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91946-1950
Signor presidente che cosa può dirci sulle dimissioni dei ministri socialdemocratici e della conseguente crisetta di governo? È inutile che mi domandiate delle impressioni sulle fasi della crisetta ora chiusa. Come accade in situazioni analoghe, c’è stato, dapprincipio, un ridestarsi di particolarismi, che nel periodo normale sono sopiti dal lavoro comune. Ha prevalso, comunque, il vincolo delle responsabilità solidali e il senso dello Stato. È degno del massimo rilievo che i colleghi interrompendo la loro meritoria fatica di governo abbiano riconfermato le ragioni profonde della coalizione democratica e il proposito di dedicare ulteriormente le loro forze a consolidarla e a servirla. Chi, per questo periodo transitorio, li sostituisce sobbarcandosi ad un aumento di fatica e di responsabilità, merita tutta la nostra gratitudine. Quali saranno, signor presidente, gli ulteriori sviluppi in gennaio, dopo il chiarimento definitivo del Psli? Fare anticipazioni sarebbe presuntuoso. Ma una esigenza obiettiva e rilevata anche recentemente dal Parlamento, quella di accrescere l’efficienza del governo per quanto riguarda la sua organica funzionalità nel settore economico finanziario, troverà fin da ora accoglimento. Il coordinamento del settore ora ricordato ha fatto negli ultimi tempi dei graduali progressi che conviene via via perfezionare. In attesa dei provvedimenti di legge che si riconosceranno necessari, una azione più unitaria potrà essere subito promossa dal ministro Pella, che è oggi investito, nel ministero e negli organismi più delicati nazionali e internazionali, delle competenze necessarie per dirigere con opportune collaborazioni questo lavoro di più ampio coordinamento.
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Questa lapide che oggi inauguriamo ricorda tre valorosi combattenti per la causa dei lavoratori, due dei quali attraverso il sacrificio della loro vita hanno cinto di una aureola luminosa tutta la loro attività. Questa attività è multiforme ma si estrinseca essenzialmente in una posizione di vigilanza e di critica. Ma questo non deve preoccupare perché democrazia significa appunto diritto di criticare. Tutti hanno diritto di muovere appunti al governo ed il governo ha il diritto e il dovere di difendersi. Questo diritto deve però essere conciliato con il dovere della collaborazione nazionale. Questo lavoro delle organizzazioni sindacali deve essere non solo dedicato alle esigenze momentanee, ma soprattutto dedicato ad un programma di elevazione, di miglioramento sia delle condizioni di vita, sia delle condizioni spirituali, in realtà decisive per le classi dei lavoratori. È necessario che il lavoro, emancipandosi, mano a mano ed elevandosi, lo faccia assumendo entro se stesso tutti i doveri civili, doveri in genere del cittadino in confronto dello Stato e della collettività. Questi uomini che noi abbiamo commemorato rappresentano una idea, una idea di libertà e di democrazia, o di bontà in genere o di religione, una idea fondamentale al sevizio della quale essi intendevano di fare anche l’interesse della classe dei lavoratori. Così bisogna che chi combatte su questo terreno e su questo settore abbia innanzi a sé una idea di giustizia e di bontà. Ecco, amici miei, che da questo punto io vi prego di riconoscere anche ai rappresentanti del governo la buona volontà di essere lavoratori, di essere soprattutto alla ricerca della verità. Anche voi, in mezzo a questo affannarsi, a questo tumultare di problemi economici e di problemi sociali, anche voi dovete soprattutto ricercare una cosa: la verità. La verità che si avvicina alla realtà della vita e, quindi, la ricerca dei mezzi opportuni, realizzabili nel momento, per portare miglioramenti giuridici. Non guardatemi con diffidenza. Non vi dirò nulla che possa coartare la vostra libera volontà, né diminuire la vostra coscienza. Se in questi giorni, non vorrei commettere il solito errore di cadere in politica, ma se in questi giorni, in me c’è stato uno sforzo, uno sforzo condiviso dall’amico Saragat e dagli amici socialisti che sono qui presenti, questo sforzo che cosa vuol dire? Vuol dire fede nell’avvenire! Se oggi le cose non vanno bene, dovranno andare meglio domani. Meglio per gli operai, meglio economicamente e, soprattutto, meglio per gli uomini di buona volontà se devono mettersi d’accordo e mettere insieme le proprie forze per ricostruire una patria migliore, una patria che sia la patria dei lavoratori, la patria del lavoro. La vita quotidiana ci porta molte delusioni, delusioni che vengono dalla realtà, dalla necessità, forse anche qualche volta dalla insufficienza personale degli uomini che stanno al governo, degli uomini che stanno nelle amministrazioni, ma noi dobbiamo porre come base della nostra cooperazione e collaborazione la buona fede. Dobbiamo ritenere, sino a prova contraria, che vi sia la buona volontà; ricercare insieme i mezzi migliori e i mezzi realizzabili per ottenere e per raggiungere la grande meta comune. Credete a questo nella vostra attività: gli uomini che oggi sono al governo hanno la buona volontà; se fanno male o è per insufficienza, perché i mezzi di realizzazione non sono alla mano, o perché personalmente non vedono quello che vedete voi. Sicuro, si tratta di discutere, di vedere, di far vedere, ma di trattare, soprattutto, dal punto di vista della buona volontà, della comprensione della causa. Ecco che io esprimo questa speranza: nonostante la crisi politica che attraversiamo ci muoviamo sempre più verso il governo. Si abbia la massima e la più larga comprensione degli interessi dei lavoratori e, soprattutto, si miri a fare di questi lavoratori la classe dirigente di domani. Dinanzi a questi commemorati io sento di poter esprimere una speranza; verrà il momento in cui voi non parlerete più di categoria, parlerete di Stato, perché lo Stato lo dirigerete voi.
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Amici calabresi, voi non potete immaginare la commozione che mi ha preso stamane appena giunto al paese di Monte Scuro allorché, sceso di macchina, mi sono affacciato su questo vostro altipiano. Non potete immaginare la commozione che mi ha preso nel vedere luoghi tanto simili alle terre del mio Trentino e tanto diversi da quelle verdi praterie. E mi son detto: come mai tanta diversità? Vorrei subito dirvi che a questo interrogativo io non ho dato la risposta che di solito suol darsi dai settentrionali – e anche da qualche meridionale – e cioè che la diversità derivi da una certa caratteristica propria nel carattere dei meridionali: vi confesso che anche io per molto tempo ho avuto questa sensazione, ma vi aggiungo ancora che questa sensazione più non ho da quando in visita ad un paese straniero, ad una grande nazione amica ho potuto constatare che cosa abbiano saputo fare i calabresi, quanto abbiano essi contribuito al progresso di quel popolo. Voi scuserete se, dopo aver ascoltato la magnifica relazione del prof. Caglioti , dopo aver espresso la mia ammirazione per quello che già si è fatto e progettato, per l’ardimento con cui i piani sono stati costruiti e le probabilità ormai mature per la loro attuazione, per quanto riguarda la Sila , scuserete se giunto quassù, al centro della Calabria e forse al centro del Mezzogiorno darò uno sguardo generale che va al di là di quello che è il problema specifico della Sila e della Calabria. Il governo non ha fatto niente? È difficile affermarlo. Ma ha fatto abbastanza? Anche questo è difficile dirlo. Ricordatevi però di una cosa (perché quando il pane bianco è tornato non dimentichiamo rapidissimamente il pane nero); ricordatevi che fino a ieri non avevamo in Italia il pane, che non avevamo il carbone, che non avevamo la possibilità di trasporti, che non avevamo ricostruito le strade (e molte ancora sono da ricostruire), che non avevamo riattato i ponti (e molti sono ancora da riattare). Ricordatevi che noi abbiamo ereditato un’Italia ed un Mezzogiorno affranti e prostrati dalla guerra; prostrazione e regresso che si sono affiancati, sofferti e patiti nelle età anteriori. Un governo non ha che i mezzi che ha il popolo. Un governo non può inventare i mezzi, al di là di quelli che ha la popolazione stessa. Il governo non può far altro che tirare una sintesi delle possibilità. Quindi non è che io venga qui per scusare i passati governi; vengo qui per dire che quello che abbiamo fatto è stato poco, è vero, ma che ciò è dipeso dalle circostanze del dopoguerra e che a mano a mano che i postumi della guerra vengono rimarginati dovremo fare molto di più e molto di più faremo. Ma qualcosa si è pur fatto; in Calabria, dal ’45 al ’47 sono stati eseguiti (e chi lo direbbe?) 2.245 lavori pubblici, per 5 miliardi e 23 milioni. Dove sono andati, si dice genericamente? Perché? Perché noi vediamo i vuoti e non vediamo quel poco che si è riempito. Dal ’47 al ’49, all’ottobre del ’49, abbiamo compiuto 4.198 lavori per 11 miliardi e 227 milioni. Vedete come la parabola è andata su. Questo io vi dico non perché intenda menarne vanto, ma per darvi la convinzione, l’assicurazione che la parabola va in su, e dovrà andare ancora più in su. Dal 1° ottobre ’49 sono in corso lavori per circa 5 miliardi e 212 milioni. Vi potrei leggere tutti i particolari ed elencare tutti i singoli Comuni, ma non mette conto: voi li conoscete di già. E del resto sarebbe anche inutile perché io non credo che voi contestiate le cifre; è se mai, come dire, la modestia delle cifre che voi disapprovate. Ma disgraziatamente il cassiere nostro, che si chiama ministro del Tesoro, deve lavorare con queste cifre. È inutile che vi ripeta un argomento tale che a voi, uomini di buon senso e uomini di capacità costruttiva, deve apparire ovvio: il governo non può fabbricare la moneta. Se la fabbrica, è un falsario, perché abbassa automaticamente i salari ed i redditi. Non lo può fare. Allora i lavori, i progressi si fanno con i denari che entrano e con i risparmi; i risparmi nella forma di prestiti, se vengono dati allo Stato, o altrimenti in forma di iniziativa privata. Voi mi direte: questa azione è necessaria, è utile. Ma è sufficiente per agire in profondità? No, ci vuole una incisione programmatica, una volontà unificata, una preparazione tecnica matura, un finanziamento rapido. E sono questi elementi che si possono riconoscere come attribuiti al piano della Sila, rispettivamente in regioni confinanti di cui vi ha parlato in dettaglio, con altissima convinzione e con profonda esperienza, l’amico Caglioti. Qui il problema si allarga. Appena noi abbiamo pubblicato le decisioni riguardanti il finanziamento della Sila e zone finitime, c’è stato subito un chiedere da molte parti e si sono manifestate agitazioni che non sono ancora composte. Ora dobbiamo dire subito: distinguiamo bene. C’è un sistema di emergenza, un sistema che non deve durare lungo tempo, per venire incontro ai bisogni più urgenti, alle necessità più impellenti ed è quello dell’assegnazione delle terre incolte. Questo è un mezzo di emergenza, che direi, si presenta come necessità in certe zone e specialmente si presentava quando non c’era il pane, quando bisognava direttamente procurarsi il pane della nostra terra. Ora io vorrei che nel pubblico italiano si distinguesse chiaramente fra quello che è il provvedimento di emergenza, e che riguarda le terre incolte, e quello che deve essere la riforma agraria. La riforma agraria deve essere naturalmente congiunta alla trasformazione; essa è quindi contemporaneamente provvedimento di bonifica, di costruzione. Voi ricordate che i provvedimenti di assegnazione delle terre incolte risalgono al primo dopoguerra. La concessione di terre incolte o a coltura insufficiente riguardava allora settecento cooperative per centocinquantamila ettari. Le province classiche per queste concessioni furono anche allora: Calabria (Catanzaro), Sicilia (Agrigento), Sardegna (Sassari), Lazio (Roma). Nel secondo dopoguerra, nel momento della più acuta esigenza, cioè nel dicembre ’47, abbiamo avuto circa centocinquanta ettari lavorati, dico lavorati, perché le concessioni alle cooperative sono andate fino a duecentocinquantamila ettari. Ma queste cooperative in realtà cosa erano? Delle ditte collettive che si dividevano subito, facilmente, in rapporto individuale. La terra veniva data in affittanza per alcuni anni (in media sei anni ed in qualche caso nove anni) ed il rapporto rimaneva un affare privato fra chi occupava la terra e il proprietario. Come ho già detto, le disposizioni concernenti l’assegnazione delle terre incolte sono disposizioni di emergenza introdotte subito nel dopoguerra per esigenze particolari che si presentano ancora in qualche zona con molta acutezza. Queste esigenze vengono oggi risolte con le leggi esistenti: la prima presentata da Gullo , la seconda dal ministro Segni, che ha perfezionato la prima. Ora è indubbio e dobbiamo dirlo: la legge fatta con tutta la migliore volontà, nella pratica, nell’esecuzione si è dimostrata troppo lenta. Le commissioni sono troppo lente: forse per l’aggravio eccessivo che pesa sui magistrati che sono chiamati a presiederle. E quindi io direi che il sistema delle concessioni attraverso le commissioni non si è dimostrato un organismo sociale sufficiente. Bisogna che si pensi ad aggiornare questa legislazione, a creare lo strumento agile, di modo che quando sorge il bisogno di queste terre, onestamente, rapidamente vengano messe a disposizione di chi ne ha bisogno. Questo è problema evidentemente di sentimento sociale, bisogna essere pervasi dal senso sociale. Amici miei, se noi andiamo innanzi col criterio della proprietà assoluta, o per meglio dire con il criterio assoluto della proprietà, che è un criterio assolutamente ingiusto e superabile e superato, evidentemente non arriveremo mai a quella giusta considerazione sociale che è indispensabile per venire incontro alla povera gente, che non ha terre da coltivare. Ma è necessario distinguere nettamente tra provvedimenti contingenti per fronteggiare una determinata situazione e la riforma agraria, che deve muoversi con diverso ritmo per i profondi riflessi che può avere nell’economia agricola nazionale. La riforma, che deve condurre alla conquista della terra, è un assestamento definitivo. Questo vi prego, colleghi in giornalismo di farlo notare bene ai vostri lettori, perché tante volte mi sono incontrato in una confusione fra l’uno e l’altro. E perché dico questo? Dico questo perché, se si può riconoscere nel sistema di provvedimenti immediati e contingenti una certa giustizia, vi si può ricorrere con provvedimenti più energici e più realistici di quelli che sinora sono stati presi. Come ho accennato, ed è intenzione del governo, lo stesso ritmo non si può adoperare per la riforma agraria; la riforma definitiva, la conquista, la redenzione definitiva della terra, la trasformazione della terra. Qui c’è il problema della produzione che acquista importanza, accanto al problema sociale della distribuzione. E qui che speranze dobbiamo nutrire? Vi dico che, se dovessi stare alle cifre con la matita alla mano, fare calcoli, tirare la conclusione, mi sentirei venir meno; perché se pochi giorni fa, facendo la massima pressione (vero amico Segni?) sul ministro del Tesoro, gli abbiamo strappato la quota sul nostro bilancio, sul nostro povero bilancio, necessaria per affrontare sul serio i lavori nella Sila, dobbiamo riconoscere che se dovessimo in tutto il paese contemporaneamente, ma specialmente in tutto il Mezzogiorno, iniziare l’opera con la stessa energia e con la stessa necessità, il nuovo bilancio non potrebbe reggere. Noi contiamo, naturalmente, sulla cooperazione dell’America e qui mi pare che non ci sia molto da aggiungere alle parole così entusiastiche dell’amico Mac Clelland : ma è certo che in Italia bisogna convogliare con la maggiore coordinazione possibile gli aiuti che ci vengono dall’America verso la redenzione della terra e verso la distribuzione della terra. Il problema della distribuzione che forse in America non è sentito come da noi – perché là di terra ce n’è per tutti mentre da noi, disgraziatamente, c’è troppa gente e troppo poca terra – il problema della distribuzione diventa una necessità. Noi dobbiamo dire anche qui ai nostri amici americani: non siamo rivoluzionari che vanno a cercare le questioni sociali da risolvere tumultuosamente; siamo uomini compresi da un senso di umanità, da un senso di fraternità e, se permettete, di cristianesimo applicato (purtroppo di cristianesimo ce n’è tanto ma tanti non lo applicano). Da tempo le condizioni di distribuzione delle terre in Italia non sono più possibili, perché non garantiscono abbastanza la vita. I tecnici nella Sila lo vedono; vedono il corso di questa riforma che implica anche la ridistribuzione della terra. La ridistribuzione senza l’opera di bonifica, quindi senza l’intervento della spesa pubblica, condurrebbe al fallimento. Lo sappiamo, lo sapete voi. C’è una storia anche su queste stesse montagne e c’è del resto la esperienza umana dappertutto. Noi non possiamo dividere la terra e poi stare a guardare: dobbiamo dare i mezzi perché, una volta divisa la proprietà, le nuove siano difendibili e concorrano al progresso e alla produzione nazionale. Non bisogna mai dimenticare che, se c’è un quesito di rapporti economici, quindi sociale e quindi di giustizia verso l’individuo, verso il contadino, il piccolo proprietario, c’è anche un problema di equità per la collettività nazionale: la produzione nazionale. Noi non possiamo fare una riforma la quale tenga conto semplicemente del criterio sociale, o tenga conto semplicemente del criterio della produzione. Hanno torto quelli che badano solo a ripetere: produzione, produzione, come hanno torto quelli che dicono: spartire, spartire!, senza riflettere che l’una e l’altra cosa sono assolutamente vincolate per essere, per rappresentare veramente un progresso reale. Perciò la riforma è onerosa, più lenta, è un problema finanziario di prim’ordine. Sfogliando gli annali parlamentari, quante volte ho trovato il nome di Calabria. Quante volte lo slogan: agricoltura in Calabria. Quante volte le cose che diciamo adesso, e qualcuno crederà di inventarle, le troviamo scritte stampate. Ecco, ad esempio, un discorso di Sonnino del 1904. Allora credevamo di risolvere il problema sollevando i proprietari dalle tasse, ma Sonnino ammoniva: «quando anche supponete completamente estesa la presente legge, in tutti quanti i compartimenti del Mezzogiorno e delle Isole, non avreste ottenuto alcun miglioramento di fatto, né cura organica avreste ottenuto del male che travaglia più profondamente quelle regioni. Per il contadino meridionale non avrete fatto nulla: per lui rimarrà intatta la più scandalosa usura, malgrado tutti i vostri generosi aiuti a credito agrario. Immutati i patti più duri, più anti-economici, più antiquati che lo opprimono: egli resterà ugualmente esposto ad ogni angheria, ugualmente incerto del domani in ogni momento della sua laboriosa esistenza, ugualmente estraneo alla terra che lavora» . E qui Sonnino si diffondeva citando e ricordando la riforma agraria inglese, in Irlanda. La verità si vedeva chiaramente, anche in tempi relativamente normali. Eravamo lontani dalle guerre, dall’assorbimento, dalla distruzione della ricchezza fatta dalla guerra. Eravamo in tempi relativamente normali, quanto all’amministrazione. Perché non siamo arrivati in tale periodo ad ottenere un progresso, relativo ai mezzi di cui si disponeva? Qui c’è un problema sociale. Io non vorrei essere ingiusto non valutando a sufficienza i proprietari consapevoli, attivi produttori, ma molti proprietari dimenticano le origini storiche delle loro proprietà, ne dimenticano lo sviluppo, non hanno la coscienza dei doveri sociali che, proprio per il modo con cui queste proprietà sono state fatte, essi debbono sentire in confronto della massa, della popolazione aumentata. C’è un problema di giustizia. Io che non sono un rivoluzionario, che vorrei vedere il mio paese progredire secondo il criterio, il concetto della legge e della fraternità, escludendo ogni violenza, io però debbo dire: guai se i proprietari non comprenderanno che è venuta l’ora della funzione sociale della proprietà. Perché – qualcuno mi ha detto – avete pensato alla Sila e vi avete pensato soltanto dopo i tristi avvenimenti avvenuti a Crotone? Ecco. Abbiamo detto che la riforma agraria (attorno alla quale stiamo lavorando da parecchio tempo e per la quale il benemerito ministro Segni ha preparato un progetto da parecchi mesi, progetto che per forza di cose deve essere sottoposto alla procedura di un governo di coalizione), abbiamo detto che la riforma agraria doveva incominciare là dove ci sia: 1°) – un esempio particolare di straordinaria sproporzione fra grandissima e piccola proprietà; 2°) – dove ci sia uno stato arretrato per la massima parte della coltura; 3°) – dove esiste un organo che abbia già in avanzata preparazione programmi di colonizzazione i quali – speriamo – servano non solo per la Sila e fino a Crotone in Calabria, ma siano di esempio anche per altre zone. L’opera della Sila era già stata costituita con la legge del 31 dicembre 1947 , ed aveva proprio il compito di promuovere la trasformazione agraria e fondiaria dell’altipiano ed ha imposto progetti tanto per opere imponenti di colonizzazione, quanto per cooperative soprattutto a carattere integrativo. E il commissario dell’Ente Sila aveva chiesto al ministro dell’Agricoltura, nel settembre, di avere anche i poteri straordinari di esproprio là dove non era possibile arrestarsi di fronte ad una proprietà avente una funzione non sociale di proprietà. Ecco che tutto era maturato, tutto arriva a compimento verso la fine di settembre. Domenica 30 ottobre, succedevano i dolorosi fatti di Melissa. Ricordandoli, dobbiamo inviare un pensiero commosso alle vittime, un pensiero commosso anche a tutti i feriti, di qualunque parte. La discussione parlamentare metterà in luce le responsabilità, ma vi è come una fatalità, che si ripete spesso in Italia, di simili conflitti, eppure essi, per quanto aspri, non dovrebbero portare alla cessazione di una vita, dovrebbero sempre frapporsi l’uomo, l’espediente, l’organo che impedisce l’urto, come tante volte avviene. Se noi, a queste vittime mandiamo un pensiero di commozione, noi siamo anche persuasi che ciò che salverà il nostro paese, ciò che lo spingerà davvero sulla via della ricostruzione, del progresso, non sarà l’odio, non l’odio di classe, non l’eccitamento, sarà l’amore, sarà la fraternità, sarà la solidarietà. Il governo ha fatto opera conciliativa invano nel Crotonese; con il proprio sottosegretario all’Agricoltura e, sotto la direzione del sottosegretario Colombo , si sono raggiunte delle concessioni che speriamo – e guai a coloro che non tenessero la parola – saranno veramente mantenute da parte dei proprietari, per soddisfare le più acute esigenze dei contadini. E quando, dopo il necessario studio, essendo definito il progetto, abbiamo sentito che dovevamo agire, abbiamo agito, anche se potevamo prevedere che ci si sarebbe detto: – ah, adesso avete agito, adesso, in seguito a quegli incidenti, è il sangue che vi ha fatto agire. Io ho imparato studiando la storia che il progresso del bene è fatto di lotta col male. Ci sono in noi due elementi: uno si chiama odio, l’altro si chiama amore, orbene gli uomini ricostruttori debbono, dall’urto di questi elementi, trarre in ogni momento l’occasione di manifestare la fraternità e la solidarietà. Un governo non deve aver paura di queste dicerie, di queste illazioni. Non importa ciò che si dice, ciò che è necessario è agire: ciò che è necessario è arrivare alla meta. Auguriamoci che questa nostra volontà, che questa nostra azione verso il progresso non sia interrotta da altre guerre: auguriamoci che un lungo periodo di pace ci consenta di portare a termine la nostra fatica in un clima di democrazia, in uno spirito di fraternità, di giustizia, di fede, nell’ordine e nella disciplina. La democrazia, la solidarietà, la giustizia hanno bisogno d’ordine. Se permettessimo l’indisciplina, se permettessimo che i violenti vincano sui deboli noi falliremo come democrazia. La democrazia non è tale soltanto perché vi è un Parlamento, perché vi è una libertà di stampa, perché vi è una libertà di critica. La sola vera democrazia è quella fondata sulla giustizia sociale, sulla consapevolezza, da parte di ognuno, dei propri doveri. Esprimo ancora la mia gratitudine alla missione ECA e la esprimo perché sento in ciò, con me, solidale il popolo italiano ed esprimo la mia gratitudine agli italiani d’America che tanto col loro amore verso il popolo italiano hanno contribuito a far sorgere in voi tale spirito di solidarietà verso il nostro paese. Problemi difficili ci fronteggiano, problemi che supereremo con tenacia, perché questa è la virtù dei montanari e degli agricoltori.
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Sforza è molto malato. Propone quindi di parlare in altra seduta dell’unione doganale con la Francia. Sarebbe intanto opportuno che il CIR esaminasse la questione. […] Chiede notizie sulla destinazione degli 800 milioni per la Carbosarda. […] Quella odierna è stata una discussione eccezionale ma molto importante e tutti i ministri hanno dimostrato senso di responsabilità. Per quanto riguarda il produttivismo non vorrebbe che si dimenticasse quanto si è fin qui fatto in materia di lavori pubblici e agricoltura. Anche il piano Fanfani avrebbe recato molto giovamento se non fosse stato bloccato dal Parlamento. Osserva che nel paese esiste ancora una grande incertezza. Invita Pella ad essere talvolta più ottimista, tenendo presente più la produzione che le altre considerazioni di carattere strettamente ragionieristico. Non crede ad una guerra. Ritiene che una migliore sistemazione della nostra posizione internazionale gioverà anche alla tranquillità sociale che è il presupposto per uno sviluppo della produzione. Per le spese di piccolo importo è peraltro indispensabile il fondo anzidetto. [Seguono due brevi interventi dei ministri Pella e Andreotti. Il presidente del Consiglio riprende la parola sul disegno di legge presentato dal ministro delle Finanze per l’approvazione del bilancio preventivo dell’Azienda monopolio banane, nell’esercizio finanziario 1947-48]. Prega di soprassedere all’approvazione desiderando prenderne visione. [Il Consiglio dei ministri passa ad esaminare il disegno di legge governativo n. 456 «Istituzione del Consiglio superiore dell’emigrazione»] . È una soluzione transitoria. La presidenza deve essere affidata al ministro per il Lavoro. Inoltre deve essere istituita una segreteria permanente presso la Direzione generale degli italiani all’estero del Ministero degli Affari Esteri.
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Penso che la mozione possa essere discussa dopo la ripresa parlamentare, quando si vedrà quali e quante sono le esigenze legislative della Camera, e in genere se bisogna occuparsi di altri lavori. PresiDente. Allora, ella si riserva di fissare la data dopo il 7 marzo, cioè dopo la ripresa dei lavori. De GasPeri. Precisamente. Vorrei aggiungere qualche considerazione. PresiDente. Ne ha facoltà. De GasPeri. Credo che, se il tempo lo permettesse, una replica ancora sarebbe utile per rispondere a tutte le obiezioni che sono rimaste ancora senza risposta e dare i chiarimenti che ancora non siano stati dati. Comunque, poiché è stata presentata una mozione, che induce la Camera ad occuparsi ancora a fondo del problema, è inutile che perdiamo ulteriormente tempo questa sera. Mi dispiace che i presentatori delle interpellanze non siano rimasti soddisfatti: per la maggior parte di essi credo che si possa dire che l’insoddisfazione era programmatica, e quindi da prevedersi. Mi dispiace soprattutto che l’onorevole Lopardi sia rimasto così insoddisfatto, (interruzioni – commenti all’estrema sinistra) e soprattutto che la sua replica sia stata così poco gradita per il governo. (Commenti all’estrema sinistra). Dico che mi dispiace, perché mi pareva, dagli accenti della sua esposizione, che ci fosse in lui un desiderio di chiarimento e una presupponibile fiducia che il governo fosse atto a dare questo chiarimento. La risposta negativa mi ha sorpreso. Comunque, è inutile continuare la discussione adesso quando la dovremo riprendere nelle prossime settimane. La continueremo a fondo: il governo non ha paura di questa discussione . (Vivi applausi al centro).
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Gli sviluppi della situazione presente hanno permesso al vicepresidente Saragat e ai due colleghi Lombardo e Tremelloni di ritirare le loro dimissioni e di continuare così una collaborazione che noi tutti, qui nell’ultimo Consiglio, avevamo auspicata e confermata . Riprendiamo così il nostro comune lavoro ispirato dal senso di responsabilità che tutto ci fa subordinare agli interessi del paese e alla difesa dei comuni ideali di libera democrazia e di giustizia sociale. Come vi è già noto l’on. Campilli , nostro delegato presso l’OECE, già nel mese di agosto aveva manifestato il proposito di lasciare quell’incarico, prevedendo che lo sviluppo che l’OECE avrebbe assunto richiederebbe una partecipazione più diretta della responsabilità ministeriale. Noi abbiamo allora insistito perché non ci venisse meno la sua opera assidua e illuminata ed egli acconsentì per alcuni mesi ancora di continuarlo. Noi gli siamo grati del lodevole contributo ch’egli ha dato allo sviluppo dei rapporti economici coadiuvando l’opera dei singoli dicasteri competenti e quella coordinatrice del CIR. Noi tutti, anzi, saremmo stati lieti se egli avesse accolta la nostra proposta di continuare tale opera col titolo e carattere di membro del gabinetto; poiché egli tale proposta non ha voluto accettare, non desiderando egli per il momento di assumere ulteriore impegni, gli esprimiamo oltre il riconoscimento per l’opera passata, anche la speranza che egli in un tempo non lontano possa offrirci ancora tutta la sua attività. S’impone, quindi, una nuova forma di cooperazione nel settore economico. Salva sempre la competenza dei vari dicasteri chiamati a partecipare ai lavori di preparazione, orientamento e elaborazione nel CIR e, s’intende, salvo il potere conclusivo e determinante del Consiglio dei ministri, il ministro Tremelloni viene disegnato all’OECE, come delegato permanente del Comitato direttivo per la cooperazione europea a Parigi, colle attribuzioni di preparazione e coordinamento che tale suo incarico richiede e il ministro del Bilancio on. Pella sarà il vicepresidente del CIR. È ben chiaro che i nostri colleghi non possono assolvere a tali incarichi senza la collaborazione competente di tutti i colleghi, specialmente di quelli che presiedono ai dicasteri finanziari ed economici. E qui mi corre l’obbligo di rilevare come questi ministri abbiano lavorato finora con grande zelo in numerose sedute del CIR, portando ciascuno il suo contributo della propria funzione ed esperienze. D’altro canto il regolamento dell’OECE prevede che per discussioni e conclusioni su particolari settori, saranno invitati a Parigi di volta in volta anche i ministri tecnici competenti. È poi chiaro che anche nell’avvenire, la cooperazione economica internazionale dovrà svolgersi nel quadro della politica internazionale in genere e quindi in armonia con le direttive del ministero degli Esteri e col particolare concorso del Commercio Estero .
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Le trattative sono ancora nella fase preparatoria . Nessuno conosce esattamente la portata del Patto atlantico . Ignoriamo quali siano le condizioni poste agli altri paesi, quali a noi . Abbiamo svolto un’azione solo per evitare di essere tenuti fuori. Chiederemo al Parlamento mantenendoci nelle linee generali che ci venga conferito il mandato di trattare, ponendo la questione di fiducia. Per quanto riguarda la stampa osserva che forse si è talvolta errato ma non è facile organizzare la campagna della stampa e conferirle il giusto tono. Un esempio di eccesso di zelo si ha nel Tempo il quale in un articolo di polemica con Mondolfo ha scritto che «era chiaro che il Piano Marshall sarebbe sboccato nel Patto atlantico». Ora questo è falso: si pensi infatti che anche la Cecoslovacchia e la Polonia avevano aderito al Piano Marshall. [Segue una breve interruzione di Carlo Sforza: «anche la Russia era stata invitata a partecipare al Piano Marshall»]. In un ampio memoriale inviato a Tarchiani nel gennaio è stato fatto presente in modo chiaro quale posto nei riflessi interni abbiano i dubbi manifestati dal Partito socialista di Saragat. Noi abbiamo dovuto superare varie difficoltà: ma non possiamo tuttavia impegnarci a fondo in favore del Patto atlantico fino a che non siamo sicuri che tutti i paesi promotori sono favorevoli al nostro ingresso. L’impressione peggiore sarebbe però l’abbandono dell’Italia con un’aperta dichiarazione di neutralità. Ciò rappresenterebbe porte aperte verso l’Oriente. Comprende lo stato d’animo di Saragat. Ponga egli tuttavia sull’altare della patria le amarezze di questi giorni. Osserva poi che è meraviglioso l’esempio della Norvegia socialista la quale ha rifiutato la protezione russa. Ciò spiega perché Molotov sia stato esonerato dalla sua carica. Bisogna osservare in modo rigorosamente democratico la procedura. Se fino a martedì, giorno in cui si dovrà rispondere all’interpellanza Nenni, non ci saranno elementi certi per l’invito risponderemo che la nostra linea di condotta è stata orientata nel senso di evitare di perdere la possibilità di essere invitati a partecipare al Patto. […] Chiederemo al Parlamento solo l’autorizzazione a trattare: successivamente sottoporremo al Parlamento il trattato per la ratifica. Non possiamo discutere in Parlamento le condizioni della partecipazione al patto che ora non conosciamo. Sappiamo solo che si tratta di un patto di assistenza: l’ipotesi prevista è solo quella di una guerra difensiva. [Seguono gli interventi di Gonella sugli inconvenienti di un’eventuale riserva del Parlamento ad «entrare nel merito del trattato», di Saragat e di Porzio]. Legge il seguente comunicato da diramarsi alla stampa: «Il ministro Sforza ha riferito sulla situazione internazionale e sulla politica estera dell’Italia. Hanno preso la parola in merito i ministri Saragat, Pacciardi, Grassi, Gonella e Giovannini. La discussione è stata riassunta e conclusa dal presidente del Consiglio. Si è preso atto unanimemente e con soddisfazione che tutta l’opera del ministro degli Esteri è rivolta al consolidamento della pace e della sicurezza nazionale» .
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Legge un telegramma di Merzagora da Zurigo nel quale egli comunica il pieno accordo sulle decisioni adottate. Sarà di ritorno lunedì. Per quanto riguarda il Patto atlantico fa presente l’impossibilità di rendere integralmente noto un documento in cui si comunica che l’invito a partecipare al Patto è stato formalmente deciso dalle nazioni promotrici. Non abbiamo neanche una bozza del testo. Tuttavia questa circostanza di carattere procedurale rende più agile e tempestiva la discussione parlamentare. Il Dipartimento di Stato ha consegnato a Tarchiani il documento che deve essere trasmesso sotto segreto. Si tratta di un appunto a noi inviato in sunto. Il governo americano ha comunicato il testo della nota anche all’Inghilterra la quale gli ha fatto sapere di essere molto compiaciuta. I punti fondamentali del Patto sono i seguenti: 1) carattere difensivo del patto; 2) mutua assistenza delle nazioni aderenti; 3) consultazione richiesta in caso di attacco e minaccia ad una delle nazioni che partecipano al Patto; 4) misure necessarie per la sicurezza che dovranno essere predisposte dalle singole nazioni; 5) adozione di apprestamenti e preparativi militari occorrenti per la difesa. Il patto non prevede automatiche dichiarazioni di guerra perché tiene conto dei Parlamenti. Per il 4 aprile prevede la firma dei ministri degli Esteri della Norvegia, della Danimarca del Portogallo e dell’Italia. Tarchiani ha chiesto se il governo italiano intenda partecipare alle ultime trattative. Crede che sia opportuno adire subito il Parlamento per evitare confusioni nella diffusione di notizie e complicazioni nell’orientamento della pubblica opinione. Informa di avere sentito il gruppo parlamentare democristiano e di averne ricevuta un’ottima impressione. È certo che il memorandum del 6 gennaio è stato tenuto nel debito conto. Questo memorandum, che sarà letto, faceva presente la necessità di non ripetere la strada seguita per il Patto di Bruxelles ma di tendere all’organizzazione dell’Unione europea. Egli intenderebbe comunicare alla Camera che il governo è in procinto di essere invitato alle trattative per l’ingresso nel Patto atlantico. Vorrebbe chiedere un voto di fiducia per trattare facendo salvi i poteri della Camera in sede di ratifica del Patto. Fa presente che prima d’ora non si è mai verificato un tale esempio di consultazione preventiva del Parlamento. Ritiene probabile che i socialisti chiedano di sottoporre la questione alla Commissione degli Esteri. Noi invece chiederemo nella fase attuale un voto della Camera. Ai gruppi che faranno proposte o daranno suggerimenti noi accorderemo soddisfazioni, sempre che non pongano proposizioni che precludano le trattative .
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(Segni di attenzione). È già noto agli onorevoli colleghi che il Consiglio dei ministri di martedì, sentita la relazione del ministro degli Affari Esteri, si era trovato unanime nell’approvare la linea politica seguita, perché rivolta alla tutela della pace e al rafforzamento della sicurezza nazionale nella rinnovata pienezza della nostra sovranità. In seguito ad ulteriori comunicazioni pervenute nei due ultimi giorni, il Consiglio dei ministri si è espresso stamane in senso unanime per l’accessione in via di massima al Patto atlantico e quindi per la partecipazione alla discussione nella fase conclusiva dei negoziati. La formulazione di questo patto, quale è stato elaborato finora nelle conversazioni svoltesi fra i suoi promotori, non è ancora di pubblica ragione, ma siamo in grado di assicurare alla Camera che il patto è concepito nel quadro delle Nazioni Unite come impegno di solidarietà in favore della pace e della sicurezza delle parti contraenti. Siamo anche in grado di informarvi che, nel complesso, i fini del patto si possono riassumere così: predisporre la mutua assistenza fra i suoi membri; predisporre la consultazione tra di loro ove uno degli associati fosse vittima di aggressione o di evidente minaccia di aggressione; predisporre che, in caso di aggressione armata contro uno dei membri, gli altri prendano individualmente o collettivamente le misure necessarie per mantenere la pace. La base del patto consiste dunque nell’obbligo, per tutti i suoi membri, di contribuire alla difesa nella misura consentita dalle rispettive forze. Tuttavia, poiché nei paesi democratici l’intervento in un conflitto armato è vincolato alla previa decisione del Parlamento, il patto non prevede che l’obbligo dell’intervento abbia effetto automatico immediato. Tale automatismo generale viene escluso anche con riferimento all’ipotesi che possa essere nell’interesse di tutti gli associati che taluna delle parti non intervenga fino a tanto che essa stessa non sia attaccata direttamente. A parte ogni migliore apprezzamento dei particolari di eventuali modifiche o aggiunte che possano derivare dalla discussione nella fase conclusiva del negoziato, a cui sappiamo con certezza di essere chiamati a partecipare quando non ci venga meno la nostra fiducia, risulta evidente che nella sua natura e nelle sue linee generali il patto, come oggi delineato, può costituire una definitiva tutela dell’indipendenza del nostro paese, come, al di sopra di tutti noi, può divenire una espressione pacifica della solidarietà americanoeuropea, che tanti frutti potrà ancora dare nel campo delle realizzazioni economiche e civili. Si tratta di un’integrazione concreta dell’ONU, nel quadro della quale esso può agire come patto regionale equilibratore; e l’Italia vi trova il suo posto, corrispondente al suo spirito universalista e pacifico ed all’avvenire che noi dobbiamo garantire nel mondo. In quanto ai mezzi per raggiungere la sicurezza, il patto non pretende nulla che sia superiore alle nostre possibilità militari, anche quali sono definite nel trattato di pace; ché anzi, in ipotesi, non trascura il caso eventuale che un paese, non minacciato da un attacco immediato e diretto, possa, nell’interesse di tutti gli associati, venire esonerato dal fornire, in tali circostanze, un contributo alla difesa collettiva. Fatta eccezione di tale caso, l’impegno di reciproca assistenza nel caso di eventualità di un attacco è tassativo. Ma la prerogativa democratica del Parlamento sulla pace e sulla guerra è salvaguardata. (Commenti all’estrema sinistra). È un patto di sicurezza, una garanzia di pace, una misura preventiva contro la guerra. Nessun paese o blocco di paesi fino a quando non avrà mire aggressive ha nulla da temere da esso. L’Italia, che si trova malauguratamente sulle linee strategiche fatali dei possibili conflitti mondiali, si assocerà a tutti gli sforzi per evitare una nuova e irreparabile sciagura. Con tale spirito intendiamo partecipare all’elaborazione della formula definitiva del trattato che sottoporremo poi all’approvazione delle due Camere. Contemporaneamente due altri avvenimenti richiamano la nostra attenzione: la prossima firma del trattato per l’unione doganale italo-francese, trattato elaborato col concorso di parlamentari e di tecnici che verrà poi sottoposto all’approvazione dei due rami del Parlamento; e l’imminente elaborazione, a Londra, dello statuto dell’Unione europea in cui noi porteremo la nostra tradizione parlamentare e democratica, tendente all’elettività della rappresentanza, dalla quale un sistema federale auspichiamo nasca un giorno e nella quale porteremo anche il nostro spirito realizzatore e costruttivo, che preferisce decisioni della più vasta e volenterosa concordia, le sole capaci di superare in modo fecondo eventuali contrasti particolaristici, creando così quell’atmosfera fiduciosa dell’Europa nuova che i più alti spiriti d’Italia hanno sempre sognato. Con tali sentimenti di collaborazione leale, ci accingiamo a quest’opera di ricostruzione europea, che, per maturare, ha un solo supremo bisogno: la pace. Il nostro contributo di iniziative riguardanti l’OECE, l’Unione doganale italo-francese, l’Unione europea, dovute alla politica attivista e ricostruttiva del nostro esperto ministro degli Affari Esteri (commenti e interruzioni all’estrema sinistra – vivissimi applausi al centro e a destra), è disinteressato; paghi, ora, degli altri riconoscimenti ottenuti noi non chiederemo, nelle assise in cui entreremo, una formale revisione del trattato di pace; non possiamo vincolare infatti il nostro atteggiamento collaborazionista al soddisfacimento di ogni nostro pur legittimo postulato (commenti all’estrema sinistra), ma aspettiamo sicuri il pacifico svolgimento degli eventi, come attendiamo fiduciosi dal tempo e dalla migliorata situazione ambientale, che le nostre sacrosante rivendicazioni, come quella del territorio di Trieste (commenti all’estrema sinistra), trovino in via pacifica il loro risolvimento. Così intendiamo collaborare con pazienza e moderazione, perché i problemi più generali dei rapporti fra occidente ed oriente si risolvano nella pace e nella distensione. (Vivi applausi al centro e a destra). L’Italia ha rinnovato con l’Unione Sovietica e con altre nazioni dell’oriente i suoi rapporti commerciali e desidera che le soluzioni di pace abbiano ovunque e in ogni caso la prevalenza. (Interruzioni alla estrema sinistra). Essa è troppo sicura della sua civiltà e della forza ricostruttiva dei suoi tecnici e dei suoi lavoratori per pensare a nuovi urti e a nuovi conflitti. Il regime democratico repubblicano garantisce il nostro popolo dal pericolo di ricadere in altre avventure (commenti all’estrema sinistra): la democrazia italiana desidera solo che entro le proprie frontiere si possa lavorare e produrre in pace e in libertà. (Interruzioni all’estrema sinistra – Applausi al centro e a destra). Di pace esterna e interna abbiamo soprattutto bisogno in un momento in cui l’Italia dimostra di essere arrivata molto innanzi nella sua ripresa economica e nella ricostruzione, tanto che gli sforzi del prossimo periodo possono dirsi decisivi per raggiungere la meta. Dopo un triennio di disordine monetario accompagnato dalla deficienza di beni sul mercato interno, abbiamo arrestato l’ascesa dei prezzi (interruzioni, commenti all’estrema sinistra – approvazioni al centro), cosicché nel dicembre 1948 si aveva un livello di prezzi dell’8 per cento inferiore a quello dell’autunno 1947. La produzione agricola nel 1948 è stata pari all’86, e fino all’87 per cento di quella prebellica. La superficie coltivata a frumento è aumentata di oltre il 3 per cento, ed il rendimento per ettaro è aumentato del 26 per cento. La produzione industriale ha raggiunto il 90, e fino il 92 per cento del livello del 1938. Il traffico merci estere è aumentato nel corso del 1948 di circa il 20 per cento. Di conseguenza il reddito nazionale è cresciuto dal 6 fino al 7 per cento, raggiungendo i nove decimi di quello prebellico. Le esportazioni da 54 milioni di dollari al mese nel 1947 sono salite a 80 milioni al mese durante il 1948; il bilancio dello Stato è passato da un deficit di 750 miliardi ad un deficit preventivo in 174 miliardi. Tutto ciò è potuto avvenire perché lo sforzo è fondato sulla sobrietà, sul lavoro, sul senso di responsabilità del popolo italiano. Innegabilmente il contributo del piano ERP è stato decisivo, e, nella imminenza della discussione al Congresso degli Stati Uniti, colgo l’occasione per rivolgere da qui un nuovo appello ai rappresentanti del popolo americano perché ci assicurino anche quest’anno un largo contributo. (Commenti all’estrema sinistra). Ma premessa assoluta e fondamentale è la capacità lavorativa di un popolo, che ha bisogno di operare con la sicurezza dell’indomani e che, in forza dell’esuberanza di mano d’opera, deve contare sul concorso di nazioni più dotate di terra e di risorse industriali. anGelucci Mario. Ma fate la riforma agraria! (Commenti al centro e a destra). PresiDente. Onorevole Angelucci, non interrompa. De GasPeri. Così, onorevoli colleghi, il senso di sicurezza ci appare come premessa necessaria alla nostra economia e per elevare il tenore di vita del nostro popolo lavoratore. (Commenti all’estrema sinistra). Esso produrrà un rasserenamento, spero, anche nella nostra vita politica interna, perché rafforzerà la fede nel sistema di libera democrazia, (commenti all’estrema sinistra – vivissimi prolungati applausi a sinistra, al centro e a destra), e confermerà la nostra speranza nelle soluzioni pacifiche dei problemi internazionali. (Vivissimi applausi a sinistra, al centro e a destra). [Segue un intervento dell’on. Pietro Nenni, che invita il governo a mettere riservatamente a conoscenza la Commissione per gli Affari Esteri dei reali impegni che il paese avrebbeassunto con l’adesione al Patto atlantico]. Onorevoli colleghi, venendo qui a fare le mie dichiarazioni, che avevo preannunziate ieri sera, evidentemente avevo anche previsto il dibattito, che doveva seguire; il governo lo ha cercato questo dibattito, lo accetta, crede e spera che venga fatto in termini tali da illuminare l’opinione pubblica. Non ho pensato nelle mie dichiarazioni altro che a fare l’introduzione a questo dibattito. Evidentemente, ci sono molte cose da dire, dal punto di vista di chi aderisce e di chi si oppone, e spiegazioni da chiedere al governo. Intendevo e intendevamo, tutti noi del governo, specialmente il ministro degli Affari Esteri, di riservare al dibattito tutte quelle spiegazioni che venissero chieste. In generale, devo dire, conoscendo la situazione, degli ultimi giorni specialmente, in cui la questione si è definitivamente impostata, che non esiste qualche cosa che noi possiamo dire alla Commissione e che non possiamo dire in Assemblea, e viceversa. Quindi – tanto più che sappiamo benissimo cosa significhi dire le cose in Commissione, (commenti) – mi pare sia molto meglio per tutti fare una discussione il più possibile serena dinanzi al pubblico ed al paese, in Assemblea: tanto più che non si tratta di deliberare su documenti segreti che possano non essere a cognizione del pubblico… Una voce all’estrema sinistra. Se l’ha detto lei! De GasPeri. …ma si tratta di deliberare sulla questione di massima. (Interruzioni e commenti all’estrema sinistra). Egregi colleghi, una questione di massima che implica naturalmente, in fondo, la fiducia o no al governo. Ci avete già detto che non avete fiducia nel governo. (Commenti all’estrema sinistra). Devo dire quindi, naturalmente, che, se durante il dibattito nascesse una questione, su cui il governo, interpellato decidesse di non mettere in pubblico la risposta, si potrebbe, d’accordo con gli interpellanti, fare riferimento ad una seduta della Commissione degli Esteri. Ma, rebus sic stantibus, con questa impostazione generale, mi pare che nulla vieti, anzi tutto consigli che la discussione venga fatta in pubblico, cioè in questa Assemblea. Non so – e qui siamo ancora nel campo della procedura – come l’onorevole Nenni possa parlare di una mistificazione del sistema parlamentare. Da quando l’Italia è costituita in nazione ed ha una rappresentanza parlamentare è la prima volta che, trattandosi di un trattato di grande importanza, non si attende a compilarlo e a presentarlo sotto responsabilità del governo… (rumori e interruzioni all’estrema sinistra), come la Costituzione prevede, ma si chiede, anzi, alla Camera un voto di fiducia prima di elaborarlo… (Vivissimi applausi al centro – Rumori e proteste all’estrema sinistra). seMeraro santo. Lo si accetta ad occhi chiusi! (Rumori al centro). De GasPeri. Quindi, amici e avversari, (commenti), onorevoli deputati, entriamo in questa discussione! Non occorre che essa sia immediata, naturalmente, se preferite avere tempo per preparare argomenti e discorsi. Una voce all’estrema sinistra. Non ve n’è bisogno. De GasPeri. Ve la propongo almeno per domani. Questa discussione, per i riflessi di carattere internazionale e per la connessione con quanto è fatto in altri paesi, evidentemente non può venire eccessivamente ritardata. (Rumori all’estrema sinistra). Comunque, se a un certo momento si presenterà la necessità di dire qualcosa che qui non possa esser detta e che meriti il controllo del Parlamento attraverso la Commissione, (interruzioni all’estrema sinistra), il governo naturalmente sarà disposto a farlo, ma ora non è il momento. (Vivi rumori all’estrema sinistra). In ogni modo io mi attendo e mi aspetto tutti i rimproveri che voi meditate di fare. Uno solo non meritiamo né io né i miei colleghi: quello della paura. (Vivissimi applausi al centro – Rumori all’estrema sinistra). Noi non ci rifugiamo né nella nostra responsabilità ministeriale, come la Costituzione ci concederebbe, né in riunioni private; noi oggi affrontiamo in pubblico la responsabilità nostra e di tutta l’assemblea. (Rumori). In realtà assumiamo, lo sappiamo, una grave responsabilità. Per fare questo ci vuole il coraggio…. Una voce all’estrema sinistra. …della paura! De GasPeri. …delle convinzioni e della coscienza che è il nostro usbergo! (Vivi applausi al centro). Di questo, anche da avversari onesti e leali, dobbiamo meritare riconoscimento. La mia conclusione è che la Camera voglia fissare l’apertura del dibattito in un tempo il più possibile vicino a questa discussione, possibilmente domattina. Torno a dire che se a un certo momento per la necessità dei documenti che venissero richiesti – ciò a cui non credo – o per necessità di dichiarazioni… cacciatore . Quei documenti li ha o non li ha? (Proteste al centro). De GasPeri. Siamo disposti a dare tutte le spiegazioni che possiamo dare in base agli elementi a noi noti. Vi chiediamo soltanto serenità in questa discussione e se non volete concedere la fiducia preventivamente, perché non possiamo chiedervelo, vi chiediamo quel certo senso di umana visione e di umana considerazione per coloro che hanno il coraggio, a ragion veduta, di assumersi una così grave responsabilità. (Vivissimi applausi al centro). [Segue un breve intervento del deputato socialista Riccardo Lombardi, che rileva le contraddizioni emerse nelle dichiarazioni relative ai documenti oggetto delle trattative governative]. L’onorevole Riccardo Lombardi ha cercato di mettere in contraddizione quello che ho detto fra le dichiarazioni ufficiali e le dichiarazioni che ho improvvisato precedentemente nella mia polemica. Non esiste nessuna contraddizione. Ho detto nelle dichiarazioni ufficiali (e non mi meraviglio, se la memoria non mi serva almeno per citarle…) ho detto che la formulazione del patto, quale è stata elaborata finora nelle conversazioni svoltesi… (interruzioni all’estrema sinistra) non era di pubblica ragione. Quindi, la formulazione del patto non è di pubblica ragione. Ho detto però che siamo in grado, e quindi assumiamo tutta la responsabilità di quello che affermiamo, e lo affermiamo in base alle nostre informazioni diplomatiche, che siamo in grado di dire quale è la natura e quali sono le linee principali del patto al quale siamo chiamati ad aderire. (Interruzioni all’estrema sinistra). Quindi, è questa la questione: la Camera deve discutere, la Camera deve deliberare se il governo, accettando di aderire in base a questi elementi che vi sono stati resi noti e per i quali il governo ha assunto la responsabilità, fa gli interessi del paese o non li fa. Questa è la questione, non il testo del trattato. (Commenti all’estrema sinistra). [Segue una proposta di sospensiva avanzata dall’on. Epicarmo Corbino e la replica del presidente del Consiglio]. Io credo che perdiamo meno tempo se stabiliamo che la Camera domani incominci la discussione generale. E non si dica che il testo che ho presentato io non rappresenta una dichiarazione del governo. Esso è, senza dubbio, una relazione introduttiva, ma contiene tutto l’essenziale per una discussione seria e per una votazione, per quel tanto che è richiesto per il voto della Camera. Quindi credo che, se si vuole veramente affrontare il problema e permettere che ciascuno assuma la sua responsabilità e non si abbia semplicemente l’intenzione di trascinare la questione, si possa accettare la proposta onesta, franca, responsabile del governo che dice: domani, dopo che avrete avuto tempo di consultarvi fra i vostri gruppi, incomincerà la discussione generale (commenti – interruzioni all’estrema sinistra), durante la quale il governo dichiara di nuovo di essere disposto, ad un certo momento e conforme al dibattito, a dare tutte le informazioni che saranno richieste. (Commenti all’estrema sinistra). [Dopo quest’intervento, l’on. Corbino decide di ritirare la proposta di sospensiva; la Camera dei deputati respinge poi, con votazione nominale, l’ordine del giorno Nenni per la convocazione preliminare della Commissione per gli Affari Esteri. Segue la presentazione di un ordine del giorno Almirante per richiedere ulteriori chiarimenti al governo, sul quale prende nuovamente la parola il presidente del Consiglio]. Ho da ripetere quel che già dissi: tutto quello che è essenziale per una decisione da parte della Camera è già contenuto nella mia esposizione, la quale è fatta non come opera personale mia, ma, naturalmente, come decisione approvata da tutto il Consiglio dei ministri e alla quale ha collaborato soprattutto il ministro degli Esteri. Io, quindi, qui avrei in realtà sostituito il ministro degli Esteri solo perché conveniva dare a questa esposizione l’impronta integrale di tutto il ministero, che ha veramente partecipato alla sua compilazione e alla sua deliberazione. In piena coscienza lascio giudicare al pubblico italiano, che leggerà questa esposizione, se essa non contenga tutto quello che è essenziale e che sappiamo, circa la natura, circa le linee generali del problema, se essa quindi non ponga il problema della sua alternativa integrale. Onorevoli colleghi, non esiste una questione tecnica in un simile problema, esiste una questione di volontà, di coscienza, di tesi generale applicata a un dato momento e a date circostanze. Tutto questo è contenuto nella nostra esposizione. Posso aggiungere che il governo intendeva promuovere questo dibattito e, intendendo promuovere questo dibattito, prevedeva naturalmente che venissero in discussione l’una contro l’altra anche le tesi fondamentali e le tesi di partenza, la tesi di neutralità, la tesi di isolamento, la tesi della cooperazione internazionale in una forma o nell’altra, in una misura o nell’altra. È ovvio che questo avvenga, ma non ha da far niente con la questione tecnica. È, anche questa, questione fondamentale. In ogni caso, poiché verranno portati argomenti pro e contro dai diversi oratori, è giusto ed è diritto del governo di rispondere nel momento in cui questa discussione maturerà in alcune alternative su cui il governo dovrà dire la propria parola e portare le sue conclusioni. Vi debbo far notare che, se si fosse proceduto secondo le interpellanze presentate, questa sarebbe stata precisamente la forma alla quale noi avremmo dovuto anche adattarci: prima sarebbero passati all’attacco gli interpellanti in quanto erano all’opposizione e poi avrebbe risposto il governo; alla fine, gli interpellanti avrebbero avuto il diritto di replicare. Quindi in realtà non facciamo che allargare il piano della discussione. Terzo: poiché si continua a parlare di dati tecnici, eccetera, quasi che esistessero misteriosamente degli elementi di congiura e cospirazione, posso assicurare che non esistono; e quando venisse la conferma a me, con rispetto al ministro degli Esteri, che tali elementi esistono, o venga fatta domanda specifica, noi daremo la risposta durante il dibattito nella forma più ampia possibile. (Commenti all’estrema sinistra). Una voce all’estrema sinistra. Lo abbiamo fatto. De GasPeri. Noi abbiamo – vi prego di richiamare ciò che è procedura e prassi – noi abbiamo impostato la questione, abbiamo preso l’iniziativa, vi abbiamo dato tutti gli elementi: ogni volta e quando il governo avrà la possibilità o il dovere di intervenire, è diritto del governo di stabilire il momento in cui parlerà, in cui aggiungerà dati, eccetera. Direi che è anche un diritto del governo, che viene in genere attaccato, di rispondere cogli argomenti con cui vuole rispondere. Non comprendo; comprenderei soltanto se veramente esiste la diffidenza che nei preparativi, nei procedimenti, eccetera, vi fosse qualcosa di misterioso. Comunque, se questo può essere un elemento di fiducia o di sfiducia, cioè di conferma della sfiducia su cui contiamo da parte vostra o di conferma della fiducia su cui contiamo da parte della maggioranza, tutto questo può venir messo in luce durante il dibattito. Quindi, non posso accettare che si metta in dubbio che il governo abbia sottaciuto elementi conclusivi, elementi sostanziali fino, almeno, a prova contraria. La prova la darete voi, e noi discuteremo, risponderemo. (Vivi applausi al centro e a destra – Rumori all’estrema sinistra).
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Se fin dall’inizio il governo si dichiarò contro una simile sospensiva, a doppia ragione lo deve oggi, dopo tutti i suggerimenti, le proposte e le discussioni che sono state fatte alla Camera. La Camera è stata investita dalla questione pregiudiziale, preliminare, di massima, se possiamo e dobbiamo accettare di entrare in trattative per il Patto atlantico. Di questo patto si son dette la natura, le caratteristiche, la struttura possibile e anche certe condizioni di carattere secondario, che costituiscono le informazioni che potevamo avere. Il governo non ha mai preteso riversare sulla Camera la responsabilità circa un testo particolare, tanto più che quello di cui si annuncia la prossima pubblicazione, sia fatta questa o no, non è che la formula elaborata dai promotori e non già il progetto vero e proprio che dobbiamo accettare o non accettare. D’altra parte, dopo la firma, il testo del trattato dovrà essere sottoposto al Parlamento per la ratifica. (Applausi al centro – Commenti all’estrema sinistra). [Respinta la proposta di sospensiva, segue lo svolgimenti degli ordini del giorno e – dopo una breve sospensione della seduta e il deciso intervento del presidente della Camera – la replica di De Gasperi]. Se l’opposizione desidera che io rinunzi al mio diritto di replica a 27 oratori… Una voce all’estrema sinistra. Deve rinunziare al Patto atlantico. De GasPeri. …sono pronto, per mio conto, ad accettare perché si possa più facilmente e più rapidamente venire alla conclusione. (Rumori all’estrema sinistra). Mi pare, però, che un presidente del Consiglio il quale non avendone l’obbligo, ha portato prima del tempo innanzi a voi tutta la questione… (Proteste all’estrema sinistra). Giolitti . Non ci prenda in giro. De GasPeri. …ha diritto di essere sentito. (Rumori all’estrema sinistra – Interruzioni – Apostrofi all’indirizzo del presidente del Consiglio). PresiDente. Onorevoli colleghi, non si può continuare in questo modo. De GasPeri. Non rispondo a queste ingiurie, perché voi, (indica l’estrema sinistra) che le lanciate sapete che non hanno alcun fondamento. (Rumori all’estrema sinistra – Interruzioni del deputato Pajetta Gian Carlo). Onorevole Pajetta, ho ascoltato con pazienza per un’ora e mezzo tutte le sue espressioni offensive contro il governo, senza reagire. Credo di essermi meritato, per questa sopportazione, almeno cinque minuti di libertà di parola. Una voce all’estrema sinistra. Poteva aspettare ancora ventiquattro ore per farci conoscere il testo del patto. Non l’ha voluto! De GasPeri. Le dichiarazioni che io ho fatto al principio di questa discussione sono state talmente complete e sostanziali… (proteste all’estrema sinistra), che nessuno ha potuto rimproverarmi di avere omesso dei punti essenziali di giudizio perché la Camera potesse discutere e deliberare. Ho riferito della decisione del Consiglio dei ministri, ho parlato della natura del patto, del carattere che lo pone come patto regionale entro l’ONU, ho accennato alle linee costruttive del patto, ho, in particolare, aggiunto che non si tratta di un impegno automatico, ma che si rispettano le prerogative parlamentari. Ho aggiunto che sapevamo che saremmo stati invitati perché così era stato deciso. Non avevamo in mano l’invito formale perché i promotori devono completare la stesura della prima bozza del documento. Ho aggiunto che, secondo le comunicazioni pervenuteci, era certo che noi saremmo stati invitati e che potremo quindi discutere prima della firma che dovrà venire apposta contemporaneamente a quella di tutti gli altri. La questione che abbiamo posto al Parlamento, quindi è pregiudiziale, di massima. Non è che il Parlamento sia chiamato oggi a discutere e deliberare – anche se lo conoscessimo in tutta la sua formulazione definitiva – un patto o uno strumento diplomatico. Questo verrà sottoposto alle deliberazioni della Camera, dopo che naturalmente sarà stato parafato dal governo. Questa è la procedura costituzionale e la divisione delle responsabilità. Il Parlamento non deve compromettere le sue decisioni se non dopo che il governo avrà presentato una formulazione che, per conto suo, abbia già dichiarato di accettare. Quindi, la questione oggi non è di sapere quale sia la formulazione del patto (badate bene, una formulazione che può essere solo provvisoria, perché si tratta di una bozza), ma è di sapere se un patto di assistenza, come viene proposto secondo le linee che vi ho indicato, possa essere accettato dal Parlamento italiano, dal governo italiano, come un contributo alla pace generale e alla sicurezza dell’Italia. Questo è il problema su cui voi siete chiamati a dare il vostro voto. Se la vostra risposta sarà affermativa noi potremo trattare… (interruzioni all’estrema sinistra). Una voce all’estrema sinistra. Lei vuole una prima cambiale in bianco dal Parlamento italiano: questo è grave! De GasPeri. …noi tratteremo e concluderemo col formulare uno strumento diplomatico, che in un secondo tempo sottoporremo alla vostra approvazione. (Interruzioni all’estrema sinistra). Questo è metodo semplice, corretto, democratico. anGelucci Mario. Avete fatto recitare l’atto di fede prima. (Proteste del deputato Guidi Cingolani Anna Maria – Commenti all’estrema sinistra). De GasPeri. Pur essendomi proposta la massima moderazione, sento il dovere di respingere, a nome mio e dei miei colleghi, le accuse di menzogna e di inganno che mi sono state fatte per i precedenti della preparazione di questo patto. Le dichiarazioni del 4 dicembre corrispondevano alla situazione di allora; ed è vero che allora dichiarammo che il patto renano per noi non veniva in considerazione, per le sue caratteristiche speciali, in confronto al problema germanico. È vero che noi concentravamo allora i nostri sforzi sul problema dell’Unione e della ricostruzione europea. Si ricordino i due memoriali dell’agosto presentati dal governo italiano. È vero che allora ci limitammo ad un’affermazione generica di amicizia per l’America, ad un’affermazione contro l’isolamento e ad un’affermazione in favore della sicurezza. Fu appena nelle ultime settimane che il problema della sicurezza ci si è affacciato in forma precisa. Pajetta Giuliano. Quando ha mandato il generale Marras in America. De GasPeri. Dico tutto quello che so; non posso sapere di più. Quando nei consessi internazionali l’iniziativa altrui abbozzò le linee di una proposta concreta e fummo dinanzi a certa prospettiva di invito, allora trovammo naturalmente doveroso di prendere una risoluzione in seno al Consiglio dei ministri. (Rumori all’estrema sinistra). Appena presa questa determinazione, decidemmo nello stesso momento di presentarci alle Camere per chiedere la conferma della vostra fiducia. Questa è la situazione, la situazione semplice, corretta, democratica (rumori e commenti all’estrema sinistra), che è conforme all’uso parlamentare e, direi, allo spirito della Costituzione. (Interruzioni all’estrema sinistra). Sarebbe, secondo il mio parere, contrario alla Costituzione se un governo venisse dinanzi a voi e, prima ancora per suo conto vagliato, deliberato e assunta la responsabilità di una parafazione, vi chiedesse un voto su un progetto concreto formulato definitivamente. Una voce all’estrema sinistra. È una cambiale in bianco! De GasPeri. Non è una cambiale in bianco, perché il progetto deve tornare alla Camera e su questo sarete sempre gli ultimi a decidere. (Rumori all’estrema sinistra – Interruzione del deputato Pajetta Giuliano). PresiDente. Onorevole Pajetta, non interrompa. De GasPeri. Dall’esito del dibattito e dalle agitazioni connesse derivò la necessità di chiarire i nostri rapporti con la Russia. Durante la conferenza della pace abbiamo tentato – come ricordate – parecchie volte un accordo anche con la Russia intorno a quelle che erano le nostre rivendicazioni. Voi sapete per quali ragioni non fu possibile ottenere un accordo per Trieste e per il suo territorio; tuttavia noi fummo per l’applicazione integrale del trattato, e ricordate che qui abbiamo dovuto difendere questo nostro atteggiamento positivo anche nei confronti delle obiezioni dell’opposizione. Fummo, soprattutto, per una soluzione pacifica della questione del territorio di Trieste e, in ogni fase della discussione anche pubblica, abbiamo dichiarato esser certo che la soluzione della sacrosanta rivendicazione di Trieste dovesse essere ottenuta per via pacifica. Queste dichiarazioni le facemmo, non in relazione alle nostre possibilità militari, che, naturalmente, non esistevano, ma perché volemmo indicare che questa questione per quanto ci stesse a cuore non doveva essere motivo di conflitto fra le singole potenze, e molto meno di ostilità contro la Russia. All’applicazione del trattato siamo arrivati, ed è stato molto doloroso e molto penoso. L’onorevole La Malfa sa che nel momento decisivo, dopo aver fatto tutte le possibili resistenze, per avere per lo meno delle concessioni, quando si è fatto appello al nostro dovere, ci siamo ricordati del dovere di lealtà anzitutto. Abbiamo detto che, nonostante il sacrificio che ci veniva imposto e il dolore che sentivamo inflitto soprattutto alla marina ed a quanti si preoccupavano delle nostre sorti, noi abbiamo accettato l’applicazione del trattato anche se con molto dolore. Non si può dire che con il nostro atteggiamento con lo Stato russo abbiamo cercato di resistere all’applicazione del trattato, né abbiamo cercato pretesti per non applicarlo, né per creare delle ragioni di conflitto. Come con le altre nazioni, abbiamo sempre cercato di ravvivare, di completare e di integrare relazioni di commercio, così come con le altre nazioni slave. Oggi si tratta con la Jugoslavia per il problema Adriatico, nonostante i nuovi atti di incorporazione che sotto diverse forme ha fatto la Russia, 287 miglia quadrate… (Commenti e interruzioni all’estrema sinistra). toGliatti. Quali atti? De GasPeri. Nessun sospetto turbò i rapporti fra Stati e Stati. (Interruzioni all’estrema sinistra). Una voce all’estrema sinistra. Quali Stati? De GasPeri. È inutile che vi ripeta i nomi degli statarelli. (Interruzioni all’estrema sinistra). Giolitti. È un bugiardo se non ce lo dice! De GasPeri. La polemica si sviluppò… Voci all’estrema sinistra. Risponda! PresiDente. Onorevoli colleghi, si ha l’obbligo di rispondere quando si offende qualcuno, ma quando si fa un’affermazione… Una voce all’estrema sinistra. Affermazione falsa! PresiDente. In questo modo, la discussione si trasformerebbe in un continuo colloquio. (Commenti all’estrema sinistra). De GasPeri. La polemica si sviluppò invece contro la dottrina e l’azione del partito bolscevico. Essa si fece più viva dopo la creazione, nel settembre 1947, del Cominform, (interruzioni all’estrema sinistra), non solo perché esso iniziò la lotta contro il Piano Marshall e gli aiuti americani, ma anche perché costituì allora un sottocomitato speciale per l’azione all’interno dell’Italia e della Francia. (Interruzioni e proteste all’estrema sinistra – Commenti al centro). [Seguono numerose interruzioni dei deputati socialcomunisti e un esplicito richiamo del presidente della Camera dei deputati a rinviare gli interventi alle successive fasi delle dichiarazioni di voto]. Non è la prima volta che questa affermazione è stata fatta da me e da altri. (Interruzioni all’estrema sinistra – Rumori). Comunque, assumo la responsabilità di quanto ho detto! (Prolungati rumori all’estrema sinistra – Grida di: «le prove! Vogliamo le prove!»). L’onorevole Togliatti, a proposito del Cominform, aveva dichiarato altre volte di parlarne scherzando: questa volta ha dichiarato di rispondere sul serio e si è richiamato ad una antica tradizione socialista… toGliatti. …e comunista. De GasPeri. …e comunista, dell’esistenza e funzioni dell’Internazionale socialista e comunista. Ci ha detto: in fin dei conti è sempre stato così. Mi pare però che la cosa sia alquanto diversa. Una conferenza sotto la direzione di un partito come il partito bolscevivo, che ha in mano la forza e i mezzi di uno Stato potente è una cosa diversa… (Proteste all’estrema sinistra – Interruzioni). Berti GiusePPe. Guerra volete, guerra; questo è il Patto atlantico! De GasPeri. …tanto è vero… (Rumori all’estrema sinistra – Interruzioni del deputato Gallico Spano Nadia ). PresiDente. Onorevole Gallico Spano, la richiamo per la seconda volta. De GasPeri. …tanto è vero che i socialisti possono passarsela con delle diffide senza rischi, mentre Tito riceve non un’informazione, come sembrerebbe derivare dal titolo, ma una condanna espressa, ufficiale, pubblicamente manifestata per ragioni di politica interna e di politica estera, e l’ingiunzione perentoria di sottomettersi, a scanso… [Seguono altre interruzioni dell’on. Togliatti ed un appello al senso di responsabilità del presidente della Camera dei deputati]. La mia affermazione si riferiva ad un documento pubblico del Cominform riguardante Tito e non a documenti segreti fabbricati dalla Presidenza… (Approvazioni – Interruzioni e commenti all’estrema sinistra). Ora, fino a che punto – qui sorge una questione che vorrete obiettivamente considerare – fino a che punto questa solidarietà internazionale, così organizzata e presidiata, è compatibile con i doveri… (interruzioni all’estrema sinistra) è compatibile con i doveri di cittadinanza previsti dalla nostra Costituzione e con la sovranità e indipendenza della nazione? Non voglio citare qui manifestazioni del passato autunno. Ammetto anche che le dichiarazioni fatte ieri dall’onorevole Togliatti ne attenuino il significato. Egli ha dichiarato: contro l’Unione Sovietica la guerra non si farà, perché il popolo lo impedirà. (Commenti all’estrema sinistra). Gallico sPano naDia. Non potrete farla! Una voce all’estrema sinistra. Vi illudete! Mai! De GasPeri. Rispondo: nessuno di noi vuol fare la guerra contro l’Unione Sovietica. Una voce all’estrema sinistra. Ma la state preparando! Una voce all’estrema sinistra. Ma la questione è un’altra: la questione è di sapere se, nel caso che l’Italia fosse aggredita, gli italiani… (interruzioni all’estrema sinistra) abbiano il dovere di difenderla o il diritto di disertare. Questa è la questione. Gallico sPano naDia. Da chi? PresiDente. Onorevole Gallico Spano, l’avverto ancora una volta, o la smette o attuo la misura disciplinare che le ho indicato. […] De GasPeri. …credo, fermamente credo, nel sentimento di lealtà e di onore dei lavoratori italiani. Ma non parliamo di guerra che mi rifiuto di ritenere probabile o vicina. (Rumori all’estrema sinistra). Parliamo di pace. Gallico sPano naDia. A che cosa vi serve il patto, allora? De GasPeri. Vi pare, onorevoli colleghi dell’opposizione, specialmente comunisti, vi pare che porti un senso di sicurezza, che desti un senso di fiducia negli italiani codesto vostro atteggiamento che non è di neutralità, ma di non impegno, cioè di isolamento, di abbandono, di porte aperte? (Proteste all’estrema sinistra). Credete questa una soluzione tranquillante sui due lati, a nord e a sud? Se il conflitto avvenisse, indipendentemente dalla nostra volontà, l’Italia sarebbe di nuovo spaccata in due. Non ragioniamo come se fossimo soli ed arbitri assoluti delle nostre sorti. (Interruzioni all’estrema sinistra). Usciamo dalle considerazioni ideologiche di parte. Guardiamo all’Europa e al mondo come è. I patti collettivi o reti di patti bilaterali sono in cammino. Verranno fatti con noi o senza di noi, e con noi o senza di noi saranno fattori della politica internazionale dell’Europa e del mondo. Domando alla vostra responsabilità e con tutta serenità: ove potremo lavorare meglio per la pace, in seno ad un patto di assistenza collettiva e all’Unione europea, o perdendoci in lotte ideologiche interne o appartandoci all’interno delle correnti internazionali? Se noi aderiamo ad un patto difensivo in modo… Gallico sPano naDia. Ma non è difensivo questo patto! De GasPeri. …in modo che sia esclusa qualsiasi aggressione contro la Russia e qualsiasi nostro obbligo di adesione a qualsiasi attacco, vi domando se noi non saremo allora nella migliore situazione per lavorare in favore delle soluzioni pacifiche e contro ogni pericolo di guerra se mai sorgesse. (Interruzioni all’estrema sinistra – Applausi al centro e a destra). L’Italia, vittima della guerra passata, potrà portare nel foro internazionale lo spirito paziente e fattivo della sua ricostruzione, la voce del suo popolo che ha bisogno di lavoro e di terra. (Interruzioni del deputato Gallico Spano Nadia – Commenti). Una voce all’estrema sinistra. E perché non gliela date? […] De GasPeri. V’è qualcuno che possa dubitare del nostro spirito conciliativo quando, entrando nel patto, dichiariamo già che non imposteremo nessuna rivendicazione circa il trattato, e appunto lo dichiariamo, non perché sulla questione di Trieste abbiamo bisogno di adesioni da parte degli angloamericani, ma perché urteremmo altrimenti l’atteggiamento della Russia? (Commenti). E non dovremo sperare per riflesso anche in una discussione interna… (Interruzioni all’estrema sinistra). latorre . E la Cirenaica, e la Tripolitania? De GasPeri. E non dovremo – dicevo – sperare per riflesso anche in una distensione interna (veramente vi è poco da sperare dato il contegno nei riguardi delle mie dichiarazioni che del resto sono conciliative)… (Interruzioni all’estrema sinistra). Voci all’estrema sinistra. Ci parli del Patto atlantico! De GasPeri. Santo Dio! Queste voci continue che non fanno altro che dire: Patto atlantico! Ma io parlo del Patto atlantico. E non dovremo sperare, ripeto ancora, per riflesso, anche in una distensione interna e in una rinvigorita disciplina nazionale, quando un senso di sicurezza libererà tutti dalle opposte tentazioni della sovversione o della dittatura?… (Interruzioni all’estrema sinistra). Una voce all’estrema sinistra. E i Ceghi, è la via per preservare la pace e per salvare la libera democrazia in Italia. (Vivi applausi al centro e a destra). Il popolo italiano, che cerca la sua unità in mezzo alle sofferenze del dopoguerra, ritroverà ancora le sue virtù tradizionali nelle pacifiche conquiste dell’ingegno e del lavoro. Una voce all’estrema sinistra. Retorica! Altra voce all’estrema sinistra. Pensate a fare la riforma agraria! De GasPeri. Adesso vogliono che parli della riforma agraria, invece che del Patto atlantico! È una intolleranza incivile quella che dimostrate. (Vivi applausi al centro e a destra – Commenti all’estrema sinistra). Una voce all’estrema sinistra. Barbaro! De GasPeri. Il contegno fazioso, che accentuate, non mi toglie la fede nel popolo italiano e nel suo avvenire. (Vivissimi, prolungati applausi al centro e a destra). Per questo popolo, per questo avvenire, non per un governo, non per un partito, non per un gruppo, vi chiedo il vostro voto. (Vivissimi, prolungati applausi a sinistra, al centro e a destra – I deputati si alzano in piedi). [Il presidente del Consiglio sull’ordine del giorno presentato dagli on.li Palmiro Togliatti e altri: «la Camera, riferendosi alle dichiarazioni del governo, raccomanda che non venga concesso ad alcun governo straniero l’uso del territorio nazionale per l’organizzazione di basi militari di qualsiasi genere»]. Ho da dichiarare quanto segue: nessuno ci ha mai chiesto basi militari, e d’altra parte non è nello spirito dei patti di mutua assistenza fra Stati liberi e sovrani, come il Patto atlantico, di chiederne o concederne. Essendo questa la nostra valutazione, credo che il votare l’ordine del giorno Togliatti, anche per la parte donde proviene e per i sottoscrittori… (interruzioni all’estrema sinistra) – voi ci avete dichiarati traditori un momento fa! (commenti all’estrema sinistra – interruzioni del deputato Pajetta Giuliano) – …equivarrebbe a insinuare che sia in noi una convinzione diversa e a diminuire il valore politico del mandato di fiducia che abbiamo chiesto alla Camera. Perciò prego la Camera di respingerlo .
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(Segni di vivissima attenzione). Onorevoli senatori, la discussione generale è stata molto ampia. Diciassette oratori favorevoli e ventitré contrari; quarantacinque ore di discussione. Il Senato ha accolto questa occasione per esprimere integralmente il suo pensiero ed ha soddisfatto – credo – le aspettative del paese. C’è stata molta libertà di linguaggio. I colleghi dell’opposizione soprattutto non hanno mancato di espressioni molto energiche caratterizzando l’azione o l’atteggiamento del governo. Specialmente alcuni colleghi, che io ho conosciuto in altri tempi come apprezzati collaboratori, hanno usato dei termini così radicali che hanno dovuto far impressione nell’animo mio. Lo potete credere. L’onorevole Negarville , già mio collega al ministero degli Esteri, mi ha detto, sapendo evidentemente che cosa voleva dire, che io avevo mentito e che avevo ingannato il Parlamento, sapendo di ingannarlo. Ci ha attribuito poi diversi altri titoli come quello di servi sciocchi; ed altri hanno incalzato in questo tono. L’onorevole Banfi ha parlato di traditori; l’onorevole Morandi di servi e demolitori della nazione; l’onorevole Sereni ha parlato di un vicolo cieco della democrazia segreta, l’onorevole Scoccimarro ha trovato nel nostro atteggiamento un machiavellismo deteriore e l’onorevole Casadei ha concluso proclamando che le nostre azioni erano una colossale truffa, e addirittura ci ha accusato di avere arrotato il coltello nell’ombra per colpire il popolo. Ho ascoltato, come era mio dovere, con la dovuta compunzione tutti questi giudizi; non mi sogno nemmeno di entrare in polemiche particolari sopra la fondatezza di tali accuse, ma invece, se mi permettete, voglio fare una cronaca, oggettiva più che mi è possibile, perché voi stessi giudichiate se le vostre qualifiche non sono state infondate, o per lo meno affrettate. Nessuna meraviglia che al gran pubblico, e forse a molti dei nostri colleghi, non sia chiaro il nesso fra i singoli fatti di politica internazionale degli ultimi mesi; molta confusione c’è tra il Patto di Bruxelles e l’Unione di Bruxelles, tra l’Unione europea e il Patto atlantico e l’organizzazione economica dell’OECE. Molta confusione, perché quasi contemporaneamente queste iniziative si sono svolte, hanno preso figura ed hanno naturalmente una connessione causale o di collaborazione. Permettetemi che io ricordi le date principali. Il Patto di assistenza di Bruxelles, delle Cinque potenze, venne proclamato e concluso il 17 marzo 1948; gli italiani erano allora immersi nella campagna elettorale; non si sono occupati di questo patto; e specialmente nella campagna elettorale non c’era che la cura da parte di tutti i partiti, compreso il mio, di declinare qualsiasi responsabilità, senza discutere sul patto e senza venire ad un dettagliato esame del patto stesso. Si diceva un patto militare; direi che si è insistito sopra questo errore senza esaminare il carattere stesso e i termini del patto, ed è quindi spiegabile – e qui mi richiamo appunto alle affermazioni avvenute durante la discussione – è spiegabile che oggi ci dicano: voi nella campagna elettorale avete proclamato di non aderire. Direi di più: non solo non aderire, ma nemmeno che ce ne siamo occupati e quando ce ne siamo occupati abbiamo detto: questo non ci riguarda. Perché il patto nacque al di fuori di noi e avevamo tutti l’impressione che esso riguardasse la difesa renana e soprattutto fosse rivolto contro il ritorno di una eventuale minaccia germanica contro gli Stati che avevano sofferto l’invasione e la guerra. sereni. Questo non vi preoccupava. De GasPeri. La diplomazia italiana in questo periodo si applicava invece a proposte costruttive della organizzazione europea. Vi cito e ricordo le proposte del 25 agosto del ministro degli Esteri italiano per un’organizzazione o una trasformazione permanente con funzioni diverse anche di carattere politico dell’OECE; per promuovere, attraverso gruppi federalisti, una Unione europea: Unione europea che poi divenne un fatto compiuto attraverso l’Unione più completa delle cinque potenze ma che ora viene considerato il primo germe di una organizzazione che potrà diventare federalista. Era chiaro che l’Italia in questi movimenti cercava ancora la sua posizione e limitava il suo interesse soprattutto a tutto quello che era ricostruzione dell’Europa ed unione delle forze europee. Dissi questo in modo preciso, in una conferenza a Bruxelles, il 20 novembre 1948 , in cui, dopo aver affermato che l’Italia era per sua tendenza, per suo proposito, occidentalista, aggiungevo però che, circa i mezzi di questa ricostruzione, circa i modi e le procedure, si poteva essere di diverso parere. Questa mia dichiarazione ebbe una conferma quando, durante il dibattito del dicembre del 1948 alla Camera, conclusi che, secondo il mio parere, noi preferivamo qualcos’altro, che non fosse il Patto di Bruxelles – cioè il patto dei Cinque di assistenza – considerandolo piuttosto come un patto di difesa renana e quindi in rapporto alla eventuale rinascita della Germania, e dicendo che l’Italia aveva una posizione più mediatrice e che quindi non aveva fretta di agganciarsi a una simile formazione. Intanto il Patto atlantico di cui si parlava da molto tempo, ma più nei giornali che nei consessi competenti, diventava una iniziativa ufficiale il 26 ottobre 1948. In una riunione di Parigi, abbiamo il primo comunicato in cui si dice che i Cinque più l’America si erano trovati d’accordo sui princìpi di un patto difensivo dell’Atlantico settentrionale e sui passi da compiersi in questa direzione. Le istruzioni del ministero degli Esteri per gli ambasciatori, in questo periodo, quali sono state? Queste: agire per tenere aperte le possibilità di aderire o non aderire a trattative che venissero iniziate per questo patto di sicurezza; non prendere nessun impegno da parte nostra; combattere soprattutto il senso di sfiducia che andava diffondendosi in qualche nazione circa il valore della socialità dell’alleanza con l’Italia – valore interiore, questione morale, quindi – ed insistere sopra l’apporto che l’Italia è chiamata a dare ad una formazione di difesa della civiltà occidentale; interessare anche alla nostra situazione difensiva nel rispetto, però, del trattato. Io vorrei richiamare la vostra attenzione sopra questo punto di vista perché può essere oggetto di contrasto, lo riconosco. Ma noi avevamo il dovere fin dall’inizio di non sbarrarci la via a quello che noi consideravamo metodo necessario per svuotare della sua sostanza il trattato, nei suoi limiti e nella sua iniquità. Che cosa è risultato da questi sondaggi fatti dai diversi ambasciatori presso le diverse cancellerie? È risultato questo allora: primo, che appariva estremamente difficile tenersi fuori del Patto di Bruxelles, che in quel tempo veniva considerato dall’America come il passaggio naturale verso un Patto atlantico, un patto più largo. Secondo, che sembrava molto improbabile di ottenere uno statuto particolare di garanzia, ed eventualmente di prestiti per il riarmo entro i limiti cui ho accennato, per la sola Italia, cioè un patto bilaterale. Il 10 dicembre 1948 cominciarono a Washington le riunioni per la redazione del patto. Verso la fine di dicembre, dopo Natale, si ebbe l’impressione che le decisioni maturassero e allora il governo italiano inviò un memorandum per riassumere il proprio punto di vista sopra la più scottante delle questioni, cioè sopra la garanzia americana nei rapporti, che per l’America sono in genere difensivi. Non è il momento qui che io vi possa leggere tutto il testo di questo memorandum: è ancora troppo presto e non attiene a me farlo in questo momento. Però vorrei farvi alcuni accenni per dimostrarvi il linguaggio pieno di responsabilità, la prudenza e la misura con cui abbiamo proceduto. Il memorandum inviato da Roma il 6 gennaio è arrivato poi, attraverso le traduzioni, in mano del governo degli Stati Uniti il 12 gennaio. Incominciava così: «quanto segue ha come scopo quasi esclusivo di far conoscere al governo americano l’autentico stato d’animo dell’opinione pubblica italiana di fronte alla riconosciuta necessità della più stretta collaborazione a difesa della pace e della libertà umana». Ad un altro punto: «esso vuole essere una candida espressione del nostro pensiero, che ci pareva doveroso verso il governo ed il popolo degli Stati Uniti cui tanto dobbiamo e coi quali l’immensa maggioranza della nazione italiana intende conservare e sviluppare i rapporti più intimi» . Ad un certo punto, descrivendo le conclusioni cui era arrivato il dibattito del dicembre alla Camera, il memorandum così diceva: «le dichiarazioni finali con cui il presidente De Gasperi, il 4 dicembre 1948, sintetizzò la linea del governo di coalizione possono riassumersi così: “amicizia, fiducia e gratitudine per gli Stati Uniti, rifiuto di ogni politica di isolamento, qualsiasi forma di neutralità essendo ormai impossibile, necessità della cooperazione europea osservando che tutte le proposte Sforza tendono a questo scopo, prima fra esse l’unione doganale italo-francese, solo esempio pratico di fattiva e concreta collaborazione europea proposta dopo la proclamazione del Piano Marshall. Circa il Patto di assistenza di Bruxelles, il presidente De Gasperi dichiarò in quella occasione che esso non apparirà lo strumento più adatto per accentrare tutte le forze occidentali, essendo esso stato lanciato come un patto di difesa contro un eventuale nuovo pericolo germanico ed avendo l’Italia una posizione più mediatrice in confronto della Germania”» . La conclusione era: «impegno di sicurezza e contemporanea partecipazione al Consiglio europeo costituirebbero una graduazione ed articolazione di obblighi e di prestazioni che sembrano altamente augurabili. Ci occorrerebbe sapere, a tempo opportuno, se gli Stati Uniti assumerebbero di fronte all’Italia un impegno di assistenza per la sicurezza delle nostre frontiere e, nei limiti del Trattato di pace, per il riarmo. Appena in possesso di tutti gli elementi che ci pervengono da Washington, noi siamo pronti per una formulazione di proposte concrete su cui chiedere un voto del Parlamento» . Questo il documento fondamentale del nostro atteggiamento, documento che ho letto non per intero, ma in alcuni brani sufficienti per dare, allo stato presente, il senso della tendenza. Questo documento capitò proprio nel periodo in cui in America intervenne la crisi. Il segretario di Stato Marshall dimissionò, ed il 20 gennaio entrò in azione il nuovo segretario Acheson. Avemmo poi le informazioni che le discussioni sul problema italiano formarono oggetto di scambio di idee il 25 gennaio a Londra tra i Cinque, e poi in America tra il nuovo segretario di Stato ed alcuni tra i più autorevoli membri del Senato americano. Il 25 febbraio, vi prego di fare attenzione un po’ alle date che dimostrano come le cose precipitino al di fuori di noi… (Interruzioni dalla sinistra). Non so cosa intendete quando dico che avvengono fuori di noi. Io voglio affermare una cosa realissima, cioè che l’Italia non è in una posizione ombelicale nel mondo, (interruzioni dalla sinistra) …il 25 febbraio c’è una nuova riunione degli ambasciatori a Washington, e qui invece è il caso della Norvegia che accelera tutto il procedimento. Evidentemente c’è stato un certo allarme, si è ritenuta una certa necessità di intervenire subito dopo una chiarificazione; comunque sia, la preparazione dello strumento del patto di adesione si accelera e il 3 marzo a Londra si definisce la bozza. Insisto su questa parola bozza perché in inglese si è scritto non text, ma draft, quindi è giusto quello che abbiamo detto noi che si tratti di uno schema e non del testo del patto. Il 4 marzo nella seduta degli ambasciatori si conclude e si trova un completo accordo sulla definizione della bozza e sugli Stati che dovevano essere invitati, e quindi anche sull’atteggiamento da prendersi in confronto dell’Italia. L’8 marzo – vi prego di badare alle date – noi abbiamo avuto in mano un documento informativo in base al quale abbiamo convocato il Consiglio dei ministri per la decisione ed in base al quale abbiamo compilato le nostre dichiarazioni presentate alla Camera ed al Senato. Corrispondeva alla verità il fatto di non conoscere il draft, cioè la bozza. Abbiamo detto di conoscere però il contenuto e le linee principali e ne abbiamo dato il significato, il tenore, conforme appariva in questo documento; e per la verità abbiamo anche aggiunto un particolare che era in risposta più o meno diretta al nostro memorandum, cioè che vi sarà preciso obbligo di contribuire, prima o dopo eventuali attacchi, ad una comune difesa, nella misura consentita alle rispettive forze; tuttavia, poiché la dichiarazione di guerra è demandata, secondo la prassi democratica, al Parlamento e poiché d’altra parte potrebbe essere conveniente che taluna delle parti contraenti rimanesse neutrale nell’interesse di tutte le altre parti fino a quando non attaccata direttamente, il patto non prevede automatica dichiarazione di guerra. La nota informativa prosegue affermando che il draft sarà probabilmente pronto entro la settimana corrente e che quindi sarà comunicato ai paesi. Le parti potranno partecipare ad eventuali discussioni precedenti la firma. Quindi, quello che abbiamo affermato lo abbiamo affermato in base a tale documentazione; la pubblicazione del patto è prevista per il 15 corrente e la firma per il 4 aprile. I paesi a cui si richiede l’adesione sono: la Norvegia, già ammessa alla discussione dal 4 corrente, l’Italia, la Danimarca, l’Islanda ed il Portogallo. Richiamo alla vostra attenzione, poiché è stato affermato diversamente, che qui non è affatto prevista l’adesione o l’invito alla Spagna. terracini. Andreotti c’è andato, in Spagna. De GasPeri. Andreotti è un tifoso: c’è andato proprio per il calcio, invitato ufficialmente dalle organizzazioni sportive. (Si ride). Vorrei richiamare la vostra attenzione sul fatto che potete dire, se volete, che abbiamo sbagliato o siamo stati poco fortunati nella nostra comunicazione al pubblico, ma non ci potete dire che abbiamo fatto qualche cosa per ingannare… neGarville. Come no? De GasPeri. Comunque, in base a queste affermazioni, in base a questa documentazione, il 10 marzo il Consiglio dei ministri ha preso nella sua responsabilità, all’unanimità, la deliberazione di dare per suo conto un’adesione di massima al Patto atlantico. La sera dello stesso giorno comunicai alla Camera che avrei fatto l’indomani delle dichiarazioni sulla politica estera. L’indomani feci le note dichiarazioni alla Camera e al Senato. La Camera discusse fino a tutto il 18. Il 18 arrivò il testo della bozza – chiamatela come vi pare – il draft. Noi eravamo impegnati a non pubblicarlo – sapete che di solito la pubblicazione è concordata fra i due governi – prima delle ore 17 del giorno 18. Ed è avvenuto che anche i giornali erano impegnati dalle rispettive agenzie di non pubblicare il testo prima di quell’ora. Comunque, è stato pubblicato verso le 14 o le 15, e questo è servito quasi a portare una prova del nostro mendacio e della nostra tendenza a tenere segreto qualcosa che doveva essere invece manifesto. casaDei. Le aggressioni dall’interno. De GasPeri. Parlerò anche di queste. Voce dalla sinistra. Avremo pazienza. De GasPeri. Non tanta quanta ne ho io. (Rumori). Comunque, nel giorno 18 la Camera ha concluso i suoi lavori. Si è fatto allora un gran vociare contro la mia astensione, il mio silenzio durante il così detto dibattito, cioè durante le dichiarazioni di voto di carattere ostruzionistico. Ebbene, ma io non avrei potuto parlare in quello stadio della discussione, a discussione chiusa, se non riaprendo la discussione stessa e prestandomi ad una nuova tattica ostruzionistica che non era nell’interesse del paese. (Vivi applausi al centro e da destra – Rumori e interruzioni da sinistra). Colleghi della sinistra, permettetemi di fare ora la mia autodifesa senza interrompermi poiché io non vi ho attaccato in nessun senso. Una voce dalla sinistra. Ma si difende male! De GasPeri. A questo ci penso io. Il Senato, dopo le due feste – si è desiderato di avere le feste a disposizione – iniziò, il lunedì 21, la discussione. Ora, permettetemi – a proposito di questa procedura – alcune osservazioni. Qualcuno potrà dire: perché non avete posto in discussione prima la tendenza, o la conclusione a cui eravate arrivati? È molto semplice: perché non potevamo porre in discussione il problema prima di avere la risposta degli Stati Uniti o prima di sapere, almeno con certezza o con la massima probabilità, che saremmo stati invitati. È evidente quindi che, per il decoro dell’Italia e per un atteggiamento doveroso, non potevamo discutere qualcosa che non era affatto definita. E questo è stato fatto anche secondo le regole del più ampio, democratico sistema, per non dire, poi, secondo le regole antiche; ci sono qui dei maestri che, a questo riguardo, richiamandosi alla procedura seguita o ad altre cose, semmai mi accuseranno di eccesso e non di mancanza di democrazia. In secondo luogo noi non sapevamo che questa risposta implicasse immediatamente l’invito ad accedere al Patto atlantico di assistenza generale. Certo, stando alla procedura parlamentare o alla prassi, credo che le persone autorevoli che sono qui, che rappresentano la tradizione parlamentare, mi avrebbero concesso di comportarmi come si è comportato Bevin, il quale ha rifiutato la discussione sul patto prima di averlo elaborato e definito, oppure di dire come Schuman: «la mia firma non impegna la Francia. La Francia la impegnerete voi quando darete la ratifica». Ma abbiamo preferito venir subito al Parlamento non perché ci sia stato chiesto da chicchessia, oppure per la meschina finalità di riversare la nostra responsabilità sulle Camere. Abbiamo anzi detto chiaro che la responsabilità la prendevamo noi, in quanto a noi competeva come era di dovere. Ma dovevamo pur prendere in considerazione il fatto che, per le circostanze a cui ho accennato prima, circostanze di cronaca e di storia, le Camere non avevano discusso la questione pregiudiziale, e la forma più ovvia era quella di prendere la propria decisione, con la responsabilità ministeriale presentarsi alle Camere in una discussione che desse, o non desse, la fiducia per compiere ed eseguire questa decisione. Signori senatori, io spero quindi che nessuno farà me e i miei colleghi responsabili del tentativo di riversare su altri quella che è la nostra responsabilità soprattutto di tentare, attraverso questa discussione, una specie di pre ratifica, se non per la questione essenziale, per le direttive di politica estera in materia di discussione e di deliberazione del Parlamento. Mi volete permettere di concludere che non c’è stata menzogna, non c’è stato machiavellismo deteriore; se volete vi posso ammettere che ci sono state le complicazioni derivate dal fatto complesso di un patto collettivo, di trattative che si estendono a tutto il globo. Il fatto è che questo patto – dovuto all’iniziativa di sette Stati promotori, che hanno naturalmente tenuto l’iniziativa in mano e dominato la procedura – ha portato alla alternativa che dovemmo presentare al Consiglio dei ministri. E questa ormai non poteva essere posta che così: o accessione al Patto atlantico, che in ogni caso esiste al di fuori di noi, o neutralità. Neutralità: come la difendiamo? Con le unghie e con i denti ha detto, molto eroicamente, ma poco praticamente, il generale Bencivenga. La neutralità armata, cioè difesa, è impossibile per la nostra insufficienza finanziaria e per la nostra insufficienza di materie prime d’oltre mare. Anche per la neutralità i mezzi dovrebbero venire dall’America; quindi sarebbe stato indispensabile l’accordo con l’America, e l’America ci aveva risposto che voleva la collaborazione. (Commenti da sinistra – Interruzioni). Ma chi ci aiuta, chi ci aiuterebbe mai, se, posti dinanzi all’invito di accedere ad una solidarietà collettiva, ci fossimo rifiutati egoisticamente di accettare ogni rischio comune? Ma nessuno! Dobbiamo allora pensare ad una neutralità disarmata, confortandoci con le concezioni strategiche, che emaneranno certo da maggior competenza di quella che posso avere io, dell’onorevole Palermo ? Le linee di attacco o di difesa, tra le due grandi potenze, sono lontane, passano lontano dall’Italia. Se tutti i tecnici militari fossero di questo parere potrei cominciare a dubitare di quello che, come laico e profano, mi pare una inverosimiglianza; ma i nostri consiglieri tecnici – anche se non è ancora costituito il Consiglio supremo della difesa, ci sono degli ufficiali, dei generali competenti (commenti dalla sinistra, interruzioni) – dicono che, disgraziatamente, l’Italia non sarebbe tagliata fuori dalle operazioni qualora queste operazioni militari si mettessero in moto, perché da una parte è la valle padana quella che attira l’oriente e dall’altra l’Italia peninsulare che attrae l’occidente; noi finiremmo alla meglio con la linea gotica, con la divisione in due del paese e con la guerra interna nel paese. (Commenti – Interruzioni dalla sinistra). li causi. I tecnici della disfatta! De GasPeri. C’è ancora una possibilità, onorevoli senatori. Secondo l’onorevole Terracini dovremmo adattarci all’occupazione sovietica, che egli sembra ritenere probabile… terracini. Non io, ma i vostri strateghi la ritengono probabile. De GasPeri. …assicurando che i russi saranno buoni se noi avremo dato prima il buon esempio. Supponiamo che sia vero. Ma gli altri, cioè i loro nemici, li lascerebbero indisturbati perché sono buoni? (Interruzioni dalla sinistra). terracini. Ci hanno massacrato come alleati; si immagini se fossimo nemici. De GasPeri. Io ho grande stima delle abilità dialettiche dell’onorevole Terracini, ma un po’ meno delle sue cognizioni strategiche. Tuttavia devo riferire le parole, che egli ha usato nel suo discorso: «guardate, onorevoli colleghi, io non parlo per cinismo, perché ad un certo momento occorre vedere le cose come sono. Il nostro paese sarà certamente percorso da armate nemiche. E da quali? Io non mi intendo di strategia, ma non c’è generale o scrittore di cose militari, e i nostri giornali stanno riportando ampiamente articoli e sono stati scritti libri, che non dicano che la maggiore probabilità è che per intanto sarebbero gli eserciti sovietici a venire. Onorevoli colleghi, se ci vengono come in terra nemica, come in terra di conquista, come in terra schierata contro di loro, ahimè, credo che questa occupazione sarà uno spaventoso dramma per il nostro paese. Ma se queste truppe vengono e trovano un popolo che non si è schierato contro di loro, che non ha parteggiato per la destra o per la sinistra (vive interruzioni dalla sinistra), ebbene, i russi non saranno quei diavoli scatenati che qualche abate va predicando sul pulpito. Ma i nostri soldati, che sono stati in Russia, su questo almeno, hanno tutti concordemente deposto sulla gentilezza dell’animo popolare sovietico. E allora il problema si pone in questi termini: dobbiamo creare una situazione nella quale le nostre terre siano invase da un esercito che ci consideri nemici? O dobbiamo preferire che si sappia che noi non ci siamo vincolati in qualche modo con i suoi avversari» ? Dobbiamo, rispondo, affidarci a questa dialettica, anche supposto che tutto questo dipendesse soltanto dai russi e non dipendesse dagli altri? La nostra tesi è che, disgraziatamente, quod Deus avertat, se un conflitto scoppiasse, l’Italia difficilmente ne potrebbe essere fuori, e cioè indipendentemente dalla sua volontà. (Commenti – Interruzioni dalla sinistra). E poi un’altra argomentazione. Scusate, esiste nel nostro paese tale concordia, tale neutralità morale da infondere fiducia in tutti che noi questa neutralità non la violeremmo e non la lasceremmo violare da alcuno? sPano . Voi avete diviso il paese con la vostra politica! De GasPeri. Supponiamo, onorevole Spano, che la colpa sia divisa; il fatto è lo stesso. sPano. Ebbene, potreste modificarlo. De GasPeri. Certo, se ci aiutaste, potremmo farlo. (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra). Non so se ho capito bene ieri sera l’onorevole Franza . Gli devo però osservare che il suo rivendicare il passato per concludere che tutti hanno fatto bene quando l’hanno fatto in buona fede per il paese, è una tendenza assai pericolosa, conduce a violare ogni legge, ogni giuramento, a parte la buona disposizione d’animo di coloro che sono messi in tentazione. Bisogna che ci sia una legge sola, quella democratica, ed un solo dovere per tutti, quello dei cittadini di difendere la patria dall’aggressore, chiunque esso sia. (Approvazioni vivissime dal centro e dalla destra, grida di: «viva l’Italia!» – Commenti e invettive dalla sinistra). È una cosa seria quella che sto dicendo, che in questo momento non riguarda nemmeno voi; ma io che sono per la pacificazione politica in Italia, (interruzioni dalla sinistra), ho paura (voci dalla sinistra: «Scelba, Scelba») di questi tentativi di riabilitazione del passato, non a vantaggio delle singole persone, il che importa poco, ma a danno di un principio che deve essere salvo. Soprattutto, amici miei, abbiamo qui presente ancora per le particolari disposizioni della Provvidenza, l’illustre uomo che ha rappresentato la riscossa dell’unità morale dopo Caporetto… (Applausi vivissimi e prolungati all’indirizzo del senatore Orlando – Commenti dalla sinistra). Onorevoli colleghi, poiché fate delle interruzioni vi dico che, al di sopra di qualunque differenza e divisione che ci possa essere stata io mi inchino davanti a quest’uomo, perché l’onorevole Orlando è stato l’espressione di quella che dovrà essere anche domani in caso d’invasione l’unità del popolo italiano. (Vivi applausi dal centro e dalla destra – Ripetute interruzioni dalla sinistra). neGro . Orlando lo univa il popolo, voi lo dividete. (I senatori della sinistra si levano in piedi ed applaudono a lungo – Commenti dal centro e dalla destra). De GasPeri. Onorevoli senatori, io mi rivolgo a voi ed è proprio per ringraziarvi… (Interruzioni dell’onorevole Lussu – Proteste dal centro e dalla destra). neGro. L’avete silurato, non l’avete voluto a presidente della Repubblica. (Commenti da tutti i senatori). De GasPeri. Vi dicevo dunque che vi ringrazio di non aver ripetuto qui dichiarazioni che forse vi sono state strappate in altre occasioni dall’affetto che vi lega – e, lo riconosco, non senza fondamento, perché si tratta della vostra ideologia – al partito bolscevico. (Interruzioni e commenti dalla sinistra). li causi. All’Italia! Noi siamo stati nelle galere italiane. De GasPeri. È inutile che io vi ripeta le dichiarazioni che voi avete fatto; ma dovete ammettere che certe dichiarazioni non rafforzano nella opinione pubblica mondiale la convinzione che in Italia esista una neutralità morale e una unità nazionale. (Interruzioni e commenti dalla sinistra). Voci dalla sinistra. Siete stati voi i primi a prendere posizione! I Comitati civici! I viaggi in America! De GasPeri. Volete che io dia lettura della vostra stampa? Se credete che io abbia fatto offesa alla verità sono disposto a leggervi le vostre dichiarazioni. Lasciamole stare, mettiamole a verbale. Mi auguro che venga un giorno che cadano tutte le barriere e che arriviamo, il più rapidamente possibile, almeno agli Stati uniti d’Europa. Ma fino allora è delitto (interruzioni, commenti dalla sinistra) insegnare che la diserzione possa essere, in qualsiasi caso, un dovere morale. Pastore . È per questo che lei è rimasto in Austria! (Commenti, invettive dalla sinistra). De GasPeri. Lasciamo stare gli esempi che si sono riportati di neutralità armata: Svezia e Svizzera, armate e sostenute dalla unità dei cittadini. E neanche l’esempio che si è portato della Turchia giova, in quanto che la Turchia si è salvata perché era alleata dell’Inghilterra e non era semplicemente neutra. Veniamo ad alcune obiezioni che sono state fatte durante la discussione. Mi pare che l’onorevole Pastore ha detto: «il patto già di per sé è causa di rottura con la Russia» . Ma quanti patti sono stati fatti prima di questo dall’altra parte, in oriente? E nessuna eccezione è stata sollevata. Per qualche ragione un patto di assistenza fatto al di qua dell’Isonzo deve essere una ragione di rottura ed i patti al di là devono essere completamente accettabili e indiscutibili? Voce dalla sinistra. Perché da due anni insultate la Russia, lo spirito della Russia! De GasPeri. Si dice che la maggior parte di questi trattati – mi pare che sia stato l’onorevole Terracini ad affermarlo – sarebbero per lo meno contemporanei al Patto di Bruxelles del 17 marzo 1948. Non è esatto. Sono ben 17, di questi 24 patti, quelli che sono anteriori al Patto di Bruxelles. Ho le cifre qui, ma non voglio farvi perdere tempo leggendovele. Va osservato poi che il sistema dei patti orientali è sostanzialmente diverso dal sistema del Patto atlantico, in quanto in quelli è previsto l’intervento automatico ed immediato in caso di aggressione, e in alcuni trattati, – vedi patti come la Bulgaria, Rumenia, Ungheria – anche in caso di minaccia di aggressione da parte della Germania o di qualsiasi altro paese che si unisce direttamente alla Germania e sotto qualsiasi altra forma. (Vivi commenti ed interruzioni dalla sinistra). Io non cito questi fatti, questa serie di fatti se non per dire che non può essere che un patto da parte nostra sia di per sé ragione di rottura con la Russia: non ce ne sarebbe assolutamente ragione. (Vivissimi prolungati commenti dalla sinistra). Voce dalla sinistra. E le parole di Sforza? De GasPeri. Ma forse voi direte: l’urto può accadere con riferimento al Trattato di pace. Mi pare che anche l’onorevole Carmagnola mi abbia posto un simile quesito, se ho ben capito. Ora, vorrei richiamare la sua attenzione sopra l’articolo 8 del Patto atlantico di assistenza, il quale dice che il patto non deve contraddire a nessun impegno internazionale precedentemente preso. (Commenti dalla sinistra). Quindi è ben chiaro che noi non possiamo accettare né il Patto atlantico, né conseguenti accordi eccetera, i quali siano in contraddizione con il trattato. E questa è una delle caratteristiche più pacifiche del patto. (Vivi commenti ed interruzioni dalla sinistra). Abbiate pazienza, onorevoli colleghi, io ho presto finito; mi prendo un’ora in confronto delle 45 occupate dai vostri interventi. Si è sollevata anche qui, come alla Camera dei deputati, la questione delle basi. Io alla Camera ho risposto, a proposito di alcuni ordini del giorno e di un emendamento aggiuntivo che si era proposto, così: nessuno ci ha mai chiesto basi militari e, d’altra parte, non è nello spirito del Patto atlantico, di pura assistenza tra Stati liberi e sovrani, di chiederle o concederle. Questa dichiarazione non è sembrata soddisfacente a chi aveva fatto la proposta allo scopo di poter stampare poi sui giornali che non ci volevamo assolutamente impegnare anche sulla questione delle basi. Per essere completamente sicuro di questa mia interpretazione, che mi veniva allora improvvisa perché eravamo stati chiamati ancora a discutere il testo e le singole clausole, mi sono rivolto a Washington, ed ho avuto la dichiarazione formale che il pensiero espresso da me era precisamente il pensiero di tutti e sette gli Stati promotori. Quindi è completamente chiaro che in questo patto di pace non ci sono concessioni di basi di alcun genere. (Vivi commenti ed interruzioni dalla sinistra). Veniamo all’articolo 4. Rispondo anche qui ad obiezioni venute specialmente dalla parte sinistra. L’articolo 4 dice: «le parti si consulteranno fra loro ogni volta che, a giudizio di una di esse, la integrità territoriale, la indipendenza politica e la sicurezza di una delle parti sia minacciata». Si è fatto un gran discutere sopra la dizione «indipendenza politica», come se potesse essere interpretata in un senso diverso da quello comune di indipendenza nazionale; ma gli studiosi della materia hanno subito trovato che questa è una dizione che si trova tanto nel patto della Società della Nazioni, del 1919, come nel patto dell’ONU; è una dizione comune entrata nella prassi di questi patti. Voce dalla sinistra. Cosa vuol dire? De GasPeri. Non so altro al di fuori delle interpretazioni che si sono date. Però debbo dire prima di tutto che non vuol dire quello che voi avete stampato su l’Unità, mentendo e dicendo che il signor Pearson, ministro degli Esteri del Canadà, abbia affermato che quella dizione è stata introdotta per interesse e su proposta di De Gasperi e di Schuman; questa è favola e questo non lo può provare nessuno, né direttamente né indirettamente. È stato del resto smentito ufficialmente dal governo canadese e dal suo ambasciatore a Roma. Ritengo che qui si tratti, fino ad una interpretazione autentica ed ufficiale, della cosiddetta aggressione indiretta, che viene da parte di bande irregolari, dal di fuori, sostenuta e foraggiata dall’estero, in relazione con una insurrezione interna; ma non si tratta di attività rivoluzionaria interna, e ciò è stato escluso esplicitamente da Acheson nelle sue dichiarazioni. (Rumori da sinistra). tartufoli . Che cosa volete, mano libera? De GasPeri. Ad ogni modo, fino adesso non sono stato smentito nella mia fiducia nel popolo italiano e anche oggi essa è fermissima… (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra). Il governo che esce da libere elezioni e da un libero Parlamento non avrà mai bisogno di interventi stranieri. (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra – Vive interruzioni dalla sinistra). [Seguono varie interruzioni e il richiamo del presidente del Senato a lasciar concludere le dichiarazioni del presidente del Consiglio]. Non mi pare, egregi colleghi, di aver abusato della vostra pazienza, né ho cercato argomenti che potessero suscitare proteste. Ho cercato di dire delle cose, di portare delle constatazioni; ho cercato, comunque, di esprimere, come avete fatto voi, liberamente il mio pensiero responsabile dinanzi ad una questione così grave per il paese. Voi dite: perché grave? È grave perché siamo divisi. Se fossimo uniti sarebbe una cosa facilissima. (Interruzioni da sinistra). Un altro argomento che si è portato per dimostrare che il pericolo di guerra è gravissimo, che questo patto, invece che di pace è di guerra, è stata la psicosi di guerra e l’aggressività, come si è detto, di uno dei due grandi contendenti, cioè dell’opinione pubblica americana. Si sono portati dei testi americani che sono stati letti qui, testi veramente poco commendevoli; ora bisogna discutere e decidere conformemente alle decisioni di persone responsabili, bisogna tener conto delle affermazioni di Truman e delle affermazioni degli uomini più direttivi del Congresso e bisogna tener conto soprattutto della larga opinione media americana, che è assolutamente pacifica. D’altro canto, se noi volessimo continuare la polemica sopra l’aggressività, quante altre ragioni potremmo trovare anche dall’altra parte per affermare lo stesso! Oh, vi potrei far perdere tutta la giornata, ma certamente… (Vive interruzioni e commenti dalla sinistra). Certamente vi potrei portare numerose citazioni di Stalin, di Lenin e di Ždanov, ma vi dico che comunque siano le dichiarazioni fatte, teoretiche o fatte in altra occasione, da questi uomini di Stato, io so che quel che vale nel momento decisivo è il senso di responsabilità; ed io ho fede più nel senso di responsabilità degli uomini russi che nel vostro atteggiamento. (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra). Comunque, se tale pericolo esistesse nei maggiori Stati che cosa si dovrebbe inferire per il contegno degli Stati minori? Solo questo: che bisogna che questi popoli si mettano assieme per influire con la loro forza di Stati minori e frenare, essi che hanno provato la guerra, questa aggressività dovunque si manifesti, impedire che i grandi risolvano le loro questioni alle spalle dei piccoli e soprattutto alle spalle delle grandi civiltà europee. (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra – Commenti dalla sinistra). Ecco perché davanti al vostro pessimismo io vengo col mio ottimismo, con l’ottimismo che rappresenta la speranza in queste forze superiori di civiltà europea, in queste forze di popolo le quali, se ci sarà bisogno – e non ce ne sarà – che vengano opposte alle tendenze di guerra preventiva, saranno le prime chiamate a farlo per mettere l’Europa in piedi. Questo è il posto in cui l’Italia deve agire per la pace; solo lì è dove essa può intervenire per la pace e la difesa sua e per la difesa di tutta l’Europa. (Applausi vivissimi dal centro e da destra). Trascinato dalla polemica ho dovuto parlar troppo di guerra e di un conflitto a cui non credo. La ragione fondamentale per cui noi vogliamo partecipare a tutta questa opera di ricostruzione e di garanzia di ripresa europea, è la pace, il lavoro nella pace. (Interruzioni). Noi abbiamo bisogno che esista una Europa ricostruita; abbiamo bisogno per i nostri operai, per il nostro lavoro, per le nostre forze morali e progressive, di un campo di azione per collaborare alla ricostruzione europea. (Vive interruzioni). Non so come mai, ad un uomo che viene dal popolo e ha sempre servito il popolo e che si è sempre sottoposto al crisma delle elezioni del popolo, voi potete ricordare tiranni o dittature che non hanno alcun riferimento con la realtà e con sentimenti provati dal suo animo. (Interruzioni e clamori da sinistra – Vivissimi applausi dal centro e da destra). li causi. Anche il duce veniva dal popolo! De GasPeri. Onorevoli senatori, si è detto che questa attività, questo nostro atteggiamento minaccia i nostri rapporti con l’oriente, e, badate, con ciò non voglio dire che nella vita pubblica sarebbe più opportuno essere sempre saggi, non ricorrere mai ad eccessi verbali, non scambiar mai lo Stato per il partito… Voce da sinistra. Come fa lei. De GasPeri. …ma dobbiamo ammettere che nel caso particolare di cui voi vi interessate, esistendo lo Stato-partito, è assai difficile in certi momenti ottenere la distinzione doverosa che vale soprattutto per questo banco. Si diceva che noi stiamo perdendo con la nostra politica i nostri rapporti con l’oriente, soprattutto i contatti di carattere economico-commerciale. Mi pare di aver citato altre volte le seguenti cifre; ad ogni modo sono aggiornate: le importazioni nel 1948 sono cresciute da 10 miliardi a 34 miliardi: le esportazioni dall’Italia sono cresciute da 13 miliardi a 36 miliardi. Quindi in confronto dell’anteguerra, che era l’11 per cento, siamo riguardo alle importazioni al 4,2 per cento; di fronte all’8 per cento, nelle esportazioni, siamo arrivati al 6,4 per cento. Dunque, non è vero che i rapporti particolari che ci hanno imposto nel Piano Marshall abbiano impedito lo sviluppo del commercio verso l’oriente. Anche recentemente si sono autorizzate perfino forniture scaglionate di 180 grossi motori marini all’URSS. Quindi non è che ci sia una ristrettezza d’angolo, un’angustia; ma c’è già in atto il movimento di riassestamento, di ripresa, delle stesse vie del commercio, per quanto riguarda noi, che avevamo nell’anteguerra. Debbo occuparmi anche di un altro problema, perché nella lunga discussione si è fatto riferimento ai problemi interni, specialmente a quelli dell’industria meccanica. Quando voi deplorate la situazione dell’industria meccanica avete ragione. Infatti non c’è settimana che una questione di licenziamento, una questione di commissione interna, ma soprattutto una questione di disoccupazione in queste fabbriche non angusti anche il governo. Ma non andate a dire che non abbiamo fatto niente. Noi abbiamo concesso 100 miliardi… (interruzioni dalla sinistra), ma qualunque sforzo facciamo all’interno, e bisogna farne di ulteriori, qualunque riforma proponiamo, e bisogna farle le riforme, senza la possibilità di collocare all’estero il lavoro e quindi senza la possibilità di un mondo che accolga la nostra emigrazione, non è possibile risolvere il problema. È sempre lo sguardo fisso a questo problema che ci porta a delle sintesi di decisioni come quella che oggi qui è oggetto di deliberazione. Questa solidarietà dell’occidente soprattutto è necessaria per i nostri lavoratori emigranti. Entro questa Europa democratica faremo politica libera e sociale e indurremmo anche le forze di conservazione a piegarsi alle nuove legittime esigenze… (vivi applausi dal centro e dalla destra – interruzioni dalla sinistra), purché voi con le vostre minacce apocalittiche non le rendiate così trepide della loro stessa esigenza sì da renderle poco intelligenti. (Interruzioni dalla sinistra). Onorevoli senatori, se vogliamo il paese indipendente, dobbiamo rispettare e rendere salde all’interno le leggi della libera democrazia. (Interruzioni). È inutile che voi descriviate dinanzi alle folle ignare un governo, e particolarmente, un De Gasperi reazionario. Quel giorno in cui sentissi – e credo che i miei colleghi al governo siano del mio parere – di dover abbandonare la linea della democrazia in Italia, piuttosto che farlo, abbandonerei questo posto. (Vivi applausi dal centro-destra – Commenti da sinistra). Voce da sinistra. Mandi via Scelba! De GasPeri. Se vogliamo veramente il progresso del lavoro, bisogna riuscire a superare questo senso di insicurezza che paralizza l’ascesa economica. Noi governeremo secondo lo spirito della Costituzione repubblicana: all’interno difesa della libertà per tutti… li causi. Dovete arrestare gli assassini dei lavoratori! PresiDente. Onorevole Li Causi, non interrompa. De GasPeri. …conquista della giustizia sociale per le classi popolari; all’esterno noi ci ispireremo alle direttive dell’articolo 11 della Costituzione, che afferma, che l’Italia ripudia la guerra, consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni e promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. Con questo programma, in questi limiti, con questo spirito, io chiedo da voi una parola di conforto per camminare sulla via che abbiamo intrapresa, via piena di responsabilità, via della quale conosciamo gli spini e i triboli, ma via della quale conosciamo anche la meta: la libertà, la forza, l’ascesa del popolo italiano! (I senatori del centro e della destra si levano in piedi ed applaudono lungamente – Moltissime congratulazioni – Si grida da destra: «viva l’Italia!» e contemporaneamente da sinistra: «abbasso la guerra») .
