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Signor Presidente, mi riferisco alla lettera in data 1° ottobre 1951, che Ella mi ha fatto rimettere dall’Ambasciata del Canada a Roma in merito all’organizzazione dei lavori del Comitato dei Cinque per la Comunità Nord-Atlantica ed alla designazione del rappresentante italiano in seno ad essa. Concordo coi suggerimenti che Ella ha formulato, sia per quanto concerne le riunioni da tenersi a Parigi immediatamente prima dell’Assemblea delle Nazioni Unite, sia per il lavoro preparatorio da condursi da parte di un Gruppo «ad hoc» di speciali rappresentanti. Concordo anche con quanto Ella ha proposto relativamente alla collaborazione del Comitato dei Cinque con l’OECE. Le comunico che il Rappresentante italiano nel Comitato sarà il ministro Giuseppe Pella; egli avrà come «alternate» il sostituto italiano presso il Consiglio atlantico, ambasciatore Alberto Rossi-Longhi , il quale assicurerà anche la partecipazione italiana al Gruppo di Lavoro preparatorio, che terrà la prima riunione in Londra; se necessario, speciali rappresentanti per il particolare compito di esso verranno designati in seguito. Voglia gradire, Signor Presidente, gli atti della mia più alta considerazione.
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La Delegazione italiana è stata informata che le Delegazioni tedesca, belga, francese e lussemburghese, durante la seduta del Comitato di Direzione del 3 settembre u.s., alla quale essa non ha potuto partecipare per i motivi che furono comunicati in quel momento, hanno fatto sapere che i loro governi, pur riservandosi di esprimere una decisione definitiva sull’insieme del progetto in uno studio ulteriore, avevano loro dato istruzioni di continuare il lavoro della Conferenza sulla base del primo Rapporto interinale, base considerata, in principio, come soddisfacente. Il Governo italiano ha esaminato per parte sua il Rapporto interinale con la più grande attenzione e tiene a rendere omaggio a questo importante contributo allo studio e alla soluzione di un problema così vasto e complesso, quale quello della creazione di una Comunità Europea della Difesa. Tuttavia il Governo Italiano non potrebbe accettare integralmente i principi delineati nel Rapporto interinale, e crede necessario sia formulare alcune osservazioni, sia presentare nuove proposte che potrebbero, a suo avviso, condurre a risultati più completi, senza peraltro pregiudicare la rapidità dei lavori. Da un punto di vista generale la Delegazione italiana osserva che la Comunità Europea della Difesa, pur presentando alcuni aspetti che la avvicinano alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, differisce da quest’ultima su dei punti molto importanti: non sembra possibile infatti applicare, per analogia, alla Comunità Europea della Difesa tutte le soluzioni alle quali si è pervenuti per l’organizzazione della Comunità del Carbone e dell’Acciaio. Il Governo Italiano, esaminata accuratamente la questione, si è inoltre reso conto che, sempre da un punto di vista generale, certi problemi di carattere economico e finanziario che si pongono per la Comunità della Difesa, non possono trovare la loro soluzione che nel quadro di un’organizzazione il cui carattere sopranazionale e, diciamo la parola, confederativo, sia sufficientemente sviluppato. Si è per questo motivo che la Delegazione italiana sarà indotta, durante i prossimi lavori, a prendere una posizione precisa avente lo scopo dell’integrazione dell’organizzazione dei Paesi membri in senso confederativo. Non è infatti – come si vedrà – che in una stretta associazione che i problemi fondamentali della finanza possono trovare la loro soluzione. Iniziando lo studio del problema nei dettagli, la Delegazione italiana deve dichiarare che il suo Governo non è in condizioni di accettare il sistema relativo alla formazione e all’approvazione del Bilancio Europeo, quale è previsto nel Rapporto interinale. In verità tutte le delegazioni, durante i precedenti lavori, avevano manifestato qualche dubbio sul sistema proposto nel Rapporto interinale. Tale problema è certamente di una difficoltà molto considerevole. È d’altronde sulla materia finanziaria in particolare – più che su tutte le altre – che le delegazioni, nel Rapporto interinale, hanno attirato l’attenzione dei governi e hanno sollecitato loro istruzioni. In relazione a tale riserva formale la Delegazione italiana ritiene suo dovere di indicare qui di seguito alcuni inconvenienti che deriverebbero dal sistema finanziario previsto dal Rapporto interinale. La Delegazione italiana tiene a sottolineare che non si tratta di inconvenienti relativi soltanto alla posizione dell’Italia, ma al contrario di difficoltà che sarebbero egualmente condivise da tutti i membri della Comunità e dell’organizzazione stessa. Infatti anche se i governi, con uno sforzo di buona volontà accettassero un Trattato fondato su tale sistema, tale trattato molto probabilmente non sarebbe ratificato dai Parlamenti nazionali e non avrebbe pertanto alcun risultato pratico. Il sistema in parola presenta, ad avviso della Delegazione italiana, i seguenti inconvenienti: a) è del tutto contrario allo spirito della responsabilità e alle regole fondamentali del sistema parlamentare: i Parlamenti si vedrebbero in effetti obbligati ad approvare ad occhi chiusi delle spese, poiché sarebbero infatti responsabili dell’ammontare della spesa, cioè dei pesanti oneri che tali somme rappresentano per i contribuenti, senza poter esercitare alcun controllo, o quanto meno alcun controllo dettagliato. Ogni anno i Parlamenti sarebbero obbligati a rinunciare ad una parte della loro sovranità e – ancor di più – in maniera sempre differente, poiché ciò avverrebbe in funzione della somma richiesta dal Commissario, variabile di anno in anno, senza essere in condizioni di valutare in maniera diretta e sicura il fondamento delle differenti domande annuali. b)Nel caso in cui un Parlamento non fosse disposto ad accettare la parte delle spese previste per il suo Paese e già approvata, dal suo ministro in seno al Comitato dei ministri, tutta l’organizzazione si troverebbe in crisi. Siccome poi il sistema di ripartizione delle spese fra i Paesi membri è quello secondo il rapporto della misura percentuale, l’attitudine di uno dei Paesi determinerebbe l’attitudine degli altri, bloccando così il contributo anche di quelli che fossero disposti a pagare. La Delegazione italiana ritiene che in luogo di una rinuncia parziale o rinnovata ogni anno della sovranità nazionale e delle attribuzioni parlamentari, occorrerebbe chiedere ai Parlamenti nazionali, una volta per tutte, un onere avente carattere definitivo e costituzionale. Questo sistema avrebbe il vantaggio di eliminare, una volta ratificato il Trattato, tutte le responsabilità dei Parlamenti per quanto concerne sia la gestione dei fondi stanziati per il bilancio europeo, sia il loro ammontare; i Parlamenti rinuncerebbero così ad interessarsi di una «tranche», fissata antecedentemente, delle risorse nazionali e questa «tranche» sarebbe amministrata nella sua totalità su un piano europeo dagli organi speciali della Comunità. Si tratta dunque di stabilire nel Trattato che la contribuzione di ciascun Paese al bilancio europeo sia costituita da una somma corrispondente alle possibilità di ciascun Paese e di adattarla a tali possibilità automaticamente, di anno in anno, man mano che esse variano. Parecchie formule potrebbero essere previste a tale scopo. Per esempio: 1. Si calcolerebbe il contributo di ciascun Paese secondo una percentuale da stabilirsi del suo bilancio nazionale totale; 2. Si calcolerebbe il contributo di ciascun Paese secondo una percentuale da stabilirsi delle sue entrate fiscali annuali; 3. Si calcolerebbe il contributo sulla base di una percentuale da stabilirsi del reddito nazionale medio per abitante di ciascun Paese, con un sistema equamente progressivo; 4. Il contributo infine sarebbe calcolato applicando una imposta europea della difesa da riscuotersi direttamente da ciascun cittadino. Qualunque sia la formula che sarà adottata, il Governo italiano ritiene che essa dovrebbe assicurare un’equa ripartizione degli oneri finanziari in modo da consentire uno sforzo massimo in rapporto alle possibilità economiche dei contribuenti. A tale riguardo il Governo italiano ritiene che i principi di cui al rapporto del FEB presso il NATO, approvato dal Consiglio atlantico ad Ottawa, costituiscono la base più utile di discussione, anche in vista degli stretti legami che debbono collegare Comunità Europea della Difesa al NATO. La Delegazione italiana riconosce che una rinuncia alla sovranità, come quella prevista sopra, non potrebbe essere fatta dai governi, né accettata dai Parlamenti nazionali, senza che si crei come contropartita, sul piano federale, un organo al quale sarebbero affidati i poteri di cui si priverebbero le assemblee nazionali e che avrebbe l’autorità di esercitarli col medesimo titolo dei Parlamenti nazionali. Effettivamente il progetto previsto nel Rapporto interinale prevede un Commissario che eserciterebbe il potere esecutivo, ma non sarebbe appoggiato da un potere legislativo europeo. L’organo munito di tali poteri dovrebbe essere, secondo la Delegazione italiana, l’Assemblea europea. Questa Assemblea dovrebbe sostituire le assemblee nazionali nel campo della difesa ed esercitare sul piano europeo la parte del potere sovrano che non apparterrebbe più agli Stati membri. Per permettere all’Assemblea di assolvere a tale compito, è evidentemente necessario che essa goda di un grande prestigio, di una grande autorità; in una parola che essa sia veramente rappresentativa. Per tale motivo la Delegazione italiana crede di dover proporre che si prevede, già fin d’ora, che l’Assemblea della Comunità per la Difesa sia composta dei rappresentanti eletti direttamente per suffragio universale. L’estrema urgenza, tuttavia, dell’organizzazione della difesa comune, non permetterà di attendere, per creare la Comunità europea della Difesa, che sia convocata un’Assemblea eletta a suffragio universale, poiché tale convocazione esige la preventiva elaborazione di una legge elettorale adatta così come la preparazione e l’organizzazione delle elezioni. Di conseguenza, come è previsto per gli altri organi della Comunità europea della Difesa, si potrebbe contemplare anche per l’Assemblea una soluzione transitoria: l’Assemblea europea potrebbe essere formata da principio dai rappresentanti eletti dai Parlamenti nazionali. L’Assemblea così formata avrebbe anche il compito di preparare la convocazione dell’Assemblea definitiva, eletta dal suffragio dei popoli europei. Un’Assemblea eletta per suffragio universale europeo potrebbe agevolmente esercitare ampi poteri di controllo politico sul bilancio europeo e su tutta la gestione del Commissario. Il Commissario sarebbe responsabile nei confronti dell’Assemblea nella stessa misura nella quale un ministro è responsabile nei confronti di un’Assemblea nazionale. L’Assemblea dovrebbe avere tutti i mezzi per seguire, anche nel dettaglio, l’amministrazione del Commissario, formando delle commissioni e mediante interpellanze e voti. L’Assemblea potrebbe naturalmente, come è egualmente previsto nel Rapporto interinale, provocare la revoca del Commissario con una mozione di biasimo. Ma tale potere dell’Assemblea dovrebbe essere integrato da un altro potere che ne sarebbe il complemento logico: l’Assemblea dovrebbe avere anche il diritto di nominare il Commissario. Non è infatti interamente logico che il Commissario possa essere revocato, come si propone nel Rapporto Interinale da un’Autorità che non l’ha nominato, mentre l’Autorità che l’ha nominato (il Consiglio dei Ministri) non avrebbe tale potere: si tratta qui di una contraddizione evidente. L’elezione del Commissario da parte dell’Assemblea potrebbe aver luogo su proposta del Presidente di essa, dopo consultazione e su parere del Consiglio dei Ministri. Le attribuzioni dell’Assemblea che sarebbero da principio limitate alla nomina del Commissario, alla sua revoca e al controllo della gestione, dovrebbero essere in seguito, se l’esperienza lo consiglia, allargate. Per esempio l’Assemblea potrebbe essere autorizzata, quando ne fosse il momento a stabilire una legge fiscale europea per le imposte della difesa; essa dovrebbe anche poter dare il suo parere sulle questioni concernenti la legge sul reclutamento e sui piani di produzione degli armamenti. Ma si tratta in tal caso di misure da prendere man mano che esse appariranno opportune.
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Suoi 1084 e 1091. Conferenza Napoli terminata con mozione anodina che tuttavia prevede costituzione speciale organismo internazionale per migrazioni: anche circa tale mozione Stati Uniti e principali Paesi immigrazione hanno riservato loro atteggiamento. Da parte italiana è stato pubblicamente dichiarato nostra «mediocre» soddisfazione et alcuni organi stampa non soltanto di opposizione hanno più o meno apertamente attribuito a Stati Uniti scarsi risultati raggiunti Conferenza. Ritengo pertanto che: 1)convenga manifestare costà nostra soddisfazione per imminente convocazione su iniziativa americana altra riunione, che preferiremmo però non fosse chiamata conferenza per non ingenerare nella opinione pubblica preventive diffidenze dato risultati di quella di Napoli; 2)tale riunione dovrebbe aver luogo a Washington sia per impegnare codesti circoli parlamentari e governativi anche di fronte pubblico americano sia per dare impressione in Europa che opposizione Stati Uniti a progetto BIT era dovuta a questioni puramente politiche e di forma e non a sottovalutazione importanza problema; 3)comunque sarebbe da escludere che tale riunione potesse aver luogo Ginevra o sue vicinanze per evitare sia influenza rivalità agenzie internazionali sia possibilità che BIT subisca ulteriore affronto proprio nella sua sede; 4)per quanto concerne partecipazione finanziaria, oltre quella Stati Uniti, non appaiono dubbi quelle italiana e tedesca mentre sarebbe assai opportuna preventiva azione codesto Governo presso tutti altri eventuali partecipanti; 5)siccome nuovo ente dovrebbe di certo valersi anche collaborazione agenzie internazionali già esistenti, sarebbe opportuno compiti particolari di studio e di assistenza tecnica continuassero ad essere affidati a BIT, poiché altrimenti nuovo ente dovrebbe contare con decisa opposizione sindacati aderenti a BIT, già delineatasi a Napoli; 6)per quanto concerne navi è evidente interesse nostro ed altri Paesi europei disponenti flotte mercantili a potere utilizzare queste prima delle navi IRO che sono che sono anche per la più grande parte non conformi a leggi circa tutela emigranti in mare. Entro prossime settimane Paesi europei concorderanno, in sede OECE, linea di condotta comune circa trasporti. A tale riguardo potrebbe essere costà fatto opportunamente comprendere che imposizione navi IRO con conseguenti danni per flotte europee sarebbe contraria politica americana intesa ricostruzione europea, che comprende evidentemente anche settore navale.
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Per noi, che estranei alla contesa, abbiamo seguito con tanto interesse le vicende di questa consultazione, essa significa, e benché non siano ancora noti i risultati ufficiali, una cosa sola: l’affermazione del sistema parlamentare democratico. Io ho conosciuto personalmente i principali protagonisti di queste elezioni. Sono uomini che al di sopra del loro partito, pongono gli interessi della Patria, come è nella vera tradizione democratica. E poiché tali interessi non possono prescindere dalla causa generale di una giusta pace e della sicurezza delle Nazioni e di tutto ciò che la rafforzi, ho fiducia che la cooperazione tra i nostri due Paesi possa trovare sempre maggior incremento in ogni campo. In un momento in cui in molti Paesi la libertà è soppressa, o in pericolo, è motivo di soddisfazione per ogni uomo libero vedere il popolo inglese restar fedele ai suoi principi democratici, che sono la sua vera e maggiore gloria.
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Si fa riferimento al telegramma n. 230 per la parte riguardante il secondo argomento proposto dal Sig. Spofford per uno scambio di vedute, quello cioè dell’unificazione della Germania. 2. Nell’unito «Appunto» , che viene trasmesso per riservata conoscenza di codesta Rappresentanza, sono riassunte le tendenze dei paesi che, nella questione, hanno fin qui manifestato un più diretto interesse. Allo stato attuale converrebbe a noi conoscere quali siano i pratici suggerimenti che abbiano da fare le Potenze occupanti. 3. Per quel che ci concerne converrà che V.E. tenga presente che in ogni caso è auspicabile che premessa della unificazione siano considerate le garanzie democratiche. Diversamente potremmo trovarci di fronte a sviluppi della questione tedesca contrari alla sicurezza dell’Occidente. Nell’interesse stesso dell’Occidente riteniamo anche desiderabile che premessa per l’unificazione della Germania siano considerati la progressiva integrazione europea ed euro-atlantica della nazione germanica e il rafforzamento delle istituzioni democratiche della Germania occidentale. Il che costituirebbe già di per sé una garanzia di solidità di fronte ad eventuali processi di unificazione. Naturalmente, se questa è la sostanza del problema, occorre altresì non perdere di vista l’aspetto propagandistico e psicologico, e quindi di notevole rilevanza politica, dell’azione di Grotewohl e la necessità che, tanto da parte di Bonn, quanto da parte degli occidentali, si manovri con abilità e prontezza per contrastare l’offensiva sovietica opponendovi adeguate e costruttive impostazioni del problema tedesco. Per parte nostra approviamo l’azione condotta a tale scopo da Adenauer e riteniamo necessario rafforzare la posizione politica del Cancelliere, consentendogli di poter dimostrare ai tedeschi dell’ovest, ed anche a quelli dell’est, che la sua politica è la più consona agli interessi germanici, anche ai fini dell’unificazione.
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Prego trovar modo illustrare ad Acheson, anche sulla base elementi forniti mio telespresso urgente ministeriale n. 605/C del 22 ottobre 1951 viva aspettazione italiana circa prossima riunione emigrazione, nel corso della quale dovrà essere praticamente realizzata costituzione organismo internazionale emigrazione con partecipazione paesi interessati. Con riferimento mie conversazioni a Washington prego rappresentare Acheson estrema importanza anche politica che ha per l’Italia sostanziale alleggerimento sua disoccupazione sottolineando come concreto aiuto da parte Stati Uniti assumerebbe notevole peso psicologico ai fini accentuare adesione popolare ad alleanza atlantica.
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Riferimento suoi 756/757. Per Guidotti . Per testo progetto risoluzioni sta bene. Ai fini di qualunque successiva azione immediata o futura anche se non ancora attualmente definita chiaramente, va tenuto presente che appare necessario raccogliere maggioranza più ampia possibile per votazione su risoluzione. Deve aggiungersi ad opposizione da parte blocco sovietico e atteggiamento imponderabile di Etiopia e Jugoslavia, la considerazione della recentissima esperienza fatta con alcuni Paesi arabo-asiatici in materia di revisione del Trattato, di cui è a conoscenza ambasciatore Quaroni, come pure di possibile «assenza» di taluni latino-americani all’atto votazione. In tal senso questo Ministero è intervenuto presso tutti i governi. Come indicato pure in telegramma 543 tuttavia, poiché molti ministri Esteri sono ora Parigi, governi specie piccoli paesi si rimettono in loro assenza a decisioni loro Delegazioni costì.
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Fabbriche. Sicureza delle aree e degli impianti contro i sabotaggi. In corso di approvazione una legge con pene severe. Nessun caso di sabotaggio finora. Disciplina interna per smantellare le posizioni di preminenza; imporremo condizioni nei contratti licenziamento dopo la scadenza di […] contratti speciali Passaporti. Ritiro dei passaporti in casi di speciale gravità; rifiuto di garantire passaporti collettivi per paesi oltrecortina necessità accordi con Francia. Radio Praga, Mosca, Tirana – disturbano. La difesa contro il comunismo deve essere inserita nel quadro della sicurezza. Richiesta formale solenne alla Russia da parte delle democrazie atlantiche di sopprimere le limitazioni di circolazione di idee e persone come contributo per stabilire relazioni amichevoli fra i popoli. Il rifiuto sovietico giustificherebbe restrizioni dello stesso tipo da parte nostra… fino alla soppressione dei PC Revisione concordata è in corso. 12 dicembre. Verrà consegnata e pubblicata una nota. Contemporaneamente abbiamo richiesto di attenuare alcune procedure delle clausole economiche, come commissione internazionale, termini finali Ammissione all’ONU sembra difficile. Non chiedo violazioni ma uno sforzo intenso e visibile fino a che è possibile Rispettiamo la vostra prudenza nel non volere la rottura con la Russia; ma cosa succederà quando la maggioranza degli stati concorderà con la revisione? In pratica, il nostro atteggiamento diventerà una violazione del trattato? Quale sarà il vostro atteggiamento? Trieste. Le indiscrezioni da Parigi non sono promettenti. Gli slavi giocano sulla confusione fra linea etnica e sistemazione etnica. Parlano di equilibrio etnico e vogliono conteggiare anche la minoranza slava di Trieste… Ma T[ito] ha ammesso il carattere italiano di Trieste; non possiamo discutere la zona A. Della zona B cederanno solo Capodistria. Times in una corrispondenza di stamani c’è il tentativo di favorire la vecchia soluzione del territorio libero, è la completa negazione della dichiarazione delle tra potenze e mette in questione la stessa Trieste. La tendenza britannica creerà nuova agitazione in Italia e renderà difficili i colloqui a Parigi. Difficoltà di ratificare il protocollo relativo a Grecia e Turchia. Piano di trasferimento di truppe inglesi alla frontiera a est di Aqaba e di sostituirle nella zona del canale con intervento americano e egiziano. Non è esclusa permanenza in altro territorio marginale egiziano.
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Dopo alcuni accenni alla situazione in generale ed una rassegna degli argomenti più attuali del Patto atlantico, il presidente è venuto a parlare della nota per la revisione del Trattato, che sarà consegnata il 12 dicembre. Noi abbiamo chiesto che vengano attenuate talune delle procedure concernenti le clausole economiche del Trattato (scadenze per i reclami, commissione internazionale, ecc.) L’ammissione all’ONU appare difficile. Non pretendo, dichiara il presidente, né abbiamo mai chiesto, che si agisca in violazione dello Statuto, ma ci attendiamo uno sforzo intenso e visibile fino ad assicurarci l’ammissione. Noi apprezziamo che ci si preoccupi di evitare la rottura con la Russia, ma al tempo stesso dobbiamo chiedervi: cosa accadrà quando la maggioranza degli Stati aderirà alla revisione del nostro Trattato? Quale sarà il vostro atteggiamento nei confronti della Russia? Acheson dice che l’obiettivo della nostra ammissione deve essere perseguito. Anche se ora andremo incontro ad un altro veto, l’Assemblea prenderà atto ancora una volta dell’assurda e ingiusta posizione dell’Italia e ciò costituirà un’altra tappa di un cammino che percorreremo fino in fondo. È questa l’intenzione degli Stati Uniti. Espone poi quale sia, secondo lui, la diversità delle posizioni nei riguardi dello Statuto e del nostro Trattato: nel primo caso abbiamo un accordo liberamente sottoscritto per il mantenimento della pace; diverso invece è il caso del Trattato italiano. Passando a parlare di Trieste, il presidente osserva che i sondaggi non sembrano molto promettenti, poiché gli Slavi cercano di confondere i concetti di linea etnica e soluzione etnica. Vogliono una compensazione etnica, e cercano di mettere sulla bilancia anche la minoranza slava della città di Trieste. Tito stesso ha ammesso l’italianità di Trieste: non possiamo assolutamente discutere la Zona A, nella zona B vogliono cedere solo Capodistria. Riferendosi all’articolo del «Times», il presidente dice che questa tesi rappresenta il completo sovvertimento della dichiarazione tripartita e pone in questione Trieste stessa. È una vecchia tesi inglese e provocherà nuove agitazioni in Italia, rendendo difficili i sondaggi di Parigi. Acheson non crede che la notizia risalga al Governo inglese, ma che responsabile personalmente ne sia il corrispondente; comunque la deplora per le agitazioni che può provocare. Per influire su Tito vedrà di nuovo di sollecitare Allen . Acheson s’interessa al colloquio con Lowett per le commesse e spera ormai che si concluda rapidamente. Discorso di Acheson e Dunn sul pericolo di sabotaggio: pur escludendolo, il presidente dice che verrà intensificata la vigilanza.
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Signor Presidente, signori delegati, dandovi il benvenuto a Roma, città universale per vocazione e per storia, oso dire che nessun’altra sede può eguagliare questa Urbe nello ispirare dai suoi monumenti, dalle rovine e da tutte le vestigia impresse nel suo suolo dalle generazioni umane; lo stato di animo di cui oggi hanno bisogno coloro che sono chiamati a reggere i popoli. Il primo elemento di questo stato di animo è un senso di limitazione delle nostre forze che diviene più acuto innanzi alla secolare profondità e complessità della storia: il nostro tempo è forse un minuto secondo nel quadrante del mondo civile e la nostra azione è condizionata da un così rapido evolversi delle cose che ogni risoluzione deve essere esaminata e presa con la massima responsabilità. Ma la storia di Roma ci insegna soprattutto che la forza decisiva e la fede nel proprio ideale è la energia spirituale che muove e dà impulso alla volontà organizzativa, che conquista e unisce gli animi e li munisce poi di mezzi materiali necessari per raggiungere il fine. I popoli non seguono, se non sono afferrati da una idea calda e profonda e non reggono per via, se non sono persuasi che essa porta a maggiore giustizia sociale e internazionale. Questa verità che abbiamo formulato ad Ottawa, a Roma trova conferma nella lezione della storia. Lo sappiamo, onorevoli colleghi, questo ideale profondo e penetrante è la pace, ma questa nostra pace deve essere definita e precisata. Si tratta di pace costruttiva, non della pace dell’inerzia e dell’abbandono: una pace che non difenda privilegi sociali o posizioni comunque acquisite, ma sia una pace operosa e dinamica che porti alla dilatazione del benessere verso i poveri e al soddisfacimento di legittime rivendicazioni delle classi e dei popoli. Questa pace ha bisogno per alimentarsi del fermento evangelico e umanitario che commuove tutta la storia della civiltà occidentale; ha bisogno del riconoscimento della piena dignità della persona umana, conquistata qui a Roma a prezzo di persecuzioni che portarono alla libertà delle coscienze; e come inquadratura politico-sociale, ha bisogno di una organizzazione democratica: fondata sulle libertà essenziali e sulla eguaglianza delle opportunità sociali-economiche. Questa è la nostra pace e in questo senso il Patto atlantico è patto di pace e libertà e sviluppo verso le classi e fra le Nazioni. I mezzi di difesa che cerchiamo, vengono costituiti per assicurare questa pace operosa non per provocare una guerra. Per voi, rappresentanti di governi che hanno accettato il Patto atlantico dopo che i Parlamenti ne avevano scrupolosamente esaminato gli impegni, questa verità è ovvia e non ha bisogno di essere ripetuta. Ma in certi paesi, di fronte alla insistente e faziosa propaganda avversaria occorre inculcare nelle menti il concetto della pace democratica che intendiamo e vogliamo difendere. È in questa difesa che anche l’Europa deve finalmente ritrovare se stessa. Considerata da un punto di vista della storia universale, l’ultima guerra fu per l’Europa una guerra civile come civili furono le guerre che rovinarono Roma. Non si può difendere una società contro pericoli esterni, se non si è d’accordo sulle linee essenziali che occorre difendere, se tale accordo non risulti anche visibilmente e praticamente dall’azione comune. Ai popoli, che invitiamo a schierarsi su una linea comune di difesa occorre la ispirazione e la illuminazione di una visione sintetica. Noi europei dobbiamo ringraziare l’America che è venuta a ricordarcelo, e più che a ricordarlo, a promuoverne l’attuazione, prima col suo intervento nel Piano Marshall, poi col Patto atlantico, patto difensivo accompagnato da ripetuti tentativi di soluzioni pacifiche, quali quelle autorevolissime che sono ora in corso all’ONU. Signor Presidente, prima di chiudere questa mia introduzione che è riuscita un po’ lunga – e ne chiedo scusa – compio il gradito dovere di ringraziarLa e con Lei ringraziare tutti i delegati in nome dei quali ella mi ha telegrafato per le parole di simpatia e di condoglianza che ebbe a inviarmi in seguito alla sciagura delle inondazioni. Si tratta veramente di un avvenimento disastroso, di cui ancora non possiamo misurare tutte le conseguenze. Solo un quinto della superficie italiana è pianura, e l’unica pianura di notevoli dimensioni è la Valle Padana; si può immaginare quale sia il danno e soprattutto quale l’urgenza di riprendere la produzione per l’alimentazione del Paese. Noi siamo decisi a fare entro la Nazione ogni sforzo per riparare il disastro, ma saremmo estremamente grati per ogni atto della vostra solidarietà. Siamo riconoscenti per l’interessamento che porterete verso i sinistrati; ma grati anche se la nostra sventura offrirà occasione di dimostrare che la comunità atlantica è comunità di vita, quale fu recentemente proclamata nella vostra ospitalissima Ottawa.
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Il Sig. De Gasperi dichiara che la sua delegazione ha appreso con grande interesse della dichiarazione del Sig. Eden. L’Italia ci tiene a vedere il Medio Oriente libero da qualsiasi influenza comunista e perciò è favorevole alla proposta di ammettere all’Organizzazione la Grecia e la Turchia. Sarebbe un errore sottovalutare i recenti avvenimenti in Egitto. Il suo governo, che ha interessi particolari in Egitto, è convinto che ogni soluzione prevista dovrà fare capire al mondo arabo la necessità prioritaria di una difesa contro il comunismo.
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Desidero ringraziare particolarmente il presidente di questo Consiglio per le Sue cortesi parole e rivolgere un saluto a tutti e a ciascuno dei Sostituti che rappresentano in modo permanente e operante la solidarietà atlantica. L’ideale che tutti dobbiamo sempre sforzarci di raggiungere è una solidarietà fatta di intima, sincera cooperazione a tutti i livelli di questa potente organizzazione e nello spirito della più completa parità di diritti. E infatti questa solidarietà è il patrimonio più prezioso dell’Occidente in quanto la nostra organizzazione custodisce e attua i due beni più preziosi: la pace e la difesa. Nella volontà di attuare questo ideale, di raggiungere questi scopi e di difendere questo comune patrimonio, ritengo veramente di poter dire che l’Italia, che il Governo italiano non sono secondi a nessuno. Noi abbiamo fatto e facciamo uno sforzo che può sembrare piccolo in termini di confronto assoluto, ma che in relazione alle risorse di un Paese come l’Italia è veramente grandissimo. Tanto più grande in quanto il Paese deve difendersi sia sul fronte esterno che su quello interno, deve cioè a un tempo riarmarsi al limite massimo consentito dalle sue forze e attuare quelle profonde riforme che, mantenendo sano il corpo sociale, possano renderlo più atto a difendersi contro la minaccia esterna. Voi, Signori Sostituti, avete ricevuto in ventura uno dei compiti più gravi e più importanti che si possano demandare ad uomini di buona volontà. Ma io sono sicuro, lo sento e lo vedo, che voi non dimenticate mai la Vostra responsabilità e vi sforzate di lavorare insieme come soltanto possono lavorare in profonda armonia di intenti e di azioni i soldati di una buona causa.
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Caro Sig. Acheson, facendo seguito al nostro colloquio dell’altro giorno , c’è un punto su cui vorrei tornare. Ho affermato in quell’occasione che non vi è alcun desiderio da parte nostra di ottenere l’ammissione alle Nazioni Unite in violazione della Carta. Lei ha concordato con me sul fatto che serve fare il massimo sforzo per l’ammissione dell’Italia e che in nessun caso la questione deve essere lasciata cadere. Apprezzo la sua intenzione di perseguire questo obiettivo con tanta insistenza. Ma in aggiunta a questo vorrei ricordare qui le parole del comunicato emesso al termine dei nostri colloqui a Washington («determinazione degli Stati Uniti a compiere pressioni per l’ammissione dell’Italia all’ONU») e particolarmente le calorose espressioni del presidente Truman a Washington quando dichiarò che se il veto russo continuerà «servirà trovare altri modi per permettere all’Italia di svolgere pienamente e in modo egualitario la sua parte nel difendere i principi delle Nazioni Unite». Cito questi passaggi a completamento di quanto detto l’altra sera perché ritengo che siano una solida base per un’azione comune e perché essi hanno fatto una profonda e favorevole impressione qui e sollevato le speranze della pubblica opinione. Dobbiamo contribuire a mantenere queste speranze.
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Il Governo italiano è stato molto lieto di aver avuto l’onore di ospitare questa conferenza, la quale, dopo le precedenti, aumenta le possibilità di intesa, di conoscenze personali, di scambi di idee, creando così lentamente ma fatalmente una unione e una comunità. È stata votata oggi una risoluzione che esprime la solidarietà dei delegati alla conferenza della NATO per gli alluvionati. Ho espresso, a nome della Nazione italiana, la nostra gratitudine. In verità questo atto, accompagnato da contributi concreti, dimostra che quello che ci unisce non è – come spesso i nostri avversari dicono – odio contro altri, ma la solidarietà fraterna fra i popoli liberi. Il comunicato che è stato ora approvato contiene una idea riassuntiva dell’attività della conferenza. Vorremmo che tutto fosse pubblicato, ma per evidenti ragioni ciò non è possibile. Dalla lettura dei comunicati finali avrete l’impressione della volontà di pace che era stata espressa anche nelle precedenti conferenze. Se fosse consentito render pubbliche le decisioni di carattere militare, esse proverebbero a tutti che da parte nostra non esiste alcuna intenzione offensiva, nessun pensiero di una guerra preventiva. Si tratta di difesa, di possibilità di difesa. Dobbiamo purtroppo metterci in grado di poter difenderci da un eventuale attacco. Nessuna parola è stata detta in questa conferenza di ostilità contro qualsiasi potenza. La conferenza di Roma, come già quella di Ottawa, si è occupata molto dei problemi politico-sociali. [In] particolare a noi, nazione sovrapopolata, stanno a cuore i problemi del lavoro e della mano d’opera che sono direttamente connessi con le possibilità di difesa, nel nostro programma di divenire capaci di resistere a un’eventuale aggressione. Noi italiani siamo stati anche particolarmente interessati al dibattito sulla questione dell’esercito europeo, dibattito che ha dimostrato che le principali interessate ad esso sono tutte d’accordo sull’urgenza di agire per la sua realizzazione. Restano però da risolvere molte questioni. Dobbiamo tener presente che non è possibile creare uno strumento collettivo senza creare un organismo costituzionale collettivo per dirigere l’attività di questo esercito. Ecco che il problema diviene problema costituzionale degli Stati aderenti. Le difficoltà da superare, in questo campo, sono numerose. È vero che nella conferenza di Parigi abbiamo formulato proposte e superato difficoltà; non dovrebbe essere pertanto difficile concludere entro il tempo che ci separa dalla prossima riunione prevista per il 2 febbraio. D’altra parte urge la necessità, di cui si è discusso qui, di trovare una intesa per la partecipazione della Germania alla difesa europea. Vorrei aggiungere che la questione di Trieste non è stata discussa alla conferenza atlantica né direttamente né indirettamente. Entro il 2 febbraio si dovrà raggiungere, in seno alla conferenza di Parigi, un accordo sull’organizzazione dell’esercito europeo. Abbiamo già la formula per l’autorità supernazionale che deve essere costituita nella realizzazione del piano per l’esercito europeo. Si tratta ora di definire i metodi, tenendo conto specialmente delle esigenze di ordine costituzionale dei singoli paesi aderenti, per la sua formazione – (l’Italia è favorevole all’elezione diretta, a suffragio universale) – per il suo funzionamento, nonché per i suoi compiti. È peraltro possibile che si adotti intanto una decisione provvisoria in base alla quale possa procedersi alla designazione di tale autorità da parte dei Parlamenti su proposta dei governi. Quanto all’esercito germanico sarà costituito solo quando sarà istituito l’organismo dell’esercito europeo. Sono personalmente d’accordo con il ministro degli Esteri francese Schuman circa la possibilità di unificare gli organismi preposti all’attuazione del piano Schuman e del piano Pleven. Ciò è particolarmente importante per garantire l’avvio a una forma di unione federativa in Europa.
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Desidero anzitutto ringraziare, voi, Signor Presidente, e con voi l’Assemblea, dell’invito che avete voluto rivolgermi e che mi permette oggi di esporre brevemente le mie idee e le mie preoccupazioni a proposito dei gravi problemi che ci troviamo dinanzi. È con grande soddisfazione che ho visto le idee che noi qui difendiamo percorrere molto cammino sulla via delle realizzazioni concrete. Malgrado le innumerevoli difficoltà che si sono presentate, il Piano Schuman è sul punto di diventare un fatto compiuto. Io credo che tutti i Paesi qui rappresentati sono ormai d’accordo sul principio che bisogna arrivare ad una forma di integrazione europea. I pareri differiscono soltanto sul modo di giungervi. Se interpreto esattamente il vostro desiderio, non si tratta per me di esporre sulle linee generali il mio pensiero – del resto abbastanza noto – ma di precisarlo riguardo al problema concreto che è nato dall’urgenza di una difesa comune. Il bisogno di sicurezza ha creato il Patto atlantico, cioè un’organizzazione che tende a ristabilire l’equilibrio delle forze. È quella la prima linea di difesa contro il pericolo esterno: essa è basata sull’integrazione dello sforzo nazionale con lo sforzo collettivo. La Comunità atlantica, pur avendo come scopo fondamentale la difesa sul piano militare, mira anche a rafforzare questa solidarietà sopra un piano umano, dove tutti i nostri valori spirituali formano un patrimonio comune e permettono lo sviluppo di una fraternità operante. Ma la condizione essenziale per una resistenza esterna efficace è in Europa la difesa interna contro una funesta eredità di guerre civili – tali bisogna considerare le guerre europee dal punto di vista della storia universale – quest’alternanza, cioè, d’aggressioni e di rivincite, di spirito egemonico, di avidità di ricchezza e di spazio, di anarchia e di tirannia, che ci ha lasciato la nostra storia, per il resto così gloriosa: è dunque contro questi germi di disgregazione e di declino, di reciproca diffidenza e di decomposizione morale che noi dobbiamo lottare con tutte le nostre forze. Noi abbiamo la consapevolezza che dobbiamo salvare noi stessi, che dobbiamo salvare il nostro patrimonio di civiltà comune e di esperienze secolari. Perché se è vero che il Patto atlantico abbraccia il mondo, non è meno vero che in questo mondo l’Europa custodisce in se stessa le fonti più antiche e le tradizioni più alte della civiltà. Le somiglianze e le convergenze storiche, anche i legami spezzati e subito riannodati, ci indicano che la messa in comune delle nostre forze spegne i nostri rancori e può darci in Europa la pace interna, anche prima che un patto di difesa venga a garantirla. L’associazione delle nostre esperienze sociali, culturali, amministrative, raddoppia le nostre possibilità nazionali e le preserva da ogni decadenza dando loro uno slancio nuovo verso la creazione di una civiltà ancor più elevata. Qual è l’alternativa che si pone per noi ora, in questo dopoguerra? Noi siamo tutti d’accordo che dobbiamo difendere i nostri focolari, le nostre istituzioni, la nostra civiltà nel momento del pericolo. Ma le nuove generazioni che tendono ad una concezione integrale e dinamica di vita esitano di fronte ad una scelta che può decidere del loro destino: riprendere la strada interrotta della guerra, strada seminata di rivendicazioni e di conflitti che si ispirano ad una concezione etica assoluta della nazione; oppure andare verso il coordinamento di queste forze, talora ideali e razionali, talora ancora istintive e irrazionali, in vista di una espansione superiore e di una più larga e fraterna solidarietà. Quale strada bisogna scegliere per mantenere quello che c’è di umano e di nobile in quelle forze nazionali, pur coordinandole verso uno scopo di civiltà sopranazionale che possa equilibrarle, riassumerle e comporle in una corrente irresistibile di progresso? Questo non si può fare altro che vivificando le forze nazionali con gli ideali comuni della nostra storia e dando loro come campo d’azione le distinte e grandiose esperienze della comune civiltà europea. Non si può fare altrimenti che realizzando un punto d’incontro dove queste esperienze si confrontano, si selezionano e così generano forme nuove di vita comune, ispirate a una più grande libertà e ad una più giusta vita sociale. È sopra un’associazione di sovranità nazionali basata su istituti costituzionali democratici, che queste forme nuove possono spandersi. Fin da ora questo scopo deve essere chiaro, determinato e garantito, anche se un balzo solo non sarà sufficiente per raggiungerlo, e se non sarà possibile raggiungerlo in tutti i settori che esso comporta. Solamente se possiamo dare fin d’ora questa visione costruttiva e luminosa potremo attirare le masse, ispirare ad esse il necessario slancio ideale e soprattutto guadagnare gli spiriti delle nuove generazioni europee. La costruzione degli strumenti e dei mezzi tecnici, le soluzioni amministrative sono senza dubbio necessarie; e noi dobbiamo esserne grati a coloro che ne assumono il compito. Queste costruzioni formano l’armatura: rappresentano ciò che lo scheletro rappresenta per il corpo umano. Ma non corriamo il rischio che si decompongano se un soffio vitale non vi penetra per vivificarle oggi stesso? Se noi non costruiremo altro che delle amministrazioni comuni senza che vi sia stata una volontà politica superiore, vivificata da un organismo centrale, nel quale le volontà nazionali s’incontrano, si precisano e si animano in una sintesi superiore, noi rischiamo che questa attività europea, compaia al confronto delle vitalità nazionali particolari, senza colore, senza vita ideale; potrebbe anche apparire ad un certo momento una sovrastruttura superflua e fors’anche oppressiva, quale apparve, in certi periodi del suo declino, il Sacro Romano Impero. In questo caso le nuove generazioni, prese dalla spinta più ardente del loro sangue e della loro terra, guarderebbero alla costruzione europea come ad uno strumento d’imbarazzo e d’oppressione. In questo caso, il pericolo di involuzione è evidente. Ecco perché, pur avendo una coscienza chiara della necessità di guardare la costruzione, noi giudichiamo che in nessun momento bisognerà agire e costruire in maniera che il fine da raggiungere non risulti chiaro, determinato e garantito. Questo è tanto più necessario quando si viene a mettere in comune quello strumento così essenziale così tradizionale che è l’esercito. Le forze armate sono anche un corpo morale fra i più elevati della nazione, la scuola delle più alte virtù militari e civili. Le loro bandiere rammentano le glorie del passato e sono impegno dei sacrifici dell’avvenire. Se noi chiamiamo le forze armate dei diversi Paesi a fondersi insieme in un organismo permanente e costituzionale e, se occorre, a difendere una patria più vasta, bisogna che questa patria sia visibile, solida e viva; anche se non tutta la costruzione è perfetta, occorre che fin d’ora se ne vedano le mura maestre e che una volontà politica comune sia sempre vigilante, perché riassuma gli ideali più puri delle nazioni associate e li faccia brillare alla luce di un focolare comune. So bene che questo ideale europeo non è ancora abbastanza radicato nelle folle: non c’è che una parte di uomini politici, di pensatori e di idealisti che riesca a sottrarsi alla cura quotidiana dei problemi della ricostruzione di un avvenire comune. Voi, signori Rappresentanti, siete di questo numero, in virtù del mandato che avete ricevuto dai vostri colleghi, eletti, come voi, dal popolo. Ora, benché in Italia questa idea debba fare ancora strada e debba essere oggetto di approfonditi dibattiti in Parlamento, oso sperare innanzi a voi, che conformemente allo spirito della Costituzione, la nazione italiana che pur è uscita spoglia dalla guerra sarà disposta ad accettare dei limiti ragionevoli alla sua sovranità nazionale in unione con le altre Nazioni europee, se ciò può servire ad allargare il campo del suo slancio vitale. Certo l’avviamento più logico, più pratico, più conforme ai precedenti storici sarebbe l’unione doganale, e, per ciò che ci riguarda, noi abbiamo risolto tecnicamente questo problema con la Francia, e ne auspichiamo una soluzione politica positiva. Tuttavia molte strade conducono a Roma. Si presenta ora il problema dell’esercito europeo, problema, come ho detto, delicato, che tocca le stesse fibre più intime dell’organismo nazionale; io non posso esprimere qui, in questo momento, che il mio personale avviso; ma credo che il Parlamento italiano non rifiuterà il suo assenso al meritorio sforzo di uomini generosi e antiveggenti, per creare uno stabile ponte fra nazioni, separate spesso, nel passato, da un abisso, nel quale precipitò tutta l’Europa. L’approvazione non mancherà se questo ponte sarà solidamente gettato e appoggiato sui pilastri del consenso popolare e costituirà veramente il vincolo fra Nazioni libere ed eguali. Per creare questo ponte è dunque evidente che il primo e il principale pilastro deve essere un corpo eletto comune e deliberante, anche con attribuzioni di decisione e di controllo limitate a ciò che è amministrato in comune, e dal quale dipenda un organismo esecutivo collegiale. Il secondo pilastro sarebbe formato da un bilancio comune, che tragga in parte considerevole le sue entrate da contributi individuali, cioè dal sistema di tassazione. La storia ci insegna che la forma di contribuzione degli Stati, come sistema esclusivo per sopportare spese comuni, può provocare pericolose divergenze e contenere germi di dissoluzione. Non è poi così difficile per ciascuno Stato devolvere il prodotto di un monopolio o di un’imposta d’altra natura a profitto del bilancio comune. Questo sistema mi sembra costituire un minimo necessario perché questo progetto ottenga l’approvazione dei Parlamenti ed il consenso delle popolazioni. Quando questo esercito, così organizzato e amministrato, sarà inserito nella Nato, secondo il voto della Conferenza di Roma, noi avremo raggiunto l’unione di tutte le forze difensive e nel medesimo tempo avremo creato, all’interno, un nucleo federale che sarà la garanzia più sicura della nostra solidarietà democratica. È vero che ognuno di noi ha nel suo paese problemi che lo incalzano da tutti i lati, è vero anche che alcuni potrebbero desiderare di proseguire quest’opera in altri settori più facili, ma ciascuno di noi sente che questa è l’occasione che passa e che non tornerà più. Bisogna afferrarla ed inserirla nella logica della storia. Dopo aver dunque reso omaggio agli uomini coraggiosi che hanno iniziato quest’opera e l’hanno fatta progredire, io penso che sia ora di esortarci tutti a compierla. È assolutamente necessario che il nostro compito non fallisca e che trovi nei nostri Paesi la collaborazione di tutte le forze democratiche e di rinnovamento sociale, e ridesti nello stesso tempo in tutti i nostri amici, particolarmente in America, la fede nei destini dell’Europa.
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[…] De Gasperi: data la ristrettezza del tempo disponibile, ritiene che converrebbe eliminare tutte le questioni tecniche e concentrarsi invece su quelle strettamente politico-costituzionali e più importanti, in particolare su quelle connesse col problema del bilancio. Schuman: spiega che è effettivamente sua intenzione di trattare anche gli aspetti politici delle varie questioni da lui indicate. De Gasperi: non è d’accordo, ma di fronte alle spiegazioni, si rimette all’esperienza del Presidente, pur ricordando che non si potrà deliberare sul bilancio senza affrontare la questione pregiudiziale politica. 2) – Reclutamento delle truppe europee […] De Gasperi: pur prendendo nota che un accordo sembra essersi realizzato provvisoriamente ricorda che non si è ancora definitivamente impegnati su questo punto, perché una decisione definitiva potrà essere presa solo quando essa avverrà sull’insieme del Trattato. 3) – Incorporazione delle truppe […] De Gasperi: gli sembra che vi possano essere difficoltà per quel che riguarda le forze di occupazione a Berlino e in Austria: c’è una situazione contraddittoria fra NATO ed E.E. Domanda che cosa succederebbe se le truppe francesi a Berlino o in Austria venissero attaccate. La Comunità si troverebbe allora automaticamente di fronte al casus foederis, mentre il casus non esisterebbe automaticamente per il NATO? […] De Gasperi: non ha difficoltà per l’eccezione delle truppe dell’Indocina, ma solleva il problema della proporzione che deve esistere fra il quantitativo di queste truppe e le aliquote versate all’esercito europeo. Quanti sarebbero i contingenti necessari per i rimpiazzi in Indocina? Sottolinea che la questione ha una importanza soprattutto psicologica, perché di fatto, anche se per comprensibili ragioni, la Francia otterrebbe in questo modo di mantenere un esercito nazionale, a differenza degli altri paesi. 4) – Inquadramento (nomina degli ufficiali) […] De Gasperi: osserva che su ogni problema che si presenta risorge il problema fondamentale e cioè che la creazione dell’esercito europeo non è possibile senza modificare leggi fondamentali dei paesi membri e senza risolvere la questione politica fondamentale: il carattere della comunità. […] De Gasperi: osserva che la questione non è facile nemmeno per i paesi repubblicani. Come si può far apparire che la Repubblica protegge la sovranità nazionale meno bene che la Monarchia? Il problema è particolarmente serio quando si tratta di Repubbliche che non hanno tradizioni secolari. […] 5) – Istruzione […] De Gasperi: nota che è difficile prendere una decisione sull’argomento, quando non si sa ancora quale sarà la figura del Commissario: siamo sempre alla pregiudiziale politica. […] [Seduta del pomeriggio (ore 15-ore 20)] 6) – Poteri del Commissario e questione politica fondamentale. De Gasperi: l’Italia è pronta a trasferire ampi poteri a una Comunità europea purché questa sia democraticamente organizzata e dia garanzie di vita e di sviluppo. Non nega che vi possa essere un periodo transitorio, ma ritiene necessario che nel momento in cui il trattato verrà presentato ai Parlamenti, sia già chiaramente affermata la volontà di creare istituzioni politiche comuni, che assicurino la vita dell’organizzazione. Riconosce che l’organizzazionepolitica e integrata dell’Europa non si potrà realizzare subito, ciò nondimeno stima che è necessario avere fin dal principio la sicurezza che questa organizzazione a un certo momento prenderà vita. Se si trasferisce tutto l’esercito a un potere europeo, bisogna che i Parlamenti e i popoli sappiano in che maniera questo potere sarà organizzato, come gestirà le sue attribuzioni e come sarà controllato. È per questo che considera la presenza di una Assemblea nell’organizzazione europea come essenziale; è necessario che nella Comunità europea esista un corpo rappresentativo, questo potrà anche essere formato mediante delegazione di poteri da parte dei Parlamenti nazionali. L’organo esecutivo europeo, che a suo avviso dovrebbe essere collegiale, sarebbe responsabile verso questo corpo rappresentativo europeo. L’organo esecutivo dovrebbe avere un presidente, che si chiami o Commissario o in altra maniera. (Il termine Commissario potrebbe non essere ben accetto a noi italiani perché è un termine che ricorda il provvisorio, né ai tedeschi perché ricorda gli alti commissari dell’occupazione). Il nome è una questione secondaria, l’importante è che si tratti di un corpo collegiale e non di una persona singola. In questo corpo collegiale la presidenza, ad esempio, potrebbe essere esercitata a turno. Comprendo che la creazione di una Assemblea rappresentativa può destare qualche preoccupazione presso i paesi minori, che, per forza, avrebbero rappresentanza limitata, ma il correttivo si può trovare nel Consiglio dei Ministri. In esso ogni paese avrebbe una rappresentanza eguale come in un Consiglio degli Stati. Vi è poi la questione della messa in moto dell’esercito europeo. Nel Patto atlantico, almeno teoricamente, non vi è automatismo. Per l’esercito europeo occorrerebbe che nel determinare i poteri dell’Assemblea e del Consiglio degli Stati, si trovi una formula affinché questi organi siano consultati. Comunque sia per riuscire dobbiamo fare qualche cosa che presenti attrattive per la gioventù europea; dobbiamo lanciare un appello a cui questa possa rispondere. Come potremo giustificare il trasferimento a organi comuni di così importanti parti della sovranità nazionale se non diamo al tempo stesso ai popoli la speranza di realizzare idee nuove? È questa la sola maniera per combattere i risorgenti nazionalismi. Schuman: pur dichiarandosi in massima d’accordo, obietta che quanto ha detto De Gasperi concerne uno stadio ulteriore. Oggi deve essere esaminato quello che è necessario fare immediatamente. De Gasperi: teme che vi sia equivoco e che le sue parole non siano riuscite chiare. Per presentare il trattato ai Parlamenti è necessario dire non solo quello che si farà durante lo stadio transitorio, ma indicare anche la meta a cui si vuole e si deve arrivare, sia pure senza precisare dettagli. È indispensabile quindi stabilire nel trattato alcuni principi o idee generali. Bastano poche linee, purché siano chiare e impegnative. D’altra parte non è difficile creare una Assemblea formata da delegati dei Parlamenti nazionali rapidamente; questa Assemblea però deve avere reali e ben definiti poteri. Non è per ritardare la conclusione del trattato che domanda ciò. Basta pensare al pericolo estremo, cui è esposta l’Italia per la sua posizione geografica, per comprendere che da parte italiana non si può certo desiderare di svolgere manovre dilatorie nell’organizzazione della difesa. Ma ritiene necessario che la Comunità europea della Difesa debba rappresentare qualche cosa di più di quanto è già stato stabilito nel NATO, altrimenti sarebbe inutile e inoperante. [Discussione sulla questione dell’automatismo]. De Gasperi: insiste che è necessario indicare subito quali saranno gli organi rappresentativi nel periodo definitivo. Solo dopo averlo stabilito, si potrà passare a studiare quello del periodo provvisorio. […] De Gasperi: ricorda che da parte della delegazione italiana a Parigi ha fatto proposte concrete con un memorandum presentato il 9 ottobre. Il problema quindi non è affatto nuovo, esso è stato già discusso nella Conferenza di Parigi anche se non risolto. [Discussione sul bilancio e i piani di armamento]. De Gasperi: propone di estendere la consultazione anche ai Ministri della Difesa. […] De Gasperi: osserva che deve essere ben chiaro che si tratta [di far studiare agli esperti] unicamente del problema del bilancio durante il periodo transitorio, ma ha timore che il transitorio possa trasformarsi praticamente in definitivo. Domanda quindi che si diano precise istruzioni agli esperti perché si concretizzino le formule già previste dall’art. 7 H del progetto di trattato relativo ai poteri dell’Assemblea. Ciò toglierebbe il carattere dubbio e sospetto che, altrimenti, avrebbe il periodo transitorio. […] De Gasperi: si sorprende delle opposizioni che la sua idea incontra. Tutti si sono dichiarati favorevoli all’idea dell’integrazione politica europea, ma i successivi atteggiamenti delle Delegazioni fanno sorgere il sospetto che, in realtà, si voglia instaurare il provvisorio come definitivo. […] De Gasperi: propone un testo in cui, riprendendo e modificando alquanto l’art. 7 H del progetto di trattato si danno istruzioni agli esperti di studiare e fornire sollecita risposta sui modi in cui dovrebbe essere creata, nel periodo definitivo, una Assemblea rappresentativa e sui poteri di essa, in particolare per quel che riguarda il voto e il controllo del bilancio e la creazione di imposte europee. […] De Gasperi: è sicuro che anche in Francia il trattato sull’esercito europeo sarebbe più facilmente accolto dal Parlamento se esso prevedesse, sia pure per il periodo definitivo, una organizzazione federativa. Se il testo proposto per le istruzioni agli esperti non può essere accettato, ritiene in ogni caso essenziale che l’articolo 7 H del progetto di trattato venga debitamente rafforzato e votato. […] De Gasperi: riafferma energicamente che il minimo assolutamente indispensabile è che si veda chiaramente negli sviluppi della Comunità la presenza di una Assemblea rappresentativa. Da ciò farà dipendere tutto il suo atteggiamento. [Seduta della sera (ore 22-ore 01.00)]. […] De Gasperi: osserva che la richiesta di Van Zeeland crea difficoltà anche per l’Italia, ove la difesa locale e il mantenimento della sicurezza si presentano ancor più gravi del Belgio. […] De Gasperi: riterrebbe che la formula belga come è stata presentata nel testo in discussione sia difficilmente accettabile, ma pensa che gli esperti potranno trovarne un’altra, che, dando soddisfazione di fondo al Belgio, non crei difficoltà di forma per gli altri Paesi. […] De Gasperi: rigetta l’obiezione di Sticker [al quale sembra ingiusto che si chieda l’approvazione di un testo presentato di sorpresa]. Egli non vuol prendere nessuno di sorpresa. Al contrario egli ha posto il problema di cui si tratta fin dal principio della riunione e non ha mancato di risollevarlo tutte le volte che esso si è ripresentato nel corso della discussione e in connessione con altri argomenti. (Che sono poi tutti). Ha fatto dapprima una proposta, di dare certe tassative disposizioni agli esperti, proposta che ha lasciato cadere perché Adenauer ha osservato che gli esperti non potrebbero ultimare il lavoro entro il 2 febbraio. Ma, ora, sente il dovere di insistere. Il testo in questione è il minimo che egli può chiedere. Non gli si venga a dire che è già troppo tardi nella serata e che Van Zeeland deve prendere il treno. Il problema è di importanza fondamentale. Se egli resta o è disposto a restare anche domani è perché si deve assolutamente trovare una formula d’accordo. Se una formula del genere di quella proposta, che per lui è già fin troppo debole non venisse accettata gli sembra che ci sia molta ragione di temere. Concludere in questo modo gli darebbe una grande amarezza, ma scongiura i colleghi che gli permettano di avere ancora speranze sulla realizzazione di un accordo. […] De Gasperi: decisamente non può accettare [Stikker propone di accettare il testo ma non come definitivo]. Ha modificato le sue proposte iniziali (quelle del testo per le istruzioni agli esperti) allo scopo di venire incontro alle osservazioni dei suoi colleghi. Ma vede ora che sono le sue concessioni che gli vengono rimproverate da Sticker e da Bech . Se vi sono difficoltà per quel che riguarda l’indicazione del «suffragio universale» è pronto a concedere che essa sia soppressa nel testo. Si meraviglia che dopo aver inteso da parte di tutti affermazioni in favore di una Confederazione europea, si sollevino ora tante difficoltà su un testo così debole. Le obbiezioni che sono state presentate lo fanno veramente dubitare che si possa arrivare a qualche cosa di costruttivo. Insiste che i suoi colleghi lo mettano in condizione di non essere obbligato a ritirare l’assenso che egli ha dato sui testi precedentemente approvati. Poiché, ammonisce, questo assenso è beninteso condizionato. […] De Gasperi: È certo che Sticker sia animato da volontà di accordo, vuol solo ricordare a lui e ai suoi colleghi che questa è l’occasione che passa e che è perduta, se non la si afferra. Egli sente tutta la responsabilità dell’ora. È sicuro che anche gli altri lo sentono. […]
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De Gasperi ha fatto alcune dichiarazioni sui lavori della conferenza di Strasburgo, rilevando che l’Italia vi ha rappresentato non solo i suoi interessi nazionali, ma si è preoccupata anche dell’avvenire dell’Europa, mettendo in forma pregiudiziale e in prima linea la costruzione politica sulla quale dovrà basarsi l’organismo militare comune. Questo atteggiamento durerà e si approfondirà a mano a mano che i singoli problemi organizzativi e finanziari verranno affrontati. È certo della adesione del Partito a questo sforzo di ricostruzione, e che purtroppo si sovrappone a tanti altri; ma la storia ci incalza e noi che abbiamo fede nella Provvidenza nel momento delle grandi difficoltà e delle gravi decisioni non possiamo disertare. […]
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(Per Londra) Suoi 270 e 273. (Per Parigi) Per Lombardo. È stato telegrafato Italnato Londra quanto segue: (per tutti) Non ritenendo possibile esprimere parere definitivo circa problema relazioni NATO-CED, prima di esserci consultati con altri Governi della Conferenza CED, abbiamo proposto che argomento sia inserito ordine del giorno riunione Ministri Esteri Parigi 27 dicembre. In linea di massima comunque, condividiamo dichiarazioni già fatte costì sulla solidarietà di fatto che già esiste e sulla necessità mettere studio forme reciproca garanzia. Mi sembra tuttavia che questione inquadramento politico e militare CED in Comunità atlantica potrà essere definita più facilmente a cura organi competenti delle due Comunità man mano che problemi pratici sorgeranno: prematuro appare infatti esaminare la questione prima ancora che la costruzione politicoamministrativa CED sia stata definitivamente determinata. Circa argomento fatto valere da Sostituto francese contro possibilità partecipazione Germania a NATO rilevo che lo stesso argomento potrebbe essere addotto anche riguardo partecipazione Germania alla CED. Quindi esso non appare logico; né d’altra parte è opportuno insistere a causa riflessi politici interni che potrebbe suscitare nei confronti stessa CED. Eviti quindi per il momento toccare questione ammissione Germania NATO.
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Ringrazio per la accoglienza: sono onorato dell’invito che ho gradito soprattutto perché proveniente da un uomo che non posso giudicare tecnicamente appieno nella sua grandezza di soldato, perché non ne ho la competenza, ma posso valutare come uomo che sostiene grandi idee politico-sociali. Il generale Eisenhower è convinto della necessità di unificare l’Europa. Io e i miei colleghi siamo a Parigi riuniti in una conferenza nella quale facciamo uno sforzo supremo per giungere ad una unione onde assicurare nuovi sviluppi, miglior livello di vita agli operai e alla classe lavoratrice e la possibilità di una nuova storia economica ed una nuova struttura sociale. Così Eisenhower interpreta la vostra funzione in maniera integrale: una forma di difesa come primo scopo e come secondo l’unione di tutte le forze per il consolidamento della libertà e della democrazia. Fra queste forze, quelle degli Stati Uniti d’America rappresentano la potenza di un aiuto che permette di guardare con sicurezza all’avvenire. La divisa militare non è dunque fine a se stessa ma deve garantire lo sviluppo pacifico e libero dei popoli democratici. Il soccorso dell’America rappresenta una azione storica per lo sviluppo pacifico dei nostri ideali al servizio della pace e del progresso. Voi siete i rappresentanti di forze americane ed europee. I popoli sentono che voi lavorate non soltanto con un criterio tecnico professionale ma con lo spirito di guidare l’Europa verso la libertà, la democrazia e la solidarietà. Sono questi i grandi ideali che permisero lo sviluppo degli Stati Uniti. Questi ideali sono originati dall’Europa e l’Europa li può riprendere agganciandosi alla sua storia. Voi rappresentate ora non soltanto lo strumento di difesa ma anche la fiducia, la fede e la certezza del nuovo avvenire democratico. Io e i miei colleghi, associati nel lavoro di questi giorni, guardiamo con fiducia l’avvenire.
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Doppio dovere per me è associarmi alle nobili parole pronunciate per la morte del presidente della Repubblica austriaca Karl Renner: perché l’ho conosciuto e perché ho avuto occasione di apprezzare un elemento direttivo della sua vita. Egli fu autore di un notevole libro sopra la questione della nazionalità austriaca e sostenne, allorquando l’impero era florido e militarmente solido, la necessità di concedere le autonomie nazionali a tutte le nazioni che formavano l’impero austriaco. Ed era molto vicino nel suo sentimento e nella sua azione a coloro che rappresentavano le minoranze nazionali entro questo complesso. Ma debbo ricordare anche un altro fatto che la storia segnala; quando egli diresse le trattative per la pace austriaca a San Germano, nel documento fondamentale, mentre sosteneva e polemizzava, contro argomenti in contrario, che le nazioni che formavano l’Austria in realtà volessero solo l’autonomia senza però separarsi dal complesso della Monarchia austro-ungarica, faceva nel documento una sola eccezione, e questa era per gli italiani ed in modo particolare per gli italiani del Trentino, dicendo che il loro contegno – la loro espressa dichiarazione fatta dell’annessione alla nazione italiana ancora durante la guerra – era stato tale che non si poteva dubitare che, trattandosi di una decisione o meglio di una autodecisione, gli italiani avrebbero determinato il loro destino unendosi alla patria italiana. Per questo documento storico che riconosce un destino indipendentemente dai successi della guerra, mi pare che vada a lui il nostro senso di gratitudine e di riconoscimento, fatto in un documento verso la fine di una grande competizione, rimanga come elemento di garanzia e di uguaglianza di diritto tra tutte le nazioni in Europa e nel mondo. (Vivi applausi dal centro e dalla destra).
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Riferisce sulle conversazioni italo-francesi di Santa Margherita ligure . Vi è stata una prima seduta a quattro che non ha avuto carattere ufficiale. Pleven ha comunicato le sue impressioni sul viaggio a Washington. Egli ha chiesto a Acheson: «se il riarmo tedesco fosse causa certa di un conflitto, o meglio se ci fosse una possibilità di accomodamento insistereste per il riarmo tedesco?». Acheson ha risposto: «non solo non insisteremmo per il riarmo tedesco – se vi fossero serie possibilità di pace – ma non provvederemmo nemmeno al nostro riarmo che è molto oneroso. Dubitiamo però che vi siano altre possibilità di pace». Pleven ha fatto presente che la Russia non è preparata alla guerra. È impossibile discutere ora il Trattato di pace con la Germania, soprattutto per le difficoltà di stabilire il confine, dato che i tedeschi non accettano quello attuale. La condizione essenziale per una Conferenza a quattro è la salda unità delle tre grandi Potenze occidentali. Altrimenti la Russia uscirà vittoriosa. La Francia riconosce il nostro grande interesse ad una eventuale conferenza e si impegna a consultarci tempestivamente. La Russia certamente si avvarrà della Conferenza a scopi propagandistici ma potranno adottarsi le necessarie misure per reagire. Vi potrebbe essere un pericolo intermedio tra lo stato di guerra e quello di pace, durante il quale la Germania sarebbe tenuta in uno status simile a quello che ha oggi l’Austria e cioè con poteri autonomi. E con tale sistema si potrebbe forse giungere, anche senza trattato di pace, ad una unificazione della Germania. Di qui la preoccupazione di introdurre la Germania nel Patto atlantico o – come sostengono i francesi – nell’esercito europeo. La Russia certamente si richiamerà agli accordi di Potsdam sulla smilitarizzazione della Germania, ma questa è avversata dai tedeschi e, pertanto, è facile resistere alla richiesta russa, mentre la situazione si complica quando le decisioni del governo di Bonn non coincidono più con le vedute degli Alleati. Per quanto riguarda il governo di Bonn osserva che oggi Adenauer ha un seguito sufficiente, ma i socialisti hanno forze quasi pari a quelle dei democristiani. La personalità di Schumacher è di grande rilievo e inoltre la tendenza generale è contro il riarmo. Schuman è fiducioso: tra poche settimane Adenauer andrà a Parigi e firmerà il piano Schuman che è indice dell’inserimento della Germania nelle forze atlantiche. Per quanto riguarda l’esercito europeo osserva che trattasi di tesi non molto bene delineata. È stato comunque ribadito chiaramente il concetto che il Patto atlantico è al di fuori di ogni discussione e che le esigenze organizzative debbano essere anteposte alle altre. Circa la Jugoslavia informa che essa è allarmata perché teme attacchi dagli Stati balcanici in primavera. Egli ha richiesto formalmente che venga ribadita la dichiarazione tripartita del 1948 per Trieste . I francesi volevano formulare un voto perché l’Italia avviasse trattative dirette con la Jugoslavia ma vi era il pericolo che questo potesse essere interpretato quasi come una riserva. Chiede poi cosa avverrebbe se la Jugoslavia fosse attaccata. Sarebbe un tipico caso di ricorso all’ONU e anche se l’Italia non fa parte dell’ONU sarebbe certo interessata a questo problema. Il timore di un attacco alla Jugoslavia è condiviso dagli inglesi, meno dai francesi. Per quanto concerne l’ingresso dell’Italia nell’ONU i francesi hanno fatto presente che il problema non è attuale. Egli al contrario ritiene che sia attuale, sia in relazione alle discussioni sull’ingresso della Cina sia in vista di una Conferenza a quattro. Osserva che l’ONU o è un organismo universale o non lo è. E pertanto non si debbono in via pregiudiziale porre divieti neppure agli Stati balcanici che ora sono esclusi. I regimi dei vari Stati non debbono costituire una questione pregiudiziale. Il piano Schuman procede. L’Italia sarà compensata con la fornitura di 840.000 tonnellate di ferro algerino, escludendo l’Algeria dal pool. Il commissario amministratore non dovrebbe essere né francese, né italiano né tedesco. È impressione generale che il piano potrà essere realizzato e che costituirà una grande affermazione dell’idea europea. Per il Consiglio d’Europa bisogna sostenere la proposta di La Malfa. I francesi si sono impegnati in tal senso. Fa presente che in Francia le elezioni politiche saranno nel corso del 1951, in ottobre ma forse anche prima. Legge il testo del verbale delle riunioni ufficiali, facendo tuttavia presente che le più importanti questioni sono state trattate nella prima seduta che non aveva carattere ufficiale. Circa l’unione doganale fa presente che la ratifica francese interverrà con la nuova legislatura. È stata decisa la consultazione permanente tra i due paesi per tutte le questioni di comune interesse in materia economica. Per quanto concerne gli acquisti di materie pregiate in USA ritiene necessario che gli Stati europei agiscano d’accordo. Per l’emigrazione rileva che il problema è importante non solo per l’Italia ma anche per la Francia. I francesi sono disposti a sostenere la immigrazione italiana in forme familiari. È opportuno tuttavia far cenno al contributo dell’Italia per le costruzioni da destinare agli emigrati, altrimenti i francesi formulano proteste. È stata auspicata la costituzione di un Comitato misto per lo studio del problema dell’emigrazione. Per quanto attiene ad altre particolari questioni fa presente quanto segue: 1) Circa gli italiani detenuti in Francia per collaborazionismo, vi sono state assicurazioni di carattere generico che il presidente della Repubblica userebbe nei loro confronti del diritto di grazia. Essi, però, verrebbero successivamente rimpatriati. 2) Per il traforo del Monte Bianco la Francia non contribuirà ma darà garanzie: entro due mesi gli interessati diretti saranno consultati per le sottoscrizioni di capitale. L’Italia dal suo canto ha confermato gli impegni precedentemente assunti. 3) Per la ferrovia Cuneo-Ventimiglia si è deciso che il problema verrà esaminato. 4) Per la emissione di obbligazioni della ferrovia del Danubio-Sava vi sarà una riunione a Parigi nella seconda quindicina di marzo. 5) La questione dei profitti di guerra degli italiani in Francia sarà studiata. 6) Per i beni dei Comuni passati dall’Italia alla Francia saranno date istruzioni alle autorità locali per facilitare gli scambi. 7) Per quanto riguarda la linea di Gilent in Africa sono stati reclamati i pagamenti dovuti in conseguenza della guerra. Richiama alla serietà. Per la Libia vi è dubbio se le si debba dare una costituzione unitaria o si debba costituire una federazione. La questione è delicata in quanto non si debbono urtare gli arabi. Noi abbiamo interesse a salvare dalle rappresaglie del Senusso la Tripolitania dove ancora risiedono molti italiani. Vi sarà una scambio di informazioni sulle disposizioni da adottare nei confronti dei comunisti e degli Stati satelliti dell’URSS. Vi è l’accordo di massima per la istituzione di un ufficio misto. L’Italia è d’accordo per il trasferimento da Londra a Parigi degli organismi del Patto atlantico . […] Richiama alla serietà degli impegni internazionali. È necessario dimostrare coerenza. Dichiara che il metodo di formulare riserve è troppo comodo. Se anche il presidente del Consiglio, nel corso di trattative internazionali, pone continue riserve, chi mai potrà trattare con autorità e responsabilità?
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Onorevoli colleghi, farò una brevissima dichiarazione per aggiungere alla calda parola del ministro della Difesa la solidale adesione di tutto il governo che ho l’onore di presiedere. Giova ripeterlo: noi siamo per la pace, lavoriamo per la pace, cerchiamo di eliminare le ragioni o i pretesti di conflitto; ma, se fossimo aggrediti, dovremmo poterci difendere. È questa una polizza di assicurazione sulla nostra vita nazionale che noi paghiamo. Assicurarsi, evidentemente, non vuol dire cercare o volere la morte. È per vivere che facciamo questo sacrificio; è per vivere degnamente, in libertà e in indipendenza. Come il ministro ha già rilevato, è un riarmo modesto il nostro, ristretto a forza entro i limiti dell’ingiusto trattato, che fu imposto come sanzione di guerra, e precisamente in misura tale e con tali restrizioni da impedire che potesse mai diventare uno strumento offensivo o, comunque, pericoloso per altri Stati. Se fossimo isolati – ed anche questo fu detto – dovremmo proteggere la nostra neutralità con ben altre forze e al prezzo di ben altri sacrifici. Per fortuna, siamo nel Patto atlantico, in pace, la polizza di assicurazione non siamo soli a pagarla; e, in caso di conflitto, non saremmo lasciati soli nella difesa. Il governo vi ha fatto le sue proposte in tutta coscienza, dopo averle sottoposte lungamente al vaglio di tutte le considerazioni pertinenti. Nella fase della elaborazione, avvenuta sia al Consiglio supremo della difesa, sia al Consiglio dei ministri, mentre il ministro della Difesa, come era compito della sua iniziativa e come gli dettava il suo schietto sentimento patriottico e la sua passione nobile per le cose militari, interpretava le esigenze tecniche del suo dicastero, altri ministri concorrevano alla sintetica decisione, mettendo in rilievo le possibilità finanziarie o i nostri impegni di carattere sociale, sì che gli uni e gli altri trovarono il pieno, solidale accordo nelle proposte conclusive che vi stanno dinanzi e che rappresentano quello che si deve e si può fare nelle presenti circostanze, tenendo fermi i nostri impegni per le spese civili e particolarmente per quelle preventivate per i lavori pubblici, per le riforme sociali e per il Mezzogiorno. Esse suppongono, naturalmente, il contributo per spese civili o militari del piano ERP e del Patto atlantico, e noi abbiamo, per gli affidamenti ricevuti, la certezza che gli Stati Uniti accompagneranno con il loro aiuto in tutte le fasi il nostro sforzo difensivo e produttivo. Anche la Camera, dopo il lungo esame e l’esauriente dibattito che qui ha svolto, può votare in tutta coscienza nell’interesse del paese e in quello della pace. Noi applicheremo la legge sotto il vigilante controllo del Parlamento, che avrà occasione, a mano a mano, di rendersi conto dei progressi dei nostri mezzi difensivi. Onorevoli colleghi, ognuno di noi ha assunto le sue responsabilità quando ha approvato o rifiutato il Patto atlantico. Oggi si tratta di accordare o non accordare quel contributo che tutte le nazioni (e le più ricche in ben maggiore misura) debbono dare per rendere vitale ed efficace il patto difensivo. Il voto contiene, quindi, una valutazione della linea direttiva essenziale del governo, sia per il collocamento dell’Italia nella politica internazionale, sia per la visione fondamentale di politica interna che vi è connessa. Mi riservo di dichiarare quali ordini del giorno il governo accetti, ma fin d’ora dico che la questione è semplice e chiara, e che alla domanda, chiara e semplice, deve corrispondere una risposta semplice, chiara e precisa: ho fiducia altresì che la risposta implichi, contenga e confermi la fiducia nel governo. Confido pertanto che la Camera saprà e vorrà dare questa risposta. (Vivissimi applausi a sinistra, al centro e a destra). presiDenTe. Comunico che gli onorevoli Bettiol Giuseppe, Bennani, Amadeo, Jervolino Angelo Raffaele, Perlingieri, Cagnasso, Resta, Rescigno, Medi, Vocino, Pertusio, Cremaschi Carlo, Spiazzi, Riva, Vicentini, Bartole, Schiratti, Chatrian, Meda, Coppi Alessandro, Pierantozzi e Cavalli hanno presentato il seguente ordine del giorno: «La Camera, udite le dichiarazioni del governo in occasione della discussione dei disegni di legge nn. 1581 e 1761, concernenti autorizzazioni di spese straordinarie per il potenziamento della difesa del paese, le approva e delibera di passare agli articoli». De Gasperi. Chiedo di parlare. presiDenTe. Ne ha facoltà. De Gasperi. Accetto quest’ordine del giorno, perché non soltanto approva in via di massima la legge e quindi il passaggio agli articoli, ma conferma anche quella fiducia che prima ho invocato, riguardante soprattutto le basi essenziali della politica internazionale e interna del governo. […] De Gasperi. Chiedo di parlare. presiDenTe. Prego gli onorevoli colleghi di tornare ai loro posti, diversamente non potrò dare facoltà di parlare al presidente del Consiglio. (I deputati dell’estrema sinistra tornano ai loro posti). Ha facoltà di parlare l’onorevole presidente del Consiglio. De Gasperi. Vorrei attestare, per la verità e per l’obiettività, che io sono testimone di ciò che è stato detto e dell’intenzione con cui è stato detto. Sui banchi del governo è stata udita questa frase partita dall’estrema sinistra: «è il paese che non vuole il ministro Pacciardi». E il ministro della Difesa ha risposto: «non lo vogliono i comunisti e i fascisti». Questo per l’esattezza. (Commenti – I deputati dell’estrema sinistra abbandonano l’aula). [Dopo le dichiarazioni di voto, il presidente del Consiglio fa la seguente dichiarazione]. Ho il dovere, di fronte alla maggioranza e particolarmente al gruppo democristiano, di fare una dichiarazione che si rende necessaria per respingere le insinuazioni ed i sospetti che sono stati avanzati da alcuni membri dell’opposizione. Secondo costoro, il governo, avrebbe pensato ad una votazione aperta per esercitare una pressione sui deputati della maggioranza. È una insinuazione che respingo energicamente. Aggiungo che la prova più patente è questa: il gruppo democristiano, a proposito della discussione di una legge particolare, che non è in esame questa sera, ha espresso le proprie adesioni o contrarietà per iscritto, con l’indicazione del nome e cognome di ciascun membro e dando, quindi, una prova manifesta della propria dignità ed indipendenza. (Vivi applausi al centro e a destra). Non vorranno, d’altra parte, darci insegnamento a questo riguardo proprio coloro nei cui ranghi un elemento che assuma un atteggiamento contrario deve ricorrere alla questura per essere protetto da eventuali attentati. (Vivi applausi al centro e a destra). naToli. Lei sa bene che questa è una volgare menzogna! spiazzi. È la verità. naToli. Ella, onorevole De Gasperi, si associa troppo tardi alle provocazioni di Pacciardi. De Gasperi. Quando simili cose avvengono, evidentemente non restano nascoste. D’altra parte non le ho inventate io, né le ho raccolte dai giornali. Le affermo in base a rapporti di organi ufficiali. Io non ne ho nemmeno fatto una speculazione politica, ma quando dall’estrema sinistra mi si viene a parlare di ricatti o di pressioni, allora ho il diritto di dire che né io né i deputati del mio gruppo possiamo accettare simili ammaestramenti da quella parte. (Vivi applausi al centro e a destra – Proteste del deputato Natoli). La questione della dignità e della libertà, quindi, è fuori causa. Io sono tanto convinto che il gruppo parlamentare democratico cristiano è oggi con noi, nella coscienza dei bisogni del paese e, soprattutto, nella linea generale della politica internazionale ed interna del governo, che non avrei nessunissima difficoltà, per mio conto, ad accettare la votazione segreta. Ma io mi domando se essa è dignitosa per voi, onorevoli deputati, se è dignitosa per la Camera, dopo quello che si è insinuato, soprattutto se è utile per una indicazione di eventuali dissensi, che devono pur essere motivati ed identificati, in relazione anche alla designazione della persona che dovrebbe eventualmente raccogliere l’eredità dell’attuale governo. Evidentemente no: sarebbe nascondere il valore e l’importanza di un voto, diminuirne la dignità e l’indipendenza. Io ritengo, perciò, che la votazione palese, che costituisce un atto di lealtà e di assunzione di responsabilità, sia quella che meglio corrisponde alla dignità della Camera, e direi, anche alla coscienza cristiana di coloro che appartengono al gruppo del mio partito. (Vivi applausi al centro e a destra). Riguardo ad altre questioni che sono state accennate, mi sia permesso di sorvolare, poiché in questo momento è decisiva soltanto la direttiva generale su cui si deve votare e su cui si è discusso. Ma, a proposito dell’ordine del giorno Covelli, pur non entrando nella questione, che il presidente stesso ha lasciato impregiudicata, circa la preclusione, circa cioè l’aspetto formale della questione, che riguarda soltanto la Camera, dirò che per me, per il governo, c’è evidentemente un nesso sostanziale tra un voto generale sulle dichiarazioni del governo e un voto particolare che riguardi un membro del governo. Mi pare che su questo non vi possa essere dubbio, e l’onorevole Covelli stesso mi ha dato atto che era un dovere di solidarietà che il governo stesso doveva assumere, benché ciò metta in imbarazzo il gruppo monarchico che ha presentato l’ordine del giorno. Ma l’imbarazzo non dipende da me: dipende dall’aver presentato un ordine del giorno in questo senso. Ma passo sopra a queste considerazioni e dico all’onorevole Covelli e al suo gruppo, e dico anche al gruppo che sta più in su, (indica i deputati del Movimento sociale italiano), che prima ha sollevato una questione riguardante il passato o che nella polemica ha accettato di discuterne: dovremo continuare così anche nei momenti più gravi della nostra vita nazionale? Dovremo sempre rinfacciarci ciò che è avvenuto nel passato e in ogni momento metterci gli uni contro gli altri per le responsabilità che in passato abbiamo assunto? Vi sono momenti in cui storicamente è dovere assumere o difendere responsabilità, e se dovessimo fare qui la storia del nostro paese, sulle origini della guerra, sulle responsabilità della guerra, sarebbe logico che alcuni sarebbero accusati ed altri dovrebbero difendersi. Ma quando si tratta, viceversa, di questione di unità e di difesa della patria, come in questo momento, amici miei, pensate a quella che fu la storia del risorgimento, la storia dell’unità d’Italia! Ma se avessero continuato, i repubblicani e i monarchici, gli uomini che agirono con Garibaldi e quelli che agirono con Cavour, coloro che parteciparono o no ad una lotta o ad una guerra, se avessero continuato a rinfacciarsi e a rendere impossibile la collaborazione, il risorgimento non sarebbe stata opera compiuta e l’Italia non si sarebbe fatta! (Applausi al centro e a destra). Ora vi chiedo: è giusto che, riferendoci al passato e a responsabilità passate, eliminiamo dalla possibilità di collaborazione in un Parlamento e in un governo democratici uomini il cui atteggiamento potrà essere criticato, potrà essere condiviso o no, ma che sostanzialmente (questo non si può negare) hanno lavorato con senso patriottico, in buona fede e disinteressatamente? (Applausi al centro e a destra). Perché, quando penso che vi sono stati nel passato uomini che hanno perfino sfruttato le situazioni derivate dalla guerra e comunque le particolari condizioni in cui si sono trovati, vi dico che, mentre non avevo l’onore di conoscere Randolfo Pacciardi se non dagli articoli piuttosto esuberanti – per non dire violenti – del suo giornale nei primi tempi, dopo che l’ho conosciuto sono stato lieto di avergli aperto la porta, di averlo chiamato da quella posizione negativa verbale (e mi scusi se non posso cancellare questo mio giudizio) all’opera costruttiva della democrazia, e questo è stato il mio tentativo non soltanto verso i repubblicani, ma anche verso i socialisti; e sarebbe stato lo stesso verso tutti, purché vi fosse stato il concetto fondamentale: democrazia e fedeltà al progresso sociale e all’idea di libertà, soprattutto, che va difesa per lo sviluppo del nostro paese. (Vivi applausi al centro e a destra). Ora, questo pensiero, che cioè bisogna cercare la collaborazione, la coalizione di molte forze, con la sola riserva di vedere se gli uomini sono in buona fede, se hanno agito in buona fede, se sono disinteressati, se sono galantuomini, questo pensiero è la forza dell’attuale coalizione del governo, e sarà sempre, fino a che rimarrò a questo posto o fino a che mi sarà possibile agire in questo senso, sarà sempre – ripeto – la direttiva della mia condotta, ed io credo che questa sia la condotta che il paese desidera. Ed io vi dico: penso che cosa ciascuno di voi avrebbe fatto quando, esule o perseguitato, si fosse trovato nella stessa condizione e dinanzi alle stesse alternative. È immensamente difficile stabilire come un uomo avrebbe dovuto decidere trovandosi dinanzi al bivio, quasi sempre fatale, di decisioni di tale portata: quando la storia ci costringe a queste grandi decisioni, siamo costretti non a scegliere il meglio, ma a scegliere il meno male, non a scegliere il bene, ma a scegliere il meno peggio. E quante volte siamo stati costretti a fare questo anche nella storia passata! Ebbene, io vi dico: non trovo niente nella storia, come la conosco, dei miei collaboratori che stanno al governo, Pacciardi e Sforza, niente che sia contrario a questi princìpi fondamentali che ho detto, cioè che essi non abbiano agito in buona fede, con senso patriottico. Non dico con ciò che tutti avrebbero dovuto fare lo stesso. Ma vi dico che di queste forze, di queste direttive, di questi elementi, abbiamo bisogno per costruire una base fondamentale nella difesa della democrazia. Siamo uomini che passiamo: domani altri saranno al nostro posto. Ma il principio fondamentale di non lasciarci annullare per sempre dai fatti del passato, ma di costringerci a lavorare per la ricostruzione del paese, questo principio è sacro. Ed io in questo momento faccio un appello anche ai monarchici. Io so che essi non riconoscono l’attuale regime repubblicano, e, secondo me, fanno male; ma io, da parte mia, non ho nessun diritto di dubitare della loro buona fede, delle loro intenzioni, soprattutto del loro senso patriottico. Ed è in nome di questo che io li prego, almeno in questa sede, quando tutto il mondo ci guarda, quando si tratta soprattutto della difesa italiana, di non insistere sul loro ordine del giorno, su di un giudizio che, in fin dei conti, non è costruttivo, ma non può che essere negativo. (Vivissimi applausi al centro e a destra).
