ogni modo, voglia ella o non voglia, -lasci Ruggier da parte, e Leon toglia. -La valorosa donna, che non meno -era modesta, ch'animosa e forte; -ancor che posto guardia non l'avieno, -e potea entrare e uscir fuor de le porte; -pur stava ubbidiente sotto il freno -del padre: ma patir prigione e morte, -ogni martìre e crudeltà più tosto -che mai lasciar Ruggier, s'avea proposto. -Rinaldo, che si vide la sorella -per astuzia d'Amon tolta di mano, -e che dispor non potrà più di quella, -e ch'a Ruggier l'avrà promessa invano; -si duol del padre, e contra a lui favella, -posto il rispetto filial lontano. -Ma poco cura Amon di tai parole, -e di sua figlia a modo suo far vuole. -Ruggier, che questo sente, ed ha timore -di rimaner de la sua donna privo, -e che l'abbia o per forza o per amore -Leon, se resta lungamente vivo; -senza parlarne altrui si mette in core -di far che muoia, e sia d'Augusto, Divo; -e tor, se non l'inganna la sua speme, -al padre e a lui la vita e 'l regno insieme. -L'arme che fur già del troiano Ettorre, -e poi di Mandricardo, si riveste, -e fa la sella al buon Frontino porre, -e cimier muta, scudo e sopraveste. -A questa impresa non gli piacque torre -l'aquila bianca nel color celeste, -ma un candido liocorno, come giglio, -vuol ne lo scudo, e 'l campo abbia vermiglio. -Sceglie de' suoi scudieri il più fedele, -e quel vuole e non altri in compagnia; -e gli fa commission, che non rivele -in alcun loco mai, che Ruggier sia. -Passa la Mosa e 'l Reno, e passa de le -contrade d'Ostericche, in Ungheria; -e lungo l'Istro per la destra riva -tanto cavalca, ch'a Belgrado arriva. -Ove la Sava nel Danubio scende, -e verso il mar maggior con lui dà volta, -vede gran gente in padiglioni e tende -sotto l'insegne imperial raccolta; -che Costantino ricovrare intende -quella città che i Bulgari gli han tolta. -Costantin v'è in persona, e 'l figliuol seco -con quanto può tutto l'imperio greco. -Dentro a Belgrado, e fuor per tutto il monte, -e giù fin dove il fiume il piè gli lava, -l'esercito del Bulgari gli è a fronte; -e l'uno e l'altro a ber viene alla Sava. -Sul fiume il Greco per gittare il ponte, -il Bulgar per vietarlo armato stava, -quando Ruggier vi giunse; e zuffa grande -attaccata trovò fra le due bande. -I Greci son quattro contr'uno, ed hanno -navi coi ponti da gittar ne l'onda; -e di voler fiero sembiante fanno -passar per forza alla sinistra sponda. -Leone intanto, con occulto inganno -dal fiume discostandosi, circonda -molto paese, e poi vi torna, e getta -ne l'altra ripa i ponti, e passa in fretta: -e con gran gente, chi in arcion, chi a piede -(che non n'avea di ventimila un manco), -cavalcò lungo la riviera, e diede -con fiero assalto agl'inimici al fianco. -L'imperator, tosto che 'l figlio vede -sul fiume comparirsi al lato manco, -ponte aggiungendo a ponte e nave a nave, -passa di là con quanto esercito have. -Il capo, il re de' Bulgari Vatrano, -animoso e prudente e pro' guerriero, -di qua e di là s'affaticava invano -per riparare a un impeto sì fiero; -quando cingendol con robusta mano -Leon, gli fe' cader sotto il destriero: -e poi che dar prigion mai non si volse, -con mille spade la vita gli tolse. -I Bulgari sin qui fatto avean testa; -ma quando il lor signor si vider tolto, -e crescer d'ogn'intorno la tempesta, -voltar le spalle ove avean prima il volto. -Ruggier, che misto vien fra i Greci, e questa -sconfitta vede, senza pensar molto, -i Bulgari soccorrer si dispone, -perch'odia Costantino e più Leone. -Sprona Frontin che sembra al corso un vento, -e inanzi a tutti i corridori passa; -e tra la gente vien, che per spavento -al monte fugge, e la pianura lassa. -Molti ne ferma, e fa voltare il mento -contra i nimici, e poi la lancia abassa; -e con sì fier sembiante il destrier muove, -che fin nel ciel Marte ne teme e Giove. -Dinanzi agli altri un cavalliero adocchia, -che riccamato nel vestir vermiglio -avea d'oro e di seta una pannocchia -con tutto il garbo, che parea di miglio; -nipote a Costantin per la sirocchia, -ma che non gli era men caro, che figlio: -gli spezza scudo e osbergo, come vetro, -e fa la lancia un palmo apparir dietro. -Lascia quel morto, e Balisarda stringe -verso uno stuol che più si vede appresso; -e contra a questo e contra a quel si spinge, -ed a chi tronco ed a chi il capo ha fesso: -a chi nel petto, a chi nel fianco tinge -il brando, e a chi l'ha ne la gola messo: -taglia busti, anche, braccia, mani e spalle; -e il sangue, come un rio, corre alla valle. -Non è, visti quei colpi, chi gli faccia -contrasto più, così n'è ognun smarrito; -sì che si cangia subito la faccia -de la battaglia; che tornando ardito, -il petto volge, e ai Greci dà la caccia -il Bulgaro che dianzi era fuggito: -in un momento ogni ordine disciolto -si vede, e ogni stendardo a fuggir volto. -Leone Augusto s'un poggio eminente, -vedendo i suoi fuggir, s'era ridutto; -e sbigottito e mesto ponea mente -(perch'era in loco che scopriva il tutto) -al cavallier ch'uccidea tanta gente, -che per lui sol quel campo era distrutto: -e non può far, se ben n'è offeso tanto, -che non lo lodi e gli dia in arme il vanto. -Ben comprende all'insegne e sopravesti, -all'arme luminose e ricche d'oro, -che quantunque il guerrier dia aiuto a questi -nimici suoi, non sia però di loro. -Stupido mira i soprumani gesti, -e talor pensa che dal sommo coro -sia per punire i Greci un agnol sceso, -che tante e tante volte hanno Dio offeso. -E come uom d'alto e di sublime core, -ove l'avrian molt'altri in odio avuto, -egli s'innamorò del suo valore, -né veder fargli oltraggio avria voluto: -gli sarebbe per un de' suoi che muore, -vederne morir sei manco spiaciuto, -e perder anco parte del suo regno, -che veder morto un cavallier sì degno. -Come bambin, se ben la cara madre -iraconda lo batte e da sé caccia, -non ha ricorso alla sorella o al padre, -ma a lei ritorna, e con dolcezza abbraccia; -così Leon, se ben le prime squadre -Ruggier gli uccide, e l'altre gli minaccia, -non lo può odiar, perch'all'amor più tira -l'alto valor, che quella offesa all'ira. -Ma se Leon Ruggiero ammira ed ama, -mi par che duro cambio ne riporte; -che Ruggiero odia lui, né cosa brama -più che di dargli di sua man la morte. -Molto con gli occhi il cerca, ed alcun chiama, -che gliele mostri; ma la buona sorte -e la prudenza de l'esperto Greco -non lasciò mai che s'affrontasse seco. -Leone, acciò che la sua gente affatto -non fosse uccisa, fe' sonar raccolta; -ed all'imperatore un messo ratto -a pregarlo mandò, che desse volta -e ripassasse il fiume; e che buon patto -n'avrebbe, se la via non gli era tolta: -ed esso con non molti che raccolse, -al ponte ond'era entrato, i passi volse. -Molti in poter de' Bulgari restaro -per tutto il monte, e sin al fiume uccisi; -e vi restavan tutti, se 'l riparo -non gli avesse del rio tosto divisi. -Molti cader dai ponti e s'affogaro; -e molti, senza mai volgere i visi, -quindi lontano iro a trovare il guado; -e molti fur prigion tratti in Belgrado. -Finita la battaglia di quel giorno, -ne la qual, poi che il lor signor fu estinto, -danno i Bulgari avriano avuto e scorno, -se per lor non avesse il guerrier vinto, -il buon guerrier che 'l candido liocorno -ne lo scudo vermiglio avea dipinto; -a lui si trasson tutti, da cui questa -vittoria conoscean, con gioia e festa. -Uno il saluta, un altro se gl'inchina, -altri la mano, altri gli bacia il piede: -ognun, quanto più può, se gli avvicina, -e beato si tien chi appresso il vede, -e più chi 'l tocca; che toccar divina -e sopranatural cosa si crede. -Lo pregan tutti, e vanno al ciel le grida, -che sia lor re, lor capitan, lor guida. -Ruggier rispose lor, che capitano -e re sarà, quel che fia lor più a grado; -ma né a baston né a scettro ha da por mano, -né per quel giorno entrar vuole in Belgrado: -che prima che si faccia più lontano -Leon Augusto, e che ripassi il guado, -lo vuol seguir, né torsi da la traccia, -fin che nol giunga e che morir nol faccia; -che mille miglia e più, per questo solo -era venuto, e non per altro effetto. -Così senza indugiar lascia lo stuolo, -e si volge al camin che gli vien detto, -che verso il ponte fa Leone a volo, -forse per dubbio che gli sia intercetto. -Gli va dietro per l'orma in tanta fretta, -che 'l suo scudier non chiama e non aspetta. -Leone ha nel fuggir tanto vantaggio -(fuggir si può ben dir, più che ritrarse), -che trova aperto e libero il passaggio; -poi rompe il ponte, e lascia le navi arse. -Non v'arriva Ruggier, ch'ascoso il raggio -era del sol, né sa dove alloggiarse. -Cavalca inanzi, che lucea la luna, -né mai trova castel né villa alcuna. -Perché non sa dove si por, camina -tutta la notte, né d'arcion mai scende. -Ne lo spuntar del nuovo sol vicina -a man sinistra una città comprende; -ove di star tutto quel dì destina, -acciò l'ingiuria al suo Frontino emende, -a cui, senza posarlo o trargli briglia, -la notte fatto avea far tante miglia. -Ungiardo era signor di quella terra, -suddito e caro a Costantino molto, -ove avea per cagion di quella guerra -da cavallo e da piè buon numer tolto. -Quivi ove altrui l'entrata non si serra, -entra Ruggiero, e v'è sì ben raccolto, -che non gli accade di passar più avante -per aver miglior loco e più abondante. -Nel medesimo albergo in su la sera -un cavallier di Romania alloggiosse, -che si trovò ne la battaglia fiera, -quando Ruggier pei Bulgari si mosse, -ed a pena di man fuggito gli era, -ma spaventato più ch'altri mai fosse; -sì ch'ancor triema, e pargli ancora intorno -avere il cavallier dal liocorno. -Conosce, tosto che lo scudo vede, -che 'l cavallier che quella insegna porta, -è quel che la sconfitta ai Greci diede, -per le cui mani è tanta gente morta. -Corre al palazzo, ed udienza chiede, -per dire a quel signor cosa ch'importa; -e subito intromesso, dice quanto -io mi riserbo a dir ne l'altro canto. -Quanto più su l'instabil ruota vedi -di Fortuna ire in alto il miser uomo, -tanto più tosto hai da vedergli i piedi -ove ora ha il capo, e far cadendo il tomo. -Di questo esempio è Policràte, e il re di -Lidia, e Dionigi, ed altri ch'io non nomo, -che ruinati son da la suprema -gloria in un dì ne la miseria estrema. -Così all'incontro, quanto più depresso, -quanto è più l'uom di questa ruota al fondo, -tanto a quel punto più si trova appresso, -ch'a da salir, se de' girarsi in tondo. -Alcun sul ceppo quasi il capo ha messo, -che l'altro giorno ha dato legge al mondo. -Servio e Mario e Ventidio l'hanno mostro -al tempo antico, e il re Luigi al nostro: -il re Luigi, suocero del figlio -del duca mio; che rotto a Santo Albino, -e giunto al suo nimico ne l'artiglio, -a restar senza capo fu vicino. -Scorse di questo anco maggior periglio, -non molto inanzi, il gran Matia Corvino. -Poi l'un, de' Franchi passato quel punto, -l'altro al regno degli Ungari fu assunto. -Si vede per gli esempi di che piene -sono l'antiche e le moderne istorie, -che 'l ben va dietro al male, e 'l male al bene, -e fin son l'un de l'altro e biasmi e glorie; -e che fidarsi a l'uom non si conviene -in suo tesor, suo regno e sue vittorie, -né disperarsi per Fortuna avversa, -che sempre la sua ruota in giro versa. -Ruggier per la vittoria ch'avea avuto -di Leone e del padre imperatore, -in tanta confidenza era venuto -di sua fortuna e di suo gran valore, -che