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Il desiderio dell’onorevole Longhena è legittimo. Ma se si tratta di giudicare dei documenti è pur necessario conoscerli. Sulla questione di principio il presidente del Consiglio non può dire altro che nulla può scalfire la realtà: la decisione del 2 giugno è definitiva per l’Italia, e non si torna indietro . (Vivissimi applausi). lonGhena. Sono soddisfatto e ancora di più lo sarò quando il presidente del Consiglio avrà ripetuto la sua dichiarazione in piena Camera. (Vivi applausi).
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Noi intendevamo partecipare a questo dibattito. Avremo agio, e purtroppo il dovere, di affrontare ancora questi problemi a mano a mano che ci si presenterà una possibilità di soluzione per la prossima assemblea dell’ONU. Poiché tuttavia sono stati mossi attacchi che riguardano i rapporti tra il ministro degli Affari Esteri e la solidarietà e corresponsabilità del Consiglio dei ministri e mia , devo dichiarare nettamente che l’atteggiamento del Consiglio dei ministri è stato così chiaro, che rendeva e renderebbe superflua ogni mia ulteriore dichiarazione su questa solidarietà. Ma poiché l’onorevole Russo Perez ha equivocato sul comunicato che rendeva conto della decisione del Consiglio dei ministri, quasi che esso fosse redatto in modo da sconfessare l’opera del ministro Sforza a Londra, e quasi che fosse in esso una prova o almeno un indizio notevole di dissenso fra me, il Consiglio dei ministri e l’onorevole Sforza, mi basta rilevare un fatto: il comunicato è stato compilato e steso dal ministro Sforza e da me, insieme. Riguardo alla tutela dell’onore, mi rincresce di non aver avuto occasione di incontrare il collega Cuttitta , al quale mi ero proposto di parlare ieri, per dirgli come trovavo fuori di luogo la ripresa di una polemica così antipatica, come quella ispirata dall’accenno fatto a Churchill. Fuori di luogo, perché la cosa è stata cancellata totalmente nei rapporti personali fra Churchill e Sforza. Quando nell’ottobre del 1947 l’onorevole Sforza fu invitato dal governo inglese a visitare Londra, in quell’occasione vi furono degli amici comuni che desiderarono un incontro fra Churchill e Sforza. In questo incontro Churchill, dopo uno scambio di idee di carattere politico generale, con un nobilissimo gesto, tenne a dire che era dolente delle espressioni usate. Voi mi direte: perché non l’avete detto prima, perché non l’avete rivelato? Confesso che anche io personalmente non avrei consigliato questo al ministro Sforza. Mi pareva ovvio che non si dovesse rinfrescare questo incidente per ragioni polemiche, e mi rincresce che l’abbia fatto l’egregio collega monarchico. Ma l’onorevole Sforza non lo ha fatto perché, fra tante virtù e tanti difetti, ha la forza di non reagire quando si sente sicuro nella propria coscienza. Le dichiarazioni dell’onorevole Russo Perez contengono la minaccia di un movimento di carattere nazionalistico che inciderebbe nella compagine del partito di maggioranza o in genere nella composizione del governo, agitando le fantasie di una nuova revanche con uno stile che appartiene al passato. russo Perez. Né minacce, né revanche. De GasPeri. Mi pare che i termini delle sue parole non abbiano bisogno di essere precisati. Le dirò questo, onorevole Russo Perez: il problema coloniale è certamente uno dei problemi difficili che il governo ha da risolvere. L’abbiamo visto dalle singole fasi che abbiamo attraversato: è un problema complesso, che è tutt’altro che da risolversi secondo le alternative semplici che si sono qui presentate! Basterebbe leggere attentamente il resoconto della discussione all’ONU per comprendere le difficoltà e le complessità ogni giorno cangiantisi. Ed è per questo che il ministro Sforza, a proposito del suo compromesso, dice che, nelle ragioni e soprattutto nello spirito che l’hanno promosso, esso è un contributo alla soluzione. Altre soluzioni potranno presentarsi o essere promosse. Noi tendiamo a risolvere la questione il più possibile nell’interesse del paese. Questo faremo e assumeremo le nostre responsabilità dinanzi al Parlamento. E stia tranquillo l’onorevole Russo Perez, non pensi al passato. A questo riguardo siano abbastanza attenti a tutto ciò che avviene e che può avvenire! Siamo abbastanza circospetti e coscienti dell’interesse della nazione per assumere tutte le responsabilità delle nostre azioni e per avere il coraggio di difendere, non solo dinanzi al Parlamento, ma anche dinanzi al popolo, le nostre azioni! (Vivi applausi al centro!).
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Una brevissima dichiarazione, non perché sia necessaria, ma perché è doverosa. La mozione chiede al governo di sostituire il ministro dell’Interno. Bisogna che il governo si esprima a mezzo del suo presidente. È, se non sbaglio, la decima discussione, il decimo dibattito politico contro il ministro dell’Interno che si discute tra le due Camere, ed è il terzo che si occupa della Sicilia. Sono venuto qui colla speranza di sentire qualche cosa di nuovo. Tutto quello che è stato riferito è materia che è stata già oggetto di discussioni e ad ogni modo di considerazione da parte del governo. Quello che è strano però e che trovo veramente caratteristico in questa mozione è che questa volta il ministro dell’Interno, il quale è accusato di solito di essere l’uomo della repressione poliziesca, oggi viene accusato di essere troppo debole per mantenere l’ordine e la tranquillità. (Interruzioni da sinistra). Io prendo nota di questa evoluzione, di questo vostro interessamento per l’ordine e la tranquillità e spero che si tratti non solo dell’ordine e della tranquillità dell’isola, ma dell’ordine e della tranquillità di tutta Italia. (Applausi). Riguardo all’inchiesta, una breve parola. Un’inchiesta in una regione che ha 90 tra senatori e deputati, che ha un presidente regionale e 90 deputati regionali e quindi un governo regionale, un’inchiesta, veramente, è difficile giustificarla e legittimarla. Dovrebbero essere in fin dei conti i rappresentanti del resto d’Italia che vanno in Sicilia con uno scopo specifico corrispondente a un male specifico per una clinica specifica. Questo è evidentemente esagerato. Mi pare che non ci sia la base per ricorrere a questo sistema. Ma vengo ad una conseguenza pratica. Le inchieste che sono state oggetto di approfondito esame hanno portato senza dubbio vantaggi – inchieste soprattutto di carattere amministrativo – ma se esse non sono soprattutto necessarie per gli abusi avvenuti, esse, durante il corso di una operazione, sono fatali perché non fanno che deprimere l’impegno e il dovere delle forze di pubblica sicurezza. Non è possibile a quei carabinieri, a quei membri della polizia, i cui compagni sono caduti, andare a dire: «aspettate un po’, adesso viene un’inchiesta generale del Parlamento per vedere come avete fatto!». Si sa che le inchieste si trasformano quasi sempre in inchieste sul conto delle operazioni di polizia; questo vorrebbe dire interrompere per lungo tempo il corso naturale delle cose. (Interruzioni dalla sinistra). lussu. L’inchiesta parlamentare su Caporetto non ha interrotto la guerra ! De GasPeri. Qui non c’è assolutamente motivo di inchiesta; aggiungerò che il governo sarebbe completamente indifferente a che l’inchiesta si facesse o non si facesse. Il governo, come avete sentito dai dati portati dal ministro Scelba, può dire di avere raggiunto dei progressi in questo periodo di risanamento. È vero che il risanamento non è completo, ma progressi ci sono stati, corrispondenti ai progressi sociali del popolo italiano. Noi non possiamo assumere la colpa di un regresso che non è avvenuto, Io vorrei dire ai membri dell’opposizione: essi hanno il diritto di rivolgere i loro attacchi e concentrarli sull’uno e sull’altro membro del governo, come loro pare meglio. Però loro avranno osservato una tattica ed un atteggiamento continuo nel ministero che ho l’onore di presiedere; gli attacchi contro un ministro, se sono fondati, portano con sé le dimissioni di tutto il gabinetto, se non fondati portano la resistenza di tutto il gabinetto. È inutile che si cerchi una formula curiosa, quale quella espressa nella mozione: «il governo viene invitato a provvedere alla immediata sostituzione del ministro dell’Interno». Il governo ha una linea di condotta che si manifesta evidentemente nella direttiva del ministro dell’Interno. Questa direttiva è quella già accennata e riaffermata dal ministro Scelba. Non si tratta della politica di un uomo, si tratta della politica solidale di un governo democratico che difende l’ordine nella solidarietà politica e nella responsabilità parlamentare. (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra).
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La questione, come è noto, non è sorta tra governo e Parlamento, ma tra le due Camere e, specificatamente, tra le due Commissioni di Finanza. Che cosa ha fatto il governo, contro il quale, nonostante questa patente verità, si appuntano ancora le accuse dell’opposizione? Ha cercato di mettere d’accordo le due Camere ed ha promosso una riunione delle due Presidenze con i rappresentanti delle due Commissioni di Finanza per cercare di superare le difficoltà. Il governo stesso aveva già sposato la tesi del Senato e quindi l’ha difesa fino ad un certo punto della discussione. Invece dalla rappresentanza della Camera dei deputati si insisteva per questa modificazione. Io non mi sono accorto che a questo riguardo vi fosse una differenza tra maggioranza ed opposizione alla Camera. Mi pareva che tutti coloro che erano stati chiamati a decidere fossero d’accordo. Quindi non capisco perché a un certo punto, anche quando ci si mette a cercare l’accordo tra le due Camere, nonostante l’accordo tra opposizione e maggioranza nell’una e nell’altra Camera, il governo debba essere sempre responsabile del disaccordo o della tregua non raggiunta. Questo vi prego di constatare perché naturalmente è sempre facile parlare male del governo soprattutto quando si vuole assolutamente arrivare a queste conclusioni, in ogni caso. Io riconosco che è questo un diritto dell’opposizione, ma non era necessario che venisse ribadito così fervidamente da parte dell’onorevole Scoccimarro. Capisco benissimo che si faccia sempre una questione politica, che si dica sempre tutto il male del governo: «il governo del cancelliere; De Gasperi che cerca di soffocare e di diminuire l’attività delle Camere» eccetera. Tutto questo lo sapevo benissimo: è una tesi che mi stampate tutti i giorni: presupponevo che me la rivelaste anche qui. Però ciò non toglie che essa è completamente inesatta: il governo ha la visione e il ricordo del passato, e non dimenticate che io sono stato uno dei difensori della libertà parlamentare sull’Aventino e sono rimasto fedele nella mia vita a questo principio fondamentale, a questa esigenza democratica… (applausi vivissimi da destra e dal centro) e più che mai, subito dopo, nelle mie manifestazioni politiche – ed anche quest’anno – mi sono sempre allarmato di qualunque movimento antiparlamentare sorgesse, sia che venisse dall’opposizione o da altri partiti o dalla piazza. Comunque ho sempre detto quella che è la verità: noi abbiamo una situazione parlamentare difficile perché abbiamo creato, per la prima volta, due Camere uguali. È già una difficoltà procedere con tale realtà costituzionale. In secondo luogo, abbiamo due Camere che sono giuridicamente uguali ma politicamente non sono del tutto uguali. In terzo luogo, l’urgenza dei lavori parlamentari è tale che anche con la migliore buona volontà è difficile trovare il meccanismo per cui le cose procedano sincronicamente, e in modo da utilizzare tutto il tempo possibile. Il governo che cosa può fare? Il governo, attraverso l’ufficio legislativo della Presidenza del Consiglio, controlla esattamente: non è che ciascun ministro possa presentare caoticamente i progetti di legge che desidera nell’una o nell’altra Camera. No, è stato stabilito un elemento coordinatore nel governo, che è la Presidenza del Consiglio, con un ufficio speciale il quale esamina i progetti che vengono presentati dai singoli ministri e decide quali debbano essere presentati al Senato e quali alla Camera. Da che punto di vista? Ci sono parecchi criteri che vengono seguiti. Alcuni di essi riguardano lo stato presente dei lavori nell’una e nell’altra Camera e, vorrei dire, la capacità di assorbimento che può avere l’una o l’altra Camera. Ci sono alcuni criteri che riguardano la competenza: se abbiamo ad esempio una delle Camere, cioè il Senato, dove vi sono parecchi ex ministri della Difesa, è chiaro che il progetto di legge sopra il Consiglio della difesa verrà prima presentato al Senato che alla Camera; se abbiamo dei competenti dal punto di vista della finanza, è chiaro che il desiderio del governo è di sentire, soprattutto in un primo momento, in un momento iniziale, affrontando il problema, il parere di questi uomini competenti, che onorano il Senato. Quindi non è esatta l’affermazione che noi presentiamo dei disegni di legge alla Camera perché abbiamo una maggioranza sicura che qui non abbiamo. Prima di tutto io sono grato alla maggioranza che si forma qui al Senato di volta in volta, dopo un ragionamento ed un dibattito. Secondo, non è affatto vero che ci sia una maggioranza meccanica alla Camera dei deputati: protesterebbero tutti i colleghi del mio gruppo e avrebbero ragione, perché in realtà i progetti si discutono a lungo anche là e c’è la stessa lamentela che noi presentiamo certe volte dei progetti al Senato volendo schivare una opposizione della nostra maggioranza, tanto è vero che noi non siamo riusciti a persuadere la nostra maggioranza su questa questione del bilancio provvisorio. Avete avuto altri esempi in cui, quando si tratta soprattutto di interessi sindacali e di categoria, è estremamente difficile ad un governo, se non impone un voto di fiducia, ottenere l’adesione della maggioranza, il che vuol dire che il diritto parlamentare viene esercitato in tutta la sua autonomia e il governo non ha fatto nulla per diminuirlo. Un’altra cosa vorrei dire, e do ragione all’onorevole Togliatti quando mi ha rimproverato di non dirigere sufficientemente il Parlamento: deriva dall’Assemblea costituente ed è rimasta in alcuni deputati l’idea che ogni volta che interviene il governo, questo sia un intervento estraneo che bisogna controllare; non si sente ancora che il governo è un comitato di fiducia che ha l’incarico di prendere l’iniziativa della maggioranza, di governare, che si sottopone al controllo del Parlamento e che è sempre a disposizione di tutti coloro che domandano delle spiegazioni, ma che ha anche sempre il diritto di porre la sua questione di fiducia. Il Parlamento funzionerà bene quando sarà generalmente ammesso questo principio: il governo va tenuto sotto controllo, ma finché ha la fiducia, ha il diritto di avere una maggioranza; quando la fiducia non c’è più, il governo deve essere sostituito. Questo è il principio fondamentale su cui si basa tutto il sistema democratico parlamentare. Questo principio l’ho anche affermato nel Congresso del mio partito di fronte a tendenze di gioventù, le quali, non ricordando l’esperienza parlamentare che abbiamo fatto noi, non sanno che cosa sia insito in una critica sistematica del Parlamento al governo. Ragioni di critica sono ovvie in tutte le cose del mondo ma, specialmente nel nostro sistema parlamentare, dove l’incalzare dei progetti di legge è tale che anche con la migliore buona volontà le difficoltà sono quotidiane e difficili a superarsi. Il modo per rimediare a questo è l’esperienza; mi pare che all’esperienza abbia fatto riferimento l’onorevole Giua. Dobbiamo farla anche noi questa esperienza dal banco del governo; ma l’esperienza debbono farla anche i deputati e i senatori, nel modo di fare agire le Commissioni, nel modo di accelerare i tempi per la discussione delle leggi; e l’esperienza soprattutto la deve fare la opposizione, se ci tiene a che questo sistema parlamentare sia vitale e non perda il prestigio dinanzi al paese. Anche l’opposizione ha un sacrosanto dovere, ed è quello di esercitare critica e controllo; però senza eccedere. Che cosa vogliono dire dieci dibattiti sulla politica del ministro dell’Interno? Voi pretendete che mi tiri da una parte, se volete colpire il ministro dell’Interno, e dica: fatelo pure. Dovete comprendere il principio della solidarietà ministeriale ed il concetto fondamentale del governo che è questo: tutti per uno, uno per tutti; questo fino al punto in cui si ritiene di essere d’accordo. Ora, perché continuare in una posizione che ci ha creato moltissimi imbarazzi e soprattutto ha fatto perdere del tempo, a noi come a voi? Vi sono state mozioni di continuo; potrei farvi la storia, come voi l’avete fatta dei progetti, delle vostre mozioni e delle vostre interpellanze. E ancora vi lamentate che non vi rispondiamo subito! Per esempio, l’onorevole Togliatti si è lamentato che noi non abbiamo risposto subito a una interpellanza in cui De Gasperi per un suo discorso viene dipinto come uno che prepara la dittatura. Ed io, dopo il mio passato politico, dopo le prove che ho dato, devo ancora venire a difendermi dinanzi a questa stolida accusa! (Vivissimi applausi dal centro e da destra). E allora devo dire che non ci intendiamo più, e forse questo è giusto, perché qui democrazia e sistema parlamentare vengono interpretati diversamente; lo vediamo purtroppo nell’accenno fatto dall’amico Jacini, che non era fuori di luogo. Il vostro esperimento noi lo vediamo dove va a finire. Voi dite che noi abbiamo il desiderio di approfondire la frattura, che noi inventiamo fantasmi per creare questa frattura. Ma non ne abbiamo bisogno! In questi giorni siamo pieni di apprensioni perché vediamo i nostri fratelli dei paesi balcanici che sono oppressi e che corrono il pericolo di perdere la loro libertà. (Vivissimi applausi dal centro e da destra – Interruzioni e commenti da sinistra). Io non avevo la minima intenzione di tirare in ballo queste cose; non intendo assolutamente entrare nel capitolo della politica estera e generale del comunismo. Proli. Ma l’insinuazione l’ha fatta! De GasPeri. Non è una insinuazione, è un’accusa formale. (Vivi applausi dal centro e da destra). Ho detto che non intendo entrare in questo argomento perché prossimamente ci sarà l’occasione di un grande dibattito politico che si riferisce anche alla situazione generale politica dell’Europa e del mondo e quindi evidentemente non mancherà l’occasione per l’opposizione e per la maggioranza di esprimere le proprie apprensioni e le proprie tesi. Però non mi negherete il diritto di dire che noi abbiamo una forte apprensione su quello che potrebbe avvenire se sistemi consimili venissero introdotti anche in Italia. (Vivi applausi dal centro). E veniamo alla questione parlamentare. Io ho detto qui, in occasione di altro dibattito, proprio alla fine dell’altra tornata estiva, che veramente dobbiamo confessare che vi sono, nelle ruote dell’organismo parlamentare governativo, delle difficoltà di movimento. Questo è chiaro, lo abbiamo detto, lo avete confessato voi, lo ammettete tutti, lo si dice nelle Commissioni, l’ho detto anche in pubblico. Ho detto: questo è il Parlamento e la democrazia, e cioè essi hanno questi difetti, ma in ogni caso la democrazia ha la forza di correggerli e di rettificare se stessa e non bisogna lasciare in nessuna maniera denigrare questo istituto per i suoi difetti e le difficoltà che attraversa. Bisogna fare uno sforzo per rettificarli e correggerli e vi dico che non solo il governo accetta la vostra esortazione espressa nell’ordine del giorno Ruini e nella prima parte dell’ordine del giorno Scoccimarro di collaborare con le presidenze delle due Camere, ma che lo faceva di già, e ad ogni modo è pronto a farlo in altre forme, se necessario. Non solo l’accetta dunque, ma afferma che è una necessità assoluta perché in Italia la sorte di un governo parlamentare e la sorte della democrazia sono una cosa sola. Se un giorno cadesse il governo De Gasperi per errori e difetti del sistema parlamentare vorrebbe dire che il sistema è ormai guasto e superato. Non diciamo che i pericoli della reazione antiparlamentare sono superati; non sono superati. In quasi tutti i partiti vi è un movimento di stanchezza, c’è un senso di distacco. C’è sempre stato, direte voi: è vero, però il pericolo è che da questo senso di distacco e di malcontento nasca una tesi. E badate voi (rivolto alla sinistra), che non vi tocchi quello che vi è toccato nel 1919. Venite a parlare di degenerazione parlamentare in un Parlamento che pure lavora attivamente, che ha sbrigato moltissime leggi, che sta costituendo le leggi organiche per l’applicazione della Costituzione e che fa il suo dovere moralmente e materialmente dinanzi al paese. Degenerazione parlamentare: non lanciate questa parola, perché vi è stata già tolta ed è diventata la bandiera antiparlamentare fascista. (Vivi applausi da destra e dal centro). Se tutto quello che voi desiderate, opposizione o maggioranza che siate, è che si rinforzi l’attività e l’efficacia dell’organismo parlamentare, tutto questo viene dal governo accettato e viene invocato. Ed io l’invoco non semplicemente per salvare qualcosa che può essere riformata e ricostituita sotto altra forma, ma perché come ultima esperienza della mia vita sono arrivato a questa logica: al di fuori del sistema parlamentare non c’è salvezza, non c’è libertà individuale e personale. Noi siamo finiti in prigione perché il Parlamento non c’era più e domani le nostre libertà religiose, spirituali, morali, materiali e personali saranno perdute se non difendiamo il Parlamento. (Vivi applausi da destra e dal centro). Permettete che io dica che queste apprensioni ho diritto di averle in confronto alle due tendenze. Ma non voglio fare polemiche. Se voi mi aiuterete a ricredermi, per parte vostra, io sarò lieto di dire che il pericolo viene da una parte sola. Fino ad oggi io devo insistere perché nella propaganda ci si lanci pure contro il governo, contro il cancelliere – noi abbiamo le spalle buone – ma si lasci stare il Parlamento e non lo si metta contro il governo. Cosa che invece si è tentato di fare anche recentemente, ed in maniera del tutto ridicola a proposito dello sciopero dei braccianti, in quanto l’attività mediatrice del governo per un mese era stata, oltre che estremamente faticosa, anche efficace tanto da portare lo sciopero quasi a chiusura. E con tutto ciò negli ultimi momenti noi non abbiamo fatto che favorire l’arbitrato, a chiunque esso fosse deferito. Questo è stato deferito ai presidenti delle due Camere e noi lo abbiamo favorito, e se l’arbitrato fosse riuscito e noi fossimo stati all’opposizione avremmo applaudito sì, ma non avremmo mai detto che il governo aveva prima tentato ma non era riuscito. Voi avete cercato di nuovo di porre il governo in contraddizione con il Parlamento, anche sulla questione sindacale, la cui soluzione fu l’effetto di un mese di preparazione e di sforzi da parte del governo per ottenere la fine dello sciopero. Io penso che se fossi all’opposizione troverei tante ragioni per oppormi al governo, perché tante sono le sue difficoltà, e lascerei stare certe questioni che non si reggono. (Vivi commenti da sinistra). Mancinelli. Ci dica qualcuna di queste ragioni! De GasPeri. Certamente vi comportereste meglio se io vi dessi dei consigli. È molto più facile stare all’opposizione che al governo, e siccome io riesco a stare al governo potete immaginare se non riuscirei a fare dell’opposizione! (Applausi dal centro – Commenti da sinistra). Io devo ricordare al Parlamento – l’ho ricordato altre volte, ma non per dire che il Parlamento non fa nulla o fa troppo poco in quanto io riconosco che il Parlamento ha lavorato – che molto resta ancora da fare. Veramente il compito è un po’ superiore alle nostre forze se noi lo misuriamo con il tempo. Occorre allargare i termini. Se io leggessi il calcolo esatto delle leggi presentate e di quelle sbrigate, ne risulterebbe un certo attestato di lode per il Senato, in quanto esso dimostra di avere una maggiore forza di assorbimento. Non è stato però risolto il problema; ci sono ancora tanti disegni di legge, che se questo attestato di lode fosse fatto in modo proporzionale, non ne potrebbe risultare una lode assoluta. Occorre che noi ci mettiamo insieme per vedere come se ne possa uscire. Ricorderete che voi mi avete invitato, per bocca di vostri illustri rappresentanti, a presentare leggi organiche riguardanti la Costituzione, oltre quelle normali che vi presento, oltre i bilanci. Ebbene, per non parlare della legge sulla promulgazione e pubblicazione dei decreti e delle leggi, abbiamo le norme sulla costituzione e il funzionamento della Corte costituzionale; la costituzione e il funzionamento degli organi regionali; la composizione dei consigli regionali; le modifiche alle disposizioni del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza; le norme sulla costituzione e il funzionamento del tribunale supremo militare; la legge sul divieto di appartenere ai partiti politici per determinate categorie di funzionari, le norme sul referendum e sull’iniziativa legislativa, le norme sull’ordinamento e le attribuzioni del Consiglio nazionale della economia e del lavoro , l’istituzione del Consiglio supremo della difesa, eccetera. Abbiamo tante di queste leggi di carattere costituzionale organico, in cui l’attività governativa non c’entra affatto, poiché son problemi che riguardano evidentemente il Parlamento come potere deliberativo, sui quali il governo ha presentato soltanto i disegni di legge relativi e ha fatto le sue proposte, che naturalmente sostiene. Noi diciamo tutto questo di fronte al popolo italiano che ci guarda ed è malcontento perché lo è sempre di fronte al Parlamento, poiché il lavoro che avviene nelle Camere è molteplice e così complicato che il popolo non può seguirlo e si limita a seguire l’attività del Parlamento attraverso le manifestazioni episodiche della vita parlamentare, disgrazia questa che tocca tutti i Parlamenti, non soltanto quello italiano. Non esageriamo nel parlare di degenerazione del Parlamento che non lavora, perché che cosa c’è al di fuori di esso? In certi momenti si dice: vi è l’attività sindacale. Io sono vecchio sindacalista e sostengo che c’è una parte che vorrei fosse sempre riservata ai sindacati; ma vedo con apprensione che i problemi finiscono per sboccare in termini di legge nel Parlamento, tanto che le tendenze contrattuali, dove c’è da una parte libertà di lavoro e dall’altra diritto sociale, vengono a perdersi in una discussione politica dinanzi alla Camere. Certo questa è una necessità e sarà una necessità, ma dovete ammettere che questa necessità dovremo superare nel tempo che dovremo svolgere, naturalmente in sede di organi sindacali, tali problemi. Qui si è fatto un rimprovero al governo il quale non ha presentato le leggi sindacali: ricordate? In un ordine del giorno qui al Senato si invitava il governo a presentare tali leggi al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Ma questo Consiglio non c’è e non è pronta nemmeno la legge che regola la sua costituzione e le sue funzioni ed allora noi abbiamo deliberato di sentire le categorie interessate per poter presentare le leggi sindacali prima ancora che sia formato il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Quindi a me pare che le accuse che sono state fatte a questo riguardo siano per lo meno esagerate. Concludendo, poiché non voglio allungare la discussione e non desidero dare aspetti troppo politici ad essa, dichiaro di accettare l’ordine del giorno Ruini che per la parte sostanziale ripete quello che ha detto l’onorevole Scoccimarro. Naturalmente non posso accettare l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Scoccimarro perché la motivazione fattane lo ha reso inaccettabile. Ma in via pratica non ho obiezioni alla iniziativa da prendersi dalla Presidenza del Senato. Un diritto il governo ha, che è costituzionale, che è insito nel sistema delle assemblee parlamentari, cioè di avere l’iniziativa della presentazione dei disegni di legge. Non è possibile – come ha detto nel suo flautato discorso l’onorevole Scoccimarro – che noi come governo presentiamo un progetto di legge sottoponendolo prima al parere dell’opposizione. Sarebbe una bellissima cosa, però bisognerebbe che anche l’opposizione ci presentasse tutte le mozioni, le interpellanze e le interrogazioni che intende fare come opposizione. Allora in questo ambiente di completo latte e miele si potrebbe trovare una soluzione. Ma la vera soluzione del problema è: efficacia del lavoro parlamentare, rispetto della legge parlamentare fondamentale. Quando voi parlate della Camera intendete parlare di tutta la Camera, ed affermate che se la Camera ha preso una decisione a maggioranza non è più decisione della Camera, ma colpo di maggioranza. No, signori, la Camera si esprime attraverso il numero, a ragione o non a ragione. Un sistema di democrazia migliore non abbiamo potuto trovare nell’esperienza umana. Quando si è espressa in un certo numero è la Camera e non il colpo di maggioranza. Felici se si può trovare l’unanimità, ma non è possibile che voi accettiate quel che è deciso col voto e biasimiate quel che è deciso dalla maggioranza, quasi che la maggioranza per principio dovesse essere sopraffattrice. Il paese sa benissimo che ci sono delle Commissioni parlamentari composte di maggioranza e di minoranza e che compiono il loro lavoro con relazioni che esprimono il parere della maggioranza e della minoranza. C’è quindi una continua collaborazione tra opposizione e maggioranza; non mi venite a dire che c’è il colpo di forza della maggioranza. Naturalmente al momento decisivo, per terminare una discussione, bisogna votare ed il voto esprime il parere della maggioranza. Ammesso questo principio – spero che lo ammetterete – sono sempre pronto ad una collaborazione con la Camera e col Senato per migliorare il nostro ritmo di lavoro. Però aggiungo quel che ho già detto altra volta: io sono persuaso che la democrazia passa un periodo non di degenerazione, ma di congestione. Quando voi senatori, quando voi deputati e noi governo, dalla mattina alla sera siamo implicati in sedute e discussioni, non arriviamo ad assolvere il nostro compito. Il problema fondamentale è perciò di semplificare questo lavoro. Questo è il grosso quesito della democrazia. Io ho piena fiducia che con la vostra compattezza, con l’aiuto delle due Camere e col concorso del governo, riusciremo a superare anche questa difficoltà. Però la base di tutto deve essere fiducia nel sistema parlamentare senza riserve. Quando avremo questa fede riusciremo ad ottenere la realizzazione della democrazia . (Vivi applausi dal centro e da destra).
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(Vivissimi, prolungati applausi a sinistra, al centro e a destra).Data l’ampiezza della discussione, avevo ritenuto superfluo un mio intervento. La Camera ha discusso ampiamente tutte le argomentazioni pro e tutte quelle contro, dando veramente prova della sua responsabilità. Non si potrà dire nel paese che qui non vi sia libertà di parola, che tutto non si sia potuto esporre, che le ragioni pro e contro non abbiano trovato i loro difensori. (Commenti all’estrema sinistra). Una voce all’estrema sinistra. Ci mancherebbe altro! De GasPeri. Non so in verità perché queste proteste insorgano dai banchi dell’opposizione; mi pare davvero che l’opposizione abbia fatto parlare tutti i suoi oratori, tanto più che non si è nemmeno abbreviata la discussione con il solito voto di chiusura. Bottonelli. L’avete tentato. De GasPeri. È vero: una domanda era stata presentata, ma poi è stata ritirata. Debbo aggiungere: mi pare che governo e maggioranza, in linea generale, reciprocamente, abbiano seguito in questo dibattito un tono di tolleranza maggiore che nel dibattito passato: ciò costituisce, notevolmente, un progresso in fatto di costume parlamentare. Mi ha fatto un’ottima impressione la relazione di minoranza , soprattutto quella verbale, ossia il modo in cui il rappresentante della minoranza ha qui esposto il suo pensiero e i suoi voti; e mi è parso che l’ultima dichiarazione da lui fatta (nonostante i suoi timori egli si è augurato che il patto non ostacoli il movimento di unificazione che, malgrado tutto, nel mondo va formandosi) fosse un tale augurio da poter con esso veramente, per quel che è possibile, far ritrovare anche la concordia alla Camera, libero, naturalmente, l’atteggiamento di ciascuno circa il voto sullo strumento in discussione. Quando poi l’onorevole Donati ha aggiunto di ritenere raggiungibile questo suo augurio per l’unificazione anche per il contegno, che egli poteva immaginare e anche preannunziare, della Russia la quale sarebbe pronta ad accettare una nuova tesi, mi è parso che avessimo trovato e accettato una via che si distaccasse notevolmente dall’urto violento che abbiamo avuto in occasione della prima discussione sul Patto atlantico. Ma se il discorso del relatore di minoranza aveva rafforzato il mio desiderio di non intervenire nel dibattito, quello dell’onorevole Togliatti, che ha ritenuto di dovere interpretare estensivamente la sua dichiarazione di voto, mi costringe ad intervenire per alcune precisazioni. L’onorevole Togliatti ha descritto la marcia di una rivoluzione che verrà o dovrà venire contro il blocco reazionario esistente sotto la maschera dell’imperialismo americano. Egli ci ha detto che il socialismo è quello che marcia in Europa come in Cina; e ha invocato l’esempio di Mao Tse, che dovrà trovare degli imitatori in Europa. Ci ha anche detto: evidentemente, comunque la pensiate, sarà opportuno che provvediate ai casi vostri perché è inesorabile questo movimento. E ha citato, come si usa facilmente per la propria interpretazione storica, l’esempio del passato. Egli ha detto: lo sforzo è inutile, voi vi mettete in brutta compagnia, fate blocco con i reazionari e con i conservatori di tutto il mondo e invece gli apportatori del progresso, della libertà, della democrazia sono dall’altra parte e vi rovesceranno. Bisogna constatare, onorevole Togliatti, che la maggioranza dei 300 milioni circa di abitanti del mondo rappresentati all’OECE, per quanto riguarda l’Europa, si possono dire socialisti. È il movimento socialista. Non è esatto che il movimento in difesa del Patto atlantico, della democrazia, voglia dire di per sé arresto del socialismo. I miei colleghi che stanno alla Camera e che rappresentano il socialismo non potrebbero certamente collaborare a questo Patto atlantico e collaborare con noi in questo atteggiamento generale della politica estera! Perché essi, così come i laburisti inglesi, i socialisti belgi e la maggior parte degli operai degli Stati Uniti, credono che l’ordine e il progresso sociale, e anche, soprattutto, la difesa, stiano nella possibilità di espressione del pensiero e del movimento, cioè nella libertà e nella democrazia. Quindi, la lotta, se l’onorevole Togliatti proprio vuol vederla dal punto di vista sociale e politico, deve riassumersi così: non blocco reazionario da una parte e blocco socialista dall’altra, ma blocco da una parte per la difesa della libertà e della democrazia, e blocco dall’altra per favorire il soffocamento della libertà purché vi sia con assoluta immediatezza un rivolgimento, una riforma che si possa dire comunista. (Vivi applausi al centro e a destra). Ho bisogno di dire a ogni modo – sia la mia interpretazione quella esatta o lo sia quella dell’onorevole Togliatti – che comunque, per quanto riguarda il sentimento nostro, la nostra visione sociale, noi respingiamo l’accusa di essere parte di un blocco reazionario e affermiamo di essere un blocco della libertà, nel blocco della democrazia. (Vivi applausi al centro e a destra). E come io rispetto l’onorevole Togliatti, il quale in fondo ha la sua tesi di rivoluzione – ed a quella si richiama come al fondamento principale del suo spirito – così prego di rispettare il nostro sentimento. Noi non siamo dei deboli, dei vili che si adattano per ragioni di opportunismo; noi crediamo nella libertà e siamo decisi a difenderla anche se ciò costituisca un rischio per noi e per la fortuna dei nostri partiti. (Vivissimi, prolungati applausi a sinistra, al centro e a destra).
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(Vivi applausi dal centro e da destra – Segni di vivissima attenzione). Sembrerebbe inutile continuare nella polemica contro le affermazioni qui fatte. Poiché vedo dai giornali che si accentua ostinatamente l’accusa contro di me, che nel 1945 avrei offerto delle basi militari all’America, e questo si afferma in seguito ad una accusa formulata dall’ex ambasciatore onorevole Reale , non posso lasciar passare l’occasione, sia pur rifacendomi ad una generica smentita data ormai dal ministro degli Esteri, senza ricordare che qui è intervenuto, nella memoria dell’onorevole Reale, un grosso anacronistico errore. Nel 1945, il 22 agosto, io scrissi, prima di recarmi a Londra dove ero stato invitato, una lettera al ministro degli Esteri degli Stati Uniti per preparare il terreno. La questione di cui si parlava allora era quella delle base e delle aree cosiddette strategiche da mettere a disposizione dell’ONU, o di quel presunto e sperato esercito internazionale che doveva sorvegliare le vie principali di comunicazione. Quando io scrissi questa lettera non si parlava affatto di basi per un blocco o per un altro, perché due blocchi non esistevano, esisteva ancora lo schieramento del tempo di guerra, come continuava in Italia lo schieramento del Comitato di liberazione, e l’onorevole Reale era il mio sottosegretario, ed in quel momento, quattordici giorni prima, avendo scambiato il suo posto di sottosegretario con altro mandato di fiducia, era andato come ambasciatore in Polonia. Nel testo di questa lettera si parla prima della Tripolitania, si suppone che non ci siano difficoltà per la Tripolitania per affidarne il mandato all’Italia, ma già allora era spuntata la questione della Cirenaica e si facevano già questioni generali; si diceva: la Cirenaica è un paese che si trova poco distante dal canale di Suez, è un posto importante e non bisogna lasciarlo a piccoli Stati in conflitto. Bisogna ricordare ancora la psicosi di guerra contro l’Italia, e l’abbiamo provata noi per la prima volta quando andammo a Londra, nel modo con cui hanno trattato, nella difficoltà con cui le accuse degli avversari, specialmente degli jugoslavi, venivano accolte anche dai rappresentanti di tutti gli Stati occidentali. Bisogna ricordare questa situazione e bisogna ricordare che si parlava di aree strategiche, di basi militari sempre con carattere internazionale. Allora a proposito della Cirenaica e per salvare la parte coltivata della Cirenaica colonicamente di valore scrivevo così: «garanzie strategiche sarebbero richieste in Cirenaica al fine di dare piena sicurezza ai paesi confinanti: noi riteniamo che tale sicurezza potrebbe ottenersi mediante la costituzione di aree strategiche», questo è il termine ufficiale che si trova nello statuto di San Francisco, non è che l’abbia inventato io: è un articolo speciale dello statuto ed è a questo che ci riferivamo. «Noi riteniamo – scrivevo dunque – che tale sicurezza potrebbe ottenersi mediante la costituzione di aree strategiche e di basi aeree e militari nel settore di Tobruch e nella Marmarica senza privare l’Italia della sovranità dell’altopiano cirenaico, che essa già in parte ha trasformato in territorio adatto per la sua emigrazione agricola». Era una tesi che si accennava per la prima volta. Mi si dirà perché si mandava questa lettera e si esponeva questa tesi, questa rivendicazione al ministro degli Esteri degli Stati Uniti. Precisamente perché sembrava che il ministro degli Esteri degli Stati Uniti, essendo più lontano da questi problemi, potesse essere più accessibile ad un criterio di imparzialità verso l’Italia, cosa del resto che abbiamo sperimentata poi in tutto lo sviluppo della questione generale del trattato, come nella questione particolare delle colonie. Vorrei quindi, anche dopo il commento trionfale fatto da l’Unità, che si prendesse atto di questa rettifica. Mi pare necessario che io lo faccia, non perché importi molto che si sappia dal popolo italiano che mai in nessun momento, già dal 1945, noi abbiamo commesso un tale errore di provvedere a misure di guerra a favore di un blocco contro la Russia, o comunque di un blocco particolare, impegnandoci così già fin da allora ad una certa posizione militare. Si è fatta poi un’altra citazione: che più tardi, nel 1949, io ho ripetuto in un’intervista al New York Times questo generale pensiero . Non lo nego certo. Da quando siamo entrati nel Patto atlantico è evidente che il problema delle difese militari è diventato un problema soprattutto di convivenza entro il Patto atlantico. Ma non si tratta mai, anche in questo caso, di basi da ottenersi e da chiedersi, di occupazioni da permettersi durante la pace, si tratta di misure eventuali per il deprecato caso di guerra o di una necessità di un intervento. Questo va detto con tutta chiarezza, affinché all’estero – e qui capite che io penso alla Russia – non si creda che una simile accusa sia passata senza rettifica da parte mia. (Applausi dal centro e da destra). L’onorevole Lucifero , a proposito dell’atteggiamento dell’ex ambasciatore in Polonia, accennando alle caratteristiche significative di un certo atteggiamento generale del Partito comunista, mi ha accusato (non ha fatto nomi ma evidentemente si riferiva a me) della cooperazione e collaborazione con i comunisti durante il periodo dal 1945 al 1947. Prendo sopra di me questa colpa. È stata una necessità assoluta che i comitati di liberazione creassero un governo, è stata una necessità assoluta che questo governo si sviluppasse e vivesse finché ci fosse una manifestazione democratica ed elettiva che determinasse lo schieramento parlamentare e quindi la creazione di un nuovo governo. Quello era un periodo di transizione. Ma aggiungo di più, per un lungo periodo ho sperato ed ho dimostrato di avere la massima fiducia e di non fare distinzione fra comunisti e non comunisti, tanto è vero che quando si è trattato, nel momento più critico del maggio del 1947, delle trattative per la pace, abbiamo convocato a Parigi, non soltanto tutta la delegazione, composta allora dal presidente Bonomi, dal presidente della Costituente Saragat, quindi composta senza distinzione di partito, ma abbiamo convocato anche i sei ambasciatori principali che potevano avere rapporti con l’uno o con l’altro Stato, e fra questi sei vi erano anche gli ambasciatori che avevano contatti con i paesi slavi come, per esempio, l’onorevole Reale per la Polonia. Abbiamo lavorato assieme, abbiamo creduto di poter lavorare assieme: non avrei mai pensato che già da quel periodo, anzi prima di quel periodo, potesse nascere dalla nostra cooperazione quella accusa vicendevole che qui si è ripetuta dall’ambasciatore diventato senatore. L’onorevole Reale, naturalmente, ha il pieno diritto di agire in tal modo, ma io ho il diritto di sorprendermi alquanto, non, ripeto, per la posizione e la responsabilità che ha assunto riguardo al Patto atlantico: lo comprendo benissimo, questo è pienamente il suo dovere. Ma mi meraviglia che si agisca come se non ci fosse stata una corresponsabilità, in governi passati, e non avessimo lavorato assieme. (Vivi applausi dal centro). E mi meraviglio che, perché oggi ci troviamo disgraziatamente su diversa strada, in conseguenza di certi atteggiamenti nazionali e internazionali, si voglia quasi rinnegare o denigrare l’attività compiuta in un momento in cui ancora esisteva l’unione dei Quattro Grandi, e, con ciò stesso, quasi per conseguenza, l’unione dei partiti interni anche in Italia. scocciMarro. Ma non in politica estera. De GasPeri. La politica estera era comune perché di essa si è assunta sempre la responsabilità nel Consiglio dei ministri, onorevole Scoccimarro; se vuole, le porto i verbali. La politica estera è stata comune fino al giorno in cui l’onorevole Togliatti per conto suo si è recato a Belgrado. Comunque, detto questo, devo aggiungere che forse è doveroso in questo momento da parte mia che rappresento tutto il governo, più che da parte del ministro degli Esteri, e che non posso essere accusato di avere risentimenti di carattere personale per gli ultimi avvenimenti, è doveroso che davanti al Senato italiano esprima una grande amarezza per la scarsa comprensione che in certi campi, e, in modo particolare, in certi organismi inglesi, si è dimostrata di fronte ai postulati ed alle modeste rivendicazioni italiane. (Vivissimi applausi dal centro). Io non so, egregi senatori, se il ministro degli Esteri approva queste mie dichiarazioni, o se le trova non opportune in questo momento. sforza. Sono le stesse parole che ho detto a Bevin. De GasPeri. Allora, posso ben permettermi di ripeterle anche qui al Senato. Bisogna pure che diciamo la verità. Abbiamo fatto e facciamo un grande sforzo per la solidarietà europea e mondiale. Lo abbiamo fatto perché è nostro interesse ed è interesse comune per la salvezza di tutti: non abbiamo fatto un contratto, non abbiamo tentato di farlo, e non è giusto che ci si rimproveri di ciò. Il Patto atlantico è tale cosa che non può venire in nessuna maniera negoziato, né essere opera di compensi. O è giusto ed il rischio va corso; o, viceversa, si ritiene troppo il rischio di fronte al problema tra pace e guerra ed allora il rischio non va corso. Noi abbiamo ragionato secondo una visione generale di interessi. Questo l’ho spiegato un’altra volta proprio al Senato. Alla fine siamo arrivati a questa conclusione con una concessione: che si tratta di uno stato di necessità fuori del quale non c’è altra via di salvezza per l’Italia. Questa è la condizione generale. Coloro che hanno altre ragioni da aggiungere possono più facilmente arrivare alla conclusione favorevole ma quella da me indicata è di tale forza che tutti coloro che devono essere politici pratici devono piegarsi. L’onorevole Orlando ha da salvare il suo atteggiamento nei confronti del trattato. Però se dovessi assumere lo stesso atteggiamento della responsabilità io davvero non vedrei via di uscita per questo popolo italiano che da tre anni, mentre voi andate dicendo che precipita sempre più in basso, nella dignità e nella vergogna, da tre anni sale, ascende economicamente e politicamente. (Vivissimi applausi da destra, dal centro-destra e dal centro-sinistra). Mi si è opposto: perché ad un certo momento è stato detto proprio dal presidente De Gasperi «essere bene inteso che il trattato resta»? Perché in un momento di grande tensione quando si dipingeva innanzi alla fantasia trepida degli italiani il pericolo di guerra, era necessario che noi dicessimo chiaro che questo era un patto difensivo che non voleva violare in nessuna maniera il trattato, sia pure iniquo, cui ci eravamo assoggettati. Questa è stata regola di onestà che non potevamo assolutamente evitare. Non mi addentro nella questione dei rapporti tra trattato e Patto atlantico. Se gli onorevoli senatori avranno la bontà di leggere e meditare la risposta che il ministro degli Esteri ha inviato alla diplomazia russa , troverà che in essa esistono connessioni fra trattato e Patto atlantico, che nella logica loro possono avere ulteriori sviluppi. Vorrei poi chiedere scusa di un malinteso in cui sono incorso durante il discorso dell’onorevole Orlando quando si parlava di patto. Io male intesi che si parlasse di trattato e per questo la mia interruzione: «siamo stati citati», quale è la formula usata dagli alleati innanzi alla Conferenza di Parigi. Riguardo al trattato stesso, non ritorniamo indietro sulle antiche cose. Però dal momento che si è fatto cenno all’ordine del giorno che allora si è votato, siccome l’ordine del giorno è stato presentato da persone molto autorevoli, non vorrei che rimanesse nella storia e nella cronaca parlamentare l’impressione che si trattasse di un ordine del giorno di acquiescenza. Vorrei ricordare anche che l’ordine del giorno Ruini, Nitti ed altri diceva: «L’Assemblea costituente esprime il dolore e la protesta dell’Italia perché non è questa la pace che ha meritato. Le condizioni che le sono imposte dal trattato sono in contraddizione, non solo con le solenni affermazioni dei vincitori, ma con i princìpi della giustizia internazionale, e durissime per un popolo che ha dato inestimabile contributo alla civiltà del mondo e dovrà, passata l’ora della sua oppressione, contribuire ancora alla nuova civiltà per la sua vitalità sempre rinascente nei secoli. Né il trattato tiene adeguato conto che il popolo italiano è insorto contro il regime fascista, responsabile, insieme alle forze che dall’estero lo hanno sostenuto, della guerra funesta ed ha combattuto a fianco delle potenze unite contro la Germania per la vittoria delle democrazie. Riconosce che, nonostante tutto, l’Italia dovrà per lo stato di necessità in cui viene messa ratificare il trattato; e lo farà quando si verificheranno le condizioni obiettive di fronte alle quali è costretta a tale ratifica. L’Italia rivendica ad un tempo il suo incancellabile diritto alla revisione delle condizioni di pace. Ciò premesso l’Assemblea costituente passa all’esame dell’articolo unico del disegno di legge». Questo è il testo dell’ordine del giorno che mi pare corrisponda senza dubbio all’atteggiamento dignitoso del popolo italiano. Io non comprendo, anche se si può vedere la situazione da un punto di vista diverso, come ci si debba ostinare ad affermare che c’è stato da parte nostra, in un momento storico così importante, un atteggiamento non consono alla dignità ed all’interesse del popolo italiano. Almeno, così votando, abbiamo creduto di rispettare questa dignità per gli interessi del popolo. Possiamo avere errato, ma non è lecito elevare dubbi sopra questa nostra intenzione, sopra il senso di dignità e di fierezza che ci ha guidati. Debbo aggiungere anche che forse non è bene chiamare Iddio testimone perché trovi il vendicatore della nostra situazione. (Approvazioni dal centro). Non perché le intenzioni dell’onorevole Orlando non siano alte, nobili e pacifiche, ma non vorrei che al di fuori si potesse dubitare che si covi qui uno spirito di revanche (approvazioni dal centro) e che si prepari una crisi psicologica che ci possa portare lontani. Vorrei che si sapesse che accanto alla dignità con cui difendiamo i nostri interessi e alla energia con cui rivendichiamo i nostri diritti nella questione di Trieste e delle colonie, accanto a questo spirito perseguiamo in piena dignità la cooperazione internazionale. È stato accusato il mio collega ministro degli Esteri di essere troppo utopista e di avere esagerato nelle speranze; io dico francamente che talvolta è parso anche a me troppo giovanile nelle speranze, ma io lo preferisco come uno che guarda l’avvenire e crea una vita per la gioventù, piuttosto che egli ci dia, per la esperienza stessa della sua vita, un senso di debolezza in confronto alle speranze dell’avvenire. Amo piuttosto che invocare la vendetta, invocare la forza morale di un popolo che tenacemente risale e si riconquista la sua posizione e, attraverso il Patto atlantico, se avete ben capito lo spirito della Nota, ricomincia anche ad applicarsi l’ascia della giustizia sulla mala pianta del trattato. Noi non verremo mai meno a nessuna norma giuridica ed il ministro Sforza ha detto con quanto dolore ha applicato la norma riguardante la cessione delle navi; non verremo meno a nessuna norma giuridica che ci impegna nel trattato. Ma mai, e l’abbiamo detto già anche votando e firmando la prima volta il trattato, rinunceremo al diritto dell’Italia di essere un popolo libero e di potere in libertà, nella sua democrazia repubblicana, collaborare per la pace nel mondo e per lo sviluppo e il progresso sociale dei lavoratori. (I senatori del centro e della destra si levano in piedi ed applaudono a lungo).
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Propone di iniziare la discussione del problema relativo alla disciplina dello sciopero. Analizza la natura del pubblico impiego: vi è uno stato giuridico che non è un contratto. Gli impiegati statali devono avere una tutela dei loro diritti diversa da quella degli altri impiegati. Analizza la posizione dei servizi pubblici: gli scioperi non possono essere consentiti per alcuni particolari sevizi per i quali lo Stato ha il diritto di intervenire al fine di assicurare la continuità . Cita ad esempio la Costituzione di Weimar che riconosceva il diritto di sciopero dei dipendenti dei pubblici servizi, ma riconosceva anche allo Stato la facoltà di proclamare lo stato d’emergenza e di imporre l’arbitrato obbligatorio. […] Ritiene che si debba porre a fondamento della legge sindacale del contratto collettivo di lavoro .
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Posso convenire che si ritenga opportuna una discussione su questa materia, ma, associandomi al suggerimento del presidente, mi pare che occorra attendere prima che analoga comunicazione sia fatta all’altra Camera. Comunque, ritengo che l’occasione per questa discussione sia quella della risposta che io darò all’interpellanza dell’onorevole Giannini . Questa risposta potrò darla nei prossimi giorni; desidererei solo che la Camera potesse prima esaminare il disegno di legge riguardante la tariffa doganale. Probabilmente, quindi, potrò rispondere mercoledì o giovedì alla interpellanza dell’onorevole Giannini. [Segue l’intervento dell’on. Pietro Nenni]. Evidentemente si tratta di una questione non di sostanza perché una discussione si farà; si tratta solo di intendersi sulle premesse di essa. È chiaro che, se io condividessi le premesse da cui parte l’onorevole Nenni, dovrei qui giustificare il mio comportamento, che egli ritiene addirittura contrario alla Costituzione, e quindi dare inizio a quella discussione che io accetto, ma preferirei avesse luogo in sede di svolgimento dell’interpellanza dell’onorevole Giannini. Comunque, tengo a porre in chiaro, per quanto si riferisce ai mutamenti intervenuti nella composizione del gabinetto, che la procedura da me seguita non è stata diversa da quella seguita in situazioni analoghe, per esempio in occasione delle dimissioni del ministro Merzagora, quando fu data comunicazione di esse e non fu aperto alcun dibattito. nenni. Si trattava di dimissioni per motivi strettamente personali. De GasPeri. Sostanzialmente le dimissioni implicavano un mutamento nella compagine governativa. Siamo, a mio parere, di fronte ad una questione procedurale da discutere, sulla quale, peraltro, non intendo soffermarmi perché non intendo limitare il mio dovere di rendere conto alla Camera di ciò che è stato fatto in questa occasione; e pertanto, per quanto riguarda la procedura, mi rimetto alla Camera. Comunque, in occasione dello svolgimento dell’interpellanza Giannini si potrà allargare il dibattito, e mi pare che gli onorevoli colleghi dell’opposizione possano accettare questa procedura. PresiDente. Onorevole presidente del Consiglio ella non fa opposizione a che la discussione sia fatta nella giornata di mercoledì o in quella di giovedì? De GasPeri. Posso rispondere in uno dei giorni da lei indicati per l’interpellanza dell’onorevole Giannini (interruzione del deputato Nenni) e il dibattito potrà aversi se coloro che intendono intervenire presenteranno altre interpellanze sull’argomento. (Interruzioni all’estrema sinistra – Commenti). Comunque, ripeto, sulla procedura da seguire per la discussione mi rimetto alla Camera. Desidero tuttavia dichiarare che non accetto per prassi acquisita il precedente parlamentare invocato dall’onorevole Nenni , al quale, come ho già detto, posso contrapporne un altro, in cui non seguì alcun dibattito sulla mia comunicazione di un mutamento avvenuto nella compagine ministeriale.
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Onorevoli colleghi, forse alla fine di questa discussione abbiamo il diritto di dire che qui si sono sentite soltanto risonanze in tono minore della campagna di violenze verbali, di farisaiche condanne contro un’inesistente tendenza dittatoriale di un immaginario cancelliere; risonanze deboli, perché via via che si è proceduto nel dibattito è risultato manifesto che né lo spirito della Costituzione né la prassi parlamentare sono stati offesi minimamente e soprattutto che non esiste un cancelliere avido di concentrare nelle mani sue e dei suoi amici tutto il potere politico. Esiste un uomo, modesto se volete, ma galantuomo, che, interprete fedele delle direttive del suo partito, tende ad assidere e a consolidare la democrazia italiana sulla base più larga possibile. (Applausi al centro e a destra). E l’ampiezza di questa base è segnata dalla indispensabile e insospettabile lealtà verso il sistema democratico parlamentare e dalla convergenza delle forze sul settore delle realizzazioni sociali, in una sincera ed efficiente volontà di marciare verso la giustizia, salvando però la libertà, conservando e suscitando le energie morali del nostro popolo per elevarlo, strumento consapevole del suo autogoverno in patria e fuori, poiché è fatale che il lavoro italiano è in tutto il mondo elemento di pace e di progresso fra i popoli civili. (Applausi al centro e a destra). Non si offendano gli oratori dell’opposizione, soprattutto gli scrittori dell’opposizione, se ho usato l’aggettivo «farisaico». Ricordo che nei tempi della semi-clandestinità, nei primi periodi del movimento della nuova repubblica e della nuova democrazia, le parole d’ordine dell’onorevole Nenni erano: «tutto il potere ai comitati di liberazione». Poi, mutando e tramutando la parola d’ordine: «tutto il potere alla repubblica degli operai». E le ultime parole d’ordine alla vigilia delle elezioni affermavano che se il «blocco del popolo» (credo di non fargli torto attribuendogli queste parole dette durante la campagna elettorale) avesse avuto anche un solo voto di maggioranza, avrebbe avuto diritto a tutto il potere. Ricordo anche le opinioni di altri, la cui dottrina è applicata nella pratica sulla scorta di Lenin. L’onorevole Pajetta ha fatto sfoggio di parecchie citazioni al riguardo: sarà bene che io ricordi la famosa polemica di Lenin contro i cosiddetti pseudo-sinistri, sui parlamentaristi e sul valore del Parlamento. Egli diceva che il Parlamento bisogna utilizzarlo agli scopi della dittatura proletaria, per arrivarvi. In tutti i paesi ove il comunismo venne al potere si fece applicazione di questa dottrina, cercando, in realtà, di trasformare e di soffocare il Parlamento democratico, per farne un mezzo di governo, un mezzo di dittatura. Detto questo, io non so se sia veramente giusto, se sia veramente conveniente (o se la nostra pazienza sia troppa) che noi, che cerchiamo la collaborazione dei partiti, che manteniamo fede alla Costituzione, dobbiamo essere accusati di essere nemici del Parlamento. (Applausi al centro – Commenti all’estrema sinistra). Questa è la questione: voi non siete, né in teoria né in pratica (dove comandate), fedeli al sistema democratico parlamentare. (Applausi al centro e a destra – Commenti – Proteste all’estrema sinistra). Ci vuole improntitudine, disse Lenin. È stato ricordato che Lenin diceva che l’improntitudine, quando assume una certa proporzione, diventa presunzione ironica. Voi potete darci delle lezioni in molte cose, non nella fedeltà a un sistema parlamentare, soprattutto non nell’accettazione della libertà teorica e pratica dei partiti nello Stato. A questo punto, io devo domandare scusa all’onorevole Giannini, il quale ha fatto, se non a me direttamente, in genere al nostro atteggiamento polemico il rimprovero di trasformarlo sempre in una polemica, in un duello fra i rappresentanti dell’opposizione, anzi, diceva nominalmente, fra Nenni e De Gasperi. Non ne ho colpa io. Se potessi scendere a singolar tenzone come si faceva una volta (si ride all’estrema sinistra), evidentemente non cercherei davvero di ridurre in termini ristretti una questione che è senza dubbio di un’ampiezza maggiore. Ma quando la polemica viene di là, l’attacco viene di là, le campane che suonano a stormo vengono di là, bisogna ben farsi sentire. Qualche volta voi avete detto che la situazione del 18 aprile è superata, che lo stato dei rapporti politici dei partiti è cambiato, anzi è capovolto. Ma per voi, opposizione, quella situazione non è mai esistita, non l’avete mai riconosciuta. Quindi non tocca a voi decidere se la situazione della collaborazione sia superata o meno. Tocca a coloro i quali alla collaborazione hanno partecipato o vogliono partecipare. (Commenti all’estrema sinistra). La democrazia è questa. Voi avete il diritto di criticare, ma non avete il diritto di decidere in argomento che non vi riguarda. (Interruzioni all’estrema sinistra). Molto meno, in particolare, nominalmente, ha diritto di vedere la situazione attuale così capovolta l’onorevole Nenni, il quale senza dubbio è un oratore molto abile e capace nel ricostruire situazioni in modo suggestivo: ma non legge diligentemente i resoconti parlamentari e spesso non ricorda i suoi discorsi fatti in situazioni analoghe. Quando nel dicembre 1947 entrarono a far parte del governo i tre rappresentanti del partito dei lavoratori italiani, Nenni disse: «c’è bisogno di fare la discussione? No: la situazione non è cambiata. Il comparire di questi signori non cambia niente». «Onorevoli colleghi, disse allora l’onorevole Nenni (il gruppo parlamentare socialista era molto in dubbio circa l’opportunità di aprire un dibattito di carattere politico), noi stimiamo infatti che non vi sia un fatto politico nuovo. Si vedono all’interno del governo dei nuovi ministri. Nessuno di loro, io credo, in ogni caso nessuno di noi ha l’illusione che il carattere o la natura di un ministero possa essere determinato dalle persone che lo compongono. Non c’è nulla di mutato dal punto di vista della direzione politica, come non c’è nulla di mutato nella direzione della politica economica e sociale del gabinetto De Gasperi». (Commenti). Oggi per Nenni la situazione è addirittura capovolta. Allora l’intervento di quei tre ministri non mutava affatto la composizione, il carattere, la direzione del ministero. Oggi che ne escono la situazione è talmente mutata che bisogna che il capo del governo venga qui, si penta della propria base e ne cerchi un’altra, perché il programma deve essere assolutamente diverso. Sarà bene ricordare quale è, quale fu la base dello schieramento attuale del governo. E qui voglio usare proprio la parola generica, come si è usata prima del 18 aprile, per dire che non si tratta di composizione, di dosatura del governo e nemmeno di uno studio analogo di confluenze di programmi, ma soprattutto di un atteggiamento che corrisponde a direttive vitali della nazione, e che quindi non facilmente può essere tramutato da singole differenze sopra un qualche non essenziale problema: l’appello del governo italiano del febbraio 1948 diceva: «siamo fermamente convinti che la Repubblica democratica si salva solo resistendo alla tentazione della violenza e deferendo alla volontà popolare, espressa in libertà nelle forme previste dallo statuto, ogni decisione circa la costituzione e l’esercizio del potere popolare. Serviamo con ciò soprattutto la causa della pace e della indipendenza nazionale, perché la sopraffazione di una parte all’interno sarebbe il preludio della guerra civile, e la guerra civile aprirebbe fatalmente il varco al conflitto armato fra i popoli. Il consolidamento della pace è anche la meta della nostra leale e attiva partecipazione al Piano Marshall sulla base della cooperazione europea. Non dobbiamo nascondere che fu soprattutto la generosa solidarietà americana ad evitare all’Italia gli orrori della fame e la totale paralisi dell’industria, ma i piani di soccorsi e di finanziamenti avrebbero efficacia passeggera se non mirassero, come mirano, a ricostruire e a coordinare le forze autonome delle nazioni europee. Appoggiare questo sforzo è dovere ed interesse della nazione italiana, sabotarlo ed intralciarlo significa compromettere irrimediabilmente la sorte del nostro paese e rendere estremamente difficile il consolidamento di una democrazia europea fondata sulle forze del lavoro e sulla cooperazione dei popoli liberi». Su questa linea direttiva si è impostata la politica interna ed estera del presente governo, e tutti i gruppi in esso rappresentati sono concordi nel ribadire che essa deve svilupparsi e rafforzarsi ulteriormente: verso l’estero con l’unione doganale europea, e verso l’interno saldando e integrando il Piano Marshall per l’Europa con un programma nazionale della ripresa economica e industriale, che coordini le forze della ricostruzione. Benché provenienti da diverse ideologie e da diversi ambienti sociali, voi ci avete visto cooperare lealmente ed efficacemente in tutti i problemi di emergenza, nella lotta contro la disoccupazione e la crisi industriale, per lo sviluppo delle piccole industrie, per la salvezza della moneta e per la stabilizzazione dei prezzi, nella politica dei lavori pubblici, nella bonifica, premessa necessaria di ogni riforma agraria, nel preparare alle Camere elementi indispensabili per le riforme sociali. Abbiamo così dato l’esempio di una politica realista ed efficace che può essere fatta anche con la collaborazione di gruppi di origine diversa, quando una sia la direttiva: quella di volgere ogni cura alla salvezza e al progresso delle classi popolari, lavoratori e ceto medio, e comune sia la fedeltà alla democrazia nella sua formula repubblicana, definitivamente stabilita nella Costituzione… leone-Marchesano. Questo è l’errore! De GasPeri. …senza riserve di natura totalitaria o conservatrice, oppure reazionaria, purché non sia contrastante la visione dei problemi internazionali, e infine purché la collaborazione sia sincera e leale tanto nel governo che nel paese. L’appello al paese così concludeva: «nella campagna elettorale ogni gruppo rappresentato al governo esercita il suo diritto di propagandare integralmente innanzi agli elettori il suo programma particolare, nella applicazione del sistema proporzionale ogni gruppo assumerà la figura che gli è propria; ma noi confidiamo che il popolo italiano chiamato a deliberare intorno al Parlamento, e quindi intorno al governo futuro, ravviserà nelle linee fondamentali comuni del nostro schieramento le possibilità ricostruttive per l’avvenire e la garanzia per il progresso della giustizia e per lo sviluppo della democrazia e per la pace». Questo è il programma di cui tanto si parla, l’impostazione a cui si accenna spesso, forse non ricordando mai che cosa in essa era contenuto. Non si può pensare di ricostruire, impostare nuovamente questo programma e contemporaneamente stralciare da esso tutto quello che riguarda la politica estera e il Piano Marshall. Questo è il programma, questa è l’impostazione che è stata sottoposta al voto degli elettori, non i fantasmi a cui tante volte si richiama l’opposizione. E questa impostazione è stata approvata con milioni di voti. (Vivissimi applausi al centro e a destra – Commenti all’estrema sinistra). Pajetta Giuliano. E il discorso di Vercelli dell’8 marzo ? De GasPeri. I partiti che partecipano alla coalizione, nell’atto stesso delle dimissioni dei socialdemocratici, hanno confermato questa base espressamente, esplicitamente. Era naturale, forse era ovvio che l’opposizione approfittasse dell’occasione, ma sarebbe stato ingenuo da parte mia di non tener conto della collaborazione di coloro che realmente la vogliono, non di quelli che per principio sono all’opposizione. Per questo io mi sono detto: devo marcare, anche col mio contegno, che il programma politico continua e che su quello noi ancora ci battiamo (applausi al centro); tanto è naturale, tanto è solido, tanto è profondo quel programma e quello schieramento, che perfino coloro i quali in questo momento per ragione interna al partito non chiedono più di dare il loro contributo all’attuazione, perfino costoro – e ricordo le parole dette dall’onorevole Vigorelli – prendono un atteggiamento che in fondo a questo programma corrisponde. Quando l’onorevole Vigorelli si rivolge verso isuoi di estrema sinistra e dice: «voi siete legati alle formule straniere, ad una mentalità bolscevica», quando accentua la preminenza degli interessi della nazione contro il nazionalismo, ma in favore della dignità dell’uomo, quando egli si richiama al giorno in cui malauguratamente dovesse scoppiare un conflitto, dopo aver discriminato il proprio atteggiamento dice ai social-comunisti: «voi avete torto, perché cadrà il velo dietro il quale mascherate il vostro pensiero contro il totalitarismo» , allora io sento che anche coloro che in questo momento dissentono per ragioni tattiche e momentaneamente, in realtà non dissentono per le ragioni fondamentali che sono alla base della collaborazione, sulla base di un governo futuro per il nostro paese. (Approvazioni al centro). Si è cercato anche di approfittare delle critiche avvenute entro il gruppo liberale. Se questa discussione non fosse pubblica, non avrei il diritto di citarle, né di farvi accenno. Tuttavia, poiché è stata pubblica, ed anche vi si è fatto riferimento, dirò qualcosa in proposito. Nei momenti di una crisi, quando si crede o si ritiene che sia giunto il momento di ricostruire o di modificare un governo, è naturale che le discussioni si allarghino e vadano al di là di quella che può essere l’esigenza momentanea. Questo si chiama il pericolo di crisi per questo fine, e i singoli gruppi o partiti, specialmente quando alcuni organi non sono qui direttamente rappresentati, credono di avere il diritto – o il dovere – di intervenire e dire le loro opinioni. A proposito però di una interpretazione che si è voluta dare all’atteggiamento liberale, io, richiamandomi alle parole molto temperate e molto sagge del vicepresidente Martino , e aderendo naturalmente alle sue conclusioni, debbo aggiungere che non accetterei, o che non vorrei che si sviluppasse nella composizione del governo il criterio della bilancia. Si è detto in un primo momento che il peso laico entro la coalizione fosse diminuito e che convenisse aumentarlo. Lo so, è una sensazione che ha avuto la sua manifestazione e che aveva il suo diritto di essere sostenuta; però mi pare che, in vista anche del nostro sviluppo avvenire, si debba cercare un’altra forma per valutare la collaborazione. Il governo di coalizione, se facesse il massimo sforzo semplicemente per essere una bilancia fra elementi contrastanti, finirebbe con l’essere, non un potere, ma una impotenza. Le risultanti delle forze debbono essere elementi attivi e di propulsione per poter costituire la rappresentanza di una democrazia in cammino. L’importante è il perfetto accordo sopra le linee tendenziali; libertà, repubblica, coscienza morale, tradizione illuminata dai grandi del passato, elevazione, anche economica e sociale. Queste sono le linee principali di cui dobbiamo essere investiti per giudicare con un sincronismo che possa essere fattivo, che possa portare ad una ricostruzione fattiva. Bisogna che tutto sia cementato da fiducia reciproca. Una voce all’estrema sinistra. E lo Stato laico? De GasPeri. Vengo anche a quello. Il Consiglio dei ministri è un organo sintetico, e il presidente ne deve essere l’espressione: politicamente poi tutti i ministri agiscono (parlo con una fraseologia naturalmente politica e non giuridica), sia pure nella pienezza delle loro attribuzioni, per procura degli altri. Se c’è una politica interna, se c’è una politica della difesa vale lo stesso argomento per tutti: sono organi unitari di una politica di difesa, di una politica estera ed anche di una politica interna ed economica. Politiche che, prima di arrivare alla loro esecuzione, debbono aver trovato la linea di soluzione entro il Consiglio dei ministri, entro i sottocomitati appositi (come, per esempio, quello del CIR, eccetera), organi i quali nelle discussioni e nei dibattiti sono liberamente aperti all’influenza dei vari gruppi e che poi, arrivati alle conclusioni, le trasmettono al competente ministro. Qual è dunque l’ideale di un ministero di coalizione perché sia talmente unitario da poter agire efficacemente? È questo: maggiore e massima discussione possibile nel periodo di preparazione, e massima unione nel periodo di esecuzione. Questo è stato un nostro sforzo nel passato, non sempre raggiunto; ma questa deve essere una meta anche per l’avvenire, perché il governo democratico di coalizione sia veramente efficace ed attui delle soluzioni che rappresentino in quel momento l’esigenza attuale. Certo che al servizio della sintesi le qualità personali e di preparazione specifica, le tendenze stesse più particolarmente proprie di un partito, la storia di un partito sono elementi e contributi che debbono assolutamente essere valutati ed utilizzati allo scopo comune del programma governativo. In quanto allo Stato laico, poiché qualcuno mi vi richiama, io non ho difficoltà a dire il mio pensiero, tanto più che esso è stampato. Ecco al Congresso del mio partito a Fiuggi che cosa dicevo al riguardo: «se laico vuol dire liberale, cioè cittadino preoccupato di difendere, nell’ambito dello Stato, la libertà di tutta la coscienza, ciò è secondo la Costituzione: ma come può assumersi il patrocinio di tale laicità il marxista leninista del Cominform?». (Commenti all’estrema sinistra). È proprio nel pensiero che vi ha espresso anche Simonini e che io non ho difficoltà di far mio al riguardo: «a questa laicità basta la Costituzione, a cui gli spiriti redenti hanno collaborato, votandola così com’è, non perché ritenessero che l’invocazione a Dio avrebbe menomato la dignità umana e il libero arbitrio – ricordo il turbamento alla Costituente quando La Pira sommessamente osò proporre la sua invocazione interconfessionale – ma perché sanno che ciò è nella Costituzione e che non è necessario proclamare le proprie credenze, quanto piuttosto indispensabile accordarsi su norme di convivenza civile che, con la libertà di tutti, difendano anche la libertà del singolo. (Applausi al centro e a destra). Che se il laicismo avesse un’altra interpretazione – come mi pare si voglia obiettare da quei banchi – se volesse significare anticristianesimo o indifferentismo ostile che si volesse agitare sulla scena della vita italiana, come se non esistesse una tradizione storica millenaria, come se la voce delle migliaia di campane non avesse più eco nell’animo di quarantacinque milioni di italiani, se volesse significare libertà della minoranza di vivere a modo suo, portando alla negazione della maggioranza, alla negazione della pubblica fede dei padri, allora il laicismo si rivelerebbe un nemico della Costituzione e chi lo praticasse agirebbe contro il consolidamento del nostro regime democratico». (Vivi applausi al centro e a destra). Egregi colleghi, collaboratori e oppositori, voi non potete negare che, prima che si aprisse questa discussione proclamata così necessaria per il componimento delle volontà per un nuovo accordo di situazione politica, noi avevamo lavorato qui in questa Camera e nell’altro ramo del Parlamento con una diligenza particolare. V’è stata una discussione e una partecipazione ai singoli problemi dei singoli bilanci amministrativi che io riconosco, anche da parte dell’opposizione, molto feconda e che si è concretata, in molti casi, anche in suggerimenti da parte della minoranza accolti dal governo. V’è stata, dunque, una collaborazione che ha portato senza dubbio non all’approfondimento dei problemi tecnico-amministrativi ma, per riuscire a creare in un Parlamento una classe dirigente, traendola dai giovani che domani dovranno prendere il potere e dirigere le sorti del popolo, è necessaria una certa continuità di addestramento, soprattutto una stabilità del governo: quella stabilità del governo che non vale tanto per le persone quanto per l’indirizzo e la linea direttiva, perché è necessario che sui problemi di base non si minacci sempre una discussione, e un mutamento in seguito alla discussione, ma che vi sia una presunzione di continuità che renda veramente fattiva la collaborazione di tutti e possibile il concentramento dello sforzo per conseguire risultati pratici. Nei discorsi di parecchi oratori, e soprattutto, mi è parso, in quello dell’onorevole Giannini – al quale, cogliendo l’occasione, esprimo la mia particolare gratitudine per le sue espressioni di amicizia in occasione del mio lutto – si è ammesso che, veramente, al vertice la Democrazia cristiana è stata abbastanza larga nella distribuzione dei portafogli, ma che alla base (la base spingerebbe, alla periferia, verso l’intransigenza) starebbe il pericolo. Io credo, onorevole Giannini, che non siamo stati troppo restrittivi! Si poteva usare la bilancia del peso specifico, ma è un po’ difficile valutare la qualità di ciascun partito e di ciascun uomo. Si poteva però usare la bilancia comune, quella del numero, e allora la situazione sarebbe stata molto diversa. Noi, invece, dopo quello che abbiamo fatto nell’interesse del paese, che senza dubbio corrispondeva ad un sentimento profondo (in un mio discorso, se vi prendeste la cura di rileggerlo, trovereste anche le ragioni storiche per cui siamo arrivati, doverosamente, a questa politica di mediazione e di concentrazione) , non abbiamo fatto agire la proporzionale nel governo come nelle elezioni delle giunte amministrative , perché la proporzione sarebbe stata molto diversa. E vi prego, qualche volta, cari colleghi, specialmente quelli di voi che fanno delle obiezioni e sono portati a dover difendere certe posizioni in confronto di ignari elettori, di ricordare queste proporzioni e di ricordare, quindi, che la dignità della collaborazione e la sua efficacia è stata ampiamente concessa al di là di quello che il numero avrebbe permesso. L’onorevole Giannini ha detto: alla vetta voi avete avuto un certo criterio di larghezza, ma in basso… e ci ha raccontato un episodio avvenuto in un paese della periferia. Mi dispiace che egli si sia sentito offeso poiché è entrato alla Camera legittimamente, dopo un’ampia discussione e il vaglio della Commissione competente. Mi dispiace che ciò sia avvenuto, ma mi dispiacerebbe di più se si dovesse dare a questi episodi della periferia un’importanza che non hanno. È naturale che la cosiddetta base (mi scuso per questo mimetismo di termini propri della estrema sinistra) è di per se stessa intransigente e portata alla intransigenza. Ma la base rappresenta il partito, cioè la parte, ed è ben naturale che tutto quello che è proprio della parte venga più sentito e fatto valere di quello che è comune. Ma quanto più su si va si trovano uomini che devono rappresentare gli interessi comuni, gli interessi della collaborazione e del paese, e là vi è possibilità di collaborazione. Su questi si deve misurare la profondità e la realtà della collaborazione. Un’altra accusa che si fa spesso è quella dell’accaparramento di tutti i posti. (Commenti all’estrema sinistra). Non è per farvi un calcolo statistico, ma per invitarvi a farlo: prendete in mano, egregi colleghi, l’annuario parlamentare e leggete, da pagina 450 a pagina 550, l’elenco di tutte le istituzioni di carattere finanziario, di tutti gli enti economici, amministrativi, sportivi, educativi, eccetera, e fate esattamente il calcolo delle persone che li stanno dirigendo e che sono iscritte al partito democristiano. Se dopo questo bilancio, eseguito con un briciolo di buona fede, potrete ancora dimostrare, cifre alla mano, l’accaparramento dei posti da parte del partito democristiano, allora mi arrenderò alle vostre dimostrazioni. Ma questo è impossibile ed è ora di finirla, altrimenti saremo costretti a pubblicare gli elenchi. (Applausi al centro e a destra – Rumori all’estrema sinistra). Con ciò non voglio negare l’esistenza di qualche situazione particolare e locale e che alla periferia qualche cosa possa essere avvenuto. Nego però che, nel quadro sintetico dell’attività nazionale e dei posti dirigenti, il partito democristiano possa comunque essere paragonato ad un partito fascista, ad uno Stato-partito o ad un partito come il vostro (indica l’estrema sinistra), quando domina in un certo paese. (Applausi al centro e a destra). Nei paesi da voi dominati si perde non solo il posto, ma spesso anche la testa. (Applausi al centro e a destra – Rumori all’estrema sinistra). Ho udito che qualcuno ha citato don Sturzo. Ciò mi procura l’onore di ricorrere a un argomento polemico. Don Luigi Sturzo si è riferito al caso di incarichi ad alcuni deputati; si è fatto in proposito un calcolo e mi è stato sottoposto: si tratta di otto o nove deputati in tutto che hanno degli incarichi riconosciuti. Niente di più, ripeto: otto o nove su trecentosette. Io credo che don Luigi Sturzo, il quale è un attento osservatore dei fenomeni sociali ed è esperto di statistiche, darà ragione a me quando vedrà qual è la situazione reale del paese. Anzi, mi permetto di farvi una rivelazione: don Sturzo, che è sempre giovanile nella polemica ed in molti casi è così libero nei suoi atteggiamenti critici anche in confronto al suo partito da offrire argomenti alla opposizione, se ha un rimprovero da fare è quello che noi, assorbiti troppo dal problema politico, non ci occupiamo degli altri problemi di grande importanza, e soprattutto non cerchiamo di influire di più sul nostro programma di riforme sociali e di direttiva economica. L’obiezione, pertanto, ha un suo valore, ma in senso contrario a quello che era nelle intenzioni dell’interruttore. Vi ricorderete, del resto, che prima del Congresso di Venezia il senatore Merzagora, che era appena uscito dal governo, credendo evidentemente di fare onore alla verità ed un piacere a me, ha pubblicato un articolo sul Corriere della Sera, in cui dimostrava che è falso accusare i democristiani di aver dato o di aver tentato la scalata ai consigli economici, e pubblicava una serie di cifre che potrete trovare in quell’articolo . Quell’articolo, contro la buona volontà dell’autore, non mi ha giovato. Esso, anzi, ha indebitato la mia situazione perché alcuni dei membri del Congresso vi hanno trovato conferma della loro tesi che, per la tendenza particolare dei vecchi – e di De Gasperi in modo particolare – di cercare persone dotate di preparazione tecnica soprattutto per certi posti, il partito non avesse trovato il mezzo di dimostrare la propria capacità. E ho dovuto difendermi dicendo ai giovani: preparatevi e addestratevi perché il valore tecnico di un collaboratore deve essere commisurato secondo la sua capacità tecnica e non secondo la tessera di partito. Quindi, nessun vantaggio porterà il fatto di avere la tessera democristiana, perché sono i valori della preparazione tecnica che devono portare ai posti direttivi. Ed ora veniamo alle questioni di procedura. Io credo che dopo le dimostrazioni degli onorevoli Lucifredi , La Malfa e Martino, non mi vorrete ancora portare a discutere la questione degli interinati. È stato qui dimostrato fino a che punto sia arrivato il rigore della Costituente, che, attraverso il voto di una sua sottocommissione, ha ammesso un interinato al massimo per sei mesi. Io spero che gli attuali ministri ad interim non durino sei mesi, anzi spero non durino sei settimane. Ma comunque, abbiamo nella prassi (intendiamoci, la prassi è certo un argomento come lo è anche il precedente, ma non è detto che sia sempre la norma della liceità e della giustizia), 75 casi di interim, e a questo proposito l’onorevole Nenni dice: mi ricordo quando il presidente è partito, quando vi è stato il vicepresidente, eccetera. Se fossero quei soli casi! Ma l’onorevole Nenni non ricorda che, in un ministero in cui erano rappresentati anche i suoi, l’onorevole Bonomi, ad esempio, aveva contemporaneamente (e finché durò il ministero) l’interim degli Esteri dell’Africa Italiana , e nessuno dei partiti, nessuno dei comitati di liberazione protestò. Onorevole Nenni, non so se sia stato lei che ha usato la frase «tener caldo il posto» (mi scusi se non è stato lei; mi riferisco a chi l’ha detta), quasi che io abbia la strana intenzione di tener caldo il posto a lei agli Esteri. (Si ride al centro e a destra). Dal 13 luglio al 18 ottobre 1946 ho assunto io l’interim agli Esteri; e poi il posto è passato all’onorevole Nenni, che lo tenne fino a quando avvenne quella illecita catastrofe cui si è riferito, e cioè una crisi nel suo partito . (Commenti all’estrema sinistra). Dunque, la stessa posizione. La seconda parte della originaria interpellanza Giannini, che si riferisce alle comunicazioni fatte non direttamente dal governo ma eventualmente attraverso la Presidenza della Camera, è oggi superata. Tuttavia molti sono gli argomenti che ho in serbo, e li farò valere, eventualmente in altra occasione. Veniamo ad alcuni argomenti che sono stati toccati da diversi oratori. Il primo è quello dell’amnistia. Se ne è parlato in parecchie occasioni. Il ministro della Giustizia ne ha parlato anche ultimamente in Senato. Voglio ricordare i precedenti. Il 7 ottobre la Camera ha chiesto un’amnistia la quale renda possibile la completa pacificazione del paese. Il Senato, il 20 ottobre, ha raccomandato larghezza di criteri e adeguatezza di uffici nelle pratiche per la liberazione condizionale e provvedimenti di grazia, riaffermando però l’esigenza fondamentale per lo Stato democratico di non indebolire la certezza della legge e della sua applicazione. In questo dibattito l’onorevole Nenni ha chiesto l’amnistia per tutti gli arrestati dopo il 14 luglio, per tutti gli scioperi e le agitazioni sindacali, e riferendosi alla Resistenza ha detto: essa va accettata in blocco; il rifiuto scatenerebbe agitazioni. Queste parole «accettata in blocco» si riferiscono ad una frase celebre che riguarda la rivoluzione francese. I terroristi della rivoluzione francese hanno sempre preteso che essa fosse accettata in blocco, cioè difesa ed esaltata anche nelle degenerazioni terroristiche che sono avvenute, anche nella responsabilità dei singoli fatti. Debbo dire che questo principio mi pare non sia né moralmente, né giuridicamente accettabile. Possiamo considerare appartenenti alla guerra civile i fatti che ad essa erano connessi, non i delitti o reati commessi contro persone o cose al di fuori di essa. Non possiamo, quindi, pregiudizialmente negare alle vittime il ricorso alla legge, ma possiamo far valere le attenuanti del clima in cui i delitti furono compiuti. Ho presenti in questo momento i fatti più gravi, come i fatti di sangue che non vennero amnistiati nemmeno dall’amnistia Togliatti . L’onorevole Leone-Marchesano, invece, si è riferito ad ispirazioni religiose, a documenti pontifici, ai provvedimenti di clemenza che si sono avuti in altri Stati in occasione dell’Anno Santo. Osservo che nessuno dei provvedimenti di questi Stati contempla un’amnistia generale e totale, ma solo revisione parziale o condono, ed il testo dell’indulto brasiliano, per esempio, si preoccupa – cito le parole testuali – «che esso non venga ad indebolire il dovere delle repressioni e l’efficacia preventiva della legge penale». Ripeto che si tratta di indulti e condoni assai limitati. Posso dire che, in linea di principio, accetto naturalmente lo spirito di clemenza e di misericordia suggerito dalla solenne occasione dell’Anno Santo, ma condivido anche le legittime preoccupazioni espresse dal Senato. Sono certo che il Consiglio dei ministri, quando si tratterà di presentare formule concrete o quando si tratterà di prendere posizione dinanzi alla proposta della Camera, avrà presenti queste due esigenze e cercherà, nei limiti del possibile, di conciliarle. Inoltre, gli atti di clemenza sono efficaci soprattutto quando chiudono un ciclo, e lo chiudono definitivamente; in questo caso rappresentano veramente il desiderio del presentatore della proposta, cioè il superamento dei conflitti. Ma quando si riferiscono a situazioni ancora accese, a contrasti ancora violenti – basta pensare, proprio in questi giorni, al processo Fanin per comprendere a che cosa mi voglio riferire – e quando si leggono certi settimanali che esaltano il regime fascista e la guerra civile, quando si sentono gridare per le strade gli antichi inni, che sono diventati oggi inni di battaglia e di guerra civile, allora l’atmosfera che si forma non è adatta ad atti di particolare clemenza, non è assolutamente adatta, e noi dobbiamo cominciare con l’invocare dalle due parti e da tutti coloro i quali vogliono veramente la pacificazione di astenersi da simili atti o da simili dimostrazioni. Io debbo dire, onorevole Nenni, che sono trattenuto dal ricorrere a misure eccezionali proprio dal senso della democrazia che mi domina, dai limiti della Costituzione che mi impegnano (applausi al centro e a destra – rumori all’estrema sinistra); debbo dire che sento in questo campo che la costanza nella pazienza è un dovere, ma debbo anche aggiungere che coloro i quali vedono impunita o scarsamente punita una dimostrazione o una pubblicazione di giornale, non si immaginino che noi sopportiamo ciò perché lo troviamo sopportabile. Esso è al di là di ogni limite, al di là di ogni tolleranza. Bisogna aver vissuto il periodo dal 1919 al 1921 per sapere che cosa hanno fatto nascere le campagne di stampa e le manifestazioni di quel tempo, per ricordare che questi esaltatori di un regime sono responsabili della guerra fratricida e civile in Italia (vivissimi applausi al centro e a destra), per ammonirli che si guardino dal continuare su questa via, poiché se noi ricorriamo – e non possiamo non farlo – a misure legali di repressione solo nella misura sancita e applicata dai magistrati, le debolezze di queste situazioni fatalmente si vendicano attraverso altre contro violenze. Credo che, per fortuna la maggior parte dei colleghi non leggano certi giornali che si chiamano fascisti o neofascisti, e che corrispondono, o meno, al partito o all’organo del partito che è qui rappresentato. Anzi, in un’altra occasione ho sentito dichiarazioni in cui si smentisce che questi giornali siano organi diretti da questo movimento. Io non parlo del movimento qui rappresentato; però a questa corrente la quale crede in tal modo di poter far risorgere un regime che il popolo italiano ha condannato per sempre, (vivissimi applausi a sinistra, al centro e a destra); a questa corrente diciamo: vi è una democrazia che si arresta innanzi alla legge, la quale prescrive che lo scioglimento di un partito dipenda dalla sentenza dei magistrati; e si arresta anche se abbiamo la convinzione che certi atti avrebbero già moralmente legittimato questo scioglimento. La democrazia vi dà un esempio e un monito perché non lavoriate per il ritorno di un regime che ciò non avrebbe mai permesso; vi dà un esempio e un monito perché si sappia che qui in Italia è ancora possibile l’esistenza anche di partiti di estrema posizione. (Applausi al centro e a destra – Commenti all’estrema destra). E veniamo a un discorso più pacifico. Si è qui ripetuta parecchie volte, anche durante questo dibattito, l’accusa che il governo alimenta e mantiene la congiura del silenzio nei riguardi di un grande piano rigeneratore che salverebbe l’Italia se discusso, se accettato, se applicato: il piano della Cgil. L’onorevole Nenni ha detto: trentacinque-quaranta anni fa questo sarebbe stato un grande avvenimento che avrebbe avuto una enorme risonanza. Può essere. Quando la estrema sinistra – fatte poche eccezioni – si ostinava in un atteggiamento negativo e rimandava la riforma e i grandi rivolgimenti sociali al momento della eliminazione della borghesia, il fatto che una organizzazione socialcomunista presentasse un progetto di politica economica (programma minimo di azione) avrebbe avuto un significato nuovo. Ma, onorevole Nenni anche qui non la mia, ma la sua situazione è superata. I comunisti che, apparentemente, ed in certe questioni realmente, siedono alla sua sinistra, in questa sono molto al di qua della sua destra. I comunisti sono dei realizzatori; essi sanno lavorare e costruire, non sono semplicemente degli affermatori teorici. Anzi, sono nati così, e tutte le polemiche di Lenin contro i riformatori, contro gli estremisti, contro i romantici, si fondano su questo principio. Quindi la novità, davvero, non esiste. Abbiamo collaborato, abbiamo lavorato in certi ministeri e ciascuno ha fatto la parte sua, fosse anche venuto dal comunismo. Il programma minimo non è più una novità, anzi, se si trattasse di questo, niente sarebbe più facile che lavorare anche con i comunisti poiché la differenza fra noi ed essi non sta nel programma minimo o nella possibilità di attuarlo, ma sta nelle direttive generali per cui il programma minimo per noi rappresenta un elemento di costruzione dello Stato democratico e per essi rappresenta un elemento per superarlo, per negarlo ed arrivare alla dittatura proletaria. (Commenti all’estrema sinistra – Interruzione del deputato Di Vittorio). Conosco il piano Di Vittorio perché sono lettore di giornali e talvolta mi tocca leggere, purtroppo, l’Unità. (Commenti – Si ride). Ho letto quindi, onorevole Di Vittorio, il suo discorso di Genova del 5 ottobre in cui ha fatto la presentazione delle rivendicazioni operaie e del suo piano, in genere . Un grande discorso, durato parecchie ore, che immagino sia stato soltanto riassunto nello stesso giornale del suo partito. Ella ha cominciato con una polemica sostanziale e violenta contro il Piano Marshall e, naturalmente, contro coloro che lo hanno invocato, sostenuto, appoggiato e che, eventualmente, ne hanno fruito. Ella ha inquadrato, quindi, la sua posizione economica e politica in questa cornice. Evidentemente, dopo questa introduzione, ella non poteva credere che il governo chiamato a collaborare eventualmente con lei e con la confederazione per eseguire quel piano potesse essere il mio o quello che mi può succedere entro la stessa scia e le stesse direttive. Leggendolo attentamente, ho pensato che il suo documento era un documento abile, scritto soprattutto per rifare l’unificazione entro la Confederazione generale del lavoro: scopo altamente legittimo, ma che, come capo del governo, non mi riguarda. Poi, ho visto che nei successivi commenti dei giornali si è detto: ma perché il governo non parla del piano, perché non ne tiene conto? Gli è perché ha paura di questo piano e non vuole attuarlo per la sua concezione di classe padronale, antitetica alle direttive del piano stesso. Ho letto il piano: dopo la polemica contro l’ERP vi è ancora un’altra parte polemica sul fallimento della scissione; questa è diretta contro i socialisti, o contro gli ex membri della confederazione, ed anche questo è un tema che direttamente non mi concerne. Poi, vi sono le dieci rivendicazioni dei lavoratori. Si tratta della continuazione della tattica usata sempre dai sindacati: aumenti dei salari, eccetera. (Commenti all’estrema sinistra). In tutto questo piano (che dovrebbe essere offerto come un ramoscello di ulivo non dico a me, Dio me ne guardi!, ma a coloro che mi succederebbero) non si accenna, che per disprezzarle, a tutte le riforme e ai contributi dati dai nostri ministri per quanto riguarda ad esempio la svalutazione, l’opera del ministro del Lavoro, i miglioramenti agrari e le bonifiche agrarie, i lavori pubblici. Secondo il programma Di Vittorio, niente esiste di accettabile in ciò che abbiamo fatto noi; non vi sono nemmeno elementi di ricostruzione. Tutto si deve fare di nuovo e tutto deve essere organizzato – questa è la scoperta – da tre grandi enti: un ente nazionale per l’elettricità, un ente per le bonifiche e le trasformazioni e un ente edilizio. Secondo la relazione Di Vittorio, sembra che i governi democratici fino ad oggi non abbiano fatto niente per la ricostruzione dell’Italia, nemmeno quelli che avevano nel loro seno gli onorevoli Romita , Nenni e Gullo . Di vittorio. Questo è inesatto. De GasPeri. La funzione dell’ente delle bonifiche – che dovrebbe essere evidentemente di coordinamento degli enti esistenti – è assolta dal ministero dell’Agricoltura. Per quanto riguarda l’edilizia, proprio quest’anno il governo ha provveduto sia con leggi speciali, sia con i particolari contributi dati recentemente al Mezzogiorno, sia con lo sviluppo del piano Fanfani che, irriso da voi e reso da principio di difficilissima attuazione, tuttavia si dimostra oggi un elemento di sicura ricostruzione. (Applausi al centro e a destra). E possiamo aggiungere quei cantieri di rimboschimento, quei cantieri di lavoro che si vedono ormai in tutte le province d’Italia e che, se i mezzi non mancheranno, potranno farci raggiungere la meta di ridurre notevolmente la disoccupazione. L’onorevole Di Vittorio, alla fine della sua relazione a Genova e nell’ordine del giorno votato il giorno dopo, disse che il piano della Cgil doveva essere sviluppato da tecnici, da economisti, eccetera. Era naturale, il minimo che potesse fare per essere estremamente oggettivo, che il governo attendesse che il piano stesso fosse integralmente pubblicato. In ultimo, v’è un accenno a duemila e cinquecento miliardi che, secondo l’onorevole Di Vittorio, si potrebbero senz’altro trovare. Io sono, come dire, un generico, e quando si tratta di documentarmi mi rivolgo a tecnici. Credo che l’onorevole Di Vittorio farà altrettanto ad avrà trovato qualche tecnico che gli avrà detto: «caro mio, come fai, in un paese dove il reddito è di 5000 miliardi, 5000 miliardi e mezzo, facciamo pure 6000 miliardi, a risparmiare più della misura normale del 15 per cento?». Di vittorio. Si fa allo stesso modo, come in caso di guerra. De GasPeri. Ma la guerra ci ha mandati in rovina! Noi dobbiamo evitare l’inflazione. Ad ogni modo è anche vero che noi, governo contrario agli investimenti, come voi dite, abbiamo avuto quest’anno già 537 miliardi di investimenti (commenti all’estrema sinistra), che noi quindi, anche su questa via, abbiamo proceduto. Quanto al problema della elettricità, è inutile che io lo esamini anche qui dal punto di vista ricostruttivo, quando se ne è parlato a lungo alla Camera e al Senato e quando il problema è stato studiato anche per quel che riguarda i finanziamenti, ma supponiamo pure che questo governo non abbia fatto niente, che questo governo sia incapace di qualsiasi ricostruzione, che necessiti ricorrere alla Cgil. Sta bene: noi attendiamo le vostre proposte di finanziamento, che esamineremo obiettivamente, e se obiettivamente risulterà che esso è possibile, tutto ciò che è possibile fare noi lo faremo, da qualunque parte vengano le proposte e indipendentemente dallo spirito che le muove. (Applausi al centro). Fosse vero, onorevole Di Vittorio, che basti avere un bel piano per costruire veramente qualche cosa!… Ne avevamo anche noi di piani! Avevamo il piano Tupini per tutti i lavori pubblici nel Mezzogiorno; avevamo il piano Tremelloni che arriva a 3 mila miliardi, e il cui ideatore, consapevole come è, stava ancora studiando come poter suggerire il finanziamento; abbiamo il piano per le ferrovie del ministro Corbellini, eccetera. Non sono i piani che mancano, mancano i quattrini! (Commenti all’estrema sinistra). Noi dovremo fare il massimo sforzo per venire incontro alle opere che limitano la disoccupazione. L’onorevole Vigorelli, che è stato un nostro apprezzato collaboratore, a un certo punto perse la pazienza perché ritenne che il suo piano di concentrazione dell’assistenza non fosse da noi considerato; devo dire, invece, che noi l’abbiamo considerato. Lo dimostra, prima di tutto, il fatto che il governo ha speso circa 400 miliardi per la previdenza e altri 100 miliardi per l’assistenza, quindi in tutto 500 miliardi. Non si può dire, pertanto che, quando si faranno statistiche comparate non si potranno fare raffronti con altri paesi, come se il nostro paese fosse tra quelli più retrogradi, o non vi si pensasse alla sicurezza sociale. Dicendo ciò si svaluta l’opera del governo, e soprattutto l’opera della democrazia italiana. È vero che un miglior coordinamento potrebbe giovare; ma è vero anche che esiste un programma di riforma di cui si occupano il ministro del Lavoro e il ministro dell’Interno per la parte che loro compete. Quindi, il problema è tuttora aperto: ed è di quelli che si studiano e si preparano fino a che vi siano la possibilità ed i mezzi per risolverli. Dunque non potete dire che ciò che si doveva fare in cento anni e non è stato fatto, noi dovremmo farlo in un anno, cioè dovremmo fare in un anno tutto quanto è necessario per il popolo italiano. La regola del nostro lavoro è che si stanno facendo ovunque è possibile, con il massimo sforzo, opere pubbliche per lenire la disoccupazione. So che il nostro principale e sacrosanto dovere è quello di lenire i bisogni, le esigenze della povera gente! So che è su questo che noi dobbiamo concentrare ogni sforzo, e lo faremo. sansone . Ma quando? De GasPeri. Dopo che ella è uscito dal governo, facciamo tutti i giorni qualche cosa! (Applausi al centro e a destra – Commenti all’estrema sinistra). L’onorevole Nenni – devo nominarlo ancora perché le affermazioni più gravi le fa lui, le cose più inesatte le dice lui, ed io non posso non confutarlo – ha detto che una delle ragioni della crisi (si vuole che questa sia una crisi profonda, una crisi di divisione dei partiti e delle classi) è l’inquietudine del paese circa la politica estera. «Le vicissitudini africane – ha detto l’onorevole Nenni – l’onere finanziario che costerà l’amministrazione anche di una sola colonia, il Mediterraneo che diventa lago anglo-francese», eccetera. Veda, onorevole Nenni, io ho molta ammirazione per le sue attitudini giornalistiche e oratorie, ma questa è roba vecchia. (Applausi al centro e a destra – Interruzioni all’estrema sinistra). Che un partito, che è sempre stato contro le imprese coloniali fino, addirittura, a svellere le rotaie delle ferrovie, abbia per un certo periodo fatto qui l’opposizione a certi uomini, chiamandoli rinunciatari, questa è una di quelle antinomie curiose della nostra politica che vengono rinforzate ancora da altri atteggiamenti: piange per gli oneri che eventualmente le colonie potrebbero addossarci, piange sopra il Mediterraneo, divenuto lago anglo-francese. Onorevole Nenni, questa è cosa vecchia perché sul Mediterraneo si affacciano oggi altri popoli – i popoli arabi – e si presenta quindi la necessità di una collaborazione che sposta tutto il nostro atteggiamento su un’altra linea. (Interruzioni all’estrema sinistra). Io mi rimetto al ministro degli Esteri per gli argomenti che, ex professo, dovranno essere affrontati dalle due Camere a proposito della questione coloniale. Una cosa devo dire, indipendentemente dalla valutazione in metri quadrati oppure dall’organizzazione delle nuove strutture, eccetera: che io sono molto lieto – io che sono vecchio e reazionario – di essere questa volta dalla parte dell’avvenire di quei popoli con i quali si formerà e si ricostruirà una indipendenza nelle terre d’Africa. (Applausi al centro e a destra). Collaborare coi nativi, con gli arabi; partecipare alle varie forme di insegnamento e di colonizzazione nelle terre d’Africa; servirsi di questo atteggiamento, di questo trampolino, per una maggiore collaborazione nel campo del lavoro, nel rinnovamento e nel riscatto delle terre africane in genere. E in questo sguardo verso l’avvenire, sì, dimenticare anche i risentimenti, dimenticare le ingiustizie che ci hanno fatto. Dal punto di vista giuridico, dal punto di vista della comparazione dei meriti, sono state commesse ingiustizie contro di noi: ma (perché vi sono delle fatalità, talvolta, che fanno nascere delle antinomie) da un altro punto di vista, ben venga anche questa collaborazione, in piena libertà e in piena democrazia. Certo, tutto dipende dal modo con cui si comporteranno i popoli con i quali dobbiamo collaborare e ci comporteremo noi, naturalmente, ma anche e soprattutto, dal modo con cui i paesi più forti di noi si comporteranno. Io ho letto recentemente un accenno a questo riguardo, e con molto interesse, in un discorso del ministro inglese degli Esteri, Bevin. Una volta applicata la decisione nei riguardi delle colonie, noi condividiamo cordialmente un proposito di sincera collaborazione tra l’Inghilterra e l’Italia, rapporto di lealtà e di amicizia. Un secondo spettro che l’onorevole Nenni ha visto profilarsi sull’orizzonte è quello del militarismo prussiano di Hitler. Gli oratori dell’estrema sinistra, tante volte, hanno accusato me di aver disegnato sull’orizzonte dell’Italia, prima della campagna elettorale, tristi fantasmi, affermando che il popolo ha agito per terrore di fronte a questi fantasmi. In quel tempo, voi avete fatto cavalcare Garibaldi illecitamente sulle nuvole, (si ride), ma non venite a far cavalcare anche il militarismo prussiano da Bismark a Hitler, ora che la Germania si dispone ad entrare nella nuova Europa. Noi abbiamo il dovere di incoraggiarla sulla via del risanamento politico ed economico, perché anche là vi sono stati dei perseguitati, delle vittime, non solo dei complici, e v’è stata anche in Germania molta gente che ha difeso e conservato il senso della libertà. Noi ci auguriamo che quella parte della Germania che non fu responsabile dei tragici errori e terrori della guerra, possa ottenere che tutti i popoli liberi seguano i suoi sforzi con simpatia. E noi, che abbiamo sofferto tra complici e vittime, noi dobbiamo accompagnare questo sforzo con tutta la nostra simpatia. (Vivissimi, prolungati applausi a sinistra, al centro e a destra – Congratulazioni). [Dopo una breve interruzione della seduta, il presidente della Camera dei deputati annunzia la votazione dell’ordine del giorno Nenni, che considera «contraria allo spirito della Costituzione e alla prassi parlamentare e inefficiente in rapporto alla situazione del paese la soluzione data alla crisi del ministero». Il presidente del Consiglio riprende la parola in merito alle dichiarazioni di voto del comunista Fausto Gullo, che lo accusa di aver taciuto, dopo il suo recente viaggio in Calabria, la difficile situazione in cui versava il Mezzogiorno]. La questione calabra, nei suoi vari aspetti, è attualmente in discussione al Senato. Quindi la posizione dei vari ministri e del governo in genere su questo problema verrà fissata di fronte all’altro ramo del Parlamento. L’onorevole Gullo ha moltissime ragioni di votare contro di me per il fatto stesso della sua posizione politica; ma sono meravigliato che egli abbia ricordato le benemerenze e le necessità delle popolazioni calabresi proprio nel momento in cui, essendomi io recato ad inaugurare lavori di bonifica in Calabria , ove ho avuto accoglienze molto simpatiche anche da elettori comunisti… Pajetta Gian carlo. Noi siamo educati. De GasPeri. …ho confermato a quelle popolazioni la deliberazione del governo, adottata su mia proposta, di fare uno stralcio nella riforma generale e di applicare innanzi tutto in Calabria, per le particolari condizioni di quella regione, le disposizioni più favorevoli. Sono meravigliato, dicevo, che, proprio in questo momento in cui, in seguito particolarmente alle mie pressioni, si è potuto trovare un finanziamento di 20 miliardi per la Calabria, il rappresentante en titre della Calabria mi rinfacci un silenzio il quale voleva soltanto dire che, in luogo di parole, io avevo agito. (Applausi al centro e a destra). L’onorevole rappresentante della Calabria avrebbe ben potuto prendersi il disturbo di leggere il mio discorso, in cui tutta l’illustrazione degli interessi della Calabria e dei rimedi che si possano prendere è esposta ed in cui è riconfermata la volontà del governo di presentare quel disegno di legge che domani verrà licenziato e presentato appunto alla Camera. Sarà allora il momento in cui voi, (indica l’estrema sinistra), vi alzerete e voterete ancora una volta la sfiducia contro di me, dicendo che non ho fatto niente. Voi dunque parlate falsamente di mano tesa; ma quello che io ho fatto, lo riconosce il popolo calabrese . (Vivissimi, prolungati applausi al centro e a destra).