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Mi onoro informare la Camera che con decreto del presidente della Repubblica in data 5 aprile 1951, su mia proposta, sono state accettate le dimissioni rassegnate: dall’onorevole Ludovico D’Aragona, senatore della Repubblica, dalla carica di ministro segretario di Stato per i Trasporti; dall’onorevole Ivan Matteo Lombardo, deputato al Parlamento, dalla carica di ministro segretario di Stato per il Commercio con l’Estero; dall’onorevole Alberto Simonini, deputato al Parlamento, dalla carica di ministro segretario di Stato per la Marina mercantile. Con altri decreti del presidente della Repubblica, in data 5 aprile 1951, su mia proposta: l’onorevole dottor Pietro Campilli, deputato al Parlamento, ministro segretario di Stato senza portafoglio, è stato nominato ministro segretario di Stato per i Trasporti; l’onorevole dottor Ugo La Malfa, deputato al Parlamento, ministro segretario di Stato senza portafoglio, è stato nominato ministro segretario di Stato per il Commercio con l’Estero; l’onorevole dottor Raffaele Pio Petrilli, deputato al Parlamento, ministro segretario di Stato senza portafoglio, è stato nominato ministro segretario di Stato per la marina mercantile. Con altro decreto del presidente della Repubblica, infine, in data 5 aprile 1951, su mia proposta, sono state accettate le dimissioni rassegnate: dall’onorevole dottor Domenico Chiaramello , deputato al Parlamento, dalla carica di sottosegretario di Stato per il Tesoro; dall’onorevole avvocato Virginio Bertinelli , deputato al Parlamento, dalla carica di sottosegretario di Stato per la Pubblica Istruzione; dall’onorevole Emilio Canevari , senatore della Repubblica, dalla carica di sottosegretario di Stato per l’Agricoltura e le Foreste; dall’onorevole avvocato Eduardo Di Giovanni , senatore della Repubblica, dalla carica di sottosegretario di Stato per l’Industria ed il Commercio. Aggiungo che, per deliberazione del Consiglio dei ministri, i ministri Campilli, La Malfa e Petrilli conservano gli incarichi di coordinamento, di vigilanza e di elaborazione affidati loro nel momento della formazione del ministero o in seguito alla legge sul Mezzogiorno e sulle zone di ritardato sviluppo nel centro-nord. Le dimissioni degli onorevoli D’Aragona, Lombardo e Simonini furono accompagnate dalla comune constatazione verbale e scritta che esse non derivavano da contrasti sulla politica governativa, il cui orientamento generale veniva anzi all’atto stesso posto fuori discussione e confermato. Ho quindi proposto al presidente della Repubblica, e il presidente ha accettato, di affidare i dicasteri vacanti a tre altri membri dello stesso gabinetto nel legittimo e doveroso presupposto che, essendo immutati il programma, l’indirizzo e la politica del governo, questo continui ad avere la fiducia del Parlamento. A chi ne dubitasse regolamento e Costituzione offrirebbero i mezzi idonei per accertarsene. Del resto, a parte che la discussione dei bilanci, pendente dinanzi alle Camere, offrirebbe la più ampia occasione per manifestare in concreto consensi e dissensi su tutta la politica del governo, io mi considero sempre pronto a fornire ogni spiegazione al Parlamento nello spirito e secondo le norme della Costituzione. (Applausi al centro e a destra). [Segue l’intervento dell’on. Nenni per l’immediata discussione parlamentare delle modifiche avvenute nella compagine governativa]. La mia dichiarazione, con la quale ho affermato di essere pronto a fornire spiegazioni e a render conto alla Camera, non esclude la discussione. Ricordo la discussione dello scorso anno e so che, in generale, secondo la prassi parlamentare, le dichiarazioni del governo portano al dibattito, ove la Camera lo desideri. L’anno scorso tuttavia, la questione fu diversa, perché non vi furono che le comunicazioni, mentre quest’anno alle comunicazioni è seguito un breve commento: lo si può accettare o meno, ma evidentemente c’è stata una mia esposizione. Comunque, riservandomi durante il dibattito di dare rilievo a quelli che potranno essere i mezzi per constatare se esista o meno la fiducia della Camera, non ho naturalmente difficoltà ad accettare la discussione.
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Onorevoli colleghi, il molto discutere che s’è fatto sulla formula del 18 aprile e sulla sua applicazione rende forse utile il fare un po’ di storia intorno ad essa e soprattutto intorno alle situazioni che l’hanno creata. Cessato il sistema dei ministeri dei comitati di liberazione e a poca distanza dalle elezioni generali, lo schieramento si formò su due linee principali rispetto ai due problemi che maggiormente si imponevano: 1°) il cosiddetto problema del sistema democratico parlamentare, in antitesi con il totalitarismo, cioè il problema della difesa e del consolidamento delle libere istituzioni democratiche secondo la tradizione occidentale che aveva ispirato la Costituzione; 2°) la collaborazione con gli Stati Uniti per la ricostruzione economica e la rinascita dell’Europa nel quadro della situazione internazionale secondo il Piano Marshall. Queste furono le due direttive fondamentali entro le quali si doveva svolgere un programma di lavoro (riguardante la ricostruzione, i provvedimenti e le riforme) che, ad ogni svolta dell’attività governativa, si concretasse per un certo periodo e si modellasse sulle esigenze più urgenti; e si può dire che il risanamento delle pubbliche finanze fu il compito preminente del ministero immediatamente precedente le elezioni generali. Questo ministero chiudeva la sua attività con un manifesto (a firma De Gasperi, Einaudi, Saragat e Pacciardi) che, dopo aver rilevato il lavoro compiuto, esprimeva la fiducia che il paese (e faccio osservare che il manifesto non impegnava, per la forma o per la sostanza, i partiti come tali) avrebbe ravvisato nelle linee fondamentali comuni al nostro schieramento le possibilità ricostruttive dell’avvenire. Questa fu la formula vittoriosa del 18 aprile 1948 che, rispettando, in forza della rappresentanza proporzionale, l’autonomia di ogni partito, raccolse complessivamente 16 milioni di voti per la maggioranza, risultato in base al quale io ripresentai alle Camere lo stesso governo, con qualche modificazione, e la seguente dichiarazione: «la Democrazia cristiana ha inteso promuovere un governo solido e stabile. Se questa stabilità, oltre che appoggiarsi su un centro robusto, si raggiunge con la lealtà e la concordia dei gruppi che aspirano sinceramente alla giustizia sociale e, preoccupandosi della libertà e della forma repubblicana, la vogliono sostanziata di riforme popolari, essa sarà fondata, oltre che sul numero, anche sulla confluenza di più correnti politiche e sociali». Entro questo quadro indicavo un programma di lavoro per tutti i settori dell’attività ministeriale. Da parte dell’opposizione (e in modo particolare dei deputati comunisti giuristi) si iniziò il tentativo di inficiare la costituzionalità del governo, già allora, dopo 16 milioni di voti! L’onorevole Terracini accusava di incostituzionalità il ministero perché alcuni ministri avevano giurato nelle mani del capo dello Stato ed altri, invece, prima, in quelle del capo provvisorio; l’onorevole Gullo aggiungeva come argomento la presenza di vicepresidenti e dei ministri senza portafoglio, che la Costituzione non avrebbe conosciuto; e l’onorevole Togliatti concludeva con una formale messa in mora del ministero, dal punto di vista costituzionale, dicendo: «voi siete uno stato di fatto che durerà finché potrà durare». Si rispose allora a queste argomentazioni ricordando i numerosissimi rimpasti o sostituzioni personali avvenuti nel passato, iniziando le citazioni dal ministero Nitti, che addirittura ebbe un cambiamento di nove ministri (e si chiamò rimpasto anche quello), nonché i cambiamenti avvenuti negli stessi ministeri del Cln, fra cui molti riguardanti attuali membri dell’opposizione, non escluso l’onorevole Nenni, nominato ministro degli Esteri. E fu tuttavia in quel periodo ch’io venni insignito gratuitamente dell’ironico titolo di «cancelliere». Credo di esserne obbligato all’onorevole Togliatti. Ora, cancelliere certamente no; ma che la nuova Costituzione italiana conferisca, nell’articolo 95, una particolare fisionomia al presidente del Consiglio dei ministri, che non solo è diversa da quella del capo del governo in regime fascista (e si capisce), ma anche dalla figura del presidente del Consiglio nell’ordinamento prefascista secondo il decreto-legge n. 101, è chiaro. All’Assemblea costituente si discusse lungamente sulla funzione costituzionale del presidente del Consiglio, e il relatore onorevole Tosato (si citano gli atti dell’Assemblea costituente) riassunse la discussione nei seguenti termini: «la figura del presidente del Consiglio è una esigenza, è un fatto che non si può e non si deve eliminare. È il presidente del Consiglio che imprime l’indirizzo fondamentale al ministero, è il presidente del Consiglio che mantiene l’unità di indirizzo, che promuove e coordina, nell’armonica generale intesa dei suoi collaboratori, l’attività dei ministri e individualmente e in Consiglio dei ministri». Un commentatore della Costituente fa notare ancora quest’ultima circostanza: che la Costituzione italiana ha stabilito in sostanza per il governo una struttura differenziata sia nelle persone che nel tempo: la designazione del presidente del Consiglio in un primo tempo e la scelta dei ministri (cioè dei collaboratori del presidente del Consiglio) in un secondo tempo. Conseguenza importante di tale struttura differenziata è questa, dice il commentatore professore Amorth : che le dimissioni del presidente del Consiglio trascinano con sé quelle dell’intero gabinetto, mentre le isolate o plurime dimissioni di ministri possono consentire un cosiddetto rimpasto ministeriale senza crollo totale dell’intera compagine governativa. In realtà questo conferma una prassi sempre seguita nel periodo prefascista. Si venne poi alla stessa discussione, anche se con diversi argomenti, quando il 14 novembre 1949 si discusse l’uscita dal governo dei tre ministri socialdemocratici, sostituiti con gli interim, come si ricorderà. Ed allora, per quanto precedentemente l’onorevole Nenni avesse detto che l’entrata dell’onorevole Saragat nel ministero non avrebbe avuto altra funzione che quella di un garofano rosso all’occhiello del vestito nero del presidente del Consiglio, tuttavia in questo momento, quando si è trattato delle conseguenze dell’uscita, è stata sollevata di nuovo la questione costituzionale, cioè la questione che il ministero era totalmente cambiato e che quindi non si poteva parlare di rimpasto ma bisognava essere messi di fronte alla crisi del governo e quindi alle dimissioni del presidente. Io debbo riconoscere che l’onorevole Nenni è molto abile nel maneggiare gli argomenti e ricorre a una disinvoltura addirittura invidiabile: ho potuto ricordargli, in occasione della discussione di allora (forse qualcuno lo rammenta), le parole che egli aveva usato quando i tre ministri socialdemocratici erano entrati a far parte del governo. Allora l’onorevole Nenni aveva detto: «onorevoli colleghi, il gruppo parlamentare socialista è molto in dubbio circa l’opportunità di aprire un dibattito di carattere politico su questo governo. Noi stimiamo infatti che non vi sia un fatto politico nuovo. Si vedono nell’interno del governo dei nuovi ministri. Nessuno di loro – io credo – (in ogni caso, nessuno di noi) ha l’illusione che il carattere o la natura di un ministero possa essere determinato dalle persone che lo compongono. Nulla vi è di mutato dal punto di vista della direzione politica, come nulla vi è dimutato nella direzione politica, economica e sociale del gabinetto De Gasperi». Nel discorso del 22 novembre, che riassumeva il dibattito, io allora tornai a parlare dello schieramento del 18 aprile con queste parole: «non si tratta di composizione, di dosatura del governo, ma soprattutto di un atteggiamento che corrisponde a direttive vitali della nazione, e che quindi non facilmente può essere tramutato da singole differenze sopra un qualche non essenziale problema» . E per confortare questa tesi ricordavo che «tanto era naturale, tanto solido e profondo il programma e lo schieramento cui ho accennato che perfino coloro i quali in questo momento per ragioni interne di partito non chiedono più di dare il loro contributo all’attuazione, perfino costoro (e ricordo le parole dette dall’onorevole Vigorelli, il quale era fra coloro che avevano abbandonato il governo) prendono un atteggiamento che in fondo a questo programma corrisponde» . Quando l’onorevole Vigorelli si rivolge ai deputati dell’estrema sinistra, dice: «voi siete legati alle formule straniere, a una mentalità bolscevica»; quando egli accentua la preminenza degli interessi della nazione contro il nazionalismo ma in favore della dignità dell’uomo; quando si richiama al giorno in cui malauguratamente dovesse scoppiare un conflitto e, dopo aver discriminato il proprio atteggiamento dice ai socialdemocratici: «voi avete torto perché cadrà il velo dietro il quale è mascherato il vostro pensiero verso il totalitarismo»; allora io sento che anche coloro i quali in questo momento dissentono per ragioni tattiche momentanee, in realtà non dissentono per ragioni che sono alla base della collaborazione, alla base cioè dei governi passati e futuri. La polemica dunque è stata sostenuta da una parte e dall’altra su per giù con gli stessi argomenti. Finalmente nel gennaio del 1950 la Camera ebbe l’onore di discutere di fronte a un nuovo ministero, cioè dopo che io mi ero dimesso ed avevo avuto l’incarico di costituire un nuovo governo. Allora gli argomenti anticostituzionali non vennero naturalmente più tratti in campo, ma si disse: «ma questo non è il governo nuovo; è un governo vecchio: il governo vecchio con personale peggiore. E soprattutto bisogna cambiare la politica estera». Ora siamo davanti alle ultime modificazioni, o rimpasto (veramente, quando si tratta di ridistribuzione di incarichi fra membri del gabinetto non si dovrebbe usare la parola rimpasto; comunque, chiamiamolo pure rimpasto). L’onorevole Togliatti ci fa la stessa obiezione con queste parole: «oggi, secondo la Costituzione repubblicana, la vita nostra costituzionale dovrebbe essere fondata essenzialmente sui rapporti fra i partiti politici che la Costituzione esplicitamente riconosce e che sono entrati nella pratica della nostra vita politica e di governo sotto il controllo delle più elevate istanze costituzionali: rapporto quindi – egli dice – fra partiti e governo; rapporto fra governo e partiti; coalizione di partiti, i quali costituiscono un governo; governo il quale si appoggia sull’una o sull’altra coalizione di partito». E conclude: «ma è proprio in questo campo che qualche cosa è avvenuto; è uscito dal governo un partito, tutto un partito» . Rispondo a questa obiezione. È vero che l’articolo 49 della Costituzione fa riferimento ai partiti quando dice che i cittadini hanno il diritto di associarsi in partiti per concorrere a determinare la politica nazionale. Ma non è vero che i partiti di per sé abbiano rilevanza giuridica costituzionale. Tanto è vero che, seguendo attentamente i consigli del nostro ex presidente De Nicola, nel rimodernare, rinnovare, riattare i ministeri mi sono sempre attenuto alla regola antica: trattative con i membri del Parlamento e non con le direzioni dei partiti. Lo so che politicamente la funzione dei partiti è rilevante e può essere determinante, ma non nei rapporti diretti con la persona incaricata di formare un governo. Ad ogni modo, essenziale è la questione se il governo ha o non ha la fiducia del Parlamento (e il Parlamento la esprime, naturalmente, nella sua maggioranza). La questione che si presenta anche oggi è: il governo poteva tacitamente supporre di avere la fiducia del Parlamento quando si è presentato? Nella mia prima dichiarazione ho detto le ragioni per le quali mi è lecito supporlo; ed ho invitato l’opposizione, o chiunque ne volesse dubitare, a ricorrere alla formula prevista dall’articolo 94 della Costituzione: cioè a presentare la mozione di sfiducia, che è la contro-prova di quella che poteva essere una affermazione non fondata, o contestata, da parte del governo. L’opposizione ha preferito non fare questa controprova. Cosicché il dibattito si è iniziato semplicemente in tono generale sopra le comunicazioni del governo, a proposito delle quali l’onorevole Nenni ha contestato che le dichiarazioni dei ministri socialdemocratici uscenti non sono base sufficiente per la nostra tesi, ed ha citato dichiarazioni contraddittorie attorno al Congresso socialdemocratico. Dopo le leali, esaurienti dichiarazioni fatte dall’onorevole Paolo Rossi , dovrei riferirmi alle dichiarazioni dell’onorevole Saragat, relatore al Congresso e oggi ancora segretario e quindi capo del gruppo del Partito socialdemocratico. pajeTTa Gian carlo. Capo di che cosa? (Commenti). De Gasperi.Lo so, onorevole Pajetta, che per lei non vi sono che due capi, uno dei quali non è nemmeno entro l’ambito delle frontiere nazionali! (Applausi al centro e a destra – Interruzione del deputato Invernizzi Gaetano). «Vi è da augurarsi – dice l’onorevole Saragat nella relazione – che questa coalizione continui per una generazione o due» (pretende un po’ troppo, anche nei miei confronti). «In questo senso la formula del 18 aprile, che non implica la presenza al governo, è una formula sempre valida. Il giorno che non vi fosse la possibilità della coalizione dei partiti democratici, la libertà in Francia e in Italia sarebbe completamente finita! Necessità dunque di non rimettere in discussione questa alleanza di partiti democratici fondata sulla formula del 18 aprile; necessità di non rimettere in discussione il Patto atlantico e la premessa stessa dell’esistenza di una democrazia nel nostro paese, se non si vuol lottare a favore del totalitarismo credendo di lottare contro di esso» . E qui, richiamandomi alla domanda dell’onorevole Togliatti, e a riferimenti di altri oratori (fra cui, se ben ricordo, l’onorevole Consiglio , l’onorevole Almirante, e, mi pare anche, l’onorevole Giannini) devo precisare quali sono state le mie dichiarazioni in seno al gruppo, per quanto le dichiarazioni che si fanno in seno al gruppo non portino responsabilità diretta in seno alla Camera. Ma, poiché la domanda è stata fatta, devo dire che non è esatto che ho parlato di crisi in seno al gabinetto, da attuarsi senz’altro, a una data scadenza, dopo le elezioni amministrative. Ho chiesto di rinviare a dopo questo termine (parlo del primo turno) la discussione in seno al consiglio nazionale del mio partito ed in seno al gruppo parlamentare democristiano intorno a problemi di settore che riguardano l’attività di governo ed a problemi organizzativi interni del partito, per concentrare ora tutto l’impegno nella campagna elettorale. Se ne parlerà dopo, e non come conseguenza delle elezioni, quasi che il risultato delle amministrative debba necessariamente avere per effetto obbligatorio delle modificazioni politiche. In verità io sono piuttosto della tesi che i comunisti hanno fatto valere in certe circolari rivolte ai sindaci nel 1948, quando si diceva che l’espressione popolare si manifesta in un modo sul piano politico e può manifestarsi spesso in altro modo sul piano amministrativo; devo riconoscere che i candidati locali, le situazioni particolari, i criteri amministrativi possono influenzare l’esito delle elezioni, tanto più che queste elezioni non si fanno con sistemi elettorali chiamati a misurare l’espansione dei partiti, gli schieramenti politici, eccetera, ma piuttosto col mezzo dell’apparentamento, che favorisce i partiti minori pur di raggiungere una maggioranza capace di amministrare. (Commenti all’estrema sinistra). Dopo questa parte formalistica, e venendo alla sostanza, devo dire che è vero che questo dibattito è venuto a confermare la nostra previsione anche a proposito delle elezioni amministrative, e cioè che è fatale che i problemi massimi che dividono noi, l’Europa e il mondo, si impongano anche al verdetto dell’elettorato amministrativo. L’onorevole Nenni qui è stato addirittura drammatico. Ha fatto quello che, attribuendolo di solito a noi, egli qualificava «allarmismo un po’ apocalittico» (uso le sue stesse parole). Tutta la colpa sarebbe del Patto atlantico, Corea compresa. Perché il governo – egli ha detto – nulla ebbe a dire su Mac Arthur? Si sono fatte solo delle chiacchiere a Santa Margherita e a Londra. Può credere l’onorevole Nenni che non abbiamo scambiato le nostre idee circa i problemi centrali internazionali? Ma pretenderebbe egli che noi, non membri dell’ONU e non partecipi alle imprese delle Nazioni Unite contro l’aggressione in Corea, fossimo i più indicati (e più indicati degli inglesi e dei francesi) a presentare suggerimenti sui criteri di condurre tali imprese? In quanto a Trieste, noi ci siamo dichiarati contrari alla proposta russa che stabiliva un’insormontabile connessione fra lo Stato austriaco e il territorio libero, perché tale formula significherebbe rinnegazione della dichiarazione tripartita, ma non siamo affatto contrari a che se ne parli nella prossima Conferenza dei ministri degli esteri, esaminando la proposta delle tre Potenze occidentali di accordarsi su un protocollo aggiuntivo al trattato per il ritorno del territorio libero all’Italia, e a condizione naturalmente che, trattandosi di tale argomento, sia presente, come è ovvio, l’Italia stessa. Non è poi affatto vero che in Italia si torni alla linea gotica. Noi riteniamo che la sicurezza obiettiva possa essere ottenuta solo da un sufficiente armamento di difesa, senza il quale non solo l’Italia, ma nessuno è sicuro. E certo che l’Italia, entrando nel Patto atlantico, ha visto aumentare enormemente le sue possibilità di resistere all’aggressione, se vi sarà. sansone. Quale aggressione? (Rumori al centro e a destra). De Gasperi. Quella che potrebbe avvenire e che voi non ammettete nemmeno per ipotesi. È certo che gli impegni del patto coprono tutto il territorio, e non solo l’Italia a sud della linea gotica. È poi chiaro che la revisione delle clausole militari dovrebbe significare la revisione di tutto il trattato, il quale sarebbe sostituito dai rapporti costituiti dal Patto atlantico, almeno per le tre Potenze che accettassero tale revisione. Ed è questo il senso evidente dell’intervista del conte Sforza, il quale si è preoccupato di tutta la revisione e niente affatto delle clausole militari se non in forma ipotetica, dicendo che può venire il momento in cui, se gli Stati balcanici – compresi anch’essi negli accordi di Potsdam – continuassero ad armarsi al di là dei trattati, si imporrebbe la necessità di risolvere la questione anche per quanto riguarda l’Italia. Ora, quale è la soluzione che propone l’onorevole Nenni? Richiamandosi, nel suo discorso, ad altre dichiarazioni fatte, se non erro, a Milano, l’onorevole Nenni si è mostrato molto accondiscendente: «ferma l’opposizione socialista alla politica delle alleanze militari ed al Patto atlantico, tuttavia i socialisti avrebbero considerato e considererebbero con occhio diverso chi, secondo la formula di uno scrittore liberale, del Patto atlantico, degli impegni che comporta, dia un’interpretazione crispina, come quella dell’attuale governo, o giolittiana, eccetera. E questa è stata la caratteristica dell’opposizione socialista alla politica estera del governo: un’opposizione che è di principio, ma che tende a rovesciare la posizione di punta, cioè la posizione oltranzista» . Ora, domando io se davvero in Italia esistano delle posizioni oltranziste. Quasi tutti gli Stati del Patto atlantico fanno uno sforzo maggiore del nostro; noi arriviamo, si e no, ai limiti concessi dal trattato delle quattro potenze, compresa la Russia. Vi può essere una qualsiasi provocazione in questa misura, che è stata già prevista come un minimo a cui l’Italia aveva diritto? Per arrivare a tanto, abbiamo bisogno del contributo americano, che non potremmo onestamente attenderci se facessimo dubitare della nostra lealtà circa l’impegno di mantenere la nostra sicurezza. Mi pare quasi di ricordare una cert’altra formula; l’onorevole Nenni non dice: «la guerra continua», ma dice: «il Patto atlantico continua» e pretende che si dia fede a questa formula, mentre contemporaneamente cerca di svuotarne il contenuto. Si dovrebbe tornare, dunque, alla politica da giri di valzer. In realtà questa soluzione è una seduzione, non una soluzione: una seduzione che riuscirebbe fatale all’onore, al prestigio, all’avvenire d’Italia. Invece di disincagliare, porterebbe definitivamente al naufragio. Meglio sarebbe, francamente, non ingannare nessuno, ed uscire dal Patto atlantico. Ed è ciò che ha proposto l’onorevole Togliatti, il quale nel suo discorso felpato alla Camera ha dimostrato uno sforzo evidente di non compromettere il patto di azione con l’onorevole Nenni e ha parlato di abbandonare la politica atlantica gradualmente, con limitazioni, con distacchi graduali. Ma l’onorevole Togliatti mi permetterà che io completi il Togliatti oratore parlamentare con il Togliatti capopartito e relatore del rapporto che egli ha presentato il 4 aprile al Congresso del Partito comunista. Là egli ha detto più esplicitamente: «vogliamo una politica di pace. Qual è questa politica di pace? Essa richiede che l’Italia esca dal Patto atlantico, che l’Italia rompa gli impegni che la legano ad una organizzazione politica e militare di aggressione contro l’URSS e i paesi di democrazia popolare, che l’Italia rompa qualsiasi solidarietà con coloro che conducono la guerra contro il popolo della Corea e contro il popolo cinese» . Cioè: rompa completamente con tutta l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Egli aggiunge, poi, distinguendosi sottilmente dalla formula dell’onorevole Nenni, che non di neutralità si deve parlare, ma di indipendenza politica. Ma poco dopo c’è un’altra sua dichiarazione, che commenta e spiega di quale indipendenza si tratti, in quale senso si può parlare di indipendenza, quando l’onorevole Togliatti, con onesta franchezza, dice: «non abbiamo nessuna riluttanza in questo Congresso ad affermare che, nella lotta per la difesa della pace, la parte dirigente spetta all’Unione Sovietica, perché l’URSS non è imperialista, ma socialista» . (Commenti al centro e a destra). Ora, in quel discorso egli ci ha parecchie volte insultato, chiamandoci «partito americano di lingua italiana». Domando se mi è permesso parafrasare e dire «partito bolscevico di lingua italiana». (Vivi applausi al centro e a destra). Che cosa significa, dunque, vista al lume di tale premessa, cioè della direzione da parte della Russia comunista, una successiva dichiarazione del capo comunista? Una voce all’estrema sinistra. La lotta per la pace. De Gasperi. La lotta per la pace è spiegata con quel primo capoverso; e non tradisco affatto il pensiero dell’oratore. Ma cosa vorrà dire, cosa significa la enunciazione che segue, al lume di quella premessa che ho detto? Eccola: «il popolo italiano e, prima di tutto, la sua parte avanzata, una guerra al servizio dell’imperialismo americano, di aggressione contro l’Unione Sovietica e contro i paesi di nuova democrazia, in appoggio a coloro che vogliono distruggere le conquiste avanzate del popolo e spingere tutti i popoli verso la schiavitù, il popolo italiano una guerra simile non la combatterà mai» . Ora, quando mi si viene a dire ed a sostenere, nonostante l’evidenza dei fatti, che in Corea aggressori sono gli Stati Uniti, che vi sono andati in soccorso della Repubblica coreana, (vivissimi applausi al centro e a destra), domando come possiamo credere che, quando si parla di guerra di aggressione contro l’Unione Sovietica, si intenda davvero una guerra, una offensiva da parte nostra o delle potenze atlantiche. Qui, evidentemente, è il capovolgimento della verità in un concetto ormai di tesi dottrinale, che nessuno scuote. E più avanti ancora, ed è una lezione per il governo e per chi lo sostiene: «si ricordino gli attuali governanti d’Italia cosa è avvenuto quando il fascismo ci buttò nella guerra: tutto il popolo passò alla lotta aperta contro la politica di guerra del regime fascista; tanto che il regime fu travolto non solo dall’attacco degli Stati democratici, ma dalla collera e dalla rivolta degli italiani» . Queste minacce egli le esprime ancora più chiaramente, quando afferma che uno dei compiti è quello di fermare la mano a governanti venduti allo straniero. E perché il quadro sia completo e non ci rimanga alcuna illusione sulla sorte che ci può capitare, l’onorevole Togliatti (con grande franchezza, debbo aggiungere)… calcaGno . …con onestà. De Gasperi. …con un’onestà polemica che fino ad oggi gli si è sempre contestata, dichiara di essere completamente solidale con gli Stati satelliti e con la procedura che viene seguita colà. Orbene, se tutta la nostra lotta in Italia è stata caratterizzata nel 1948 da un senso di allarme, ciò è dovuto al fatto che poco prima in Cecoslovacchia si era verificato il colpo di Stato e avevamo avuto un esempio di quello che avveniva in merito alle libertà in genere (civili, religiose e via di seguito) negli Stati balcanici nel momento in cui se ne impadroniva il Partito comunista. Ma ecco la spiegazione del perché in questi paesi non possano sussistere le libertà democratiche. Sapete perché in quegli Stati i partiti di opposizione debbono essere soppressi ed i loro esponenti debbono eventualmente essere imprigionati o impiccati? Ecco la risposta. «Non vi possono essere partiti capitalisti là dove il capitalismo non esiste più perché si è introdotta ormai la socializzazione. Dove lo Stato si è accaparrato i mezzi di produzione non c’è più il capitalismo: quindi non è lecito che vi siano i capitalisti. Vi possono essere ancora degli speculatori, degli agenti dello straniero, dei traditori, ma contro di essi viene condotta la lotta che deve essere condotta» . (Commenti al centro e a destra). L’onorevole Togliatti, sempre riferendosi alla Cecoslovacchia, i cui avvenimenti tanta impressione destarono in Italia, ha aggiunto che anche quando, come in Cecoslovacchia, questi borghesi capitalisti avevano parvenza di rispettare le regole democratiche e borghesi, alla fine tradirono, quando si presentò la necessità di difendere i propri privilegi. Si tratta, come sapete, dei borghesi alla Masaryk e alla Beneš, che pure erano stati travolti dalla invasione hitleriana. Anche questo rimprovero viene rivolto alla Repubblica cecoslovacca, che un tempo fu considerata davvero come un modello di Repubblica borghese. Questa concezione generale è così chiara ed il parallelo così evidente, che noi non abbiamo altro da fare che prenderne nota. Non mi dica, poi, l’onorevole Nenni che io invento fantasmi e che vado a cercare l’ispirazione nell’apocalisse, l’apocalisse sta qui, cioè nell’esempio storico che abbiamo dinanzi e nelle parole che vengono dette per lodare questo sistema politico. (Vivissimi applausi al centro e a destra). Dopo questa introduzione di carattere generale, si parla di distensione e si offre, come piattaforma di collaborazione, la Costituzione repubblicana. Ma la Costituzione ad un certo punto assume un tono sacro, quando, all’articolo 52, afferma che «la difesa della patria è sacro dovere del cittadino». (Vivi applausi al centro e a destra – Commenti all’estrema sinistra). pajeTTa Gian carlo. L’onorevole Pacciardi, che non voleva combattere contro i tedeschi, ne sa qualcosa! De Gasperi. Tuttavia l’onorevole Togliatti completa il suo pensiero e non lascia dubbi al riguardo, quando aggiunge: «…tutto un programma di rinnovamento sociale, rinnovamento che però dovrebbe soprattutto urtare contro la massa dell’oscurantismo reazionario e clericale. Io non so se al di fuori di De Gasperi, che è di per se stesso pregiudizialmente condannato, c’è ancora un qualche democratico cristiano che sia fuori di questa massa oscurantista e clericale che possa eventualmente assumere la direzione di un governo di distensione di questo senso e di questo carattere» . A questo riguardo, ho da dire una parola franca, ma contemporaneamente serena. Io non inclino a sopravvalutare i deviazionisti in genere, i secessionisti, ne contesto naturalmente i progressi sintomatici delle libere organizzazioni in certe fabbriche; ma credo soprattutto che non si debba sottovalutare la forza di un partito come il Partito comunista, il quale – prendo le cifre che sono state riferite al Congresso – su 11.272 cellule ne ha 5.000 concentrate nelle 700 maggiori aziende industriali italiane. (Commenti all’estrema sinistra). E non penso, in questo momento, alle armi trovate, alla ricerca delle quali bisognerebbe dedicarsi a fondo e reperirle tutte, possibilmente (applausi al centro e a destra – commenti all’estrema sinistra); non penso a questo, e quindi non mi riferisco a questo piccolo particolare difensivo, ma al valore propulsivo – vedete che è un riconoscimento – che viene da quella massa facilmente mobilitabile per le agitazioni. E, inoltre, penso ai quadri che (non so in quale misura, ma in ogni modo, senza dubbio, in una notevole misura) meritarono di essere esaltati al Congresso comunista come disciplinati e dinamici esecutori. Di fronte a questo stato di fatto, l’onorevole Togliatti mi accusa di aver preconizzato una politica di denti stretti. Sì, se questo vuol dire estrema vigilanza e fermezza nel difendere le libertà democratiche, nell’esigere l’obbedienza alle leggi e nell’insistere nell’appello alla consapevolezza e alla virile attitudine di quanti amano le tradizioni spirituali e civili del nostro paese; sì perché è una necessità, è una responsabilità di chi è [al] governo. (Applausi al centro e a destra). Si, qualora voglia dire fedeltà agli impegni sanzionati dal Parlamento, fedeltà ai patti di sicurezza vicendevoli che ci legano ai popoli liberi, agli Stati fondati sulla democrazia e sul lavoro, (commenti all’estrema sinistra), popoli dei quali noi sappiamo che vogliono la pace come la vogliamo noi, che intendono il Patto atlantico come un impegno di difesa, come lo intendiamo noi, e che sono sempre disposti a cercare di favorire ogni componimento pacifico, purché sincero e realizzabile. (Vivissimi applausi al centro e a destra). Guardiamo invece, con sereno ottimismo, al popolo italiano, al suo buon senso, al suo patriottismo. Sono convinto che anche la prevalente maggioranza di coloro che appaiono inquadrati nel Partito comunista, nei momenti decisivi non resisterebbe all’impulso della solidarietà nazionale, e l’Italia sarebbe unita nella difesa della sua civiltà e delle sue frontiere. (Applausi al centro e a destra). Ogni sforzo sarà fatto perché questa solidarietà sia la legge fondamentale della comunità nazionale e contribuisca al progresso continuo delle classi popolari, e ci sospinga verso la meta doverosa di ogni democrazia: la giustizia sociale. Lotta contro la disoccupazione. In tal nesso viene curata l’emigrazione, per cui sono in atto due accordi importanti, col Brasile e con l’Australia, che verranno prossimamente sottoposti al Parlamento. L’attuazione della riforma fondiaria procederà; il piano decennale per le zone depresse del centro-nord avrà il suo corso. Ma che dire dello spirito distensivo con cui viene valutata ed accettata qualsiasi opera di riforma e di rinnovamento da noi fatta? Non c’è un caso in cui da parte dell’opposizione ci si sia venuti incontro, trattandosi pure di argomenti oggettivi, tecnici, e di riforme evidenti in favore delle classi operaie. Tutto si mette sotto sospetto, tutto si svaluta. L’onorevole Nenni ha esaltato l’opera di sabotaggio che si è tentata nella Sila. Ecco come stanno le cose nella Sila. Fra le proprietà espropriate dall’Opera della Sila in applicazione della legge 12 maggio 1950, vi sono alcuni terreni sull’altopiano, di cui parte sono in concessione a cooperative di contadini. Per principio comune, per tradizione continua, una parte di detti terreni, un terzo, è lasciata a turno alla libera disponibilità dei proprietari. Una voce all’estrema sinistra. A pascolo! De Gasperi. L’Opera della Sila, divenuta proprietaria per l’avvenuta espropriazione… Gullo. Non è esatto! De Gasperi. …esercitò il suo diritto di utilizzare i terreni della terzata, che quest’anno è a disposizione dei proprietari, e vi iniziò lavorazioni con mezzi meccanici, per assegnare le terre in compartecipazione ai contadini. Questo esercizio di un incontestabile diritto fu violentemente osteggiato da taluni agitatori; e l’agitazione, condotta da elementi politici, portò ad arbitrarie occupazioni di terre, che l’autorità dovette reprimere, procedendo anche ad alcuni fermi. In seguito a questo fermo contegno diretto a far rispettare la legge, si addivenne ad una riunione a Cosenza, a cui parteciparono un rappresentante dell’Opera della Sila e rappresentanti della camera del lavoro di Cosenza e della confederazione dei liberi sindacati, che portò il 14 corrente ad un accordo nel quale si riconobbe la piena legittimità dell’azione dell’Opera sulle terzate delle quali essa aveva già iniziato la lavorazione e si accettarono tutte le disposizioni che l’Opera della Sila aveva adottato e comunicato con manifesto pubblicato fin dal 25 marzo sia per l’assegnazione ai singoli contadini sia per le direttive e l’assistenza tecnica. pajeTTa Gian carlo. E in America che ha imparato a conoscere la Calabria! (Proteste al centro e a destra). De Gasperi. Si sfrutta anche sentimentalmente l’occupazione di alcune aziende siderurgiche o meccaniche, senza dire che lo Stato ha fatto per alcune di esse notevoli sacrifici finanziari e che il risultato di tale forma di resistenza fu di trascinare e di invelenire la crisi, senza poterla superare; e furono imposti ai lavoratori dei sacrifici che un rapido accordo avrebbe potuto ridurre o più tardi sanare con il reimpiego, come è avvenuto per la FIAT, che ha potuto aumentare il numero dei lavoratori riassorbendo anche lavoratori disoccupati. (Commenti all’estrema sinistra). Inoltre gli onorevoli Nenni e Togliatti, ripetendo una accusa che tante volte hanno lanciato, tornano a sostenere che il governo attuale esclude, per servilismo all’America, i paesi d’oriente dai nostri rapporti commerciali. E l’onorevole Togliatti nel criticare la politica economica d’Italia nei riguardi dei paesi dell’est ha affermato sostanzialmente tre punti: 1) che avendo esportato degli agrumi, l’Italia non ha invece voluto esportare macchine o attrezzature; 2) che il commercio verso detti paesi è regolato da strette proibizioni imposte dagli Stati Uniti; 3) che i nostri traffici potrebbero raggiungere cifre ben più alte. Tali affermazioni contrastano nettamente con la realtà delle cose. Secondo i dati del bollettino, del dicembre 1950, dell’Ufficio di statistica – che non sono naturalmente completi per tutto l’anno solare – si sono avute queste esportazioni di agrumi: 868 milioni verso la Cecoslovacchia, 84 verso la Polonia, 231 verso la Bulgaria; niente verso l’Ungheria e la Romania. Esportazioni macchine: 880 milioni verso la Bulgaria, 1.644 milioni verso la Romania, 1.921 milioni verso la Cecoslovacchia, 6.653 verso l’URSS, 4.395 verso la Polonia: un totale quindi di 1 miliardo e 183 milioni di lire di agrumi e di 15 miliardi e 493 milioni di lire di macchine. (Commenti all’estrema sinistra). Circa l’asserzione che le proibizioni degli Stati Uniti impedirebbero i traffici verso questi paesi, le poche cifre sopra ricordate dimostrano evidentemente il contrario. Quanto poi al disinteresse italiano per i traffici con i paesi dell’est, basterà ricordare che nel 1950 abbiamo aumentato con l’Ungheria i contingenti reciproci in sede di commissione mista (settembre1950); con la Polonia abbiamo provveduto a varie proroghe dell’accordo commerciale del 1949, l’ultima delle quali è di pochi giorni or sono; con la Romania abbiamo firmato un accordo commerciale di pagamenti ed altri connessi nel novembre passato; con l’URSS siamo in trattative per la revisione delle liste merceologiche; con la Cecoslovacchia abbiamo condotto a compimento importanti operazioni globali per ingenti quantità e, se non perveniamo ancora alla firma, ciò dipende unicamente dal fatto che detto paese non ha ancora voluto darci la minima soddisfazione circa il risarcimento di danni in merito alla nazionalizzazione per i sequestri e le confische. Si è anche detto da alcuni, con qualche preoccupazione legittima, che sarebbe da temersi l’abbandono da parte del ministro Campilli della vigilanza sulla Cassa per il Mezzogiorno. (Commenti all’estrema sinistra). Io ho dato formale, categorica assicurazione che quest’opera verrà mantenuta. Da qualcun altro è stata messa poi in dubbio e svalutata l’attività della Cassa per il Mezzogiorno. Ora, le cifre sono tali da consigliare prudenza a coloro che vogliono usare simili argomenti contro la nostra attività. La Cassa sino ad oggi, 17 aprile, su un totale di circa 800 progetti presentati, ne ha già approvati 531 per un importo di oltre 35 miliardi, mentre sono in istruttoria altri 175 progetti per un ammontare di 32 miliardi. Sono stati inoltre appaltati 97 progetti per un importo di circa 14 miliardi, mentre altri 170 progetti sono in corso di appalto per un importo di altri 14 miliardi. amenDola GiorGio. Per quante giornate lavorative? (Proteste al centro). Mi pare sia una domanda lecita. De Gasperi. È da notare che la Cassa funziona dall’ottobre scorso, da poco più di sei mesi quindi, e in questo breve periodo sono stati già esaminati progetti per circa 68 miliardi; voi domandate quante siano le giornate lavorative; non possiamo ancora calcolarlo, ma gli appalti sono fatti, i lavori si fanno e voi dovreste almeno riconoscere questo. Ci venite, invece, a parlare di distensione quando non avete il minimo senso di responsabilità nell’ammettere quello che si fa e si cerca di fare in questo campo. (Applausi al centro e a destra – Proteste all’estrema sinistra). amenDola GiorGio. Fatti, fatti, non parole. Basta con le chiacchiere! Ge Gasperi. È bastato riferirsi a cifre, a fatti concreti, perché la vostra sempre acuta dialettica si sia dimostrata… (Ripetute interruzioni del deputato Invernizzi Gaetano). presiDenTe. Onorevole Invernizzi! De Gasperi. Voi avete paura della verità. (Interruzione del deputato Sansone). Ella, onorevole Sansone, credo potrebbe vantarsi di essere sotto un governo che nel Mezzogiorno sviluppa una tale attività. (Applausi al centro e a destra – Interruzioni all’estrema sinistra). sansone. Non divaghi: deve dirci quanto è stato sottratto al Ministero dei Lavori Pubblici per questi lavori. De Gasperi. Il governo, continuando su questa via, sa di operare secondo lo spirito e la lettera della Costituzione ed è consapevole che la limitatezza dei nostri mezzi rappresenta il solo freno che ritarda il nostro slancio e rende più grave la nostra responsabilità nelle realizzazioni. In questo senso, riguardante la tendenza, la volontà, il programma, le realizzazioni e i limiti che la responsabilità ci impone, in questo senso, onorevole Togliatti, di rinnovamento e di progresso, e non nel senso reazionario che ci avete attribuito, è vero che la formula del 18 aprile è anche una formula sociale. (Vivissimi applausi a sinistra, al centro e a destra). [Il presidente del Consiglio sugli ordini del giorno presentati nel dibattito]. Non posso accettare l’ordine del giorno Nenni che, per quanto in forma tenue, non trova rispondenti le modificazioni personali introdotte nel gabinetto. Nel corso della discussione ho già risposto ai due primi capoversi dell’ordine del giorno Roberti. Un altro capoverso riguarda la pacificazione degli italiani: è una meta che bisogna raggiungere e io credo di aver fatto qualche cosa in argomento. Però il ricorso a metodi terroristici ci allontana e non ci avvicina alla meta. (Applausi al centro e a destra – Interruzioni all’estrema sinistra). Naturalmente, nemmeno l’ordine del giorno Roberti può essere accettato dal governo. L’ordine del giorno Togliatti contiene una formale deplorazione dell’opera del governo e la richiesta di un mutamento radicale dell’indirizzo governativo. Mi pare, perciò, che l’ordine del giorno sia quello che si presti, più di qualunque altro, per manifestare un giudizio globale sulla situazione e sul governo. Chiedo quindi che la Camera si esprima sull’ordine del giorno Togliatti .
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Onorevoli colleghi, toccherebbe a me ora dire parole di commemorazione per quel che riguarda l’attività del governo dell’onorevole Bonomi. Ma un’adeguata commemorazione esigerebbe ben altra preparazione e ben altro tempo; del resto la scomparsa di tali uomini non può venire circoscritta da ricordi espressi in poche parole improvvisate: la traccia che lascia è così profonda che molte occasioni si presenteranno per ricordare i fatti e per raffrontare i meriti e le benemerenze storiche con le conseguenze che queste benemerenze hanno avuto. Vorrei solo ricordare, avendo avuto l’onore di servire la causa del paese sotto di lui, quando era presidente del Comitato centrale di liberazione, quel periodo come forse il più critico e il più importante per quanto riguarda la sua attività; quel periodo in cui egli, saggio moderatore, intervenne fra i diversi partiti per ottenere un’azione coordinata al servizio della patria, indipendentemente dalle tendenze che in quel momento di ribollimento nascevano nell’animo delle diverse correnti. Saggio moderatore, che aveva di mira soprattutto l’interesse del paese e la causa della libertà e della democrazia. Quante discussioni, che in certi momenti sembravano portare alla discordia fra le diverse correnti così radicalmente poste, venivano da lui spesso superate con parole di moderazione, con il richiamo alla ragionevolezza e soprattutto con l’esempio di un’assoluta probità! La caratteristica principale di Ivanoe Bonomi è stata proprio questa: la probità politica: cioè, nonostante gli accorgimenti, che rappresentano una necessità nella trattativa politica, non dire mai qualcosa contraria alla verità. Ma, oltre a ciò, egli ebbe momenti di energia e di iniziativa. In questo atteggiamento di energia io lo ricordo quando si trattò di affrontare una svolta storica per il nostro paese. Si credette allora da parte di qualcuno di poter tergiversare, di poter prendere una posizione equivoca: in realtà la situazione italiana era così confusa e debole, e così minacciata da eventualità che non si potevano prevedere, che le esitazioni potevano anche parere naturali, forse naturalissime, tanto più in un uomo della sua tempra. Ricordo invece, sempre con ammirazione, come, in quel momento decisivo dell’agosto 1943, allorquando si trattò di presentarci a chi allora dirigeva il governo per dirgli una parola franca, e per chiedere che l’Italia assumesse la responsabilità della guerra alla Germania, fu proprio l’onorevole Bonomi che si pose alla testa di tutti noi e trovò le parole adeguatamente energiche per esprimere questa volontà, che non venne subito realizzata, ma che poi i fatti dimostrarono divinatoria di una situazione che si imponeva assolutamente. Questo atto di energia è, forse, il più caratteristico dell’attività politica di Bonomi come uomo di iniziativa. Successivamente io stesso ebbi l’onore, con altri colleghi, di essere membro di un governo da lui presieduto : anche in questa sede la sua azione fu sempre di comporre le discordie e le differenze, di superare le difficoltà e di avere di mira soprattutto l’interesse del paese. In questo momento, nessun’altra considerazione si presta meglio di questa all’interesse supremo del paese, nel ricordo di un uomo simile, il quale, se anche scomparso fisicamente, non potrà mai scomparire nel nostro spirito e nella nostra volontà di azione e di sacrificio. (Segni di generale consentimento).
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La strettezza del tempo mi costringe ad improvvisare la risposta, almeno per la parte che riguarda gli oratori che mi hanno testé preceduto. Tuttavia debbo rendere conto anche agli oratori che, prima dell’interruzione dei lavori, hanno partecipato a questo dibattito e toccare almeno gli argomenti più importanti che furono oggetto dei loro discorsi. La prima questione posta dagli oratori che intervennero nella discussione è stata quella della incostituzionalità, e oggi lo stesso problema si è ripresentato nelle dichiarazioni dell’onorevole Lucifero . lucifero. No, anche l’altra volta io dissi che la tesi della incostituzionalità era un errore. De Gasperi. Domando scusa all’onorevole Lucifero se gli ho attribuito, tra le tante accuse che egli ha rivolto al governo, anche questa. Comunque io mi domando se, per quanto concerne l’incostituzionalità, dobbiamo davvero ritornare su questo argomento. Mi pare che le dimostrazioni dei colleghi che hanno portato il loro appoggio al governo siano già sufficienti e decisive. Debbo riferirmi a quello che ho dichiarato, o meglio alle argomentazioni di tecnici, di giuristi e di competenti di cui ho parlato anche nell’altra Camera. Mi pare che l’onorevole Terracini, o non so quale altro oratore, abbia ricordato che io avrei vantato la posizione del presidente del Consiglio. Ma in realtà a questo riguardo non ho usato alcuna parola mia personale. Ho citato dei costituzionalisti che hanno partecipato alla formazione della Costituzione e quindi sono in grado di interpretare il testo della Costituzione medesima. Ho citato il relatore onorevole Tosato il quale affermava che: «la figura del presidente del Consiglio è un’esigenza, un fatto che non si può, né si deve eliminare. È una figura che dà tono e fisionomia al governo, che imprime l’indirizzo fondamentale al ministero; è il presidente del Consiglio che promuove l’iniziativa governativa». Il commentatore della Costituente fa notare quest’altra circostanza: che la Costituzione italiana ha stabilito in sostanza per il governo una struttura differenziata nelle persone e nel tempo. La nomina del presidente del Consiglio, in un primo tempo, e la scelta dei ministri, in un secondo tempo; conseguenza importante ed immediata è che le dimissioni del presidente del Consiglio coinvolgono quelle dell’intero gabinetto, mentre quelle isolate dei ministri possono consentire un rimpasto ministeriale senza crollo totale del gabinetto. Mi pare che questa considerazione sia abbastanza chiara ed autorevole per spiegare senza altri argomenti la procedura che ho seguito nella presente circostanza, come in altri rimpasti governativi. Ma c’è la tradizione, la tradizione prefascista cui si riallaccia il procedimento seguito per il rimpasto attuale. Non si può accettare la tesi che il governo sia formato da rappresentanze di partiti politici e che, se manca un partito politico, si debba necessariamente arrivare ad una crisi generale Quindi permettetemi che non torni più sulla formula del 18 aprile. Mi sono espresso così largamente, si è parlato così ampiamente sulla pubblica stampa di un oggetto di discussione che è inutile tornare sul contenuto della formula del 18 aprile. Comunque, ritengo di aver agito nella completa osservanza della prassi costituzionale e del testo della Costituzione quando ho proposto al presidente della Repubblica di risolvere il problema nel modo in cui l’ho presentato alle Camere, cioè distribuendo gli incarichi tra gli attuali membri del gabinetto. Non ho sentito nelle argomentazioni degli avversari alcunché di giuridico, nessun argomento veramente costituzionale contro tale prassi e contro tale metodo. Io so che l’opposizione ha colto, ogni volta che le si è presentata nel corso di ogni crisi, l’occasione per dichiararmi incostituzionale nella procedura; si aggiunge oggi – inaudita accusa, espressa in forme molto gentili, ma, ripeto, inaudita nella sostanza – che il presidente del Consiglio tenti o abbia tentato di isolare il presidente della Repubblica, quasi che questi non abbia tutte le occasioni possibili per essere informato sulle situazioni politiche e sui loro cambiamenti: non solo informato direttamente da me, come è mio obbligo e come è suo diritto, ma con tutti i mezzi di informazione che gli possono venire direttamente ed indirettamente. D’altro canto come si può pensare che si faccia o non si faccia una crisi semplicemente perché l’onorevole Togliatti, l’onorevole Nenni o l’onorevole Terracini abbiano o non abbiano l’occasione di conferire con il presidente della Repubblica? Avranno cento volte modo di conferire con lui, specialmente se andranno a parlare di arte, come ha detto prima l’onorevole Terracini. Ma io mi domando come può egli affermare che io, come sistema, ho cercato di segregare il presidente della Repubblica dai contatti con i rappresentanti parlamentari dell’opposizione, quando in occasione dell’ultima crisi – che non è poi addietro di secoli, è del gennaio 1950 – si sono visti sfilare tutti i rappresentanti dell’opposizione dinanzi al presidente della Repubblica, ed essi hanno detto quello che dovevano dire; e la conclusione è stata, almeno credo, non molto favorevole alle loro argomentazioni, oppure essi stessi spesso si sono adattati alle circostanze, che del resto erano chiare. E credo che le circostanze siano chiare anche oggi. Io sostengo che il ministero attuale – come del resto è stato affermato dalla Camera dei deputati con il suo voto – ha ancora la fiducia della maggioranza del Parlamento. Questo è il problema. Se il Parlamento mantiene tale fiducia, evidentemente il ministero continua per la sua via; se la fiducia viene negata, naturalmente il ministero è in crisi. C’è da aggiungere poi, quanto alla forma – e qui ci siamo espressi altra volta anche in tono, direi, familiare – che mi parevano tutti più preoccupati del problema costituzionale in sé, cioè della procedura, piuttosto che delle conseguenze della crisi. Abbiamo detto che la Costituzione ha tentato di rendere più difficili le crisi – le crisi totali, si capisce – ed ha creato quegli articoli 94 e 95 in cui ha introdotto la necessità, per un voto di sfiducia, di adottare una data procedura. Ed era quindi l’opposizione, proprio quella che mi accusa di essere incostituzionale, che doveva, perché ne aveva non solo il diritto ma anche il dovere, presentare in quella specifica forma il voto di sfiducia. Io devo viceversa deplorare che anche qui in Senato, per forza di cose, io debba subire la situazione di far votare, nel senso della intenzione che può attribuire a questo ordine del giorno il governo, una fiducia indirettamente, cioè respingendo un ordine del giorno negativo, di disapprovazione, presentato da un membro dell’Assemblea. La questione resta aperta. Noi continuiamo con un andazzo che ormai abbandona quelle misure di prudenza che la Costituzione voleva introdurre. Così è avvenuto alla Camera dei deputati e così avviene oggi al Senato. Voi ricordate che io ho fatto appello proprio alla saggezza del Senato, alla sua prudenza giuridica, perché si trovasse una strada per mezzo della quale almeno la procedura venisse salvata. Ora credo, su questa materia, di avere risposto anche all’onorevole Lussu. Ma io devo rispondere a lui pure su un altro argomento, su un’altra accusa, quella di trasformismo. Io non comprendo veramente come i colleghi dell’opposizione possano cogliere questa occasione – ce ne saranno tante altre! – per accusarmi di trasformismo, cioè l’occasione di aver presentato una legge, che verrà ora applicata, sull’apparentamento. Ma l’apparentamento è proprio il contrario del trasformismo; l’apparentamento è qualche cosa di ben diverso da quello che era il blocco, che voi avete fatto tante volte e che avete tentato di fare anche oggi, qualche cosa di ben diverso anche da quello che è il patto di azione, diverso anche dal comitato di liberazione. L’apparentamento salvaguarda la completa indipendenza del carattere e del programma di ciascun partito, e i vari partiti assomma soltanto in un voto dato in vista di una base comune o della necessità di impedire la vittoria di un avversario comune. Quindi, come metodo, esso rappresenta il metodo più leale che sia stato inventato: del resto esso è stato inventato in Svizzera, grande paese di democrazia e di libertà, e dalla Svizzera noi lo abbiamo introdotto in Italia. Quindi, è proprio contraria ad ogni contenuto sostanziale e formale l’accusa che De Gasperi abbia inventato questo sistema per trasformare e diminuire i partiti. Riguardo poi alla unificazione dei socialisti, io vi dico francamente che vorrei pregarvi di non ridurre tutto ad una questione di abilità manovriera: veramente voi oppositori mi fate troppo onore quando mi dite che sono abile, che ricorro alla manovra, eccetera. Io credo di essere qualche cosa di più, di avere delle convinzioni, di avere una linea politica, di avere una meta che vedo chiara nell’interesse del paese; mi posso sbagliare, ma io l’ho seguita. (Vivi applausi dal centro e dalla destra). Vi dico subito che mi trovo innanzi ad un problema vecchio quanto la nostra attività parlamentare nel dopoguerra, cioè davanti al pericolo, chiamiamolo così, di una bolscevizzazione del Partito socialista. Io ho il dovere, come uomo di Stato, nell’ambito delle norme della Costituzione e della lealtà politica, di favorire più che sia possibile la debolscevizzazione del Partito socialista, lasciando naturalmente che il socialismo continui per la sua strada, perché è il socialismo, e non ho mai tentato di diminuire l’autonomia del partito A o del partito B; non mi sono mai immischiato nelle questioni di unificazione, o meno, se non per incitare a fare tale unificazione, perché riconosco che un grande partito rappresenta sempre una aspirazione giusta e che è naturale ci sia in ogni movimento. Ma fatela, questa unificazione, in un dato momento in cui essa non danneggi l’organizzazione, la lotta, la compattezza democratica. Questa è stata sempre la mia preoccupazione e questo è stato il contenuto della mia lettera all’onorevole Saragat , lettera onesta, inviata prima in confidenza, sì, ma poi stampata e pubblicata con il mio permesso , nella quale non si possono vedere manovre losche, ma solo e sempre l’uomo preoccupato: come ero preoccupato nel 1924, allorché noi abbiamo voluto dimostrare sull’Aventino di essere per la causa della libertà e della democrazia contro la minaccia fascista, così mi preoccupo oggi che in Italia si compia il massimo sforzo di concentrazione democratica, perché, se il pericolo allora è venuto da una parte ora viene da un’altra, ma, venga esso da sinistra o da destra, si deve salvare la democrazia e l’avvenire del paese! (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra). Questa è la mia fede a da qui viene la mia così detta abilità manovriera. Direi che ho risposto all’onorevole Lussu – quando mi accusa e mi richiama alla Resistenza, all’unità di tutte le forze dell’ordine democratico – recentemente, in una grandiosa assemblea all’Arena di Verona dove si erano radunati i volontari della libertà, i partigiani e dove nello stesso tempo si compiva atto di omaggio alle zolle dei vari cimiteri che sono state raccolte in questi giorni. In quella occasione dissi queste parole: «qui si esalta la resistenza contro lo straniero, non la guerra, si esalta lo spirito di sacrificio sull’altare della patria e gli esempi sono così luminosi da fugare le ombre. In questa immensa arena aleggia lo spirito di libertà che i volontari vollero animasse un’Italia libera e democratica. Qui il ricordo di tanto sangue sparso rende più acuta la risoluta aspirazione alla pace fra tutti coloro che sentono la solidarietà nazionale e in caso di pericolo la vogliono difendere. Unione fra tutti coloro che dal crollo disastroso della disfatta hanno imparato che la nazione deve reggersi in libertà, in vivo sforzo solidale per la giustizia fra le classi e tra i popoli» . Tali dichiarazioni non mi pare possano essere equivocate come parole esaltanti la disfatta; esse danno piuttosto all’unità un senso ben chiaro. Esse si fondano sulla solidarietà morale che vuol dire unità della nazione [in] caso di pericolo per la difesa delle sue frontiere. lussu. Il solo giornale che non ha speso una parola per la celebrazione del 25 aprile è stato il Popolo! De Gasperi.Vi abbiamo supplito con le manifestazioni che organizzammo in quel giorno. Mi occuperò ora un poco del discorso dell’onorevole Labriola, discorso molto clericale, a rovescio naturalmente, ed i cui argomenti mi sembra siano stati riassunti dall’onorevole Pastore. L’onorevole Labriola ha parlato di clericalismo; e ci ha detto: che diritto avete di parlare di antitotalitarismo, se voi siete totalitari perché siete cattolici? Ora io non sfuggo mai a certe questioni anche se mi sembrino talvolta superflue, ma vi faccio notare che ogni concezione della vita tende a dare una soluzione integrale dei problemi. Se non vi riesce è per insufficienza di mezzi, o vi deve rinunziare per incapacità interiore o strutturale di soddisfare le esigenze dello spirito. Ciò vale per ogni società religiosa o scuola filosofica. Anche l’architetto dell’universo misura il mondo coi suoi compassi e triangoli. Qui non si tratta, onorevole Labriola, né di Chiesa, né di religione. Non si tratta della Chiesa cattolica, della massoneria o di altro, si tratta dell’organizzazione politica della società, cioè delle norme di convivenza civile nello Stato costituzionale, secondo le quali è garantita la libertà politica, civile, religiosa, ai termini della legge eguale per tutti. Totalitarismo vuol dire invece assorbimento di queste libertà personali e sociali da parte dello Stato costituito in dittatura di partito o di classe. Ecco perché in questo campo, che è politico, abbiamo diritto di dire che noi siamo costituzionali, e accettiamo queste libertà secondo questo senso pluralistico della società. Voi che rappresentate uno Stato totalitario, rappresentate in realtà lo Stato-partito. Caratteristico appunto che tra coloro che polemizzano su tali argomenti ci sia anche l’onorevole Pastore il quale oppone il totalitarismo della Chiesa: dunque è una Chiesa, una fede che col braccio secolare delle sue divisioni, come al tempo degli imperatori bizantini vuole imporre il suo impero sacerdotale. Ma noi non vogliamo né il Sacro Romano Impero, né i basilei di Bisanzio; difendiamo la Costituzione della Repubblica italiana che ammette la libertà e riconosce la pluralità dell’organismo sociale e la libera evoluzione delle classi e dei partiti come strumento di formazione di volontà politica collettiva. Questi sono i nostri princìpi e quindi in nome di essi abbiamo diritto di opporci, obiettare, polemizzare. Una serie di singole questioni sono state toccate dall’onorevole Pastore. Capisco che si colga l’occasione della discussione generale per introdurvi argomenti che dovrebbero essere oggetto di interpellanze o discussioni particolari. Cercherò di rispondere a qualcuno di questi. La legge riguardante l’articolo 16 si trova tuttora presso una Commissione della Camera. Però, in via di fatto, vorrei osservare che, comunque, le cose hanno una proporzione molto ristretta. Nel 1951, e precisamente sino a tutto il mese di aprile, il numero delle autorizzazioni concesse è di 6 e quello delle autorizzazioni negate è di 3: quindi non si può dire che il criterio generale del Ministero di Grazia e Giustizia sulla materia di autorizzazioni a procedere sia esagerato: comunque il ministero procede, per i reati commessi in servizio di polizia, negando l’autorizzazione quando l’azione dell’imputato appaia giustificata in base alle norme dell’attuale codice penale. Del resto questa è la legge: voi l’avete votata e ora si trova alla Camera: ma ripeto che, come applicazione dei singoli casi, le proporzioni sono assai limitate. Tribunali militari. A questo proposito permettano gli onorevoli senatori che io dica che il potere esecutivo non ha la possibilità di intervenire nella competenza del magistrato: la legge penale regola i conflitti di competenza. (Interruzione del senatore Pastore). Contro le sentenze dei tribunali militari si può ricorrere al tribunale supremo e poi, se si tratta di competenza, alla Corte di cassazione. L’interpretazione della legge non può essere di spettanza del governo ma della magistratura. Non entro nei particolari che potremo discutere in altra sede. Scandali commerciali. Confesso che l’attacco mi ha molto stupito: primo, perché ho la massima fiducia nel ministro del Commercio con l’Estero che ha in questi ultimi tempi lasciato il posto e che è stato sostituito dall’onorevole La Malfa. In secondo luogo, perché è apparso chiaro in pubblico che chi ha scoperto gli abusi e li ha perseguiti è stato il ministro stesso. È ingiurioso parlare di connivenza o di incapacità da parte dell’onorevole Lombardo, dal momento che gli accertamenti di evasioni valutarie, e le successive immediate denunzie dei reati perseguiti alla magistratura, e alla commissione per le infrazioni valutarie degli illeciti perseguiti in sede amministrativa, sono stati possibili proprio per iniziativa del ministro e proprio per l’attenta attività di controllo del ministero stesso. Assolutamente infondata è quindi l’affermazione che il ministro abbia dato disposizioni di rilasciare indiscriminatamente licenze; semmai è vero il contrario, giacché tutta l’azione svolta dal ministero è stata precisamente intesa ad eliminare, dal numero considerevolissimo di ditte che si presentano ufficialmente come operatrici di commercio con l’estero, tutte quelle che accertamenti, indagini, controlli indicavano come ditte di scarsa serietà e consistenza. Valga in proposito la cifra di ditte escluse dall’autorizzazione del commercio con l’estero o sottoposte a sorveglianza nel 1950 e nel primo trimestre del 1951: si tratta di 698 ditte. Il senatore Pastore ha parlato di evasioni di capitali per 70 miliardi. Io domando dove ha preso queste cifre. pasTore. Da una rivista diretta dall’onorevole Parri. De Gasperi. Io mi domando dove questa rivista ha attinto gli argomenti indicati. Nelle sfere ufficiali si ritiene che la somma sia molto minore, comunque non è in causa alcuna responsabilità politica da parte del governo o tecnica da parte del competente ministero. Bisogna ricordare che il Ministero del Commercio con l’Estero decide dopo l’esame da parte di comitati interministeriali, in cui sono rappresentate tutte le amministrazioni interessate. Il Ministero del Commercio con l’Estero doveva ottenere un difficile equilibrio tra l’esigenza di tenere in vita una serie di controlli atti a dare il massimo di tranquillità possibile, e quella di non intralciare gli operatori in una attività in cui anche un giorno di ritardo può far perdere del tempo prezioso. Il Ministero del Commercio con l’Estero ha potenziato l’accertamento sulla consistenza e serietà delle ditte richiedenti, istituendo servizi appositi, ed ha intensificato i controlli sulle varie fasi delle operazioni commerciali con l’estero. Anziché lanciare critiche inconsistenti occorrerebbe dare il meritato riconoscimento all’onorevole Lombardo per la sua direzione del ministero, per il quale non c’è alcun dubbio che anche l’onorevole La Malfa possa seguitare a ben operare. (Interruzione del senatore Pastore). Ora vengo all’ordine del giorno dell’onorevole Lucifero. L’onorevole Lucifero considera e vuole che il Senato stabilisca che si è spostato l’equilibrio del ministero. Non so se intende parlare di equilibrio interno, con la ridistribuzione di cariche dello stesso gabinetto. Sostiene addirittura che si è spostato in profondità, e qui dovrei compiere un curioso esame del peso specifico dei singoli ministeri, naturalmente in senso tecnico. (Ilarità). Non so se egli voglia dire che sia spostato anche l’equilibrio di base. Una prova a nostro favore l’ha data la Camera dei deputati e credo che la darà anche il Senato, ma se non bastassero queste due prove il governo ne darà altre con le elezioni amministrative che hanno anche un significato politico. Se si fosse molto democratici si dovrebbe chiedere la sospensiva al senatore Lucifero di questo ordine del giorno. Naturalmente non la chiederò, ma prego che si voti contro, perché lo credo assolutamente infondato. Quando parla di problemi internazionali giunge ad affermazioni gravi che si troverebbe in grave difficoltà a dimostrare. Per quanto riguarda l’economia nazionale, non ci riconosce alcun merito ma tutti i demeriti; in verità, se solo una decima parte di queste impostazioni fosse vera, l’onorevole Lucifero avrebbe ragione, ma credo che siano sostanzialmente inesatte e che non corrispondano alla realtà: e spero che il Senato mi darà ragione dopo che la discussione sarà stata svolta, amplissima, con tutta la libertà possibile, in tutte le piazze d’Italia. (Approvazioni dal centro). Ora, vorrei rispondere un po’, come posso – e chiedo venia se non posso essere né esauriente né, forse, avere la preparazione specifica che sarebbe necessaria – agli oratori che sono intervenuti oggi nella discussione generale. Ringrazio innanzi tutto l’onorevole Boeri per le sue conclusioni. Mi pare che le questioni relative ai giudici della Corte costituzionale e alla delega legislativa siano state tirate un po’ per i capelli. Riguardo alla Corte costituzionale vi prego di notare che il governo non ha preso nessuna posizione, ed infatti anche alla Camera dei deputati si è astenuto dall’assumerne. Il Parlamento quindi ha la completa libertà di giudicare secondo ciò che riterrà più opportuno. Riguardo alla delega legislativa, di essa parleremo un po’ in dettaglio. Si tratta di una legge precauzionale, una legge che, se si fosse potuta applicare per qualcosa veramente importante, ci avrebbe permesso di intervenire in modo deciso. È una legge, in ogni modo, sui cui limiti, sul cui contenuto, sui cui princìpi si può discutere, ed il governo lo ha detto sin dal principio. Non ha niente di allarmante quindi la sua presentazione come a niente di allarmante e catastrofico porterà la sua discussione. Ed ora vengo all’onorevole Terracini . Come fare a rispondere ad un discorso così eloquente, reso arsenicale da una malignità abile dell’oratore? (Commenti ironici dal centro e dalla destra). È un po’ difficile. Quando l’onorevole Terracini ha detto che oggi si sta facendo una campagna elettorale politica, mentre si tratta di amministrazione, ha assunto tale veste di agnello che veramente mi ha fatto sorridere. Questo egli dice, dopo una impostazione essenzialmente politica sui problemi di pace e di guerra data al Congresso del Partito comunista. (Interruzione del senatore Terracini). Onorevole Terracini, non mi verrà a dire che il Partito comunista ha fatto il Congresso con riferimento soprattutto ai sacri princìpi e non con riferimento all’attuale lotta elettorale! Lei è troppo esperto ed è troppo abile – mi permetta che una volta le contraccambi questi complimenti – per non attribuirle di avere organizzato un congresso di formazione e di lotta proprio nel momento in cui si avvicinavano le elezioni! Quindi quasi tutta la mia polemica si fonda su alcune affermazioni di tesi generali fatte dall’onorevole Togliatti; e dovevo farlo, anche per la responsabilità che sento dinanzi al paese. Voi mi potete accusare di tutto, di essere eccessivamente abile, di ricorrere a manovre, di tutto quel che volete, ma non potete negare che sento la responsabilità della mia posizione. E vi dico che io la sento perché capisco che se mi fossi messo con le braccia incrociate ed avessi assistito a discussioni intorno a criteri amministrativi, voi avreste forse per il momento favorito questa tendenza, ma poi avreste tratto dal voto amministrativo illazioni politiche per affermare: «il governo è indebolito, il governo non è più quello del paese. Il paese ha votato contro il governo». Quindi avreste sollevato voi il problema politico. Ma, d’altro canto, mi venite a parlare di elezioni puramente amministrative, quando, dovunque vada, io trovo manifesti contro di me, in nome della pace e contro la guerra, quando trovo le accuse che voi ripetete nei giornali e alla Camera? Voi, che vi lagnate della mancata libertà di discussione in Italia, dimenticate che non vi è nessuno che sia protetto contro questa vostra immensa libertà, di cui fruite largamente, sino ad arrivare ad attacchi personali, come quelli di cui mi avete onorato l’altro giorno a Rovigo , attacchi insultanti che negano assolutamente la verità della mia vita e contro i quali ogni galantuomo ha diritto di insorgere e di difendersi. (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra). L’onorevole Terracini, fra gli scandali del giorno, che rappresentano naturalmente il passivo del governo, ha messo anche gli scioperi degli statali. Io capisco che voi possiate gioire di questo, perché, a prescindere dalle ragioni o meno di uno sciopero, il fatto che i funzionari, anche i funzionari direttivi – non i direttori generali ma i funzionari poco lontani da quel grado – rifiutino i loro servizi, anche quando la Costituzione dice chiaramente che essi sono al servizio della nazione, il fatto che, in nome di un diritto costituzionale, in realtà ad un certo momento lo Stato non abbia più organi e le leggi non abbiano più strumenti esecutivi per essere applicate, questo fatto è così grave che tutti coloro i quali si preoccupano dell’avvenire dello Stato democratico debbono guardarlo con molta preoccupazione. (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra). Lo so: da parte di taluno mi si fa il rimprovero di non avere presentato ancora la legge sindacale e la riforma sindacale. Ma ho aspettato che l’appello al senso di responsabilità, l’inserirsi di un concetto nazionale sopra ed accanto all’interesse di classe e categoria, facessero l’opera loro. Lo Stato liberale, lo Stato democratico è sempre l’ultimo a ricorrere alle forme, anche legali, di coazione, e tenta nella comprensione, nel tener conto delle difficoltà, nel dimostrare la benevolenza con cui un governo deve seguire i postulati dei propri organi, di trovare una soluzione nazionale, una soluzione democratica. Oggi ancora siamo dinanzi a questo problema, ma bisogna dire che se la democrazia, ad un certo momento, esauriti tutti i compiti ed esauriti tutti gli sforzi di comprensione, vuole salvarsi, deve regolamentare per legge il diritto di sciopero in modo che non ne patisca la vitalità dello Stato. L’autorità è finita se dall’alto si dà l’esempio di abbandonare il servizio, nonostante le disposizioni disciplinari. Questo problema degli scioperi è stato fatale una volta per la democrazia e può diventarlo domani. Faccio un appello vivissimo ai rappresentanti sindacali per una soluzione stabile nelle libertà civili. Essa deve essere trovata e la troveremo. (Applausi dal centro). Per quanto riguarda la politica del prestito, il ministro del Tesoro mi fa rilevare che il risultato non è affatto fallimentare ma è soddisfacente. (Commenti dalla sinistra). Per voi non è mai soddisfacente, lo so: se i risparmiatori portano il danaro allo Stato voi dite che il governo si appoggia sopra il risparmio dei cittadini; se i cittadini non portano il denaro voi dite che al governo manca la fiducia del popolo minuto. Comunque, sono stati superati i cento miliardi su cui fidava il governo, che non intendeva sottrarre denaro al mercato se non nei limiti strettamente necessari. Il senatore Terracini dimentica che il governo ha fatto pochissima propaganda, sapendo di confidare sulla fiducia del risparmiatore; questa fiducia è pienamente soddisfacente. A prestito aperto infatti sono continuate abbondanti le sottoscrizioni ai buoni ordinari e l’afflusso al risparmio postale. Per il prestito dell’anno scorso occorre ricordare che oltre centoventi miliardi erano costituiti da conversione di buoni novennali in scadenza a differenza del prestito attuale. Inoltre esso fu emesso dopo che da tre anni si emettevano prestiti poliennali. A giudizio dei tecnici il risultato del prestito non è inferiore a quello del 1950. La fiducia dei risparmiatori, questo voglio assicurare, non verrà tradita. Secondo Terracini la circolazione è spinta a limiti fallimentari. In realtà il governo, che da tre anni non stampa più per le sue necessità, fa corrispondere la dilatazione del circolante alla dilatazione degli scambi e del reddito nazionale. La linea del Piave non è una cifra fissa, che potrebbe essere inflazione o deflazione, ma consiste in una proporzione armonica fra dilatazione degli scambi e dilatazione della circolazione. Il governo, e qui parlo anche a nome del tesoro, difenderà tale linea. Quanto al fallimento della nostra politica economica, mi riferisco alla relazione che è stata distribuita, e soprattutto mi riferisco alla relazione finanziaria che verrà fatta dinanzi al Parlamento in modo completo dal ministro competente. Politica estera. L’opposizione ha parlato di smacco subito dall’onorevole Sforza per il patto di non aggressione. Nessuno smacco; c’è un memoriale che fa il suo corso. Il risultato deve essere cercato evidentemente non nello spettacolare atto e nelle iniziative di un solo governo, ma soprattutto nella conclusione. Ognuno di questi gesti o di questi atti va considerato in relazione alle trattative di Parigi. Se le trattative matureranno ed arriveranno ad una discussione sostanziale, allora non ci sarà bisogno di altre misure. Altre misure per proteggere la pace saranno necessarie solo nel caso deprecabile che fallissero queste trattative. Almeno così vedo la cosa io e, se il Senato desidera essere informato più in dettaglio, non ne mancherà l’occasione al ministro degli Esteri. Quanto alla revisione morale del trattato, anche questa sarebbe uno smacco. Ma quando parliamo di revisione, intendiamo riferirci ad una revisione formale nel senso che il trattato, soprattutto l’introduzione che è sempre una umiliazione, almeno per i nostri alleati di oggi, scompaia e venga assorbita in quel che è il patto di alleanza difensiva, il Patto atlantico. Riguardo alle conseguenze economiche del trattato, mi meraviglio che l’onorevole Terracini ci faccia l’accusa di aver pagato le riparazioni. Terracini. Ho fatto una lode. De Gasperi. Quando noi abbiamo dovuto mandare le navi al di là del Bosforo, perché la Russia dichiarava che non avrebbe consegnato i prigionieri se noi non avessimo inviato le navi, non abbiamo potuto farne a meno. (Vivi applausi dal centro). Terracini. E le navi che avete mandato a Tolone? De Gasperi. Parlando con lei mi riferisco alla Russia e non alla Francia. Riguardo all’Albania non c’è bisogno di dire che nessuna intenzione aggressiva può albergare in qualsiasi governo italiano, e tanto meno in questo che è preoccupato soprattutto della pace. Debbo dichiarare che la rivista Esteri non è un organo del Ministero degli Esteri, quindi né ufficiale, né ufficiosa. Debbo dichiarare in ogni caso che qualsiasi discussione o qualsiasi articolo non impegna la politica del governo. Debbo inoltre dire che alla fine di questo articolo trovo delle parole come conclusione che mi pare possano soddisfare anche il senatore Terracini: «gli italiani non hanno rivendicazioni verso l’Albania; il loro più sincero augurio la segue e l’accompagna». (Commenti e interruzioni dalla sinistra). DonaTi . Vi è qualche altro paese al di là che ha delle mire sull’Albania. (Rumori dalla sinistra). De Gasperi. La conclusione dell’onorevole Terracini è stata questa: siamo in piena campagna elettorale; evidentemente l’onorevole presidente del Consiglio approfitterà di questa occasione per fare il sedicesimo discorso elettorale. No, onorevole Terracini, ci rinuncio, ma è lei che ha fatto il discorso elettorale… (applausi dal centro) …naturalmente con quella abilità che lo distingue. L’ha fatto evitando la forma di impostazione elettorale, ma nel contenuto l’ha fatto. Era suo diritto, era naturale che lo facesse, me lo aspettavo, ma non mi aspettavo che si lagnasse della mancanza di libertà in Italia anche durante la campagna elettorale. Le assicuro, onorevole Terracini, che andando per l’Italia non me ne sono accorto. (Commenti ironici dalla sinistra). Non è così ridicola la mia affermazione, egregi colleghi. E sapete perché non è così ridicola? Perché mi avete riempito le cantonate ed anche le tasche di volantini e manifestini insultanti il presidente del Consiglio. (Applausi dal centro). Se uno solo di quei manifestini prendesse il volo in un paese dove comandate voi… (rumori dalla sinistra) …si farebbe un processo. (Vivi applausi dal centro – Commenti dalla sinistra). Quando io mi riferisco in questo argomento polemico ad altri paesi avreste torto di accusarmi di cercare gli alibi all’estero, perché siete voi e il vostro capo, che al Congresso del partito ha assunto la piena responsabilità del metodo che viene seguito nei paesi in cui i comunisti sono andati al potere, ed ha fatto questo famoso ragionamento che è stampato: quando un Partito comunista arriva al potere – e non dice come – fa una prima legge che abolisce il capitalismo; conseguenza: sono illeciti tutti i partiti capitalistici; in conseguenza: non esiste più alcuna libertà di partito, alcuna libertà politica ma esiste solo il partito di governo. Questa è la vostra dottrina! (Vivi applausi dal centro). Di questo voi avete assunto una responsabilità ed io ad essa voglio inchiodarvi. (Vivi applausi dal centro – Proteste dalla sinistra). Perché non si tratta di un partito, non si tratta nemmeno di una sola istituzione, si tratta della libertà democratica che deve essere difesa e sarà difesa contro tutti. (Vivissimi e prolungati applausi dal centro – Interruzioni dalla sinistra). presiDenTe. Onorevole presidente del Consiglio, per quanto durante il suo discorso ella abbia già espresso implicitamente il suo avviso sull’ordine del giorno Lucifero, io la invito a dichiarare espressamente se il governo accetta o meno l’ordine del giorno stesso. De Gasperi. Il governo non accetta l’ordine del giorno Lucifero, perché ritiene che esso suoni sfiducia al governo.