senza compagnia, senz'altro aiuto, -di poter egli sol gli dava il core -fra cento a piè e a cavallo armate squadre -uccider di sua mano il figlio e il padre. -Ma quella, che non vuol che si prometta -alcun di lei, gli mostrò in pochi giorni, -come tosto alzi e tosto al basso metta, -e tosto avversa e tosto amica torni. -Lo fe' conoscer quivi da chi in fretta -a procacciargli andò disagi e scorni, -dal cavallier che ne la pugna fiera -di man fuggito a gran fatica gli era. -Costui fece ad Ungiardo saper, come -quivi il guerrier ch'avea le genti rotte -di Costantino e per molt'anni dome, -stato era il giorno, e vi staria la notte; -e che Fortuna presa per le chiome, -senza che più travagli o che più lotte, -darà al suo re, se fa costui prigione; -ch'a' Bulgari, lui preso, il giogo pone. -Ungiardo da la gente, che fuggita -de la battaglia, a lui s'era ridutta -(ch'a parte a parte v'arrivò infinita, -perch'al ponte passar non potea tutta), -sapea come la strage era seguita, -che la metà de' Greci avea distrutta; -e come un cavallier solo era stato, -ch'un campo rotto, e l'altro avea salvato: -e che sia da se stesso senza caccia -venuto a dar del capo ne la rete, -si maraviglia, e mostra che gli piaccia, -con viso e gesti e con parole liete. -Aspetta che Ruggier dormendo giaccia; -poi manda le sue gente chete chete, -e fa il buon cavallier, ch'alcun sospetto -di questo non avea, prender nel letto. -Accusato Ruggier dal proprio scudo, -ne la città di Novengrado resta -prigion d'Ungiardo, il più d'ogni altro crudo, -che fa di ciò maravigliosa festa. -E che può far Ruggier, poi che gli è nudo, -ed è legato già, quando si desta? -Ungiardo un suo corrier spaccia a staffetta -a dar la nuova a Costantino in fretta. -Avea levato Costantin la notte -da le ripe di Sava ogni sua schiera; -e seco a Beleticche avea ridotte, -che città del cognato Androfilo era, -padre di quello a cui forate e rotte -(come se state fossino di cera) -al primo incontro l'arme avea il gagliardo -cavallier, or prigion del fiero Ungiardo. -Quivi fortificar facea le mura -l'imperatore, e riparar le porte; -che de' Bulgari ben non s'assicura, -che con la guida d'un guerrier sì forte -non gli faccino peggio che paura, -e 'l resto ponghin di sua gente a morte. -Or che l'ode prigion, né quelli teme, -né se con lor sia il mondo tutto insieme. -L'imperator nuota in un mar di latte, -né per letizia sa quel che si faccia. -— Ben son le genti bulgare disfatte, — -dice con lieta e con sicura faccia. -Come de la vittoria, chi combatte, -se troncasse al nimico ambe le braccia, -certo saria, così n'è certo, e gode -l'imperator, poi che 'l guerrier preso ode. -Non ha minor cagion di rallegrarsi -del padre il figlio; ch'oltre che si spera -di racquistar Belgrado, e soggiugarsi -ogni contrada che de' Bulgari era; -disegna anco il guerriero amico farsi -con benefici, e seco averlo in schiera. -Né Rinaldo né Orlando a Carlo Magno -ha da invidiar, se gli è costui compagno. -Da questa voglia è ben diversa quella -di Teodora, a chi 'l figliuolo uccise -Ruggier con l'asta che da la mammella -passò alle spalle, e un palmo fuor si mise. -A Costantin, del quale era sorella, -costei si gittò a' piedi, e gli conquise -e intenerigli il cor d'alta pietade -col largo pianto che nel sen le cade. -— Io non mi leverò da questi piedi -(diss'ella), signor mio, se del fellone -ch'uccise il mio figliuol, non mi conciedi -di vendicare, or che l'abbiàn prigione. -Oltre che stato t'è nipote, vedi -quanto t'amò, vedi quant'opre buone -ha per te fatto, e vedi s'avrai torto -di non lo vendicar di chi l'ha morto. -Vedi che per pietà del nostro duolo -ha Dio fatto levar da la campagna -questo crudele, e come augello a volo, -a dar ce l'ha condotto ne la ragna, -acciò in ripa di Stige il mio figliuolo -molto senza vendetta non rimagna. -Dammi costui, signore, e sii contento -ch'io disacerbi il mio col suo tormento. — -Così ben piange, e così ben si duole, -e così bene ed efficace parla; -né dai piedi levar mai se gli vuole, -ben che tre volte e quattro per levarla -usasse Costantino atti e parole; -ch'egli è forzato al fin di contentarla: -e così comandò che si facesse -colui condurre, e in man di lei si desse. -E per non fare in ciò lunga dimora, -condotto hanno il guerrier del liocorno, -e dato in mano alla crudel Teodora, -che non vi fu intervallo più d'un giorno. -Il far che sia squartato vivo, e muora -publicamente con obbrobrio e scorno, -poca pena le pare, e studia e pensa -altra trovarne inusitata e immensa. -La femina crudel lo fece porre, -incatenato e mani e piedi e collo, -nel tenebroso fondo d'una torre, -ove mai non entrò raggio d'Apollo. -Fuor ch'un poco di pan muffato, torre -gli fe' ogni cibo, e senza ancor lassollo -duo dì talora; e lo diè in guardia a tale, -ch'era di lei più pronto a fargli male. -Oh! se d'Amon la valorosa e bella -figlia, oh se la magnanima Marfisa -avesse avuto di Ruggier novella, -ch'in prigion tormentasse a questa guisa; -per liberarlo saria questa e quella -postasi al rischio di restarne uccisa; -né Bradamante avria, per dargli aiuto, -a Beatrice o Amon rispetto avuto. -Re Carlo intanto avendo la promessa -a costei fatta in mente, che consorte -dar non le lascierà, che sia men d'essa -al paragon de l'arme ardito e forte; -questa sua voluntà con trombe espressa -non solamente fe' ne la sua corte, -ma in ogni terra al suo imperio soggetta; -onde la fama andò pel mondo in fretta. -Questa condizion contiene il bando: -chi la figlia d'Amon per moglie vuole, -star con lei debba a paragon del brando -da l'apparire al tramontar del sole; -e fin a questo termine durando, -e non sia vinto, senz'altre parole -la donna da lui vinta esser s'intenda, -né possa ella negar che non lo prenda; -e che l'eletta ella de l'arme dona, -senza mirar chi sia di lor, che chiede. -E lo potea ben far, perch'era buona -con tutte l'arme, o sia a cavallo o a piede. -Amon, che contrastar con la Corona -non può né vuole, al fin sforzato cede; -e ritornare a corte si consiglia, -dopo molti discorsi, egli e la figlia. -Ancor che sdegno e colera la madre -contra la figlia avea, pur per suo onore -vesti le fece far ricche e leggiadre -a varie fogge e di più d'un colore. -Bradamante alla corte andò col padre; -e quando quivi non trovò il suo amore, -più non le parve quella corte, quella -che le solea parer già così bella. -Come chi visto abbia, l'aprile o il maggio, -giardin di frondi e di bei fiori adorno, -e lo rivegga poi che 'l sol il raggio -all'austro inchina, e lascia breve il giorno, -lo trova deserto, orrido e selvaggio; -così pare alla donna al suo ritorno, -che da Ruggier la corte abandonata -quella non sia, ch'avea al partir lasciata. -Domandar non ardisce che ne sia, -acciò di sé non dia maggior sospetto; -ma pon l'orecchia, e cerca tuttavia -che senza domandar le ne sia detto. -Si sa ch'egli è partito, ma che via -pres'abbia, non fa alcun vero concetto; -perché partendo ad altri non fe' motto, -ch'allo scudier che seco avea condotto. -Oh come ella sospira! oh come teme, -sentendo che se n'è come fuggito! -Oh come sopra ogni timor le preme, -che per porla in oblio se ne sia gito! -che vistosi Amon contra, ed ogni speme -perduta mai più d'esserle marito, -si sia fatto da lei lontano, forse -così sperando dal suo amor disciorse; -e che fatt'abbia ancor qualche disegno, -per più tosto levarsela dal core, -d'andar cercando d'uno in altro regno -donna per cui si scordi il primo amore, -come si dice che si suol d'un legno -talor chiodo con chiodo cacciar fuore. -Nuovo pensier ch'a questo poi succede, -le dipinge Ruggier pieno di fede; -e lei, che dato orecchie abbia, riprende, -a tanta iniqua suspizione e stolta. -E così l'un pensier Ruggier difende, -l'altro l'accusa: ed ella amenduo ascolta, -e quando a questo e quando a quel s'apprende, -né risoluta a questo o a quel si volta. -Pur all'opinion più tosto corre, -che più le giova, e la contraria aborre. -E talor anco che le torna a mente -quel che più volte il suo Ruggier le ha detto, -come di grave error, si duole e pente, -ch'avuto n'abbia gelosia e sospetto; -e come fosse al suo Ruggier presente, -chiamasi in colpa, e se ne batte il petto. -— Ho fatto error (dice ella), e me n'aveggio; -ma chi n'è causa, è causa ancor di peggio. -Amor n'è causa, che nel cor m'ha impresso -la forma tua così leggiadra e bella; -e posto ci ha l'ardir, l'ingegno appresso, -e la virtù di che ciascun favella; -ch'impossibil mi par, ch'ove concesso -ne sia il veder, ch'ogni donna e donzella -non ne sia accesa, e che non usi ogni arte -di sciorti dal mio amore e al suo legarte. -Deh avesse Amor così nei pensier miei -il tuo pensier, come ci ha il viso sculto! -Io son ben certa che lo troverei -palese tal, qual io lo stimo occulto; -e che sì fuor di gelosia sarei, -ch'ad or ad or non mi farebbe insulto; -e dove a pena or è da me respinta, -rimarria morta, non che rotta e vinta. -Son simile all'avar c'ha il cor sì intento -al suo tesoro, e sì ve l'ha sepolto, -che non ne può lontan viver contento, -né non sempre temer che gli sia tolto. -Ruggiero, or può, ch'io non ti veggo e sento, -in me, più de la speme, il timor molto, -il qual ben che bugiardo e vano io creda, -non posso far di non mi dargli in preda. -Ma non apparirà il lume sì tosto -agli occhi miei del tuo viso giocondo, -contra ogni mia credenza a me nascosto, -non so in qual parte, o Ruggier mio, del mondo, -come il falso timor sarà deposto -da la vera speranza e messo al fondo. -Deh torna a me, Ruggier, torna, e conforta -la speme che 'l timor quasi m'ha morta! -Come al partir del sol si fa maggiore -l'ombra, onde nasce poi vana paura; -e come all'apparir del suo splendore -vien meno l'ombra, e 'l timido assicura: -così senza Ruggier sento timore; -se Ruggier veggo, in me timor non dura. -Deh torna a me, Ruggier, deh torna prima -che 'l timor la speranza in tutto opprima! -Come la notte ogni fiammella è viva, -e riman spenta subito ch'aggiorna; -così, quando il mio sol di sé mi priva, -mi leva incontra il rio timor le corna: -ma non sì tosto all'orizzonte arriva, -che 'l timor fugge, e la speranza torna. -Deh torna a me, deh torna, o caro lume, -e scaccia il rio timor che mi consume! -Se 'l sol si scosta, e lascia i giorni brevi, -quanto di bello avea la terra asconde; -fremono i venti, e portan ghiacci e nievi; -non canta augel, né fior si vede o fronde: -così, qualora avvien che da me levi, -o mio bel sol, le tue luci gioconde, -mille timori, e tutti iniqui, fanno -un aspro verno in me più volte l'anno. -Deh torna a me, mio sol, torna, e rimena -la desiata dolce primavera! -Sgombra i ghiacci e le nievi, e rasserena -la mente mia sì nubilosa e nera. — -Qual Progne si lamenta o Filomena -ch'a cercar esca ai figliolini ita era, -e trova il nido voto; o qual si lagna -turture c'ha perduto la compagna: -tal Bradamante si dolea, che tolto -le fosse stato il suo Ruggier temea, -di lacrime bagnando spesso il volto, -ma più celatamente che potea. -Oh quanto, quanto si dorria più molto, -s'ella sapesse quel che non sapea, -che con pena e con strazio il suo consorte -era in prigion, dannato a crudel morte! -La crudeltà ch'usa l'iniqua vecchia -contra il buon cavallier che preso tiene, -e che di dargli morte s'apparecchia -con nuovi strazi e non usate pene, -la superna