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Per mettere a fuoco il discorso di Truman basta un solo rilievo. Il presidente del più dinamico e più libero stato del mondo deve arrestasi innanzi a una realtà, che non si può dissimulare o offuscare, davanti a un ostacolo che è pericoloso scansare o girare: la realtà è il fatto bolscevico internazionale; l’ostacolo al libero progresso umano è l’avanzata minacciosa entro il mondo democratico di una lava ferrigna incandescente, eruttata da un vulcano, che può ben avere le sue pause e intermittenze, ma che non si spegne, perché il magma bolscevico cuoce ancora, anzi ribolle in permanenza. Ci sono dei poeti o degli ingenui che sulla lava testé raffreddata cercano la ginestra fiorita, ma gli uomini responsabili intuiscono o scoprono i canali sotterranei della prossima eruzione. Se il pericolo fosse immaginario si può credere che Truman lo segnali dal più alto osservatorio del mondo, sul quale lo hanno portato 30 milioni di americani liberi, cittadini di tutte le categorie, uomini dei sindacati e delle imprese, uomini diversi per razza, per religione, ma tutti imbevuti di una grande tradizione di libertà? È inutile che Togliatti facendosi insinuante e flessuoso irrida alle «fantastiche rivelazioni» del presidente del Consiglio, l’onorevole De Gasperi non ha inventato niente, quando ha denunziato al Paese l’attività del Cominform e le direttive di Zdanov , non smentite dai suoi successori, per la conquista bolscevica in Francia e in Italia. Queste sono realtà documentabili e operanti che ricevono conferma ed illustrazione da quanto è avvenuto negli stati satelliti e nel conflitto Cominform-Tito . Lo stile può mutare a seconda che parli Secchia , Longo o Togliatti o Terracini , ma il pensiero, il proposito è sempre lo stesso. Il lavoro sotterraneo delle termiti comuniste continua; la speranza, la meta è sempre quella: preparare la conquista bolscevica, mentre alla superficie si utilizzano le libertà e le istituzioni democratiche onde svuotarne il contenuto, finché tutta l’impalcatura formale crolla sul capo dei fatui o dei complici ausiliari. Questa è la realtà dura e dolorosa. L’hanno sperimentata in Ungheria, la soffrono in Polonia ed in Cecoslovacchia, la temono in Francia, nel Benelux ed in Inghilterra e la sentono come minaccia cattolici e socialisti, proletari e proprietari, tutti gli uomini liberi d’Europa. Supponete che quello che durante la guerra sembrava il corso di tutta l’umanità contro il nazismo, avesse continuato la sua spinta nella stessa direzione anche nel dopoguerra, che i bolscevichi, cioè, avessero accolto l’invito di partecipare a questo grande consorzio di pacifica ricostruzione che voleva essere il Piano Marshall, chi ora, al di fuori di una improbabile «revanche» della Germania, si preoccuperebbe del problema della sicurezza? E se nell’interno degli Stati europei, specie in Francia e in Italia, non fosse divenuto palese che l’ordine del Cominform di sabotare il Piano Marshall, veniva eseguito con tutti i mezzi legali ed extra legali, chi avrebbe potuto riuscire a riunire nella resistenza tutte le forze democratiche? E l’allarme maggiore, il senso di inquietudine per il domani non deriva forse proprio dal fatto che un partito agguerrito e disposto a tutto proclami audacemente che in caso di conflitto organizzerebbe la guerra civile, la guerra cioè contro il proprio governo legale e democratico, la guerra contro la Patria italiana, per appoggiare chi passasse le nostre frontiere? Questo è il punto centrale, questo è il problema a cui tutti gli altri sono subordinati e ciò vale per tutti i paesi d’Europa, per l’America, per tutto il mondo, dalla Grecia alla Cina. In verità l’Italia del dopoguerra ha ritrovato le sue energie ricostruttive. Se avesse la pace interna e il senso di sicurezza essa potrebbe dedicare tutti i suoi sforzi alle riforme, alla politica produttiva nell’industria e nell’agricoltura. La maggioranza potrebbe giovarsi di una opposizione costruttiva che non lasciasse sorgere dubbi sulla sua lealtà democratica. Se la democrazia fosse il regime comune sinceramente accettato ed osservato da tutti, noi potremmo comporre ogni nostra differenza sindacale e culturale. Anche sindacale, certamente, nonostante gli inevitabili conflitti d’interesse e la impossibilità in cui si trova un paese di soddisfare anche queste esigenze dei più umili, fino a che il reddito nazionale non sia divenuto normale. Ma quali difficoltà da superare con un partito che ricorre alla non collaborazione cioè al sabotaggio delle imprese, col pretesto di risanarle e diffama un Governo, che soltanto a mezzo del F.I.M. ha investito 50 miliardi nello sforzo di rendere possibile la conversione delle industrie meccaniche? E sì che questo governo non è ricorso ai ferrei provvedimenti previsti dalla legge del 26 giugno 1946 in Russia per impedire qualsiasi defezione dal posto di lavoro. E sì che codesti concionatori che urlano sulla piazza del Duomo di Milano contro il Governo non ignorano che nel loro Stato bolscevico lo sciopero è un reato e il sabotaggio punito severissimamente come delitto contro la Patria e la rivoluzione. Tant’è; sarebbe puerile attendersi resipiscenze e atteggiamenti sinceramente conciliativi. Contro ciò non valgono espedienti tattici, combinazioni parlamentari, evoluzioni di partiti. Valutiamo giustamente i nostri avversari. Non si tratta semplicemente di una organizzazione fornita di mezzi, né solo di una esperienza consumata nella cospirazione o nella tecnica più raffinata della penetrazione cellulare; dobbiamo riconoscere ai più ferventi tra loro uno spirito di apostolato e una fede apocalittica, associata ad una disciplina intransigente e a una dottrina totalitaria che li rende combattenti fanatici e risoluti. E sentono alle loro spalle una solidarietà più vasta e potente nella quale nei momenti di flessione interna ripongono tenacemente le loro speranze. Non c’è nulla da fare: la battaglia è là e si vince solo opponendo fede a fede, spirito di sacrificio e di disciplina al fanatismo altrui, organizzazione ad organizzazione e soprattutto come conforto alle nostre speranze una più vasta solidarietà di popoli che si sentono uniti nell’applicazione della difesa della democrazia e nell’aspirazione della pace. Di questa fede, di questa fermezza, di questa solidarietà di pace abbiamo bisogno per poter arrivare ad avviare a soluzione risolute conquiste della giustizia sociale per il nostro Paese.
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Il promemoria rimesso il 22 dicembre s.a. da codesto Ministero alla legazione d’Austria metteva in evidenza, corrispondentemente anche alle segnalazioni di questa Presidenza, la gravissima influenza esercitata, in danno della spontaneità delle domande di riacquisto della cittadinanza italiana da parte degli alto-atesini residenti in Austria, dal deliberato del Consiglio dei ministri austriaco del 2 novembre 1948. Non è superfluo ricordare che del deliberato non fu data al Governo italiano nessuna notizia, neppure sommaria, in occasione della visita del ministro Gruber a Roma e che esso fu pubblicato soltanto dopo il suo ritorno in Austria. È infatti evidente che la compressione o l’inibizione della libertà di decisione degli optanti, quale è risultata dal predetto deliberato, venuto a dare espressione concreta e ufficiale alla ben nota azione svolta dall’Aussenstelle di Innsbruck, è in aperto contrasto con i più basilari principi rispettati in ogni ordinamento democratico, oltre che con le ripetute assicurazioni verbalmente date a suo tempo dalla delegazione guidata dal ministro Leitmeier ; e ciò mentre il Governo italiano ha già per parte sua dimostrato i propri intendimenti di umana comprensione verso i rioptanti, com’è stato ancora recentemente confermato nel corso delle recenti conversazioni con la delegazione capeggiata dal ministro Versbach . Le conseguenze della pressione esercitata in Austria sugli alto-atesini colà residenti non han tardato a verificarsi; e si sono manifestate com’è noto, nell’accelerato afflusso delle domande, i cui presentatori in molti casi hanno manifestato alle autorità consolari italiane il desiderio di vederle respinte. È pertanto fermo avviso di questa Presidenza che sia ormai necessario sviluppare e precisare formalmente le conclusioni accennate nel ricordato promemoria 22 dicembre, chiedendo anche al Governo austriaco di far luogo a sostanziale revisione del proprio deliberato al fine di eliminare ogni elemento coercitivo della libertà di decisione dei singoli. Ad una soddisfacente risoluzione del Governo austriaco al riguardo potrà seguire la fissazione di un termine entro il quale gli interessati saranno ammessi a presentare una nuova domanda. Ove il Governo austriaco non ritenesse di accogliere questo nostro punto di vista, il Governo italiano dovrà riservarsi ogni decisione circa l’esito da dare alle domande di riopzione in questione che, come si è detto, sono state – almeno in parte – effettuate sotto la pressione del deliberato del Consiglio dei ministri di Vienna. Si resta in attesa di conoscere l’ulteriore azione che codesto Ministero sarà per svolgere in tali sensi.
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Questa Presidenza ha preso atto delle istruzioni impartite al ministro d’Italia a Vienna con telegramma segreto del 1° andante del quale si unisce copia per il Ministero dell’interno per opportuna conoscenza. Prima di esprimere il punto di vista di questa Presidenza sul comportamento da tenere dalle autorità interessate in merito alle domande di riopzione formulate dagli emigrati dopo il 2 novembre u.s., si stima opportuno fare alcune osservazioni in merito alle singolari considerazioni esposte dal ministro d’Austria a Roma e contenute nell’appunto trasmesso con telespresso del 1° andante n. 018771. La nota ripete la vecchia leggenda (vedasi opuscoletto «Opzioni» che si allega) cara al Governo di Vienna, ed alla quale ancora oggi molti credono, che nazismo e fascismo obbligarono gran parte degli alto-atesini ad optare. La verità è: – che nazismo e fascismo concordarono che gli alto-atesini potessero optare, cioè scegliere, fra il restare e l’emigrare; – che il nazismo esercitò, mediante una propaganda fanatica, pressioni perché la più gran parte degli alto-atesini optasse; – che il fascismo molto spesso subì, quasi giocato, la propaganda e le pressioni naziste intese a far emigrare la più gran parte degli alto-atesini, mentre le autorità italiane del tempo avevano convenuto – ma non ebbero la forza di imporsi – che le opzioni fossero libere. Così stando le cose, inesattamente la nota afferma che gli accordi De Gasperi-Gruber intesero riparare un’ingiustizia commessa insieme «dai Governi nazista della Germania e fascista dell’Italia, ingiustizia che consisteva nell’obbligare una gran parte della popolazione alto-atesina a lasciare il suo domicilio». Gli accordi De Gasperi-Gruber presero in considerazione uno stato di fatto che risultava dall’azione combinata – ma ben diversa e anzi discordante – del nazismo e del fascismo circa le cosidette opzioni: e, per ragioni di umanità e giustizia, concordarono la revisione di quanto era avvenuto al riguardo, stabilendo che il Governo italiano – unico competente a riammettere alla cittadinanza italiana coloro che l’avevano rifiutata – rivedesse «con spirito di equità e larghezza» la questione delle opzioni. Al proprio impegno il Governo italiano si attenne: nelle conversazioni italo-austriache del 22 novembre 1947 fu appunto riconosciuto che il decreto da esso predisposto costituiva «una soddisfacente ed equa soluzione del problema» . Naturalmente, dovendo essere equa, la soluzione, che il decreto – approvato il 22 novembre 1947 dalle due parti – consacrava, era imperniata sulla libertà di decisione lasciata ai possibili rioptanti circa la loro sorte: libertà che, per essere tale, doveva, com’è intuitivo, essere reale ed effettiva. Le conversazioni 22 novembre presupposero sempre che le riopzioni e le operazioni connesse si sarebbero svolte in clima di assoluta serenità, e che il contegno dei due Governi sarebbe necessariamente stato di perfetta obiettività ed equanimità. Al che il Governo italiano si è rigorosamente attenuto: nulla esso ha fatto, neanche di perfettamente legale e lecito, atto comunque a spaventare i possibili rioptanti che rientreranno in Italia. Invece il Governo austriaco con la delibera 2 novembre 1948 ha gravissimamente influito, a parere del Governo italiano, sulla libertà di decisione dei possibili rioptanti, duramente menomandola. Non è esatto che la delibera austriaca 29 agosto 1945 disponesse una disciplina provvisoria «pel periodo durante il quale la questione della nazionalità degli optanti restava sospesa», come dice la nota. Il 29 agosto 1945 non potevano prevedersi gli accordi 5 settembre 1946 De Gasperi-Gruber che avrebbero riaperta la questione della nazionalità degli optanti. Il 29 agosto 1945 gli optanti emigrati in Austria erano – a seguito della legge austriaca 10 luglio 1945 sulla cittadinanza dei cittadini germanici (per tali li riconosce il decreto del febbraio 1948 che fu approvato dalle due parti nelle conversazioni del 22 novembre 1947) – residenti in Austria, ai quali il Governo austriaco riconobbe equo concedere l’equiparazione ai cittadini austriaci non certo in previsione di riopzioni allora di là da venire e fuori del prevedibile, ma unicamente perché prima del 10 luglio 1945 già essi risiedevano in Austria e godevano di quella che allora era la cittadinanza del paese; e perché, oltre tutto, l’avevano acquistata proprio per stabilirsi nelle regioni austriache e non in quelle germaniche, come in fatto era incontestabile. Furono queste ragioni che fecero considerare all’Austria iniquo il parificare gli optanti emigrati dall’Alto Adige ai tedeschi entrati in Austria dopo l’Anschluss ed anche ai profughi di lingua germanica che dopo la liberazione affluivano in Austria dalla Jugoslavia, dall’Ungheria e dalla Cecoslovacchia. Queste ragioni tuttora permangono e permarranno come è evidente, sicché sarà ingiusto togliere quella equiparazione a coloro che – dopo gli accordi sulle riopzioni e nell’esercizio della libertà di decisione che quegli accordi loro assicurarono – vorranno restare in Austria. Particolarmente ingiusto e vessatorio è stato poi il preannunziare, addirittura mentre era in corso il termine per le riopzioni, che tale equiparazione sarebbe stata tolta a coloro che non rioptavano, come ha fatto il Governo austriaco con il deliberato 2 novembre 1948. In tale deliberato – mentre non può scorgersi alcuna finalità diretta ed attuale che ne giustificasse la emanazione proprio al momento in cui esso veniva adottato – è invece palese la finalità indiretta e ingiusta di influire sugli optanti spaventandoli con la prospettiva di perdere col 4 febbraio 1949 l’equiparazione qualora non avessero rioptato e di conservarla invece indefinitamente qualora avessero rioptato, inducendoli così a rioptare; chiudendo cioè loro una delle strade, (riopzione o non riopzione), che secondo gli accordi essi erano liberi di scegliere; alterando quindi il meccanismo degli accordi, che rimettevano alla libera autodecisione degli interessati lo scegliere circa la loro sorte. Inesattamente poi la nota afferma che il Governo italiano vede il problema delle opzioni come problema di scelta tra la nazionalità italiana e quella austriaca. Mai il Governo italiano si è sognato di vederlo così. Il problema è unicamente di scelta – libera, ché altrimenti non sarebbe più scelta – spettante agli interessati fra il riacquistare la cittadinanza italiana e il conservare il loro status attuale, che è quello della cittadinanza germanica e della equiparazione agli austriaci risultante dalla delibera 29 agosto 1945: equiparazione che le considerazioni di equità prima illustrate non sembra possano mai permettere all’Austria di revocare, ma che sembra debbano, se mai, dar luogo in seguito, a favore dei non rioptanti, alla concessione di una vera e propria cittadinanza austriaca, in considerazione della specialissima posizione in cui si trovavano al 10 luglio 1945 gli optanti emigrati in Austria, a differenza di coloro che in Austria emigrarono dalla Germania dopo l’Anschluss o da altri paesi dopo la liberazione. Il Governo italiano respinge infine il rimprovero di non aver finora emanate disposizioni amministrative circa la reintegrazione dei rioptanti. È stato appunto anche per non influire in alcun modo sulla libertà di scelta dei possibili rioptanti che il Governo italiano si è astenuto, mentre era aperto il termine per le riopzioni, dall’emanare disposizioni per le quali non vi era attuale ragione (sicché il loro valore sarebbe stato meramente propagandistico), e che solo in futuro sarebbero praticamente occorse. Va inoltre tenuto presente che ogni provvedimento italiano in tali sensi è sempre subordinato – oltre tutto – al regolamento da parte del Governo di Vienna delle questioni economico-patrimoniali relative agli optanti. Sembra a questa Presidenza che le considerazioni sopra esposte debbano essere fatte presenti al Governo di Vienna al quale si dovrà sempre sottolineare in modo preciso che, avendo il decreto del 2 novembre alterato profondamente lo spirito degli accordi, il Governo italiano non solo non può tener conto a proposito dell’art. 11 di quanto convenuto nel verbale del 22 novembre 1947 ma si riserva altresì di adottare tutti quei provvedimenti occorrenti per annullare o quanto meno neutralizzare l’effetto delle indebite pressioni austriache che, comunque, contrastano con quella linea di obiettiva imparzialità che si aveva ragione di attendersi dal Governo di Vienna. Si resta in attesa di conoscere il risultato dei passi in tal senso svolti e con l’occasione si prega di confermare le istruzioni già impartite che tutte le domande di riopzione presentate dopo il 2 novembre siano trattenute in attesa di istruzioni presso le nostre rappresentanze in Austria; le quali dovranno frattanto procedere a tutti quegli accertamenti diretti a convalidare la presunzione che dette domande sono viziate di consenso. Vedrà infine codesto Ministero se, nell’eventualità di risonanza internazionale della divergenza di vedute sull’argomento fra il nostro Governo e quello austriaco, tenuto anche conto della presenza del ministro Gruber a Londra, non sia il caso di informare il nostro ambasciatore perché possa validamente sostenere la nostra tesi.
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Caro Signore, mi scuso del ritardo con cui rispondo alla sua cordiale lettera. La causa ne è stata il desiderio di attendere il più possibile nella speranza di poterle annunciare la mia partecipazione al Consiglio. Ora però riconosco di doverle una risposta e mi spiace dover rinunciare al viaggio progettato. Le esigenze di questo momento particolarmente carico per il numero e il peso dei soggetti trattati nei lavori parlamentari, così come gli impegni del conte Sforza all’estero, mi impediscono di assentarmi da Roma. Ne sono veramente rattristato perché avrei voluto essere presente a Bruxelles per associarmi al lavoro del Sig. Spaak e del Sig. Churchill . Le sarò grato se vorrà comunicare al Sig. Spaak il mio dispiacere per questa assenza forzata e la mia speranza che si presenti una nuova occasione per incontrarci. Accetti, caro Signore, i miei migliori auguri.
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Si sta facendo il tentativo di unire i paesi d’Europa in una rappresentanza comune di governi e Parlamenti. Il «Comitato dei Ministri» dovrebbe accordarsi su provvedimenti d’intesa e di collaborazione e il «Consiglio dei Delegati dei Parlamenti» sarebbe chiamato a dare parere sulle proposte del Comitato. Per intanto si comincia cogli Stati che sono più affini tanto politicamente che civilmente, poi si vedrà. A costituire il nucleo iniziale sarà chiamata anche l’Italia e presto ci sarà una riunione costitutiva che dovrà elaborare lo Statuto di questa società di popoli. Pare che si preveda un Comitato di sette ministri degli Esteri e un Consiglio di un centinaio di delegati circa. In Italia, governo e opinione pubblica hanno accolto con soddisfazione l’invito. Finalmente usciamo dalla situazione umiliante del dopoguerra e rientriamo, come tutti gli altri, nella famiglia europea nella quale potremo far valere le nostre tendenze conciliative e universalistiche che mirano al consolidamento della pace e alla sicurezza delle nazioni minori: e potremo dire una parola ragionevole sulle questioni del dopoguerra, rimaste ancora insolute, quali ad esempio la questione germanica e la questione delle colonie. Il Trattato di pace prevedeva che in riconoscimento del contributo dato dall’Italia alla guerra di liberazione, avremmo potuto partecipare al consesso mondiale dell’ONU: ma la Russia ce l’ha impedito. Ecco ora l’Unione Europea come un parziale surrogato, perché badate, essa non vuol essere che uno di quegli organismi supplementari e integrativi che sono previsti dalla stessa Carta di San Francisco. Non era logico supporre che «tutta la nazione», senza differenza di partito, si sarebbe pronunciata favorevole a questo primo concreto tentativo di unità o di federazione europea, tanto invocata da scrittori, politici e pensatori di tutte le fedi, lungo tutto un periodo di cento anni? Invece comunisti e paracomunisti mobilitano di nuovo le folle ignare in nome della pace, ed entrano in lizza le donne dell’UDI e i giovani del Fronte, e di nuovo in Parlamento e sulle piazze si griderà contro il tradimento del governo e della borghesia capitalista che vuole la guerra. Borghesi, capitalisti e imperialisti? Ma gli uomini coi quali noi assoceremo i nostri sforzi di collaborazione europea sono laburisti, socialisti o cristiani democratici, rappresentanti di tendenze di pace, venuti su dai sindacati operai e dalle classi del popolo. E questi uomini governano gli Stati che durante le passate guerre furono tutti vittime di aggressione e che fanno e devono fare tutti gli sforzi per evitare un altro disastro che si rovescerebbe sui loro territori annientandoli. A chi la volete dare ad intendere che paesi come il Belgio e l’Olanda, che stanno appena sollevandosi dalle conseguenze dell’invasione, pensino a scatenare una guerra, essi, quasi disarmati, di fronte ad una Germania che se non viene pacificata potrebbe domani con le armi russe, ritentare la sua vendetta? Guerrafondai i laburisti inglesi, tutti assorbiti nel loro piano severo di rinascita economica? E la Francia, l’Italia che si accingono ad un grande esperimento di unione doganale ed economica? No, la cosa è troppo chiara. Noi speriamo, anzi siamo convinti che nessun popolo vuole la guerra né in Oriente né in Occidente; ma se mai ci sono degli Stati che possono subire la tentazione di ritentare la fortuna delle armi, sono quelli che tali armi possiedono in grande copia, sono i marescialli, sono i dittatori che non si sentono imbarazzati né da consigli europei né da delegazioni parlamentari. Ma, obiettano gli oppositori, dietro l’Unione Europea c’è l’America, c’è l’imperialismo americano. E qui converrebbe rifare tutta la polemica pro e contro il Piano Marshall. La Russia ha commesso il primo errore, quello di estraniarsi da tale comune sforzo economico, anzi di combatterlo ferocemente, creando un blocco ideologico contro di esso. Ora Molotov fa un altro sbaglio, lanciandosi come un toro furioso contro il debole steccato di buona volontà che si chiama Unione Europea. E dietro a lui, si lanciano all’impazzata anche i Nenni, i Togliatti e i Secchia senza riflettere un momento che un’Europa unita in un programma di ricostruzione economica e di giustizia sociale, governata da democrazia parlamentare, non può essere che un fattore di intesa, di mediazione, di pace. Già, insistono ancora i nostri maligni, verrà però un momento, e probabilmente presto, in cui l’Unione Europea dovrà parlare di reciproca solidarietà anche nel deprecato caso di un conflitto. Può essere, ma finora non è prevista nessuna disposizione particolare. Resta in ogni caso stabilito che, soprattutto, ogni Parlamento nazionale è sovrano e che quindi chi decide, in Italia come altrove, è il Parlamento in piena libertà e autorità, essendo l’Unione Europea per ora semplicemente un corpo consultivo. Ma è comunque evidente che qualunque accordo si potesse sviluppare in avvenire in un organismo centrale europeo, dato il carattere democratico dei paesi partecipanti e la loro posizione europea, non potrà essere che una contro assicurazione di «assistenza difensiva» operante sotto certe condizioni determinate dai Parlamenti. Nessun pericolo che in questa solidarietà di popoli controllata dalle democrazie più libere e più popolari di Europa, si nasconda l’insidia alla pace e si covi l’aggressione, quali nelle passate guerre seppe prepararle la dittatura, dietro il suo sipario d’acciaio.
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Ho già avuto occasione, in varie lettere indirizzate al tuo Ministero, di manifestare il mio punto di vista sulla questione degli alto-atesini a suo tempo emigrati in Austria, che hanno presentato domande di riacquisto della cittadinanza italiana . Ad essi, come ben sai, il Governo austriaco aveva concesso sin dal 1945 un’equiparazione di fatto ai propri cittadini. Venne poi l’Accordo di Parigi, recante l’impegno per l’Italia di rivedere con spirito di grande equanimità il regime delle opzioni risultante dagli «accordi» del 1939; e venne la nostra legge per la revisione delle opzioni, riconosciuta internazionalmente, e dal Governo austriaco formalmente per mezzo di una sua delegazione nel novembre ’47 , come soluzione sotto ogni riguardo soddisfacente del problema. Mentre, assolto il proprio impegno nel campo legislativo, l’Italia continuava a darvi la più leale attuazione nella procedura d’esame e di decisione delle domande «riopzione» per la cittadinanza italiana, sopravvenne il fatto nuovo e inopinato coronamento di una lunga e intensa propaganda svolta in Austria da varie organizzazioni per favorire le riopzioni, il Governo austriaco deliberava il 2 novembre 1948 di privare dell’equiparazione ai cittadini austriaci loro accordata sin dal 1945 quanti non chiedessero di riacquistare la cittadinanza italiana. L’effetto della pubblicazione del deliberato, avvenuta il 27 novembre, è stato immediato e totale: posti di fronte alla prospettiva d’essere ridotti allo stato di apolidi, e conseguentemente di perdere le loro posizioni negli impieghi, nei commerci, nelle professioni, gli alto-atesini non hanno avuto più scelta: hanno rioptato. Negli ultimi due mesi utili, il ritmo della presentazione delle domande di riopzione è salito vertiginosamente, sino a comprendere la quasi totalità degli interessati. Tutto ciò è stato estesamente posto in evidenza nella perspicua interpellanza svolta l’11 s.m. dal senatore Bisori , il quale concludeva, sostanzialmente, con il suggerimento al Governo di considerare inficiate da vizio della volontà le domande presentate dopo il deliberato austriaco. In risposta all’interpellanza, il sottosegretario alla Presidenza, dopo aver riferito circa i passi già fatti senza alcun esito soddisfacente presso il Governo austriaco, rendeva noto che il Governo italiano aveva già fatto sapere a Vienna di riservarsi ogni opportuno provvedimento circa le riopzioni in questione. È mio avviso che, di fronte al deliberato austriaco del quale può essere forse messa in dubbio l’abilità ma non la scorrettezza politica, la posizione da noi presa debba essere mantenuta. Innocenti mi riferisce che in una riunione tenutasi ieri presso la Direzione generale degli affari politici del tuo Ministero sono state tracciate le linee per instaurare con il rispetto formale della legge, una procedura di trattazione delle domande di cui trattasi ispirata a finalità defatigatorie, in modo da procrastinare quanto più possibile la decisione e dar così tempo e motivo al Governo austriaco di rivedere in qualche modo il suo atteggiamento. Non escludo la convenienza della tattica proposta, ma ritengo desiderabile evitare in ogni modo che da parte austriaca ciò venga interpretato come un nostro ripiegamento su una posizione di acquiescenza che nulla giustificherebbe. Vengo informato che il ministro d’Austria a Roma chiederà prossimamente d’intrattenerti sull’argomento , vorrei pregarti, se, come credo, condividi il mio punto di vista, di tenerne conto per rafforzare nel rappresentante austriaco il convincimento che la riserva fin da noi espressa, e apertamente enunciata in Parlamento, sussiste in tutta la sua fondatezza e in tutte le sue possibilità di sviluppo, tra le quali non è da escludere quella di una integrazione della legge sulla revisione delle opzioni che tenga conto del grave turbamento portato nella materia dal deliberato viennese.
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L’on. De Gasperi intrattiene il ministro Evatt sulle possibilità e sulle prospettive della emigrazione italiana in Australia, comunicandogli che in mattinata, in un colloquio col ministro dell’interno e con l’ammiraglio Mentz , capo della delegazione IRO in Italia, era stato raggiunto un accordo per il transito attraverso l’Italia di circa 100 mila profughi provenienti dall’Europa e diretti verso l’Australia. L’ on. De Gasperi ricorda che l’accordo prevede una modesta aliquota di posti sulle navi noleggiate dall’IRO per gli emigranti diretti in Australia. Indi il colloquio si diffonde sulla emigrazione italiana in generale, ed il ministro Evatt si richiama, confermandola, alla dichiarazione di principio favorevole alla emigrazione italiana in Australia, da lui fatta al tempo della ratifica del trattato di pace. È anche questo un problema di trasporti, e lo Stato e gli armatori italiani dovranno aumentare le proprie possibilità. Venendo a parlare delle colonie, problema che – l’on. De Gasperi ricorda – va considerato anch’esso dal punto di vista dell’esuberanza delle forze di lavoro in Italia, il signor Evatt conviene che i rappresentanti dei governi laburisti sono chiamati in modo particolare a tenere in debito conto gli aspetti sociali del problema. A questo punto egli rileva l’opportunità che il presidente del Consiglio si rechi in America in occasione della sessione dell’ONU per le colonie, soggiungendo che un discorso del presidente, il cui ascendente è molto accresciuto in questi ultimi tempi negli Stati Uniti, sarebbe assai efficace. All’obiezione del presidente che sarà cioè per lui difficile in questo periodo assentarsi dall’Italia, Evatt risponde suggerendo che vi si rechi il ministro Sforza. Il colloquio, improntato a viva cordialità ed ispirato anche ai comuni ricordi personali della Conferenza della pace a Parigi nel 1946, si è protratto per circa mezz’ora .
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Oggi che il problema della politica estera del nostro Paese è più che mai all’ordine del giorno si sente parlare di neutralità. Bisognerebbe anzitutto osservare, e gli stessi esponenti balcanici lo hanno riconosciuto, che di neutralità non può parlarsi finché non ci sia uno stato di guerra. Finché quel momento non giunga, e noi ci auguriamo e fermamente operiamo affinché quel momento non abbia a giungere mai, non si può parlare di neutralità; ma se mai di equidistanza, di non adesione a questo o a quel patto economico, politico o strategico. Fino a quel momento il problema non è di neutralità o di non neutralità: è di guerra o di pace, di isolamento o di non isolamento. Ora tutti quanti siamo sinceramente democratici, siamo perfettamente convinti che il nostro Paese debba seguire una politica di pace. I democratici non aspettano il trionfo dei loro ideali di vittoria delle armi straniere; c’è in Italia un regime democratico e repubblicano: soltanto coloro che vorrebbero un regime diverso possono sperare nella guerra, e in una impossibile vittoria straniera per imporre al nostro Paese un regime che il 18 aprile, la grande maggioranza del popolo ha detto nettamente di non volere. D’altra parte chi, senza un fremito di orrore può oggi pensare, in Italia, all’eventualità di una guerra? Tutti abbiamo ancora nelle nostre carni, o in quelle dei nostri familiari, le tracce indelebili della guerra di ieri, come soldati o come partigiani, che abbiamo combattuto. Tutti ne subiamo le tragiche conseguenze: i disagi e le traversie di oggi sono la conseguenza della guerra di ieri. In nessun popolo, quindi, come nel nostro, in nessun momento, come nel presente, è mai stato più vivo e pressante l’amore per la pace. Come è già stato detto in altra occasione, noi non possiamo accettare fatalisticamente la tesi di quanti sentenziano di un conflitto inevitabile, a cui si debba giocoforza soggiacere. Appunto perché sentiamo l’angoscia del presente dramma del mondo, noi crediamo e siamo decisi fino all’ultimo minuto a credere, disperatamente credere, che la via della pace ancora sussista, siamo fino all’ultimo minuto decisi a fare qualsiasi sacrificio di interessi, qualsiasi sforzo allo scopo supremo della pace. Ma come perseguire la pace? Qualcuno risponde: con una politica di neutralità o di equidistanza. Da una parte rispondono così taluni che mascherano il loro bellicismo filosovietico con le parole di «pace» e di «neutralità». Le dichiarazioni di Pertini e Thorez e quelle più ambigue di Togliatti sono sufficienti a chiarire alla opinione pubblica quale sia la pace che questi signori perseguono. Quando alla Camera fu letto un brano della lettera di Stalin a Ivanov «l’esistenza di una Repubblica sovietica accanto ad un sistema di stati capitalistici è a lungo andare incompatibile: l’una o gli altri debbono trionfare e, prima che ciò avvenga, tutta una serie di urti spaventosi fra la Repubblica sovietica e gli Stati borghesi sarà inevitabile: ciò significa che l’aiuto scambievole del proletariato internazionale deve essere combinato con gli sforzi diretti a rinforzare la difesa del nostro Paese con la Armata rossa e la marina rossa», dai banchi del Fronte si levò un frenetico applauso: è stata la migliore prova che la mozione cosiddetta neutralistica dell’onorevole Nenni cercava, ancora una volta, come era già avvenuto per il 18 aprile, di mascherare al nostro popolo il vero scopo della sezione italiana del partito bolscevico e di coloro che pur non essendo affiliati, si lasciano guidare dalle sue direttive. Non è quindi il caso di prendere in considerazione questa pretesa politica di pace, che ormai si dimostra un neppure dissimulato tentativo di porre il popolo italiano a fianco dello schieramento militare bolscevico. Ci sono, invece, gli altri che sinceramente ma più ingenuamente, credevano veramente in tal modo di servire la volontà del nostro paese, parlano di equidistanza. Come possono costoro seriamente pensare a una Italia isolata dal mondo e lasciata tranquilla, nel caso deprecato di una conflagrazione? Non valgono per noi gli esempi della Svizzera e della Svezia. Il bilancio militare svizzero supera quello dell’Italia, se alle spese da noi sostenute per la difesa si detraggono i miliardi che nulla hanno a che fare con la conservazione delle forze armate vere e proprie. E la Svizzera è, per superficie e per popolazione, un decimo del nostro Paese, dispone di un piano di emergenza che, non si svela nessun segreto, prevede l’accantonamento di tutti i mezzi difensivi nel massiccio centrale, trasformato da decenni, con industria ammirevole e spese notevoli in una grande fortezza. Chi voglia attaccare questa fortezza sa che dovrà spendere uomini e tempo e sa che, il giorno in cui avrà superato tutte le resistenze, gli svizzeri potranno sempre far saltare in aria le vie di comunicazione principali, rendendole inservibili. La nostra posizione è ben diversa, inoltre, da quella della Svezia, che ha disponibilità di acciaio e di legname e disponibilità, soprattutto, di un milione di uomini armati modernamente: forze sufficienti, se si tiene conto delle frontiere terrestri e marittime meglio difendibili delle nostre, sufficienti non ad impedire, ma a rendere difficile e costosa l’eventuale avanzata di un invasore. Senza contare che fra la Svezia e l’Unione Sovietica c’è la situazione finlandese, che mentre è calma in condizione di pace, cesserebbe di esserlo assai probabilmente, qualora tali condizioni venissero a cambiare. La Norvegia, in condizioni migliori delle nostre, perché meglio difesa dalla natura alle sue frontiere orientali, ha dato l’esempio di comprendere realisticamente le esigenze della situazione. È così a quanto si riferisce anche la Danimarca, che si trova ad una situazione simile alla nostra. Non vorremmo, comunque, ripetere quello che è stato già sufficientemente detto e scritto ma bisogna ribadire che una neutralità non può concepirsi se non è armata. L’Italia nel ’39 avrebbe, probabilmente, potuto restare neutrale e fu grave errore politico oltre che morale, non avere seguito quella via. Ma l’Italia di oggi quali frontiere, quali armamenti può opporre a difesa della sua neutralità? O forse c’è qualcuno che si illude che la pace del nostro popolo sia rispettata da tutte le grandi potenze? Non vi è che un solo modo per salvare la pace del nostro popolo: non isolarsi, collaborare a quella politica attiva di pace, di difesa della democrazia, della libertà dei popoli, che vanno facendo i paesi dell’America e dell’Occidente europeo. La storia ha dimostrato che la seconda guerra mondiale non è stata provocata soltanto dal folle sogno egemonico di Hitler, ma anche da una serie di errori di debolezze, incertezze di cui dettero prova le democrazie occidentali dal 1933 al 1938. I popoli plaudirono allora a Chamberlain , definito messaggero volante di pace; non comprendevano che le debolezze di Monaco contribuivano a rendere sempre più ineluttabile una guerra di gravi ed immani proporzioni. Oggi, che, grazie a Dio, ci sono sul piano internazionale, dei Truman e dei Bevin, sinceramente democratici e tenaci assertori del progresso sociale, ma anche altrettanto convinti che la pace si conquista e si difende con forza ed energia e non con incertezze e bizantinismi, oggi il popolo italiano non vuole per quanto lo riguarda, ripetere le tragiche esperienze di ieri. Il popolo italiano vuole, sinceramente vuole la pace: appunto per questo non intende rimanere isolato e inerme: non vuole che la sua terra sia preda del primo occupante né che i suoi giovani vengano arruolati, come ieri, dai nazisti, per andare lontano dalla patria, al servizio di nuovi totalitarismi .
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Riferisce sull’amministrazione fiduciaria in Somalia . Fa presente che gli inglesi insistono e vorrebbero che i loro presidi fossero tutti sostituiti da altrettante truppe italiane. Crede che nel caso si verificassero incidenti appena arrivate le truppe italiane e mentre la Commissione dell’ONU compie ancora le sue indagini in Eritrea, potrebbero derivarne danni per noi. È necessario, pertanto, usare prudenza anche per quanto riguarda l’entità delle forze da inviare. Ha presentato un memoriale all’ambasciatore Mallet. Verranno inviati 3.000 uomini ed arruolati gli indigeni come un tempo. Come commissario straordinario si è pensato a Nasi che non è mal visto dall’Etiopia e dagli inglesi. Egli gli affiderebbe l’incarico per sei mesi, sostituendolo poi con un civile da scegliersi. [Seguono gli interventi dei ministri Pacciardi, contrario a recarsi in Somalia in una posizione di debolezza per il timore di agitazioni nazionalistiche appoggiate da potenze ostili (anche a fronte dei 25 presidi, con oltre 6.000 uomini, stanziati dagli inglesi) e Pella, che prende parola sugli eventuali finanziamenti del Ministero del Tesoro]. Le ragioni delle due tesi non vanno considerate sotto il profilo dell’economia di bilancio. Sarebbe sommamente imprudente se, pur vedendo prospettive di pericolo, accedesse alle soluzioni più restrittive per semplici motivi di risparmio. Tuttavia non può fare questione di prestigio delle armi italiane; si deve soltanto amministrare ed evitare tutti i possibili incidenti. Il Ministero degli Esteri condivide questa impostazione della questione. [Segue un’interruzione di Pacciardi: «lo Stato Maggiore ritiene la forza di 5.000 uomini come il minimo indispensabile»]. Fa presente che lo Stato Maggiore aveva previsto anche l’invio di reparti della Marina e dell’Aeronautica mentre nella specie trattasi soltanto di amministrazione fiduciaria e non di occupazione. [Seguono gli interventi di Gonella e di Scelba, per il quale si tratta di inviare non corpi dell’esercito, ma forze di polizia]. È il governo che deve decidere. Ed anche i tecnici non sono concordi. Le cifre sono relative. Se dobbiamo prevedere incidenti gravi 3.000 o 5.000 uomini non portano grande differenza. E non è opportuno estromettere subito gli inglesi che forse potrebbero giovarci. D’altra parte se rifiutassimo di andare? Saremmo esclusi per sempre dall’Africa. Quanto minori sono le nostre forze altrettanto minori sono i pericoli di guerra. Nasi è concorde su questa impostazione. Il 16 gennaio p.v. dovremmo sbarcare a Mogadiscio, nonostante che soltanto il 9 gennaio cominci la discussione per lo Statuto dell’Amministrazione fiduciaria. Ci devono concedere il tempo necessario per permetterci di fare gli arruolamenti delle truppe di colore. Non sottovaluta le obiezioni di Scelba per quanto riguarda il generale Nasi. Propone di nominarlo senza pubblicare la sua nomina: nel frattempo si saggerà l’opinione inglese. […] Pensa che, ove possibile, sarebbe opportuno differire la partenza del contingente di truppe, tanto più che il Negus ha chiesto la sospensione della deliberazione relativa al mandato fiduciario e bisogna che l’ONU faccia conoscere le sue decisioni in proposito. […] Insisterà per regolare le partenze in base alle decisioni che verranno adottate dalla Commissione di tutela per lo Statuto. Bisogna soprassedere dal dare ogni ordine di partenza. Spera intanto di avere subito il consenso inglese per l’invio di una commissione per gli arruolamenti .
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Molti di voi avete già letto o avrete tra poco modo di leggere il testo del così detto «Patto atlantico» quale è proposto dai sette Stati promotori. Patto di guerra o di pace? Giudicatelo voi, col vostro buon senso. È già detto nel preambolo che gli Stati contraenti sono decisi «a salvaguardare la libertà, il comune retaggio e la civiltà dei loro popoli basati sui principi di democrazia, libertà individuale e autorità della legge e a unire i propri sforzi per la difesa collettiva e la preservazione della pace e della sicurezza». E qui gli avversari grideranno: chiacchiere e ciurmerie! È facile lanciare una tale accusa, ma è difficile sostenerla contro popoli che sono i più liberi d’Europa e d’America: e contro governi che sono sotto il controllo dei parlamenti, dell’opinione pubblica e dei sindacati operai. Sissignori, sindacati operai perché un numero notevole di questi governanti provengono appunto dalle classi operaie, anzi dallo steso socialismo e sono stati sostenuti dai sindacati. E badate, sono popoli che hanno da sperare nella pace e tutto da perdere in una guerra. Questi popoli (come dice l’art. 2 del Patto) vogliono consolidare la democrazia e le libere istituzioni; ma si impegnano a farlo aiutandosi l’un l’altro economicamente ed eliminando i conflitti economici e politici. È per tutelare questa libertà di progresso nel lavoro e nella pace che essi intendono unirsi anche nella difesa armata contro un eventuale attacco. Dunque interrompono qui gli avversari: «Patto di guerra?» No. Patto di difesa, patto di pace. Se nessuno attacca la pace è sicura. Si dice ancora: ma nessuno ha il proposito di attaccare. Bene, rispondo io, tanto meglio! Ma se qualcuno celasse nel fondo del cervello un piano di aggressione, questo patto di difesa scaccerà tutte le tentazioni. Perché l’art. 5 avverte: L’attacco contro uno è attacco contro tutti e tutti devono mettere insieme le forze per respingere l’attacco. Anche qui si obietta: non ci sarà il pericolo che qualche consocio interessato inventi od esageri un qualsiasi incidente di frontiera, provocando così, sotto pretesti di difesa, una conflagrazione generale? No, il pericolo non c’è, perché l’intervento non è automatico; cioè, anche in caso di denunziato attacco, non si spara subito, ma prima che si intervenga, il Parlamento sarà convocato per decidere se sussista o non sussista l’attacco e quindi l’obbligo di intervento. Così è stabilito all’art. 11, ove si fa riserva delle norme costituzionali di ciascun paese, ma questa è anche l’interpretazione che danno dell’art. 5 tutti i sette Stati proponenti; e per escludere ogni dubbio, il Governo italiano è stato autorizzato a precisare che l’intervento immediato e automatico non è previsto, sia per rispettare le prerogative del Parlamento, sia con riferimento al caso che possa essere nell’interesse di tutti di esonerare un paese dall’intervento, fino a tanto che esso stesso non sia direttamente attaccato. Si organizzerà naturalmente un consiglio direttivo comune nel quale sarà rappresentata come è ovvio anche l’Italia e si creeranno dei Comitati tecnici speciali. È chiaro che questo Patto è generico e che poi si dovrà venire a misure concrete per rafforzare i mezzi di difesa e per organizzare un piano di assistenza per il caso di attacchi. Già in questo progetto però vengono fissate due direttive autolimitatrici come ulteriori garanzie di pace: 1) il Patto dovrà agire nel quadro delle Nazioni Unite; 2) i suoi obblighi non dovranno essere in contrasto con impegni assunti dalle parti in trattati precedenti. Credo che quando riflettiate sopra i termini dello schema che ora viene reso pubblico, vi persuaderete subito che esso è uno strumento prudente e pacifico, messo in mano a uomini controllati da popoli liberi e maturi e che hanno attraversato una lunga e spaventosa esperienza di guerra. Se l’attacco non viene dal di fuori, la pace è sicura. A ragione quindi e in piena coscienza la Camera ha oggi votato una adesione di massima. Non è entrata in particolari, perché il Governo stesso ha appena ricevuto oggi il testo dello schema. Nei prossimi giorni si discuterà a Washington e poi se il trattato apparirà accettabile senza o con modificazioni, il Governo lo sottoporrà alle Camere per l’approvazione definitiva. Non vi pare che si agisca con misura e cautela? Ogni decisione a questo mondo ha il suo pro e il suo contro. Ma fate un po’ la controprova. Supponete che noi ne restassimo fuori. Con ciò anzitutto noi ci metteremmo fuori con nostro grave danno dallo sforzo comune per il progresso economico e democratico che il patto si propone. E poi: se davvero un triste giorno il malaugurato attacco avvenisse su qualche fronte, vicino o lontano, e ne derivasse, com’è fatale, una guerra europea, credete voi che l’Italia, oggetto di contrasti in tanti secoli per la sua posizione dominante in un grande mare, potrebbe cavarsela questa volta con una formuletta di sospetta neutralità? Ed infine anche se guerra – come speriamo fortemente – non venisse, cosa accadrebbe di questo Paese abbandonato, inerme, senza materie prime in un mondo in cui tutti i grandi Paesi hanno fatto la loro scelta? Amici e avversari, tutto pesato, tutto considerato, abbiamo assunto innanzi al Paese e alla storia una responsabilità grave, ma abbiamo la convinzione sicura che il popolo tutto – badate anche chi non condivide il nostro pensiero – capisce che l’abbiamo fatto per il suo avvenire e per la sua salvezza.
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Risultato Senato soddisfacente ma molto laborioso . Anche i favorevoli come Gasparotto ci accusano di atteggiamento polemico contro URS.S. Motivazione filorussa Torretta viene sfruttata avversari. Richiamo tua attenzione su proposta socialista circa patto di non aggressione con orientali. Sventai insidia dichiarandomi favorevole tendenzialmente ma solo dopo nostra ammissione ONU. Polemica furiosa specie contro art. 4 per ingerenza straniera. Opposizione insistette su basi e istallazioni militari da non concedersi qualora Italia non sia belligerante. Sarebbe un successo se tuo intervento portasse modificazioni o almeno accertamenti interpretativi su automatismo, eventuale non belligeranza, basi e sopra tutto distensione Russia. Proclamazione fatta ieri sera da Scoccimarro di nuova guerra liberazione esige nostra armata vigilanza. Felicitandomi successo Parigi invio migliori auguri .
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Comprendo che non si possono introdurre mutamenti nelle formulazioni ma mi affido alla tua abilità, affinché non si abbia impressione di una nostra muta accessione globale. Sono certo che troverai modo di dare ad adesione impronta nostra dignità e consapevolezza di questioni interpretative sollevate. Reazione pubblica si mantiene ottima ma bisogna premunirsi per altre battaglie e ogni particolare esecutivo corona la nostra vittoria. Eden in colloquio con me ieri caldeggiava per Tripolitania proposta Unione Europea. Ricevo in questo momento telegramma colloquio assai soddisfacente.
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Odierno Consiglio dei ministri espresse riconoscimento e plauso per tuoi interventi Patto atlantico. Circa colonie comprende difficoltà che sono valutate anche da opinione pubblica ed è certo che tu farai ogni sforzo per evitare o almeno rinviare soluzione psicologicamente incomprensibile Eritrea. Confido molto nel tuo personale intervento Assemblea.
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Seguo intenso lavoro costà e apprezzo la tua opera. Suggerirei prolungamento tua permanenza costà oltre termine fissato se ciò può contribuire ad evitare soluzione prospettata Eritrea che qui ha suscitato reazione assai sfavorevole e agevolare soluzioni più favorevoli altre zone. Cordialità auguri.
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Il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi ha oggi annunciato che l’Italia ha proposto una nuova soluzione per il problema dell’amministrazione delle sue ex colonie e che le nuove proposte sono attualmente all’esame dei diplomatici riuniti negli Stati Uniti per la riunione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Essenzialmente le proposte italiane sono le seguenti: 1)Creazione di un’amministrazione fiduciaria tripartita sotto il controllo delle Nazioni Unite per tutta la Libia, affidando l’amministrazione della Tripolitania all’Italia, quella della Cirenaica alla Gran Bretagna e quella del Fezzan alla Francia. L’unità della Libia verrebbe tuttavia mantenuta in modo da poter eventualmente trasferire tutta la zona ad un governo arabo indipendente e unico quando le Nazioni Unite stabilissero che ne fosse giunto il momento. 2)Costituzione di una commissione per la ricerca di una soluzione di compromesso per l’amministrazione fiduciaria dell’Eritrea. Questa commissione dovrebbe comprendere l’Italia, l’Etiopia e quelle potenze occidentali, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che sono interessate a partecipare alle consultazioni. Una possibile soluzione potrebbe essere quella di una amministrazione fiduciaria mista sull’Eritrea da parte dell’Italia e dell’Etiopia. 3)La Somalia italiana, considerata d’importanza assai minore delle altre ex colonie, dovrebbe essere affidata all’amministrazione fiduciaria dell’Italia, come già è stato raccomandato alle Nazioni Unite dalle potenze occidentali. Il presidente del Consiglio De Gasperi ha detto che, secondo il parere degli esperti, malgrado che l’Italia non sia stata ammessa alle Nazioni Unite in seguito all’opposizione sovietica, essa può ugualmente essere considerata come legalmente avente diritto ad assumere la responsabilità di una amministrazione fiduciaria sotto il controllo di tale organismo. Discutendo il futuro del passato impero del suo paese, problema oggi esaminato a Lake Success, il presidente del Consiglio ha affermato che l’Italia si rende perfettamente conto dell’esistenza nel trattato di pace di una clausola che stabilisce che il governo italiano non potrà riacquistare la propria sovranità sopra le colonie, ma ha ribadito il suo pensiero che ciò non significa che l’Italia debba essere esclusa dal processo di incivilimento sulla base del sistema di amministrazione fiduciaria indicato nella Carta delle Nazioni Unite. Egli ha detto: «Io non posso naturalmente respingere il trattato. Tuttavia l’Italia, come gli altri paesi europei, ha il dovere culturale di contribuire al miglioramento delle zone arretrate». Il presidente del Consiglio De Gasperi ha detto che l’Italia crede che la Gran Bretagna, per ragioni strategiche, sia alla testa di coloro che tentano di escludere l’Italia da una anche minima partecipazione all’amministrazione futura della Libia, la quale è stata il gioiello dell’impero italiano, e ha affermato che i presupposti strategici sono divenuti del tutto evidenti per la prima volta nel corso della Conferenza della pace di Parigi nel 1946. Egli ha aggiunto: «Noi ci rendiamo conto delle preoccupazioni strategiche della Gran Bretagna, e, se Londra insiste sui suoi preminenti diritti in Cirenaica, noi possiamo riconoscerne la necessità. Tuttavia, non si deve dimenticare che gli arabi desiderano mantenere l’unità della Libia. È certamente possibile raggiungere un compromesso tra questi punti di vista. La Francia ha un grande interesse al Fezzan. Se la Gran Bretagna amministrasse la Cirenaica come se fosse una provincia della Libia, la Francia amministrasse il Fezzan allo stesso modo e così pure facesse l’Italia per la Tripolitania, i timori strategici di Londra verrebbero superati e nello stesso tempo l’unità della Libia sarebbe mantenuta fino al momento in cui fosse possibile la costituzione di un governo arabo. Una tale proposta potrebbe conciliare i timori strategici della Gran Bretagna con le aspirazioni dell’Italia a partecipare allo sviluppo della civiltà africana. La durata di una tale amministrazione tripartita dovrebbe essere fissata in base a considerazioni pratiche da parte delle Nazioni Unite». Il presidente del Consiglio De Gasperi ha aggiunto di essere sicuro che l’Italia non farebbe obiezioni ad assicurare agli Stati Uniti la costituzione di una base strategica nella provincia della Tripolitania posta sotto la sua amministrazione fiduciaria, purché non vi fossero obiezioni da parte delle Nazioni Unite. Cercando di analizzare i tentativi britannici di impedire l’amministrazione fiduciaria in Tripolitania, il presidente del Consiglio De Gasperi ha detto che è perfettamente comprensibile che la Gran Bretagna non dimentichi i giorni di el Alamein e l’attacco portato contro Alessandria dall’Africa settentrionale italiana. Egli ha aggiunto: «Se tuttavia voi pensate che l’Italia collabora ora pienamente con l’occidente, questo attacco non ha possibilità di ripetersi. Da quando l’Italia è stata ammessa a cooperare al Patto atlantico, la sua posizione è divenuta completamente chiara. Non ci si può considerare alleati e al tempo stesso temere una nostra posizione amministrativa in Tripolitania. Comprendo l’amarezza britannica per la cattiva esperienza passata. Ma occorre volger gli occhi al presente e al futuro. Se l’Italia è veramente un baluardo della civiltà occidentale, così come essa è considerata nel Patto atlantico, non è forse meglio rafforzarla che indebolirla? Evidentemente non vi è che una sola risposta».
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Mia conversazione Sulzberger , raccomandata ambasciata americana, non intese formulare proposte precise né alcun testo mi fu sottoposto a revisione. È vero però che nel colloquio accennai possibilità soluzione tripartita Libia e a cooperazione in Eritrea anche con Etiopia, idee non nuove e variamente discusse che non possono turbare negoziati ufficiali.
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Nel rispetto della libera discussione democratica, il Governo italiano risponde agli attacchi mossi da taluno che, non senza malafede ed inganno, gli fanno carico della difficile situazione delle colonie e del peso dei trattati. Essi dimenticano, e noi qui glielo ricordiamo, che gli ostacoli dinanzi ai quali ci troviamo, anche per quel che concerne i diritti dell’Italia sulle sue ex colonie, sono in parte le conseguenze di una politica che noi abbiamo sconfessata e combattuta per venti anni. Ciò detto, il sentimento e la volontà del Governo circa la base della questione concordano pienamente col sentimento del popolo italiano. Sarebbe ingiusto far colpa all’Italia di un comportamento che fu proprio di un regime di cui la nostra democrazia rappresenta risolutamente l’antitesi. Noi comprendiamo che certi ricordi della guerra abbiano potuto giustificare per qualche tempo una certa diffidenza nei nostri confronti. Ma noi chiediamo che, in cambio, si comprenda alfine che questa diffidenza non è punto giustificata poiché la nostra adesione al Patto atlantico e la nostra qualità di alleati corrispondono chiaramente alle nostre inclinazioni. Noi chiediamo, infine, che si comprenda, altresì, l’angoscia che prova il popolo italiano allorché pensa che gli si minaccia, addirittura, la perdita dell’Eritrea, la primogenita delle sue colonie, la terra d’oltremare in cui esso ha portato lo spirito dell’Occidente e non quello del fascismo.
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Opinione pubblica sarà certamente dolorosamente colpita da soluzione Eritrea. È perciò essenziale che impossibilità rinvio risulti evidente, e che nella presentazione appaia ineluttabile subire il compromesso per evitare perdita anche Tripolitania e risulti garantita con ogni possibile impegno la certezza del nostro ritorno in questo territorio.
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De Gasperi 1999, pp. 20-23. Nella rivista «Europa» del 25 aprile 1949 è riportato il testo integrale corretto. È mio dovere esprimere un ringraziamento ed una parola di riconoscimento e di gratitudine verso coloro che hanno partecipato alla Conferenza Economica di Westminster . Vi saranno state delle deficienze nella nostra opera, come in tutte le opere umane, collettive, associative, parlamentari ecc., ma questi non sono che i primi passi per sviluppare le nostre forze e la nostra preparazione nella attività federativa extra statale. Ciò che più conta è la fede nel successo dell’idea: non dobbiamo essere scettici né troppo critici. Tutte le cose cominciano un po’ zoppicando, ma poi si mettono a posto, si irrobustiscono e trovano la strada facile e diritta per raggiungere dei risultati. Questo è il cammino dell’umanità non soltanto nella vita individuale, ma nell’opera sociale. Ora io ringrazio i membri della Commissione tanto più che so come abbiano dovuto un po’ improvvisare la loro partecipazione; tuttavia, nonostante queste improvvisazioni, sono riusciti a portare un utile contributo ed a rappresentare degnamente la nostra nazione. Vorrei quindi che la mia parola segnasse incoraggiamento a continuare sulla stessa strada. La seconda raccomandazione che vorrei fare è questa: cercare l’accordo e il coordinamento dei movimenti unionisti, federalisti ecc. Si è cominciato con un gruppo federalista che direi l’antesignano in questo movimento generale, bisogna riconoscerlo; poi sono venute le adesioni degli altri più o meno convertiti, così che queste forze, in fondo, vogliono tutte raggiungere la stessa meta finale. Di questa associazione europea, federazione o unione comunque di stati, attività insomma europea, che diventa una meta non più nei sogni ma una meta più o meno rapidamente raggiungibile, non so quanto la nostra generazione potrà realizzare; ma è certo che si cammina verso di essa. E questa meta è una fatalità, è una necessità inevitabile ormai matura nei tempi e a cui bisogna soggiacere, né più né meno come si maturano nuove concezioni e soluzioni che si impongono nel problema coloniale, nel problema della evoluzione dei popoli indigeni, nel problema della valorizzazione dell’Africa, ecc. Bisogna avere gli occhi aperti, vedere le maturazioni e le fermentazioni che avvengono anche fuori di quelle che sono le formule a cui ci legavano le nostre condizioni passate. Quindi io vorrei raccomandare un certo sforzo di coordinamento in queste attività rappresentative, affinché di fronte all’estero possiamo veramente farci valere. Dirò inoltre che se c’è un movimento che corrisponda ai nostri interessi è proprio questo che prepara il campo di dilatazione del popolo italiano, perché entro i confini non ci stiamo. Dobbiamo assolutamente andar fuori. Ora, siccome non è più il tempo in cui si poteva andare con [de]gli eserciti verso le conquiste od a combattere delle crociate, bisogna pure adottare l’altro sistema: quello del lavoro e della cooperazione tecnica e intellettuale. Bisogna prepararsi con uno spirito non egoistico, poiché forse non noi ne coglieremo il frutto; prepararsi con la visione dell’interesse dei nostri figli, delle necessità avvenire del nostro popolo. E allora la dilatazione, nel campo del lavoro soprattutto, diventa per noi un programma di politica sociale del quale non possiamo distinguere, staccare, il concetto nostro politico generico. Quando parliamo di pace, in fondo non parliamo che di questo, cioè di cooperazione nel lavoro; quando diciamo pace intendiamo cioè dire lavoro, quando diciamo collaborazione europea intendiamo dire soprattutto collaborazione economica. [Questo, mi pare, è chiaro come il sole] . Ma qui sorge sempre la questione: noi italiani dobbiamo prepararci meglio di quanto abbiamo fatto finora, e cioè, in tutte le iniziative che prenderete, voi ad esempio che siete in questo benemerito Istituto , non dovrete aspettare la spinta del governo, che fra l’altro è più o meno assorbito da compiti diversi. Bisogna che le iniziative associative e i privati lo aiutino. Il Governo a sua volta ha il dovere di dare il suo contributo. Bisogna che sorgano queste volontà di operare sul piano superiore, nel campo più largo dell’Europa. Quindi bene vengano queste iniziative; questo tentativo di dilatazione, di preparazione soprattutto, è da lodarsi, è degno di appoggio. Dobbiamo intanto incominciare a parlare più lingue in Italia. Questa è una necessità fra le altre. Guardate gli operai che sono partiti, i profughi che sono passati a milioni, i centomila profughi che transitano per l’Italia per andare in Australia e che appartengono a tutte le nazioni del mondo; essi fanno durante il viaggio e durante la loro permanenza in Italia, il loro catechismo linguistico. I Governi lo desiderano. Questo significa che nella nostra preparazione generale, non possiamo agire alla leggera. Le organizzazioni associative soccorrano l’individuo, lo preparino e preparino dunque quelle scuole di perfezionamento che già ci sono e che vanno ulteriormente sviluppate; preparino il ceto medio, il ceto colto. Abbiamo il grande proletariato intellettuale che ha bisogno di espansione, altrimenti non si respirerà più in Italia con tutti i dottori che non hanno niente da insegnare e niente da curare. Evidentemente abbiamo bisogno di questa preparazione ad una attività d’oltre mare, d’oltre confine e guarderei con questo sentimento proprio in senso inverso di quello che guardava il fascismo, il quale credeva di dover concentrare la forza d’Italia per poi farla scoppiare ad un certo momento. Io non credo alla utilità di questo scoppio, e noi ne abbiamo avuto la prova. Non credo a questo sistema ma credo alla penetrazione del lavoro e della cultura, e mi auguro che si possa realizzare una opportuna preparazione così che quando sarà possibile sciamare, chi parte e chi resta si sentirà unito nei rispettivi e pur diversi compiti di un comune lavoro. Questo è l’«impero» italiano, come in certo senso esiste nell’America Latina, senza armi, senza prepotenza e senza sopraffazione, che può diventare veramente strumento di diffusione della civiltà italiana e latina. Questo dico anche per tentare i giovani perché non si ostinino a guardare i metodi del passato e nel loro ardore di vedere qualche cosa di nuovo, di dinamico, alzino un po’ gli sguardi, direi, sollevino il proiettore, guardino un po’ più in là perché il mondo è vasto e grande, ma è necessario presentarsi in atteggiamenti spirituali diversi. Oggi l’imperialismo, se vogliamo servirci di questa parola, è l’imperialismo del lavoro e della cultura. [Concludo ringraziandovi, dopo essermi permesso di farvi questa raccomandazione. Esprimo inoltre il dispiacere di non poter assistere a tutte le relazioni, ma mi farò riferire dall’amico Togni . Esprimo infine l’augurio che questo Convegno sia uno di quelli preparatori per la grande Conferenza dell’anno prossimo dove, speriamo di poter dare il nostro contributo diretto nella partecipazione al Congresso e soprattutto di offrire l’esempio di un popolo che lavora, che ha la speranza di riuscire e soprattutto la volontà e il diritto di riuscire] .
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L’onorevole De Gasperi fa la storia dello sforzo fatto dall’Italia nelle conferenze internazionali per salvare Trieste dopo che il modo in cui venne eseguita l’occupazione militare aveva compromesso tutta la questione della Venezia Giulia. A parte l’incomprensione delle Autorità militari, ha certo nuociuto anche il fatto che Tito aveva tentato la sua occupazione fino all’Isonzo nella speranza di trovare la solidarietà nel PCI. È da questo momento che si rivela la concezione politica internazionale diversa tra PCI e gli altri partiti nazionali. Efficace riesce l’oratore soprattutto quando descrive l’azione sviluppata per opera della diplomazia nelle conferenze della pace per dimostrare che si era dinnanzi a una nuova Italia oramai assicurata dal sistema democratico. Proseguendo il suo discorso, l’onorevole De Gasperi fa le seguenti dichiarazioni formali .
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Caro Ministro Zellerbach , 1. In risposta al memorandum dei Suoi collaboratori, Mr. Dayton e Barnett e Mr. Kamarck e Paxson, le trasmetto a parte una nota degli uffici ERP Italiani. Di fronte a Lei però consenta che io assuma direttamente la responsabilità di formulare in modo più preciso le osservazioni che Le ho già fatto a voce. 2. La disoccupazione, in proporzioni superiori a quelle congiunturali, rappresenta per l’Italia il pericolo sociale e politico più grave. È perciò esigenza suprema e pressante del Governo Italiano che si attui il programma di investimenti concordato per l’utilizzo del Fondo Lire ERP il più rapidamente possibile. 3. Ora accade invece che il programma di utilizzo del Fondo Lire, formatosi con gli aiuti 1948/49, predisposto dal Governo Italiano nel luglio 1948 ed approvato in via di massima dall’ECA nel novembre 1948 (programma che in origine prevedeva l’impiego di 250 miliardi) è ancora in grandissima parte in discussione e quindi si può dire nemmeno iniziato. Sui 250 miliardi di utilizzo approvati, in linea di massima, nel novembre 1948 solo 16 miliardi sono stati resi spendibili a tutto giugno 1949 (oltre i 70 miliardi di rimborsi al Tesoro per spese già stanziate in bilancio per la ricostruzione ferroviaria). 4. Ciò ha significato che durante il 1948-49 sono stati eseguiti meno lavori pubblici che nell’anno precedente; che nessun incentivo diretto o indiretto si è dato alle attività produttive e che, di conseguenza, la disoccupazione non ha trovato nell’attività del Governo mezzi adeguati per combatterla. 5. Quali sono le cause? Si risponderà che fra le cause meritano rilievo il ritardo nella trattazione parlamentare dei singoli disegni di legge che prevedono l’utilizzo del Fondo Lire; e qualche collaboratore dell’ECA parlerà della insufficienza di alcuni dicasteri italiani. Inutile discutere su tali cause. La trattazione parlamentare è un obbligo costituzionale del Governo, che d’altronde spera l’esperienza possa indicargli i mezzi per renderla più rapida in futuro; e a ciò si è in gran parte provveduto, per l’anno prossimo. Siamo grati anche all’ECA di ogni suggerimento che tenda ad accelerare il ritmo di lavoro dei nostri uffici. 6. Ma cifre e date dimostrano che più gravi e ulteriori ritardi derivano dalla procedura seguita nella approvazione dei singoli utilizzi da parte dell’ECA. Fin da principio non si è mancato di rilevare che la procedura si presentava troppo macchinosa e lenta, in quanto oltre all’approvazione generica del programma, articolato nei suoi vari settori, essa – quale si è venuta attuando nei nostri riguardi – esige l’approvazione di ogni specifico progetto di investimenti, quindi dei singoli lavori, impianti, ed opere. Si prenda ad esempio il settore dell’agricoltura. Il programma, per il primo anno di complessivi settanta miliardi, di cui 39 miliardi per bonifiche, 12 miliardi per miglioramenti agrari e 19 miliardi per altre opere minori, venne approvato, di massima, nel novembre 1948. In realtà a tutt’oggi sono state autorizzate opere per soli 13,5 miliardi, ed in data recentissima. E ciò perché ogni singolo progetto di bonifica viene sottoposto a sopraluoghi, e revisioni tecniche e quindi, munito del parere della Missione, deve essere trasmesso a Washington, che deve, a sua volta, comunicare la sua approvazione. Tutto ciò prima di autorizzare la spesa. Questo spiega perché a fronte di progetti specifici di bonifica, già presentati per un importo di 31 miliardi, le autorizzazioni definitive all’impiego dei fondi pervenute, al 30 giugno, ammontano solo a 13,5 miliardi. Riconosciamo volentieri l’eccellenza dei tecnici americani, ma il compito che si pretenderebbe da essi di riesaminare e di rivedere rapidamente i singoli progetti predisposti da 90 uffici compartimentali italiani dell’agricoltura è assolutamente inattuabile. E ciò tanto più se, oltre ai lavori di bonifica, tale esame si vorrà applicare anche ai cosidetti contributi di miglioramento agrario che si contano a migliaia. 7. Lo stesso dicasi del programma dei Lavori Pubblici. La Legge italiana con savio decentramento stabilisce che solo i lavori i quali superino i 30 milioni vengano approvati dall’Amministrazione centrale; tutti gli altri sono di competenza dei Provveditorati regionali delle Opere pubbliche. È inutile domandarsi quale ritardo avremo se anche queste modeste opere dovranno ottenere singolarmente l’approvazione dell’ECA di Roma e dell’ECA di Washington. 8. Né meno significativo è l’esempio dei corsi di riqualificazione e dei cantieri di rimboschimento per i quali il provvedimento, approvato dalle Camere, non può avere inizio di esecuzione nonostante l’aspettativa che lo circonda. Tale programma, dopo un esame diretto con il Ministero del Lavoro, iniziatosi nell’autunno scorso, durante il quale gli uffici ed il Ministro personalmente hanno fornito tutti gli elementi richiesti, fra i quali gli elenchi analitici dei corsi e la loro distribuzione geografica, non solo non è approvato, ma alla fine di giugno, mentre le pressioni da tutte le parti per la sua esecuzione si fanno gravissime, la missione continua a predisporre questionari. 9. Questi sono soltanto gli esempi più appariscenti di una procedura di assai difficile attuazione, procedura che d’altronde non si segue né in Francia, né in Inghilterra, né è prevista, in questi termini, dall’Accordo bilaterale di cooperazione economica del 28 giugno 1948. Caro Ministro, io Le scrivo con tutta franchezza, perché il governo da me presieduto, è responsabile di fronte al Parlamento e all’opinione pubblica di tali ritardi ed esso, grato agli Stati Uniti per il contributo prezioso del Piano ERP, non vorrebbe certo scaricarsi di tutte le responsabilità, coll’addossarla, nemmeno in parte, sugli organi del Governo Americano, dei quali riconosce gli amichevoli propositi e la validità della collaborazione. Del resto una polemica sulle responsabilità dei ritardi non gioverebbe certo alla causa comune, che è causa di civiltà e di democrazia. Conviene quindi, caro Zellerbach, che Ella stessa, nei modi che crederà opportuni, affronti presso l’ECA tale questione nei termini seguenti: in quale modo possiamo semplificare e abbreviare la procedura dell’approvazione e del controllo? Se il presidente Hoffman verrà a Roma, spero di avere occasione di parlargliene personalmente, ed ho fiducia che si arriverà, coll’amichevole collaborazione Sua e dei Suoi cooperatori, ad una soluzione rapida e soddisfacente. Mi creda frattanto con grata amicizia
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Per dottor Marini. Trasmettete ministro Tremelloni seguente telegramma. Come saprai ho ottenuto che Hoffman passi per Venezia per poterlo incontrare. Intendo insistere su nostre proposte per quota minima e per abbreviata procedura utilizzo fondo lire. Qualora tu non ritenga di vederlo Roma o abbia già fatto per tuo conto tutte le premure opportune potresti forse trovarti giorno 17 Venezia ma non insisto rimettendomi a te per la soluzione per te meno gravosa. Cordialità
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Ricevuto il tuo dispaccio con ampie informazioni purtroppo ne risulta che per ora non si prepara nessuna soluzione concreta coloniale in quanto a Territorio Libero si avverte in regioni adriatiche una recrudescenza di risentimenti e rivendicazioni. Ci si accusa di non aver chiesto nulla per piccola Istria e nemmeno di non aver insistito su restituzione deportati Gorizia. Bisognerebbe che Martino facesse un nuovo passo o inviasse lettera a Tito su quest’ultimo argomento. Temo assai che esso diventi una ferita cancerosa come quella di Katyn. Ben lieto che le cose si mettono bene a Strasburgo ma la prova sarà la Germania e il ruolo nostro diventerà importante solo con la sua ammissione. Ti ringrazio di codesta tua nuova fatica e ti auguro un po’ di riposo in famiglia. Omaggi alla contessa.
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Per dottor Marini 1. Presidente aveva già espresso desiderio poter incontrare Hoffman a Venezia ove scenderebbe anche Pella e sarebbe grato se desiderio potesse essere soddisfatto, nel qual caso si stabiliranno particolari d’accordo con ambasciata americana. Andreotti era informato. 2. Rispondere evasivamente Friedmann . Per quanto posso vedere indiscrezioni su ripartizione fondi derivano da United Press Parigi e non da fonti nostre. A mio parere basta dichiarazione Ufficio Stampa Presidenza constatando: 1)che a Venezia non si discusse attorno a cifre determinate 2)che risultati di commissione preparatoria Parigi sono provvisorie proposte e comunque segrete 3)che riduzioni sul progetto iniziale sono prevedibili perché ridotta venne già al Congresso la cifra complessiva e perché il piano Marshall non prevede una cessazione totale improvvisa nel 52 ma una riduzione graduale. 4)Importante è che Oece nella sua proposta definitiva e Eca nella sua finale approvazione ci riconoscano un contributo che corrisponda alle nostre esigenze d’investimenti e di politica sociale sia pure tenendo conto, come previsto, della bilancia dei pagamenti. La procedura è ancora in corso e sono quindi prematuri commenti conclusivi. Questo mi pare dovrebbe essere il contenuto del comunicato dell’Ufficio stampa della Presidenza. Mi rimetto comunque al Ministro Tremelloni per integrazioni o modificazioni ch’egli creda opportune. Contemporaneamente Ufficio stampa faccia saper giornali amici che riteniamo compromettente per i negoziati in corso insistere su cifre determinate. Per Ministro Fanfani . Dolente che per non spezzare orario abbiamo spezzato tuo magro riposo invio cordiali auguri.
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Urgentissima – dottor Marini – Per Zoppi segretario generale Esteri In risposta comunicazioni Cattani . La conferenza ministri e funzionari tenuta a Venezia ha fatto rilevare che proposta Comitato Parigi non ci permetterebbe nemmeno di soddisfare impegni già presi dinanzi Parlamento circa investimenti su Fondo lire esercizio 1949-50, quali 120 miliardi ferrovie telecomunicazioni e lavori pubblici già inscritti bilancio, 55 miliardi agricoltura, 20 miliardi ulteriore quota case e corsi Fanfani, 5 miliardi turismo, 8 miliardi costruzioni navali. Ne risulta necessità svolgere massima energia contro tale eccessiva riduzione nonché contro utilizzo nostre riserve dollari per 50 milioni attendendosi direttive Cir. Confermi ciò a delegazione Parigi con massima urgenza e informi confidenzialmente ministro Sforza al quale comunico che colloqui con Hoffman confermarono buon volere Americani che però sarebbero imbarazzatissimi a modificare in ultima istanza accordo di Parigi, se divenisse definitivo.
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Siamo riconoscenti al grande giornale Daily Mail di dedicare un numero unico all’Italia. Agli stranieri, amici e avversari, chiediamo di conoscerci e giudicarci non secondo le passioni, le ammirazioni o le avversioni che ha potuto evocare la nostra contrastata storia, ma secondo i dati di fatto che riguardano la realtà presente e in base alle note caratteristiche di un’Italia che, sotto la spinta di un popolo travagliato, riprende quota in economia, nel lavoro, nella produzione, nella giustizia sociale. Sappiamo le nostre insufficienze, ammettiamo anche i nostri difetti nazionali, abbiamo consapevolezza dei nostri limiti, ma chiediamo che ci si riconosca lo sforzo di ripresa che ci anima, la nostra insopprimibile vitalità, la nostra fede nella democrazia e nella fraternità umana. Possa codesta vostra pubblicazione contribuire a una migliore comprensione fra i due popoli; non ignari voi che l’Italia oltre che una nazione è anche un propulsore potente di civiltà universale; consapevoli noi che alla nazione inglese dobbiamo luminose istituzioni di regime politico e sopra tutto la lotta fierissima e vittoriosa per la comune causa della libertà. [Altra versione] Sono lieto che un grande giornale come il Daily Mail abbia dedicato all’Italia un numero speciale. In questo modo molte persone che non hanno potuto visitare l’Italia in questi ultimi tempi potranno rendersi conto del grande sforzo compiuto da un popolo che ha saputo realizzare grandi passi sulla via della ricostruzione. Molti stranieri ci manifestano la loro meraviglia e si congratulano con noi per la rapidità con cui abbiamo saputo riparare i danni materiali della guerra. Ma oltre ad una tenace vitalità che si afferma nella rinnovata fatica quotidiana esiste negli italiani uno spirito di democrazia e comprensione delle necessità di collaborazione internazionale che sono conformi alla tradizione della nostra civiltà e spero siano egualmente appezzati dai lettori del Daily Mail ai quali invio il mio cordiale saluto.