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Accenna alla situazione che ha determinato lo sciopero del personale direttivo dell’amministrazione statale e sul disegno di legge relativo all’organizzazione del lavoro e alla regolamentazione del diritto di sciopero. In particolare: Circa l’atteggiamento della Dirstat osserva che non sono stati chiariti i motivi veri dell’agitazione che in realtà sono in contrasto con le richieste della Cgil e della massa del personale. Per quanto riguarda lo sciopero fa presente che bisogna tenere un atteggiamento fermo: il prestigio dello Stato è un bene da difendere. Dobbiamo riconoscere che la regolamentazione del diritto di sciopero è insufficiente e che all’uopo occorre una legge. Chiede se tale regolamentazione possa essere inclusa nella legge sindacale di carattere generale oppure se possa essere prevista da una legge stralcio. Ieri sera ne ho discusso con amici. La tendenza è nel senso di comprendere la regolamentazione nella legge generale. Pone il quesito se le disposizioni sullo sciopero degli impiegati statali vadano inserite nella legge sindacale ovvero se debbano essere contemplate in una modifica dello stato giuridico. Riferisce alcuni esempi della legislazione americana e della giurisprudenza francese particolarmente del Consiglio di Stato. Invita Marazza a riferire sul progetto di legge sindacale. Oggi adottiamo determinazioni di massima. L’elaborazione delle norme sarà delegata ad una Commissione . Occorre distinguere interesse dello Stato e della collettività dagli interessi generali rappresentati da problemi di ordine sindacale. È altresì necessario fare distinzione tra sostanza e procedure. Viene aperta la discussione degli articoli 35 e seguenti del progetto. […] Bisogna porre rimedio ad una lacuna dell’ordinamento legislativo. […] Il metodo seguito dal direttivo della Dirstat non appare leale. Probabilmente i funzionari direttivi hanno oggi scioperato perché scioperavano gli altri dipendenti. E temevano il rinnovarsi dell’appiattimento delle retribuzioni. Si possono adottare opportuni provvedimenti per evitare lo sciopero. Con le confederazioni invece non è possibile condurre trattative. La legittimità della trattenuta di una giornata di retribuzione è indiscutibile. L’unica soluzione è forse quella di fare una legge. Il Consiglio di Stato infatti non ha riconosciuto il carattere di trattenuta per motivi disciplinari alla mancata corresponsione dello stipendio nei giorni di sciopero.
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Informa che l’on. Pastore afferma che Marazza non ha preso contatti con lui . Bisogna prendere atto che lo sciopero ha avuto un esito molto rilevante. Chiede quale atteggiamento debba assumere il governo. Il Consiglio di Stato non ammette l’applicazione di sanzioni in virtù di norme di cui non riconosce l’efficacia giuridica. Per ora si può disporre solo la trattenuta dello stipendio. Sarebbe opportuno rivolgere un ringraziamento ed un elogio a coloro che non hanno partecipato allo sciopero. [Segue la proposta di Randolfo Pacciardi di elargire «premi in denaro»]. Raccomanda ai singoli ministri di tener presente il comportamento dei dipendenti nel conferimento degli incarichi. […] I ministri intanto possono dare disposizioni per la trattenuta di stipendio che non è una sanzione disciplinare come ha ritenuto l’ultima decisione del Consiglio di Stato in materia. Per quanto riguarda la Dirstat, crede che in seguito al comunicato di ieri si possa evitare il nuovo sciopero indetto per il 19. Prega ogni ministro di fare opera persuasiva presso i rispettivi dipendenti. Per quanto riguarda le questioni sollevate dalla Cgil, dalla Cisl e dalla Uil richiama l’attenzione sulla diversità esistente tra le richieste della Cgil che chiede un aumento di £. 5.000 e quelle della Cisl relative all’applicazione della scala mobile e del carovita con nuovi sistemi. A Venezia aveva offerto di trattare sulle richieste della Cisl. Si può oggi riconfermare tale offerta. Ricorda poi il progetto che prevede la costituzione di una commissione mista arbitrale per la risoluzione delle controversie relative ai dipendenti statali. Si potrebbe anticipare l’entrata in funzione di tale commissione. Propone comunque di discutere intanto l’art. 43 del progetto di legge sindacale .
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Se si accetta un nuovo sistema di scala mobile, si deve tenere presente anche il costo di altre voci essenziali per la vita famigliare. La Commissione potrebbe tenere conto di particolari esigenze di certe regioni, ad esempio esiste una notevole differenza tra i prezzi di Catanzaro e quelli di Roma o di Genova. Occorre prima discutere tutte queste importanti questioni, e poi decidere quali concessioni può fare il Tesoro. Il mio pensiero è che prima si deve elaborare un sistema di scala mobile più adeguato alle esigenze degli impiegati e poi si dovrà decidere circa la questione delle somme da stanziare e delle retroattività. Gli impiegati considerano acquisiti i miglioramenti di fatto realizzati in passato; il Tesoro nega che questa pretesa sia giustificata. Per gli aumenti futuri si è stabilito che il Ministero del Tesoro venga incontro alle aspirazioni dei dipendenti statali, ma non bisogna intanto pregiudicare i lavori della Commissione. […] Stabiliamo il sistema da adottare e poi determineremo la decorrenza, gli indici del costo della vita da tenere presenti e le applicazioni che si possono fare nella varie regioni italiane. Non possiamo prendere nuovi impegni prima di conoscere l’importo. Il Ministero del Tesoro per il passato non può corrispondere nulla; per il futuro è disposto a rivedere gli indici del costo della vita. Non comprende per quale ragione precisa occorra stabilire le variazioni dei prezzi verificatesi in passato. Nel 1950 si sono avute nei prezzi punte massime e punte medie. Nel gennaio-febbraio 1951 vi è stata una sensibile diminuzione. Occorre chiarire esattamente l’impegno della nuova scala mobile da applicarsi nel futuro. […] Se siamo tutti d’accordo che l’applicazione della nuova scala mobile avverrà solo in futuro, stabiliamo sin d’ora tutti gli elementi per un congegno più adeguato. […] La discussione sul congegno della scala mobile può essere fatta subito: occorre stabilire i coefficienti dei vari elementi presi in considerazione per l’avvenire. È inoltre pacifico che il nuovo congegno avrà applicazione per l’avvenire. Informa poi che il Consiglio di Stato si è espresso in senso favorevole al riconoscimento del diritto all’indennità di funzione in favore dei cancellieri. […] Il governo vede con simpatia l’ammissione delle due cennate nazioni. Bisogna però discutere la questione se queste nuove ammissioni rendano necessarie nuove ratifiche. L’ammissione in base all’articolo 10 del trattato deve avvenire per «invito unanime». Le altre nazioni come si regolano? Richiedono deliberazioni dei Parlamenti o soltanto dei governi? Giuridicamente e politicamente possiamo consentire l’ammissione nel P.[atto] a.[tlantico] di nuovi membri senza sottoporre la questione al Parlamento ? Questo si spiega per effetto delle diverse costituzioni nei vari paesi? Il ministro degli Esteri dovrà intanto comunicare agli organi del P.[atto] a.[tlantico] che forse per l’Italia occorrerà il voto del Parlamento e che la questione di procedura deve essere esaminata.
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Non ho seguito con molta attenzione la procedura giudiziaria in corso. Però esiste una procedura giudiziaria che si occupa estesamente e diffusamente, in presenza di tutta l’opinione pubblica, di questo argomento. Mi pare che non sia il momento di intervenire con dibattiti parlamentari, né di decidere sopra l’inchiesta parlamentare. Naturalmente la decisione sull’inchiesta parlamentare spetta al Senato ed il governo non ha bisogno in questo momento di pronunciarsi. Credo che un dibattito in questo momento, durante la procedura in corso, non sia consigliabile. Non abbiamo niente da nascondere: se ci sono stati errori da una parte o dall’altra, se ci sono complicità veramente politiche, queste possono essere, naturalmente, argomento di discussione. Devo solo rilevare, però, che, se ben ricordo, questa discussione è già stata fatta altre volte sia in questo sia nell’altro ramo del Parlamento, con dichiarazioni da parte del ministro dell’Interno, con spiegazioni ad interpellanze ed interrogazioni che erano state presentate; non siamo quindi dinanzi ad un problema completamente nuovo, senza notizie di fonte più o meno ufficiale. Non so peraltro se le dichiarazioni, che sono dichiarazioni di richiami di correi, imputati di crimini spaventosi, che cercano evidentemente di coprirsi dietro presunte complicità politiche, si possano prestare veramente ad una discussione, cioè ci inducano veramente ad una obbligazione orale di discutere sull’argomento. Io dico, dal punto di vista del governo, che, quando sarà il momento, non ho nessuna difficoltà a che la mozione venga discussa; ma altro è l’inchiesta parlamentare, sulle cui conclusioni mi riservo, sentiti gli argomenti, di dire il parere del governo. Però riguardo anche al termine della discussione della mozione, io ritengo che non sia opportuno che questa venga fatta in questo momento, cioè durante il processo. Mi pare che la logica c’imponga questo. (Approvazioni dal centro e dalla destra).
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Comprendo, onorevoli senatori, che in questo momento io dovrei occuparmi soltanto delle dichiarazioni più importanti che qui sono state pronunciate, e darvi una sintesi che chiarisca l’atteggiamento e i propositi del governo. Però, la procedura m’impone di rispondere anche ai singoli punti delle interpellanze, ed anche a quelli che sono stati indicati e designati come fatti di cronaca, per il loro significato, per la forma con cui si sono svolti. Tuttavia, avverto la necessità di fare una dichiarazione introduttiva; e questa è, onorevole Orlando, che veramente sento impegnato anche il mio onore personale, in questa questione, e che credo tutti abbiamo agito nel senso e col senso dell’onore, e abbiamo agito soprattutto con la fiducia nella patria, nella patria che rinasce: e lo abbiamo fatto accettando anche umiliazioni; lo abbiamo fatto solo a condizione che queste umiliazioni ci aiutassero a risalire dall’abisso in cui la guerra – che non si può dimenticare – ci aveva precipitato. (Approvazioni). Ora io sento il dovere, prima di tutto, per gli effetti che le cose potrebbero avere nei rapporti con l’estero, di non accettare in nessuna forma l’interpretazione che l’onorevole Orlando – citando e riferendo un articolo di giornale – ha qui, non so se si possa dire, avallato; avallo per così dire piuttosto ipotetico, dato, cioè, a condizione che l’articolo fosse vero, ma l’interpretazione data da lui, dall’autorità sua di maestro, evidentemente può pregiudicare perfino il significato di un comunicato; poiché un nesso logico o illogico con la conferenza di Londra e i suoi risultati esiste. È esatto dire che il comunicato di Londra è sì una affermazione del principio generale della dichiarazione tripartita, ma è condizionato da un codicillo che segue, che si riferisce a trattative con la Jugoslavia? Qui è il punto che merita l’estrema chiarezza. Le discussioni a Londra furono molto vivaci; se c’erano delle nubi da dissipare, le abbiamo dissipate con dignità, e rivendicando il diritto italiano in piena indipendenza, in piena fierezza. Aggiungo che abbiamo trovato anche nei nostri colleghi laburisti la comprensione di uomini avvezzi alla lotta e conoscitori dei problemi psicologici e del loro valore morale. La conclusione del comunicato è chiarissima. Il comunicato dice: «i ministri britannici hanno dichiarato che si confermava la dichiarazione tripartita su Trieste del 20 marzo 1948, nella fiducia di una sistemazione per via conciliativa, e i ministri italiani hanno da parte loro dichiarato di essere desiderosi di raggiungere un’amichevole accordo con il governo jugoslavo». Signori miei, questa è sempre stata la nostra politica. Punto di partenza irremovibile, base su cui tutta la discussione deve svolgersi, è la dichiarazione tripartita; cioè la volontà, il proposito acquisito, espresso dalle Potenze occidentali, della restituzione alla sovranità italiana del territorio libero, proposito che questa realizzazione avvenga in un quadro di conciliazione con la Jugoslavia come con qualunque altro popolo, e anche considerando il problema di Trieste pure da un punto di vista economico come lo abbiamo considerato durante le trattative di pace. Perché non bisogna dimenticare, onorevoli senatori, che noi abbiamo sempre fatto una questione italiana della città di Trieste e dei territori italiani che ci appartenevano, ma non solo questo: abbiamo pure fatto sempre un problema geopolitico di Trieste porto e centro del retroterra e abbiamo sempre considerato come una massima utilità quella di poter ottenere un concorso di carattere economico, una confluenza di interessi che rendesse al porto di Trieste quella vitalità che una volta aveva quando era porto del conglomerato austro-ungarico. Mai abbiamo dimenticato questa funzione internazionale e sociale del porto, ed è proprio un inganno assurdo quello di un periodico che l’altro giorno riferiva addirittura a me l’idea originale del territorio libero, idea che fu invece, anche nel 1918, di molti operai socialisti, idea che poteva anche considerarsi rispettabile in quanto conteneva un prevalere dell’aspetto economico che era però troppo deterministico per le mie concezioni. Se è vero questo, d’altro canto è anche vero (e qui ringrazio in modo particolare l’onorevole Sanna Randaccio non per le rivendicazioni di cui personalmente potrei attribuire almeno una parte a me stesso, ma perché non è giusto, in qualunque momento critico, dimenticare ciò), che l’Italia si è battuta contro l’ingiustizia del trattato e soprattutto che noi abbiamo ben chiaramente e precisamente indicato nel sistema del territorio libero una costruzione fantastica e un motivo di nuovi conflitti. Ricordammo, nella conferenza della pace, anche la tragedia di Danzica per ammonire coloro i quali pensavano di ottenere, attraverso un ripiego di compromesso, la collaborazione dei popoli. Non c’è bisogno che torni a rileggere quello che dissi nel 1946 alla conferenza della pace; dissi che nessun sintomo, nessun cenno da parte nostra poteva autorizzare gli autori di questo compromesso cioè gli inventori del territorio libero, a ritenere che avremmo assunto la benché minima corresponsabilità di una simile soluzione, soluzione che incide nelle nostre carni e mutila la nostra integrità nazionale. Appena avuto sentore di tale minaccia, il 30 giugno, telegrafavo ai quattro ministri degli Esteri la pressante preghiera d’ascoltarmi e anche dichiaravo di voler assecondare i loro sforzi per la pace (poiché sapete che questo compromesso venne presentato come un accordo tale da impedire il conflitto fra i quattro); ma li misi anche in guardia contro espedienti che sarebbero causa di nuovi contrasti. La soluzione internazionale per Trieste, dicemmo allora, nel programma, come è progettato, è inaccettabile, e specialmente l’esclusione dell’Istria occidentale fino a Pola causerà una ferita insopportabile all’Italia. Non è mancata mai, in nessun momento anche in quelli in cui il trattato è stato firmato, la nostra fiera protesta, ed è un fatto che il giorno dopo la firma, in una circolare del ministro degli Esteri veniva annunciato l’inizio di un’azione per la revisione del trattato. Tanto è vero che abbiamo considerato fin da allora tutto ciò, come una necessità momentanea, come un ponte dei sospiri, ma non come una soluzione. E tuttora continuiamo a lavorare perché il trattato venga smobilitato e cambiato. È soprattutto per questo che abbiamo in parte accettato, e in parte subìto, la mancata nomina del governatore di Trieste; perché appunto non abbiamo avuto fiducia e non potevamo averla in quella decisione. Ci sono, è vero, colleghi che credono di poterla avere, ma esaminino sinceramente la loro coscienza e vedranno come quello non sarebbe stato, in nessuna maniera un regime vitale. Ci sarebbero stati conflitti peggiori di prima, tra italiani e slavi, e forse solo una dittatura tipo comunista avrebbe potuto imporre una comunanza di vita che altrimenti nessuno, per mutuo consenso, avrebbe cercato. Detto questo, permettetemi di rifare il cammino a ritroso e di incominciare a rispondere su singoli fatti, non perché io abbia la convinzione che singoli episodi messi in questa luce piuttosto che in un’altra, possano condurre a diverse conclusioni, ma perché mi pare con tutta franchezza che è utile per noi, e utile per l’opinione pubblica, ristabilire le dimensioni e le proporzioni dei fatti. Io naturalmente non sono testimonio oculare, devo agire in base alle informazioni delle nostre autorità. Incominciando dai punti della interpellanza Lucifero, dirò qualche cosa a proposito della fiera. Non si può dire, non è esatto dire che, in occasione della fiera di Trieste, sia stato vietato il tricolore italiano. Alla cerimonia inaugurale, nel piazzale esterno della fiera, su pennoni alti dodici metri erano la bandiera inglese e quella americana. Dimensioni delle due bandiere metri due per tre; la bandiera italiana aveva invece una dimensione di metri tre per quattro ed era collocata nel piazzale principale interno su un pennone alto diciassette metri. Si deve dire che se tutto questo corrisponde ad una certa politica spettacolare, di cui non assumo la responsabilità, evidentemente non si può negare che la bandiera più alta e la più grande è sempre la bandiera italiana. Ad ogni modo mi si comunica che la situazione delle bandiere è stata la stessa dell’anno scorso. Questo risulta da due rapporti ufficiali. L’anno scorso la medesima disposizione delle bandiere non sollevò proteste, ma quest’anno l’effetto fu diverso. Evidentemente trattandosi di un simbolo, si può avere una diversa interpretazione a seconda dell’atmosfera. Inaugurando un padiglione della nuova costruzione il generale Winterton ha proceduto al taglio di un nastro azzurro. L’anno scorso avvenne analoga cerimonia all’ingresso della fiera, ma il nastro era bianco con i colori dei paesi partecipanti. Il cerimoniale particolare della manifestazione fu concordato tra il presidente della fiera, il capo dell’ufficio stampa del governo militare alleato e il presidente di zona che, come è noto, corrisponde al nostro prefetto. Per quanto riguarda i discorsi non ci sono stati espressi divieti, ma, nel concretare il programma, il governo militare alleato ha insistito nel consigliare di limitare i discorsi soltanto a quello del presidente della fiera e del generale Winterton. Tale punto di vista venne comunicato dal capo dell’ufficio stampa al sindaco Bartoli quando egli, successivamente, chiese di parlare. Per quanto riguarda il ministro Spataro , egli mi ha confermato che, arrivato a Trieste e avendo appreso che vi erano un programma e discorsi prestabiliti, non ne ebbe alcuna straordinaria impressione; egli era andato sì a visitare la fiera, ma anche a far cosa di cui era più competente e che era di maggiore importanza. Il ministro Spataro tenne prima un discorso in municipio e poi al palazzo delle Poste, presenti 800 impiegati e funzionari delle poste, i quali tutti portavano la bandiera tricolore e cantavano l’inno di Garibaldi; assisteva anche un rappresentante inglese e la manifestazione ebbe un’impronta completamente italiana. Aggiungo questo dettaglio per obiettività. Ora, devo anche ricordare il testo del discorso del presidente della fiera. E qui, onorevoli senatori, guardiamoci dal creare un’atmosfera esagerata che per fortuna ancora non esiste, anche se può diventare tale. Conosco infatti l’ardente atmosfera triestina. L’ho conosciuta nei momenti di entusiasmo e immagino che potrei facilmente riconoscerla nei momenti di reazione. Ma non bisogna esagerare le cose, perché, presentata in questo modo, da lontano può apparire come se si trattasse veramente di una prigione, di un’atmosfera di soffocazione, come può avvenire in certi regimi dove non ci sia libertà di parlare. Ma leggete, o signori, il discorso del presidente della fiera. Credo che anche l’onorevole Orlando sarebbe soddisfatto nel sentire quello che egli dice. Leggo qualche passo del testo originale: «e bene sia detto, e non già per vano compiacimento, bensì per misurare un’attendibile realtà, che se Trieste non è stanca di lottare e profondersi, sente di non potersi più adagiare ad ulteriori rinunce. In un certo modo si può affermare che da molti anni essa è costretta a queste rinunce. Dopo esse, che l’hanno ridotta ad un fazzoletto di terra, che cos’altro le si potrebbe togliere? Un poco ancora e Trieste sarà solo un nome. Ma la patria le è vicinissima». Qui ringrazio il presidente della fiera di questo riconoscimento che è per il cuore degli italiani, ma che evidentemente è anche per l’opera del governo. «La madre patria l’assiste con i molti sforzi cui si aggiungono le provvidenze del governo militare alleato. Ma è una vita di alimentazione artificiale, suggerita dalla necessità di un organismo validissimo sì, ma incompleto per le mutilazioni che ha dovuto ingiustamente subire». Discorso molto lungo; ma c’è ancora qualche passo che può interessare, perché ci permette di constatare quello che in una cerimonia ufficiale in presenza del potere militare occupante è lecito dire senza conseguenze: «con la fiera, Trieste getta il suo nome al di là dei monti e dei mari, lancia nel mondo un messaggio di pace e di concordia tra i popoli vicini e lontani, ma il suo è anche il grido possente di una città sacrificata che esorta gli uomini a non commettere altri errori». Linguaggio che altamente onora il presidente della fiera e che contemporaneamente dimostra che non siamo affatto ridotti a certe situazioni a cui non mi voglio riferire, ma che potrebbero ben essere messe a confronto per ristabilire le giuste dimensioni e proporzioni delle cose. Veniamo ai biglietti della fiera. Non ho potuto contare quanti erano stampati in italiano e quanti in inglese. Ma è certo che i biglietti erano stampati in italiano e solo quelli diretti alle autorità inglesi erano stampati in inglese; è vero che c’è stato qualche sbaglio di indirizzo ma ciò non toglie che la maggior parte degli inviti era stampata in italiano. Ci si è fatta anche accusa come governo di non esserci opposti alle possibilità che ci si presentavano per un certo numero di profughi delle zone passate alla Jugoslavia (non cedute, come qualcuno ha detto, perché non abbiamo ceduto niente; sono passate nonostante le nostre proteste). Sono profughi non della zona B del territorio libero, di territori che la Jugoslavia si è incorporata in base al trattato di pace. Voi sapete che c’è un articolo che assicura il diritto di opzione, diritto che abbiamo penosamente faticato a far garantire, articolo che è in vigore. I molti profughi comunque si sono rifugiati in Italia: nell’attesa devono pensare a stabilirsi altrove nell’Italia o all’estero. Ora che si tratta di persone disperse, che non hanno uno stato giuridico proprio perché hanno dovuto abbandonare il loro paese e non hanno immediata possibilità di tornarvi, per quale ragione, a quale titolo volete che noi ci opponiamo? L’IRO, che tra l’altro paga il trasporto, assiste quelli che domandano volontariamente di recarsi oltre mare. Evidentemente non avremmo potuto farlo. Per quel che riguarda i profughi della zona B, c’è qualche progetto assistenziale allo studio, per offrire una sistemazione in America ad alcuni di essi che qui sarebbero assolutamente in condizioni precarie per la difficoltà d’impiego e per l’insufficienza delle sovvenzioni che ricevono, le quali, malgrado ciò, sono, come è noto, un aggravio per il bilancio italiano. Dunque niente emigrazione in massa, niente tolleranza da parte del governo o complicità, niente pericolo che vengano con ciò pregiudicati i nostri diritti di rivendicazione o le possibilità per i singoli di riavere le loro proprietà e la loro posizione. Più grave invece è la questione dell’autorità giudiziaria. Esisteva da tempo uno scambio di lettere, di proteste e di rimostranze tra noi e i governi alleati. Per un certo tempo abbiamo creduto che le proteste e le dichiarazioni avessero convinto ed era lecito pensare che la questione fosse stata accantonata in vista di un accordo accettabile. Negli ultimi giorni venne, con la diramazione della circolare, l’annuncio di una decisione in merito, decisione contraria alla nostra tesi. Ora, onorevoli senatori, è inutile che io ripeta qui che le ragioni giuridiche, esposte chiaramente dall’onorevole Zotta e dall’onorevole Sanna Randaccio, noi le facciamo nostre, le abbiamo anzi già fatte nostre, perché le abbiamo esposte nelle nostre proteste. Non possiamo accettare il punto di vista degli Alleati al riguardo, non lo possiamo ed abbiamo il dovere, se la cosa è stata fatta troppo in fretta, se non è ancora oggetto di considerazione da parte di persone responsabili, di richiamare queste persone responsabili alle conseguenze politiche e non semplicemente giuridiche di una simile situazione. Ma io mi rifiuto in questo momento di considerare questo come un fatto compiuto dal quale si debba dedurre che non ci resti altro che la cruda alternativa o di sacrificare il nostro onore adattandoci, ovvero di ricorrere alla denuncia del trattato. Io mi rifiuto a questo: siamo giunti a tanto; ci sono ancora possibilità di cambiamenti e noi speriamo e insistiamo per cambiamenti, per una comprensione maggiore da parte delle autorità alleate delle conseguenze politiche e giuridiche di questo provvedimento. Ad ogni modo il governo italiano crede ancora di poter confidare che i governi britannico e nord-americano non vorranno insistere su tesi che vanno, evidentemente, contro la legittima aspettativa creata nell’opinione pubblica italiana non solo dalla dichiarazione del 20 marzo 1948, ma anche dalla dichiarazione fatta in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dal rappresentante americano, circa la inattuabilità della costituzione del territorio libero previsto dal trattato di pace. E qui apro una piccola parentesi. Come ha detto l’onorevole Sanna Randaccio io vorrei lasciar fuori la questione se sia necessario o no in questa controversia sulla corte di cassazione invocare la tesi della sovranità. Le clausole del trattato parlano chiaramente. Quindi, comunque si possa pensare o discutere in materia, noi insisteremo nella nostra tesi ed aggiungo una dichiarazione formale: se i mezzi ordinari dei tramiti diplomatici non potessero superare queste difficoltà (ed io spero che ciò non avvenga) noi ricorreremo a tutte le procedure che ci sono aperte per protestare energicamente, non escluso il ricorso alla Corte dell’Aja, dove sarebbe l’Italia a sollevare la questione. (Vivi applausi dal centro). Passo ora all’interpellanza del senatore Sanna Randaccio. Non seguirò le singole interpellanze perché alcuni oratori si sono richiamati agli stessi argomenti. Può essere che l’affermazione secondo la quale il giornale Corriere di Trieste sarebbe sovvenzionato da qualche gruppo inglese sia esatta. Vi erano informazioni di cui cercavamo conferma, ma non c’è stato possibile. Sappiamo che il giornale era in realtà in vendita ad un certo momento ma che, per averne la testata che era socialista, si poneva come condizione la continuità dell’indirizzo politico. Quindi l’attuale proprietario deve essere d’accordo con l’indirizzo socialista. Comunque, ripeto, non lo sappiamo. Certo, ci sembra inverosimile che si tratti di governi; evidentemente le strade sono molte, e a questo riguardo vorrei essere estremamente prudente, e dire che non lo so. Né, d’altro canto, il contegno del giornale autorizza la conclusione dell’interpellanza: il giornale continua nel suo atteggiamento, chiamiamolo così, indipendentista, che era anche la sua caratteristica di prima. Elezioni amministrative. È vero, il generale Airey (qui non c’entra il generale Winterton ) prima di partire ha applicato la legge vecchia italiana, la proporzionale, invece di introdurre l’apparentamento, che del resto allora era ancora in discussione al Senato. Però, in seguito abbiamo rilevato l’opportunità che in tutta la regione che appartiene alla famiglia italiana venisse introdotto lo stesso sistema elettorale nostro, e devo dire che le obiezioni che ci sono state mosse non consistevano in un rifiuto di parificazione, e quindi non se ne può dedurre che si volesse fare delle distinzioni; le obiezioni concernevano piuttosto le conseguenze che riguardavano i comuni stessi, la proporzione dei comuni, la possibilità di sviluppo dei comuni. Comunque, se noi, governo italiano, avessimo avuto l’appoggio di tutti i partiti di Trieste; se tutti i partiti (intendo dire tutti quelli maggiori), ci avessero detto: questo è il sistema che meglio favorisce una coalizione democratica italiana, allora, senza dubbio, avremmo fatto la massima pressione. Ma questo non è avvenuto: solo un partito ha dichiarato formalmente che, in ogni caso, non si sarebbe apparentato, ma altri ancora avevano forti dubbi sulla opportunità, sulla validità, direi, sulla efficacia di questo sistema nei riguardi della difesa del carattere nazionale di Trieste. E qui rimane sempre il quesito, e rimane sempre la condizione principale: ogni sistema è buono purché ci sia l’accordo. Quindi, anche a Trieste, ogni sistema è buono, per la difesa della italianità, se i partiti si mettono d’accordo, se comprendono che a Trieste non difendono semplicemente il partito A o il partito B, ma difendono l’italianità. Ed io credo di interpretare il vostro pensiero dicendo che se qui prendiamo ancora il sacrosanto impegno di sostenere l’italianità di Trieste, di assistere in tutte le maniere lo sviluppo di questa città, noi, quasi per compenso, possiamo fare un appello all’unità degli italiani, all’unità dei partiti italiani, anche nelle prossime elezioni. (Vivi applausi dal centro). Trasmissioni radio. A proposito delle notizie apparse sulla stampa, secondo le quali verrebbero dedicate dalla emittente di Trieste undici ore alle trasmissioni in lingua slava e nove ore soltanto a quelle in italiano, si precisa che l’Ente radio Trieste ha due stazioni: Trieste prima, che trasmette in italiano, e che è collegata in parte alla rete italiana e le cui trasmissioni quotidiane sono della durata complessiva di nove ore; Trieste seconda, che trasmette nelle lingue slave che, come è noto, sono due: croato e sloveno ed i cui programmi sono della durata complessiva di undici ore. Non si tratta quindi di una ripartizione che metta in una posizione di inferiorità la radio in italiano. D’altro canto, onorevoli colleghi, in un momento in cui l’Italia è invasa da cinque, sei radio straniere che parlano ciascuna sei ore al giorno al popolo italiano facendo la propaganda contro l’Italia, credo bene che a Trieste sia utile ci sia questa radio anche perché al di là della frontiera orientale sentano che il paese degli orrori non è il paese della negazione della libertà. Mi pare così di aver risposto sui fatti di cronaca che hanno portato alla discussione di queste interpellanze. Ora mi incombe il dovere di fare dichiarazioni conclusive circa l’atteggiamento del governo quale fu, quale è, quale esso si propone che sia. Credo che in queste dichiarazioni anche il senatore Lussu troverà una risposta alle sue domande. In questi giorni, non ci sono state conferenze con francesi o inglesi, onorevole Lussu, ma ci sono stati continuamente scambi di lettere e anche, come ho eletto, scambi di rimostranze da parte nostra. Il governo ha preso posizione per quanto riguarda la domanda, in verità quasi offensiva (non so se l’onorevole Lussu aveva questa intenzione), se il governo è partecipe o, come ha detto l’onorevole Lussu, se è complice di ciò che fa il governo militare alleato a Trieste. Rispondo no, in nessuna maniera; se si potessero pubblicare gli atti – e a suo tempo si potrà farlo – si vedrebbe chiara la differenza della nostra concezione e posizione con l’atteggiamento nelle singole questioni. Ora veniamo alle dichiarazioni generali. Avete letto le dichiarazioni che sono state emesse ieri a Londra e Trieste. Poco fa mi è giunta, tramite l’ambasciatore degli Stati Uniti, una dichiarazione analoga del segretario di Stato. Un’altra dichiarazione, ufficiosa è stata diramata stamane attraverso le agenzie anche dal governo francese. Tutte queste dichiarazioni sono da accettarsi con soddisfazione in quanto mostrano la sollecitudine di non lasciar credere che la dichiarazione tripartita sia caduta o sia sostituita da un’altra politica e che si voglia veramente arrivare a quelle conclusioni che hanno spaventato parte della nostra stampa. Ma sono d’accordo con voi, onorevoli senatori: se è vero che le dichiarazioni generiche non bisogna svalutarle perché, ogni volta che vengono confermate, rappresentano un chiodo ribadito, ciò tuttavia non basta: esse debbono essere inserite, inquadrate, sincronizzate con i fatti. Ora vorrei riassumere, riferendomi anche alle ultime trattative che abbiamo condotto insieme col ministro degli Esteri a Santa Margherita e a Londra, quale è stato il nostro atteggiamento, quale è stata la nostra interpretazione dei fatti, quale è il proposito che intendiamo seguire nella politica dei prossimi giorni, dei prossimi mesi. Abbiamo dichiarato col più alto senso di responsabilità, ma anche con la più leale franchezza, che la questione di Trieste rappresenta per ogni governo nazionale un problema vitalissimo, e per ogni cuore di italiano una spina che goccia sangue. Queste sono le parole che io stesso ho usato nei confronti dei ministri degli Esteri a Santa Margherita e a Londra a conclusione di uno scambio di idee condotte in profondità e con reciproca lealtà. Abbiamo avuto assicurazioni che, per quanto riguardava il destino definitivo del territorio libero, ci dovevano e ci debbono ancora rassicurare. Tali assicurazioni dei nostri amici inglesi e francesi erano state precedute da dichiarazioni analoghe del dipartimento di Stato americano. Prendendo atto di questo rinnovato impegno degli alleati, coloro che non hanno la fiducia che io ho nella loro volontà, dovrebbero anch’essi prenderne atto perché è sempre acquisire una ragione, una argomentazione positiva. Quindi prenderne atto. Abbiamo ammesso da parte nostra che per il completo soddisfacimento delle nostre rivendicazioni conveniva attendere che maturassero le condizioni generali nel quadro delle quali la soluzione poteva pacificamente realizzarsi. Ma abbiamo riaffermato che nell’attesa era indispensabile: primo, che a Trieste e nella zona amministrata dal governo militare alleato nulla avvenisse che fosse o potesse interpretarsi come una negazione, quanto meno una deviazione dalla dichiarazione tripartita che affermava, per quanto riguardava la volontà e l’azione degli alleati, il principio della annessione del territorio libero all’Italia; secondo, che nella zona B fosse eliminata ogni attività persecutoria contro gli italiani. Il mantenimento di queste due promesse avrebbe preparato la possibilità di conversare con oggettiva spassionatezza su tutto il complesso delle nostre relazioni coi nostri vicini, coi quali nell’interesse nostro, della pace e della sicurezza di tutti è sempre augurabile una distensione. Gli onorevoli senatori ricordano che questo punto di partenza, questa base di discussione non è stata accettata dal governo jugoslavo. Che cosa è avvenuto nel frattempo a Trieste? Mi pare che sarebbe esagerato il dire che sia accaduto alcunché di irreparabile, benché sistematiche inadempienze abbiano l’effetto dissolvente su ogni situazione politica e giuridica. Noi abbiamo sempre presente il ribadito proposito dei governi alleati atlantici, della cui leale e conseguente linea politica non abbiamo nessun diritto o motivo di preoccuparci. Acheson, Morrison, Schuman sono interpreti di grandi e libere democrazie che sanno valutare il dinamismo psicologico dei popoli, o dovrebbero saperlo, e comprendono l’importanza essenziale – vi prego di porre attenzione a queste parole – dei valori morali per il consolidamento dell’amicizia e per l’efficacia allo sforzo comune nella pace e nella sicurezza. Sarebbe davvero paradossale che il generoso popolo degli Stati Uniti, disposto ad assumere su di sé così gravi sacrifici per la causa dei popoli liberi, non comprendesse, non fosse condotto a comprendere che vi sono nell’organismo della nazione certi punti nevralgici che non si possono valutare con una misura dimensionale, ed esistono delle energie sviluppate dalla storia e dalla coscienza nazionale che superano la stessa forza meccanica delle armi e che è necessario ed indispensabile associare queste energie a tutte quelle aspirazioni sociali e a quegli impulsi che fanno del Patto atlantico non soltanto una convenzione militare di carattere difensivo ma, quel che conta soprattutto, una solidarietà delle nazioni che vogliono garantire a se stesse e a tutti – e diremo per noi, soprattutto, all’Italia – libero sviluppo, dignità, integrità, indipendenza coordinati in uno sforzo comune di pace e di sicurezza. (Vivi applausi dal centro e dalla destra). No, questo paradosso non esiste, non può esistere, e noi responsabili di governi democratici abbiamo il compito e la responsabilità di insistere in tutti i modi e con tutte le procedure accessibili perché, se vi sono differenze di interpretazioni, esse vengano superate e le divergenze non portino conseguenze fuori di proporzione. Per i punti specifici rimasti in contrasto, se occorresse, quando occorre, ricorreremo anche alla Corte dell’Aja. Ma è nostro vivo desiderio di intenderci in piena lealtà ed amicizia. Onorevoli senatori, qui rispondo un poco anche alle obiezioni alle profezie, se volete, alla storia nella sua angoscia passata, rispondo con una conclusione realistica che era presente nelle vostre coscienze e nella mia quando abbiamo votato il Patto atlantico. Perché nessuno di noi l’avrebbe votato, con il suo innegabile carico e peso, se non avesse creduto che questo patto fosse, come è, strumento di pace, di difesa, di sicurezza. (Applausi dal centro-destra – Commenti dalla sinistra). mancini. Assumete le vostre responsabilità? De Gasperi. Io prendo tutte le responsabilità che mi spettano ed è giusto, come è giusto che ciascuno prenda lo sua parte di responsabilità. Non c’è oggi, secondo me, che una sola politica da fare: quella atlantica, di essa la dichiarazione tripartita è parte integrale. Stiamo organizzando un esercito comune che deve portare la sicurezza delle frontiere della patria. Non si può ignorare che della nazione italiana fa parte viva anche Trieste, (vivi applausi dal centro e dalla destra), anche se oggi la sua amministrazione, per una ritardata liquidazione dei problemi postbellici, sia affidata provvisoriamente ad un governo militare, come avviene purtroppo in tante altre terre di occupazione in Europa. Questa situazione giuridica transitoria intendiamo rispettare fino al suo esaurimento, ma se sarà chiaro, per le disposizioni che vengono prese e nello spirito con cui vengono prese che, per comune consenso, il finale destino non potrà essere messo in dubbio, l’attesa sarà serena e fiduciosa e i rapporti amichevoli e rispettosi come lo furono quasi sempre finora. Le autorità alleate troveranno nei nostri organi lo spirito di collaborazione più sincero, nella popolazione il riconoscimento delle loro provvidenze, del loro buon volere. Ho già citato il presidente della fiera al riguardo. I fratelli triestini d’altro canto, sanno e vedono tutti i giorni che noi non li abbandoniamo. La nostra solidarietà sì è rivelata in continui insistenti interventi a loro favore. Ogni incidente, ogni motivo di rilievo da parte nostra è stato seguito, e fatto oggetto di rimostranze dal nostro ministro degli Esteri e, se se ne fosse tenuto debito conto, come accadde a proposito dei certificati di origine delle merci importate da Trieste dagli Stati Uniti, l’atmosfera che durò per tanto tempo serena non si sarebbe turbata. Comunque, onorevoli senatori, i destini d’Italia e di Trieste non sono dissociabili. Anche economicamente noi facciamo ogni sforzo: a decorrere dal 16 settembre 1947 la Repubblica italiana ha assunto a proprio carico il deficit del bilancio della zona di Trieste. Sono 55 miliardi e 651 milioni fino al 1° luglio 1951, senza tener conto di una ventina di miliardi per dogane, imposta di fabbricazione, eccetera. La solidarietà del governo per la zona giuliana può venire dimostrata con cifre varie, per l’assistenza e per scopi culturali. Somme che vengono erogate da appositi uffici per la zona di confine dalla Presidenza del Consiglio con apposito capitolo sul bilancio del tesoro. Certo le sofferenze dei giuliani, sopportate con così grande virtù civica, il loro commovente spirito di sacrificio meriterebbero più valido aiuto se la madre patria non avesse essa stessa bisogno del concorso che, dalla fine della guerra in qua, ha sostenuto la nostra economia. Ma Trieste è ben consapevole che la nostra e la sua ripresa sono condizionate dalla stessa situazione internazionale e dalla stessa cooperazione tra i popoli. Guai a noi se questa solidarietà venisse meno, se si spegnesse nei cuori questa garanzia che ci sorregge sul lungo e faticoso cammino; il popolo italiano, ne sono garante, non dimenticherà mai i fratelli, né gli verrà meno la fiducia nella cooperazione internazionale anche se, con patente violazione dei patti, lo si tiene fuori dell’organizzazione dell’ONU laddove questa questione avrebbe sede. Io chiedo (anzi torno a chiedere perché già questo pensiero ho espresso), chiedo agli amici di Trieste di ricordarci con il loro esempio (le elezioni sono vicine) che al di sopra dei partiti vi è la patria, che essa chiede di subordinare al suo destino le nostre interne differenze e, di bruciare sul suo altare le nostre stesse passioni. (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra – Si grida: «viva Trieste italiana» – Rinnovati applausi dal centro e dalla destra).
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Credo, onorevoli senatori, che nessuno, in questo scorcio di sessione, attende da me una completa esposizione programmatica, anche perché questo gabinetto, per la sua composizione e per la stessa dichiarazione, fa proprio il patrimonio di idee e di esperienze del gabinetto precedente. Mi limiterò quindi a tracciare alcune linee e ad accentuare alcuni punti meritevoli di chiarimento, sia perché hanno relazione con i cambiamenti avvenuti, sia perché sono diventati più attuali. L’Italia, per volontà del Parlamento e per libero consenso della maggioranza del popolo italiano, partecipa alla Federazione atlantica delle nazioni democratiche. Bisogna consolidare, sviluppare, approfondire questa alleanza, che associa il nostro paese al destino della democrazia europea e di quella d’oltremare. (Interruzioni dalla sinistra). Si tratta anzitutto dei mezzi di difesa per assicurare la pace. La difesa è supremo bastione della indipendenza nazionale: essa esige e giustifica ogni possibile sacrificio per garantirla con forze proprie. Ma nell’attuale configurazione politico-militare del mondo la sicurezza non è raggiungibile se non nel quadro delle alleanze e con il concorso diassociati. Nel proposito dei suoi promotori e nello spirito dei partecipanti, il Patto atlantico non è uno schieramento che debba fatalmente portare al conflitto, tutt’altro. (Interruzioni dalla sinistra – Proteste dal centro). Il Patto atlantico è inserito nell’Organizzazione generale delle Nazioni Unite e, se tutte le nazioni ad esso associate vorranno, rimane lo strumento più valido per superare i conflitti ed arrestare l’aggressione. L’Italia ha atteso finora invano di essere ammessa all’ONU, dove essa potrebbe unire i suoi sforzi a quanti vogliono pace e sicurezza. Ne ha pieno diritto in base al trattato, nei confronti del quale non essa, ma i contraenti debbono rispondere di inadempienza. Ma anche se il trattato non esistesse, esiste una questione di dignità nazionale e di coerenza atlantica, che non ci fa concepire la nostra sosta sulla soglia dell’ONU, se non come un ingiusto residuo del periodo post-bellico, che deve essere finalmente eliminato. Certo questa non è la sola contraddizione nei nostri rapporti internazionali. La logica intrinseca dell’alleanza atlantica e della collaborazione internazionale ci deve portare alla scomparsa di un trattato che fu concepito ed imposto come sanzione di guerra. Prendiamo atto con soddisfazione che tale punto di vista fa dei progressi presso gli Alleati. La diplomazia cercherà le formule, ma l’evoluzione storica sospingerà inevitabilmente le cose. Considero che la politica peggiore che potrebbe svolgere il governo italiano sarebbe quella dell’equivoco e dell’abilità manovriera. Oggi la politica internazionale è fatta dai popoli e con i popoli e si fonda tutta sulla lealtà e fiducia reciproca. (Proteste e rumori dalla sinistra). Una solidarietà militare per la difesa non può essere dissociata da un senso di comprensione reciproca e da una comune concezione di alcune linee fondamentali della civile convivenza, come non può essere in contrasto consapevole, tendenziale, con la politica economica. Ecco che il problema europeista ed il problema atlantico non debbono essere concepiti come qualcosa di avulso dal problema nazionale italiano, ma come un contributo allo sviluppo di esso. Il concepire, come taluno fa, ogni nostro sacrificio sulle nostre forze militari come un servizio fatto nell’interesse di altri è semplicemente assurdo, quando si pensi al largo contributo statunitense ed alla cooperazione atlantica per la difesa comune. Certo noi, nella nostra povertà post-bellica, fatichiamo forse più che ogni altro popolo a soddisfare le esigenze della nostra difesa; ma non dobbiamo lasciare dubbi in noi stessi e nell’animo degli Alleati circa il nostro sincero impegno di fare quanto finanziariamente e socialmente possibile per essere nel Patto atlantico un socio sicuro e valido. È superfluo aggiungere, però, che il proposito del governo deve essere appoggiato da una adesione attiva e vigile ad un tempo dell’opinione pubblica e delle forze democratiche. (Interruzioni dalla sinistra). La democrazia deve sentire e proclamare che questa è la politica sua, politica internazionale che integra e sviluppa la sua politica nazionale fondata sul regime libero e sulla giustizia sociale. (Approvazioni dal centro – Rumori dalla sinistra). Le classi popolari, in quanto non siano suggestionate da una propaganda dettata fuori d’Italia, (vivacissime proteste dalla sinistra), dovranno constatare che le spese militari non arrestano le riforme economico-sociali che abbiamo iniziato, non rendono impossibili le provvidenze indispensabili, non vengono riversate sulle spalle dei più deboli. (Interruzioni dalla sinistra). Ecco perché, nell’interesse della solidarietà di difesa, deve continuare a svilupparsi una solidarietà e assistenza economica, che gli Stati Uniti ci hanno generosamente prestato finora e che non dovrà mancare nell’avvenire. (Nuove interruzioni dalla sinistra). Ecco perché il senso della solidarietà deve farsi valere anche nel problema della mano d’opera. Niente si può improvvisare su tale terreno e lo confermano i sicuri ma lenti progressi che facciamo nell’organizzare l’emigrazione o le difficoltà che incontriamo per ottenere commesse. Ma ci rifiutiamo di concepire come fatale ed irrimediabile l’attuale situazione, cioè che, dietro un comune schieramento difensivo, vi sia in un dato settore il pieno impiego anzi la sovraoccupazione che include anziani e casalinghe, mentre in qualche altro settore la disoccupazione non solo non possa venire assorbita con i mezzi della collettività nazionale, ma non venga sufficientemente ridotta nemmeno dalla solidarietà internazionale. Ecco ancora perché la solidarietà atlantica non può né deve essere in contrasto con un legittimo senso della dignità e del sentimento nazionale. (Interruzioni e clamori dalla sinistra). Così è che se da una parte l’Italia riconosce negli amichevoli rapporti coi suoi vicini jugoslavi un fattore di pace e di comune sicurezza, e in tal senso si è espressa ripetutamente negli organismi atlantici, d’altro canto essa non può lasciare dubbi circa i suoi diritti come nazione. Gli Alleati hanno riconosciuto tali diritti, prima che noi entrassimo nel Patto atlantico, li hanno confermati poi espressamente: noi abbiamo il dovere di avvertirli che il mezzo migliore per accrescere intorno alla solidarietà atlantica la sincerità e la fattività delle adesioni, è di nulla fare che attenui o sembri ridurre la validità del proposito, da loro così solennemente espresso, e di fare invece ogni sforzo sincero e costante per cooperare ad attuarlo. È con senso di doverosa fraternità verso gli italiani del territorio libero, ma anche nell’interesse della solidarietà atlantica, che io mi propongo di seguire con particolare intensità gli sviluppi della questione, nella quale sento, come ho qui sinceramente e più largamente esposto, che vi sono dei sacrifici che non si possono né chiedere né considerare e degli impegni politici e morali che non si possono né rinnegare né attenuare. (Interruzioni dalla sinistra). Vedo che si protesta violentemente dai banchi comunisti contro la decisione del governo di non facilitare, anzi, per quanto gli è possibile, di impedire l’accesso della nostra gioventù al festival di Berlino-est. (Clamorose interruzioni dalla sinistra). Una voce. E fate questo in nome della libertà! (Animati commenti e proteste dal centro). De Gasperi. Devo francamente dire che l’esperienza fatta in materia ci spaventa. (Vivaci proteste dalla sinistra). In numerose riunioni internazionali… (Nuove proteste dalla sinistra – Scambio di invettive col centro). La verità potete dirla qua, non dirla per radio dall’estero. (Applausi dal centro – Clamori dalla sinistra). In numerose riunioni internazionali si attacca e si ingiuria grossolanamente la democrazia italiana e gli uomini politici italiani. (Proteste dalla sinistra). Porterò le prove, se lo contestate, porterò le prove. Uomini politici italiani, parlamentari o no, diffamano da radio straniere il nostro regime democratico ed attaccano… (nuove proteste dalla sinistra) … la politica estera del governo, cioè del Parlamento, e vi oppongono una propria direttiva ed impegnano una propria azione, reclamando cioè il diritto di fare per loro conto una politica italiana diversa da quella costituzionalmente espressa. (Applausi dal centro – Clamori dalla sinistra – Scambio di invettive fra gli opposti settori). Crediamo che tali diffamazioni siano intollerabili e che simili interventi non siano leciti, ma contrari allo spirito della Costituzione. E dico francamente che faremo tutto, per quanto possiamo, per impedirli ed esamineremo anche, di caso in caso, la possibilità della pubblica incriminazione. (Nuovi, vivissimi applausi dal centro – Altissime proteste dalla sinistra). Tutti ammettono ormai che certi eccessi ed abusi della stampa diffamatrice non vanno confusi con la libertà di critica garantita dalla Costituzione, che intendiamo assolutamente rispettare. (Applausi dal centro e dalla destra – Commenti ironici dalla sinistra). Nel disegno di legge sulla stampa, che è in istato di avanzata elaborazione, (proteste dalla sinistra), dovremo tener conto delle passate esperienze, considerando che il vilipendio continuo di un regime democratico che rimanga sistematicamente senza sanzioni e difesa finisce con il deprimere dinanzi alle coscienze ignare… (Applausi dal centro – Nuove clamorose proteste dalla sinistra). Non tutte queste affermazioni vi riguardano, non dovreste prenderle tutte per voi, vi sono due estremi, non uno solo. (Commenti dall’estrema destra). Considerato, dunque, che il vilipendio continuo di un regime democratico che rimanga sistematicamente senza sanzione e difesa finisce con il deprimere innanzi alle coscienze ignare l’autorità dello Stato, (applausi dal centro e dalla destra – nuove interruzioni dalla sinistra), e con lo spingerle verso sistemi che rinnegano il metodo della libertà, (applausi dal centro e dalla destra – vivaci proteste dalla sinistra), bisogna che sia manifesto che, se il regime democratico è regime di libertà e se in ciò si distingue nettamente dal regime totalitario, non può essere però indifferente alle minacce del comunismo o della reazione e che la sopportazione non vuol dire approvazione, che i funzionari pubblici hanno il dovere di essere e di agire lealmente verso lo Stato democratico di cui sono organi, (interruzioni dalla sinistra), e che nelle lotte per la conquista della giustizia sociale i lavoratori e gli impiegati, aggrappandosi alle speranze del bolscevismo o alla seduzione in genere di soluzioni violente, non facilitano ma accrescono le difficoltà da superare. (Vivi applausi dal centro-destra – Clamorose interruzioni dalla sinistra). Accogliendo le richieste dei lavoratori liberi il governo vuole promuovere e rispettivamente favorire le rappresentanze sindacali libere come organi propulsori della vita nazionale; ma è chiaro che tale auspicabile collaborazione può risultare feconda soltanto se ci sarà l’accordo sulla pregiudiziale, cioè che alla fine il Parlamento costituisce l’autorità arbitrale suprema e che i lavoratori democratici hanno interesse a che il regime democratico non venga sovvertito o debilitato attraverso il rifiuto dei suoi organi esecutivi ad applicare o eseguire le leggi. Con tale spirito presenteremo anche il disegno di legge sulla organizzazione sindacale e sull’ordinamento giuridico del lavoro. (Nuove, vivacissime interruzioni e clamorose proteste dalla sinistra). presiDenTe. Richiamo all’ordine gli interruttori. De Gasperi. Per gli statali è in elaborazione un provvedimento di rivalutazione e rispettivamente di miglioramento delle retribuzioni con riguardo al costo della vita entro i limiti delle possibilità attuali. Chiedo però frattanto al Senato di approvare gli emendamenti al Codice penale che abbiamo già proposto il 19 gennaio 1951 e che hanno lo scopo, sia pure nella completa libertà di sciopero, di escludere i metodi di lotta che non costituiscono astensioni dal lavoro ma veri atti di sabotaggio alla produzione. (Vivi applausi dal centro-destra – Vivissime proteste dalla sinistra). Circa la dodicesima disposizione transitoria della Costituzione… (Nuove interruzioni dalla sinistra). presiDenTe. Così non si può andare avanti. Richiamo tutti a tenere un contegno pari alla dignità ed al prestigio della nostra Assemblea; altrimenti sarò costretto a sospendere la seduta. Una voce. Sospenda piuttosto il presidente del Consiglio per il suo discorso provocatorio! (Impressione – Vivacissime e clamorose interruzioni e proteste in vario senso). presiDenTe. Se si continua, io non posso restare su questo banco, perché così non si può presiedere un’Assemblea. I senatori lascino parlare il presidente del Consiglio; essi potranno poi rispondere e dire quello che vorranno. Il presidente del Consiglio ha diritto di parlare come i senatori hanno diritto di rispondere. (Applausi dal centro-destra – Rumori dalla sinistra). Una voce. Anche il 3 gennaio lei lo lasciò parlare . (Nuove, violente manifestazioni di contrasto da parte degli opposti settori – Scambio di reciproche invettive – Alti clamori – Tumulto). presiDenTe. Basta!… Continuino pure se vogliono. Io conosco quale è il mio dovere e saprò compierlo. Ma è veramente penoso che, mentre tanto si è lavorato e tanto ogni giorno si lavora per accrescere il prestigio di questa Assemblea, si dia invece al paese così tristo esempio di intolleranza politica. (Vivi applausi dal centro-destra – Interruzioni e proteste dalla sinistra). Onorevole presidente del Consiglio, la invito a continuare il suo discorso. De Gasperi. Circa la dodicesima disposizione transitoria della Costituzione, che proibisce la riorganizzazione in qualsiasi forma del disciolto partito fascista, sta da parecchi mesi innanzi al Senato una proposta di legge del precedente gabinetto. Preghiamo il Senato di voler deliberare in argomento. Il governo considererà con attenzione ogni emendamento proposto. L’essenziale è che si approvino rapidamente misure atte ad impedire una violazione dei disposti costituzionali, che escludano, cioè, manifestazioni di stampa, o collettive atte a ricostituire, a mezzo dell’apologia del cessato regime, dei suoi miti e delle sue dottrine, il movimento fascista . (Applausi dal centro-destra – Commenti dalla sinistra). So bene che mi si accuserà di voler con ciò sbarrare il cammino alle «forze nazionali», ma è lecito rifiutarsi di ammettere sotto questa generica copertura fascisti e non fascisti della prima e della seconda maniera, corporativisti di sinistra e non corporativisti, liberali di destra, monarchici o nazionalisti. Quello a cui sentiamo il dovere di opporci, con particolari misure, già previste dalla Costituzione e dalle leggi esistenti, è la rinascita del fascismo e lo facciamo… (interruzioni in vario senso) …e lo facciamo per il senso di responsabilità che ci deriva dalla esperienza disastrosa del passato e dalla preoccupazione per le presenti libere istituzioni democratiche che abbiamo l’obbligo di difendere. (Interruzione del senatore Franza). Ben sappiamo che le leggi poco valgono se non vengono sorrette dal costume ed è perciò che rinnovo l’appello a editori, scrittori e maestri, a quanti sentono o dovrebbero sentire il pericolo che ci sovrasta, perché assumano francamente, onestamente innanzi alle generazioni giovanili la loro responsabilità. (Applausi dal centro e dalla destra). Né con ciò rinunciamo al nostro proposito di pacificazione, di ricostituire cioè, nel superamento del passato, l’unità morale della nazione, spezzata dalla guerra civile. Oltre a un provvedimento per assegni vitalizi ai mutilati e agli orfani dei caduti della Repubblica sociale, sono allo studio provvedimenti per il ripristino delle pensioni normali agli appartenenti alla milizia e alle sue specialità e un provvedimento che consenta il riscatto, ai fini della pensione, del periodo passato dal personale civile nelle milizie. La pacificazione non può però voler dire l’abolizione sic et simpliciter delle leggi eccezionali o una amnistia generale e indiscriminata nei riguardi di individui colpevoli – cito una sentenza della corte d’assise di Parma del 1945 – «di atrocità, torture o sevizie ideate e attuate con metodi e criteri scientifici, di assassinii perpetrati nelle segrete delle caserme, di fucilazione per rappresaglia eseguite su innocenti» o – cito una sentenza della corte d’assise di Massa del 1947 – «di eccidi disumani che portarono a devastazioni e saccheggi, incendi e distruzioni di paesi». Tuttavia intendiamo procedere caso per caso con provvedimenti di clemenza. Già oggi 610 sono stati liberati con tali provvedimenti. Dei 506 condannati con sentenze irrevocabili attualmente detenuti, 222 hanno presentato istanza per grazia o liberazione condizionale e ciascuna di queste istanze viene vagliata con propositi benevoli di ogni possibile larghezza. Si sono già dette le ragioni per le quali, rivedendo durante la crisi il nostro organismo ministeriale finanziario, nel quadro più vasto dell’economia e ai fini di una maggiore possibilità di coordinamento e di controllo si è ripreso in esame il vecchio progetto di accentrare alcuni servizi del tesoro nel Ministero del Bilancio. Nel corso di tale esame il presente gabinetto si è trovato d’accordo nel ritenere che al bilancio debbono passare, in un primo tempo, ed entro il termine più breve possibile, la ragioneria generale e la presidenza del comitato per il risparmio e il credito. A questi uffici, provenienti dal tesoro, si dovrà aggiungere, per evidente opportunità di coordinamento, la presidenza del comitato prezzi, e in tal senso vi sarà presentato prossimamente un disegno di legge. Completeranno poi l’attrezzatura strumentale necessaria per assolvere i compiti di controllo e di coordinamento gli altri uffici e servizi del tesoro che verranno trasferiti al Ministero del Bilancio in occasione del riassetto definitivo dell’intero settore finanziario. Nel frattempo il ministro delle Finanze assumerà anche l’interim del tesoro. Se si considera che l’attuale ministro del Bilancio conserva anche la vicepresidenza del CIR e la delegazione dell’OECE, si può concludere che già ora, salvo il migliore assetto organico di cui si è parlato, il ministro del Bilancio può esercitare quell’intervento coordinatore che è stato sempre invocato nell’interesse del bilancio dello Stato e dell’economia nazionale. Sarà superfluo, di fronte alla polemica, affermare che si tratta di coordinare il lavoro collegiale dei ministri del settore economico-finanziario presiedendo normalmente (tranne in occasioni straordinarie come accadeva nel passato) il comitato di ricostruzione e dirigendo i lavori di altri più specifici comitati interministeriali. È giusto ritenere che il ministro del Bilancio, liberato dalla responsabilità di altri servizi del tesoro, possa dedicare le sue forze alla tanto auspicata opera di coordinamento e di controllo che gli offrono i poteri della legge istitutiva del Ministero del Bilancio e di quelle che saranno sottoposte alla vostra approvazione. Nell’occasione di questa proposta sistemazione, si è discusso anche della riforma delle leggi sulla ragioneria generale e sull’amministrazione della contabilità, riforme che vengono da parecchie parti invocate per esemplificare e accelerare l’esecuzione delle leggi. Circa le leggi sulla contabilità abbiamo già le concrete conclusioni della commissione appositamente creata dal ministro Pella. Per la prima, il governo sottoporrà al vostro voto le linee direttive che intenderebbe seguire. Premesse queste doverose notizie circa la nuova sistemazione dei servizi credo superfluo, dato il carattere della compagine ministeriale, per questo settore che subisce solo degli spostamenti, di fare una nuova esposizione generale di politica economica. Per i dicasteri finanziari mi rimetto all’esposizione che i singoli ministri faranno alla Camera presentando il loro nuovo bilancio. Per il problema della priorità degli investimenti, basandosi sulle conclusioni del comitato tecnico presieduto dal ministro Campilli, il CIR ha elaborato un piano di priorità degli investimenti che poi dovrebbe venire attuato secondo uno schema esecutivo tracciato dal precedente ministro dell’Industria, onorevole Togni. Il governo intende cioè seguire un ordine di priorità nei programmi di investimenti e di produzione, allo scopo di graduarne l’importanza senza peraltro ridurne l’ammontare complessivo. La formulazione della priorità si è imposta soprattutto per convogliare le risorse interne verso destinazioni essenziali, e inoltre per adeguare la politica economica alla situazione internazionale, visto che anche i paesi produttori di materie prime e di beni strumentali attuano di già una disciplina delle risorse disponibili. Il sistema delle priorità viene determinato considerando contemporaneamente: i consumi civili interni fondamentali, le esigenze della sicurezza, le esigenze delle esportazioni. La maggior possibile occupazione costituisce il criterio informatore degli obiettivi considerati. Per i settori prioritari (agricoltura, fonti di energia, materiali scarsi, esportazione, edilizia non di lusso) è prevista da parte del governo una azione positiva mediante interventi di carattere generale e specifico. Nell’ambito di questo piano verrà presentato un disegno di legge che per i bilanci futuri impegna in uno stanziamento poliennale 160 miliardi per la ricostruzione ferroviaria e il miglioramento del materiale rotabile; ma già ora lo stanziamento di 16 miliardi come concorso dello Stato all’ammodernamento delle ferrovie secondarie, approvato dal Senato, e presentemente davanti alla Camera, rende possibili lavori che raggiungeranno l’ammontare di 26 miliardi. Predisposto è anche un piano per la meccanizzazione dell’agricoltura. Sui particolari del piano di priorità, ed in genere sui provvedimenti atti a ridurre la disoccupazione, il governo si riserva di presentare proposte concrete alla ripresa dei lavori parlamentari. Parte di esse riguardano anche l’agricoltura, nel settore della quale il nuovo ministro, oltre l’esecuzione delle leggi di riforma agraria della Sila e dello stralcio e lo sviluppo della bonifica, si propone una politica diretta a tutelare e incoraggiare i lavoratori nel benemerito sforzo di utilizzare più razionalmente la terra e di trovare nuovi sbocchi alla produzione agricola nazionale. Non c’è bisogno di riaffermare che questa politica di investimenti produttivi sarà gradualmente realizzabile solo se si terrà fermo il valore della moneta e si garantirà il risparmio, punto di partenza questo che per il presente gabinetto rimane fuori di ogni discussione. Ma volgiamo, intanto, la nostra attenzione al lavoro concreto che potremo fare assieme, discutendo e deliberando il più rapidamente possibile sui disegni di legge che già vi stanno innanzi o che, licenziati già dal passato governo ed accolti dal presente gabinetto, verranno immediatamente presentati alle Camere. I più importanti sono: la ratifica del decreto-legge che concede anticipazioni sugli appalti e forniture allo Stato e di quello che finanzia, con la valuta dell’ufficio cambi, fino all’importo di 100 miliardi, l’acquisto da parte dello Stato di scorte alimentari e di materie prime (questi due provvedimenti costituiscono un invocato alleggerimento nel settore del credito); l’aumento del fondo di dotazione dell’IRI (Camera); il contributo di 40 miliardi all’Azienda della strada (Camera); la costituzione del comitato ministeriale per il coordinamento delle commesse e forniture (Camera); le tre leggi riguardanti la ricerca, la coltivazione degli idrocarburi, metano e petrolio, e la costruzione e l’esercizio degli oleodotti e dei gasdotti (Camera); la spesa di 6 miliardi per la costruzione in Napoli di case ultrapopolari (Senato); il completamento del programma navale che prevede la maggiore spesa di 8 miliardi e 600 milioni in aggiunta ai 14 miliardi già stanziati con la legge Saragat (Senato); l’autorizzazione alla Cassa depositi e prestiti a concedere al Ministero delle Poste e Telecomunicazioni mutui per 30 miliardi che, in aggiunta ai 25 già autorizzati lo scorso anno, saranno destinati alla ricostruzione e al potenziamento degli impianti e stabilimenti di telecomunicazioni nell’Italia centrale, meridionale ed insulare (Camera). Tra i disegni che erano già pronti per la presentazione alle Camere, prima della crisi ministeriale, sono da rilevarsi quelli riguardanti: la spesa di 6 miliardi e 500 milioni per il completamento del canale «Regina Elena» e per le opere di sbarramento del Ticino; la spesa di 9 miliardi per la costruzione di case popolari e popolarissime a favore dei profughi. Il provvedimento predisposto dal Ministero dell’Interno, oltre a migliorare il trattamento assistenziale, intende dare una soluzione definitiva al grave e complesso problema dei profughi, offrendo loro la possibilità di una sistemazione che costituisca la base per il ritorno alla normale attività lavorativa, togliendo il profugo dal centro di raccolta. Le case saranno costruite a cura dello Stato e con carattere di urgenza e di indifferibilità. Inoltre gli istituti provinciali per le case popolari e l’UNRRA-Casa dovranno riservare ai profughi una certa aliquota degli alloggi costruiti. La spesa di 700 milioni per il risanamento dei «Sassi di Matera»; l’aumento delle pensioni operaie per l’invalidità e la vecchiaia. Legge questa che prevede una nuova e più larga partecipazione dello Stato all’onere finanziario delle pensioni per i lavoratori. La partecipazione dello Stato che finora si era limitata alla pur considerevole somma di circa 16 miliardi annui, sale a circa 40 miliardi annui provvedendo a coprire il 25 per cento del fabbisogno. Più noti sono i disegni di legge che occupano da parecchio tempo l’una o l’altra delle Camere, come quelli sulla finanza locale (che è di grande urgenza) e sulla Corte costituzionale, la pubblica sicurezza, i contratti agrari, la difesa civile, la repressione del fascismo, il sabotaggio, eccetera; ai quali si è ora aggiunto l’organico e basilare progetto della riforma scolastica elaborato dall’onorevole Gonella. Dopo aver deliberato sulle cose più urgenti e dopo un breve riposo, impostoci dalla stagione, avremo quindi da lavorare duro e forte. Questo impegno di fatica, di sacrificio, c’è dettato dalla durezza dell’ora che attraversiamo, dalle esigenze del nostro popolo lavoratore, dal dovere che abbiamo tutti di dare per primi l’esempio di una maggiore austerità, disciplina ed abnegazione, (interruzioni dalla sinistra), virtù che sono oggi le più necessarie per un paese talvolta incline ad abbandonarsi allo scetticismo o alla accensione della fantasia. Bisogna che questo popolo non dubiti, non disperi delle libere istituzioni democratiche e parlamentari le quali, pur sempre, (interruzione dalla sinistra), riformabili e perfettibili, offrono allo sviluppo della nostra civiltà, al nostro modo di vita, al nostro spirito nazionale e al libero sforzo verso la giustizia sociale la forma organizzativa e istituzionale più consona al nostro spirito e alla nostra storia. (Vivi applausi dal centro). Il Parlamento ha lavorato sodo in questa legislatura; ora bisogna che la sua opera sia compiuta. Il governo è a sua disposizione. Abbiamo fatto assieme dei notevoli progressi e del lavoro enorme. Il paese è sulla via della salvezza. Bisogna continuare a camminare col passo risoluto e cadenzato dei montanari. Voce da sinistra. Col passo dell’oca! (Commenti dalla sinistra). De Gasperi. In autunno avremo il primo atto della riforma tributaria; seguirà poi il censimento e verranno quindi le amministrative. La denuncia dei redditi metterà alla prova il civismo e la morale patriottica del popolo italiano, a cominciare dalle classi più agiate. Sarà il punto di partenza per muovere passi più rapidi verso la giustizia fiscale. Il censimento rivelerà le forze rinascenti della nazione, mentre le elezioni completeranno il rinnovamento dei comuni. È vano attendere la salvezza dall’accensione bengalica di un mito; è pericoloso sperare in un colpo d’ala che venga da una reazione sentimentale. La salvezza sta nella nostra energia interiore, nella nostra fede, nei destini della patria e nella incorruttibilità e fecondità delle nostre libere istituzioni. (Applausi dal centro). L’avvenire della democrazia italiana è sicuro se alla classe dirigente non verrà meno la speranza, la tenacia dei propositi realizzatori, il senso della sua storia umana e cristiana, la vigilanza della sua coscienza morale. (Vivissimi applausi dal centro – Molte congratulazioni).