Bontà fa ch'all'orecchia -del cortese figliuol di Cesar viene; -e che gli mette in cor, come l'aiute, -e non lasci perir tanta virtute. -Il cortese Leon che Ruggiero ama -(non che sappi però che Ruggier sia), -mosso da quel valor ch'unico chiama, -e che gli par che soprumano sia, -molto fra sé discorre, ordisce e trama, -e di salvarlo al fin trova la via, -in guisa che da lui la zia crudele -offesa non si tenga e si querele. -Parlò in secreto a chi tenea la chiave -de la prigione; e che volea, gli disse, -vedere il cavallier pria che sì grave -sentenza, contra lui data, seguisse. -Giunta la notte, un suo fedel seco have -audace e forte, ed atto a zuffe e a risse; -e fa che 'l castellan, senz'altrui dire -ch'egli fosse Leon, gli viene aprire. -Il castellan, senza ch'alcun de' sui -seco abbia, occultamente Leon mena -col compagno alla torre ove ha colui -che si serba all'estrema d'ogni pena. -Giunti là dentro, gettano amendui -al castellan che volge lor la schena -per aprir lo sportello, al collo un laccio, -e subito gli dan l'ultimo spaccio. -Apron la cataratta, onde sospeso -al canape, ivi a tal bisogno posto, -Leon si cala, e in mano ha un torchio acceso, -là dove era Ruggier dal sol nascosto. -Tutto legato, e s'una grata steso -lo trova, all'acqua un palmo e men discosto. -L'avria in un mese e in termine più corto, -per sé, senz'altro aiuto, il luogo morto. -Leon Ruggier con gran pietade abbraccia, -e dice: — Cavallier, la tua virtude -indissolubilmente a te m'allaccia -di voluntaria eterna servitute; -e vuol che più il tuo ben, che 'l mio, mi piaccia, -né curi per la tua la mia salute, -e che la tua amicizia al padre e a quanti -parenti io m'abbia al mondo, io metta inanti. -Io son Leone, acciò tu intenda, figlio -di Costantin, che vengo a darti aiuto, -come vedi, in persona, con periglio -(se mai dal padre mio sarà saputo) -d'esser cacciato, o con turbato ciglio -perpetuamente esser da lui veduto; -che per la gente la qual rotta e morta -da te gli fu a Belgrado, odio ti porta. — -E seguitò, più cose altre dicendo -da farlo ritornar da morte a vita; -e lo vien tuttavolta disciogliendo. -Ruggier gli dice: — Io v'ho grazia infinita; -e questa vita ch'or mi date, intendo -che sempremai vi sia restituita, -che la vogliate riavere, ed ogni -volta che per voi spenderla bisogni. — -Ruggier fu tratto di quel loco oscuro, -e in vece sua morto il guardian rimase; -né conosciuto egli né gli altri furo. -Leon menò Ruggiero alle sue case, -ove a star seco tacito e sicuro -per quattro o per sei dì gli persuase; -che riaver l'arme e 'l destrier gagliardo -gli faria intanto, che gli tolse Ungiardo. -Ruggier fuggito, il suo guardian strozzato -si trova il giorno, e aperta la prigione. -Chi quel, chi questo pensa che sia stato; -ne parla ognun, né però alcun s'appone. -Ben di tutti gli altri uomini pensato -più tosto si saria, che di Leone; -che pare a molti ch'avria causa avuto -di farne strazio, e non di dargli aiuto. -Riman di tanta cortesia Ruggiero -confuso sì, sì pien di maraviglia, -e tramutato sì da quel pensiero -che quivi tratto l'avea tante miglia, -che mettendo il secondo col primiero, -né a questo quel, né questo a quel simiglia. -Il primo tutto era odio, ira e veneno; -di pietade è il secondo e d'amor pieno. -Molto la notte e molto il giorno pensa, -d'altro non cura ed altro non disia, -che da l'obbligazion che gli avea immensa, -sciorsi con pari e maggior cortesia. -Gli par, se tutta sua vita dispensa -in lui servire, o breve o lunga sia, -e se s'espone a mille morti certe, -non gli può tanto far, che più non merte. -Venuta quivi intanto era la nuova -del bando ch'avea fatto il re di Francia, -che chi vuol Bradamante, abbia a far prova -con lei di forza, con spada e con lancia. -Questo udir a Leon sì poco giova, -che se gli vede impallidir la guancia; -perché, come uom che le sue forze ha note, -sa ch'a lei pare in arme esser non puote. -Fra sé discorre, e vede che supplire -può con l'ingegno, ove il vigor sia manco, -facendo con sue insegne comparire -questo guerrier di cui non sa il nome anco; -che di possanza iudica e d'ardire -poter star contra a qualsivoglia Franco: -e crede ben, s'a lui ne dà l'impresa, -che ne fia vinta Bradamante e presa. -Ma due cose ha da far: l'una, disporre -il cavallier, che questa impresa accetti; -l'altra, nel campo in vece sua lui porre -in modo che non sia chi ne sospetti. -A sé lo chiama, e 'l caso gli discorre, -e pregal poi con efficaci detti, -ch'egli sia quel ch'a questa pugna vegna -col nome altrui, sotto mentita insegna. -L'eloquenza del Greco assai potea; -ma più de l'eloquenza potea molto -l'obbligo grande che Ruggier gli avea, -da mai non ne dovere essere isciolto: -sì che quantunque duro gli parea, -e non possibil quasi; pur con volto, -più che con cor giocondo, gli rispose -ch'era per far per lui tutte le cose. -Ben che da fier dolor, tosto che questa -parola ha detta, il cor ferir si senta, -che giorno e notte e sempre lo molesta, -sempre l'affligge e sempre lo tormenta, -e vegga la sua morte manifesta; -pur è mai per dir che se ne penta; -che prima ch'a Leon non ubbidire, -mille volte, non ch'una, è per morire. -Ben certo è di morir; perché, se lascia -la donna, ha da lasciar la vita ancora: -o che l'accorerà il duolo e l'ambascia; -o se 'l duolo e l'ambascia non l'accora, -con le man proprie squarcerà la fascia -che cinge l'alma, e ne la trarrà fuora; -ch'ogni altra cosa più facil gli fia, -che poter lei veder, che sua non sia. -Gli è di morir disposto; ma che sorte -di morte voglia far, non sa dir anco. -Pensa talor di fingersi men forte, -e porger nudo alla donzella il fianco; -che non fu mai la più beata morte, -che se per man di lei venisse manco. -Poi vede, se per lui resta che moglie -sia di Leon, che l'obbligo non scioglie: -perché ha promesso contra Bradamante -entrare in campo a singular battaglia; -non simulare, e farne sol sembiante, -sì che Leon di lui poco si vaglia. -Dunque starà nel detto suo costante; -e ben che or questo or quel pensier l'assaglia, -tutti li scaccia, e solo a questo cede, -il qual l'esorta a non mancar di fede. -Avea già fatto apparecchiar Leone, -con licenza del patre Costantino, -arme e cavalli, e un numer di persone -qual gli convenne, e entrato era in camino; -e seco avea Ruggiero, a cui le buone -arme avea fatto rendere e Frontino: -e tanto un giorno e un altro e un altro andaro -ch'in Francia ed a Parigi si trovaro. -Non volse entrar Leon ne la cittate, -e i padiglioni alla campagna tese; -e fe' il medesmo dì per imbasciate, -che di sua giunta il re di Francia intese. -L'ebbe il re caro; e gli fu più fiate, -donando e visitandolo, cortese. -De la venuta sua la cagion disse -Leone, e lo pregò che l'espedisse: -ch'entrar facesse in campo la donzella -che marito non vuol di lei men forte; -quando venuto era per fare o ch'ella -moglier gli fosse, o che gli desse morte. -Carlo tolse l'assunto, e fece quella -comparir l'altro dì fuor de le porte, -ne lo steccato che la notte sotto -all'alte mura fu fatto di botto. -La notte ch'andò inanzi al terminato -giorno de la battaglia, Ruggiero ebbe -simile a quella che suole il dannato -aver, che la matina morir debbe. -Eletto avea combatter tutto armato, -perch'esser conosciuto non vorrebbe; -né lancia né destriero adoprar volse, -né, fuor che 'l brando, arme d'offesa tolse. -Lancia non tolse; non perché temesse -di quella d'or, che fu de l'Argalia, -e poi d'Astolfo a cui costei successe, -che far gli arcion votar sempre solia: -perché nessun, ch'ella tal forza avesse, -o fosse fatta per negromanzia, -avea saputo, eccetto quel re solo -che far la fece e la donò al figliuolo. -Anzi Astolfo e la donna, che portata -l'aveano poi, credean che non l'incanto, -ma la propria possanza fosse stata, -che dato loro in giostra avesse il vanto; -e che con ogni altra asta ch'incontrata -fosse da lor, farebbono altretanto. -La cagion sola, che Ruggier non giostra, -è per non far del suo Frontino mostra: -che lo potria la donna facilmente -conoscer, se da lei fosse veduto; -però che cavalcato, e lungamente -in Montalban l'avea seco tenuto. -Ruggier che solo studia e solo ha mente -come da lei non sia riconosciuto, -né vuol Frontin, né vuol cos'altra avere, -che di far di sé indizio abbia potere. -A questa impresa un'altra spada volle; -che ben sapea che contra a Balisarda -saria ogn'osbergo, come pasta, molle; -ch'alcuna tempra quel furor non tarda: -e tutto 'l taglio anco a quest'altra tolle -con un martello, e la fa men gagliarda. -Con quest'arme Ruggiero al primo lampo -ch'apparve all'orizzonte, entrò nel campo. -E per parer Leon, le sopraveste -che dianzi ebbe Leon, s'ha messe indosso; -e l'aquila de l'or con le due teste -porta dipinta ne lo scudo rosso. -E facilmente si potean far queste -finzion; ch'era ugualmente grande e grosso -l'un come l'altro. Appresentossi l'uno; -l'altro non si lasciò veder d'alcuno. -Era la voluntà de la donzella -da quest'altra diversa di gran lunga; -che, se Ruggier su la spada martella -per rintuzzarla, che non tagli o punga, -la sua la donna aguzza, e brama ch'ella -entri nel ferro, e sempre al vivo giunga, -anzi ogni colpo sì ben tagli e fore, -che vada sempre a ritrovargli il core. -Qual su le mosse il barbaro si vede, -che 'l cenno del partir fugoso attende, -né qua né là poter fermare il piede, -gonfiar le nare, e che l'orecchie tende; -tal l'animosa donna che non crede -che questo sia Ruggier con chi contende, -aspettando la tromba, par che fuoco -ne le vene abbia, e non ritrovi loco. -Qual talor, dopo il tuono, orrido vento -subito segue, che sozzopra volve -l'ondoso mare, e leva in un momento -da terra fin al ciel l'oscura polve; -fuggon le fiere, e col pastor l'armento; -l'aria in grandine e in pioggia si risolve; -udito il segno la donzella, tale -stringe la spada, e 'l suo Ruggiero assale. -Ma non più quercia antica, o grosso muro -di ben fondata torre a borea cede, -né più all'irato mar lo scoglio duro, -che d'ogni intorno il dì e la notte il fiede; -che sotto l'arme il buon Ruggier sicuro, -che già al troiano Ettòr Vulcano diede, -ceda all'odio e al furor che lo tempesta -or ne' fianchi, or nel petto, or ne la testa. -Quando di taglio la donzella, quando -mena di punta; e tutta intenta mira -ove cacciar tra ferro e ferro il brando, -sì che si sfoghi e disacerbi l'ira. -Or da un lato, or da un altro il va tentando; -quando di qua, quando di là s'aggira; -e si rode e si duol che non le avegna -mai fatta alcuna cosa che disegna. -Come chi assedia una città che forte -sia di buon fianchi e di muraglia grossa, -spesso l'assalta, or vuol batter le porte, -or l'alte torri, or atturar la fossa; -e pone indarno le sue genti a morte, -né via sa ritrovar ch'entrar vi possa: -così molto s'affanna e si travaglia, -né può la donna aprir piastra né maglia. -Quando allo scudo e quando al buon elmetto, -quando all'osbergo fa gittar scintille -con colpi ch'alle braccia, al capo, al petto -mena dritti e riversi, e mille e mille, -e spessi più, che sul sonante tetto -la grandine far soglia de le ville. -Ruggier sta su l'avviso, e si difende -con gran destrezza, e lei mai non offende. -Or si ferma, or volteggia, or si ritira, -e con la man spesso accompagna il piede. -Porge or lo scudo, ed or la spada gira -ove girar la man nimica