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In questo giorno di Colombo noi celebriamo il ricordo di colui che per primo unì idealmente i nostri due Paesi. Fu il suo un atto di coraggio e di sacrificio, di industriosa e spontanea attività, di unione e collaborazione fra nazioni, di pace e quindi di prosperità. Ci sia d’esempio la sua azione, perché sono questi stessi gli elementi che ancora oggi debbono informare la nostra opera di individui e di popoli: coraggio e abnegazione per superare gli egoismi sterili e nocivi, lavoro libero ed instancabile per ricostruire ed incrementare gli scambi e la ripresa, volontà sincera e non solo apparente di cooperazione internazionale; e con ciò avremo anche noi compiuto opera di benessere e di pace. Voi amici che vivete in America avete dimostrato con il vostro esempio che queste cose vi stanno a cuore. E ve ne siamo grati come uomini e come Italiani, a voi legati da vincoli più volte rinsaldati vicendevolmente. Continuiamo dunque la nostra collaborazione, intesa a realizzare tra le nazioni il comune ideale di progresso e di libera laboriosa e pacifica unione. È questo il mio augurio di oggi.
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Caro Taviani , è stato da me oggi il Prof. Ernesto Rossi (raccomandato da Einaudi ) per ottenere il mio personale appoggio e il mio intervento presso il Partito democratico cristiano affinché venga accolta l’iniziativa dell’Unione Europea dei Federalisti rispettivamente della sua Sezione Italiana Movimento Federalista Europeo di organizzare una campagna in favore di un patto federale fra gli Stati d’Europa. Tale campagna consisterebbe soprattutto in una petizione popolare che avrà il contenuto e la forma degli allegati. Ho risposto che personalmente riconosco l’importanza politica del Movimento, che sarei lieto di poter contribuire, pur restando estraneo come Governo, alla riuscita della petizione e che avrei trasmesso la proposta al Partito e in modo particolare anche all’on. Cappi . Ti prego vivamente di considerare la cosa e di dedicarvi il tuo efficace interessamento. Ritengo che la cosa non venga pubblicata prima che non lo si faccia ufficialmente. Cordialmente […] Caro Cappi, invio contemporaneamente al segretario del Partito il promemoria dei Federalisti per una petizione in favore degli Stati Uniti d’Europa; ne potrai leggere il testo se già non lo conosci presso Taviani. Io per principio sono favorevole alla cosa, riservata naturalmente sempre la posizione ufficiale del Governo. Mi pare che convenga contribuire alla riuscita della petizione, con tutte le garanzie del caso. Penso che anche tu sarai di questo parere. Cordialmente […] Caro Veronese , il Prof. Rossi dell’Unione Federalista Europea mi ha presentato un promemoria e un abbozzo di petizione che ti trasmetto in copia. Egli mi ha anche pregato di interessare a tale argomento l’Azione Cattolica. Personalmente considero l’iniziativa, se effettuabile, come molto importante e degna di essere appoggiata. Interesso in tal senso anche il Partito, ma mi pare che sarebbe importante in quella forma e in quella misura che sarà ritenuto opportuno che anche l’Azione Cattolica dia il suo appoggio all’iniziativa; ne potrai eventualmente far parlare anche a Taviani. Cordialmente
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La crisi ieri ha stagnato, perché si attendono le decisioni di domani. Nei circoli governativi si pensa che perdere ancora tempo su questioni di dettaglio sarebbe deprimente e forse anche pericoloso. I governi si costituiscono su alcune linee programmatiche e su alcune direttive. È impossibile che in pochi giorni si fissino addirittura i termini dei progetti di legge da presentarsi o da sostenersi in Parlamento. Pericoloso anche perché, pur nutrendo i massimi scrupoli di correttezza parlamentare, si rischia di dare l’impressione che si vogliono impegnare le deliberazioni delle Camere e, entro le Camere, degli stessi gruppi di maggioranza al di là di quello che è programmaticamente necessario. Ciò vale anche per le leggi elettorali. Si possono stabilire dei criteri generali, ma fissare già nel momento di costituire il ministero l’esatta ripartizione dei comuni fra un sistema e l’altro, diventa veramente difficile. In tale materia vi sono dispareri anche negli stessi gruppi, a seconda della regione o delle tendenze. Qui vale più che l’accordo pregiudiziale, fuori del Parlamento, fra i partiti, l’intesa tra i gruppi parlamentari. L’onorevole De Gasperi, nel suo discorso ai capi dei gruppi parlamentari, ha avuto ragione di segnalare al paese e al Parlamento che il compito più importante e più incalzante del governo e delle Camere è quello di coordinare tutti gli sforzi per la massima occupazione possibile e per l’incremento della produzione. A tale scopo si è presentato, riferendosi specialmente alle zone depresse, un programma di investimenti e di opere pubbliche, quale nessun governo in Italia ha fatto suo. Programma specificato e molto concreto, con un impegno di finanziamento e di rinnovamento che esige il concorso più rapido del Parlamento e il dinamismo più fattivo dell’amministrazione. Questo programma nel quale in parte si inseriscono le auspicate riforme, costituisce l’impegno più grave e più serio che la democrazia possa assumere in confronto delle categorie produttive e delle classi popolari. Che cosa sono di fronte a tali esigenze formidabili, altre questioni nelle quali l’accordo definitivo sui particolari può essere più facilmente raggiunto nella trattativa parlamentare? Nella sua esposizione di giovedì scorso , il presidente ha invitato i gruppi a deliberare rapidamente perché si impongono delle scadenze internazionali improrogabili. Il 26 si radunerà l’OECE: per due giorni dopo è indetta la riunione per l’intesa economica Francia-Italia-Benelux; ma più incalzante ancora è il calendario del problema somalo. La potenza occupante ha rinnovato ancora ieri le sue insistenze per il passaggio dei poteri in Somalia. Ieri, pure è incominciata a Ginevra la discussione, in seduta plenaria, dello statuto dell’amministrazione fiduciaria, discussione che verrà condotta rapidamente a termine. In 2-3 giorni tutti gli elementi preliminari per l’accettazione provvisoria del mandato saranno perfetti e il Parlamento dovrà deliberare in merito e al tempo utile per rendere possibile l’esecuzione entro il calendario inesorabile segnato dalle stagioni. È evidente che non si può venire meno a questo compito, creandosi una situazione di impotenza interna, proprio nel momento in cui dovremmo assumere un primo incarico internazionale.
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Ha cominciato col dire che era sua intenzione illustrare la portata e il significato delle decisioni del Consiglio dei ministri, spiegando soprattutto la connessione tra le due questioni che hanno formato oggetto del dibattito in seno al Consiglio stesso: 1) riforma fondiaria; 2) occupazione e rinascita del Mezzogiorno . L’on. De Gasperi ha richiamato l’attenzione dei giornalisti sul fatto che i due problemi – investimenti produttivi e riforma fondiaria – si integrano pur essendo diversi tra loro ed ha sottolineato che il governo ritiene per riforma fondiaria non soltanto la trasformazione della terra ma anche la ridistribuzione della proprietà. Su questi problemi, del resto, si erano sempre soffermati i precedenti governi. Al momento di decidere la precedenza da dare all’uno o all’altro dei due problemi, il governo è convenuto sulla necessità di mettere prima in cantiere il programma decennale di opere per la rinascita del Mezzogiorno, programma che – come è noto – si riassume nello stanziamento di 1.000 miliardi per opere di interesse pubblico e di trasformazione fondiaria. Questo programma è integrato con un altro programma decennale, con uno stanziamento di 200 miliardi, per analoghi lavori nell’Italia centro-settentrionale. L’esposizione generale finanziaria che il ministro Pella farà domani alla Camera dimostrerà l’urgenza di questo problema e l’opportunità di anteporne l’attuazione alla riforma generale fondiaria, che però è costantemente all’attenzione del governo. Il governo è fermo nell’intenzione di dare la più rapida esecuzione possibile ai provvedimenti legislativi che in ordine a questo programma il Parlamento vorrà deliberare. Infatti il governo presenterà subito alle Camere tre distinti disegni di legge che si completano a vicenda. Il primo disegno di legge prevede la costituzione di un istituto finanziario autonomo denominato «Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia Meridionale», avente la veste giuridica di Ente di diritto pubblico. Alla «Cassa» sarà demandata l’amministrazione del fondo di 1.000 miliardi per il ricordato piano decennale. Il governo è venuto nella determinazione di istituire un Ente autonomo al fine di garantirgli la massima garanzia di continuità, al di fuori delle contingenze politiche; inoltre la «Cassa» pur dovendo presentare il proprio programma al Parlamento sarà svincolata dalla normale procedura burocratica. Naturalmente essa opera sulla direttrice indicata dal governo, che ne guiderà l’attività attraverso un Comitato di ministri che hanno la responsabilità della politica economico-finanziaria. Il programma secondo un criterio di moderna elasticità, verrà fissato anno per anno dal Comitato dei ministri, ma all’atto stesso della presentazione della legge istitutiva il Parlamento sarà chiamato a pronunciarsi sul programma complessivo. Metteremo a dura prova così il nostro istituto parlamentare, ma in una democrazia moderna è necessaria questa rapidità di decisione e di operosità. Il voto del Parlamento sul disegno di legge avrà il significato di delega al governo per l’attuazione del programma. Un secondo disegno di legge provvederà lo stanziamento di 200 miliardi di lire per un programma decennale di opere da attuarsi nell’Italia centro-settentrionale, tenendo particolarmente presenti le esigenze delle zone montane. Il presidente del Consiglio ha spiegato a questo proposito ai giornalisti che non si è ritenuto necessario creare anche per il centro-settentrione un’altra Cassa, data la diversità della situazione di questa zona. Il governo ha anzi pensato che l’attuazione di questa parte del suo programma con gli organi dell’amministrazione ordinaria consenta quel coordinamento tra i vari ministeri che è uno dei propositi della condotta generale del governo stesso. Il presidente del Consiglio ha spiegato che in relazione ai suoi fini la «Cassa» può assumere partecipazioni in altri enti o società e previa autorizzazione del Comitato dei ministri promuoverne la costituzione. La «Cassa» può concedere l’esecuzione delle opere di competenza statale, comprese nei programmi già approvati, agli Enti locali e loro Consorzi di bonifica e di irrigazione, alla Opera nazionale combattenti e ad altri Enti pubblici, nonché agli organi che da future leggi saranno eventualmente autorizzati ad eseguire per conto dello Stato le opere di riforma fondiaria. In corrispondenza delle quote predette, la «Cassa» è autorizzata ad emettere sul mercato obbligazioni con le caratteristiche determinate dal Consiglio di Amministrazione della «Cassa» e approvate con decreto del ministro del Tesoro, sentito il Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio. Con lo stesso decreto, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, è accordata la garanzia dello Stato per il pagamento del capitale e degli interessi delle obbligazioni da emettere. Le obbligazioni della «Cassa» sono assimilate, ad ogni effetto, alle cartelle fondiarie ed ammesse di diritto alle quotazioni di borsa: sono comprese tra i titoli sui quali l’Istituto di emissione è autorizzato ad effettuare operazioni di anticipazioni e possono essere accettare dalle pubbliche amministrazioni quale deposito cauzionale. In relazione alle opere previste nei programmi, la Cassa provvede a tutte le spese che in base alla legislazione vigente sono a carico dello Stato sia per lavori di competenza statale, che per contributi, sussidi e concorsi dello Stato nel pagamento di interessi su mutui concessi per opere di competenza degli Enti locali e dei privati. Ove occorra l’erogazione dei contributi, dei sussidi e dei concorsi di cui al comma precedente, se prevista in forma continuativa, può essere effettuata dalla «Cassa» in periodi di tempo abbreviati, scontando le annualità e capitalizzando al tasso che annualmente sarà determinato dal Consiglio di Amministrazione. La «Cassa» provvede altresì con propri fondi all’erogazione delle somme che, in dipendenza delle norme sulla riforma fondiaria, saranno a carico dello Stato per la valorizzazionedei terreni espropriati nell’Italia meridionale e anche per il pagamento delle indennità che siano da corrispondere ai proprietari di detti terreni. L’esame e l’approvazione dei progetti di massima, nonché dei progetti esecutivi d’importo superiore a cento milioni di lire sono sottoposti dalla «Cassa» ad una Sezione di speciale formazione dei LL.PP. Per i progetti esecutivi d’importo non superiore a cento milioni di lire l’esame e l’approvazione sono deferiti al Consiglio di Amministrazione della «Cassa». Il presidente del Consiglio ha spiegato poi ai giornalisti che la «Cassa» si propone di finanziare opere di bonifica, di irrigazione, nuovi acquedotti diversi da quelli già previsti dalle finanze comunali, opere stradali e soprattutto trasformazioni fondiarie. È proprio su questo punto delle trasformazioni che la riforma fondiaria si inserisce nel progetto della «Cassa», stabilendo come in principio si è detto, una stretta connessione tra i due problemi. Infatti sui 100 miliardi che annualmente verranno impiegato nel Mezzogiorno, 30 sono devoluti a trasformazione fondiaria. Proprio per dare al Mezzogiorno la possibilità di vedere immediatamente messa in atto la riforma fondiaria, del resto già prevista dalla legge per la Sila, il governo è venuto nella determinazione di presentare un terzo disegno di legge nel quale vengono stralciate dal progetto generale di riforma le norme per la sua attuazione nel Mezzogiorno, dove pertanto la riforma fondiaria verrà attuata subito e prima di ogni altra parte d’Italia, con inizio dei lavori in zone similari a quelle della Sila. Presentando senz’altro alla Camera il disegno generale sulla riforma fondiaria era da presumere – in base all’esperienza fatta con i disegni di legge sui contratti agrari, sui fitti e sulla Sila – che la questione si sarebbe trascinata molto a lungo, costringendo il governo ad un periodo di inazione. Per evitare questo pericolo, si è deciso di stralciare dalla legge generale la parte riguardante il Mezzogiorno ed alcuni comprensori del centro-nord, dando alle relative zone immediata possibilità di lavoro. Come si è fatto per la Sila, insomma, i lavori verranno anticipati nei comprensori di maggiore urgenza, senza attendere la riforma fondiaria generale. Mentre però per la Sila la cosa era semplice, dato il limitato numero di grandi proprietari e la particolare situazione colturale di quella zona, la diversità delle altre zone da includere nella riforma anticipata imponeva di basarsi sugli identici princìpi basilari del progetto di riforma fondiaria generale. Nel terzo disegno di legge sono riportati tre punti fondamentali del progetto generale della riforma: 1) quota di favore per i figli: riduzione del 10 per cento dell’esproprio per ogni figlio dopo il primo; 2) metodo e misura dello scorporo: si scorpora in proporzione progressiva inversa al reddito medio catastale; 3) modo di pagamento della terra espropriata: un quarto in contanti e tre quarti in titoli di Stato al 5 per cento. Lo scorporo, di cui al punto secondo, avverrà sulla legge di una tabella fondata non più sulla estensione della proprietà, ma sul reddito catastale, complessivo e medio. Tutta la proprietà rimane esente fino a 30 mila lire di reddito catastale (naturalmente secondo la stima 1937-38). Saranno altresì esenti da esproprio le proprietà a coltura attiva con un reddito unitario medio superiore a 500 lire ad ettaro e fino a 100 mila lire, sempre sulla base della valutazione 1937-38. Pertanto le proprietà piccole e medie a coltura attiva non verranno colpite dall’esproprio. Sulla questione della scelta dei comprensori che saranno oggetto della riforma anticipata, il presidente del Consiglio ha detto che sono stati compiuti studi per individuare in quali zone si possa procedere ad una rapida esecuzione e dove sono già pronti i programmi relativi all’esecuzione stessa. Tuttavia, per far sì che questa riforma anticipata avvenga con la maggiore elasticità possibile, nel disegno di legge stralcio le zone interessate non saranno indicate, ma verrà chiesta al Parlamento un’autorizzazione generica che permetta al governo di iniziare i lavori dove ciò possa avvenire a più breve scadenza. Per quanto riguarda il finanziamento del programma, il presidente del Consiglio ha confermato che sono in corso delle trattative per un grande prestito americano, prestito che ci sarà doverosamente concesso dopo che noi avremo dato dimostrazione di saper fare uno sforzo decisivo per risollevarci. Il presidente del Consiglio ha però precisato che il governo nell’atto stesso di presentare al Parlamento i disegni di legge è nella condizione di indicare esattamente le fonti per il finanziamento del programma. E difatti per l’esercizio finanziario 1950-51 sono attribuite alla Cassa, per essere destinate alla esecuzione di opere interessanti lo sviluppo agricolo e forestale: a) £. 42.640.687.000 quota parte della somma di 55 miliardi spettante alle zone in cui si attua il programma e contemplata dall’art. 18 della legge 23 aprile 1949, n. 165, da prelevarsi dal Fondo lire ERP; b) £. 23. 826.787.350, da prelevarsi dal Fondo lire Interim Aid; c) £. 33.532.525.650 da stanziare nel bilancio del ministero del Tesoro per l’esercizio 1950-51 e da coprire con le entrate derivanti dai seguenti provvedimenti. Per l’esercizio finanziario 1951-52 saranno attribuite alla Cassa: a) £. 18 miliardi da prelevarsi dal Fondo lire Interim Aid; b) £. 50 miliardi da prelevarsi dalle disponibilità afferenti per detto esercizio finanziario, al Fondo lire ERP; c) £. 32 miliardi da stanziarsi nel bilancio del Ministero del Tesoro per l’esercizio finanziario 1951-52; Per ciascuno degli esercizi finanziari decorrenti dal 1952-1953 al 19591960 incluso, sarà stanziato sul bilancio del Ministero del Tesoro, in favore della «Cassa», il contributo annuo di 70 miliardi. Sarà infine attribuita alla «Cassa» la metà delle somme che affluiranno al Fondo lire ERP per il periodo successivo al 30 giugno 1952 e sino alla chiusura delle operazioni ERP. All’atto della chiusura delle operazioni ERP e una volta accertate in modo definitivo le somme spettanti alla «Cassa» sia con prelevamento dal conto speciale (Fondo lire), sia in applicazione di quanto disposto dalla legge istitutiva della «Cassa», sia infine per rimborso del capitale dei finanziamenti per acquisto di macchinario ed attrezzature, il Ministro del Tesoro, sentito il Consiglio di Amministrazione della «Cassa», provvederà a determinare se gli stanziamenti a carico del bilancio dello Stato sono sufficienti o meno per coprire la differenza in modo che resti attribuito alla «Cassa», nel periodo decennale previsto, l’importo complessivo di 1.000 miliardi. Qualora la somma complessiva risulti superiore di 1.000 miliardi, la «Cassa» potrà eseguire delle opere anche per l’eccedenza, provvedendo a modificare i programmi con le modalità previste dalla legge. Il presidente del Consiglio ha quindi informato i giornalisti che il Consiglio dei ministri tornerà a riunirsi per definire alcuni aspetti della riforma agraria, principale tra i quali l’inserimento di una norma nel testo legislativo che impedisca il riassorbimento della proprietà espropriata da parte dei primitivi titolari. Tale norma sancirà che è vietato l’ingrandimento della proprietà nei primi sei anni successivi all’attuazione della riforma. L’on. De Gasperi ha aggiunto di ritenere che sabato o lunedì prossimo il ministro Segni potrà convocare nuovamente i rappresentanti della stampa per illustrare loro i disegni di legge. Per ultimo l’on. De Gasperi si è soffermato brevemente sul problema della fissazione del limite di estensione alle proprietà fondiarie, dichiarando che si è fatto molto chiasso su tale questione, che pure non ha una fondamentale importanza. L’articolo 44 della Costituzione non stabilisce la fissazione del limite in misura precisa; è però ovvio che automaticamente attraverso l’applicazione della tabella elaborata per gli scorpori si avrà ugualmente un limite anche se non eguale a tutti i casi. L’essenziale è che vi siano alte percentuali di scorporo, le quali giungono infatti fino al 95 per cento. Su questo punto tutto il gabinetto è concorde e del resto spetterà al Parlamento la decisione definitiva. Si deve comunque rilevare, ad esempio, che di una proprietà estensiva di 12 mila ettari con un imponibile medio unitario di lire 100, applicando la tabella si lascerebbero al proprietario soltanto 1.080 ettari, cifra che – con una differenza minima – supera di soli 300 ettari il limite proposto in 750. Pertanto, il lavoro che il Consiglio dei ministri ha svolto e sta per svolgere si compendia nella preparazione dei seguenti provvedimenti: 1) legge sul programma decennale e del Mezzogiorno; 2) leggina per lo stanziamento di 200 miliardi per dieci anni per il centro-settentrione; 3) legge per iniziare lavori inerenti la riforma agraria nel Mezzogiorno e centro-settentrione; 4) legge fondamentale sulla riforma agraria. Al presidente del Consiglio è stato quindi chiesto quale sistema verrà adottato per calcolare il valore della terra espropriata ai fini dell’indennizzo. Egli ha risposto che il sistema si basa sull’imposta patrimoniale maturata, maggiorata del 10 per cento. Al momento di congedarsi dai giornalisti, il presidente del Consiglio ha tenuto a sottolineare che la legge per la riforma fondiaria non ha carattere «punitivo», ma mira all’attuazione del migliore ordinamento della società, che è nei voti di tutta l’opinione pubblica e nel preciso programma del governo.
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Le vicende della discussione politica non gli hanno dato il modo di venire in gruppo prima, anche perché ha dovuto attendere che la volontà proponente del governo fosse concretata in formule giuridiche che dovranno venire alla Camera. Ringrazia ancora il gruppo come capo del governo e personalmente per l’affettuosa solidarietà del gruppo in circostanze difficili createsi alla Camera. Elogia il gruppo per la sua compattezza, energia e vitalità, (applausi), anche se quello non era il momento migliore per chiedere solidarietà dopo una crisi che inevitabilmente porta con sé malcontenti finché non sia trascorso un periodo di chiarificazione. Per questo è doppiamente grato al gruppo per aver difeso la dignità del Parlamento e del governo. Purtroppo abbiamo poche possibilità di vederci. L’esame di coscienza gli ha dimostrato che non ha proprio il tempo di venire a trascorrere più tempo negli ambulacri di Montecitorio. Prega però di prender nota che il suo desiderio è di avere i maggiori contatti del gruppo e di ciò prega il Com.[itato] direttivo. Questa è anche una necessità del sistema parlamentare. La [necessità di] accordi sul programma e sulla fiducia nella fusione delle due attività (di iniziativa gov.[ernativa] e di deliberaz.[ione] parlamentare). Oggi riferirà sui progetti che il gov.[erno] presenta al Parlamento in tema di riforma fondiaria. Non risalirà troppo addietro ma ha il dovere e il diritto di dimostrare che essi risalgono al programma fissato dalla Dc in linee abbastanza concrete. Non torna a fare la questione di fiducia perché questa il gruppo già gliela ha data e a ragion veduta, data la concretezza dei progetti sui quali si è impostata la crisi. Ricorda l’o.d.g. del Cons.[iglio] nazionale (coniato su quello del gruppo). Quando i rappresentanti del gruppo vennero a trattare con il pres.[idente del] Cons.[iglio] essi presentarono un insieme di punti principali dei quali sottolinea quelli relativi alla riforma fondiaria. A conclusione del V gabinetto egli tracciò già elementi di programma sulla base di quanto elaborato dai prec.[edenti] ministri. Programma poliennale di investimenti (occupazione – zone depresse) e riforma agraria (secondo le conclusioni della Commissione interministeriale). Le basi della rif.[orma] agraria risalgono al programma della Dc (anche se qualche dettaglio qua e là è stato mutato per i rapporti con gli altri partiti) fissato un anno fa dal Cons.[iglio] nazionale. Ciò dice per dimostrare la democraticità e la coerenza delle linee adottate. Occupazione e Mezzogiorno – il programma di massima già parlava di cifre, 120 miliardi annui ecc., di cui 100 al Mezzogiorno, con l’indicazione anche di categorie di opere tra cui in primo luogo il finanziam.[ento della] riforma fondiaria cioè l’applic.[azione dell’] art. 44 Costituzione (redistribuzione proprietà). Al momento di concretare il programma i m.[inistri] amici (spec.[ialmente] Campilli) hanno pensato a un istituto apposito: la Cassa del Mezzogiorno per ovviare alla lentezza del meccanismo esistente e per creare un organo soggetto al controllo politico ma non ai ritardi parlamentari. Inoltre per dare al Mezzogiorno il massimo di garanzia del finanziamento di un programma per molti anni. Questa è questione fondamentale: dare la fiducia. Si è creato così l’Istituto di fronte al quale lo Stato prende impegno completo fin da ora: questa è la garanzia maggiore che possa chiedere il Mezzogiorno (anche per impedire le difficoltà degli Enti locali e i contrasti tra Regioni). Questo fatto rimarrà una pietra miliare della Dc. Il progetto verrà presentato domani alla Camera e rappresenta per l’attuale governo la prova del fuoco. Ad esso è attaccato anche il sistema democratico (questo ci darà anche il diritto di avere l’energia necessaria per mantenere l’ordine) che deve dimostrare di aver trovato la forza di avere fatto quello che in cento anni, in condizioni migliori, non si è riusciti a fare. (Vivi applausi). Tutti i progetti sono soggetti a modificazioni e a miglioramenti. Non è un’opera per l’eternità. L’essenziale [è] che essa inizi e dia l’avvio per 10-15 anni. Se noi e i meridionali sentiremo lo spirito di solidarietà e di impegno per la realizzazione dei progetti. Non si dilungherà sui dettagli, già indicati nelle larghe linee, e che anno per anno un Comitato dei ministri elaborerà. Alla Cassa è stato dato l’incarico anche di fare progetti con tecnici privati, di appaltare, affidarsi a organi locali. Il massimo di elasticità è stato raggiunto. In questo si sono aggiunti anche i 23 acquedotti grandi di cui 21 già progettati. Il programma e i poteri dati al governo e alla Cassa il gruppo li discuterà. Se però non vogliamo sottoporre la Cassa alla lentezza dell’amministrazione dobbiamo anche svincolarla dai ritardi del Parlamento (es. Sila) che è troppo carico. Perciò l’iniziativa il Parlamento la dà al governo e si riserva il controllo. Salvo cambiare il governo se questo non va. L’opposizione certamente si scaglierà nel parlamentarismo. Il problema che il gruppo deve porsi è che in Italia oggi si corre un pericolo molto torbido – per ragioni obiettive: miseria, mancanza di lavoro, riconversione che non va (nella meccanica), questioni che potrebbero risolversi col buon senso e con un po’ di pazienza (es. di larghezza, in cui il min.[istro della] Marina (buonsenso) e l’impegno di Campilli sono intervenuti – la legge per le costruz.[ioni] navali si era interrotta per mancato finanziam.[ento] dell’America –, prima di aspettare la nuova legge del Parlamento per 12 miliardi a carico dello Stato, stanziando con provvedim.[ento] immediato 1 miliardo. Tuttavia l’agitazione continua ingiustificatamente). Guai a noi se ignoriamo che nonostante tutti gli sforzi non riusciremo mai a soddisfar la turbolenza degli avversari che non ci lasceranno tregua. Anzi queste riforme provocheranno nuove agitazioni. Talvolta esiste la lentezza del governo ma non sempre perché quando gli avversari spiano che esiste qualche provvedimento concreto subito promuovono le agitazioni. Bisogna inquadrare queste agitazioni nel quadro internazionale. Altrimenti sarebbe pazzia. C’è un punto in cui la tolleranza (verso l’illegale) ha un limite, (applausi), al di là del legale c’è anche una zona di situazioni e di gente che è strumento di un piano che non conosce e di fronte alla quale si impone una tolleranza. Bisogna stare attenti agli estremismi e alle suggestioni del metodo forte. Questo riprende la restrizione della zona di tolleranza verso l’illegale dovuta a necessità del momento che se le cose continuano così in Italia non è possibile che perduri se non si vuole aprire la via della forza. Conclude. Inquadrata così la situazione, lo sforzo di iniziativa finanziaria e per dare lavoro viene fatto per la giustizia sociale. Questo ci darà doppio legittimo diritto di imporre la legge quando occorra. Sulla Cassa il gruppo proponga gli emendamenti che crede ma fateci provare, lasciateci agire perché a esso è legato il partito delle riforme. Gli si consenta di dire che se è vero che ha usato fin qui tutta la prudenza per tenere insieme tutte le forze possibili in vista della situazione internazionale, tutto quello che era possibile tentare e sperare lo si è fatto. Oggi dobbiamo dire che il sistema democratico è minacciato e occorre fare per il paese. Non dobbiamo dimenticare che oltre questo c’è una battaglia alla quale non possiamo sfuggire – l’illusione diventa peccato, colpa e responsabilità –. Nel programma della Cassa c’è anche la riforma fondiaria. In questa materia egli non vuol passare come uomo che abbia arbitrato. È una questione che ha profondamente maturato e sofferto insieme agli amici e al Cons.[iglio] dei ministri. Si è arrivati a conclusioni in contraddittorio di otto mesi. Quando i rappresentanti dei gruppi vennero prima della formaz.[ione] del governo da parte Dc si parlò della riforma in termini da non lasciar dubbio. Non ricorderà quegli impegni generici della Costituzione e della campagna elettorale. Si rifarà alle discussioni del Consiglio nazionale del maggio 1948 che rilegge al gruppo. Se egli fosse stato contrario avrebbe dovuto rinunciare alla carica. Egli ha creduto di dover accettare e attuare queste linee. Quando l’agitazione contro la riforma si faceva più aspra egli ebbe l’intervista di Pasqua (17-4-1949) sulle linee della mozione del Cons.[iglio] naz.[ionale]. Così per i lavori della Commissione. Quanto ai benefici ecclesiastici – per inciso – afferma che esprimono tutto al di sotto del minimo e che se il Parlam.[ento] vorrà discutere, il governo non avrà nulla in contrario. La fiducia al governo deve intendersi data ai principi fondamentali di una riforma di tale importanza più che alle linee generiche. Illustra alcune particolarità sulle determinazioni del limite. Impossibile che i termini ricadano nella grande proprietà; [è] tuttavia contrario al limite permanente che dovrebbe essere attuato per tutti i settori economici. Il progetto [di] riforma fondiaria verrà presentato sabato o lunedì: è complesso (30 articoli) e darà occasione a molte discussioni. Tuttavia, per non ritardare il programma di investimenti, per le questioni urgenti si è fatta una legge stralcio (abbinata a quella della Cassa) sulla riforma agraria. Sull’esempio della Sila (che però non si è potuta applicare così com’è) si è cambiato il metro dell’espropriazione, applicando le tabelle della legge generale. Inevitabilmente quindi la disoccupazione avverrà sulla tabella che è parte fondamentale e controversa della riforma. Il governo chiederà commissioni speciali per questi disegni di legge urgenti. Chiedendo l’urgenza si può sperare per dopo Pasqua la realizzazione. Quanto all’altro progetto di riforma agraria. Nelle riforme due sono gli elementi fondamentali (redistribuzione e trasformazione). La prop.[osta di] legge De Martino si occupa solo della trasformazione e [de]gli elementi formulati da uomo di grande competenza che potranno utilizzarsi, ma è certo che dobbiamo cominciare dalla redistribuzione. Ognuno interroghi la sua coscienza e esamini gli impegni che ha fin qui presi oppure li cambi ma in tal senso dovrà cambiare il governo. Il problema è se in base al programma del partito il gruppo intenda affrontare la redistribuzione o no. Il progetto del gov.[erno] corrisponde al progr.[amma] del partito e su di esso il governo ha avuto la fiducia. Considerate le conseguenze politiche e sociali. Desidera non si abbia assolutamente l’impressione che il governo voglia far subire imposizioni al gruppo. Sa che questo è un punto grave per il partito. Egli sa di segnare con ciò la fine della propria traiettoria politica. La Dc deve sentire il senso di giustizia sociale e restano al gruppo tutte le modificazioni di carattere non essenziale. La sua preoccupazione è che si dia l’impressione di esitare sulla urgenza della cosa e per evidenza. Augura che il gruppo liberamente discuta e decida dopo essere informato dal min.[istro] Segni. Quello che domanda come esigenza [della] Dc è di non attardarsi e [di] dare impulso all’attività proposta dal governo.
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Ringrazia come presidente del C.[onsiglio] n.[azionale] Taviani e i suoi collaboratori per il lavoro fatto nel campo organizzativo. Noi abbiamo spesso perso il tempo a fare una politica «pura», con una visione molto manchevole di quello che è l’attività politica odierna: che è politica di massa, di carattere quasi prebellico. Su questo abbiamo da imparare dai comunisti. Il problema è questo: la Celere ha ristabilito l’ordine ma in realtà il partito di maggioranza non ha dato alcuna opera a ciò. Non è organizzato in modo da svolgere una proficua attività. Cita ad es. i [omissis] per l’invasione delle terre. Il nostro peso nel paese dipende dalla nostra capacità organizzativa. Ha paura che la nuova Direzione manchi di capacità organizzative. Non è vero che abbiamo [omissis] di destra e di sinistra, quando abbiamo di dentro la massa dei comunisti? Una Direzione, veramente vera, deve avere almeno 3-4 organizzatori duci, che facciano lavoro di massa e di movimento. La «durezza» non sta, amico Dossetti, nelle impostazioni tecniche ma nell’azione pratica di rottura del fronte comunista. La forza del partito è nell’organizzazione: e solo là . Esorta a non dimenticare, nel momento della elezione della nuova Direzione, [la] necessità assoluta a un lavoro di massa ; c’è in lui un aumento di indifferenza per le riunioni, per certa artificiosità di [omissis] creata da poche centinaia di persone; la grande massa è la fonte che lavora, che si interessa solo dei problemi concreti. Certe [omissis] perdono spesso troppe volte nel giocare a palla con le idee; mancano di concretezza e rischiano di [omissis]. Deve riconoscere tuttavia che questo C.[onsiglio] n.[azionale] ha fatto un grande sforzo di concretezza . Ritiene che sia stato bene che ins.[igni] giornali non abbiano pubblicato una nostra cronaca ufficiale dei lavori. Si è così evitato una atmosfera viziata e di insincerità. È meglio che veda la conclusione e si augura che essa sia tranquilla per tutti. Polemizza un po’ coi dossettiani : sembrava si fosse alla vigilia dell’avvicinamento, quando è uscito fuori l’articolo di La Pira e il «diario» di Dossetti, che ha creato un costume pericoloso. Così non si può più parlare a quattro occhi, per non correre il rischio di essere poi diffamati. Meglio l’amico Piccioni che ha detto di aver cambiato idea. Anche a lui Dc pare che convenga tentare di nuovo una collaborazione coi presidenti per il bene del partito. Così abbiamo calato la lancia, ma con la pregiudiziale necessaria che si mantenga l’art. 90 dello Statuto. Sforza perché si è impazientito con La Pira. Dopo 3 mesi di fatiche per i problemi del lavoro, dopo un’aspra lotta che ha imposto un programma di organizzazione decennale, è rimasto male che il partito non si sia scaldato per questa cosa. È un governo della Dc che presenta un simile programma. C’è stato un nostro senatore che ha detto: – 1.000 miliardi, piccolezze!, ci vogliono 3.000 miliardi –; e pensare che De Gasperi ha tanto faticato per convincere i suoi finanzieri a trovare i 1.000 miliardi. La verità è che certa gente non ha visto bene il piano poliennale perché c’era dentro la riforma agraria; cioè un problema sociale, che tocca tanti interessi. Come si fa ad [omissis] politicamente, quando succedono queste cose? Tra queste cose quello che ci ha ferito è stato l’articolo di La Pira. Può essere che abbia anche ragione; ma non poteva accettare la frase che investiva la politica economica come inadeguata a tutte le situazioni: economica, sociale, interna ed internazionale. Sentirsi trattare da stolti e stamparlo, fa rivoltare perché vuol dire antilimitazione, vuol dire negazione di tutto quello che si è fatto, specie in politica interna. Dice di aver avuto formalmente tanto a scattare, ma in sostanza ha ragione, perché La Pira porta aiuti al piano sovvertitore della Cisl. La Pira ha [omissis]; ma appunto perciò ha sentito più forte il dolore di un anno perduto. Ma siamo proprio nei fatti che non sappiamo che dir male di quel che facciamo. Ravaioli ha detto in Politica sociale: «ora incomincia la critica e bisogna rifare tutto daccapo». Come volete che con questo «eccessivo» si possa andare avanti? Appellare di continuo alla democrazia [confonde] il pubblico e lo mette in dubbio nella nostra volontà e capacità di far bene nel governo. Il pubblico non capisce come si possa discutere nell’entità di un ambiente dal punto di vista di sinistra e di destra. Non era sua intenzione offendere La Pira; ma rivendica il suo diritto di difendere quello che ha fatto proprio per avvicinarsi alla soluzione dei problemi cui La Pira mira. Dossetti ha, da parte sua, fatto un giuoco di abilità per ribattere il solito chiodo del partito autonomo dal governo. Dossetti è maestro nel genere dello sciopero a singhiozzo [utilizzato per] fare il processo al governo. Quando Dossetti parla «di [omissis] reale del partito nel governo». Questa tesi annuncia un convegno che egli De Gasperi non accetta, perché ci vede la pretesa di chiamare i ministri a rendere conto della loro opera alla Direzione. La responsabilità dell’azione deve essere lasciata collegialmente al ministero, soprattutto andare adagio nel [omissis] questa parola non permette un incontro, anche se del resto questo incontro si possa trovare. Stampa «autonoma» contro chi, contro il governo, che è poi comitato di maggioranza? Contro il governo che è [omissis] stampa? Volete costringerlo a istruire il Minculpop? Volete metterlo ad elemosinare i comuni interessati dai giornali d’informazione? Dossetti se pure al governo, parlerebbe altrimenti. Per questo il richiamo alla «stampa» voleva dire: governo e non Direzione. Purtroppo le circostanze finali dell’ultima crisi non hanno permesso questo ingresso di Dossetti nel ministero: soprattutto non è avvenuto perché Dossetti non ha creduto di accettare un centro di [omissis] dei ministeri, in mano allo stesso Dossetti; questi voleva una [omissis] con Pella che non era accettabile. Di qui la soluzione combinata Pella-Campilli, alla quale quest’ultimo ha dato un contributo di cui lo ringrazia. Fare un governo coi giornalisti fuori della grata è una cosa improba. Egli, D.[o]S.[setti] ha la tendenza all’ottimismo, per quanto riguarda gli umori; ma quando si è trovato di fronte a pretese gravi di riconoscimento di un gruppo nel governo, ha avuto paura. Questa paura – forse eccessiva – aveva fine ieri anche per una innovazione dei dossettiani in Direzione. Oggi abbandona questa paura, perché ha raggiunto la sensazione che l’unità del partito è cosa indiscussa. Se un certo momento si è rassegnato a far base della forza vitale di Fanfani nel governo, ha fatto uno strappo alla sua [omissis] proprio per questa sera faceva che ora vuole eccessiva. Vedrà Dossetti se sarà ripescato in Direzione cosa vuol dire andare d’accordo col governo; vedrà qualora dovessi pescarlo nel governo cosa vuol dire andare d’accordo con il partito. Di fronte al «tutto o niente» dei dossettiani ha sentito l’angoscia di creare una divisione del partito. Spera oggi che questa sua ansia sia stata infuriata; ma addita al C.[onsiglio] n.[azionale] l’esperienza di quello che è avvenuto perché non si ricreino le condizioni per suscitare altre crisi pericolose nel governo e nel partito. Ha fatto la crisi del governo, invece del rimpasto, perché l’ha voluta il C.[onsiglio] n.[azionale] e i gruppi parlamentari. Avrebbe potuto anche «cedere la mano» ad altri; ma quando ha visto Togliatti attaccarlo personalmente, si è detto che non doveva fare il suo giuoco. Siamo stati vicini ad un grosso pericolo. È pericoloso suscitare delle crisi in un paese che dimentica facilmente. Aveva ragione lui, D.[e] G.[asperi], a non veder bene un o.d.g. che apriva la crisi, egli sentiva il pericolo che ne derivava. Non bisogna arrivare alla conclusione che risolvendo il problema sociale, tutto si risolva; bisogna snellire anche questo problema nello sviluppo della situazione internazionale, determinata dall’imperialismo comunista. Ringrazia i nostri sindacalisti della loro opera, anche se talvolta sono più «duri» di Dossetti; è con il loro aiuto che si potrà svuotare il pericolo comunista nel piano sociale. Non gli va la frase della «saldatura» fra generazioni citata da Dossetti. Se c’è stata una «resistenza» dei giovani, c’è pure stata una «resistenza» ventennale dei vecchi. I giovani non hanno che a riprendere coi vecchi i valori di questa resistenza per la libertà e la democrazia. Giovani e vecchi d.c. «onde di uno stesso mare», ma differenze di stimoli e di educazione inevitabili. Si tratta di comporli in una risultante di efficienza pratica. I vecchi hanno bisogno della competenza economicista dei giovani; ma i giovani hanno bisogno del pensiero, autenticamente liberale dei vecchi. Ad ogni modo, non chiudere gli occhi per imparare da tutti, in casa nostra e da fuori di casa nostra. Ma essere realisti, porsi dinanzi al problema concreto: come soddisfare i due poli della coscienza umana, libertà e giustizia, dinanzi ai provvedimenti dell’economia e della finanza. Così dinanzi al problema concreto mi sono posto, chiamando insieme Pella e Campilli ed invitandoli a trovare, come hanno trovato, il punto di fusione delle loro idee, di fusione e di convergenza. Questo punto di fusione risulta dalla mia esposizione programmatica del nuovo governo. Si augura che i componenti, Fanfani, ci aiutino a trovare nuove possibilità; ma prima di lanciare le loro ricette, le esaminino con altri e le presentino come integrazione di quello che il governo ha fatto. Domanda scusa di essere stato lungo, le concezioni economistiche debbono essere considerate nella realtà politica attuale, dominata dal sabotaggio comunista. Tutti un partito solo, con varie idee subordinate e con varie funzioni: ma uniti e compatti. Se appariremo divisi, incoraggeremo coloro che delle nostre divisioni vogliono approfittare. Lavoriamo insieme e non lasciamo consumare il nostro patrimonio di fede e di libertà. Per questo vogliamo combattere e vincere ancora. Visto il mutuo consenso sul nome di Gonella propone che si passi alla votazione dei nomi del segretario politico e del segretario amministrativo . Si consideri questa eventualità , attraverso la votazione della Direzione.
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Vengo, cari amici, da una visita solenne, da una cerimonia solenne sul vostro mare. Della flotta, grande una volta, non ci sono rimasti molti strumenti, ma ho avuto l’impressione che c’è rimasto quello che è più importante per una nazione: il senso della disciplina, la virtù militare, il sacrificio dinanzi alla patria, rappresentati dai nostri bravi marinai, dai nostri bravi ufficiali. Ho all’occhiello un fiore rosa, un po’ rosso se volete; l’ho preso da un tavolo della corazzata «Doria»; vi ho messo accanto il garofano bianco della Democrazia cristiana; l’uno e l’altro simbolo si uniscono per esprimere la volontà di rifarci, di riprenderci, di ricostruire l’Italia. Questa è la nostra fermissima volontà; questa è la nostra fede, e questa è la purezza delle nostre intenzioni. Noi vogliamo tenacemente ricostruire il nostro paese, ricostruirlo nella sua forza, sopratutto nella sua capacità di lavoro, nella giustizia sociale e in una migliore distribuzione della ricchezza, del reddito e del guadagno, in una maggiore giustizia per i poveri, per le classi lavoratrici. Tutto questo lo vogliamo fare, ma nell’ordine, nella disciplina e costruendo anche quelle forze che mantengono, all’interno, l’ordine e, all’esterno, la sicurezza. Noi siamo per la pace; per la pace però difesa, che corrisponda alle nostre esigenze, per la pace sicura, sicura nella disciplina dei cittadini, nella forza dei nostri organismi e in quella protezione di Dio che non ci è mai mancata e non ci mancherà. Io mi consolo, mi sono consolato nello stare in mezzo ai marinai, ai lavoratori del mare; mi conforto nello stare in mezzo a voi, lavoratori d’Italia; mi conforto perché sento in voi l’ottimismo che ci anima, che ci ha fatto vincere insieme, nel 1948, il 18 aprile, che ci farà vincere la battaglia della resistenza per la ricostruzione. Bisogna aver fede; il mondo è allarmato, a tratto a tratto, da notizie e da minacce di guerra ed è vero sopratutto che nel nostro paese c’è chi ha interesse di dipingere sempre lo spauracchio di una guerra imminente e per di più una guerra provocata da noi, pacifici cittadini, che non vogliamo invece che pace e sicurezza. Tutto ciò allarma la pubblica opinione, specie in certe regioni, ritarda gli investimenti di capitale, ritarda i rinnovamenti delle industrie, fa diventare pavidi coloro che hanno denaro e che perciò lo conservano, invece di metterlo in movimento. Questo, per me, è un grande tradimento che si compie e tanto più grande quando viene da coloro che vogliono rappresentare gli operai e gli interessi operai. Bisogna aver fede, perché, solo con la fede, si può ricostruire e solo con la ricostruzione saremo sicuri, e solo nella sicurezza c’è la pace. Ecco perché vi dico, amici miei – noi che siamo lontani da qualunque pensiero aggressivo, imperialista o nazionalista – che vogliamo sopratutto la giustizia sociale, cioè una migliore distribuzione della ricchezza tra i lavoratori e tra le differenti classi. Ecco perché vi dico – noi che abbiamo bisogno di pace per vivere e ricostruire l’Italia – che saremmo dei pazzi se, comunque, provocassimo conflitti o, comunque, li facessimo nascere nelle menti, perché il farli nascere nelle menti come allarmi è anche un modo di provocare conflitti: il pericolo che si fa intravedere, certe volte può essere causa del conflitto. Vogliamo essere in piena tranquillità di coscienza, sapendo che lavoriamo per la pace, che abbiamo orrore della guerra, che vogliamo ricostruire questo paese e che appunto per ricostruirlo vogliamo tenerci lontano dagli eccessivi allarmismi che vengono seminati da coloro che, se mai, ci provano che l’intenzione della guerra è altrove e, quasi quasi, cercano anticipatamente di giustificare l’eventuale intervento che ci fosse dall’altra parte. Ebbene, nonostante tutto, nonostante gli allarmi, nonostante le voci, che si fanno correre, dico che non sarà più possibile che, per una piccola minaccia, scoppi un conflitto. Tutte le nazioni sanno che cosa vuol dire guerra – sterminio e morte di milioni di uomini – e sanno anche che certi ordigni che si sono inventati e si stanno inventando potranno dare ancora la morte a centinaia di milioni di uomini. La guerra è talmente lontana da noi e dalle nostre possibilità che noi possiamo avere la intima speranza che la sua minaccia non si avveri e non si avvicini. Ma ciò detto, bisogna anche dire che, per essere veramente pacifici, occorre costruire la pace nel nostro animo, occorre che si cominci ad essere pacifici tra noi, occorre che non vi siano dei partiti che disconoscano la nazione, ma dei partiti i quali vedano sopratutto ed anzitutto il popolo italiano, occorre in fine che, in nome di questo popolo e dell’Italia, si crei nel nostro spirito l’amore fraterno. Tolleranza dunque verso gli avversari; poiché solo portando la pace in noi e poi nel nostro paese potremo imporla anche ad eventuali avversari, che ci fossero alla frontiera, potremo dare l’esempio della ricostruzione; noi che vogliamo ricostruire anche l’Europa. Guardate, voi che siete gente vicina al mare e sapete che i mari congiungono i continenti, guardate che questa grande idea va diffondendosi. Si è fatto un Patto atlantico, un’alleanza che i nostri nonni non avrebbero nemmeno pensato possibile guardando il mappamondo, un’alleanza difensiva che stringe una gran parte del mondo. Si sta ora trattando di costruire l’unità dell’Europa e, se la si costruisce si darà vita ad una nuova alleanza a cui parteciperanno tutti i popoli che hanno sofferto delle guerre, che hanno orrore massimo della guerra, e tutto l’interesse a mantenere la pace. Questi popoli si metteranno d’accordo, saranno unite sopratutto le grandi masse lavoratrici di una parte e dell’altra e sarà creato un grande baluardo di tranquillità e sicurezza, tale che la guerra sarà esclusa per sempre. Amici miei, per far questo, perché un paese possa far veramente sentire e anche imporre questo criterio di pace e di fraternità bisogna che siamo tra di noi amici, che bandiamo l’odio e che ci assista sopratutto il senso della disciplina, di una disciplina interiore. Oggi l’ho vista, con grande ammirazione, questa disciplina che è la virtù meravigliosa dei marinai sulle grandi navi e sulle piccole, su una flotta intera, questa disciplina meravigliosa, la quale, nel passato, ha dato tante prove di saper condurre al sacrificio e di farlo sopportare. Questa disciplina deve essere anche nostra, amici miei. Tutti siamo in alto mare. Le onde agitate dell’Europa, del mondo, oggi ci chiamano quasi ad una vocazione: quella di navigare, e non con la Stella Polare, ma con la stella della nostra speranza, con la stella della nostra fede, con la nostra volontà di pace e con la nostra sicurezza nei destini d’Italia. Amici di Taranto, io vi devo una visita più dettagliata che si interessi direttamente dei vostri postulati, i quali d’altronde mi vengono trasmessi dai vostri rappresentanti, dai vostri deputati. Vi devo una prova più concreta di questa partecipazione, di questo interessamento che sento per voi. Ve la darò. Ma lasciate in questo momento di rapido saluto che io chieda a voi un contributo: quello di essere confortato dal vostro entusiasmo e dai vostri propositi a volere amare più fortemente questa pace, a difenderla, ad avere nei miei ultimi anni la fortuna di aver contribuito a renderla all’Italia e in tal modo di aver concorso anch’io a creare in Europa un baluardo per la pace. Amici, non è questo lavoro di pochi, è lavoro di tutti, lavoro di coscienza, di disciplina, di voi tutti. Bisogna che dal popolo venga il grido che chieda pace, pace. Ricostruiamo la pace all’interno e la pace all’estero. E sopratutto per ottenerla diamo testimonianza di disciplina, di ordine, di buona volontà, di lavoro, cerchiamo la migliore distribuzione possibile dei beni della terra per superare quelle difficoltà che sono naturali, ma che si superano se gli uomini sono pronti al sacrificio e sanno che bisogna, per vincere, avere fede assoluta nella Provvidenza Divina.
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Amici milanesi e lombardi, pare destino che nei momenti di passeggera tristezza che mi assale durante la fatica quotidiana, io debba venire ad attingere forza e conforto a Milano. Da una parte il grande sforzo di ripresa documentato dall’Esposizione, la manifestazione di energia, di speranza, di certezza nell’avvenire che questa Esposizione dimostra, dall’altra l’entusiasmo della popolazione, l’incoraggiamento aperto di molte facce conosciute o sconosciute ma tutte amiche, danno all’animo mio quel sentimento di cui ho bisogno per resistere contro le amarezze di una incomprensione e sopratutto di una critica demolitrice. Sembra infatti quasi che la caratteristica dei nostri tempi sia, politicamente parlando, l’autolesionismo, una politica defatigatoria e demolitrice che esagera tutti i motivi negativi, e fino a dipingere la imminenza e la fatalità di una guerra, quasi per impedire che il popolo ricostituisca la sua speranza e ritessa tranquillamente le sue fortune economiche e materiali. Pur ieri nel dibattito parlamentare chiusosi ora provvisoriamente sulla questione di Trieste, e nella stampa, si è insistito sul dubbio che l’impegno preso dagli Alleati solennemente nel marzo 1948 potesse essere indebolito o addirittura revocato. Ebbene, anche se ci fosse stata un’ombra di dubbio che così potesse essere e non è, mi pare che tutti gli italiani degni di questo nome avrebbero dovuto insorgere contro il dubbio e affermare quella che è una verità, che è in ogni modo la nostra volontà irremovibile: cioè che l’impegno preso deve essere completamente assolto. Deve essere così perché l’Italia vuol sorgere e può essere un fattore politico internazionale, e può collaborare in nome della libertà e della giustizia soltanto se non viene ferita nella sua integrità nazionale, nella sua anima della resistenza e della ricostruzione. Invece per svalutare gli effetti della politica, che si pensa sia semplicemente della maggioranza, del governo o della Democrazia cristiana, per svalutare questa politica si è incominciato a dare alle ombre sostanza, alle ipotesi di giornali tono perentorio, tanto per concludere affrettatamente che la nostra politica è sbagliata e la posizione dell’Italia compromessa. Questo svalutare l’impegno ottenuto, questo svalutare i passi anche piccoli compiuti nella politica internazionale, questo negare il lento ma sicuro risalire dall’abisso nel quale la guerra ci aveva buttato, ha una duplice origine. Gli uni, dicendo di parteggiare per la pace, parteggiano in realtà per una delle parti in conflitto, e, in modo particolare, per quello Stato che credono sia l’antesignano della rivoluzione operaia, ed allora hanno interesse a negare qualunque buona fede agli Alleati e qualunque costruttività della politica nazionale italiana; gli altri si ricongiungono a coloro i quali hanno negato e negano il valore della cobelligeranza e dell’insurrezione partigiana. Alla Conferenza di Londra tale negazione proveniva dagli ex nemici e specie dagli jugoslavi. Era nostro dovere allora, ed era nostro diritto, richiamare agli Alleati questa duplice verità della cobelligeranza – come si chiamava allora il contributo dato dall’Esercito ricostituito nel Sud – e del contributo più notevole dato dalle formazioni partigiane volontarie nel Nord, e sostenere che questo fu un contributo di sangue, un contributo di forza materiale e morale che rese possibile la vittoria e che non potevamo quindi essere giudicati senza tener conto di questo contributo. Ottenemmo alfine che, nell’introduzione al Trattato fosse inserito il riferimento al contributo dell’Italia alla guerra di liberazione , e tutto quello che si poteva fare per documentare i risultati concreti dell’azione partigiana e della cobelligeranza venne fatto. «Fascisti» – ci gridavano allora i nostri accusatori alla Conferenza, onde ottenere un verdetto di condanna contro di noi. Erano quelli i tempi in cui venivano presentate le liste dei criminali di guerra, nelle quali era compreso anche il nostro bravo Marazza qui presente. D’altra parte, però, vi sono coloro i quali negano la guerra di liberazione per altre ragioni, per ragioni inverse, perché nella nostalgia delle cose passate tentano di giustificare la guerra esterna accanto ad Hitler e la guerra civile, e tentano col complice concorso di speculazioni pubblicistiche una riabilitazione che sfida il buon senso del popolo italiano. Anche questo tentativo di svalutazione del contributo italiano alla guerra di liberazione per queste altre ragioni è un tentativo che dobbiamo respingere, e se c’è qualche cosa di amaro nella nostra situazione è proprio questa collusione delle due ali, questo ritrovarsi nella negazione dello sforzo presente di avversari di due diverse origini, negazione però che – se facesse breccia – varrebbe a condurre e condurrebbe fatalmente alla disintegrazione politico-morale del paese. Amici miei, è passato molto tempo e credo che tutti gli animi, sopratutto i nostri animi, siano ormai aperti alla conciliazione ed inclini a dimenticare il passato. Se ammiro qualche cosa in Giulio Cesare , è il suo ordine di rimettere in piedi le statue abbattute di Pompeo ; ma noi non potremo mai indulgere a qualche cosa di simile fino a che vi sia chi possa trarre da questa disposizione d’animo la conseguenza e la speranza che quei tempi maledetti possano tornare. Non perché possiamo temere proprio un reale capovolgimento della situazione, ma perché un nuovo tentativo significherebbe la distrazione di tante giovanissime energie dai compiti supremi della ricostruzione del paese. Amici miei, quando vedo che degli studenti si infervorano ancora per certe rievocazioni del passato posso apprezzare che taluno creda, nella sua inesperienza, di rievocare tradizioni di eroismo e di orgoglio nazionale, e magari di indipendenza, anche nei confronti delle potenze straniere; possa tornare il sogno di dare all’Italia un prestigio esteriore maggiore di quello che possa sperare di ottenere oggi, nella fratellanza e nella cooperazione internazionale. Ma non possiamo ammettere che questi sentimenti conducano i giovani a una concezione anarcoide di fronte al mondo internazionale e ad una mentalità aberrante che ci riapre l’abisso spezzando ancora una volta l’unità morale del popolo italiano. È con grande dolore che dobbiamo assistere a questa dispersione di forze. Se in questi giovani c’è l’orgoglio della patria che deve risorgere, se c’è volontà di lavorare per la sua ripresa, se c’è in loro il senso della grande tradizione della nostra storia, se c’è in loro la fede nel nostro avvenire, vengano essi con noi, perché anche noi abbiamo questa volontà, anche noi siamo nutriti della stessa fede. La patria e l’orgoglio nazionale sono elementi che non bisogna mai disprezzare, né permettere che siano disprezzati, in quanto siano elementi ricostituenti la nostra unità morale. Ma vorremmo noi rifabbricare con le nostre mani il disastro che una volta ci ha già travolti? L’autolesionismo di cui dicevo fa capolino talvolta anche quando si discute di questioni economiche. Se è vero, come è vero, che i nostri malanni sono tanti, è però anche vero che sono ragione di conforto. Si può forse negare che l’esposizione di Milano costituisca la più viva documentazione della nostra ripresa? Si può negare che gli affari si sono moltiplicati? Si può negare che gli stranieri che vengono per ammirare la nostra terra, per comprare i nostri prodotti, siano aumentati? Se da per tutto sentiamo tale riconoscimento straniero, perché non ammetterlo anche noi, perché anche noi non confortarcene, pur aggiungendo che abbiamo ancora troppe miserie da superare, troppe debolezze da curare, grossissime difficoltà da risolvere? Queste sono vere, ma è vero anche che giorno per giorno riguadagnamo terreno. E questo conforto noi non chiediamo in nome di un governo, in nome di un partito; lo chiediamo in nome di un popolo che lavora, che ha del coraggio, che non vuol soffocare, che non deve essere demoralizzato dallo spettro di una guerra che ogni giorno ci si dipinge come imminente e fatale, e non deve essere preda di uno sconforto che porterebbe solo ad una disintegrazione della volontà, ad una lacerazione di quel tessuto che è invece tanto necessario per rifare la tela della nostra unità nazionale. Non bisogna che questo avvenga, bisogna che insorgiamo contro questo pessimismo, perché abbiamo bisogno di credere e di lavorare per credere. Quando alla Camera un ministro, con statistiche alla mano, viene a dire che il reddito nazionale è aumentato, e la produzione del 1949 è aumentata rispetto a quella del 1948, vi pare che si possa invece affermare che le cose vanno sempre ed ovunque male per poterne dedurre che la colpa è del governo? Ma io sono più sincero e vi dico che se le cose vanno bene, è solo per piccola parte merito del governo; se le cose vanno male, anche in questo caso la parte del governo è secondaria. Bisogna pur che imparino questa realtà, bisogna pur riconoscerla specialmente qui a Milano, dove essa è più visibile che altrove, dove si discute ma più si agisce nella vita pratica. Il lavoro, il genio, il talento delle classi produttrici e lavoratrici: questo è il fattore principale cui va il merito prevalente. Ma l’opposizione ha bisogno di mostrare che andiamo sempre indietro, che le cose vanno pessimamente. Quando gli argomenti forniti dalle cifre o da singoli fatti non bastano, si ricorre allora al giudizio di stranieri, e si cita qualche documento, qualche considerazione, qualche dichiarazione fatta, sopratutto dagli americani. Ed ecco come anche io mi riferirò a un riconoscimento recentissimo. Il 20 aprile c’è stata a Roma una riunione fra delegati americani della missione del Piano Marshall e delegati italiani. In questa riunione è stata letta una relazione dei revisori americani inviati dagli uffici centrali di Washington per esaminare se l’Italia, l’economia italiana, il governo italiano si siano davvero messi su una strada che possa condurre a dei risultati efficaci, e se quindi meritassimo di avere gli ulteriori 50 milioni di dollari del Piano Marshall che erano stati mantenuti di riserva. Come conclusione dell’esame che i delegati americani hanno fatto attingendo non soltanto alle cifre scritte ma documentandosi anche direttamente sui luoghi di produzione, è stato deciso di concedere gli ulteriori 50 milioni di dollari all’Italia – essendosi la Commissione di tecnici revisori fatta la convinzione, in base ai progressi raggiunti dal governo italiano, specialmente a partire dall’inizio del corrente anno, col disporre nuove facilitazioni di credito e con l’elaborare un vigoroso programma di investimenti – che l’Italia è sulla via della ripresa, e quindi deve essere confortata con l’aiuto straniero. Il popolo italiano ha del buon senso, e si pone questa domanda: dove saremmo andati a finire, se non avessimo avuti per cinque anni gli aiuti americani, dapprima sotto forma di assistenza e successivamente sotto forma di concorso alla nostra ricostruzione economica; dove andremmo a finire se non avessimo ancora tali contributi? L’Italia ha così numerose braccia per il lavoro, che non può vivere da sola e deve cercare l’appoggio delle nazioni più ricche e più forti. Questa collaborazione non è dunque un sogno, come taluno dice, della fantasia del ministro degli Esteri, non è teoria, è un bisogno, è una necessità, che noi sentiamo più di tutti gli altri. Bisogna costituire l’unità europea, bisogna ricostituire una collaborazione. Questo riconosciamo. Ma diciamo anche agli Alleati: noi possiamo collaborare solo in dignità ed interezza morale. Parlando poco fa contro la critica demolitrice, contro l’autolesionismo, non ho voluto escludere la libertà di critica, la critica, come si dice, costruttiva, la discussione. La democrazia si fonda sulla discussione, sulla dialettica, sulla ragione. Discussione, suggerimento, ammonimento, se occorre: l’attacco anche, quando è necessario e fondato. Tuttavia, poiché qui parlo ad amici e qui il discorso si avvicina di più a quella che è la nostra esigenza particolare della Democrazia cristiana, mi sia permessa un’osservazione: credete proprio sul serio che in Italia si scriva troppo poco, si discuta troppo poco? Credete proprio sul serio che deputati e senatori non abbiano occasione nelle interpellanze, nelle mozioni, nei dibattiti, di esprimere il pensiero dei propri elettori? Credete proprio sul serio che nei giornali la libertà non venga spinta al punto di permettere a chiunque di esprimere una opinione e di attaccare anche il governo? Fin troppo, avete ragione. Fin troppo, quando pensate alle ingiurie con cui si colpisce il governo. Lungi da me il fare qualsiasi accusa alla magistratura o il pensare di diminuirne la indipendenza. Innegabilmente tutte le autorità, nel decidere e nell’agire, volontariamente o involontariamente interpretano una media opinione pubblica che si va creando dal basso e che costituisce il costume. Questa opinione mediana, avviene che talvolta diventi la misura di un giudizio o di una sentenza; bisogna perciò illuminare l’opinione pubblica, bisogna immettervi criteri di moralità, di giustizia, di apprezzamento dell’onore delle persone e delle autorità. Se c’è un’attenuante per certe manifestazioni antidemocratiche e antiparlamentari da parte di taluno fra la gioventù studiosa, è proprio lo spettacolo offerto talvolta dalle pubbliche assemblee o discussioni. Grave responsabilità, quindi, quella che abbiamo noi deputati. Grave responsabilità, in fondo, quella che avete voi, perché se i deputati riescono male, la colpa è anche vostra. Ai nostri amici che amano la democrazia e la discussione, io dico: tutte le discussioni che volete. Ad una condizione però: di arrivare in tempo. Avete il diritto di discutere ma non avete il diritto di perdere la diligenza, non avete il diritto di perdere le ore del quadrante. Dobbiamo subordinare il nostro diritto di discussione e la nostra libertà di critica alla impellente necessità di arrivare ad una soluzione del problema, o dei problemi in discussione. Ecco che io da qui, da questa città industriosa e rapida, rivolgo un appello a tutti gli amici, nel partito e nelle due Camere, perché siano solleciti nelle loro deliberazioni anche con sacrificio di qualche interesse locale, lasciando al tempo di introdurre le necessarie migliorie. Discutete pure sul programma poliennale di investimenti, discutete pure sulla riforma agraria, esprimete pure altre formule, se voi credete, ma non bloccate l’attività di governo, affinché non ci venga rimproverato dagli avversari che non abbiamo volontà seria né di riforme né di grandi investimenti per accrescere le possibilità di lavoro. La responsabilità, amici miei, è nostra: del governo, del Parlamento, del partito, perché tutti e tre sono in parte prevalente costituiti da elementi della Democrazia cristiana ed allora bisogna avere senso di responsabilità. È inutile parlare di disfunzione dei poteri, è inutile parlare di autonomia del partito in confronto del governo, di suscettibilità parlamentari in confronto dell’esecutivo, dimenticando che quest’esecutivo è composto di uomini candidati dal partito, e che in fondo siamo tutti legati dalla stessa responsabilità. Quindi è inutile cercare di separarsi o di creare degli alibi per il partito al di fuori delle facoltà parlamentari, o per il governo o per il Parlamento all’infuori del Parlamento o del governo. Questo senso di corresponsabilità bisognerebbe che fosse molto forte e indivisibile. È inutile prendersela solo col governo, se noi come partito e come organizzazione non abbiamo vitalità propria, né la forza di smuovere le categorie, o provocare la reazione contro le manifestazioni degli altri. Le leggi possono farsi, ma senza la collaborazione delle masse popolari, almeno della parte notevole di esse, almeno della parte notevole che ne accetta le direttive, non si possono applicare, e la legislazione resta lettera morta. E se – quando i tram non vanno – avessimo solo quaranta tranvieri che li fanno andare; quando – proclamato uno sciopero generale – avessimo soltanto quaranta commercianti che lasciano coraggiosamente le saracinesche alzate, dimostrando di avere più a cuore la loro dignità e l’interesse nazionale piuttosto che le vetrine dei loro negozi; allora, credete a me, quel coraggio che voi dimostrate e dimostrano gli interessati darebbe al governo l’impulso per le sue provvidenze di carattere sociale e di difesa dell’ordine pubblico. È questa la collaborazione che il partito deve promuovere. Questo è il compito sopratutto del partito, e quanto maggiore sarà l’azione del partito in tal senso, tanto maggiore sarà poi il diritto di critica nei confronti del governo. Si è detto che nel partito abbiamo bisogno di saldare assieme due generazioni: la generazione vecchia, la generazione del Partito popolare, per intenderci, e la generazione nuova, quella della Resistenza. Ora a me pare che questa discriminazione non sia del tutto esatta, perché di qua e di là vi sono giovani e vecchi, ma sopratutto per questo: la resistenza contro il fascismo è incominciata il più tardi nel 1924. Dopo di allora abbiamo accettato l’esilio, anche se rimasti in patria, l’esclusione dalla vita politica, dalla vita civile, e perfino la privazione della libertà. E si potrebbe anche risalire più indietro, e riallacciarsi alle lotte che portarono al nostro Risorgimento e dire che noi riusciremo veramente ad attuare quella ripresa nella quale crediamo quando avremo realizzato un secondo Risorgimento nazionale. L’elemento fondamentale della nostra formazione politica è dunque la democrazia, cioè la fede nella libertà. È un concetto questo che bisogna ripetere continuamente. Sappiamo che ci sono nel parlamentarismo delle ruote che non vanno, che in generale nella democrazia ci sono degli inconvenienti che bisogna eliminare, o quanto meno attenuare sulla base dell’esperienza. Sì, tutto questo è vero. Ma poiché abbiamo conosciuto altri sistemi, o nella storia, o nella vita, ne abbiamo tratto la conseguenza che questo è ancora, umanamente parlando, il sistema meno cattivo, quello che implica meno rischi, quello che salvaguarda l’attività umana, quello che permette di correggere se stessi; perché la democrazia è una forza, è un sistema che deve correggersi quotidianamente nella discussione e nell’impegno sostanziale di migliorare se stessi. E di questo non si dubiti, non si lasci dubitare nessuno. Ogni paese si dà quel governo che meglio si adatta alle sue condizioni particolari. Ma in Italia, col senso tradizionale della libertà, col senso dell’individualismo che è quasi una seconda natura di ognuno di noi, col senso della civiltà cristiana che è nel nostro spirito e che ci fa così ribelli a tutto quel che è tirannia, in Italia la democrazia è il metodo migliore. Voi ricorderete che allorché mi sono presentato alla Camera per esporre il programma del nuovo governo , prima ancora di illustrare quello che era la novità, direi, del programma governativo, e cioè del piano poliennale di investimenti, la concentrazione di tutti gli sforzi contro la disoccupazione, ho cominciato il mio discorso col dire che primo compito di un governo, in questi tempi, finché durano gli attacchi dell’estrema sinistra e dell’estrema destra alle istituzioni democratiche, finché vi sono dei pavidi, i quali temono le conseguenze della democrazia, primo compito di ogni governo, ripeto, è quello di difendere le istituzioni democratiche perché non è vero che siamo tranquilli e abbiamo superato ormai la fase della lotta per le premesse fondamentali, non è vero. Basterebbe che ci si addormentasse un mese, una settimana, perché in un momento di crisi vediate profilarsi minaccioso il pericolo che in Italia la libertà vada perduta. Ora bisogna tenere il popolo sul chi vive per questo. È vero, le esigenze reali ci impongono la ricerca di soluzioni economico-sociali, ma dobbiamo cercarle e inserirle nel quadro dei problemi istituzionali e politici. Nelle questioni economiche esiste una certa opinabilità e difficoltà e differenze anche fra i cattolici ce ne sono sempre state. Se conoscete la storia, ricorderete i tempi in cui si credette che le corporazioni potessero costituire forme di organizzazione economica applicabili al nostro tempo. Anche ai tempi di Toniolo queste idee fiorirono, e sembrarono accettabili. Così fu in Germania, nel Belgio, in Austria. Il solidarismo rappresenta la nostra direttiva fondamentale; ma una forma strutturale sicura fu tentata e disegnata in diversi modi. Nessuna ha ottenuto consenso universale. In tale attesa, discuteremo liberamente. Ma decisivo è il senso evangelico che deve ispirarci. Sono sopratutto lo spirito e la volontà a guidare gli uomini, anche nella scelta dalle provvidenze e delle riforme di carattere economico e sociale. Ricordatevi che noi avremo insieme la sconfitta o la vittoria, che sarà inutile ai giovani di richiamarsi alle colpe dei vecchi, che sarà inefficace per i vecchi di lamentarsi delle colpe dei giovani, perché tutti insieme, poiché abbiamo tutti assunto le responsabilità della Democrazia cristiana: saremo premiati dalla vittoria o castigati dalla sconfitta.
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Questa non è una mostra d’un regime e nemmeno di un governo: i governi passano, l’Italia rimane, il popolo rimane. Questa è la mostra del coraggio, della iniziativa, della tenacia, delle virtù del popolo italiano: è la mostra della fatica dei lavoratori e del sacrificio delle classi medie. Ed a questo proposito penso soprattutto alla evoluzione finanziaria, di cui qui abbiamo poche tracce, ma che è molto importante ed è la base, il principio, il punto di partenza per la ricostruzione materiale. L’amministrazione pubblica, lo Stato ha potuto – ed è questo il suo compito – integrare, talvolta surrogare, supplire alle iniziative individuali, ma non sopprimerle, né questo era il suo programma, né questo era il suo dovere. Onde qui, in realtà, noi non esponiamo tutto quello che il popolo italiano ha fatto, tutto quello che le diverse categorie hanno osato e hanno faticato: esponiamo quello che l’amministrazione pubblica, in questo suo compito sussidiario surrogatizio, ha fatto per la ricostruzione e per rimediare alle distruzioni della guerra. Accennando al fatto che gli ideatori della mostra hanno posto come simbolo di essa l’armatura che servì ad innalzare l’obelisco di piazza S. Pietro, sul concorso di 40 argani, 800 uomini e 140 cavalli, l’onorevole De Gasperi ha sottolineato che questo simbolo è bene scelto in quanto testimonia che si può raggiungere uno scopo solo con il concorso di tutte le forze. E la ricostruzione si è realizzata appunto con il senso di solidarietà nazionale dimostrato da tutto il popolo. La patria è una sola e il popolo italiano ha voluto ricomporre l’unità della patria. Siamo ricostruttori anche nel momento in cui agiamo come ordinatori pubblici. Perché non è che noi stiamo con una categoria o l’altra; soprattutto non stiamo dalla parte di coloro che già sono forti di per sé; non è vero, questo, è vero che ci preoccupiamo della necessità della concordia, della necessità dello sforzo e che dobbiamo talvolta temperare le agitazioni e le lotte in nome di questa necessità assoluta della concordia e dello sforzo unito per sopraelevare, per rimettere a posto la guglia, la patria. Siamo qui per dire: ecco quello che abbiamo fatto. Però bisogna completare la ricostruzione e poi bisogna costruire ex novo, perché non è detto che la via, la meta normale sia il ’38 o l’anteguerra. Bisogna ricostruire ex novo, sia in quantità per corrispondere all’aumentata evoluzione e sviluppo del popolo italiano, sia nella distribuzione per arrivare ad una maggiore giustizia sociale. È inutile, passeranno di qui anche dei forestieri, dei pellegrini che vengono da tutte le parti del mondo per venerare le vestigia degli uomini, dei grandi uomini del passato, che hanno percorso il loro cammino non semplicemente per la città o per la nazione, ma per l’umanità intera. Questi pellegrini, viaggiatori, devono vedere il nostro sforzo, devono vedere che il popolo italiano, così ricco di braccia e di idee, così povero di materie prime e di strumenti, questo popolo vuole la sua ricostruzione, l’ha iniziata, la compirà, ma intende compierla entro la fraternità dei popoli. E poiché proprio oggi si aggirano ancora fantasmi di guerra e facilmente si crede a delle notizie allarmistiche che non hanno fondamento, riaffermiamo soprattutto questo lavoro; è lavoro di cooperazione internazionale, lavoro soprattutto per la pace.
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Ho con me le bozze del vostro manifesto. Leggendole risuonano ai nostri orecchi le voci della giovinezza perché il manifesto non è e non può essere che un tentativo di aggiornamento e di ringiovanimento del pensiero fondamentale che ci ha sempre guidato. Mi pare di poterlo riassumere per quella parte che si riferisce alla vita sociale, alla linea di condotta, ai rapporti con i nostri compagni di lavoro: anzitutto è un manifesto di libertà poiché quando si parla di pluralismo sociale, si parla di famiglia e di sindacato, di Chiesa e di Stato; quando si afferma la libertà delle organizzazioni intermedie, quando si afferma che il fine della società è l’uomo e che l’uomo è anteriore allo Stato, che l’uomo, come scriveva Leone XIII, è provvidenza a se stesso sotto la legge eterna di Dio, si afferma un principio fondamentale di libertà. Il fine della Società è l’uomo: l’uomo è anteriore allo Stato. Nella prima metà di questo secolo e nell’ultimo scorcio dell’altro secolo i liberali e buona parte di essi non hanno capito che si trattava di un messaggio essenzialmente di libertà e non l’hanno ammesso perché erano dominati dalla diffidenza verso la Chiesa e, invischiati ancora nel Kultur Kampf, non avevano intravisto che i cattolici accettavano ormai la libertà come regola di condotta sul terreno politico sociale. Forse a questo malinteso ha contribuito talvolta e in qualche periodo una tattica sbagliata da parte dei cattolici, talvolta nella nostra polemica ha fatto capolino un’ingenua e anacronistica aspirazione al ritorno di forme medioevali. Vi sono state forse anche in qualche caso delle opportunità che degenerarono in opportunismo, ma resta il fatto decisivo che l’insegnamento della Chiesa proprio nei momenti più critici in confronto del fascismo e del nazismo fu rivendicazione della dignità umana, appello all’autonomia della persona; e accanto alle idee ci furono infatti le sofferenze, il martirio di tanti cattolici per la libertà, per la resistenza contro il male, nella figura totalitaria dello Stato assorbitore. La prova che nella dottrina e nella pratica fra cristianesimo integrale e totalitarismo statale non c’è possibilità di conciliazione è stata raggiunta ampiamente. Nello stesso tempo è stato provato che i princìpi fondamentali della Chiesa cattolica sono conciliabili con le regole di convivenza e di condotta in uno Stato moderno e costituzionale ispirato a giustizia e libertà. E il merito di tale prassi in alcuni paesi è dovuto a quella forma politica che si chiama Democrazia cristiana. Tuttavia una differenza resta sempre da parte di coloro che non comprendono questa nostra concezione aperta, larga, tollerante, aggiornata della vita sociale. E questo spiega perché direttive così giuste, così sane, così larghe non abbiano trionfato ancora in tutta Europa. D’altro canto noi che veniamo dalla lotta più accesa contro il marxismo abbiamo pur dimostrato ai socialisti, in quanto siano socialisti ma non materialisti, che il nostro solidarismo se non è socialismo può essere in pratica anche socializzazione e soprattutto che la nostra concezione del lavoro, della libertà sindacale, è una concezione umana libera da pregiudiziali liberiste o antidirigiste, aperta a nuove forme, a nuovo sforzi. Concezioni della proprietà tradotta nella duttile forma della sua funzione sociale, cioè proprietà al servizio della nazione e vantaggio delle classi popolari. Malintesi dunque, equivoci, spirito del male hanno ritardato il nostro cammino. Però dobbiamo aggiungere: è la storia che ha congiurato contro di noi e non solo contro di noi; è la storia che ha congiurato, cioè la guerra. Inutile discutere di Stato e di rapporto tra Stato e individui in tesi dottrinali. La guerra è annullamento della persona entro lo Stato e significa concentrazione dei poteri e scomparsa delle organizzazioni intermedie di cui si vorrebbe auspicare la funzione, concentrazione industriale e capitalistica, asservimento del lavoro, distruzione delle classi medie, ossia di un tenace fattore di progresso, di equilibrio e di ragionevolezza. Dopo la guerra non rimane in piedi che lo Stato molock, che plutocrazia da una parte e dall’altra, sembra sia fatale la più esasperata lotta di classe. La dottrina di mediazione che è quella cristiano-sociale, coi suoi princìpi di equità e di giustizia si trovano come isolati dinanzi alle rovine create dalla guerra. Lo Stato si trova fatalmente dinanzi alla rivendicazione della massa e dell’individuo che chiede al governo quello che per lo Stato fu perduto. Paralizzato ne risulta il compito delle organizzazioni intermedie. Io ritengo che sia sempre doveroso, efficace, naturale che i sociologi cattolici si adunino per riaffermare questi princìpi. Tornerà il momento in cui si potrà fare appello a queste forze intermedie per la ricostruzione e la riforma sociale. Ma se tale momento deve tornare, problema pregiudiziale, non più guerra ma organizzazione internazionale della pace. Vano sarebbe davvero adunarsi a congresso e non tenere presente la necessità assoluta di creare l’atmosfera di pace perché solo in tale atmosfera il cristianesimo può addurre ad una concreta riforma dei rapporti sociali. Non è difficile pensare alla struttura dell’organizzazione internazionale, ma è difficile creare il sentimento, il desiderio, il bisogno della collaborazione e della pace. La pace internazionale è raggiungibile solo se nella politica interna e sociale di ogni paese si creano garanzie interne di un regime umano, tollerante, socialmente giusto, politicamente libero. Perciò la pace non si conquista solo nelle conferenze internazionali ma si raggiunge soprattutto nell’interno di ogni paese creando la concordia, la collaborazione di quelle forze che vogliono veramente la pace. Noi domandiamo al mondo e ai nostri avversari una sola cosa: la libertà affinché in essa possa svilupparsi il seme del vangelo, perché è da questo seme ce si sviluppa la pace. Tolleranti verso tutti, chiediamo piena libertà e rispetto per la predicazione della parola evangelica. Non è vero che Cristo si sia fermato a Eboli, Cristo cammina ancora dinanzi a noi per segnarci le vie della giustizia e della pace.
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Nessuno penserà – anche se il mio discorso non fosse stato preceduto da una relazione sulla storia tecnica del movimento – che io, che a differenza di lodi amichevoli che mi sono state attribuite, non fui della cooperazione fra i collaboratori diretti ma soltanto un discepolo del metodo e dell’idea fondamentale, rifaccia la storia del movimento. Vi parlo soprattutto dello spirito delle cose, di quello che sopravvive, di quell’esperienza, per trarne delle conseguenze che riguardano non soltanto questo istituto ma in genere tutte le regole della collaborazione e della cooperazione nella vita sociale. Devo confessare innanzi tutto a Voi che se nell’animo mio, fin dalla gioventù, è nata una spinta irrefrenabile verso il sistema democratico e se si è – nonostante tutte le esperienze negative – corroborata la fede in questo sistema, non è solo per le esperienze politiche ma soprattutto per le esperienze sociali e per il principio di collaborazione, che ho trovato nelle piccole istituzioni trasformandosi poi in istituzioni maggiori; istituzioni che sono fondate sull’uomo semplice, sull’uomo del lavoro, sull’uomo del senso comune e che mi hanno dato lo specchio di quelle che sono le regole fondamentali ed essenziali della vita. Al di là, al di fuori, al di sopra delle polemiche e delle chiacchiere sta il fatto di questa cooperazione, di questo sforzo di solidarietà nato proprio dal senso di collaborazione comune e sviluppatosi e trasformatosi poi nel campo sociale ed in quello politico. L’amore al popolo minuto, a questo popolo che non ha grandi mezzi per esprimere la propria opinione, per costruire ampie e spettacolari iniziative – ma che ha in sé tanta forza nella tenacia e nella costanza di superare le difficoltà ed essere esempio di progresso – è la molla che ha mosso questo fenomeno. Perché la cooperazione è di grande efficacia generale, anche fuori del suo campo; prima di tutto educa alla democrazia nel senso della uguaglianza e della illimitatezza delle responsabilità. Qui non ci sono azionisti che fondandosi sopra l’acquisizione di una proprietà o sopra una posizione di partenza di ricchezza o di privilegio possano danneggiare gli altri. C’è l’uguaglianza del punto di partenza e c’è viceversa la solidarietà e la garanzia totale di uno per tutti e di tutti per uno. Questo principio della solidarietà si è manifestato nella cooperazione ai suoi primordi, quei primordi che vanno molto a ritroso nel tempo. Bisognerebbe citare gli esempi della cooperazione inglese, della cooperazione italiana: ma basterà ricordare che il primo congresso internazionale della collaborazione internazionale si chiamò Patto di fratellanza ad esprimere senso di solidarietà e senso di responsabilità. Il socio della cooperativa incomincia ad interessarsi della società come roba sua, perché sa che lui stesso ne va di mezzo se l’amministrazione è cattiva; quando entra a far parte dell’amministrazione incomincia a far pratica coi bilanci e sa che non può uscire più di quanto entri e sa che le spese non si possono fare se non esiste il corrispettivo, commisura il rischio dell’iniziativa, sente la responsabilità di una amministrazione cooperativa. Io vorrei augurarmi che tutto il mondo e tutta l’Italia in modo particolare, che tutta la nostra famiglia nazionale fosse una famiglia cooperativa, che avesse delle vostre cooperative non soltanto il senso della solidarietà ma anche quello della responsabilità; che sapesse come il bilancio dello Stato non sia una vacca da mungere senza guardare al nutrimento, una cassa alla quale si possa attingere senza pensare donde verranno i mezzi. Io penso che se i nostri colleghi assieme ai ministri, deputati, senatori formassero una cooperativa ed avessero il senso cooperativo, l’amministrazione dello Stato andrebbe meglio; e lo Stato – soprattutto il Parlamento – avrebbe un controllo maggiore. Io vi domando se in un’assemblea cooperativa avete mai visto la scena del rappresentante di una cooperativa che sorge e dice: «i cinque miliardi proposti sono troppo pochi, ce ne vogliono dieci». Il rappresentante delle finanze risponde: «ma ce ne sono solo cinque». «No, ribatte il richiedente, le esigenze che sono sempre naturali e legittime, i bisogni che sono sempre straordinari impongono di arrivare a dieci». «Ma dove si prendono?». «Questo è affare vostro» afferma il deputato o il rappresentante della categoria. No, signori, è affare di tutti, è affare cooperativo perché se i mezzi non ci sono è il bilancio dello Stato che va in malora; e se va in malora il bilancio dello Stato crollano con lui i valori della moneta e tutta la base economica dell’amministrazione pubblica. Quando penso alla cooperazione, penso che questo suo metodo e questo suo organismo di contemperata responsabilità, è cosa da invocare come rimedio anche alla nostra politica amministrativa. Quante volte avete sentito che un rappresentante dica: «facciamo un po’ di conti?» o «vediamo alla fine dell’anno che cosa arrischiamo?». Lo Stato ha ormai 1.200 miliardi di entrate e più di 500 – senza tener conto delle amministrazioni speciali – sono necessari per pagare le spese di amministrazione; su quelli che restano 100 miliardi rappresentano il debito vitalizio, 100 miliardi fino a ieri e 130 con i nuovi aumenti, le pensioni di guerra che dobbiamo pagare perché rappresentano un debito sacrosanto; 100 miliardi se ne vanno per il servizio debiti. Totale 800 miliardi su 1.200 di entrate. Restano 400 miliardi. Io vorrei che quando si chiedono aumenti, quando si chiedono soprattutto aumenti della spesa amministrativa, gli egregi collaboratori pensassero alla cooperativa; pensassero alla situazione di certe Banche che sono arrivate a tener alto il tasso di interesse perché le spese di amministrazione sono troppo gravi; pensassero alla semplicità delle nostre cooperative, allo sforzo di contenere le spese di gestione ed al criterio di responsabilità che vi è esercitato. Voi comprendete cari amici cooperatori, che io invece di venir qui, come sarebbe stato mio dovere a rendere omaggio alla Vostra attività, a ricordare i fondatori e gli amministratori, sono venuto a sfruttare un poco l’opera vostra. Vengo ad utilizzarla e la utilizzo proprio dicendovi bene del vostro sistema ed augurandomi che il sistema si allarghi e che il senso di responsabilità diventi patrimonio della vita sociale e della vita comune. L’amministrazione della cooperativa è, inoltre, anche una scuola per amministratori dei Comuni e delle Regioni: lo abbiamo visto in pratica perché se abbiamo voluto trovare dei bravi amministratori comunali, ci siamo dovuti rivolgere a coloro che hanno fatto le loro esperienze nelle cooperative, nei caseifici, nelle casse rurali ed in qualsiasi altra forma di cooperativa. Credo che anche la Regione risenta oggi un vantaggio da certe esperienze fatte; e più dovrà sentirne domani. Ma perché mi fermo al Comune, alla Regione, all’Italia se oggi al di fuori di noi si parla di cooperazione internazionale europea? È lo stesso concetto, lo stesso principio che si muove, onde certi discorsi che sembravano strani da parte dei fondatori del nostro movimento, non erano poi così vani se si pensa che oggi il principio e lo spirito di quegli ideali sono diventati una necessità internazionale. Non c’è altra scelta: possiamo scrivere articoli sui giornali, possiamo dar fiato al nostro impeto oratorio ma non c’è che una scelta; la cooperazione vuol dire pace e fuori della cooperazione c’è la guerra. Pensate che questo nostro principio che Voi avete attuato è lo stesso principio che si deve attuare per salvaguardare la pace. Cooperazione: e perciò il tentativo della unione doganale italo-francese; perciò il progetto Schuman nel campo dell’acciaio e del carbone; perciò i progetti di cooperazione dell’OECE, i progetti di Strasburgo. Dicono gli scettici, quelli che vogliono sapere e prevedere l’avvenire, che sono tutte chiacchiere, vi saranno, dicono, alcune conversazioni il cui risultato sarà zero, vi saranno discussioni che non avranno alcun esito pratico, ma se questo fosse vero che cosa rimarrebbe? Resterebbe soltanto la esaltazione della guerra. Io guardo alla storia vicina della nostra gioventù che è l’esperienza più bruciante: se rimane solo l’esaltazione della guerra come un principio di progresso resta una sola fede, quella dell’avventura, una soluzione quella di un conflitto tragico, oggi o domani da una parte o dall’altra. È una finale obbligata, che non conosce assolutamente ritorno. Quando voi sentite questi scettici, i quali dicono che tutti gli sforzi di collaborazione finiranno col dare all’Italia un pugno di mosche mentre altri avranno fatto i loro affari, rispondete: No! Nessuno farà degli affari; e poco importa perché un eventuale conflitto sarà di tale gravità e di tale intensità che tutti soccomberanno, che non ci sarà salvezza per alcuno, né per i vincitori né per i vinti. Talvolta mi pare di risentire le voci del 1914, quando Mussolini scriveva: «è il sangue che dà il movimento alla ruota sonante della storia» quando altri nazionalisti come il Maraviglia scrivevano: «vogliamo che l’idea della guerra entri nell’anima del popolo per creare una situazione di spiriti e di fatti tali per cui lo Stato possa fare la sua politica estera senza esitazioni, che la nostra attività internazionale non sia frenata da necessità attuali». E quando il fondatore del nazionalismo – precursore del fascismo – Corradini , insegnò col Mongler che «la guerra è sempre stata la grande macchina che elabora il progresso e che l’aumento della popolazione in Italia, lo stesso aumento prepara la guerra perché il senso della guerra si annida nel seme fecondatore dell’uomo». Perché, amici, miei, rievoco queste voci lontane? Le rievoco perché disgraziatamente non sono immagini storiche superate ma sono sentimenti che ancora esistono ed attraggono la gioventù, che afferrano ancora gli spiriti in una parte nobile dei loro sentimenti: in quelli dell’eroismo e del sacrificio di sé stessi; che si ripresentano, che fanno capolino non più con frasi così energiche e così chiare, non più con così evidenti conclusioni ma che, gira e rigira, rappresentano una preparazione psicologica alle stesse conclusioni. Tanto più che vedo riapparire, contemporaneamente allo spettro di queste idee, lo sforzo per deprimere il Parlamento: il Parlamento, amici miei, ha tutti i suoi difetti, ed io stesso ne sento quotidianamente le conseguenze; il Parlamento – come la democrazia – ha un sistema che scricchiola perché non sempre è oliato a sufficienza dal buon volere di coloro che maneggiano lo strumento. Ma il Parlamento, in Italia, oggi è tutto e non c’è altra autorità fuori del Parlamento. E se il Parlamento è disprezzato a quali autorità farete appello Voi? Il Parlamento oggi è lo Stato: se l’autorità del Parlamento va perduta è perduta l’autorità dello Stato. Ecco perché noi, pur facendo le critiche necessarie e facendo, com’è nostro dovere, della esperienza una lezione, come principio generale dobbiamo difendere il sistema parlamentare e metterci contro coloro che il Parlamento vogliono umiliare contro coloro soprattutto che del Parlamento si servono per ben altri fini. Ecco perché io, quale rappresentante del governo, dinanzi alle autorità devo dire: autorità, voi esistete, noi esistiamo, solo in quanto il Parlamento salvi con la sua dignità e la sua efficienza quella della democrazia italiana; se questo non sarà non crediate che si suscitino altra autorità, che da un altro regime possa sorgere il principio ricostruttivo e la forza dell’Italia. Bisogna rafforzare il sistema parlamentare: cercare di correggerlo, di rettificarlo, di migliorarlo ma sostenerlo, perché è ancora l’unico vincolo dell’autorità e della sovranità popolare. Bisogna insistere con tenacia in una politica ferma e dignitosa di cooperazione. Non possiamo lagnarci di certe accuse straniere che noi dobbiamo fermamente respingere, ma che hanno avuto disgraziatamente delle parvenze di verità per coloro che ci osservano. Abbiamo dovuto attraversare il periodo della neutralità del 1914-15, nel quale per una fatalità, anziché poter pubblicare subito il testo del trattato che legittimava onestamente la posizione dell’Italia, si è dovuto tacere, lasciando dilagare la discussione che invocava criteri machiavellistici anche allora esaltati. E lasciamo stare la famosa frase «la guerra continua» nel momento in cui si era deciso di non continuarla, lasciamo stare gli attacchi alla Francia e alla Grecia. Oggi noi dobbiamo riottenere la fiducia internazionale su di una linea leale e dignitosa con la forza che deve essere nel nostro spirito, che deve darci energia nel respingere le accuse e le offese degli avversari, per cui si riconosca che la democrazia italiana segue nei suoi rapporti con gli altri paesi una retta e comprensiva condotta. Dobbiamo parlare di cooperazione anche con i vicini; o come a Udine ho avuto occasione di parlare agli jugoslavi , qui ci sarà occasione per toccare il tasto dei nostri rapporti con i gruppi etnici tedeschi. Noi siamo stati molto leali nell’esecuzione dell’accordo di Parigi; molto leali e molto attenti ma naturalmente l’esecuzione non si poteva improvvisare; ci volevano i provvedimenti legislativi e amministrativi necessari. Quando però il 2 febbraio del 1948 abbiamo pubblicato il decreto legge per l’attuazione dell’accordo che rendeva possibile l’acquisizione della cittadinanza agli optanti del 1939, il ministro degli esteri Gruber ha dichiarato che «tale atto era uno dei più importanti per una duratura collaborazione italoaustraiaca»; nel marzo del 1950 abbiamo concluso con il governo austriaco un accordo per cui è cessata quella forma di coazione degli optanti e si è concessa loro la possibilità di rimanere in Austria contro una serie di concessioni da parte nostra per quelli che hanno chiesto di ritornare, concessioni di carattere professionale e sociale che riguardano la reintegrazione ai posti precedentemente occupati, compatibilmente alle possibilità – la concessione di pensione, assistenza ecc. –. Devo dire con soddisfazione che i rappresentanti del gruppo linguistico tedesco al Parlamento hanno fatto dichiarazioni chiare e leali circa i loro rapporti con lo Stato italiano: bisogna valorizzarle perché si tratta di un elemento psicologico importante; non bisogna diffidare fin dall’inizio ma avviare la sostanza di questa dichiarazione alla sua esecuzione pratica e trarne incoraggiamento. Tuttavia più che discussioni sui giornali, più che gli inasprimenti polemici giova una collaborazione profonda: anche qui l’unica strada è quella della cooperazione. Se non c’era la Regione? Chiederà qualcuno; rispondo io: se non c’era la Regione, ci sarebbero stati la Provincia e Comuni; anzi, con l’autonomia, avendo facilitato l’incontro economico tra Trento e Bolzano, abbiamo superato l’antica antitesi. Non c’era altra strada: entrambi i gruppi sono costituiti da cittadini italiani che parlano tedesco o parlano italiano: non importa. Io vi dico – e non voglio far cenno a posizioni recenti di carattere polemico – che bisogna collaborare a questa distensione. So d’altra parte che gli italiani che stanno nella Provincia di Bolzano rappresentano il proletariato nei confronti degli autoctoni i quali possedendo i beni e la terra si trovano in una posizione privilegiata; come nella Costituzione, nelle leggi, nella politica sociale il problema del lavoro è preminente, così ci dobbiamo occupare di questo proletariato che non ha i beni di coloro che vivono da secoli in quella terra e che vogliono tuttavia vivere e operare nella situazione che la storia ha loro offerto indebolita. Così vi assicuro che il governo farà di tutto per favorirli, che è impegno del governo il riconoscere come il problema economico del proletariato dell’Alto Adige sia per tre quarti italiano. Dobbiamo aiutarli questi italiani: ma come possono pensare essi, come possono aver paura che noi li dimentichiamo? Noi vogliamo rendere loro giustizia. Abbiamo fatto e faremo del nostro meglio ma riusciremo a fare di più solo se troveremo in tutti senso di responsabilità, di lealtà, di collaborazione. Soprattutto abbiamo bisogno di pazienza perché non si può improvvisare l’assetto di una Regione o di una Provincia, né i contatti tra i due gruppi etnici si possono consolidare in pochi mesi. Ci vogliono forza, energia, senso di responsabilità; io dico agli abitanti della Regione di lingua tedesca: non tornate indietro! Favorite coloro i quali apertamente, onestamente si comportano secondo lealtà con lo Stato italiano, in modo che si sentano italiani anche se parlano un’altra lingua; voi siete parte della famiglia italiana che vogliamo e dobbiamo aiutare. La cooperazione mi conduce lontano. Ma io sono già arrivato in questo settore alla conclusione, che vale più che per il governo, per i rappresentanti della Democrazia cristiana: noi siamo aperti a tutte le tendenze che vogliono riabilitare gli alti valori morali della nazione: ma abbiamo una preoccupazione; non si deve coltivare lo spirito disgregatore che porta ai conflitti, ma praticare una politica di cooperazione. Sono lieto di aver letto l’ordine del giorno del gen. Cadorna e di Parri a proposito dei doveri nostri verso coloro che hanno combattuto al di qua nelle file della Repubblica sociale italiana; non possiamo distinguere nel campo dell’assistenza là dove ci siano italiani che hanno sofferto per qualunque causa; naturalmente non si tratta di equiparare i combattenti dell’una e dell’altra parte nei valori e nell’apporto patriottico; sarebbe offendere coloro che hanno combattuto per la giusta causa che era quella della libertà, dell’onore e della giustizia, ma di fronte al bisogno e alle sventure dimentichiamo il passato. Questo è un programma di assistenza che non potremo attuare improvvisamente, ma è una necessità per la quale i tempi stanno maturando. Non vi ha colpito a proposito di cooperazione e di lavoro comune la faziosità del dibattito sulla legge del Mezzogiorno? C’è stato un liberale che ha detto: «al Mezzogiorno passate cento miliardi all’anno, perché non 150? Ci pare troppo poco». Chissà poi perché 150, chissà da che cosa sia stato desunto questo dato; era un piccolo tentativo di sminuire il nostro sforzo. E che dire dei comunisti e dei socialisti. Per svalutare la nostra opera sono andati a riabilitare uomini che avevano sempre criticato ed hanno citato persino una statistica del 1924 in cui si espone e si esalta lo «sforzo compiuto nel passato dallo Stato per il Mezzogiorno». Bisogna cambiare la struttura sociale hanno detto e noi abbiamo risposto che vogliamo la riforma agraria, la riduzione della grande proprietà, lo spezzettamento del latifondo e che questo è già cambiare la struttura sociale. Hanno replicato gli oppositori: non basta in quanto bisognerebbe anche dare un altro spirito ai contadini. Si tratta, hanno aggiunto, di un altro sistema per asservire il Mezzogiorno all’America. Ai signori deputati comunisti del Mezzogiorno che si oppongono per faziosità, noi vorremmo dire che se la pioggia dei miliardi cadesse nelle pianure del Settentrione, anche nei pochi centri dove esistono cellule comuniste i contadini la penserebbero diversamente; ed i contadini rossi non mostrerebbero certamente lo spirito di opposizione dei loro parlamentari. Altro sintomo di mancata cooperazione, lo si può desumere dal tentativo di far rinascere il movimento anticlericale. Ci sono taluni vecchi liberali massoni (fortunatamente sono molti quelli che non lo sono) che non possono tollerare che in questo dopo guerra si siano succeduti tanti governi in cui la Democrazia cristiana ha la maggioranza. Ci sono poi i giornali di estrema nei quali pagine intere sono quotidianamente dedicate a questioni teologichereligiose in un tentativo di confondere le coscienze e di destare contro di noi dei sospetti in ordine alla libertà. Vorremmo dire a questi signori che seguiamo il loro gioco da vicino: si vuol forse tentare di abbattere la Democrazia cristiana attraverso un fronte anticlericale? Quando ne ho parlato la prima volta in Senato di fronte ad un discorso di Nenni di rimettere in discussione il Concordato ho ammonito che il ritorno di un conflitto in questo momento fra Stato e Chiesa sarebbe fatale per lo Stato italiano, perché non servirebbe che a dividere il popolo e ad avvelenare gli animi. E non parlo per la Chiesa che dalle persecuzioni sempre trasse certezza di vittoria; né parlo perché un simile campo di lotta e di discussione possa essere favorevole ai cattolici; tutt’altro: non parlo nel loro interesse ma nell’interesse della solidarietà della nazione e dei lavoratori poiché le questioni che urgono sono quelle della disoccupazione, della ricostruzione, della riforma agraria; problemi, questi, sui quali bisogna raggiungere l’accordo. Io vi ricordo che noi vogliamo restare fedeli alla Costituzione, vi ricordo che ci sono in Italia 19 culti riconosciuti sui quali bisogna raggiungere l’accordo. Voi festeggiate oggi 50 anni della Vostra istituzione; ma se guardate a mezzo secolo di vita dello Stato italiano, trovate lotte che ritornano ogni tre o quattro anni: lotte sullo scandalismo, lotte sociali, lotte anticlericali. Vi racconterò a questo proposito un episodio parlamentare del 1908 molto significativo. Si è soliti oggi esaltare Giolitti: ma i vecchi ricordano che veniva considerato un tempo come il ministro della malavita ; lo si esalta oggi e si dice che è il ministro della vita buona. Nel 1908 in una discussione sull’insegnamento religioso, provocata da un ordine del giorno dei deputati cattolici – i pochi di allora – si scatenò un dibattito che venne soprattutto dal settore della estrema composto di radicali e socialisti. Anche allora si colse l’occasione per unificare tutti i settori sotto la bandiera dell’anticlericalismo. Giolitti si alzò e concluse: io credo che questo tentativo sia il tentativo più vano che si possa immaginare. Ma siccome il progetto di dividere gli italiani in clericali e anticlericali non ha alcuna probabilità di riuscire io credo che parecchi abbiano preso questa bandiera di anticlericalismo per fondere insieme tutti i partiti che siedono in quel settore (estrema) ma che non sono tra loro d’accordo. Infine la bandiera anticlericale sollevata dall’on. Bissolati mi ricorda una denominazione che era stata data al programma di Stradella. Si era detto che servì come attaccapanni a cui ciascuno poteva andare ad appendere il cappello senza poi rendere conto della sua opinione. Io crederei che l’on. Bissolati debba essere molto meravigliato di aver visto certi cappelli appesi al suo attaccapanni. Al di sopra poi dei clericali e dei liberali sta lo Stato, cioè l’autorità sprema in tutti i rapporti della vita politica e della vita civile. Ebbene questa conclusione la faccio mia e dico che sarebbe somma avventura se si volessero oggi dividere gli italiani in clericali e anticlericali. Intendiamoci bene sulla definizione per non confondere i cattolici coi clericali; il clericale è colui il quale cerca la persecuzione degli altri nel tentativo di opprimere la libertà delle coscienze altrui, l’anticlericale è colui il quale cerca la persecuzione del cattolico per mala convinzione circa le opinioni del cattolico stesso. Ma la Costituzione prevede la più ampia libertà in riguardo; avete mai visto che noi siamo intervenuti in qualsiasi problema di fede, di religione, di culto? Questa è competenza riservata all’autorità spirituale ed alla coscienza individuale. Ma quando si tratta di regole che riguardino lo Stato abbiamo la Costituzione coi suoi limiti e le sue norme e noi le seguiamo. Ecco qual è la garanzia massima per coloro che non la pensano come noi. Dal Cristianesimo – poiché noi ci chiamiamo democratici cristiani – non è che deriviamo speciali regole di credenze o di culto che appartengono alla sfera della Chiesa. Noi ci chiamiamo cristiani in questo senso: che deriviamo, utilizziamo il Cristianesimo nelle regole direttrici della vita sociale e politica. Cioè cerchiamo di estrarre da queste convinzioni profonde della nostra popolazione quelle qualità spirituali, quel codice morale, quelle norme del costume che rappresentano una necessità di vita. Utilizzando questi princìpi di civiltà per fare opera di progresso e di trasformazione sociale in senso costruttivo. Nessuna rinuncia, né alla libertà, né ai valori civili, militari ed eroici, purchè non degenerino in nazionalismo e non corrodano le basi della democrazia. La materia amministrativa, le strutture sociali sono materie di discussione, di elaborazione per ogni cattolico, materia opinabile che si può discutere, che si deve elaborare, che si deve migliorare con metodo democratico. Io vorrei ricordare ai nostri anticlericaletti che stanno sforzandosi di resuscitare la polemica anticlericale sotto le vecchie bandiere verdi e rosse, vorrei ricordare quello che avviene negli altri paesi. Nel Belgio, nonostante il contrasto fra socialisti e cattolici per la questione monarchica – questione opinabile, che non ha niente a che fare con la Chiesa – il 9 giugno a Parigi, il socialista Spaak ebbe a dichiarare: «Credo fermamente che l’Europa non come territorio, ma come civiltà, potrà soltanto essere salvata da uomini di buona volontà di tutte le fedi religiose. L’Europa deve porre fine ad una divisione letale fra Cristianesimo e socialismo; deve essere possibile superare i contrasti storici che si risolvono in lotta fra clericalismo e anticlericalismo, ormai superato e fuori moda». Questo dice un socialista di buona fede. Questo dice un socialista, passato attraverso le amministrazioni del suo paese in posizione di primo piano, guida di un grande movimento sociale. Questo sia detto per spiegare il nostro sforzo di collaborazione con tutte le forze socialiste in quanto si ispirano nettamente a princìpi di democrazia: esse troveranno in noi non dei reazionari che vogliono soffocare le altre correnti in nome di pregiudizi religiosi, ma dei collaboratori che vogliono lavorare per il progresso onde fermentare quel sentimento evangelico che hanno coltivato nel proprio spirito. Veramente è un travaglio oggi essere ai posti amministrativi ed ai posti pubblici. Voi lo sapete se siete a capo di una cooperativa, lo sapete ancor meglio se siete a capo di un Comune o delle Provincie o della Regione. Lo sapete voi deputati, voi senatori quale travaglio, quale sforzo costi l’adeguare alle necessità le possibilità che sono limitate, quale sia l’ansia di ricostruire quello che è andato in rovina, di far sempre meglio. È tormentoso constatare che non si possono risolvere certi problemi: è qualcosa come quello di cui parla S. Paolo «le creature urgono e gemono e soffrono come i dolori del parto, sospirando la libertà». Così è della nostra politica, del nostro sforzo quotidiano, del nostro tormento di ogni ora, per poter arrivare a far progredire il paese per combattere la disoccupazione, per sfamare chi non trova alimento, per aiutare chi non ha mezzi. Tutto questo sforzo ci è del resto insegnato da voi, dal vostro esempio, da voi che avete ricostruito, dopo una guerra e dopo l’altra, i vostri impianti, i vostri capitali, che avete superato le difficoltà con fatica e con tormento. Quando io parlo di pazienza, intendo proprio parlare della sofferenza, di non poter soddisfare le legittime richieste, di dovere dire: aspettate a chi non può aspettare. Ma il parto è la creazione della società di domani: non bisogna perdersi di coraggio se i nostri giorni sono contrastati, se le consolazioni sono poche, se gli attacchi sono continui; bisogna guardare innanzi. La storia è fatta così, le nazioni sono fatte così. La democrazia va migliorando lentamente. Quello che importa è avere la visione chiara di quello che deve succedere: servire il proprio paese, servirlo con coraggio. Tutte le amministrazioni di qualunque grado ed ordine debbono servire. Cinquant’anni di sindacato, cinquanta di Italia. Ebbene, io vi dico che l’Italia sta rinnovandosi; fra 50 anni io non ci sarò, ma qualcuno di voi si ricorderà di queste mie parole: fra 50 anni il nostro paese sarà migliorato, sarà più forte, il suo popolo collaborerà ancor di più, sarà ancor più cosciente, perché avrà tratto un grande insegnamento della sua esperienza e del suo attuale sforzo. Bisogna essere uniti, coraggiosi e fieri delle nostre azioni. I comunisti, si sa, sono contro tutto quello che unisce, contro il Patto atlantico, contro l’OECE, contro l’Unione europea, si oppongono ad ogni ricostruzione di nuova vita, perchè guardano sempre al loro piano di conquista comunista. Nonostante questa loro opposizione e nonostante il pensiero contrario del loro capo, esprimo la convinzione che non vi è prospettiva di nuove guerre. Una delle ragioni è perché si spera di vincere attraverso la guerra fredda, attraverso l’erosione interna degli Stati. Guerra fredda, dunque, lunga: prendiamo e accettiamo questo lungo respiro di tempo. Il 1° maggio alla sfilata a Mosca, fra i cartelli ve ne era uno con l’immagine di Togliatti e con la dicitura «il duce del popolo italiano»: basta coi duci! Entrino i comunisti, se ne sono capaci, nella democrazia, vivano nel sistema democratico; altrimenti noi vigileremo con tutte le forze perché sovversioni non ne avvengano. In Russia, per incoraggiamento, è stata ricordata un’affermazione di Togliatti al Comitato centrale del Pci: «condizioni obiettive per il trionfo del comunismo in Europa esistono già attualmente. Solo l’intervento dal di fuori riesce ancora a conservare artificiosamente la vita al capitalismo e al governo borghese». Togliatti conservi questa speranza, ma noi in campo democratico abbiamo la forza per opporci ed impedire che ciò avvenga, facendo appello a tutti i concorsi di onesta volontà. Sappiamo che la causa nostra non è una di quelle locali, di poca importanza, circoscritte, ma la causa di tutto il mondo libero. Quello che ci divide in questo momento è un problema fondamentale: dobbiamo collaborare con sincerità alla costruzione di un mondo libero, o dobbiamo prendere un’altra strada? Non si tratta fra di noi di divisioni artificiose, o di piccolo momento per questa o quella questione: si tratta di scegliere fra la volontà comunista, che agisce nel mondo per un regime internazionale di dittatura, o la volontà degli uomini liberi che vogliono libertà e democrazia.