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1Building the Italian Republic
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Onorevoli senatori, vorrei tentare al di sopra dei contrasti dei partiti e dell’urto delle tendenze, di ritrovare quel contatto umano a cui mi pare si sia riferito soprattutto l’onorevole Giua, quando diceva di ritenere che nel mio spirito, nel mio petto, alberghino due anime in contrasto, l’una del vecchio e provato democratico, l’altra del «reazionario». Io appartengo ad una generazione di cattolici, che ha preso posizione netta nel tormentoso problema dell’autorità e della libertà ed è per convinzione, per maturazione, che ho accentuato in tutta la vita più il programma della libertà che quello dell’autorità. Ma poi l’esperienza mi ha confermato in questo atteggiamento; ho visto, perché tale fu il mio destino, diversi regimi: nessun regime è perfetto, ma il democratico e il parlamentare è di gran lunga il meno peggio, è quello che più si presta ad essere perfettibile e correggibile. Invece il regime totalitario, lo Stato-partito, è la morte della libertà e della persona umana. Naturalmente questa conclusione presuppone un concetto non statalista ma pluralista della società, il concetto cioè, che vi siano al di fuori dello Stato, accanto allo Stato, delle forze sociali, delle forze religiose, culturali, sindacali e operaie; forze e categorie le quali agiscono entro un proprio campo di azione e possono agire e possono svilupparsi solo se possono lavorare all’ombra della libertà politica, libertà che appunto vuol dire partecipazione del popolo alla direzione del governo. Mi pare di essere stato, partendo da questo punto di vista, sempre coerente di fronte al fascismo e di fronte alle tendenze attuali della politica. Messi dinanzi al fatto compiuto, tentammo di inserire anche il fascismo nella tradizione parlamentare: voi ricordate il primo esperimento che finì col Congresso di Torino quando avemmo la sensazione che non era possibile ottenere lo scopo prefissoci, che non era possibile salvaguardare la libertà della collaborazione, e rompemmo allora questa collaborazione. Fummo di questa tendenza quando lavoravamo sull’Aventino, assieme ai colleghi che qui ricordo e vedo ancora. Lavorammo superando tutti i contrasti storici che c’erano stati nella evoluzione italiana, soprattutto i contrasti fra sentimento religioso e sentimento patriottico e superando anche quello che poteva essere interpretato come rappresentanza di interessi di categoria, superandoli in questo anelito di libertà e di giustizia sociale. Ricordo ancora, con commozione, le discussioni lunghissime che abbiamo fatto nelle sedute dell’Aventino, di quell’Aventino che ha avuto una grande importanza. Si è detto che, dal punto di vista della tattica parlamentare, sia stato un errore: non lo so e non lo voglio giudicare, ma è certo che l’Aventino fu uno sforzo di conciliazione, di superamento e di salvataggio della libertà, che ha reso possibile quella Repubblica che è venuta poi. Anche allora mi sentii antifascista non per odio al fascismo ma per amore della democrazia. Facemmo poi, nei comitati di liberazione, opera di equilibrio, di libertà per tutti. E qui ricordo con sentimento di commozione l’opera dello scomparso Bonomi, il quale di quell’azione di conciliazione fu l’antesignano, ed ebbe in me e negli amici miei la collaborazione più intima e più viva. Ed anche allora – e qui, oltre Bonomi, ricordo gli amici Ruini, Casati , Croce – avemmo la sensazione che tutti coloro che avevano il sentimento della libertà dovevano agire perché, dopo il crollo del vecchio regime, ne venisse uno di libertà per tutti, e non un regime di partito, soprattutto non un regime di Stato-partito. Non c’è alcuna differenza fra l’atteggiamento che io ho tenuto durante il comitato di liberazione e quello che tengo oggi, c’è soltanto questa differenza: che allora avevamo tutti la sensazione e la speranza che, attraverso i dolori della guerra, il martirio comune, non ci fosse più necessità di preoccuparsi della libertà democratica e del regime parlamentare. E abbiamo creduto di fare questa politica di concentrazione e di coalizione anche con il comunismo, benché del comunismo conoscessimo bene le origini, l’azione, i precedenti in altri paesi. Tuttavia la speranza che la grande guerra mondiale avesse rifuso nel crogiuolo dell’umanità gli spiriti e li avesse portati alla necessità di uno sforzo comune per rinnovarsi nella libertà ci animò anche in questo primo tentativo. Di poi fummo anticomunisti. E ora ci si dice: ecco l’errore fondamentale, l’anticomunismo. Ebbene, anche qui io dico: non siamo stati né siamo anticomunisti contro il comunismo, siamo anticomunisti non per odio verso nessuno, ma per amore del regime liberale, democratico. Volete credere che sia un eccesso di preoccupazione? Ammettiamo pure che dal vostro punto di vista si possa credere così, ma dovrete ammettere voi stessi che questa è la preoccupazione fondamentale, questo è il senso della mia politica, se mi permettete di esprimermi così dal momento che è stato fatto il caso personale. I comunisti vollero invece la trasformazione del regime parlamentare che consiste evidentemente nel contrappeso della maggioranza e della minoranza parlamentare, quindi dell’alternativa di Governo. Vollero trasformarlo in uno sforzo unitario, cioè di coalizione permanente, legittimata dal diritto partigiano e dalla forza sindacale. Ieri ancora il senatore Scoccimarro ha ripetuto questa tesi, che d’altro canto è stata sostenuta con particolare forza anche dall’onorevole Togliatti alla Camera dei deputati. Ora, questa tesi, come tesi, non si può accettare, poiché essa conduce fatalmente, anche in teoria, allo Stato-partito. Ma se non ci fosse stata che la tesi e non ci fosse stata che la dottrina e la teoria, forse era legittimo che noi corressimo tutti i rischi; ma ad un certo momento abbiamo visto nascere nel nostro spirito la diffidenza: perché? Primo, per l’esempio degli altri paesi; secondo, per la esaltazione senza riserve che si è fatta del sistema bolscevico, del sistema leninista, in quanto sistema conquistatore; terzo, per quell’«imperialismo missionario» del Cominform, di cui in questo momento si sente meno parlare ma che in un certo periodo, alla fine del 1947-48, si era presentato in tutta la sua vivezza e in tutta la sua pericolosità. Infine questa diffidenza trovò una base concreta nel tentativo di organizzare formazioni clandestine e nel deposito di armi che evidentemente rappresentava una riserva. (Rumori dalla sinistra). Di tentativi di organizzazione clandestina ce ne sono stati parecchi, e ce ne sono anche oggi; ed appunto perché si tratta di organizzazioni clandestine la prova da portarsi in Parlamento è molto difficile a rinvenirsi. Ma se volete aiutarmi… (Interruzione del senatore Moscatelli). Ad ogni modo, onorevoli senatori comunisti, io tento di spiegare il mio atteggiamento, e se nelle ragioni che io porto ritenete che vi siano dei fantasmi, voi mi dimostrerete se sono fantasmi; vi sarò grato se vorrete dimostrarmelo. Noi sappiamo però che i fantasmi, anche nella vita politica, possono avere un certo sviluppo di operazione. (Commenti ed interruzioni dalla sinistra). È inutile peraltro che entriamo a discutere della questione delle armi, poiché abbiamo discusso di tale questione tante altre volte. Vi ho già detto chiaramente: fate voi un appello a tutti perché consegnino le armi; cercate di aiutarci per questo scopo e cadrà una delle vostre grandi preoccupazioni! Ma voi non avete fatto niente, anzi avete giustificato in modo impossibile il vostro atteggiamento. Non è tutto: insieme a delle prove mascherate, vi erano anche degli argomenti più chiari che si manifestavano e che sono apparsi durante il corso della mia attività in particolare. Non posso dimenticare che quando alla conferenza di Parigi ho chiesto di non precipitare la soluzione del territorio libero di Trieste, dimostrando che quella era una soluzione fatale capace di portare forse ad un conflitto invece che di risolvere il problema, e mettendomi con ciò dal punto di vista della pace e della cooperazione fra le nazioni, e anche contenendo quella che era una rivendicazione nazionale ben accesa nel mio cuore, mi vidi così incompreso da parte del signor Molotov, il quale si alzò a parlare contro il mio «irredentismo», contro il «nazionalismo italiano», contro l’invadenza e l’«imperialismo dell’Italia che voleva occupare i paesi slavi», che ben compresi allora lo scopo dei comunisti. Ed in una certa misura se ne fece eco anche l’Unità, in quella occasione. Nel mio animo è cresciuta da allora la diffidenza; soprattutto mi sono convinto che non era possibile andare d’accordo, né collaborare con icomunisti su questa questione, perché la visione era troppo diversa. Questo avvenne quando eravamo insieme al governo. D’allora in poi le vie divergono manifestamente. Dopo la famosa conferenza per il Piano Marshall al quale la Russia e i satelliti rifiutarono di associarsi e dopo la fallita conferenza di Parigi, l’atteggiamento in politica estera divenne sempre più contrastante, tra quella che era ed è l’espressione della maggioranza e la tendenza o la volontà del Partito comunista: si ebbe una azione contro il Piano Marshall, si ebbero continue accuse di servilismo americano, di tradimento degli interessi del paese. Accuse espresse non tanto in quella forma parlamentare che, almeno nella maggior parte, si tiene qui, ma al di fuori di ogni controllo, al di fuori del Parlamento, onde impressionare di più le menti. Queste accuse vengono espresse in una forma così cruda, così dura, che ogni uomo di buona fede, che può certo sbagliare, ma lavora sempre per il suo paese, si sente veramente avvilito nel vedere in quale misura il sistema democratico permette tali estremi. Poi venne il Patto atlantico. Nelle Camere si è fatta una discussione preventiva, quale non è avvenuta forse in nessun altro paese. Fui io allora che volli saggiare fino in fondo la volontà del Parlamento, perché il filone democratico mi ha sempre portato a seguire questo metodo anche se costa fatica, anche se comporta dei rischi. La maggioranza accolse il Patto atlantico, autorizzò il governo a firmare. È qui inutile andare a ragionare sopra le diverse argomentazioni: chi lo ha fatto con entusiasmo, chi per necessità, chi perché credette bene farlo, e tutti, come il governo, con la convinzione che il Patto atlantico sia un patto di difesa per la ricostruzione europea e mondiale, non un patto che porti a nuovi conflitti. Allora si iniziò una serie di campagne violente. Avemmo il tentato sabotaggio nei porti, poi la serie di campagne per la pace in cui siamo descritti come «servi degli americani», non solo, ma «fautori di guerra». Abbiamo pazientato, abbiamo organizzato le forze dello Stato, abbiamo lasciato gridare. Non dite che non avete avuto libertà in Italia; ci sono molti che dicono che ne avete avuta troppa. Abbiamo preso come insegna nostra soprattutto la pazienza, che vuol dire sempre convinzione che il metodo migliore per giungere a conclusioni positive nella vita politica è la libertà, purché si possa contare su un ambiente di libertà tradizionale, dove le forze libere hanno capacità di reagire, dove tutti siano corazzati contro le suggestioni dell’irrazionale e del sentimentalismo irragionevole. La pazienza è fiducia nel buon senso del popolo, è appello alle forze plurime, ausiliarie, libere. Anche oggi queste forze restano come i pilastri fondamentali della nostra politica. Ma che spettacolo l’ultima campagna elettorale! Mi sono trovato davanti ad un rigurgito di antichi errori. Veramente vi confesso che ho avuto paura di questo ritorno di fascismo. Voi cercate di minimizzare, di scusare. Si sa, in qualche momento vedeste in questo risorgere di fascismo solo uno strumento per disgregare i partiti democratici e quindi ci vedevate solo il frutto utile che se ne poteva cavare in una competizione elettorale, senza pensare che c’è qualcosa di assai più importante di una campagna elettorale. lanzeTTa . Non è vero. De Gasperi. Lei vuol dire che era una mia impressione personale? Ma l’ho avuta girando tutta Italia. Posso magari sbagliare, ma credo davvero che quell’impressione coincida con la realtà del vostro intimo sentimento. Le apparenze sono troppe per non giustificare questa conclusione. Che cosa vidi durante quel periodo? Voglio proprio dirlo in tutta sincerità, in tutta responsabilità come se fossi tenuto a scrivere testamento. E devo dire: ho avuto paura di questo scandalo dei giovani: del fatto cioè che i giovani si scandalizzino dello Stato democratico. Non del fatto che essi ci facessero rimprovero di non avere avuto sufficiente dignità nazionale nei rapporti internazionali; sono giovani che non possono conoscere, che non sanno le difficoltà enormi che dovevamo superare e che guardano più le discussioni verbali che i risultati positivi di colloqui fruttuosi. E poi avevamo una sconfitta che fu molto più di un disastro militare; non potevamo fare di più, non c’era taumaturgo che potesse cavare allora da quel disastro una linea che rispondesse in pieno alla giusta esigenza di dignità. Dovevamo prima rinforzarci, farci le ossa e man mano che questa forza è venuta, ecco che man mano è aumentata la dignità e la coscienza nazionale. (Vivi applausi dal centro). Ebbi paura, dicevo, dello scandalo di fronte allo Stato americano, perché a sentire quei giovani che mi dicevano che non c’è limite alla diffamazione del regime democratico nella stampa, alla radio, dentro e fuori d’Italia, alla diffamazione di questo Stato, non dico governo, che non ha sanzioni contro chi lo schiaffeggia… (interruzione del senatore Lussu), mi sono posto la domanda se questo Stato, questo regime che si affanna all’interno e all’estero non possa agire in modo che i giovani distinguano chiaro tra libertà di critica e vilipendio, tra libertà di discussione e di legge. A questa domanda rispondo: ci sono leggi e ci sono alcune sentenze che ci hanno dimostrato che bisogna precisarle. Ecco la famosa «reazione». Vi presenteremo un progetto di legge in cui cercheremo il minimo da farsi perché questa dignità dello Stato, del regime, questa libertà della Costituzione, venga salvaguardata e non trovino la minima giustificazione quelli che dicono: «bisogna tornare al manganello, non c’è altro modo». Questa è tutta la «reazione» che mi si può rimproverare! E almeno si attendano le concrete proposte per vedere se sono accettabili o meno. (Vivissimi applausi). Non è vero che la libertà non conosca limiti; dappertutto conosce le leggi e i suoi limiti. La libertà deve essere garantita dalle leggi, ma le leggi possono anche stabilire dei limiti. E non c’è che da guardarsi intorno per vedere cosa è diventato il mondo democratico e liberale nei momenti in cui si è dimenticato di avere delle regole. Onorevoli senatori, chiedeteci tutto quello che volete ma non chiedeteci di ripetere l’errore del passato. Quell’errore fu forse comprensibile e io stesso ricordo che a Turati, il quale mi aveva chiesto se avrei potuto tollerare che il fascismo imponesse leggi repressive della stampa, risposi che in tre giorni una legge che sopprimesse la libertà di stampa sarebbe crollata fra lo sdegno di tutto il popolo italiano. Mi sbagliai, tutti ci sbagliammo, e per quanto mi riguarda non ho alcuna intenzione di ripetere quell’errore. Bisogna che la democrazia si difenda, altrimenti non è libera, non è neppure degna di essere. (Vivissimi applausi dal centro). Discuteremo anche dei rapporti fra Stato e funzionari. Non c’è dubbio che la legge sindacale deve fondarsi sulla libertà di organizzazione e anche di sciopero. Questo in tesi generale, ma non c’è dubbio che alcuni capitoli della Costituzione impongono ai funzionari dello Stato dei privilegi e dei doveri particolari. Ora, in una forma o nell’altra, o inserito nella legge sindacale o se più vi piace nel fissare le norme dello stato giuridico, bisogna che questa posizione speciale venga protetta. Qui non si tratta di un contratto di lavoro fra un principale più o meno esoso e un lavoratore, si tratta di una legge vostra, del Parlamento, che stabilisce stato giuridico, diritti e retribuzione. Ora se vi diciamo che siamo qui insieme a voi per salvaguardare fino al massimo questa libertà, di modo che sia il Parlamento ad avere l’ultima parola in materia, anche contro di noi, non è forse questo un onesto tentativo di superare la questione? D’altra parte, volete che restiamo sotto la minaccia di correre il rischio di enormi agitazioni? Ma non esiste Stato in cui ci sia l’assoluta libertà per il funzionario di abbandonare il lavoro. La Francia, nella Costituzione, ha la nostra stessa formula, ma il Consiglio di Stato francese ha emesso una sentenza che dà ragione a coloro i quali riconoscono nel rapporto dei funzionari con lo Stato un rapporto diverso da quello sindacale. In America c’è perfino un giuramento dei funzionari di non abbandonare mai il lavoro. Se, assumendo degli uomini in posizione di particolare responsabilità, dicessimo loro di non ricorrere a forme di agitazione che possono apparire come insurrezionali, ebbene, anche questa è una tesi democratica di difesa dello Stato. Ad ogni sciopero che si fa, ad ogni abbandono del lavoro, che è andato addirittura fino ai magistrati e ai professori, e che resta senza sanzione, lo Stato va un gradino sempre più giù, finché lo Stato non esiste più. (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra). Io vi chiederò, onorevoli senatori, come chiederò anche alla Camera, di collaborare con il governo nel trovare questa formula che concili la più ampia libertà possibile con la difesa necessaria dell’autorità dello Stato. Se vi sta a cuore veramente di avere uno Stato democratico, se non volete che alla fine si dica che esistono due Stati, uno della confederazione sindacale ed un altro che sta al Viminale, ma che quello che decide nei momenti gravi è il primo, allora dovrete essere d’accordo con noi. Non la pensano così coloro i quali non si preoccupano né vogliono preoccuparsi del carattere, della dignità di uno Stato libero e democratico, ma a voi, che non siete di questa convinzione, domando di non negarci l’aiuto della vostra saggezza, la vostra collaborazione per trovare la via per difendere lo Stato e contemporaneamente lasciare la più ampia libertà ai lavoratori. Ripeto che nessuno pensa di abolire quello che del resto è costituzionalmente garantito ai lavoratori, cioè la libertà di sciopero: pensiamo soltanto ad alcune regole, ad alcune norme di garanzia per ciò che riguarda l’amministrazione dello Stato. Naturalmente anche questo è parso a certuni esagerato, ma dobbiamo volere che la libertà di sciopero non si estenda a tutte le agitazioni e a tutte le forme di agitazione. Sciopero vuol dire astensione dal lavoro, ma quando occupate una fabbrica, quando introducete lo sciopero a singhiozzo, in modo che la produzione viene abolita o distrutta o diminuita, queste sono forme che non possono passare sotto il titolo di astensione dal lavoro; perciò vi abbiamo presentato, onorevoli senatori, da parecchi mesi, un disegno di legge per la modificazione di tre o quattro articoli del codice penale, per dire chiaro e netto quello che è lecito, quello che non è lecito. I limiti che proponiamo non sono necessari per difendere padroni o proprietari, ma per difendere lo Stato. (Proteste – Commenti dalla sinistra). Credo di aver lavorato a sufficienza a favore degli operai per poter essere creduto se dico che io non penso affatto di difendere i padroni. (Vivi applausi dal centro). Certo noi non rinneghiamo quel diritto naturale che è la proprietà, intendo una proprietà responsabile ma pensiamo soprattutto all’interesse della produzione e cioè all’interesse della collettività nazionale. (Applausi). Non temo i vostri sarcasmi, perché ho la coscienza di aver sempre voluto render giustizia a tutte le classi. Lo so, egregi senatori comunisti, che quando voi – Dio non voglia! – arrivaste al governo, allora non avreste bisogno di imporre regole al diritto di sciopero perché voi abolireste senz’altro quel diritto. (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra – Rumori dalla sinistra). Anche contro la rinascita del fascismo non ci spinge odio, non ci spinge un senso di rappresaglia; mi sono dimenticato Regina Coeli e tutte le conseguenze. Non ci spinge risentimento; siamo troppo travagliati e abbiamo troppo sperimentato per non dovere dire: quello che è stato è stato e non rinnoviamo questa esperienza. Ma non vogliamo che si ritorni a quell’irrazionale, a quel mito fatale che ha portato il paese al disastro. Non lo vogliamo per la salvezza dell’Italia, non lo vogliamo non perché non riconosciamo che nel fascismo passato e nel movimento di alcuni giovani di oggi, ci siano anche elementi rispettabili, degli elementi assimilabili… (Vivissime interruzioni dalla sinistra). DonaTi. I Bontempelli sono vostri! (Clamori dalla sinistra). De Gasperi. Onorevoli senatori, parlando di elementi non pensavo a persone: pensavo a elementi costitutivi, a programmi; se pensassi alle persone non avrei che da prendere l’esempio dai comunisti che hanno accolto nel loro seno tanti ex fascisti. (Viva ilarità). Ma vogliamo davvero la pacificazione e per questo abbiamo annunciato delle leggi che sanino le piaghe della guerra, a chiunque siano state inferte. Per questo vogliamo fare delle leggi riparatrici. Sono ben lieto di dire che ci deve sempre essere una differenza nella gente che oggi passa sotto il titolo di forze nazionali o neo-fasciste: evidentemente ci devono essere differenze fra gli uomini che ne fanno parte. Questa mattina ho ricevuto un telegramma da ex comandanti della milizia che riconoscono che un nostro progetto di legge è benefico per la povera gente che è andata via e ce n’è anche fra quelli che servirono nelle milizie. È opera di pacificazione. Ma ci devono essere dappertutto di quelli che si richiamano alla «ricetta» per la vera pacificazione. Un senatore, portandomi un giornale del 1924, epoca in cui tutti chiedevano la «pacificazione», quando, dopo il delitto Matteotti, invocavano una strada per il rispetto della libertà e contemporaneamente una certa continuità costituzionale, mi ha ricordato come allora fosse uscito questo giornale che gli uomini che allora stavano al banco del governo ci spiegavano davanti. Il giornale diceva: «ricetta per la vera pacificazione», e sotto: «primo, disinfettare le sudice botteghe della stampa antifascista…». (Vivaci proteste dalla sinistra). Io non capisco: ho parlato delle botteghe della stampa antifascista, non delle Botteghe Oscure: perché allora ve la prendete tanto? (Ilarità ed applausi dal centro – Vivaci rumori dalla sinistra). E proseguo la lettura: «secondo, togliere – sentite la parola, senta, senta, onorevole Scoccimarro – dalla circolazione quelle perenni offese al sentimento nazionale che si chiamano Albertini , Amendola, Frassati , Sturzo, Turati, Conti, De Gasperi, Vettori , eccetera eccetera. Terzo, restituire all’Italia la pena di morte…». E si mostrava allora come simbolo per la campagna elettorale – voi lo ricorderete – il manganello. Orbene, noi la pacificazione la vogliamo sul serio; ne ho detto le ragioni ed ho anche detto come questa possa avvenire. Dirò di più nelle singole parti della mia risposta. Ora torno alla parte programmatica. Patto atlantico. Da qualche parte si è fatto un po’ gli scandalizzati perché ho parlato di fedeltà, perché ho parlato di consolidare, sviluppare, approfondire questa alleanza che associa il nostro paese al destino delle democrazie europee e di quella di oltremare. Ma non si è letto avanti, non si è capito che questo «approfondire» voleva dire non limitarsi alla convenzione militare, ad una comunità di armi soltanto, ma tenere presente, e bene a mente, che oggi la vita sociale è così connessa all’esistenza economica che bisogna che ci sia anche la solidarietà economica nell’assistenza della manodopera, nel problema della disoccupazione, nelle commesse, eccetera. Ed ho affermato poi, più in particolare, che ci deve essere uno schieramento solidale anche nella questione economica. Questo è dunque il significato delle parole «approfondire e consolidare»; e se le cose sono state dette in sintesi ciò si deve al fatto che il Senato in quel momento era turbato da eccessivo nervosismo, altrimenti avrebbe compreso che si trattava di un discorso che non era semplicemente diretto all’Assemblea, ma che era diretto al di fuori, ed in tal senso mi pare che avrebbe potuto essere accolto da tutti. Ho accennato poi al fatto che la solidarietà deve esserci anche nei rapporti internazionali in genere; e qui sorge il primo problema dell’ONU. Badate, io ho detto del Patto atlantico: «esso è inserito nell’organizzazione generale delle Nazioni Unite, che se tutte le nazioni ad essa associate…». A questo punto Saragat alla Camera dei deputati ha letto diversamente, ed infatti in questa copia data alla stampa c’è «ad esso» ed è chiaro che è un errore: bisogna leggere «ad essa». «Esso (Patto atlantico) è inserito nella Organizzazione generale delle Nazioni Unite e se tutte le Nazioni Unite vorranno, rimarrà lo strumento più valido per arrestare le aggressioni. E potremo così unire il nostro sforzo a quello delle altre nazioni associate; è un nostro diritto in base al trattato di pace, in confronto del quale i contraenti rispondono di inadempienza». Più lineare di così, più sostanziale di così non si può essere; ma è chiaro (e qui abbiamo fatto una discussione nella quale ad un certo punto ci siamo trovati d’accordo io e l’onorevole Scoccimarro, e questo ha del miracoloso) che l’avvenire sta nelle Nazioni Unite e bisogna riconoscere che tale necessità deve portare ad una universalità dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Noi abbiamo un diritto formale di prelazione, un diritto riconosciuto dal trattato che porta la firma anche di Molotov. Bisogna che ci lascino entrare nell’Organizzazione delle Nazioni Unite, lo domandiamo come forza di civiltà nell’Europa per la pace e per dimostrare agli altri il nostro valore. (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra). E dico che, anche se il trattato non esistesse, esiste una coerenza atlantica, una dignità nazionale che non ci fa sentire questa nostra attesa sulla soglia dell’ONU se non come un ingiusto trattamento che deve essere eliminato. (Applausi). Quando mi parlate di distensione, vorrei dirvi: cercate di contribuire anche voi alla politica internazionale. Forse non è questo il posto più adatto per rivolgermi all’onorevole Togliatti, ma l’onorevole Togliatti, che ha tanta influenza, perché non dice una parola affinché noi entriamo nell’ONU? (Ilarità). Si acquisterebbe senz’altro grandi meriti; indurrebbe la Russia ad essere ragionevole. E non è vero, onorevole Nitti, che la Russia sia da noi considerata di per se stessa nemica, così come una volta si definiva l’Austria, nei confronti dell’Italia, nemica ereditaria. Io non lo credo, e fino all’ultimo momento ho tentato di andare d’accordo con la Russia sulla questione del territorio libero. Non ci sono riuscito per l’ostinazione della Russia, che da allora in poi ci ha sempre negato il concorso, l’assenso, la collaborazione, forse perché questo si riferiva a ragioni interne, come sembra che si dica qui quando si parla di «distensione»; io non lo so, si può riferire più facilmente a quella Russia che ha un patronato da esercitare di fronte a tutti i paesi slavi; il fatto è che l’atteggiamento della Russia è precedente ad ogni polemica, venuta successivamente, per il Patto atlantico, venuto dopo. Nonostante ciò nella mia relazione io non dissi una parola sulla Russia o contro la Russia. Non mi piace inasprire le situazioni; mi piace piuttosto addolcirle nella speranza della pace. E venga un tentativo da sinistra o dall’altra parte, venga dal presidente russo o dal presidente americano: qualunque tentativo che sbocchi nell’ONU, perché non c’è altra base che 1’ONU, sarà da noi ben accetto; non fatemi un «patto a quattro» per distruggere la società delle nazioni, non fatemi un «patto a cinque» per soffocare la forza delle nazioni «minori» alla cui testa è certamente l’Italia, perché l’Italia è una grande, la più grande piccola nazione. (Vivi applausi). Dunque, non è vero che mi sono installato nel Patto atlantico con una legge d’inerzia; ho parlato semplicemente di fedeltà assoluta ai patti scritti o ai patti intervenuti. E badate, io penso sempre quel che forse voi non pensate ed avete lasciato cadere. Penso che l’Europa deve costituirsi. Mentre c’è, innegabilmente, una maggiore inclinazione da parte della politica inglese a tener conto di questa Europa che si crea, volete proprio che l’Italia, che è la prima ad avere interesse perché l’Europa sorga, trascuri questa necessità, che è una necessità interna europea? Onorevole Nitti, non è che io mi immagini che da oggi a domani possa nascere una federazione, che si possano trasformare le contrastanti nazioni europee, no; ma se si arriva ad accordi sostanziali tra Inghilterra da una parte e Germania e Francia dall’altra, agevolati dalla forza mediatrice dell’Italia, questa è una delle nostre speranze, e non la dobbiamo abbandonare. Questa federazione non è diretta contro la Russia, non è «anti»; è soltanto per avere la libertà in Europa, per un’Europa che difenda la sua civiltà di fronte a tutti e faccia valere nel grande ambito dei patti internazionali quel contributo che la civiltà e l’esperienza secolare europea possono dare in confronto dei popoli giovani e meno sperimentati di noi. Questa è una politica che non deve avere successi dall’oggi al domani, è una «linea», che bisogna seguire. Se accanto a tutti i pesi che già gravano sopra le mie spalle ho preso anche quello del Ministero degli Esteri, voi sapete che non l’ho fatto per una questione personale, di sostituzione di persone – infatti ho pregato 1’onorevole Sforza di mantenersi a mia disposizione – ma proprio per far sì che l’Italia agisca e si faccia sentire ancora di più nella vita europea e mondiale. (Vivissimi applausi dal centro). Qui c’è ancora la solita accusa di «servitori degli americani». Mi si è portata una certa notizia di giornali circa dichiarazioni fatte dal capo dell’ECA, Foster, che sembravano dire che l’America volesse intervenire direttamente con i suoi aiuti e con i suoi consigli al di sopra dei governi. Qualcuno qua dentro (credo il senatore Scoccimarro) ha detto che siamo arrivati alla «capitolazione», alla «congiura di categorie» contro altre categorie. Ma io già, il 30 luglio, alla prima notizia, avvertito di questo equivoco, ho telegrafato ed ho chiesto l’interpretazione autentica delle dichiarazioni di Foster. Un telegramma arrivatomi lo stesso giorno dice: «la stampa ha deformato dichiarazioni. L’accento verrà maggiormente posto sui problemi di produzione e produttività. Esperti verranno messi a disposizione dell’industria per risolvere problemi specifici. L’ECA, come per il passato, collaborerà con pieno consenso del governo». Quindi non c’è dubbio che quello che si farà, si farà con il pieno consenso nostro. pasTore. Da dove è partito il telegramma? De Gasperi. Dall’ambasciata! Certo, c’è sempre una linea di demarcazione tra l’attività di chi vi dà un contributo, un aiuto, e l’attività di chi lo riceve, ma questo è fondato sulla mutua fiducia e sulla collaborazione. Se si fa la lotta avviene quello che accade a Livorno: mentre qui si chiama base militare e quindi gli si dà contro, sul posto invece l’amministrazione comunista cerca di accaparrarsi i lavori del porto. (Interruzione del senatore Pastore). Passiamo alla parte economica. Ho già detto abbastanza chiaro nelle dichiarazioni dinanzi al Parlamento – ma lo avevo detto anche prima, e devo supporre che non sia rimasto segreto perché erano dichiarazioni alla stampa, subito dopo il giuramento, al Viminale – quello che si poteva dire e che era giusto dire sulla crisi. Non ci sono misteri, non ci sono delle congiure, c’è il fatto che si sarebbe potuto benissimo risolvere i problemi che si erano posti, senza crisi generale e senza dimissioni, se non ci fosse stato di mezzo l’incidente Pella le cui dimissioni hanno portato, per un senso di responsabilità e di dignità, le dimissioni del gabinetto: sono cose che sono sempre avvenute. Ma alla domanda che è stata fatta ieri: che cosa si farà nel periodo transitorio, nel periodo cioè prima del trapasso al Ministero del Bilancio di tutti i suoi attributi, rispondo: mettiamo la nostra attenzione sulla legge istituiva del Ministero del Bilancio, la quale stabilisce che il ministro ha anche l’incarico di presiedere il CIR, partecipare all’OECE e di appartenere al comitato del credito. In base alla legge istitutiva quindi il ministro del Bilancio ha un potere di intervento generale sulla politica dell’entrata e della spesa. Inoltre è obbligatorio il suo intervento per le spese di carattere generale dei ministeri per qualunque importo, nonché sulle spese degli altri ministeri quando superano il miliardo di lire. In terzo luogo spetta al ministro del Bilancio di dare il preventivo consenso alla proposta di provvedimenti legislativi per l’approvazione dei bilanci preventivi e dei rendiconti consuntivi, mentre – con l’accennata legge che stabilisce il passaggio di vari servizi – in attesa del trapasso è possibile dar vita a un coordinamento finanziario. La vicepresidenza del CIR già consente al ministro del Bilancio, liberato dal peso di altre incombenze, di intraprendere il coordinamento economico. Occorre dare al più presto esecuzione al programma, non importa se con uno o più provvedimenti di legge, per attribuire al ministro del Bilancio la presidenza dei due comitati dei prezzi e del credito. Circa l’Istituto di statistica, il problema si potrebbe dire già risolto in quanto il ministro del Bilancio, alla stregua delle altre amministrazioni, ha diritto di ricorrere ai servizi del benemerito istituto. Giova ancora aggiungere che gli eccellenti rapporti fra i ministri Pella e Vanoni consentono di assicurare una collaborazione tale che elimini le preoccupazioni sorte nella discussione. Onorevoli senatori, vi siete lamentati per il fatto che io non ho presentato un programma generale; ma ne avevo detto il perché. Del resto ho accennato al piano di priorità degli investimenti, e avevo dato rilievo ai problemi giunti a maturazione: tredici provvedimenti di spesa per la questione operaia e alcuni altri disegni di legge di carattere finanziario, come quello per la finanza locale. Ho poi accennato a tutti i progetti che sono innanzi alle Camere. Siamo tutti responsabili di questo: il governo, in prima linea se non ha la forza di sollecitare, e le Camere se, nel loro meccanismo, non accelerano il lavoro. Ancora una parola, poiché mi sembra di sentire i colleghi comunisti dire: ma che mistero c’è sotto? Ci deve essere una congiura segreta. Ma i segreti sono meno segreti di quello che si ritiene, e fuori è andato molto di più di quello che in realtà sia avvenuto. A distanza si amplifica il rumore. Il gabinetto aveva assunto per qualche dicastero carattere provvisorio in seguito all’uscita dei socialdemocratici, appena alla vigilia delle elezioni. Inoltre, un insistente desiderio di migliore proporzione fra le Camere in certi dibattiti svoltisi sul problema economico, mi avevano fatto promettere, prima delle elezioni, che – dopo le elezioni, ma non in dipendenza di esse – avremmo riveduto la situazione, anche per esplorare se le forze che si accingevano a presentarsi «apparentate» avrebbero potuto collaborare assieme anche al governo. Questa decisione avrebbe dovuto servire a chiarire ed a superare eventuali differenze e portare a parziali mutamenti. L’incidente Pella, come vi ho detto prima, provocò le dimissioni… ravaGnan . Che cosa è l’incidente Pella? De Gasperi. Questo lo sa: non occorre che lo spieghi un’altra volta! ravaGnan. Il paese non lo sa.
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La discussione parallela che è avvenuta e che sta per concludersi al Parlamento ha portato nell’elenco 25 oratori alla Camera, di cui soltanto 6 hanno parlato a favore del governo, e 27 oratori al Senato, di cui 8 hanno parlato a favore del governo. Tutti gli altri oratori, con lunghe discussioni ed esposizioni, hanno parlato contro la politica del governo. È stata, quindi, un po’ come avviene in ogni crisi, la sagra dell’opposizione. Mi trovo perciò in condizioni di inferiorità, nella impossibilità di reagire a tutti i colpi che sono stati dati e di dare tutte le spiegazioni che sono state chieste, e quindi ho bisogno della vostra benevolenza e specialmente del «compatimento» dell’opposizione. Devo, insomma, concentrare la mia risposta su alcuni punti fondamentali, e quindi non mi riferirò personalmente a tutti gli oratori. Dirò, come mia prima impressione, che vi è stato il tentativo di una specie di «vivisezione» della Democrazia cristiana: i diversi chirurghi hanno inciso col loro bisturi (soltanto simbolico per fortuna) sopra la Democrazia cristiana, come se fosse un tavolo anatomico. L’onorevole Togliatti ha tentato di interpretare le varie manifestazioni di uomini che appartengono alla Democrazia cristiana: ha cercato di fare una ermeneutica intorno alla tesi di Giordani, di Dossetti, di ricordare l’ordine del giorno del 5 febbraio 1951, e ha finito col concludere: non si capisce, non si vede chiaro. Non è facile vedere chiaro entro le discussioni di un partito, ma è difficile soprattutto quando ci si fonda sopra indiscrezioni e falsificazioni della stampa. Io stesso sono costretto, e fui costretto in molti casi, ad andare direttamente alla fonte per comprendere o per avere spiegazione di certe affermazioni della stampa avversaria. E se vi è una lezione da trarre per noi è questa: che in democrazia, specialmente in momenti difficili, esiste senza dubbio il dovere di dire la propria opinione, di difenderla e di discutere su di essa e sulle risoluzioni comuni che devono essere oggetto di deliberazione nel Parlamento; ma esiste anche un altro dovere: di pensare agli effetti esterni della polemica interna. Vi furono delle discussioni ed anche qualche deplorevole episodio alla Camera, subito superato da un maggior senso di responsabilità; ma, disgraziatamente le discussioni, le dicerie e le indiscrezioni che su di essi si fecero sollevarono la speranza, e la leggenda interessata, che la democrazia fosse in sfacelo, e ciò nonostante che, recentemente nella campagna elettorale, tutti, di qualsiasi tendenza, avessero dimostrato il massimo zelo nel difendere la tesi democristiana o nel difendere, anche per il passato, i meriti del governo. I tempi esigono una particolare disciplina, onorevoli colleghi, i tempi, il colore dei tempi, il ritmo dei tempi, perché in momenti di crisi – e parlo di crisi generale, di irrequietudine generale del paese – è facile che sorga, specialmente nei giovani, l’aspirazione a qualcosa come fosse un più concreto dirigismo nella vita politica, un’armatura ferrea di un partito o di una tesi, una linea «precisa». E questa tendenza, che oggi esiste innegabilmente, ci impone maggiori riguardi nell’attuare anche quella che è la legittima libertà di discussione. Non dobbiamo dare la sensazione che alla fine non vi è una volontà unica, e che alla fine non vi è una maniera concreta e sintetica di rappresentare gli interessi del paese. Io ringrazio gli onorevoli Russo Perez e Giannini i quali hanno dimostrato di trattare quest’argomento con una certa comprensione; li ringrazio anche e specialmente perché, riferendosi alla mia attività personale, hanno detto e concluso che forse io avrei servito meglio il partito che il governo, in questo momento. E forse hanno ragione, se non fosse vero che nel mio spirito è sempre più radicato il senso del dovere in riguardo al paese più che al partito, perché il partito non lo posso concepire altrimenti che al servizio del paese. Anche l’onorevole Giovannini, secondo quanto mi è stato riferito (io non ero presente ieri sera), ha espresso un apprezzamento non ostile. Non potrei dire altrettanto dell’amico Saragat, il quale ha tentato anche lui di spiegare le varie tendenze della Democrazia cristiana e ha citato qualche fatto la cui interpretazione non posso accettare. Se egli dice, ad esempio, di avere notato che le proposte di sinistra dell’onorevole Tremelloni erano subito stranamente combattute da un «sinistro» come l’onorevole Fanfani, ebbene io credo che la sua è una interpretazione che non si può accettare. In realtà sono state proposte le quali dovevano essere esaminate nella loro tempestività, e le ragioni che si obiettavano dovevano essere non di tendenza, ma avrebbero dovuto essere sottoposte a tali esami particolari. L’onorevole Saragat ha ragione quando dice che bisogna arrivare ad una chiarificazione; ma non bisogna partire dal preconcetto che una parte della Democrazia cristiana abbia lavorato per «aggirare alle ali» i partiti minori che collaboravano al governo. Ci sarà stata qua e là una legittima concorrenza: nessuno infatti vuol essere reazionario di destra, tutti vogliono essere di sinistra e tutti vogliono essere riformatori: tutti vogliono mettere in vista soprattutto quel che di nuovo si possa fare e non quello che di vecchio si debba mantenere. Ma che ci sia stato un programma, una volontà o una velleità di giungere a sostituire quella che si chiama «sinistra» della Democrazia cristiana alla sinistra o ai socialdemocratici in genere, questo io credo di poterlo escludere. Onorevole Saragat, posso pregarla di esercitare nei confronti della Democrazia cristiana, come lodevolmente ha fatto anche l’ultima volta, la stessa pazienza che ho esercitato io di fronte ai socialdemocratici? (Si ride al centro). In realtà, le evoluzioni legittime del Partito socialdemocratico – per le intenzioni nobili che io rispetto specialmente nella mente dell’onorevole Saragat, della quale apprezzo altamente il senso democratico – sono state parecchie e hanno messo in forse, non dico la mia pazienza, ma la mia abilità in parecchi momenti, avendo avuto riflessi sopra la formazione o la non formazione dei governi. Ora che anche in questo ci sia stata una causa di irrequietudine pure nelle file della Democrazia cristiana, io vorrei negarlo assolutamente, perché mi si diceva: a che giova cercare l’appoggio di un partito, quando nei momenti difficili non sei sicuro di contare sopra la loro compartecipazione alle responsabilità? covelli. I socialdemocratici non rappresentano il paese. De Gasperi. No: ma quanto a rappresentare il paese, essi hanno milioni di voti, che io augurerei a lei. (Si ride). E poi io ho raggiunto in questo (e non è che un piccolo accenno che vi prego di perdonare in mezzo a tante cose gravi) l’effetto contrario. Ad un certo momento mi son trovato contro organi socialdemocratici ed organi liberali, che dicevano: De Gasperi questa politica la fa per frantumare i partiti minori. Ieri a questo si riferiva anche un oratore di estrema destra che diceva: adesso che hai finito la tua opera negativa, disgregatrice, nei riguardi del Partito liberale e del Partito socialista, cominci col movimento sociale italiano. Certo che il principio che mi ha mosso e che mi deve muovere è l’interesse del paese. Se credo che nell’interesse del paese, e del paese concretamente, cioè della democrazia, del sistema attuale dello Stato democratico, si debba fare ogni sforzo per la coalizione dei partiti, non sono io che debbo dire se sia nell’interesse di questo o quel partito l’assumere una responsabilità. Questa, naturalmente, è la parte che spetta ai rappresentanti dei partiti, che io rispetto. Ma non mi si venga a imputare la volontà di disfare ciò che io invece debbo fare finché mi sia possibile di farlo: voglio dire la realizzazione dell’unione di tutte le forze democratiche. Io ho infatti l’intima convinzione – e non è del resto così difficile trovare le ragioni di questa intima convinzione – che lo Stato democratico non è poi tanto consolidato ancora nelle coscienze e nelle istituzioni. E, in fondo, onorevoli colleghi che vi astenete, il sentimento che vi suggerisce questa posizione, chiamiamola così, di attesa – non la posso e non la voglio interpretare più negativamente: potreste chiamarla immobilità; è una parola, veramente, che è stata inventata per la nostra politica, non per i partiti minori; una parola che non farà molta fortuna – il sentimento, dicevo, che vi consiglia a questa posizione di attesa è lo stesso pensiero, la stessa necessità che spinse me ad offrirvi e a chiedervi la vostra collaborazione. Anche voi sentite che bisogna avere riguardo a queste esigenze dello Stato democratico, alla necessità del suo progresso, alla sua ripresa nel mondo internazionale. Ed ecco ancora oggi perché, forse a torto, come dice l’onorevole Giannini, anch’io appartengo in questo senso a coloro che vedono in questo dovere la missione della loro vita. Anch’io penso che non dovevo sottrarmi alla chiamata del capo dello Stato per assumere di nuovo questo peso, anzi per assumerlo in misura raddoppiata. Niente altro vorrei chiedere agli amici ed avversari, se non di riconoscere questo mio atto di buona volontà e questo mio spirito di sacrificio. Ed ora rispondo ai diversi oratori, cercando di concentrare le mie risposte su alcuni punti fondamentali. L’onorevole Togliatti è partito come da un dogma: le elezioni hanno dimostrato che il 45 per cento degli elettori si è schierato per l’estrema sinistra. Egli è arrivato a questa cifra costruendo su dati parziali dei comuni, e induttivamente arrivando a delle conclusioni generali. Ma vi prego di ricordare quello che si è detto prima delle elezioni: sapevamo benissimo che col sistema degli apparentamenti noi democristiani avremmo perduto voti e li avremmo perduti probabilmente in favore dei partiti minori che si erano apparentati con noi. (Commenti). I partiti minori dicono che li hanno riguadagnati; comunque, fatto il calcolo dal punto di partenza, noi li abbiamo perduti. (Interruzioni). Una voce a destra. In Sicilia li avete perduti. De Gasperi. Inoltre, io credo che il confronto meno aleatorio che possiamo fare coi risultati del 1948 è quello fondato sui collegi provinciali, non sui collegi comunali, osservando però: primo, che i singoli partiti non si sono presentati in tutti i collegi; secondo, che si tratta di elezioni meno sentite, per le quali, quindi, la lotta è meno accesa, tanto che vi è stato un minore concorso di elettori. Ammessa quindi la aleatorietà di qualunque calcolo, io ritengo che il calcolo fatto sui votanti dei collegi provinciali sia il più esatto, il più vicino alla realtà, quello che permette confronti più prossimi al vero. I votanti nei collegi provinciali di 57 province sono 16.353.339 su 18.207.349 elettori iscritti, mentre nel 1948 votarono nelle stesse province 16.699.000 su 17.825.000 elettori iscritti. Cioè, nel 1948 si ebbe una percentuale del 93,70 per cento di votanti, mentre nelle recenti consultazioni la media è stata dell’89,80 per cento: quindi, un calo del 3,9 per cento. Sintomatico è, poi, l’aumento dei voti annullati, salito dal 2 per cento del 1948 all’8 per cento del 1951: esattamente 1.347.963 voti annullati o nulli. I voti validi sono 15.005.376. In totale le schede bianche dovrebbero ascendere ad oltre 900.000. Non sono in grado di autorizzare o di associarmi all’autorizzazione che si è presa l’onorevole Donati di ritenere che queste sono rappresentate da lui o dalle sinistre. Ad ogni modo, quali sono le cifre di questi risultati parziali? La Democrazia cristiana ha riportato 5.830.138 voti, pari al 38 per cento; il Partito comunista 3.183.933 voti, pari al 21 per cento; il Partito socialista 2.126.155 voti, pari al 14,2 per cento; gli indipendenti di sinistra 259.012 voti, pari all’1,7 per cento. Bisogna però dire che la Democrazia cristiana non si è presentata in 164 collegi provinciali, nei quali il 18 aprile aveva riportato oltre 700.000 voti. Può, invece, farsi il confronto coi voti ottenuti dal fronte del popolo, perché le sinistre hanno presentato candidati in tutti i collegi. Si ha così la sorpresa di vedere (onorevole Togliatti, a cosa porta la revisione dei conti!) che, nonostante lo sbandieramento dell’avanzata delle forze socialcomuniste, esse hanno perduto, in confronto al 18 aprile, intorno a 131.000 voti. Infatti, contro i 5.700.000 voti del 1948, i voti attuali sono 5.569.100. La Democrazia cristiana, da sola (queste cifre vengono stampate e le potrete contestare se le troverete contestabili), ha ottenuto sempre più voti di tutto lo schieramento di sinistra, poiché la Democrazia cristiana ha ottenuto 5.830.138 voti di fronte alle sinistre (comunisti, socialisti e indipendenti), che ne hanno ottenuto 5.569.100. (Commenti all’estrema sinistra). La coalizione del 18 aprile (democristiani, socialdemocratici, repubblicani, liberali) ha ottenuto per le elezioni 8.372.036 voti, pari al 55,9 per cento. Dunque, il fronte delle sinistre ha ottenuto 5.690.100 voti, pari al 37 per cento. Cioè abbiamo il 37 per cento, se sommiamo tutto, di fronte al 55,9, quasi il 56 per cento. Queste cifre vanno affermate perché da esse si è voluto dedurre che non possediamo più la maggioranza nel paese, anzi che la maggioranza sarebbe dei partiti di sinistra. I riferimenti alle percentuali del 1948 fatti dai socialcomunisti non sono esatti perché, mentre in campo nazionale il fronte popolare ottenne nel 1948 il 31 per cento dei voti, nelle zone in cui si è votato nelle recenti amministrative ebbe oltre il 34 per cento. Che cosa voglio dire con questi dati? Voglio dire che bisogna contestare le conclusioni cui è arrivato l’onorevole Togliatti e che abbiamo diritto di contestarle in base proprio ai risultati delle elezioni. Ad ogni modo, chi può negare che lo scopo per il quale siamo andati alle elezioni è stato quello di rinnovare i comuni? Lo scopo era di raggiungere delle maggioranze di amministrazione più compatte e più omogenee nei comuni. Lo scopo fu raggiunto, in quanto i socialisti hanno perduto 714 comuni, la Democrazia cristiana apparentata ne ha guadagnati 748 e le liste di altri partiti ne hanno perduti 39. Questa è una circostanza di fatto che volevo fare precedere per quello che seguirà. sansone. Bisogna vedere i modi. De Gasperi. Un’altra osservazione preliminare vorrei fare al discorso dell’onorevole Togliatti. Ad un certo punto egli ha detto che io avrei inaugurato la campagna elettorale parlando dei comunisti come di gente inumana, quasi diavoli. Non so dove ha preso questa notizia. Evidentemente da uno dei suoi giornali perché, debbo rendere questa giustizia ai giornali che stanno vicino a voi, specialmente lI Paese, sono giornali che falsificano volentieri le notizie e le portano in forma tale che non sono corrispondenti a verità. ToGliaTTi. Si tratta del suo discorso a Trento. De Gasperi. Ho detto nel mio discorso di Trento, di cui ho il resoconto stenografico: «parlo di un fantasma organizzato dall’alto al basso» . Non è vero che ho iniziato la campagna elettorale negando ai comunisti la qualità di persone umane. Ma è vero che in quel discorso prevedevo che non si potranno ridurre le forze comuniste; è vero che ero piuttosto pessimista a tal riguardo, ma che tuttavia pensavo che le elezioni si dovevano fare, perché era un dovere imposto dalla Costituzione, e in secondo luogo perché lo scopo fondamentale era quello di rinnovare i comuni e non di contare su un numero maggiore di nuovi suffragi. Comunque io non ho subito nessuna sorpresa al riguardo. sansone. Alcide ha sempre ragione!… DomineDò . Quasi sempre. De Gasperi. Non c’è che da leggere i miei discorsi. Mi si permetta ora una parola sul cosiddetto fronte anticomunista contro il quale si è rivolto l’onorevole Togliatti. Io dico che il fronte anticomunista, nello stesso senso nel quale si dice «fronte popolare», cioè blocco, non esiste. L’anticomunismo è uno schieramento temporaneo fatto sotto un certo impulso di necessità di difesa; ma l’atteggiamento dei singoli partiti in confronto al comunismo è diverso. Vi sono i riformatori sociali, i quali pongono l’accento sopra l’opera di rinnovamento che bisogna fare per resistere all’avanzata comunista; vi sono invece coloro i quali vogliono difendere semplicemente le posizioni acquisite; vi sono poi altri che dicono che il metodo vero non è questo, ma che bisogna ritornare al manganello per avere veramente un risultato efficace. Invece è giusto giudicare questo schieramento non da un punto di vista negativo, ma dalla considerazione che i diversi partiti hanno dello Stato democratico, del programma e della linea che essi debbono seguire. Il programma e la linea positiva sono la democrazia, cioè sistema di libertà con un Parlamento e una Costituzione in cui vi è posto per ogni evoluzione, anche socialista, purché si arresti dinanzi alle libertà fondamentali. Questo è il linguaggio di uomini politici e fu linguaggio nostro: direttive e doveri per poter vivere insieme con reciproca tolleranza. Questa è la nostra divisa politica. Se da altre cattedre, rivolto a chi ha e vuole avere una comunione intrinseca di spiriti, viene anche un appello a un’altra disciplina interiore, questo non riguarda la Costituzione e nemmeno la politica. Debbo dire però, di fronte a quello che si è affermato qui, ma specialmente agli attacchi che si sono verificati nell’altra Camera, che non bisogna dimenticare come la stessa Chiesa cattolica sia allarmata per la sua esistenza a causa degli esempi che si susseguono giorno per giorno. È di ieri un telegramma (non dico una cosa vecchia ma nuovissima) da Tirana, che informa come sia stato emesso un decreto che separa da Roma la Chiesa cattolica albanese e nazionalizza il clero. (Commenti all’estrema sinistra). Io voglio spiegare il perché di una situazione. Non è possibile che voi siete internazionali quando giova alle vostre tesi, per rifiutare poi confronti della politica internazionale quando vi sono contrari. (Applausi al centro e a destra – Interruzione del deputato Nenni). È inutile farmi queste obiezioni, onorevole Nenni. Ella è complice, responsabile di tutta questa situazione internazionale, (applausi al centro); a meno che non avvenga quello che non è mai avvenuto, cioè che lei e l’onorevole Togliatti dichiarino di deplorare una tale situazione e di separare completamente la loro solidarietà di fronte a questi avvenimenti. (Applausi al centro e a destra – Interruzione del deputato Nenni). Mi riferivo ad attacchi che sono stati fatti al Senato (un po’ anche qui, ma particolarmente al Senato) contro la Chiesa cattolica, e ho cercato di spiegare, con quanto avviene, il perché di questo atteggiamento. (Commenti). È vero, ciò riguarda la Chiesa cattolica, ma riguarda anche la libertà religiosa, che è uno dei diritti sanciti dalla Costituzione. (Vivi applausi al centro e a destra – Interruzioni all’estrema sinistra). Il corso e il metodo della bolscevizzazione nei paesi dove siete riusciti, con l’appoggio delle armi bolsceviche, a conquistare il potere, ci dicono quale sorte attenderebbe anche noi. Perciò difendiamo la libertà. Voi minacciate la «crisi rivoluzionaria» (nuova frase con la quale l’onorevole Togliatti evidentemente allude ad un fatto insurrezionale) se non troverete un Kerenskij o un gruppo di partiti che, in nome della distensione, vi apra le porte. ToGliaTTi. Kerenskij è lei. (Commenti). De Gasperi. Onorevole Togliatti, se posso con un’affermazione personale contribuire alla distensione e al chiarimento (perché conoscersi è sempre bene), per poter arrivare a qualche conclusione, dirò che io potrò essere qualunque cosa, ma né Kerenskij, né Facta. Su questo non vi e dubbio! (Vivi applausi al centro e a destra). clocchiaTTi. Lo diventa senza saperlo. De Gasperi. Ad ogni modo, voi siete liberi di svolgere quella attività politica, sindacale, organizzativa, che non concedereste a nessun partito in altri regimi. Che cosa rispondereste voi ai partiti minoritari che, in uno dei regimi dove voi siete maggioranza, vi domandassero la distensione, nel senso di una maggiore libertà d’azione dei partiti? Non vi è tensione, se si obbedisce alle leggi; la tensione viene dal fatto che voi volete esercitare nel paese una tenace erosione, una tenace lotta contro quanto decide il Parlamento. Voi lo avete fatto per quanto riguarda il Patto atlantico, per quanto riguarda perfino la legge agraria, e in certe agitazioni avete l’aria di assumere questo atteggiamento in permanenza. In realtà, voi non conoscete le regole della democrazia: maggioranza che governa e minoranza che controlla. E vi richiamate ad una specie di origine precostituzionale e insurrezionale e pretendete per questo il potere politico, soprattutto per fare dell’Italia uno Stato alla stregua, come ha detto Saragat, della Polonia. Ecco la vera tensione, ecco la vera ragione di tutto. Bisogna che ci intendiamo. Se sbagliamo, ditecelo. Ma è per questo che c’è tensione, ed è per questo che c’è la nostra resistenza. Se sbagliamo, dimostrateci che sbagliamo. Voi dite che le nostre paure sono fantastiche: dateci delle garanzie, dateci delle prove che non volete questo, che ci aiuterete a non più temere, che ci aiuterete a combattere il timore, che sosterrete lo Stato democratico e la libertà di tutti. Dateci queste garanzie, ed allora si potrà cominciare a parlare veramente di collaborazione. Ma io sono d’accordo con l’onorevole Togliatti: la distensione interna non è possibile senza una distensione internazionale. Fate capire che questa distensione internazionale si avrebbe se i socialcomunisti fossero al governo insieme. Ma ci siamo stati insieme, e proprio allora non abbiamo risolto la questione di Trieste, e non siamo entrati all’ONU. Ricorderò più precisamente nella cronaca i fatti; farò questo perché mi è parso che l’onorevole Nenni, nel suo suggestivo discorso, non ha mai seguito attentamente questa cronologia. Ad ogni modo, se è vero questo, se è vero che la distensione interna non si può avere che in un quadro di distensione internazionale, allora noi ci associamo al vostro desiderio non soltanto della pace in generale, ma soprattutto del collocamento dell’Italia in una situazione che corrisponda ai suoi diritti e ai trattati. Aiutateci, voi che siete così potenti, che potete telegrafare a tutti i ministri del mondo, che avete relazioni intime col più grande Stato socialista, aiutateci, dite una parola perché ci lascino entrare nell’ONU dove sosterremo la causa della pace. (Vivi applausi al centro e a destra – Proteste all’estrema sinistra – Interruzione del deputato Laconi). Un secondo lato della questione, che mi pare io debba richiamare alla vostra attenzione, quello che ha formato argomento di attacchi da parte dell’onorevole Togliatti alle dichiarazioni che io ho fatto al riguardo delle nostre azioni all’estero, è il seguente: secondo una prassi sempre seguita, devo dire, da tutti i partiti, io posso pensare ad un uomo come l’onorevole Orlando che si rifiuta in modo sdegnoso di firmare il trattato, ma che prima di parlare o, comunque, di agire per quanto riguarda Trieste, ha sempre sentito il dovere di parlare per conto del suo governo, perché il governo italiano è sempre anche il suo governo, anche per l’opposizione. Invece voi credete (e questa è una nuova concezione che mettete in pratica) di poter fare una diversa politica, non dico di pensare, discutere, esporre, ma dico di fare, di intervenire per una diversa politica. Ora io credo che questo non è tollerabile con lo spirito della Costituzione. Non voglio darvene tanti esempi, mi limito soltanto a due. Di fronte ai partiti socialisti o comunisti internazionali, in che modo presentate il vostro paese o il vostro governo? Ecco qui, fra tanti, un telegramma della segreteria del Partito comunista a firma di Palmiro Togliatti al partito spagnolo: «cari compagni anche in Italia oggi la reazione stimolata dall’imperialismo americano colpisce i nostri migliori elementi assassinandoli sulle piazze o gettandoli in prigione… (Commenti al centro e a destra). Ai contadini affamati che vogliono la terra e vanno ad occuparla per lavorare, agli operai disoccupati che chiedono lavoro il governo dei traditori della democrazia asserviti all’imperialismo oppone la violenza dei suoi reparti armati…». Alla fine si parla, non so con che pretesto, della «ignobile tresca dei nostri governanti con il bieco carnefice della democrazia spagnola». In verità io non ho mai trescato o danzato con questo «carnefice». Qui, è vero, non siamo nel campo dell’azione diplomatica. Ecco però un altro esempio in cui si è verificato un vero e proprio intervento diretto dei comunisti nell’azione politica del paese. Non creda l’onorevole Togliatti che io mi riporti al suo contratto con Tito per Gorizia e Trieste; no, parlo di cose più recenti. Il 16 giugno arriva in Italia il cancelliere tedesco Adenauer. (Rumori all’estrema sinistra)… Una voce all’estrema sinistra. Buono, quello!… De Gasperi. Buono o no, Adenauer è il cancelliere della Repubblica federale di Bonn che rappresenta l’enorme maggioranza della Germania democratica. (Applausi al centro e a destra). Egli è, inoltre, un cancelliere parlamentare e democratico, e come tale ha il diritto di venire a farci visita. (Interruzioni all’estrema sinistra). Era una visita di cortesia e noi dovevamo accoglierlo con altrettanta cortesia, trattandosi, ripeto, del rappresentante di una Repubblica democratica che ha aderito all’Unione europea e anche di un uomo che era sempre stato contrario al regime nazista e che, come tale, era stato anche tre volte confinato in campi di concentramento. Voi, però, dimenticate tutto questo e scrivete all’antagonista di Adenauer, cioè al capo della Repubblica popolare della Germania orientale, il seguente telegramma: «in questi giorni ha luogo, qui a Roma, un incontro tra Adenauer e De Gasperi, spinti dall’imperialismo americano a tramare nuovi intrighi contro il benessere e la pace del popolo italiano e del popolo tedesco. In questo momento desidero assicurare gli operai, i lavoratori e tutti i buoni patrioti e amici della pace in Germania che la grande maggioranza, la parte attiva del popolo italiano è contraria a questi intrighi. Noi siamo per la rinascita e il consolidamento di una Germania democratica, ma tutto il popolo italiano è decisamente contrario alla risurrezione del militarismo tedesco al servizio dell’imperialismo americano… (Commenti all’estrema sinistra). Nonostante tutte le intimazioni e gli imbrogli del governo clericale, quasi il quaranta per cento degli elettori italiani si è raccolto nelle recenti elezioni intorno ai partiti che lottano per la difesa della pace. Queste forze di pace sono decise a far fallire i piani criminali degli imperialisti americani e non lasceranno che l’Italia partecipi all’aggressione contro l’unione Sovietica e salutano il popolo tedesco e gli augurano nuovi successi…». (Applausi all’estrema sinistra – Commenti al centro e a destra). Vi prego di ascoltare la risposta di Pieck, pubblicata, naturalmente in evidenza, da l’Unità: «in risposta al vostro telegramma, vi prego far sapere al popolo italiano che il signor Adenauer non ha assolutamente alcuna autorità per parlare a Roma a nome del popolo tedesco». (Si ride al centro e a destra – Commenti). Ed ascoltate la finale: «siate certi che tutti i tedeschi amanti della pace si sentono solidamente legati alla lotta dei partigiani italiani della pace contro il terrore e le manovre ingannevoli del governo De Gasperi…» . invernizzi GaeTano. Viva la Germania democratica! (Proteste al centro e a destra). paGanelli . Vergognatevi! (Rumori all’estrema sinistra). De Gasperi. «In questi sentimenti di solidarietà i popoli italiano e tedesco distruggeranno gli accordi militari che De Gasperi e Adenauer discutono in privato per ordine degli americani». Anche questo signore, che nella sua mente e nella sua veste rappresenta uno Stato, io lo rispetto; ma non so quali informazioni egli abbia su intrighi o su accordi che non ci sono assolutamente stati né sono avvenuti; né Togliatti aveva alcun pretesto di supporre che siano avvenuti. L’Italia è, insieme con gli altri Stati europei, in trattative e in discussioni circa l’esercito europeo, alle quali la Germania partecipa, e non farà intrighi particolari o particolari accordi militari. Quell’affermazione è, quindi, del tutto gratuita. (Applausi al centro e a destra – Commenti all’estrema sinistra). Ad ogni modo, onorevoli colleghi, io ho dovuto rilevare questi fatti – ma non sono i soli! – per dirvi che sostengo, e spero che la maggioranza del Parlamento sia della stessa opinione come credo lo sia la maggioranza del popolo italiano, che questi metodi non sono compatibili con lo spirito della Costituzione, poiché, si voglia oppure no, esiste una politica estera la quale è la politica del Parlamento italiano nella sua maggioranza, e del governo che la rappresenta. Non esiste una seconda politica, non è possibile una seconda politica. (Applausi al centro e a destra). sansone. È un nuovo diritto internazionale!… (Proteste al centro e a destra). De Gasperi. Io sono, purtroppo, persuaso che Togliatti non sia di questo parere: ce lo ha detto anche l’altro giorno, e credo che questa opinione non rimanga soltanto teoretica; dobbiamo dunque trovare un modo di metterci d’accordo sopra questa azione, se voi credete opportuno di metterci d’accordo; altrimenti noi dovremo assolutamente trovare delle dichiarazioni, degli impegni o delle sanzioni che dimostrino ben chiaramente da che parte sia la responsabilità. (Applausi al centro e a destra – Interruzione del deputato Togliatti). Ho bisogno ora di completare questa esposizione di politica estera passando all’onorevole Nenni; ma prima vorrei pregare lo stesso onorevole Nenni di prendere atto di una cifra. Egli ha parlato di 91.433 (novantamila come cifra arrotondata) presunte «vittime della reazione governativa». Ne ha parlato sulla fede di un foglietto diffuso dal Partito comunista durante le elezioni. Ma noi abbiamo fatto accertamenti, e nell’elenco di 13.748 persone – e quindi non 90 mila – sono compresi gli imputati della «volante rossa», imputati di omicidi e di altri crimini, autori di uccisioni di agenti di pubblica sicurezza, e i detentori di armi, quasi sempre comunisti, o che hanno provenienza comunista, tutte persone che vediamo indicate tra le «vittime della reazione governativa». Non so se all’onorevole Nenni faccia o no piacere: aggiungerò che nel numero sopra indicato gli iscritti al suo partito rappresentano una trascurabile minoranza: si possono contare sulle dita di una mano. E questo gli dà il diritto di non assumere il patronato almeno della cifra, mi pare. lizzaDri. Non ci crediamo. De Gasperi. È una cifra che ho avuto dal Ministero della Giustizia; non so a quale ufficio statistico debba rivolgermi, non certo a quello della Confederazione generale italiana del lavoro. (Interruzione del deputato Lizzadri) presiDenTe. Onorevole Lizzadri, la prego di non interrompere. De Gasperi. Vorrei accantonare altre questioni, a cui l’onorevole Nenni ha accennato; l’affermazione, cioè, che nel sistema degli aiuti americani – attraverso l’ECA – in avvenire gli americani tratterebbero non direttamente con lo Stato, ma con le imprese industriali e commerciali e con le organizzazioni operaie di ciascun paese. L’onorevole Nenni ha affermato: «tale trasformazione è intollerabile». E dico io: sì, sarebbe intollerabile, ma la cosa non sta così. Ella, onorevole Nenni, si è fondato sopra notizie di giornali; ma io le ho controllate, e le ho controllate chiedendo informazioni ufficiali; non le faccio torto di essersi fidato dei giornali, ma bisogna controllare le notizie. Ho chiesto all’ambasciatore americano notizie e informazioni ufficiali ed interpretazioni legittime di queste dichiarazioni. Il telegramma è il seguente: «la stampa ha notevolmente deformato ed amplificato dichiarazioni Foster, secondo cui organizzazione amministrativa ECA, comportando istituzione uffici produzione, porrà maggiormente l’accento sopra problemi produzione e produttività. Esperti verranno conseguentemente messi a disposizione industria per risolvere problemi specifici». Foster aveva dichiarato testualmente: «come in passato, l’ECA lavorerà solamente col pieno consenso e con la cooperazione di singoli governi». Questo è doveroso; ne prenda atto insieme con i suoi amici dell’opposizione. Non bisogna fondarsi sopra notizie di stampa. Ora vengo alle linee principali della esposizione dell’onorevole Nenni. Egli si è lamentato, da principio, che abbiamo formulato linee programmatiche da visione apocalittica, da mito, improntate ad un anticomunismo programmatico, e mi ha chiamato il clericale della politica atlantica, mi ha accusato di certo imperialismo missionario, dicendo che io avevo parlato del Patto atlantico, della assoluta lealtà al Patto atlantico senza aggiungere – ed in questo errore sono caduti altri, che non hanno letto attentamente il periodo della mia dichiarazione – senza aggiungere che avevo detto, parlando di consolidamento e di fedeltà al Patto atlantico, che questo non deve, però, essere una semplice comunità difensiva militare, ma anche una solidarietà economica, una solidarietà dinanzi ai nostri problemi di giustizia internazionale e, soprattutto, di giustizia sociale. In fondo, questa interpretazione approfondita non era semplicemente un impegno da parte nostra (certo, era anche un impegno, perché penso che in politica estera bisogna dare sensazione di lealtà, specialmente dopo quello che è avvenuto), ma voleva dire soprattutto che c’è una logica interiore nel Patto atlantico, della quale logica gli alleati hanno il dovere e il diritto di preoccuparsi. Ed aggiungevo (prego l’onorevole Saragat di prestare attenzione a questo; gli è sfuggito, nonostante la particolare benevolenza con cui ha giudicato questo passo; forse gli è sfuggito perché c’è un errore di stampa: si parla di «esso» invece che di «essa») aggiungevo, parlando del Patto atlantico immesso ed inquadrato nella organizzazione dell’ONU: «se tutte le nazioni ad essa associate vorranno – si legge «esso» in qualche parte; per cui aveva ragione l’onorevole Saragat a non comprendere come ci fosse qualcuna fra le nazioni associate non d’accordo – sarà quello che ci porterà veramente sulla strada della salvezza, per ottenere, accanto alla sicurezza, la garanzia di pace». Ora, anche per il concetto della universalità dell’ONU, come ho detto altre volte, la mia opinione è che, se l’ONU esiste, esiste per tutte le nazioni, a cominciare dalla mia perché la mia, oltre a corrispondere alle qualità morali per far parte dell’ONU, ha anche una ragione ed un impegno giuridico che è contenuto nel trattato ed è questo impegno che noi dobbiamo far valere. Ma la tesi dell’onorevole Nenni, in fondo, è questa: la causa della tensione interna ed esterna è il vostro contegno negativo di fronte alla Russia. In altre parole, la nostra difesa contro il bolscevismo «missionario» ed aggressivo giustificherebbe l’intervento negativo della Russia contro l’Italia. Questo, onorevole Nenni, è veramente un rovesciamento della storia e della cronaca, che non mi pare ammissibile: è la solita favola del lupo e dell’agnello. Ricordo anzitutto che la Russia ha ripetuto per sei volte il veto contro l’ammissione all’ONU, prima e dopo il Patto atlantico. Noi avevamo eseguito il trattato, consegnato le navi, stipulato accordi di amicizia e di commercio, ceduto la villa Abamelek, già appartenente alla Lituania, villa situata in Roma ed alla quale i russi tenevano molto. Era pieno nostro diritto aderire al Patto atlantico; ma se l’adesione al Patto atlantico dovesse giustificare qualsiasi rovesciamento contro di noi, cosa dovrebbero dire gli altri Stati di fronte ai patti che la Russia ha stretto con i satelliti, patti che sono più rigidi ed automatici del Patto atlantico, che automatico non è? L’onorevole Nenni in un suo articolo (e lo ha ripetuto anche nel suo discorso) si è compiaciuto di citare le due note ai quattro ministri degli Esteri, rispettivamente del 30 novembre 1946 e 4 gennaio 1947, le quali portano la sua firma, dato che egli allora era ministro degli Esteri. Però egli ha omesso di ricordare che, in data successiva (il 10 febbraio 1947), il ministro Sforza ha inviato ai quattro ministri degli Esteri e a tutti i governi firmatari del trattato di pace una nota, subito dopo la ratifica del trattato stesso, nota che così concludeva: «come italiani e come cittadini del mondo rivendichiamo per l’avvenire il diritto di contare sopra una revisione radicale di quanto può paralizzare la vita di una nazione di 45 milioni di esseri umani, congestionati su un territorio che non li può nutrire». Comunque, l’indirizzo dell’onorevole Sforza costituì una continuazione di quello che ella fece, stabilendo così una continuità nella politica estera. Ella però ha dimenticato di citare la risposta di Molotov, arrivata, per la verità, dopo che lei aveva lasciato il ministero. Comunque, quella fu una risposta inviata alla sua nota. Il ministro Molotov rispondeva alla proposta di una revisione del trattato di pace in questi termini: «il Ministero degli Affari Esteri dell’URSS, per incarico del governo sovietico, dichiara che esso non può essere d’accordo con la valutazione del trattato di pace con l’Italia data dal governo italiano e deve respingere l’accusa di iniquità del trattato di pace contenuta nella nota italiana». Questo in data 19 febbraio 1947, cioè prima che vi fosse l’ipotetico rovesciamento della nostra politica estera, come sostiene l’onorevole Nenni. La prego, onorevole Nenni, di controllare queste date: vedrà che corrispondono alla realtà. (Interruzione del deputato Nenni). Bisogna integrare il quadro con tutti gli elementi, uno dei quali è questo che ho citato. Lo stesso Molotov accentuò il carattere perentorio di tale nota in un colloquio con il nostro ambasciatore Quaroni, in cui ribadì che il governo di Mosca riteneva che il mondo avesse bisogno di tranquillità, e premessa necessaria di tale tranquillità era che i trattati di pace fossero considerati definitivi. Quindi, fin da allora il governo di Mosca si opponeva a qualsiasi revisione, né in seguito è intervenuto nulla che possa far ritenere siano sopraggiunti mutamenti nell’atteggiamento sovietico su questa questione. Pertanto non è il nostro contegno negativo che giustifica il rovesciamento di un tale atteggiamento, ma siamo dinanzi ad un atteggiamento negativo della Russia che spiega il nostro comportamento. Identica è la storia per Trieste. L’unico episodio revisionista, sia pure solo come tesi, è costituito dalla dichiarazione tripartita per Trieste, che fu una constatazione, da parte di tre delle grandi potenze, della inapplicabilità del trattato e la proposta della restituzione dell’intero territorio libero all’Italia. Se in quel momento la Russia, alla quale la proposta venne presentata, avesse aderito alla proposta revisione (non v’era ancora il Patto atlantico, non vi era ancora lo scisma di Tito)… sansone. Ma ella era stato a New York! De Gasperi. …anche gli stessi dichiaranti, che voi dite in mala fede, si sarebbero trovati nella condizione di dover procedere oltre. Inoltre, ripeto, lo scisma di Tito non si era ancora verificato, e grande era l’influenza di Mosca su Belgrado, né si può escludere a priori un seguito concreto alla proposta. Alla costituzione del territorio libero è ben noto che si è arrivati solo come misura di compromesso delle potenze occidentali verso le pretese sovietiche in favore della loro «grande democrazia popolare jugoslava», come diceva Molotov. Sarà inutile ricordare le mie proteste alla conferenza di Parigi contro questo mostro del territorio libero. «Voi create – io dissi – uno Stato che sarà la discordia perpetua tra gli slavi e gli italiani, uno Stato che non potrà vivere, e avrete una questione sempre accesa». Che cosa mi ha risposto il 14 agosto 1946 il ministro degli Affari Esteri sovietico, Molotov? Egli disse: «voi avete sentito che il signor De Gasperi ha concentrato la sua attenzione sulla giustificazione delle pretese italiane che riguardano la parte occidentale della Venezia Giulia compresa la città di Trieste. Il capo della delegazione italiana ha imperniato il suo discorso sulle pretese sull’Istria occidentale e su Trieste, ma io non posso riconoscere che queste pretese rappresentino la voce della nuova Italia democratica. No, è proprio l’opposto che è vero. Non si tratta di altro che della ripetizione delle vecchie pretese annessionistiche dell’Italia su territori altrui che appartengono agli slavi da tempo immemorabile». (Commenti al centro e a destra). Il 5 settembre 1946 Vysinskij ribadì, in risposta all’appassionante difesa dei diritti dell’Italia sulla Venezia Giulia fatta dal compianto onorevole Bonomi, con queste parole: «quali sono dunque i motivi che spingono l’Italia a non accettare l’incorporazione di Trieste alla Jugoslavia o anche la creazione dello Stato libero? Ebbene, questi motivi sono unicamente suggeriti dal desiderio di appropriarsi di territori estranei». (Commenti al centro e a destra). Dunque, se l’Unione Sovietica voleva esserci veramente amica e volesse oggi esserci veramente amica, non ha che da provocare la distensione, non ha che da recedere da queste posizioni ostili assunte verso la nazione italiana e aderire alle iniziative prese dalle Potenze amiche in nostro favore. Anche l’affermazione dell’onorevole Nenni che il territorio libero di Trieste non si è potuto organizzare per gli ostacoli frapposti dal governo italiano, è contraria alla realtà dei fatti. È vero, non ci credevo, nessuno può credere che veramente questo territorio libero possa vivere di per sé, ma ostacoli noi non ne abbiamo posti. La questione venne dibattuta sempre all’ONU, che non poté trovare un governatore che fosse accettabile dalle due parti. Comunque, è appunto questo che ha fornito giustificazione per l’atteggiamento della dichiarazione tripartita, e l’Unione Sovietica è tornata sull’idea del territorio libero, che aveva lasciata dormire per parecchio tempo, solo quando la dichiarazione tripartita ha reso nuovamente attuale la questione di Trieste. Tale atteggiamento puramente negativo della politica sovietica, indipendente da qualsiasi atteggiamento che avesse adottato il governo italiano verso l’URSS, viene confermato dal fatto che il governo di Mosca si è servito anche recentemente (nelle trattative dei quattro) della insoluta questione di Trieste per altri fini del tutto estranei: ad esempio, per il trattato di pace con l’Austria, che è stato condizionato, come è noto, alla risoluzione del problema triestino. Si deve, dunque, riconoscere che domandare, dopo la dichiarazione tripartita, rimasta inoperante soprattutto per l’opposizione dell’Unione Sovietica, la costituzione del territorio libero, significa seppellire definitivamente la possibilità che ancora rimaneva di una soluzione in tal senso. Del resto, onorevole Nenni, ricordi un po’ quello che fu l’affermazione e la fede del suo passato. Nel suo discorso a Canzo del 13 ottobre 1946, l’onorevole Nenni affermava: «la conferenza ha così accettato la linea francese (per il territorio di Trieste) la quale costituisce un cattivo compromesso fra la tesi anglo-americana e la tesi sovietica, un compromesso il quale dà vita ad un territorio libero di scarsa o nulla vitalità, e lascia insolute, fra noi e gli jugoslavi, questioni vitali, come quella di città italianissime che ci sono strappate, e di minoranze etniche la cui protezione dovrebbe essere assicurata con un atto unilaterale» . (Applausi a sinistra, al centro e a destra – Interruzione del deputato Nenni). Anche la via delle trattative dirette è stata tentata proprio da voi, prima che da noi. Quando Tito non era ancora un reprobo agli occhi di Mosca, gli onorevoli Togliatti e Nenni, infatti, hanno tentato trattative pratiche. Quelle di Togliatti richiamano il fatto di Gorizia, e quelle di Nenni la sua ansia e la sua insistenza presso i nostri rappresentanti all’ONU perché attaccassero discorso con gli jugoslavi per vedere se c’era una possibilità di soluzione. Gli jugoslavi furono assolutamente negativi. I tentativi di Nenni continuati da noi, da Sforza, sempre con lo stesso risultato. Via, non becchiamoci fra noi, come i polli di Renzo; per la verità, non ne abbiamo colpa. Anche se avessimo commesso degli errori – supponiamo per un momento che il Patto atlantico sia un errore, non lo è ma supponiamo che sia così – non è giustificabile però quello che è avvenuto prima del Patto atlantico; l’atteggiamento negativo e ostinato della Russia non è giustificabile con un eventuale ipotetico errore di poi. E non vorrei che i rappresentanti di tendenze più vicine, più simpatizzanti con la Russia – non voglio esprimermi diversamente – dessero pretesto alla diplomazia sovietica di ritenere che la favola del lupo e dell’agnello qui non sia conosciuta. (Commenti al centro). L’onorevole Nenni, poi, ci ha parlato di militarismo germanico. Noi abbiamo dei dati abbastanza sufficienti intorno agli armamenti della parte orientale della Germania, e sappiamo a che cosa sono ridotti gli armamenti della parte occidentale. (Interruzione del deputato Lombardi Riccardo). Non credo quindi che a questo riguardo ci possiamo addentrare in statistiche. In questi giorni ho visto lo spirito – l’ho rivisto, anzi, perché l’avevo visto prima, in un film fatto a posta – del festival di Berlino: tutto era eguale come ai tempi di Hitler, tranne il nome. (Applausi al centro – Interruzioni all’estrema sinistra). L’unico cambiamento, onorevole Nenni, è questo; che il saluto, invece di essere col braccio teso e la mano aperta, è col braccio teso e la mano chiusa: il resto, la camicia, eccetera, è tutto eguale. (Vivi applausi al centro e a destra – Proteste all’estrema sinistra). Una voce all’estrema sinistra. Ella preferisce le birrerie! De Gasperi. Non preferisco le birrerie, no! Onorevole Nenni, ella ha coniato per me una espressione nuova: «il clericale del Patto atlantico». Io vorrei che ella non mi costringesse a coniare per lei l’espressione: «il clericale del bolscevismo», (si ride), perché onorevole Nenni, ella è l’unico capo socialista in Europa che mantiene ancora – non metto in discussione l’onore del socialismo – una posizione della quale non voglio discutere la coerenza, ma che di fatto è contraria alla posizione di tutti i socialisti democratici d’Europa. (Interruzioni all’estrema sinistra). E dico all’onorevole Nenni che girando l’Europa e le capitali d’Europa e trovandomi a discorrere con molti socialisti, al potere o no, mi sono sempre sentito fare una domanda che aveva come del mistero: «ma insomma, che cos’è questo Nenni? Da che dipende che Nenni ha questa posizione?». Domando a coloro i quali come me hanno peregrinato per le capitali d’Europa, se questa non è una domanda frequente. (Si ride al centro). Ed io sapete cosa ho risposto? Io, che ho a cuore la reputazione dell’onorevole Nenni, ho risposto: «c’è sempre speranza». (Si ride – Applausi al centro e a destra – Proteste all’estrema sinistra). Io, nonostante la posizione che ha preso parecchie volte l’onorevole Nenni, non posso confrontare e assimilare la sua figura con quella di Zapotochy il quale nella Pravda del 27 maggio 1951, in un articolo diffuso da radio Mosca e che abbiamo intercettato, per chiudere un periodo di discussioni molto fervide, che erano finite con misure di polizia, in Cecoslovacchia, tra socialisti, stabiliva così la stregua per giudicare gli uomini: «nessuno è in grado di dichiararsi comunista se nega l’aiuto del partito bolscevico, salvaguardia di ogni partito proletario, se incrina i princìpi democratici di Marx, Engels, Lenin e Stalin, se non accetta l’autorità del grande capo dell’Unione Sovietica, Stalin… Il Partito socialista cecoslovacco seguendo le orme del partito bolscevico ha messo a tacere tutti i traditori del proletariato cecoslovacco ed internazionale». (Commenti). A me pare di aver dimostrato che il rovesciamento della posizione nella politica estera che l’onorevole Nenni attribuisce a noi, in realtà non esiste. Noi abbiamo tentato invano, purtroppo, nel primo periodo delle trattative di pace e negli anni seguenti, prima ancora di concludere qualsiasi patto di alleanza con le potenze occidentali, di trovare equità, equanimità, comprensione presso l’Unione Sovietica. Non l’abbiamo trovata: non l’abbiamo trovata quando eravamo con Togliatti, non l’abbiamo trovata senza Togliatti. Mi pare che l’esperimento di collaborare di nuovo con Togliatti