vede. -O lei non fere, o se la fere, mira -ferirla in parte ove men nuocer crede. -La donna, prima che quel dì s'inchine, -brama di dare alla battaglia fine. -Si ricordò del bando, e si ravvide -del suo periglio, se non era presta; -che se in un dì non prende o non uccide -il suo domandator, presa ella resta. -Era già presso ai termini d'Alcide -per attuffar nel mar Febo la testa, -quando ella cominciò di sua possanza -a difidarsi, e perder la speranza. -Quanto mancò più la speranza, crebbe -tanto più l'ira, e radoppiò le botte; -che pur quell'arme rompere vorrebbe, -ch'in tutto un dì non avea ancora rotte: -come colui ch'al lavorio che debbe, -sia stato lento, e già vegga esser notte, -s'affretta indarno, si travaglia e stanca, -fin che la forza a un tempo e il dì gli manca. -O misera donzella, se costui -tu conoscessi, a cui dar morte brami, -se lo sapessi esser Ruggier, da cui -de la tua vita pendono li stami; -so ben ch'uccider te, prima che lui, -vorresti; che di te so che più l'ami: -e quando lui Ruggiero esser saprai, -di questi colpi ancor, so, ti dorrai. -Carlo e molt'altri seco, che Leone -esser costui credeansi, e non Ruggiero, -veduto come in arme, al paragone -di Bradamante, forte era e leggiero; -e, senza offender lei, con che ragione -difender si sapea; mutan pensiero, -e dicon: — Ben convengono amendui; -ch'egli è di lei ben degno, ella di lui. — -Poi che Febo nel mar tutt'è nascoso, -Carlo, fatta partir quella battaglia, -giudica che la donna per suo sposo -prenda Leon, né ricusar lo vaglia. -Ruggier, senza pigliar quivi riposo, -senz'elmo trarsi o alleggierirsi maglia, -sopra un picciol ronzin torna in gran fretta -ai padiglioni ove Leon l'aspetta. -Gittò Leone al cavallier le braccia -duo volte e più fraternamente al collo; -e poi, trattogli l'elmo da la faccia, -di qua e di là con grande amor baciollo. -— Vo' (disse) che di me sempre tu faccia -come ti par; che mai trovar satollo -non mi potrai, che me e lo stato mio -spender tu possa ad ogni tuo disio. -Né veggo ricompensa che mai questa -obligazion ch'io t'ho, possi disciorre; -e non, s'ancora io mi levi di testa -la mia corona, e a te la venghi a porre. — -Ruggier, di cui la mente ange e molesta -alto dolore, e che la vita aborre, -poco risponde, e l'insegne gli rende, -che n'avea aute, e 'l suo liocorno prende. -E stanco dimostrandosi e svogliato, -più tosto che poté, da lui levosse; -ed al suo alloggiamento ritornato, -poi che fu mezzanotte, tutto armosse; -e sellato il destrier, senza commiato, -e senza che d'alcun sentito fosse, -sopra vi salse, e si drizzò al camino -che più piacer gli parve al suo Frontino. -Frontino or per via dritta or per via torta, -quando per selve e quando per campagna -il suo signor tutta la notte porta, -che non cessa un momento che non piagna: -chiama la morte, e in quella si conforta, -che l'ostinata doglia sola fragna; -né vede, altro che morte, chi finire -possa l'insopportabil suo martire. -— Di chi mi debbo, ohimè! (dicea) dolere, -che così m'abbia a un punto ogni ben tolto? -Deh, s'io non vo' l'ingiuria sostenere -senza vendetta, incontra a cui mi volto? -Fuor che me stesso, altri non so vedere, -che m'abbia offeso ed in miseria volto. -Io m'ho dunque di me contra a me stesso -da vendicar, c'ho tutto il mal commesso. -Pur, quando io avessi fatto solamente -a me l'ingiuria, a me forse potrei -donar perdon, se ben difficilmente; -anzi vo' dir che far non lo vorrei: -or quanto, poi che Bradamante sente -meco l'ingiuria ugual, men lo farei? -Quando bene a me ancora io perdonassi, -lei non convien ch'invendicata lassi. -Per vendicar lei dunque debbo e voglio -ogni modo morir, né ciò mi pesa; -ch'altra cosa non so ch'al mio cordoglio, -fuor che la morte, far possa difesa. -Ma sol, ch'allora io non mori', mi doglio, -che fatto ancora io non le aveva offesa. -Oh me felice, s'io moriva allora -ch'era prigion de la crudel Teodora! -Se ben m'avesse ucciso, tormentato -prima ad arbitrio di sua crudeltade, -da Bradamante almeno avrei sperato -di ritrovare al mio caso pietade. -Ma quando ella saprà ch'avrò più amato -Leon di lei, e di mia volontade -io me ne sia, perch'egli l'abbia, privo; -avrà ragion d'odiarmi e morto e vivo. — -Questo dicendo e molte altre parole -che sospiri accompagnano e singulti, -si trova all'apparir del nuovo sole -fra scuri boschi, in luoghi strani e inculti; -e perché è disperato, e morir vuole, -e, più che può, che 'l suo morir s'occulti, -questo luogo gli par molto nascosto, -ed atto a far quant'ha di sé disposto. -Entra nel folto bosco, ove più spesse -l'ombrose frasche e più intricate vede; -ma Frontin prima al tutto sciolto messe -da sé lontano, e libertà gli diede. -— O mio Frontin (gli disse), s'a me stesse -di dare a' merti tuoi degna mercede, -avresti a quel destrier da invidiar poco, -che volò al cielo, e fra le stelle ha loco. -Cillaro, so, non fu, non fu Arione -di te miglior, né meritò più lode; -né alcun altro destrier di cui menzione -fatta da' Greci o da' Latini s'ode. -Se ti fur par ne l'altre parti buone, -di questa so ch'alcun di lor non gode, -di potersi vantar ch'avuto mai -abbia il pregio e l'onor che tu avuto hai; -poi ch'alla più che mai sia stata o sia -donna gentile e valorosa e bella -sì caro stato sei, che ti nutria, -e di sua man ti ponea freno e sella. -Caro eri alla mia donna: ah perché mia -la dirò più, se mia non è più quella? -s'io l'ho donata ad altri? Ohimè! che cesso -di volger questa spada ora in me stesso? — -Se Ruggier qui s'affligge e si tormenta, -e le fere e gli augelli a pietà muove -(ch'altri non è che questi gridi senta -né vegga il pianto che nel sen gli piove), -non dovete pensar che più contenta -Bradamante in Parigi si ritrove, -poi che scusa non ha che la difenda, -o più l'indugi, che Leon non prenda. -Ella, prima ch'avere altro consorte -che 'l suo Ruggier, vuol far ciò che può farsi; -mancar del detto suo; Carlo e la corte, -i parenti e gli amici inimicarsi: -e quando altro non possa, al fin la morte -o col veneno o con la spada darsi; -che le par meglio assai non esser viva, -che, vivendo, restar di Ruggier priva. -— Deh, Ruggier mio (dicea), dove sei gito? -Puote esser che tu sia tanto discosto, -che tu non abbi questo bando udito, -a nessun altro, fuor ch'a te, nascosto? -Se tu 'l sapesse, io so che comparito -nessun altro saria di te più tosto. -Misera me! ch'altro pensar mi deggio, -se non quel che pensar si possa peggio? -Come è, Ruggier, possibil che tu solo -non abbi quel che tutto il mondo ha inteso? -Se inteso l'hai, né sei venuto a volo, -come esser può che non sii morto o preso? -Ma chi sapesse il ver, questo figliuolo -di Costantin t'avrà alcun laccio teso; -il traditor t'avrà chiusa la via, -acciò prima di lui tu qui non sia. -Da Carlo impetrai grazia, ch'a nessuno -men di me forte avessi ad esser data, -con credenza che tu fossi quell'uno -a cui star contra io non potessi armata. -Fuor che te solo, io non stimava alcuno: -ma de l'audacia mia m'ha Dio pagata; -poi che costui che mai più non fe' impresa -d'onore in vita sua, così m'ha presa. -Se però presa son per non avere -uccider lui né prenderlo potuto; -il che non mi par giusto; né al parere -mai son per star, ch'in questo ha Carlo avuto. -So ch'incostante io mi farò tenere, -se da quel c'ho già detto ora mi muto; -ma né la prima son né la sezzaia, -la qual paruta sia incostante, e paia. -Basti che nel servar fede al mio amante, -d'ogni scoglio più salda mi ritrovi, -e passi in questo di gran lunga quante -mai furo ai tempi antichi, o sieno ai nuovi. -Che nel resto mi dichino incostante, -non curo, pur che l'incostanza giovi: -pur ch'io non sia di costui torre astretta, -volubil più che foglia anco sia detta. — -Queste parole ed altre, ch'interrotte -da sospiri e da pianti erano spesso, -seguì dicendo tutta quella notte -ch'all'infelice giorno venne appresso. -Ma poi che dentro alle cimerie grotte -con l'ombre sue Notturno fu rimesso, -il ciel, ch'eternamente avea voluto -farla di Ruggier moglie, le diè aiuto. -Fe' la mattina la donzella altiera -Marfisa inanzi a Carlo comparire, -dicendo ch'al fratel suo Ruggier era -fatto gran torto, e nol volea patire, -che gli fosse levata la mogliera, -né pure una parola gliene dire: -e contra chi si vuol di provar toglie, -che Bradamante di Ruggiero è moglie. -E inanzi agli altri, a lei provar lo vuole, -quando pur di negarlo fosse ardita, -ch'in sua presenza ella ha quelle parole -dette a Ruggier, che fa chi si marita; -e con la cerimonia che si suole, -già sì tra lor la cosa è stabilita, -che più di sé non possono disporre, -né l'un l'altro lasciar, per altri torre. -Marfisa, o 'l vero o 'l falso che dicesse, -pur lo dicea, ben credo con pensiero, -perché Leon più tosto interrompesse -a dritto e a torto, che per dire il vero, -e che di volontade lo facesse -di Bradamante, che a riaver Ruggiero -ed escluder Leon, né la più onesta -né la più breve via vedea di questa. -Turbato il re di questa cosa molto, -Bradamante chiamar fa immantinente; -e quanto di provar Marfisa ha tolto, -le fa sapere, ed ecci Amon presente. -Tien Bradamante chino a terra il volto, -e confusa non niega né consente, -in guisa che comprender di leggiero -si può che Marfisa abbia detto il vero. -Piace a Rinaldo, e piace a quel d'Anglante -tal cosa udir, ch'esser potrà cagione -che 'l parentado non andrà più inante, -che già conchiuso aver credea Leone; -e pur Ruggier la bella Bradamante -mal grado avrà de l'ostinato Amone; -e potran senza lite, e senza trarla -di man per forza al padre, a Ruggier darla. -Che se tra lor queste parole stanno, -la cosa è ferma, e non andrà per terra, -così atterràn quel che promesso gli hanno, -più onestamente e senza nuova guerra. -— Questo è (diceva Amon), questo è un inganno -contra me ordito: ma 'l pensier vostro erra; -ch'ancor che fosse ver quanto voi finto -tra voi v'avete, io non son però vinto. -Che prosupposto (che né ancor confesso, -né vo' credere ancor) ch'abbia costei -scioccamente a Ruggier così promesso, -come voi dite, e Ruggiero abbia a lei; -quando e dove fu questo? che più espresso, -più chiaro e piano intenderlo vorrei. -Stato so che non è, se non è stato -prima che Ruggier fosse battezzato. -Ma se gli è stato inanzi che cristiano -fosse Ruggier, non vo' che me ne caglia; -ch'essendo ella fedele, egli pagano, -non crederò che 'l matrimonio vaglia. -Non si debbe per questo essere invano -posto al risco Leon de la battaglia; -né il nostro imperator credo vogli anco -venir del detto suo per questo manco. -Quel ch'or mi dite, era da dirmi quando -era intera la cosa, né ancor fatto -a prieghi costei Carlo avea il bando -che qui Leone alla battaglia ha tratto. — -Così contra Rinaldo e contra Orlando -Amon dicea, per rompere il contratto -fra quei duo amanti; e Carlo stava a udire, -né per l'un né per l'altro volea dire. -Come si senton, s'austro o borea spira, -per l'alte selve murmurar le fronde; -o come soglion, s'Eolo s'adira -contra Nettunno, al lito fremer l'onde: -così un rumor che corre e che s'aggira, -e che per tutta Francia si difonde, -di questo dà da dire e da udir tanto, -ch'ogni altra cosa è muta in ogni canto. -Chi parla per Ruggier, chi per Leone; -ma la più parte è con Ruggiero in lega: -son dieci e più per un che n'abbia Amone. -L'imperator né qua né là