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1,950
1Building the Italian Republic
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Ha cominciato con l’illustrare le provvidenze allo studio da parte del governo per le popolazioni di montagna e manifestando le sue impressioni sulla visita nella Valle. Poi ha proseguito affrontando il problema che in questi giorni è all’ordine del giorno delle preoccupazioni in Italia come in tutto il mondo. A questo proposito ha soggiunto che non era sua intenzione di occuparsi degli aspetti internazionali del conflitto attualmente in corso nell’Estremo Oriente, ma piuttosto di richiamare l’attenzione su alcuni lati di politica generale. Si conferma ancora una volta che non vi sono che due vie da seguire: quella dell’intesa da raggiungersi con negoziati e trattative, e da consolidarsi poi con deliberazioni di corpi eletti con liberi metodi democratici, oppure quella del ricorso alla forza armata. La via dell’intesa fu quella iniziata nel 1943 nella conferenza del Cairo , e poi continuata nella commissione mista del 1946, rientrata dagli Stati Uniti con il deferire la questione all’ONU nel 1947. Ma questa via venne rifiutata dalla minoranza coreana del Nord (10 su 30 milioni) che, mentre nel Sud si indivano elezioni dell’Assemblea, proclamava invece una Repubblica popolare che, valendosi del fatto di possedere migliori officine ed industrie, creava un esercito d’assalto ed attaccava il 25 giugno 1950 il Sud, donde nel gennaio erano pur partire le truppe americane. Siamo dunque al vecchio sistema bolscevico di attacco con la forza delle armi al regime democratico parlamentare. L’aggressore è aiutato dalla quinta colonna interna che può agire liberamente usando delle forme democratiche (la Corea del Sud aveva 3 giornali comunisti) e organizzando forze partigiane. Bisogna aggiungere che in questi ultimi mesi tali forze erano attivissime nella pseudo propaganda per la pace, mentre di là dal 38° parallelo, protetti dalla cortina di ferro, si preparava l’attacco. Noi traiamo l’ammaestramento che un governo democratico deve vigilare e difendere le libere istituzioni chiamando a raccolta tutte le forze sinceramente democratiche. Bisogna controbattere la menzognera propaganda avversaria; bisogna impedire che si costituisca comunque una quinta colonna pronta ad obbedire ad ordini estranei. Bisogna opporvi la più vivace propaganda a favore dell’unità morale e dell’indipendenza del paese. Egli conclude con un atto di fede nella indipendenza italiana e nei pacifici progressi del nostro paese a condizione però che si rinsaldi la nostra fede nelle libere istituzioni difendendole con la parola, con l’opera e soprattutto non permettendo che si insinui e si coltivi il pensiero di una nuova guerra fratricida. La Provvidenza ci proteggerà se non lasceremo nascere e svilupparsi il pericolo dell’opera di Caino che agisce in tempo di pace con l’approfondire gli odi e i conflitti politico-sociali e si attua nei momenti decisivi col ricorso alla violenza e alla distruzione del libero Parlamento e della libera democrazia.
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Ha preso quindi la parola il presidente del Consiglio, il quale, in un’ampia relazione sulla situazione attuale, ha precisato che il governo ha fatto in Parlamento un appello ad una ravvivata e rinnovata solidarietà nazionale intorno ad una politica che tende a salvaguardare la pace, l’integrità, la sicurezza, e l’indipendenza del paese, una politica fondata sull’unità morale dei cittadini e sul patto internazionale di difesa nord-atlantico. Tale solidarietà deve essere una solidarietà di popolo attorno ai valori morali della tradizione italiana, attorno allo sforzo attuale di progresso sociale, attorno alla cooperazione con altre nazioni per la comune sicurezza nell’ambito dei Patti difensivi. Il governo, interprete del Parlamento, ha il dovere di provvedere e cooperare al fine di rendere il Patto efficace per la nostra e comune sicurezza. Il governo è consapevole che l’unità morale dei cittadini è premessa indispensabile per mantenere la pace, poiché le interne discordie hanno sempre provocato interventi esterni, mentre è sicuramente efficace, ai fini della pace, l’opera di un governo che nei consessi internazionali possa agire in nome di un popolo unito. L’unità morale, inoltre, costituisce, in ogni evenienza, la energia motrice e vivificante della difesa e fa sì che la pace possa riposare nel nuovo Stato democratico. Ciò è tanto più necessario in quanto la parte avversaria rinnega la base fondamentale della democrazia e della stessa Costituzione, proclamando la preminenza delle proprie tesi ideologiche, in confronto della sovranità sociale rappresentata dal Parlamento e dal governo parlamentare. Il presidente De Gasperi ha, quindi, affermato che il governo si è rivolto ai partiti che nelle Camere e nel paese hanno preso un atteggiamento conforme alle sue direttive internazionali, invitandoli a ridestare con manifestazioni e con opere la coscienza del popolo: a convogliare i suoi sentimenti verso espressioni ed atti di solidarietà. Questa opera dovrebbe svolgersi affermando la volontà del paese e promovendo tutte quelle iniziative che possano rinsaldarla nella cooperazione internazionale; la fedeltà ai postulati di giustizia sociale e quindi la lotta contro lo spirito fazioso dei comunisti e lo spirito egoistico dei privilegiati trova il suo terreno più favorevole nella riaffermazione della doverosa solidarietà tra i cittadini sul terreno della patria comune. L’Italia, culla della civiltà va difesa anche come centro d’irradiazione morale e culturale ed il sentimento nazionale, specialmente nei giovani, deve sempre più alimentare il culto della nostra storia e delle nostre tradizioni. Concludendo la sua relazione, il presidente del Consiglio ha invitato la Direzione della Dc a prendere l’iniziativa di proporre anche agli altri partiti e movimenti che condividono le stesse direttive di politica internazionale, di associarsi a tale campagna di solidarietà nazionale per la pace e la sicurezza .
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In un romanzo di Ezio Taddei uscito per le edizioni di Milano-Sera , si attribuisce al gruppo parlamentare di De Gasperi alla Camera di Vienna una «dichiarazione» che «deplora», «detesta» e «maledice» l’intervento dell’Italia in guerra. L’Unità del 28 luglio, pubblicando in neretto questo brano, lo imputa senz’altro all’on. De Gasperi . Risponde in una lettera a l’Unità il senatore Enrico Conci avvertendo che il presidente del gruppo trentino non era De Gasperi, ma lo stesso Conci e che nessuna dichiarazione fu fatta: la Camera era chiusa e nessun deputato trentino, del resto, avrebbe fatta comunque una dichiarazione del genere, contraria ai suoi sentimenti e alle sue convinzioni. Domenica 30 luglio l’Unità riporta la lettera del senatore Conci. Il giornale non si azzarda a contestare le affermazioni del venerando parlamentare, ma si dimostra ancor più informato di lui. Il documento del romanzo di Taddei, afferma l’Unità, è in realtà un brano del Neues Wiener Journal del 25 maggio 1915 firmato dal dr. Joseph Bugatto , consigliere di Stato e deputato (non del Trentino come insiste a dire il foglio comunista, ma del Friuli orientale). A questo punto anche il lettore meno attento non può non rilevare la malafede; se il giornale comunista sapeva che De Gasperi non c’entrava affatto col «documento», perché rinforzare l’accenno del romanziere Taddei chiamando in causa personalmente l’attuale presidente del Consiglio? Chi ricorda quel periodo, sa che l’atteggiamento dei due deputati della provincia di Gorizia, Bugatto e Faidutti , fu totalmente diverso da quello assunto dai trentini e in specie dai più noti fra loro come Conci , De Gasperi e [de] Gentili . L’Unità non potendo insistere su questo tasto, cerca di batterne altri e sceglie quelli stessi su cui fu orchestrata la campagna contro De Gasperi de Il Popolo d’Italia . Venticinque anni dopo! Se il giornale comunista intende rimodernare i falsi venduti da un pennaiolo al giornale fascista e poiché conclude il suo trafiletto con questo solenne monito: «tanto per la verità storica» ci basti ricordargli che «Verità storica» si intitola appunto il piccolo libro di Igino Giordani del 1925 con cui vennero ribattute punto per punto le calunnie, le insinuazioni e le storture di quella campagna contro De Gasperi. Sono passati cinque lustri, ma se l’Unità vuole plagiare Il Popolo d’Italia, i comunisti delle nuove generazioni fra cui è Amendola, figlio, potrebbero prima utilmente consultare il libro citato e leggere, per esempio, a pag. 29, queste frasi scritte nel 1924 da Amendola padre , che nella primavera del 1915 aveva diretto l’ufficio romano del «Corriere della Sera»: «la balorda accusa di austriacantismo non riesce a nascondere neppure un istante la trasparente bassezza del fine partigiano che anima i calunniatori del littorio. Ma la calunnia ricade impotente ai piedi di chi essa doveva abbattere: Alcide De Gasperi resta diritto sotto tanta inutile rabbia. L’opinione pubblica sa perfettamente che l’on. De Gasperi non fu austriacante… ma chi scrive questa breve nota sa e può affermare, per personale esperienza, qualche cosa di più. Sa, cioè, che nel 1914 poco dopo lo scoppio della guerra europea, l’on. De Gasperi venne a Roma e parlò con uomini politici e giornalisti interventisti ai quali manifestò la sua fede nell’intervento dell’Italia e la sua speranza nella redenzione nazionale del Trentino e con i quali si intrattenne perfino sui problemi concreti che sarebbero derivati dalla futura partecipazione del Trentino allo Stato italiano» . Ma a che pro continuare? Rifare la stessa polemica, anche se questa volta c’è l’aggiunta di un romanzo e se il panfletista ha cambiato colore? Dall’episodio Taddei-Bugatto risulta che il giornale comunista sa come stanno i fatti e le circostanze dei rapporti: Macchio e delle memorie di Conrad oggetto anch’esse a suo tempo di precisazioni e di confutazioni. Se li vuole presentare diversamente a uso e consumo dei suoi lettori, vada pure per la strada delle cose non vere e, in compenso, neppure nuove.
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Onorevole presidente, mi duole assai di mancare a codesto Congresso onorato dalla presenza del capo dello Stato e da Lei con tanto lustro presieduto. Altri membri del gabinetto avranno occasione di riaffermare il pensiero del governo. Poiché il regime democratico si fonda sul libero formarsi dell’opinione pubblica, il governo – in piena lealtà verso la Costituzione – considera la libertà della discussione, della critica e dell’opposizione come un elemento indispensabile al progresso della democrazia. Il governo è pronto a riconoscere che i limiti più giustificabili e più validi di questa libertà sono quelli che provengono dal senso di responsabilità morale e di dignità professionale dei giornalisti e si augura quindi che lo sviluppo e il perfezionamento delle Associazioni di stampa e la concretezza delle loro direttive e dei loro interventi possano mano a mano rendere superflua ogni sanzione esteriore. Permetta, onorevole presidente, a chi ormai può dirsi veterano del giornalismo militante, di esprimere il fervido augurio che dall’affinarsi della funzione e della libera stampa e dall’accresciuta facoltà discriminatrice della pubblica opinione sempre più chiaro risulti che in democrazia si può attaccare un governo, anzi qualche volta è doveroso il farlo, ma è sempre doveroso risparmiare il principio della autorità dello Stato; che è salutare la critica franca e onesta del funzionamento delle istituzioni democratiche, ma è pericoloso l’intaccarne le fondamenta, che può essere utile la satira del costume, ma è indispensabile rispettare la coscienza morale del popolo, senza la quale la democrazia non si regge, né si salva la libertà. All’augurio aggiungo il mio sincero e caldo ringraziamento per i colleghi che, ispirandosi a tali princìpi di pubblica salute, assolvono quotidianamente un compito faticoso e nobilissimo, facendosi interpreti delle nostre ansie di progresso e delle nostre aspirazioni alla giustizia sociale, ma soprattutto del fermissimo proposito e del tenace volere del popolo italiano di ristabilire la sua vitalità e di riprendere il suo cammino.
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Ho insediato alcuni giorni or sono il Comitato dei ministri, a cui la legge affida il compito di formulare i programmi di quelle che la legge definisce «opere straordinarie del Mezzogiorno», di coordinare tali opere da eseguirsi dalla «Cassa» in ogni esercizio coi programmi dei lavori ordinari, elaborati dai ministri competenti e, a mezzo del ministro presidente di tale Comitato, seguire con vigile interessamento l’attività della «Cassa» in genere per poter rispondere di essa innanzi al Parlamento. Oggi, invece, con questa più solenne riunione in presenza di colleghi del gabinetto, la quale attesta tutto il più fattivo interessamento dell’intero governo, affinché il nuovo istituto riesca non solo nelle funzioni sue più dirette, ma anche quale centro coordinatore dello sforzo ricostruttivo che ci si propone di fare nel Mezzogiorno, inauguriamo – insediando il Consiglio di Amministrazione – la vita stessa dell’Istituto. All’illustre presidente, quindi, e ai membri del Consiglio reco anzitutto il grato e fiducioso saluto augurale del governo. I membri del Consiglio amministrativo sono tutti, se non erro, figli del Meridione e certo nella loro designazione ebbe qualche parte anche la circostanza che per residenza e vincoli natali ciascuno sia in grado anche di conoscere uomini e cose di un dato settore della periferia; ma non c’è bisogno di dire che, divenuti una volta membri del Consiglio, la loro responsabilità è solidale e totale, che il loro mandato supera provincie e regioni per abbracciare l’interesse del Mezzogiorno intero, anzi di tutto il paese, perché l’azione della «Cassa» si svolge in funzione dei progressi del Mezzogiorno, ma bensì in quanto essi sono e siano parte dello slancio ricostruttivo e rinnovatore dell’Italia intera. Ho espresso ed inculcato altre volte questo pensiero di unità e di corresponsabilità. Il Mezzogiorno si trova innanzi una occasione magnifica di dimostrare la sua accresciuta consapevolezza ed il suo senso di solidarietà meridionale e nazionale. Troverete senza dubbio delle difficoltà organizzative e sarete insidiati da tendenze localiste, ma spero fermamente che non vi attarderete in questioni meschine di interessi locali o di precedenze, che vi lascerete guidare solo dal fervore e dall’impegno che esige un programma decennale di opere di rinnovamento e di giustizia sociale, con un investimento totale di oltre mille miliardi. Per riuscire bisogna vedere grande, non disperdersi in piccole soddisfazioni o gare locali, tendere più che possibile a conclusioni massicce e definitive. Ciò non toglie che nell’esecuzione dovrete far leva sugli enti periferici, quali consorzi di bonifica, enti per la riforma agraria, consorzi di acquedotti, amministrazioni locali, avvalendovi anche di privati professionisti. Fuori di qui continuerà il lavoro ordinario che si adegua più che è possibile alle richieste e alle esigenze più evidenti e più conclamate, ma qui come dice la legge, si tratta di opere straordinarie, di opere non destinate semplicemente a soddisfare immediate esigenze, ma ad incidere profondamente e permanentemente nell’economia del Mezzogiorno e delle Isole creando complessi organici che riguardano l’acqua per dissetare e per irrigare, la terra per trasformarla e ridistribuirla, la viabilità minore, l’industria agricola e il turismo. Ed ecco che tutto quello che era nell’aspettazione del Mezzogiorno venne predisposto: i mezzi finanziari garantiti in una forma che non si poteva desiderare più sicura, la snellezza dell’organismo programmatore e la fattività di quel tutto. Ora dipende dagli uomini, da voi ministri, da voi amministratori e dai vostri funzionari dirigenti. Taluno, ha potuto in un primo momento trovare improprio che fossimo ricorsi per il posto di presidente ad un alto, anzi al più alto dei magistrati amministrativi dello Stato. Dirò francamente perché siamo stati felici che Ferdinando Rocco che voi vedete così giovanile, benché sia alla fine della sua carriera burocratica, abbia accolto la nostra preghiera di assumere la Presidenza di questa Cassa che meglio avrei voluto chiamare «Istituto per il Risorgimento del Mezzogiorno». Il vostro presidente non solo ha passato la trafila dei due ministeri competenti per il settore di azione della «Cassa» quali l’Agricoltura e i Lavori Pubblici, ma egli è per l’alto osservatorio che ha occupato e ancora occupa un uomo di sintesi, un uomo abituato a vedere al di là delle parti il tutto, cioè lo Stato; un uomo che nell’amministrazione è uso considerare il diritto come sovrano imparziale per tutti e sopra tutti, infine un figlio del Mezzogiorno che ama ardentemente la sua terra, ma la vede, la considera e la sente come parte integrante dell’unità della patria. E anche voi, signori amministratori, il governo vi ha scelti perché ciascuno di voi rappresenta una competenza tecnica o una pratica esperienza. Vi ringrazio, signori, di aver accettato di metterla a disposizione di questo istituto e della rinascita del Mezzogiorno. Ed ora esprimendovi gli auguri per il vostro duro, ma glorioso cammino, sento la commozione di un congedo e ad un tempo di una speranza. Il piano decennale per il Mezzogiorno è nato sulla fine del passato gabinetto e nel travaglio della costituzione del ministero presente: esso si sviluppò, si concretò, si estese alle zone più bisognose del Nord (e di ciò parleremo in altra occasione): esso è figlio – non è vero miei colleghi di ministero? – della nostra ansia di lavoro, del nostro impegno angoscioso a creare condizioni di più umana e più cristiana giustizia sociale. Assieme con la riforma fondiaria esso costituisce il nucleo più organico dei nostri sforzi di rinnovamento e fu lunga fatica il concretarne le forme e gli strumenti di attuazione. Penso con gratitudine a quanti parteciparono a tale fatica, in modo particolare all’on. Campilli, che questo neonato tenne a battesimo innanzi alle due Camere. Ora è ai primi passi e taluno di noi non lo vedrà quando sarà adolescente, ma ci conforta la speranza che questa creatura del nostro amore per il Mezzogiorno svilupperà davvero la vita nuova che quel buon popolo lavoratore si merita. Che Dio benedica i nostri sforzi e ispiri a noi tutti il senso di concordia e di sacrificio, che è necessario per la salute della nazione.
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Precisa che la questione dell’esercito europeo non ha assunto una formulazione, da porre il governo italiano di fronte ad una responsabilità di scelta immediata. La proposta dell’esercito europeo accanto agli eserciti nazionali è venuta fuori in seguito al problema dell’inserimento germanico, che i francesi non vogliono. Sforza ha aderito ad una proposta generica, così, in linea di massima; ed ha sentito l’opportunità dell’adesione in vista di strappare all’America la difesa dell’Elba, che copre le nostre frontiere fino a Trieste e ci garantisce dall’invasione. L’obiezione che la Germania [è] così riarmata, cade di fronte alla fatalità dell’inevitabile risorgere di un esercito nazionale di difesa. Sul come l’Italia debba aderire è del parere che non possiamo ancora impegnarci in formule precise. La formulazione organizzativa dell’esercito europeo è stata demandata alla prossima riunione dei dodici ministri degli Esteri, in ordine alla distinzione fra tempo di pace e tempo di guerra ed ai problemi di metodo e di attribuzione. Rimane, comunque, che in caso di guerra le nazioni occidentali non potranno fare a meno di un Comando centrale, sia pure integrato dai vari rappresentanti alleati. Circa la questione costituzionale italiana, si può dire che la nostra Costituzione non verrà lesa, in quanto l’art. 5 del P.[atto] A.[tlantico] consente ai firmatari di decidere o meno l’intervento in caso di dichiarazione di guerra ad un alleato e fa riserva, per la sua applicazione, del rispetto delle forme costituzionali di ciascuno Stato. Gli stessi americani sono gelosi della loro Costituzione. In caso di attacco e di aggressione, cade ogni riserva costituzionale perché… «si salvi chi può», a prescindere se ci sarà tempo o meno di convocare le Camere per decidere. Se la guerra generale scoppia, in pratica il problema della dislocazione delle nostre truppe cade naturalmente. E del resto c’è la contropartita dell’aiuto immediato degli alleati in caso di aggressione all’Italia. Conclude ribadendo che la questione non è maturata in modo da poter dire una parola definitiva e che la situazione è tale che noi, anche nel nostro interesse, dobbiamo sostenere il tentativo americano di arrivare all’esercito europeo. Circa la proposta Gronchi di dividere il dibattito, osserva che la Direzione è piuttosto contraria perché la relazione Gonella è comprensiva e del problema politico e di quello amministrativo.
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Invita a non abusare degli o.d.g. e della loro prassi degenerata. Non si può arrivare con o.d.g. improvvisi senza averne vagliato prima i motivi nella discussione generale. Gli o.d.g. che non riguardano l’oggetto della discussione, debbono a suo avviso, se mai, essere presentati come oggetto di studio alla Direzione. L’o.d.g. Gronchi , in particolare, riguarda il governo e non gli pare che possa essere discusso in sede di C.[onsiglio] n.[azionale]; esso è stato preceduto da una campagna di stampa; non possiamo accettarlo ora nella sua limitatezza sintetica, che impegna la politica del governo in una scelta che non riguarda solo la Dc (un ministro solo per il CIR). [Segue l’intervento dell’on. Giovanni Gronchi a sostegno della sua proposta]. Si sofferma in particolare sulla politica estera, rivendicando la corresponsabilità solidale di tutto il gabinetto su questa politica; e in prima linea quella del presidente del Consiglio. Se si attacca Sforza si attacca tutto il ministero. La questione più grossa: il riarmo , cioè l’attuazione del P.[atto] a.[tlantico]. Formula definitiva dell’esercito integrato: non è tecnicamente matura. Problema costituzionale del riarmo: dovrà occuparsene il Parlamento. Commesse: problema che non ha avuto ancora conclusioni pratiche. Si tratta di stabilire chi paga e come si paga. Rischi di perfezionamento. Questione tutt’altro che semplice. Proporzionare il nostro sforzo ai compiti generali del P.[atto] a.[tlantico]. Buffissimo incidente della legge americana dell’emigrazione, da Truman non voluta. Si spera che la reazione dell’opinione pubblica americana valga a fare revocare la legge. Convocazione del C.[onsiglio] n.[azionale]: sarebbe d’accordissimo nel convocare ogni mese il C.[onsiglio] n.[azionale], a condizione però che si concentri di volta in volta l’ordine del giorno su un particolare settore e si rinunzi un po’ all’egoismo dialettico per arrivare a conclusioni concrete. Evitare di favorire, con indiscrezioni pubbliche, la «politica di erosione» di cui parla Togliatti. Discorso [di] Togliatti al Comitato centrale del Pci: tentativo di calamitare verso il comunismo i cittadini fascisti . Attenti a non fare il suo giuoco (cita gli articoli di Giordani, di Petrone, di Cialdea – La Via, La Libertà, Cronache Sociali) . Dice che con questi articoli l’opinione pubblica crede di sentir parlare la Dc. Depreca che articoli del genere siano volutamente pubblicizzati in sala stampa (articolo Gronchi). Perché alimentare le speranze degli avversari e scoraggiare gli amici? Perché favorire, con questi sistemi, certi ricattucci che ci fanno i partiti minori al governo? Confida nella Direzione perché siano superate queste anomalie, di casa nostra, che favoriscono le manovre togliattesche. E poi sono queste anomalie che rendono più plausibile la permanenza di lui, De Gasperi, a capo del governo. Gli italiani vogliono compattezza nel governo. Il nostro compito è arduo. Siate un po’ indulgenti sulle piccole deficienze e considerate le difficoltà che abbiamo superate, nonostante i comunisti e una situazione estera ostile. Sottolinea alcuni limiti posti all’azione del governo dal sistema rappresentativo. La stabilità del governo è una necessità assoluta. Bisogna suffragare colla prassi il criterio parlamentare della fiducia. Ogni crisi, che avviene non per intervento del Parlamento ma per azione pratica, indebolisce l’azione governativa . Ringrazia la Direzione per la collaborazione data al governo e per i compiti di vigilanza, che si è assunta nell’esecuzione delle leggi. Ma su questo terreno bisogna ben distinguere le responsabilità fra organi di partito e organi di governo. Sistema parlamentare: è il nostro cruccio. Occorre salvare il Parlamento, senza che nasca nell’opinione pubblica la nostalgia della dittatura. Perché scomparso il Parlamento, scompaiono le libertà. Aggrappiamoci, noi Dc, al Parlamento e cerchiamo di salvarlo ad onta delle sue insufficienze costituzionali. È sostanziale, a questo compito, la coscienza della libertà; superare gli scetticismi nei confronti della democrazia parlamentare. Un Parlamento, organo di partito, muore. Non calza l’esempio del Parlamento inglese, perché noi non abbiamo il bipartitismo e perché il nostro popolo non possiede la stessa coscienza civica del popolo britannico. La Dc è sociologia cristiana messa in pratica. Siamo un partito riformatore, rinnovatore, che va avanti, che può adattarsi a qualsiasi forma a meno che non sia una forma negatrice della libertà. Nostra speranza: riuscire a far fermentare lo spirito cristiano in modo di restaurare una coscienza civica e politica fondata sui nostri princìpi. (Applausi vivissimi).
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De Gasperi ha rivolto ai convenuti cordiali parole di saluto, compiacendosi per l’organizzazione e i risultati del Convegno, di cui ha sottolineato l’importanza e l’utilità ai fini migliori di quella intensa ed efficace collaborazione che il partito intende svolgere per l’attuazione del vasto provvedimento di giustizia sociale. Dopo essersi soffermato sul contributo che richiede il realizzarsi della riforma, ha ricordato che bisogna incessantemente attingere all’ispirazione cristiana. La forza della fede e lo spirito di sacrificio sono indispensabili per vincere ogni ostacolo, in ogni campo. Si deve guardare non tanto al contingente, quanto all’avvenire, con quel senso della continuità dei nostri ideali e della nostra azione, che solo può animare la nostra fiducia [e] spronarci all’impegno del dovere da compiere al servizio del popolo italiano.
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Solo una parola di ringraziamento, una sola parola doverosa per voi rappresentanti di comuni, rappresentanti di amministrazioni. È difatti un dovere per colui che è il primo rappresentante della pubblica amministrazione, cogliere questa occasione ringraziandovi non solo per il lavoro che fate quotidianamente, ma per la dimostrazione di fede che voi date innanzi all’Italia e al mondo. Nessuno vi ha ordinato di venire, nessuno vi ha mandato la cartolina precetto. Ci siamo perfino astenuti da qualsiasi manifestazione esteriore come autorità, perché volevamo che questa prova della vostra convinzione fosse limpida, sincera ed insospettata. Ecco perché io sento il dovere ora di ringraziare non soltanto gli organizzatori di questa manifestazione di volontà libera, ma ringraziare tutti coloro che vi hanno preso parte. Perché, che cosa vuol dire «in tutta libertà?». In uno Stato in cui c’è libertà per chi crede, ci deve essere soprattutto libertà di manifestazione. Chi crede, manifesta in realtà la sua volontà di rappresentare nell’amministrazione anche il senso cristiano della vita e la coscienza morale del popolo italiano. Io vi ringrazio perché con questo atto di fede e con questo pellegrinaggio voi venite ad attestare la vostra volontà di agire, anche nella amministrazione pubblica, secondo la coscienza cristiana e secondo i princìpi che la Chiesa ci inculca. Vi ringrazio e vi ammiro, oltre che come credente (perché io lo sono come lo siete voi), anche a nome dello Stato, qualunque esso sia, perché lo Stato ha la cura di amministrare soprattutto la cosa pubblica e sa che non può amministrare senza questo appello alla coscienza cristiana e alle migliori nostre tradizioni. Vi ringrazio anche per un’altra parte che si è inserita nel vostro atto. C’è bisogno in questo momento che tutti coloro che hanno il senso di responsabilità nell’amministrazione pubblica, sentano la solidarietà e la necessità dell’unione contro le forze di disgregazione e il bisogno di richiamarsi alle grandi tradizioni del passato, alle antiche e moderne glorie di ieri e di oggi, che sono tutt’uno con la nostra grande e profonda tradizione cristiana. Perciò, amici, in questo mio breve ringraziamento, che compio come un dovere, aggiungo anche una parola di entusiasmo per questa manifestazione di fede patriottica, per questo atto di ricostruzione italiana. E mi auguro che, portando voi a casa i sentimenti che vi hanno animato in questo giorno, accanto al senso religioso, portiate anche il senso della patria. E rassicuratevi: è vero che l’Italia ha ancora molti bisogni da soddisfare, è ancora molta la strada da percorrere per arrivare a quella giustizia sociale che è nostro cristiano dovere di raggiungere; ma è anche vero che le difficoltà sono molte e non si possono rapidamente risolvere problemi di secoli e problemi di decenni, che non si può ricostruire tutto quello che è stato in tanto tempo distrutto e c’è bisogno di tenacia, di perseveranza, per ridurre le difficoltà, come fate voi nelle amministrazioni comunali, come facciamo noi con i miei colleghi della amministrazione dello Stato, mettendoci contro gli ostacoli per superarli e per rinnovare ogni giorno in noi la convinzione che riusciremo a mettere l’Italia in piedi. Se non oggi, domani. E voi, sventolate, portate avanti con orgoglio i vostri gonfaloni. Sono gonfaloni che non ricordano soltanto l’orgoglio del passato, ma dimostrano anche un impegno di vittoria per l’avvenire.
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Se questo Congresso fosse anche solo un atto commemorativo e celebrativo, il dovere del governo nella persona del suo capo sarebbe di inchinarsi dinanzi ai morti e associarsi alla celebrazione del sacrificio dei vivi; ma questo non è un Congresso che guarda semplicemente al passato. È rivolto, come abbiamo sentito dagli oratori precedenti che hanno esposto il programma, innanzitutto al presente e all’opera dell’avvenire. Ed ecco che il mio sostanziale dovere come capo del governo è di ringraziare gli oratori e voi che vi siete associati alle loro conclusioni per il rinnovamento dell’impegno che avete preso verso la patria italiana, verso la patria e verso il regime libero delle istituzioni democratiche. La patria in questo momento ha bisogno di solidarietà, ha bisogno di una nuova resistenza: la resistenza contro le forze disgregatrici; ha bisogno di ardimento operoso contro l’antilibertà. Ha detto bene il comandante Mauri : «voi non vi siete battuti semplicemente per la cacciata dei tedeschi; voi vi siete battuti per creare un rinnovamento profondo nel paese», quello – da lui definito – il secondo Risorgimento: «la libera comunità di italiani in una libera comunità delle nazioni». Con questo ha formulato il suo, il vostro, il nostro ideale. La guerra vista dalla montagna, fa nascere e sorgere idee e prospettive secolari alle quali nella valle della vita quotidiana non siamo atti a guardare e così avviene in tutte le crisi dei grandi avvenimenti storici. Ci sono dei momenti in cui tutto quello che è preoccupazione quotidiana e quanto sa di ordinaria amministrazione, si mette da parte e si vedono in prospettiva le grandi linee, i grandi princìpi, le grandi mete. Ed ecco perché anche voi, ritirati sulle montagne per la difesa, avete avuto il concetto del riscatto politico e morale del vostro paese. La vostra parola comune è libertà. Una parola magica che vuol dire molte cose, che sottintende molte cose; libertà prima nel senso di indipendenza del paese contro qualsiasi dominazione ed aggressione; libertà poi in regime politico, avvento delle forze popolari al governo; libertà nella giustizia sociale, cioè ridistribuzione della proprietà, del reddito, della ricchezza; libertà consapevole dei valori spirituali eterni e religiosi. Per taluni, pochi, che venivano dal mondo della cultura fra i partigiani, la libertà sarà stata anche una dottrina filosofica, ma per tutti divenne e fu la conclusione pratica di un’esperienza storica. Una conclusione definitiva dopo venti anni di dittatura e soprattutto innanzi agli orrori della guerra civile, una conclusione pratica che ora si rinnova nel vostro impegno e ci sta di fronte come necessità della nostra opera. Allora, era più facile intendersi su questa parola in una sfera molto ampia; l’anti-libertà si chiamava Hitler e si traduceva un po’ adattando il significato della parola il Deutschland über alles. Oggi c’è un «bolscevismo über alles». C’è un concetto generale di una dominazione che non conosce frontiere, anzi che spacca le frontiere; la dominazione di un regime, non parlo della dottrina, parlo di un regime, un regime il quale non conosce libertà e non conosce istituzioni rappresentative di carattere democratico. Veramente queste cose le sapevamo; veramente le abbiamo imparate un po’ alla volta dal 1945 in qua, però il caso della Corea è stato così impressionante che sarebbe grave errore non trarne ammaestramento. Ma vi siete accorti che con un automatismo rapidissimo, quanto è rapida la comunicazione telefonica o radiotelefonica nel mondo, anche l’Italia si è trovata spaccata in due parti, come se il parallelo 38° fosse passato metaforicamente a dividerla nel medesimo momento. Questa scissione automatica e istintiva ci ha spaventati tutti, anche coloro che sapevano che doveva finire così. Ma, dunque, ci siamo detti: la Russia, questo Stato che rappresenta il bolscevismo, aggredisca o non aggredisca, abbia torto o ragione; la Russia dunque deve essere obbedita, e le Patrie esistono solo subordinatamente a questo ideale supremo del bolscevismo. Dunque la Costituzione italiana che dice sacra la difesa della patria vale in quanto si accetti sempre ed in qualunque caso la subordinazione alla Russia. Da ciò i telegrammi a Stalin e la speranza fanatica di una «liberazione». Liberazione da che? Liberazione dall’Italia democratica che il popolo ha voluto e ciò per imporci un regime dittatoriale, uno Stato-partito contro cui voi partigiani insorgeste. Ecco, amici volontari, che voi seguendo oggi un precetto della vostra coscienza, vi trovate anche nella logica degli storici sviluppi del vostro movimento. È la vostra conquista che siete chiamati a difendere. Voi avete contribuito in forma eminente a ricostruire questa Italia, a darle una dignità. Oggi abbiamo bisogno di solidarietà nazionale e voi potete contribuirvi, alimentando nella vita quotidiana la fede nel patriottismo sincero, vigilando sui pericoli, scuotendo gli incerti, incoraggiando i pavidi, sollevando la speranza e la fede nell’avvenire d’Italia. Non si tratta di difendere un partito, ma i princìpi vitali della democrazia. Domani ci può essere un’altra maggioranza diversamente costituita, ma il principio non deve essere perduto: istituzioni libere e possibilità di trasmissione diretta della sovranità del popolo; questa è la libertà politica della volontà del popolo. E non cadiamo nel vecchio errore. Dir male delle istituzioni è facilissimo perché sono istituzioni umane, composte e impastate da passioni umane e da debolezze umane; dir male del Parlamento è la cosa più facile del mondo. Dire male di un congresso, discutere, denigrando o diminuendo il valore positivo delle cose, è quasi una tendenza tradizionale da noi e non solo da noi. Evidentemente è una debolezza umana generale ma è un difetto che in certi momenti può costituire degenerazione della democrazia e dobbiamo combatterlo. Ma per i difetti e per l’eventuale degenerazione non possiamo tornare dalla Camera all’anti-Camera. Non dobbiamo tornare alla libertà oppressa, al regime dittatoriale dove, al più, è lecito mugugnare. Non lasciamoci ingannare dalle pur legittime critiche. Senza dubbio speriamo che i nostri figli si trovino innanzi ad un sistema rappresentativo più ideale, più sicuro, più degno; sarà la via del progresso. Ma perché questo sogno si avveri, non dobbiamo rinnegare il punto di partenza. Perché io insisto su questa parola Parlamento? Perché anche molti dei nostri amici, anche buoni patrioti, credono che sia una cosa secondaria, e forse nel 192122 anche molti di noi lo abbiamo creduto, nonostante che avessimo dinanzi la storia della esperienza politica. Ma il risultato positivo della esperienza fascista deve essere questo: mai più tornare indietro nello sviluppo parlamentare; correggerlo, rinnovarlo, tutto quello che volete, ma non abbandonare il sistema, perché abbandonato il Parlamento, le altre libertà non sono più sostenibili. Questo lo ripeto qui in mezzo a uomini avvezzi a ricorrere alla difesa con la spada, che hanno una certa concezione militare della vita e delle grandi virtù, che fanno parte di questa concezione militare. È necessario però aggiungere a queste doti anche l’accettazione volontaria dello spirito democratico, che vuol dire veramente sottoporsi all’esperienza parlamentare perché fino ad ora si è dimostrato non esservi altra spada per migliorare le leggi della convivenza civile. Voi che rappresentate lo spirito di sacrificio, di disciplina, soprattutto di disciplina, potreste esigere anche dagli uomini rappresentativi della nazione che dimostrino un senso maggiore di disciplina. Io lo predico da sempre, lo predico tutti i giorni, ne sento la necessità, ma in Italia a questo ci si arriva lentamente perché tutti gli italiani sono oratori, tutti hanno la fantasia facile; tutte attitudini le quali portano fatalmente alla discussione lunga e molteplice. Allora voi militari, voi che vedete la necessità della disciplina e dell’azione, perdonate un po’ questo vizio nazionale, e cercate di correggerlo; e noi parlamentari, noi uomini politici, riconosciamo che la nazione è perduta se accanto a questa libertà di discussione non c’è il senso della disciplina, lo spirito di sacrificio di cui questi uomini che mi circondano sono stati i campioni. Io vi ringrazio dunque di questo vostro impegno, di questa promessa di collaborazione. Fra le proposte dell’amico Mattei mettete in prima linea l’intervento attivo, accanto alle forze dell’ordine, in caso di emergenza e di pericolo. Avete offerto al paese ragione di incoraggiamento; bisognava che voi lo diceste. Lo sapevamo che l’avreste fatto, ma era necessario dirlo perché c’è in giro tanta gente pavida, tanta gente intimidita. Ma al di là di questo compito straordinario di emergenza, del compito di mobilitazione di tutte le forze, avete indicato il vostro compito della vita quotidiana, della vita ricostruttiva. Anche qui abbiamo bisogno che le parole abusate di «patriottismo», di «nazione», di «elevazione popolare», prendano un senso più adeguato alla situazione, prendano un senso più concreto e più giusto. In questo voi potete aiutarci. Mauri ne ha parlato specificatamente; così avete pensato ai tempi del combattimento: questo era il vostro pensiero di allora, questo è il programma di oggi. Abbiamo bisogno che voi eleviate in Italia la fede del patriottismo; solleviate questo paese disfatto dalla sconfitta e dalla guerra civile, solleviate la fede nella speranza e nell’avvenire d’Italia. È come se doveste portare lo spirito del volontarismo dalla montagna nella valle, nella valle della ricostruzione; nella valle dove l’aria è meno pura e il cammino più imbarazzato dai molti viandanti in varie direzioni; occorre portiate questo spirito del vostro sacrificio, questo spirito concreto di ricostruzione, questo spirito di subordinazione delle persone, all’ideale umano di una patria di tutti; bisogna che lo portiate nella vita quotidiana e ci aiutiate a far capire a questo popolo che non ci sono sempre due estremi: o da una parte la subordinazione ad un ideale internazionale, o dall’altra l’accensione in un nazionalismo che conduce al disastro. No. C’è la via larga della tradizione italiana. La situazione internazionale anche oggi e anche domani dovremo in parte subirla e vi prego di tenerlo sempre in mente. Quando incomincerete a criticare la attività di un governo o di un rappresentante, ricordatevi che le situazioni non si risolvono con le parole. L’Italia è un paese moralmente altissimo; la nostra forza sta nella nostra civiltà, nella nostra energia morale. I rapporti di forza materiale non ci sono spesso favorevoli. Allora bisogna girare gli ostacoli e adattarsi. Ma arriva un momento in cui si impone il dovere morale di difendere il carattere di una nazione, la dignità di un popolo. Ed allora, diamo contenuto a questa parola di patriottismo, a questa parola di nazione, diamo un contenuto che si inquadri nei nostri valori storici e sopratutto questa parola applichiamola al popolo. Non è più il momento di decidere delle questioni in piccola cerchia o rappresentanza di classe. È il popolo italiano l’attore principale, non dimentichiamolo. E un’altra cosa vi vorrei raccomandare: voi venite dall’esercito; la maggior parte di voi sono stati educati nell’esercito; vi sono stati degli errori, delle disgrazie, delle sconfitte. Forse, più che altro, degli errori. Ma oggi la nazione si riarma. Bisogna che lo facciamo per la nostra difesa. Lo facciamo tenendo conto delle necessità popolari e delle riforme sociali. L’esercito deve essere attrezzato. Non possiamo esporci al rimprovero di aver parlato di milioni e milioni di baionette e poi lasciare inermi i nostri soldati. La democrazia parla meno di milioni di baionette, ma cerca di attrezzare modernamente i soldati che devono difenderci. Ma sopratutto c’è bisogno di curare e di elevare lo spirito dell’esercito ed ecco dove faccio appello a voi. Aiutateci, aiutateci, aiutateci, perché alla attrezzatura moderna si unisca l’antico spirito da cui voi siete venuti: difendete l’esercito dalle insidie. Ne ha parlato anche l’amico Mattei. L’esercito è veramente insidiato. Sono certo, come tutti mi assicurano, che l’infezione non è entrata in cavità ma il tentativo c’è, e ripeto, è sistematico. So che voi amate l’esercito; aiutateci a difenderlo poiché è il baluardo della patria e della libertà. Un’altra cosa aiutateci a fare: credo che anche voi, nella vostra esperienza di combattenti e di volontari, dopo una guerra spaventosa finita così male, dopo la guerra civile a cui avete dovuto prendere parte e dopo aver assistito all’amara esperienza dei trattati di pace e dei rapporti fra i vecchi e i nuovi alleati, credo che anche voi siate arrivati a quella conclusione che io ho spesso ripetuto: vogliamo mettere l’Italia in piedi innanzi a tutte le nazioni. Una volta data una parola dobbiamo mantenerla fino alla fine. Quindi, non mi state a parlare di neutralismo, di meditazione sulle possibili sortite. Lentamente raschiando un po’ di pregiudizi che hanno avuto naturalmente un’origine da qualche fatto storico, bisogna che arriviamo ad imprimere nella mente dei nostri nemici e dei nostri amici, che siamo un popolo leale, che se facciamo un patto lo manteniamo e che anche noi siamo disposti alla nostra parte di sacrificio. Voi inoltre che avete vissuto gli orrori della guerra civile, aiutateci a superare lo spirito funesto delle discordie. Certo, vi può contribuire la misericordia che tanto si invoca. Si devono lasciare cadere i risentimenti e l’odio; si deve perdonare, come qualcuno di voi ha detto. Ma la sincera pacificazione non è possibile, se non si smette il tentativo di avvelenare ancora la fantasia della gioventù italiana, con l’esaltazione di un disastroso passato e col far riapparire lo spettro della dittatura di partito, contro la quale voi siete insorti. Siamo pronti a tirare un frego su tutto il passato ad una condizione: che di qui innanzi non ci sia che una patria sola, un regime solo riconosciuto, una libertà sola. L’Italia ha bisogno di tutti i suoi figli in questo momento, di tutti i suoi figli in buona fede. Così ho finito, amici miei. Con un pensiero vorrei concludere: la nazione è anche una storia, una tradizione, un complesso di sentimenti, un complesso di idee, che continuamente rifluiscono, di generazione in generazione; ma la patria vivente in cui dobbiamo lavorare e che dobbiamo difendere, è il popolo italiano. E quando diciamo di amare la patria, bisogna voler dire: lavorare, continuare nello sforzo pazientemente, fino a che al popolo italiano sia data la possibilità di una giustizia sociale che oggi non ha, che oggi non abbiamo la possibilità di assicurare perché ancora ci sono quelli che assorbono una quota troppo grande del reddito nazionale. Non è che noi invidiamo posizioni e agi: è che noi abbiamo il dovere di una perequazione più giusta e più sana. Anche qui, amico Mauri, io credo che saremo d’accordo, perché in un suo libretto ho trovato ricordata una canzone dei partigiani del Piemonte in cui si precisavano gli scopi della guerra di liberazione. Le strofe erano diverse, ma una mi ha colpito specialmente: perché combattere? E la canzone partigiana rispondeva: «perché questa antica parola Popolo suoni divina – al mio compagno signore – e a me stirpe contadina».
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Egli esordisce sottolineando come l’ora attuale sia critica per ogni governo e particolarmente per il governo italiano perché, nel momento in cui sperava di dare impulso alle riforme sociali, la situazione internazionale impone anche altre preoccupazioni. Accennando ai molti problemi di coscienza che sorgono per un uomo, per un cristiano quando deve prendere delle determinazioni politiche, l’on. De Gaperi dichiara che, tuttavia, non c’è un problema al mondo più urgente, più grave, più importante di quello del lavoro e della sua soluzione. Tutto il resto sarà opera preliminare, opera condizionante. Il presidente del Consiglio insiste quindi sul concetto della necessità di risolvere il problema del lavoro, di inserire le forze del lavoro entro lo Stato, di dare al popolo la sicurezza e la giustizia sociale. Osserva che è umano che vi siano delle differenze d’opinione al riguardo, ma esorta a non cercare la formula se si è di destra o di sinistra; le leggi fondamentali della convivenza civile si devono reggere sulle basi della convinzione cristiana nel suo impegno sociale, nel senso cioè che i princìpi cui essa si ispira non debbono essere soltanto vissuti nell’interno della coscienza ma debbono realizzarsi nella vita politica. Ci si chiede se si vada verso la socializzazione o verso l’impresa privata, se si abbia una linea fissa e ferma. Ma nessun partito, in realtà, tranne il comunista, ha uno schema così rigido e meccanico. Non esiste una macchina delle soluzioni, esiste una tendenza, un senso, una ispirazione, soprattutto deve esistere una volontà di applicazione come linea generale di condotta nei singoli problemi. Ricordando poi che creare e risolvere i problemi di lavoro vuol dire mantenere contemporaneamente la sicurezza politica e la sicurezza sociale, De Gaperi sottolinea per quanto riguarda la sicurezza politica che comunque e sempre deve essere garantita la libertà perché non dobbiamo più illuderci sugli apparenti risultati conseguiti attraverso un regime dittatoriale. La libertà politica è libertà personale, è libertà religiosa, è libertà dello spirito ed è appunto questo il limite, il punto di differenza esenziale tra le concezioni materialistiche e l’organizzazione meccanicistica della vita e la tendenza e il sistema che si informano alla dottrina sociale del cristianesimo. L’on. De Gasperi conclude dichiarando che si debbono creare le leggi che rendano giustizia alle masse salvando sempre e formalmente la libertà.
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Ringrazio gli amici e anche gli avversari vicini e lontani. Stamane un comunista mi ha detto che Modena non è così faziosa come si crede: forse in questa affermazione c’è un desiderio di migliore intesa, forse un senso di rincrescimento per un passato di scissioni e di conflitti. Comunque oggi si è aggiunto, secondo un manifesto attaccato ai muri, anche il desiderio che De Gasperi venga qui a dire la verità. Voglio dire questa verità con tutta franchezza, con massima comprensione verso lo stato d’animo degli avversari. Questa verità va detta non per imprecare o per accrescere le ragioni di contrasto, ma perché serenamente gli animi riflettano sulla situazione del momento, facciano un esame di coscienza e si decidano per l’avvenire. È venuta l’ora delle grandi decisioni per la salvezza della patria. Vi ricordate che il delitto principale di cui mi si accusa è soprattutto di avere eliminato dal governo la rappresentanza dei socialcomunisti. Voi dite «bene» ma io non dico né «bene» né «male»: dico che in un regime democratico esiste una maggioranza ed una minoranza e la maggioranza è quella che va d’accordo su un certo programma di politica interna ed estera. Se l’accordo non c’è, bisogna che la maggioranza si costituisca diversamente. Ora è avvenuto questo e nient’altro. Non una esplosione né una persecuzione, ma nient’altro che la costituzione di un governo in cui tutti erano d’accordo ed agivano anche in senso contrario. Ma come volete che io avessi potuto ristabilire la collaborazione col Partito comunista, quando in quei giorni si andava a Belgrado a fare accordi con Tito contro l’Italia e contro la soluzione italiana del problema di Trieste? Come volete che avremmo potuto ricostruire la solidarietà di tutti i partiti, una volta assieme nella resistenza, quando di fronte agli aiuti americani e di fronte all’affacciarsi del Piano Marshall sorgeva non per convinzione, non per l’interesse del nostro paese, ma per una parola d’ordine venuta dal di fuori, una campagna accanita contro gli aiuti americani, contro tutto ciò che voleva dire ricostruzione del paese e riordinamento della situazione economica mondiale? Non bisogna dimenticarlo, il Piano Marshall, gli stessi aiuti erano stati offerti alla Russia ed ai paesi orientali e questi non li hanno voluti perché temevano nel Piano Marshall una ingerenza ed una diminuzione dell’autorità dittatoriale. Perché vi sono categorie di uomini, nati e organizzati in Italia i quali per ragioni ideologiche, per prospettive rivoluzionarie nelle quali sperano, per vincoli organizzativi attraverso il Cominform ed altri accordi internazionali, ritengono che la speranza di domani, non sia posta nella loro nazione, entro la nazione, ma fuori di essa, in una direttiva alla quale bisogna subordinare tutto. Non è la legge costituzionale, la legge italiana, la legge della sovranità popolare italiana, è una legge sopra la nazione, la legge bolscevica che rode il cuore, li prende e li fanatizza. Abbiamo visto che era inutile sperare in una distensione, inutile sperare in un trattamento di tolleranza. Bisognava invece cercare la difesa comune ed ecco perché nel 1948 abbiamo fatto quelle elezioni con la parola d’ordine: unirsi tutti per difendere la libertà, l’indipendenza del paese e la volontà del popolo italiano. Non è vero che abbiamo incominciato una battaglia, che abbiamo fatto una campagna per un partito. Abbiamo vinto, ma nessuno può dire sul serio che abbiamo abusato della vittoria. Durante la campagna elettorale ci fu detto, da parte socialcomunista, che se il «blocco» avesse avuto anche un solo voto di maggioranza, avrebbe governato con questo voto. Noi abbiamo cercato degli alleati, abbiamo accettato il controllo e la collaborazione dei partiti minori, di partiti che non avevano un grande suffragio di elettori: con ciò abbiamo voluto raccogliere tutta la gamma possibile delle tendenze, tutti coloro i quali erano d’accordo sul programma della riforma, che avesse però carattere interiore e nazionale. Se avessero vinto i rossi, essi sarebbero andati all’assalto, con pressioni e dimostrazioni, di tutti i Comuni che non fossero stati socialcomunisti. La Democrazia cristiana è stata invece tollerante, nel campo comunale come in quello sindacale e ha lasciato piena libertà al Parlamento. È vero, ciò è stabilito nella Costituzione, ma in altri paesi, dove pure c’era una Costituzione, dove la maggioranza socialcomunista è arrivata al governo, la Costituzione non vale più ed è la maggioranza che si impone. I capi avversari poterono in Italia e fuori d’Italia accusarci, insultandoci di essere «servi dell’imperialismo americano», accusarci di mancata fede verso il popolo. E questo impunemente. Noi non ci siamo occupati delle sanzioni che meritavano queste parole e qualcuno oggi ce ne fa rimprovero: qualcuno oggi dice: «siete stati troppo accondiscendenti, dovevate essere più duri». Lo so. Lo so, amici. Voi che siete in una regione dove sapete cosa vuol dire regime di maggioranza e di una minoranza, so che mi farete anche questo rimprovero. Io lo accetto se è uno sprone per l’avvenire, ma non l’accetto riguardo al passato. Come democratici, come cristiani, bisognava fare l’esperienza fino in fondo: bisognava essere tolleranti sino in fondo, per dimostrare che noi la libertà la vogliamo veramente per tutti. Coloro poi i quali oggi ci vengono a dire, in nome di nostalgie passate, che bisogna ricorrere a sistemi di forza, che bisogna affrontare le squadre in piazza con altre squadre eccetera, questi ci portano una visione che speravamo fosse cancellata per sempre. Noi non vogliamo arrivare a guerre civili, non vogliamo che si affrontino sulle piazze squadre contro squadre, perché se il comunismo ha avuto una certa giustificazione per organizzarsi, questa giustificazione è appunto quella di aver trovato un regime di parte, un regime a tendenza squadrista. Noi vogliamo dire chiaro: in Italia non c’è questa necessità, noi non vogliamo questa alternativa: le squadre da una parte, le squadre dall’altra. No! Unità dello Stato, unità del popolo come è organizzato dal governo. L’Italia è un paese povero che non arriva a mantenere i suoi figli: lo sappiamo, ma sappiamo anche, con tranquilla coscienza, di fare ogni sforzo per il bene del popolo. Noi abbiamo affrontato le riforme: si è tanto irriso alla riforma agraria come fosse «invenzione», un «criterio» buttato lì a difendere il proletariato, a ingannare i piccoli possidenti o i braccianti: non è vero. Voi avete visto: si comincia. Si comincia anche nel Nord, come nel Sud. Si andrà vanti attraverso la «legge stralcio», si faranno la riforma, le bonifiche, si prosciugheranno nuove terre, ne distribuiremo. Abbiamo la ferma volontà di riuscire, ma bisogna che si abbia concordia e che non ci si lasci distrarre da agitazioni di parte. Proprio oggi, a Santa Severina, dove si sono divise le terre, se ne fanno occupare altre per mantenere le agitazioni, l’odio ed i contrasti fra gli stessi contadini. E abbiamo affrontato la questione del Mezzogiorno. Lo so, parlo a voi fra cui vi sono i rappresentanti della montagna che si può ben chiamare con una parola poco gradevole, ma vera, «zona depressa». Lo so, anche voi in Emilia avete tanti bisogni, ma il campo del Mezzogiorno è molto vasto. Dovremo cominciare di lì, ma parallelamente poco dopo, cominceremo qui. La legge c’è, gli stanziamenti ci sono. Specialmente per quanto riguarda la montagna si tratta di una necessità assoluta, di un vostro diritto, di un nostro dovere. Ma si può negare che per la prima volta, dopo tanti discorsi e tante leggi passate, il governo che io presiedo ha veramente compiuto un atto di riforma radicale, impegnativa per esso, per il suo partito, per tutti i governi che verranno, a qualunque partito possano appartenere e il diritto di rivendicare l’avvio al risanamento del Mezzogiorno e di tutte le zone depresse? Amici miei, so che i miliardi non sono sufficienti, ma bisogna cominciare perché se aspettassimo il giorno in cui potremo avere tutti i mezzi necessari per arrivare in fondo a tutte le riforme, allora perderemo il tempo che si è perduto nel passato. Oggi, dopo decine di anni di abbandono di quelle terre, io vi domando, avversari, perché non volete riconoscere, anche se avete altro astio contro il governo, quel che si fa almeno in questo campo? Perché non cerchiamo di unirci e non dite: lavoriamo con voi? Abbiamo avuto, invece, lo spettacolo di partigiani faziosi, specie in Senato. Abbiamo visto parlamentari opporsi, cincischiare sulla legge, sulla riforma, votare contro di essa, dire che questa non è abbastanza e, per amore del meglio di domani, negare quel bene che si può fare oggi. Questa è una politica di divisione. A tutti coloro che ci dicono siate cristiani, mettetevi d’accordo, siate comprensivi, io rispondo: sì, a coloro che questa politica accettano e sinceramente vi collaborano, siamo pronti a stringere la mano ma non possiamo accettare la faziosità di coloro che, col pretesto di insufficienza o di radicalizzazioni, si danno a istigazioni rivoluzionarie affinché nei cervelli penetri l’idea che non c’è altra possibilità che un capovolgimento rivoluzionario. Loro ideale è la conquista attraverso alcuni gruppi sindacali di tutto il potere politico e quindi l’imposizione della dittatura come esiste in Russia e in tutti gli Stati satelliti. È interesse del popolo lavoratore, dei ceti medi, dei piccoli proprietari essere sinceri nella denuncia della tassazione, perché non saranno loro che pagheranno di più ma saranno quelli che fino ad ora sono riusciti a nascondere i milioni ed i miliardi e domani non lo potranno fare pena le più gravi sanzioni. Questa riforma è risanamento morale, ma è anche la base di una possibilità di perequazione sociale. Quando avremo lo specchio sincero di tutte le possibilità di tassazione di redditi, potremo veramente rendere giustizia, introdurre una perequazione, una maggiore proporzione, l’adeguamento a quello che è la possibilità finanziaria di ciascuno. Ecco che io, parlando di solidarietà, faccio un appello soprattutto a chi possiede e a chi più guadagna. Bisogna che queste classi comprendano che ogni lira sottratta alla tassazione è come venisse sottratta al povero, al disoccupato, che ha bisogno di lavoro, perché, amici miei, non possiamo fare lavori pubblici senza spendere denaro e il denaro lo abbiamo solo attraverso il gettito fiscale. Perché se noi ce lo procurassimo stampando moneta, porteremmo il massimo danno a chi possiede e anche a chi non possiede. Ecco l’alternativa: o si pagheranno le tasse sulle libere proprietà e sulle libere imprese industriali, commerciali e professionali e allora il regime attuale può avere i mezzi per fare lavori pubblici e, in genere, per introdurre la sicurezza sociale per tutte le classi o questo non lo si vuol fare e allora bisogna che gli attuali detentori di proprietà e di ricchezze si adattino a vedere lo Stato intervenire direttamente attraverso la specializzazione e se occorre a controllare. Si dice che De Gasperi in queste cose è un poco sinistroide; la verità è che io sono nato figlio del popolo, mi sono sempre trovato in mezzo a lavoratori, ho sentito la loro miseria, sono parte del popolo minuto e sento che questo popolo ha delle ragioni da far valere e che c’è una giustizia da compiere. E badate che c’è la possibilità per tutti, anche per coloro che sono lontani da noi, coloro che sono meno atti ad accettare la nostra tradizione religiosa, c’è la possibilità per tutti di lavorare sopra una base di giustizia, di equità, di senso e di comprensione della vita democratica e popolare. De Gasperi contrappone a tale disposizione le violenze esercitate dagli oppositori, anche in campo sindacale e accenna al ritrovamento di tante armi ben lubrificate . Queste armi sono forse nascoste per essere usate contro gli imperialisti, contro i lontani rappresentanti di un asservimento immaginario, ideologico e realistico? O non sono lì per servire ad una violenta conquista del potere in Italia, per essere usate contro i partiti della libertà e della democrazia? Ebbene noi abbiamo dovuto difendere l’autorità dello Stato, fare appello a tutti coloro che sono per la libertà di tutti. L’abbiamo dovuto fare e quando ultimamente abbiamo visto che in seguito a un conflitto come quello della Corea automaticamente si è preso partito per l’aggressore e quasi attraverso certe province un fremito di «liberazione». Di liberazione contro chi? Liberazione contro un regime democratico come il nostro, che ha lasciato piena libertà, piena capacità d’azione alle organizzazioni, anche di partiti avversari! Allora abbiamo compreso che ci si vuole rivolgere contro l’autorità dello Stato, contro la solidarietà. È un’azione contro l’Italia, ed ecco che noi abbiamo dovuto insorgere. Io vi chiedo di aiutarci ma la responsabilità però, l’organizzazione della difesa la prende lo Stato. Io domando a tutti solidarietà e l’ausilio volontario di tutti coloro i quali lo possono dare durante la vita civile, soprattutto facendo uno sforzo di comprensione. A voi che mi ascoltate chiedo che queste cose le ripetiate anche ai vostri avversari finchè si persuadano che la strada su cui camminano è una strada falsa che li conduce forzatamente a fare quello che mai penserebbero di fare nella loro onesta coscienza. Cosa volete che faccia il vostro presidente del Consiglio quando ogni tanto risuona come un flauto pastorale dopo le tempeste e i fulmini il motto «distensione»… Come volete che crediamo a queste parole quando sappiamo che sono come musiche insidiose che si trascinano in una foresta che poi dovrà inghiottire tutti? C’è l’esempio degli altri paesi. Quindi collaborazione leale, sì, comprensione, alleanza distensiva, sì; ma di fronte alle sole parole, no, sarebbe un tradimento. Non intendiamo subirlo, costi quel che costi! Allora io mi rivolgo a voi e agli altri che mi sentono, agli altri che mi leggeranno, per dirvi: è ora che le masse popolari facciano un esame di coscienza e prendano una decisione. Se è vero che ci si trova dinanzi ad un regime di oppressione che sbarra le vie del progresso, innanzi a «uomini maledetti», come si è detto qui a Modena in un discorso, uomini che «fieri di avere nelle mani il potere si assidono al vertice di una società maledetta», se è vero questo, allora le masse operaie avrebbero ragione di voler minare questa società e capirei la preparazione degli animi, come gli animi esacerbati si preparano alla vigilia di una guerra, capirei la cura nel formare la coscienza rivoluzionaria nei giovani, capirei anche il «lampo» con cui si fanno comparire innanzi i miraggi lontani di uno Stato proletario e capirei il lubrificare le armi nascoste che domani servirebbero a combattere l’estrema battaglia. Tutto il resto come movimenti sindacali, azione parlamentare, tutto questo sarebbe subordinato, una mossa organizzativa e tattica, solo un preliminare alla grande lotta che si crede necessaria, fatale, doverosa. Ma è proprio così, ditemi mettendovi una mano sul petto? È proprio così, esiste veramente un governo cinico a tal modo? C’è una «società maledetta», ci sono dei «governanti maledetti» che governano «con la violenza e con la forza?». Se è così, credete voi che in Italia sia veramente fatale l’urto, che si debba venire fatalmente ad una guerra fratricida? Tutto indica invece che la Repubblica italiana è un regime aperto ad ogni progresso e soprattutto all’avvento delle forze delle masse popolari e del popolo. Volgetevi indietro perché è bene talvolta guardare al passato come è bene quando si mangia il pane bianco, pensare talvolta al pane nero. Ricordatevi l’Italia del 1871. Quando la si è fatta aveva 530 mila persone con diritto di voto su 27 milioni di abitanti; e queste 530 mila persone facevano il Parlamento ed il governo e governavano; poi, a mano a mano, diminuendo il numero degli analfabeti che allora erano niente meno che il 72 per cento, è aumentato il numero degli aventi diritto al voto, di color cioè che decidono sulla politica; e nel 1912 si arrivò così a otto milioni e mezzo con solo il 38 per cento di analfabeti. Attraverso la guerra dal ’19 tutti coloro che avevano partecipato alla guerra o che comunque avevano servito la patria avevano diritto di voto e quindi siamo arrivati in realtà al suffragio universale. Non è vero che si possa parlare politicamente di una casta dominante. Che casta? La gente che sta al governo oggi viene dai ceti contadini, dai piccoli proprietari, dal ceto medio dei lavoratori. Sono figli del popolo che appartengono anch’essi al popolo. Dove sono questi rappresentanti della classe dominante che vogliono restringere, mantenere a sé il potere? È una frase, è una menzogna convenzionale. Questo è un governo di popolo, un governo che si fonda sopra la maggioranza popolare, pronto ad andarsene domani quando ci fosse un’altra maggioranza; perché questa è democrazia e questa è libertà. In certi paesi invece quando «essi» arrivano al potere, gli avversari o sono espulsi o impiccati. Se le nostre masse operaie, invece di lasciarsi fanatizzare per un ideale rivoluzionario che rende stranieri in casa propria, avessero inviato al Parlamento degli operai riformatori, non legati a parole d’ordine che li mettevano contro gli interessi del proprio paese, essi oggi potrebbero controllare il potere politico. Quindi oggi non diteci che la Repubblica non è aperta a tutti in libertà, purchè la Repubblica venga riconosciuta come casa propria, come la casa di tutti i cittadini uguali e non come una passerella per poter saltare poi in uno stato di dittatura proletario. A questo punto De Gasperi riassume quanto si è fatto in Italia per la sicurezza sociale, citando dati secondo i quali le pensioni di invalidità e vecchiaia sono passate da 51.109 nel 1921 a 1.474.251 nel 1958. È vero che non è stata ancora presentata al Parlamento la riforma integrale, ma si sono attuati miglioramenti parziali, come la rivalutazione di 49 volte, l’aumento delle rendite ai pensionati, ecc. Circa l’assistenza, De Gasperi dice che gli Istituti di ricovero nel 1902 erano 2.515, nel 1948 erano 6.607; gli asili infantili nel 1902 erano 3.248, nel 1948 9.213; ed i refettori recentemente creati, fino ad oggi sono 17.811 per due milioni 218.930 assistiti. Poi vi è l’opera dei Comuni. Il presidente a questo punto assicura che il completamento del Policlinico di Modena sarà per l’intervento del Tesoro, sia pure in diverse rate, realizzato con un miliardo e ottocento milioni, ripartiti in sei annualità. E i sanatori e gli ambulatori? Nel 1929 potevano essere ricoverati solo 18.421 malati; nel 1948 i ricoverati erano 88.393. E l’opera nazionale maternità e infanzia? Nel 1938 si diedero sovvenzioni per 133 milioni di lire; nel 1948 3 miliardi, aumentati nell’esercizio 1949-50 a sette miliardi. E le case? So che non tutti hanno la casa, ma potete negare l’attività edilizia di quest’anno? Lo avete visto di persona attraverso le case del piano Fanfani, attraverso l’Istituto della Case popolari. La statistica recente dice che in Italia nel primo semestre 1949 sono stati costruiti 71.891 vani di abitazione e nello stesso periodo del 1950 ne sono stati costruiti 139.171, con un aumento del 94 per cento. S’è fatto, ma bisogna fare di più; ma è inutile che voi continuate ad esasperare la gente dicendo che il governo non fa niente. Dite una cosa su cui sono d’accordo anch’io: «non fa abbastanza». E io dico: «non è abbastanza, ma noi abbiamo la volontà di fare e siamo sulla giusta strada». De Gasperi parla quindi del problema della disoccupazione e accenna a quello che si è potuto fare per rimediarvi, ai cantieri di rimboschimento e ai corsi di riqualificazione. Quanti italiani passavano la frontiera e andavano all’estero negli anni precedenti la guerra e il fascismo? Nel 1913 si ebbe la punta di massima nella emigrazione con 873.000 unità in un anno mentre in quest’ultimo triennio si è potuto assicurare lavoro all’estero solo a 150 mila operai. Quante difficoltà da superare! Un mondo chiuso, un mondo egoista, in cui bisogna, a furia di accordi, trovare nuove vie all’emigrazione: lo stiamo facendo e in Brasile ed in Argentina e ora in Australia abbiamo trattato ed ottenuto la possibilità di emigrazione. È un lavoro lento, tenace e che non può dare subito i suoi frutti. Si è cercato attraverso provvidenze temporanee di assorbire un’altra aliquota di lavoratori. Ogni anno entrano 200 mila nuove unità lavorative e se si dice che il numero dei disoccupati è rimasto lo stesso, non è esatto. La riforma agraria implica una macchinazione dell’agricoltura e porterà quindi alla costruzione di macchinari in Italia ed allora daremo lavoro all’industria meccanica, questa disgraziata industria che ci dà tante preoccupazioni perché creata e gonfiata a dismisura come industria di guerra. I lavoro pubblici messi in programma quest’anno, i cosiddetti investimenti, sono molto maggiori dei lavori pubblici dello scorso anno, di due anni fa. Se si parla oggi di necessità di riarmo, di difesa della libertà, una parte almeno di queste spese potranno venire assorbite da lavori e quindi rappresentare un certo progresso anche per l’industria meccanica e per l’industria in genere. C’è stata una grande polemica recente a proposito di inflazione, a proposito di produzione e subito la sinistra ci ha soffiato dentro dicendo: tutto va male, tutto va in malora. Ma non è vero, l’indice della produzione industriale è favorevole; se nel ’38 era cento, nel ’50 va dal 115 al 120: perché vi sono industrie che vanno male e industrie che vanno bene e che si compensano naturalmente nelle statistiche. Il reddito complessivo tra il 1947 e il 1950-51 è aumentato dal 25 per cento superando il 1938. Gli investimenti sono arrivati al 21 per cento del reddito nazionale. Tutti gli uomini pensosi della situazione finanziaria dicono che siamo già arrivati ad un limite al di là del quale noi non riusciremmo a pagare ma potremmo correre il rischio di far fallimento ossia svalutazione. De Gasperi accenna all’opportunità di snellire la macchina burocratica dello Stato: cita l’esempio della Cassa per il Mezzogiorno. C’è stata una polemica in argomento, una polemica che è venuta da parte del rappresentante della missione ECA . Noi non siamo infallibili, come non è infallibile il governo americano. Noi non siamo infallibili, come non lo sono nemmeno gli uomini che ci criticano: le critiche possono esserci utili quando ci possono giovare e quindi le accettiamo con buona volontà. Ma vorremmo che almeno i giornali stranieri, i giornali americani, non se ne servissero per svalutare lo sforzo che l’Italia ha fatto e per diminuire contemporaneamente il merito dell’America che ci ha aiutato. Parlando dell’industria metalmeccanica, il presidente afferma che il governo sente il dovere di affrontare questo grave problema: si è costituito all’uopo un comitato di economisti e di tecnici perché esamini le situazioni singole e cerchi la possibilità di organizzare tutto il settore. Se è necessario ci si metterà dentro lo Stato pur di salvare soprattutto il lavoro degli operai e la situazione sociale. C’è tutto un fervore di rinnovamento e di opere ma c’è bisogno di tempo, di uomini, di mezzi; non si può improvvisare dall’oggi al domani senza cagionare gravissimi danni. Noi non possiamo semplicemente dare la terra ai contadini, senza aiutarli poi con le sementi, con l’aratura, con la meccanizzazione laddove è possibile e necessario. Noi dobbiamo aiutare le campagne con l’irrigazione. Questi lavori si fanno nel Mezzogiorno ed anche nel Nord. Ma dobbiamo ricordarci soprattutto la montagna la quale (lasciatelo dire a me che sono un montanaro) è stata purtroppo abbandonata. Quindi la verità è un’altra. La democrazia politica in Italia è assicurata e va diventando sempre più democrazia sociale. Uno sforzo viene fatto per assicurare il lavoro, l’assistenza, il pane e la casa. Molto cammino è ancora da fare, lo sappiamo, ma la diritta via ormai l’abbiamo presa. E noi marceremo verso uno Stato che concilii la libertà con la giustizia sociale. Non possiamo, noi, fare a meno della libertà, perché la libertà è non soltanto dignità della persona, non soltanto indipendenza della famiglia, è anche libertà dello spirito. In Italia ognuno può avere la fede che crede, il partito che preferisce, ma il progetto della nazione è possibile solo se c’è uno sforzo concorde di solidarietà. Chi ha deve dare e contribuire in modo che tutti possono oggi avere una certa sicurezza di vita. Che cosa vuol dire l’autonomia, la libertà, il libero destino di questa nazione? Tutti devono mettere questo sopra ogni altra ideologia, anche se noi siamo fra coloro che desiderano vivissimamente la collaborazione internazionale tanto da rinunciare anche a parte della sovranità, non mai però all’anima della nazione, alle sue glorie e al suo avvenire. C’è qualcuno in Modena (più di un secolo fa partì proprio da qui la prima voce per l’unità e la libertà della patria: quella di Ciro Menotti) , c’è qualcuno in Modena che anela sul serio alla dittatura di parte; che si fanatizza per alcuni messaggi lontani, quando questa Italia può dire la sua parola purchè la si consideri come madre da servire, focolare da difendere, casa comune di cittadini liberi ed eguali, officina di solidarietà produttiva? Voi che avete compiuto nella resistenza, prima in confronto dello straniero poi in confronto di ogni violenza di parte (e qui ricordo che oggi è l’anniversario della morte di Fanin alla cui memoria mi inchino), voi non potete essere né per la violenza né per la dittatura. E poiché vedo tante bandiere democristiane mi sovvengo che a voi democristiani non ho ancora rivolta una parola dal cuore, un pensiero diretto: questo pensiero prima è di ringraziamento per la vostra operosità, per la vostra attività non senza rischi, per il vostro coraggio, amici, perché ci vuole poco coraggio in una grande città dove siamo maggioranza, ma ci vuole molto coraggio laddove si è minoranza, dove si è piccola parte. Io spero che il vostro esempio insegni a tutta l’Italia: il periodo della paura è finito, deve essere finito! Con ciò non comincia oggi il periodo della rappresaglia, no! Incomincia il periodo della libertà e della dignità per tutti. Quando faccio appello al senso di solidarietà, al servizio del bene del popolo, so che voi siete i più convinti assertori della giustizia, della giustizia sociale, alla quale voi tendete e per la quale lavorate; non solo per un senso umanitario, che anche altri possono condividere, ma per un senso più profondo, per un senso di dovere e di coscienza, per il richiamo pressante e quotidiano della vostra coscienza cristiana.
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1,950
1Building the Italian Republic
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Il mio non vuole essere un discorso: sarà una conversazione che non attende subito una risposta, ma che ha la sicurezza di una risposta nel vostro sentimento e nella vostra volontà d’azione. Non voglio fare un discorso ai giovani, che è già stato fatto magnificamente dall’amico Gonella. Cosicché, per la tesi generale, io non ho che a richiamarmi a quanto egli ha detto e che vi prego di considerare e di meditare. Il problema dei giovani è così complesso che in realtà si può affermare non esista. Esistono, invece, una serie di problemi che interessano la gioventù. Sono aspetti economici, aspetti sicuramente riconosciuti connessi alla giovinezza, all’età ed espressi dalla insofferenza di fronte alla durezza della realtà: aspetti che risultano in parte dall’insufficienza educativa ed organizzativa del regime democratico. Il metodo democratico non è sempre sostanziato dalla personalità dei suoi operatori o da una sintesi animatrice del loro pensiero. Quindi non meravigliatevi, specialmente voi giovani, che traeste spesso impulso direttivo dalla fantasia, più che dal raziocinio, non meravigliatevi che la democrazia sia o appaia, come metodo, meno della dittatura atto ad informare la fantasia, ad alimentare i sentimenti, a sviluppare degli impulsi creativi. La fantasia è colpita più dal fatto della guerra che dalla bonifica, più dal progresso meccanico che dallo sviluppo delle istituzioni umanitarie o delle opere di carità e di giustizia. Di tutti questi aspetti, voglio richiamare la vostra attenzione soltanto su di uno in particolare. Cioè sul problema che mi pare il più attuale, il più concreto, sul quale dovete specialmente riflettere, il più legato a immediate responsabilità avvenire, cui siete chiamati, e nello stesso tempo il più vincolato allo sviluppo storico recente: è il problema dell’atteggiamento dei giovani di fronte alla alternativa di pace o di guerra. Permettete che la mia conversazione si aggiri intorno a questo argomento. Vi ricordate il mio discorso alla Camera dell’11 luglio , quando denunciavo una lettera a Stalin, pubblicata su un giornale giovanile: La nostra bandiera di Genova, nel quale si diceva: «noi non combatteremo mai contro l’URSS, né contro gli altri paesi a democrazia popolare» ? Avevo fatto allora alla Camera un commento che sembrava logicissimo: il dire così in questi frangenti, dopo quanto era stato premesso a tale dichiarazione, voleva in realtà dire: noi non combatteremo per l’Italia nel caso in cui l’Italia fosse chiamata a difendersi contro attacchi promossi dall’URSS o da altri Stati di democrazia popolare. Quindi queste sono affermazioni di disobbedienza civile che meritano senza dubbio una più attenta considerazione da parte di coloro che sono preoccupati della difesa del paese e dei sentimenti che devono accompagnarla. La segnalazione fece una certa impressione. Abbiamo visto uomini, i quali nel passato avevano parteggiato per il fronte popolare staccarsi dalle iniziative o dissociarsi dalle agitazioni dei partigiani della pace, perché questa lettera dava un significato particolare a quelle agitazioni, significato assolutamente non accettabile da noi italiani. Nessuna meraviglia, quindi, che la Procura della Repubblica abbia promosso un processo in merito. Ma il 25 novembre u.s. si è avuta una sentenza, sentenza di assoluzione perché «il fatto non costituisce reato». Si è ritenuto che si trattava di una opinione, di un giudizio, e secondo la nostra Costituzione e la nostra tradizione, opinioni e giudizi non possono essere oggetto di sanzione. A noi è apparso, in ogni modo, e pare anche oggi, che si tratta di un impegno che si riprometteva di suscitare adesioni e portare al rifiuto di difendere la patria nell’ipotesi che fosse attaccata dall’URSS. Infatti i commenti de l’Unità, edizione di Genova, sono a questo riguardo caratteristici. Ecco il titolo della cronaca: «il responsabile de La nostra bandiera assolto dall’accusa di aver pubblicato l’impegno dei giovani di non combattere mai contro l’URSS» ; il titolo del commento «De Gasperi e i giovani». Ed eccone i punti principali: «il paese del socialismo per sua natura non fa guerre, se non per difendersi; il rifiuto a combattere significa rifiuto alla guerra d’aggressione…». Dopo aver messo in rilievo la sentenza d’assoluzione: «così è finito l’attacco governativo alla gioventù comunista: nel ridicolo e nel fango», si arriva all’ultimo periodo: «il risultato è stato che su questo problema si è aperto un largo dialogo tra i giovani delle officine, delle scuole, dei campi, di ogni condizione e di ogni ceto sociale. L’accordo è già largo e diverrà ogni giorno più largo e profondo. Le quinte colonne dello straniero e della guerra saranno sconfitte» . Vi appare dunque evidente che dell’assoluzione profittato per allargare l’agitazione. Questa crescente agitazione ha avuto anche una manifestazione sul n. 49 del giornale Pattuglia , ove trovo con mia grande meraviglia (non so poi se le lettere e i nomi corrispondono in realtà) delle dichiararazioni favorevoli a discutere, impegnative a discutere, anche di giovani democristiani, cattolici. Dico con meraviglia perché evidentemente queste discussioni, impostate come sono, e dati gli organi di buona fede che devono riferirle, diventano un agguato. Ma ecco che in questo giornale (che negli ultimi tempi è diventato un po’ più prudente nel parlare, dopo la nostra campagna contro la quinta colonna), giornale che vien fatto passare ovunque è possibile nelle mani dei soldati e delle reclute, la campagna continua e fra gli altri documenti si legge: Lettera alle nuove reclute, di Giuliano Pajetta, nella quale ci sono espressioni come le seguenti: «entrate in un esercito in cui i capi si vantano di prendere armi e ordini dallo straniero, promettono a questo stesso straniero di istruirvi per lui, di farvi combattere per lui, di dare i figli di mamma italiani per sostituire quei figli di mamma americani che già muoiono in Corea…». Più avanti si dice che «per servire lo straniero», si vuol riportare la ferma a 18 mesi. Dobbiamo ben augurarci che questo veleno non entri nelle caserme, ma il tentativo c’è, la volontà c’è. Tutto questo avviene nei paesi democratici, mentre l’imperialismo comunista arma milioni e milioni dei suoi «figli di mamma». Curioso questo continuo riferimento agli stranieri: «guerra fatta per gli stranieri, impegno per gli stranieri…» . Non ho bisogno di ritornare su argomenti ormai conosciuti, perché che cosa significa una guerra delle Nazioni Unite – se per disgrazia si verificasse – se non guerra di solidarietà difensiva? Non è necessario inoltre rilevare che questi stranieri sono invece degli alleati; che il concetto che noi abbiamo del consorzio umano è diverso da quello espresso da questa nuova xenofobia dei comunisti. Ma è caratteristico questo riferirsi agli stranieri, questo richiamarsi ad una imposizione che venga dal di fuori, questo nazionalismo comunista. È sintomatico che i nazionalismi si toccano. Ecco qui: non so se voi leggete mai i periodici fascisti. Bisogna essere attenti ai piccoli giornali, perché è là che più si agitano le idee. Allora permettetemi di citare altri giornali: Il Meridiano d’Italia , in cui Concetto Pettinato (molti ricorderanno chi sia), scrive un articolo che io metto in confronto con l’articolo prima citato e che costituisce un fenomeno di collusione nazionalistica molto significativo dei due movimenti. Mi rimproverano di aver dato rilievo alle dichiarazioni di Truman espresse nel senso di «prudenza e forza». «Perché – dice Il Meridiano – deve essere proprio De Gasperi a proclamare al mondo dal suo gabinetto del Viminale che tutto va a gonfie vele? Italia e Germania avrebbero di che intentare agli anglo-sassoni, davanti al tribunale della storia, un vero e proprio processo di risarcimento, presentando loro un conto di danni a petto del quale i filantropici miliardi dell’ERP sarebbero nulla di più della nota della lavandaia. Hanno abbattuto il vallo che tedeschi e italiani scavarono con le loro braccia e cementarono con il loro sangue a protezione dell’Occidente; hanno fatto della marea slava e del pericolo giallo la realtà di domani; orbene, come se ciò non bastasse, ecco gli uomini da cui dipendono le sorti di 50 milioni di italiani senza peccato, decernere, in presenza di questo po’ po’ di fallimento, elogio e lauree ad honorem a un olimpo di mentecatti e di criminali per i quali le forche di Norimberga costituirebbero un trattamento di favore. Il nostro patriottismo arde sempre, sotto il moggio, come la celebre fiaccola. Ma perché riapparsa all’onore del mondo, signori del governo, dovrete prima andarvene voi» . E lo stesso pensiero si manifesta in parecchi altri di questi giornali su cui bisogna meditare. Eccone un altro: La Ruota di Napoli . E vi parlo di articoli recentissimi, naturalmente. L’autore, Antonio Pugliese, si esprime, in sostanza così: «negli ultimi anni avevo aspettato per vedere il confronto dei fatti; vedere se la democrazia ci poteva dimostrare che abbiamo avuto torto come fascisti, vedere se le nostre idee, il nostro metodo non debbano essere riabilitati…». Ed ecco la sua conclusione: «il confronto è stato oggettivamente negativo; con questa democrazia sorda ad ogni sentimento, gretta nei suoi pensieri, nei suoi mezzi e nei suoi fini, ostinatamente chiusa all’afflato di tutte le esperienze, negativamente ferma sulle vecchie e stantie posizioni, con questa democrazia, vecchia di anni e di spirito, nessuna possibilità di intesa. Di qui la necessità per i giovani di un esame introspettivo, di una revisione dei propri mezzi e dei propri fini, di una registrazione dei timbri, dell’allontanamento del superfluo e del negativo e dell’accettazione del necessario e del positivo. Ma – dirà qualcuno – questo è fascismo. E che contano le parole? – ribattiamo noi» . Questo è l’inquadramento dell’articolo. E se qualcuno obiettasse che queste sono manifestazioni di singoli o di correnti secondarie del neofascismo, vorrei citare anche quanto fu pubblicato il 9 dicembre da Lotta Politica che è l’organo ufficiale del Msi. Si tratta di un articolo del segretario del Msi, Augusto De Marsanich, il quale scrive, a conclusione di un articolo di fondo: «noi ricordiamo che le anime immortali di Mussolini e di Hilter, di là dove ogni vero è svelato, hanno già presentato da tempo alle Cancellerie di tutte le capitali del mondo, da Berlino a Washington, da Roma a Mosca, da Londra a Pechino, questo semplice quesito: chi ha perduto la seconda guerra mondiale? Una risposta coscienziosa e sincera a questa domanda potrebbe forse salvare la pace» . Ecco dunque anche qui il richiamo alle responsabilità storiche. Devo riconoscere che non aveva torto l’onorevole Cocco Ortu, nel contraddittorio sostenuto domenica scorsa, nel momento in cui, a proposito del problema del neofascismo rilevava che bisogna chiarire ai giovani come e perché si è perduta la guerra. In argomento sono stati citati due documenti che ho poi ritrovato in un libro del generale Favagrossa, che si intitola appunto: Perchè perdemmo la guerra . Naturalmente il generale Favagrossa , considerando la questione nel campo di sua competenza, darà solo la risposta tecnica che poteva dare. Ve ne leggo qualche brano. Egli ricorda di aver presentato un pro-memoria per il capo del governo in data 13 maggio 1940 del commissariato generale per le fabbricazioni di guerra, con questo oggetto: situazione in caso di conflitto . Non vi leggerò naturalmente per intero questo documento, tuttavia da esso possiamo rilevare che, ad esempio, per alcune importanti materie prime la situazione si presentava così: «Acciai. La produzione mensile di centotrentamila tonnellate, appena sufficiente per far fronte alle più impellenti necessità della vita della nazione, qualora venisse a cessare l’arrivo di rottami dall’estero potrebbe essere assicurata con quanto ora c’è in paese per poco più di tre mesi, dopo di che si dovrebbe intaccare la scorta rappresentata dalle cancellate… Rame per sei mesi. Stagno: sinora si è vissuto mese per mese sul poco che arrivava. Nikel, situazione molto grave e che minaccia di diventare tragica. Senza nikel non si possono costruire armi automatiche, né cannoni, né motori ed organi vitali degli aeroplani. Alluminio: la produzione è di poco superiore alla metà di quanto occorre. Magnesio: soltanto verso la fine dell’anno si potrà avere un terzo circa del fabbisogno. Piombo e zinco: insufficienti. I depositi di esplosivi: sufficienti nemmeno per far fronte anche in limitata misura all’approntamento delle Forze Armate, indipendentemente da qualsiasi possibilità di scorta». Il primo giugno 1940 il sottosegretario di Stato per le Fabbricazioni di guerra inoltra un rapporto riservato a Mussolini sul problema del munizionamento . Risultava che vi erano munizioni per sessanta giorni. Dieci giorni dopo questo rapporto Mussolini entrava in guerra. Dovremmo allora concludere che c’è stato in questa guerra solo un grosso errore materiale? Si è dunque arrivati a perdere questa guerra solo per l’imprevidenza nella preparazione? No, certamente: ma che questa sia stata una delle ragioni che hanno portato alla sconfitta, è troppo evidente, troppo chiaro. E quando ci si dice che noi, parlando di sconfitta, svalutiamo il valore di chi ha combattuto, si dice una cosa non vera, perché in realtà la colpa non è di chi ha combattuto e fatto il proprio dovere – al cui merito sempre ci inchiniamo – ma l’errore fondamentale è della passione di Mussolini che lo portò ad attaccare nel momento in cui l’impreparazione era evidente. Questo è avvenuto perché, dopo il crollo della Francia, egli voleva arraffare, nella conquista del mondo, una certa parte di quello che allora sembrava fosse già assicurato alla Germania. E qui entriamo nel campo della morale e della considerazione storica. Credevamo che alcune cose fossero acquisite, ormai da tutti accettate, e che non occorresse, data l’evidenza dei fatti, tornare ad accertare le colpe della guerra passata. Oggi invece, poiché rivediamo risorgere antiche passioni, sentiamo il bisogno di far appello agli storici di buona volontà, a tutti gli studiosi, perché si occupino di scrivere serenamente la storia, che la gioventù non sempre conosce. E vorrei che questa storia si scrivesse non come polemica di partito, per ricercare responsabilità individuali. Diventa secondario, per il momento, il sapere se nelle trattative diplomatiche Mussolini e Ciano tutto fecero per garantirsi che la guerra non sarebbe scoppiata prima di tre anni, come aveva concesso a mezza voce Hitler. Cosa importa sapere quali sono le responsabilità dirette del Gran Consiglio per il 25 luglio, della Monarchia e di Badoglio per 1’8 settembre? Senza dubbio la storia dovrà occuparsi anche di queste responsabilità e fissarle; ad un certo momento, anche questi fatti potranno servire di ammaestramento alla nuova generazione. Ma più importa identificare quale fu la parte di colpa rappresentata dalla idea-forza, dalla dottrina, dalla prassi del regime fascista, in confronto del problema della guerra e della cooperazione internazionale. Occorre far rivivere innanzi alla considerazione dei giovani tutta questa pratica della violenza attuata prima nella vita nazionale e poi in quella internazionale; chiedersi e rispondere a questa domanda: se non sia stata proprio questa logica intrinseca della violenza che portò il fascismo italiano a legare il suo destino al nazismo germanico, a farsi quindi complice e concorrente nelle sue imprese di conquista. Questo è il problema che i giovani debbono studiare e meditare, questo è il problema di ieri e di domani. Si esamini dunque tutto questo e si esaminino pure le gravi colpe di connivenza o di debolezza degli altri, cioè degli oppositori al fascismo. Come reagirono, come potevano agire gli avversari del fascismo? E quali le colpe dei movimenti disintegratori che gli hanno facilitato la via? Non possiamo mai dimenticare che nella storia c’è una dialettica dell’azione e della reazione. Non si capisce il fascismo e il nazismo totalitari, se non si studi il totalitarismo rivoluzionario che nella storia l’ha preceduto. Abissus abissum evocat: la dittatura evoca la dittatura. Ed allora non è illogico, non è nuovo quello che avviene anche oggi: che i due estremi cerchino di giustificarsi a vicenda. I fascisti dicono: dobbiamo venire noi, per respingere i comunisti. I comunisti, dalla loro parte, dicono: guai se non esistessimo noi, perché il fascismo tornerebbe a imporre la sua dittatura. Esaminando questo, discutendolo fra i giovani, credo che si capirà allora quello che taluno, il quale ritiene di essere il più saggio, non capisce oggi: perché ci allarmiamo del culto nostalgico del passato, del tentativo di riesumare simboli e riti. Sembrerebbero innocui, ma abbiamo ragione di temere il ripetersi fatale degli stessi metodi di violenza, l’imporsi nel paese delle stesse passioni, delle stesse forze che portarono logicamente alla dittatura di partito, alle guerre di conquista e al disastro nazionale. Questo riesame lo affidiamo alla stampa, alla stampa seria che ha senso di responsabilità, alla stampa che vuol serenamente trarre dagli avvenimenti passati direttive per l’avvenire. Questo riesame lo affidiamo sopratutto ai libri e agli educatori. Questo riesame va fatto sopratutto per i giovani che non sanno, non hanno visto, non hanno saputo, ma cercano la verità e la vogliono difendere. Questo varrà a mettere nel vostro animo quella preoccupazione che angosciò il nostro 1922 ed a spiegare il nostro atteggiamento di resistenza attuale, quando ancora la minaccia non appare così grave. Io vorrei che la storia si facesse e la discussione avvenisse senza senso di rappresaglia. Nessun rancore per i responsabili caduti e, badate, questa è la spiegazione per cui abbiamo voluto dimenticare, da una parte e dall’altra, errori ed orrori. Abbiamo voluto dimenticare, abbiamo pensato che la cosa migliore fosse quella di tirare un velo. Questo popolo indebolito, questa Italia lacerata dalla guerra civile, bisognava rimarginasse le sue ferite nel silenzio, dimenticando. E avremmo voluto dimenticare per sempre. Disgraziatamente l’affacciarsi degli stessi problemi nei giornali citati e la propaganda che viene svolta hanno richiamato la nostra attenzione sul fatto che dimenticare il passato, per quello che riguarda la lezione della storia, potrebbe essere un grave pericolo per l’avvenire. E vorrei che si distinguesse nettamente: nessun senso di rappresaglia, nessun rancore per i responsabili caduti, anzi il desiderio sincero della collaborazione entro la democrazia fra coloro che vogliono il bene del paese, sul terreno della libertà. Sia ben chiaro: pieno riconoscimento, da parte nostra, della gioventù che quando venne l’ordine accorse sotto le bandiere, si battè e si sacrificò nel pensiero della patria. Gioventù che non era in grado di analizzare le cause del conflitto e che in ogni caso si piegò a quella che allora appariva come legge suprema di disciplina e di salvezza nazionale. Inchiniamoci dinanzi all’eroismo sfortunato di tanti giovani di Bir el Gobi, di El Alamein, di Cheren, di Monastir e del Don, e il nostro rispetto sia tanto più profondo proprio per coloro che non avevano accettato il fascismo nel loro cuore e si battevano per senso del dovere e dell’onore. Questa parola di commemorazione affettuosa per i morti, per i mutilati, per i combattenti in buona fede di tutte le guerre, è risuonata anche recentemente per bocca di un ministro nella grande commemorazione di Redipuglia. E poiché un giornale, riferendosi ai cattolici, ai democristiani, parla di «scuola di svirilizzazione», voglio ricordare che la sola Gioventù Cattolica nelle ultime guerre ebbe 105 medaglie d’oro, 999 d’argento e 2.717 di bronzo e croci di guerra. Però ci si dice che nella sventura della sconfitta noi abbiamo mancato di dignità nazionale. Io immagino che non si possa ripensare per me ed altri, a scene tanto penose come quelle che abbiamo attraversato nelle anticamere delle conferenze della pace ed è difficile che si riproduca questo sforzo entro di noi di salvare la nostra dignità e di doverci tuttavia inchinare dinanzi alla forza e talvolta anche al dovere di riparazione. È vero, abbiamo dovuto accettare le condizioni della sconfitta, ma siamo stati noi, io sono stato il notaio delle sconfitte altrui, io ho dovuto fare l’inventario delle terre che erano già state perdute dal fascismo e che da anni erano ormai occupate e godute dai vincitori. La dignità è servita a riguadagnare lentamente la considerazione del nostro paese. Non posso dimenticare che l’azione di migliore affiatamento, di amicizia con l’America, è cominciata proprio nel momento in cui più ho sofferto, in questa tragedia della dignità e della necessità, proprio durante la conferenza di Parigi. Dopo il mio discorso, scendendo ho trovato il Segretario di Stato americano che di contro al gelo di tutta l’assemblea mi ha stretto la mano e mi ha dato appuntamento per un colloquio nel suo albergo immediatamente dopo la conferenza. Questo servì ad aprirmi un raggio di luce verso l’avvenire, a darmi la speranza che nonostante la durezza dei trattati si doveva schiudere una realtà meno dura. E quando Bidault nel darmi la parola disse: «il rappresentante della nuova Italia», disse qualcosa che era reale. Questa nuova Italia l’abbiamo creata, stiamo creandola e nessuna modestia ci può far tacere la nostra viva reazione quando proprio i responsabili della sconfitta di ieri si alzano ed accusano noi, che eravamo lontani da ogni spirito e volontà di guerra e che pur soffrendo e facendo il nostro dovere, non abbiamo nessuna responsabilità nella gravissima decisione, tutto abbiamo fatto per salvare il paese quando gli altri lo avevano perduto. Da quell’affiatamento migliore con l’America, facendo rinascere la fiducia in noi attraverso prove di solidarietà internazionale, attraverso l’azione degli immigrati in America, sopratutto, è nato l’impulso dell’aiuto verso l’Europa, la realizzazione del piano ERP, la possibilità di rifare una economia italiana, la salvezza della nostra nazione. Ed ora questi signori, che hanno perduta la guerra vorrebbero presentare il conto della guerra perduta a chi ha salvato la pace. Ci accusano di servilismo. Chi muove questa accusa? Quando si è avuta la disgrazia di trovarsi nella posizione in cui si è trovato il fascismo ed il suo capo nella Repubblica sociale in una posizione di umiliazione e di servilismo nei confronti di Hitler, quando si è arrivati perfino a consegnargli i propri fratelli per i campi di annientamento, allora è meglio che questa parola da quella parte non venga più pronunciata. Non siamo noi quelli che vogliamo rincrudire il giudizio della storia. Ma se essi lo vogliono, se per disgrazia della nostra nazione questa polemica deve essere rifatta, la faremo. Dall’altro lato, vi sono gli altri accusatori, che mirano alla stessa dimostrazione: che noi siamo servi degli americani, e questo lo dicono coloro che sono legati alla Russia, non soltanto attraverso vincoli di pensiero e di dottrina, ma sopratutto attraverso il vincolo disciplinare del Cominform. E proprio costoro ci accusano di servilismo nei confronti degli americani! Qui mi piace ricordare con quali sentimenti noi abbiamo accolto gli americani alla loro entrata in Roma. «Anche gli angloamericani – scrivevo in un articolo su Il Popolo clandestino alla vigilia dell’arrivo dei vincitori – innanzi ai monumenti della nostra civiltà trimillenaria in Roma, sentiranno il vasto respiro di quest’Urbe, madre del diritto e maestra un tempo nel governare il mondo; e quando calcheranno il suolo, percorso sì da tanti Cesari trionfatori, ma imbevuto anche del sangue di milioni di martiri che per difendere la libertà di coscienza negarono a Cesare quel che era di Dio; suolo talvolta profanato dal tallone di tanti despoti barbarici, ma riconsacrato dai Pontefici Romani che scacciarono gli invasori e rintuzzarono le offese in nome della civiltà e della dignità umana; allora avranno la sensazione che nessun’altra città del mondo porta, come Roma, scolpite sul suo volto marmoreo le fiere lotte sostenute per l’universalità dello spirito umano, per il trionfo del diritto, per la difesa del debole contro l’oppresso, per la uguaglianza morale e civile di tutti gli uomini e di tutte le nazioni» . E continuavo ancora con un altro brano in cui si ricordavano le invocazioni del Pontefice Romano alla fratellanza umana, e con tale consapevolezza della storia, del posto nella storia dello spirito italiano e romano ci preparavamo ad attendere e accogliere i vincitori. Noi civiltà antica, riaffermavamo la priorità perfino nelle idee, che molti pensavano nate nel nuovo mondo. Amici, voi certamente avete sentito che qui ho detto qualche parola rivolta in modo particolare ai cattolici, alla «coscienza politica» dei cattolici. Non sono uso parlare ai cattolici in genere, perché non vorrei arrogarmi la parte di mentore in un settore che non è il mio. Parlo della «coscienza politica». Perché, badate, non vorrei si ripetesse quello che si è verificato in qualche momento di fronte al fascismo imperante, per quanto allora molto si potesse spiegare coll’impossibilità di svolgere attività politica, e i cattolici potevano contare solo in quanto rappresentavano la cura delle cose religiose. Però quando c’è la possibilità dell’attività politica, è la coscienza politica a fuoco, trattandosi di problemi politici. Essi, sul terreno politico, cioè come cittadini, non possono disinteressarsi dei problemi politici, rimanere indifferenti ai problemi di regime, e quasi neutrali fra la dittatura e la libertà, fra l’assolutismo e la democrazia, fra lo Stato parlamentare e lo Stato partito. Non si possono saltare questi problemi che esistono non al di fuori di noi, ma nella nostra coscienza di cittadini. Ignorarli sarebbe rinunciare alla propria esperienza storica, rinunciare allo sforzo di definirsi sul terreno politico sociale, essere accanto allo Stato, non entro lo Stato. Queste parole che io vi dico non devono cadere nel vuoto. Quando entriamo nella vita civile, ci troviamo nella particolare necessità di affrontare i problemi della educazione politica perché si tratta dei nostri doveri e diritti di fronte allo Stato, di problemi sociali. Tutto questo non è risolvibile con testi che parlino esclusivamente di princìpi. C’è una storia. C’è un movimento cristiano sociale, c’è la storia della sua esperienza, delle idee del Vangelo applicate alla struttura sociale. C’è inoltre una esperienza politica che vale quando il sentimento cristiano debba ispirare forme politiche. E qui siamo nel campo della educazione della gioventù che ci impone di affrontare il complesso problema del fascismo, come quello del comunismo, perché anche il fascismo è una Weltanschauung, una concezione sociale, un metodo, una esperienza vissuta. E con ciò non si vogliono caratterizzare tutti i fascisti. Molti ce ne sono stati, milioni, con la «tessera del pane»; ce ne sono stati molti idealisti specie tra i giovani perché attratti dall’entusiasmo e dall’orgoglio nazionale. Ma chi ebbe una maggiore formazione politica e aveva imparato le lezioni della storia ha dovuto combatterlo nel suo spirito e nella sua direttiva generica, anche se talvolta il male fu commisto al bene e anche se è vero che si peccò intra et extra moenia. I fatti diedero ragione a chi resistette più che poté e poi soffrì in silenzio. Quando venne il fascismo, i cattolici avevano appena imparato a fruire della libertà politica e rappresentativa. I più provati, i più esperti che [ne] conoscevano il valore e la difesero. Anche oggi, amici miei, bisogna veder chiaro e saper tenere la via dritta. Comprensione per i casi personali sì, sempre, e sarebbe stata completa da parte del governo se non fossimo stati allarmati dal riaffacciarsi delle pretese di riabilitazione e di rivendicazione del passato. Non a caso una volta ho detto questa parola alla Camera. Quindi massima comprensione per i casi personali, massima comprensione per il passato, ma anche massima precauzione per l’avvenire. Pace con tutti. Ma la pace a chi la vuole, non a chi prepara o minaccia una riscossa delle idee, una riabilitazione dei metodi, un ritorno degli istituti che portarono, non per caso, ma per logica fatale, alla guerra civile e alla catastrofe nazionale.