possa essere fatto soltanto quando la premessa venga mutata; cioè che i cambiamenti avvengano nella politica estera in modo che si possa dire che la distensione estera è il quadro naturale in cui una distensione interna possa avvenire. E ora passo all’onorevole Saragat. L’onorevole Saragat, in una critica molto benevola, però tale che non può naturalmente soddisfarmi (ed è chiaro, perché egli doveva giustificare una posizione di astensione e non di favore), ha detto: «nelle dichiarazioni di De Gasperi è mancata la più ampia prospettiva per il futuro verso la coalizione degli Stati europei che potrebbe rendere il Patto atlantico uno strumento inutile nell’auspicata distensione internazionale». Io avevo detto nelle mie dichiarazioni: «bisogna consolidare, sviluppare, approfondire questa alleanza che associa il nostro paese ai destini della democrazia europea e di quella d’oltremare», e più oltre: «ecco che il problema europeista ed il problema atlantico non devono essere concepiti come qualche cosa di avulso dal problema nazionale italiano, ma come contributi allo sviluppo di esso». L’onorevole Saragat avrebbe dovuto, nel suo discorso, presupporre la continuità della politica governativa: tutto il ministero aveva accettato lo spostamento avvenuto nel quadro di una continuità politica che qui io ho professato; e non credevo necessario riesporre tutto un programma che qui è abbastanza noto. Ma come? Avevo bisogno di dire all’antico ambasciatore a Parigi, dopo i lavori svoltisi a Santa Margherita, dopo il lavoro svolto a Londra dove abbiamo insistito presso Morrison, mi pare con qualche effetto, dell’inserimento nel Patto atlantico, nella nuova organizzazione europea, delle nostre vedute europeiste? Si può dubitare di questa nostra tendenza, si può dubitare della nostra fede nella ricostruzione dell’Europa? Solo le difficoltà di calendario hanno del resto impedito che qui a Roma si continuasse tale opera costruttiva insieme con gli amici inglesi: abbiamo però presentato alle Camere il piano Schuman, che è un fatto essenziale. Io vorrei che ogni governo potesse vantarsi di aver raggiunto – è un piccolo contributo nostro, ma è un contributo innegabilmente notevole, perché certe volte i mediatori devono essere più abili, più fortunati delle parti stesse – di aver raggiunto, dicevo, un fatto caratteristico, il fatto concreto dell’unione europea. Stiamo trattando anche dell’esercito europeo. Voi lo studierete: il relativo disegno di legge è già stato presentato al Senato. Voi vedrete la profondità di quello strumento. Ma quella è l’Europa, quella è creazione. È un fatto: non c’è bisogno di un programma. Ma se un fatto recente può dare caratteristica alla nostra politica, basta ricordare l’incontro con Adenauer. Nel comunicato si dichiarava: «nel corso dei colloqui sono stati esaminati tutti i problemi comuni ai due paesi, nello spirito di una sempre più seria organizzazione europea, spirito che così profondamente anima la politica del governo italiano, come quella del governo federale. L’onorevole De Gasperi da parte italiana ha riaffermato il desiderio di vedere al più presto la Germania reintegrata nella famiglia dei popoli liberi, per poter meglio contribuire alla causa della democrazia e della pace, in stretta unione con gli Stati interessati all’organizzazione e alla difesa della libertà e della pace. Il cancelliere da parte sua ha riconfermato la sua convinzione che la soluzione dei problemi attuali non potrà essere raggiunta senza superamento degli angusti nazionalismi e senza collaborazione di tutti i liberi popoli europei, collaborazione che ha già trovato la recente conferma ed espressione nella firma del piano Schuman. In quest’ordine di idee è stata riconosciuta una identità di vedute nel campo economico, sociale, culturale». E nel telegramma di congedo, il ministro degli Esteri riaffermava ancora «la nostra identità di vedute per una politica di pace, di libertà in Europa. Come me ella pensa – scriveva – risolvendo insieme con gli altri popoli d’Europa, con intima comprensione, i problemi della nostra civiltà, che è l’ideale più nobile e più antico della nazione italiana». Ed io stesso parlavo della difesa della pace e della democrazia in Europa, lieto della comunità di vedute che sola può salvarci dai ritorni di fiamma dei vecchi nazionalismi, come dall’insidia dei nuovi totalitarismi. Questa è la nostra opera per la salvezza dell’Europa. In altro punto, l’onorevole Saragat vede uno slittamento verso destra del programma governativo. Non so dove intraveda questo slittamento. M’è parso invece che egli abbia dimenticato di menar vanto, come ne avrebbe avuto il diritto, di quello che abbiamo fatto insieme con partiti ricostruttivi e riformatori e di cui, in fin dei conti, egli ha menato vanto durante la campagna elettorale. Ed abbiamo anche maneggiato la ramazza nei confronti della criminale speculazione sulla valuta e fu merito principale dell’onorevole Lombardo, che ne ebbe anche l’iniziativa. Si fecero anche grossi arresti nel campo degli speculatori sul capitale; ricordo quelli avvenuti a proposito della Nebiolo. E si può negare che, invece di fare un programma (anzi, non fare un programma, perché il programma c’è già), di riesporre un programma di riforma tributaria, c’è l’azione veramente decisiva del governo e la responsabilità che esso assume di chiedere a tutti la denuncia dei redditi? Questo censimento potrà essere capitale come punto di partenza della giustizia fiscale! Anche confrontandolo col programma del nuovo Partito socialdemocratico, mi meraviglio come l’onorevole Saragat non abbia trovato nella mia esposizione, circa la priorità degli investimenti, i punti che sono paralleli all’ordine del giorno dello stesso suo partito. E poi, come si fa a dire che non abbiamo proprio fatto niente per la disoccupazione? E l’INA-Casa coi suoi 26 milioni di giornate lavorative e l’occupazione media per ogni anno di 100.000 lavoratori, e i cantieri di lavoro che hanno occupato 224.000 disoccupati nell’esercizio 1950-51, e i corsi di riqualificazione professionale per i disoccupati, che hanno occupato 100.000 disoccupati per una spesa complessiva di 6 miliardi e 600 milioni, e i sussidi straordinari ai disoccupati, e la Cassa del Mezzogiorno, e la riforma agraria? (Commenti all’estrema sinistra). Perché vuole l’onorevole Saragat avere dei dubbi circa la riforma agraria che è in cammino? (Commenti all’estrema sinistra). Per i comprensori, i decreti di esproprio sono in corso, a mano a mano che il Consiglio dei ministri si raduna. Sono pacchi di decreti di scorporo che devono essere autorizzati. Siamo nella fase della esecuzione e l’esecuzione continuerà! Perché ci fa il torto di credere che non vogliamo continuare fino in fondo? La teorica della massa consumatrice (qui siamo anche nel campo delle teorie) va benissimo là dove sono le materie prime naturali, ma è di notevole difficoltà là dove le materie prime bisogna importarle. D’altra parte, va messo al nostro attivo anche questo: che, come ho esposto al Senato, dalla relazione recentissima dell’OECE, portata adesso da Parigi dall’onorevole Pella, risulta che lo Stato che ha saputo più resistere all’aumento dei prezzi è proprio l’Italia, e che la vantata politica di contenimento, fatta in Inghilterra, costa 500 milioni di sterline di sovvenzione in prezzi politici. È una strada diversa su cui là si sono messi. Riguardo allo sciopero, l’onorevole Saragat sa (perché ne abbiamo discusso assieme tante altre volte anche in passato: c’è stata sempre una differenza fra la sua opinione, uno o due gradi di differenza, giacché c’è una opinione personale da far valere, oltre che la linea di partito), e noi sappiamo quali sono la possibilità, l’efficacia, la validità di una regolamentazione legale degli scioperi. Ma ad ogni modo è fuori discussione: la libertà di sciopero in generale non si tocca! È solo la questione dei funzionari che va posta, che va veduta da un punto di vista diverso. Non faccio un torto ai funzionari che, trattati male, insufficientemente, in fondo si sono comportati quasi sempre bene, ma ogni tanto non hanno potuto resistere alla suggestione e agli esempi che sono venuti da altre parti e da altre categorie. (Commenti all’estrema sinistra). Però, voglio ricordare ai deputati che tengono più cara la tradizione socialista quel che diceva Turati il 17 agosto 1908, quando, parlando dello stato giuridico degli impiegati, così si esprimeva: «ma se lo sciopero degli impiegati è preveduto dal codice penale! Chi mai ha fatto in Italia lo sciopero fra gli impiegati? I ferrovieri, che in fondo sono operai industriali, che avevano finora tutta la psicologia degli operai industriali. E del resto, lo sapete meglio di me, i ferrovieri sono guariti da quella rosolia scioperaiola nella quale nessuno di noi li ha assistiti. Sebbene non trovi giusto che si faccia lì la strage degli innocenti come si è fatta. A parte i commessi demaniali, questi piccoli impiegatucci privati, non vi fu mai traccia né tentativo di sciopero in Italia fra gli impiegati privati. Mi inganno, vi fu una volta; vent’anni fa i telegrafisti, per un certo loro diritto acquisito, minacciarono lo sciopero in quell’occasione. Il governo intervenne energicamente ed il ministro disse: state tranquilli che vi accordiamo tutto quello che chiedete. Tutte le organizzazioni non fecero mai dichiarazioni che non hanno nessuna intenzione di ammettere fra i mezzi di lotta legittimi per i miglioramenti agli impiegati l’arma dello sciopero. Qui, al primo comizio di Roma, lo stesso Parmigiani, che parlava alla federazione postelegrafonici, una delle più forti federazioni d’Italia, ha detto questo: noi disapproviamo tutti gli articoli della legge tranne uno, l’articolo 14. Di questo non ci occupiamo ed è quello che riguarda lo sciopero. Ora, questo atteggiamento degli impiegati è tanto più significativo in quanto queste organizzazioni hanno, per forza di cose, subito sentito che ben diverso è il rapporto che intercede tra l’operaio e l’industriale dal rapporto che intercede fra lo Stato e l’impiegato, il quale non può fare una lotta contro lo Stato perché la farebbe contro se stesso, perché ha ben altri diritti e doveri e ben altri mezzi di rivendicazione». Eravamo, è vero, nel 1908, ma questa questione si imposta nella stessa maniera ed aggiungo che allora eravamo nel periodo classico del socialismo. Comunque vi presenteremo delle proposte. Intanto dichiaro che avremo la tendenza a ridurre al minimo la regolamentazione, ma quel tanto che è necessario perché l’unità dello Stato democratico valga e perché i funzionari acquistino o riacquistino, laddove l’abbiano perduto, quel prestigio particolare che gli esecutori della legge debbono avere. sansone. Aumentate lo stipendio ed aumenterà il prestigio. De Gasperi.Facciamo anche quello. Ho annunziato già che presenteremo un progetto anche per gli stipendi. L’onorevole Lombardi ha finito di trovare grandi misteri nella impostazione e soluzione della crisi. Ma io ho fatto delle dichiarazioni al Viminale, alla stampa, subito dopo il giuramento, che erano proprio una esposizione, direi sintetica, di tutto quello che era avvenuto. Non vi è nessun garbuglio e non è in questione la dignità della Camera se non si entra in tutti i particolari delle discussioni avvenute. Le cose sono andate così. Le critiche si rivolgono contro l’insufficienza di tempestività o di metodi negli interventi del tesoro. Esaminando bene la situazione, venendo al concreto, abbiamo trovato che queste critiche risalivano non al generale, giacché nessuno ha messo in questione la difesa della lira, né alla buona volontà, ma alla deficiente funzionalità (mi si perdoni la parola) del settore finanziario. Quindi di questo noi proponiamo una nuova struttura, anche qui non improvvisando, ma risalendo a studi fatti in altri momenti e che avevamo in programma di attuare. La discuterete, perché il disegno di legge verrà presentato alla Camera, in una prima o seconda edizione (non lo so ancora), poiché avete deciso di interrompere i vostri lavori. Forse quello che si doveva fare con due leggi lo dovevamo fare in un solo progetto. Ad ogni modo, si è domandato: che cosa fa il ministro del Bilancio? Ripeto quello che ho detto al Senato. Il ministro del Bilancio già fin d’ora dispone dei poteri che gli derivano dalla legge istitutiva del ministero, 4 giugno 1947, dall’incarico di presiedere il CIR in sostituzione del presidente del Consiglio, dall’incarico di partecipare alla direzione dell’organizzazione OECE e nell’ambito dei comitati del credito, del risparmio e del comitato dei prezzi. In base alla legge istitutiva del ministero, il ministro del Bilancio ha generali poteri d’intervento nella politica delle spese (articolo 4). Inoltre è obbligatorio concertarsi con esso per tutte le spese ordinarie di carattere generale a carico del bilancio di più ministeri, qualunque sia l’importo, nonché spese con carattere straordinario a carico di uno o più ministeri quando superano un miliardo (articolo 3). In terzo luogo spetta al ministro del Bilancio di dare preventivo consenso a provvedimenti legislativi di approvazione dei bilanci preventivi e dei rendiconti consuntivi (articolo 2). Mentre con l’accennata legge, in attesa del trapasso degli accennati servizi del tesoro, è già possibile dar vita concreta al coordinamento del settore finanziario, la vicepresidenza del CIR, l’incarico dell’OECE e dei comitati del credito e del risparmio e dei prezzi già consentono al ministro del Bilancio, liberato dal peso di altre incombenze quotidiane, di intraprendere quell’opera di coordinamento economico reclamato con tanta insistenza. Occorrerà, bene inteso, dare esecuzione all’intero programma configurato, trasferendo il più rapidamente possibile, non importa, come ho detto prima, se con uno o con più provvedimenti di legge, al Ministero del Bilancio i servizi della ragioneria generale, della direzione generale del tesoro e anche la presidenza dei due richiamati comitati dei prezzi, del credito e del risparmio. Per quanto riguarda l’Istituto centrale di statistica, la questione non ha importanza, perché già di per sé, anche con l’attuale costituzione, detto istituto è a disposizione del Ministero del Bilancio, come di qualunque altro ministero. Volevo accennare ancora ai monopoli e alle evasioni valutarie. Vorrei ricordare che fin dal 13 luglio 1950 è stato presentato alla Camera dei deputati un disegno di legge di iniziativa governativa per una più stretta vigilanza sulle intese consortili ispirate al criterio di contenere le attività in concorrenza e dare nuovo impulso all’azione statale di controllo dei raggruppamenti monopolistici, al fine di evitare dannose ripercussioni sull’economia nazionale. Quando verrà discussa questa legge (che naturalmente sarà giudicata insufficiente: ma è un primo tentativo) vi sarà anche l’occasione di far valere tutti i singoli punti di vista sul problema formale e su quello sostanziale. Voglio ricordare ancora che il 5 luglio è stato presentato alla Camera dei deputati un disegno di legge che prevede un rigoroso sistema con il quale, ferma restando l’applicazione delle penalità, lo Stato possa cautelarsi nel caso in cui l’operatore, avendo usato per altri fini la valuta estera anticipatagli, non abbia effettuato l’acquisto e la conseguente importazione di merci. All’uopo si dispone che il pagamento anticipato all’estero delle merci da importare è subordinato alla prestazione di una cauzione o fideiussione bancaria, che verrà, totalmente o parzialmente, incamerata dall’erario ove l’importatore non comprovi l’effettiva importazione delle merci. Anche questa legge potrà dare occasione di discutere e deliberare intorno a questa delicata materia, nella quale il governo ha tentato di aggiornarsi, secondo le esigenze attuali, con questo nuovo progetto. Ed ora voglio rivolgermi un momento all’onorevole Di Vittorio. Egli, nel suo discorso di ieri alla Camera, ha affermato: primo, che la disoccupazione aumenta; secondo, che i dati circa la pretesa diminuzione della disoccupazione sarebbero contraddetti da quelli pubblicati dal Ministero del Lavoro circa l’occupazione operaia, che sarebbe diminuita; terzo, che mentre i profitti del capitale sarebbero aumentati, lo stesso non sarebbe avvenuto per le retribuzioni operaie. Disoccupazione. La statistica effettuata dal Ministero del Lavoro concerne gli iscritti alle liste di collocamento che, in base alla legge 29 aprile 1949, sono ripartiti notoriamente in cinque classi. Ai fini della valutazione del fenomeno della disoccupazione è però necessario prendere in considerazione solo le prime due classi, e precisamente i disoccupati già occupati, cioè quei lavoratori disoccupati per effetto della cessazione del rapporto di lavoro immediatamente precedente, e i giovani inferiori ai ventun anni, nonché altre persone in cerca di una prima occupazione o congedate. I dati rappresentano la situazione alla fine di ciascun mese. Dall’esame dei dati statistici riportati nell’allegato si rileva che il fenomeno di cui trattasi ha avuto, nel periodo che va dal secondo semestre 1949 al primo trimestre del 1951, un andamento decrescente, che per altro è stato influenzato dalle ricorrenti cause stagionali. Infatti, mentre nel 1949 la punta minima registrata nel mese di settembre, per la prima e la seconda classe, è stata di 1 milione e 484.189 unità, nell’anno 1950, per il corrispondente mese, è stato di 1.441.671, con una differenza in meno di 43.518. Il miglioramento della situazione del mercato del lavoro trova inoltre conferma nel raffronto dei dati del marzo 1951 con quelli del corrispondente mese dell’anno precedente. Infatti, mentre nel marzo 1951 il numero degli iscritti aumentava, sempre per la prima e la seconda classe, a 1.622.000, nel corrispondente mese del 1950 gli iscritti ammontavano a 1.698.000. La contrazione fra i due mesi in esame e per l’anno 1951 è di 76.000 unità. Occupazione. Bisogna ricordare che la rilevazione statistica dei dati dell’occupazione (gli orari di lavoro e le retribuzioni) che viene fatta mensilmente dall’ispettorato del lavoro riguarda 43 settori dell’industria italiana. Per 13 di essi sono censiti tutti gli stabilimenti esistenti, mentre per i rimanenti 30 l’indagine è limitata agli stabilimenti occupanti almeno 10 operai. L’indagine che si estende a circa 16.500 stabilimenti si riferisce solo agli operai in essi occupati, che sono oltre 1.600.000, i quali non sono tutti gli operai occupati ma rappresentano circa il 50 per cento del totale della occupazione operaia dell’industria italiana. I dati relativi al numero degli stabilimenti, agli operai occupati, al salario lordo, risultano da un prospetto. Da un primo sommario esame si è potuto rilevare che l’occupazione operaia nel dicembre del 1950, rispetto al 1949, registra un incremento di 16.677 unità. La punta massima di occupazione nell’anno 1950 si è verificata nel mese di settembre, nel quale il numero degli operai occupati è di 1.769.000. Tale incremento è solo determinato esclusivamente dal maggior impulso stagionale nell’attività produttiva delle industrie alimentari e anche di quelle connesse all’industria edilizia ed in particolare delle fornaci e dei laterizi. Quanto precede conferma che fra la rilevazione dell’occupazione e quella della disoccupazione vi è una perfetta rispondenza in quanto, mentre in detto mese si è verificato un incremento nella occupazione, si registra per contro una contrazione nel numero dei disoccupati. Quanto al salario risulta che il salario orario relativo al dicembre 1950 ha registrato, rispetto al corrispondente mese del 1949, un aumento di lire 8,45, pari al 5,89 per cento. Vanno naturalmente aggiunti gli ultimi aumenti sugli assegni familiari e il miglioramento della contingenza entrato in vigore nel 1951. Produzione e reddito. L’onorevole Di Vittorio pretende di dimostrare che sarebbe falsa l’asserzione contenuta nel discorso del ministro Pella al Senato per quanto riguarda l’aumento della produzione e l’ascesa dei redditi. Di viTTorio. Non ho usato questa espressione; o sono dati inesatti, o non hanno l’incidenza di cui è stato detto. De Gasperi. A qualsiasi dato ci si voglia riferire la produzione industriale è in aumento. L’indice della produzione è passato da 106 nel 1949 a 119 nel 1950 e a 136 nei primi mesi del 1951. L’indice dell’industria meccanica, sul quale l’onorevole Di Vittorio si è soffermato in modo particolare, è passato da 115 nel 1949 a 123 nel 1950 e a 133 nei primi 5 mesi del 1951. Anche se si fa ricorso alle statistiche dell’ONU (particolarmente care – mi si è detto – all’onorevole Di Vittorio, benché contestate in tutti i paesi) l’indice generale della produzione industriale è in aumento, fra il 1949 e il 1950, da 96 a 109, mentre l’indice della produzione meccanica va da 79 a 84. L’incremento della produzione industriale, quindi, a qualunque fonte statistica ci si riferisca, risulta in aumento. Quanto alla produzione agricola è ben noto all’onorevole Di Vittorio che negli anni 1948-49-50 si è avuto un progressivo aumento di tutta la produzione e gli indici sono passati rispettivamente da 87,9 a 94,8, a 96,6. È inutile ripetere che tali indici appaiono bassi in quanto riferiti al 1938, annata agraria straordinaria. Vero è, invece, che la produzione del frumento sarà minore di quello che si sperava, anche in confronto all’anno scorso, ma ciò dipende semplicemente da condizioni stagionali e credo che non se ne possa far colpa a nessuno, a meno che non si adotti il detto «piove, governo ladro». Un altro punto che rappresenta un’idea fissa dell’onorevole Di Vittorio (e scusate se vi annoio con tante cifre, ma è bene richiamarle perché certi slogans che fanno il giro per tutta Italia finiscono per essere creduti anche da chi non vorrebbe) è quello delle macchine importate dagli Stati Uniti. Si tratta, onorevoli colleghi, di attrezzature non producibili in Italia. Per accertare la producibilità o meno in Italia delle macchine che vengono importate, anzitutto ha luogo un preventivo esame tecnico minuzioso ed una dettagliata discussione sulle caratteristiche delle macchine da parte di un apposito comitato nel quale sono presenti i rappresentanti di tutti i settori meccanici e anche i rappresentanti dei lavoratori. Il grosso dei finanziamenti concessi per l’acquisto di attrezzature nell’area del dollaro è stato destinato direttamente all’industria meccanica: 54 milioni di dollari ad oltre 150 aziende meccaniche di tutte le dimensioni. Si sono, poi, importate macchine speciali che servono ad aumentare la produzione di beni strumentali e di consumo e cioè stampe per carrozzerie di auto, grossi torni e fresatrici speciali, mezzi tutti, cioè, indispensabili per ricondurre la produzione meccanica ad una situazione di costi più ragionevoli e adeguati alle possibilità di assorbimento del mercato interno e internazionale. Questa la prima parte delle importazioni e dei finanziamenti. L’altra grossa parte per acquisti di attrezzature nell’area dei dollari è stata destinata alle industrie siderurgiche e a quelle elettriche, ai settori, cioè, il cui sviluppo è pregiudiziale allo sviluppo della produzione industriale meccanica. Occorre tener presente che i grossi gruppi generatori importati per le centrali elettriche (i piccoli generatori sono stati commessi all’industria italiana) e i grossi laminatori per la siderurgia non erano producibili in Italia, se non impiegando un paio di lustri, ciò che evidentemente sarebbe stato dannosissimo per la nostra industria meccanica, che ha bisogno di essere riportata ad una produzione qualitativamente migliore e a costi più bassi. Occorre anche tener presente che tutte le attrezzature importate dall’area del dollaro sono gratuite in quanto fanno parte integrante degli aiuti del programma ERP e rappresentano quindi un guadagno netto per l’economia nazionale. Lo stesso onorevole Di Vittorio ha parlato del commercio e a tale proposito io non ho che da rifarmi all’esposizione, così dettagliata, dell’onorevole Lombardo il quale ci ha istruiti, e forse anche annoiati, con una serie infinita di voci di scambi possibili con l’oriente. Egli ha chiarito come non siano possibili che scambi su larga scala, perché non era possibile rifornirci su quei mercati dei prodotti che ci abbisognavano. Per fare degli scambi con l’oriente, noi dovremmo importare rame, petrolio, materiali non ferrosi, cotone, gomma, olii, grassi alimentari e grano, merce tutta che non è disponibile su quei mercati. Abbiamo fatto qualche acquisto di grano, ma con nostro notevole sacrificio, in quanto abbiamo dovuto pagarlo a prezzi notevolissimi. È questa la ragione per la quale il nostro commercio estero nei riguardi dei paesi dell’oriente ristagna. Anche l’onorevole Di Vittorio ha parlato dello sciopero e ci ha accusati di confondere lo sciopero con il sabotaggio o, comunque, di considerare lo sciopero come atto di sabotaggio. Questo non è vero, come risulta dal disegno di legge che abbiamo presentato al Senato circa il mutamento di alcuni articoli del Codice penale . Noi diciamo soltanto che vi sono casi che non hanno niente da fare con lo sciopero e che rappresentano, viceversa, impedimento di lavoro, sabotaggio della produzione. E non dica l’onorevole Di Vittorio che noi confondiamo col sabotaggio lo sciopero dei funzionari pubblici, e che lo equipariamo ad atto di sabotaggio della produzione Non trovo stampato questo, ma mi pare che egli lo abbia detto. Se lo avesse detto, c’è un equivoco, perché questo è un articolo della Costituzione russa, non del nostro progetto. (Commenti al centro e a destra). La Costituzione russa dice infatti: «il sabotaggio controrivoluzionario, cioè la cosciente astensione per inadempimento di determinati doveri o la volontaria negligenza nell’esecuzione di essi allo scopo di indebolire l’autorità del governo e l’attività dell’apparato statale… è punito con la detenzione non inferiore ad un anno e con la confisca totale o parziale dei beni, potendo dar luogo, in casi particolari ed eccezionali, alla massima sanzione esecutiva» (cioè la fucilazione). Possiamo garantire all’onorevole Di Vittorio che siamo ben lontani da simili idee e concezioni, e che noi non arriveremo mai ad una simile formula, a meno che in Italia venga introdotto il bolscevismo, e che lo stesso onorevole Di Vittorio sia al potere come ministro del Lavoro e creda di garantire la produzione con un articolo del genere che intenda introdurre nella nostra legislazione, prendendolo dalla Costituzione sovietica. (Applausi al centro e a destra – Commenti all’estrema sinistra). paGanelli. Poveri lavoratori! De Gasperi.Vorrei non soffermarmici, ma assicuro che ho letto e mediterò con molta attenzione i discorsi tenuti da due colleghi, l’uno triestino e l’altro profugo istriano: voglio dire gli onorevoli Tanasco e Bartole. Due eccellenti discorsi, concreti, sostanziali, estremamente oggettivi, ricchi di proposte e di obiezioni all’atteggiamento delle autorità a Trieste, e di proposte riguardo alla zona B. Non voglio qui addentrarmi in questa materia assai delicata. Non lo posso fare, ma seguirò attentamente quanto è stato esposto a tale riguardo, e voglio anzi ringraziare i colleghi del contributo sostanziale portato alla risoluzione di questo problema. All’onorevole Guggenberg vorrei dire che lui ed i suoi colleghi hanno perso la pazienza troppo presto! Quelle obiezioni che fate voi, quasi mosse da un sentimento di particolare antipatia o di particolare avversione o di particolare odio contro i sud-tirolesi (come li chiamate voi) o gli alto-atesini (come li chiamiamo noi), non sono fondate. Sono obiezioni, purtroppo, che si possono fare e si fanno nella Valle d’Aosta come in Sicilia e in Sardegna. La difficoltà è di inquadrare i regimi nuovi di autonomia nel regime generale dello Stato; la difficoltà è anche di operare con la burocrazia così come è e come l’abbiamo ereditata dal passato; la difficoltà è anche nelle minoranze, nella consapevolezza di queste minoranze, nelle obiezioni di tali minoranze, difficoltà che si frappongono a ciò che ci si era proposto di fare. Mi pare però difficile che voi possiate commuovere il mondo dicendo che vi abbiamo trattati male con le opzioni quando su 40.238 domande di opzione, tutte sono state accettate, tranne 650. Non potete dire che vi abbiamo trattato male! All’onorevole Tanasco, che me ne ha fatto un accenno, dirò che se nella parte jugoslavo-triestina vi fosse stata una simile proporzione, egli sarebbe stato felice. Vi è poi sempre la possibilità di rivedere quello che si è fatto, ma non bisogna pretendere dall’oggi al domani che si ottenga l’equilibrio di tutte le situazioni lasciate dal dopoguerra! Voi vi siete riferiti all’affare dei beni. Ma qui vi è tutta una questione giuridica fra l’Ente delle Venezie e gli antichi proprietari, questione che è stata portata anche dinanzi ai magistrati. Abbiate pazienza, quindi! Se non avremo trovato una soluzione prima, ci serviremo degli elementi dati dalla magistratura. E non abbiamo certo nessuna volontà di perseguitare la maggioranza di lingua tedesca in Alto Adige; però è bene ricordarci, e voi dovete ricordarlo, che esiste anche una minoranza italiana, che rappresenta un terzo della popolazione, e che questa minoranza ha i suoi diritti ed anche le sue suscettibilità. Non possiamo dimenticare che esiste; ma dobbiamo, anzi, ricordare che essa rappresenta la parte proletaria di fronte a voi, che avete la fortuna di essere i proprietari, i padroni, soprattutto nel settore commerciale. La minoranza italiana ha soltanto delle industrie, ma per la maggior parte è proletaria. Anche non facendo una politica progressista e proletaria, non possiamo non ricordarci di questi italiani. E quanto alla riforma, di cui vi lagnate, e non ancora applicata, essa non riguarda soltanto la parte tedesca, ma anche quella italiana, riguarda il Trentino. Dovrei lagnarmi del ritardo con cui le cose si fanno. Se foste nella mia posizione e faceste i confronti con le lagnanze di altre regioni italianissime – lagnanze giustificate sul ritardo dell’amministrazione dello Stato, sul ritardo degli interventi, sulla insufficienza di mezzi finanziari che abbiamo e che possiamo mettere a disposizione – se vedeste nell’insieme il panorama, non avreste di che lagnarvi e non pensereste che c’è qualcosa di antitedesco o di antitirolese in questa nostra pratica. Purtroppo, questi sono difetti della macchina, che tentiamo di sanare, ma non possiamo farlo dall’oggi al domani. Qualcosa abbiamo fatto; dovete ammetterlo. E confermo, per quanto mi pare che voi lo sappiate già: citatemi un paese dove la minoranza tedesca sia trattata come la minoranza tedesca in Italia; citatemi un paese dove si sia trovato tanto spirito di giustizia. Lasciamo stare, egregi colleghi, i contrasti politici. La popolazione vive insieme: c’è una volontà di lavoro e di cooperazione; ci sono le migliori relazioni anche col paese confinante. Abbiamo fiducia che lentamente si ricostruirà; ma ci vuole buona volontà e lealtà. Voi avete fatto la vostra affermazione di lealtà. Ne prendo atto. Non importa molto che voi votiate pro o contro il governo. Quello che è giusto, si farà; quello che non è giusto o è impossibile, non si farà. (Applausi al centro e a destra). Portate questa parola di conciliazione. L’onorevole Bellavista ha fatto un bel discorso, ma ha fatto un’osservazione curiosa riguardante la Sicilia. Sembrerebbe che in Sicilia fosse avvenuto un matrimonio fra Democrazia cristiana e Msi, un connubio, una contaminazione. La giunta regionale non ha avuto un solo voto dal Msi, né in sede di elezione, né in sede di approvazione di schemi legislativi. Persino per l’autorizzazione dell’esercizio provvisorio i deputati del Msi si sono astenuti, nonostante l’assoluta necessità obiettiva del provvedimento. Inoltre, in risposta alle dichiarazioni del presidente della Regione, il rappresentante del gruppo del Msi in un discorso di critica ha affermato che il gruppo è all’opposizione. Quanto alla nomina di un deputato del Msi a vicepresidente dell’assemblea regionale siciliana, si fa rilevare che nel Consiglio di presidenza c’è anche un vicepresidente socialcomunista e che l’assemblea ha seguito il criterio dell’osservanza del principio di rappresentanza di tutte le correnti presenti in essa. E questo è ovvio: avviene in tutti i parlamenti. (Interruzione del deputato Calandrone ). Ed è ben curioso quanto è stato rimproverato a me, per essere stato il 17 maggio 1917 nominato segretario della Camera austriaca, durante la guerra. Si trattava della riapertura del Parlamento per la morte del vecchio sovrano e quindi il Parlamento (che era stato in precedenza trasformato in ospedale) venne riconvocato e si riprese un mezzo sistema parlamentare, come poteva svolgersi allora, quando la maggior parte del territorio era stato dichiarato in istato di guerra. Allora, per la costituzione della presidenza, come avviene dovunque, il presidente fu il membro più anziano e nominò otto segretari tra i più giovani. Io, che avevo la disgrazia di essere uno dei più giovani, fui nominato segretario per mezz’ora, dopo di che si procedette alla nomina definitiva ed io non ci fui più. (Commenti). Questa è stata rappresentata come una contaminazione col governo austriaco. Ma dove andiamo a finire con tali interpretazioni? piGnaTelli. Sono dei diffamatori! De Gasperi. Ora mi rivolgo all’onorevole Almirante e, rispondendo a lui, credo che risponderò anche all’onorevole Roberti. Non ho sentito da quella parte una parola equanime, una parola che cerchi il chiarimento, ma sempre, in tutta la campagna elettorale ed in ogni manifestazione pubblica, il tentativo di profittare del mito e dello spirito passato. Sono i «repubblichini» che, sotto il manto generico della riscossa nazionale, vogliono evitare la precisazione, sia del programma, sia delle responsabilità passate. Reclamano l’abolizione delle cosiddette leggi eccezionali della Repubblica e così assumono il protettorato anche dei fascisti della prima maniera (diritti civili, profitti di regime, eccetera), per cui trovano l’appoggio di coloro che sono stati restaurati nella vita civile e finanziaria. Tuttavia, nel contempo, proclamano sempre valide le leggi eccezionali della Repubblica di Salò e sacrosante le fucilazioni di Castelvecchio. Sostengono che le leggi sociali repubblicane costituiscono il loro programma sociale (consigli di gestione, sistema corporativo, ordinamento del lavoro, proibizione dello sciopero), ma nello stesso tempo fanno i moderni, negando allo Stato democratico il diritto di premunirsi contro lo sciopero dei funzionari, come credo di aver capito dal discorso dell’onorevole Roberti. Sostengono che la Monarchia sabauda ha tradito la nazione e gli alleati, per poter difendere Mussolini e tutti coloro che con lui passarono sotto il protettorato dei nazisti, ma nello stesso tempo cercano ed accettano l’alleanza dei monarchici, partito che vanta i meriti della Monarchia e ne auspica il ritorno. Partono come difensori primi e più validi di Trieste, dimenticando che la loro Repubblica aveva affidato Trieste e l’Istria al gauleiter nazista… (Vivi applausi al centro e a destra). Nessuna parola di equità e di riconoscimento per i nostri sforzi e per la nostra buona volontà, ma accanimento, nei comizi, in uno stile veramente ributtante. (Approvazioni al centro e a destra). Ho letto la relazione concernente un comizio tenutosi a Roma il 15 luglio scorso. Vi era, evidentemente, molta gente che era andata al comizio proprio per Trieste e non per fare la politica antigovernativa. Fra gli agitatori mi pare vi fosse l’onorevole Mieville. Gli agitatori si sono impadroniti del comizio ed hanno fatto parlare gli oratori in un tono ributtante, lasciando anche che la folla fischiasse ed ingiuriasse membri del governo, e lasciamo stare il presidente del Consiglio, che naturalmente è il primo oggetto di una vergognosa diffamazione. Viene Delcroix , (rumori), e fa questa dichiarazione: «avremmo voluto limitarci ad un appello alla solidarietà nel nome di Trieste. Non possiamo farlo perché accusati di voler fare una speculazione su Trieste. L’accusa viene proprio da coloro che altro non hanno fatto che speculare sulle sciagure dell’Italia, da coloro che aspettarono la sciagura per prendersi una rivincita e che seguitano a mettere innanzi la guerra perduta per continuare la loro politica imprudente e vile. Imprudente perché non si impegna un paese in alleanze militari senza garanzie, vile perché non si accetta il principio dell’espiazione per un popolo cui non si vuol perdonare di aver cercato la terra necessaria per il suo pane, di aver voluto avere una dignità e di aver voluto crearsi un impero». Quali garanzie hanno richiesto e ottenuto quando essi si vincolarono alle sorti dell’asse? Quali, soprattutto, quando si entrò in guerra impreparati, quando si buttarono in braccio ad Hitler? (Applausi al centro e a destra). La storia non insegna nulla, e voi pretendete ingiuriarci e attaccarci e soffocare quanto è avvenuto nella storia, annebbiare la mente del popolo italiano, specialmente dei giovani, i quali non sanno e non ricordano! Ma lo ricorderanno! pajeTTa Gian carlo. Ci spieghi la questione della Sicilia… De Gasperi. L’ho spiegata prima la questione della Sicilia e in modo inconfutabile! pajeTTa Gian carlo. Inconfutabile? De Gasperi. Comunque sia, noi non rinunceremo alla nostra politica di pacificazione, ed in proposito ho annunciato alcune misure che hanno provocato ed hanno avuto anche il plauso ed il riconoscimento da parte di coloro che sono più direttamente interessati. Vedo, poi, con simpatia la proposta avanzata dai capi partigiani, perché si pensi agli invalidi della Repubblica sociale, ed ho annunciato che verrà la volta dei tedeschi dell’Alto Adige, ma non possono pretendere che si cominci con il mettere a posto coloro che inizialmente erano in Germania, e che solo dopo si pensi agli invalidi italiani. Vedo con simpatia la dichiarazione fatta in argomento dall’onorevole Codacci Pisanelli ed aderisco. Bisogna che noi continuiamo su questa strada, come ci è possibile per le nostre condizioni finanziarie, e ad ogni modo, con generosità di spirito e di cuore. Ma non ci lasceremo mettere al muro da una polemica odiosa, risponderemo colpo per colpo, tireremo fuori tutta la storia recente, perché non c’è proprio nulla da guadagnare, con una rinascita, un rivivere dei contrasti sanguinosi del passato! Meglio tirare un velo su questo, ma a condizione che non vogliate mettere in pericolo, a pacificazione ottenuta, la democrazia e la libertà: noi le difenderemo a qualunque costo. E faccio infine appello di nuovo a tutti coloro che stampano, che scrivono, che insegnano, perché infondano nei cuori dei giovani, che rappresentano la patria di domani, e non solo la patria, ma l’indipendenza, la dignità della nazione, perché infondano l’amore per la libertà, per il progresso sociale, per la giustizia sociale della nazione. (Vivissimi, prolungati applausi al centro e a destra).
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Esiste confusione. Tutti credono che a Ottawa e a Washington si possa trovare la soluzione del problema di Trieste. L’attesa delle elezioni esaspera il problema. Abbiamo ancora qualche possibilità di rinvio, ma scarsa. Gli Alleati desiderano che noi trattiamo direttamente con la Jugoslavia. Sono stati fatti tentativi di sondaggio con estrema prudenza, ma ancora non esiste una base di trattative. Per noi la base è la dichiarazione tripartita con qualche rettifica che però rispetti la linea etnica. Le elezioni significano inasprimento della tensione con la Jugoslavia. Washington se ne rende conto ma Londra no. Londra vuole riprendere il dominio sui Balcani. Rileva poi che l’Inghilterra pensa che noi faremo delle concessioni per Trieste pur di ottenere la revisione del Trattato di pace. Polemizza con la tesi della revisione giuridica del Trattato di pace esposta dal senatore Tupini l’altro giorno. Accogliendo questa tesi si dovrebbero fare nuovi trattati con conseguente accettazione di tutte le cessioni territoriali subite (Pola, Fiume, Briga, e Tenda). Altro limite è costituito dalle questioni relative alle riparazioni e ai diritti dei terzi. Le riparazioni sono state precisate nei successivi accordi con la Russia, con la Grecia e con la Jugoslavia. Circa i diritti dei terzi chiede se debbano rimanere salvi. Fa quindi presente che il suo viaggio in America non varrà a risolvere questioni di dettaglio, ma sarà utile per una penetrazione psicologica. Per quanto concerne Trieste dobbiamo convincere gli Americani a non lasciare mano libera agli inglesi. Egli intende in proposito ottenere un risultato positivo. Ha discusso oggi con Sforza vari problemi e ne discuterà ancora domani. Rileva la gravità dei problemi relativi alla posizione dei tedeschi nell’esercito europeo, ed alle spese militari conseguenti alla partecipazione all’esercito europeo. Bisogna ora designare il successore di Taviani nella Commissione della NATO. Informa poi che avrà contatti con Acheson e che durante il suo viaggio si propone di tenere un discorso agli italiani di Detroit. Legge infine uno schema di comunicato. […] Ritiene che dopo il viaggio di Harriman, Acheson abbia convocato l’ambasciatore jugoslavo facendogli presente la necessità di giungere ad una soluzione che tenga conto della realtà etnica. A Truman dirà che noi non verremo mai meno al patto Atlantico ma farà chiaramente intendere la gravità del pericolo se gli Alleati sostengono ancora la Jugoslavia. Metterà in evidenza che una caduta di Adenauer e un avvento al potere di Schumacher comprometterebbero seriamente il patto Atlantico. Dirà anche che Franco, Tito e i Turchi indeboliscono quel vincolo della democrazia che è l’unica base di una Europa solida e che continuando in questa linea politica si rischia di ripetere l’errore che Roosvelt commise nei riguardi di Stalin. Sarebbe opportuno appoggiare Pieck e Togliatti se essi abbandonassero Stalin. In tal caso quale sorte avrebbe la democrazia? […] Alle obiezioni egli risponde ponendo in luce la preoccupazione di indole psicologica. [Il ministro della Difesa Pacciardi dichiara di non considerare «l’unione delle forze militari il miglior mezzo per giungere alla Federazione europea»]. Per ora dobbiamo nominare il capo della delegazione italiana facendo riserva di decidere nel merito. Propone Ivan Matteo Lombardo. [De Gasperi prende nuovamente la parola sul disegno di legge sugli aumenti ai dipendenti statali, illustrato dal ministro delle Finanze Vanoni sulla base di un piano di utilizzazione di 70 miliardi di lire, reperiti in parte con nuove imposte (20 miliardi) ed in parte (50 miliardi) con un incremento delle entrate erariali]. È contrario alla retroattività. Alle Camere bisogna indicare la somma di cui disponiamo, gli stanziamenti che vengono assegnati ai dipendenti statali e quelli destinati ad altre esigenze sociali. Se il Parlamento vuole variare la ripartizione sopprima alcune voci e stabilisca nuove imposte.
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Riferisce sul suo viaggio ad Ottawa, a Washington, Detroit e New York, richiamando ai colleghi le dichiarazioni e i comunicati ufficiali. Ad Ottawa egli, Pacciardi e Pella rappresentarono l’Italia nella vasta riunione cui erano presenti 300 persone . Per le questioni tecniche di natura militare si riunirono separatamente i ministri della Difesa. La riunione si aprì con una discussione sulla situazione politica generale. Fu data larga prevalenza alle parole «Germania» e «Austria». C’era una vasta rappresentanza di autorità civili della comunità atlantica. Sembrava veramente un parlamento internazionale. Tutti desideravano vivamente di evitare la guerra. L’America non parla mai dei suoi morti e dei suoi feriti nelle operazioni belliche di oggi. Anche questo è un contributo alla pace. Egli ha parlato ad Ottawa dell’unità dell’Europa, della necessità di risolvere il problema germanico e dell’art. 2 del patto Atlantico come impegno alla creazione di un fronte economico-sociale. Il patto Atlantico fu escogitato dai canadesi che forse lo concepirono dapprima come un patto anglosassone. Il Canada ama la pace che è condizione di sviluppo dei loro grandi progetti economici. Anche Acheson ha aderito alla tesi della creazione di un fronte economico-sociale sia pure con minore entusiasmo di quello manifestato nei paesi interessati. Si è parlato della Germania ed egli ha chiesto che si parlasse anche del Trattato di pace con l’Italia. È stata fatta una affermazione di eguaglianza di diritti. Ha avuto un lungo colloquio con gli inglesi per dissuaderli ad abbinare la questione di Trieste a quella della revisione del Trattato di pace. È stata discussa e approvata l’attività dei singoli organi della NATO. È stata discussa e concordata in via di massima l’entrata della Grecia e della Turchia nel patto Atlantico. La questione della sistemazione mediterranea era stata dapprima studiata dal punto di vista del comando militare; poi era stata accantonata perché fosse esaminata prima dai militari e poi dalla Conferenza di Roma. La Danimarca era contraria e ci sono volute 24 ore per farla desistere. Era contraria in quanto rilevava che si venivano ad aumentare gli impegni senza contropartite. Il nostro ministro degli Esteri aveva assunto un impegno, poiché rimanendo fuori dal Patto atlantico la Turchia potrebbe essere o filorussa o neutralista. Poiché nel Patto atlantico si parla di Europa chiede se l’ingresso dell’asiatica Turchia renda necessaria una nuova discussione parlamentare. Nel dubbio gli americani sono per l’affermativa, anche perché occorre modificare altre clausole del Patto atlantico come ad esempio quelle dello status delle truppe USA in Germania che stanno per diventare di difesa e non più di occupazione. La tesi favorevole all’approvazione parlamentare era confortata dagli impegni assunti della Francia e dall’America dinanzi ai rispettivi Parlamenti. La decisione formale sull’ingresso greco-turco è stata che i governi dovranno avviare le procedure necessarie per l’ingresso di queste due potenze e daranno notizia del loro perfezionamento al governo USA, depositario degli strumenti di ratifica del Patto atlantico. Si è aggiunto anche un accenno alle clausole da modificarsi. Esiste un protocollo aggiuntivo che non reca clausole innovative sostanziali. In attesa che venga espletata la procedura parlamentare si chiede che venga autorizzato il nostro supplente alla NATO a dare una adesione di massima. Il Consiglio è del parere che la ratifica dell’Accordo aggiuntivo possa essere chiesta con un voto parlamentare su un ordine del giorno di approvazione della dichiarazione che a tal riguardo verrà fatta dal presidente del Consiglio. […] Chiede se nel frattempo Rossi Longhi possa accettare il Protocollo aggiuntivo. […] È necessario dire chiaramente al Parlamento che la ratifica è definitiva. Al Consiglio dei sostituti comunicheremo che noi siamo pronti a firmare, ma non vogliamo rimanere isolati. Riprende la disamina dei risultati dei colloqui di Ottawa e di New York. Legge la relazione formale sulla civilizzazione nell’ambito della sfera di azione della NATO. Belgio, Canada, Norvegia, Olanda e Italia dovrebbero fare parte del Comitato per il rafforzamento della NATO. Si è discusso a lungo a Ottawa sul coordinamento degli organismi della NATO. Il Consiglio dei supplenti che doveva essere composto di viceministri è stato invece costituito di semplici funzionari. Acheson voleva costituire un Comitato dei dodici membri che sarà forse ripartito in sottocomitati. Questo Comitato sarà molto più importante del Comitato dei supplenti: faranno parte del suddetto Comitato uomini di governo con il compito di conciliare le esigenze militari con quelle sociali. Il Canada e la Danimarca saranno rappresentati dal ministro delle Finanze; gli USA da Harriman; l’Italia da Pella. La sede sarà Parigi. Alle discussioni meno importanti potrà partecipare un sottosegretario. Prega il Consiglio di confermare la nomina di Pella . Informa che la prima seduta del Comitato avrà luogo il 9 corrente e che entro il 1° dicembre il Comitato stesso dovrà riferire al Consiglio atlantico. Comunica quindi che dopo la conclusione delle riunione di Ottawa egli si è recato negli Stati Uniti; prima della partenza Morrison aveva dato la sensazione di voler discutere il problema di Trieste. Morrison aveva quasi minacciato di ritirare l’adesione del Regno Unito alla revisione del Trattato di pace. Egli però ha evitato di incontrarsi con Morrison e non è stata discussa la questione di Trieste. Esiste una dichiarazione di principio a noi favorevole: occorre ora formulare una domanda specifica e dettagliata di revisione del Trattato di pace. Le questioni economiche saranno trattate separatamente. Può accadere che la Russia non accetti la revisione ma noi obietteremo le gravi violazioni del trattato fatte dalla Russia. In questo caso però sarà necessario un più forte appoggio da parte delle tre grandi potenze. […] Non è d’accordo. La difesa atlantica è interesse nostro. […] Non dobbiamo drammatizzare la situazione: oggi chiederemo la revisione di quelle clausole che è possibile rivedere. Certo non possiamo intimare a Tito di sgombrare l’Istria. […] È necessario discutere con Tito solo sulla zona B e non sulle minoranze della zona A e di Gorizia. Per quanto riguarda l’ingresso all’ONU dobbiamo insistere. […] Ha fatto chiaramente intendere agli Alleati che una cattiva soluzione del problema di Trieste farà cadere in Italia anche il Patto atlantico. A Truman ha fatto presente che l’America ha il dovere di risolvere la questione di Trieste. Nelle trattative dei giorni scorsi il problema di Trieste è stato sempre di attualità. Ha la convinzione che gli americani siano dalla nostra parte. […] L’espressione «legittime aspirazioni» è migliore della dichiarazione tripartita che Tito non accetta. Acheson ritiene che sia più difficile convincere Tito a togliere l’occupazione militare che non ad accettare un compromesso. Occorre illuminare il popolo sulla situazione. Bisogna guardare avanti e pensare che si tende per il futuro a realizzare una comunità di popoli. Noi manterremo l’espressione «legittime aspirazioni». [Segue una breve interruzione del ministro dell’Interno sulla possibilità di cedere qualche Comune della zona B alla Jugoslavia]. Le trattative sono già in corso. La Jugoslavia cambia l’ambasciatore appositamente .
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Onorevoli colleghi, mi è parso, nel sentire certi discorsi dell’opposizione, di essermi trovato o di essere considerato come la serva che torna dal mercato con le sue provviste, e viene accolta irosamente da una vecchia padrona stizzosa che, dopo averle gridato in faccia: «buona a niente, inetta, imbrogliona», mette le mani nella sporta, ne rovescia il contenuto sul tavolo, esamina e controlla con la sfiducia di chi sospetta la cresta della serva ed il marcio della mercanzia. Ho avuto, onorevole Nenni, l’imprudenza di lagnarmene. Ella – difensore d’ufficio dei suoi colleghi di estrema anche quando non li approva – ha trovato che io ho esagerato, che si trattava, in fondo, di un aggettivo di più o di meno. A me è parso, invece, che dovessi lagnarmene, perché si trattava non di suscettibilità personale, ma perché questo modo di considerare una missione diplomatica – che non era la provvista del giorno al mercato, ma che affrontava tutti i problemi ed aveva per meta anche di maturarne altri e di soddisfare certe esigenze attuali, che aveva per scopo fondamentale quello di approfondire, di considerare un’intesa con una potenza come gli Stati Uniti, e di consolidare la collaborazione internazionale con dodici altri Stati, cioè quasi tutto il mondo libero – perché, dunque, questo modo di considerare una missione diplomatica era inopportuno: non mi pare che una simile missione possa venir trattata con un aggettivo più o un aggettivo meno, ma mi pare che meriti considerazione, e che meritino biasimo coloro che la trattano in tal modo, indifferentemente dai meriti o demeriti delle persone. L’onorevole Nenni ha visto un volgare diversivo in queste mie proteste finali, ma sembra sordo dinanzi alle volgarità che usano i suoi colleghi nel considerare questa missione e nel trattare me personalmente quando sono all’estero. Eppure vi è una norma – onorevole collega, che ebbe la corresponsabilità con me in certi momenti molto gravi, proprio nella politica estera – vi è una norma da esigere anche dall’opposizione: che all’estero non si faccia nascere l’impressione di profonde divisioni, di attuali acuti contrasti, mentre corrono trattative o mentre si tengono conversazioni sopra le stesse materie. Ora risponderò a parte alle singole questioni poste dall’onorevole Nenni, e mi sforzerò anche di affrontare il nucleo del problema. È vero che lo schieramento delle forze nel mondo è quale viene da voi descritto? Cioè da una parte la colomba della pace, una politica interna di ricostruzione, di grandi imprese, di grandi dighe, una tendenza a liquidare con l’estero mediante compromessi i problemi della guerra, e dall’altra parte invece un armarsi indiscriminato, una febbre bellica, un puntare sulle soluzioni violente, un marciare inesorabile verso la guerra, come dice l’onorevole Togliatti? È vera questa impostazione? Corrisponde alla realtà? Esaminiamola, esaminatela, fatela esaminare da tutti coloro che vogliono ricercare la verità. Esiste veramente questa disparità? La conferenza prossima, a Roma, del Consiglio atlantico, fra gli altri scopi, avrà quello di esaminare, di raccogliere tutti i dati possibili intorno alle attuali forze militari da una parte e dall’altra, e di dare al mondo la comunicazione ufficiale delle cifre incontestabili sopra gli armamenti. Il 28 dicembre 1950 il ministro Moch, alla Camera francese, ha fatto dichiarazioni, delle quali ha assunto la responsabilità; egli ha parlato di 170 divisioni russe, di 18 armate aeree, eccetera; già nel 1949 la Russia spendeva il 19,2 per cento del reddito nazionale in armamenti, mentre l’America ne spendeva il 6,2. Di fronte a tutte le divisioni russe, saremo arrivati, sì e no, adesso, a 22-24 divisioni in tutta Europa. Il programma di riarmo, il programma di rimettere in piedi uno schieramento difensivo sufficiente a sostenere i colpi più gravi, è di 50 divisioni; siamo arrivati a nemmeno la metà, siamo sotto la metà. Quando si parla di accelerare vuol dire fare quel poco che si era stabilito di poter fare. Si dirà: «è sempre tanto, in confronto delle esigenze economiche attuali». Verissimo. Se si potesse farne a meno, e non si pensasse né da una parte né dall’altra agli armamenti, sarebbe meglio e sarebbe più utile investire i capitali in campo produttivo. Ma, se dall’altra parte si agisce per il riarmo e si costituisce un blocco di potenze, legate l’una all’altra da impegni militari, tutto questo è pace? E se da questa parte si fa la stessa cosa, un po’ meno, anzi molto meno, tutto questo è guerra? Ha detto bene l’onorevole Saragat nel suo brillante discorso: «si stava parlando di pace, di tranquillità assoluta, si ignorava la esistenza dall’altra parte degli armamenti, quando venne la notizia della bomba atomica. Ed allora anche il grosso pubblico incomincia a dire: dunque, anche al di là si fabbrica la bomba atomica, il che vuol dire che anche al di là si pensa, sia pure a scopo difensivo, a simili meccanismi micidiali». (Commenti all’estrema sinistra). Badate, la radio sovietica la sera dell’8 ottobre, a proposito di questa notizia, trasmetteva: «gli Stati Uniti volevano che l’Unione Sovietica, in caso di attacco, fosse disarmata, ma l’URSS non è dello stesso parere, perchè ritiene che sia necessario affrontare l’aggressore bene armata e preparata. D’altronde, già da tempo l’energia atomica non è più un segreto per l’Unione Sovietica». Dunque, anche i russi parlano di armi e ritengono necessario preoccuparsi delle forze armate. Allora, non è vero che lo schieramento consiste in colombe da una parte e cannoni dall’altra; ci sono colombe e cannoni da una parte e dall’altra. (Commenti all’estrema sinistra). Voi non ne parlate. Voi aggiungete, e l’onorevole Nenni ha aggiunto, che contemporaneamente alla notizia dell’esistenza della bomba atomica, è venuto anche un nuovo invito ad organizzare il controllo di quest’arma. Ora, non voglio tornare sull’argomento, già vecchio, della conclusione di tutte le trattative di controllo avute fino al 1949 all’ONU. Abbiamo all’ONU una commissione internazionale, non composta di americani, la quale ha concluso che tutte le trattative erano fallite, perché la Russia era più preoccupata del suo problema di sovranità che di quello della immunità e dell’accordo, in generale, per la pace. Ora, io non so se questo vale ancora; può essere che la Russia cambi opinione. Ma io dico che, se si tratta di cambiare opinione, essa doveva anche prendere atto che pure gli americani recentemente hanno insistito per il controllo della bomba atomica. Recentissimamente, il 9 luglio 1951, veniva inserita dal Congresso americano una proposta nella risoluzione sull’amicizia per il popolo russo. In essa si dice: «a dimostrazione di questo – cioè per il raggiungimento della reciproca comprensione – gli Stati Uniti si sono offerti di condividere quanto di benefico vi è nell’energia atomica, chiedendo, in cambio, soltanto garanzie contro quanto vi è di malefico». Tale proposta è stata ripresa e ribadita dal delegato americano alle Nazioni Unite, Gross, che in un discorso tenuto l’8 corrente a New York ha detto: «abbiamo preparato il piano per il controllo, ma se qualcun altro è in grado di presentare un piano migliore, siamo disposti ad esaminarlo». Dunque anche dall’altra parte vi è l’idea della distensione, vi è il desiderio di discutere e di parlare. Finora si è discusso, nelle conversazioni, senza arrivare a delle conclusioni, ma non è vero che esiste questa rigidità assoluta per cui ci si rifiuta al dialogo, laddove il dialogo è fatto in una sede che è competente, perché vi sono uomini che possono rispondere. Il dialogo deve arrivare a conclusioni: non basta semplicemente fare delle dimostrazioni in piazza e della propaganda. Quindi da quella parte vi è la buona volontà di arrivare ad un certo accordo, per lo meno per la limitazione ed il controllo dell’energia atomica. Come ho detto prima, questo grande sforzo di riarmo dell’Europa arriverà, si e no – quando ci si arriverà – a dare all’Europa 50 divisioni, il che sarà ancora molto poco di fronte alle forze di cui dispone e può disporre la Russia. L’acceleramento riguarda l’arretrato della scarsa preparazione che finora si è fatta, e l’arretrato è dovuto evidentemente alle difficoltà di carattere economico, alla lentezza, con cui i governi possono risolversi ad investire il denaro in questa produzione, e forse a molte altre ragioni. Comunque, non esiste affatto questa foga, questa furia, questa massacrante marcia verso il disastro. Sono stato per tre settimane negli Stati Uniti e nel Canadà, in quel Canadà dove il Patto atlantico è nato. Ho conosciuto là tutti gli uomini che ne formularono le prime proposte, gli uomini che ora hanno la responsabilità di applicarlo. In America ho avuto contatti con tutti i rappresentanti più importanti delle varie classi: è vero che quei miliardari cui si è riferito l’onorevole Togliatti non li ho visti, ma in ogni caso la maggior parte degli autorevoli esponenti della politica americana li ho visti. Ebbene, vi dirò francamente, da uomo ad uomini, da coscienza a coscienze, che ho avuto l’impressione che in America – dove pure c’è una guerra, perché in Corea si combatte e si muore – si parla molto meno di guerra e si pensa molto meno alla guerra di quel che si faccia in Europa per merito delle opposizioni, le quali hanno bisogno di dipingere sempre sulle pareti un grande fantasma che scuota i popoli, li organizzi e li spinga nelle loro braccia. (Commenti alla estrema sinistra). In ogni caso, si può parlare di riarmo indiscriminato in Italia? Quando, dopo la prima guerra mondiale, l’onorevole Gasparotto ci chiamò a discutere in una commissione militare circa il modo di ricostituire l’esercito vittorioso dopo Vittorio Veneto, nacque anche allora l’idea del sistema svizzero, cioè dell’esercito popolare. Dopo parecchie discussioni, si arrivò alla soluzione, che poi fu applicata: in base a questa decisione nel 1925 si era arrivati a 230 mila uomini. Oggi il trattato ce ne concede 250 mila. Non ci siamo ancora arrivati: è questo dunque il grande riarmo indiscriminato? Siamo, in realtà, nella media della forza bilanciata italiana dei decenni passati. Quindi non siamo affatto in un periodo di straordinari armamenti che debbano provocare addirittura la reazione armata nelle nostre strade. Eppure, allora vi era una grande marina, che costava moltissimo. Oggi – non per colpa nostra – la marina è ridotta a troppo misere proporzioni. Ma se considerate tutto questo in proporzione alla spesa di investimenti che ammonta a 1600 miliardi, dovete ammettere che vi è una discreta proporzione. Sempre meglio se si potesse fare a meno di questi armamenti, d’accordo: ma non si può assolutamente parlare di questo grande riarmo indiscriminato, fatto percorrendo quella famosa strada che porterebbe al disastro. E siamo poi sicuri che la Russia ed i suoi satelliti hanno del dopoguerra la stessa concezione che abbiamo noi, che hanno avuto tutti gli uomini liberi che hanno voluto fondare la Società delle nazioni e l’Organizzazione delle Nazioni Unite, cioè un’organizzazione che escluda la guerra come metodo di soluzione dei problemi, che abbia la forza di intervenire e fare da arbitra in caso di conflitti o di aggressioni, ossia un’organizzazione pacifista che dovrebbe escludere lo scoppio dei conflitti? Non sappiamo se la Russia la pensa in questo modo, anzi dovremo dire di no. Perché, tutta la politica russa, se la considerate bene, è la politica ancora di sanzione dell’immediato dopoguerra, è politica che richiama ai primi trattati e alle prime convenzioni fatte sotto l’impressione degli orrori della guerra, dell’ingiustizia della guerra, delle prepotenze dei popoli che avevano voluto la guerra. È la politica dettata da questo spirito di rappresaglia e di preoccupazioni per premunirsi contro eventuali attacchi, contro eventuali ritorni. Questo spirito fino ad un certo punto può essere giustificato. Non si può negare che, dinanzi agli eccessi della nazione tedesca del nazional-socialismo, le precauzioni non siano inutili o non siano necessarie. Ma ispirarsi come principio fondamentale al criterio che in Europa, nella vecchia Europa civile, sia possibile mantenere dei popoli completamente al di fuori della norma generale e delle attribuzioni della sovranità, e questo per sempre, questa è una tesi insostenibile. Questo è un tentativo di arrestare la storia, come altri fecero al tempo della «santa alleanza». In realtà la storia è in evoluzione, e la storia per evolversi cerca di lavorare intorno a certi princìpi di libertà e di democrazia, che noi stessi abbiamo proclamato e che sono stati i frutti della guerra, e che devono diventare anche i frutti delle potenze che sono state vinte. Ad Ottawa, dice Nenni, voi avete assunto gravissimi impegni; e non ce ne fate parola, ve ne vergognate; nefasti impegni, dice, dei quali siete responsabili. Io ho risposto, credo di aver risposto a sufficienza, ma tornerò a ripetere che noi non abbiamo assunto alcun impegno nuovo. È verissimo che noi siamo in arretrato con quello che ci è stato chiesto, con quel programma generale delle 40-45 divisioni (perché non credo di arrivare neppure a 50), ma tutto ciò è stato deliberato dal Parlamento, ed è ormai legge dello Stato. Ciò non esclude che nell’evoluzione del Patto atlantico si possa essere associati ad ulteriori sacrifici come tutti gli altri popoli. Questo non lo nego. Lo vedremo, difatti. Ad Ottawa, per la resistenza delle forze economiche e sociali nei confronti di quelle che intendono accelerare la preparazione militare per la difesa, si è costituito il comitato dei dodici, di cui fa parte anche l’onorevole Pella e che risiede a Parigi. Questo comitato ha proprio il compito, da una parte, di analizzare tutti i problemi e le possibilità economiche e le necessità sociali, e dall’altra parte le esigenze della difesa militare. Quindi, dopo questo esame, si vedrà quali potranno essere i nuovi investimenti di ogni genere, civili e militari. Non è esatto, come ha detto l’onorevole Nenni, che i tre «grandi» nella loro riunione a Washington avrebbero deciso l’intensificazione dello sforzo bellico e che la conferenza di Ottawa si sarebbe limitata ad esaminare le decisioni eventualmente già acquisite. I tre, infatti, come è detto nel comunicato del 17 settembre, presero solo nota della necessità di esaminare ulteriormente, in collaborazione con gli altri membri, il più efficace metodo per l’utilizzazione delle loro risorse, tenendo pienamente conto delle esigenze economiche e militari dei rispettivi popoli; e le conclusioni di Ottawa accentuarono ancora l’aspetto sociale ed economico del problema. Perché l’onorevole Nenni, che mi ha attribuito tutti i torti, non si è ricordato della mia affermazione al Senato che l’articolo 2 del trattato considera anche le esigenze sociali ed economiche, per cui questa solidarietà della difesa può e deve diventare la solidarietà della vita pacifica dei popoli, e quindi creare nel Patto atlantico la comunità atlantica? Perché non ha rilevato che almeno una volta tanto la voce di un rappresentante italiano ha avuto ragione ed ha espresso un parere che venne appoggiato poi da una grande maggioranza? Perché così fu: la conferenza di Ottawa accettò quella risoluzione che riguarda la comunità atlantica. Non dico semplicemente per mio suggerimento (anzi, essa venne proposta dall’America): ma è vero che noi avevamo prefigurata questa estensione del Patto atlantico, e che alla parola «approfondimento» – che mi pare di aver ripetuto anche qui in questa Camera o, in ogni modo, al Senato – si è dato da parte dell’estrema un senso del tutto contrario al mio pensiero, cioè quasi di inasprimento del problema militare o del problema della difesa. Al punto 5 del comunicato ufficiale di Ottawa del 20 settembre è detto: «tutti i governi membri hanno riconosciuto che il loro sforzo comune deve tendere a portare le loro forze di difesa ad un livello sufficiente. Essi hanno del pari riconosciuto che il mantenimento di una economia sufficientemente sana e stabile è indispensabile per sostenere tale sforzo, e costituire un obiettivo non meno importante». E nella dichiarazione pubblicata concludendo i lavori si ribadisce la necessità di una più intensa collaborazione nei settori economico, finanziario e sociale, al fine di promuovere ed assicurare la conservazione del benessere e della stabilità economica, tali da perdurate anche dopo l’attuale periodo di sforzo difensivo mediante l’organizzazione della NATO e mediante altre organizzazioni. È a questo punto, onorevole Giolitti, ed anche onorevole Nenni, che il ministro del Tesoro degli Stati Uniti, Snyder, interpellato ha detto: «ma noi non abbiamo preso nessun impegno finanziario concreto con la proclamazione della solidarietà economica e finanziaria atlantica». Ed è verissimo: nessuno glielo aveva chiesto; non era neppure pensabile. È una dichiarazione programmatica sulla quale bisogna lavorare. A questo solo si riferiva Snyder, e non è vera l’applicazione che ne avete fatto voi, che egli fosse stato negativo su quanto era stato concesso a noi stessi o ad altri paesi. Nella mia dichiarazione del 19 settembre circa i compiti dell’organizzazione del Patto atlantico ho detto: «noi lavoriamo a rafforzare le nostre istituzioni democratiche, a sviluppare le nostre democrazie, a migliorare le condizioni del nostro paese in modo che possiamo essere meglio in grado di difenderlo. Se la democrazia è debole, se vi sono troppi problemi morali, materiali e sociali insoluti, essa non può opporre resistenza a chi l’assalta dal di fuori o dall’interno» . Debbo aggiungere (e qui non posso essere preciso, perché si tratta di riunioni confidenziali) che il problema il quale ha preoccupato l’onorevole Saragat – delle suggestioni democratiche, cioè, di questa organizzazione – ha preoccupato anche me, e ho detto così: «non rifate l’errore della seconda guerra mondiale quando vi siete associati (si capisce che ciò sia avvenuto dinanzi alla minaccia germanica) con regimi non democratici e avete reso impossibile continuare la propaganda in nome della libertà e della democrazia. Dopo la guerra, purtroppo, la contraddizione era un fatto davvero così evidente che oggi si dovrebbe almeno cercare di non fare altrettanto». Questo ho detto con riguardo ai regimi che non sono di democrazia. E ho detto ancora: «noi abbiamo bisogno di dire agli operai in modo particolare, ed in genere ai lavoratori, che noi non difendiamo qui i ceti privilegiati, non difendiamo le posizioni sociali acquisite, ma la libertà e la democrazia, cioè l’opportunità, la convenienza, la strada, la via maestra dello sviluppo libero che deve portare i lavoratori al governo di un regime libero e democratico». (Applausi al centro e a destra). Lungi, quindi, dal prendere decisioni insensate – che possono provocare ripercussioni sociali e politiche estremamente gravi – ci si è proprio preoccupati, invece, di assicurare il benessere economico e la stabilità sociale dei popoli liberi, senza rallentare lo sforzo difensivo cui sono costretti dalla violazione delle leggi internazionali da parte dei regimi bolscevichi. Anche la proposta ammissione della Grecia e della Turchia nel Patto atlantico e il reinserimento della Germania nella comunità europea, in quei limiti e a quelle condizioni cui ho accennato e accennerò ancora, sono iniziative di pace, non di guerra, e mirano proprio a fugare quei pericoli che l’onorevole Nenni dice di paventare. Ora, nella dichiarazione dei «tre» (io vorrei che, dopo aver letto certi altri incisi che l’onorevole Nenni ha citato, si leggesse anche questo) si dice: «i tre ministri, a nome dei rispettivi governi e popoli, affermano la propria fedeltà al principio contenuto nello statuto dell’ONU secondo cui ogni divergenza internazionale dovrà essere risolta con pacifici provvedimenti e non con la forza o con la minaccia della forza; esprimono perciò la speranza che l’imminente riunione delle Nazioni Unite a Parigi fornirà una concreta occasione di contatti e di scambi di vedute di cui i tre ministri degli Esteri sono pienamente disposti dal canto loro ad avvalersi». È un annuncio, è un approccio, un avvicinamento, una parola evidentemente diretta all’altro schieramento, perché l’appuntamento a Parigi il giorno 6 novembre vale naturalmente per tutte le potenze che sono nelle Nazioni Unite. E noi, che veniamo accusati di non agire sufficientemente per la pace e di lasciarci trascinare ad una politica di guerra, dobbiamo deplorare, ogni volta che si apre una tale possibilità, una certa finestra di azzurro, che ci si ostini a non permettere all’Italia, con le sue forze morali, cui ha accennato soprattutto Truman, di essere rappresentata in seno a quella società di nazioni dove si possono avvicinare gli uomini di sinistra e di destra, ed in cui si fa veramente opera di distensione e di chiarificazione. (Approvazioni al centro e a destra). Ma ciò non preoccupa molto i nostri amici di estrema, i quali si sono affrettati a dire che l’opera nostra di revisione non andrà a posto: perché volete pretendere che la Russia accetti una revisione che, in fin dei conti, dà all’Italia la libertà di armare di più, quella di armare oggi? E volete pretendere che la Russia permetta all’Italia di entrare, senza che contemporaneamente i suoi satelliti vengano accolti? Ma quante volte dobbiamo ripetere, prima di tutto, che questo sacrosanto diritto alla revisione del trattato è ammesso anche dalla Russia, che Molotov in persona e ultimamente Gromiko hanno dichiarato che non possono fare obiezioni di principio all’ingresso dell’Italia perché hanno riconosciuto che l’Italia è un paese democratico, di regime di libertà, cosa che non si potrebbe dire di tutti gli altri! (Commenti all’estrema sinistra). Comunque, io non sono chiamato a dare un giudizio; dico che l’ONU è aperta, secondo lo statuto, ai regimi liberi e l’Italia ha un regime libero; e anche voi dovreste fare opera veramente comunista chiedendo che noi entrassimo nell’ONU. (Applausi al centro e a destra). Quanto alla Germania, in modo speciale, il comunicato dei «tre», che poi ci venne trasmesso e comunicato, naturalmente, alla Conferenza di Ottawa (è verissimo che prima si ebbe una discussione ed anche un accordo fra i «tre», questo non si può dire non sia cosa naturale, giacché si tratta delle potenze occupanti che hanno uno statuto speciale e una responsabilità particolare), dice tra l’altro: «i tre ministri riaffermano che questo dovere è inteso all’instaurazione ed al mantenimento di una pace duratura, fondata sulla legge e sulla giustizia. Lo scopo è di rafforzare la sicurezza e la prosperità dell’Europa, senza comunque mutare il carattere puramente difensivo della NATO. Essi affermano la loro decisione che in nessuna circostanza ci si debba avvalere dei suddetti accordi ai fini di qualsiasi azione aggressiva». Si può credere o non credere, ma non è lecito omettere di citare questo passo quando si parla delle decisioni responsabili dei ministri dei principali Stati europei e americani; si può credere o non credere, ma non si può fingere che da una parte sola vi siano formazioni di pace e dall’altra parte non vi siano altro che opere di guerra e affermazioni belliche. La dichiarazione conclusiva di Ottawa contiene queste parole: «la salvezza della pace costituisce l’intima essenza del significato di questa comunità, la cui forza costante deriva dalla libera discussione dei modi di realizzazione di questo obiettivo». Ecco quale è la forma democratica del deliberare, dell’avviare in concreto, di azioni anche di distensione e anche di accordi. E non è possibile essere contemporaneamente membri del Consiglio atlantico e, al di fuori, in altra sede, fare la propaganda controatlantica, di sfiducia, di sospetto e di diffidenza. Bisogna onestamente, se questo è il punto di partenza, dire: siamo soci con pieno diritto, con libera possibilità di sostenere criteri di pace. Tutto questo lo sosteniamo, però d’accordo con voi, in discussione con voi, cercando sempre questa forza compatta di decisione che può essere decisiva specialmente in momenti di grande importanza. Vorrei che questa circostanza di metodo si chiarisse molto bene. Non è possibile pensare di essere membri del Patto atlantico, di un consiglio di rappresentanze di popoli, i quali hanno fatto un programma che adesso si allarga addirittura ad un programma di vita sociale, di vita collettiva, e contemporaneamente diffidare, accusare alcuni di loro, e soprattutto i più importanti, di avere nascosto dietro al cervello l’agguato contro la pace e la preparazione della guerra: non è possibile. O ci si crede e si ha pregiudizialmente un rapporto di fiducia, ed allora si lavora insieme, si lavora onestamente, e a questo impegno – che è impegno di parlamenti e di paesi – si deve subordinare e coordinare tutta l’attività di un paese, perché non si può essere che una linea sola, una realtà sola, una figura sola, e l’Italia soprattutto ha bisogno di accentuarlo perché nel passato non sempre ebbe l’occasione di dimostrarlo. Abbiamo bisogno, dunque, di quella che voi mi avete fatto carico di avere usato: della franchezza e della onesta ammissione anche delle buone intenzioni di amici. L’onorevole Togliatti, in modo particolare, mi ha detto: che piaggeria inutile queste lodi al Congresso. Prima di tutto non è una piaggeria, e in secondo luogo non è inutile. È difficile giudicare e valutare un popolo intero, l’impulso che lo spinge, la mentalità che lo dirige. È vero, è difficile; però ognuno ha il suo modo di osservare, ha gli elementi su cui basa deduzioni e induzioni. Io, come vi ho detto prima, credo che – e l’ho detto al Congresso americano – «i popoli (vi prego di rileggere quel passo) sono spesso spinti da elementi contraddittori nella storia. Alcuni sono virtù, altri sono difetti, altri sono passioni» . Ho aggiunto però: io so che nel fondo vi è sempre un impulso unico, una idea fondamentale ed io credo veramente – e lo dissi e lo ripeto anche oggi – che la tradizione della democrazia americana, della libertà, resta ancora oggi l’elemento principale, l’impulso principale della sua azione. Lo so, vi sono interessi, vi è la parte economica, vi è la parte finanziaria, vi sono le passioni, come ho detto prima, possono esservi degli errori. Ma, in fondo, c’è questo pensiero fondamentale che ci ha dato veramente ore di conforto nei tempi della clandestinità e della tirannia e che solo, badate bene, giustifica la guerra di liberazione, solo giustifica anche le posizioni così tragiche in cui ci siamo trovati e molti di noi si sono trovati durante la guerra: questo amore per la libertà, questa fede nella libertà la quale è senza dubbio una possente tradizione americana e alla quale dobbiamo anche noi, nella nostra storia, tanta ispirazione nei momenti decisivi dello sviluppo nazionale. (Vivi applausi al centro e a destra). Naturalmente, se voi date la interpretazione: miliardi, miliardari, importazione ed esportazione, voi applicate la vostra concezione dottrinale marxista, ma di vecchio tipo, perché di marxisti attuali non ve ne sono più. Voi dovete infatti aggiungere al termine marxista quello leninista, cosicché abbiamo un concetto dottrinale di nuovo tipo. Voi applicate a questo principio la spiegazione di tutti i fenomeni di politica sociale. Su questa materia non possiamo intenderci evidentemente, per quanto la evoluzione abbia anche in voi agito nella vostra fede e nella vostra dottrina. Noi, viceversa, abbiamo imparato a dare forse maggiore importanza ai problemi economici e sociali di quella che una volta si desse loro. Veniamo alla revisione. L’onorevole Nenni ha richiamato i suoi precedenti, e sta bene. Ma allora, come ha detto l’onorevole Martino, allora sia grato, sia felice che noi ci siamo messi sul suo solco. Se non mi sbaglio, era un solco comune, in quel tempo, quando l’onorevole Nenni era ministro degli Esteri ed io presidente del Consiglio. Comunque, io sono felicissimo di essermi ritrovato su quel solco. Ma l’onorevole Nenni dice: perché avete inserito questa revisione nelle questioni che dividono il mondo? In poche parole, avremmo dovuto cercare una revisione su cui tutti fossero d’accordo. Perché? La necessità delle cose e della situazione ci ha portato a questo: che non possiamo fare altro che cercare di ottenere prima l’adesione dei tre che sono legati a noi da altri vincoli, da altri doveri morali (Patto atlantico) e poi tentare con gli altri; ed è quello che si sta facendo. Voi non avete considerato che, in realtà, noi non abbiamo fatto una revisione di autorità fuori di ogni giure internazionale. No, noi abbiamo chiesto una affermazione di principio (ciò che è stato fatto) e abbiamo in corso una procedura, in una certa fase della quale si chiede a tutti i firmatari, compresa la Russia, se sono d’accordo o no. Che cosa dobbiamo fare, che cosa dovevamo fare per sfuggire alle questioni che dividono il mondo, se la Russia – come è già stato detto da questa cattedra – ha dato una risposta a mezzo di Molotov duramente negativa circa la revisione che aveva chiesto l’onorevole Nenni a suo tempo? Perché, ditemi, avete perso un’occasione così bella di dimostrare al popolo italiano che quando si tratta di interessi internazionali voi appoggiate anche un governo avversato in politica interna? Perché avete anticipato la giustificazione di una ripulsa, voi che dite addirittura che è stato offensivo imputare alla Russia un pensiero di conciliazione e di distensione verso l’Italia? La revisione, del resto, è stata sempre perseguita dal governo italiano. Ricordo che nel gennaio del 1947 ne parlai – ed ottenni certi progressi – in America, tanto che su questi impegni, che erano allora semplicemente preliminari, si svolse poi la revisione delle clausole economiche, di cui al trattato commerciale di amicizia negoziato per tramite dell’onorevole Lombardo. Ma ditemi se proprio ho esagerato nell’ottenere che alla revisione di fatto fosse necessario succedesse una revisione essenziale per la dignità e l’onore del popolo italiano, una revisione anche giuridica e morale. Io so che le cose vanno ormai avanti da sole e che non era assolutamente necessario provvedere anche al mutamento della formula giuridica del trattato di pace; senonché, come si vive anche di dignità personale e come la vita sociale e politica ha ben bisogno di una sua dignità, così noi abbiamo il dovere e il diritto di provvedere anche alla dignità della nazione. (Applausi al centro e a destra). Evidentemente a queste cose ognuno dà la valutazione che crede; ma è certo che, per esempio, gli emigrati italiani che sentivano che gli Stati Uniti ed altri undici paesi a Ottawa emettevano una dichiarazione in cui riconoscevano l’uguaglianza dell’Italia nei loro confronti, non hanno ritenuto superflue quella dichiarazione e quella «cerimonia». Queste manifestazioni di carattere esteriore, infatti, hanno un loro riflesso indubitabile nell’animo della popolazione, nell’educazione e nella formazione della gioventù, nel sentimento di tutti coloro che hanno cuore e ideale per la patria. Quanto a Trieste, debbo dichiarare all’onorevole Nenni, che me ne ha fatto richiesta e a voce e sulla stampa, che il famoso accordo di compromesso fra Tito e Harriman non esiste, e se qualche giornale lo ha riportato tutto o in parte, esso ha lavorato di fantasia. Io posso fare questa dichiarazione per scienza diretta, perché ne ho parlato con Harriman e perché il governo degli Stati Uniti mi ha autorizzato ad emettere questa smentita. Si tratta di una precisazione che ho già fatto; ma, dal momento che anche qui ne è affiorata la necessità, io sono ben contento di ripeterla con maggior forza davanti al Parlamento. Evidentemente, trattandosi di un preteso accordo fra gli Stati Uniti e la Jugoslavia, la relativa smentita non poteva essere fatta che dagli Stati Uniti stessi o, previa loro autorizzazione, da un altro. Senonché voi che siete legati da autentici rapporti di sudditanza alla vostra internazionale non potete abituarvi a credere che rapporti di altro genere possano correre fra uomini di correnti affini fra loro. L’onorevole Nenni ha insistito sulla famosa faccenda dello sganciamento, che egli ha riconosciuto poter costituire un titolo di merito in una determinata condizione. In verità, lo sganciamento non è stato tentato dagli americani, ma dagli inglesi che avrebbero visto volentieri risolte contemporaneamente le due questioni della revisione del trattato e di Trieste. Senonché essi non vi hanno insistito di fronte alla nostra ferma decisione di voler mantenere distinte le due questioni stesse. Secondo noi, infatti, lo sganciamento avrebbe indebolito la nostra posizione, potendo la revisione prestarsi come mezzo indiretto di pressione nei nostri riguardi. Del resto, va da sé che una soluzione del problema di Trieste è parte della revisione del trattato, alla quale revisione, evidentemente, non rinunciamo, sia pure preferendo un mezzo ad un altro. Dunque, io credo che l’onorevole Nenni possa attribuirmi il merito di avere sganciato il tema di Trieste da quello generale della revisione. Tutto, certamente, dipende dai risultati: questo lo riconosco. Veniamo ai problemi economici. Le affermazioni principali dell’onorevole Nenni nel settore economico ci sembrano le seguenti. 1)I risultati del Piano Marshall furono una notevole restrizione delle nostre esportazioni. L’affermazione è completamente falsa, perché le nostre esportazioni fra il 1947 ed il 1950 sono raddoppiate, passando da 339,2 miliardi di lire nel 1947 a 746,4 miliardi di lire nel 1950. Infatti le cifre complessive della nostra esportazione sono le seguenti: 1947, 339,2 miliardi di lire; 1948, 570,6 miliardi di lire; 1949, 634,6 miliardi di lire; 1950, 746,4 miliardi di lire. E se lei mi fa la questione del valore, glielo posso dare anche in dollari. 