si piega; -ma la causa rimette alla ragione, -ed al suo parlamento la delega. -Or vien Marfisa, poi ch'è diferito -lo sponsalizio, e pon nuovo partito; -e dice: — Con ciò sia ch'esser non possa -d'altri costei, fin che 'l fratel mio vive; -se Leon la vuol pur, suo ardire e possa -adopri sì, che lui di vita prive: -e chi manda di lor l'altro alla fossa, -senza rivale al suo contento arrive. — -Tosto Carlo a Leon fa intender questo, -come anco intender gli avea fatto il resto. -Leon che, quando seco il cavalliero -del liocorno sia, si tien sicuro -di riportar vittoria di Ruggiero, -né gli abbia alcun assunto a parer duro; -non sappiendo che l'abbia il dolor fiero -tratto nel bosco solitario e oscuro, -ma che, per tornar tosto, uno o due miglia -sia andato a spasso, il mal partito piglia. -Ben se ne pente in breve; che colui -del qual più del dover si promettea, -non comparve quel dì, né gli altri dui -che lo seguir, né nuova se n'avea; -e tor questa battaglia senza lui -contra Ruggier, sicur non gli parea: -mandò, per schivar dunque danno e scorno, -per trovar il guerrier dal liocorno. -Per cittadi mandò, ville e castella, -d'appresso e da lontan, per ritrovarlo; -né contento di questo, montò in sella -egli in persona, e si pose a cercarlo. -Ma non n'avrebbe avuto già novella, -né l'avria avuta uom di quei di Carlo, -se non era Melissa che fe' quanto -mi serbo a farvi udir ne l'altro canto. -Or, se mi mostra la mia carta il vero, -non è lontano a discoprirsi il porto; -sì che nel lito i voti scioglier spero -a chi nel mar per tanta via m'ha scorto; -ove, o di non tornar col legno intero, -o d'errar sempre, ebbi già il viso smorto. -Ma mi par di veder, ma veggo certo, -veggo la terra, e veggo il lito aperto. -Sento venir per allegrezza un tuono -che fremer l'aria e rimbombar fa l'onde: -odo di squille, odo di trombe un suono -che l'alto popular grido confonde. -Or comincio a discernere chi sono -questi che empion del porto ambe le sponde. -Par che tutti s'allegrino ch'io sia -venuto a fin di così lunga via. -Oh di che belle e sagge donne veggio, -oh di che cavallieri il lito adorno! -Oh di ch'amici, a chi in eterno deggio -per la letizia c'han del mio ritorno! -Mamma e Ginevra e l'altre da Correggio -veggo del molo in su l'estremo corno: -Veronica da Gambera è con loro, -sì grata a Febo e al santo aonio coro. -Veggo un'altra Genevra, pur uscita -del medesmo sangue, e Iulia seco; -veggo Ippolita Sforza, e la notrita -Damigella rivulzia al sacro speco: -veggo te, Emilia Pia, te, Margherita, -ch'Angela Borgia e Graziosa hai teco. -Con Ricciarda da Este ecco le belle -Bianca e Diana, e l'altre lor sorelle. -Ecco la bella, ma più saggia e onesta, -Barbara Turca, e la compagna è Laura: -non vede il sol di più bontà di questa -coppia da l'Indo all'estrema onda maura. -Ecco Genevra che la Malatesta -casa col suo valor sì ingemma e inaura, -che mai palagi imperiali o regi -non ebbon più onorati e degni fregi. -S'a quella etade ella in Arimino era, -quando superbo de la Gallia doma -Cesar fu in dubbio, s'oltre alla riviera -dovea passando inimicarsi Roma; -crederò che piegata ogni bandiera, -e scarca di trofei la ricca soma, -tolto avria leggi e patti a voglia d'essa, -né forse mai la libertade oppressa. -Del mio signor di Bozolo la moglie, -la madre, le sirocchie e le cugine, -e le Torelle con le Bentivoglie, -e le Visconte e le Palavigine; -ecco qui a quante oggi ne sono, toglie, -e a quante o greche o barbere o latine -ne furon mai, di quai la fama s'oda, -di grazia e di beltà la prima loda, -Iulia Gonzaga, che dovunque il piede -volge, e dovunque i sereni occhi gira, -non pur ogn'altra di beltà le cede, -ma, come scesa dal ciel dea, l'ammira. -La cognata è con lei, che di sua fede -non mosse mai, perché l'avesse in ira -Fortuna che le fe' lungo contrasto. -Ecco Anna d'Aragon, luce del Vasto; -Anna, bella, gentil, cortese e saggia, -di castità, di fede e d'amor tempio. -La sorella è con lei, ch'ove ne irraggia -l'alta beltà, ne pate ogn'altra scempio. -Ecco chi tolto ha da la scura spiaggia -di Stige, e fa con non più visto esempio, -mal grado de le Parche e de la Morte, -splender nel ciel l'invitto suo consorte. -Le Ferrarese mie qui sono, e quelle -de la corte d'Urbino; e riconosco -quelle di Mantua, e quante donne belle -ha Lombardia, quante il paese tosco. -Il cavallier che tra lor viene, e ch'elle -onoran sì, s'io non ho l'occhio losco, -da la luce offuscato de' bei volti, -è 'l gran lume aretin, l'Unico Accolti. -Benedetto, il nipote, ecco là veggio, -c'ha purpureo il capel, purpureo il manto, -col cardinal di Mantua e col Campeggio, -gloria e splendor del consistorio santo: -e ciascun d'essi noto (o ch'io vaneggio) -al viso e ai gesti rallegrarsi tanto -del mio ritorno, che non facil parmi -ch'io possa mai di tanto obligo trarmi. -Con lor Lattanzio e Claudio Tolomei, -e Paulo Pansa e 'l Dresino e Latino -Iuvenal parmi, e i Capilupi miei, -e 'l Sasso e 'l Molza e Florian Montino; -e quel che per guidarci ai rivi ascrei -mostra piano e più breve altro camino, -Iulio Camillo; e par ch'anco io ci scerna, -Marco Antonio Flaminio, il Sanga, il Berna. -Ecco Alessandro, il mio signor, Farnese: -oh dotta compagnia che seco mena! -Fedro, Capella, Porzio, il bolognese -Filippo, il Volterano, il Madalena, -Blosio, Pierio, il Vida cremonese, -d'alta facondia inessicabil vena, -e Lascari e Mussuro e Navagero, -e Andrea Marone e 'l monaco Severo. -Ecco altri duo Alessandri in quel drappello, -dagli Orologi l'un, l'altro il Guarino. -Ecco Mario d'Olvito, ecco il flagello -de' principi, il divin Pietro Aretino. -Duo Ieronimi veggo, l'uno è quello -di Veritade, e l'altro il Cittadino. -Veggo il Mainardo, veggo il Leoniceno, -il Pannizzato, e Celio e il Teocreno. -Là Bernardo Capel, là veggo Pietro -Bembo, che 'l puro e dolce idioma nostro, -levato fuor del volgare uso tetro, -quale esser dee, ci ha col suo esempio mostro. -Guasparro Obizi è quel che gli vien dietro, -ch'ammira e osserva il sì ben speso inchiostro. -Io veggo il Fracastorio, il Bevazano, -Trifon Gabriele, e il Tasso più lontano. -Veggo Nicolò Tiepoli, e con esso -Nicolò Amanio in me affissar le ciglia; -Anton Fulgoso ch'a vedermi appresso -al lito mostra gaudio e maraviglia. -Il mio Valerio è quel che là s'è messo -fuor de le donne; e forse si consiglia -col Barignan c'ha seco, come, offeso -sempre da lor, non ne sia sempre acceso. -Veggo sublimi e soprumani ingegni -di sangue e d'amor giunti, il Pico e il Pio. -Colui che con lor viene, e da' più degni -ha tanto onor, mai più non conobbi io; -ma, se me ne fur dati veri segni, -è l'uom che di veder tanto desio, -Iacobo Sanazar, ch'alle Camene -lasciar fa i monti ed abitar l'arene. -Ecco il dotto, il fedele, il diligente -secretario Pistofilo, ch'insieme -con gli Acciaiuoli e con l'Angiar mio sente -piacer, che più del mar per me non teme. -Annibal Malaguzzo, il mio parente, -veggo con l'Adoardo, che gran speme -mi dà, ch'ancor del mio nativo nido -udir farà da Calpe agli Indi il grido. -Fa Vittor Fausto, fa il Tancredi festa -di rivedermi, e la fanno altri cento. -Veggo le donne e gli uomini di questa -mia ritornata ognun parer contento. -Dunque, a finir la breve via che resta, -non sia più indugio, or ch'ho propizio il vento; -e torniamo a Melissa, e con che aita -salvò, diciamo, al buon Ruggier la vita. -Questa Melissa, come so che detto -v'ho molte volte, avea sommo desire -che Bradamante con Ruggier di stretto -nodo s'avesse in matrimonio a unire; -e d'ambi il bene e il male avea sì a petto, -che d'ora in ora ne volea sentire. -Per questo spirti avea sempre per via, -che, quando andava l'un, l'altro venìa. -In preda del dolor tenace e forte -Ruggier tra le scure ombre vide posto, -il qual di non gustar d'alcuna sorte -mai più vivanda fermo era e disposto, -e col digiun si volea dar la morte: -ma fu l'aiuto di Melissa tosto; -che, del suo albergo uscita, la via tenne -ove in Leone ad incontrar si venne: -il qual mandato, l'uno a l'altro appresso, -sua gente avea per tutti i luoghi intorno; -e poscia era in persona andato anch'esso -per trovare il guerrier dal liocorno. -La saggia incantatrice, la qual messo -freno e sella a uno spirto avea quel giorno, -e l'avea sotto in forma di ronzino, -trovò questo figliuol di Costantino. -— Se de l'animo è tal la nobiltate, -qual fuor, signor (diss'ella), il viso mostra; -se la cortesia dentro e la bontade -ben corrisponde alla presenza vostra, -qualche conforto, qualche aiuto date -al miglior cavallier de l'età nostra; -che s'aiuto non ha tosto e conforto, -non è molto lontano a restar morto. -Il miglior cavallier, che spada a lato -e scudo in braccio mai portassi o porti; -il più bello e gentil ch'al mondo stato -mai sia di quanti ne son vivi o morti, -sol per un'alta cortesia c'ha usato, -sta per morir, se non ha chi 'l conforti. -Per Dio, signor, venite, e fate prova -s'allo suo scampo alcun consiglio giova. — -Ne l'animo a Leon subito cade -che 'l cavallier di chi costei ragiona, -sia quel che per trovar fa le contrade -cercare intorno, e cerca egli in persona; -sì ch'a lei dietro, che gli persuade -sì pietosa opra, in molta fretta sprona: -la qual lo trasse (e non fer gran camino) -ove alla morte era Ruggier vicino. -Lo ritrovar che senza cibo stato -era tre giorni, e in modo lasso e vinto, -ch'in piè a fatica si saria levato, -per ricader, se ben non fosse spinto. -Giacea disteso in terra tutto armato, -con l'elmo in testa, e de la spada cinto; -e guancial de lo scudo s'avea fatto, -in che 'l bianco liocorno era ritratto. -Quivi pensando quanta ingiuria egli abbia -fatto alla donna, e quanto ingrato e quanto -isconoscente le sia stato, arrabbia, -non pur si duole; e se n'affligge tanto, -che si morde le man, morde le labbia, -sparge le guance di continuo pianto; -e per la fantasia che v'ha sì fissa, -né Leon venir sente né Melissa; -né per questo interrompe il suo lamento, -né cessano i sospir, né il pianto cessa. -Leon si ferma, e sta ad udire intento; -poi smonta del cavallo, e se gli appressa. -Amore esser cagion di quel tormento -conosce ben; ma la persona espressa -non gli è, per cui sostien tanto martire; -ch'anco Ruggier non glie l'ha fatto udire. -Più inanzi, e poi più inanzi i passi muta, -tanto che se gli accosta a faccia a faccia; -e con fraterno affetto lo saluta, -e se gli china a lato, e al collo abbraccia. -Io non so quanto ben questa venuta -di Leone improvisa a Ruggier piaccia; -che teme che lo turbi e gli dia noia, -e se gli voglia oppor, perché non muoia. -Leon con le più dolci e più soavi -parole che sa dir, con quel più amore -che può mostrar, gli dice: — Non ti gravi -d'aprirmi la cagion del tuo dolore; -che pochi mali al mondo son sì pravi, -che l'uomo trar non se ne possa fuore, -se la cagion si sa; né debbe privo -di speranza esser mai, fin che sia vivo. -Ben mi duol che celar t'abbi voluto -da me, che sai s'io ti son vero amico, -non sol dipoi ch'io ti son sì tenuto, -che mai dal nodo tuo non mi districo, -ma fin allora ch'avrei causa avuto -d'esserti sempre capital nimico; -e dèi sperar ch'io sia per darti aita -con l'aver, con gli amici e con la vita. -Di meco conferir non ti rincresca -il tuo dolore, e lasciami far prova, -se forza, se lusinga, acciò tu n'esca, -se gran tesor, s'arte, s'astuzia