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Articolo di commemorazione del vescovo di Trento, monsignor Celestino Endrici , figura emblematica del cattolicesimo sociale trentino, che aveva appoggiato la sua ascesa politica nel Partito popolare italiano. Dopo l’avvento del fascismo, era interceduto presso Vittorio Emanuele III per farlo scarcerare dopo l’arresto avvenuto nel marzo del 1927, per tentato espatrio clandestino, e successivamente per farlo assumere alla Biblioteca vaticana negli anni dell’«esilio interno». La versione è qui ripubblicata per dar conto delle integrazioni operate successivamente da De Gasperi, tralasciando alcune variazioni stilistiche di minore importanza. Dal 1000, cioè dell’epoca esattamente controllabile su documenti storici, ad oggi, tre soli furono i vescovi tridentini che oltrepassarono i trent’anni di episcopato: Udatrico II che governò la Chiesa tridentina dal 1022 al 1055 e fu il fondatore del principato, perché nel 1027 ebbe dall’imperatore Corrado II l’investitura del Comitato tridentino e più tardi anche dei Ducati di Bolzano e di Val Venosta; il cardinale Ludovico Madruzzo , vescovo di Trento dal 1567 al 1600, e già prima sostituto dello zio cardinale Cristoforo per quanto riguardò il famoso Concilio, e Celestino Endrici, scomparso nel 1940 e consacrato vescovo nel 1904. Questi governi episcopali longevi lasciarono tutti e tre impronte profonde e durature. Celestino Endrici, alunno del Collegio germanico e professore del Seminario di Trento, veniva, giovane ancora e nella pienezza delle sue energie fisiche e spirituali, da quella generazione dinamica e militante che aveva subito l’influsso e la suggestione del programma sociale di Leone XIII. Assistente ecclesiastico dell’Associazione universitaria trentina, promotore e sostenitore di altre numerose attività cattoliche, quando giunse all’episcopato egli era già preparato e maturo a diventare un vescovo sociale alla maniera belga, e il cattolico trentino infatti colla sua rete spessissima di organizzazioni cristiano-sociali, collo straordinario sviluppo delle società economiche di assistenza e delle sue associazioni artigiane, rurali e operaie, poteva sostenere il paragone, meglio di qualunque altra regione italiana, colle zone più evolute dell’azione cattolico-sociale belga e olandese. Il nuovo vescovo, che da professore e organizzatore, s’era battuto colla penna e colla parola contro il radicalismo anticlericale e il socialismo marxista, volse ora ogni cura a dare al clero in seminario e fuori un’educazione sociale illuminata e a creare ed accrescere un laicato combattivo e fiero delle proprie convinzioni. Ma già pochi anni dopo il suo avvento mons. Endrici che aveva schierato tutte le forze di conservazione e a un tempo di rinnovazione della sua diocesi contro il socialismo proveniente dal Mezzogiorno, cioè dalle provincie italiane, si trovò minacciato alle spalle dalla penetrazione linguistica che veniva dal settentrione per mezzo di società scolastiche germanizzatrici, come lo Schulverein e il Volksbund. A questa propaganda la quale, talvolta coll’appoggio intermittente delle autorità statali, disintegrava la scuola, portava la discordia civile fin nei più remoti villaggi e apriva le porte alla penetrazione protestante, il vescovo Endrici sbarrò risolutamente il cammino, suscitando sospetti e avversioni potenti. Quanto queste fossero profonde e pericolose si rivelò appieno allo scoppio della guerra europea. La storia dei conflitti nei quali monsignor Endrici fu coinvolto colle autorità militari viennesi durante la guerra tra la Monarchia austro-ungarica e l’Italia è stata scritta in un volume di quasi 300 pagine (Zanolini, V., Il vescovo di Trento e il governo austriaco durante la guerra mondiale, Milano, Vita e Pensiero, 1919 e Trento 1934) ed ebbe a suo tempo una eco così larga che non è più necessario raccontarla. Basterà ricordare che il vescovo di Trento, dopo aver subito una serie di angherie da parte delle autorità militari, il 1° marzo 1916 venne dichiarato in arresto e nel maggio tratto a Vienna, ove fu sottoposto ad ogni sorta di pressioni e di minacce, perché si dimettesse dalla sua alta carica. L’accusa principale che gli si muoveva era quella di non aver pubblicato, allo scoppio della guerra, una lettera pastorale che condannasse l’Italia e giustificasse la guerra di aggressione austriaca. Il vescovo, diceva l’accusa, era anche un alto funzionario dello Stato , e come tale aveva il dovere di difendere positivamente il «pensiero di Stato austriaco» contro l’irredentismo e le aspirazioni italiane. Ora mons. Endrici non girò la questione cercando giustificazioni transverse ma l’affrontò in pieno; discusse coi ministri, coi militari e cogli accusatori il «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio» e nei documenti di difesa passò a sua volta al contrattacco contro il postumo gioseffinismo di certa burocrazia imperiale. Ecco come egli difendeva la sua causa in una lettera informativa inviata da Vienna, a mezzo del nunzio, al papa Benedetto XV . «Santità! L’onda spaventosa di odio e di vendetta che si è scatenata sopra il clero e il popolo tridentino, appena scoppiò la guerra coll’Italia, è inaudita nella storia. Nei riguardi ecclesiastici questa bufera assunse presto la fisionomia di un Kultur Kampf. Le condizioni psicologiche e morali del clero e del popolo… erano quelle delle vittime sotto la sferza di un crudele tiranno che si vendica sopra un innocente, non potendo sfogarsi contro il colpevole. In questo stato d’animo l’unico conforto era guardare alla Chiesa al proprio vescovo e ricorrere a Dio. Orbene, quale effetto morale avrebbe prodotto sull’animo esasperato di tutti, se il rappresentante della Chiesa, vindice e tutrice della giustizia e maestra di carità, con atti solenni avesse lanciato incenso e quasi inneggiato ai persecutori? Come si può pretendere che la Chiesa, la quale deve vivere la vita del popolo, curare i suoi dolori e tutelarlo, faccia, quando è torteggiata, delle manifestazioni che di fronte al senso morale dei fedeli suonino connivenza, coonestazione di atti inumani e servilismo alla forza bruta?». Questo appello a Roma mise il governo viennese in serio imbarazzo. Esso aveva creduto di raggiungere colle pressioni, colle lusinghe e coi negoziati, svolti dal ministro dei culti in persona, lo scopo a cui l’autorità militare voleva arrivare imbastendo addirittura un processo lesae maiestatis , l’allontanamento cioè dell’Endrici dalla cattedra di S. Vigilio, ma la Santa Sede rispondeva non ritenere opportuno «trattare la vertenza del vescovo di Trento durante il fragore della armi» e il 3 settembre 1916 una lettera del cardinale Gasparri comunicava al vescovo perseguitato: «Sua Santità è addolorata per le gravi difficoltà a cui Ella è esposto e prega il Signore di volerla confortare e sostenere, e desidera assicurarla nuovamente del suo paterno affetto e del suo vivo interessamento per Lei». Era il massimo che la Santa Sede poteva ottenere allora: la sospensiva. Nel frattempo l’indomito tridentino veniva relegato nella abbazia di Heiligenkreuz, nella selva viennese, non lungi da quel famoso castello di Mayerling, in cui s’era svolta la misteriosa tragedia dell’arciduca ereditario Rodolfo . [La parte seguente non compare nella prima edizione pubblicata su «L’Osservatore Romano» nel 1940]. Fu nel confino di Heiligenkreuz che il tormentato destino di quest’uomo valoroso s’intrecciò di nuovo colla modesta, ma altrettanto travagliata vicenda di chi scrive. Nella primavera del 1904, studente ancora all’Università di Vienna, ero divenuto interinalmente una specie di segretario d’onore del prof. Endrici, per il periodo dei negoziati per la sua nomina a Vienna e poi della sua consacrazione a Roma: periodo contrastato anche quello, perché la nomina non era andata così liscia e le obiezioni politiche dovettero essere superate una ad una. In quelle contingenze però egli ebbe occasione di conoscermi intus et in cute, tanto che l’anno che seguì, finiti gli studi, mi volle alla direzione del giornale dei cattolici trentini . Io accettai con entusiasmo, perché anch’io avevo imparato ad apprezzare in lui l’uomo dalla vedute larghe e moderne, lontano da ogni angustia di parte e nelle lunghe confidenze dell’attesa di Vienna avevo intravisto un vescovo che avrebbe protetta, avverso il regime, la libertà politica dei cattolici, sì che potessero divenire grado a grado l’espressione integrale della vita pubblica trentina. Mutammo perciò il titolo del giornale da Voce cattolica in Trentino, e si potè allora impostare il Partito popolare trentino «come un partito democratico non confessionale» (come si usava dire allora con terminologia impropria) e unirvi tutti gli uomini di buona volontà, dai cosiddetti cattolici intransigenti a quelli ch’erano detti liberali , venendo così queste sfumature assorbite in un movimento d’azione sociale, di stile e ordinamento democratico, e naturalmente sotto la propulsione dei giovani, che seppero però spingere senza precipitazione e senza rompere coi più autorevoli dell’età precedente. Il merito principale di mons. Endrici fu quello di rispettare difendere la libertà politica dei credenti, distinguendo nella vita pubblica le funzioni e le responsabilità e vigilando tuttavia a mezzo dell’organizzazione cattolica propriamente detta, affinché i concetti ispiratori di cristianesimo e giustizia sociale fossero sempre presenti ed operanti. So bene che a questo punto se si trattasse di sintesi storica, converrebbe ricordare tra i maggiori quelli che più operarono direttamente nel settore politico e sociale – e il nome eminente di uno, viene spontaneo alle labbra di tutti, mons. de Gentili , – ma essendo stato chi scrive il testimone più costante e più confidenziale di tutte le vicende, egli sente l’obbligo di celebrare qui quello che fu il ruolo supremo di moderatore di mons. Endrici. Torniamo ora a Heiligenkreuz. Lo scoppio della guerra ci aveva separato. Contro l’opinione di molti – ma non di mons. Endrici – io avevo preso su di me la decisione di sospendere il giornale che ormai dopo l’entrata in guerra dell’Italia, e in un regime di severa censura militare, non avrebbe potuto vivere, senza far torto ai sentimenti del paese e, preavvertito da amici, avevo prevenuto il formale decreto di confino, già predisposto, mettendomi volontariamente sotto la vigilanza della polizia della città di Vienna ch’era allora, in confronto degli organi delle zone di operazione, la meno vessatoria. Ed ecco che quando il vescovo venne relegato a Heiligenkreuz non ci fu tra noi due più che la «selva viennese» che ci separava. Il ravvicinamento però non si dimostrò facile. L’abbazia aveva avuto l’ordine di tener lontani tutti i visitatori pericolosi e, nominalmente, il sottoscritto, onde dovemmo ricorrere a mimetizzazione e giri tortuosi per arrivare ad incontrarci sotto le piante secolari del bosco. Quale alternativa di angoscia e di speranze, quali sfoghi di cuori trepidanti ed esacerbati per due lunghi anni! Nei momenti tragici Egli ricorreva ai grandi autori. Teneva nella sua stanza su di un leggio medioevale in edizione in folio La Città di Dio nella quale cercava sfogo e consolazione. [La parte successiva riprende, con qualche leggera variazione, la prima edizione del1940]. Per lunghi mesi fu sottoposto a numerose insistenze affinché egli acconsentisse alla nomina di un amministratore apostolico e almeno a sostituire il vicario generale; e al di qua del Brennero tratto tratto la stampa soffiava nel fuoco. Fino ancora nel maggio 1918, un congresso del popolo tedesco radunato a Vipiteno (Sterzing) fra le altre condizioni di una pace vittoriosa, metteva «il conferimento della sede vescovile di Trento a un tedesco». D’altra parte i trentini vedevano ormai nel coraggioso vescovo il campione della loro resistenza. Nella valli trentine s’invocava il suo esempio, s’indicevano preghiere e La Libertà, organo dell’emigrazione trentina, che si pubblicava a Milano, scriveva il 27 luglio 1918: «Emulo vero del grande prelato belga (l’Endrici) addimostrava fieramente a nemici e ad amici come si debba compiere il proprio dovere, con un coraggio che s’impone alla ammirazione nostra e del mondo civile e che la storia non dimenticherà». Ma ora la decisione militare precipita, l’8 novembre decisa la sorte delle armi l’esule vescovo veniva liberato da una commissione militare guidata dal colonnello degli alpini Vittorio Magliano, dall’accampamento prigionieri di Sigmundsherberg e il 13 veniva ricondotto in trionfo a Trento. Oggetto di grandi manifestazioni a Verona, a Milano, sotto la presidenza del cardinale Ferrari , a Firenze e a Roma, ove Benedetto XV lo abbracciò «salutandolo con parole, che significavano avere egli sofferto per la libertà e la dignità della sua Chiesa», decorato dal sovrano, onorato dal governo che si proponeva di nominarlo senatore del regno (come Principe di Trento era stato in Austria membro della Camera dei signori) Celestino Endrici guadagnò allora innanzi ai pubblici poteri quel prestigio che egli spese poi in favore della sua diocesi durante il periodo della ricostruzione e del torbido dopo guerra. Trentasette chiese erano scomparse, 103 abbisognavano di restauro, mancavano le campane, interi villaggi erano rasi al suolo e molti altri danneggiati, la vita religiosa e la vita sociale reclamavano lo zelo dei pastori e gli sforzi degli uomini dabbene. Mons. Endrici, riprendendo e continuando il suo programma di azione, provvede alla sistemazione del seminario maggiore e minore di Trento, e del minore in Tirolo (Merano), crea case di esercizi spirituali, organizza congressi eucaristici, promuove l’azione cattolica in tutte le sue categorie, ravviva e riveste di forme nuove il culto dei martiri anauniesi e nell’organizzazione ecclesiastica aumenta decanati e parrocchie. Fino che la salute glielo concede, egli si recò di parrocchia in parrocchia per le visite pastorali, rialzando le chiese ed elevando gli animi. Nel 1928, in particolare considerazione dei suoi meriti, la diocesi tridentina fu elevata ad arcidiocesi. Anche in questi ultimi anni in questioni delicate e difficili egli sa intervenire con energia e con tatto, guadagnandosi anche l’affetto del clero e della popolazione di lingua tedesca che riconosce il suo senso di paternità e di giustizia. Le autorità che talvolta rimangono sorprese dal suo stile rude e decisivo finiscono sempre coll’ammirarne la dirittura, il suo sentimento di dignità, il suo patriottismo sostanziale e verace. Egli diventa l’intercessore dei suoi antichi avversari, il mediatore delle loro lagnanze e delle loro preghiere. Tutti comprendono così che quando ha lottato non l’ha fatto per passione di parte, ma per la concezione profonda ch’egli ebbe e sempre mantenne, in confronto a tutti, della libertà della Chiesa, della dignità episcopale. Pare quasi che la Provvidenza gli abbia concesso gli ultimi anni della sua attività per dimostrare a tutti, dell’uno e dell’altro campo, che la sua serenità, la sua carità, la sua paternità superano le ragioni di contrasto e fanno dimenticare gli urti del passato. La diocesi tridentina alla sua morte non pianse pertanto solo il vescovo, ma anche il principe nel senso etimologico della parola poiché nei momenti più avventurosi di quella terra travagliata tutti guardarono a lui come il primo e sentirono che egli li rappresentava, li guidava e li proteggeva. [La parte seguente non compare nella prima edizione pubblicata su «L’Osservatore Romano» nel 1940]. E quale tributo di riconoscimento e di gratitudine dovrei pagare io che dopo avergli data dal 1919 al 1922 la consolazione da lui tante volte preconizzata di vedere i rappresentanti del trentino in prima fila anche nella politica nazionale, fui costretto poi nella persecuzione a invocare la sua affettuosa testimonianza? Sia qui lodata la sua memoria, perché di contro a tanti pavidi consiglieri che mi suggerivano di abdicare e di piegarmi all’avversa fortuna, mai una parola egli mi disse per sminuire l’impegno che avevo assunto come capo del Partito popolare. Sia benedetto il nome di lui che quando intervenne per lenire e abbreviare la mia pena, non indulse ai metodi in voga e mai un cenno si lasciò sfuggire che turbasse la dignità della mia coscienza o mettesse in forse il diritto delle mie convinzioni. [La parte successiva riprende, con qualche leggera variazione, la prima edizione del 1940]. Tempra robusta di lottatore, quando le malattie lo assalirono, egli affrontò anch’esse da lottatore, con vigoroso ottimismo e con tenace resistenza, distraendosi con animosi progetti per l’avvenire. Poco prima di morire aveva costituito il Comitato per celebrare il IV centenario del grande Concilio rivolgendo un appello ai vescovi di tutto il mondo. «Io non ci sarò, soleva dire, ma bisogna che prepari la via al mio successore». Mons. Endrici ha lasciato nella diocesi tridentina larga eredità d’affetti, come pastore zelante e paterno, come promotore di riforme e sollecitatore di iniziative; ma forse l’ammaestramento più specifico che egli ha lasciato viene dalla fama del suo carattere. Incontrare degli uomini che abbiano più facile eloquenza di lui e che posseggano quello che papa Lambertini chiamava «buon guardaroba», cioè ottima memoria delle cose lette, non è raro; ma trovare un uomo come lui che quando una parola va detta, la dice senza paure e quando non si debba dire, non la pronunci, costi quel che vuol costare, è difficile. E ancora: incontrare uomini più abili e più eruditi, non sarà impossibile, ma imbattersi in uomini come mons. Endrici che abbiano ben chiare in testa quelle tre o quattro idee fondamentali che sono necessarie per dirigere se stessi e gli altri nelle tempeste della vita, non è ventura di tutti i giorni, cosicché quando questi uomini di fermo carattere e di idee chiare scompaiono, noi sentiamo che la perdita è grave. [La parte seguente non compare nella prima edizione pubblicata su «L’Osservatore Romano» nel 1940]. Ma tale è l’incompiuto destino dell’uomo quaggiù. Lo ricordo nelle ore vespertine di qualche giornata feriale, quando da rematore robusto spingeva la barca verso il seno più apparato del lago di Toblino e giunto là ove non si sentiva che il canto dell’usignuolo, il giovane vescovo infervorava il suo ancor più giovane interlocutore alle speranze e alle conquiste di un mondo nuovo, più cristiano nella giustizia sociale e nel diritto dei popoli. Molto Egli operò e molto sofferse nello sforzo tenace dei remi, fino che caddero dalle sue mani, senza che Egli potesse vedere l’alba del nuovo giorno. Ma altri rematori seguiranno per l’impulso e colla speranza di Lui, e la celebrazione che oggi facciamo della sua memoria significa anche intensificare lo sforzo e rinnovare l’impegno.
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Ho visto dalle relazioni che mi avete inviato che a fine anno ciascuno di voi ha fatto il consuntivo dell’opera svolta dal proprio ministero. Il volume dei vostri rapporti è tale che credo sia opportuno ricavarne una pubblicazione. Mi basterà qui accennare in rapida sintesi innanzitutto alla preparazione delle grandi riforme: da quella agraria a quella delle scuole; da quella tributaria a quella della previdenza; dall’ordinamento regionale a quello giudiziario. In politica estera la nostra opera che è stata essenzialmente rivolta alla revisione consensuale del diktat, all’attuazione di una maggiore cooperazione internazionale, alla ripresa dei rapporti economici (sono stati negoziati 115 accordi commerciali e di pagamento), si è compendiata nel pieno ritorno in ogni campo dell’attività mondiale. Il nostro pieno riconoscimento nella comunità democratica ha la sua tipica manifestazione nella nostra partecipazione al Patto atlantico, partecipazione che costituisce il riconoscimento dell’apporto che noi ancora possiamo dare alla pacificazione e al progresso mondiale. E in tal senso abbiamo accolto con vivo compiacimento anche la scelta di Roma come sede della FAO. La definizione delle questioni africane ormai prossima non ci trova impreparati ed è già in avanzato studio il provvedimento per la smobilitazione del Ministero dell’Africa Italiana e per la riorganizzazione dei dipendenti servizi. All’interno è evidente e innegabile il progresso che si è fatto in materia di ordine pubblico, ma è ingiusto dire che ci siamo occupati solo di pubblica sicurezza. L’attività del Ministero dell’Interno si è sviluppata particolarmente per la soluzione dei problemi riguardanti l’ordinamento dell’amministrazione locale (legge regionale in esame al Parlamento e nuova legge comunale e provinciale in avanzata preparazione), la intensificazione e il perfezionamento dei servizi dell’assistenza pubblica che sono stati raggruppati in una unica Direzione generale. Dal punto di vista alimentare la situazione è tale da non destare alcuna preoccupazione: una vigile e prudente opera ci ha assicurato scorte sufficienti e tali da consentire di abolire il razionamento del pane e della pasta e tali da portate ad una sensibile riduzione del prezzo. Roma gennaio 1949: pane 140; pasta 200; dicembre 1949: 90, 120; Milano 150, 210, 115, 175; Napoli: 114, 176, 90, 120. Col ritorno alla normalità della situazione alimentare è venuta a cessare la necessità di un organismo apposito e si è già predisposto il provvedimento per la liquidazione dell’Alto Commissariato e il trasferimento dei servizi dipendenti al Ministero dell’Agricoltura, potendo così realizzare il desiderio dell’amico Ronchi che da tempo desidera dedicarsi ad altra attività. Il Ministero della Giustizia ha svolto vasta ed intensa attività diretta in via principale ad attuare un miglioramento nei servizi dipendenti e soprattutto volta al coordinamento della nostra legislazione con i princìpi democratici e alla disciplina dei nuovi strumenti previsti dalla Costituzione. Oltre ad avere poi collaborato con altri dicasteri allo studio e alla preparazione di molte leggi, ha preparato speciali leggi fondamentali come quella per le locazioni degli immobili, quella della Corte costituzionale e quella del referendum. In materia economico-finanziaria siamo stati fedeli all’impegno di mantenere la stabilità della moneta. Gli indici dei prezzi all’ingrosso e del costo della vita hanno subito dall’agosto 1948 lievissime oscillazioni e al settembre 1949 avevano anzi segnato una qualche diminuzione nei confronti del dicembre 1948 (rispettivamente 5697/4912 e 4912/4778). In materia tributaria abbiamo dovuto affrontare tre ordini di problemi: aumento delle entrate fiscali (ed esse sono salite dai 59 miliardi mensili del 47/48 agli 85 nei primi due mesi del 49/50), perequazione nella distribuzione delle imposte, adeguamento dell’apparato fiscale alle esigenze della produzione e del risparmio. Per raggiungere tali obiettivi sono stati predisposti idonei provvedimenti alcuni già approvati, altri in elaborazione. La riorganizzazione delle forze armate si va gradatamente realizzando: qui c’era anche un problema di natura morale che si può dire pienamente superato. Sono state istituite altre unità (brigata Alpina Julia, brigata corazzata Ariete, divisione Avellino) e ci avviamo al pieno assetto delle forze terrestri, navali ed aeree nella misura che ci è consentita. L’attività del Ministero della Pubblica Istruzione non si è esaurita nella preparazione della riforma della Scuola , il cui progetto è già stato presentato al Consiglio Superiore dell’Istruzione; basterà notare che il bilancio di tale ministero è passato dai 48 miliardi del 1947 ai 124 dell’attuale, raggiungendo quasi il 10% delle spese totali dello Stato. Una sola voce è in decrescenza nel settore scolastico da due anni a questa parte ed è il numero delle parificazioni delle scuole private. Per i lavori pubblici sono stati autorizzati dal giugno 1947 spese per 547 miliardi che hanno importato 145 milioni di giornate lavorative con una media di presenza giornaliere di 228 mila nel 1948/49. Tali lavori riguardano opere edilizie, opere igieniche, opere stradali, opere marittime, opere idrauliche, opere per la produzione di energia elettrica. Particolare importanza è stata riconosciuta alla legge per la costruzione di case private distrutte dalla guerra, a quella per l’incremento per le costruzioni edilizie con la concessione di contributi statali, a quella con cui è stata autorizzata la spesa di lire 3 miliardi e 900 milioni in annualità trentennali per la esecuzione di opere pubbliche in concessione a pagamento differito ed infine a quella recante provvedimenti per agevolare la esecuzione di opere pubbliche di interesse degli enti locali. Oltre agli studi per la riforma agraria, della quale avrò occasione di occuparmi particolarmente in seguito, 34 provvedimenti legislativi già approvati dalle Camere e 16 in corso di approvazione e di presentazione documentano il complesso dell’attività legislativa promossa dal Ministero dell’Agricoltura. Tali provvedimenti si riferiscono ai più vari aspetti del ministero stesso: dai contratti agrari al nuovo patto mezzadrile, dalla piccola proprietà al credito agrario e così via. Si può senz’altro dire che le comunicazioni in genere (trasporti, servizi postali e telegrafici) hanno raggiunto la loro piena efficienza. In particolare nel settore delle telecomunicazioni sono stati istituiti 62 nuovi uffici: sono stati eseguiti 400 impianti telefonici nel Mezzogiorno. La Marina mercantile che nel ’38 aveva 3,4 milioni di tonnellate di stazza lorda, ha oggi raggiunto 2,6 milioni. Nel settore delle ferrovie, la sintesi non è mia ma è dell’OECE che ha riconosciuto che in Italia abbiamo realizzato il più vasto e completo programma di ricostruzione ferroviario europeo. Per una sintetica valutazione dell’attività del Ministero del Commercio Estero basta riferirsi alle cifre del nostro commercio con l’estero in questi ultimi anni. Nel 1947 le importazioni ascesero a 1.432 milioni di dollari, mentre le esportazioni ammontarono solo a 672 milioni di dollari. Nel 1948 le importazioni furono di 1.498 milioni di dollari e le esportazioni di 1.067 milioni. Un ulteriore miglioramento della nostra bilancia commerciale si registra nei primi nove mesi dell’anno in corso rispetto al corrispondente periodo del 1948. Le importazioni figurano infatti, nei primi nove mesi del 1949 per 1.219 milioni di dollari rispetto ai 1.145 milioni del corrispondente periodo del 1948 e le esportazioni a 838 milioni in confronto dei 720 milioni raggiunti nei nove mesi del 1948. E poiché siamo in tema di bilancio commerciale non è inutile accennare a una delle voci più interessanti di esse: dico del turismo. Esso è in notevole crescita: i 4 milioni annui di turisti che le statistiche assegnano alle annate prebelliche più favorevoli stanno per essere raggiunti. L’apporto del turismo in valuta estera è stato stimato per l’anno decorso in cifra superiore ai 100 miliardi di lire. Nel settore industriale infine l’attività produttiva è in continuo aumento. L’indice medio di produzione nei primi dieci mesi del 1949 è pari al 114% valutato a 100 la produzione del 1947 con un aumento di circa l’8 per cento su quella del 1948. Progressi particolarmente sensibili si sono raggiunti nel campo dell’industria cinematografica: in due anni il ritmo di produzione si è raddoppiato e siamo oggi alla quota di 100 films a lungo metraggio e di 465 documentari. Nel contempo si sviluppano le compartecipazioni produttive con l’estero e si diminuisce a favore delle esportazioni il pesante bilancio fin qui esistente. Nel 1949 sono stati infatti concessi 178 benestare per importazioni in meno rispetto all’anno precedente. Il Ministero del Lavoro ha avuto il suo da fare per la composizione di numerose gravi vertenze sindacali; ma anche in questo settore non si è solo lavorato per attenuare contrasti dannosi alla produzione ma si sono attuate importanti provvidenze per i lavoratori. Non ho bisogno di ricordare i più caratteristici provvedimenti, che sono, come sapete, la disciplina del collocamento, il piano settennale per le case dei lavoratori, la istituzione di cantieri di lavoro e di rimboschimento, nonché dei corsi di addestramento per i lavoratori disoccupati. Tali provvedimenti hanno importato sinora la spesa di 80 miliardi per le case ai lavoratori, con impiego di 60.000 edili, 5 miliardi per cantieri-lavoro, con impiego di 60.000 disoccupati, 5 miliardi per i corsi di riqualificazione con impiego di 100.000 disoccupati. Tutta questa nostra attività si traduce così in cifre: 704 disegni di legge presentati al Parlamento di cui 520 già approvati sono divenuti leggi di Stato. Risulta così dai dati obiettivi delle vostre relazioni che, durante il periodo del nostro governo, uno sforzo intenso è stato svolto, un impulso febbrile di progresso economico e di miglioramento sociale che ha reso feconda la vostra quotidiana fatica. Sento il dovere di darvene atto e di ringraziare voi e, per vostro mezzo, i vostri collaboratori e il ringraziamento va altrettanto caldo a quei colleghi che hanno condiviso la nostra fatica e ora, per malattia o vicenda politica, sono assenti. Una parola speciale di obbligazione devo aggiungere per i colleghi vice presidenti e rispettivamente per i ministri senza portafoglio che mi hanno coadiuvato nell’opera direttiva e innanzi alle Camere e hanno portato il loro prezioso concorso ai capi dei dicasteri specialmente nelle varie commissioni da loro presiedute o assistite. In mezzo a tanti rilievi critici che, se ispirati da ragioni obiettive noi dobbiamo accogliere come stimolo a far di più e meglio; di fronte a denigrazioni faziose e passionali che quando questo loro carattere sia evidente non debbono scuotere la fermezza del nostro impegno, è giusto, è umano e doveroso che segniamo le tappe raggiunte sul nostro cammino benché il cammino sia lungo ancora e aspro e le crescenti esigenze ci spingano e ci incalzano a sforzi sempre più intensi e duraturi. Io voglio a mia volta ricordare quello che di tale attività fu a noi comune, cioè il senso, il metodo e la esperienza della nostra collaborazione quale si è manifestata nelle riunioni di gabinetto, negli atti preparatori, nelle sedute consiliari, nelle discussioni e nelle deliberazioni collegiali. 123 sedute del Consiglio dei ministri dal 18 aprile 1948 in qua, quasi il doppio delle riunioni del CIR, il quale del Consiglio è un sottocomitato preparatorio e frequentissime le riunioni del CIR-ERP e di altri sottocomitati ministeriali occasionali o dedicati a determinati argomenti da sottoporsi al Consiglio dei ministri, costituiscono il tessuto democratico dell’esecutivo e, per quanto riguarda la determinazione delle proposte di legge da presentarsi al Parlamento, un primo vaglio, una prima scelta raggiunta nel contraddittorio delle tendenze e degli interessi. È vero, l’esperienza ci dice che è difficile adeguare tale meccanismo collegiale, derivato da leggi antiche e dalla prassi di cent’anni, al ritmo turbinoso di un dopo guerra catastrofico e alle istanze sempre più incalzanti di una democrazia capillare; tanto più difficile quanto le reciproche interferenze internazionali, superando le tradizionali barriere dei trattati e uscendo dalle giuridiche competenze del Ministero degli Affari Esteri hanno invaso tutto il terreno dell’economia e dei rapporti sociali. Il Piano ERP, i vari organismi economici internazionali fuori e dentro l’ONU sono penetrati come una esigenza inderogabile di ricostruzione su settori e in dicasteri che erano ideati ed organizzati sul piede di casa per tempi più normali. Perciò in attesa che l’adattamento legislativo si compia, e non sarà lavoro di poca lena per il Parlamento, si è dovuto ricorrere all’espediente integrativo di organismi provvisori i quali però devono sempre metter capo alle deliberazioni del Consiglio. Si può dire che siffatto adeguamento anche in tali forme provvisorie sia raggiunto? Certamente no e, a mio avviso, non sarà agevole completarlo. Ma è da augurarsi che prossimamente si faccia un passo avanti e poiché non sarà possibile pregiudicare la sistemazione che spetta al potere legislativo, converrà contare più sullo spirito che sulle formule. È lo spirito di collaborazione che ci ha sorretto fino ad oggi, che deve svilupparsi ancora ulteriormente. Qui in questa sala, egregi colleghi, abbiamo tenuto lunghissime e faticose riunioni; ma talvolta avremmo potuto desiderare che vi assistessero testimoni della pubblica opinione tanto sereno fu il dibattito, sincera e calda la esposizione dei vari punti di vista, libera la discussione e ispirata a senso di responsabilità la deliberazione. Piano ERP, Patto atlantico, provvedimenti contro la disoccupazione, ordinamento del lavoro, riforma tributaria, riforma agraria, reazione al turbinio mondiale della svalutazione della sterlina, ricordate la notte del 18 settembre quando, pur divisi dall’Oceano, riuscimmo ad intenderci e a decidere saggiamente bilanci ed investimenti, libertà ed ordine pubblico, leggi organiche e leggi elettorali, linee di demarcazione fra libertà e programmazione sul terreno economico: talvolta punti di partenza diversi, diversa talvolta la concezione finalistica, argomentazioni delicate e scottanti pronunciate in piena libertà, infine, però il prevalere del senso comune, del senso democratico dello Stato, il superamento di ogni differenza nel sentimento della patria che deve risorgere e nell’impegno comune che abbiamo preso davanti alla nostra coscienza prima ancora che davanti al popolo ed ai suoi rappresentanti: quello di contribuire alla costituzione e al consolidamento di uno Stato libero e vitale, largamente aperto a ogni riforma sociale e alla elevazione del lavoro. Talvolta fu naturale che giungesse anche in questa aula la voce dei partiti (perché in Italia tutti i partiti si muovono e si evolvono liberamente) e fu naturale che si facesse sentire anche l’interesse di categoria (perché in Italia vivono, si agitano ed operano di diritto le organizzazioni di interesse e le associazioni sindacali), ma ritengo di poter asserire che alla fine, nella convergenza delle deliberazioni, la nostra coscienza rispondeva sempre ad una unica voce, a quella dell’Italia affidata alle cure del nostro governo. Voi sentite bene, cari colleghi, che rievocando queste risonanze del nostro lavoro passato non intendo preconizzare particolari strutture di gabinetto e molto meno escluderne altre diverse da questa nostra che corrisponde al regime parlamentare ma il rilievo vale per contrapporre alle riconosciute difficoltà di questo sistema i vantaggi politico-sociali che esso comporta. Il superare al vertice in cordiale e dignitosa collaborazione differenze che interpretano correnti vitali del paese, costituisce un ulteriore progresso dell’autocontrollo democratico. Si tratta naturalmente di differenze superabili entro un concetto di democrazia ed una prassi di libertà. Da tutti condivisa è una visione comune della cooperazione internazionale. E si tratta di differenze che vengono superate nell’atto deliberativo e più esattamente determinativo del Consiglio dei ministri. Non ci è mai sfuggita, tuttavia, la necessità della efficienza unitaria della direzione del governo e, in genere, dell’atto esecutivo. Il governo deve avere la forza e la autorità di governo in nome del paese rappresentato dal Parlamento. A tale pienezza e dignità di funzione il governo deve assurgere in ogni caso, qualunque sia la sua struttura e la origine politica dei suoi componenti. Bisogna augurarsi in ogni fase dell’attività dei governi e soprattutto del momento della loro formazione che gli uomini responsabili e la opinione pubblica abbiano sempre più chiaro il concetto che governare significa servire il paese, subordinando alla efficienza e alla virtù positiva di tale servizio ogni particolare e personale riguardo, per quanto anch’esso, a suo posto, degno di considerazione. Solo così la democrazia equilibrata consolida in sé e per forza propria le energie che la fanno progredire. Ed ora con tali considerazioni dettate dalla esperienza di questa nostra fase di lavoro, potremmo dichiararla chiusa, se, invece, la situazione non richiedesse che noi mettessimo il futuro gabinetto in condizioni di presentare alle Camere i bilanci 1950/51 entro il termine del 31 gennaio come prescrive la Costituzione. Il ministro del Tesoro ci inviterà ancora a quest’altra fatica, direi a questa operazione penosa, giacchè si tratta di comprimere le esigenze dei dicasteri per le spese che potremo chiamare amministrative o ordinarie, fino ad un deficit, che sia inferiore a quello dello scorso anno. La fatica, però, sarà meritoria e ben accetta al Parlamento e al paese perché quanto più sarà contenuto il carico del bilancio dello Stato, vale a dire quanto meno lo Stato dovrà attingere al risparmio, tanto maggiore sarà la possibilità di promuovere direttamente o indirettamente gli investimenti così detti produttivi, di iniziare cioè a condurre a termine opere pubbliche, lavori e riforme che aumentino la produttività e combattano la miseria e la disoccupazione. Poiché il Ministero del Tesoro, accanto ai bilanci dovrà presentare anche un rapporto generale sulla economia nazionale, egli avrà occasione di dimostrare quale possa essere la misura degli investimenti e chi sia chiamato a farli, stabilendo così i termini-limiti per il programma e proponendo i settori dell’esecuzione e la possibilità di finanziamenti. Non qui, dunque, siamo chiamati noi ad anticipare un piano impegnativo: lo potrà e dovrà fare chi ne avrà la responsabilità. Tuttavia fa parte del nostro consuntivo l’accennare a quegli elementi costitutivi di tale programma che in vista della «terza fase» a cui mi sono riferito anche nel mio discorso al Senato , abbiamo progettato e, in buona parte, elaborato. 1. Viene in prima linea come esigenza improrogabile la riforma agraria. È con grande soddisfazione che si può annunciare che la Commissione interministeriale ha raggiunto l’accordo sui punti fondamentali della riforma. Deduco dal verbale conclusivo del 23 dicembre che mi sta dinanzi, che si è raggiunto l’accordo sull’oggetto della riforma fondiaria «che è la proprietà terriera appartenente ai privati (persone fisiche e società), sia allo Stato, alle Provincie e ai Comuni» escludendo istituzioni di assistenza e beneficenza e istruzione. L’espropriazione contro indennità verrà pagata per un terzo in contanti e per due terzi in titoli di Stato redimibili in 25 annualità con la facoltà di ottenere il pagamento in un periodo minimo di dieci anni per coloro che compiono opere di miglioramento. La riforma implicherà obblighi di trasformazione fondiaria e l’organizzazione cooperativa della nuova proprietà contadina per l’attrezzatura meccanica, latterie, oleifici, cantine sociali e simili. La superficie italiana agraria verrà distinta in tre zone: a) la zona irrigua, a cascina della Pianura Padana; b) la zona a coltura prevalentemente estensiva; c) la zona a coltura intensiva. Nella zona a) in via di massima non si imporrà la cessione di terra ma si surrogherà tale obbligo con quello di introdurre miglioramenti di carattere sociale (ad esempio costruzione di case per lavoratori contadini) per un importo equivalente. La zona b) a coltura estensiva sarà determinata per legge identificando i comprensori delle regioni: Sicilia, Sardegna, Calabria, Puglia, Lucania, Abruzzi (Fucino), Lazio, Campania, Toscana, Veneto, Emilia. L’esecuzione della riforma sarà affidata ad Enti regionali esistenti o da costituire. Un Ente nazionale della riforma sarà il centro direttivo propulsore. La cessione obbligatoria del terreno avverrà con criteri progressivi partendo nella zona a coltura estensiva da lire 40.000 di imponibile dominicale. Si è ammessa fino ad una determinata misura la sostituzione fra diversi proprietari obbligati. Si è ammessa una deduzione per ogni figlio, dopo il primo. Nelle zone a coltura intensiva diverse dalla zona a), il Comitato ha ritenuto che si debba procedere ad una riforma fondiaria a partire da un livello di 60.000 lire di reddito imponibile, secondo il criterio della progressività in base alle tabelle che saranno formate. Si creeranno in ogni zona agraria dei consorzi obbligatori fra i proprietari, incaricati di offrire la terra che risulta dagli obblighi individuali essendo consentita la surroga anche totale tra gli obbligati. L’assegnazione sarà fatta normalmente nella forma di cessione della proprietà con pagamento in 25 annualità, ma si potrà ricorrere anche all’enfiteusi. Sarà previsto un periodo di libera contrattazione, controllata per quanto riguarda il destinatario che deve essere contadino. Sono prevedibili esenzioni per proprietà portate ad altra coltura intensiva, nelle quali dal 1° gennaio 1930 sia stato investito per miglioramento un importo almeno eguale a quello dello scorporo e ci sia un determinato carico di lavoro e speciale trattamento ai lavoratori. Non mi pare che talune riserve fatte siano tali da impedire di affrontare la elaborazione di un progetto e la trattazione parlamentare della riforma. Gli uffici tecnici hanno già pronti i dati di carattere tecnico e finanziario. In colloqui coi ministri del Tesoro e delle Finanze si è affrontato il problema finanziario che appare difficile ma non insolubile. Accanto alla riforma per quei terreni che non la riguardano dovrà continuare il piano triennale di bonifica, di irrigazione e sistemazione montana. 2. È stato diramato ai ministeri per il loro parere il progetto del ministro Tupini per sviluppare la rete stradale dei Comuni e delle Provincie. Si tratta di 25 mila chilometri di strade che lo Stato dovrebbe costruire in 5 anni, strade che riguardano i piccoli Comuni specie quelli del Mezzogiorno e delle zone montane. È proposto un finanziamento straordinario. Un ulteriore programma del Ministero dei Lavori Pubblici è quello di completare i grandi acquedotti già iniziati prima della guerra e aggiungerne dei nuovi. Gli acquedotti già iniziati sono tutti di grande importanza e servono moltissimi Comuni: sono 5 nell’Italia settentrionale, 5 nell’Italia centrale, 18 nell’Italia meridionale e nelle Isole. Tra i nuovi previsti i grandi acquedotti Campano (Napoli e Caserta) e Molisano (Campobasso). Anche qui si fanno proposte per finanziamenti diretti e indiretti fra cui quello della concessione. 3. Intensificazione delle costruzioni edilizie sulla base dei programmi poliennali di Fanfani e di Tupini e di provvedimenti aggiuntivi già predisposti. 4. Programma di impianti termoelettrici per coprire in tre anni, accanto alle aumentate centrali idroelettriche, il fabbisogno nazionale. Prestiti ERP e fondo sterline. 5. Attuazione del programma siderurgico e dell’ammodernamento delle attrezzature industriali. Attuazione del programma di costruzioni ferroviarie, della marina, delle telecomunicazioni, sviluppo alberghiero. 6. Tutto questo elenco di opere con l’aggiunta di un graduale indennizzo dei danni di guerra ai privati, potrà costituire un piano di investimenti di alcune centinaia di miliardi di lavori. Come si è detto i ministri competenti hanno studiato le riforme possibili di finanziamenti ordinari e straordinari che potranno servire a rendere attuabile un tale programma di investimenti. Ci siamo anche preoccupati della necessità di orientamento del credito privato verso investimenti produttivi e vantaggiosi per le classi meno abbienti e per combattere la disoccupazione. Ma il nostro compito non è di definire il programma, è quello di mettere a disposizione alcuni elementi importanti che accanto ad altri lo potranno costituire. Il nostro compito è anche quello, determinando oggi le proposte di bilancio, di risparmiare il più che è possibile nell’ambito delle spese ordinarie ed amministrative, onde rendere più attuabile una politica di investimenti. L’esperienza ci dice anche che per una rapida attuazione sempre più si impone la semplificazione e il perfezionamento degli organi amministrativi e burocratici, un riesame di tutta la macchina dello Stato e dei vari enti parastatali e parallelamente la più stretta collaborazione tra governo e Parlamento. Notevoli progressi furono raggiunti dalle due Camere nell’accelerata trattazione dei disegni di legge e delle proposte specie con l’esame dei disegni di legge nelle Commissioni in sede legislativa, così che ora dei 109 disegni ancora pendenti nella Camera 65 sono assegnati alle Commissioni in sede legislativa e al Senato 24 su un totale di 76. Il successo del sistema democratico dipende dalla rapidità della efficacia e dalla mutua fiducia di tale collaborazione.
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Dopo aver espresso parole di cordiale e vivo riconoscimento all’amministrazione dello Stato dai colleghi del passato ministero che non fanno parte dell’attuale gabinetto, accenna al metodo di lavoro del nuovo ministero che deve essere informato ad un migliore coordinamento. Bisogna coordinare le iniziative e i programmi e seguirne l’andamento. Accenna poi all’attività del CIR che è costituito principalmente dei ministri senza escludere, peraltro, qualche riunione con alti funzionari e tecnici. Ripete quanto ha detto nella relazione programmatica ai gruppi parlamentari sulla procedura dell’attività governativa, che dovrà svolgersi attraverso discussioni collegiali in seno al CIR e al Consiglio dei ministri con conseguente unificazione esecutiva delle decisioni relative. Bisogna, con l’impegno politico della solidarietà e della collegialità, superare anche la meccanica ripartizione delle competenze dei singoli dicasteri. Accenna ai Sottocomitati del CIR ed ai compiti dei ministri senza portafoglio che saranno i seguenti: Campilli – presidente del Sottocomitato del CIR per il coordinamento dei programmi relativi alla produzione e all’occupazione; La Malfa – presidente del Sottocomitato del CIR per il coordinamento dei programmi di azione degli enti e delle società a cui lo Stato partecipa; Petrilli – incaricato dell’elaborazione della riforma amministrativa e burocratica. Propone di rinviare a lunedì la nomina degli altri sottosegretari di Stato . Sì. Si è consultato con i presidenti delle Camere. Sa che Orlando ha espresso analogo parere. Farà consultare anche De Nicola. […] Prega Vanoni di tenersi a disposizione di Sforza per la discussione in seno alla Commissione. […] Accenna a Nasi. Si è parlato di lui come amministratore per il primo semestre. Erano stati fatti sondaggi anche nel campo internazionale ed esistevano dichiarazioni dello stesso Negus circa il comportamento umanitario del generale Nasi. La sua presenza sarebbe stata utile per frenare eventuali interferenze dei militari sui civili. Gli etiopi però hanno ora posto il veto. In Etiopia ci sono anche i sovietici che possono dare noia. Sinora Nasi ha lavorato senza una regolare nomina. Resta ora da vedere se non sia meglio affidare allo stesso Nasi la preparazione occorrente qui in Italia, nominando per la Somalia un amministratore civile. Daremo istruzioni per quanto riguarda i confini somalo-etiopici. [Segue il breve intervento del ministro degli Esteri Sforza: «già si è creata una zona neutra»]. Ma è chiaro che mai ci lasceremo trascinare in una guerra. Nella dichiarazione di governo si parlerà chiaramente al riguardo .
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1. Il Governo italiano ha sempre espresso il parere sia all’interno che all’estero che fosse necessario compiere ogni sforzo al fine di raggiungere un certo grado di integrazione, e ciò non soltanto in vista di uno scopo politico, ma anche in considerazione di obiettivi di carattere economico e commerciale. Il Governo italiano ritiene, infatti, che un progresso nel cammino dell’unione politica fra i Paesi Europei possa anche favorire un’unione economica; ed altresì che qualsiasi progresso nel campo economico e commerciale non possa che agevolare gli sforzi verso una integrazione politica. 2. La necessità di una unione europea è stata sentita in modo particolare dall’Italia. Questa, infatti, sulla base dell’esperienza di un passato di isolazionismo e di autarchia ha, fin subito dopo la fine delle ostilità, manifestato in più occasioni il suo desiderio di un pieno ritorno nella comunità mondiale, al fine di raggiungere al più presto uno stato di pace che non fosse semplicemente uno stato di non guerra. 3. L’Italia ha, infatti, attivamente contribuito alla creazione del Consiglio dell’Europa e fin dall’inizio è membro fondatore dell’organismo. Essa ha, inoltre, agito nell’esame dei più delicati problemi di politica internazionale sempre di concerto con gli altri Stati, con comune e scambievole soddisfazione. 4. Nel settore economico e finanziario il Governo italiano ha, inoltre, nel quadro degli accordi di cooperazione europea, concretamente operato per raggiungere gli scopi seguenti: a) una Unione doganale italo-francese, in fase ormai di definizione; b)una Unione regionale italo-franco-belga-olando-lussemburghese in fase di effettivo concretamento ed anche essa in via di pratica attuazione; c) una liberalizzazione commerciale di oltre il 76% dell’importazione delle materie prime, di quasi il 53% dei prodotti agricoli e, subordinatamente all’entrata in vigore della tariffa commerciale, di quasi il 51% dei prodotti finiti; d)una liberalizzazione nella quasi totalità delle transazioni invisibili, come indicato in un apposito memorandum inviato allo OECE; e) una decisa azione in campo internazionale verso una liberalizzazione delle esportazioni e di altre partite. Esso, inoltre, al fine di raggiungere al più presto risultati concreti, ha proceduto anche su strade nuove, quale, ad esempio, quella degli accordi di collaborazione industriale, presi con la Francia, che hanno anche costituito una premessa indispensabile alla futura unione doganale e integrazione regionale. 5. I risultati raggiunti nel cammino intrapreso non sono stati perseguiti, se non a costo di duri sacrifici: l’Italia è, infatti, in questo momento nell’ambito europeo uno dei Paesi a reddito più basso ed a un livello di vita più contenuto. L’immettere il mercato italiano in un super mercato – composto da Paesi dell’Italia più ricchi e tecnicamente più attrezzati – comporta per il nostro Paese rischi e pericoli di gravità estrema. Non bisogna, infatti, dimenticare alcuni particolari aspetti della struttura interna del Paese, caratterizzato [da alto potenziale demografico, da scarsa disponibilità di materie prime, e da un’attività industriale soprattutto trasformatrice]. Tutte queste condizioni di fatto sono state fatte presenti dal Governo italiano. Il Governo ritiene, anzi, che esse non possano non essere tenute in adeguata considerazione dal complesso degli Stati Europei, se non si vuole che l’esuberanza della popolazione e l’insufficienza della occupazione limitino gli effetti delle integrazioni, e ne condizionino l’effettiva portata. 6. Il Governo ha fatto quindi presente in sede internazionale di considerare il problema dell’integrazione europea, come un problema risolubile in direzioni molteplici e precisamente: a) liberalizzazione del movimento degli uomini e dei capitali ed integrazione dei rispettivi mercati; b)liberalizzazione delle transazioni invisibili; c) integrazione delle politiche economiche finanziarie; d)cooperazione politica internazion[al]e. Tutti questi aspetti del problema, a parere del Governo italiano, vanno risolti con quella gradualità e simultaneità, che lo stato attuale delle singole economie, prostrate dal periodo bellico, richiedono per il loro ritorno alla normalità economica. 7. Le particolari situazioni interne non hanno però costituito per il Governo italiano condizioni alla cui soluzione subordinare il raggiungimento di una integrazione economica. Il Governo italiano ritiene, anzi, che proprio da una integrazione europea, possa derivare la soluzione di alcuni dei suoi principali problemi interni ed a questo scopo, come fatto presente nei punti precedenti, ha già esplicato tutta la sua opera. I provvedimenti concreti che esso ha preso e gli impegni che esso ha assunto, hanno indicato anche a chi non conosce la situazione interna del paese, e il delicato momento che esso traversa nel suo processo di ricostruzione e di riconversione, che l’Italia intende effettivamente progredire verso la creazione di un organismo europeo e collaborare nell’ambito internazionale per una migliore vita di domani.
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Ai Rappresentanti del Movimento per l’Unità Europea. Mi felicito con voi della vostra attività e vi ringrazio di aver voluto comunicarmi le conclusioni dei vostri lavori che ho seguito: spero che la costituzione di questo nuovo movimento ed il suo inserimento nel Movimento Europeo Italiano possa veramente dare un nuovo impulso all’attività di quest’ultimo. Voi venite da me nella mia qualità di Presidente d’onore del Movimento Europeo, si tratta – come voi sapete – di un movimento coordinatore di tante iniziative europeiste. Coordinatore sul piano politico, perché vi sono socialisti (Blum , Spaak), conservatori e liberali (Churchill), democristiani (io); coordinatore sul piano internazionale, perché vi sono rappresentate più di 15 nazioni in collegamento con gli Stati Uniti più i rappresentanti dei paesi dell’Europa orientale; e soprattutto coordinatore sul piano europeistico, perché vi sono gli unionisti (United Europe, Europe Unie), i federalisti (UEF, Brugmans ), oltre ai movimenti che lasciano libertà e non si pronunziano sulla forma europeistica da seguire (Nouvelles Equipes e il vostro nuovo Movimento italiano per l’Unità Europea che avete ora costituito), quelli dell’Unione economica (Van Zeeland). Il Movimento Europeo è quindi comprensivo di tutte le tendenze politiche, nazionali e europeistiche, ed esso stesso si astiene per ora dal pronunciarsi su quale debba essere la forma dell’Europa unita. In questo anno e mezzo che è trascorso, l’attività del M.E. è stata notevole. Affiancatore e talvolta promotore delle iniziative che condussero a Strasburgo, può ascriversi il merito delle riunioni dell’Aja e di Bruxelles (sul piano politico), di Westminster (sul piano economico), di Losanna (sul piano culturale). E gli italiani si sono distinti per merito particolarmente di alcuni di voi. Io ho seguito la vostra attività, anche quando non vi ho preso direttamente parte (messaggi, corrispondenza, partecipazione morale), e vi ringrazio di quanto avete fatto. Ed è questo che vi volevo dire in modo particolare. La mia attività di governo qui ed al Parlamento m’impedisce di essere presente di persona come vorrei all’attività del Movimento. Seguo e m’interesso (anche se talvolta possiate aver l’impressione che gli impegni ufficiali me ne tengano lontano), ma vorrei avere la certezza che l’attività del Movimento Europeo, e gli studi europeistici in genere, siano seguiti da uomini come voi che avete la mia medesima convinzione che qui è la salvezza dell’Italia e dell’Europa. Vorrei essere tranquillo che noi italiani possiamo veramente adempiere a quel ruolo di cui siamo capaci sia nello studio sia nella realizzazione delle iniziative internazionali, anche non ufficiali, di questo genere. Purtroppo questa nostra e vostra attività è minata da tendenze di parte, da personalismi, che – anche se intese al raggiungimento dello scopo comune – intralciano il lavoro e danno ai nostri amici europei la infelice impressione di italiani disorganizzati, litigiosi, senza alcun affidamento o serietà. Esempio più eloquente di questo si ha nel Consiglio italiano del Movimento (CIME). In un anno non siamo riusciti a presentarci nelle riunioni internazionali con dei rappresentanti qualificati, nonostante le numerose sollecitazioni. Perché? Perché i più sono assenti dalle sedute, altri non hanno direttiva, quindi le decisioni vengono prese da pochissimi che la vedono diversamente dalla maggioranza, la quale poi non le accetta. Io quindi vi pregherei di mettervi d’accordo, (e mi rivolgo in particolar modo a voi del Movimento per l’Unità Europea che si è ora formato), perché questo benedetto Movimento Europeo Italiano si costituisca con i suoi organi, che funzioni e che le vostre preziose energie vadano coordinate ed utilizzate al massimo, per il buon nome del Paese e per lo scopo generale che è quello dell’Unione Europea. Fate, stimolate i colleghi, frequentate le riunioni, eleggete i vostri rappresentanti in seno agli organi internazionali, coordinate le iniziative; riferitemi e tenetemi al corrente. È mia intenzione seguire la vostra attività; vi ascolterò e nella misura in cui posso, vi aiuterò. C’è poi un tasto un po’ delicato ed è quello finanziario. Poiché il Consiglio non funziona, la mia Segreteria qui riceve ripetute richieste rivolte a me da Sandys (genero di Churchill, che ora, come sapete, è entrato ai Comuni) perché il Movimento Italiano si metta in regola con la sua quota – che pare ammonti a un 13 milioni di lire – per l’anno 1949. Anche qui l’organizzazione, se è vitale e partecipe, come ha partecipato, all’attività internazionale del Movimento Europeo, deve assolvere ai suoi impegni: o con una quotizzazione o con i contributi di coloro che potremmo chiamare i pionieri, i mecenati, i benemeriti dell’idea. Se invece l’organismo non è vitale, allora non si può pretendere di partecipare all’attività internazionale, né di far sentire la voce dell’Italia, né di influire su tutta la direttiva europeistica fuori ed anche dentro Strasburgo. Del resto abbiamo preso la responsabilità di partecipare ed essere presenti alle correnti europeistiche internazionali; ben più grave sarebbe stata la nostra responsabilità se fossimo rimasti inerti e fuori. Anche questa quindi è una questione che va considerata seriamente, perché incide sul prestigio nazionale. Iniziativa per la pace dei Federalisti. Come contrapposto alla campagna comunista l’iniziativa va appoggiata, ed il Movimento Europeo, pur astenendosi dal pronunciarsi (poiché deve tener conto delle varie tendenze da esso coordinate) sul particolare della federazione, non può che sostenere l’idea europeistica come motivo ed elemento di pace. I federalisti hanno chiesto l’appoggio del Movimento Europeo di cui fanno parte; è da augurarsi che ognuna delle varie correnti si renda conto che bisogna lavorare insieme, e che questa iniziativa sia elemento di concordia e di utile discussione. […] Dobbiamo curare che la nuova forma politica ed economica del continente non sia un artificio non rispondente a certe esigenze reali che noi non possiamo modificare a nostro piacimento. […] I negoziati in corso tra gli Stati Uniti dell’Europa per intese economiche sempre più ampie, e l’attività dell’Assemblea di Strasburgo, debbono essere lealmente appoggiate e concretamente incoraggiate da ogni singolo paese se vogliamo proseguire nel nostro cammino verso la creazione di un organismo europeo efficiente.
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Vi è chi si preoccupa di una certa lentezza, di una eccessiva gradualità nel cammino verso l’integrazione economica e l’unificazione politica dell’Europa. Una ragionevole gradualità deve essere invece per i nostri amici un motivo non di sfiducia ma di affidamento. Si tratta di conseguire una unione politica ed economica che, per esser seria e solida, esige uno scambio dettagliato d’idee e di proposte ed un meditato studio nelle scambievoli concessioni. L’esser stati stimolati a discutere e a far concessioni in un campo così delicato e, per il passato, così gelosamente vigilato come quello degli interessi economici nazionali, dimostra quanto forte sia l’impulso, quanto convinti noi siamo perché sia necessario realizzare l’Unità in Europa. Non dovete considerare l’Unione Europea come una creazione nuova, come uno dei molti organismi internazionali che sorgono in determinati momenti della storia per iniziativa degli uomini di buona volontà, desiderosi di consolidare la pace, di armonizzare diversità di vedute, di dirimere contrasti. Istituti indispensabili che, per essere strutture nuove, possono però costruirsi facilmente in perfetta esecuzione degli schemi di coloro che li hanno ideati. L’unione dell’Europa è invece basata su una realtà già esistente, non è una nuova creazione, né tanto meno può divenire una sovrastruttura. Qui è la sua forza, è la base della nostra sicura fiducia d’Europa, e quindi non potremo mai dar vita ad un organismo superfluo senza rispondenza nella realtà. Ma dobbiamo al tempo stesso curare che la nuova forma politica ed economica del Continente non sia un artificio non rispondente a certe esigenze reali, che noi possiamo modificare a nostro piacimento. S’impongono sacrifici. E l’Italia non ha esitato benché, essendo in Europa uno dei paesi a reddito più basso, l’immissione in un mercato unico europeo composto da paesi più ricchi e tecnicamente più attrezzati comporti rischi per un Paese che, come il nostro ha le caratteristiche dell’alto potenziale demografico, della scarsa disponibilità di materie prime e di una attività industriale soprattutto trasformatrice. Noi siamo persuasi che, mentre da una integrazione europea potrà derivare la soluzione di alcuni dei nostri principali problemi interni, questi problemi debbono a loro volta essere tenuti in considerazione dal complesso degli Stati europei, se non si vuole che la nostra esuberanza di popolazione e l’insufficienza dell’occupazione limitino gli effetti dell’integrazione. Tale rapporto tra problemi interni e soluzioni collettive vale, s’intende, per tutti i componenti l’unità europea. Finora noi abbiamo concretamente operato per raggiungere i seguenti scopi: unione regionale italo-franco-belga-olando-lussemburghese; una liberalizzazione commerciale di oltre il 76 per cento dell’importazione delle materie prime, di quasi il 53 per cento dei prodotti agricoli e, subordinatamente all’entrata in vigore della tariffa commerciale, di quasi il 51 per cento dei prodotti finiti; liberalizzazione nella quasi totalità delle transizioni invisibili. Abbiamo inoltre proceduto anche su strade nuove, quale ad esempio gli accordi di collaborazione industriale (presi con la Francia), che hanno anche costituito una premessa indispensabile alla futura unione doganale e integrazione regionale. Continuando sulla strada intrapresa, noi dobbiamo perseguire – e ciò abbiamo fatto presente in sede internazionale – il fine dell’integrazione in direzioni molteplici. Occorre cioè provvedere alla liberalizzazione del movimento non solo dei capitali, ma anche degli uomini; senza il libero problema della disoccupazione, uno dei più gravi problemi attuali, di cui l’Italia sente tutto il peso non si potrà risolvere; senza il libero trasferimento della mano d’opera, il problema generale della liberalizzazione degli scambi non solo non si risolve, ma si aggrava. Ed occorre infine provvedere all’integrazione delle politiche economiche finanziarie ed alla cooperazione politica internazionale. Punti che vanno risolti con quella simultaneità e – bisogna ribadirlo – gradualità, che lo stato attuale delle singole economie, prostrate ancora dalla guerra, richiedono per il ritorno alla normalità economica. L’unione politica e il processo di unificazione nel campo economico e commerciale sono termini interdipendenti, che si ripercuotono l’uno sull’altro. I negoziati in corso tra gli Stati dell’Europa per queste intese economiche sempre più ampie, e l’attività dell’Assemblea di Strasburgo, debbono essere lealmente appoggiati e concretamente incoraggiati da ogni singolo paese, se noi vogliamo proseguire nel nostro cammino verso la creazione di un organismo europeo efficiente.
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Caro Taviani, ho assunte le informazioni necessarie per maturare una convinzione. I°) È necessario che si faccia a Trieste una dimostrazione solenne unitaria contro le misure slavizzatrici della Zona B del Territorio, mettendo in mora il risultato delle elezioni amministrative. In questa occasione per infirmare il presumibile artificioso risultato, il Cln istriano o chi per esso di Trieste potrebbe lanciare l’idea del plebiscito, senza però impegnare Governo e partiti d’Italia. Susseguentemente verrebbe a rincalzo un discorso di Sforza a Gorizia (l’8, 9 o 10). Sarebbe certo preferibile un oratore centrale non investito di carica ufficiale; ma mi pare che se tale oratore efficace e attraente non si trova, lo possa fare, coi debiti riguardi anche il segretario del Partito. Parlane con Bartole ecc. Cordialmente
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Italiani, se l’Europa è unita, la pace è sicura. È ora che tutti i popoli liberi levino la loro voce per conclamare la necessità di un’Unione o Federazione degli Stati democratici europei. Urge stringere un patto, che rappresenti la garanzia della pace, la tutela della libertà, la salvaguardia della democrazia. Il tentativo di Strasburgo dev’essere condotto a fondo, sì che sotto l’impulso della volontà popolare, interpretata dai parlamenti e dai governi, si costituisca un’autorità centrale europea. Perciò il Consiglio italiano del Movimento europeo, il quale unisce in sé tutte le correnti che tendono all’unità dell’Europa vi invita a sottoscrivere una petizione che verrà poi presentata all’assemblea di Strasburgo e ai Parlamenti nazionali. Italiani, confermate la vostra volontà e la vostra meta: l’Europa unita nella pace e nella giustizia.
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In questi giorni ho letto sui giornali che questo è una specie di Cominform. Qui non si tratta di regolare o di fissare i termini di un comune atteggiamento politico e sociale, ma piuttosto di constatare l’identità dei principi e della nostra ispirazione, la quale deve portare ad una certa similarità se non uniformità di soluzione dei problemi comuni. Il problema principale è l’unità europea, può essere ottenuta sul piano economico con la bilancia dei pagamenti fra l’Europa e l’America? Noi siamo tutti ammiratori del Piano Marshall e lo apprezziamo; ma non bisogna nutrire esagerate speranze circa i suoi effetti quanto alla cooperazione europea. Ci si possono fare delle illusioni in proposito. Io non parlo della meccanica del Piano Marshall. È noto tuttavia che il deficit europeo nel 1952 raggiungerà ancora forse i tre o più milioni di dollari. Oltre a ciò la produzione dell’Europa sarà aumentata del 30% rispetto alla cifra del 1938. La produzione industriale americana oltrepassa già dell’80% il livello del ’38 e continua ad aumentare. Ci si domanda come si potrà arrivare a un equilibrio se si pensa che esisterà ovunque un eccesso di produzione. Da qui la necessità di trovare nuovi sbocchi nei terreni arretrati e insufficientemente sviluppati nel mondo intero. È il problema del 4° punto del presidente Truman. Si arriva dunque ad una concezione non soltanto europea, ma universale. Una concezione, inoltre, di natura sociale, un problema sociologico. Non è dunque la soluzione soltanto economica che ci porterà a quella politica; non è un problema soltanto economico. È una soluzione di giustizia sociale fra tutti i popoli del mondo. L’aspetto attuale è perciò un aspetto morale e di giustizia. Voi vedete la complessità dei problemi economici in Europa. Mentre da una parte la dittatura sovietica nei paesi satelliti porta rapidamente ad una forzata coordinazione razionale dell’economia attraverso la collaborazione obbligatoria dei monopoli di Stato, per contro in Europa occidentale abbiamo paesi dirigisti e paesi liberisti. Anzi, per esempio, in Gran Bretagna si ha l’impressione che il dirigismo tenda ad assumere talvolta l’aspetto di un certo nazionalismo economico. Parlando con uomini responsabili britannici si ha la sensazione che essi temano di mettere in giuoco con l’unione dell’Europa, la soluzione liberista. Un altro esempio è la svalutazione, che apparve come un atto di egoismo economico. Io credo che in questo atteggiamento si trovi la questione principale: non si è facilmente disposti ad una unione che comporti la necessità di adattamenti. Eppure è necessario trovare una mediazione tra i due sistemi. Essa non si può trovare che nel solidarismo cristiano. Non lotta di classe, ma controllo per arrivare ad un trasferimento di una parte della proprietà e del reddito alle classi non abbienti e lavoratrici; conservando tuttavia la molla dell’iniziativa privata. Noi accettiamo senza riserve il metodo democratico anche per la difesa dei diritti di classe, perché essi sono i diritti dell’uomo; ma i diritti dell’uomo sono fondati sul diritto di Dio; ecco dunque che noi possiamo dare un contributo fondamentale all’unificazione dell’Europa. Noi possiamo accettare un dirigismo moderato in Europa e anche nel mondo, noi che siamo per una giustizia sociale temperata dalla preoccupazione della libertà, nel sistema democratico. Noi possiamo pensare da europei; ma vogliamo inquadrare questo pensiero nel concetto universale del cristianesimo. Se possiamo pure superare le frontiere delle Chiese e anche della cristianità, è perché la nostra vocazione è universale, così come è universale la redenzione e la nostra speranza nella Provvidenza, la quale governa il mondo intero. Dobbiamo fare presto. Purtroppo c’è ancora la liquidazione della guerra; ci sono i trattati di pace da fare. Per questi non ho naturalmente una soluzione da proporre; ma quando c’è la volontà, c’è la possibilità. Io rivolgo un amichevole appello ai nostri amici di Francia e di Germania; io li prego di fare presto e di vedere lontano. Bisogna superare le barriere del passato in nome del futuro europeo, in nome della salvezza comune. Ho ricevuto un invito da una sezione del partito democratico tedesco di Essen per fare un discorso elettorale in vista delle prossime elezioni renane. Mi è sembrato un po’ strano e ingenuo. Però l’invito mi ha commosso, perché mi ha ricordato un altro discorso da me fatto nel 1921 (vedete come sono vecchio) quando con don Sturzo venivo a Colonia, dove avevo conosciuto l’allora borgomastro Adenauer , e parlavo in una adunanza di operai cristiani, minatori la maggior parte, per ringraziarli a nome di tutte le democrazie di aver resistito all’attacco comunista di quell’epoca. Non so se molti ricordano quel terribile sciopero insurrezionale; se non ci fosse stata la difesa renana – e in maggioranza erano lavoratori cristiani – forse la partita sarebbe stata perduta per l’Europa . Ho voluto ricordare questo, ripensando ai fatti che avvennero dopo di allora e che diedero un contributo negativo all’unità europea. Ma è giusto ricordare anche i fatti che li precedettero, quando questi popoli potevano liberamente esprimersi e organizzarsi in nome del cristianesimo. Recentemente parlavo con un rappresentante autorevole di politica estera di un paese dell’America meridionale, il quale era invitato a fare opera di mediazione tra le divergenze esistenti fra il Pakistan e l’India. Era stato là per due mesi e aveva studiato questo mondo immenso, l’aveva studiato sotto la minaccia comunista, soprattutto dal punto di vista sociale. Diceva: «Che cosa vorrebbe dire comunismo se non ci fosse qui (parlo dell’India e paesi confinanti) un’immensa quantità di uomini che non hanno da mangiare, che soffrono la fame e la miseria, e hanno una cultura arretrata? Quale responsabilità per noi cattolici: quale responsabilità per gli stessi credenti musulmani di fronte a questo problema sociale!». Bisogna risolverlo e tutti ne abbiamo la consapevolezza, perché questo solo è il metodo definitivo di tenere lontano il maggiore pericolo di carattere politico e sociale. Lo stesso diplomatico, presidente di una Commissione internazionale, che era venuto nei paesi del Mediterraneo per esercitare la missione pacificatrice fra gli Stati arabi e Israele, aveva avuto occasione di esperimentare e di saggiare i contrasti politici, di riflettere sopra le possibilità avvenire e di trarre conclusioni. Mi diceva: «Così ho visto le difficoltà di tutto il mondo, perché quelle dell’Europa e dell’America già le conoscevo. Ho sentito ed esaminato tutte le formule. Ho visto tutte le possibilità di intervento. Ho cercato la linea di compromesso fra i diversi conflitti, ma ho trovato che c’è, in fondo, una sola civiltà al mondo: è la civiltà mediterranea, che qui si è sviluppata e nata e poi si è maggiormente sviluppata con il concorso di tutti gli altri popoli del mondo». In questi giorni, nelle montagne qui vicine, sono andato a visitare le antiche chiese di Ravello, della Repubblica di Amalfi, ho visto i segni di antiche civiltà, ho visto come le civiltà si sovrappongono e si integrano. Quando noi parliamo di civiltà occidentale non ignoriamo che i limiti fra civiltà occidentale e civiltà orientale, sono di per sé anche costituiti da differenze politiche attuali, ma sappiamo pure che scaturisce da una sola fonte che governa l’Europa e l’America. Non la ignoriamo certo, ma diciamo: che cosa vale; a che cosa varrebbe questa trasformazione di regimi e cambiamenti territoriali, a che cosa varrebbe, se domani tornassero in Europa le guerre? Che valore avrebbe il senso sostanziale della civiltà chè l’applicazione nella realtà sociale del principio evangelico, se non riusciamo a rendere giustizia al povero, se noi cattolici non applicassimo lo spirito del Vangelo? Io spero dunque che in queste vostre riunioni, oltre alle formule unificatrici delle risoluzioni, avrete riconfermato nel vostro spirito che una cosa sola è essenziale. Questa sola esige tutti i sacrifici, questa sola esige i compromessi, esige compromessi personali, familiari, nazionali. Questa cosa è il senso unitario del consorzio umano, questo senso di fratellanza universale, al di sopra delle nazioni e della politica, che è l’eredità e il patrimonio del cristianesimo.
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«L’Italia segue con interesse e grande simpatia la rinascita della Germania democratica. Si è felici di constatare come questa Germania stia riallacciando le sue vecchie relazioni e cerchi di riprendere il suo posto nell’organismo europeo». Così ha dichiarato recentemente il presidente dei Ministri De Gasperi, nel suo ufficio a Palazzo Viminale, ad un redattore della «Die Neue Zeitung». In merito all’opinione italiana verso la Germania occidentale e i tedeschi, De Gasperi ha dichiarato che il Governo Italiano si è sempre pronunciato in favore dell’integrazione, più completa, di una Germania pacifica e democratica nella famiglia dei popoli europei. Una strettissima collaborazione tra i Paesi democratici dell’Europa è una assoluta necessità, ma senza l’incorporazione di una Germania democratica ciò non è possibile. Dopo il 1945 anche l’Italia ha dovuto sormontare gravissime difficoltà. Ma con la pazienza e con metodi democratici la maggior parte di questi problemi hanno potuto essere risolti. Reciproca comprensione e pazienza Anche Alcide De Gasperi considera la soluzione delle questioni francotedesche come il problema fondamentale della politica europea. Ma sia da parte tedesca che da parte francese sono necessarie reciproca comprensione, buona volontà e pazienza. La paura ancora esistente in Francia – comprensibile se si pensa che la Francia, in meno di tre generazioni, ha avuto due volte i tedeschi, come nemici, sul proprio suolo – può essere superata soltanto lentamente e soltanto con la dimostrazione da parte degli uomini politici responsabili della Repubblica federale che la Germania ha rinunciato per sempre ad una politica di forza. Dall’altra parte, i francesi dovrebbero avere comprensione per la difficile situazione interna della Repubblica di Bonn e facilitare il suo ritorno in seno alla famiglia dei popoli europei. Accanto allo schiarimento dell’atmosfera politica, il capo del Governo italiano considera come desiderabile un’armonia economica tra l’Inghilterra e la Germania occidentale. A questo punto De Gasperi ha sottolineato che durante i suoi colloqui con il ministro degli Esteri britannico, Ernesto Bevin, egli ha avuto l’impressione che Bevin sia positivamente favorevole ad una sempre più stretta collaborazione europea. Si deve superare la sbagliata opinione che la liberalizzazione, necessaria nel campo economico, sminuirebbe quei vantaggi che la politica laburista ha conquistato per i lavoratori britannici. All’obiezione che la necessità di un’unificazione europea trovi un largo consenso nel pubblico, ma che contemporaneamente uno scetticismo non meno grande in merito alla sua realizzazione si stia facendo sempre più strada, De Gasperi ha risposto: «Su questo punto non sono scettico, ma paziente. Un’intesa sarà raggiunta, perché soltanto su questa via, e con una stretta collaborazione, possono essere risolti i problemi nazionali ed internazionali del continente europeo». Nel corso della conversazione, durante la quale De Gasperi ha ripetutamente dimostrato grande comprensione e vasta conoscenza dei problemi tedeschi, il presidente dei Ministri ha anche toccato diversi problemi della politica interna italiana. Alla domanda perché nella formazione del suo ultimo Gabinetto, egli abbia nuovamente scelto la forma della coalizione, contrariamente alla proposta di una parte dei suoi amici di partito, che chiedevano un governo composto da soli democristiani, De Gasperi ha risposto, tra l’altro, che l’Italia aveva avuto una coalizione già prima delle elezioni dell’aprile 1948, e che il voto degli elettori del 18 aprile ha confermato la decisione presa a suo tempo. La democrazia in Italia è ancora giovane e oggi, come non mai nel passato prima del periodo fascista, essa è esposta all’assalto dei partiti estremi che si propongono di abolire la democrazia come tale ( si è visto in molti paesi come essi hanno realizzato questo proponimento). Diversamente di quanto avviene in Inghilterra o in America, l’Italia non ha oggi soltanto da realizzare un programma di governo, ma deve consolidare e difendere la democrazia stessa. In queste condizioni «la migliore formula» è quella della coalizione di tutte le forze democratiche. Nessun «Cominform» democristiano Alla fine della conversazione De Gasperi ha espresso il suo pensiero in merito alla tanto discussa questione se sia possibile contrapporre all’Internazionale Comunista una Internazionale dei vari partiti cristiano-democratici dell’Europa. Nella sua risposta, De Gasperi ha dapprima ricordato, scherzosamente, che un giornale, in occasione del recente convegno di Sorrento delle «Nouvelles Equipes Internationales», ha parlato di un «Cominform» di Sorrento . Ma a Sorrento non si trattava «di fissare i termini concreti del nostro atteggiamento politico e sociale». Sarebbe contrario al buon senso di pensare ad un organismo «che diriga e sorvegli in tutta l’Europa l’attività dei partiti di ispirazione cristiana. Possiamo invece constatare l’identità dei principi che ispirano il nostro atteggiamento e la comune radice della nostra ispirazione, una identità che deve aver luogo a certe analogie e talvolta a uniformità nella soluzione di alcuni problemi fondamentali che ci sono comuni. Uno scambio più frequente di idee è certamente da caldeggiare». «A me pare – così ha concluso De Gasperi – che ciò si vada attuando nei consessi internazionali ufficiali ed ufficiosi, fra i rappresentanti di tutte quelle nazioni che interpretano come noi il significato di libertà e democrazia. Ciò è necessario nell’interesse di una maggiore intesa ed unità di azione indispensabile alla conservazione della pace ed al raggiungimento dell’Unità Europea».
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Ringrazio tue comunicazioni. Circa Trieste, a parte dichiarazioni di principio e prospettive di soluzione ti prego d’insistere con molta fermezza su alcuni provvedimenti immediati che alleati con pressione su Tito e istruzioni comandi Trieste possono ottenere e precisamente: 1)Ripristino della libertà di traffico per le persone e le cose fra la Zona B e Trieste e ciò per evidenti motivi di carattere economico, sociale e psicologico. Il TLT è giuridicamente una unica entità territoriale seppure soggetta a due differenti amministrazioni fiduciarie. 2)Assicurare la libertà di culto lasciando alle autorità ecclesiastiche competenti a provvedere, a loro criterio, ai mezzi occorrenti (invio e sostituzione di sacerdoti in Zona A) all’esercizio del loro ministero. 3)Ottenere che siano date istruzioni ai rappresentanti britannici nel GMA di adoperarsi perché l’azione del detto Governo si ispiri alla dichiarazione tripartita riconoscendo e tutelando le buone ragioni dell’Italia in rapporto a tutti quei problemi di carattere politico e amministrativo la cui soluzione è di sua competenza.
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Il governo non intende sottrarsi alla libera discussione dell’Assemblea, anche in riguardo ai fatti deplorevoli che sono accaduti a Modena . Chiediamo solo che ciò avvenga dopo l’esposizione del programma e che avvenga con quella serenità che è necessaria di fronte a un fatto così grave. (Commenti all’estrema sinistra). [Il presidente del Consiglio riprende la parola dopo avere dato comunicazione della formazione del nuovo ministero]. Onorevoli deputati, pur nello sforzo di adeguarsi a nuove, o più pronunziate, esigenze, ogni governo si trova dinanzi a un compito primario e permanente che la storia affida ad esso e che deriva dalla situazione politica interna e internazionale nella quale è chiamato ad agire. Il governo della Repubblica italiana, uscita appena da una guerra disastrosa, deve tendere, anzitutto, a rinsaldare e sviluppare le sue istituzioni democratiche, a difendere le libertà fondamentali nello sviluppo degli ordinamenti e della pratica amministrativa e a creare nella coscienza dei propri organi il concetto dello Stato forte, ma ispirato a libertà, (proteste all’estrema sinistra – commenti), fondato sui diritti del lavoro, e sul concorso di tutte le forze produttive, (rumori all’estrema sinistra), di uno Stato superiore ai partiti, benché da essi, necessari strumenti della vita democratica, tragga, a mezzo delle istituzioni parlamentari, direttiva, propulsione e appoggio. Non è difficile articolare tali concetti in provvedimenti di legge: ma più lenta è la formazione di criteri pratici per chi è chiamato, di volta in volta ad amministrare istituzioni e ad applicare leggi. Noi intendiamo che gli organi dell’esecutivo si penetrino sempre più del necessario senso di equilibrio tra il dovere di difendere l’autorità dello Stato e quello di garantire il massimo di libertà politica e sindacale, tra l’uso della forza, lecito solo quando è inevitabile, e lo sforzo di mediazione, che è sempre lodevole e doveroso. (Interruzioni all’estrema sinistra). Questo senso di equilibrio bisogna esigere, però, anche dagli agitatori di idee, dagli organizzatori di manifestazioni politiche e sociali. Se lo Stato ammettesse che le parti in conflitto ricorressero alla violenza, la sua autorità democratica verrebbe meno, e di fronte a tale debolezza rinascerebbe lo Stato-partito, (applausi al centro e a destra – commenti all’estrema sinistra), accampato come una dittatura in un paese nel quale la democrazia avrebbe tradito il suo dovere di difendere le libertà e i diritti dei cittadini. (Applausi al centro e a destra). Bisogna affermare vigorosamente che ciò non deve assolutamente ripetersi, bisogna proclamare come volontà irremovibile del Parlamento e come impegno inderogabile del governo che il sistema totalitario è dall’Italia bandito per sempre, (vivi applausi al centro e a destra), e che né tentativi nostalgici del cessato regime, né minacce di carattere insurrezionale troveranno indulgenza, o conniventi debolezze, da parte dei poteri dello Stato di ogni categoria e di ogni grado. (Vivi applausi al centro e a destra). Certo la democrazia, oltre che dell’appoggio del Parlamento, ha bisogno, per resistere alle contrapposte pressioni, del favore dell’opinione pubblica. (Interruzioni all’estrema sinistra – Richiami del presidente). Io sento qui di dover ringraziare come collaboratori tutti quegli organi di pubblica opinione, si trovino essi nel settore favorevole al presente governo, o al di fuori, o contro di esso, che, sia pure nella più completa libertà, non scompagnano mai le loro critiche dalla preoccupazione che il senso permanente dello Stato democratico rimanga salvo e illeso al di sopra dei governi che si susseguono, e che l’istituto della libera rappresentanza parlamentare, al di sopra di ogni critica più o meno legittima degli ordinamenti e delle attività, vogliono si elevi nella coscienza popolare come palladio insostituibile della libertà e del regime democratico. Anche nella situazione internazionale vi sono alcuni punti fermi. L’Italia democratica non potrà svilupparsi se non nel quadro di una Europa concorde e di un mondo pacificato. La pace è la aspirazione più viva del governo e l’esigenza più pressante (interruzioni all’estrema sinistra): pace operosa su tutte le frontiere, rinnovamento e intensificazione dei rapporti economici con l’occidente e con l’oriente. Pace garantita nel Patto atlantico contro qualsiasi ipotetica aggressione; pace ricostruttiva, consolidata dall’intervento solidale di un’Europa capace di azione mediatrice per risolvere i problemi che la guerra ha creati, o non risolti. (Commenti all’estrema sinistra). Qui si inserisce lo sforzo dell’Italia per liquidare con pacifiche intese, e nello spirito di collaborazione, ogni residua eredità di guerra. Le linee direttive dell’azione internazionale non possono essere che quelle esposte dal passato gabinetto per quanto riguarda le nostre alleanze e la integrazione della economia italiana in quella europea, dalla unione doganale con la Francia alla fiduciosa collaborazione con l’Inghilterra e ad un atteggiamento di comprensione verso la nuova Germania democratica. (Commenti all’estrema sinistra). Le diffidenze, eredità di un doloroso passato, dovranno a mano a mano sparire. La recente conferenza di Ginevra ha mostrato a tutte le nazioni il vero volto dell’Italia democratica e si è chiusa con un unanime riconoscimento da parte anche di popoli una volta ostili e fino a ieri minacciosi o diffidenti. Tutti hanno compreso che in Somalia l’Italia ritorna come rappresentante disinteressata di un nuovo spirito e di un nuovo metodo, preoccupata solo di dare un esempio di quella fraternità civilizzatrice, che è così consentanea al cuore italiano… Pajetta Gian Carlo. Modena! De GasPeri. …e così rispondente alla missione storica del nostro popolo, che per secoli ha inviato uomini del pensiero, della scienza e del lavoro in tutti i continenti. L’Italia accetta questo mandato delle Nazioni Unite, come una prova di fiducia, che si dovrà svolgere in presenza di delegati di altre nazioni e al cospetto dei popoli africani, in collaborazione col popolo somalo. La prova varrà – ne siamo sicuri – a dissipare definitivamente il fantasma creato dagli avvenimenti e dalla malignità degli uomini di una Italia imperialista e in cerca di avventure, e a dimostrare a tutti quanta sia la sua capacità e la sua lealtà nell’opera costruttiva di un mondo più libero e più giusto. A tale proposito ho esposto ai presidenti delle Camere l’urgenza assoluta di una decisione, perché siamo giunti vicinissimi ad una data estrema oltre la quale non è possibile, per ragioni stagionali, di attuare il trapasso dei poteri in Somalia. (Commenti all’estrema sinistra). Sono certo che nessuno di noi vorrà esimersi dall’assumere in tempo utile le proprie responsabilità in una questione così grave e decisiva per il nostro paese. (Approvazioni al centro e a destra). La composizione dell’attuale gabinetto, che nei punti più nevralgici ha conservato i ministri del governo antecedente, mi dispensa, forse, dal percorrere analiticamente tutto il panorama programmatico. Dal passato governo assumiamo l’eredità delle grandi riforme che sono state approntate, (commenti all’estrema sinistra), ed elaborate, o sono in corso di approvazione: riforma fondiaria, riforma tributaria, riforma previdenziale, riforma scolastica, riforma amministrativa, riforma giudiziaria. Della riforma tributaria è già stata presentata al Senato la parte, diremo così, introduttiva riguardante la dichiarazione dei redditi e la conseguente perequazione fiscale; della riforma fondiaria una commissione interministeriale ha già fissato i criteri direttivi che, insieme con le proposte risultanti dalle conversazioni tra i vari gruppi della maggioranza durante la crisi, verranno rapidamente trasfusi negli articoli di un disegno di legge; della riforma amministrativa è già definita la legge sulla Presidenza del Consiglio prevista dall’articolo 95 della Costituzione; e, per accelerare l’elaborazione degli schemi riguardanti gli altri ministeri, ma, soprattutto, per esaminare le cause dell’inadeguatezza attuale di vari organi alle nuove esigenze e per proporne i rimedi, abbiamo fatto appello alla esperienza amministrativa dell’onorevole Petrilli , che si occuperà anche della semplificazione dei servizi burocratici e degli enti; delle altre riforme affronteremo l’esame appena possibile, al fine di procedere alla loro totale e graduale attuazione, tenendo sempre presenti le possibilità finanziarie. Non posso qui elencare e vagliare i 250 disegni di legge d’iniziativa governativa che si trovano attualmente innanzi al Parlamento. In via di massima, il governo attuale li fa propri, salvo intervenire per eventuali modificazioni che risultassero necessarie durante la discussione parlamentare. Tra questi disegni di legge ancora pendenti sono innanzi alla Camera quelli riguardanti i contratti agrari, gli organi regionali con le rispettive leggi elettorali, la Corte costituzionale, il referendum, il riordinamento dei giudizi di assise, il Consiglio supremo di difesa, gli esami di Stato, le tariffe dei trasporti, le indennità agli impiegati, il Consiglio dell’emigrazione. Innanzi al Senato pendono, tra gli altri, i disegni di legge concernenti la riforma fondiaria in Calabria, i fitti, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Urgentissima è la riorganizzazione della finanza locale, anche per le favorevoli ripercussioni che essa potrà avere sul mercato vinicolo, attualmente in una crisi che deve preoccupare. È di somma urgenza anche l’emanazione della tariffa doganale, per la quale è in corso di costituzione la Commissione mista parlamentare. Circa le leggi elettorali converrà tener conto delle obiezioni sollevate durante la crisi: conciliare, cioè, il proposito di assicurare l’efficienza dell’amministrazione comunale facilitando la costituzione della maggioranza, con la equa rappresentanza delle minoranze. Nelle discussioni tra i gruppi parlamentari venne raggiunto l’accordo, riservando però ad un ulteriore esame la situazione dei comuni fra trentamila e centomila abitanti, esame che verrà fatto con largo spirito conciliativo dai membri delle relative Commissioni parlamentari. Confidiamo che la legge sull’ordinamento regionale e le leggi elettorali vengano approvate in tempo per permettere al governo di indire le elezioni amministrative entro il termine prestabilito. Il Ministero del Lavoro ha già pronta la legge sull’ordinamento del lavoro, legge particolarmente urgente, poiché essa deve dare efficacia e stabilità ai contratti collettivi e carattere di diritto pubblico alle organizzazioni sindacali, verticali e orizzontali . La legge dovrà ispirarsi alle libertà proclamate dalla Costituzione, compresa la libertà di sciopero, ma anche riconoscere allo Stato il dovere di assicurare un minimo di servizi pubblici essenziali e quei servizi necessari perché non subisca interruzione la funzionalità dello Stato. Onorevoli colleghi, tutto questo programma è già troppo pesante per la nostra comune fatica; ma non basterà ancora, se non sarà preceduto e accompagnato da uno sforzo intensivo nel campo del lavoro e della produzione. Il centro della battaglia contro le difficoltà dell’ora deve essere il settore del lavoro ed è dovere di tutti puntare soprattutto contro la disoccupazione. È qui che bisogna coordinare tutti gli sforzi e tutti gli investimenti sia pubblici sia privati, è a tale scopo che bisogna subordinare leggi e riforme. Da tale punto di vista, il ministro del Tesoro vi presenterà una analisi degli investimenti pubblici e privati in quanto provocati dallo Stato, sia che corrispondano a impostazioni del bilancio, sia che risalgano ad altri impegni presi o già approvati dal Consiglio dei ministri. Ma quello che è assolutamente nuovo, e merita la considerazione della Camera, è il programma poliennale e straordinario di opere e iniziative pubbliche a favore delle zone depresse e quindi prevalentemente del Mezzogiorno, programma che in alcuni suoi elementi tecnici era stato preparato dal passato governo, e che fu poi, nel suo organico complesso, elaborato e formulato durante la crisi. Il programma prevede per tali zone una erogazione di 120 miliardi annui per dieci anni, di cui cento miliardi per il Mezzogiorno, sempre per 10 anni. Ecco come, in concreto, fondandoci su dati e progetti esistenti, si giudica di proporre la destinazione della spesa: a) trasformazioni agrarie dipendenti dalla riforma: miliardi annui 30; b) irrigazioni (quasi tutte nel sud) e bonifiche (tre quarti nel sud): miliardi annui 52; c) bacini montani in connessione coi miglioramenti agrari: miliardi annui 10; d) viabilità straordinaria, cioè costruzione di strade comunali e provinciali (due terzi nel sud): miliardi annui 10; e) grossi acquedotti già progettati e in parte iniziati (totale 70 miliardi, per circa 15 miliardi Italia settentrionale e centrale, il resto per il sud): miliardi annui 14; f) sviluppo alberghiero: miliardi annui 4. In totale miliardi annui 120. A proposito di tale programma, la cui ripartizione non può essere qui che indicativa, giova osservare che la riforma fondiaria dovrà essere anzitutto una grande operazione di trasformazione della terra, che, secondo i tecnici, darà lavoro a un rilevante numero di unità lavorative e aumenterà la produzione agricola, con benefiche influenze anche su parecchi altri settori di lavoro. Per quanto riguarda il Mezzogiorno, le irrigazioni e bonifiche sono quelle previste dal documentato programma presentato il 31 dicembre 1949 dal ministro Segni a integrazione e rettifica del programma CIR del 1947: dal quale riveduto programma risulta che nel Mezzogiorno gli accertamenti degli ultimi due anni hanno portato alla favorevole constatazione che le possibilità irrigue, valutate antecedentemente in 151.230 ettari, si possono ora calcolare in 268.580 ettari. Nel Mezzogiorno continentale e insulare sono già in corso, in venti comprensori, imponenti lavori. Si tratta di procedere con speditezza e con maggiori mezzi. Sono previsti grandi acquedotti che non si può pensare di finanziare con la legge Tupini sulle opere degli enti locali , acquedotti quasi tutti progettati e taluni già iniziati ma sospesi per mancanza di mezzi. È prevista una spesa totale di 70 miliardi (ivi compresi i nuovi acquedotti della Campania, Napoli, Caserta e del molisano, Campobasso). Rilevo, infine, che è inteso che le somme eventualmente non spese in un esercizio saranno portate in aggiunta alle quote per gli esercizi successivi. Questo programma poliennale e straordinario si aggiunge alle opere già previste per il Mezzogiorno dalle leggi vigenti per la ricostruzione, l’edilizia, i danni di guerra, le industrie. Credo, onorevoli colleghi, che sia la prima volta che un governo si può presentare con un programma organico di così vasta portata. (Commenti all’estrema sinistra). A questo proposito, sento il dovere di ringraziare anche i colleghi del passato gabinetto, che non ricompaiono su questo banco e dei quali non è necessario fare i nomi, perché i nomi loro sono legati all’opera di ricostruzione da essi svolta nelle opere pubbliche e nell’economia, nella lotta infaticabile e snervante contro la disoccupazione e nella difesa dei lavoratori. Dalla loro esperienza, dalla loro azione preparatoria e dal loro fervido impulso è nato anche questo programma. Esso è un impegno formidabile che non si può sperare di assolvere con mezzi ordinari. Dovrò, quindi, lasciare al ministro del Tesoro, eventualmente alla legge speciale, di specificare i modi della copertura. I ministri e i tecnici consultati propongono di garantire la rapida ed effettiva attuazione degli investimenti costituendo una cassa o un fondo particolare al quale affluiranno: i rimborsi di capitali e interessi inerenti ai prestiti per macchinari ERP per un totale di circa 200 miliardi, e quindi di oltre 20 miliardi annui che potrebbero affluire al fondo. È questa una operazione di pratica solidarietà nazionale, per cui gli investimenti in attrezzature fatti prevalentemente nel nord rifluiranno verso il sud. Affluiranno anche somme provenienti da future disponibilità sul fondo lire; prestiti interni ed esteri, per i quali ultimi occorrono negoziati; provvedimenti tributari che verranno adottati. Per la rapidità dell’esecuzione vi sarà bisogno di speciali disposizioni legislative, ma per l’attuazione di questo programma e degli investimenti, in genere, previsti da leggi votate o proposte, occorre soprattutto uno sforzo di acceleramento e coordinamento dell’esecutivo. Ho chiesto, quindi, ad ogni ministro l’impegno formale che la programmazione venga fatta collegialmente, allo scopo di coordinare i vari lavori al duplice fine della occupazione della manodopera e della produttività. Per tale opera di coordinamento è stato già annunciato che sarà costituito un sottocomitato speciale del CIR, presieduto dall’onorevole Campilli. L’onorevole La Malfa presiederà un altro sottocomitato del CIR per il coordinamento dei programmi degli enti e società cui partecipi lo Stato. Confido molto nell’esperienza e valentia di questi colleghi, che, coadiuvando i ministri competenti per i dicasteri finanziari ed economici, contribuiranno a quella direttiva concorde di governo che, partendo dalla necessaria stabilità della lira, farà ogni sforzo possibile per diminuire la disoccupazione ed aumentare la produttività. (Applausi al centro e a destra). È evidente però, onorevoli deputati, che per creare rapide occasioni di lavoro, bonificare e irrigare terre, dare ai Comuni acque e strade, proteggere le pianure coltivate dalle alluvioni, e in genere accelerare gli investimenti, bisogna sottoporsi a uno sforzo serrato di decisione e di attuazione. Parlamento e governo devono trovare i metodi più rapidi nel deliberare e nell’eseguire: chiediamo tutto il vostro appoggio fiducioso e il valido concorso delle Presidenze delle Camere, che hanno già tanto agito per aumentare la funzionalità delle assemblee e delle commissioni. Dal canto nostro, siamo a completa disposizione del Parlamento: è nostro dovere, ma è soprattutto un’esigenza imperiosa della vitalità democratica. Qualche aumento dei sottosegretari ha lo scopo, appunto, di accrescere le possibilità di collegamento. (Commenti all’estrema sinistra). Confido che anche le organizzazioni sindacali e di categoria vorranno accordare il loro appoggio all’opera del Parlamento e del governo, sia direttamente, sia in seno al nuovo Consiglio dell’economia e del lavoro. Siamo convinti che non si possa risolvere solo dall’interno la crisi di disoccupazione: non si può, infatti, perdere di mira il problema dell’emigrazione. Mentre attendiamo un sereno dibattito sul Consiglio dell’emigrazione, per una definitiva sistemazione dei servizi, lavoriamo intanto per la costituzione di un istituto d’indole finanziaria che sia in grado, al di fuori dei vincoli burocratici, di preparare il finanziamento di imprese di emigrazione. Contemporaneamente rinnoveremo gli sforzi per inquadrare il grave problema della manodopera in un vasto programma di accordi internazionali: programma che tende a creare in sede internazionale le condizioni necessarie per la ridistribuzione delle popolazioni in eccesso in Italia, aprendo per esse nuove possibilità di produzione e di vita in paesi adatti ad assorbire il massimo numero di lavoratori e coloni italiani . Inoltre, continuando le recenti esplorazioni condotte negli ambienti finanziari di New York, ci prepariamo a scambi di idee col governo di Washington per addivenire ad un trattato sui prestiti e sugli investimenti dei privati in Italia, trattato che offra sufficienti garanzie governative, sia da parte americana che italiana. Onorevoli colleghi, al termine di questa esposizione, per sua natura arida e scarnita, permettete che io invii un saluto del cuore a quelli tra voi, che, nei passati Gabinetti, più che collaboratori, mi divennero amici. Per le stesse ragioni obiettive e disinteressate per le quali, nonostante il naturale bisogno di riposo, io ho accettato di servire ancora da questo posto il nostro paese, essi hanno trasferito il loro servizio dall’esecutivo all’organo deliberativo, sempre animati dallo stesso senso di responsabilità e di patriottismo. Per taluni, sono state decisive le ragioni della parte politica, per altri il criterio di avvicendamento, che ha lo scopo di iniziare un numero maggiore possibile di membri delle due Camere alla pratica della pubblica amministrazione. Vantaggi della stabilità e vantaggi dell’avvicendamento, eterna controversia del regime parlamentare. Ma la questione si può risolvere, se si considera che il supremo mandato è quello parlamentare, che il membro del governo, salva la configurazione giuridica, è, in via di fatto membro di un comitato esecutivo del Parlamento, che ciò che importa, soprattutto, è di servire il paese con animo puro e disinteressato, che Parlamento e governo hanno, in diversa sfera, lo stesso sforzo da compiere, la stessa responsabilità da portare; infine, che la democrazia si consolida, la libertà si difende, il paese si salva, solo se su questo e su codesti vostri banchi domina la stessa volontà e agisce lo stesso impulso di realizzare un comune programma di salvezza. (Vivi, prolungati applausi al centro e a destra). È con tali sentimenti, onorevoli colleghi, che vi chiediamo un voto di fiducia, il quale, al di là delle considerazioni personali, sia soprattutto un atto di fede nella libera democrazia parlamentare e nell’immancabile rinascita morale ed economica della nostra patria . (Vivissimi, prolungati applausi al centro e a destra).