2)Quando gli aiuti – ha detto l’onorevole Nenni – non sono stati più impiegati per inviarci generi alimentari ma per l’acquisto di macchinari, abbiamo avuto la crisi dell’industria meccanica. A parte la voluta dimenticanza che fin dal 1946, attraverso gli aiuti americani, oltre i generi alimentari, sono state fornite all’Italia materie prime industriali essenziali senza le quali tutta l’attività industriale sarebbe stata paralizzata (carbone, materiali metallici non ferrosi, petrolio, prodotti siderurgici, cotone), legare la crisi dell’industria meccanica italiana alle importazioni di attrezzature ERP è fra gli slogans più infondati dell’opposizione: vi prego di notarlo. L’abbiamo smentito già parecchie volte. Continuate a ripeterlo, lo ripetete nella stampa, lo affiggete ovunque; ma non è vero, è falso! Si è ripetuto fino alla noia che le importazioni di attrezzature ERP riguardano quasi esclusivamente macchine non producibili in Italia e che la parte di gran lunga prevalente di tali importazioni è servita ad ammodernare e a rendere efficienti aziende meccaniche o settori – quali il siderurgico e l’elettrico – che producono per le aziende meccaniche. Si tratta di 172 milioni di dollari su un totale di 335 milioni di contratti stipulati. L’onorevole Nenni dimentica, inoltre, che le attrezzature arrivate in Italia nel 1950-51 hanno un valore totale che si aggira intorno ai 50 miliardi di lire, cifra che rappresenta il 10 per cento circa del valore totale della produzione meccanica nazionale. Che sia proprio questo 10 per cento di attrezzature – in gran parte non messe ancora in funzione per il tempo necessario intercorrente tra l’arrivo e l’installazione – a produrre la crisi dell’industria meccanica, l’onorevole Nenni sa benissimo che non è vero. Quante volte abbiamo parlato qui dei miliardi erogati dallo Stato dal 1944 al 1950 per cercare di tamponare le situazioni drammatiche, di aziende sviluppatesi in clima di autarchia economica o in funzione della produzione bellica, aziende il cui ridimensionamento è stato in tutti i modi ostacolato dalla Cgil? Infine, non è affatto vero che le attrezzature costituiscano una parte preponderante degli aiuti economici: nel 1950-51 sono state rappresentate da 58 milioni di dollari su un aiuto totale di 302 milioni, e per il 1951-52 rappresentano circa il 10 per cento degli aiuti totali. A soccorso delle cognizioni economiche dell’onorevole Nenni è venuto l’onorevole Giolitti, il quale è munito di una presunzione assiomatica quando porta delle cifre, contro le quali credo divenga inutile anche appellarsi alle statistiche… GioliTTi. Sono le vostre statistiche! De Gasperi. Per l’onorevole Giolitti, De Gasperi, anche in America, ha fatto gli interessi dei gruppi monopolistici a cui vanno i macchinari importati. Ora, se un successo è stato ottenuto riguardo al macchinario, è stato proprio quello di strappare a concorrenti stranieri, americani, i grandiosi macchinari siderurgici, preziosi, assolutamente necessari in questo momento a favore della Finsider, cioè dello Stato. E qui dovrei entrare a discutere sopra le singole voci: aiuti economici, aiuti militari, commesse tramite Stato, commesse private, prestiti, materie prime, navi, eccetera, di cui ho qui tutti gli elenchi compilati dai funzionari tecnici e le conclusioni probabilissime, se non del tutto accertate, a cui sono arrivato nelle conversazioni di Washington. Ma vi ho rinunziato già l’altra volta, perché non voglio che all’ultimo momento, quando si fissano le cifre, vi sia qualche differenza che mi possa venire imputata. Comunque, di fronte ad ognuna di queste voci, ho affermato quella che potrebbe essere la cifra probabile. L’onorevole Giolitti ritiene che saranno sacrificati gli investimenti produttivi. L’America, però, non ci darà solo gli aiuti per la messa in efficienza delle nostre forze armate, ma continuerà a dare materie prime e beni per lo sviluppo produttivo. Si sappia che il programma di investimenti civili rimarrà intatto nel suo volume di 1.650 miliardi, e che gli americani non solo non hanno messo limiti, ma ci continueranno a rifornire del necessario affinché ciò avvenga. Gli aiuti economici saranno esclusivamente di materie prime ed alimenti (carbone, petrolio, rame, ferro, grano), e materie prime saranno comprese anche negli aiuti militari. Altra accusa: gli aiuti andranno a favore dei monopoli e del riarmo. Degli aiuti di quest’anno posso affermare che nemmeno una lira andrà ai cosiddetti monopoli, ma ai settori privati, attraverso una rete vastissima, e ciò non soltanto per le importazioni, quali il carbone, che arriverà fino all’ultimo artigiano, ma anche per il fondo-lire, che per una notevole parte è stato assegnato alla Cassa per il Mezzogiorno, e per un’altra notevole parte ai lavori pubblici. Anche le commesse belliche avrebbero due qualità contraddittorie: 1) essere poche; 2) essere in ogni caso una jattura, perché assorbirebbero materie prime e non avrebbero corrispettivo di beni di consumo. Rispondo che queste commesse sono pagate al cento per cento, ed i dollari serviranno ad introdurre in Italia i beni di cui l’onorevole Giolitti denunzia la carenza. Le materie prime saranno reintegrate integralmente. Non vi saranno problemi di gonfiamenti artificiosi. Ci siamo preoccupati anche di questo, perché le commesse saranno date nei limiti delle capacità produttive esistenti, e non si creeranno nuovi stabilimenti su basi transitorie, come è avvenuto nel passato, e che sono serviti solo a fornire una massa di malcontenti al Partito comunista. L’onorevole Giolitti si è riferito ad una mia dichiarazione fatta quest’estate circa la indisponibilità di beni dall’oriente. Ne ha parlato anche l’onorevole Togliatti. Ogni volta che si tocca questo argomento, si ripetono le stesse argomentazioni, che vengono poi dimenticate, perché si batte sempre con lo stesso martello. Intanto, quel poco di carbone che la Polonia ci offre lo compriamo, nonostante l’altezza del prezzo; come pure tentiamo di comprare il poco grano – al massimo un decimo delle nostre importazioni – disponibile nella Russia, che ce lo offre, ai più alti prezzi praticati nel mondo. Ma dove troviamo il rame, e ne abbiamo bisogno per 80 mila tonnellate; i prodotti siderurgici, per 300 mila tonnellate; il cotone, nel suo enorme quantitativo importato dagli Stati Uniti, 140 mila tonnellate; i prodotti petroliferi, oltre 5 milioni di tonnellate, ed altre materie essenziali? L’accusa di non attingere là dove queste materie prime sono disponibili è completamente infondata. Ora vorrei rispondere su alcuni punti particolari. L’onorevole Treves mi ha interpellato circa l’amministrazione militare alleata nella zona A del territorio libero di Trieste. Mi richiamo alla mia dichiarazione del 5 ottobre ed aggiungo che, anche al di fuori delle conversazioni ufficiali, mi sono fatto premura di inculcare nella mente degli uomini di Stato americani che il territorio libero, oggi Trieste compresa, deve essere amministrato secondo le leggi e i criteri amministrativi italiani, per le ragioni cui ho accennato, sia perché il territorio libero, non è costituito, in mancanza del governatore (e quindi le vecchie leggi non possono essere revocate: il trattato prevedeva che la revoca la dovesse fare il governatore) sia perché non essendo stato costituito il territorio libero, adesso quel territorio deve essere riguardato come territorio occupato; e si sa che, per la convenzione dell’Aja, nel territorio occupato vigono le leggi vigenti anteriormente all’occupazione, salvo casi di urgente necessità. Posso assicurare l’onorevole Treves che ho energicamente insistito, nel corso dei colloqui a Washington, sulla necessità di richiamare gli occupanti al rispetto dell’amministrazione italiana, basata sullo spirito della dichiarazione tripartita di Trieste. Quanto al problema della emigrazione, il cui volume è crescente ed oggi accompagnato da sempre più attenta assistenza all’emigrante, posso rispondere alle critiche degli onorevoli Giolitti, Lupis e Foresi , in base ad alcuni dati di fatto. Il Congresso americano ha in questi giorni stanziato una prima somma di dieci milioni di dollari per dare vita ad una iniziativa internazionale di trasferimento della manodopera europea dai paesi in cui essa è eccedente a quelli in cui è deficitaria. Avete letto sui giornali che un membro del Congresso ha proposto, senza toccare ancora l’atto di emigrazione, di aprire le vie ad un contingente di lavoratori italiani: circa 50 mila in un quinquennio. È tutt’altro che soddisfacente la misura e la forma; però posso dirvi – non credo di commettere una indiscrezione – che il presidente Truman ha dichiarato di essere altamente convinto non solo del dovere morale di aiutare la nazione italiana in questo senso, ma anche dell’utilità somma della emigrazione italiana negli Stati Uniti. Però egli ha aggiunto che trovava grandi difficoltà, come le ha trovate altre volte, nella opposizione di rappresentanze di diversi interessi – che qui è inutile giudicare – nel Congresso stesso. Quella proposta è dunque un saggio di resistenza, che può portare, senza dubbio, a diverse altre iniziative. Poiché è stato espresso dagli onorevoli Lupis e Foresi il desiderio di un dibattito speciale sopra questo importante problema, credo che dovremmo prossimamente cogliere l’occasione sia della discussione sul Consiglio superiore dell’emigrazione, sia di apposita mozione per continuare questa discussione. All’onorevole Tolloy , che mi ha fatto colpa di avere promosso la sospensione delle elezioni a Trieste, devo dire: primo, che furono tutti i partiti, almeno quelli rappresentati nella maggioranza, a chiedere la dilazione; secondo, che io politicamente ho appoggiato questa domanda, proprio perché io volevo che le elezioni non si facessero in atmosfera arroventata, come si è incominciata ad arroventare durante l’estate per la campagna dei giornali, e preferivo – nell’interesse del paese e della cooperazione internazionale in genere – che le elezioni si svolgessero in un periodo di maggiore tranquillità e serenità. Feci anche la proposta dell’«unione sacra», come dice l’onorevole Tolloy. Ebbene, non è che io abbia proposto la coalizione dei rappresentanti di tutti i partiti; avevo proposto un certo sforzo che doveva costituire un esempio anche per altre situazioni dell’Italia. Lo avevo detto anche al Senato, molto tempo prima. Sostenevo una lista che rappresentasse, sì, tutte le tendenze, ma che non fosse di per sé garante di tutti i partiti. Aggiungerò che l’idea in molte zone era piaciuta, perché si era dimostrata, dai partiti estremi o che passano per tali, la volontà di escludere dalla lista dei candidati quei personaggi che fossero troppo contrastati per il loro passato, o per le responsabilità che in passato avevano assunto. Quindi mi pare che vi era una volontà di concordia. Comunque, appena i partiti decisero diversamente, mi sono ben guardato, naturalmente, dall’insistere. Ho seguito con particolare attenzione gli interventi degli onorevoli Guglielmo Giannini, Amadeo, Covelli, Gaetano Martino, Russo Perez e Zagari. Ho letto l’ordine del giorno dell’onorevole Zagari e le argomentazioni con le quali egli lo ha illustrato. Ho preso atto delle critiche, dei rilievi e dei suggerimenti. Da vecchio democratico e parlamentare sono convintissimo che le discussioni fatte con una certa serietà e le formulazioni che vengono da diverse parti possono giovare moltissimo, sia direttamente sia indirettamente, al governo. L’onorevole Togliatti mi ha domandato se ho la coscienza della gravità della situazione. Credo che egli intendesse rispondere negativamente, e mi ha attribuito una grossolanità provinciale in confronto alla finezza aristocratica del conte Sforza, al quale auguro che le lodi postume lo compensino almeno in parte delle ingiurie passate. Sì, onorevole Togliatti, sento molto la responsabilità che mi sono assunta e che mi è stata data; se non la sentissi, avrei cercato di rifiutarla. Molti amici mi hanno benevolmente consigliato di provvedere ai casi miei, cioè di provvedere al mio partito. L’onorevole Giannini ha ieri amichevolmente di nuovo insistito su questo consiglio. Debbo riconoscere che è giustissimo, ed è un discorso che forse avrei dovuto fare prima con diversi amici. Perché non l’ho fatto? Perché sentivo la necessità di affrontare anche questa fatica e questa responsabilità con la piena chiarezza della mia coscienza, ma soprattutto perché sentivo che nei momenti difficili i più vecchi ed i più sperimentati, se sono chiamati, non debbono rifiutarsi. Non bisogna disertare. Quali conseguenze verranno? Ci si brucia? Non ci si brucia? Che importa! Un uomo che è arrivato ad una certa età, che ha una certa esperienza, che ha certi meriti e demeriti, ormai deve essere al di là del bene e del male, politicamente parlando, e deve badare soprattutto al servizio della nazione. Io non domandavo altro ai miei avversari politici. Non chiedevo che mi dicessero che io avevo avuto successo, la quale parola non è stata mai sulla mia bocca, ma che ammettessero che è stato un atto di coraggio e di buona volontà che io ho compiuto. (Vivi applausi al centro e a destra). L’onorevole Togliatti mi ha detto che avrei dovuto scoprire lo stato d’animo criminale dei miliardari che vogliono la guerra. Mi pare di aver già detto che non mi sono incontrato affatto con miliardari… Mi sono invece incontrato con uomini di Stato, uomini provenienti dalle masse popolari, con molti lavoratori, e ho avuto l’impressione che, se ad un dato momento la bilancia dovesse cadere verso la pace per opera dell’opinione pubblica, l’opinione pubblica sulla quale io punterei sarebbe soprattutto l’opinione pubblica democratica americana. Nonostante quello che si va dicendo, lo spirito di libertà, lo spirito di democrazia, lo spirito pacifico sono tali che bisognerà davvero trovarsi di fronte ad un’aggressione evidente perché le armi americane possano muoversi. Ed io credo che in questo l’Europa unita può avere fiducia. D’altro canto, sapete qual è la paura dell’America? La paura dell’America è che un’Europa inerme, inerte e disgregata interiormente da forze contrastanti apra le porte all’invasione. Non ho mai visto un paese come l’America nel quale si sopportino con tanta dignità le perdite di vite umane che avvengono in Corea, e sono pur notevoli. Unanimità di pace nella volontà costruttiva anima la massa e i dirigenti. Se voi ci chiedete di cercare ogni occasione seria per favorire la distensione, lo faremo, è la nostra volontà; l’abbiamo gia fatto, ma in seno alla realtà del Patto atlantico, non fuori, e dando sempre la convinzione che non ci sono dubbiezze in noi, e che la strada sulla quale ci siamo incamminati è la strada giusta, sulla quale marceremo verso la pace non verso la guerra. Bisogna che sappiamo confermare la fiducia nei nostri alleati, come gli alleati hanno confermato la fiducia in noi, fino a che la loro alleanza ci dia la sicurezza e ci permetta di decidere dei nostri problemi e della nostra vita in libertà. Onorevole Togliatti, ella ha detto una brutta frase, ha detto che le armi che l’America invia all’esercito italiano potrebbero finire in altre mani, cioè nelle mani degli avversari dell’esercito italiano. Io vi dico che voi presumete troppo della vostra forza e troppo della nostra debolezza! Vi metto in guardia, onorevole Togliatti, noi non scherzeremo. Legalmente, in forza della legge, vi impediremo di fare qualsiasi atto insurrezionale in Italia! (Vivi applausi al centro e a destra). E non crediate, quando voi dite che al momento opportuno troveremo qualcuno che ci sbarrerà la strada (se questo accenno ha quel significato insurrezionale che mi pare ovvio), non crediate che avrete da fare sempre con dei vigliacchi che scappano: avrete da fare con uomini che sapranno sacrificarsi se è necessario, che sapranno difendere la patria. (Vivi applausi a sinistra, al centro e a destra). Ma che cosa volete ottenere con simili minacce? Voi fate queste minacce dell’uso della forza perché vi sentite dietro le spalle sorretti, o supponete di essere sorretti, dall’Unione Sovietica. Ma questo ci persuade che anche noi non possiamo esser soli nel momento del conflitto, ci persuade che anche noi dobbiamo avere degli alleati. Ho ancora, onorevole Togliatti, qualche calcolo da fare con lei. L’onorevole Togliatti ha affermato che mentre l’America ci ha dato aiuti per 1500 miliardi, d’altra parte ha prelevato dall’Italia oltre sei mila miliardi; che, anche secondo quanto riporta l’Unità di giovedì 4 ottobre , sarebbero così costituiti: am-lire 860 miliardi; requisizioni 2.000 miliardi; rinunzia a crediti verso la Germania 2.700 miliardi; risarcimento dei beni sequestratici dagli stranieri in Italia 1.000 miliardi. Io non so da qual fonte abbia tratto queste cifre l’onorevole Togliatti. Comunque, posso rettificare con dati di fatto. (Onorevole Togliatti, si guardi da tutti i giornali, compresi quelli governativi, quando si tratta di attaccare il governo). (Si ride). 1)L’ammontare delle am-lire emesse, e che hanno definitivamente gravato sul bilancio italiano, è di 85 miliardi, e non di 860 miliardi. (Commenti al centro e a destra). Questo è un dato di fatto che risulta dalla contabilità ufficiale della Banca d’Italia e che quindi non ammette discussione. Comunque, anche ridotti a limiti così piccoli, gli 85 miliardi non sono serviti a finanziare gli Stati Uniti, ma sono serviti a spese in comune della guerra di liberazione. È da precisare che, per la parte relativa alle spese delle truppe americane, gli Stati Uniti con atto unilaterale ci hanno dato in dollari il controvalore esatto delle am-lire emesse, per un totale di 40 miliardi: lo ricordate questo fatto? (Commenti). 2)Requisizioni militari: il valore non è di 2.000 miliardi. L’Italia ha pagato soltanto circa 100 miliardi, che sono andati interamente a cittadini italiani per danni subiti. Tale obbligo sarebbe caduto qualora la Russia avesse accettato la revisione del trattato di pace. 3)Crediti verso la Germania: 2.700 miliardi? La cifra è pura fantasia. Si tratta unicamente dell’obbligo impostoci da tutte le potenze firmatarie del trattato di rinviare la sistemazione di queste pendenze al momento della conclusione del trattato di pace con la Germania. 4)Risarcimento dei beni sequestrati: si tratta unicamente di restituire quanto è stato ingiustamente preso, indipendentemente da qualsiasi impegno internazionale. Ma, per fortuna, anche qui non si tratta di 1.000 miliardi, ma di cifra infinitamente minore; a tutt’oggi sono stati pagati 10 miliardi. Le cifre sono, dunque, esageratamente moltiplicate; la sostanza assolutamente infondata. Nella parte molto modesta in cui effettivamente abbiamo dato qualcosa, si tratta non di finanziamenti dati agli Stati Uniti, ma di contributi dati dall’Italia alla guerra comune. Ma perché l’onorevole Togliatti non ha fatto piuttosto un analogo conto degli obblighi dettatici dal trattato di pace verso la Russia? Questa ci ha sequestrato tutti i beni italiani esistenti nei paesi d’oltre cortina, per un ammontare di gran lunga superiore alla cifra delle riparazioni imposteci dal trattato di pace. L’onorevole Togliatti mi ha domandato se, quando mi sono presentato in America, avevo i conti in ordine e se ho presentato tutti i bilanci. Avrei fatto una bella figura, onorevole Togliatti, se mi fossi presentato con un conto simile! (Commenti). In quanto al brillante discorso dell’onorevole Saragat , troppi sono i punti fondamentali che ci uniscono perché in questo stadio sia necessario approfondire la discussione sul problema germanico. In generale, siamo d’accordo che non si deve trattare di riarmo indiscriminato, ma limitato e garantito da cautele, organizzative e strutturali, che rendano impossibile un qualsiasi conflitto di rivendicazioni territoriali, che dovranno essere affidate a pacifiche composizioni del trattato di pace. Su questo problema siamo perfettamente d’accordo. Sulla misura delle cautele, e quindi della liceità dell’armamento e della struttura statale, si può discutere e si sta discutendo, ed è giusto che gli occupanti discutano con la nazione germanica stessa. Comunque, mi pare che almeno per questo studio non possano sorgere divergenze in quanto siamo ancora dinanzi alla Germania divisa e, come Saragat stesso ha detto, non fa obiezioni a che si pensi di inserire la Repubblica federale di Bonn nell’Europa unita, a che si tenti, attraverso il piano Schuman e attraverso il piano di Parigi, di vincolare, di associare la Germania all’unità europea. Certo, onorevole Giacchero, ella ha ragione: dopo aver sentito tutto e tutti, dopo avere esaminato le proposte diverse e seguito il mio ottimismo naturale e ricostruttivo, debbo pur concludere che, se mi togliesse dagli occhi la possibilità di ricostituire una unione europea – non parlo tanto d’una struttura in questo momento, ma d’una volontà politica unita – veramente non sarei così tranquillo. La mia volontà e la mia serenità si fondano su questa consapevolezza: che i popoli comprenderanno alla fine la necessità di una unione, di una collaborazione in una forma o nell’altra. Ed è solo se potremo raggiungerla nel quadro del Patto atlantico, dell’unità atlantica, che noi avremo fatto qualche cosa di costruttivo, di permanente, di pacifico, di equilibrato. Ed io credo che in questo i partiti democratici siano tutti d’accordo. Credo specialmente che i socialisti dei diversi paesi abbiano un grande compito cui assolvere, un compito che corrisponde in fondo alle loro tendenze particolari, ove associano al concetto del socialismo quello della democrazia, poiché solo questa è la strada su cui si può veramente creare un mondo nuovo, migliore, in cui il lavoro abbia una maggiore influenza e in cui i rappresentanti della classe lavoratrice abbiano la direttiva. Io non ho paura. Io desidero, e vi guardo con speranza, questo associarsi di forze diverse, tutte democratiche, ed io conto di ripetere quello che dissi ancora ai tempi della conferenza della pace: che cioè, accanto agli ideali mazziniani, accanto agli ideali socialisti, accanto agli ideali antichi di libertà del liberalismo sociale, sia posta anche una ispirazione cristiana, la quale non vuole imporre a nessuno un’armatura, un credo particolare, ma soprattutto vuol penetrare di sé la legge di fraternità che deve essere la base del mondo nuovo. (Vivi applausi al centro e a destra). Altre cose furono molto ben dette dal relatore che mi ha preceduto e dall’amico Bettiol : mi associo alle loro conclusioni, faccio mia la loro ispirazione. Risponderò particolarmente agli ordini del giorno; ma, ritornando per un momento sulla questione germanica, vorrei esprimere anche per la Germania un vivissimo desiderio: che le forze democristiane e le forze socialiste trovino di associarsi in un’opera che non sarà soltanto di redenzione per la loro patria, ma di salvezza per l’intera Europa. (Vivissimi, prolungati applausi al centro e a destra – Congratulazioni). [Il presidente del Consiglio sugli ordini del giorno presentati nel dibattito]. L’ordine del giorno Pajetta Gian Carlo è il più lontano dal punto di vista nostro, ed evidente che il governo non può accettarlo . Sul contenuto dell’ordine del giorno Donati si può essere fino a un certo punto d’accordo, almeno nella sostanza. Tuttavia, esso parte da una premessa che non posso accettare, cioè che esiste una politica di riarmo indiscriminato, di fronte alla quale devono poi intervenire altre distensioni, altri interventi, ecc.. Non potendo Accettare questa premessa, che mi pare non corrisponda alla realtà, né allo spirito che ci anima, non posso accettare l’ordine del giorno . L’ordine del giorno Zagari , nello spirito, è accettabile. Vorrei soltanto fare quelle riserve che prima ho espresso circa la questione germanica. Non vorrei mi si credesse impegnato alla formulazione precisa della questione germanica. Lo accetto come raccomandazione, come linea generale di guida per il governo, con riserva esplicita sul comma che riguarda la Germania. Accetto senz’altro, come raccomandazione, l’ordine del giorno Giacchero sull’unità europea, che mi pare ottimo . Quanto all’ordine del giorno Rivera, sul trattato di pace, non ho difficoltà ad accettarlo come raccomandazione. Altrettanto dicasi per l’ordine del giorno Russo Perez. Accetto, come raccomandazione, gli ordini del giorno Bartole e Covelli, nel senso che questo è l’indirizzo del governo. Naturalmente, non posso però considerarli impegnativi; ma come linea da seguire e come meta da raggiungere, li accetto. Accetto del pari, come raccomandazione, gli ordini del giorno Salerno, Foresi, Lupis, Tibaldi Chiesa, De Carlo Raffaele. Accetto, come raccomandazione, anche l’ordine del giorno Bima, sul cui contenuto mi sono già quasi impegnato a Santa Margherita. […] Vorrei essere franco in questo momento di grande responsabilità. Il governo ha l’obbligo di non lasciar mai mettere in contestazione il significato moralmente vincolativo della dichiarazione tripartita. Non l’ha mai fatto e molto meno lo può fare dinanzi alla maestà del Parlamento. Questa è l’affermazione di principio. Devo però aggiungere che bisogna tener conto anche delle necessità, dirò così, tattiche. In questo momento in cui viene espresso da noi e da altri il desiderio di risolvere la questione non appena se ne presenterà l’opportunità, non è prudente irrigidirci in una formula assoluta che potrebbe dare l’impressione alla controparte di una nostra pretesa di porre come pregiudiziale, prima di intavolare qualsiasi conversazione, l’accettazione del principio che è nostro e, per fortuna, anche dei nostri alleati. Perciò il governo crede che risponda maggiormente allo spirito della dichiarazione, alle legittime aspirazioni italiane e, nello stesso tempo, alla opportunità politica e tattica l’ordine del giorno Bartole, che il governo ha accettato . Questo ordine del giorno, mentre stabilisce che la risoluzione del problema di Trieste deve avvenire «nello spirito della dichiarazione del 20 marzo 1948», nel contempo salva le esigenze di carattere tattico cui accennavo, esigenze che ci impongono di essere estremamente prudenti così che da una posizione di pretto formalismo non derivi danno a quelle che sono le legittime aspirazioni del popolo italiano in ordine a questo estremamente delicato problema. […] Durante la sospensione della seduta ho esaminato attentamente gli impegni che il governo assumerebbe in base all’ordine del giorno, specialmente con l’emendamento proposto. Il governo respinge l’interpretazione dell’emendamento Martino, che induce l’onorevole Covelli a non accettarlo. Il governo dichiara di dare la seguente interpretazione: primo, riaffermazione del significato moralmente e politicamente vincolativo per gli alleati della dichiarazione tripartita del marzo 1948; secondo, impegno per il governo di farla valere in eventuali trattative diplomatiche a pieno soddisfacimento delle legittime aspirazioni del popolo italiano. Con ciò, mi richiamo e mi riaggancio anche alle dichiarazioni fatte a Washington e quindi alle mie precedenti dichiarazioni, cui ci si riferisce nel commentare l’emendamento. Prego la Camera di voler prender atto di questa interpretazione, che è contemporaneamente impegno di governo, e di votare per l’emendamento Martino .
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1,951
1Building the Italian Republic
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Debbo innanzi tutto un particolare ringraziamento al relatore e presidente della Commissione degli esteri per le cortesi espressioni che egli ha usato a mio riguardo, e poi lo ringrazio anche per avere egli assunto talvolta in mia sostituzione la rappresentanza degli interessi amministrativi del mio dicastero che io da un certo periodo presiedo. Dovrò occuparmi naturalmente di polemica perché i discorsi principali dei colleghi, soprattutto di quelli di estrema sinistra, sono stati di vivace polemica. Tenterò di rispondere non senza una certa ripugnanza ad addentrarmi in questa polemica non perché non dovrebbe essere utile discorrere e dibattere su simili argomenti, ma perché l’esperienza che abbiamo finora fatta da tutte e due le parti mi lascia poca speranza di intenderci meglio attraverso lo scambio di polemiche o di affermazioni. Tuttavia devo dire che quello che mi ha stupito soprattutto è stato l’atteggiamento dell’onorevole Lussu che io conosco da tempi passati con un’altra visione della democrazia, con un altro concetto della libertà, con un altro senso della vita politica internazionale. Mi è parso che quando Lussu parla di rovesciamento delle alleanze, utilizzando una parola coniata dall’onorevole Nenni, di rovesciamento della situazione, in realtà più o meno consapevolmente parlasse di un rovesciamento dello spirito col quale considera le cose. Egli arriva al punto – e lo ha accennato anche il relatore – di giustificare tutto quello che si può e si deve fare contro la nostra posizione perché, egli dice, come noi abbiamo fatto ai tempi del fascismo, così abbiamo il diritto di fare e di agire oggi. L’onorevole Jacini ha così risposto: ma voi siete qui in forte posizione di sinistra, voi qui avete tutta la libertà di dire le vostre ragioni, di farle valere, di misurare la vostra forza e non solo qui alla Camera; tutto il paese è agitato, percorso sempre dalla corrente della vostri opinione, e come mai volete riservarvi un diritto ulteriore? Di fronte a voi chi c’è? Forse un uomo che rappresenta un’idea personale, forse un uomo il quale ha il concetto, il metodo della dittatura? C’è un uomo che rappresenta una maggioranza parlamentare, c’è un Parlamento. Questa è la differenza! Bisogna accettare i criteri del Parlamento. (Applausi dal centro e dalla destra). lussu. Io ho parlato per oltre mezz’ora documentando quello che dicevo, citando fonti e dati e cifre e giornali. presiDenTe. Senatore Lussu, la richiamo all’ordine. De Gasperi. Ma, onorevole Lussu, non posso rispondere a tutti gli argomenti che ella ha addotto. Io so che lei ha addotto esempi di altri Stati, di altre persone ma non posso entrare nella polemica e vedere se veramente questi esempi corrispondono alla stessa situazione, se questi uomini hanno agito con lo stesso spirito che ella intende oggi giustificare. Io dico che in via di massima, sinteticamente, in questa mia affermazione ho illustrato una situazione che è inaccettabile ed ho illustrato un paragone che non è accettabile. Questa è una posizione fondamentale, costituzionale, è una posizione che corrisponde ad un concetto democratico e se, onorevole Lussu (permetta che la chiami amico Lussu andando ai tempi quando collaborammo insieme), dico che la sua personalità ha avuto un tale rovesciamento… (Rumori dalla sinistra). lussu. Mi meraviglio del suo. presiDenTe. (Rivolto ai settori di sinistra). Sospenderò la seduta. Loro sono stati ascoltati e devono ora ascoltare! De Gasperi. Onorevole Lussu, se lei si meraviglia di me non mi stupisco, ma io mi meraviglio che lei si stupisca che io mi meraviglio di lei. (Ilarità). Trovare una conclusione in questa situazione internazionale che dica: per fortuna c’è il bolscevismo (lei ha detto: per fortuna c’è la democrazia russa), fare questa affermazione, senza spiegarla ulteriormente, senza diminuire la portata di queste parole è concludere contro la verità, contro la reale situazione. Io posso immaginare che si dica: per fortuna c’è l’Inghilterra, per fortuna c’è un movimento democratico radicale, per fortuna c’è il socialismo, per fortuna c’è il comunismo, tutto quello che lei vuole, ma non «per fortuna c’è il sistema bolscevico» il quale rappresenta senza dubbio la dittatura! (Vivi applausi dal centro e dalla destra). E come fa l’onorevole Lussu, in questo rovesciamento delle alleanze di cui parla e delle situazioni, a rovesciare il concetto dei laburisti, le linee politiche degli olandesi, dei belgi, dei socialisti norvegesi, danesi, francesi? Egli tutto rovescia, e chi resta fermo? Lussu soltanto resta fermo? Non si accorge che viceversa egli stesso ha mutato atteggiamento? Io non metto in dubbio la sua buona fede, però ho diritto di inchiodarlo in questa contraddizione, perché se io dimostro la contraddizione ho dimostrato anche il mio buon diritto e la ragione che non io personalmente, ma noi che sosteniamo la tesi democratica, avanziamo. Ed anche questo versare fiumi di ironia sul «retaggio comune»! Ma ci torna proprio conto fare questo, irridere alle tradizioni passate? Se è quasi l’unica ricchezza che ci è rimasta e se noi di fronte agli avversari e agli amici all’estero ci sentiamo piccoli quando vediamo l’immenso sviluppo industriale, le ricchezze, le terre che possiedono, e possiamo soltanto ricordare qualcosa che è nostro, specifico, che è proprio questo nostro retaggio che da loro è riconosciuto! (Vivissimi, prolungati applausi dal centro e dalla destra). Onorevole Lussu, quando lei parla delle repubbliche americane, io non voglio giustificare certi sistemi di governo, non voglio certo lodare e difendere i regimi politici, penso però alle tradizioni, alla storia di questi popoli e soprattutto al fatto che questi popoli riconoscono in noi, nell’Italia, la maternità di questa civiltà, riconoscono che la civiltà viene da noi. E se lei non sente e se lei trascura la più antica tradizione, a cominciare da Colombo quando sbarcò e si inginocchiò dinanzi alla Croce, io posso anche ammettere che tutto questo si possa dimenticare: ma come fa lei a dimenticarsi, lei che è garibaldino, di Bolivar , di de San Martin , e di quegli eroi che noi stessi abbiamo celebrato recentemente, perché da essi, dai nostri grandi del risorgimento abbiamo attinto il criterio della libertà e dell’indipendenza? Questa è una recente civiltà che lei, da combattente, da uomo fiero qual è, non può disconoscere e diminuire. (Applausi dal centro e dalla destra). Quando lei minimizza questo retaggio, a chi debbo io richiamarmi? Ai grandi che stanno fuori, ai grandi che, pur nella loro grandezza, si inchinano dinanzi a questo retaggio? Ricordo le parole di Teodoro Roosevelt: «quando ci pare che si spenga la civiltà allora noi guardiamo verso l’Italia perché è di là che è venuta e di là dovrà ritornare». E senza andare troppo lontano, ricordo quello che ho sentito con i miei orecchi, le parole di Truman sul ponte di Arlington: «l’Italia ha una missione per la sua cultura», missione che egli precisava nell’unificazione dell’Europa, volendo però dire: ha una forza morale che vince, che all’ultimo momento decide. Ma se questi uomini, che hanno tanti dollari, tante ricchezze in mano e tanti mezzi e tanto sviluppo industriale, riconoscono questo, dobbiamo essere noi per fazione, per spirito ristretto ed angusto a negare questa eredità che è nostra, che è vostra, (rivolto alla sinistra), che è di tutti? (Vivi applausi dal centro e dalla destra). E poi l’onorevole Lussu ha quasi concluso con un pensiero: «tenetevela per voi questa ONU, società per azioni americana, tenetevela per voi». Ma così non avete sempre pensato, così non ha pensato lei, così non pensava l’onorevole Scoccimarro recentemente. Mi ricordo che abbiamo fatto una discussione con l’onorevole Scoccimarro, relativamente cortese per trattarsi di noi, (ilarità), circa la nostra ammissione nell’ONU; in questa discussione ci siamo trovati d’accordo su un concetto fondamentale: cioè che converrebbe che questa società veramente assumesse un carattere universale per poter rappresentare l’ultima forza arbitrale in caso di conflitto e, in ogni modo, la via della conciliazione in mezzo a questo conflitto. L’onorevole Scoccimarro diceva, il 13 gennaio 1951… scoccimarro. E lo posso ripetere anche oggi. De Gasperi. Sono sicuro di questo, io faccio questa citazione per fare un piacere a me e un dispiacere all’amico Lussu. (Ilarità). L’onorevole Scoccimarro dichiarava: «l’ingresso dell’Italia nell’ONU è un problema fondamentale. Un grande paese come il nostro non può accettare indefinitamente una situazione per la quale esso non ha la possibilità di far pesare la sua influenza, accanto a quella di tutti i popoli liberi, nella soluzione delle grandi questioni che si presentano sulla arena internazionale» . Confessi, onorevole Lussu, che nella foga della sua appassionata filippica si è sentito trasportare al di là di quello che può essere il pensiero comune anche della sua parte o degli uomini che le sono vicini; ma poiché lei parla di rovesciamento ripeto che lei ha rovesciato se stesso, proprio perché anche nelle sue affermazioni principali, ora parla di una Russia (e non è il solo a parlarne, l’onorevole Labriola gli fa compagnia) di una Russia quasi inerme, che però rimane nella nebbia, si vedono solo le colombe, non si vede chiaro, non c’è niente al di là, parla di una Russia inerme accerchiata o che sta per venire accerchiata. E gli onorevoli Labriola e Negarville si meravigliano che noi ci stupiamo perché la Russia si è affrettata a negare la revisione. Mi sono ricordato naturalmente di una dichiarazione di Lussu fatta recentemente. Lussu recentemente ci spaventava con l’enorme grandezza degli armamenti sovietici e non per sentito dire; egli diceva che aveva veduto questi armamenti. Bisogna pure che ricordi a Lussu queste sue affermazioni, perché almeno si faccia da parte nostra un certo sforzo di registrazione tra il suo stato d’animo attuale e quello passato. È chiaro perciò che la Russia sovietica pensi a difendersi e non si presenti di fronte all’imperialismo come un agnello pronto allo spiedo. Si è molto discusso e si discute sempre sull’entità delle forze sovietiche, nessuno sa però quali siano in realtà. Non lo sappiamo, come non lo sapeva lo stato maggiore tedesco il quale, attraverso i suoi formidabilmente attrezzati servizi di informazione, credeva di avere distrutto l’esercito sovietico alle porte di Mosca, di Leningrado e Stalingrado, e poi si è trovato dinanzi compatto un esercito più forte e meglio armato di quel che non fosse prima. E qui cita uno studio sul problema: «io stesso qui al Senato ho discusso di politica estera ed ho citato alcuni dati, eccetera eccetera». Qui cita il libro e poi dice: «questo memorandum attribuisce alla Russia sovietica l’assoluta, schiacciante, insuperabile superiorità in carri armati pesanti e mezzi leggeri». Onorevole Lussu, io so come lei scandisce le parole e, quando ha detto questo, sembrava che i carri armati passassero attraverso l’aula! (Viva ilarità). Rendo onore alla sua eloquenza, come vede! E continuava: «essa disporrebbe di cento mila carri armati di prima linea, eccetera. L’Unione Sovietica avrebbe 170 divisioni di fanteria, 35 motocorazzate, 60 divisioni di artiglieria; essa potrebbe al primo allarme gettare immediatamente in combattimento tre milioni di uomini in sei gruppi di armate, mentre naturalmente le officine accompagnerebbero questo sforzo con un ritmo sempre crescente di produzione». E qui viene l’esperienza personale: «non credo di commettere una indiscrezione se dico che una nostra delegazione a Mosca ha potuto visitate una grande officina in cui, sotto i nostri occhi, veniva prodotto un autoveicolo ogni minuto e mezzo. È da ritenere che altre officine del genere esistano nell’Unione Sovietica». Ma il senatore Lussu, non contento forse di avere sufficientemente sottolineato l’importanza di questi dati, aggiungeva: «onorevoli colleghi, se loro avranno la bontà di ascoltarmi fino all’ultimo, si accorgeranno che questo è il risultato non di chiacchiere da comizio ma di ricerche serie, e che quindi non sono così ingenuo da prestare il fianco alle critiche». Ed infine egli riteneva di precisare: «l’errore capitale della politica americana è ormai evidente: i dirigenti americani hanno con presunzione insuperabile sottovalutato le forze dell’Unione Sovietica, essi hanno presunto troppo dalle proprie forze per ragioni varie e complesse. Il rimedio è uno solo: rendersi conto che non si è superiori, porsi di fronte ai sovietici alla pari e trattare su un piede di uguaglianza». Ebbene, come si fa a dire: accerchiamento, superiorità, minaccia aggressiva del Patto atlantico con questa visione dinanzi agli occhi? Non entrerò nella questione delle cifre. Recentemente Eisenhower ha citato delle altre cifre che sono ancora maggiori di quelle accennate nel memorandum citato dall’onorevole Lussu; ma siccome ritengo che una delle occasioni migliori per sentire quali sono le informazioni al riguardo sarà la conferenza di Roma, ci riserviamo di ritornare su questo argomento affinché, se possibile, si trovi un punto fermo su cui non si discuta, si accertino dati di fatto dai quali poi ciascuno trarrà le conseguenze che crede. Il senatore Labriola ha detto: la costruzione di questo dispositivo militare, cioè il Patto atlantico, tradisce inequivocabilmente la volontà di intimorire ed accerchiare l’URSS. Onorevoli senatori, avete sentito se c’è possibilità di intimorire la Russia a questo riguardo. labriola. E come no! De Gasperi. Per ora non sembra possibile, onorevole Labriola, nonostante che lei vada continuamente a dire intorno che la residenza di un ammiraglio a Napoli sia la base militare di Napoli e vada raccontando che ogni generale che passa, ogni manovra che si fa diventa una base… Abbiamo discusso altra volta sul termine militare di «base» e lei stesso ha citato non so quale enciclopedia militare (ma mi pare che un pochino esageri su queste basi). Quando passa un generale americano già c’è una base, ed abbiamo perduto ogni diritto su quel territorio! Ad ogni modo, onorevole Labriola, bisognerebbe anche riconoscere, voi non lo dite mai, che al di là… (Interruzione del senatore Scoccimarro). Onorevole Scoccimarro, lei avrà la parola dopo e potrà correggere i miei spropositi. Bisognerebbe riconoscere che c’è qualche cosa anche al di là. Cosa c’è, solo la Russia? Io adopero il termine satelliti, che non so se sia accettato. È un termine comune al quale non attribuisco nessun carattere spregiativo. Qualcuno è sole e qualcuno dovrebbe essere satellite: si capisce, questo avviene sempre in tutte le costellazioni. (Ilarità). Ma il carattere di blocco c’è o non c’è al di là? E quando è incominciato? Qui infatti sta la questione. Si tratta di decine e decine di trattati. Di questi ben 17 sono anteriori al Patto di Bruxelles, e non credo che la Russia si sia spaventata per il famoso Patto di Bruxelles che non era capace di mettere assieme nemmeno qualche divisione. E badate, io vi ho, nella prima dichiarazione, confermato che alcuni di questi patti sono molto più efficaci dal punto di vista della Russia, molto più pericolosi dal punto di vista nostro, perché sono automatici e perché implicano intervento non solo per l’aggressione di fatto, ma per la minaccia di aggressione, e poiché vi si tratta della Germania e di qualunque altro Stato che, direttamente o indirettamente, sia d’accordo con essa.. (Interruzione del senatore Terracini). Io l’ho citata perché l’ho copiata dai testi. Terracini. Nel resoconto era stata omessa. De Gasperi. È scritta nel mio testo. Lo stenografo non l’aveva forse presa ma nel mio testo è scritta. Si tratta della Germania e di qualunque nazione che direttamente o indirettamente sia con la Germania in un dato momento. Ma il colmo della fantasia, onorevole Terracini, richiamo la mia attenzione sopra il suo discorso, il colmo della fantasia costruttiva l’ha proprio dimostrato lei quando ha parlato del mio viaggio . A furia di attacchi della parte avversaria, comincio a credere di essere un uomo importante, e veramente non avevo questa sensazione. (Ilarità). L’onorevole Casadei ha fatto un discorso munito di moltissime citazioni di giornali, ritagli di giornali e riviste, il solito armamentario che fa onore alla sua erudizione. Il mio controllo è reso impossibile. Io devo rispondere entro ventiquattro ore. E poi che bellezza per una opposizione che può attingere nella contraddittorietà, nella pluralità dell’attività politica democratica! Parlamento e senatori: uno dice così, uno dice in altro modo; in America i giornali ne inventano una ogni giorno, scrivono, riscrivono, la polemica è vivacissima: ed io posso andare a prendere ogni giorno uno di questi giornali, una di queste affermazioni, le dichiarazioni di uno dei senatori, e lanciarle contro gli avversari. E l’avversario che sarei io, si trova dinanzi ad un muro, ad una cortina di ferro e non sente che una voce sola, quando parla, con grande venerazione, ma è una voce che si fa sentire o nel silenzio della dittatura o addirittura entro un coro unanime, orchestrato prima. Che differenza di mezzi di propaganda! E per questo che noi siamo così disgraziati quando polemizziamo con voi: noi non possiamo tirar fuori che, ogni tanto, qualche ritaglio della Gazzetta letteraria o di qualche giornale consimile, che riusciamo a leggere e che ci giunge indirettamente attraverso Stoccolma, eccetera. Altrimenti, noi siamo nella completa ignoranza, forse anche perché non leggiamo sempre l’Unità la quale veramente si può dire che è la gazzetta di Mosca, in molti casi. Ad ogni modo, forse anche questo ci porta ad avere meno cognizioni su quanto avviene in quella parte del mondo. Ma è certo che l’origine fondamentale di questa diversità è il pluralismo, la molteplicità, la varietà delle affermazioni democratiche, la contraddittorietà delle affermazioni nella vita democratica, di fronte alla unanimità dell’altra parte. Voi ricordate, abbiamo avuto anche noi un periodo in cui c’era una voce sola, un’opinione sola, una compattezza nazionale assoluta, che trovava in certi momenti la sua formula, che penetrava nei cervelli e si imponeva. Il resto era silenzio, come noi sappiamo. Non possiamo dedurre da questo nostro stato d’animo, da questa nostra esperienza che abbiamo attraversato, amico Lussu, non possiamo dire se proprio in quella democrazia là non sia ugualmente così, ma abbiamo qualche sospetto, qualche dubbio che là dove c’è una tale concentrazione di potere ci debba anche essere lo stesso metodo di propaganda. Almeno lo crediamo da quello che fate voi, perché se voi, amici comunisti – e qui voglio parlare da un punto di vista umano, che riconosca i vincoli di una solidarietà comprensibile – credete di non poter mai dire una parola di critica contro l’Unione Sovietica e difendete sempre i suoi atteggiamenti, anche quando è troppo evidente che sono contro l’interesse della vostra nazione, se voi fate questo (e siete fuori dalla Russia e avete la protezione dell’immunità parlamentare, avete la polizia di Scelba che eventualmente vi protegge), se voi fate questo, come non dovremmo immaginare che anche nello Stato russo, a maggior ragione, ci siano delle difficoltà per esprimere una critica indipendente? Ma, ad ogni modo, io mi sono lasciato trascinare da un excursus: ero partito dalla ricostruzione storica dell’onorevole Casadei. Essa esigerebbe una confutazione punto per punto, ma anche se la potessi fare, sono persuaso che perderei ranno e sapone, perché in aggiunta ai ritagli di giornale, elementi induttivi, interpretazioni preconcette, voi avete il soccorso di una fantasia meravigliosa, fantasia che veramente è spettacolare per un oratore, è suggestiva, ma che per lo storico è un grosso difetto, come diceva Tacito . Per quanto riguarda i miei viaggi, per il mio primo viaggio, quello del 1947, l’onorevole Casadei nota una concomitanza esterna ed interna: frattura e divisione del mondo e frattura e divisione in Italia, dice l’onorevole Casadei. È un po’ esagerato! È esagerato dire che la situazione italiana sia il riflesso della spaccatura del mondo, e sì che l’onorevole Casadei, a quanto mi dicono, ha viaggiato molto, non è uomo che si sia sempre dibattuto in Italia e quindi non abbia cognizione di relatività tra quello che siamo noi e il mondo. Ad ogni modo il primo viaggio avrebbe portato a questo, e anche qui si fa accenno ad impegni personali. L’onorevole Terracini fa accenno a impegni personali e lo dice con tanta sicurezza che io dovrei esaminare veramente se ho preso degli impegni personali nel 1947, ma proprio non li ricordo e sarei un uomo senza onore a non averne la coscienza. Onorevole Terracini, ho lavorato anche con voi, ho tanti difetti, qualche volta ho della presunzione, ho delle debolezze innegabilmente, ma mi dovete riconoscere che sono in sostanza un galantuomo e non è possibile che tradisca… (interruzioni dalla sinistra)… nemmeno in politica sono un uomo che ricorre a quello che si dice machiavellismo, a mentite spoglie. Sono venuto dall’America e non è affatto vero che nel 1947 sono venuto con in tasca il ministero fatto. Sono tutte cose che vi consiglierei di non ripetere, perché davvero mi date un’importanza che non ho. Se non ci fosse stato il pericolo dell’inflazione che mi ha fatto decidere a ricorrere ad Einaudi, a coloro che avevano il potere di arrestarla, forse la collaborazione avrebbe potuto continuare. Fino all’ultimo, nelle conferenze stampa con i giornalisti mi sono difeso dall’accusa di collaborare con i comunisti. Questo nel 1947. spano. Sono ragioni di politica estera che hanno determinato la scissione. De Gasperi. Sono ragioni di politica estera che hanno determinato la scissione. Un po’ alla volta ho capito che con voi si poteva andare d’accordo su moltissime questioni, ma quando si trattava della Russia non si poteva andare d’accordo. (Applausi dal centro). scoccimarro. Lei ha rovesciato un governo senza nemmeno avvertire i suoi ministri. Appena tornato dall’America lei ha dato le dimissioni del gabinetto e i ministri non ne sapevano niente. cinGolani. Io ero ministro e lo sapevo. (Ilarità e commenti). De Gasperi. Non mi ricordo tutti questi particolari, però mi ricordo che della mia azione e della mia crisi parlamentare ho reso conto al Parlamento ed ho chiesto al Parlamento la fiducia. Questo è normale. Voci dalla sinistra. Dopo, dopo! De Gasperi. Non potevo domandarla prima. Onorevole Scoccimarro, se lei ha bisogno di particolari su quella crisi io ci penserò un po’; citerò particolari un po’ interessanti ma è meglio lasciar stare, creda a me. Secondo viaggio. Siamo sempre nella ricostruzione fatta dall’onorevole Casadei, ricostruzione molto dotta, molto erudita, come ho detto prima, ma molto fantastica. Secondo viaggio: rovesciamento delle alleanze e avvento del fascismo, della reazione, perché si tratterebbe di preparare la strada al fascismo. Ma sapete che cosa è il fascismo? Sarebbero le leggi repressive che noi avremmo presentato in seguito al viaggio in America, cioè di quella legge sindacale che è stata preannunziata non so quante volte, di quell’altra legge sul codice penale riguardante i sabotaggi che avete qui al Senato dal marzo scorso e che non avete ancora sbrigato, della legge sulla difesa civile che voi conoscete: tutte cose pre-americane e che nulla hanno a che fare con il viaggio testé avvenuto. A proposito del rovesciamento di alleanze, per prenderla un po’ sul serio questa accusa, potrei richiamarmi alla testimonianza dei membri della delegazione italiana ad Ottawa per dire come mi sono preoccupato del concetto democratico. Io debbo preoccuparmi del concetto democratico che deve ispirare il Patto atlantico e la comunità atlantica. Io ho detto: badate bene, capisco che possiate cercare, militarmente parlando, convenzioni con l’uno o con l’altro Stato, ma quando noi parliamo di Patto atlantico, di comunità atlantica andiamo al di là dell’organizzazione militare e della organizzazione di difesa. Noi non dobbiamo togliere alle masse dei paesi che sono rappresentati nella comunità atlantica la forza suggestiva della libertà, perchè così è nata la comunità atlantica, cioè come difesa della libertà. Dinanzi ad un pericolo – vero o non vero, voi, (rivolto alla sinistra), dite non vero – per la difesa delle libertà delle nazioni libere non vi dovete mettere nella posizione in cui vi siete messi. È comprensibile che lasciare Stalin con Ribbentrop non si poteva, e quindi abbiano tentato gli occidentali di trarre Stalin dalla parte loro, ma non debbono ripetere ancora l’errore, che è possibile ancora fare, cioè mettere regimi di carattere dittatoriale insieme alla democrazia. È possibile che uno viva accanto all’altro – e questo lo dimostra la storia – ma non è possibile lavorare insieme per un ideale che è contraddittorio. Questa è la tesi che io ho svolto con pensieri più dettagliati e specifici in sede opportuna, e ciò vi dice quale sia il mio pensiero al riguardo. Quindi è tutt’altro che vero che io appartenga, nella comunità atlantica, a quella parte che vorrebbe volentieri tenere come unico punto discriminatore soltanto la forza militare. Allora tutta la forza morale impallidisce e si dilegua. Noi crediamo che la comunità atlantica sia autorizzata soltanto se è legittimata dinanzi alla coscienza popolare a difendere le istituzioni libere, e soltanto se questo rimane lo scopo fondamentale della comunità atlantica. Voce da sinistra. Intanto volete metterci la Spagna. De Gasperi. Con ciò ho risposto anche per quanto riguarda la Spagna, come deve rispondere un ministro degli Esteri; credo che non si debba adoperare altra parola. L’altra obiezione che si fa e che si continua a ripetere, è la seguente: Wall Street, finanzieri, miliardari, investimenti di guerra che chiedono impiego. Anche Negarville sostiene questa tesi. È una tesi vecchia, del resto; si trova già nel Manifesto, se ben ricordo. Secondo essa l’investimento in spese di guerra porta con sé fatalmente l’uso del prodotto. Ora, che nella storia, post hoc, sia facile dimostrare ciò, è evidente. Però dalla ricerca spassionata che si può fare non è altrettanto evidente. Io ho avuto l’impressione nel viaggio in America, impressione non passeggera di pochi giorni, ma che riconferma la mia opinione precedente, che si trattasse di uomini responsabili: anche per gli stessi militari. Ho sentito dire chiaramente da Marshall prima e da Eisenhower poi che essi non pensano affatto che la guerra sia una soluzione da ricercarsi, che possa essere un espediente, uno strumento per risolvere i problemi e che costi poco e che il rischio sia piccolo. Essi dicono chiaro: la guerra è un disastro, sarà un disastro anche per il vincitore, noi non possiamo pensare alla guerra che come guerra di difesa… scoccimarro. Come in Corea. (Commenti). De Gasperi. Dio mio, non mi parli della Corea, onorevole Scoccimarro! Voi siete in vantaggio nella psiche popolare quando fate la propaganda contro la guerra, perché in generale voi parlate contro la guerra, non mostrate naturalmente i preparativi che si fanno al di là, parlate semplicemente di progressi economici e così via. Insomma c’è una sorta di suggestività in questa vostra alternativa. Soltanto che – e l’ho provato in diversi comizi – quando noi veniamo fuori con la questione della Corea, siete voi che avete torto nella coscienza popolare, perché tutti hanno ormai capito chi ha attaccato, ed è inutile arrampicarsi sugli specchi. Tutti ormai hanno compreso chi è che ha attaccato e ha continuato ad attaccare fino a spingere gli americani al mare. (Interruzione del senatore Scoccimarro). So bene in che cosa consistono le documentazioni. Ricordo che i tedeschi entrati a Bruxelles sono riusciti a provare che gli assalitori erano i belgi neutrali e non loro stessi. (Applausi ed approvazioni dal centro-destra). La fantasia, come ho detto prima, di Casadei, è stata superata dall’onorevole Terracini. Primo: così egli ha visto lo svolgersi degli avvenimenti. Manovra del governo nel riaccendere la questione di Trieste. Sapete benissimo che questa estate, mentre cercavamo un po’ di meritato riposo dopo la crisi dell’ultima volta, è scoppiata la polemica triestina in seguito all’inchiesta di un giornale, ma in vista dell’agitazione elettorale che si faceva. Era chiaro che l’agitazione elettorale o la preagitazione elettorale portava a ravvivare tutti gli argomenti pro e contro la questione di Trieste e dell’Istria; ed io avrei diretto questa manovra, l’avrei creata artificiosamente. Io sono intervenuto per spegnere questo incendio in questo modo: perché dovremmo fare le elezioni adesso? Ed ho fatto pressione in modo che le elezioni venissero differite, corrispondendo in ciò al pensiero della maggioranza dei partiti di Trieste, e poi, sì, ho avuto un certo momento, che mi pareva confermare quello che avevo detto qui in Senato, un certo momento sentimentale, se volete, per cui ho detto: «mettetevi assieme, cercate di superare i partiti, fate la lista di San Giusto»; non ho richiesto che i partiti sacrificassero qualcosa di loro stessi. «Facciamo astrazione dai partiti – ho detto – cioè una lista che rappresenti sì le varie correnti ma che non comprometta i partiti come tali». Non mi pare di aver detto qualcosa di inaccettabile. I partiti sono stati di diversa opinione. Non ho più insistito, ma tutti e due questi atteggiamenti volevano dire che in realtà avevo vivo desiderio di acquietare e non di aumentare l’agitazione, perché so che l’agitazione non riesce a niente, o che riesce solo a provocare al di là una contro-agitazione e le cose restano come prima. Dunque, avrei attizzato questa manovra e poi avrei preso l’iniziativa della revisione del trattato, portandola nell’atmosfera euforica di San Francisco; anzi prima avrei, per fare meglio il colpo, sostituito Sforza, e, come nel 1947, si ripete: «De Gasperi assunse impegni personali che non si conoscono»! Sfido che non si conoscono! Non esistono! E i comunisti insistono: «oggi De Gasperi prende in mano, con il Ministero degli Affari Esteri, tutto il potere rappresentativo per poter assumere nuovi impegni personali: e non inizia la discussione a Roma ma ad Ottawa, e non è il governo italiano che prende l’iniziativa ma sono gli americani, sono le carte che De Gasperi passa agli americani per dare agli americani la possibilità di provvedere al riarmo attraverso queste carte» . Come mai l’onorevole Terracini, che è così diligente archivista delle accuse e delle argomentazioni in contrario, si è lasciato sfuggire questo fatto, che l’iniziativa della revisione è proprio una iniziativa personale dell’onorevole Sforza? E sapete quando? Pochi giorni prima del convegno di Santa Margherita; dunque nella primavera scorsa. Sforza è venuto e mi ha presentato una lettera personale diretta a Schuman in cui confidenzialmente diceva: «non sarebbe il caso di sollevare questa questione, non troverete voi il modo nelle conversazioni con i vostri amici, non troveremo noi il modo di sollevare questa questione senza far troppo chiasso ma tuttavia facendo fare progressi sicuri?». Questa lettera io l’ho approvata ed è stata inviata. Ne abbiamo parlato a Santa Margherita non ufficialmente con Schuman e poi la cosa è andata avanti, e le prime dichiarazioni prima che partissi per l’America sono state fatte dal ministro degli Esteri francese alla Camera francese. Come mai ha dimenticato questo l’onorevole Terracini, per poter costruire tutta questa fantastica manovra fatta da me per mettete la cosa in mano agli americani? Vi è stato poi un lagno generale da parte degli oratori di sinistra, perché io sarei stato troppo scortese, perché sarei venuto qui al Senato a fare in realtà una specie di nota di risposta alla Russia. Si è detto: che c’entravo io, che c’entravamo noi? La nota della Russia era diretta ai tre Grandi e quindi non c’era bisogno di rispondere. A questo proposito debbo dire che io sono venuto al Senato precisamente per informarvi della dichiarazione russa, ed era naturale per informarvi anche delle mie impressioni, perché così potessero diventare anche oggetto di discussione. Si è anche detto: stile troppo rude. Ma se talvolta gli onorevoli di estrema sinistra, i comunisti soprattutto, si mettessero un po’ al di sopra della mischia e dicessero: De Gasperi è stato troppo rude, però anche Vysinskij ha delle parole rudi, sarebbero più coerenti. Ma questo mai, tutto il torto è solo da parte nostra. Quando io scrivo o dico che la Russia perde una buona occasione di far progredire la causa della mutua comprensione e pacificazione, ma non possiamo dire che la Russia venga meno ad un impegno per quanto riguarda la revisione, mi pare di essere corretto, leale, mi pare di far capire che avrei desiderato viceversa che questa occasione venisse presa per una distensione. Ho parlato di violazione; ma di violazione circa l’ONU non è la prima volta che ne parliamo; e quando in una nota ufficiale la Russia parla di violazione minacciata, reale o attuata da parte dell’Italia, io dovrei riferirmi a questo altro fatto precedente in cui la violazione c’è, e ripetuta, per quello che riguarda il nostro diritto di entrare all’ONU E quando aggiungo ancora che noi ci auguriamo che l’ONU tenda ad abbracciare tutte le nazioni che vogliano e possano lavorare per la pace, io non faccio una apertura per quanto sta in me, perché non sono io quello che può decidere, né decidere in misura sufficiente ed utile; non faccio una apertura nel senso che non è che noi esigiamo un diritto per noi, e che poi ci mettiamo anche noi sulla porta per sbarrarla ad altri che vogliano entrare. Io credevo che tra i tanti mali della mia dichiarazione che avete scoperto, avreste scoperto anche questo tantino di concessione che era contenuta in essa in modo prudente, se volete, perché noi non vogliamo mai prendere un atteggiamento il quale possa essere di scossa, né di presunzione, ma vogliamo parlare utilmente e concludere in modo che ne esca un vantaggio. Quando io parlo di dialettica propagandistica, ciò che potrebbe essere presunto se si trattasse di una nota con una forma esagerata, in fondo è quasi per dire: comprendo, questa è propaganda che fate soprattutto per i vostri amici qui in Italia, per lanciare queste parole, questi slogans tra la popolazione, ma non sarà la nota definitiva che ci dovete mandare quando noi avremo presentato la domanda circostanziata circa la revisione del trattato di pace. E anche questa è ancora una apertura, un mantenere una speranza. Si dice: ci vuole maggior souplesse, e lo dice precisamente il mio ex sottosegretario agli esteri, in diplomazia. Quando vi dicono uscite dall’alleanza ed allora vi riconosceremo sovrani, non trovate una parola di critica per una logica siffatta? E quale assicurazione più tranquillante possiamo dar noi? Vi prego di rileggere le parole della mia dichiarazione: «noi siamo alleati per la sicurezza nostra e dei nostri amici, e decisi a governarci in regime di libertà e di mutuo aiuto politico ed economico. Se ad un dato momento, e noi lo escludiamo, si attuassero propositi aggressivi, noi siamo liberi di decidere per voto di Parlamento. Ma oggi, dopo le unanimi deliberazioni di Ottawa siamo più che mai convinti che il patto che ci lega è un patto di difesa e di sicurezza, che il mezzo più efficace per evitare la guerra e garantire la pace è la leale esecuzione dei nostri impegni internazionali». Ma voi non avete una parola per me, anzi non dico per me, ma per la delegazione, per la rappresentanza, per il governo del vostro paese. Scusate se vi offendo, ma questo è anche il vostro governo finché esiste un sistema democratico. (Interruzione del senatore Spano). Ma non c’è dubbio, non c’è altro sistema di designarlo che quello delle elezioni. Di questo sono certissimo. Non le vorrete mica ogni 15 giorni? (Ilarità – Commenti dalla sinistra). Nella polemica vi valete di questa vostra posizione di favore, come ho già detto prima, per cui concludiamo la partita: sono persuaso che le mie parole non vi hanno convertito in nessuna forma. Non ho mai avuto questa presunzione, però, di fronte alla pubblica opinione, di fronte al paese è bene si sappia che nemmeno le vostre parole ci hanno convertito, e siamo convintissimi della verità della nostra posizione, e siamo convinti che voi siete in errore e che voi trascinate il paese in un errore pericoloso. Ora, mi rivolgo un po’ ai critici obiettivi e benevoli. Ringrazio l’onorevole Guglielmone per i suoi interessanti rilievi economici. Credo che nel seguito del mio discorso risponderò anche ad alcuni suoi interrogativi. Ringrazio l’onorevole Cingolani per l’apporto definitivo che egli ha offerto circa il nostro diritto, storicamente provato, della nostra ammissione all’ONU. Onorevole Parri, ho seguito con doveroso interesse le dichiarazioni che lei ha fatto circa i risultati economici del mio viaggio, e le sono grato del suo apprezzamento. Ho prestato anche tutta l’attenzione a ciò che il senatore Parri disse della questione triestina e sono d’accordo sulla sua conclusione, favorevole alla ricerca onesta di una intesa che salvaguardi i nostri diritti. Non c’è poi bisogno di ripetere che sappiamo anche valutare la questione nel quadro della collaborazione internazionale atlantica. Sono particolarmente all’unisono con il senatore Parri nel concepire la Comunità atlantica come presupposto e garanzia di una Europa unita. Il governo cercherà, col massimo impegno, le occasioni più opportune per raggiungere questa meta. Onorevole Sanna Randaccio, lei ha forse avuto l’impressione che io volessi sottrarmi ad una discussione più larga in Senato. Non era il caso. Però, tutte le volte che mi tocca ripetere questo esame, mi par di trovare nuovi argomenti per dire che le due Camere dovranno pur trovare un modo di integrarsi a vicenda, e che è estremamente difficile, dopo aver cominciato una discussione protrattasi per una settimana in una Camera, ripetere gli stessi argomenti nell’altra, perché sarebbe come presupporre che quello che è ormai di dominio pubblico non possa essere di dominio dei senatori. Io ho creduto – e domando scusa se mi sbaglio – di poter supporre la conoscenza di tutti i documenti che avevo portato nella mia relazione, anche da parte dei senatori. E ho aggiunto una parte completamente nuova. D’altro canto, supponevo, naturalmente, che nella discussione del bilancio tutte le questioni venissero poste e tutte le questioni dovessero avere da parte mia, alla conclusione del dibattito, una risposta. La più importante che mi ha posto il senatore Sanna Randaccio è quella che riguarda il carattere del nostro impegno. Il senatore Sanna Randaccio ha preso atto che ad Ottawa il sistema atlantico si è sviluppato, evolvendosi in una più generale associazione politica, economica, giuridica, eccetera, che è la Comunità atlantica. Ha chiesto però che io riaffermassi ancora la netta e precisa volontà di pace che anima il governo italiano, confermando che, quando parliamo di funzione difensiva del Patto atlantico, intendiamo che noi non ci lasceremo mai trascinare in avventure belliche o in azioni che non siano di legittima difesa, e che comunque non contempliamo nemmeno la partecipazione a guerre preventive. Posso dargli la più formale assicurazione in tal senso. L’onorevole Negarville, costruendo una sua interpretazione militarista delle recenti iniziative di politica estera del mondo occidentale, ha creduto di dover sottolineare il desiderio di ulteriori precisazioni avanzate su questo punto dal senatore Sanna Randaccio. In aggiunta alle assicurazioni or ora date, vorrei perciò ricordare che l’articolo 5 del Patto atlantico dice: «le parti sono d’accordo perché un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nel nord America debba essere considerato un attacco contro tutte, e conseguentemente sono d’accordo perché, se ha luogo un tale attacco armato, ciascuna di esse, esercitando un diritto di autodifesa individuale o collettiva, secondo l’articolo 51 dello statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate prendendo individualmente o di concerto con le altre parti quelle azioni che ritenga necessarie, compreso l’uso della forza, per restaurare o mantenere la sicurezza nell’area nord atlantica». A precisazione degli impegni contenuti in quell’articolo, giova ricordare quanto il segretario di Stato nordamericano ha scritto nella sua relazione al presidente del 7 aprile 1949: «l’obbligo che incombe a ciascuna parte è quello di usare il suo onesto giudizio circa l’azione che essa ritenga necessaria per restaurare o mantenere la sicurezza nella zona del nord Atlantico, e conseguentemente prendere tale azione. Questa può o non può includere l’uso della forza armata, a seconda delle circostanze e della gravità dell’attacco. Se un attacco fosse di natura minore potrebbero essere prese misure non di forza, e potrebbe essere sufficiente. Solo in caso di evidente attacco armato sarebbe necessaria la forza. Ciascuna parte ha il diritto di determinate se un attacco armato ci sia stato di fatto e quale azione si debba prendere. Se una situazione non fosse chiara ci dovranno essere presumibilmente delle consultazioni anteriori all’azione. Se i fatti fossero chiari l’azione non dovrebbe essere posteriore a consultazioni. Questo non significa che gli Stati Uniti sarebbero automaticamente in guerra se una delle altre parti del trattato fosse attaccata. In base alla nostra Costituzione solo il Congresso ha il potere di dichiarare la guerra». Questa dichiarazione degli Stati Uniti è una dichiarazione che abbiamo fatta nostra al momento della deliberazione del Patto atlantico, e ci mette al sicuro da qualsiasi interpretazione del patto in senso offensivo o di avventura. Ad un certo punto l’onorevole Sanna Randaccio mi è parso invidiare il Giappone per il suo trattato. Le apparenze un po’ ingannano. È verissimo che giuridicamente parlando non è un trattato imposto. Da questo punto di vista il trattato rappresenta politicamente un correttivo del principio della resa senza condizioni, ed appare assai più aderente al trattato del nostro paese. Ma per una piena valutazione degli oneri addossati al Giappone non conviene fermarsi a questo primo aspetto, ma guardare a molte altre clausole il cui vero significato potrebbe sfuggire ad una prima visione. È vero che al Giappone viene riconosciuta la piena sovranità, ma si considerino le gravi mutilazioni territoriali imposte al Giappone stesso e le ripercussioni che dal punto di vista economico vengono da esse per il popolo giapponese e la prima impressione verrà modificata. I territori vengono ridotti da 180 mila miglia quadrate a 147 mila e le popolazioni da 195 milioni a 83 milioni. Infine non tutti gli obblighi imposti al Giappone risultano solo dalle clausole del trattato di pace. Bisogna risalire all’accordo contemporaneo stipulato tra Giappone e Stati Uniti che consente di mantenere truppe americane nel territorio giapponese, richiamandosi purtroppo l’esempio russo in Manciuria. Comunque la situazione è peggiore della nostra. Il senatore Sanna Randaccio ci ha chiesto anche chiarimenti in merito al comitato di Ottawa che dovrebbe studiare i lineamenti della Comunità atlantica, e al comitato dei dodici, il quale dovrebbe tentare di trovare la via d’accordo, la via giusta tra esigenze militari e necessità sociali ed economiche. Questi due comitati sono appena costituiti, l’onorevole Pella è presente in tutti e due i comitati e il comitato dei dodici ha appena iniziato i lavori: quindi non potrei che esprimere l’augurio che questi lavori vengano condotti a termine: senza dubbio rappresentano anche per il nostro paese un modo ed un foro per far sentire la nostra opinione e rappresentare i nostri interessi. Clausole economiche. Cerchiamo di ottenere la revisione anche di alcune clausole economiche. Certo nella prima discussione sul trattato abbiamo trovato molte resistenze sul titolo: «Difesa degli interessi dei terzi». Siccome la revisione viene fatta da ciascuno Stato in rapporto all’Italia, così non è facile eliminare quei certi articoli che riguardano tutti gli Stati contemporaneamente e che riguardano pretese o già soddisfatte o ormai in stato di esecuzione, in riferimento all’articolo 78, eccetera. Posso assicurare che, comunque, noi insisteremo sulle modifiche possibili riguardo anche a problemi economici tra cui vi è quello di fissare una scadenza per le esigenze dell’articolo 78, cui l’onorevole Sanna Randaccio ha fatto riferimento. Commesse, questione sulla quale l’onorevole Sanna Randaccio e molti altri oratori hanno chiesto chiarimenti: «a seguito dell’impegno di utilizzare al massimo le risorse disponibili, l’Italia riceverà importanti commesse che copriranno la nostra capacità produttiva inutilizzata» – qui leggo una specie di verbale steso tra i rappresentanti delle due parti non nel gergo dei ministri –. «Per gli aiuti militari il governo americano farà costruire in Italia, con pagamento in dollari, materiali di ogni sorta per quantitativi ingenti. Il ritmo potrà essere da 150 a 200 milioni di dollari all’anno e dipenderà in gran parte dall’estensione delle nostre aziende. Le commesse passeranno attraverso uffici pubblici e lo Stato disporrà dei dollari nell’interesse generale e le ditte riceveranno con la dovuta tempestività le lire corrispondenti e le materie prime necessarie secondo uno stanziamento interamente americano. Le ditte italiane riceveranno anche commesse in modo diretto. Stanno arrivando le prime commesse per macchine utensili, eccetera. Si tratta soprattutto di stimolare le nostre aziende ad affrontare la concorrenza con la presenza continua ed accorta sul mercato, con offerte di prodotti a prezzi adeguati». Devo avvertire anche che dall’estensione delle somme dipende la possibilità di applicare o di non applicare il trattato. Forniture dirette alle forze armate statunitensi. Trattative sono già da tempo in corso per le forniture per almeno circa 50 milioni di dollari. Si stanno definendo i particolari tecnici per la produzione. Sono conclusi i vari contratti per forniture di macchine utensili da parte di ditte italiane ad aziende statunitensi impegnate in programmi di produzione per il riarmo. Il complesso degli ordinativi finora passati ammonta a oltre 6 milioni di dollari e riguarda una quindicina di aziende del ramo. Si prevedono sviluppi rapidi a breve scadenza tenendo conto che il fabbisogno programmato dagli americani, per acquisti all’estero per attrezzature industriali e meccaniche utensili, è valutato a 3 miliardi e 700 milioni di dollari. Per quanto si riferisce alla questione delle am-lire il relativo ammontare delle am-lire emesse e che hanno definitivamente gravato sul bilancio italiano è di 85 miliardi e non di 860 miliardi. Questo è un dato di fatto della contabilità speciale della Banca d’Italia. Come si è arrivati ad una cifra dieci volte maggiore? Ci si è arrivati perché è stato usato un certo calcolo (io non ne faccio colpa a Togliatti, evidentemente egli ha trovato altre fonti), con un indice di svalutazione errato, calcolato sui prezzi in vigore in alta Italia senza tener conto della svalutazione avvenuta nell’Italia centro-meridionale all’epoca dell’emissione delle am-lire. Se si volesse seguire un simile criterio, bisognerebbe allora svalutare anche le cifre corrispondenti agli aiuti che abbiamo ricevuto. Comunque tale aliquota, ridotta al limite di 85 miliardi, non è servita a finanziare gli Stati Uniti, ma è stata destinata a coprire le spese in comune per la guerra di liberazione. Anzi gli Stati Uniti ci hanno, per alcune spese, dato un controvalore esatto per un totale di 40 miliardi, e qui mi riferisco anche alle cifre esposte dal senatore Guglielmone. L’onorevole Sanna Randaccio ha parlato di crediti verso la Germania. L’articolo 76 del trattato di pace ha stabilito la restituzione dei beni che erano stati asportati dal territorio italiano in Germania. D’altra parte però il punto 4 dell’articolo 77 ha imposto all’Italia la rinuncia a far valere i reclami contro la Germania per crediti italiani sorti durante la guerra. Peraltro, nell’imporre tale clausola, se ne è prevista la revisione poiché nello stesso paragrafo 4 si fa cenno ad eventuali provvedimenti in favore degli interessi italiani, ed il governo italiano conta di ritornare sulla questione al momento che riterrà più opportuno, evidentemente cioè in sede di firma del trattato con la Germania. Alcune considerazioni ora circa particolari problemi. Vorrei riassumere, a proposito di Trieste, brevissimamente, dichiarando naturalmente che ho seguito con la massima attenzione i suggerimenti e le idee da tutte le parti espressi circa le eventuali soluzioni del problema. Vorrei riassumere però quella che è fissata come linea di condotta di governo. Primo: niente compromesso né da parte nostra né da parte degli statunitensi. E tengo a sottolineare questo ultimo punto. Quindi non soltanto non è vero che c’è stato un accordo Tito- Harriman, ma nemmeno un accordo Tito-Allen o qualsiasi altro accordo fra jugoslavi e Stati Uniti. Secondo: l’impegno politico e morale alleato è confermato e ne fu ribadita la essenziale importanza nel quadro della comunità atlantica, il che è anche troppo chiaro e non occorre che io lo dica in forma negativa, poiché è evidente già in forma positiva. Questo è stato riconosciuto, ammesso e quindi è un punto fermo come linea di condotta. Terzo: intendiamo tenere aperta la via a scambi di idee con la Jugoslavia nello spirito degli ordini del giorno accolti dal governo alla Camera. Emigrazione. In tema di emigrazione rispondo ai senatori Sanna Randaccio, Galletto e Guglielmone. Ad Ottawa ed a Washington si è affermata la nuova concezione che l’emigrazione è un fatto di interesse internazionale che concerne non solo i paesi di immigrazione e di emigrazione, ma anche terzi paesi. Su questa base: primo, stanziamento da parte della Camera dei rappresentanti statunitensi di un primo fondo di 10 milioni di dollari per il trasporto degli emigrati; secondo, presentazione di un progetto al Congresso degli Stati Uniti per l’immigrazione di 50 mila italiani come primo passo di iniziative straordinarie. Confermo quanto dice l’onorevole Jacini; nemmeno io ho grandi speranze per gli Stati Uniti. Dirò, mi pare di non essere indiscreto, che il presidente Truman, nel primo colloquio che ho avuto con lui, mi ha detto chiaro e netto: «per me sono convintissimo che l’emigrazione italiana è utilissima perché ne ho avuta esperienza io stesso; aggiungo che farò il possibile. Richiamo però la vostra attenzione su qualcosa, che già è molto notoria, e cioè che molti interessi attraverso il Congresso si fanno valere in senso contrario». So che la proposta presentata recentemente è una proposta che è stata fatta nello spirito di questa dichiarazione. Aggiungo che se è vero che la conferenza internazionale di Napoli non ha concluso circa l’organo internazionale, è però vero, e lo so in forma precisa per le ultime notizie ricevute, che gli Stati Uniti non lasciano cadere la cosa, che si farà un altro tentativo più concreto per arrivare a questo organismo. Direi che abbiamo la parola di Truman su questo argomento e che ce ne varremo, insisteremo perché è la parola del presidente degli Stati Uniti. Terracini. Il prossimo anno non ci sarà più quel presidente. De Gasperi. Medio oriente. Parecchi senatori si sono occupati di problemi dell’Africa e del medio oriente tra cui i senatori Menghi , Franza, Terracini ed altri. Debbo dichiarare questo: all’Egitto come a tutti i paesi dell’oriente l’Italia è legata da una lunga tradizione di amicizia e di relazioni culturali, politiche e commerciali, mutuamente proficue. Tale amicizia si è venuta consolidando nel dopoguerra anche per l’atteggiamento che l’Italia ha assunto riguardo all’indipendenza di quel paese, per la cui evoluzione tante energie italiane sono state impiegate. L’Italia guarda con simpatia e con profonda comprensione all’Egitto in particolare, che svolge nel mondo arabo-islamico una funzione parallela a quella che l’Italia svolge nel mondo cristiano, e ci sentiamo legati ad esso per una comunanza di civiltà e di interessi mediterranei. Non spetta in questo momento all’Italia, che non figura tra le Potenze che hanno compiuto in questi giorni il noto passo presso il Cairo, di esprimere un giudizio su una questione così delicata e che tocca il sentimento del popolo egiziano. L’Italia ha avuto più volte l’occasione di far presente in sede internazionale (direi che l’ho fatto anche ultimamente ad Ottawa) l’opportunità di non sottovalutare questi movimenti, queste rivoluzioni che agitano i giovani popoli dell’oriente, né la convenienza di partecipare su un piano di parità e di fiduciosa collaborazione alla difesa del comune patrimonio civile. È nostra intima convinzione che una tale collaborazione è possibile e tanto più raggiungibile quanto più il convincimento della comunanza di interessi prenderà il sopravvento su considerazioni contingenti. L’Italia segue da vicino gli sviluppi e vigila per la tutela degli interessi italiani; essa sarà felice se l’opportunità potrà presentarsi per aiutare a risolvere le difficoltà e conciliare le giuste aspirazioni di questi popoli, con la necessità di difendere la comune civiltà mediterranea. La vertenza tra il governo persiano e l’Anglo-Iranian Oil Company conseguente alla decisione di nazionalizzare le industrie petrolifere dell’Iran è stata seguita con particolare attenzione dal governo italiano. L’Italia intrattiene infatti con l’Iran i più cordiali rapporti di amicizia e non può non nutrire simpatie per le aspirazioni dei popoli dell’oriente a migliorare le proprie condizioni di vita. All’inizio della vertenza stessa, l’AGIP, accedendo ad una richiesta persiana, inviava a Teheran alcuni tecnici allo scopo di fornire alla commissione dei petroli iraniana tutti i possibili chiarimenti circa l’organizzazione delle industrie petrolifere in Italia e circa i modi di collaborazione da noi in atto fra le industrie nazionali e le imprese straniere. È noto come, malgrado l’intervento americano, non sia stato possibile ottenere una soluzione amichevole della vertenza che è attualmente sottoposta al Consiglio di sicurezza. È augurabile che si possa ben presto trovare una soluzione che soddisfi entrambe le parti. Quanto alle forniture di petrolio, esse, in base agli accordi esistenti tra le compagnie internazionali di distribuzione e le nostre società, continuano a pervenire al nostro mercato per mezzo degli abituali fornitori, tanto che non sono prevedibili deficienze in tale delicato settore della nostra economia. Con ciò mi pare di avere toccato la maggior parte dei problemi che sono stati sollevati. Ho ancora una parola da dire, e questa è la conclusiva, all’onorevole Gonzales. All’onorevole Gonzales dirò che condivido le sue due speranze, non solo le condivido ma intendo lavorare energicamente per il loro avveramento, lavorare con tenacia e lealtà nel Patto atlantico, nella comunità, perché diventi baluardo difensivo e costruttivo di pace, conciliando la misura del riarmo con le necessità sociali e intervenendo entro la comunità. E questo intervento che può fare l’Italia è ben più efficace che la parola di un comizio ogni volta che si avvertissero pericoli di sfasamento, di involuzione o di pessimismo catastrofico. A tale scopo agiremo per l’unione d’Europa, elemento di difesa e di equilibrio, di democrazia e di pace. Questa è la via per scongiurare il conflitto e per assicurate la pace. Volete voi che la pressione dell’investimento nella produzione di guerra non eserciti, non arrivi a quel risultato cui accennava l’onorevole Negarville, cioè di cercare assolutamente l’impiego, l’uso di guerra? Se volete questo dovete dare all’America, che altro non chiede, la sensazione che l’Europa libera, democratica, ha la forza di difendersi da sé caso mai un attacco avvenisse, ed allora voi avrete la gratitudine degli americani che se ne andranno volentieri, perché non hanno nessuna idea, nessun proposito di piantarsi in Europa. Troppo largo è il mondo e, caso mai, hanno bene altri campi dove esercitarsi. (Commenti dalla sinistra). Esiste, è vero, un altro foro internazionale chiamato ad intervenire e garantire la pace oltre la comunità atlantica. Noi siamo disposti, saremo disposti ad utilizzarlo pienamente appoggiando o prendendo iniziative di accordi distensivi e conciliativi. Questo foro internazionale è l’ONU, e le Nazioni Unite si raduneranno prossimamente a Parigi. In vista di tale riunione, i tre ministri, a Washington, nel loro comunicato finale affermano: «i tre ministri, a nome dei rispettivi governi e popoli, riaffermano la loro fedeltà al principio contenuto nello statuto dell’ONU, secondo cui le divergenze internazionali debbono essere risolte con procedimenti pacifici e non con la forza o la minaccia della forza. Esprimono pertanto la speranza che l’imminente riunione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a Parigi fornirà una concreta occasione di contatti e di scambi di vedute di cui i tre ministri degli Esteri sono pienamente disposti, dal canto loro, ad avvalersi». L’Italia aderisce di tutto cuore a questi propositi, a questo spirito di pace ed invoca solo il suo diritto per potervi partecipare con la piena forza e con l’autorità della sua tradizione e delle sue forze morali. (Vivissimi, prolungati applausi dal centro e dalla destra).