giova. -Poi, quando l'opra mia non ti riesca, -la morte sia ch'al fin te ne rimuova: -ma non voler venir prima a quest'atto, -che ciò che si può far, non abbi fatto. — -E seguitò con sì efficaci prieghi, -e con parlar sì umano e sì benigno, -che non può far Ruggier che non si pieghi; -che né di ferro ha il cor né di macigno, -e vede, quando la risposta nieghi, -che farà discortese atto e maligno. -Risponde; ma due volte o tre s'incocca -prima il parlar, ch'uscir voglia di bocca. -— Signor mio (disse al fin), quando saprai -colui ch'io son (che son per dirtel ora), -mi rendo certo che di me sarai -non men contento, e forse più, ch'io muora. -Sappi ch'io son colui che sì in odio hai: -io son Ruggier ch'ebbi te in odio ancora; -e che con intenzion di porti a morte, -già son più giorni, usci' di questa corte; -acciò per te non mi vedessi tolta -Bradamante, sentendo esser d'Amone -la voluntade a tuo favor rivolta. -Ma perché ordina l'uomo, e Dio dispone, -venne il bisogno ove mi fe' la molta -tua cortesia mutar d'opinione; -e non pur l'odio ch'io t'avea, deposi, -ma fe' ch'esser tuo sempre io mi disposi. -Tu mi pregasti, non sapendo ch'io -fossi Ruggier, ch'io ti facessi avere -la donna; ch'altretanto saria il mio -cor fuor del corpo, o l'anima volere. -Se sodisfar più tosto al tuo disio, -ch'al mio, ho voluto, t'ho fatto vedere. -Tua fatta è Bradamante; abbila in pace: -molto più che 'l mio bene, il tuo mi piace. -Piaccia a te ancora, se privo di lei -mi son, ch'insieme io sia di vita privo; -che più tosto senz'anima potrei, -che senza Bradamante restar vivo. -Appresso, per averla tu non sei -mai legitimamente, fin ch'io vivo: -che tra noi sposalizio è già contratto, -né duo mariti ella può avere a un tratto. — -Riman Leon sì pien di maraviglia, -quando Ruggiero esser costui gli è noto, -che senza muover bocca o batter ciglia -o mutar piè, come una statua, è immoto: -a statua, più ch'ad uomo, s'assimiglia, -che ne le chiese alcun metta per voto. -Ben sì gran cortesia questa gli pare, -che non ha avuto e non avrà mai pare. -E conosciutol per Ruggier, non solo -non scema il ben che gli voleva pria; -ma sì l'accresce, che non men del duolo -di Ruggiero egli, che Ruggier, patia. -Per questo, e per mostrarsi che figliuolo -d'imperator meritamente sia, -non vuol, se ben nel resto a Ruggier cede, -ch'in cortesia gli metta inanzi il piede. -E dice: — Se quel dì, Ruggier, ch'offeso -fu il campo mio dal valor tuo stupendo, -ancor ch'io t'avea in odio, avessi inteso -che tu fossi Ruggier, come ora intendo; -così la tua virtù m'avrebbe preso, -come fece anco allor, non lo sapendo; -e così spinto dal cor l'odio, e tosto -questo amor ch'io ti porto, v'avria posto. -Che prima il nome di Ruggiero odiassi, -ch'io sapessi che tu fosse Ruggiero, -non negherò: ma ch'or più inanzi passi -l'odio ch'io t'ebbi, t'esca del pensiero. -E se, quando di carcere io ti trassi, -n'avesse, come or n'ho, saputo il vero; -il medesimo avrei fatto anco allora, -ch'a benefizio tuo son per far ora. -E s'allor volentier fatto l'avrei, -ch'io non t'era, come or sono, obligato; -quant'or più farlo debbo, che sarei, -non lo facendo, il più d'ogn'altro ingrato; -poi che negando il tuo voler, ti sei -privo d'ogni tuo bene, e a me l'hai dato. -Ma te lo rendo, e più contento sono -renderlo a te, ch'aver io avuto il dono. -Molto più a te, ch'a me, costei conviensi, -la qual, ben ch'io per li suoi merit'ami, -non è però, s'altri l'avrà, ch'io pensi, -come tu, al viver mio romper li stami. -Non vo' che la tua morte mi dispensi, -che possi, sciolto ch'ella avrà i legami -che son del matrimonio ora fra voi, -per legitima moglie averla io poi. -Non che di lei, ma restar privo voglio -di ciò c'ho al mondo, e de la vita appresso, -prima che s'oda mai ch'abbia cordoglio -per mia cagion tal cavalliero oppresso. -De la tua difidenza ben mi doglio; -che tu che puoi, non men che di te stesso, -di me dispor, più tosto abbi voluto -morir di duol, che da me avere aiuto. — -Queste parole ed altre suggiungendo, -che tutte saria lungo riferire, -e sempre le ragion redarguendo, -ch'in contrario Ruggier gli potea dire; -fe' tanto, ch'al fin disse: — Io mi ti rendo, -e contento sarò di non morire. -Ma quando ti sciorrò l'obligo mai, -ché due volte la vita dato m'hai? — -Cibo soave e precioso vino -Melissa ivi portar fece in un tratto; -e confortò Ruggier, ch'era vicino, -non s'aiutando, a rimaner disfatto. -Sentito in questo tempo avea Frontino -cavalli quivi, e v'era accorso ratto. -Leon pigliar da li scudieri suoi -lo fe' e sellare, ed a Ruggier dar poi; -il qual con gran fatica, ancor ch'aiuto -avesse da Leon, sopra vi salse: -così quel vigor manco era venuto, -che pochi giorni inanzi in modo valse, -che vincer tutto un campo avea potuto, -e far quel che fe' poi con l'arme false. -Quindi partiti, giunser, che più via -non fer di mezza lega, a una badia: -ove posaro il resto di quel giorno, -e l'altro appresso, e l'altro tutto intero, -tanto che 'l cavallier dal liocorno -tornato fu nel suo vigor primiero. -Poi con Melissa e con Leon ritorno -alla città real fece Ruggiero, -e vi trovò che la passata sera -l'imbasciaria de' Bulgari giunt'era. -Che quella nazion, la qual s'avea -Ruggiero eletto re, quivi a chiamarlo -mandava questi suoi, che si credea -d'averlo in Francia appresso al magno Carlo: -perché giurargli fedeltà volea, -e dar di sé dominio, e coronarlo. -Lo scudier di Ruggier, che si ritrova -con questa gente, ha di lui dato nuova. -De la battaglia ha detto, ch'in favore -de' Bulgari a Belgrado egli avea fatta, -ove Leon col padre imperatore -vinto, e sua gente avea morta e disfatta; -e per questo l'avean fatto signore, -messo da parte ogni uomo di sua schiatta: -e come a Novengrado era poi stato -preso da Ungiardo, e a Teodora dato: -e che venuta era la nuova certa, -che 'l suo guardian s'era trovato ucciso, -e lui fuggito, e la prigione aperta: -che poi ne fosse, non v'era altro avviso. -Entrò Ruggier per via molto coperta -ne la città, né fu veduto in viso. -La seguente mattina egli e 'l compagno -Leone appresentossi a Carlo Magno. -S'appresentò Ruggier con l'augel d'oro -che nel campo vermiglio avea due teste, -e come disegnato era fra loro, -con le medesme insegne e sopraveste -che, come dianzi ne la pugna foro, -eran tagliate ancor, forate e peste; -sì che tosto per quel fu conosciuto, -ch'avea con Bradamante combattuto. -Con ricche vesti e regalmente ornato -Leon senz'arme a par con lui venìa; -e dinanzi e di dietro e d'ogni lato -avea onorata e degna compagnia. -A Carlo s'inchinò, che già levato -se gli era incontra; e avendo tuttavia -Ruggier per man, nel qual intente e fisse -ognuno avea le luci, così disse: -— Questo è il buon cavalliero il qual difeso -s'è dal nascer del giorno al giorno estinto; -e poi che Bradamante o morto o preso -o fuor non l'ha de lo steccato spinto, -magnanimo signor, se bene inteso -ha il vostro bando, è certo d'aver vinto, -e d'aver lei per moglie guadagnata; -e così viene, acciò che gli sia data. -Oltre che di ragion, per lo tenore -del bando, non v'ha altr'uom da far disegno: -se s'ha da meritarla per valore, -qual cavallier più di costui n'è degno? -s'aver la dee chi più le porta amore, -non è chi 'l passi o ch'arrivi al suo segno. -Ed è qui presto contra a chi s'oppone, -per difender con l'arme sua ragione. — -Carlo e tutta la corte stupefatta, -questo udendo, restò; ch'avea creduto -che Leon la battaglia avesse fatta, -non questo cavallier non conosciuto. -Marfisa, che con gli altri quivi tratta -s'era ad udire, e ch'a pena potuto -avea tacer fin che Leon finisse -il suo parlar, si fece inanzi e disse: -— Poi che non c'è Ruggier, che la contesa -de la moglier fra sé e costui discioglia; -acciò per mancamento di difesa -così senza rumor non se gli toglia, -io che gli son sorella, questa impresa -piglio contra a ciascun, sia chi si voglia, -che dica aver ragione in Bradamante, -o di merto a Ruggiero andare inante. — -E con tant'ira e tanto sdegno espresse -questo parlar, che molti ebber sospetto, -che senza attender Carlo che le desse -campo, ella avesse a far quivi l'effetto. -Or non parve a Leon che più dovesse -Ruggier celarsi, e gli cavò l'elmetto; -e rivolto a Marfisa: — Ecco lui pronto -a rendervi di sé (disse) buon conto. — -Quale il canuto Egeo rimase, quando -si fu alla mensa scelerata accorto, -che quello era il suo figlio, al quale, instando -l'iniqua moglie, avea il veneno porto; -e poco più che fosse ito indugiando -di conoscer la spada, l'avria morto: -tal fu Marfisa, quando il cavalliero -ch'odiato avea, conobbe esser Ruggiero. -E corse senza indugio ad abbracciarlo, -né dispiccar se gli sapea dal collo. -Rinaldo, Orlando, e di lor prima Carlo -di qua e di là con grand'amor baciollo. -Né Dudon né Olivier d'accarezzarlo, -né 'l re Sobrin si può veder satollo. -Dei paladini e dei baron nessuno -di far festa a Ruggier restò digiuno. -Leone, il qual sapea molto ben dire, -finiti che si fur gli abbracciamenti, -cominciò inanzi a Carlo a riferire, -udendo tutti quei ch'eran presenti, -come la gagliardia, come l'ardire -(ancor che con gran danno di sue genti) -di Ruggier, ch'a Belgrado avea veduto, -più d'ogni offesa avea di sé potuto; -sì ch'essendo di poi preso e condutto -a colei ch'ogni strazio n'avria fatto, -di prigione egli, mal grado di tutto -il parentado suo, l'aveva tratto; -e come il buon Ruggier, per render frutto -e mercede a Leon del suo riscatto, -fe' l'alta cortesia che sempre a quante -ne furo o saran mai, passarà inante. -E seguendo narrò di punto in punto -ciò che per lui fatto Ruggiero avea; -e come poi da gran dolor compunto, -che di lasciar la moglie gli premea, -s'era disposto di morire; e giunto -v'era vicin, se non si soccorrea. -E con sì dolci affetti il tutto espresse, -che quivi occhio non fu ch'asciutto stesse. -Rivolse poi con sì efficaci preghi -le sue parole all'ostinato Amone, -che non sol che lo muova, che lo pieghi, -che lo faccia mutar d'opinione; -ma fa ch'egli in persona andar non nieghi -a supplicar Ruggier che gli perdone, -e per padre e per suocero l'accette; -e così Bradamante gli promette. -A cui là dove, de la vita in forse, -piangea i suoi casi in camera segreta, -con lieti gridi in molta fretta corse -per più d'un messo la novella lieta: -onde il sangue ch'al cor, quando lo morse -prima il dolor, fu tratto da la pieta, -a questo annunzio il lasciò solo in guisa, -che quasi il gaudio ha la donzella uccisa. -Ella riman d'ogni vigor sì vota, -che di tenersi in piè non ha balìa; -ben che di quella forza ch'esser nota -vi debbe, e di quel grande animo sia. -Non più di lei, chi a ceppo, a laccio, a ruota -sia condannato o ad altra morte ria, -e che già agli occhi abbia la benda negra, -gridar sentendo grazia, si rallegra. -Si rallegra Mongrana e Chiaramonte, -di nuovo nodo i dui raggiunti rami: -altretanto si duol Gano col conte -Anselmo, e con Falcon Gini e Ginami; -ma pur coprendo sotto un'altra fronte -van lor pensieri invidiosi e grami; -e occasione attendon di vendetta, -come la volpe al varco il lepre aspetta. -Oltre che già Rinaldo e Orlando ucciso -molti in più volte avean di quei malvagi; -ben che l'ingiurie fur con saggio avviso -dal re acchetate, ed i commun disagi; -avea di nuovo lor levato il riso -l'ucciso Pinabello e Bertolagi: -ma pur la fellonia tenean coperta, -dissimulando aver la cosa certa. -Gli imbasciatori bulgari che in corte -di Carlo eran venuti, come ho detto, -con speme di trovare il guerrier forte -del liocorno, al regno loro eletto; -sentendol quivi, chiamar buona sorte -la lor, che dato avea alla speme effetto; -e riverenti ai piè se gli gittaro, -e che tornassi in Bulgheria il pregaro; -ove in Adrianopoli servato -gli era lo scettro e la real corona: -ma venga egli a difendersi lo stato; -ch'a danni lor di nuovo si ragiona -che più numer di gente apparecchiato -ha Costantino, e torna anco in persona: -ed essi, se 'l suo re ponno aver seco, -speran di torre a lui l'imperio greco. -Ruggiero accettò il regno, e non contese -ai preghi loro, e in Bulgheria promesse -di ritrovarsi dopo il terzo mese, -quando Fortuna altro di lui non fêsse. -Leone Augusto che la cosa intese, -disse a Ruggier, ch'alla sua fede stesse, -che, poi ch'egli de' Bulgari ha il domìno, -la pace è tra lor fatta e Costantino: -né da partir di Francia s'avrà in fretta, -per esser capitan de le sue squadre; -che d'ogni terra ch'abbiano suggetta, -far la rinunzia gli farà dal padre. -Non è virtù che di Ruggier sia detta, -ch'a muover sì l'ambiziosa madre -di Bradamante, e far che 'l genero ami, -vaglia, come ora udir, che re si chiami. -Fansi le nozze splendide e reali, -convenienti a chi cura ne piglia: -Carlo ne piglia cura, e le fa quali -farebbe, maritando una sua figlia. -I merti de la donna erano tali, -oltre a quelli di tutta sua famiglia, -ch'a quel signor non parria uscir del segno, -se spendesse per lei mezzo il suo regno. -Libera corte fa bandire intorno, -ove sicuro ognun possa venire; -e campo franco sin al nono giorno -concede a chi contese ha da partire. -Fe' alla campagna l'apparato adorno -di rami intesti e di bei fiori ordire, -d'oro e di seta poi, tanto giocondo, -che 'l più bel luogo mai non fu nel mondo. -Dentro a Parigi non sariano state -l'innumerabil genti peregrine, -povere e ricche e d'ogni qualitate, -che v'eran, greche, barbare e latine. -Tanti signori, e imbascierie mandate -di tutto 'l mondo, non aveano fine: -erano in padiglion, tende e frascati -con gran commodità tutti alloggiati. -Con eccellente e singulare ornato -la notte inanzi avea Melissa maga -il maritale albergo apparecchiato, -di ch'era stata già gran tempo vaga. -Già molto tempo inanzi desiato -questa copula avea quella presaga: -de l'avvenir presaga, sapea quanta -bontade uscir dovea da la lor pianta. -Posto avea il genial letto fecondo -in mezzo un padiglione amplo e capace, -il più ricco, il più ornato, il più giocondo -che già mai fosse o per guerra o per pace, -o prima o dopo, teso in tutto 'l mondo; -e tolto ella l'avea dal lito trace: -l'avea di sopra a Costantin levato, -ch'a diporto sul mar s'era attendato. -Melissa di consenso di Leone, -o pi�� tosto per dargli maraviglia, -e mostrargli de l'arte paragone, -ch'al gran vermo infernal mette la briglia, -e che di lui, come a lei par, dispone, -e de la a Dio nimica empia famiglia; -fe' da Costantinopoli a Parigi -portare il padiglion dai messi stigi. -Di sopra a Costantin ch'avea l'impero -di Grecia, lo levò da mezzo giorno, -con le corde e col fusto, e con l'intero -guernimento ch'avea dentro e d'intorno: -lo fe' portar per l'aria, e di Ruggiero -quivi lo fece alloggiamento adorno. -Poi, finite le nozze, anco tornollo -miraculosamente onde levollo. -Eran degli anni appresso che duo milia -che fu quel ricco padiglion trapunto. -Una donzella de la terra d'Ilia, -ch'avea il furor profetico congiunto, -con studio di gran tempo e con vigilia -lo fece di sua man di tutto punto. -Cassandra fu nomata, ed al fratello -inclito Ettòr fece un bel don di quello. -Il più cortese cavallier che mai -dovea del ceppo uscir del suo germano -(ben che sapea, da la radice assai -che quel per molti rami era lontano) -ritratto avea nei bei ricami gai -d'oro e di varia seta, di sua mano. -L'ebbe, mentre che visse, Ettorre in pregio -per chi lo fece, e pel lavoro egregio. -Ma poi ch'a tradimento ebbe la morte, -e fu 'l popul troian da' Greci afflitto; -che Sinon falso aperse lor le porte, -e peggio seguitò, che non è scritto; -Menelao ebbe il padiglione in sorte, -col quale a capitar venne in Egitto, -ove al re Proteo lo lasciò, se volse -la moglie aver, che quel tiran gli tolse. -Elena nominata era colei -per cui lo padiglione a Proteo diede; -che poi successe in man de' Tolomei, -tanto che Cleopatra ne fu erede. -Da le genti d'Agrippa tolto a lei -nel mar Leucadio fu con altre prede: -in man d'Augusto e di Tiberio venne, -e in Roma sin a Costantin si tenne; -quel Costantin di cui doler si debbe -la bella Italia, fin che gir il cielo. -Costantin, poi che 'l Tevero gl'increbbe, -portò in Bisanzio il prezioso velo: -da un altro Costantin Melissa l'ebbe. -Oro le corde, avorio era lo stelo; -tutto trapunto con figure belle, -più che mai con pennel facesse Apelle. -Quivi le Grazie in abito giocondo -una regina aiutavano al parto: -sì bello infante n'apparia, che 'l mondo -non ebbe un tal dal secol primo al quarto. -Vedeasi Iove, e Mercurio facondo, -Venere e Marte, che l'avevano sparto -a man piene e spargean d'eterei fiori, -di dolce ambrosia e di celesti odori. -Ippolito diceva una scrittura -sopra le fasce in lettere minute. -In età poi più ferma l'Aventura -l'avea per mano, e inanzi era Virtute. -Mostrava nove genti la pittura -con veste e chiome lunghe, che venute -a domandar la parte di Corvino -erano al padre il tenero bambino. -Da Ercole partirsi riverente -si vede, e da la madre Leonora; -e venir sul Danubio, ove la gente -corre a vederlo, e come un Dio l'adora. -Vedesi il re degli Ungari prudente, -che 'l maturo sapere ammira e onora -in non matura età tenera e molle, -e sopra tutti i suoi baron l'estolle. -V'è che negli infantili e teneri anni -lo scettro di Strigonia in man gli pone: -sempre il fanciullo se gli vede a' panni, -sia nel palagio, sia nel padiglione: -o contra Turchi, o contra gli Alemanni -quel re possente faccia espedizione, -Ippolito gli è appresso, e fiso attende -a' magnanimi gesti, e virtù apprende. -Quivi si vede, come il fior dispensi -de' suoi primi anni in disciplina ed arte. -Fusco gli è appresso, che gli occulti sensi -chiari gli espone de l'antiche carte. -— Questo schivar, questo seguir conviensi, -se immortal brami e glorioso farte, — -par che gli dica: così avea ben finti -i gesti lor chi già gli avea dipinti. -Poi cardinale appar, ma giovinetto, -sedere in Vaticano a consistoro, -e con facondia aprir l'alto intelletto, -e far di sé stupir tutto quel coro. -— Qual fia dunque costui d'età perfetto? -(parean con maraviglia dir tra loro). -Oh se di Pietro mai gli tocca il manto, -che fortunata età! che secol santo! — -In altra parte i liberali spassi -erano e i giuochi del giovene illustre. -Or gli orsi affronta sugli alpini sassi, -ora i cingiali in valle ima e palustre: -or s'un gianetto par che 'l vento passi, -seguendo o caprio o cerva multilustre, -che giunta par che bipartita cada -in parti uguali a un sol colpo di spada. -Di filosofi altrove e di poeti -si vede in mezzo un'onorata squadra. -Quel gli dipinge il corso de' pianeti, -questi la terra, quello il ciel gli squadra: -questi meste elegie, quel versi lieti, -quel canta eroici, o qualche oda leggiadra. -Musici ascolta, e vari suoni altrove; -né senza somma grazia un passo muove. -In questa prima parte era dipinta -del sublime garzon la puerizia. -Cassandra l'altra avea tutta distinta -di gesti di prudenza, di iustizia, -di valor, di modestia, e de la quinta -che tien con lor strettissima amicizia, -dico de la virtù che dona e spende; -de le qual tutte illuminato splende. -In questa parte il giovene si vede -col duca sfortunato degl'Insubri, -ch'ora in pace a consiglio con lui siede, -or armato con lui spiega i colubri; -e sempre par d'una medesma fede, -o ne' felici tempi o nei lugubri: -ne la fuga lo segue, lo conforta -ne l'afflizion, gli è nel periglio scorta. -Si vede altrove a gran pensieri intento -per salute d'Alfonso e di Ferrara; -che va cercando per strano argumento, -e trova, e fa veder per cosa chiara -al giustissimo frate il tradimento -che gli usa la famiglia sua più cara: -e per questo si fa del nome erede, -che Roma a Ciceron libera diede. -Vedesi altrove in arme relucente, -ch'ad aiutar la Chiesa in fretta corre; -e con tumultuaria e poca gente -a un esercito istrutto si va opporre; -e solo il ritrovarsi egli presente -tanto agli Ecclesiastici soccorre, -che 'l fuoco estingue pria ch'arder comince: -sì che può dir, che viene e vede e vince. -Vedesi altrove da la patria riva -pugnar incontra la più forte armata, -che contra Turchi o contra gente argiva -da' Veneziani mai fosse mandata: -la rompe e vince, ed al fratel captiva -con la gran preda l'ha tutta donata; -né per sé vedi altro serbarsi lui, -che l'onor sol, che non può dare altrui. -Le donne e i cavallier mirano fisi, -senza trarne costrutto, le figure; -perché non hanno appresso che gli avvisi -che tutte quelle sien cose future. -Prendon piacere a riguardare i visi -belli e ben fatti, e legger le scritture. -Sol Bradamante da Melissa istrutta -gode tra sé; che sa l'istoria tutta. -Ruggiero, ancor ch'a par di Bradamante -non ne sia dotto, pur gli torna a mente -che fra i nipoti suoi gli solea Atlante -commendar questo Ippolito sovente. -Chi potria in versi a pieno dir le tante -cortesie che fa Carlo ad ogni gente? -Di vari giochi è sempre festa grande, -e la mensa ognor piena di vivande. -Vedesi quivi chi è buon cavalliero; -che vi son mille lance il giorno rotte: -fansi battaglie a piedi e a destriero, -altre accoppiate, altre confuse in frotte. -Più degli altri valor mostra Ruggiero, -che vince sempre, e giostra il dì e la notte; -e così in danza, in lotta ed in ogni opra -sempre con molto onor resta di sopra. -L'ultimo dì, ne l'ora che 'l solenne -convito era a gran festa incominciato; -che Carlo a man sinistra Ruggier tenne, -e Bradamante avea dal destro lato; -di verso la campagna in fretta venne -contra le mense un cavalliero armato, -tutto coperto egli e 'l destrier di nero, -di gran persona, e di sembiante altiero. -Quest'era il re d'Algier, che per lo scorno -che gli fe' sopra il ponte la donzella, -giurato avea di non porsi arme intorno, -né stringer spada, né montare in sella, -fin che non fosse un anno, un mese e un giorno -stato, come eremita, entro una cella. -Così a quel tempo solean per se stessi -punirsi i cavallier di tali eccessi. -Se ben di Carlo in questo mezzo intese -e del re suo signore ogni successo; -per non disdirsi, non più l'arme prese, -che se non pertenesse il fatto ad esso. -Ma poi che tutto l'anno e tutto 'l mese -vede finito, e tutto 'l giorno appresso -con nuove arme e cavallo e spada e lancia -alla corte or ne vien quivi in Francia. -Senza smontar, senza chinar la testa, -e senza segno alcun di riverenza, -mostra Carlo sprezzar con la sua gesta, -e de tanti signor l'alta presenza. -Maraviglioso e attonito ognun resta, -che si pigli costui tanta licenza. -Lasciano i cibi e lascian le parole -per ascoltar ciò che 'l guerrier dir vuole. -Poi che fu a Carlo ed a Ruggiero a fronte, -con alta voce ed orgoglioso grido: -— Son (disse) il re di Sarza, Rodomonte, -che te, Ruggiero, alla battaglia