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Ringrazioti per intervento circa zona B. Nel frattempo ho avuto nuove conferme delle minacce e bastonature elettorali in massa. Istriani tuttavia sono disposti attendere pazientemente una soluzione concordata purché ora siano ristabilite comunicazioni normali entro Territorio e cessino rappresaglie in zona B. Temo che se Alleati a Belgrado e Airey a Trieste non intervengono, saremo costretti a chiedere intervento ONU o rompere con Jugoslavia, perché non si può sperare che cessi agitazione Trieste e stillicidio persecuzioni quotidiane permetta una qualsiasi distensione. Il responsabile più immediato come autorità occupante è Bevin e, se giova, ti prego di avvertirlo dei miei fondati timori.
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Caro Sforza, Cingolani mi aveva iersera autorizzato a sunteggiare o a ridurre la sua finale dichiarazione. Sono intervenuto, come avrai visto. Per la storia, ecco il testo come fu pronunciato. Considerato a sangue freddo, non offre alcuna ragione di turbamento. Anzi il «riunire i propri figli» è una dizione diplomatica piuttosto accorta. Ti so d’accordo del resto nella considerazione che il punto di partenza in confronto dei Tre e di Tito deve essere: «la dichiarazione del 20 maggio diceva esplicitamente che tutto il Territorio (cioè zona A e zona B) spetta all’Italia». Sta poi a noi di facilitarne la pratica applicazione col fare delle concessioni di carattere etnico. Non credo che si possa dare ora alla dichiarazione alleata una postuma interpretazione nel senso che essi avrebbero semplicemente aderito ad una soluzione di compromesso da ricercarsi con gli slavi. Senza dubbio sarà questo un fatale corollario della mutata situazione politica; ma non il punto di partenza. Nessuno può prevedere l’avvenire, quindi inchiodiamoli al loro impegno morale. Partendo da questa premessa bisognerà agire per una soluzione italoslava transattiva, attenendosi alla tua prudente formula di Milano: Territorio libero con eventuali rettifiche interne di carattere etnico («adattamenti di frontiera»). Questa prudenza è necessaria, affinché quando fossimo costretti a concludere un negoziato più largo, ogni concessione debba apparire come sacrificio dovuto alla causa della pace e non uno scivolare da una premessa troppo generosa. Questa non è meschineria tattica, ma doverosa preoccupazione verso il sentimento così morboso di certe categorie. Intanto, mentre mi felicito per il tuo successo senatoriale, ti prego di insistere perché si ristabilisca la situazione. Hoc primum. Poi si vedrà. Cordialmente
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Caro Pella, ho ricevuto copia della lettera a te inviata in data 6 corrente da Sforza, relativa all’applicazione dell’art.78 del Trattato di Pace (danni di guerra ai sudditi delle Nazioni Unite). Ho l’impressione che non sia più possibile differire e che occorra ormai definire. Raccomando pertanto la cosa alla tua personale attenzione. Cordialmente
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Ringrazio coloro che sono intervenuti ed in modo particolare quelli – e sono molti – che avendo responsabilità politiche che sembravano fino all’ultimo doverli trattenere nel loro paese sono riusciti ciononostante a venire a Roma. Noi dobbiamo essere loro grati perché questa loro decisione significa, oltre l’interesse negli argomenti vitali che qui tratteremo, la loro volontà di dimostrare, di fronte agli avvenimenti di oggi, la necessità sempre più impellente ed immediata di pervenire alla meta dell’unità europea. Molta strada è stata fatta in questi pochi anni del dopoguerra. Mentre da una parte si ricostruivano le case, si ricostituivano faticosamente le scorte alimentari e con l’accudire a questi e ad altri bisogni, si estendevano le possibilità di occupazione e di lavoro, dall’altra i governi democratici d’Europa e i movimenti fiancheggiatori dell’opinione pubblica – e primo fra essi il nostro Movimento – s’incamminavano resoluti sulla via dell’unificazione europea intesa come condizione fondamentale della ricostruzione integrale. E in questo modo noi attuavamo nella maniera più efficace e fedele l’interpretazione dell’aspirazione dei popoli alla libertà ed al benessere. Aspirazione elementare che lo stimolo del disastro subito e del bisogno estremo presentava allora in un imperativo semplice e convincente al di sopra di ogni discussione e dubbio: ricostruire e unirsi per consolidare la libertà, ottenuta a sì caro prezzo, e rafforzare la democrazia. Vedevamo l’unione come la migliore garanzia della rinata democrazia e della libertà; e nella democrazia e nella libertà ravvisavamo le premesse di ogni pacifica convivenza, della giustizia sociale, del lavoro. E c’inoltrammo lontano su questa strada; inutile che io ricordi a voi qui la storia recente della evoluzione europea. Mentre i governi hanno proceduto e procedono, mediante accordi e contatti, ad associarsi sempre più intimamente, il Movimento Europeo svolgeva la sua preziosa opera di penetrazione nel campo politico (Aia e Bruxelles), in quello economico a Westminster, in quello della cultura (a Losanna) ed ora a Roma. Sì, la spinta iniziale ci portò lontano: sentivamo che bisognava far qualcosa o perire; e fu così che sorsero i grandiosi organismi europei che presiedevano alle nostre attività. E non perimmo. E poiché ci salvammo mercé i nostri sforzi sovrumani e con l’aiuto dei nostri amici americani, come spesso succede in questi casi, un po’ forse perché ci allontanavamo e ci risollevavamo da quello stato di estrema depressione in cui eravamo caduti e quindi ne sentivamo meno lo stimolo pungolante dei primi tempi, e un po’ perché interveniva la seconda fase del nostro lavoro, cioè l’esame approfondito dei problemi, il profilarsi dei contrasti fra interessi, il sorgere insomma delle difficoltà, è certo che il lavoro procede ora più lento talvolta subisce qualche temporaneo arresto, si leva qualche voce discorde, ci si sente far qualche domanda. E non è male che sia così; anzi l’aver fatto tanto ed il procedere ora piano debbono entrambe essere motivi di incoraggiamento e di riprova della nostra serietà. Ma senza dubbio, ora che siamo nel vivo delle discussioni tecniche e che esaminiamo quale debba essere la pratica attuazione delle nostre direttive ideali, talvolta perdiamo di vista quelli che erano e sono i nostri imperativi, quelli che sono gli obiettivi finali, quelli per i quali combattemmo una guerra sanguinosa. Sembra che si ritorni a qualche egoismo nazionale; che ci si accontenti talvolta di certe enunciazioni di principio, di una convocazione di riunione internazionale, del rinvio di un problema. E se chi, per essere più vicino al pericolo, si alza per ammonire ed urgere, gli si presta meno fede; si arriva ad insinuare, per esempio che la minaccia del comunismo in Europa è uno spauracchio evocato per interesse, un sistema oramai logoro per speculare sulla solidarietà internazionale. Tra gli altri argomenti si è anche detto, per esempio, che un ostacolo alla unità europea siano gli estremisti in alcuni paesi d’Europa (Italia, Francia, Germania). Ma questo è un rovesciare il ragionamento! Si è sempre ritenuto che tutti i nostri sforzi durante e dopo la guerra, e particolarmente tutte le nostre iniziative per raggiungere l’unificazione europea, mirano proprio a questo: combattere gli estremismi ed assicurare le forme democratiche! Se è necessario e doveroso indugiare nelle discussioni tecniche e pratiche, per carità non perdiamoci in logomachie e nella dialettica. E ancora: è stato autorevolmente detto che la creazione di un mercato unico europeo, le differenze fra economie pianificate e libere, la liberalizzazione della mano d’opera e delle merci, provocherebbero abbassamenti nel tenore di vita delle nazioni più ricche (European Unity, pag. 6-7). Ma questa è una semplice enunciazione, non è un argomento contro l’unità dell’Europa. Non voglio io anticipare risposte o soluzioni a questi problemi, importantissimi – per l’Italia vitali – che richiedono sacrifici da parte di tutti senza eccezione, e che voi vi accingete ad esaminare. Desidero solo rilevare che, mentre noi stiamo qui discutendo, proprio in questi giorni – quasi come un colpo al viso – è venuto a scuoterci un brusco colpo dall’oriente. Le Nazioni Unite, amanti della pace, ma non meno preoccupate dei diritti dei popoli, hanno dovuto intervenire di nuovo dopo cinque anni – e come prima – in difesa della pace, della libertà, della democrazia, contro l’aggressione. Siamo tornati indietro di cinque anni? Speriamo fermamente di no; speriamo che le lezioni della storia recente di questo nostro mondo non siano state del tutto inutili; ma indubbiamente ecco uno sgradito, ma forse utile, avvertimento che ci riporta alla realtà. Che ci ricorda in modo doloroso ma efficace perché iniziammo questo nostro lavoro; che ci richiama a quegli obiettivi essenziali che tanto ci sembravano desiderabili quando in Europa sembravano per smarrirsi, che qualche volta sembriamo noi non dico perdere di vista ma cullarci nell’illusione di aver ormai assicurato, e che purtroppo un piccolo popolo rischia nuovamente di perdere .
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Una visita privata di cortesia, perché Gruber va in ferie a Positano, ma naturalmente abbiamo parlato del consolidamento dei nostri buoni rapporti e ci siamo rallegrati a vicenda, perché coll’ultima convenzione del 4 luglio […] i trasferimenti patrimoniali degli optanti gli accordi Gr[uber]-D[e Gasperi] hanno ottenuto la loro integrale e leale applicazione.
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Caro Pella, come tu sai, il Movimento Europeo di cui, insieme ai Signori Churchill e Spaak, io ho la presidenza onoraria (Blum, che era anche Presidente d’onore, non è stato ancora sostituito), ha svolto una notevole attività negli scorsi due anni nel campo internazionale europeistico. Con la Conferenza dell’Aja (19…) [1948], quella Economica di Westminster (1949), quella di Bruxelles (febbraio 1949), la Culturale di Losanna (dicembre 1949) e la Sociale che si è svolta recentemente a Roma, il Movimento, valido stimolatore nei Parlamenti e nell’opinione pubblica dell’idea europea, ha sostenuto e affiancato l’attività ufficiale dei governi e dei rappresentanti eletti a Strasburgo, alla cui Assemblea vengono regolarmente presentate le risoluzioni approvate. L’Italia, tramite il Consiglio Italiano del Movimento, quantunque questo non abbia ancora proceduto alla formale costituzione dei suoi organi, a tutte queste attività partecipa ed ha partecipato assiduamente con apposite delegazioni e rappresentanti ufficiali (e convengo con i nostri deputati ed europeisti che essi si sarebbero assunti una grave responsabilità, agendo altresì in contrasto con lo spirito e l’impostazione di tutta la nostra politica, se avessero deciso di rimanere assenti), i quali utilmente richiamano l’attenzione internazionale sui nostri problemi, esponendo a loro volta il punto di vista italiano sui molteplici problemi inerenti all’unificazione Europea.
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Caro Pella, ti ringrazio della tua lettera del 12 corrente con l’allegata ampia relazione relativa all’attività svolta dal tuo Ministero in riferimento all’esecuzione dell’art. 78 del Trattato di Pace. Mi rendo conto delle difficoltà e della mole di lavoro che questo settore comporta. D’altra parte, considerata la urgenza assoluta di definire e poiché dalla relazione risulta esplicitamente che la mole del lavoro è superiore alle sia pur valide forze del personale di cui l’ufficio competente dispone, ti prego vivamente di voler fare opportunamente rinforzare i servizi interessati, come del resto viene nella relazione prospettato, affinché essi possano accelerare l’adempimento del nostro impegno.
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Onorevoli colleghi, l’ora tarda mi consiglia di abbreviare le mie dichiarazioni . Parlo come presidente del Consiglio e, forse per l’ultima volta, come ministro ad interim dell’Africa Italiana. Per l’ultima volta perché il Consiglio dei ministri ha deciso di sopprimere questo ministero, e naturalmente vi sarà presentato a tempo opportuno il disegno di legge che stabilirà l’assegnazione dei compiti relativi ad altro dicastero. Ve ne do l’annuncio ora, perché tale soppressione implica, tra l’altro, la chiusura di un ciclo della nostra attività in Africa e l’inizio di un nuovo; inizio che è rappresentato dall’assunzione della amministrazione fiduciaria della Somalia. Vorrei brevemente richiamare le date che hanno segnato le diverse fasi attraverso le quali si è giunti all’assegnazione al nostro paese dell’amministrazione fiduciaria della Somalia, allo scopo di confutare ancora una volta le obiezioni dell’opposizione che ci accusa di non aver voluto presentare a tempo i relativi disegni di legge al Parlamento cercando di sorprendere quasi la buona fede del Parlamento e costringendone la volontà entro le strettoie di un periodo di tempo troppo breve. Ricordo, anzitutto, che la decisione dell’ONU del 21 novembre 1949 prevedeva due tempi distinti nella soluzione della questione somala: 1) il periodo provvisorio, 2) il periodo definitivo. La procedura del periodo provvisorio era legata a due condizioni: a) accordo con la potenza occupante, cioè l’Inghilterra, b) decisione, almeno iniziale (cioè riguardante la prima fase dell’amministrazione e lo statuto) da parte della commissione di tutela di Ginevra. Se il governo si fosse presentato al Parlamento prima di aver raggiunto a Ginevra l’accordo per le operazioni di trapasso e per lo statuto, si sarebbe certamente trovato di fronte alla obiezione già fatta in occasione della discussione sul Patto atlantico; saremmo stati accusati, cioè, di pretendere dal Parlamento una decisione e una assunzione di responsabilità in un momento in cui ancora non sono costituiti tutti gli elementi di giudizio (e non è chi non veda che il primo di questi elementi è lo statuto). D’altra parte, non si trattava nel nostro caso di presentare al Parlamento uno statuto e di chiedergliene la ratifica: questa deliberazione sarà richiesta alle Camere quando lo statuto, dopo la decisione dell’ONU che avrà luogo tra due o tre mesi, sarà definitivo. Ci troviamo dunque in una situazione transitoria, interlocutoria, se si vuole aver riguardo alla soluzione definitiva del problema. Il 5 gennaio ho fatto pubblicare dall’ANSA un comunicato in cui si dichiarava che si stava preparando una bozza del progetto e che il Parlamento sarebbe stato convocato quando le due pregiudiziali cui ho fatto cenno fossero state risolte. Quindi, non abbiamo improvvisato perché questo documento è stato pubblicato il 5 gennaio. In quale situazione mi sono trovato in qualità di presidente del Consiglio non ancora dimissionario? Si doveva convocare il Parlamento prima della crisi o dopo la sua risoluzione? Io speravo, fino al 10 gennaio, che a Ginevra si sarebbe avuta subito almeno la possibilità di una decisione di massima tranquillizzante, in modo da poter convocare il Parlamento e, in attesa della definitiva formulazione dello statuto, iniziare intanto il dibattito. Per questo avevo annunciato che prima della crisi avrei desiderato, d’accordo con i presidenti delle Camere, di convocare il Parlamento. Peraltro, tutti i giornali hanno reso di pubblica ragione discussioni in proposito e i risultati dei colloqui con i presidenti delle Camere. Ma il giorno 10 l’onorevole Brusasca , da Ginevra, dopo aver saggiato le possibilità, mi telegrafò che era impossibile prevedere che lo statuto fosse definito prima della fine di gennaio. Pertanto, il giorno 12 ho presentato le dimissioni, per accelerare al massimo i tempi della crisi in relazione alla procedura parlamentare. È per questo, e non per volontà di creare soluzioni artificiose, che ho insistito, durante le trattative, perché i partiti facessero presto a concludere per portare in tempo dinanzi al Parlamento la questione della Somalia. I limiti di tempo ci sono stati segnati dalla situazione stagionale e dall’assoluta, espressa volontà degli inglesi di non aspettare ancora altri sei mesi. Ciò che è comprensibile quando si pensi che una nazione, ormai convinta di dovere abbandonare una posizione, non desidera trascinare una situazione provvisoria al di là di un certo termine, a parte le ovvie considerazioni di economia. A questo punto la Camera è in possesso di tutti gli elementi di giudizio che poteva ottenere e che eravamo in condizioni di dare? Io credo di si. L’amministrazione fiduciaria si sostanzia, dunque, in un impegno decennale di assistenza al popolo somalo, con la cooperazione di altre tre nazioni. Quest’assistenza deve avere lo scopo di prepararlo all’indipendenza. Escluso ogni compito di carattere militare, esclusa ogni possibilità di complicazioni con altre potenze che siano appartenenti alle Nazioni Unite (e quindi anche con l’Etiopia) in quanto queste complicazioni non possono neppure essere prese in considerazione dalle stesse Nazioni Unite. Questa è la situazione, dal punto di vista giuridico tranquillizzante e nuova, per cui una impresa – che anticamente si sarebbe chiamata impresa coloniale – assume invece un carattere fiduciario di rapporto internazionale completamente al di fuori da ogni pericolo bellico. L’obiezione fattaci circa la precarietà delle frontiere ha, è vero, un qualche fondamento; però abbiamo cercato di prevedere ciò che si può umanamente prevedere. Entro il 1° marzo gli inglesi, d’accordo con l’Etiopia, indicheranno la linea provvisoria di occupazione, che sarà probabilmente quella di fatto esistente fino ad oggi. Noi attendiamo che la frontiera definitiva venga decisa dall’assemblea di Lake Success. Abbiamo così tutte le garanzie giuridiche che si possono umanamente ottenere per prevedere che conflitti a proposito delle frontiere non ne possano sorgere. Per quanto riguarda la questione delle spese da affrontare, si sono avute lagnanze perché non abbiamo presentato un bilancio definitivo in materia. Certo, sarebbe stato più prudente, o doveroso, o necessario, presentarlo, se avessimo potuto presentarlo. Ma, in realtà, a parte l’esperienza che abbiamo fatto consultando le diverse rubriche dell’antica amministrazione della Somalia, non sappiamo come le singole cifre possano venire aggiornate dopo le distruzioni avvenute, di cui noi non abbiamo nemmeno notizie esatte. È perciò difficile fare un bilancio esatto delle spese, e, allo stato, è difficile anche prevedere eventuali economie che sono solo in funzione della possibilità di sostituire le truppe italiane con truppe somale. Non ci è stato permesso di fare arruolamenti prima dell’assunzione del mandato per ovvie ragioni e per ora è necessario che sul posto nei primi mesi si inizino le operazioni di arruolamento, in modo che sia possibile il rientro di una parte delle truppe italiane. Possiamo quindi dire che la richiesta di sei miliardi di lire (le quali, all’ingrosso, si potrebbero così dividere: spese per personale civile e militare tre miliardi, spese per il funzionamento dei servizi civili 120 milioni, spese per il funzionamento dei servizi militari 2 miliardi 880 milioni) si mantiene nei limiti delle spese prevedibili in questo momento. Però, prima che venga alla Camera il disegno di legge per la ratifica dello statuto, evidentemente saremo in grado di presentare il bilancio completo circa le spese che si dovranno fare (e si farà in modo di essere molto precisi) ed eventualmente delle entrate sulle quali si può sperare. La spesa massima che ora prevedono i nostri tecnici è quella riferita, e mi debbo fidare di queste cifre, espresse da gente che ha un’antica esperienza. Non è vero, perciò, quanto ha affermato l’onorevole Pajetta, che ha detto che vi è improvvisazione e che noi non sentiamo i consigli di alcuno; questi problemi sono stati studiati nell’amministrazione che ho l’onore di presiedere, nella quale vi sono esperti in materia. Si dice che nel primo anno si arriverà al massimo di spesa (nel quale, naturalmente, sono comprese le spese di insediamento) di 20 miliardi, che crediamo potranno ridursi a 17 o forse a 16 in seguito alle sostituzioni per gli arruolamenti di truppe somale. Forse li potremo ridurre ancora di più ma non voglio qui creare delle illusioni e, d’altra parte, i tecnici ritengono che la spesa annualmente dovrà diminuire di tre, quattro, forse cinque miliardi per il periodo decennale. Abbiamo quindi ritenuto trattarsi di una spesa affrontabile, comunque corrispondente alla gravità delle funzioni che dovremo assumere. Si è fatto cenno anche, nei riguardi della situazione politica, al grave problema costituito dall’organizzazione dei «giovani somali». È verissimo che l’organizzazione dei giovani somali esiste. Si diceva sulla nostra stampa, ed anche fuori, che i giovani somali esistono in quanto voluti dall’amministrazione occupante. Non lo posso affermare. Debbo solo tener conto di questo movimento, e che questo movimento si rafforza perché rappresenta, fino ad un certo punto, la futura classe dirigente del paese. Però, secondo recenti dichiarazioni tranquillizzanti, essi, mentre si sono dichiarati contrari in un primo tempo all’amministrazione italiana perché ritenevano che fosse del tipo antico, cioè presupponesse la sovranità completa dell’Italia, oggi, invece, hanno dichiarato che poiché si tratta di una fase di preparazione all’autogoverno, se le promesse del governo italiano di avviarli all’indipendenza, come previsto dallo statuto, saranno mantenute, essi saranno favorevoli alla nostra amministrazione. Logicamente questo dovrebbe avvenire perché essi si trovano di fronte ad una nazione che non vuole affatto insediarsi in Somalia (e non lo potrebbe fare, anche se lo volesse) tanto più che fin dal primo periodo, accanto al consiglio consultivo composto di tre nazioni, che costituiscono gli organi delegati e i testimoni delle Nazioni Unite, si deve creare un comitato locale, regionale, composto completamente di cittadini somali. Quindi, a meno che l’onorevole Berti non possegga più dirette informazioni sulla situazione reale, le cose stanno in questi termini. Secondo nostre informazioni è in una nuova fase, in rapporto ai nuovi avvenimenti, l’atteggiamento delle Nazioni Unite riguardo all’Etiopia. Certo i nostri rapporti, in via di fatto, sono migliori. Stiamo facendo ormai direttamente ed indirettamente delle conversazioni le quali, naturalmente, vengono portate non soltanto a proposito della Somalia ma anche in generale per l’Africa ed in modo particolare per l’Eritrea. Noi riteniamo, e la conferenza di Ginevra ce ne ha dato conferma, che sia possibile intendersi ed anzi abbiamo visto cadere ad una ad una certe diffidenze dinanzi alla nostra generosa accettazione dello statuto e delle sue condizioni. Credo, quindi, che le probabilità di avere degli incidenti o dei contrasti tanto con l’Etiopia quanto con le popolazioni locali siano ridotte al minimo. Viceversa, speriamo che si ottenga una collaborazione più intima di quella che in un primo momento si può sperare. Ho avuto l’impressione, parlando con parecchi somali, che in Somalia i nativi abbiano conservato, astraendo dal periodo della guerra, una buonissima impressione dell’amministrazione italiana, dei nostri metodi in genere, e dei contatti che hanno avuto con il popolo italiano e non mi rendo conto del perché, pure non volendo negare che vi sia in questa impresa nuova qualche rischio, queste garanzie non debbano essere giudicate sufficienti per tranquillizzarci o, per lo meno, anche se contrasti esistessero, non vedo perché dovremmo esasperarli. Mi meraviglia un po’ il contegno dell’opposizione, la quale ha sempre parlato di amministrazione fiduciaria (essa, a ragione, sarebbe stata assolutamente contraria a qualsiasi altra forma di mandato), e, dato che l’onorevole Berti ha fatto citazioni che riguardano me e l’onorevole Sforza, potrei farne molte che riguardano lui e altri oratori dell’opposizione che insistevano sull’opportunità dell’amministrazione fiduciaria. Questo in discussione è il primo esperimento di amministrazione fiduciaria. Che cosa avverrebbe se noi rifiutassimo di farlo? Che significato avrebbe il rifiuto dopo tanto aver chiesto ed avere impostato tutto il problema con uno spirito di collaborazione internazionale? Io ricordo le dichiarazioni fatte il 10 settembre 1946 a Parigi, dall’onorevole Bonomi che, con me e con l’onorevole Saragat, rappresentava allora la delegazione italiana. Si disse già allora chiaramente, definitivamente: accettiamo il principio della Carta di San Francisco per i territori coloniali che l’Italia chiede l’onore di avviare a forme di autogoverno e di indipendenza nel quadro dell’ONU. Questo è stato riconosciuto parecchie volte nelle discussioni della Camera e questo indirizzo non ha mai trovato alcuna obiezione da parte dell’opposizione. Oggi devo dire di accorgermi con stupore che viceversa, da quella parte, ci vengono così gravi obiezioni, costruendo con la fantasia, con le ipotesi, una nostra volontà militarista, una nostra volontà imperialista e immaginando una situazione pericolosa, e giudicando questa nostra impresa, che pure è fatta con la migliore delle intenzioni e la massima garanzia, mossa addirittura da uno spirito imperialista e di guerra. Ma questa è una tesi preconcetta che tutte le volte che si dibatte un argomento del genere viene portata avanti, insistendo soprattutto su questo, che cioè, se noi fossimo andati d’accordo con la Russia, tutto ciò non avverrebbe. Io riconosco che se avessimo trovato il modo di andare d’accordo con la Russia avremmo ottenuto un grande vantaggio, specialmente nei riguardi della situazione interna, perché certo le attuali opposizioni non si sarebbero avute! (Applausi al centro – Rumori all’estrema sinistra). DuGoni. Respingo, signor presidente del Consiglio, con tutte le mie forze, questa affermazione. De GasPeri. Siamo grati delle buone intenzioni della Russia, ma decisivo e determinante sarebbe stato che fosse stata l’Unione Sovietica ad occupare le terre d’Africa e ce le avesse poi offerte. (Commenti all’estrema sinistra). Oggi, ed anche del resto per questioni più gravi di quella in discussione, vale più il ragionare dal punto di vista negativo che dal punto di vista positivo. Io vi domando, in coscienza: che cosa si direbbe oggi se noi rinunciassimo, dopo aver insistito dinanzi alle Nazioni Unite per avere la amministrazione fiduciaria delle colonie, dopo aver ottenuto che almeno fosse sospesa la decisione sopra l’Eritrea, dopo aver ottenuto una collaborazione per la Libia, che vedremo quanto si potrà sviluppare, e che in ogni modo rappresenta una nostra presenza colà, presenza che sembrava compromessa; che cosa si direbbe se l’Italia rifiutasse il compito dell’amministrazione della Somalia? Che cosa si direbbe di questa Italia che dopo aver tanto parlato di collaborazione internazionale rifiutasse questo incarico? Ammettiamo pure che l’amministrazione fiduciaria costituisca un peso; ma è sopportabile, in confronto dei molti altri che avremmo dovuto sopportare se avessimo avuto altri incarichi. Un rifiuto sarebbe evidentemente un gravissimo errore, sarebbe un rinnegare la fede nel proprio avvenire ed in un mondo migliore, perché, amici, questo atto di accettazione della amministrazione provvisoria della Somalia implica che l’Italia crede alle nuove forme di amministrazione, ai nuovi rapporti internazionali. Vuol dire quindi che è in atto veramente una collaborazione profonda che lega l’Europa, che ci si avvia alla costituzione della nuova Europa, che l’Italia partecipa all’ONU con senso del dovere e che vuol contribuire per la propria parte a questa nuova edificazione. Non desidero adoperare parole retoriche: faccio solo un’osservazione che mi pare profonda, che non potete non condividere: la speranza della nostra generazione è che, attraverso la prova che abbiamo sofferto, si arrivi tutti a quel progresso che si sviluppa, attraverso nuove forme, verso un mondo migliore. (Applausi al centro e a destra). Accettare l’amministrazione della Somalia vuol dire lavorare per un mondo nuovo, guadagnarsi amicizie fra tutti i popoli che aspirano a libertà e progresso. E voi avete visto come l’atteggiamento nostro nell’ultimo periodo ci abbia cattivato altre amicizie nel Mediterraneo e nel mondo in genere. Questo è un mondo in sviluppo. Non si sa domani dove questo sviluppo potrà portare, ma è bene seguirlo e crearsi degli amici. Ora gli amici debbono essere le nazioni che aspirano alla libertà, che aspirano all’indipendenza. (Applausi al centro e a destra). Tutto questo significa la ripresa dell’antica politica italiana, la politica del risorgimento. (Commenti all’estrema sinistra). Credo che quanto ho detto esprima il nostro senso di fiducia e di speranza nel mondo avvenire ed anche e soprattutto nel nostro progresso interno, (applausi al centro – commenti all’estrema sinistra), anche per riforme interne, per il lavoro interno. Se mi ricordate quei pochi miliardi che dobbiamo spendere, (interruzioni all’estrema sinistra), io vi parlo dei molti miliardi che proponiamo al Parlamento di investire nelle riforme, (applausi al centro), per ottenere da tutte le classi un senso di solidarietà, una volontà di sacrificio, perché le nostre classi lavoratrici, soprattutto, vengano aiutate e le regioni in miseria vengano sollevate. Per far questo, amici ed avversari, non conviene assumere un atteggiamento di rinunzia; rinunzia all’avventura, sì; rinunzia alle speculazioni di carattere politico, internazionale, militare, sì; ma fede nell’avvenire e nella cooperazione internazionale. Questo crea una fede interna di lavoro e dà a tutto il popolo italiano speranza e diritto a dignità di grande nazione. (Vivissimi, prolungati applausi al centro e a destra). L’onorevole Belloni non si meraviglierà se non posso accettare il suo ordine del giorno , specialmente per le motivazioni, nelle quali egli ha creato una antitesi fra le nostre esigenze interne ed il nostro dovere di venire incontro a quelle contenute nel disegno di legge. Non posso neppure accettare l’ordine del giorno presentato dagli onorevoli Pajetta Gian Carlo ed altri, perché, lo dichiaro nuovamente, non c’è nessun decreto da annullare, non c’è nessun incarico da ritirare o da deplorare; quindi, non posso accettare un ordine del giorno che parte da premesse inesistenti . Aggiungo poi che, se il Parlamento italiano accettasse quest’ordine del giorno, vorrebbe dire che il governo sarebbe costretto a consegnare il generale Nasi, quale criminale di guerra, all’Etiopia. (Commenti all’estrema sinistra). E da parte della Jugoslavia e da parte di altri paesi sono state dichiarate criminali di guerra moltissime persone, a carico delle quali poi non è risultata colpa veruna. Indipendentemente dal giudizio personale, certo è che tutto si deve fare per creare uno spirito di pace e niente per rievocare fantasmi di guerra. (Applausi al centro e a destra).
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91946-1950
Caro Sforza. In un momento di quiete, ritorno sul discorso avviato nell’ultimo Consiglio. Veramente, se il Consiglio europeo non prende questa volta una sua fisionomia, è la sua morte civile. Converrebbe trovare una formula, che mettendo fuori dubbio la nostra lealtà atlantica, potesse esprimere una concezione nuova europea. Ottima è l’occasione della comparsa di Bonn. Presento le difficoltà, ma tu hai tutte le premesse per superarle: americanismo convinto, apostolato di europeismo, democratismo incontestabile e autorità personale. Non bisogna nascondersi che tra i nordamericani i fanciulloni sono molti e che anche le democrazie politiche hanno i loro punti deboli. La vecchia Europa è più equilibrata e più esperta. Mentre si riafferma la volontà europea di opporsi compatti al pericolo esterno attuando un sistema difensivo solidale, non è giusto che l’Europa, prima vittima predestinata, dica una parola di fermissima volontà di pace? E questa parola potrà essere lanciata, senza suscitare sospetti, da un Italia che per amore di pace subisce un Trattato e la minaccia della zona B. Sono certo che se le circostanze e gli assaggi te lo permetteranno, farai la sortita, e ne avrai plauso e scarico di coscienza. Ti scrivo questa mia temendo che non ci possiamo incontrare prima della tua partenza. T’accompagno con affettuosi auguri
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Per l’ambasciatore Tarchiani. Riterrei opportuno che in occasione della riunione del Comitato ministri difesa venissero chiariti e possibilmente definiti anche i problemi finanziari economici connessi col riarmo. Intenderei perciò inviare costì ministro Pella che eventualmente assieme a Lombardo che sarà costì per altre ragioni potrà avere utile scambio idee con autorità americane. Prego dirmi in via preliminare se mia idea sarebbe bene accolta.
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La prima riunione ha dimostrato la necessità di preventivi chiarimenti circa il programma di riarmo e quello della produzione bellica e l’opportunità di mettere alla base della discussione i risultati accertati del Consiglio Sostituti (Londra) e quelli dei programmi militari prospettati nei Comitati Tecnici Atlantici, sia pure nei dati comunicabili.
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Ho accolto volentieri e con un senso di intimo convincimento l’invito rivoltomi a partecipare a questa riunione e di aderire con la mia firma alla campagna per l’Europa unita e per la pace che con tanto slancio avete condotta e state ora per concludere. È con profondo convincimento che io, come privato cittadino e come italiano, vengo qui tra voi per esternare in forma concreta l’aspirazione che io, noi tutti e tanti italiani sentiamo, sia pure in forme diverse, all’unione o alla federazione dell’Europa; il bisogno che noi sentiamo in modo così perentorio di giungere ad una forma unitaria di questa nostra Europa per consolidarne le conquiste sociali e le forme democratiche per le quali lavoriamo così duramente e per assicurarne così la pace. C’è anzitutto un bilancio da fare. Ciò che fu il sogno di grandi statisti e pensatori nel passato è divenuto in un breve scorcio di anni una realtà – sia pure in embrione, sia pure in una forma assai imperfetta, ma sempre una realtà. Ed è qui a poche centinaia di metri da noi, dove in seno agli organi del Consiglio d’Europa gli esponenti più autorevoli delle nazioni europee proseguono in forma ufficiale e formale i loro lavori per attuare questa esigenza così profondamente sentita in ciascuno dei loro paesi. Noi qui invece rappresentiamo l’opinione pubblica, rappresentiamo la volontà dei popoli, che agisce e continua, non mai soddisfatta, ad agire sui governi e sui parlamenti e impone loro la discussione dei problemi e l’attuazione, nelle forme possibili, dei nostri progetti. Ed è qui la questione: ho detto all’inizio che noi e tutti gli europeisti sentiamo in forme diverse l’esigenza e il modo dell’unione. Ed è bene che vi sia questa diversità d’opinione, di metodo, di programma strutturale, poiché, attraverso la discussione e l’esame delle varie possibilità, potremo anzitutto affinare noi stessi e potremo con l’esperienza, fissare quanto vi è di essenziale per lo scopo comune. Bene vengano quindi le diverse concezioni dell’Europa unita, che si esprimono nei vari movimenti; ma guardiamoci, se vogliamo essere uomini ed europeisti responsabili, dall’irrigidirci sul raggiungimento immediato di determinate formule o strutture. Collaboriamo insieme tutti per risolvere le innegabili difficoltà e fissare le migliori formule (anche perché non si dica che quando già l’Europa sarà unita, gli europeisti non lo saranno ancora). Insegni soprattutto l’esperimento di Strasburgo: dopo i primi entusiasmi, si è avvertito un disagio, effetto dei primi ostacoli, delle prime difficoltà. Per unirsi, occorre, è evidente, che ciascuno faccia concessioni e rinunce, ma ognuno ha posizioni da difendere, alcune forse che con un più chiaro discernimento del comune pericolo non sarebbe tanto difficile da abbandonare, altre invece che sono la risultante di situazioni geografiche o politiche effettivamente non sempre modificabili a breve termine. Ed allora occorre aggirare questi ostacoli; in questi giorni infatti vengono proposte al Comitato dei Ministri le così dette intese regionali, cioè parziali per regioni o per materia; è anzi di soddisfazione per noi poter qui registrare la proposta che il nostro Ministro degli Esteri sosterrà a nome del Governo Italiano, intesa a convocare una conferenza che dovrebbe portare a riforme dello Statuto di Strasburgo. Proposta cui si uniscono molti altri Governi e a cui auguriamo successo. Il contatto con le difficoltà rende realisti; è il nostro compito affiancare e stimolare l’opinione pubblica che a sua volta agisce sui Parlamenti e sui Governi. Ma guardiamo in faccia e studiamo bene gli ostacoli e le difficoltà; siamo tattici; se necessario, evitiamo qualche volta di insistere sul raggiungimento, come meta immediata, di ideali giudicati o dimostratisi per il momento irraggiungibili e in cui l’opinione pubblica, e quindi anche i Governi, non ci seguirebbero. Studiamo invece altre possibilità e proponiamole; se no rischieremmo noi stessi, non già di promuovere, ma di contribuire all’insabbiamento dei nostri progetti, creandovi o incoraggiandovi le opposizioni. Il nostro compito e le nostre responsabilità sono immani. Noi vogliamo veramente la pace e, mentre diciamo di volerla, lavoriamo per unire l’Europa; altri, mentre dicono anch’essi di raccogliere firme per l’abolizione della bomba atomica e per assicurare la pace, lavorano per dividere il mondo. Essi lavorano contro la pace nel modo più esplicito ed efficace, cioè facendo la guerra; guerra interna con le agitazioni politiche ed il sabotaggio della produzione e della ricostruzione, guerra esterna che è guerra guerreggiata di aggressione armata. Questa campagna si chiude, queste firme verranno presentate al Parlamento, ma ciascuno di noi ha il dovere di continuare a promuovere il fine che ci anima, e per il quale ormai governi e popoli lavorano. Continui ciascuno di noi, lo spirito teso alla forma di Europa che più lo ispira, ma la mente intenta invece a studiare la migliore, la più pratica e la più immediata attuazione di quel suo ideale, a proclamare e sempre ripetere lo slogan che ci ha animati sin dall’inizio: pace nell’Europa unita.
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Caro Pacciardi, richiamo di nuovo la tua attenzione sull’imminente dibattito all’ONU concernente i nostri prigionieri e dispersi in Russia. Mi si fa ora presente dal Ministero degli Affari Esteri che l’ufficiale addetto all’Ufficio Dispersi del Ministero della Difesa è il più qualificato a maneggiare con sicurezza la complessa documentazione già spedita a Washington. Se poi il dibattito all’ONU dovesse sfociare in una discussione dettagliata, la presenza dell’ufficiale sarebbe indispensabile. Inoltre mi si fa osservare che si potrebbe, all’ultimo momento, determinare la necessità di avere sul posto una persona capace di fornire eventuali chiarimenti e delucidazioni che noi non potremmo far giungere in tempo. Ti prego, nel prendere la tua decisione, di voler vagliare questi nuovi elementi, in aggiunta alle condizioni di carattere generale che ti sono ben note. Cordialmente
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L’Europa occidentale deve essere difesa più lontano ch’è possibile verso l’est. Il potenziale tedesco deve essere utilizzato strategia avanzata senza partecipaz[ione] tedesca impossibile combat teams regolamentaire; brigade mixte amministratore civile, non min[istro] della difesa né Stato maggiore proposta neerlandese di un commissario Nato in Germania per tutte le forze Définition: Force intégrée de défense Nato: force comprenant plusieurs contributions nationales, chaque nation conserve, sur ces propres forces, le contrôle politique et certaines contrôles militaires. […] Confronto fra le forze numeriche stabili e mobilizzabili nel 1940 e i limiti del trattato
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L’alba si presenta inquieta, ma io confido ancora in un’intesa ragionevole tra gli uomini di buona volontà. Ogni sforzo possibile deve essere fatto per salvare la pace, ma essa non si salva senza il proposito risoluto di difendersi uniti contro l’aggressione. A chi combatte e soffre per ristabilire la legge internazionale, l’Italia democratica invia il suo fervido augurio fraterno.
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91946-1950
Onorevoli colleghi, all’inizio del dibattito ho riferito le mie discussioni sulla soluzione della crisi, ma durante il dibattito sono state poste molte domande, formulate varie critiche, sollevati molti dubbi, circa il corso di essa; e allora converrà che dica qualche cosa sul suo sviluppo e sugli avvenimenti che l’hanno accompagnata. Prima della crisi, era di voga la richiesta di un programma preciso e concreto di opere pubbliche e di investimenti produttivi quanto più organico fosse possibile. Il 3 gennaio 1950, facendo al Consiglio dei ministri la relazione consuntiva su quanto il passato gabinetto aveva fatto, avevo colto l’occasione di dar rilievo ad alcuni elementi costitutivi di un nuovo programma, di un programma continuativo che tenesse particolarmente conto delle opere pubbliche e degli investimenti. Avevo accennato allora ai progetti che il governo aveva preparato, progetti che dovevano essere elementi costitutivi di un programma di pubblici lavori; avevo accennato, soprattutto, alle conclusioni a cui era arrivata la commissione interministeriale per la riforma fondiaria e a un certo punto avevo anche fatto cenno ai criteri e ai metodi a cui il governo si era ispirato in materia di amministrazione e di legislazione; metodi che traevano significato dalla esperienza della collaborazione. Era evidente che con ciò stesso, esaltando e dando rilievo a questo metodo di elaborazione, avevo indicato delle linee programmatiche che, nel caso a me fosse spettato il reincarico, intendevo seguire e porre come direttiva per il futuro gabinetto. Qualcuno ha sollevato in proposito delle critiche e ha detto: perché ad un governo i cui componenti sono dimissionari un presidente, dimissionario, deve tracciare un programma? A me è parso invece che fosse un contributo di carattere democratico, indicare quale sarebbe stato il programma, quale la linea direttiva, quali le idee di colui che sarebbe stato eventualmente designato a costituire il nuovo gabinetto. In altri termini, ciò significava anticipare il programma e sottometterlo alla discussione pubblica, soprattutto renderlo noto a coloro che sarebbero stati consultati dal presidente della Repubblica per la designazione del futuro incaricato. Si sollevò allora nella stampa e nei circoli l’accusa che un certo sistema dovesse continuare, cioè il sistema dell’intruglio, del pasticcio, della confusione, della speculazione, di una tattica – la mia – che sarebbe stata demolitrice dei partiti minori: in genere, si disse che fosse il mio scopo, e continuasse ad esserlo, quello di frantumare i socialisti e i partiti che avrebbero potuto collaborare con me. Mi si disse allora (si ripeté anche nei giornali) che era mio proposito agitare il fantasma comunista per costringere gli altri partiti a seguire la democrazia cristiana come un male minore e per impedire con ciò la dialettica costituzionale. Queste frasi, voi lo ricordate, erano frequenti in molti giornali, anche della stampa indipendente, in tutti coloro che avevano preoccupazioni di partito cui dar fondamento e rivolgevano contro di me l’accusa di questa tattica trasformista. Si diceva che questa tattica era attuata per cercare di indebolire i partiti collaboratori per dare maggiore rilievo alla democrazia cristiana. Queste accuse sono state ripetute anche qui e vi accenno perché sono stati parecchi gli oratori; ricordo, fra gli altri, gli onorevoli Lombardi, Donati e Zagari , che me le hanno lanciate. Quasi che io chiedessi agli altri partiti qualcosa di diverso da ciò che chiedevo al mio, quasi cioè che non chiedessi anche al mio partito sacrifici ponendogli limiti per il mantenimento della coalizione; quasi che questi sacrifici e questi limiti io li chiedessi ai partiti minori; e quasi io fossi un uomo del passato senza un programma proprio, con un partito senza spirito di battaglia, senza fede; e, invece, io rappresentavo una tendenza combattiva del mio partito, rappresentavo una tendenza sindacale del mio partito, rappresentavo il passato come segretario politico del Partito popolare; ero, senza dubbio, un uomo di una certa linea, di una certa fede, di un certo partito, se volete dire così: cioè, un uomo anche io di parte. Ma, se io avevo diritto di avere le stesse speranze degli altri nell’avvenire mio e del mio partito, così dovevo particolarmente concedere lo stesso diritto alle stesse speranze ai partiti governativi, ai partiti minori che avessero preso parte al governo. Qualcuno aveva sollevato il dubbio, a proposito della formazione del governo: ma c’è pericolo di un rivolgimento totale in Italia? In qualche zona, l’opinione pubblica straniera, che si occupava e si preoccupava della situazione italiana, in Francia, per esempio, tra i nostri amici che collaboravano con i socialisti si discuteva e si diceva: «qui da noi, senza dubbio, è una necessità la collaborazione dei socialisti coi cattolici e con i democratici cristiani, ma in Italia c’è la Democrazia cristiana che pensa alla funzione di baluardo; e noi possiamo quindi più liberamente consigliarla di pensare al partito». In realtà, noi pensavamo e pensiamo a difendere determinate situazioni; altri potevano pensare alle proprie condizioni economiche o alla situazione della propria categoria: chi all’avvenire della propria concentrazione, chi alle fabbriche, chi a prepararsi un alibi di fronte ad eventuali rivolgimenti. Ma doveva pur esservi qualcuno che si preoccupasse di impedire la disintegrazione del paese, di mantenere il popolo italiano amante della libertà, ma contro ogni spirito di rivolta, di concentrare gli sforzi, di difendere la democrazia contro i pericoli di destra e di sinistra, di sollevare il prestigio della nazione in politica estera, di dare pane e lavoro. A tutto questo dovevano pensare coloro che attraverso l’onorevole De Gasperi avrebbero assunto la responsabilità del governo. Dinanzi a tante obiezioni, a tante accuse, ho avuto un momento di esitazione. Perché non mi sarei comportato anch’io come, secondo l’antica vantata abilità dei nostri maggiori, si erano comportati molti uomini politici per tanti anni? Perché non rinunziare per il momento e riservarmi? Era così attraente il riposo, dopo tante fatiche! Così naturale il desiderio di misurare la propria insufficienza, la capacità dei successori. Ed in fondo, forse istintivo, v’era anche un dubbio se forze più giovani e più dinamiche non trovassero forse il modo di una tregua con l’estrema. In questo momento di dubbio, come al solito, nella mia vita degli ultimi anni, il lume mi venne dall’onorevole Togliatti. Lessi la risoluzione del Partito comunista del 14 gennaio; diceva: «1)La crisi non esce dal Parlamento, ma dai conflitti sociali del paese; un governo che superi la presente scissione del paese non può essere che un governo a cui partecipino i socialcomunisti. Ad ogni modo i comunisti chiedono come minimo indispensabile per un miglioramento della situazione presente che la direzione del nuovo governo non sia data all’onorevole De Gasperi, responsabile di aver rotto l’unità della nazione, quale si era costituita nella guerra contro il fascismo (voi sentite il tono di questo inciso, che ha tutta l’apparenza di essere stato scritto da un procuratore di Repubblica popolare), (ilarità al centro e a destra), di aver seminato nel paese odio e discordia» . Una voce all’estrema sinistra. È vero! De GasPeri. «I lavoratori non possono dimenticare che il 10 gennaio, un giorno dopo l’eccidio di Modena, mentre ancora erano aperte le bare ed insepolte le salme dei sei cittadini trucidati per la difesa degli interessi di un industriale fascista, l’onorevole De Gasperi, uomo di fiducia delle alte gerarchie della Chiesa cattolica e del Vaticano, banchettava a Roma con un gruppo di grandi industriali monopolistici. Una condotta simile, segno di veramente singolare sensibilità cristiana ed umana, urta contro il costume stesso degli italiani» . Una voce all’estrema sinistra. Giusto! De GasPeri. «2) Che dalla direzione politica interna venga escluso l’onorevole Scelba, responsabile primo degli eccidi che hanno insanguinato il paese; 3) Che vengano respinti gli impegni politici e militari del Patto atlantico, i quali trascinano l’Italia in una guerra micidiale per gli interessi di potenze straniere» . Queste accuse erano state ripetute molte altre volte, né erano valse difesa o confutazione. Anzitutto mi si rivolgeva l’accusa di essere «responsabile di aver rotto l’unità della nazione»: quale processo da imbastire, se io fossi stato ministro di una Repubblica popolare in cui Togliatti avesse preso le redini del comando! «Responsabile di aver rotto l’unità della nazione»: perché dopo tre anni di governo del Comitato di liberazione nazionale mi parve giunta l’ora di preparare il ritorno all’alternativa delle maggioranze e delle minoranze, così come vuole la democrazia; maggioranza che deve costituirsi su una piattaforma comune, minoranza che può liberamente controllare. Poi vi era l’accenno al buon costume nazionale! Questa miserabile storia di un presunto banchetto, su cui si è insistito con vignette e ingiurie sulla stampa e che fa vergogna non a me, ma a chi le ha fatte e pubblicate, quasi che io avessi assistito in quel giorno ad un banchetto di Trimalcione : voi ricordate bene che si trattava di una relazione fatta dall’onorevole Sforza intorno a trattative sul IV punto di Truman per gli investimenti per le zone depresse, e che, poiché tutti, l’onorevole Sforza e gli altri ministri, erano occupatissimi, non si era trovato altro tempo che quello della colazione per sentirla. Non vi era altro tempo in quel giorno in cui tanto ci assorbivano altre preoccupazioni. Si chiedeva poi, nel documento, l’esclusione dell’onorevole Scelba. Ho troppa esperienza, onorevole Togliatti, del metodo totalitario! L’ho fatta a spese mie. Ricordo che nel 1923 il fascismo riuscì ad escludere don Sturzo dicendo che se quel prete se ne fosse andato, la pace sarebbe stata possibile col Partito liberale, la tregua sarebbe stata naturale, spontanea. E molti l’hanno creduto, l’hanno creduto specialmente coloro che hanno influito su di lui perché se ne andasse. E poi toccò a me assumere la croce, e una campagna violenta per quattro o cinque mesi si scatenò su di me perché segretario del partito di maggioranza. Conosciamo questi sistemi. Non si tratta delle persone, non si tratta dell’uno o dell’altro, non si tratta di un successore, d’una vicenda personale: si tratta della politica generale interna ed estera. Ed è allora che è risultato chiaro, chiaro dico, dalla comprensione del testo di questa dichiarazione che il problema era più vasto e che era al di là e al di fuori delle nostre persone. E allora ho sentito il supremo dovere morale di non disertare e di fare di tutto per raccogliere le forze per consolidare una politica di democrazia e risolvere la crisi cercando la pacificazione, ma salvando l’autorità dello Stato come presidio dei diritti dei cittadini. (Applausi al centro e a destra). Concentrai allora le trattative su un programma di lavoro. Lessi (forse era la prima volta: non ricordo sia avvenuto in questa forma così precisa con altri partiti, in altre soluzioni di crisi), lessi, per la prima volta, un programma ai partiti: programma che era, sì, costituito da alcuni elementipreparati dal passato governo, ma che era anche, ormai, una elaborazione dei singoli partiti, anche dei partiti minori, con rettifiche e integrazioni che erano state proposte durante dibattiti, scambio di documenti e di lettere, in cui gli onorevoli Tremelloni, Battara , Lombardo e Fanfani avevano avuto la loro parte. Programma concreto, preciso, che doveva essere un impegno formidabile di investimenti. Dissi, durante la crisi, che avrei convocato le organizzazioni sindacali per discutere di questo programma; e aggiunsi, alla Camera: «confido che anche le organizzazioni sindacali e di categoria vorranno accordare il loro appoggio all’opera del Parlamento e del governo, sia direttamente, sia in seno al nuovo Consiglio dell’economia e del lavoro». Questo programma di lavori, in cui era innestata la ridistribuzione delle terre, era il porro unum est necessarium. Ogni altra cosa, o per i modi o per i tempi, poteva apparire, in confronto ad esso, secondaria. Lo svolgimento della crisi subì delle soste su alcuni punti: sistema elettorale, istituzione delle regioni, leggi sindacali. Il partito di maggioranza ha fatto grandi concessioni sugli stessi disegni di legge deliberati dal Consiglio dei ministri; e deliberati dopo aver consultato i partiti al governo. Voi avete sentito, dalle parole dell’onorevole Corbino, le ragioni per cui il Partito liberale non ha voluto, o non ha potuto, partecipare alla attuale combinazione governativa. Do atto all’onorevole Corbino che la dichiarazione è stata fatta in termini di estrema moderazione e con uno sforzo notevole di obiettività. Uomini che hanno il senso della tradizione costituzionale e spirito patriottico non potevano prendere diverso atteggiamento nella questione della premessa istituzionale che fu dibattuta, e nella questione della Somalia. E non trovo urgenza di polemizzare con l’onorevole Corbino circa i miliardi: perché se ci insegna a trovarli, questa sarà la più aurea opposizione ricostruttiva che si possa desiderare. E a conferma della mia tesi, ciò che importa, è la collaborazione nel Parlamento: trasferire, cioè, il servizio dell’esecutivo all’organo deliberante e viceversa. Strano, però, il manifesto del Partito liberale: diverso il tono, diverso il contenuto! Vi è una prima stizzosa affermazione: «la vita politica del nostro paese, non può, non deve ridursi all’alternativa: democrazia o comunismo» . CoCCo ortu . Democrazia cristiana! De GasPeri. …quasi che la avessimo creata noi, quasi che questa alternativa fosse artificiale, quasi che non risultasse per ragioni di forze e per ragioni oggettive. «Il Partito liberale non ha voluto partecipare all’attuale governo perché convinto di riacquistare la propria autonomia» . Nulla da obiettare; benché io debba rivendicare la opinione sempre sostenuta che, per quanto riguardava l’organizzazione interna, il movimento, lo spostamento verso l’una o l’altra delle situazioni topografiche della Camera o del paese, il Partito liberale, con il presidio della rappresentanza proporzionale, era libero come tutti gli altri partiti che facevano parte del governo, a parte naturalmente gli impegni derivanti dalla comune responsabilità delle decisioni prese in seno al Consiglio dei ministri o da disposizioni di legge. Soltanto mi pare, secondo questa strana posizione della questione, secondo l’attuale polemica dei partiti, che il gioco politico sia quasi inteso come un torneo di cavalieri, in cui si tratti di scegliere i propri avversari a seconda della loro bravura od eleganza nel maneggiare il fioretto. Senza dubbio, forse, preferirei in tal caso il fioretto elegante di qualche liberale piuttosto che la sciabola fuori ordinanza dell’onorevole Di Vittorio (si ride al centro – commenti all’estrema sinistra); ma non si tratta qui di scherma, non si tratta qui di tornei, si tratta di difendere lo Stato costituzionale; e voi mi aiuterete facendo la costituzionale opposizione? O forse vorreste essere più radicali nelle riforme, più arditi nella distribuzione delle terre, più incisivi nel combattere i monopoli? Non vi facciamo il torto, io non vi faccio il torto di chiudere la vostra evoluzione con la breccia di porta Pia e nemmeno con Vittorio Veneto, a cui accennate nella conclusione del vostro manifesto. Già Salandra nell’altra guerra nutriva la speranza che il Partito liberale si sarebbe aggiornato e ringiovanito; e in ogni modo gli scritti degli ultimi tempi –cito soltanto La terza via di Röpke – affermano che è ridicolo pensare che nel Novecento si debba essere soltanto e unicamente pedissequi imitatori dell’Ottocento. Vi sono senza dubbio nella formazione e nella tradizione del Partito liberale gli aggiornamenti che tutti i partiti, compreso il mio, hanno fatto. Tutti abbiamo imparato dalla storia, tutti abbiamo il dovere e il diritto di imparare dalla storia, di aggiornarci, di svolgere e sviluppare il pensiero guida del nostro cammino, ed abbiamo il diritto di svolgerlo per aggiornarlo. E tutti i partiti, tutti i partiti dello schieramento del 18 aprile hanno avuto la stessa libertà, anche nel periodo in cui siamo stati insieme al governo. È ridicolo polemizzare col liberalismo come si faceva cinquant’anni fa, perché evidentemente l’alternativa semplice, rude, che allora esisteva del collettivismo da una parte e del capitalismo dall’altra è stata superata perché esisteva un’economia programmatica di interventi che Röpke chiama conformi a differenza di quelli sconformi. Ad ogni modo esistono soluzioni intermedie e quindi noi aspetteremo con tranquillità l’evoluzione imposta dai fatti, e nelle discussioni valorizzeremo e valuteremo le tesi che vengono poste non per l’origine donde vengono o per l’idea fondamentale che le ispira, ma soprattutto per la praticità e l’equità che esse dimostreranno dinanzi ai singoli fatti e ai singoli problemi. (Commenti all’estrema sinistra). Un altro partito che si è occupato di questa famosa alternativa è stato il Partito socialista unitario. Mi riferisco a Lotta socialista dell’11 febbraio. Anche da questa parte viene lanciata l’accusa che la democrazia cristiana, e quindi evidentemente io stesso, ha avuto un piano infernale di adulterazione e quindi di distruzione della democrazia mercé il soffocamento di qualsiasi alternativa democratica nel governo, con conseguente dispersione ed evirazione del movimento socialista cui si vorrebbe togliere, abbracciandolo, ogni autonomia e specifico carattere. Si dice, poi, che il Partito socialista unitario, nonostante l’atteggiamento del governo, assume, sorgendo, la responsabilità e l’onore di aprire un’opposizione democratica volta a ridare alla democrazia la fiducia di poter funzionare, salvandola cioè dalla rovina cui la spingono gli opposti totalitarismi. E a questo scopo esso assume idealmente la rappresentanza politica integrale del proletariato, non potendo ammettere – come partito di classe – di dividere la rappresentanza con patti di unità d’azione o con fusioni né col partito cattolico né col Partito comunista. Questi pensieri hanno ispirato gli interventi dell’onorevole Zagari e, in parte, dell’onorevole Mondolfo. L’onorevole Zagari ha detto: «il governo ha sentito soltanto l’istanza di ordine e di conservazione. Si è chiuso in un immobilismo politico, economico e sociale per paura del nuovo. De Gasperi ha svuotato il contenuto dei partiti che stanno a sinistra del suo!» . Questi partiti hanno delle idee giuste: non vorreste che io le abbracciassi? Se essi hanno postulati che si possono dire corrispondenti ed adeguati al momento, non vorreste che io li facessi miei? Che uomo sarei – dissi – se mi fermassi dinanzi alle frontiere di ogni partito e rifiutassi dei consigli o delle proposte, semplicemente per l’origine da cui provengono? Con un riferimento all’onorevole Fanfani, l’onorevole Zagari dice: «la crisi proiettata all’esterno si è in realtà prodotta all’interno del Partito democristiano». Non si illuda l’onorevole Zagari, io sono vecchio e posso permettermi di dare dei consigli a lui, che fortunatamente è giovane Non s’illuda, nonostante i sussurri dei giornali cosiddetti fiancheggiatori; noi siamo abbastanza accorti e sensibili per assorbire ogni esigenza di giustizia sociale e di dinamismo amministrativo che emanino dalla realtà, ed è proprio per questo che abbiamo collaborato insieme con gli onorevoli Fanfani e La Pira, accompagnando la loro opera con ammirazione e convinzione, e immutata rimane la direttiva di avvicendare gli entusiasmi giovanili con l’esperienza degli anziani. (Vivi applausi al centro). Il mutare degli uomini democristiani non dipende da flessioni programmatiche, e forse, sarebbe certo meno frequente, se avesse connessione logica con l’essenza delle cose e non talvolta con circostanze esteriori ed accidentali, che turbano spesso la soluzione delle crisi; smetta, l’onorevole preopinante, per confortarsi dei propri guai interni, di speculare su nostre divisioni topografiche; i democristiani sentono che la stabilità del governo e della democrazia dipendono in gran parte dalla dinamica equilibrata della democrazia cristiana, sentono tutti, pur nella libertà dell’opinione, la responsabilità dinanzi agli elettori ed al paese, di non diminuirla e di non metterla in pericolo! (Vivi applausi al centro e a destra). Strano è che l’onorevole Mondolfo – cui porgo i miei ringraziamenti per le espressioni deferenti da lui usate verso la mia persona – addossi a me la responsabilità dei suoi guai secessionistici, mi accusi di fare il tentativo di giungere ad un sostanziale sbriciolamento dei partiti. È questa una bella fissazione! Creda, onorevole Mondolfo, se potessimo con il nostro esempio di compattezza (e sempre non possiamo dare questo esempio, ma, talvolta, nei momenti decisivi lo diamo) se noi potessimo con il nostro esempio di compattezza influire sulla compattezza del Partito socialista, ne saremmo lieti, perché riconosciamo la base, riconosciamo la giustificazione dell’unità socialista. Auguriamoci, abbiamo il diritto di farlo come italiani, che questa unità si formi su basi realistiche non su basi demagogiche, su basi le quali costituiscano princìpi reali, per la collaborazione, non dico per la collaborazione con tutti i governi, ma che non si torni indietro all’epoca in cui ogni collaborazione era interdetta. «Ciò –dice l’onorevole Mondolfo –impedisce il retto funzionamento della norma costituzionale», e mi ha citato l’esempio dell’Inghilterra . Onorevole Mondolfo, mi avrà scusato se l’ho interrotto subito, vi è di mezzo una piccola contraddizione, anzi vi sono due contraddizioni: la prima è che in Inghilterra i deputati vengono eletti con maggioranza relativa, e quando un partito raggiunge la maggioranza relativa può andare al governo: la seconda è che in Italia si è adottato il sistema proporzionale, che porta naturalmente a degli effetti di giustificata equità nella distribuzione dei mandati, e che ha riflessi anche sulla composizione dei governi. Ma, ad ogni modo, come invocate questo principio inglese voi che vi sentite lesi, se, in una discussione sul sistema elettorale per le prossime elezioni amministrative, si parla della necessità di avere una maggioranza che possa governare, voi che vi richiamate al rigore della proporzionale? Non bisogna essere in contraddizione. MonDolfo. Non v’è contraddizione. De GasPeri. Sta bene: sono persuaso che un professore come lei saprà sempre trovare la dialettica necessaria per comporre le contraddizioni. (Commenti – Si ride). Ma se il mio programma fosse davvero quello di sbriciolare i partiti, io dovrei godere della situazione socialista: un partito di più, una dispersione maggiore. E invece mi rincresce, e mi rincresce anche che non siano più con noi i liberali, mentre secondo l’onorevole Mondolfo essi avrebbero frenato l’invadenza clericale. Ma allora perché rimproverate ai vostri compagni di essere rimasti? MonDolfo. Perché sono clericali! (Generali commenti – Si ride). De GasPeri. Ma sperate di potervi ricredere: lo credo anch’io. E adesso vorrei rispondere all’onorevole Nenni . Benché a me personalmente spiaccia che uomini più o meno autorevoli del nostro partito offrano troppo spesso all’onorevole Nenni il pretesto di indorare con dati apparentemente oggettivi la sua polemica – egli ha citato luoghi di nostri articoli che tali fermenti portino ad una «politica nuova» – gli rispondo: se «una politica nuova» vuol dire adeguarsi socialmente, rinnovarsi, allora noi siamo d’accordo; ma se «nuova» vuol dire, per l’interno e per l’estero, una politica di debolezza che ci porti ad una disintegrazione nazionale, no, in nessun caso, finché sentiamo la responsabilità del mandato popolare! (Applausi al centro e a destra). Intendo rispondere ad altri due quesiti posti dall’onorevole Nenni: quello relativo agli atti esecutivi del Patto atlantico (armamenti) e quello relativo ai rapporti fra Stato e Chiesa. Per quanto riguarda le critiche sulla politica del Patto atlantico e su alcuni dati specifici di essa, tutto è stato detto e tutto è stato discusso di fronte al Parlamento che ha deliberato; ma, circa alcune critiche specifiche sull’attuazione del Patto atlantico, intendo soffermarmi per ristabilire la verità dei fatti. L’onorevole Nenni ha chiesto al governo se esso ritenga garantita la sicurezza del paese nell’attuale schieramento politico e morale del mondo e se la ritenga garantita dagli aiuti militari del Patto atlantico, dal suo programma di armamenti. La mia risposta è che non vedo altra garanzia per la sicurezza del paese e della pace se non quella di mobilitare in tutti i paesi quelle forze che vogliono sinceramente la pace e che lavorano per essa a fatti e non a parole. Proprio con tale spirito il governo ha propugnato l’adesione dell’Italia al Patto atlantico, in quanto esclusivamente destinato a potenziare le capacità difensive dei suoi membri, quale strumento di pace e non di guerra. Parlare poi di partecipazione dell’Italia a corse di armamenti, quando si hanno davanti agli occhi i bilanci militari, e più che il loro ammontare la impostazione di essi, è veramente dire troppo. Tutto ciò che ci viene dall’America non basta a raggiungere quel minimo che avversari potenti e ostili ci hanno nel trattato concesso. nenni. Bella confessione! (Commenti). De GasPeri. Vuol dire, onorevole Nenni, che noi ci arriveremo un po’ alla volta. Ma se ella ha realmente fede nella sua tesi della neutralità, non capisco perché fa questa obiezione. (Applausi al centro e a destra). Lo scambio di note testé avvenuto a Washington, ad esecuzione dell’impegno di reciproca assistenza per mutua difesa della pace e sul quale si appuntano le armi della propaganda di opposizione, non è che il mezzo per rendere possibile un migliore equipaggiamento e l’armamento delle nostre forze a tutela di quella sicurezza del paese che deve costituire sempre il primo dovere di ogni governo consapevole delle proprie responsabilità. Non vi è nulla, come risulta dal loro testo, che consenta di pensare a questi impegni o a quelle interpretazioni su cui si è concentrata la critica dell’opposizione. Non solo non esiste in esso alcun impegno che ci vincoli ad un programma di riarmo superiore alle nostre modestissime possibilità, ma è specificatamente detto che è la ricostruzione economica che è essenziale alla pace e alla sicurezza internazionali, e che è la ricostruzione economica che deve avere chiara priorità. Posso anche aggiungere che se si prospetta qualche possibilità di incremento in qualche ramo di interesse militare, si tratta di rami di attività che sono molto più vicini alla produzione civile che non a quella bellica. Quanto poi alla funzione del cosiddetto «controllore» americano, come è chiamato il funzionario che aiuta l’ambasciatore degli Stati Uniti in questo programma di mutua assistenza, essa non eccede i limiti normali delle funzioni diplomatiche già assegnate per uno specifico settore. Vi è infine un altro punto molto grave cui vorrei accennare. L’onorevole Nenni ha parlato di atti esecutivi, o di tentativo di atti esecutivi, che partono dal movimento operaio o dei partigiani della pace in risposta alla fase di esecuzione del Patto atlantico. Una volta ristabilita la verità sulla portata e sulla natura di un’azione che ha per unico scopo di mantenere la pace e la sicurezza del paese nel quadro degli accordi, è chiaro che gli atti esecutivi di cui ha parlato l’onorevole Nenni assumerebbero un sapore di attentato a quella pace e a quella sicurezza del paese cui tutti gli italiani fuori e dentro il Parlamento devono assolutamente mirare. (Vivi applausi al centro e a destra). Una voce al centro. È ora di prevenire questi tentativi, onorevole De Gasperi. De GasPeri. L’onorevole Nenni ha ricordato il fatto personale della polemica avvenuta tra me e lui circa i rapporti fra Stato e Chiesa. Ecco quanto io dissi al Senato (leggo dal Resoconto sommario): «De Gasperi ricorda che, nella definizione autorevolmente data dall’onorevole Nenni ad un convegno responsabile di intellettuali di sinistra, laicismo significa separazione netta fra lo Stato e la Chiesa e l’abolizione dell’insegnamento religioso in ogni scuola». L’onorevole Nenni affermava anche che il Partito socialista non combatte la religione ma le Chiese. Nel corso del convegno socialista si chiedeva infine, se non la revisione del Concordato, almeno la revisione dell’articolo 7 della Costituzione che regola i rapporti fra Stato e Chiesa. «Nella sua replica (è la mia replica), De Gasperi si chiede se con ciò si intenda riaprire il conflitto fra Chiesa e Stato, riaprire un problema tanto delicato, infirmare la Carta costituzionale. De Gasperi replica che il bersaglio della mozione socialista è assai chiaro: è la Chiesa cattolica; e poiché per i cattolici la religione è quella al cui magistero presiede la Chiesa cattolica, offendendo la Chiesa si offende la religione. De Gasperi afferma che tutte le religioni godono in Italia di quella tolleranza che è una conquista della civiltà; quando però dalla opposizione si attacca la Chiesa cattolica, si attacca qualche cosa di sacro e di secolare e di profondamente radicato nella coscienza del popolo italiano. Soprattutto si ferisce la convinzione saldamente professata che la Chiesa cattolica è progresso di civiltà. Rimane però ben fermo che nell’ambito dello Stato tutti hanno il diritto di attaccare qualsiasi istituto religioso, perché per fortuna l’Italia non è ancora un paese di democrazia popolare. Quello su cui insisto e per cui vi scongiuro è di mantenere la pace religiosa». Questo, onorevole Nenni, è quello che io ho detto: niente di più. Io non ho affatto parlato come un crociato o un difensore della propria tesi; ho parlato come presidente del Consiglio, come uomo responsabile dell’andamento della cosa pubblica; soprattutto come uomo preoccupato che i conflitti religiosi non vengano a complicare la già affaticata nostra vita pubblica. È per questo ed in questo senso che ho fatto quella interruzione e che ho detto di non turbare la pace religiosa: non si tratta di fanatismo, ma di una sana preoccupazione che non si ricominci una guerra religiosa. Del resto, onorevole Nenni, ella, nel corso delle discussioni alla Costituente, ha avuto dei momenti molto chiari e delle espressioni molto vicine alle mie. Il 10 marzo 1947 ella ha detto: «quando si vuole affrontate e risolvere una questione sociale di importanza capitale, come la questione agraria, non si aizzano i contadini contro i preti e non si dà occasione al prete di difendere gli interessi degli agrari aizzando i contadini contro la Chiesa. A questo proposito io mi permetto di ricordare che nessuno di noi pensa di mettere in discussione il trattato del Laterano né promuovere discussioni unilaterali del Concordato. Anche la più piccola delle riforme agrarie mi interessa e ci interessa di più della revisione del Concordato. Noi dobbiamo quindi promuovere quella che l’onorevole Tupini ha chiamato la pace religiosa» . nenni. I tempi sono cambiati. De GasPeri. Sono cambiati i tempi, ma la riforma agraria è sul tappeto oggi e non vi era allora. Io capisco, onorevole Nenni, che lei considera le cose più importanti o meno importanti dal punto di vista della rappresaglia: poiché la Chiesa ha fatto questo, bisogna fare una rappresaglia e attaccarla entro la sua cinta. Torno ad affermare che voi, come qualsiasi altro partito, avete il diritto di proporre delle modificazioni ai patti lateranensi, modificazioni che del testo sono previste anche dalla Costituzione, purché siano bilaterali. Ma con la vostra motivazione, col vostro atto, è evidente che si tratta di ostilità e di rappresaglia contro l’istituto che è caro alla grandissima maggioranza del popolo italiano. leone-MarChesano. Il guaio è la confusione fra Chiesa e democrazia cristiana. (Commenti al centro). La Chiesa non è la democrazia cristiana. De GasPeri. Non ho mai detto che la Chiesa sia la Democrazia cristiana e credo che non sia nemmeno il Partito monarchico, per esempio. (Commenti). Passiamo ad altri argomenti. L’onorevole Nenni, interpretando a modo suo le mie dichiarazioni al Consiglio nazionale del 20 dicembre , quando dicevo che gran parte delle discussioni sui tempi nuovi muovono dal presupposto che lo Stato democratico sia veramente consolidato, suppone che abbia messo fra i tre partiti che sono al di fuori del riconoscimento democratico anche il suo. È un errore. Dicevo: lasciamo stare che già tre partiti non si possono considerare come sostenitori dell’attuale sistema democratico repubblicano (e lo dicevo così, en passant), ma si tratta… (Commenti all’estrema sinistra). Un momento: è chiarissimo. Si tratta soprattutto della coscienza repubblicana; ed ex cathedra dirà che nel trinomio non v’è affatto il Partito socialista. Io penso che il Partito socialista, specialmente nella sua evoluzione di questi ultimi tempi, sia democratico come gli altri; non si comporta sempre così, ma nei suoi princìpi non v’è una pregiudiziale contro la democrazia, contro la Repubblica. (Commenti all’estrema sinistra). Perché, onorevole Nenni, vuole includere il Partito socialista nel trinomio? Ha fatto male i calcoli. Sono altri tre i partiti che fanno parte del trinomio. Pregiudizialmente non va incluso, perché non credo che, programmaticamente, il Partito socialista tenda ad una Repubblica popolare di tipo sovietico; né posso supporre che abbia aspirazioni monarchiche o fasciste. Penso anzi che, se la Repubblica fosse in pericolo, voi socialisti la difendereste. Ma siete ciechi? Vi dico che la Repubblica, e più che la forma, l’essenza della democrazia, sono in pericolo quando perde la sua efficacia l’applicazione della legge e quando ai trattati voi opponete la resistenza attiva: allora mettete in pericolo la Repubblica e mettete in pericolo la democrazia. (Vivi applausi al centro e a destra). La mettete in pericolo quando, contro il Parlamento, vi appellate alle agitazioni di massa, con le quali indebolite la forza dello Stato democratico repubblicano e togliete al popolo la fede che esso sia definitivo. Se l’onorevole Nenni vorrà in ciò distinguersi dalla dottrina e dalla prassi comunista, saremo ben lieti di riconoscerlo. (Commenti). CiMenti . Non è capace di svincolarsi. De GasPeri. Egli aggiunge, parlando del fascismo e del neofascismo, questa abile frase: «il neofascismo che si ignora, il neofascismo pericoloso non è quello di piazza (tutte cose che si dicevano nel 1921 e purtroppo erano false, ma andiamo avanti); è quello di coloro che offrono all’estrema destra la giustificazione storica e politica di considerarlo come una reazione legittima, col pretesto degli eccessi dell’estrema sinistra». Giustificazione? No. Reazione legittima? No; ma pretesto facile a provocare le decisioni, sì. Fu la verità del 1921 e del 1922, e l’inizio oggi mi fa spavento. Soprattutto mi sorprende che lo si prenda un’altra volta così alla leggera. Mi ricordo che, nel 1922, queste discussioni si facevano con uomini più autorevoli di me e forse anche dell’onorevole Nenni – con Turati, per esempio – e si era ben convinti che conveniva necessariamente tagliare la prassi degli innumerevoli scioperi e delle grandi agitazioni; si sentiva il pericolo della reazione. Però, ad un certo momento, il romanticismo della prima età prendeva il sopravvento anche in uomini superiori come Turati. Mi ricordo che, dopo una discussione fatta assieme in Parlamento, allorché avemmo notizia del famoso sciopero del luglio, egli si allontanò da me dicendo: «vado, vado, debbo andare; gli operai rappresentano la libertà!»; e così se ne andò. (Commenti). Una voce all’estrema sinistra. Ma lei non andò! De GasPeri. Non andai; sarei potuto andare se lo avessi ritenuto opportuno. Riconosco che i tentativi dei partiti che hanno creduto di poter domare questo movimento nella pratica parlamentare siano stati tentativi onesti, che hanno avuto dura fine. Mi ricordo – prima all’Aventino, e più tardi nel periodo clandestino – che fra antifascisti di vecchia data si diceva sempre così: «ormai abbiamo imparato; lo Stato democratico fin da principio deve difendere, con la sua autorità, la sua liberà di dirigere. Bisogna difendersi in ogni direzione, verso ogni fronte». E allora ci ricordavamo che Mussolini era venuto dalla sinistra. Lo so: azioni popolari e sociali; lo so: azione preventiva; questa è più necessaria, ma ad un certo momento, quando le agitazioni crescono, quando il pericolo è evidente, allora ci sono i limiti delle agitazioni e ci sono i limiti della libertà. Bisogna che lo Stato abbia la forza di volontà di segnare questi limiti, altrimenti, di fronte alla pressione dell’uno o dell’altro estremo, capitolerà. E vorrei che tutti i socialisti, almeno i vecchi socialisti, che erano con me in quei tempi, sentissero questa verità e la professassero coraggiosamente. Darebbero l’esempio di una politica veramente costruttiva, darebbero l’esempio di una preoccupazione democratica che oggi è più che mai necessaria. (Applausi al centro e a destra). Bisogna andare contro le cause, ma è teoria che si possa sempre avere il tempo di andare in via preventiva contro tutte le cause; talvolta bisogna arrestare i movimenti, e arrestarli con autorità. (Rumori all’estrema sinistra). Non voi fate obiezioni, dai vostri banchi! Voi la conoscete bene l’arte di imporre, ad un certo momento, l’autorità dello Stato! (Applausi al centro e a destra – Proteste all’estrema sinistra). Lasciatemi continuare il mio dialogo con l’onorevole Nenni, che mi ha rimproverato di non voler fare questo dialogo, mentre io cercherò d’inoltrarmi invece su questa via. L’onorevole Nenni ha una predilezione per i ricorsi storici. La sua scorribanda è andata da Pelloux a Matteotti, a Monaco, a Dollfuss e a Modena. A proposito degli eccidi, è proprio vero che tali fatti deprecabili e dolorosi avvengono solo perché c’è, al governo, lo spirito reazionario nero o perché i carabinieri hanno istruzioni particolarmente crudeli o perché tengono i mitra…? Anche l’onorevole Di Vittorio, se ben ricordo, non so se nel suo ultimo discorso o in un altro, ha esaltato, nei confronti della politica di Scelba, la politica tollerante di Giolitti, che lasciava occupare le fabbriche senza intervenire. Le leggende si fanno e si disfano facilmente. Ho fatto rilevare i conflitti di carattere sindacale. Non mi sono occupato dei conflitti tra fascisti e non fascisti dell’epoca. Ho fatto rilevare i conflitti nel campo sindacale fra la forza pubblica e i dimostranti negli anni 1919-19201921, sotto il ministero Nitti e sotto il ministero Giolitti: anno 1919, ministero Nitti: dall’8 ottobre al 23 dicembre 1919 quattro conflitti; il più grave è quello di Riesi in provincia di Caltanissetta: 10 morti e 50 feriti, 1 morto e 5 feriti tra la forza pubblica. Anno 1920, ministero Nitti ancora: dal 20 marzo 1920 all’11 giugno 1920: 37 conflitti a fuoco. Morti quasi ovunque; i più gravi conflitti sono quelli dell’Emilia: 5 aprile 1920, a Decima di Persiceto: 8 morti; Modena 7 aprile 1920: quattro morti; Mascioni (Aquila): tre morti. E qui i conflitti talvolta sono con le organizzazioni rosse ed anche con le organizzazioni bianche. E c’erano le armi; e feriti fra i carabinieri. Anno 1920, ministero Giolitti: dal 1920 in poi fino al 1921… (Rumori all’estrema sinistra). tonenGo . Non attaccate Giolitti, che è piemontese autentico. È un puro, Giolitti! De GasPeri. Dal 1920 al 1921: ventidue conflitti. A Legnano un morto, a Terranova, l’ultimo il 15 ottobre 1921… Grilli . Tutti crimini della borghesia italiana!… tonenGo. Se l’acqua è pulita voi non pescate. Voi pescate solo nell’acqua torbida!… (Rumori all’estrema sinistra). De GasPeri. Poi, dopo il 1921, per più di vent’anni, nessun conflitto. Volete voi arrivare alla stessa situazione? Volete voi che la gente cominci a credere che ci vuole la dittatura per impedire i conflitti? (Vivi applausi al centro e a destra – Rumori all’estrema sinistra). A me pare, onorevoli colleghi, che questa serie di fatti e questa loro interruzione diano molto da pensare. Chi ama la libertà sa che essa costa dei sacrifici, ma sa che la libertà non si difende che con l’autorità dello Stato, con l’ordine che lo Stato deve imporre. E chi deve saperlo è soprattutto il Parlamento, contro il quale queste agitazioni, in fondo, finiscono per operare… (Applausi al centro e a destra – Proteste all’estrema sinistra). E il governo che ha la responsabilità del potere esecutivo, deve affrontare anche l’impopolarità e non importa che veniate qui ad accusarmi, a mettermi sul banco dell’accusa e a buttarmi in faccia i vostri morti. (Applausi al centro e a destra – Rumori all’estrema sinistra). Non è il caso di intrattenersi sui fatti di Modena. Quando sarà il caso, il governo fornirà alla Camera tutti gli elementi. L’autorità giudiziaria sentenzierà sullo svolgimento dei singoli episodi del tragico conflitto. (Commenti all’estrema sinistra). Ma potete davvero ritenere che chi ha mobilitato tutta la provincia e ha fatto venire da fuori provincia migliaia di elementi non direttamente interessati alla vertenza sindacale – specie alcuni che, recentemente, l’amnistia di Natale ha tolto dal carcere – per compiere una dimostrazione di forza… (Vivissimi rumori all’estrema sinistra – Proteste dei deputati Togliatti e Pajetta Gian Carlo – Vivissimi applausi al centro e a destra – Agitazione). PresiDente. Onorevoli colleghi, si calmino: consentano all’onorevole presidente del Consiglio di completare il suo pensiero. Prosegua, onorevole presidente del Consiglio. De GasPeri. Il fatto, onorevoli colleghi, è documentato e documentabile. Ma io non ne traggo altro che questa illazione: che partecipavano persone le quali non erano direttamente interessate, (proteste all’estrema sinistra), e che erano appena uscite dal carcere in seguito all’amnistia. (Vive proteste all’estrema sinistra). Pajetta Gian Carlo. Avevano il condono dell’anno santo! (Vive proteste al centro e a destra – Rumori all’estrema sinistra). De GasPeri. Si dice che i morti sono solo da una parte, dalla parte dei lavoratori, di quelli comunisti si intende dire: nulla di più falso. Ieri alle assise di Lucca si è iniziato il processo per l’uccisione del maresciallo dei carabinieri Virgilio Ranieri … sala . Ci parli dei morti di Melissa! De GasPeri. …ucciso con arma bianca, denudato e seviziato. A giorni alle assise di Viterbo si inizierà il processo per l’assassinio del carabiniere Minolfo Masci , anch’egli brutalmente ucciso. Non molte settimane fa venivano condannati gli autori dell’assassinio dell’agente di pubblica sicurezza Vittorio Candela , ucciso a Modena. Nello stesso tempo alle assise di Viterbo venivano condannati gli assassini di Giuseppe Fanin. È di tre giorni or sono il giudizio alle assise di Roma contro gli uccisori del giovane Gervasio Federici, mentre presso altre corti di assise si giudicheranno gli autori dell’assassinio dei partigiani di Porzus. Pajetta Gian Carlo. Quando farete il processo al questore di Modena? De GasPeri. Anche questi sono morti che meritano la nostra pietà e lo sdegno contro chi ne ha causato la morte, anche se nessuno ha fatto per essi uno sciopero generale o ha ispirato qualsiasi altra dimostrazione. (Applausi al centro e a destra – Rumori all’estrema sinistra). Non erano passate due ore dalla chiusura della parata parlamentare di Modena e pochi minuti dalla presentazione della denuncia contro il prefetto… (Vivissime proteste e rumori all’estrema sinistra – Commenti e rumori al centro e a destra – Apostrofi dall’estrema sinistra all’indirizzo del presidente del Consiglio – Vivissimi applausi al centro e a destra rivolti al presidente del Consiglio – Vivace scambio di apostrofi tra l’estrema sinistra e gli altri settori – Ripetuti richiami del presidente – Alcuni deputati dell’estrema sinistra scendono nell’emiciclo – Agitazione – Tumulto). [La seduta è sospesa; il presidente del Consiglio prosegue successivamente il suo intervento]. De GasPeri. (I deputati del centro e della destra in piedi applaudono vivissimamente – Commenti all’estrema sinistra). Onorevoli colleghi, sembrava che la distensione consistesse nell’accettare il piano della Cgil. Già una prima volta ho risposto al riguardo. Nella ricerca di tutti i mezzi per combattere la disoccupazione, esamineremo anche il piano della Cgil, in quanto lo si presenti con elementi concreti di finanziamento e di attuazione. Comunque, noi abbiamo presentato un piano straordinario per le zone depresse: discutiamolo. La Camera potrà, se occorre, integrarlo o migliorarlo. Non vi sarebbe, in questa naturale collaborazione parlamentare, una ragione di distensione? Si. Ma l’onorevole Di Vittorio soggiunge: «questa distensione è subordinata anche ad una politica di pace e di relazioni amichevoli con tutte le nazioni, nessuna esclusa. I lavoratori della Cgil hanno chiesto al governo di rigettare gli impegni assunti con il Patto atlantico. Il lavoratore dice: mi rifiuto di lavorare per costruire strumenti di guerra e di distruzione». Il resoconto dal quale desumo questa citazione dice, poi, che egli (cioè l’onorevole Di Vittorio) manda un saluto ai portuali e a quanti sono scesi in lotta per difendere la pace. A questa povera Italia deve essere, dunque, impedito di raggiungere anche quel minimo di mezzi di difesa che le concede l’avaro e iniquo trattato?! Ciò che le hanno concesso i potenti vincitori le deve essere impedito dall’azione sovvertitrice interna e, a tale finalità, sabotatrice?! A ciò si subordina ogni azione di interesse veramente sindacale. A ciò tende tutta l’azione delle agitazioni invernali e primaverili che si preparano. Ho qui dinanzi, onorevoli colleghi, un «bollettino di agitazioni…». Una voce all’estrema sinistra. Non ha un bollettino dei licenziamenti? De GasPeri. La federazione provinciale comunista e la federterra di Venezia stanno organizzando in tutta la provincia una grande agitazione agricola. Le ragioni sono esposte in un bollettino nel quale, a pagina 2, si dice: «Perché si mettono in lotta i disoccupati? La confederterra chiedeva un decreto per il massimo impiego di manodopera in agricoltura che assicurasse ai braccianti 85 giornate ettaro, in media, per anno nelle zone di Cavarzere e Chioggia e per due anni nelle restanti zone. Contro la proposta della confederterra, la commissione provinciale per l’imponibile ha deciso di concedere 73 giornate in media ed il prefetto si prestava ad emettere in questo senso un provvedimento straordinario che, oltre ad essere insufficiente per le esigenze delle aziende, veniva a ledere l’interesse della manodopera. Questo piano di attacco (è sempre il testo del bollettino che leggo) contro gli interessi economici e politici dei lavoratori va visto nel quadro più vasto dell’offensiva capitalista contro l’industria nazionale, di cui abbiamo un esempio significativo alla Breda di Marghera ed in tutto il complesso industriale. Cacciare indietro le forze del padronato, conquistare delle posizioni più avanzate nel campo agricolo, nella difesa delle libertà sindacali e politiche, nell’interesse supremo della pace, per il rafforzamento delle organizzazioni dei lavoratori: ecco le ragioni concrete del movimento. (Commenti all’estrema sinistra). Tattica della lotta: il comitato provinciale di rivendicazione ha deciso lo sviluppo della agitazione nella zona fondiaria della provincia». E segue questo inciso: «in passato si è sempre lottato con lo sciopero, cioè con l’astensione dal lavoro. Oggi è necessario servirsi di una forma diversa di lotta, di impostazione di lavoro in applicazione delle leggi calpestate dagli agrari, mediante l’avvio di squadre nelle aziende per fare lavori di miglioria ed iniziare lavori pubblici». (Commenti all’estrema sinistra). sPallone . Tutti i sacerdoti hanno accettato questo programma! De GasPeri. Nell’ultima parte vi sono le obiezioni e le istruzioni per la lotta: «A coloro che dicono: interverrà la “celere” e quindi non facciamo la lotta, bisogna rispondere: non c’è lotta di lavoratori che non comporti lotta del governo e degli agrari contro i lavoratori; questo è avvenuto anche durante lo sciopero precedente e, a volte, in forme violente, ma non per questo non bisogna lottare, anzi, appunto per questo, occorre battersi. È certo che la polizia cercherà con ogni mezzo di fermare il movimento e che i lavoratori dovranno sopportare sacrifici, ma solo a queste condizioni potranno vincere. D’altra parte, la polizia troverà di difficile attuazione il suo disegno, poiché vi è una linea di fronte dall’Adige al Tagliamento formata dai lavoratori in lotta. A coloro che chiedono chi pagherà quando saranno compiuti i lavori, si risponde: gli agrari non verseranno spontaneamente quanto devono ai lavoratori per i lavori eseguiti e neppure gli enti preposti ai lavori pubblici. Questo è certo. Ma ad una sola condizione, e cioè che i lavoratori, specialmente le loro donne, lottino decisamente per costringere l’agrario a pagare. A coloro che dicono: ma voi violate la proprietà; vi imponete con la forza; aspettiamo quello che fanno le autorità; si risponde: le autorità hanno dimostrato di essere indifferenti e ostili verso i lavoratori, appoggiano gli agrari. Noi vogliamo l’applicazione della legge, e non abbiamo altra via di lotta». Grilli. Sono proibite queste cose? De GasPeri. Ho portato quest’esempio di un nuovo metodo di lotta, il quale potrà portare a forti agitazioni e a nuovi conflitti, (interruzioni all’estrema sinistra), non per fare mia la decisione di quella commissione provinciale, non per entrare nel merito della questione sindacale, ma per la preoccupazione che questi movimenti possano far nascere nuovi conflitti. Lo debbo dire qui dinanzi al Parlamento, perché se noi daremo tutti gli ordini che potremo dare, tutte le istruzioni che si possano dare, perché nessun conflitto avvenga, possiamo dare l’ordine che voglia dire rifiuto di applicare la legge, o di difendere i diritti dei cittadini? (Applausi al centro e a destra – Rumori all’estrema sinistra). Ho portato questo esempio perché temo si tratti non di un episodio isolato, ma di un sistema che si vuole introdurre. E debbo fare appello alle organizzazioni perché in tutti i modi cerchino la via della conciliazione e della mediazione. (Commenti all’estrema sinistra). Il governo le favorirà. Ma gli organizzatori debbono sapere che v’è responsabilità morale per il governo, come esiste una responsabilità morale per gli organizzatori. (Applausi al centro e a destra). Ecco, procedendo lo sviluppo della crisi, ecco l’onorevole Togliatti riassumere il significato del nostro ministero, inquadrandolo, (interruzioni del deputato Semeraro Santo – richiamo del presidente), nella situazione agitatoria del paese, inserendolo nella situazione internazionale. Le discussioni di topografia parlamentare (sinistra, destra) – secondo il pensiero dell’onorevole Togliatti – scompaiono; le questioni di struttura (chi sta dentro al ministero, chi sta fuori) sono secondarie; l’alternativa da crearsi nell’interesse dei gruppi minori è un bisticcio del parlamentarismo o del cretinismo parlamentare, come si è detto citando Marx . E anche il dialogo che ricerca l’onorevole Nenni appare come una schermaglia accademica. La risoluzione del dialogo, proclama l’onorevole Togliatti, è fuori del Parlamento, è nelle agitazioni, è nella lotta delle masse. Ecco il commento autorizzato e autorevole de l’Unità dell’11 febbraio: «col discorso di Togliatti è entrato, nel dibattito per la crisi, il movimento popolare italiano, ed è entrato come protagonista, con le sue lotte eroiche, coi suoi sacrifici, con le centinaia e centinaia di battaglie combattute, con le sue sofferenze, i suoi martiri, le sue conquiste. Questa crisi è la crisi che i lavoratori italiani hanno imposto, così ha detto Togliatti» . E, più sotto: «l’opposizione guarda oltre la schermaglia parlamentare e oltre il voto ed esprime una parola di fiducia e un invito di combattimento. (Applausi all’estrema sinistra – Commenti al centro e a destra). Andare avanti, allargare la lotta dal settore della politica economica a tutti i campi della vita nazionale e a quello decisivo che riguarda la pace e la vita dei cittadini» . Ecco i fatti. Ecco, secondo l’onorevole Togliatti, l’origine della crisi. Queste poi sono parole che egli ha detto qui: «il problema centrale di questa crisi è sgorgato da un’azione di popolo e di classi ampia, lunga, paziente che dura da due, tre anni. Si tratta di centinaia, di migliaia, forse, di movimenti economici e politici, di interruzioni di lavoro, di occupazioni di fabbriche e di terre, di scioperi, in cui gli operai, i tecnici, gli impiegati, i contadini, la parte più viva e sana della nazione, hanno combattuto per qualche cosa di elementare. Quei conflitti hanno sorpreso, spaventato. Ricordiamo, infine, gli episodi culminanti di questa azione di massa: lo sciopero impressionante dei braccianti della primavera passata, la nuova spinta dei contadini meridionali per la conquista, della terra, così forte che non ha potuto esser contenuta da nessuno, né dalla legge, né dalla polizia. E poi, alla fine, i conflitti, quei conflitti che hanno sorpreso, spaventato, terrorizzato gli onesti cittadini, ma che rimangono come punto di arrivo di un processo lungo che in pari tempo è economico e politico, come indice di una situazione che non si può più tollerare!» . Ma ora si fa un passo avanti: «la crisi attuale – dice l’onorevole Togliatti – è la crisi del sistema atlantico occidentale. Fallito il piano ERP, insidiato il piano della liberalizzazione dell’OECE, perché entrambi al servizio dell’imperialismo americano, scalfito o ignorato ogni onesto tentativo di costituire una Europa capace di un’azione autonoma e pacificatrice, non rimangono di fronte che la Russia, che vuole la pace, agnello senza unghie in mezzo ai lupi, e la politica americana che supera i limiti della pazzia» . È inutile dire che noi rifiutiamo questa alternativa. È inutile dire che, se la Russia ha veramente intenzioni pacifiche, la democrazia americana ci aiuta rafforzando economicamente e militarmente in Europa la compagine dei popoli lavoratori che vogliono la giustizia sociale e la pace, onde si può guardare con fede l’avvenire. L’onorevole Togliatti è tutto preso dalla sua visione apocalittica, dalla sua tesi finalistica: bisogna andare avanti, allargare il fronte, avanti con le agitazioni e con le lotte sindacali in forme diverse che oltrepassano il diritto di sciopero, creare, di fatto, un diritto al sabotaggio. Che importano i milioni di ore di lavoro perduto, il sabotaggio della produzione, gli stessi conflitti di sangue? (Proteste all’estrema sinistra). È il governo che, in ogni caso, potrà essere proclamato responsabile di tutto e di tutti. Su di esso si riversa ogni colpa, e ad esso non si riconosce alcun merito. Questo governo può ben fingersi mediatore dei conflitti sociali, anche quando in piccole riunioni si invoca o si accetta il suo onesto intervento, ed in pubblici comizi lo si presenta come il servo degli industriali monopolistici. Esso può ben attuare la riforma fondiaria dandone un saggio pratico nella Sila, ove confisca le terre per darle ai contadini, ma esso rimane l’organo della proprietà agraria. Esso può assumere impegni onerosi di opere pubbliche per dare lavoro agli operai e ai contadini: i miliardi proposti si considerano risibili e quasi una sfida alla miseria. La legge, la Repubblica, il Parlamento? «L’azione degli scaricatori dei porti per non scaricare le armi inviate dall’America – conclude l’onorevole Togliatti – un’azione sacrosanta. Non si offende il Parlamento conducendo la lotta contro il governo fuori del Parlamento. La lotta dei lavoratori contro la guerra è sempre andata al di là e al di sopra dell’ambito parlamentare. Il contrario giudizio che qui ho sentito esprimere fa parte di quel cretinismo parlamentare, che i marxisti hanno sempre denunciato. Le armi americane sono il segno del nostro asservimento e di una politica di distruzione» . Terribile logica, questa, che risale ai princìpi e alla prassi leninisti, che si riconduce alle dichiarazioni di Togliatti, Scoccimarro e Secchia, secondo i quali la guerra esterna provocherebbe la guerra civile, e all’atteggiamento avvelenatore di odio che tanto si diffonde tra il popolo. Lo sappiamo, onorevoli colleghi, che voi fate ogni sforzo per accrescere l’animosità contro di noi. (Interruzioni all’estrema sinistra). Qui mandate avanti, talvolta, o permettete che facciano da cortina fumogena e da patrocinatori della distensione, uomini come gli onorevoli Donati e Lombardi che, con tono da pastori puritani, ci chiedono: perché rifiutate la mano tesa? Ma, fuori, l’onorevole Secchia insegna ai suoi quadri: «si tratta – ha detto in un discorso a Roma – di spiegare a ogni operaio, a ogni contadino onesto il significato reale degli eccidi di Melissa, di Montescaglioso e della strage di Modena. Ogni comunista, ogni democratico, ha il dovere di spiegare ogni giorno al compagno di lavoro, ai suoi conoscenti, a ogni lavoratore, che il governo clericale è direttamente responsabile degli eccidi che si sono susseguiti a ritmo accelerato. Con un lavoro minuto, insistente, ogni giorno, bisogna far comprendere ciò a tutti i cittadini». Una voce all’estrema sinistra. Bravo Secchia! (Applausi all’estrema sinistra – Vive proteste al centro e a destra). De GasPeri. «E se, malgrado i nostri sforzi – ha proseguito l’onorevole Secchia – un nuovo delitto dovesse essere consumato, ebbene, lo sdegno e la risposta dei lavoratori saranno tanto più forti, larghi, efficaci, quanto più ampio è stato il successo che noi avremo trovato fino ad oggi per rafforzare l’unità delle classi lavoratrici e per realizzare il fronte unico di tutti i lavoratori. Solo con questa nostra azione vasta, intensa, quotidiana, che deve impegnare tutti, noi riusciremo a creare quel gran movimento di uomini che imporrà al governo il rispetto della libertà, della vita dei cittadini e della Costituzione» . Sappiamo quanto sia difficile penetrare attraverso questa cortina di una propaganda così insidiosa. Sappiamo quanta distanza si crei fra il cuore e il sentimento dei lavoratori onesti e i nostri sforzi onesti. Prenderemo tutti i provvedimenti che suggeriscono la prudenza e la fermezza. Tutti dobbiamo sforzarci di penetrare al di là di questa cortina di odio, e di persuadere gli operai che siamo uomini di buona volontà, che facciamo ogni sforzo per dare lavoro e creare giustizia. (Applausi al centro e a destra). Non si può fare tutto di un colpo; non si possono guarire improvvisamente le ferite inferte dalla guerra. Lavoriamo per la pace. Ma, pena la morte della nazione, non possiamo permettere violenze, illegalità, sopraffazioni. Una voce all’estrema sinistra. Ma nemmeno noi! De GasPeri. Ricordiamo agli industriali, e ai padroni in genere il sacrosanto dovere che emana dalla funzione sociale della proprietà. (Interruzioni all’estrema sinistra). Chiediamo il concorso delle organizzazioni operaie, ci appelliamo al buon senso dei lavoratori; ma la legge è la legge e il diritto è il diritto, e lo Stato deve garantire il diritto. (Applausi al centro e a destra). Non voglio mettere in dubbio la buona fede e la buona volontà dei dirigenti delle organizzazioni. Ma, se qualche agente provocatore accenderà la scintilla di un conflitto, non venite qui su questi banchi a gridarci: assassini! L’accusa rimbalzerebbe sui provocatori. Grilli. Ha niente da dire contro i padroni? De GasPeri. Ne ho parlato adesso. invernizzi Gaetano. Ci parli delle fabbriche chiuse! Calasso . Hai concordato il discorso con Rodinò! De GasPeri. Chi è costui? Calasso. Non lo sai? È il presidente della Confida. De GasPeri. A lei, giovanotto, dico: non mi dia del tu. Non l’accetto. (Vivi applausi al centro e a destra – Commenti all’estrema sinistra). GuaDaluPi . D’ora in poi le daremo del «voi»! De GasPeri. Rimando una organica e più approfondita trattazione del problema economico-finanziario all’esposizione che farà il ministro delle Finanze e Tesoro. Sono convinto che, davanti a questa organica e panoramica visione unitaria, si comprenderà che molte passate polemiche non hanno avuto ragione di essere e taluni aspetti della nostra politica sfuggiranno ad equivoche interpretazioni. Ma le linee di base che ho comunicato nel mio discorso indicano esplicitamente la caratteristica della nostra azione: poggiare sulla stabilità monetaria, nell’interesse soprattutto delle piccole e medie imprese, per la tutela del risparmio, e per poter sviluppare una politica di incremento della produzione e dell’occupazione. Il problema del lavoro sarà dominante nella nostra politica, che sarà indirizzata alla esecuzione di un programma di investimenti pubblici, di cui ho già indicato le linee fondamentali e l’azione stimolatrice della privata iniziativa, indirizzandola al duplice scopo della produttività e della convivenza sociale. A questa direttiva si uniformerà la nostra politica creditizia. Nessuna contrapposizione, quindi, tra investimenti pubblici e privati, ma necessaria, indispensabile integrazione affinché il programma che si vuole sviluppare possa prendere corpo e vigore. Il governo ha coscienza della gravità del suo compito. Sa che le difficoltà in cui il paese si dibatte, più che da situazioni contingenti, sono determinate dallo squilibrio strutturale dell’economia italiana. Ed è per questo che noi proponiamo progetti di riforme e programmi di investimento facendo appello alla collaborazione leale ed effettiva di tutte le categorie produttrici. Perché la produzione non rallenti il suo ritmo, perché si intensifichi e si sviluppi creando nuove possibilità di occupazione per la massa lavoratrice italiana, occorre sorreggere l’iniziativa, incoraggiarla, promuoverla. Ma nessuna efficiente politica di investimenti pubblici e privati è possibile senza il fiducioso afflusso del risparmio nazionale e senza il concorso del capitale straniero, al quale lo stesso onorevole Di Vittorio ha fatto appello. Contro tale indiscutibile realtà si infrange ogni demagogia. Quanto al coordinamento del programma economico e della sua esecuzione, perché si deve schernire e prevedere fallita in anticipo ogni direttiva sintetica? Prima di scegliere i miei collaboratori, ho ben accertato il loro apporto sostanziale. Come, io stesso, avrei potuto accettare una politica contraddittoria? Lavoreremo con metodi democratici, con metodo collegiale. L’esame dei problemi e il coordinamento delle soluzioni si faranno nel CIR, presieduto dal ministro del Bilancio e del Tesoro, ma per particolari settori la riunione generale del CIR troverà la conclusione nei nuovi sottocomitati: quello dell’organizzazione della produzione, presieduto dall’onorevole Campilli e quello delle partecipazioni di Stato, presieduto dall’onorevole La Malfa. Le decisioni verranno presentate come decisioni responsabili al Consiglio dei ministri, il quale delibera sulle proposte di legge e sui criteri esecutivi. Perché dovremmo in Italia essere incapaci di questo efficace lavoro collegiale, che ormai è un metodo applicato e riconosciuto in tutti i sistemi democratici, in tutti i paesi, quando gli uomini che vi sono chiamati hanno una comune visione sociale e uno stesso senso di responsabilità? Di vittorio. Questo dipende solo da voi! De GasPeri. All’onorevole Lombardi aggiungo che il governo intende fare una politica non di deflazione ma di stabilizzazione. Bisogna guardare all’indice costo della vita che è stabile, non a quello dei prezzi all’ingrosso che è influenzato da mercati internazionali. All’onorevole Corbino assicuro che siamo d’accordo circa la stabilità monetaria e dei cambi. Esamineremo con interesse le sue proposte concrete circa gli investimenti, sperando che si possano dissipare i nostri dubbi e le nostre perplessità. In quanto al compito specifico dell’onorevole La Malfa, esso è determinato dalle attribuzioni stesse del Sottocomitato da lui presieduto. Si tratterà, in primo luogo, di reperire gli enti e le società in cui lo Stato ha partecipazione; di predisporre un piano per la loro riorganizzazione strutturale; di stabilire ciò che va mantenuto, o liquidato; di coordinare l’indirizzo economico di tali enti. È questo un aspetto del problema che abbiamo ereditato dal vecchio regime, e che viene per la prima volta avviato a soluzione. Ed è strano che l’onorevole Riccardo Lombardi ci abbia imputato una incompleta impostazione diretta a fronteggiare problemi fino ad oggi non risolti nel nostro paese. Osservo all’onorevole Donati che la politica di stabilità monetaria non è deflazione: ha difeso il potere di acquisto dei salari e degli stipendi. Noi rivendichiamo qui il significato sociale di tale politica; anzi, con un indice basilare superiore a quello del costo della vita, abbiamo operato una ridistribuzione di redditi a favore dei lavoratori. La crisi monetaria del settembre è stata superata dal nostro paese con scosse assai minori in confronto ad altri paesi più ricchi di noi. Ciò perché la nostra politica economica era veramente risanatrice in profondità. Contestiamo all’onorevole Magnani l’affermazione di un ristagno, di una diminuzione dell’attività produttiva nell’anno 1949. Dall’indice contenuto nella relazione economica presentata dal ministro Pella risulta, rispetto al 1940, un netto incremento della produzione agricola e della produzione industriale. Il reddito nazionale reale è aumentato del 10 per cento. Falsa è l’affermazione secondo cui si servirebbero gli interessi di gruppi monopolistici. Basta constatare l’andamento di alcuni fogli notoriamente legati a tali gruppi per concludere che la politica economica sinora seguita si muove in ben altre direzioni. invernizzi Gaetano. È aumentata la produzione degli stabilimenti milanesi? De GasPeri. Il discorso dell’onorevole Giorgio Amendola è stato un richiamo al problema del Mezzogiorno, alla riforma agraria, al problema, cioè che il governo ha posto a base del suo programma e al quale attribuisce un valore di priorità in confronto ad altri, che pure rivestono un vivo interesse per il paese. Il piano previsto per il Mezzogiorno non ha precedenti, per la sua organicità e l’ampiezza degli investimenti. Lo stanziamento previsto non esaurisce le misure che il governo intende adottare per le regioni meridionali. Le leggi Tupini sugli enti locali e per il risanamento dei danni provocati dalle alluvioni, alle quali l’onorevole Amendola ha fatto riferimento, avranno sollecita applicazione. Per quanto concerne i lavori da eseguire in base alla legge sugli enti locali, èstato dichiarato che più di metà dei progetti riguarda il Mezzogiorno: la loro esecuzione è collegata ad una tempestiva approvazione delle amministrazioni interessate. Alcuni dati varranno a confutare la critica demolitrice dell’onorevole Amendola. Sui fondi ERP sono stati stanziati per i lavori pubblici lire 20 miliardi per l’esercizio finanziario 1948-49, e altri 20 miliardi per il 1949-50. In relazione all’affermazione dell’onorevole Amendola, che dei 20 miliardi soltanto uno sarebbe stato sbloccato al 21 dicembre 1949, posso assicurare che a tale data risulta sbloccata la somma di 13 miliardi e 153 milioni, somma che, alla fine di dicembre, è salita alla cifra di 16 miliardi. Per quanto attiene all’esecuzione di tali lavori, al 31 settembre erano stati eseguiti lavori per oltre 4 miliardi e tale massa di lavoro ha permesso di occupare un gran numero di lavoratori disoccupati. Devesi, poi, fare presente, per quanto si riferisce all’asserzione che il Mezzogiorno è stato trascurato, che tutti i 20 miliardi di cui sopra sono stati destinati quasi esclusivamente al Mezzogiorno: la ripartizione è stata fatta a favore della Sardegna, della Sicilia, della Calabria, della Basilicata, delle Puglie, della Campania e del Lazio e – per soli 146 milioni – della Toscana e dell’isola d’Elba. Così pure,dell’altro fondo di 160 miliardi, 20 miliardisono stati assegnati ai lavori nel Mezzogiorno. Non elenco tutte le provvidenze adottate a favore del Mezzogiorno mediante l’istituzione di corsi di addestramento professionale e di cantieri di riqualificazione per i disoccupati. Basti sapere che su uno stanziamento totale di 10 miliardi, 5 miliardi sono stati assegnati al Mezzogiorno. Con questo primo stanziamento sono stati istituiti, o saranno presto istituiti, ben 172 corsi di addestramento professionale per disoccupati, con un complesso di 56 mila allievi e con una spesa di tre miliardi e 180 milioni. Sono stati istituiti 505 cantieri-scuola per 33.899 allievi disoccupati, per un importo totale di 2 miliardi, cui sono da aggiungere 250 milioni di conguaglio per assegni familiari. Si ha, così, un totale complessivo di 5.430.000.000 lire, che risulta distribuito fra cantieri-scuola ed i corsi di addestramento professionale. Per quanto riguarda le critiche di carattere economico dell’onorevole Togliatti, sono molto sorpreso della interpretazione che ha dato del sistema economico dell’ERP. Se non credessi di offendere la sua suscettibilità, direi che è poco penetrato addentro al sistema stesso. L’ERP ha come obiettivo finale l’eliminazione del deficit in dollari dei paesi europei e mira, appunto, ad ottenere uno sviluppo dei commerci intereuropei ed un aumento delle esportazioni verso l’area del dollaro. Asserire – come fa l’onorevole Togliatti – che scopo principale dell’ERP è di comperare in America, significa o fingere di non capire, o non capire che l’obiettivo vero è esattamente il contrario. Lo dimostra il fatto che il deficit in dollari, che nel 1947 fu di circa 700 milioni di dollari, nel 1948-49 è sceso a meno di 400 milioni di dollari, e sarà ridotto nel 1951-52 ad una quantità insignificante. L’Italia, quindi, ha visto in due anni dimezzato il suo deficit, pur comprendendo tra gli acquisti all’estero molti rifornimenti straordinari di attrezzature per il rimodernamento delle industrie. Dice l’onorevole Togliatti: i paesi europei non possono pagare i debiti verso di noi, perché debbono comperare in America. Si ricorda che gli uffici americani effettuano una selezione di merci, da finanziare sull’ERP, con la categorica esclusione di tutto quanto si può ottenere da altri paesi europei od extra-europei partecipanti al piano ERP, che non rivesta pagamento in dollari, e questo perché l’obiettivo finale è l’economia di dollari. Queste mie affermazioni sono confortate dalle cifre che riguardano le esportazioni verso i paesi partecipanti al piano. Queste esportazioni sono aumentate nei primi nove mesi del 1949 del 22 per cento; le importazioni sono, invece, aumentate del 49 per cento. Il carbone ed il grano, per esempio, che sono fra le più gravose importazioni italiane, che ancora nel 1948 provenivano in gran parte dagli Stati Uniti, sono ormai prevalentemente acquistati nei paesi europei. V’è chi afferma che i fondi ERP sono stati direttamente impiegati per colmare o diminuire il deficit dello Stato: nessuna lira dei fondi ERP di contropartita è stata destinata a scopi non produttivistici. Anche i 70 miliardi sul fondo lire 1948-49, che figurano come rimborso spese del bilancio, sono stati destinati a quella ricostruzione ferroviaria che, senza il previsto apporto del fondo lire, non sarebbe stato possibile realizzare o, almeno, si sarebbe realizzata in tempi di esecuzione assai più lunghi. Egli afferma, inoltre, che la liberalizzazione degli scambi equivale alla riduzione delle barriere doganali, e che si usa il termine «liberalizzazione» perché, attraverso il sistema Marshall, si vuole imporre il predominio dei grandi monopoli. Anzitutto, si deve precisare che la liberalizzazione degli scambi non solo non esclude, ma presuppone l’esistenza delle tariffe doganali. Anche l’Italia ha ottenuto, nei confronti di alcune esigenze fondamentali del paese, qualche cosa; si è trattato di eliminare un insieme di ostacoli contingenti: doppi prezzi, licenze ministeriali che sono causa di incertezze e di turbamento per lo sviluppo economico del paese. Alcuni di questi provvedimenti, quale l’eliminazione dei doppi prezzi, sono di sicuro vantaggio per il nostro paese; ebbene, il vantaggio che ne deriva è il disporre del carbone non a prezzi maggiorati ma agli stessi prezzi che consentano una lavorazione a bassi costi, come avviene in Inghilterra e in altri paesi. Le parole dell’onorevole Togliatti suonano, indirettamente, elogio all’autarchia, a quella forma di autarchia a tutti i costi, e in tutti i settori, che non solo ha impedito la riduzione dei costi e il risanamento dell’economia, ma è stata causa della depressione in cui ci troviamo. L’Italia è un paese essenzialmente trasformatore di materie prime, e avrà tutto da guadagnare dai rifornimenti a basso costo, avendo, in certo modo, la possibilità di esportare in una misura più larga. È falsa l’asserzione dell’onorevole Togliatti che i nemici maggiori della liberalizzazione sono proprio i grossi complessi monopolistici, i quali tendono alla riduzione dei costi e cercano di evitare, o ritardare, la libera produzione per mantenere, in un sistema più o meno autarchico, una situazione di favore e di sicuro utile, da essi precostituita. Stia attenta l’opposizione, che talvolta contrasta a parole con costoro, e che tanto spesso, invece, è ad essi unita! Comunque, è stata prevista la clausola che vieta una forma di «cartellizzazione», e ritengo che, come all’OECE, come a Strasburgo, si possa assicurare che ogni mezzo sarà studiato in Italia per dare nuovi aiuti ai sani nuclei produttivi del nostro paese. Giunto alla fine di questa troppo lunga replica, mi accorgo di non aver risposto agli oppositori dell’estrema destra, onorevoli Leone Marchesano, Russo Perez, Roberti e Covelli , e dovrei aggiungere una risposta che è già contenuta nella mia polemica con l’estrema sinistra. Io difendo la vita dello Stato democratico, e voi lasciando a me questo onore, vi preoccupate del passato, si chiami esso regime monarchico o rievocato nazionalismo. (Interruzione del deputato Leone-Marchesano). Non vi è da accogliere che l’augurio dell’onorevole Russo Perez, e cioè che ci spogliamo tutti del vestito vecchio. Scusate, incominciate voi, e, quando avrete un vestito nuovo, si potrà pensare ad una pacificazione totale che non può che fondarsi sul superamento del passato. (Applausi al centro e a destra). E ora passo agli oratori amici, agli onorevoli Delle Fave , Del Bo , Cappi, Saragat, Pastore, Scalfaro ; ho ascoltato questi autorevoli interpreti della maggioranza, ho colto il senso della loro solidarietà, adesione non cieca, ma fiducia ragionata, consapevole delle gravi difficoltà da superare e della comune responsabilità da portare. Tale è la fiducia che chiedo anche alla Camera: res tua, res vestra agitur. Lo sforzo è comune; si tratta di rendere vitale la democrazia parlamentare. Numerosissimi disegni di legge attendono dinanzi alla Camera: contratti agrari, legge regionale, Corte costituzionale e referendum. E sopravverranno rapidamente le leggi, forse, più urgenti di tutte: la legge sulle opere pubbliche per il Mezzogiorno e la legge sulle zone depresse, nonché quella sulla riforma fondiaria e per il riordinamento del lavoro. La fiducia che vi chiediamo è un impegno reciproco, liberamente preso e liberamente assolto, di lavoro con tenacia e con disciplina, con il fervido augurio di saper trovare nell’appoggio reciproco la forza di superare questo momento duro della vita nazionale . (Vivissimi, prolungati applausi a sinistra, al centro e a destra).