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1Building the Italian Republic
101951-1955
Sono piacevolmente sorpreso delle parole dette dall’onorevole Nenni, e ne prendo atto con molta soddisfazione. È, in verità, lo stesso sentimento, lo stesso desiderio che tutti sentono profondamente quando si trovano dinanzi a un disastro, come quello di cui dobbiamo occuparci, e che l’onorevole Nenni, io e molti altri abbiamo visto di fronte, con tutte le conseguenze tristi che esso ha prodotto. Mi auguro che questo sentimento dell’onorevole Nenni sia comune a molti altri, specialmente a coloro che scrivono sui giornali di estrema sinistra, giornali che io ho visto durante il percorso e che avevano un altro linguaggio. Ma io non accenno a questo per volere polemizzare; affatto. Vi accenno soltanto per augurarmi che, come l’onorevole Nenni non si è ispirato a questi giornali, così i giornali, di qui innanzi, si ispirino alle parole dell’onorevole Nenni. inGrao . Ci ispireremo ai comunicati dell’onorevole Gonella! (Proteste al centro e a destra). De Gasperi. Direi che essi si ispirino soprattutto a questa concezione, che è fondamentale e che è il punto di partenza di qualsiasi lavoro in comune: ritenere che gli avversari; anche se sono al governo, sono uomini di buona fede, amano il loro paese, si sforzano veramente di lavorare per il progresso del loro paese. ToGliaTTi. Anche se sono all’opposizione. De Gasperi. Anche se sono all’opposizione! Ma non è avvenuto, onorevole Togliatti, che io dicessi qualcosa di simile a ciò che ha detto lei recentemente nei riguardi degli uomini di governo. (Interruzione del deputato Togliatti). Sarebbe opportuno che ella non mescolasse la sua voce a quella dell’onorevole Nenni, perché è stridula ed in contrasto perfetto con ciò che l’onorevole Nenni ha detto. (Applausi al centro e a destra – Commenti). Comunque debbo occuparmi soprattutto dell’interpellanza e delle interrogazioni a cui devo rispondere. Alcune di esse credo otterranno risposta nella mia dichiarazione generale su quanto il governo ha fatto e su quanto il governo intende fare nel suo programma, che è soprattutto per il momento concretato nei disegni di legge presentati e nel decreto-legge deliberato ieri dal Consiglio dei ministri. Alcune osservazioni in generale sull’avvenimento. Prima di tutto, è vero: le proporzioni del disastro delle alluvioni di questo anno non sono paragonabili a quelle di altri avvenimenti precedenti. Però sembra quasi fatale che, ad una certa scadenza, si abbiano delle rotte e delle inondazioni. Nel 1857 sul Po si ebbero 48 rotte; nel 1868, 20; nel 1872, 28; nel 1876, 13; nel 1907, 20; nel 1917, 15; nel 1926, 3. Ma voglio dire che le 6 rotte principali di quest’anno sono immensamente più pericolose delle 40 o 50 che si sono avute nel passato, perché si è trattato di una massa d’acqua assolutamente eccezionale e di una violenza di cui non si trovano esempi nel passato. Lo debbo dire per spiegare la situazione dinanzi a cui si sono trovati i tecnici, coloro i quali, attraverso la magistratura delle acque, hanno la vigilanza e la responsabilità diretta del corso e del regime delle acque del Po e in genere delle acque nel Veneto e nella Romagna. Secondo punto: i danni. Si parla di cifre iperboliche; si parla di 200-300 miliardi. Fino ad oggi queste cifre appaiono assolutamente esagerate, secondo i dati finora in nostro possesso. Certo, se la situazione peggiorasse, nessuna cifra potrebbe essere prospettata. Ma accanto alla dolorosa e triste realtà, a cui ha rivolto un pensiero anche l’onorevole Nenni, cioè alla perdita di vite umane, la cosa più irreparabile, dinanzi alla quale noi inchiniamo la memoria rivolta ai morti e soprattutto mandiamo le nostre vivissime condoglianze alle famiglie, che provvederemo a soccorrere in modo particolare; accanto a questi danni irreparabili, i danni materiali sono minori di quelli che si registrano nei titoli dei giornali, almeno per quanto è possibile accertare oggi. Debbo riconoscere che, fino a che l’inondazione non sarà cessata o diminuita, non è possibile fare un esatto accertamento delle conseguenze. Il ministro dei Lavori Pubblici considera che i danni delle opere pubbliche, stradali ed edilizie nel nord si aggirino intorno ai 22 miliardi e mezzo. Il ministro dell’Agricoltura pensa che, quando si considerino, oltre ai danni alle case rurali, agli impianti ed ai terreni, anche i danni ai raccolti pendenti ed alle scorte complessive, si possa arrivare ad alcune decine di miliardi di lire. I dati più precisi li abbiamo per la provincia di Rovigo. Si calcola che in questa sola provincia siano stati allagati 77 mila ettari, oltre ai 4 mila della provincia di Venezia (Cavarzere). Per una previsione dei lavori occorrenti al ripristino, si consideri che ben 40 mila ettari sono sotto il livello dell’acqua, sicché, tenuto conto del normale deflusso, le idrovore dovranno funzionare 100 giorni per prosciugare tutto il terreno sommerso. E per una eventuale approssimativa stima, il Ministero dell’Agricoltura ricorda ancora che nelle suddette zone circa 30 mila ettari erano seminati a cereali, 20 mila a prati artificiali e circa 1000 a frutteti. Nelle stesse zone esistevano circa 100 mila capi di bestiame, tra ovini, bovini e suini, oltre al pollame; e bisognerà attendere che il terreno sia prosciugato per poter accertare quanta parte di questo bestiame si sia potuto trarre in salvo. Coloro che si sono recati sul luogo hanno però potuto vedere quante lunghe teorie di animali siano state portate in salvo di qua dall’Adige. I danni sono gravissimi, ma non raggiungono sino ad oggi nel nord le proporzioni di cui si è fatto cenno anteriormente. Opere di soccorso: non è questo il momento, dinanzi a fatti di tale gravità, di mettere in rilievo l’operato del governo; dato però che si è detto che il governo è arrivato tardi, che il governo non è stato tempestivamente presente, eccetera, debbo dire che i membri del governo si sono recati subito sul posto: vi si sono recati per primi i sottosegretari Bubbio e Rumor , vi si è poi recato il ministro Fanfani insieme con me; vi si è successivamente recato il ministro Aldisio , in aereo; e da ultimo gli onorevoli Malintoppi e Jannuzzi . Abbiamo poi mandato il ministro Rubinacci a Ferrara, dove ancora si trova. Naturalmente, nel frattempo, tutti gli organi locali sono intervenuti. È giusto che si parli di intervento delle popolazioni: sicuro, le popolazioni si sono mosse, hanno creato organizzazioni; ma non bisogna dimenticare che gli organi responsabili si sono posti alla testa di questo movimento e soprattutto le forze organizzate – vigili del fuoco, esercito, forze di polizia – sono intervenute immediatamente. Non bisogna dimenticare che nelle zone alluvionate operano attualmente 1.635 fra ufficiali, sottufficiali e vigili, con 678 mezzi, e risultano salvate dai vigili 15.800 persone. I salvataggi compiuti in condizioni drammatiche superano il migliaio. I profughi affluiti dalle zone alluvionate e sistemati nelle varie province erano al 18 novembre 51.000, ripartiti nelle varie province di Brescia, Verona, Padova, Treviso, eccetera. Alloggiamenti erano stati predisposti anche a Bergamo, Pavia, Ferrara, Firenze, Pesaro, Macerata. Riguardo alla rapidità con cui il governo è intervenuto, assumendo tutte le responsabilità, vi ricordo che fino dal 15 novembre il governo ha disposto il ricovero gratuito di tutti i bambini delle famiglie alluvionate che ne avessero fatto richiesta. In realtà, la maggior parte di queste famiglie non desiderano allontanarsi dai loro bambini, ed è naturale; ma non è che lo Stato non abbia provveduto per ricoverarli in asili, colonie, eccetera. Lo Stato potrebbe offrire ricovero a 5 mila bambini in speciali asili; ma attualmente quelli ricoverati sono in minor numero, perché altri sono ospitati presso altri centri o famiglie, o sono, come ora dicevo, trattenuti dai propri familiari. I mezzi necessari sono stati organizzati tempestivamente a fronteggiare i bisogni straordinari. Lo avete sentito in altre dichiarazioni di membri del governo. Ci siamo affrettati a dare disposizioni perché si spendesse e si facesse tutto il necessario. Non potrà mai darsi che organi subalterni si appellino ad ordini in senso contrario, perché il ministro dell’Interno e quello dei lavori pubblici sono stati larghissimi di accreditamenti. Devo poi ricordare che, attraverso i depositi degli uffici provinciali di assistenza postbellica, che oggi sono amministrati dal Ministero dell’Interno, sono stati fatti localmente immediati acquisti di vestiario e di viveri. Dal centro sono stati inviati adeguati quantitativi di coperte e lenzuola. Non è far torto, ma è spiegare umanamente la situazione, dire che i profughi, cioè i sinistrati, hanno una immensa riluttanza ad abbandonare le case e i paesi anche quando vedono salire il livello delle acque. Bisogna immaginare (e l’onorevole Nenni, che è stato sui luoghi, potrà confermarlo) non una piena travolgente, bensì, tranne che in pochissimi casi, un crescere lagunare. In certi momenti si crede che l’acqua raggiunga le case in mezz’ora o in un’ora. Invece, più tardi, l’allarme risulta, fortunatamente, ingiustificato. Ad esempio, a Rovigo, nella notte, si è dato ordine di sgombrare anche a piedi: ordine che ha colpito tanto i giornali. Si tratta in realtà di questo: tutte le automobili, per paura che fossero raggiunte dall’acqua, erano state concentrate in una località vicina. Quindi, bisognava muoversi a piedi, per un tratto di soli dieci minuti, per raggiungere gli autobus. Dunque, quelle parole che tanti commenti hanno suscitato («vedete che imprevidenza? Anche a piedi si fa camminare quella povera gente!»), erano state in realtà motivate da una precauzione necessaria. Ci si può spiegare facilmente queste alternative di speranza e di pessimismo. Io stesso ho assistito ad una di queste penose alternative, durata due ore. Gli ingegneri dicevano: secondo le nostre informazioni, la situazione è migliorata e bisogna stare tranquilli. Ma poi arrivava un’altra notizia: l’acqua cresce, aumenta, c’è minaccia di rottura in tale posto! E questa minaccia portava di conseguenza il pericolo che l’acqua si avvicinasse alla città. Quella notte si è avvertito il pericolo di una rottura che avrebbe aggirato la città e reso impossibile l’accesso alla stazione. Allora si è messo in allarme tutto il paese e si è gridato: sgombrate! E la gente che generalmente non si muove, quella notte si è mossa. Ma il giorno dopo è ritornata. È un fatto che tutti sono attaccati alla propria proprietà e (qui influiscono il ricordo terribile e l’esperienza della guerra!) temono di trovare poi la casa vuota, di non trovare le proprie cose. Cosicché la gente è riluttantissima ad abbandonarle. Abbiamo visto che i vigili stessi hanno dovuto ad un certo punto, per convincere gli abitanti ad abbandonare la zona, mandare avanti gli animali affinché i padroni li seguissero nelle barche e lasciassero compiere l’opera di salvataggio. C’è la necessità (e l’abbiamo affermata a conclusione delle nostre decisioni in Consiglio dei ministri) di rafforzare il servizio di ordine pubblico. In una zona che per un certo periodo diventerà di nessuno è necessario che il governo assuma la responsabilità della tutela della proprietà. Certo è che fin da oggi è necessario che gli organi di governo assumano direttamente questa responsabilità attraverso un rafforzamento delle forze dell’ordine. Accanto a queste forze, di vigili, di polizia, di tecnici, non dimentichiamo l’esercito. L’esercito ha impiegato in alta Italia circa 9.000 uomini, 975 automezzi, 461 imbarcazioni, 18 stazioni radio, un rilevante numero di fotoelettriche, sacchetti di terra, coperte, pagliericci, materassi, una forte quantità di generi di prima necessità, ivi compresi 470 filtri per acqua. Le responsabilità dell’organizzazione vengono coperte e condivise dai comandi militari. Dobbiamo essere molto grati all’esercito, come pure alla marina, perché anch’essa ha inviato un numero notevole di imbarcazioni leggere e di automezzi nautici. Alla marina e all’esercito italiano si è unita una piccola delegazione delle truppe anglo-americane di Trieste. Dobbiamo essere grati per questo sforzo che rappresenta veramente l’ossatura del salvataggio. Deve essere naturalmente ricordata anche l’aviazione, che ha impiegati 350 uomini di truppa, 120 autocarri e numerose radio, 15 velivoli italiani, oltre ad un velivolo inglese e ad elicotteri. In realtà l’aviazione non ha potuto attuare un’opera sistematica perché sopra tutta questa immensa fiumana vi era una cappa di nebbia che rendeva scarsissima o nulla la visibilità. Qualche critica è stata mossa contro la capitaneria di porto di Chioggia, la quale invece ha provveduto alla quasi totale requisizione dei mezzi nautici della zona, che ha inviato in gran parte nel Delta padano. Solo quella capitaneria ha messo in opera per lo sfollamento della zona allagata 305 mezzi nautici, tra cui 30 grandi lampare. Coloro che non sono stati sul posto non hanno l’idea della concentrazione di forze; erano colonne di autobus e di barche. Si è formato attorno a Rovigo e a Ferrara, e in genere nel Polesine, qualcosa di meraviglioso che commuoveva; vedevate sopra questi autobus i nomi di tutte le città. Son venuti perfino da Bari, così come dall’estremo nord. Ripeto, erano colonne e colonne, una teoria notevolissima di automezzi, tanto che, ad un certo momento, abbiamo avuto l’impressione che non ci si potesse più muovere. Tanto è stato l’entusiasmo. Tutti rispondevano agli appelli lanciati a mezzo della prefettura di Rovigo. Non bisogna svalutare l’organizzazione prefettizia che, per fortuna, esiste nella Repubblica italiana; questa organizzazione delle prefetture e degli enti pubblici provinciali ha agito con un impulso veramente unitario nel correre in soccorso dei pericolanti. Occorre poi ricordare quanto ha dovuto fare l’amministrazione sanitaria, con la sua organizzazione di medici e di veterinari, in soccorso degli uomini e del bestiame. Tutte le amministrazioni si sono prodigate a far fronte alle necessità sulla base delle direttive avute dai ministeri, attraverso i prefetti. Più tarda, più lenta è stata l’organizzazione dalla parte di Ferrara, perché il primo sgombero su vasta scala si è fatto sulla sponda sinistra, e solo successivamente si è dovuto passare a quella destra. Da Ferrara il ministro Rubinacci mi telegrafa ora in questi termini: «tenuto rapporto Codigoro con intervento prefetto Ferrara, generale Petroni, comandante militare, dottor Roncuzzi, ispettore generale pubblica sicurezza, questori Rovigo e Ferrara, concordemente realizzato pieno coordinamento ambito specifiche competenze servizi evacuazione, assistenza, amministrazione, smistamento, vettovagliamento e sicurezza pubblica. Mi riservo riferire. Comunico che dall’alba alle ore 17 di oggi provveduta evacuazione zona Adria Taglia Po circa 7.000 persone trasportate, accolte, vettovagliate, assistite e prontamente smistate province che hanno offerto ospitalità. A questa opera mirabilmente organizzata dal comando militare hanno partecipato sette mezzi anfibi dei vigili del fuoco, quattro natanti della capacità di cento persone e venti battelli di assalto del genio militare, nonché duecento mezzi civili a remi. Provveduto altresì al vettovagliamento delle popolazioni ancora in zone allagate, con ventimila razioni. La popolazione di Adria e delle zone allagate si trova nella massima calma e ha fiducia nella efficienza dell’azione degli organi dello Stato. Nessun incidente». Il totale dei viveri inviati finora ad Adria ammonta a quintali 350, specie latte, zucchero, pane e farina. Tutte queste cose dico perché, se dobbiamo esaltare il nostro popolo di fronte alle nostre coscienze e anche di fronte agli altri popoli vicini e lontani, dobbiamo però anche dimostrare che siamo capaci di organizzare, che abbiamo una organizzazione statale, e di enti locali, che lavora e risponde alle esigenze della comunità nazionale. Mi sembra che fare in modo diverso, dire cioè che la popolazione provvede al proprio salvataggio quasi istintivamente e che vi è un’inerzia o una insufficienza assoluta delle autorità, ammettere questo significa affermare di fronte agli altri popoli che l’amministrazione dello Stato non ha forza, non ha vita. Se si afferma che l’organizzazione dello Stato non è sufficiente, come si fa allora a difendere la Repubblica italiana, come si fa a chiedere solidarietà per il nostro paese? Bisogna dunque dimostrare che, attraverso la democrazia, attraverso un governo, controllato dal Parlamento, si ha una forza e un impulso che forse in altri tempi non vi sarebbero stati. Quando ci si chiede, poi, una visione organica dei problemi e dei provvedimenti da adottare che non si limitino semplicemente a rattoppare ciò che è andato distrutto in questi giorni, si viene incontro al nostro desiderio. Noi comprendiamo questa assoluta necessità, e perciò abbiamo gradualmente predisposto e deliberato i nostri provvedimenti. Anzitutto, lo Stato ha assunto a proprio carico il ricovero e il mantenimento di tutti i profughi. Per il momento, questi si sono valsi dell’ospitalità degli enti pubblici e delle famiglie private. E qui mi viene alle labbra un sincero, profondo ringraziamento per la generosità che hanno dimostrato le famiglie e gli enti locali del Veneto. È stata una cosa meravigliosa! Ma anche a questo riguardo devo dire che, se questa nostra società italiana non avesse organizzato ospedali (come ne esistono di meravigliosi nel settentrione), se non si fossero istituiti asili infantili, cucine economiche e le stesse refezioni scolastiche, il compito sarebbe stato assai meno facile. In certi luoghi vi sono colonie estive, refezioni scolastiche, e cucine economiche così bene organizzate che sembravano pronte a raccogliere centinaia e migliaia di profughi. Vi sono delle cucine economiche delle refezioni scolastiche che preparano 1.500 razioni. Voi potete pensare come sia facile arrivare alle 3.000 razioni quando si facciano doppi turni e quando il bisogno lo richieda. Tutto questo non si improvvisa: si tratta degli sforzi di una intera generazione. E allora lodiamo questa generazione, che è generazione della democrazia italiana, che ha avuto una sua esperienza storica. Lodiamo questa generazione, in modo che gli stranieri, se vengono a visitarci, debbano inchinarsi dinanzi a questi esperimenti. (Applausi al centro e a destra). Iprofughi, dunque (distinguiamo traprofughi e sinistrati), sono ricoverati e mantenuti a carico dello Stato là dove vanno ospiti di enti collettivi; ricevono razioni, al mattino e alla sera, hanno il latte, lo zucchero, e gli altri viveri necessari oltre alle medicine ed ai vestiti. A coloro che non sono ricoverati si è applicato, col decreto-legge che abbiamo presentato ieri, il criterio già stabilito e applicato per i profughi di guerra, però accettando come base le proposte che abbiamo fatto, e che stanno dinanzi al Senato, di aumentare il loro sussidio. Con tale decreto concediamo quindi il sussidio aumentato proposto per i profughi di guerra, che, nella media dei nuclei familiari, diventa superiore a quello di disoccupazione. Sinistrati non evacuati: per questi si provvede con assegni straordinari a favore degli ECA. Dunque, l’ente comunale di assistenza è il perno dell’opera assistenziale, in quanto esso, in ogni caso, è l’organo attraverso il quale si arriva a contatto diretto con i sinistrati. Le raccolte che si stanno facendo andranno a beneficio tanto dei profughi che dei sinistrati. Ci siamo preoccupati anche del coordinamento. È possibile che il governo resti indifferente dinanzi alla molteplicità delle iniziative? No, deve plaudire e deve ringraziare tutti, ma bisogna pur dare una certa garanzia dell’equo impiego, della distribuzione, affinché tutte le esigenze siano uniformemente soddisfatte. Ecco perché abbiamo proposto che tutto ciò che è indumenti e oggetti vari sia accentrato alla Croce rossa, nel senso che questo ente, organo neutrale e imparziale, si assume l’onere della distribuzione. Offerte in denaro. Abbiamo un comitato di soccorsi invernali del quale fanno parte rappresentanti di diverse tendenze. Si è creato un ufficio speciale presso la Presidenza del Consiglio. Questa, del resto, è stata l’indicazione degli offerenti stessi, e in questo modo si è fuori delle critiche di parte. Tutto questo è soccorso immediato. E siamo ricorsi (gli onorevoli deputati mostreranno, certo, comprensione per questo nostro impegno) al decreto-legge perché ci pareva che non fosse possibile perdere nemmeno un giorno per quanto riguarda il sussidio ai profughi. Ma vi è, poi, un programma di immediatezza anche per i lavori di riparazione e per il ripristino delle opere. Anche qui abbiamo sentito i nostri tecnici, calcolando le nostre possibilità e soprattutto le esigenze a cui rispondere. Occorre anzitutto fare un programma, che comprenda, in primo luogo, le misure d’urgenza nel settore delle riparazioni. Abbiamo da fare con rotte, con fiumi la cui crescita d’acqua, disgraziatamente, è in continuo aumento, e quindi dobbiamo pensare a questa prima esigenza. Di qui il programma preventivato in circa 30 miliardi, finanziato per 8 sul fondo lire, d’accordo naturalmente con l’amministrazione ECA, per 22 con un’addizionale temporanea del 5 per cento sulle imposte dirette, di registro, di successione (pensavamo che questa disposizione sarebbe stata la meno criticata perché colpisce, appunto, le imposte dirette) e di manomorta, solo per l’anno 1952. Questo programma immediato sarà sufficiente per le necessità di maggiore urgenza. Abbiamo poi studiato un programma di ricostruzione, di opere di prevenzione, di sistemazione dei bacini montani e degli argini dei fiumi, di rimboschimento e di incremento della occupazione. Questo programma, concretato nel Consiglio dei ministri di ieri, non è composto di elementi ancora incerti, ma è già studiato e doveva far parte di un programma di investimenti già annunciato e che doveva essere lanciato in questi giorni; senonché l’esigenza suprema del momento è di far fronte alle spese di riparazione dei danni: successivamente sarà iniziata l’applicazione del programma di opere intese ad evitare calamità future. Come coprire il finanziamento? Tra l’altro abbiamo deciso di fare appello alla sensibilità nazionale attraverso un prestito di cui verranno fissati rapidamente i termini ed è sperabile che la nazione, dimostratasi già tanto sollecita, si appaleserà premurosa anche nei riguardi del prestito e vi investirà il proprio denaro, che, oltre tutto, sarà garantito. Naturalmente non è ora possibile stabilire la ripartizione dei fondi fra singole opere del programma; daremo ad ogni modo la precedenza assoluta alle opere per l’arginamento dei fiumi alle quali si connetteranno lavori di vario genere, in relazione anche alla necessità di incrementare l’occupazione operaia. Riguardo ai fiumi; esiste già un progetto del ministro dei Lavori Pubblici per un importo di 100 miliardi da ripartirsi in vari esercizi. Per questo programma abbiamo presentato due progetti di legge distinti, il primo dei quali riguarda l’autorizzazione al Ministero dei Lavori Pubblici di provvedere alla riparazione dei danni delle opere dello Stato e alla sistemazione idraulica, nonché alla ricostruzione degli edifici pubblici, anche se di pertinenza degli enti locali, e di abitazione per i senza tetto. La Camera studierà il dettaglio del disegno di legge e lo potrà rendere meglio rispondente agli scopi che ci siamo prefissi. Per tale progetto sono stanziati 20 miliardi, con opportune suddivisioni interne. L’altro progetto comprende, invece, la materia di competenza del ministro dell’Agricoltura e comporta uno stanziamento di 10 miliardi, elevabile, però, esso pure a 30 miliardi col concorso privato. Il fatto più consolante di tutta questa tragedia è rappresentato dal gesto, dallo spirito di solidarietà nazionale che si è manifestato mediante l’ospitalità dei paesi vicini, il concorso dei mezzi, cui ho accennato prima, il concorso delle offerte, lo spirito di sacrificio dei vigili, dell’esercito, delle organizzazioni sociali in genere – non voglio escludere nessuno – lo spirito d’iniziativa della Croce rossa, della Rai, dei giornali, il concorso venuto da tante parti, ma soprattutto, direi, l’esempio, l’esortazione di uomini illustri per responsabilità e per posizione. Accenno soltanto al pontefice, e non solo al discorso da lui fatto, ma alla azione svolta attraverso la commissione pontificia, accenno alla premura con cui il nostro presidente della Repubblica ha visitato gli alluvionati, distribuendo soccorsi. Inoltre direi che, più che nazionale, questo interessamento è stato internazionale. A parte gli otto miliardi cui mi sono riferito prima, che sono di origine, naturalmente, americana, io penso che non possiamo dimenticare gli atti di solidarietà che ci vengono annunciati dall’estero. Proprio questa sera sono arrivati telegrammi di capi di Stato a completamento di quelli venuti nei giorni precedenti: di Adenauer, di De Valera, di Muntasser (Libia), di Plastiras; e questi telegrammi si aggiungono a quelli inviati da Churchill e da Schuman. Questa sera alla radio vari capi di Stato e uomini di governo parlano con simpatia dell’Italia, promettendo il loro soccorso ed il loro intervento: il cancelliere austriaco, il cancelliere germanico, il presidente della Confederazione svizzera, il presidente della Camera belga, il presidente della Camera del Lussemburgo, il ministro Schuman eccetera. Evidentemente siamo dinanzi ad un plebiscito internazionale che ci fa molto piacere e che ci dice che non siamo soli. Pochi minuti fa, prima che entrassi nell’aula, ho ricevuto l’ambasciatore germanico, il quale mi ha comunicato che, a partire da domani mattina, 14 impianti di pompe saranno a disposizione del governo italiano. Si tratta di elettropompe con tutti gli accessori per far defluire le acque. Accettiamo volentieri quest’aiuto meccanico e ci auguriamo che altri Stati, che sono in grado di farlo, facciano altrettanto, perché successivamente comincerà il grosso problema della pompatura delle acque stagnanti. Voi sapete che in quella regione esistono 50 idrovore e 25 mila ettari sotto il livello del mare, quindi il problema è immenso. Forse non è irriverenza il dare atto, dinanzi al Parlamento, di una lettera che il presidente della Repubblica mi ha mandato in questo momento: «Caro presidente, ritornato ieri dall’ultima – ed auguro e spero sia l’ultima – delle mie visite nelle zone delle Calabrie, della Sicilia, della Sardegna, del Piemonte e del Polesine tanto duramente provate dalla furia distruttrice delle acque, ho il dovere di recarti testimonianza di fede e di gratitudine. Di fede nella ferma risoluzione dei danneggiati nel dare opera essi medesimi, per i primi, alla riparazione dei gravi danni ricevuti ed alla ricostruzione dei patrimoni morali e materiali perduti. Di gratitudine verso quanti, in nobile gara di solidarietà, si adoprano per lenire la sventura, per trarre a salvamento uomini, donne, bambini, per apprestare ad essi i primi soccorsi. Dagli uomini di governo ai parlamentari, dai funzionari dell’ordine amministrativo ai tecnici, dagli ufficiali ai soldati delle varie armi e specialità, dai cittadini meglio provveduti agli umili popolani, tutti gareggiano nell’adempimento del dovere verso la patria. Sono sicuro che, nella concordia operosa fra governo, Parlamento e popolo, all’opera di primo soccorso seguirà l’ardua e necessariamente più lenta azione di ricostruzione dei ponti, delle strade, degli argini, degli impianti di bonifica necessari ad impedire che il danno possa ripetersi. Con i miei occhi ho anzi veduto, a distanza di pochi giorni dal flagello, qualcosa di più dell’inizio della ricostruzione. Lo spettacolo del coraggio con cui, all’indomani della ferita profonda, questo nostro mirabile popolo già si è accinto a rimarginarla, mi fa sperare che oggi si avveri l’augurio di coloro i quali in passato ammonirono: la terra italiana, la terra della montagna e sovrattutto della montagna appenninica, va lentamente disfacendosi; le argille si sfasciano e le rocce si denudano. Spinti dall’urgenza di vivere, gli agricoltori abbattono l’albero e coltivano una terra che dopo qualche anno o decennio più non esisterà. Il male è antico e dura da secoli e talvolta da millenni. Ma la distruzione della terra italiana alta è la causa ultima dei flagelli i quali colpiscono le terre basse. Fa d’uopo – ammonivano taluni veggenti – porre subito un argine alla distruzione ed iniziare poi la ricostruzione della terra: ed importa siano tolti gli impedimenti ereditati dal passato i quali ostacolano l’abbandono spontaneo delle terre invano poste a coltura da contadini costretti a trarne troppo miserabili mezzi di vita. Lo spettacolo di fede, di coraggio, di abnegazione, di solidarietà, di cui sono stato commosso spettatore in questi giorni dolorosi, mi persuade che usciremo vittoriosi dalla dura prova: vittoriosi nei frangenti dell’oggi e nelle più dure e durature conquiste dell’avvenire». (Applausi al centro e a destra). Permettete che nulla aggiunga a queste parole che provengono da un uomo che le ha scritte sotto l’impressione immediata della disgrazia, ma, anche, soprattutto, sotto l’impressione dello sforzo, del coraggio del nostro popolo e delle autorità che lo rappresentano. (Vivi applausi al centro e a destra). Desidero avvertire la Camera che alle interrogazioni di carattere specifico risponderà il ministro dell’Interno in altra seduta. […] Devo dire che non sono sufficientemente documentato, in questo momento, per rispondere alle considerazioni mosse intorno al decreto del prefetto di Rovigo e alle motivazioni che lo hanno determinato. Mi riservo di esaminare la cosa. Nella mia risposta avevo volutamente taciuto, per evitare stonature all’atteggiamento dell’onorevole Nenni, di alcuni episodi non precisamente simpatici, per esempio, di un giornale chiamato, La Verità, settimanale del Partito comunista di Rovigo , mostratomi al mio arrivo in quella città e pieno di livore e di ingiurie contro il governo. Io non ne ho nemmeno accennato ai deputati e senatori comunisti e socialisti coi quali mi sono colà incontrato; mi sono limitato a dir loro che del merito dei problemi avremmo discusso in Parlamento, ma che intanto era necessario lavorare insieme per evitare più gravi dannai e per persuadere la popolazione ad accettare l’ordine delle autorità di sgombrare. Devo dire che, per esempio, la senatrice Merlin mi ha dato la sua collaborazione ed è corsa ad Adria, dove è tuttora, e dove ha prestato e presta una intensa attività di cui sono testimoni anche i colleghi Aldisio e Rubinacci che ve l’hanno incontrata e hanno discusso insieme con lei sul da farsi. Riservandomi la risposta, dunque, non posso che limitarmi a notare che, in contingenze tanto tragiche, è necessario che vi sia una autorità dirigente e responsabile; essa non deve disertare da questa sua posizione, pur accettando la collaborazione di chicchessia. I comitati possono collaborare, ma sono le autorità (ed anche i sindaci, naturalmente, e i presidenti delle deputazioni principali) che devono avere il loro prestigio e la loro responsabilità salvaguardati, e devono dire l’ultima parola. Chi è stato in quei posti sa quali tremendi momenti occorre affrontare: noi abbiamo discusso accanitamente coi tecnici, ma alla fine era necessario che uno prendesse, sia pure alla luce degli elementi portati in discussione, una decisione finale. Guai se in momenti simili fosse consentita una confusione di idee e di direttive, quando invece è assolutamente necessario, per la stessa complicatezza della situazione, che l’autorità si faccia valere con rigore, se non con dittatura. Io non entro nella discussione dei singoli gesti e degli atti particolari delle autorità, ma è un fatto che esse si sono dimostrate infaticabili. Evidentemente, i nervi sono nervi e dopo quattro notti senza sonno e quattro giornate di intensissimo lavoro, diventa talmente difficile conservare la propria calma che non sempre le discussioni si possono svolgere serene. Ma credo che non vi sia stata alcuna animosità. Però devo dire all’onorevole Pajetta che, quando su fogli volanti si fa questa propaganda, in un momento di esasperazione come l’attuale, quando tutto ciò che corrisponde ad un sentimento di reazione viene accettato con facilità dall’animo ingenuo o esasperato di quelle popolazioni, quando in questi momenti si fa la propaganda contro il Patto atlantico, agitando una questione vivissima e mettendola in relazione con il disordine che sarebbe avvenuto senza o con il Patto atlantico, io dico che questa è una speculazione politica, ed ella, onorevole Pajetta, l’ha fatta anche in questo momento. Io devo rispondere però che, se credessi sul serio che la comunità atlantica è una comunità di guerra, non avrei accettato di ospitarla a Roma né con l’alluvione, né senza l’alluvione. (Vivi applausi al centro e a destra). Se, viceversa, sono grato ed offro ospitalità a nome del governo italiano, è perché ad Ottawa (e, del resto, lo spirito c’era anche prima), si è accettata formalmente la nostra proposta che l’articolo 2 volesse dire solidarietà anche nei confronti dei disastri, ed io credo che non sarà fuori di proposito che in questi momenti alla conferenza internazionale si senta anche la voce dell’Italia che soffre e che l’Italia senta anch’essa parole di cordialità degli altri popoli, che già sono arrivate attraverso la radio e attraverso il telegrafo. Non guastiamo con una questione grossissima, che ci divide, questa unità internazionale nel dolore che veramente supera anche le nostre discordie interne. (Vivi applausi al centro e a destra).
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Riferisce sui recenti lavori del Consiglio atlantico. La questione del riarmo della Germania costituisce la causa di discordia. La Francia aderisce al riarmo della Germania solo nel quadro dell’esercito europeo. Il Consiglio atlantico si riunirà fra breve tempo e la Conferenza di Parigi per l’esercito europeo accelererà i suoi lavori. Riteniamo che non può esistere un esercito europeo senza una Autorità politica superiore, elettiva. Questo è il nucleo di una confederazione che si svilupperà con la pace. Vi è da sperare che non vi sarà la guerra. I comunisti sono più pericolosi in pace che durante la guerra. Non è probabile una guerra in primavera. Eden è dello stesso parere. Il riarmo della Germania sarà approvato in Francia. Bidault crede di sì, ma le difficoltà sussistono. La determinazione del nostro contributo nelle spese è stata rinviata. […] Invierà ai ministri una copia della relazione della Commissione per l’esercito europeo. Dichiara che forse andrà a Strasburgo. Riferisce quindi sulla inammissibile riluttanza dei ministri alla restituzione dei consiglieri di Stato al servizio di istituto .
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Per quanto riguarda l’esercito europeo informa che non si è potuto esimere dall’accettare l’invito alla conferenza di Strasburgo. Nel Consiglio dei ministri degli Esteri, che è stato convocato per i giorni 11 e 12 corrente, sarà esaminato il problema dell’esercito europeo. La tesi degli USA di costituire divisioni in Germania come parti integranti delle Forze integrate è stata sostituita dall’idea dell’esercito europeo promossa dalla Francia. Le tesi sostenute dai singoli paesi interessati presentano diversità. È necessario un organo deliberante per l’approvazione dei bilanci. Chiede come possa essere ritenuta responsabile una tale assemblea. Il bilancio deve essere separato oppure unico? Vi è diffidenza per la ricostruzione del Ministero della Difesa germanico (alla quale del resto gli stessi tedeschi sono contrari). Il progetto potrà realizzarsi? Comunque non deve essere l’Italia a farlo fallire. Al mito nazionale subentra il mito dell’Europa. Vi sono tremende difficoltà nell’esecuzione, in quanto viene a ridursi anche la sovranità fiscale delle singole nazioni. Si potrebbe fare un parallelo con l’organizzazione austro ungarica. L’inserimento della Germania in tale sistema determinerà una distensione e un aggravamento dei rapporti con la Russia? Il Consiglio dei ministri deve prendere posizione salvo la determinazione del Parlamento. Se il progetto non si realizza potrà ritornarsi alla tesi dell’America, ma la difesa avanzata non sarà probabilmente mantenuta. […] I colleghi escludono la possibilità di un attacco russo? Se non lo credono la questione non si pone. In caso contrario la difesa avanzata in Germania costituisce elemento indispensabile. Un esercito integrato senza l’accordo con la Francia è impossibile. Vi è interesse a sostenere Bonn a scopo di difesa; infatti l’unificazione della Germania occidentale con quella orientale potrebbe far passare il vantaggio al governo filocomunista. Bonn teme i generali del vecchio regime prussiano contrari all’attuale governo bavarese. I tedeschi, i francesi e gli americani sono per l’esercito europeo. Forse questi ultimi pensano che l’esercito europeo non si realizzerà ed in tal caso essi saranno gli arbitri della situazione. Eisenhower però è favorevole. La sua origine svizzera ha influenza. Può darsi che i tedeschi costituiscano un pericolo, ma è meglio farli entrare a tempo nell’organizzazione europea. Non c’è il pericolo che vengano eliminati gli organi nazionali: sono previsti centri e forze di reclutamento territoriale. Osserva, d’altra parte, che dal punto di vista politico non si può prendere una posizione negativa, e non si devono accettare ripieghi. [Il ministro dell’Interno domanda se la Germania sia in grado di riarmare immediatamente o se debba invece aspettare le ratifiche dei diversi paesi]. Gli esperti affermano che la Germania può iniziare subito il riarmo. […] Non ha alcuna intenzione di accettare il progetto attuale. Nella conferenza di Strasburgo porrà la questione federalista e costituzionale. Sarà guardingo nella sostanza del problema. Non dobbiamo però lasciare cadere l’occasione favorevole poiché dall’esercito può sorgere l’Europa. Vede all’organizzazione non solo il pericolo della Russia ma anche un attrito potenziale tra Germania e Francia. Non chiede oggi che vengano assunti impegni ma vuole soltanto avere un indirizzo. Non farà dichiarazioni a nome del governo, ma è certo che la sua parola varrà più di quella di Lombardo. Anche Schuman non parlerà a nome del suo governo. Però se i colleghi già pensano di rispondere con un rifiuto assoluto assumendosi la responsabilità formale del fallimento del progetto di esercito europeo, egli non andrà a Srasburgo. […] Nel Consiglio dei ministri di Strasburgo terrà presenti due obiettivi: 1°) favorire la realizzazione dell’organizzazione federalista; 2°) non assumersi la responsabilità del fallimento del progetto di esercito europeo. Così resta stabilito. Prega La Malfa di recarsi con lui a Strasburgo e Pacciardi perché avverta Lombardo di farsi accompagnare dal generale Mancinelli.
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Illustra poi i risultati della Conferenza di Strasburgo. Il suo discorso all’Assemblea è noto. Non sono invece noti i lavori dei sei ministri degli Esteri. Per il 2 febbraio i paesi europei debbono far conoscere se sono d’accordo per l’armata europea o meno. La Francia non vuole che la Germania entri nella NATO e che abbia un suo esercito. Le altre proposte verranno riferite a questo punto di vista. Legge i verbali delle tre riunioni che preludono al convegno del 27-30 dicembre a Parigi ove si dovrebbe siglare uno schema di accordo da firmare in gennaio. Schuman ha iniziato con il discutere il problema relativo al reclutamento dell’esercito europeo nonché dell’armamento e del bilancio. Egli invece ha fatto presente che deve precedere l’aspetto politico-costituzionale. Circa il reclutamento il problema si presenta sotto diversi aspetti per la Germania che recluta per la prima volta e per gli altri Stati. La durata del servizio militare dovrebbe essere uguale in tutti gli Stati, ma vi dovrebbe essere autonomia per la concessione degli esoneri. Il reclutamento sarà fatto dal commissario quando sarà costituita la Confederazione europea e per ora dalle autorità nazionali. Circa l’incorporazione delle truppe il Comitato dei ministri ha proposto di immettere tutte le forze nazionali nell’armata europea ad eccezione delle truppe coloniali, polizia, nonché delle truppe di occupazione a Berlino e in Austria. Nel Patto di Bruxelles era previsto l’autonomismo; non esiste invece nel Patto atlantico. I paesi del Benelux desiderano che nell’interno delle unità (divisioni) operino criteri nazionali per l’avanzamento degli ufficiali e sottufficiali. Adenauer invece si è opposto perché si violerebbe il principio dell’unità europea. Per l’istruzione militare sono previsti collegi militari nazionali e scuole di guerra comuni a tutti i paesi. Circa i poteri del commissario egli ha insistito sulla necessità di costituire un embrione di unità europea, almeno tra le nazioni che partecipano alla difesa europea. A tal riguardo ha fatto presente che si potrebbe costituire una autorità comune, con presidenza a turno, un’assemblea rappresentativa e un Consiglio degli Stati a base ugualitaria per ciascuno dei partecipanti. Schuman ha invece obiettato che tutto questo costituisce una parte avanzata dell’organizzazione europea. Egli ha replicato che il fine cui si tende deve essere molto chiaramente precisato fin dall’inizio anche se tale fine dovrà raggiungersi per gradi. Benelux e Francia non condividono l’idea di costituire un organo comune. È necessario istituire un bilancio comune, ma si pone il quesito se debba essere comune in tutto o in parte. La Germania è per la prima soluzione, poiché l’America non darebbe loro aiuti economici, ma li darebbe in caso di bilancio comune. Sono stati fatti molti accenni alla necessità di adottare misure provvisorie. Egli ha proposto di incaricare alcuni esperti di elaborare le formule da inserire nel trattato al fine di garantire la effettiva costituzione di una organizzazione europea. È stata a tale riguardo manifestata grande perplessità: Schuman non crede possibile l’approvazione di impegni precisi. Egli ha ripiegato su una tesi subordinale e cioè di dare istruzioni all’Assemblea provvisoria fissando però preventivamente i criteri da seguire. Schuman ha espresso titubanze di natura costituzionale, accettando però il principio di studiare una soluzione permanente. L’Olanda è molto favorevole all’idea federalista, ma è contraria ad assumere impegni. In conclusione si è stabilito che un organo di carattere transitorio studierà la creazione di una Assemblea della Comunità europea di difesa. È rimasto in sospeso il problema del bilancio che è stato rinviato ad una riunione dei ministri degli Esteri, delle Finanze e della Difesa a Parigi a fine dicembre. È necessario affrontare il problema in tutti i suoi aspetti partendo dal presupposto della conclusione dell’accordo. […] Chiarisce che si è inteso rendere possibile l’elezione di un’Assemblea attraverso le Camere nazionali.
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Onorevoli senatori, non mi pare che in questo momento io debba tener conto degli argomenti polemici presentati dagli oratori dell’opposizione, specialmente dall’onorevole Pastore; sarebbe anche inutile, poiché le obiezioni che sono state fatte oggi, sono state fatte anche durante la discussione del voto di fiducia e sono state da me contestate, credo, con argomenti abbastanza, o definitivamente, seri. Veramente se io fossi qui a difendere una semplice combinazione ministeriale e avessi sottoposto a questo interesse contingente di una combinazione ministeriale la sostanza oggettiva dell’organizzazione dello Stato, avrei commesso un gravissimo errore, di cui dovrei pagare le conseguenze. Senza dubbio le crisi, cioè quei momenti in cui si mettono in rassegna tutti i problemi, si affrontano quelle difficoltà che la vita quotidiana impedisce di affrontare, e si affacciano nella loro crudezza certi problemi sintetici che altrimenti sfuggono, furono un’occasione per riprendere la discussione sul Ministero del Bilancio e l’organizzazione finanziaria che si è fatta altre volte, non solo in periodo di crisi, ma tutte le volte che questa materia si è trattata alle Camere o c’è stata discussione per la formazione del ministero. Ma il problema era andato maturando da parecchio tempo e le esitazioni si sono superate in questa occasione. Ora, siamo sicuri, siamo certi, siamo dogmaticamente certi di aver centrato il problema, di averlo isolato definitivamente? No, io sono il primo a dirlo; no, siamo in un campo sperimentale. Discutendo con i signori della 5ª Commissione, ai quali mando un particolare ringraziamento per la serietà con cui hanno affrontato questo problema ed hanno meditato sui diversi progetti, che hanno poi trasfuso in seno a questo progetto di legge, discutendo con loro, da entrambe le parti, anche quando non eravamo d’accordo su un particolare, abbiamo detto: ci sono ragioni pro e contro il problema, che si presenta poliedrico, con facce diverse, qualche volta contraddittorie; innegabilmente l’esperienza dirà chi ha avuto ragione e chi ha trovato la strada giusta. Certamente l’esperienza dirà se la procedura di miglioramento dovrà essere svolta con un’altra forma, su un’altra strada. Ma noi abbiamo questa convinzione, che cioè un passo notevole per concentrare in un ministero la direttiva di carattere economico-finanziaria è stato fatto e noi crediamo con questo strumento di avvicinarci alla nostra meta. Non è vero poi che abbiamo spogliato completamente il Ministero del Tesoro. Il Ministero del Tesoro ha molte altre cose ancora da fare. È inutile che vi legga il catalogo delle sue attribuzioni. Vi basti pensare che il Ministero del Tesoro deve provvedere alle partecipazioni dello Stato. Voi sapete che questo ha già formato argomento di grossa discussione, e che in proposito esiste la relazione La Malfa su tutte le partecipazioni. Quindi il problema esiste e ancora non l’abbiamo risolto, poiché, badate, è enormemente difficile trovare la soluzione che soddisfi tutti e che sempre corrisponda agli interessi, perché ci sono sopravvenienze, come ha accennato benissimo il senatore Lucifero, che nello Stato liberale, per forza di cose, esigono nuovi organi e sviluppi. Può essere che questo terzo ministero, chiamiamolo così, si possa evolvere in modo da diventare veramente il ministero dell’amministrazione delle partecipazioni e sarebbe una gran cosa, perché entreremmo in un campo veramente di grande importanza. La questione, come ha detto il relatore, che ci ha preoccupato ieri, era quella degli organi provinciali. C’è qualcuno qui che può dire veramente che sia scritto tra le cose vere e i supremi veri che gli organi devono essere di un ministero più che di un altro? Un uomo esperto come il nostro illustre presidente Paratore mi dice che ci sono ragioni pro e contro, evidentemente siamo su un terreno sperimentale e ci siamo trovati d’accordo su questo terreno; e dopo aver discusso ampiamente le proposte della Commissione in ciò che divergevano da quelle del governo, abbiamo trovato, tra uomini che ragionano e badano soprattutto agli interessi del paese, una linea di condotta. Quindi non aggiungo argomenti di carattere politico, ma vorrei solo che il Senato avesse la consapevolezza che non si tratta di un pasticcio fatto ad hoc per una crisi ministeriale cui si dà l’avallo dopo cinque mesi – questo sarebbe veramente tempo perso – ma si tratta di un esperimento serio sul quale abbiamo meditato molto, sul quale si è discusso molto e crediamo che sia il meglio che si possa fare e quello che include minori rischi. Quanto poi a tutto il resto che si è fatto e si è detto attorno ad una cosa, vorrei pregare i colleghi oppositori di ricredersi. Fra me e l’onorevole Pella, tra me e l’onorevole Vanoni, tra l’onorevole Pella e l’onorevole Vanoni, fra tutti i ministri c’è un rapporto soprattutto di lealtà assoluta. Discutiamo, questo è vero ed è anche giusto. I Consigli dei ministri naturalmente sono lunghissimi, ma la base fondamentale è quella di una assoluta lealtà. Nessuno pensi che presentando le cose diversamente in realtà trovi credenza ed appoggio in qualsiasi di noi. Andremo assieme e lavoreremo assieme finché i risultati saranno raggiunti e finché avremo la fiducia del Parlamento. Forse non siamo molto contenti, nel senso che non possiamo godere di particolari soddisfazioni, perché abbiamo la consapevolezza della gravità della situazione che pesa sulle nostre spalle, specialmente con riferimento a tutti i settori della politica interna dove dobbiamo difendere la libertà… (Interruzioni dalla sinistra – Applausi dal centro). Si, signori, perché sinceramente a questa causa noi ci dedichiamo, perché sia all’interno che all’estero vogliamo la pace, una pace difesa, la pace d’Italia. (Vivi applausi dal centro e dalla destra – Congratulazioni).
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[La seduta è inaugurata dall’on. Randolfo Pacciardi che riferisce sulle gravi condizioni di salute del conte Sforza]. Informa che si recherà a visitarlo e gli porterà il saluto augurale del Consiglio. Riferisce poi ampiamente sulle recenti conversazioni dei sei ministri degli Esteri a Parigi . Accenna anzitutto al problema di carattere costituzionale relativo alla necessità o meno di una riforma della Costituzione per l’adesione al Trattato. I giuristi hanno esaminato i dettagli. L’opinione prevalente (cui aderisce anche Ruini) è che non occorra una revisione. Circa l’automatismo dell’intervento i tedeschi si battono per ottenerlo. Si sta studiando un sistema misto. La questione sarà esaminata. Alcune questioni però, come la creazione della Federazione, non potrebbero sfuggire alla revisione costituzionale. Non potevamo pretendere l’immediata attuazione del Trattato che richiede procedure lunghe. I tedeschi vorrebbero che il Trattato avesse la durata di 60 anni, il Benelux la stessa durata del NATO e cioè 10 o 20 anni. Questioni da risolvere sono quelle relative all’Assemblea provvisoria, al Consiglio dei ministri, alle Commissioni, all’amministrazione. Nello stesso comunicato ufficiale della conferenza si è fatto cenno del contributo italiano. Il commissario deve essere unico? No. Si studiano le forme per un’amministrazione plurima. Come deve essere costituito il Consiglio dei ministri? Accenna ai lavori di Pella e Pacciardi. Dichiara poi che non si crede probabile una minaccia di guerra prossima, ma lo sforzo comunista tende all’abbandono dell’Europa da parte degli americani. [Il presidente del Consiglio replica agli interrogativi posti sulla nomina del commissario plurimo]. Dai governi. I tedeschi ritengono che è meglio sia composto di 7 membri anziché di sei. […] Non bisogna perdere di vista le varie fasi. C’è un periodo di «preparazione», un periodo «prefederale» ed uno «federale». La strada da percorrere è piena di difficoltà. Il Consiglio decide di fare dichiarazioni illustrative al Parlamento in una prossima occasione di discussione di politica estera .
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Onorevoli senatori, mi sia permesso di comunicare che, giuntami la notizia delle dimissioni, telegrafai immediatamente al senatore De Nicola in questo senso: «è con profondo rammarico che apprendo la notizia delle dimissioni. Confido vivamente che la situazione, fugato ogni malinteso, venga superata dall’affettuosa insistenza dell’Assemblea che non potrà mancare, sicchè tu riprenda la benemerita fatica nell’unanime apprezzamento del Senato che, oltre il pieno riconoscimento per il passato, implicherà anche l’impegno di costante e leale collaborazione per l’avvenire». Ora che l’Assemblea unanimemente ha espresso tale sentimento, mi è grato associarmi alle parole di ringraziamento espresse dall’onorevole Paratore , interprete di tutto il Senato, ringraziamento per il lavoro compiuto e alle parole di fiducioso augurio per il lavoro comune di domani . (Vivi applausi dal centro e dalla destra).
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Riferisce sulla conferenza dei ministri degli Esteri a Parigi e sul programma dell’Esercito europeo. Le richieste, sia pure non formali, della Germania di chiarimento della questione della Saar e della sua posizione per l’ingresso nel Patto atlantico hanno destato impressione. Per la Saar il problema è aperto fino al Trattato con la Germania, ma i tedeschi dicono che i fatti nuovi – come la nomina dell’ambasciatore – alterano l’equilibrio. Per il Patto atlantico si vorrebbe adottare una soluzione che possa sostituire l’adesione. Se ne è parlato in occasione della discussione dei rapporti tra il P.[atto] a.[tlantico] e la Comunità europea. I francesi dicono che ammettendo la Germania nel P.[atto] a.[tlantico], si riaccende il militarismo tedesco. La Germania, in presenza di obblighi che derivano dal P.[atto] a.[tlantico] di cui non fa parte, vuole essere consultata affinché non le vengano imposti obblighi, alla cui deliberazione non abbia partecipato. Per quanto riguarda il problema della Saar, Schuman ha detto che è meglio affrontarlo subito. Circa il problema generale si è addivenuti poi ad un ritocco dell’Assemblea in analogia al piano Schuman. [Dopo alcuni interventi, il presidente del Consiglio riprende la parola sul disegno di legge per i miglioramenti economici ai dipendenti statali]. Le concessioni già fatte non possono essere più discusse e sono coperte con il gettito dei monopoli. Come si fa a sostenere che su 1.500 miliardi di entrate non si possono reperire 2 miliardi? Comunichiamo che i 2 miliardi saranno reperiti con tassazioni a carico degli evasori fiscali che nella denuncia dei redditi hanno dichiarato cifre irrisorie. […] Il governo non dovrebbe cadere su questo punto. Esiste una preoccupazione elettorale dei deputati di cui si deve tenere conto. Finora il problema è rimasto nel campo tecnico finanziario. Perché dovremmo portarlo nel campo politico? La situazione economica è difficile e sarebbe un grave errore provocare una crisi in tale situazione. D’altra parte la maggioranza non potrebbe essere diversa da quella attuale. Occorre quindi vigilare e se necessario chiedere anche il voto di fiducia. Rileva poi, per quanto riguarda l’art. 2 del disegno di legge sui miglioramenti economici ai dipendenti statali, che esistono due emendamenti presentati uno dai comunisti e uno da De Vita . Non si deve assolutamente cedere alla demagogia. Vanoni legga le misure degli stipendi del 1859. […] È necessario predisporre subito i provvedimenti per la riforma dell’amministrazione approvati in una precedente seduta. Egli stesso, come presidente, li presenterà simultaneamente.
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Pare di ritornare indietro di molti anni e di rivivere ancora i prodromi avutisi nei lontani 1921 e 1922. Fu proprio con episodi simili a quello odierno che ebbe inizio quella tragedia che tanto ha funestato il paese. Ciascuno, però, vede il problema dal proprio punto di vista, dal punto di vista della propria libertà; pochi invece lo vedono dal punto di vista della disciplina nazionale e della necessità della concordia nel condannare la violenza e nel riconoscere una sola regola di convivenza, fondata sul numero, sulla maggioranza. Fino a che non si avrà tutto ciò, è chiaro, sarà ben difficile trovare l’unanimità e soprattutto la forza nella ricerca dei mezzi atti a difendere la democrazia. Si danno consigli al governo, da tutte le parti; ma con la stessa facilità, poi, se ne ostacola l’azione, quando il governo cerca un modo di intervenire contro certe manifestazioni di stampa che permetta, ad un certo punto, di fronte a certa stampa, di porre dei limiti. È facile dare consigli al governo; ma quando esso cerca di intervenire, specialmente di fronte alla continua azione avvelenatrice di certa stampa, da mille parti si insorge e si invoca la libertà anche nei confronti dei più pericolosi periodici. Esistono nel nostro paese dieci o dodici riviste fasciste che vomitano continuamente ingiurie e diffamazioni contro il governo e contro la democrazia; ma guai se il governo osa intervenire! Non v’è insomma nell’opinione pubblica un consenso completo di fronte alla stampa fascista e a quella parallela. Bisogna pur tuttavia porre dei limiti, a difesa dell’onore nazionale e della obbedienza alle leggi. (Applausi al centro e a destra). Tutti invocano misure e provvedimenti contro la parte avversaria, ma da nessuno si accetta la regola comune. Si aspetta forse che di nuovo la dittatura si instauri in Italia contro di noi e contro i partiti? Questo inevitabilmente accadrà se non troviamo una forma di disciplina. Quando il governo ha presentato la legge contro la rinascita del fascismo, quante irrisioni ha avuto anche da parte di coloro stessi che, certamente, non la pensano come i fascisti! Quante accuse di inefficacia e di incapacità! Eppure, la legge dà anche la possibilità di intervenire contro quella specie di stampa che si macchia, in maniera evidente, del delitto di esaltazione della violenza. Penso però che non sia possibile pretendere una azione soltanto contro la violenza dei fascisti; la violenza deve essere eliminata, da qualunque parte venga, qualunque aspetto assuma, a salvaguardia della democrazia. Io immaginavo che il deplorevolissimo incidente di stamane (alla cui deplorazione mi associo, come mi associo alle parole di simpatia per il collega che ne è stato vittima) avrebbe servito per qualche attacco al governo: non pensavo però che gli attacchi avessero la forma che hanno avuto. Ma se tutti i giorni vi lamentate, colleghi dell’estrema sinistra, degli interventi della polizia; se ogni giorno scagliate i vostri fulmini contro le forze dell’ordine!… (Interruzioni e proteste all’estrema sinistra). Audisio. Abbiamo compreso: siamo noi i nemici, non quelli della parte opposta… de GAsperi. Io non ho mai pensato che voi siate nemici della democrazia in quanto comunisti; siete, tuttavia, nemici nel momento in cui ricorrete anche voi alla violenza e alla minaccia! (Applausi al centro e a destra – Rumori all’estrema sinistra). Audisio. Ma non faccia il provocatore. Vergogna! (Vivissime proteste al centro e a destra). de GAsperi. Come vergogna! Ho forse io bisogno di imparare da voi? (Vivissimi applausi al centro e a destra – Rumori all’estrema sinistra). Io sono più preoccupato di quanto non immaginiate del risorgere del pericolo fascista! (Rumori all’estrema sinistra – Interruzioni dei deputati Pajetta Gian Carlo, Pajetta Giuliano e Audisio). presidente. È forse questa una dimostrazione di rispetto della democrazia? spiAzzi. È una dimostrazione di fascismo! (Rumori all’estrema sinistra). Audisio. Ma è un insulto! presidente. Un giudizio politico non èun insulto, altrimenti quanti insulti partirebbero da quella parte della Camera! (Indica l’estrema sinistra). de GAsperi. Io non ho insultato alcuno: non ho nemmeno formulato critiche. Affermo solo che il governo è preoccupato del risorgere del movimento fascista, tanto è vero che ha proposto da tempo una legge, non ottenendo altro che irrisione, anche da parte dell’estrema sinistra. Solo all’ultimo momento, in Senato, vi siete decisi a votare a favore! Vi siete opposti, anzitutto, all’urgenza quando la legge è stata presentata al Senato… (Proteste alla estrema sinistra). Ora voi, a proposito dell’incidente occorso all’onorevole Calosso, avete attaccato il governo; io mi difendo, e ho diritto di difendermi! (Applausi al centro e a destra). Comunque, il governo farà il suo dovere, ma lo farà in tutti i sensi. (Vivissimi applausi al centro e a destra – Rumori all’estrema sinistra). La violenza, come metodo, non va tollerata né in confronto di persone, né in confronto di gruppi, né, soprattutto, può costituire programma di riforma o programma di minacce. V’è un solo modo di salvare la democrazia: piegarsi dinanzi alle leggi della democrazia parlamentare! (Vivi applausi a sinistra, al centro e a destra – Commenti all’estrema sinistra).
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Farò alcune brevi osservazioni in aggiunta alla chiarissima esposizione fatta dall’onorevole ministro delle Finanze, al quale devo esprimere la mia gratitudine non solo per questa esposizione, ma soprattutto per la cura degli interessi pubblici svolta sempre con affetto, anche per le categorie interessate, cioè per gli statali, cura che egli ha dedicato al problema per parecchi mesi. Credo che tutti coloro che hanno trattato con lui, anche se dissentono sulle conclusioni, siano d’accordo nell’associarsi al mio ringraziamento e riconoscimento. Mi ha colpito specialmente il riferimento, ripetuto dall’onorevole Di Vittorio, alla parola «vertenza». È questo veramente l’errore fondamentale del punto di partenza: qui non vi è una vertenza sindacale, né vi è una qualunque vertenza, perché il governo non è semplicemente il datore di lavoro, ma è altresì emanazione del Parlamento e suo organo esecutivo in quanto amministra la struttura statale, rappresentando gli interessi della comunità. Rappresentiamo qui non l’altra parte, bensì gli interessi di tutta la comunità. V’è una necessità, naturalmente, di coordinazione, di subordinazione a questi interessi collettivi. Ma quello che rappresenta il governo rappresenta anche il Parlamento, rappresenta anche la Camera. Quindi, in realtà, siamo sullo stesso piano, e se vi fosse vertenza dovremmo essere tutti e due dalla stessa parte. Ma non vedo questa vertenza: vi può essere una valutazione diversa dell’interesse, ma non esiste una vertenza fra datore di lavoro e statali. E qui è l’errore fondamentale, per il quale lentamente scivoliamo dal concetto democratico di un Parlamento al concetto di un Parlamento corporativo che rappresenti interessi di categorie in contrasto con altre categorie. Guai a noi se questo concetto si diffondesse, perché con ciò la democrazia parlamentare sarebbe perduta. Di questa sintesi di interessi a cui ho accennato e di cui il governo è, direi, amministratore per procura da parte del Parlamento, è esposizione contabile il bilancio. Ora, il Ministero del Tesoro durante tutta questa discussione ha evidentemente sempre avuto dinanzi l’articolo 34 , cioè ha fatto o non ha fatto concessioni, con riguardo sempre alla meta finale, alla conclusione finale, all’articolo 34, cioè alla copertura della spesa. Ed è semplicemente una costruzione paradossale che il punto di partenza più importante, cioè la disponibilità dei mezzi, sia posto alla fine del disegno di legge invece che inizialmente. Se fosse stato posto nel primo articolo, evidentemente la questione si sarebbe fatta lì, si sarebbe fatta con tutta responsabilità; ma, anche se non è stata posta al primo articolo, so bene che i membri della Commissione finanze e tesoro, che sono preoccupati delle finanze dello Stato, ma soprattutto i rappresentanti del governo hanno avuto sempre questa meta chiara, che è uno dei concetti fondamentali per dirimere e deliberare sopra le possibilità. Vorrei osservare che anche il Parlamento, quando decide, ha la stessa responsabilità sintetica, integrale, che ha il governo. Non è possibile opporre il governo al Parlamento da un punto di vista di principio. Questa differenza può esistere sulla misura, sulla valutazione, ma non è possibile ammettere senz’altro il punto di partenza diverso, come può accadere in una vertenza fra datori di lavoro e dipendenti aziendali. Non v’è dubbio che il governo (specialmente il governo, ma anche il Parlamento) deve avere una visione sintetica, integrale, globale del problema economico, e che la considerazione di una legge che riguarda una data categoria non può essere fatta al di fuori del quadro generale dell’economia; quadro generale che, come ho detto prima, è fissato contabilmente nei bilanci. Il problema è anche di ripartizione: vi sono gli alluvionati, i disoccupati, le possibilità di lavoro per coloro che sono meno occupati o che rischiano di essere licenziati; vi sono l’artigianato, la piccola industria, l’agricoltura. Ed i problemi del costo dell’amministrazione vanno inquadrati in questo complesso, in questa visione. Mi sembra di dire cose banali, note a tutti. Ma bisogna, ad un certo momento, richiamarle per comprendere il senso di responsabilità che il governo manifesta nel sostenere certe tesi, e per poter esprimere la sicura attesa che anche il Parlamento considererà la cosa non da un punto di vista particolare, ma responsabilmente, nel suo complesso. Nessuno, evidentemente, può essere contrario a riconoscere all’uomo che lavora la possibilità di vivere più agiatamente; ma, a mano a mano che il reddito nazionale crescerà, bisognerà fare ulteriori passi: e li abbiamo fatti anche in passato. Se non erro, da che sono al governo, mi pare sia la quinta legge di regolamento statale che è intervenuta; né credo sarà l’ultima. L’onorevole Di Vittorio ha detto eufemisticamente che «si liquida» la vertenza, perché le vertenze si chiudono, ma si trova poi il modo di riaprirle, perché è fatale che si riaprano, e perché l’economia è in continuo movimento. Disgraziatamente v’è la questione dei prezzi, del carovita; è l’incremento stesso della rendita aziendale che porta a riproporre la questione. Vediamola, quindi, dinamicamente, come è la dinamica della vita. Non possiamo precludere agli impiegati la speranza di nuovi miglioramenti a mano a mano che i progressi della nazione si manifestano. Ma è chiaro come il sole che l’obiettivo principale deve appunto essere quello di assicurare un costante incremento della ricchezza generale. Altrimenti, siamo sempre di fronte a ripieghi. Non è, dunque, che siamo oggi di fronte ad una tragica decisione che chiuderà le saracinesche per l’avvenire. Non solo non lo credo perché non lo spero; ma non lo crederei neanche contra spem, giacché sarà sempre aperta la via a nuove proposte, a nuovi interessamenti. Vi sarà però sempre il problema di reperire i mezzi per coprire le richieste, a parte il contemperamento di queste con altri problemi più urgenti, nei confronti di altre categorie, dato che Parlamento e governo, come ho già detto, rappresentano tutte le categorie, in una visione unitaria degli interessi di tutti. E con ciò, avendo dato rilievo alla necessità di collaborazione tra Parlamento e governo, (commenti all’estrema sinistra), passo ad un’altra considerazione, di ordine politico. In questi ultimi istanti, specialmente stamane, vi è stata una corrente pacifista, ironica, specie nelle ultime parole dell’onorevole Di Vittorio, il quale, da buon negoziatore di vertenze, sente ad un certo momento che forse è arrivata l’ora in cui si possa fare appello a certi impulsi sentimentali. Ma prima d’ora, ma durante questa discussione, non si è forse considerato come un problema politico questo che sembrava un problema tecnico, che, almeno, abbiamo sempre considerato come tecnico? Per mesi e mesi, per settimane e settimane, sino agli ultimi giorni, sino agli ultimi minuti, abbiamo trattato di questi aumenti, il ministro del Tesoro ha fatto sino all’ultimo notevoli concessioni specie nei confronti delle proposte Cappugi, della approvazione delle quali i nostri rappresentanti dei liberi sindacati possono menar vanto, perché è stato un grande sforzo che ha fatto il governo nell’aggiungere un ulteriore onere di 9 miliardi. Ora, accanto a questo, vi è sempre il problema politico, che voi riassumete in forma gentile quando gridate all’indirizzo del governo: «andatevene, dimettetevi». E, difatti, le dimissioni sono una necessità quando si sente che manca la base della maggioranza governativa, che manca una base parlamentare nel governo e quando, soprattutto, viene meno la fiducia. Noi abbiamo matematicamente una maggioranza, ma la maggioranza matematica è operante solo se tutti sono presenti o se la grandissima parte è presente e si può presumere che i presenti rappresentino anche gli assenti in quanto costituiscono di per sé, per la loro designazione, per il loro colore, per la loro origine elettorale, la maggioranza. Tanto è vero che in certi parlamenti si vota per procura. Noi non abbiamo questo istituto. Ma non potete dedurre da ciò che qualunque maggioranza che si manifesti in un certo momento sia, moralmente parlando, la stessa maggioranza che si manifesta in altri momenti. Bisogna quindi temperare la valutazione (parlo in termini politici) dal punto di vista della maggioranza matematica, oltre che da quello della maggioranza operante in un determinato momento. Però il governo ha il dovere di essere, a questo riguardo, molto rigido con se stesso. Il governo ha bisogno della fiducia della maggioranza parlamentare, e ha bisogno che venga espressa francamente, che venga palesata a viso aperto; perché non è semplicemente della questione degli statali che ora si tratta: si tratta di una questione che, se è particolare in sé, si inserisce però essenzialmente in un quadro economico generale, in una politica economica, e una politica economica si inserisce in una politica interna e internazionale. Tutto, per il governo, nel suo programma e nella sua attività, si unisce e si collega. Perciò non possiamo partire dal punto di vista di una fiducia mancata, o alternata, o eventualmente condizionata. Dobbiamo sapere, ad un certo momento, quando importanti decisioni vengono prese, se questa fiducia ci vien data per il nostro programma, per il modo con cui cerchiamo di attuarlo, per il lavoro che in comune dobbiamo fare. Ecco perché non è un ripiego o una manovra politica se – posto che voi, (indica l’estrema sinistra), avete stampato su tutti i giornali e avete detto a tutta voce: «governo, non avete maggioranza, andatevene!» – domando un’ultima grazia, prima di andarmene: che sia accertata la maggioranza su cui domani potrà proseguire il futuro governo? Questo è lo scopo fondamentale della fiducia, questa è la evoluzione di una crisi parlamentare: nell’atto stesso in cui si licenzia un governo, è necessario indicare quale potrà essere il suo successore. So bene che nella nostra prassi la cosa non è facile. Ci possono essere difficoltà formali, perché non siamo ancora arrivati alla prassi – direi – «a rotazione», come in altri paesi, dove i voti di fiducia vengono chiesti su qualunque argomento e subito, per spingere innanzi il dibattito. Io mi auguro che non sia mai necessario in un Parlamento come quello italiano ricorrere a simili sistemi, che sono fatali dove non esistono organizzazione, solidarietà di gruppi, situazioni chiare, bensì continue alternative. Mi auguro che ciò non avvenga, perché ciò, anziché rafforzare la democrazia, la metterebbe in pericolo. Mi auguro, invece, che una maggioranza sia organica e tale da poter avere eventualmente, per ragioni di contraddittorio e dal contraddittorio, una successione altrettanto organica. Io credo, in sostanza, di avere dimostrato che la mia conclusione non è un ripiego politico, ma una necessità. Del resto, leggendo i giornali e interrogando l’opinione pubblica, le cose si riducono a semplici formule. È vero che v’è di mezzo la questione degli statali; ma, nella considerazione del problema, inserita come ho detto prima, nel quadro economico, vi è una concezione di sintesi di direttiva economica, e dietro a questo v’è tutto un programma di lavoro che significa anche direttiva politica. Ad ogni modo, il governo non può e non vuole sfuggire; quindi, chiedo che il voto della Camera sia considerato alla stregua del voto di fiducia. La Camera risponderà nel senso che ad essa parrà migliore, liberamente, indipendentemente, francamente: il governo trarrà dal voto della Camera le necessarie conseguenze. (Applausi al centro e a destra). [Segue la presentazione di un emendamento sostitutivo dell’on. Ferdinando Targetti; il presidente del Senato chiede al governo se intenda porre la questione di fiducia]. Dal momento che sarebbe bene concentrare la fiducia in un voto solo, domando all’esperienza del presidente se non si possa votare direttamente l’inciso dell’ordine del giorno Bettiol che riguarda la cifra. Ciò anche in base all’articolo 130 del regolamento secondo il quale, se l’emendamento è aggiuntivo, si pone ai voti prima della mozione principale, se soppressivo si pone ai voti il mantenimento dell’inciso; se invece è sostitutivo (e questo è il caso che interessa) si pone prima ai voti l’inciso che l’emendamento tende a sostituire .