sfido; -e qui ti vo', prima che 'l sol tramonte, -provar ch'al tuo signor sei stato infido; -e che non merti, che sei traditore, -fra questi cavallieri alcun onore. -Ben che tua fellonia si vegga aperta, -perché essendo cristian non pòi negarla; -pur per farla apparere anco più certa, -in questo campo vengoti a provarla: -e se persona hai qui che faccia offerta -di combatter per te, voglio accettarla. -Se non basta una, e quattro e sei n'accetto; -e a tutte manterrò quel ch'io t'ho detto. — -Ruggiero a quel parlar ritto levosse, -e con licenza rispose di Carlo, -che mentiva egli, e qualunqu'altro fosse, -che traditor volesse nominarlo; -che sempre col suo re così portosse, -che giustamente alcun non può biasmarlo; -e ch'era apparecchiato sostenere -che verso lui fe' sempre il suo dovere: -e ch'a difender la sua causa era atto, -senza torre in aiuto suo veruno; -e che sperava di mostrargli in fatto, -ch'assai n'avrebbe e forse troppo d'uno. -Quivi Rinaldo, quivi Orlando tratto, -quivi il marchese, e 'l figlio bianco e 'l bruno, -Dudon, Marfisa, contra il pagan fiero -s'eran per la difesa di Ruggiero; -mostrando ch'essendo egli nuovo sposo, -non dovea conturbar le proprie nozze. -Ruggier rispose lor: — State in riposo; -che per me fôran queste scuse sozze. — -L'arme che tolse al Tartaro famoso, -vennero, e fur tutte le lunghe mozze. -Gli sproni il conte Orlando a Ruggier strinse, -e Carlo al fianco la spada gli cinse. -Bradamante e Marfisa la corazza -posta gli aveano, e tutto l'altro arnese. -Tenne Astolfo il destrier di buona razza, -tenne la staffa il figlio del Danese. -Feron d'intorno far subito piazza -Rinaldo, Namo ed Olivier marchese: -cacciaro in fretta ognun de lo steccato -a tal bisogni sempre apparecchiato. -Donne e donzelle con pallida faccia -timide a guisa di columbe stanno, -che da' granosi paschi ai nidi caccia -rabbia de' venti che fremendo vanno -con tuoni e lampi, e 'l nero aer minaccia -grandine e pioggia, e a' campi strage e danno: -timide stanno per Ruggier; che male -a quel fiero pagan lor parea uguale. -Così a tutta la plebe e alla più parte -dei cavallieri e dei baron parea; -che di memoria ancor lor non si parte -quel ch'in Parigi il pagan fatto avea; -che, solo, a ferro e a fuoco una gran parte -n'avea distrutta, e ancor vi rimanea, -e rimarrà per molti giorni il segno: -né maggior danno altronde ebbe quel regno. -Tremava, più ch'a tutti gli altri, il core -a Bradamante; non ch'ella credesse -che 'l Saracin di forza, e del valore -che vien dal cor, più di Ruggier potesse; -né che ragion, che spesso dà l'onore -a chi l'ha seco, Rodomonte avesse: -pur stare ella non può senza sospetto; -che di temere, amando, ha degno effetto. -Oh quanto volentier sopra sé tolta -l'impresa avria di quella pugna incerta, -ancor che rimaner di vita sciolta -per quella fosse stata più che certa! -Avria eletto a morir più d'una volta, -se può più d'una morte esser sofferta, -più tosto che patir che 'l suo consorte -si ponesse a pericol de la morte. -Ma non sa ritrovar priego che vaglia, -perché Ruggiero a lei l'impresa lassi. -A riguardare adunque la battaglia -con mesto viso e cor trepido stassi. -Quinci Ruggier, quindi il pagan si scaglia, -e vengonsi a trovar coi ferri bassi. -Le lance all'incontrar parver di gielo; -i tronchi, augelli a salir verso il cielo. -La lancia del pagan, che venne a corre -lo scudo a mezzo, fe' debole effetto: -tanto l'acciar, che pel famoso Ettorre -temprato avea Vulcano, era perfetto. -Ruggier la lancia parimente a porre -gli andò allo scudo, e gliele passò netto; -tutto che fosse appresso un palmo grosso, -dentro e di fuor d'acciaro, e in mezzo d'osso. -E se non che la lancia non sostenne -il grave scontro, e mancò al primo assalto, -e rotta in schegge e in tronchi aver le penne -parve per l'aria, tanto volò in alto; -l'osbergo aprìa (si furiosa venne), -se fosse stato adamantino smalto, -e finìa la battaglia; ma si roppe: -posero in terra ambi i destrier le groppe. -Con briglia e sproni i cavallieri instando, -risalir feron subito i destrieri; -e donde gittar l'aste, preso il brando, -si tornaro a ferir crudeli e fieri: -di qua di là con maestria girando -gli animosi cavalli atti e leggieri, -con le pungenti spade incominciaro -a tentar dove il ferro era più raro. -Non si trovò lo scoglio del serpente, -che fu sì duro, al petto Rodomonte, -né di Nembrotte la spada tagliente, -né 'l solito elmo ebbe quel dì alla fronte; -che l'usate arme, quando fu perdente -contra la donna di Dordona al ponte, -lasciato avea sospese ai sacri marmi, -come di sopra avervi detto parmi. -Egli avea un'altra assai buona armatura, -non come era la prima già perfetta: -ma né questa né quella né più dura -a Balisarda si sarebbe retta; -a cui non osta incanto né fattura, -né finezza d'acciar né tempra eletta. -Ruggier di qua di là sì ben lavora, -ch'al pagan l'arme in più d'un loco fora. -Quando si vide in tante parti rosse -il pagan l'arme, e non poter schivare -che la più parte di quelle percosse -non gli andasse la carne a ritrovare; -a maggior rabbia, a più furor si mosse, -ch'a mezzo il verno il tempestoso mare: -getta lo scudo, e a tutto suo potere -su l'elmo di Ruggiero a due man fere. -Con quella estrema forza che percuote -la machina ch'in Po sta su due navi, -e levata con uomini e con ruote -cader si lascia su le aguzze travi; -fere il pagan Ruggier, quanto più puote, -con ambe man sopra ogni peso gravi: -giova l'elmo incantato; che senza esso, -lui col cavallo avria in un colpo fesso. -Ruggiero andò due volte a capo chino, -e per cadere e braccia e gambe aperse. -Raddoppia il fiero colpo il Saracino, -che quel non abbia tempo a riaverse: -poi vien col terzo ancor; ma il brando fino -sì lungo martellar più non sofferse; -che volò in pezzi, ed al crudel pagano -disarmata lasciò di sé la mano. -Rodomonte per questo non s'arresta, -ma s'aventa a Ruggier che nulla sente; -in tal modo intronata avea la testa, -in tal modo offuscata avea la mente. -Ma ben dal sonno il Saracin lo desta: -gli cinge il collo col braccio possente; -e con tal nodo e tanta forza afferra, -che de l'arcion lo svelle, e caccia in terra. -Non fu in terra sì tosto, che risorse, -via più che d'ira, di vergogna pieno; -però che a Bradamante gli occhi torse, -e turbar vide il bel viso sereno. -Ella al cader di lui rimase in forse, -e fu la vita sua per venir meno. -Ruggiero ad emendar presto quell'onta, -stringe la spada, e col pagan s'affronta. -Quel gli urta il destrier contra, ma Ruggiero -lo cansa accortamente, e si ritira, -e nel passare, al fren piglia il destriero -con la man manca, e intorno lo raggira; -e con la destra intanto al cavalliero -ferire il fianco o il ventre o il petto mira; -e di due punte fe' sentirgli angoscia, -l'una nel fianco, e l'altra ne la coscia. -Rodomonte, ch'in mano ancor tenea -il pome e l'elsa de la spada rotta, -Ruggier su l'elmo in guisa percotea, -che lo potea stordire all'altra botta. -Ma Ruggier ch'a ragion vincer dovea, -gli prese il braccio, e tirò tanto allotta, -aggiungendo alla destra l'altra mano, -che fuor di sella al fin trasse il pagano. -Sua forza o sua destrezza vuol che cada -il pagan sì, ch'a Ruggier resti al paro: -vo dir che cadde in piè; che per la spada -Ruggiero averne il meglio giudicaro. -Ruggier cerca il pagan tenere a bada -lungi da sé, né di accostarsi ha caro: -per lui non fa lasciar venirsi adosso -un corpo così grande e così grosso. -E insanguinargli pur tuttavia il fianco -vede e la coscia e l'altre sue ferite. -Spera che venga a poco a poco manco, -sì che al fin gli abbia a dar vinta la lite. -L'elsa e 'l pome avea in mano il pagan anco, -e con tutte le forze insieme unite -da sé scagliolli, e sì Ruggier percosse, -che stordito ne fu più che mai fosse. -Ne la guancia de l'elmo, e ne la spalla -fu Ruggier colto, e sì quel colpo sente, -che tutto ne vacilla e ne traballa, -e ritto se sostien difficilmente. -Il pagan vuole entrar, ma il piè gli falla, -che per la coscia offesa era impotente: -e 'l volersi affrettar più del potere, -con un ginocchio in terra il fa cadere. -Ruggier non perde il tempo, e di grande urto -lo percuote nel petto e ne la faccia; -e sopra gli martella, e tien sì curto, -che con la mano in terra anco lo caccia. -Ma tanto fa il pagan che gli è risurto; -si stringe con Ruggier sì, che l'abbraccia: -l'uno e l'altro s'aggira, e scuote e preme, -arte aggiungendo alle sue forze estreme. -Di forza a Rodomonte una gran parte -la coscia e 'l fianco aperto aveano tolto. -Ruggiero avea destrezza, avea grande arte, -era alla lotta esercitato molto: -sente il vantaggio suo, né se ne parte; -e donde il sangue uscir vede più sciolto, -e dove più ferito il pagan vede, -puon braccia e petto, e l'uno e l'altro piede. -Rodomonte pien d'ira e di dispetto -Ruggier nel collo e ne le spalle prende: -or lo tira, or lo spinge, or sopra il petto -sollevato da terra lo sospende, -quinci e quindi lo ruota, e lo tien stretto, -e per farlo cader molto contende. -Ruggier sta in sé raccolto, e mette in opra -senno e valor, per rimaner di sopra. -Tanto le prese andò mutando il franco -e buon Ruggier, che Rodomonte cinse: -calcogli il petto sul sinistro fianco, -e con tutta sua forza ivi lo strinse. -La gamba destra a un tempo inanzi al manco -ginocchio e all'altro attraversogli e spinse; -e da la terra in alto sollevollo, -e con la testa in giù steso tornollo. -Del capo e de le schene Rodomonte -la terra impresse; e tal fu la percossa, -che da le piaghe sue, come da fonte, -lungi andò il sangue a far la terra rossa. -Ruggier, c'ha la Fortuna per la fronte, -perché levarsi il Saracin non possa, -l'una man col pugnal gli ha sopra gli occhi, -l'altra alla gola, al ventre gli ha i ginocchi. -Come talvolta, ove si cava l'oro -là tra' Pannoni o ne le mine ibere, -se improvisa ruina su coloro -che vi condusse empia avarizia, fere, -ne restano sì oppressi, che può il loro -spirto a pena, onde uscire, adito avere: -così fu il Saracin non meno oppresso -dal vincitor, tosto ch'in terra messo. -Alla vista de l'elmo gli appresenta -la punta del pugnal ch'avea già tratto; -e che si renda, minacciando, tenta, -e di lasciarlo vivo gli fa patto. -Ma quel, che di morir manco paventa, -che di mostrar viltade a un minimo atto, -si torce e scuote, e per por lui di sotto -mette ogni suo vigor, né gli fa motto. -Come mastin sotto il feroce alano -che fissi i denti ne la gola gli abbia, -molto s'affanna e si dibatte invano -con occhi ardenti e con spumose labbia, -e non può uscire al predator di mano, -che vince di vigor, non già di rabbia: -così falla al pagano ogni pensiero -d'uscir di sotto al vincitor Ruggiero. -Pur si torce e dibatte sì, che viene -ad espedirsi col braccio migliore; -e con la destra man che 'l pugnal tiene, -che trasse anch'egli in quel contrasto fuore, -tenta ferir Ruggier sotto le rene: -ma il giovene s'accorse de l'errore -in che potea cader, per differire -di far quel empio Saracin morire. -E due e tre volte ne l'orribil fronte, -alzando, più ch'alzar si possa, il braccio, -il ferro del pugnale a Rodomonte -tutto nascose, e si levò d'impaccio. -Alle squalide ripe d'Acheronte, -sciolta dal corpo più freddo che giaccio, -bestemmiando fuggì l'alma sdegnosa, -che fu sì altiera al mondo e sì orgogliosa. \ No newline at end of file