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Non intendo rispondere al discorso dell’onorevole Scoccimarro nella sua parte economica; mi riservo di farlo alla conclusione di questo dibattito. Non intendo rispondere nemmeno agli argomenti di carattere politico-generale. Mi preme però di fare subito una constatazione e farla con la migliore volontà di intenderci e soprattutto di evitare il rinfocolarsi di conflitti, di difficoltà nelle campagne e, in genere, nel mondo sociale. I prefetti hanno l’ordine di intervenire con la massima diligenza ogni volta che si tratti di far rispettare la legge e, con particolare urgenza, ogni volta che si tratti di far rispettare la legge in favore degli operai e delle classi dei contadini. Questo è l’ordine che hanno i prefetti ed a questo ordine, naturalmente, si dimostrano ossequienti quando intervengono nei vari conflitti del lavoro. Se i prefetti non riescono in questo compito, c’è il ricorso al ministro dell’Agricoltura o al ministro del Lavoro e sono centinaia e migliaia le mediazioni, i tentativi, gli sforzi di conciliazione fatti dal ministro del Lavoro e dal ministro dell’Agricoltura. Oggi stesso, ieri stesso, anche questa notte si continuerà ancora in una questione difficile come quella del Fucino; i ministri lavorano nei limiti della legge, forzando anzi certe volte anche l’interpretazione della legge in favore dei più poveri e deboli, come è loro dovere, come è nel nostro programma. (Vivi applausi dal centro e dalla destra) . Aggiungo che, in ogni caso, quando si tratta di applicazione di leggi io ammetto che ci siano degli egoismi, chiamateli egoismi, degli agrari o dei proprietari, egoismi di classi, di categorie, egoismi deplorevolissimi, lo ammetto. Ma constatato che noi abbiamo sempre dato la direttiva agli organi di governo di intervenire in favore dell’applicazione della legge e contro simili egoismi. Se questi organi direttivi, questi organi esecutivi non bastano per far applicare la legge, c’è la Magistratura, c’è l’organo che deve pronunziare la sentenza su tutti i diritti e, soprattutto, sul mantenimento e sulla applicazione delle leggi; e se ancora questo non basta, voi siete qui, partito numeroso, avete l’abilità, la capacità, la possibilità di protestare di intervenire di fare appello al Parlamento: Senato e Camera. Voi avete con ciò tutto quello che la democrazia può offrire per arrivare alla verità e alla giustizia. Né io, in nessuna maniera, né alcun governo che possa ispirarsi ad un principio di democrazia può menomare comunque questo vostro diritto e tener conto delle vostre interpellanze, delle vostre obiezioni, delle vostre discussioni, ed anche dei vostri attacchi come io faccio in questo momento; benché questo fosse un attacco che toccava la mia responsabilità morale, ed è in questo senso diffamatorio che lo respingo. sCoCCiMarro. Non ho l’abitudine di diffamare nessuno. Io ho esposto dei fatti. De GasPeri. L’onorevole Scoccimarro non ha esposto semplicemente dei fatti. Ma comunque non importa, se tutta la questione si riducesse ad una diffamazione, più o meno ad una contestazione fra me e lei, sarebbe una ben piccola questione, ma purtroppo la questione è grossa. La mia persona scompare e, se permette, scompare anche la sua, onorevole Scoccimarro, perché di fronte ai problemi che ci dominano bisogna che noi troviamo una risoluzione, una volontà di accordo e di conciliazione. (Commenti da sinistra). Però io vi dico che questa volontà di accordo, di conciliazione deve essere cercata e trovata nei limiti della legge e nelle forme della democrazia. Questa è la nostra libertà, questa è l’unica forza che ci rimane in Italia. L’Italia, con la guerra, ha perduto molte cose; non deve perdere la pace interna fra le libere organizzazioni, fra le libere categorie. Io rinnovo a voi l’appello che sentivo risuonare ieri in me mentre mi trovavo dinanzi al gruppo di funzionari e soldati che partivano per la Somalia. (Interruzioni da sinistra). Sì, sì perché era quello un esempio di disciplina e di unione al quale noi abbiamo il diritto ed il dovere di fare appello e di riferire la nostra attività. Io vi rinnovo questo appello, che è appello di collaborazione nelle forme di democrazia, nella libertà delle discussioni parlamentari, nei rapporti di giustizia e di competenza che devono riguardare da una parte la maggioranza che delibera e dall’altra l’opposizione che svolge opera di controllo, la quale qui viene accolta nonostante tutta la sua severità. Ma io vi dico che voi avete il dovere, come cittadini, nel pieno diritto di questa democrazia, di intervenire per calmare, quando si verifichino delle gravi eccitazioni di massa, e non di farne uno strumento agitatorio. Perché voi, mettendoci di fronte al fatto compiuto di una decisione illegale o comunque di una interpretazione che non è accettabile, ci mettete di fronte a un’enorme difficoltà: manifestate poi l’intenzione di non curarvi di queste difficoltà che pur suscitano i conflitti. Io vi dico che in uno Stato il quale assista inerte nel momento in cui le categorie ricorrono alla propria forza per imporre la propria volontà, in questo Stato la democrazia è finita, e vi dico questo non soltanto riferendomi al passato, quando nell’antifascismo abbiamo dovuto riunire tutte le forze in nome della libertà, contro coloro che ricorrevano alla forza propria delle squadre indebolendo lo Stato. Allora eravamo tutti d’accordo, con tutte le forze che sentivano la necessità di difendere la democrazia. Oggi bisogna esserlo ancora di più, poiché esiste questo ricorso in termini di violenza, fatalmente esso si rifletterà anche nelle altre categorie o nelle altre classi. Non è vero che in qualsiasi misura o modo abbiamo permesso il formarsi di squadre; siamo sempre intervenuti, siamo sempre pronti ad intervenire in ogni caso, e a ricorrere alla forza della legge per reprimerle. Questo vale per tutti, questo deve essere un principio generale se volete la libertà, se volete salva anche la classe lavoratrice; perché io conosco e tutti comprendiamo la miseria, la disoccupazione dei contadini e degli operai, noi non siamo né organi di gruppi monopolistici né strumenti di proprietari egoisti. Noi vogliamo l’avvento delle forze del lavoro, ma lo vogliamo nell’ordine, nella libertà e nella democrazia.
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Credo che nessuno si attenda che io risponda partitamente e particolarmente a ciascuno degli oratori, di cui grande è stato il numero nello svolgimento della discussione. Io cercherò di tenere conto delle osservazioni fatte per rispondere sostanzialmente e sinteticamente, dividendo la mia risposta per materia. Cerchiamo innanzi tutto di sbrigare la questione personale. Mancini ha detto, forse per un certo affetto che gli è rimasto per il suo antico collaboratore: «perché l’onorevole De Gasperi non ha seguito l’esempio di Giolitti, che alternava periodi di governo a periodi di riposo? Avrebbe giovato alla sua salute ed avrebbe favorito la distensione. Invece è rimasto per un puntiglio d’onore» . E l’onorevole Lussu mi ha anche anticipato un’affettuosa necrologia. (Ilarità). Egli ha detto: «sarebbe augurabile che lo spirito cristiano lo illuminasse e lo rendesse umile, gli ispirasse modestia e sentimento di mortificazione» . Ha concluso affermando la necessità di instaurare un governo di unione democratica repubblicana. Non voglio qui attardarmi a dimostrare che nel dibattito non era stata raggiunta la prova che esiste veramente una distensione, almeno nella forma e nei sentimenti espressi; anzi non è apparsa nessuna volontà di tregua, specialmente nelle espressioni degli oratori di sinistra, e per dimostrare ciò basta che mi appelli al primo oratore, all’onorevole Sereni, il quale ha dichiarato che il mio richiamarmi all’autorità della legge è un applicare il sistema farisaico. La prova più chiara poi, che non si accetta su quei banchi il principio democratico, cioè il principio della democrazia parlamentare, è questa: non si vuole accettare che esistano una maggioranza che governa ed una minoranza che controlla. Questa invece è la base del sistema parlamentare. Si vuole una coalizione democratica popolare, o fronte popolare, che faccia perno sui comunisti e ne prepari poi (questo nei loro desideri) il governo totalitario: una specie di slittovia del totalitarismo. Ora, abbiamo governato assieme quando vigeva il sistema dei comitati di liberazione: è venuto poi, fatta la Repubblica, il momento nel quale, in base alla Costituzione, si doveva costituire un programma di maggioranza. Il suffragio universale doveva decidere, e ha deciso contro il fronte popolare, accogliendo una impostazione programmatica che comprendeva soprattutto due punti: primo, la preoccupazione per il sistema democratico e per la libertà dei cittadini; secondo, la necessità di collaborare con l’America. Su questi due punti non c’era accordo, ed essi vivono ancora, influiscono ancora su tutte le nostre impostazioni politiche. È chiaro quindi che, se si vuol fare un governo di programma e si vuole mantenere una impostazione democratica, non esiste la possibilità di mutare le maggioranze a seconda della convenienza, ma solo a seconda della confluenza e della convergenza di programmi di azione ed anche di programmi presi come punto di partenza. Noi abbiamo avuto questa convinzione, che manteniamo anche oggi e che viene contestata da parte vostra. Ma voi non potete negare che essa è profonda ed illuminata da tutta una impostazione di programmi. Senza Piano Marshall noi non saremmo vissuti, senza il popolo americano il popolo italiano non avrebbe avuto pane, carbone e petrolio. I comunisti si oppongono precisando il concetto della politica di asservimento all’America, concetto che venne lanciato da Ždanov appena si ebbe la rottura fra la Russia e i rappresentanti delle altre nazioni, quando ci fu la prima conferenza sul Piano Marshall. La maggioranza italiana invece ha creduto nella bontà del piano, ha voluto la collaborazione, ha voluto integrare questo sforzo con l’Unione europea, e, quando i paesi occidentali e l’America si unirono per un patto di pace (voi lo chiamate di guerra) l’Italia riconobbe che tale programma era veramente un patto di pace, e aderì con lo scopo di difendere il paese e di avere una garanzia per la sua vita e per la ricostruzione dei propri mezzi di difesa. La campagna contro il Patto atlantico continuò violenta; ci si calunniò come guerrafondai, si minacciò la guerra civile, si proclamò il sabotaggio contro l’arrivo delle armi appena sufficienti per le 8 divisioni che si potranno immediatamente armare e non sufficienti per le 12 divisioni a cui, in base alle disposizioni del trattato di pace, potremmo arrivare. Quando venne la crisi – evidentemente provocata, come fu qui dimostrato, da ragioni interne della coalizione – si proclamò l’esclusione, l’ostracismo contro di me, perché avrei creato un abisso di odio nel paese, osteggiato la pace interna ed estera, ed anzi compiuto o fatto compiere una strage fraterna, come ha accennato l’onorevole Sereni. Secondo la mia convinzione, secondo i pareri di molti parlamentari che qui vi hanno accennato, io avrei potuto, forse dovuto, integrare il governo di coalizione con il rimpasto, perché tutti i partiti avevano pregiudizialmente riaffermato le ragioni di esistenza della coalizione, e nessun mutamento essenziale poteva consigliare diversi schieramenti: ma c’era la questione personale. Forse dovevo pormi anche questa questione: forse un cambiamento di persona poteva giovare. Perciò rassegnai le dimissioni. No, onorevole Mancini, non sono rimasto per un puntiglio personale. Rassegnai le dimissioni, i capi del Parlamento vennero consultati e la conclusione della consultazione fu il reincarico a me. A questo punto avrei potuto sì rifiutare, se avessi pensato a seducenti riposi, se avessi tenuto presente l’esempio di altri uomini abili ed esaltati del passato, i quali trovavano il modo di riservarsi per tempi migliori, e soprattutto se avessi potuto pensare che i contrasti nati in seno alla coalizione sulla questione delle regioni o delle riforme avessero creato uno spostamento dei cardini sui quali si imperniava la situazione. Ma ciò non era vero (ed è risultato anche dai negoziati per la ricostruzione del governo), ed allora mi sottoposi per un senso del dovere alla fatica di aggiornare e integrare il programma sociale: rividi le leggi amministrative, riesaminai le linee delle riforme maturate nel frattempo e, dopo aver sentito e consultati i partiti della coalizione, presentai ai rappresentanti dei gruppi parlamentari un programma concreto ed impegnativo, rivolto specialmente a creare il lavoro, ma riguardante anche molti altri punti come la legge tributaria, la legge sindacale, la legge regionale, eccetera. Credo di poter affermare – almeno a mio ricordo – che mai ci fu una preparazione così approfondita che precedesse ogni questione di dicastero, di titolari, ogni questione personale: fu un programma preparato dopo consultazioni, poi presentato e discusso dai rappresentanti di tutti i gruppi che dovevano partecipare al governo. Onorevole Lussu, lei che mi ha ricordato il dovere della modestia, sappia che tale fatica in realtà mi rese umile dinanzi alle difficoltà che dovetti superare e direi un po’ mortificato dinanzi alle suscettibilità che non seppi evitare, sentendo io stesso i limiti dell’abilità umana e la fatalità della circostanza; ma il senso del dovere mi trattenne da ogni diserzione. La battaglia continua perché è più forte di noi, e solo il Parlamento mi può liberare, congedandomi, da questa responsabilità! (Vivi applausi dal centro e da destra). In questo dibattito l’onorevole Romita mi ha invitato ad accogliere il monito della vittoria laburista. L’ho ha fatto in un momento in cui questa sembrava più chiara; comunque il monito rimane, e le conclusioni possono essere tratte egualmente. Dirò che nutro molta ammirazione per parecchi uomini del laburismo, e soprattutto aderisco a molti provvedimenti sociali di questo movimento e non mi lascio turbare nemmeno dal fatto che parte delle sue spese eccessive le abbiamo pagate anche noi con la svalutazione della sterlina. Ammiro soprattutto la continuità del regime libero che è garantita dalla disciplina nazionale. Quando io parlo di legge, e voi mi rispondete che si tratta di una legge farisaica o di una farisaica interpretazione della legge, vi rispondo: no, c’è una legge vitale per lo Stato, c’è una legge vitale per la sua esistenza come comunità e come nazione, e questa legge è la legge del riconoscimento da parte di tutti i cittadini della solidarietà necessaria, dell’autorità dello Stato. E allora io rimprovero l’onorevole Romita ed i suoi compagni di ammirare molte cose nei laburisti, ma di non ammirare in loro, in quel loro partito, come negli altri partiti che si sono succeduti al potere, nella continuità della vita politica inglese, questo senso di solidarietà, di comunità, di ubbidienza all’autorità dello Stato, che deve sopravvivere: sopravvivere ai parlamenti e sopravvivere ai partiti. È questo il punto fondamentale che ci divide in molti momenti, questo è il punto fondamentale che non bisogna perdere assolutamente di mira, né prima della crisi, né durante, né dopo la crisi, perché questa è la base della nostra vita, questa è l’unità, questa è la salvezza della nazione. Quando si difende ogni gesto di secessione o di disgregazione, quando, in nome della libertà, si chiede ogni possibilità di sviluppo per la propria attività e non si concede niente allo Stato, niente alla solidarietà nazionale, alla comunità, si commette un matricidio verso la patria, perché, mancando questo centro morale, è difficilissimo che una democrazia possa vivere. Io credo che il delitto si commetta soprattutto contro la democrazia, perché in altri paesi – ove ci sia una dittatura o una Monarchia assoluta o altri governi di tal forma – forse si può farne a meno, e non si sente questa necessità: ma là dove governa la libertà, dove c’è la democrazia, questo senso di unità e di solidarietà è una necessità assoluta, è una legge di vita. Ecco perché io pensavo che fra le cose che si possono ammirare nel Partito laburista c’è anche questa, che nei momenti difficili il governo laburista non ha avuto scrupolo di applicare misure di emergenza, e quando uno sciopero ha impedito i movimenti necessari per approvvigionare Londra si sono fatte intervenire tutte le forze dello Stato per superare la situazione. Non dico questo e non accenno a questo per venir meno alla mia lealtà verso il principio di libertà inserito nella Costituzione circa lo sciopero. Però non posso nemmeno rinnegare né venir meno alla lealtà verso il principio fondamentale che è questo: lo Stato ha il diritto e il dovere di difendere gli interessi della collettività, quando questi vengano messi in pericolo da una parte o dall’altra. (Approvazioni dal centro). Il senatore Sereni ha accusato De Gasperi di servirsi della legge dei farisei per cercare di elevare un muro di diffidenza, di odio, di paura e per dividere il popolo dal popolo. Il suo discorso sui cinque punti della pace è terminato con questa pacifica conclusione: «per la pace noi seguiteremo a lottare contro questo governo, contro il governo della strage fraterna. Abbiamo fiducia nella vittoria della pace perché siamo partigiani della pace, partigiani della vita». Voce dalla sinistra. Ed allora? De GasPeri. Allora entriamo in argomento. Per la pace, noi siamo chiamati in questo momento a decidere, a deliberare sopra i cinque punti. Però, poiché se ne è fatta una piattaforma di discussioni durante il dibattito, sarà necessario ed opportuno che io dica qualcosa, riservando per il resto tutti i diritti della futura discussione alla Camera. Se vogliamo cercare una dichiarazione dottrinaria e pratica per la pace, la più efficace che si possa pensare, bisogna cercarla nell’atto di fondazione della Società delle nazioni prima e dell’ONU poi. La dichiarazione consensuale dei 49 governi nel 1945 a San Francisco, quando si è fondata l’organizzazione internazionale delle Nazioni Unite, incomincia a dire che «nazioni, decise a salvare le future generazioni dal flagello della guerra e ad unire le forze per mantenere la pace e la sicurezza internazionale, hanno deliberato il seguente patto». Gli scopi di questo, nell’articolo 1, vengono fissati così: «mantenere la pace e la sicurezza internazionale, e a questi fini prendere efficaci misure collettive per la prevenzione e la rimozione delle minacce di guerra». Nell’articolo 12, a proposito del Consiglio di sicurezza, si dice: «qualora il Consiglio di sicurezza ritenesse che le misure previste nell’articolo 41 fossero inadeguate o si fossero dimostrate tali, si possono intraprendere quelle azioni di forze aeree, navali e terrestri che siano necessarie per stabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tali azioni possono comprendere delle dimostrazioni, delle misure di blocco ed altre operazioni eseguite dalle forze aeree, navali e terrestri di membri delle Nazioni Unite». L’articolo 43 parla di assicurare il mantenimento della pace e la sicurezza internazionale, e dice: «tutti i membri delle Nazioni Unite, al fine di contribuire al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, si impegnano a mettere a disposizione del Consiglio di sicurezza, dietro suo invito e conformemente ad un accordo o a degli accordi speciali, le forze armate necessarie al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale». All’articolo 47 si conferma la finalità del mantenimento della pace e si stabiliscono anche i mezzi per il suo mantenimento. È inutile che io scorra gli altri articoli. Voglio però, poiché si va dimenticando rapidamente quello che era essenziale – in un certo tempo – voglio ricordarvi tutto questo per concludere che la migliore misura, la più facile, il più sicuro provvedimento per garantire la pace è quello di rafforzare l’ONU, e che il peggiore è sabotare col veto del Consiglio di sicurezza la vitalità di questa organizzazione. Devo qui ricordare che la Russia ha opposto il veto 32 volte… (Proteste dell’estrema sinistra). terraCini. E l’America quante volte? De GasPeri. L’America due volte, e così altri Stati; la Russia 32 volte. Mi dispiace, io ho trovato questi dati. Ad ogni modo, perché parlate voi, se parliamo della Russia? (Ilarità – Applausi dalla destra e dal centro). Questo mi lascia concludere, e credo che concluderò in modo pacifico, che poiché l’onorevole Lussu è membro della delegazione che va in Russia, come leggo dai giornali… lussu. Ne sono onoratissimo. De GasPeri. Ebbene, io vorrei avere l’onore di rivolgergli un appello particolare: siccome lo strumento più sicuro per la pace è l’ONU ed il patto più reale che esista è quello che lega le Nazioni Unite alla pace ed al modo di difendere la pace, vorrei pregarlo di dire, se gli riesce, una parola confidenziale all’amico Visinskij , che conceda all’Italia di entrare finalmente nell’ONU. (Vivi applausi dal centro e dalla destra). lussu. Lei sa che cosa mi risponderebbe: questo è possibile solo se verranno ammesse anche le nazioni dell’Europa orientale. De GasPeri. Io sono sicuro che avendo l’onorevole Lussu attinto tutte le informazioni nel Senato e in genere nel paese saprà come ribattere ad eventuali risposte. (Applausi dal centro e dalla destra). Secondo baluardo della pace è l’unione dell’Europa, unione che non è ancora raggiunta ma che sola, direi ancor più che la società universale delle Nazioni Unite, può agire per la pace. Ebbene, l’Europa che cosa è? L’Europa, se le altre nazioni avranno lo stesso istintivo senso di difesa come l’Italia, l’Europa sarà e diventerà veramente il baluardo tra tutti i conflitti che possono nascere a sinistra e a destra, il centro dello sviluppo della pace e della democrazia. (Vivi applausi dalla destra e dal centro). L’Europa è un’istituzione che va diventando e diventa forte: dovreste sperarlo anche voi per la salvezza della democrazia. Il primo sforzo di solidarietà internazionale fu fatto dal piano di ricostruzione economica. Ancora oggi voi capovolgete i termini del problema. Parlate di asservimento all’imperialismo americano ed invece si tratta di autonomia europea che dipende da noi raggiungere. Voi rompete questa possibilità, in nome della sovranità della nazione russa, per mantenere la cortina di ferro; perché, questa è la verità, tutti gli accordi internazionali si sono urtati dinanzi alla preoccupazione della Russia – anche se legittima, dal suo punto di vista – di mantenersi separata dall’eccessivo contatto con il resto dei paesi europei democratici. Da qui è venuta la necessità del piano difensivo dell’Atlantico. Dovevamo noi rifiutare l’offerta di una difesa per il caso di aggressione, e le poche armi che ci consentano di impedire o ritardare eventuali invasioni? La sproporzione delle forze è ancora immensa. Nessuno da parte europea può pensare ad attaccare. Voi direte: nemmeno la Russia, ed io lo spero; ed allora è chiaro che la guerra non ci sarà. Se voi mi parlate, come primo punto, della riduzione dei bilanci di guerra e degli effettivi militari, io vi rispondo che queste proposte sono già state fatte. Io ricordo che all’Assemblea dell’ONU, il 26 settembre 1948, Visinskij propose la riduzione di un terzo di tutte le forze di terra, di mare, di aria in Francia, Inghilterra, America, Russia e Cina. So questo, ma che cosa vi darebbe la riduzione di un terzo? Il mantenimento di una prevalenza, di un predominio delle forze che sono dalla parte della Russia, è evidente. Ora, l’obiezione (che non faccio io perché noi abbiamo delle forze armate molto più ridotte) che viene dagli avversari è questa: ma il punto di partenza quale è quando si parla di riduzioni? Questa è una storia vecchia. L’onorevole Gasparotto ricorderà che nei tempi passati, subito dopo la prima guerra mondiale, sorse la grossa questione di ridurre egualmente gli armamenti. Ma da che punto di partenza? Se ad un certo momento uno Stato preme perché si faccia la riduzione, in genere è perché si accorge di essere in vantaggio, e quindi gli altri non accettano. Se voi osservate la situazione al 31 gennaio 1950 degli effettivi militari, vedete che i paesi europei, più gli Stati Uniti, hanno assieme due milioni 113.000 uomini – lascio da parte la Jugoslavia con 400 mila uomini –; e la Russia e i suoi alleati… labriola. Satelliti. De GasPeri. Ho voluto usare una parola più blanda. (Ilarità). Dicevo che la Russia e i suoi alleati hanno alle armi 3.775.000 uomini, naturalmente non calcolando, come calcolate voi, Mao Tse-tung, che ne ha tre milioni. Ecco la difficoltà. Voi vedete che non dico queste cose perché non sia questa una meta da raggiungere. Bisogna cercare di raggiungerla, ma bisogna essere realisti e dire che, per raggiungere la riduzione degli armamenti, ci vuole un criterio uguale per tutti, in modo che non indebolisca la situazione, perché se da una parte avviene questo indebolimento, ciò evidentemente forma e crea ragione di guerra. sCoCCiMarro. Perché non si accetta il disarmo totale? (Applausi dalla sinistra). De GasPeri. Non è stato proposto. E vengo al secondo punto: proibizione delle armi atomiche. Favorevolissimi noi; dobbiamo essere più che favorevoli: ma ricordo, anche qui, che la prima proposta venne presentata il 24 gennaio 1945 all’Assemblea dell’ONU, ed alla conclusione del dibattito su di essa si arrivò a questo: fu eletta una commissione che aveva lo scopo di formulare la proibizione e l’eliminazione negli armamenti nazionali delle armi atomiche e di tutte le armi atte alla distruzione di massa, nonché la sollecita istituzione del controllo internazionale dell’energia atomica e delle altre moderne scoperte scientifiche, per assicurarne l’uso solo a scopi pacifici. Questo secondo punto è stato votato da tutte le nazioni, meno la Russia e i suoi alleati, perché la Russia accetta in teoria l’eliminazione degli armamenti internazionali, ma non accetta nessuna forma di controllo. (Proteste dalla sinistra). sCoCCiMarro. Non è vero! De GasPeri. Onorevole Scoccimarro, se lei mi dimostrerà che le mie citazioni sono false, sono pronto a ritirarle: però, nell’ottobre 1949, è stato pubblicato il memoriale redatto dai cinque membri permanenti della commissione per la energia atomica dell’ONU e tutta la triste storia delle varie trattative di quell’anno è riassunta in questo documento, che conclude così: «è evidente che esistono divergenze di vedute fondamentali, non solo sul metodo, ma anche sul fine; tutte le potenze promotrici, ad eccezione dell’URSS, pongono in primo piano la sicurezza del mondo e sono disposte ad accettare delle innovazioni ai concetti tradizionali di cooperazione internazionale, di sovranità nazionale e di organizzazione economica, laddove esse sono necessarie alla sicurezza; il governo dell’URSS pone la sua sovranità in primo piano e non è disposto ad accettare delle misure che possano toccare la illimitata sovranità degli Stati o interferire con il suo rigido esercizio. Se questa divergenza fondamentale potesse essere superata, le altre diversità di punti di vista, finora apparse insormontabili, potrebbero essere poste nella loro vera luce e potrebbe essere eventualmente possibile trovare un terreno atto a risolverle». Il quarto punto è che cessi contro i partigiani della pace ogni persecuzione e repressione. Credo che questo sia stato scritto per altri paesi, non per l’Italia, perché non so davvero in qual modo noi abbiamo perseguitato gli aderenti alla propaganda per la pace. Sino al 15 novembre 1949 il movimento si contenne entro forme propagandistiche, e noi non abbiamo fatto nessun atto di limitazione o repressione. Il comizio di San Giovanni del 30 ottobre 1949 si è svolto in una forma pacifica senza nessun disturbo in tutta la capitale. Nell’aprile 1949 la delegazione italiana è partita in numero di 800 membri con un treno speciale per portarsi a Parigi. Il Comitato mondiale si è radunato a Roma il 28-30 ottobre, ed i consolati italiani hanno concesso 74 visti a stranieri, la maggior parte naturalmente comunisti, che sono venuti a questo congresso. Non si può dire davvero che noi abbiamo impedito questa propaganda per la pace. Certo che la cosa diventa un po’ complessa se, come ha annunciato radio Mosca il 19 febbraio 1950, si confonde la propaganda per la pace con la propaganda per atti di sabotaggio; allora il problema diventa diverso. Difatti, alle ore 20.30, radio Mosca diceva: «in Italia la lotta per la pace assume vaste proporzioni; circa mille consigli comunali hanno approvato la risoluzione dei partigiani per la pace, per la condanna della bomba atomica, per la riduzione degli armamenti, e per la conclusione di un patto fra le 5 grandi potenze. In tutto il mondo ferve la lotta per la pace; rispondendo all’appello dei partigiani della pace, i portuali in Francia, Olanda, Belgio e Algeria si rifiutano di caricare e scaricare armi di guerra; in Germania si inneggia alla pace e all’unità del paese. Il movimento si intensifica a Cuba e nel Venezuela, e le forze della pace capeggiate dall’URSS, diventano inesorabilmente più forti» eccetera. Ora qui, se si tratta della propaganda per la pace, massima libertà; ma se si tratta di eccitare e di organizzare atti di sabotaggio, ci opporremo con la massima energia! (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra – Interruzioni dalla sinistra). Anche se la propaganda si vuole far penetrare nelle file dell’esercito per disintegrarne lo spirito, anche in quel caso il governo sarà vigilantissimo; esso da una parte ha speranza nel senso patriottico, ormai dimostrato, degli operai ed anche dei portuali, e dall’altra conta sullo spirito di fedeltà dell’esercito. (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra). Dell’esercito debbo dire che, nonostante noi non siamo in grado di stipendiarlo come meriterebbe e nonostante che noi non siamo in grado di dargli tutte le comodità e tutti quegli strumenti che sarebbero necessari per il suo sviluppo, esso, con spirito di sacrificio e con l’antico spirito militare, mantiene fede al proprio ideale e soprattutto all’amore per la patria. (I senatori del centro e della destra ed i membri del governo sorgono in piedi ed applaudono lungamente; ripetute grida di «viva l’esercito», alle quali non si associano i senatori di estrema sinistra, che in un secondo momento applaudono lungamente al grido di: «viva la pace»). tonello. Abbasso l’esercito! De GasPeri. Al punto quinto si afferma: cessi la guerra dei nervi e sia ristabilita la fiducia mediante un patto di pace fra le grandi potenze. Nessuna obiezione, naturalmente, da parte dell’Italia anche se l’Italia non può far parte delle quattro o cinque grandi potenze. Però io devo ricordare una cosa. Avete dimenticato la réclame che si è fatta attorno al patto a quattro del 7 giugno 1933 e il danno che tale patto – nonostante le buone e pacifiche intenzioni, almeno da parte di Mussolini che ne aveva preso l’iniziativa perché in quel momento non pensava alla guerra – ha provocato? (Commenti da sinistra). Avete dimenticato che queste formule scritte di nuovi patti entro la Società delle nazioni possono dare la sensazione che si indebolisca la coesione che deve sussistere fra tutti, paesi maggiori e minori? Io dubito assai – non dico di più, non vado più in là, non formulo obiezioni sostanziali – che una simile formula potrebbe rafforzare ciò che va soprattutto rafforzato, vale a dire la solidarietà delle nazioni in seno all’ONU. Ad ogni modo saremmo lieti se questo principio di pace e di organizzazione di pace, se questa preoccupazione, questa cura di pace, potesse ottenere un effetto pratico. Ma ci vuole anche uno spirito di pace interna nel modo di avviare la propria azione, nei contatti fra le diverse categorie e fra i diversi partiti. E non si può, onorevole Sereni, accusare di seminare sospetto, odio, sfiducia, cioè i germi della guerra civile. Voi l’affermate, ma lo credete veramente? Io penso che voi non lo crediate, perché voi sapete che io non cerco l’odio, ma cerco la pace e la collaborazione. Ad ogni costo io debbo cercare tale collaborazione: è il mio compito, oltreché l’ultimo proposito dell’animo mio. Non posso però che collaborare sopra un piano concreto di coordinamento e di azione; non posso accettare senz’altro il principio di fare un governo di unione repubblicana o di fronte popolare. Voi dite che non lo accetto per via del mio anticomunismo. No, l’anticomunismo è la parte negativa, il verso di una facciata è rappresentata – come ho detto prima – dalla difesa della libertà, dal principio di democrazia, dall’accordo con l’America, dalla fede nelle organizzazioni internazionali, dalla fede nell’Europa. Questo è il lato positivo. Se siete d’accordo su ciò, per il resto si potrà saggiare poi alla prova se il vostro accordo è sostanziale o semplicemente formale. Ma io dico che non è giusto che voi mi ricordiate i farisei ed una interpretazione letterale della legge, quando io non vi parlo qui di interpretazione letterale, ma dello spirito della pace, che deve governare non soltanto nei rapporti fra le nazioni, ma anche nei rapporti fra le classi e nei rapporti fra i partiti. Vi ricordo ancora un altro fatto che è sfuggito a molti, che cioè proprio nell’ONU, fino dal novembre 1949, ancora prima della riunione del Cominform in Ungheria e prima che il cosiddetto movimento per la pace iniziasse la sua attività, l’assemblea generale dell’ONU approvò, con la maggioranza di 53 su 59, una risoluzione, dal titolo «Punti fondamentali per la pace», che impegnava solennemente ancora una volta i membri aderenti a mantenere e rafforzare la pace. Tale mozione era stata presentata dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra; i paesi del blocco sovietico votarono contro; la Jugoslavia si astenne. Voi vedete che in ogni caso le formule, le impostazioni sono pronte anche dentro l’organizzazione dell’ONU, sono possibili anche in quel campo più vasto e direi più autorevole, più ufficiale, che rappresenta tutte le tendenze. Badate a non interrompere od indebolire queste possibilità, ma fate che esse si rafforzino soprattutto in seno all’ONU, perché questa è una esigenza ed una garanzia maggiore per un movimento di pace e di disarmo. Si è parlato poco di politica estera in questo dibattito, ma tuttavia qualche accenno, e molto autorevole, è stato fatto, Abbiamo tutti aderito alle parole conclusive dell’onorevole Orlando che riguardavano il Territorio libero di Trieste e protestavano contro gli ultimi deplorevoli incidenti di Capodistria. A proposito di essi devo annunciare che il governo è intervenuto rapidamente con una protesta a Belgrado, e posso informare il Senato che il governo jugoslavo ha subito comunicato alla nostra legazione la sua deplorazione per l’atto vandalico, ed ha informato che i cinque colpevoli erano stati arrestati e denunciati all’autorità giudiziaria e verranno presto processati. CinGolani. Ricostruiscano la lapide! De GasPeri. Dopo il suo suggerimento, dirò anche la conclusione, che volevo leggere, della lettera del governo italiano: «il governo – dice la lettera – attende dalla comprensione del governo jugoslavo che, dopo la grave offesa recata alla nazione italiana, venga ripristinato quanto era stato distrutto con gesto insensato e irriverente». CinGolani. Molto bene! De GasPeri. Nessun dubbio è lecito, nessuna svalutazione è ammissibile circa l’impegno delle tre potenze – Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia – di restituire all’Italia Trieste e la zona B del Territorio libero. Non è vero che la solenne dichiarazione alleata fosse una promessa di carattere elettoralistico; è uno dei meriti del conte Sforza di aver impostato la richiesta dell’impegno molti mesi prima delle elezioni e di averlo ottenuto intero, solenne ed irrevocabile. Nessuna delle tre potenze (e meno di tutti la Francia, il cui attuale capo del governo fu il primo ad assumerlo) ha mai cercato di attenuarne la validità. Voi mi direte: promessa; perché non l’avete ancora avuta? Ma noi ci siamo sempre affrettati, anche nel momento elettorale, ad aggiungere, noi stessi già allora, pur nell’entusiasmo dell’accoglimento, che mai avremmo cercato di ottenere la attuazione a scapito piccolo o grande della pace internazionale; e nelle stesse elezioni amministrative io ripetei sulla piazza grande di Trieste questa dichiarazione , e i triestini nel loro entusiasmo e nella loro coscienza vi hanno pienamente aderito. Aggiungo ancora che io sono pienamente solidale con il ministro degli Esteri quando si adopera per ottenere Trieste all’Italia, anche come pegno di relazioni feconde con la vicina Repubblica jugoslava, dando un esempio di cooperazione economica al di sopra di pacificate frontiere. C’è stata in questi giorni una dichiarazione di cui non posso prendere atto ufficialmente perché manca il testo ufficiale, che i giornali attribuiscono al ministro Kardelj . Non ho bisogno di aggiungere che, se tali dichiarazioni sono vere, nel testo che ne hanno comunicato i giornali, esse sono assolutamente inaccettabili da parte nostra. Mi riservo però, o meglio, il ministro degli Esteri si riserva di fare i passi che riterrà opportuni e che ha già iniziato. Ma qui, a proposito del conte Sforza, sento il dovere di lealtà, con riferimento a certe distinzioni o discriminazioni fatte con benevolenza verso di me dall’onorevole Orlando, di dire che io non vedo nell’europeismo dell’onorevole Sforza un minore suo impegno nella difesa degli interessi nazionali. È a questi che egli ha sempre mirato e sempre guarda, sia pure con la legittima tendenza di coordinarli agli sviluppi di una nuova sistemazione mondiale. Non è esatto che egli dimostri tiepidezza e insensibilità, di fronte alle rivendicazioni nazionali, ché anzi esse furono da lui tenacemente perseguite e non avendole ancora raggiunte su certi punti, come aveva sperato, egli fu talmente sensibile che offerse parecchie volte il sacrificio della sua persona qualora io avessi ritenuto che ciò giovasse alla causa. Quanto a me, non so davvero di avere parlato o agito nelle conferenze estere o nei colloqui con i negoziatori nel tono e con la convinzione di un penitente. Ho detto a Parigi e a Londra quel tanto che era necessario per non far gravare sul popolo italiano le responsabilità della dittatura fascista, ma invano cercherete una parola che tradisca una mancanza di dignità o una deficienza di sentimento nazionale! (Vivi applausi dal centro e da destra). Certo è che in patria, nei nostri comizi, nelle nostre discussioni, quando, soprattutto da parte di un rinascente nazionalismo, si tenta di fare responsabili noi democratici degli errori passati, abbiamo il dovere e il diritto di ricordare che le colpe si espiano: dovere, perché gli errori non si ripetano e la nostra gioventù non sia di nuovo vittima di frasi sonanti e di sogni avventurosi. (Applausi dal centro e da destra). E ora, veniamo al piano della Cgil. Il programma del governo elaborato durante la crisi, e preparato, in alcuni suoi elementi fondamentali, dai ministri del passato ministero, tra i quali il senatore Bertone , divideva gli investimenti per il Mezzogiorno di 120 miliardi (100 miliardi, più la aggiunta di 20 miliardi per la parte montana del nord), in trasformazioni agrarie, bonifiche, viabilità straordinaria, grossi acquedotti e movimento alberghiero. Quando abbiamo faticosamente messo assieme questo programma – faticosamente per il problema finanziario e faticosamente perché, nella sua compilazione, bisognava tener conto della possibilità di una rapida attuazione, quindi del fatto di avere o non avere i progetti o i preparativi necessari – si poteva prevedere che si discutesse, ci fossero obiezioni sul finanziamento, si riservasse un giudizio a quando fosse stato presentato il progetto concreto. Non si prevedeva, certo, che qui si venisse a dire anche a nome del Mezzogiorno: «ma questa è una elemosina che si deve rifiutare con sdegno! Ma questa è una miseria!». Ed altri hanno esercitato la loro fantasia e visto che i miliardi, secondo loro, si trovano facilmente, hanno cominciato a parlare di 1.200 miliardi che non sarebbero bastati per tale piano (hanno anche lamentato che si preveda di erogarli in dieci anni mentre ne sarebbero bastati cinque) ed anzi ne hanno richiesti fino a duemila o tremila. Orbene, domandare è facile ma in concreto dove trovare tanto denaro? Anche l’onorevole Scoccimarro –non rispondo ora a lui in particolare – come del resto tutti gli altri, dicono: col buon prestito americano. Ma, signori, i prestiti americani non sono una cosa così facile da raggiungere. L’ho provato io stesso: la prima volta, in occasione del mio viaggio in America, ho dovuto compiere una immensa fatica per concludere un prestito di 100 milioni di dollari. Figuratevi poi se ne avessi dovuto ottenere uno di tremila milioni di dollari! (Commenti dalla sinistra). Ad ogni modo voi, (indica la sinistra), non appartenete certo a coloro che preconizzano prestiti dagli americani; ciò sarebbe opposto alla vostra teoria ed alla vostra propaganda contro l’asservimento agli americani! (Approvazioni dal centro e rumori dalla sinistra). Quando si è parlato del piano della Cgil alla Camera dei deputati io ho detto: mi pare che manchi il più, che cioè manchino i denari. Però, siccome l’onorevole Di Vittorio aveva aggiunto che si sarebbe presentata in concreta forma la attuazione, io lo assicurai che avrei esaminato con attenzione la loro proposta, e che, se ci fosse stato qualcosa, od anche tutto da utilizzare, lo avremmo accettato e ce ne saremmo serviti. Quando poi questa indicazione concreta non è venuta in altra forma, ma si è avvertito che sarebbe stata enunciata tramite la conferenza economica, abbiamo inviato due egregi colleghi con l’incarico di vedere e sentire se il programma di governo ne avrebbe potuto approfittare, sia per i settori da «aggredire» – come si dice adesso – sia per il modo di procurare il finanziamento. L’accoglienza è stata molto gentile, ma poi sull’organo ufficiale della maggioranza degli aderenti alla conferenza si scriveva che «la sterile manovra di Campilli e La Malfa di svuotare il piano della Cgil del suo significato politico antigovernativo, manovra appoggiata dalla stampa di destra, è destinata ad essere interpretata dall’opinione pubblica come la confessione che la politica sin qui seguita dal governo è tutta sbagliata». Dunque c’era sotto un programma antigovernativo – come si rileva da quel che scrive il vostro giornale – mentre noi credevamo che si trattasse di tutt’altro, cioè di un piano di lavoro! (Applausi dal centro). Noi abbiamo mandato due colleghi ad ascoltare quella vostra conferenza, ed abbiamo saputo poi da questi nostri informatori – come del resto appariva chiaro dalle relazioni dei giornali – che nella conferenza economica si è completamente ignorato il programma governativo come se addirittura non esistesse, nonostante fosse un programma che rappresenta pur esso un impegno di governo e di maggioranza, e si è ignorato con la presunzione di chi, avendo la ricetta miracolosa in tasca, non si interessa di medici e di medicine. Si sono presentate relazioni e proposte, alcune delle quali tecnicamente molto valide, per i tre settori della bonifica, dell’edilizia, degli impianti elettrici: ma si poteva ignorare in quel momento, che nel campo della bonifica e delle irrigazioni, si è iniziato da tempo, da parte di questi governi «neri», un programma per il quale sono disponibili, in questo esercizio, 50 miliardi che diverranno 80 per 10 anni con le assegnazioni previste per il Mezzogiorno nel programma che vi ho citato prima, e in connessione con una riforma fondiaria? Si poteva ignorare la riforma agraria, si poteva ignorare che esiste al Ministero dell’Agricoltura un programma di irrigazione uscito alla fine dell’anno precedente che riguarda tutte le irrigazioni in corso, quelle progettate e quelle che si potranno fare e finanziare? Si poteva ignorare tutto questo? Mi pare che tra gli argomenti oggettivi di costruzione di un piano doveva esservi anche questo, che questo «maledetto» governo aveva cercato di iniziare a fare o che aveva fatto. Non se ne parla affatto, invece, come se ci trovassimo dinanzi ad una tabula rasa, ad una costruzione nuova. Per l’edilizia abbiamo previsto investimenti per 100 miliardi entro il 30 giugno 1951 col piano Fanfani e 40 miliardi con la legge Tupini, senza tener conto delle previdenze per le abitazioni e per l’edilizia degli enti pubblici. Per gli impianti elettrici è noto che i lavori in corso e quelli che si inizieranno entro il 30 giugno 1951 (questo impegno fu preso, e fino a questo momento dobbiamo credere che sarà attuato) importeranno un investimento annuale di circa 100 miliardi. E non tocco gli altri settori (navale, ferrovie, eccetera) per i quali i provvedimenti sono all’esame del Parlamento. Questo di ignorare sarebbe però stato ancora un peccato veniale in confronto dell’altro: nessuna proposta seria e attuabile di finanziamento è tata rimessa ai lavori parlamentari. Abbiamo sentito ieri un uomo molto autorevole, l’ex ministro Scoccimarro, il quale ha presentato delle proposte che verranno esaminate e vagliate, e da coloro che vorranno sostenerle e attuarle, e da coloro che si opporranno. Comunque altre proposte concrete dalla conferenza non sono uscite. Vi si era riferito il senatore Castagno , quando ha parlato, prima della conferenza stessa, in una esposizione molto moderata, che io ho ascoltato con molta attenzione nonostante venisse da un avversario, perché egli ha presentato delle obiezioni in modo oggettivo. L’onorevole Castagno annunciava che sarebbe stato presentato un programma completo al Parlamento. Allora abbiamo il diritto e il dovere di aspettare con molta calma se vi saranno proposte attuabili, proposte che possano veramente essere trasformate in condizioni di lavoro e finanziate. Se ciò fosse, è non solo nostro diritto, ma anche dovere vararle. Io non entro in ulteriori dettagli: a proposito di questa materia attendiamo la relazione economico-finanziaria del ministro del Tesoro, che farà riferimento ai progetti riguardanti i programmi di lavoro per il Mezzogiorno, per le zone montane, per la riforma fondiaria, già presentati alla Camera. Allora voi avrete occasione di fare il confronto, di vagliare, discutere e deliberare in materia. Quando si è venuti alla conclusione della conferenza, io ho provato una grossa delusione perché, nonostante il mio pessimismo, avevo sperato che quello fosse un settore in cui si potesse collaborare, come si collabora tra persone responsabili. Mi ero sbagliato, perché il comunicato conclusivo della conferenza fu il seguente: «questa situazione è maggiormente aggravata dal fatto che l’economia italiana è costretta nell’ambito del sistema occidentale, dominato dall’imperialismo americano, mentre le imperiose esigenze di lavoro, di vita del nostro popolo esigono che l’Italia attui una politica di vasti scambi economici con tutti i paesi senza nessuna discriminazione» . Qui dovremmo ripetere ancora per la centesima volta che ci sono 42 trattati di commercio con le potenze orientali… sCoCCiMarro. Ma non si attuano. De GasPeri. …chesi attuano nei limiti del possibile, perché non possiamo comperare il grano russo quando costa molto di più di quello degli altri paesi o il carbone della Polonia per far pagare di più le nostre esportazioni. Il comunicato continua con una punta politica: «l’attuazione del piano richiede una nuova politica economica, un governo indipendente dai monopoli industriali e dalla grande proprietà terriera, che riscuota la fiducia delle classi popolari, che sole possono rendere possibile lo sforzo collettivo necessario per il compimento di questa opera grandiosa per la rinascita nazionale». Se voi tendete veramente ad una collaborazione, la potete attuare in Parlamento, anche come minoranza. Non è necessaria la condizione del capovolgimento dell’ordine attuale; bisogna invece vedere se si può trovare la via dell’accordo nell’azione, bisogna vedere se questo accordo nell’azione è più forte delle obiezioni di principio o di ideologia. Solo allora si può attuare la collaborazione, quando non si dirà più che questo governo è incapace di collaborare con la sinistra, è mancipio dei monopoli e dei ceti industriali. L’onorevole Alberganti nel suo discorso, che ha una certa relazione con il programma economico, è stato molto duro, specie quando ha ripetuto quello che altre volte aveva detto riguardo l’industria meccanica. Ora, qui bisogna pure ricordare che nel settore della meccanica le commesse statali costituivano nel 1938 il 34 per cento e negli anni di guerra arrivarono fino all’ottanta per cento del lavoro complessivo delle industrie meccaniche, giacché quasi tutto era destinato allo Stato. Era naturale, era fatale che se non fossimo arrivati a tempo a fare la conversione, doveva capitarci addosso una crisi delle industrie meccaniche, perché lo Stato non poteva continuare a costruire armamenti. I fallimenti ed i protesti a cui si è riferito l’onorevole Alberganti, sono fenomeni dolorosi dei periodi di conversione, ma rappresentano solo l’aspetto negativo di tali periodi. Non bisogna dimenticare che esistono gli aspetti positivi, rappresentati dallo sviluppo, dalla estensione di alcuni altri settori dell’attività industriale. È proprio quello che sta avvenendo nel nostro paese dove, se alcune attività si eliminano, altre al contrario si sviluppano, si rinforzano. Prima della guerra, il settore tessile non ha mai lavorato oltre duecentomila tonnellate di cotone e quantitativi di altre fibre; gli impianti idroelettrici sono, o saranno tra breve, in pieno fervore, e l’industria edilizia, da qualche tempo a questa parte, manifesta una confortante ripresa. I licenziamenti sono un fenomeno doloroso e il governo si sforza di mantenerli nella minima misura possibile, ma anche con l’assorbimento di mano d’opera la soluzione di questo grave problema non può essere totale se non si fa appello ad una stretta collaborazione internazionale, e voi sapete che il governo sta agendo in questa direzione. Sarebbe però inesatto dire che il quadro della disoccupazione in Italia sia in continuo peggioramento, anche perché gli iscritti agli uffici di collocamento non sono aumentati, bensì diminuiti: l’anno scorso infatti si è passati dai due milioni e duecentomila del gennaio a un milione e settecentomila, Non bisogna dimenticare inoltre che ogni anno si affacciano 200 mila giovani reclute del lavoro che, nonostante tutte le difficoltà, si riesce ad inserire nel ciclo produttivo. Se si considerano le cifre di disoccupazione del 1938 e si tiene conto delle persone che sono tornate in patria, della diminuzione dell’organico delle forze armate, dell’emigrazione di questi ultimi anni e soprattutto dei due milioni e 400 mila nuovi lavoratori, si arriva alla conclusione che circa un milione e 700 mila unità hanno trovato occupazione nel corso di questi dodici anni. Ciò è evidentemente possibile solo perché, se è vero che un certo numero di fallimenti e protesti oscura il nostro quadro economico, vi sono anche altre attività che sorgono e si sviluppano in investimenti di 1.500 miliardi di lire complessivamente – e lo dimostrerà il ministro del Tesoro – corrispondenti al 20 per cento del reddito nazionale del 1949, che sono la prova evidente di un progressivo miglioramento della nostra situazione economica. Il senatore Alberganti ha dichiarato che soltanto l’Italia non ha ancora raggiunto in Europa il livello di produzione prebellico. Ciò è inesatto, perché l’indice medio mensile della produzione del 1949 risulta pari a 104, ma è bene non dimenticare, e su questo punto insisto, il livello delle condizioni da cui siamo partiti nel 1945. (Commenti). Si accusa il governo che le importazioni indiscriminate di macchine hanno posto in grave difficoltà la nostra industria meccanica; si afferma che i grandi complessi industriali sono favoriti a danno delle medie e piccole industrie. Non è affatto vero che le importazioni siano indiscriminate, perché esse sono sottoposte ad un vaglio rigoroso prima di essere concesse e le decisioni vengono prese dal ministro dell’Industria dopo aver sentito le categorie interessate. Per quanto concerne le piccole e medie industrie, è vero al contrario che, se qualche deroga è stata concessa, è stata fatta nell’interesse di queste ultime, specialmente se le richieste provenivano da centri dell’Italia meridionale. Le importazioni di macchine dagli Stati Uniti sono autorizzate quando le attrezzature richieste non sono prodotte in Italia, e nella maggior parte dei casi si tratta di macchine modernissime ad alto rendimento che ci sono necessarie per la nostra produzione, se vogliamo ridurre i costi di produzione e competere con i mercati internazionali. Il riammodernamento della nostra attrezzatura produttiva è, nella fase attuale, condizione indispensabile, e verso la più rapida modernizzazione possibile si orienteranno gli sforzi del governo che intende stimolare gli investimenti nei limiti del possibile, per creare così le condizioni necessarie per un maggiore assorbimento di forze nel lavoro. Il senatore Scoccimarro, nella parte economica del suo discorso ha detto, mi perdoni, varie inesattezze e contraddizioni. Egli ha presentato il consueto, catastrofico quadro della situazione economica italiana mentre dal successivo, ottimo discorso del senatore Bosco avete sentito invece i risultati raggiunti: costo della vita da lungo tempo stabile, anzi in leggera diminuzione, (commenti dalla sinistra), il reddito nazionale complessivo ricostituito all’incirca nell’ammontare del 1938; la produzione industriale ed agricola, anche nel corso dell’anno 1949, ha registrato un incremento dall’8 al 10 per cento; capacità di acquisto migliorate; moneta stabile; disavanzo di bilancio in rapida diminuzione; gettito tributario quasi quadruplo di quello – e non era colpa sua – raggiunto dall’onorevole Scoccimarro quando era ministro del Tesoro. sCoCCiMarro. Onorevole presidente del Consiglio, le raccomando di non provocarmi su questo punto. (Vivi rumori e ilarità dal centro-destra). De GasPeri. Onorevole senatore, so benissimo che lei non ha bisogno delle mie provocazioni per dire tutto ciò che pensa e per gettare argomenti contro il presente governo. L’onorevole Scoccimarro, basandosi sull’esistenza di riserve in oro e in divise forti e di crediti in altre monete dipendenti da altre esportazioni, ha creduto di poter accusare il governo di un accumulo di riserve monetarie eccedente il fabbisogno normale. La verità è che le riserve in oro e in divise forti sono assai minori, ed il resto è costituito da crediti derivanti da esportazioni di nostri prodotti, cioè di lavoro italiano. Dovevamo aumentare la nostra disoccupazione, riducendo le possibilità esportatrici della nostra industria e della nostra agricoltura? Certo non è questo che vuole l’onorevole Scoccimarro. Noi non limiteremo le nostre esportazioni sane, cercheremo di potenziarle anzi nell’interesse della maggiore occupazione dei lavoratori e lo faremo entro i limiti richiesti dalla necessità della difesa monetaria. Faremo di tutto per potenziare non le nostre importazioni, ma l’utilizzo del ricavo dei prodotti esportati. Politica quindi di ampio respiro del nostro commercio con l’estero, nell’interesse di una rapida ripresa della nostra economia. Non seguirò – e ci vorrebbe altro, perché ha parlato due ore e mezzo – il senatore Scoccimarro. Mi rimetto alla polemica, che spero sia altrettanto cortese di quella usata con me, che egli farà con il ministro del Tesoro, quando farà la sua esposizione. sCoCCiMarro. Senz’altro mi iscrivo a parlare fin da ora. De GasPeri. L’appuntamento è quindi preso. Mi consenta il Senato di sottolineare però le contraddizioni in cui egli è caduto, nel sostenere da una parte gli effetti esiziali del piano ERP per la nostra economia e nello stesso tempo nel lamentarsi di un insufficiente uso degli aiuti americani. Egli si lamenta poi di una deficiente importazione di macchinari e nello stesso tempo accusa l’America di danneggiare mortalmente la nostra produzione meccanica con le sue importazioni. La realtà è che l’importazione è libera sia per le grandi sia per le piccole industrie, e non soltanto per i grossi gruppi monopolistici. sCoCCiMarro. Non è vero. Le dirò poi che cosa avete importato. De GasPeri. Quando vedo che lei è così sicuro nelle sue affermazioni, veramente deploro di non averlo più come collaboratore economico nel ministero. (Ilarità dal centro-destra). Però, avendo già fatto questa esperienza, devo rilevare che le vere illuminazioni vengono soltanto quando si è all’opposizione e non quando si è al governo. (Applausi ed ilarità dal centro-destra). L’onorevole Scoccimarro accusa il governo di seguire nella sua politica economica gli interessi dei grandi gruppi monopolistici. L’accusa fa veramente sorridere, se si tengano presenti gli atteggiamenti di violenta ostilità verso il governo da parte di certi organi di stampa di alcuni di questi gruppi, nonché le recenti manifestazioni ufficiali, per esempio, la relazione della Confindustria. Io penso che non possiamo riprenderci senza il concorso dell’iniziativa privata e pensando così trovo naturale la cooperazione, i contatti con i cooperatori economici e coi rappresentanti dell’una e dell’altra categoria, cioè degli industriali e dei lavoratori, come è doveroso il contatto con tutti coloro i quali possono contribuire alla rinascita del nostro paese. Badate bene che sono completamente spregiudicato riguardo alla questione della nazionalizzazione, e posso ammettere che domani sia necessario introdurla; ma oggi non mi pare, eccettuati certi limiti a cui abbiamo accennato, e fintanto che ci fondiamo sull’iniziativa privata abbiamo il diritto e il dovere di avere contatti sia con i rappresentanti degli industriali sia con i rappresentanti dei lavoratori. Ma abbiamo anche il diritto di dimostrare che in questa nostra posizione mediana e centrale sviluppiamo una certa attività e indipendenza, perché se veramente fossimo quei servi degli industriali e della Confindustria che voi vi ostinate a dire e ad affermare (perché vi mancherebbe altrimenti una dimostrazione per la vostra lotta di classe) non ci saremmo trovati spesso in disaccordo con gli industriali. Essi avevano il diritto di manifestare il loro disaccordo e noi avevamo il diritto di manifestare il nostro, e di mantenere la nostra linea di condotta. E non basta l’accenno fatto prima, ma potete leggere l’opuscolo della Confindustria dal titolo: «perché in Italia i salari sono bassi e perché c’è disoccupazione», alla pagina 29. Esso dice: «siccome i problemi economici richiedono una certa preparazione tecnica, nelle grandi linee non sono molto complessi. Sia pure sommando errori non sarebbe difficile a chiunque di raggiungere la giusta via. (Meno male che gli errori si sommano, non si sottraggono). La difficoltà è rappresentata dal fatto che gli uomini politici non affrontano i problemi con intenzione di trovare la via che dovrebbe portare al maggiore benessere collettivo, anche se questo è nelle loro ultime intenzioni. Purtroppo gli uomini politici esaminano i problemi economici principalmente dal punto di vista dei riflessi che essi possono avere, maggiori o minori, per il successo del loro partito. In questi ultimi anni in Italia, per risolvere il problema della disoccupazione, si è seguita la via di mantenere la mano d’opera esuberante negli stabilimenti industriali, di imporre la mano d’opera non necessaria in agricoltura, di sovraccaricare il personale degli uffici pubblici e infine di mantenere in vita organismi inutili e di fare spese pubbliche anche di scarsissima utilità. Soltanto una infinita ignoranza, accompagnata da una buona dose di demagogia, poteva suggerire le vie seguite». Ora queste vie seguite, in buona parte, sono vie che abbiamo seguito e iniziato quando eravamo insieme, onorevole Scoccimarro, perché allora si era imposta la necessità di provvedimenti di emergenza, come quello dell’imponibile, come quello per il numero dei reduci, per il numero degli operai, eccetera; sono provvedimenti evidentemente non normali nell’economia: sono provvedimenti di emergenza, e poi li abbiamo adottati in quel tempo perché credevamo fossero provvedimenti indispensabili, ma che non sarebbero durati al di là di quello che poteva durare la crisi. Disgraziatamente, non abbiamo ancora saputo tramutare questi provvedimenti di emergenza in veri provvedimenti per dare lavoro agli operai e, contemporaneamente, liberare dal peso eccessivo le aziende. Da un punto di vista tecnico-economico confessiamo questo, ma confessiamo anche che la critica che la Confindustria ci fa è molto forte, anche se non giustificata dal punto di vista politico, e non si può supporre un accordo aperto o clandestino che rappresenti veramente la congiura del governo «nero» con i monopolisti; questa congiura esiste soltanto nella vostra fantasia, (accenna alla sinistra), perché vi è necessaria come punto indimenticabile e irrevocabile della dialettica economica che voi trasferite anche in questo piccolo settore, dal grande settore della lotta di classe. Io non sono un economista, per quanto ormai abbia una certa pratica, e il non esserlo mi dà una certa modestia e, se volete, anche una non grande sicurezza nelle affermazioni di natura economica. Però ho imparato che i problemi economici sono complessi e poliedrici; che la loro maturazione è lenta, che è facile dire di cercare il bene comune, ma è difficile scegliere tra la relatività dei vari mezzi. Certo, la nostra meta deve essere il progresso e la elevazione dei lavoratori, la rottura dei monopoli, l’accentuazione e la applicazione della funzione sociale della proprietà e dei diritti del lavoro, la necessità di una ridistribuzione della ricchezza e delle rendite. Ma qui siamo anche nel campo politico e psicologico. Se voi ammirate, come ha fatto l’onorevole Romita, senza riserve, il sistema laburista, io dico: evidentemente ci sono molti lati che vanno ammirati, molti risultati che si possono vantare, ma voi stessi sarete d’accordo che ogni paese ha il sistema adatto per le sue condizioni. L’Inghilterra è uscita dalla guerra con l’orgoglio di un paese che aveva attraversato immense difficoltà, ma che aveva vinto, ed ha mantenuto la sua bardatura di guerra, di privazioni, di austerità, per l’orgoglio di riprendere la sua posizione mondiale. Questo orgoglio nazionale, aggiunto allo spirito naturale di disciplina di cui prima ho fatto menzione, ha permesso tutto ciò: che si bloccassero salari, si stabilissero prezzi, si impedissero scioperi, si arrivasse al razionamento totale, si introducesse insomma un dirigismo che in parte potrà essere lodevole ed in parte è oggetto di critiche: ciò non interessa perché è affare inglese. Noi diciamo soltanto che questo sistema, trasportato senz’altro in Italia, avrebbe urtato nella nostra storia e nella nostra mentalità. Noi siamo usciti da un periodo di compressione e di razionamento, dalla vita dirigista del fascismo ed abbiamo confuso o creduto di confondere l’una cosa con l’altra, la libertà con la demolizione di qualunque vincolo. La reazione alla legge, che era diventata addirittura, durante la guerra civile, legge straniera, l’abbiamo sentita come libertà e come ripresa. Questo stato d’animo è stato così potente che si è imposto anche a noi, onorevole Scoccimarro, quando eravamo tutti ministri dei governi del Comitato di liberazione nazionale. Allora a nessuno di noi è venuto in mente di fare delle proposte razionatrici e vincoliste, ma tutti abbiamo sentito queste necessità, abbiamo seguito questa corrente psicologica. Se è stato bene o male non voglio indagare, certo è stato coerente a quella che è la mentalità individualista italiana. Dopo che tutto questo era accaduto, era impossibile, nella situazione in cui ci trovavamo – avendo assolutamente bisogno di soccorsi esteri per i viveri, per il carbone, per il petrolio eccetera – reintrodurre una disciplina tale che ci potesse permettere il dirigismo in tutti gli altri problemi. Ecco perché io dico: ammirazione per l’Inghilterra ma anche distinzione e considerazione di quello che si può fare nel nostro paese. Non dobbiamo avere in economia nessun piano assoluto, nel senso di escludere nazionalizzazioni o metodi diversi, bensì avere la meta sicura: ridistribuzione della ricchezza, elevazione delle classi popolari e medie, frattura dei monopoli. Questo valutando i mezzi a mano a mano applicabili secondo le circostanze e secondo la buona fede di coloro che, esaminate tutte le circostanze oggettive, possano dare il loro contributo. È per questo, amici senatori, che non dovete meravigliarvi se io non ho badato ad altre piccole considerazioni, che cioè un ministro senza portafoglio entrasse accanto all’altro e avesse su qualche argomento particolari idee differenti dalle nostre. Tali idee si possono discutere anche in Consiglio dei ministri, ma l’essenziale è che ognuno di noi deve avere la stessa volontà di ricostruire la nostra economia, di rimettere in sesto il nostro paese e di dare una vita economica più libera e più prospera al nostro povero popolo. (Vivi applausi dal centro). Ho da dire ora una parola all’unico rappresentante del Movimento sociale italiano. Onorevole Franza, mi rivolgo a lei e cercherò, poiché sarebbe veramente indegno di me che non tenessi conto del numero schiacciante che lei ha contro, di esprimermi più gentilmente che è possibile. Dice l’onorevole Franza: «il problema del Movimento sociale italiano (ho preso le parole dal resoconto ufficiale) nei confronti del fascismo è di non restaurarlo nel fatto, ma di non rinnegarlo nel sentimento» . Il fascismo fu una dottrina, ma soprattutto un movimento di azione e un metodo di governo. La dottrina la trovate nell’enciclopedia italiana, nell’articolo scritto da Mussolini. L’azione fu azione diretta, azione di violenza – manganello e squadrismo – introdotta prima come metodo polemico e di protesta alla presunta o reale debolezza degli organi dello Stato, poi divenuta, quando il fascismo si è accampato come milizia nel paese, un metodo di governo. Il regime è divenuto Stato, partito, dittatura che portò alla guerra esterna e, malauguratamente, anche alla guerra civile. Non siamo qui a fare la storia, a dividere le colpe degli uni e degli altri: non è nostro compito. Auguriamoci che lo possano fare serenamente i nostri posteri. Noi ne sentiamo ancora le conseguenze e siamo ancora allarmati che queste conseguenze possano, in altra forma, ritornare. L’onorevole Franza deve perdonarmi se io, che sono un superstite dell’antifascismo nel periodo della lotta, queste conseguenze e queste preoccupazioni le sento in forma speciale, molto forte. Certo voi non parlate di restaurazione, non potete rivendicare titoli di governo: è troppo presto, il disastro è troppo recente. Non avete in vostro favore che la reazione a certi eccessi agitatori e violenti; la difesa di interessi che talvolta, fino ad un certo punto, possono essere legittimi; un certo senso di orgoglio, di rinascita nazionale che, fino ad un certo punto ed in certi limiti, può essere moralmente nobile e ricostruttivo, specialmente nei giovani, ma che può, che deve fatalmente generare il nazionalismo demolitore e fatalmente guerriero. Noi temiamo che questa psicosi avvinca ancoragli animi di coloro che non ricordano la storia, gli animi generosi ed ignari della gioventù studiosa. (Approvazioni). Da quando venne emanato prima il decreto-legge del 1945 e poi la legge della Costituente del 3 dicembre 1947 contro il fascismo, la sola questura di Roma presentò nel 1946 dodici denunce per apologia del fascismo; nel 1947 quattro; nel 1948 dodici, altre questure altre cinque, che fa diciassette; nel 1949 ventitré, ed altre questure tredici, che fa trentasei. franza. Nessuna condanna. De GasPeri. Parecchie condanne, onorevole Franza, ma non è il caso di discutere. Poi, il 28 gennaio avvenne il fattaccio della Garbatella . Il vostro giornale ha cercato di liberarsi della responsabilità eventuale con certe dichiarazioni che nei giovani hanno provocato reazione. Ad ogni modo il fatto della Garbatella, se fosse avvenuto nel 1920, probabilmente sarebbe stato dimenticato, sarebbe stato considerato una ragazzata, un piccolo trascorso di gioventù. Fu una certa reazione perché non si poteva vendere un giornale, ma disgraziatamente dimostrò la vecchia tecnica della spedizione punitiva. Si gettò qualche bomba, si usarono dei manganelli, e tutto questo avvenne senza prima ricorrere alla questura in difesa del giusto diritto di vendere il proprio giornale. Questo non è avvenuto per caso, ma perché si ritiene che bisogna ricorrere all’azione diretta. Non ve lo dico io, c’è una circolare del 3 febbraio della direzione centrale del raggruppamento giovanile studenti e lavoratori, sugli incidenti, che così dice: «il governo teme che le irrompenti energie della gioventù nazionale, il cui risveglio si delinea con maggior decisione in tutto il paese, possano finalmente spezzare con un diretto confronto di forze una situazione politica che da troppo tempo ristagna sul ricatto democrazia cristiana-comunismo. I fatti di Roma possono considerarsi come chiaramente indicativi circa il maturarsi di una situazione, che non esitiamo a definire di emergenza». La stessa circolare raccomanda ai membri del raggruppamento assoluta centralizzazione nel periodo che si annuncia «sotto il segno del nostro balzo in avanti». Questa circolare, e un’altra che leggerò, son firmate dall’onorevole Roberto Mieville, segretario nazionale del raggruppamento giovanile del Movimento sociale italiano. L’8 febbraio l’onorevole Mieville scrive: «cari camerati, (commenti), vi prego di volere estendere ai camerati tutti del gruppo giovanile romano il mio personale compiacimento per il loro magnifico comportamento negli eventi della settimana scorsa, che hanno dimostrato ancora una volta all’imbelle attendismo di molti la esistenza viva e vitale di una gioventù autentica». In tutti i gruppi si è avuta un’altra circolare, secondo la quale si doveva presentare il risultato di una inchiesta fatta tra i soci. Una delle domande era: orientamento politico; la risposta è stata: fascista. (Commenti). Franza ha invitato il governo a mutare strada e a considerare, qualora la libertà del suo partito fosse compromessa e sopraffatta, che il popolo italiano potrebbe da ciò trarre orientamenti politici che potrebbero spingere la nazione verso un avvenire sicuro. Onorevole collega, io l’invito lo rivolgo a lei. Influisca, se può, per fermarli sulla strada intrapresa, dato che sono ancora ai primi passi. Non che noi temiamo che possano ingrossarsi in modo da portarci alla catastrofe dell’altra volta; non questo, ma temiamo che la vostra attività, la vostra azione, la vostra «forma», come la chiamate in un’altra circolare, forma che è forma di mente e metodo di lotta, portino a quelle famose situazioni di risse domenicali che, appena dopo compiuta la marcia su Roma, Mussolini alla Camera deplorava egli stesso: temiamo che si ritorni a quei conflitti e si ritorni a quelle forme di conflitto che indeboliscono lo Stato, senza rafforzare mai il sentimento della patria, qualunque sia la vostra intenzione e il vostro spirito, e soprattutto temiamo che ancora la gioventù si educhi in modo da non comprendere quanto sia costata la libertà che finalmente abbiamo raggiunto. (Vivissimi e prolungati applausi dal centro). Ve lo diciamo a tempo: il governo deve promuovere l’applicazione della legge, la quale proibisce in qualunque forma e misura la rinascita del partito fascista. Siete voi, che spingendo innanzi la vostra azione portereste giorni brutti al nostro paese, provocando o legittimando altre reazioni e infine il sovvertimento interno, la guerra civile. E veniamo alle regioni. Esiste una legge costituzionale delle regioni, ed una legge ordinaria che prevede la data delle elezioni. Il governo si considera impegnato da tale legge, ma tuttavia abbiamo assunto dal passato governo anche il proposito di procedere con tutte le cautele necessarie. Il Parlamento ha condiviso tale prudenza ed alla Camera è in corso di approvazione una legge organica che, stabilendo norme per la formazione degli statuti, per l’emanazione delle leggi e per i controlli statali, tien conto delle esperienze finora fatte nella vita regionale. Le disposizioni più limitative e prudenziali sono quelle dell’articolo 9 che prego gli antiregionalisti di leggere e meditare. L’articolo 9 del progetto della Commissione parlamentare stabilisce che il consiglio regionale non può deliberare leggi, su materie attribuite alla sua competenza dall’articolo 117 della Costituzione, se non sono state preventivamente emanate le leggi della Repubblica contenenti, singolarmente per ciascuna materia, i princìpi fondamentali cui deve attenersi la legislazione regionale. Se tale articolo diventerà legge, è chiaro che il fantasma di una regione abbandonata a se stessa e quasi avulsa dallo Stato, anzi ad esso ribelle, si dilegua, perché è il Parlamento che singolarmente e su ciascuna materia delega alle regioni la facoltà legislativa. Non ho difficoltà del resto a raccogliere anche il voto espresso in Senato, che altra precauzione venga presa onde evitare differenze e difficoltà di carattere finanziario, e che cioè il Parlamento detti direttive anche circa le finanze regionali. Ciò sarebbe necessaria integrazione della riforma per le finanze locali, che sta dinanzi al Senato. Non voglio entrare in altri dettagli che dovranno preoccuparci quando affronteremo la legislazione regionale. Anche questo dibattito ha dimostrato che bisogna guardarsi dalle esagerazioni. Bisogna osservare: primo, che l’esperienza finora riguarda regioni con proprio statuto a valore costituzionale con facoltà molto più ampie di quelle che si prevedono per le regioni normali. Secondo, che si trovano in queste regioni difficoltà iniziali, ma che gli onorevoli Bergmann , Giardina e Luigi Benedetti hanno potuto dimostrare anche i notevoli vantaggi del decentramento autonomo amministrativo. Il governo si affiancherà al Parlamento per tutti gli sforzi che si faranno per ovviare ad ogni pericolo che la regione, creata per avvicinare il popolo allo Stato e alla pubblica amministrazione, possa degenerare in un eccessivo decentramento amministrativo, addirittura disintegrativo della compagine statale. Accanto alla necessità giuridica delle regioni vi è quella di tutti gli organi pubblici come la Corte costituzionale che sarà prossimamente, spero, un fatto compiuto. (Approvazioni). Onorevoli senatori, sono alla fine. Nel discorso che mi ha preceduto, fatto dall’onorevole Ruini, si è accennato alla necessità di un lavoro più efficace, più serrato del Parlamento, e vi si è accennato anche in altri discorsi: si è fatta la critica del modo con cui è stato costituito il ministero. Ogni volta si ripete che il ministero di cui si fa la critica è il peggiore di tutti per la sua formazione, poiché non si è osservata la vecchia regola, si è troppo aumentato il numero dei membri del governo, eccetera. Vi pregherei di leggere a questo proposito quel prezioso libretto di Stafford Cripps sulla democrazia, ove è contenuta una critica storica di tutti i cambiamenti che sono avvenuti sia nella composizione ministeriale sia nella procedura parlamentare nel paese tradizionale del liberalismo parlamentare. Leggete anche una polemica che si è svolta recentemente sul Times alla vigilia delle elezioni circa il meccanismo statale: vedrete che la fantasia e la esperienza inglese non hanno trovato espedienti migliori di quelli che abbiamo trovati noi, ancora giovani in questa esperienza, e che anche in quel paese si fa la critica dei numerosi ministri, ma non si propone di diminuirli, bensì, piuttosto, di suddividerli in due circoli concentrici, cioè il vero gabinetto e gli altri ministri. Voglio dire a nostra soddisfazione che le esperienze che stiamo facendo sono un portato della necessità del fatale intervento dello Stato e dell’ampliamento delle sue competenze, e che il terreno sperimentale è press’a poco dappertutto il medesimo. Detto questo, non è che io voglio cercare delle scuse per la formazione dell’attuale ministero, ma vi prego, anche tenendo conto soltanto dei ministri del dopoguerra, di esaminare le seguenti cifre: primo ministero Bonomi, ministri 20, sottosegretari 20; secondo ministero Bonomi, ministri 19, sottosegretari 21; ministero Parri, ministri 21, sottosegretari 28; primo ministero De Gasperi, ministri 22, sottosegretari 28; secondo ministero De Gasperi, ministri 21, sottosegretari 27; terzo ministero De Gasperi, ministri 15, sottosegretari 24; quarto ministero De Gasperi, ministri 23, sottosegretari 19; quinto ministero De Gasperi, ministri 21, sottosegretari 24; e, infine, sesto ministero De Gasperi, ministri 19, sottosegretari 26. Si era parlato di 28 sottosegretari, ma ad ogni modo, anche se essi fossero 28, non è affatto vero che noi abbiamo creato una novità assoluta, che ne abbiamo gonfiato il numero nei confronti del passato. La linea grafica al riguardo è significativa, va su e giù con una alternativa che evidentemente risponde ad esigenze pratiche contingenti. Comunque, una delle ragioni per le quali abbiamo cercato di aumentare il numero dei sottosegretari va ricercata proprio nella necessità che si sente di avere un maggior collegamento con le due Camere, e specialmente con le loro Commissioni. Riguardo al lavoro e agli accenni che l’onorevole Ruini ha fatto sulla organizzazione di questo nel futuro, rileverò che per il momento la commissione dei due vicepresidenti e del sottosegretario alla Presidenza avrebbe previsto che, a partire dalla prossima settimana, Senato e Camera inizieranno la discussione dei bilanci e che contemporaneamente il Parlamento, sia in aula sia nelle Commissioni, continuerà la sua attività di legiferazione ordinaria e straordinaria. È uno sforzo grandioso che dobbiamo insieme compiere per rendere al più presto esecutivo il programma di investimenti che è alla base del governo. Qui accetto ben volentieri l’esortazione fattami da alcuni colleghi di trovare le forme più spedite per la discussione e deliberazione del programma di lavoro, ma naturalmente l’accettazione da parte mia non è che una piccola parte in confronto a quello che può essere il contributo che può dare il Parlamento. Presenteremo prossimamente i progetti concreti sia per quello che riguarda il Mezzogiorno e la riforma fondiaria, sia per quello che riguarda la relazione generale sugli investimenti. Ci saranno delle basi di discussione con cifre e aspetti e conclusioni concreti, e tali da poter veramente procedere immediatamente alla attuazione e alla applicazione; però, bisogna dircelo francamente e bisogna che lo confessiamo anche di fronte al paese, soltanto uno sforzo straordinario, soltanto una volontà di cooperazione in tutti i settori potrà rendere possibile la rapida attuazione del programma governativo o di qualsiasi programma che verrà integrato con altre proposte e piani. Vorrei aggiungere la speranza che domani, ricominciando la discussione sulla Sila, il Senato dia l’esempio della rapidità di fare le leggi perché mentre le leggi si fanno e si discutono, avvengono occupazioni di fatto, che sono soltanto in piccolissima parte giustificate, come mi hanno riferito, ma renderebbero impossibile la stessa riforma agraria e la ridistribuzione dei terreni quando diventassero permanenti, e non risolverebbero affatto il problema in materia veramente razionale. Faccio vivo appello al Senato perché la legge sulla Sila venga rapidamente varata. È il primo esperimento di riforma: a questo ne seguiranno rapidamente altri in diversi comprensori, e durante questo periodo di lavoro avrete la comodità di discutere la base fondamentale, i singoli articoli e le disposizioni della riforma fondiaria alla quale noi tutti teniamo, non per urtare interessi o per la fobia, ma perché è veramente una delle riforme necessarie per arrivare ad una ridistribuzione della proprietà. La riforma fondiaria non è una rivoluzione ma un principio di rinnovamento e per questo faccio appello a tutti, a quelli che possiedono, a quelli che non possiedono, ma specialmente a quelli che possiedono, perché naturalmente il sacrificio dovrà essere fatto in massima parte da loro . (Vivissimi e prolungati applausi; molte congratulazioni).