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Ho il dolore di comunicare che si è spento questa mattina a Londra sua maestà Giorgio VI, re d’Inghilterra . (Il presidente, i deputati e i membri del governo si levano in piedi). Il popolo britannico e i cittadini del Commonwealth che vedevano nell’eletta figura del loro sovrano rispecchiarsi l’esempio di nobili virtù civiche esercitate con semplicità e con elevata espressione del senso del dovere, si inchinano alla memoria del defunto loro re. Con unanime dolore il popolo italiano partecipa al lutto della nazione britannica e di tutti i paesi del Commonwealth, con lo spirito di amicizia che ad essi lo unisce e che, nella triste circostanza, vibra di umana sincerità. Sono certo che il Parlamento si vorrà unire al governo nell’esprimere alla regina, alla principessa Elisabetta, che la sciagura chiama a più gravi responsabilità, ai cittadini tutti del Regno Unito e del Commonwealth i sentimenti del più vivo e sentito cordoglio.
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Onorevoli colleghi, la discussione svoltasi con la partecipazione di nove oratori di diversi settori della Camera, con prevalenza oraria, come al solito, dell’opposizione, ha rinnovato lo schieramento costituitosi di fronte al Patto atlantico in generale. Ed era ovvio. Le obiezioni e le accuse sono le medesime, come identiche sono le argomentazioni in favore. Da una parte si dice che si prepara la guerra di aggressione contro lo Stato popolare, che sempre più si stringe il cerchio e l’assedio, e che tutti gli Stati democratici si mettono al servizio dell’aggressione americana. Da parte nostra si risponde: l’alleanza è solamente difensiva; se non verrà dal di fuori un attacco, la guerra non si farà e non ci sarà. La solidarietà sempre più vasta nella difesa rende sempre più difficile l’attacco, sempre più rischiosa l’aggressione. Tanto più larga e profonda è l’alleanza, tanto più forte diventa all’interno il senso della responsabilità che elimina ogni avventura provocatoria del singolo ed ogni rischio di conflitti di prestigio fra singoli Stati. E, al di fuori dell’alleanza – lasciate che esprima anche questa speranza – si rafforzano così quegli elementi che vogliono mantenere la pace contro coloro che, altrimenti, sognerebbero una aggressione facile e profittevole. È giusto anche dire che, quanto più sentita e universale diviene la solidarietà difensiva, tanto più essa si evolve verso una comunità positivamente costruttiva di carattere permanente. Se mi permettete di dire così, l’armatura diventa come l’involucro di una solidarietà economico-sociale che dovrà pure realizzarsi con il tempo. È certo un fenomeno lento, graduale, ma logicamente fatale, intravisto dai fondatori del patto all’articolo 2, sul quale abbiamo insistito alla conferenza di Ottawa, articolo che ha trovato l’attuazione nel comitato dei 12. Non abbiamo ancora un rapporto conclusivo sulla sua attività; ma questo rapporto potrà essere questione di giorni o settimane e si vedrà da esso che il comitato ha tentato di commisurare la spesa militare alle possibilità economiche ed alle situazioni sociali di ciascun paese. Il che vuol dire che già esiste un equo concetto delle possibilità economiche raffrontate alle richieste ed alle esigenze difensive militari, il che vuol dire che il problema economico ed il problema sociale hanno preso il posto centrale in tutta la considerazione anche del Patto atlantico. Non abbiamo più, quindi, a che fare con una convenzione militare, con richieste militari, con soddisfacimento totale o parziale di queste richieste; abbiamo a che fare con uno studio e una deliberazione che raffrontano le diverse esigenze. Il che vuol dire che si considerano in forma totale e di paragone i singoli elementi di vitalità di uno Stato. Questo tentativo, ripeto, è appena agli inizi, è un primo tentativo; ma è certo che esso avrà ulteriori sviluppi e che potrà lentamente, ma gradualmente, condurci ad affrontare più in profondità il problema economico, proprio nell’occasione in cui si affronta o si deve affrontare il problema difensivo. Tuttavia, l’impresa più costruttiva, che si sta iniziando dietro la muraglia del Patto atlantico – chiamiamola così – è la comunità di difesa europea, cui molti oratori durante il dibattito hanno accennato (per favorirla o per combatterla). Si può dire che la maggior parte di queste dichiarazioni e delle affermazioni, avvenute nel paese e nello stesso dibattito parlamentare, ci fanno supporre che in via di massima, la nazione italiana accetta con ottimismo questa impresa, si augura che essa riesca; e, quando arriverà alle Camere l’abbozzo del trattato, è da supporre che la maggioranza, in linea di massima, sarà favorevole all’accettazione. Mi pare anzi che, dal punto di vista del pensiero nazionale, il nostro atteggiamento (atteggiamento in queste circostanze e in questo particolare momento) possa essere precisato in questi termini. L’Italia trova già nel Patto atlantico il massimo di garanzia possibile per la pace e la sicurezza. Né, d’altro canto, dal punto di vista dei suoi particolari interessi, riguardanti naturalmente la difesa delle sue frontiere, dal punto di vista dei suoi interessi considerati isolatamente potrebbe desiderare l’esclusione dal Patto atlantico dei territori che stanno più a nord. Ma l’Italia non determina il suo atteggiamento secondo una visione geograficamente circoscritta e limitata alla situazione temporanea. Essa sente e accetta i vincoli della solidarietà europea, la quale si basa soprattutto – per venire al concreto – sul superamento dello storico antagonismo fra Germania e Francia. In tale spirito, l’Italia accolse le felici iniziative della Francia per l’attuazione del piano Schuman e per la costituzione dell’esercito europeo. L’elaborazione del trattato, che deve creare la comunità europea di difesa, ha incontrato – come vi è noto – molte difficoltà oggettive e di carattere giuridico, amministrativo e finanziario. Si aggiunsero, a queste, ulteriori difficoltà provenienti dalla diversità originaria e dimensionale dei paesi partecipanti. La delegazione italiana ha contribuito, in notevole misura e con spirito di larghezza, a superare tutte le difficoltà, formali o sostanziali, partendo dalla convinzione che l’altissimo scopo della comune difesa può richiedere che si subordinino ad essa altre considerazioni, ma, soprattutto, puntando con consapevole fermezza verso il coordinamento di questa opera grandiosa che, iniziandosi con la comunanza della difesa, deve logicamente e fatalmente concludersi con l’unità politica dell’Europa. Sappiamo bene che converrà passare attraverso una fase preparatoria. Ma già in questa abbiamo cercato di inserire dei fermenti che facilitino la spinta verso la fase definitiva, la quale diventerà attuazione concreta con la collaborazione dei parlamentari e con l’intensificato consenso dei popoli. Sarebbe estremamente deplorevole – permettetemi di aggiungere – che la creazione della comunità di difesa subisse un arresto e venissero così stroncate le speranze negli ulteriori sviluppi che vi sono congiunti. Gli amici francesi, che di queste nobili idee furono i primi banditori, non possono deludere le aspettative che già hanno dato alla Francia una posizione eminente nell’opera di unificazione europea. E l’illustre capo del governo di Bonn, che ha sostenuto con vigore e con grande coraggio morale, in mezzo a difficoltà molteplici, le ragioni di una solidarietà la quale deve e può chiudere felicemente, nella pace assicurata e riparatrice, la terribile spirale della guerra, troverà – noi lo speriamo – l’appoggio e la comprensione necessari per superare gli ultimi ostacoli. Detto ciò, mi si permettano ancora alcuni accenni agli spunti polemici che sono stati svolti durante il dibattito. Cercherò di evitare le polemiche personali per rimanere in argomento. Non si è abbastanza rilevato, se non dal relatore e dall’onorevole Ambrosini , che all’origine dell’ammissione della Turchia e della Grecia nel Patto atlantico non sta l’invadenza aggressiva della politica americana. L’America anzi, durante la conferenza di Ottawa e già prima di essa, esitò a lungo prima di decidersi ad appoggiare il desiderio espresso dalla Grecia e dalla Turchia di essere ammesse nel patto. Noi stessi abbiamo constatato questa posizione degli Stati Uniti. La verità, quindi, è che all’origine di questo protocollo sta esclusivamente la volontà dei due paesi (soprattutto della Turchia che diede una dimostrazione pratica, addirittura con la sua partecipazione alla guerra di Corea), chiaramente e ripetutamente espressa. Che a questo protocollo non si sia giunti in forza di uno spirito aggressivo è dimostrato anche dalla procedura e dalla elaborazione dell’accordo stesso: in un primo tempo, si pensò addirittura di creare un patto speciale che mettesse i due paesi al fianco delle nazioni aderenti al Patto atlantico, ma che non ve le facesse entrare direttamente. Solo ad Ottawa si entrò nell’ordine di idee di una ammissione diretta, ritenendo che questa fosse la migliore soluzione. Quanto all’Italia, va notato che la nostra delegazione fin dall’inizio fu per questa soluzione senza compromessi: sia per corrispondere al desiderio espresso dalle due potenze interessate, sia e soprattutto perché le altre soluzioni avrebbero messo l’Italia in ultima linea, la avrebbero gravata delle stesse responsabilità e degli stessi rischi che venivano addossati alle altre nazioni, senza per altro metterla in condizioni di parità. Tale essendo la situazione, è evidente che era nostro interesse, data anche la nostra esposizione mediterranea, fare entrare nel Patto atlantico anche queste due nazioni che rappresenteranno una zona di sicurezza a nostro favore. Mi guarderò, poi, dall’entrare nella discussione riguardante la situazione interna dei due paesi, lo stato di democrazia o di antidemocrazia che li dominerebbe, la loro natura, la loro storia o la loro tradizione. Si tratta, in generale, di argomenti o di fatti non facilmente controllabili, o di voci contraddittorie che provengono dall’una o dall’altra parte, ed è difficile discriminare il vero dal falso, quello che è obiettivo, e quello che, invece, risponde soltanto a fini propagandistici. Noi dobbiamo dire soltanto che la guerra, specialmente la guerra civile, è una tragedia tale che, nel quadro di essa, da tutte le parti possono essere compiuti atti da tutti deplorabili in tempi normali e pacifici. Poniamoci piuttosto questo quesito: quali che siano stati gli sviluppi di questi due Stati attraverso la rivoluzione o la guerra civile, la pace e la sicurezza – che, attraverso il Patto atlantico, questi due paesi potranno ottenere – renderanno possibili ulteriori progressi in senso democratico e nel consolidamento delle istituzioni libere? Credo che la risposta debba essere positiva: diventando questi paesi consoci di Stati a fortissima ed indiscutibile tradizione democratica, credo che possiamo sperare che il patto stesso agisca nel senso della libertà e nel senso dello sviluppo democratico. Un nostro egregio collega dell’opposizione ha attaccato l’onorevole Pella – quale membro del comitato centrale del Patto atlantico – dipingendolo come un uomo che non abbia fatto alcuna resistenza di fronte alle richieste militari, ed abbia anzi avuto la passione di servire. Questo collega dell’opposizione ha anche messo in confronto il contegno dell’onorevole Pella con quello di rappresentanti di altri Stati, che si sarebbero battuti per diminuire i pesi ad essi proposti. Debbo assicurare che i limiti economici e sociali della situazione italiana furono dall’onorevole Pella e dai suoi collaboratori sempre energicamente sostenuti, e poiché non è il momento ancora di ragionare intorno alle conclusioni ufficiali del comitato centrale – conclusioni che ancora non sono state fissate sulla carta – non posso che limitarmi a questa affermazione, che tuttavia è assolutamente incontrovertibile. Un altro collega dell’opposizione ha ironizzato sopra il regionalismo nel campo dell’organizzazione internazionale, dicendo che questo Patto atlantico è un patto «regionale» perché è stato allargato a tre continenti, ciò che è contro il programma dell’ONU che prevedeva il patto regionale in un senso più ristretto. Ora, è vero che «regione», nel linguaggio comune, significa non soltanto una parte di continente ma anche una parte di Stato. Per altro la terminologia che si usa nelle discussioni e nei documenti internazionali quando si parla di regioni in confronto dell’ONU è quella che si userebbe parlando di una parte in confronto del tutto, che è poi l’universo, perché il concetto fondamentale dell’ONU è universale. Inoltre, questa definizione terminologica è già vecchia. Già ai tempi della Società delle nazioni si è posto il problema: fino a che punto si può parlare di regionalismo e quale è il concetto del regionalismo? E, in un rapporto dell’organizzazione internazionale francese del 1926, si dà questa definizione: per regioni si intendono Stati congiunti insieme a causa della situazione geografica o della loro comunanza di interessi. Quindi non siamo andati troppo lontano dalla tradizione e dalla terminologia giuridica già ammessa. Lo stesso oppositore è un po’ preoccupato della difesa del medio oriente e ci ha chiesto quale sarebbe la situazione se, dopo l’ammissione della Turchia nel Patto atlantico, il governo iraniano dichiarasse guerra alla Gran Bretagna. Veramente il quesito è abbastanza curioso: guardando sulla carta si vede che, per poter attaccare la Gran Bretagna, la flotta dell’Iran dovrebbe fare un enorme giro ed arrivare nel Mediterraneo… (Commenti all’estrema sinistra). pAjettA GiAn CArlo. La flotta britannica è andata in Corea e in Malesia! de GAsperi. Non si è detto che cosa avverrebbe se la Gran Bretagna attaccasse l’Iran; ma se l’Iran attaccasse la Gran Bretagna… pAjettA GiAn CArlo. Non faccia dell’umorismo su questioni di questo genere… (Proteste al centro e a destra). de GAsperi. Mi si è portato questo esempio e ho il diritto di richiamarmi ad esso per dimostrare che è infantile. Ad ogni modo, era quello che meno di ogni altro si poteva addurre contro la nostra tesi, non solo per la situazione geografica e storica, ma anche per il fatto che l’Iran ha una fregata da 1.652 tonnellate, un dragamine da 1.040 e tre cannoniere da 331 tonnellate: con questa flotta non si può certo immaginare che metta in pericolo la Gran Bretagna!… (Interruzioni all’estrema sinistra). È evidente che la tesi del mio avversario è appunto di dimostrare che cosa potrebbe accadere in seguito a questo attacco. Se fosse il contrario, naturalmente, il Patto atlantico non avrebbe ragione d’intervenire, perché sarebbe l’Inghilterra ad attaccare qualcuno e noi non siamo chiamati ad appoggiare l’Inghilterra se attacca qualcuno, ma solo se si tratta di difendersi. È chiaro che l’alleanza è semplicemente difensiva, e voi non fate l’interesse nazionale nel supporre che sia possibile legarci a qualche cosa di offensivo. Questa è la differenza capitale! (Applausi al centro e a destra). Un’altra obiezione che ci viene fatta è questa: ma voi, alleandovi adesso alla Grecia, la quale è ancora in stato di guerra con l’Albania, finite con l’assumere la stessa posizione giuridica e siete anche voi in guerra con l’Albania. Anche questo è un ragionamento capzioso. In realtà noi siamo alleati con la Grecia soltanto in questo senso: che, se la Grecia fosse attaccata, noi cercheremo di difenderla insieme con altri. Ma, per il resto, niente cambia. E se voi siete preoccupati per i rapporti diplomatici non ancora risolti e pendenti, che sarebbero stati ereditati dalla democrazia popolare dallo Stato schipetaro (poiché lo stato di guerra risale ancora all’attacco dell’Italia: si tratta ancora di quello stato di guerra), tutto ad un tratto sbagliate programma. Infatti, sostenete sempre che gli Stati di democrazia popolare non assumono l’eredità degli Stati precedenti, mentre qui, in questo caso, vi preoccupate di un’eredità che, per principio, non dovreste ammettere, e che noi italiani soprattutto non dobbiamo ammettere. (Applausi al centro e a destra). Dobbiamo riconoscere che gli onorevoli Pajetta Giuliano ed Ingrao sono venuti qui con una abbondante documentazione. Mi pare però che abbiano voluto dimostrare troppo, essendo entrati in dettagli, che poi, illuminati e messi sotto la lente del ragionamento e del fatto storico, cadono del tutto. Ad ogni modo, poiché indubbiamente essi hanno dimostrato di essere eruditi in materia, non vorranno lamentarsi che anche io dia qualche contributo per completare questa loro erudizione. (Si ride). L’onorevole Serbandini ha detto che in questi giorni si va delineando un asse Roma-Belgrado-Atene-Ankara… VAlseCChi . Sarebbe una curva! de GAsperi. …e ha chiesto formalmente quali sono gli impegni italiani in tutto questo. A parte il fatto che l’«asse» sarebbe un po’ contorto – perché dovrebbe passare per Trieste – non ho difficoltà a rispondere che non v’è impegno di nessuna specie, per quanto riguarda l’Italia, e credo di poter escludere anche che vi siano impegni riguardo ai rapporti fra gli altri paesi del cosiddetto «asse». Il viaggio del ministro Venizelos a Roma si inserisce nel quadro dei normali rapporti diplomatici fra i due paesi. Non abbiamo alcuna ragione (da quando siamo in pace con la Grecia ed abbiamo cercato, attraverso trattati di commercio ed economici, di arrivare ad una collaborazione) di svalutare questo atto di cortesia, che, invece, mi auguro possa riaffermare i rapporti amichevoli fra i due paesi. Più ci si vede, più ci si parla, più ci si comprende e più facilmente si evitano i contrasti. Questo vale, come per la Grecia, anche per gli altri paesi. Sarebbe augurabile che anche con altri paesi le comunicazioni fossero più facili, che ci si vedesse spesso per scambi di idee. Attraverso questa libera circolazione delle idee si avrebbe un senso di tranquillità, che, purtroppo, ancora non abbiamo. (Applausi al centro e a destra). Per l’ulteriore parte polemica mi sarà permesso richiamarmi alle argomentazioni degli onorevoli Clerici , Ambrosini, Treves e Russo Perez. Mi associo, in particolare, alla minuta confutazione delle obiezioni fatte, con la ben nota competenza, dal presidente della Commissione degli Esteri. E faccio mio il caldo voto, da lui espresso, che in Egitto si venga rapidamente ad un accordo, conciliando le esigenze internazionali della difesa del canale con lo sviluppo, naturale e legittimo, delle istituzioni democratiche nazionali di quel paese. L’onorevole Giacchero mi ha già risparmiato la fatica di accennare ad altre obiezioni, e non posso che associarmi alle sue conclusioni generali. Comunque, questo è un piccolo dibattito, un dibattito, direi, parentetico, in confronto ai grossi dibattiti, che dovremo impostare nell’avvenire sulle questioni di politica estera, sulla politica atlantica, in particolare, e sulla politica europea. Non certo noi rifuggiremo le critiche e il controllo del Parlamento, le cui deliberazioni sono determinanti ma noi sappiamo che esso, nella sua maggioranza, ci appoggerà in questa politica di pace, di sicurezza, di ricostruzione europea. È questa la retta via che ci si apre dinanzi. La collaborazione internazionale è difficile, perché si tratta di conciliare, talvolta, punti di vista che sembrano contrastanti. E la solidarietà è una tendenza centripeta, a cui si oppongono soprattutto eredità della storia e altre tendenze in senso contrario. Tuttavia, è giocoforza tentare e ritentare con indomito ottimismo, perché al di fuori di questa via ve n’è solo un’altra: quella che conduce all’abbandono; abbandono nostro da parte di altri, più fortunati di noi; abbandono di noi stessi, abbandonandoci noi o alla disgregazione o alla esaltazione retorica e irrazionale. Non ripetiamo gli errori del passato. L’Italia può riprendersi solo con il lavoro e con la tenacia, con la disciplina degli sforzi e delle volontà, e conquistare il suo posto, collaborando lealmente alla causa della sicurezza dei popoli liberi. Questa stessa è anche la via del progresso dei popoli e delle classi, affinché, una volta instaurata la sicurezza e garantita la libertà, l’evoluzione verso una migliore giustizia sociale proceda più rapida e senza sospetti. (Vivissimi applausi al centro e a destra). [Il presidente del Consiglio sull’ordine del giorno presentato dal deputato monarchico Antonio Cuttitta] . presidente. Qual è il parere del governo sull’ordine del giorno testé letto? de GAsperi. Non ho ascoltato lo svolgimento di questo ordine del giorno; il suo testo mi sembra, però, accettabile. Qualora, invece, intenda far riferimento al fatto che non tutte le nazioni hanno accettato l’eliminazione del trattato di pace, allora, evidentemente, non potrei accoglierlo; ma, inteso come aspirazione e come tendenza, è accettabile. CuttittA. Ai fini della parità di diritti, io chiedo che anche l’Italia sia ammessa all’ONU. Questa è l’aspirazione maggiore che ho voluto esprimere nel mio ordine del giorno, invitando il governo a svolgere un’efficace attività diplomatica per giungere finalmente alla nostra ammissione nell’ONU. Infatti è inconcepibile che noi siamo nel Patto atlantico e, nello stesso tempo, fuori dell’ONU. de GAsperi. In questo senso accetto pienamente l’ordine del giorno Cuttitta e mi auguro che il Parlamento italiano, con assoluta unanimità, insista presso tutte le potenze affinché nessuna di esse più si opponga al nostro ingresso all’ONU. (Vivi applausi a sinistra, al centro e a destra).
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Onorevoli senatori, esprimo anzitutto il mio ringraziamento al Senato per la discussione di questa legge. Il Senato aveva motivo di lamentarsi che essa fosse arrivata all’ultimo momento al suo esame e alla sua deliberazione. Il Senato ha compreso che ciò non era colpa del governo, ma colpa delle complicazioni del meccanismo ed ha quindi considerato la cosa da un punto di vista completamente oggettivo. Ringrazio a questo proposito tanto la maggioranza quanto l’opposizione perché i limiti sono stati mantenuti da entrambe le parti. Riconosco quel che è stato detto da vari settori, cioè che si tratta di un preludio a una maggiore discussione che approfondirà i problemi soprattutto di quadro, di cornice. Mi atterrò quindi a poche osservazioni che si presentano necessarie, dopo la magnifica relazione stampata ed orale del relatore. La prima osservazione che debbo fare è che tutto quello che si farà a Lisbona, che riguarda impegni preliminari attinenti l’esercito europeo, ed anche nuovi impegni che si riferissero alla NATO, sarà fatto naturalmente ad referendum e perciò chi deciderà ed avrà l’ultima parola sarà, come è stabilito, il Parlamento sia nelle deliberazioni che nelle ratifiche. Farò ora poche osservazioni polemiche, nonostante la polemica sia stata già sufficientemente svolta. L’amico Lussu – e mi dispiace che non sia presente – diceva: «dimmi con chi vai e ti dirò chi sei», e parlava senz’altro di fascismo. Mi pare poi che lo stesso onorevole Lussu, o qualche altro oratore, ha osservato che io alla Camera dei deputati non sono entrato in merito alla questione della maggiore o minore democrazia della Grecia e della Turchia, e che in realtà non ho difeso questo concetto. Io ritengo di aver detto quello che è essenziale per quanto ci riguarda, e cioè che secondo noi questi popoli, uno dei quali esce dalla rivoluzione e l’altro da una guerra civile sanguinosa, con una tragedia a sinistra ed un’altra a destra, da un lato e dall’altro della barricata, si muovono più sicuramente verso una più tranquilla democrazia se hanno la garanzia della sicurezza ed il baluardo della pace. Siccome noi crediamo in questo, è con questo spirito che li invitiamo a partecipare al Patto atlantico e ad assumere la stessa forma costruttiva che noi riteniamo necessaria in questo momento per il conseguimento della pace. Pertanto, almeno per quanto riguarda le nostre intenzioni, intendiamo affermare che, ciò facendo, compiamo un atto di democrazia anche nei confronti della Grecia e della Turchia. Riguardo agli impegni cui ha fatto cenno l’onorevole Fedeli , il quale ha anche affermato che noi, intervenendo con un’alleanza nei Balcani, specialmente là dove ci sono ancora oscillazioni di frontiera o rivendicazioni, con ciò assumeremmo il rischio di una guerra per rivendicazioni irredentiste da una parte e dall’altra (e si è portato l’esempio dell’Epiro), è superfluo ripetere che il Patto atlantico è un patto difensivo e che se uno degli Stati crede per suo interesse, per suo tornaconto di intervenire e rischiare una guerra, rischierà per suo conto perché gli altri Stati non sono obbligati ad intervenire anch’essi. Quindi non è vero che esistendo una fonte di conflitto di frontiera, con ciò stesso operi l’impegno del Patto atlantico. È vero, bisogna ammetterlo, che più allarghiamo il terreno, più aumenta il numero delle questioni che potrebbero essere incentivi di conflitto. Questo da una parte, ma dall’altra dovete ammettere onestamente che uno Stato come la Grecia, entrando nel Patto atlantico cercherà di far valere le sue ragioni, cercherà di far sì che siano riconosciute attraverso l’alleanza e non ricorrerà necessariamente alla guerra. E quindi mi pare logico concludere che una organizzazione difensiva per la pace più è vasta più facilmente impedisce conflitti singoli, direi, come quelli che sono scoppiati spesso nei Balcani, indipendentemente dalla situazione generale. Mi associo alle parole molto fervide di simpatia espresse dal senatore Gasparotto riguardo alla Grecia e mi auguro che i rapporti di amicizia tra Grecia, Turchia e Italia si intensifichino. Non mi pare proprio che la conclusione tragica secondo la quale noi intendiamo ribadire le catene dei popoli greco e turco si possa applicare alla nostra alleanza; noi non possiamo entrare, non abbiamo nessun diritto di entrare nell’organizzazione interna di quegli Stati, dobbiamo soltanto seguire questo criterio generale, che ci sia la possibilità di evoluzione democratica: questo, sì, lo dobbiamo ammettere per i nostri alleati, poiché altrimenti potremmo finire in una stagnazione politica pericolosa. Ma, al di fuori di questo, non possiamo intervenire sulla graduazione di questa democrazia, sui sistemi, sui metodi; evidentemente non possiamo né vogliamo intervenire, ma crediamo, ripeto, che l’appoggio ad un baluardo di sicurezza della pace sia favorevole allo sviluppo democratico. Mi è parso di capire, nel discorso del senatore Casardi , un po’ di critica per il ritardo con cui si è agito per la procedura riguardante questo disegno di legge. Vorrei ricordare che alla fine di ottobre esso è stato presentato alla Camera e poi, durante la vacanza natalizia, c’è stata un’apposita riunione della Commissione in argomento, ed allora da parte di tutti i settori, compresa l’opposizione, si è dimostrata la volontà di non approfondire troppo l’argomento, ed a mio parere con ragione, in quanto, trattandosi in fondo di una integrazione in seno al Patto atlantico, chi era favorevole ad esso avrebbe dato il suo voto anche al protocollo e chi era contrario al Patto atlantico avrebbe dato voto contrario anche a questo disegno di legge: infatti, trattandosi di un allargamento del contenuto del Patto atlantico gli argomenti si ripetono ed una discussione ampia e profonda non potrebbe aver luogo che quando si esaminasse tutta la questione e tutti i problemi inerenti. Riguardo all’accusa che dall’opposizione si ripete sempre, del «servilismo del governo italiano di fronte all’America», per cui ci si è detto di citare un solo caso in cui la politica italiana sia stata diversa da quella americana, io dirò che ci sono molti casi ed aggiungo francamente che desidererei che fossero pochi, perché appunto desidero piuttosto di combaciare con le soluzioni di grandi Stati, potenti ed amici, che essere in contraddizione con essi. Tante volte però dovemmo prendere una posizione diversa, come, per esempio, nella questione coloniale, nella questione arabi e non arabi; nella questione stessa dell’esercito europeo, l’accusa non è vera. Non credetela, non continuate a ripetere questa sciocca accusa, che noi siamo stati «strumenti degli americani». Quel che volevano gli americani era di rafforzare la difesa nel nord; ed erano lietissimi se l’ottenevano attraverso il Patto atlantico. Né si sognavano realmente di pensare all’esercito europeo: esso ha avuto ultimamente un appoggio, una sanzione, direi, di grande valore, da parte del generale Eisenhower. Ciò è avvenuto in un secondo periodo, ed in ogni caso è un’affermazione personale, ma che sarà seguita speriamo da moltissimi e che ha trascinato l’opinione pubblica americana; ma nel primo periodo il concetto dell’Europa era guardato con una certa diffidenza e, badate, non ne faccio torto agli americani, perché si poteva pensare qualche volta, che si creasse il tertium, la «terza forza», né America né Russia. Che questa contrapposizione, accentuata da parecchi, potesse far nascere la diffidenza in America, era ovvio. Poi, invece, l’America si è ben accorta (bisogna fargliene lode) che il rafforzare una organizzazione di difesa in Europa, qualunque forma possa avere, sarebbe già una soluzione o un grande progresso verso la soluzione. Ma non si poteva pretendere che l’America ci insegnasse simili cose. È nato in noi, come nostra profonda, intima convinzione, quel movimento federalista europeo che qui non solo è stato rappresentato tante volte dall’onorevole Sforza, ma è stato appoggiato da me in tutte le occasioni; non v’è stata infatti, fin dai primi inizi della mia attività, nessuna affermazione da parte mia non favorevole all’unione europea. Sapete che la questione che si faceva in quel tempo era quella del funzionalismo e non funzionalismo; erano questioni sopra le quali sorvolavo perché guardavo soprattutto alla meta; e quando è venuto il momento e la possibilità di affermare attraverso la formula federalista questa meta, l’ho fatto perché sapevo benissimo di essere d’accordo con la tradizione e gli interessi nazionali. Ma perché dobbiamo abbassarci, metterci a condizioni di seguaci di un’idea straniera o di interessi stranieri, quando è invece la nostra idea, l’anima nostra nazionale che vuole questa soluzione? Nella questione dell’Egitto abbiamo avuto, per esempio, un atteggiamento autonomo; ma è verissimo, come mi sembra che accennasse l’onorevole Casadei, che ho scelto la formula di difendere la posizione internazionale del Canale di Suez e contemporaneamente di conciliarla con l’indipendenza dell’Egitto. Non mi pare che il ministro degli Esteri debba andare fuori da questi limiti, parlando di fronte a due Stati amici. Non posso partire dal punto di vista che siamo nemici permanenti dell’Inghilterra, anche se non si trattasse dell’Inghilterra e se non fossimo contemporaneamente membri del Patto atlantico. Ma abbiamo tutto l’interesse, direi il dovere, di curare i rapporti con l’Inghilterra e dico francamente che sono molto lieto che in questa occasione di lutto il popolo italiano e la stampa, spontaneamente, abbiano dimostrato simpatia per un grande popolo, per una grande nazione. Però, come ho detto prima e torno a ripetere, non mi vergogno di dire che auguro che in tutte le occasioni gli interessi nostri collimino con quelli dell’America. Ciò non è sempre possibile. Per le questioni economiche avete letto e visto anche in questi giorni proteste nei giornali, proteste che noi abbiamo fatto. Noi dobbiamo certo far valere i nostri interessi e li abbiamo fatti valete soprattutto nell’OECE e nelle organizzazioni internazionali: a volte abbiamo dovuto soccombere, altre volte abbiamo vinto, come per l’organizzazione della FAO. Non è vero che teniamo un contegno «servile» ed io debbo riconoscere agli americani questo merito, che essi non lo richiedono affatto e se noi abbiamo il coraggio di dire la nostra opinione, anche battendo il pugno sul tavolo, ci troviamo di fronte a popoli democratici che capiscono lo stile della libertà e della dignità. (Vivi applausi dal centro). Con una argomentazione molto rapida il senatore Spano mi pare abbia detto che il piano Pleven è poi diventato un piano americano perché Pleven si allarma di certe conseguenze e degli sviluppi del suo piano. Non è vero. Ho assistito come testimone allo sviluppo della questione dell’esercito europeo. È un problema difficilissimo dove parecchi interessi si urtano, ma il piano è originariamente della Francia e rimane anche oggi della Francia, o almeno degli uomini di Stato francesi, perché io non ho il diritto di interpretare il voto di una maggioranza. Il piano è venuto senza dubbio da loro ed è venuto dopo affermazioni di carattere positivo, di carattere unitario, di necessità, di accordi e così via. E basti pensare a Strasburgo e ad altre manifestazioni. Mi fa male veder che qui si torna a verniciare con la solita vernice fascista e nazista tutti gli uomini che oggi agiscono. Debbo riconoscere che parte del merito di questa evoluzione politica unitaria è dovuta anche al cancelliere del governo federale tedesco. Perché dobbiamo abbassare tutto allo stesso livello e non dire che ci sono uomini coraggiosi che in certi momenti assumono proprio contro la spinta nazionalistica, alle volte legittima e altre volte prepotente, una posizione democratica europea e in senso antinazista? Perché vogliamo soffocare tutto entro il risentimento generale, che ha provocato la guerra, verso i tedeschi? Le parole che ho detto le vorrei ripetere, perché non mi pare possano smentire quello che è stato detto poi da me o da altri membri del governo, «l’illustre capo del governo di Bonn che ha sostenuto con vigore e grande coraggio morale, in mezzo a difficoltà molteplici, le ragioni di una solidarietà la quale potrebbe chiudere felicemente, nella pace assicurata e riparatrice, la terribile spirale delle guerre, troverà in noi specialmente l’appoggio e la comprensione necessaria per superare gli ultimi ostacoli» . Non ho niente da ritirare. Anche oggi le difficoltà sono venute più forti di quel che avessimo potuto prevedere, e chissà quante, domani, ne sorgeranno che non possiamo ancora prevedere. Ma io vi dico che la meta è radiosa, che bisogna avere la volontà di vincere queste difficoltà, e mi rincresce solo che le altre molteplici difficoltà ci avviluppino tutti in modo che non possiamo mettere intere le nostre energie a disposizione di questa meta; una meta che è pure, senza dubbio, raggiungibile, se non da noi stessi, da altri che ci succederanno. E poi, a proposito del dibattito francese, l’onorevole Spano mi ha quasi chiesto che io lo segua, con molta attenzione. Sì, onorevole Spano, lo seguo con molta attenzione. Riconosco che il momento è serio poiché è verissimo che tout se tient; c’è una connessione fra l’una cosa e l’altra. Ogni momento della nostra storia diplomatica e internazionale, ed anche quello presente, si pone allo stesso modo; sempre, ad ogni fase, si ripresenta una stessa alternativa: o scegliere quella della sicurezza ricostruttiva, o scegliere l’altra dell’abbandono. Io ho spiegato alla Camera che cosa voglia dire questo abbandono, come voglia dire abbandono di se stessi, abbandono di certe precauzioni, ma soprattutto abbandono di se stessi alla disgregazione nazionale, a lasciar correre, a lasciar andare, al ritorno del vecchio mondo dei conflitti. E voi non volete che uomini i quali sentono la responsabilità, che sono invecchiati in questa responsabilità, tentino in tutti i modi di opporsi al ripetersi di questa tremenda, tragica spirale, che è veramente la morte dei nostri paesi e che rappresenta veramente la tragedia della futura generazione? Voi volete che noi non ci sentiamo in dovere di tentare (ed a questo riguardo devo dire non mi fa velo la presunzione che le difficoltà siano facilmente superabili) ma mi pare di trovarmi dinanzi ad una questione in cui la reputazione di uomo abile o non abile, di profeta sicuro o non sicuro dell’avvenire, tutto questo non valga niente in confronto al merito di un tentativo, se il tentativo riesce, anche di un quarto invece che di tre quarti, non importa: ci sarà qualcuno che verrà, dopo di noi, il quale riprenderà la strada e il cammino finché il successo sarà ottenuto. (Vivi applausi dalla destra). E allora io vi dico che ho assistito, forse abbiamo assistito tutti con fraterna comprensione ai dibattiti della Camera francese, ed attendiamo col più vivo interessamento le decisioni perché non sono in causa semplicemente le sorti della Francia, ma è in causa il destino dell’Europa, della quale noi siamo parte integrante, viva e, grazie a Dio, vivificante. Se la NATO vuol dire difesa collettiva fondata sulla leale esecuzione di un patto, l’esercito europeo significa la pace garantita strumentalmente e strutturalmente fondata non solo su di un trattato, ma sull’organica eliminazione di ogni possibilità di ricorrere alla forza tra i partecipanti. L’elaborazione del vasto e complicato disegno ci ha fatto toccare con mano le molteplici difficoltà della realizzazione, ma ci ha anche reso più evidenti la nobiltà e la grandiosità di questa impresa audace e rinnovatrice. La Francia ha preso l’iniziativa: è un suo merito. Gli italiani l’avevano preconizzata e l’appoggiarono inquadrandola con un programma di salvezza e di costruzione di una nuova Europa. Non è, come si può credere, che la coscienza nazionale italiana senta meno le ferite del passato di quanto non le senta la Francia. Non è che ci manchi la consapevolezza della imposizione dell’ingiusto trattato, che non sanguini ancora il nostro cuore per i fratelli giuridicamente ancora separati. No, l’Italia sente fervidamente la fierezza della sua sovranità nazionale, la dignità della sua storia, le glorie del suo esercito, le virtù civili del suo popolo lavoratore. Se noi accettiamo di assiderci con altri Stati, maggiori o minori che siano, alla pari nel Consiglio d’Europa unita, non è perché abbiamo minore considerazione del nostro passato. È perché sentiamo che, nell’interesse nostro e di tutti, bisogna guardare all’avvenire. L’Europa non si salva se non si garantisce la pace e la pace va garantita tra di noi che abbiamo lo stesso senso della vita e siamo educati alla stessa civiltà. Ed assicurando la pace si apre la via al progresso civile in una libertà ordinata con il concorso di tutte le forze libere per una maggiore giustizia sociale. Nessun gretto egoismo dunque ci ispira, e non si diano i commentatori esteri a risuscitare l’immagine di Machiavelli : non si tratta di una manovra tattica sullo scacchiere delle forze, si tratta di un atto di profonda e di vecchia convinzione e di lunga portata. La Francia in modo particolare lo sa perché è con la Francia che abbiamo fatto, su iniziativa del vostro collega, senatore Sforza, il primo energico passo verso l’Unione europea e, lavorando e concludendo con il governo francese, l’unione doganale, ed è con la Francia, a Santa Margherita Ligure, che abbiamo stretto vincoli di collaborazione molto importanti. La collaborazione con la Francia è radicata nel sentimento della democrazia italiana e quando pensiamo ad un’Europa solidale ed unita, come non pensare che tale unità diventerà, anche per il geniale spirito francese, rivolto in tranquillità alle opere di pace, un fertile campo di comune progresso? Comprendiamo che nell’inquietudine d’oggi si cerchino tutte le garanzie possibili, ma con l’evolversi dei tempi nessuna garanzia sarà più operante di quella della comunanza della concezione politica, dell’identità delle istituzioni democratiche, della similarità o complementarietà delle esigenze economiche. Nessuna garanzia più costante che quella che ho affermato, di quella, cioè, di una autorità politica centrale fondata sulla rappresentanza dei popoli consociati e confederati. Qui, in verità, occorre che non ci manchi l’animo. Bisogna costruire con prudenza e senza precipitazione ma sarebbe vano arrestarsi alle formule giuridiche amministrative di un trattato, se uno spirito vigile e costruttivo non lo vivificasse. È qui che la democrazia italiana può dare il suo contributo. Gli uomini di Stato francesi che hanno avuto l’iniziativa sanno che il nostro contributo è onesto, ed è diretto ad allargare, attorno alle loro iniziative, il consenso permanente dei paesi democratici. (Vivissimi, prolungati applausi dal centro e dalla destra).
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In merito alle elezioni amministrative ritiene opportuno comunicare che il governo è d’avviso che si debbano senz’altro fare nella primavera. […] Il pericolo è che le elezioni amministrative produrranno uno sfaldamento dei partiti democratici, potenziando il settore di destra. […] Circa la conferenza di Lisbona rileva che alla vigilia c’era pessimismo e preoccupazione, anche per la questione della Saar, della quale ufficialmente non si è parlato, ma che ha formato oggetto di un lungo colloquio tra Schuman e Adenauer, provocato e favorito da Eden. I francesi vogliono che la Germania non produca aerei; ammettono però che possono esserci officine di riparazione. I tedeschi accetteranno questa condizione e pertanto acquisteranno aerei dall’Inghilterra. Per quanto riguarda l’armamento: con 12 divisioni tedesche la Russia non si muove. Tutti sono d’accordo che la Germania non debba avanzare rivendicazioni territoriali. Acheson ha parlato a ragione del successo della Conferenza essendo state superate le grosse questioni esistenti tra Francia e Germania. Importante è stato il riconoscimento del successo della politica economica italiana. Siamo l’unica nazione che ha potuto fare a meno di aumentare i fondi per la Difesa, anche se Pacciardi aveva abilmente richiesto stanziamenti minori di quelli successivamente approvati. L’Italia è l’unica che ha fatto un programma militare e lo ha mantenuto. Sottolinea i buoni rapporti tra i ministeri del Tesoro e della Difesa. Vi è la questione dell’adesione della Grecia e della Turchia ed è ancora aperta la questione dei comandi. Conclude che il Patto atlantico si appalesa sempre più strumento di pace e di progresso sociale. Aggiunge qualche notizia sui programmi sovietici. La sensazione è che le probabilità di pace siano aumentate. Come sede della NATO è stata scelta Parigi. Per quanto riguarda Trieste comunica che dopo aver avuto notizia della intervista di Tito ha protestato. Nei colloqui Bebler-Guidotti la base della trattativa era stata sempre la dichiarazione tripartita con possibili concessioni. La Jugoslavia ha rifiutato e ha chiesto lo sbocco al mare. Si ha notizia di un colloquio Babic-Tito con la conseguente proposta di istituire due Governatori o due Vicegovernatori. Ha parlato con Acheson e con Eden. Entrambi sono stati concordi nel riconoscere che è necessario avere una visione unitaria del problema. Acheson era male impressionato per le dichiarazioni di Tito. Dobbiamo rispondere ancora a Tito? Si potrebbe forse accennare al plebiscito. L’essenziale è di non esimere gli alleati dall’impegno assunto nel marzo del 1948. Rileva infine che la considerazione per l’Italia è aumentata anche perchè hanno fiducia nella nostra azione di difesa dal comunismo. […] Propone la nomina dell’ambasciatore Diana a cancelliere dell’Ordine della Repubblica.
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Il governo ha fede nella saggezza del Senato e nell’utilità del suo consiglio, e chiede al Senato di non rifiutargli questo contributo e di condividere col governo all’inizio di un cammino molto laborioso, non riguardante solo questo settore, la responsabilità di un passo che può portarci a conseguenze molto più vaste che non siano quelle del settore specifico che oggi è in discussione. Quindi io prego il Senato di discutere, di portare tutte le ragioni pro e contro, di sottoporre tutte le obiezioni tecniche, perché anche questo argomentare, questo obiettare ci potrà riuscire utile. Il non discutere non sarebbe più una obiezione di carattere tecnico, una obiezione di carattere economico: sarebbe evidentemente, anche per le ragioni esposte dai proponenti, una opposizione di carattere politico. Ora proprio su questo carattere politico bisogna essere chiari, ed il governo ha bisogno del vostro appoggio, del vostro consiglio, del vostro parere, detto francamente, non nascosto, ma precisato, determinato eventualmente anche con l’avallo della responsabilità di una deliberazione, perché non è esatto – non voglio dire che non sia esatto, perché questa mia affermazione potrebbe riuscire offensiva all’illustre proponente – ma dirò non corrisponde alla realtà che la situazione oggi sia capovolta. Non è che noi abbiamo voluto abbattere quello che si era costruito in concreto nei diversi settori, per costruire o aprire la via ad una costruzione nuova, totale, simmetrica, come sarebbe l’Unione europea, la Federazione europea. No, abbiamo cercato di immettere nel concreto stesso di alcuni provvedimenti già elaborati ed esaminati soprattutto dal punto di vista di una collaborazione economica, il fermento che possa sviluppare veramente questa autorità politica e questa federazione politica che secondo noi è una necessità. Ora ripeto qui quello che dicevo altre volte in sede competente, quando si discuteva dell’esercito europeo: senza dubbio, se in un certo periodo di tempo non nascerà questa autorità politica responsabile su basi democratiche, difficilmente queste istituzioni reggeranno e difficilmente soprattutto avranno lo sviluppo e l’effetto che i promotori stessi si propongono. Ma per fare questo non bisogna abbattere le prime pietre angolari, che sono proprio le istituzioni che si sono create e che hanno trovato la formula concreta dell’attuazione. Ecco perché io dico che se veramente, sinceramente vogliamo la Federazione europea e vogliamo lo sviluppo politico statale, non dobbiamo arrestare la nostra opera dinanzi a questi istituti concreti che possono costituire la base sulla quale questa federazione si può fondare. Non è esatto che questi istituti possano impedire questo sviluppo, tutt’altro. Quando penso a proposito dell’esercito europeo, cui si è riferito come esempio analogo l’onorevole proponente, all’amministrazione così grave, così importante di un bilancio comune in Europa, mi dico: è possibile che questo regga, che questo si sviluppi senza la responsabilità di una autorità politica comune? No; è la logica delle cose, è l’esempio della storia, è l’esperienza che ci dice: questo non è possibile, non sarà possibile. Ma non è che con questo ragionamento noi ci siamo opposti alla creazione dell’esercito europeo. Noi abbiamo accettato anche i sacrifici di una amministrazione transitoria, abbiamo seguito anche questa via, che apparentemente sembra illogica, di accettare il fatto di una amministrazione collettiva, perché sappiamo, anche senza tener conto che nella Costituzione stessa abbiamo immesso l’organismo che deve portare a questi effetti, che la forza delle cose, che la logica dell’interesse ci convincerà tutti della necessità di creare un’autorità responsabile, anche con le eventuali necessarie revisioni costituzionali che nei diversi paesi si dovranno attuare. Quindi, coloro i quali sono d’accordo che si debba arrivare a questa meta e che vedono con soddisfazione i primi progressi, non cerchino in alcuna maniera di ritardare la costituzione di questi istituti basilari. Coloro che sono contrari, coloro che temono più le conseguenze, che non sperano negli effetti benefici dell’Europa unita, capisco che possano anche opporsi a questo esperimento. Ma qui entriamo nel merito dei motivi non di un rinvio, ma dei motivi di un voto contrario. Ebbene, il voto contrario è sempre aperto, ed è diritto di tutti coloro che prenderanno parte alla discussione di svolgere l’argomento e di dare l’espressione del loro pensiero. Debbo aggiungere infine, per rettificare un dato affermato dall’ultimo oratore, che non è esatto che gli altri paesi non abbiano ratificato completamente questo piano. È vero che non c’è stato lo scambio formale delle ratifiche, ma per quel che riguarda la manifestazione dei corpi rappresentativi, ad esempio, in Germania, in Olanda, eccetera, l’espressione è stata completamente favorevole in tutte le Camere. Per quel che riguarda la Francia, poi, non dovete dimenticate che, nonostante le enormi difficoltà politiche in cui si dibatte e nonostante che siano caduti vari ministeri su problemi meno importanti, quel paese è riuscito a votate questo progetto all’Assemblea nazionale il 13 dicembre dello scorso anno con 377 voti contro 233; e, considerate le proporzioni dei voti soliti e le oscillazioni della situazione politica in quel paese, credo che sia stata una notevole manifestazione di favore. Noi del resto non abbiamo bisogno di appellarci sempre all’esempio di altri paesi. Non vogliamo essere davvero sempre i primi in simili problemi che toccano prevalentemente interessi centrali del continente; noi periferici non possiamo essere i primi ma non c’è nessuna ragione perché noi, che abbiamo una grandissima tradizione, una grande speranza, che siamo un popolo che ha soprattutto bisogno di questa universalità per aprire la via a un mondo nuovo, restiamo gli ultimi. Onorevoli senatori, non restiamo gli ultimi: affrontiamo il problema, decidiamo secondo coscienza . (Vivi applausi dal centro e dalla destra).
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La vigorosa e sostanziale replica del mio diretto collaboratore, per il quale non ho che parole di riconoscimento e ringraziamento, dimostra soprattutto che non è vero che la questione sia stata risolta rapidamente con una «adesione politica» ad un progetto, ad un «complotto» organizzato da altri fuori di noi, né che si tratti di un atto di «servilismo» come tanti altri. Non è vero. Questa relazione la quale non può essere stata fatta che da chi ha approfondito l’argomento e lo ha accompagnato nell’esperienza di parecchi mesi, durante discordanze che sono state poi lentamente superate, lascia capire come ci sia stato contrasto nella discussione e come poi si sia arrivati alla conclusione solo con uno sforzo reciproco. Se tutto questo lo accompagnate con la considerazione del lavoro fatto al Parlamento, in tre Commissioni, tre relazioni e in modo particolare nella risposta odierna del senatore Jacini , se sommate tutto questo ai discorsi – alcuni dei quali veramente approfonditi, che hanno affrontato il problema qui al Senato – dovrete pur concludere (a parte che un nuovo esame dovrà essere ripetuto dinanzi all’altra Camera) che si fa ogni sforzo per arrivare alle conclusioni a ragion veduta. Io debbo respingere l’accusa che ci si fa di aver deciso in questa materia semplicemente da un punto di vista politico generale. Avrei il diritto di rovesciare l’accusa e dire che l’opposizione non trova ragione fondamentale contro questo progetto se non nella sua concezione generale politica. E se altra fosse la situazione della geografia politica in riguardo al progetto, penso che il progetto stesso troverebbe entusiasmi nonostante le formule precise che oggi lo delimitano e lo caratterizzano. I colleghi dell’estrema dovranno perdonarmi se non entro nel dettaglio delle loro argomentazioni politiche, ma è un fatto che durante le loro esposizioni si è ripetuto il tentativo, che si fa in ogni situazione di questo genere, di concentrare tutte le considerazioni riguardo a un dato progetto – per quanto concreto e tecnico sia – in una tesi politica fondamentale, che sarebbe la tesi del «servizio all’America» e la tesi dell’odio o del contrasto con la Russia. L’onorevole Casadei ha parlato di un progetto europeo, il quale in realtà non sarebbe che una mascheratura del «servizio all’America». L’onorevole Montagnani ha appoggiato tutta la sua esposizione sulla tesi dottrinaria «che dopo le due guerre mondiali le economie del mondo occidentale vengono mutando, nel senso che il capitalismo mina alla base i paesi capitalistici: di qui la necessità per l’imperialismo americano di controllare non solo l’economia, ma anche la politica dei vari paesi europei. L’Europa si trova pertanto di fronte a vari piani Marshall e Schuman. Ci sono fondate prospettive che, se il capitalismo non riuscirà a risolvere la crisi che corroderebbe il suo sistema di vita, si ricorrerà a misure più radicali della guerra e della conquista» . Questa è la dottrina dei marxisti, dei leninisti che abbiamo trovata nei testi e che si ripete tutti i giorni dalla Pravda e che è posta come spiegazione. Ma non è una spiegazione, è una pregiudiziale che inficia tutte le conclusioni dei nostri colleghi, o almeno di alcuni dei nostri colleghi dell’estrema sinistra. Per questo essi da comunisti arrivano ad essere anticomunitari, da meridionalisti arrivano a preoccuparsi soprattutto della siderurgia. Ci rivedremo poi alle elezioni per esaminare l’argomento che avete presentato in difesa di questi privilegi contro i quali tanti meridionalisti in passato si sono levati. (Approvazioni dal centro). Questo lo dico per scusare un po’ la mia reazione quando ho detto che siete diventati dei reazionari. È, naturalmente, un vocabolo che prendo a prestito da voi. Ma quando voi celebrate questa involuzione – che l’onorevole Pastore oggi ha cercato di motivare, o comunque di sistemizzare – e quando la celebrate in tale forma che da questa passate all’attacco contro di noi, noi abbiamo bene il diritto di rappresaglia, di ritorsione, il diritto di richiamarvi alle vostre dottrine contro le quali ora insorgete. L’onorevole Casadei, che ha fatto un discorso innegabilmente sostanziato di molte citazioni e documentazioni , parla di Piano Marshall, NATO, Unione europea, scalzamento delle forze inglesi in tutto l’impero, guerra in Corea, guerra in Asia come di altrettante tappe attraverso le quali si giunge al piano Schuman, cioè al risollevamento della grande industria tedesca in funzione del riarmo tedesco ed europeo: ma guardate un po’ che concezione politica è mai questa che essi hanno dell’attività americana! A proposito di ciò l’onorevole Casadei mi ha fatto una certa domanda, che aveva mosso anche in Commissione, sul trattato che si starebbe ora discutendo tra le Potenze occupanti e la Germania, trattato nel quale sarebbero fissati i limiti, i confini, le frontiere est della Germania; un trattato che ci porterebbe a questa situazione: che – avendo accettato l’alleanza attraverso la ratifica del piano Schuman anche con la Germania – saremmo costretti a difenderci da rivendicazioni ed anche da attacchi. Ma io ho già risposto in questa materia per quel che riguarda la tesi generale. Nel Patto atlantico come nella CED noi difendiamo le attuali frontiere, non le rivendicazioni: queste possono esistere, in quanto non le possiamo sopprimere, in quanto siano rivendicazioni pacifiche da raggiungersi attraverso negoziati, ma per noi non rappresentano assolutamente un impegno militare, se non per la difesa del territorio attualmente amministrato dai relativi Stati contro un’offensiva che venga dall’altra parte. Ma per venire al fatto concreto debbo ripetere quello che ho detto in Commissione, dove mi pare però sia stato frainteso. Quando, anche dopo aver assunto tutte le informazioni possibili, debbo dire che io non so nulla di un certo articolo del trattato, che invece l’onorevole interpellante afferma esistere, vuol dire che per quanto mi riguarda, per tutte le informazioni che ho, per i testi che ho consultato, questo articolo non esiste. Naturalmente debbo aggiungere che come è noto, il trattato o meglio il contratto – così è chiamato per distinguerlo dal trattato di pace – che si sta elaborando con la Germania non è ancora definito, né io quindi posso avere il testo definitivo: dubito però che anche l’onorevole Casadei possa averlo, nonostante le sue straordinarie informazioni. Debbo aggiungere altresì che in nessun testo e in nessuna informazione di carattere documentario ho trovato un accenno simile; ho trovato viceversa negli scambi di idee che ho avuto e nelle informazioni in genere che ho trovato, che c’è la tendenza degli Alleati ad escludere da questo contratto le ragioni fondamentali dei conflitti di frontiera, che dovrebbero essere peraltro riservati al futuro trattato di pace per moltissime ragioni, ed anzitutto perché si tratta di un trattato che dovrebbe riguardare anche la Russia ed i paesi satelliti. Quindi niente allarme. E poi, non è vero affatto che tutte le organizzazioni, compreso il piano Schuman, debbano puntellare una situazione che poi scatterà senz’altro nella guerra, perché connesse alla elaborazione di un contratto che trascinerebbe anche noi e anche indirettamente alla guerra. Io non so proprio perché i nostri colleghi di estrema sinistra, quando pronunciano i loro discorsi, ritengano necessario presentare immagini e fantasie così torve al riguardo, non so perché vedano così scuro e vestano sempre il paludamento del profeta sinistro che vede i guai e i disastri dell’indomani. Riguardo a due altre domande risponderò all’onorevole Casadei, dimenticando quel certo suo tono perentorio da grande inquisitore, che non è proprio consueto tra l’opposizione e il governo, e penserò invece che le sue domande possano interessare molti altri. La prima è: quando si nominerà l’assemblea, la maggioranza avrà tutti i posti o alcuni saranno riservati alla minoranza? Rispondo: deciderà il Parlamento. Però, se l’onorevole Casadei ripeterà i suoi discorsi che terminano col dire che quando la minoranza entrerà, se entrerà, in quella assemblea, farà il massimo sforzo per sabotarla e rendere impossibile il suo funzionamento, allora gli dirò che le sue parole non sono semplicemente una critica costruttiva, ma una mina subacquea, uno sforzo sabotatore. (Applausi). Io dico che è ora di finirla a questo riguardo: là dove possiamo non entrerete! E questo senza pregiudicare l’atteggiamento che potrà assumere la Camera dei deputati. Questo nostro è un criterio: specialmente coloro i quali rappresentano una tendenza verso i governi socializzatori e semidittatoriali per attuare grandi piani di rinnovamento attraverso una dittatura, non si meraviglino se noi, guardando in faccia al pericolo, resisteremo a tale pericolo. Lo diciamo chiaramente: resisteremo anche fuori di qui, anche alla Camera dei deputati. Lo ripeteremo a tutti coloro i quali, prendendo un pretesto o un altro, in una forma o in un’altra, ci minacciano, come ha fatto alla fine del discorso, del resto flautato l’onorevole Pastore, quando tenta di giustificare in precedenza gli eventuali tentativi insurrezionali con qualche errore che potremmo commettere oggi votando questo trattato. Passiamo alla questione costituzionale del trattato. Io non sono giurista, né figlio di giurista, e non sento la possibilità di richiamarmi alla mia competenza particolare. Però, durante le discussioni parallele sull’esercito europeo, i problemi dei limiti, entro i quali i parlamenti possono oggi approvare e ratificare dei trattati che costituiscono internazionalizzazione del diritto di sovranità, sono stati oggetto di molte discussioni. Quello che vale per l’esercito europeo vale, a maggior ragione, per il piano Schuman. Ad ogni modo ho cercato sempre di documentarmi presso i costituzionalisti più rigidi e rigorosi; ed a proposito della nostra posizione particolare debbo notare che, se noi abbiamo l’articolo 11 della Costituzione, e la Francia ha lo stesso principio, ma solo nel preambolo, non come articolo, gli Stati minori, quelli che hanno una Costituzione creata dal 1930 al 1948, non hanno niente di consimile. Solo la Germania ha un articolo ancora più ampio perché la sua Costituzione è stata fatta in questa aspettativa. Tornando dunque alla nostra formulazione, dico che, secondo questi esperti, il testo dell’articolo 11 – mentre autorizza le limitazioni reciproche di sovranità – autorizza anche le organizzazioni internazionali che sono necessarie per garantire il corretto esercizio delle limitazioni stesse. Tali organizzazioni devono necessariamente costituire una autorità internazionale che, in conseguenza delle limitazioni medesime, potrà essere sovranazionale; tali organizzazioni non possono certo allarmare chi, partendo dal punto di vista della Internazionale dei lavoratori, deve arrivare al concetto della organizzazione sovranazionale che sancisca le conquiste del lavoro. Finché si tratta di limitazioni di sovranità che lasciano la più gran parte della sovranità ai singoli Stati, ci si ferma nella sfera di azione dell’articolo 11. Quando invece si va oltre, cioè verso lo Stato federale, allora occorre una nuova norma costituzionale. È perciò che nel riferire alla Commissione sull’esercito europeo, dissi che c’è una fase provvisoria in cui, secondo il nostro parere, il Parlamento giudicherà a suo tempo se possiamo operare in base all’articolo 11. C’è però una fase definitiva ed approfondita in cui sarà probabilmente necessaria una revisione costituzionale; ma mi pare ovvio che il nostro trattato appartiene alla prima fase. Ratificando l’accordo noi non facciamo se non una vera e propria legge di applicazione costituzionale la quale, in quanto tale, non fa se non tradurre in atto e solo parzialmente quanto è stato stabilito dall’articolo 11 già citato, laddove si dice: «l’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni». A proposito delle condizioni specifiche di parità ha parlato recentemente il sottosegretario Taviani . Per noi, necessario e sufficiente è sapere con certezza che così diamo vita ad una comunità internazionale fondata sulla cessione temporanea dell’esercizio di tale potere o nell’ambito della quale i partecipanti sono in condizioni di parità. Di qui la conseguenza essenziale: partendo noi dalla Costituzione, non c’è nessuna necessità di revisione costituzionale; questa serve a modificare la Costituzione, non già a tradurla in atto. Questo secondo la nostra convinzione e secondo la convinzione di molti esperti consultati. Gli esempi portati dal senatore Rizzo non giovano a scalfire questa tesi, né la mancata delibazione delle sentenze della Corte, dal momento che delibazione si richiede per le sentenze straniere non già per quelle internazionali promananti da organi in cui noi stessi siamo rappresentati, come attestano i precedenti della Corte dell’Aja e delle corti internazionali: né la pretesa violazione dell’articolo 102 che inibisce l’istituzione di giudici straordinari giacché si tratta di giudici internazionali; né la pretesa violazione dell’articolo 113 che assicura il sindacato giurisdizionale avverso gli atti amministrativi perché non vi è alcun atto amministrativo interno da cui possa sorgere il problema; né la doglianza contro la facoltà di comminare ammende dal momento che gli oneri finanziari possono essere autorizzati con legge ordinaria di ratifica anche a termini dell’articolo 80 della Costituzione; non infine la pretesa violazione del potere regolamentare spettante alle regioni in tema di miniere, dal momento che tale potere normativo spetta solo nell’ambito della Costituzione dei princìpi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato e dell’interesse nazionale. Del resto l’onorevole Taviani ha accennato a questo fatto, che Stati i quali, nella loro Costituzione, sono molto più severi e mancano di qualsiasi apertura in questo senso, come l’Olanda e il Belgio, hanno già in parte o totalmente, approvato nei Parlamenti questo progetto di legge. Ho visto con quale scrupolo i rappresentanti delle piccole nazioni hanno difeso il testo della loro Costituzione, per la parte che riguarda l’esercito europeo; e come ho detto prima, siamo dinanzi ad un caso parallelo e fondato sulla stessa base. Il senatore Lussu ha terminato il suo discorso parlando di «complotto sinistro» ed ha precisato, con uno studio molto diligente, in quale giorno Schuman è entrato nel gabinetto del segretario di Stato degli Stati Uniti, quasi che l’onorevole Lussu avesse avuto confidenze segrete di persone che vigilavano sopra il «complotto» di questi sinistri signori. Ma non c’è alcun mistero, il progetto di cui ci occupiamo è nato in Europa e qui è stato alimentato da parecchie ragioni di carattere economico, ma di esse una è stata essenziale e ne ho parlato personalmente con Schuman, il quale dette la veste politica al progetto – tecnicamente elaborato da un socialista –, la ragione cioè di trovare la strada per impedire proprio la minaccia della rinascita del militarismo germanico e rimediare all’errore commesso ai tempi di Poincaré, quando si credette, attraverso una occupazione della Ruhr, di giungere alla conclusione e non ci si arrivò, e si creò invece la base per il risorgere dell’industria per la seconda guerra mondiale. Perché non voler riconoscere che almeno si è fatto un tentativo serio per non dare mano libera ai «magnati» tedeschi che hanno interessi investiti nell’acciaio e nel carbone, perché non voler ammettere che questo è un tentativo serio, ragionevole, che merita di essere fatto e non soltanto sospettato? Quanto all’America essa ha certo molti altri modi di difendersi e anche di espandere la sua attività. Ma qui siamo dinanzi anche ad una necessità americana che è soprattutto una necessità di difesa. E l’America vuole che l’Europa si difenda, per difendere anche se stessa; è chiaro, è ovvio che sia così. Voi ripetete sempre, e l’avete detto di fronte a me anche alla Camera ed a questo Senato, che bisogna far di tutto per impedire la rinascita del militarismo tedesco; quindi vi siete dichiarati per Potsdam, avete detto che bisogna distruggere tutto, radiare tutto, smobilitare tutto; ed io vi ho risposto: ma voi che avete sentito le sofferenze della costrizione e della repressione del nostro stesso esercito, come è possibile diciate che un popolo come quello tedesco deve rinunciare a qualsiasi forma di difesa militare per 50 anni? Voi avete irriso a questo argomento dicendo che io andavo cercando scuse di carattere sentimentale mentre la realtà era terribile, ed avete invocato tutto questo fino a ieri. Ora però vorrei dirvi: badate a non eseguire sempre l’ordine; aspettate prima l’eventuale contrordine. Leggete infatti l’ultimo progetto dei russi. Non voglio farne qui una valutazione: non so se sia una manovra od una cosa seria. Il progetto concede per la prima volta la creazione di un esercito nazionale difensivo ai tedeschi. Ma è proprio quello che cerchiamo anche noi; si tratta di intendersi sulla proporzione, ma il principio è lo stesso. Non è vero dunque che si debba rimanere in eterno al principio di Potsdam, principio che si poté affermare solo nell’atmosfera di immediato dopoguerra. Ora anche le proposte russe dell’11 marzo, dopo cioè le recentissime decisioni di Lisbona , proposte che oggi sono commentate ne l’Unità , prevedono anche esse la creazione di un esercito nazionale tedesco puramente difensivo. Prevedono inoltre (pensate a quello che avete detto voi sui criminali di guerra) l’amnistia per i criminali di guerra nazisti. (Commenti dalla sinistra). Terzo: l’abolizione di ogni limitazione allo sviluppo dell’economia e del commercio; anzi si deve supporre che l’eliminazione di ogni limitazione della produzione riguardi anche il materiale bellico. Ecco dunque che non rimane quasi più nulla della vostra posizione. È perciò che mi sembra che sia il caso di seguire l’antico adagio: non eseguire l’ordine in attesa dell’eventuale contrordine. Voi dal 1945, 1946, 1947, ripetete sempre la stessa storia: orrore per il Piano Marshall, per i diversi piani che sono venuti poi a sostituirlo, orrore per la NATO; ma dimenticate sempre una piccola cosa, un episodio che ha avuto grande importanza nello sviluppo psicologico della lotta anticomunista. Voi dimenticate quello che è avvenuto nel luglio 1947 a Praga. Nel luglio 1947 a Praga, i governanti cechi avevano ricevuto da Parigi e dagli americani l’invito a recarsi alla conferenza di Parigi per partecipare al Piano Marshall e come loro avevano ricevuto l’invito tutti i satelliti, oltre la Russia. Ad unanimità avevano votato favorevolmente, ed era un governo in cui c’erano 9 comunisti, 12 indipendenti, 3 socialdemocratici, all’accettazione dell’invito; il giorno dopo Gottwald partì per Mosca chiamato a rendere ragione a Stalin, il quale disse che desiderava che i cechi non accettassero l’invito. Una scena che è descritta da coloro che vi hanno partecipato e sono sopravvissuti, (interruzioni dalla sinistra), una scena che non bisogna dimenticare. Dopo parecchie insistenze e telefonate dal Cremlino, il Consiglio dei ministri, il l0 luglio 1947, cioè tre giorni dopo la prima decisione, pubblicava questo comunicato che è verbalizzato: «è stato deciso che gli Stati dell’Europa centrale e orientale, con i quali la Cecoslovacchia mantiene stretti rapporti economici e politici fondati su impegni contrattuali non parteciperanno alla conferenza di Parigi. In questo caso la partecipazione della Cecoslovacchia potrebbe essere interpretata come una offesa ai rapporti amichevoli con l’Unione Sovietica e per tale ragione il governo ha deciso alla unanimità di non partecipare alla conferenza». Ricordatevi questo, vi prego di ricordarlo anche per quest’altra circostanza: perché vi erano nove comunisti, dodici noti comunisti e tre socialisti. Cosa avverrebbe domani se si facesse quel ministero di coalizione di brava gente che Togliatti desidera! (Ilarità – Proteste dalla sinistra). Voi potrete domandarmi perché mi interesso di queste cose. Me ne interesso per ritorsione, contro le affermazioni che voi fate contro di noi, me ne interesso perché quel che è accaduto a Praga potrebbe avvenire a Roma, se a Roma la vigilanza nostra non fosse sufficientemente forte. (Applausi dal centro). Ho anche un certo senso di gratitudine verso quei compagni cecoslovacchi che si sono sacrificati per poterci dar il buon esempio a noi e a tutta l’Europa. Questo sottolineo per dimostrare che nei fatti della storia, come voi la riassumete, ci sono certe lacune sulle quali debbo ritornare perché troppo perentoriamente voi ardite affermare una sola frase e con essa combatterci: voi servi degli americani! Ma credete voi proprio che noi non abbiamo coscienza di difendere gli interessi del nostro paese? (Interruzioni dalla sinistra). Non avete trovato altra scusa contro il piano Schuman e mi meraviglio di questo piccolo, meschino espediente demagogico del dire: là c’erano tre ministri democristiani. Come se questi tre ministri degli Esteri non appartenessero tutti e tre a governi di coalizione, come se Schuman fosse arbitro del governo francese, come se Adenauer non avesse i protestanti ed i liberali nel suo governo, come se il nostro non fosse un governo di coalizione. È il principio democratico che si difende in Europa. (Applausi dal centro). Questo è il nostro programma… (interruzioni e proteste dalla sinistra) e lasciate stare le fantasie intorno a Carlo Magno e al medioevo! (Interruzioni dalla sinistra). Si tratta di una coalizione di democrazie fondata sul principio della libertà. Questo è il nostro baluardo, questo è il nostro programma, questa è la nostra lotta. (Vivissimi, prolungati applausi dal centro e dalla destra – Vivaci proteste dalla sinistra – Clamori).
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Onorevoli senatori, è mio dovere informare il Senato che siamo in conversazione, sugli avvenimenti di Trieste, con i governi di Londra e di Washington, che le conversazioni, dopo un nuovo colloquio avuto dal nostro ambasciatore a Londra col ministro Eden e dopo altri colloqui avuti dal nostro ambasciatore Tarchiani al Dipartimento di Stato, permettono di ritenere che si facciano buoni progressi. Non è naturalmente possibile, in questo momento, che io entri in dettagli e che dia informazioni su conclusioni che non sono ancora raggiunte. Vorrei cogliere l’occasione, con riferimento agli incidenti avvenuti il 20 marzo a Trieste, per constatare quello che è troppo evidente, cioè che le nostre informazioni sono diverse da quelle di cui si è valso il ministro Eden per le sue recenti dichiarazioni alla Camera dei Comuni. L’aver io seguito gli avvenimenti quasi di ora in ora, per mezzo di comunicazioni immediate con le autorità locali, mi dà il diritto di ritenere che le informazioni esatte siano le mie. Disgraziatamente è risultato che mancò la sensibilità necessaria per tenersi in contatto con l’opinione pubblica e con i partiti della maggioranza amministrativa che, anche dopo i dolorosi incidenti e dopo gli scontri, tentò subito di ritrovare una onorevole intesa con le autorità militari. Non dubito che la verità, dopo il ritorno alla calma e al di fuori di ogni questione di prestigio, si farà strada e verrà accertata. Ma, onorevoli senatori, al di là degli accertamenti e delle sanzioni, oggi bisogna che amici ed avversari si convincano di una verità sempre ribadita: la questione di Trieste è una questione nevralgica che tocca da vicino i nervi e il cuore della nazione. (Approvazioni). Non ho bisogno di riferirmi ad un episodio che credo i giornali abbiano toccato durante la mia visita in Calabria. Persino in coloro i quali sono sotto la minaccia di rovine, che toccano la loro esistenza, ho trovato questo senso di solidarietà per la questione di Trieste in una misura che mi ha altamente commosso: quel piccolo paese montano, in pericolo di essere sommerso, aveva una raccomandazione sopra ogni altra da fare al presidente del Consiglio, dopo quella più urgente e naturale dei soccorsi necessari: ricordatevi di Trieste! Questo fatto bisogna constatarlo a nostra consolazione e bisogna affermarlo anche nei confronti dell’estero, dove alcuni hanno avuto la sfrontatezza di dire che le agitazioni, le manifestazioni sono state preparate e volute dal governo italiano, semplicemente per misure tattiche, e con un occhio alle elezioni. Soprattutto non è vero quel che dicono certi giornali jugoslavi (non voglio accusare tutta la stampa jugoslava); non è vero che il governo italiano abbia cercato o promosso conflitti. Siamo stati prudenti nella preparazione alla riunione per la celebrazione del 20 marzo; abbiamo sempre avuto la massima preoccupazione perché incidenti non venissero a turbare i rapporti con la Jugoslavia. Posso affermare con tranquilla coscienza che se avessimo potuto dire la nostra parola chiarificatrice e conciliatrice in tempo, i guai maggiori sarebbero stati evitati. Non si è permesso che ciò facessimo. Evidentemente alcuni organi delle autorità di Trieste non hanno avuto il senso della responsabilità che era necessario né la dovuta sensibilità. Non voglio dire parole amare in un momento ancora agitato, ma tutti debbono persuadersi che questa non è una piccola questione sentimentale su cui si possa passare all’ordine del giorno: bisogna risolverla e la si può risolvere in piena armonia col nostro diritto e con il principio ammesso e proclamato dagli stessi Alleati, e nel leale rapporto dell’alleanza atlantica. Respingo anche l’accusa mossaci da parte jugoslava di non aver dimostrato buona volontà e spirito conciliativo in recenti conversazioni. In verità il governo italiano deplora qualunque eccesso, ovunque sia avvenuto ed avvenga, ma tutti debbono sapere che non c’è in questione semplicemente il prestigio di questa o di quella autorità, ma sono in questione soprattutto il diritto e la dignità e la fierezza di una intera nazione. (Vivi applausi dal centro). Delle dichiarazioni dell’onorevole Eden voglio sottolineate soltanto l’accenno fatto dallo stesso ministro ai Comuni all’amicizia italo-inglese. Noi vogliamo questa amicizia con costanza e con sincerità e deploriamo ogni eccesso ed ogni parola contro di essa. Ma è appunto in nome di questa amicizia, di questa alleanza che chiediamo uno sforzo comune di comprensione e di decisione. Io spero che il nostro appello verrà accolto con lo stesso spirito di lealtà con cui viene fatto: ciò servirà anche a rinnovare su basi di dignitosa intesa la collaborazione tra le autorità di Trieste e a portare calma e fiducia negli animi giustamente preoccupati degli italiani. La nazione, nel problema di Trieste, si schiera in un fronte unico. Il governo sa che questa è la sua forza e desidera vivissimamente che questa unità non venga turbata da dimostrazioni particolaristiche o di parte. Giacché ho la parola per questa breve comunicazione, debbo dare purtroppo al Senato un’altra notizia, di altra natura, ma purtroppo gravissima, che mi è pervenuta poco fa. Permettetemi di leggervi i telegrammi che mi sono pervenuti. «Ore 12,30 circa in Mignano Montelungo provincia di Caserta causa scoppio natura imprecisata et conseguente frana» – pare trattarsi di anidride carbonica esplosa in una galleria presso il fiume Volturno, lunga 4 chilometri e 600 metri – «rimanevano bloccati nella costruenda galleria impresa Farsura che esegue lavori per conto della SME 70 operai». Questa squadra di operai lavorava, sembra, ad 800 metri di profondità circa e veniva investita dallo scoppio del gas. Complessivamente sono stati estratti 5 operai già deceduti e 22 con sintomi di asfissia ricoverati all’ospedale di Venafro ed in gran parte fuori pericolo, ed altri con prognosi riservata. Da parte di Mignano mi giunge notizia che i morti sono 20 e 30 i feriti. (Il presidente, i senatori ed i membri del governo si levano in piedi). Il governo farà tutto quello che è possibile. Ha inviato sul luogo subito il ministro dell’Industria. Credo però di non trovare parole sufficienti per esprimere la costernazione in cui ci mette una simile notizia. Tutto quello che potrà essere fatto per le riparazioni, tutto quello che potrà essere fatto per le famiglie, sarà fatto. E sono certo che il Senato ci conforterà in questa opera di riparazione.
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Onorevoli senatori, desidero innanzi tutto ringraziare molto il senatore Merzagora per la vasta, accurata ed approfondita relazione con la quale ha accompagnato la presentazione al Senato del bilancio del Ministero degli Affari Esteri. Egli ha richiamato alla vostra attenzione i problemi funzionali e organizzativi del ministero, la struttura e i metodi del suo organismo. Sarei grato agli onorevoli senatori se, accettando il suggerimento del senatore Merzagora, volessero soffermarsi in modo particolare, nel corso della discussione, sull’analisi dello strumento e del meccanismo per mezzo dei quali si attua la nostra politica estera, sui singoli stanziamenti del bilancio, sulla organizzazione dei servizi, e sui settori particolari, che formano nella relazione oggetto di concrete considerazioni. Non intendo in questo momento illustrare le nostre linee fondamentali di politica estera. Lo farò, quando occorra, riassumendo, alla fine, il dibattito che oggi s’inizia, ma pur senza voler innovare nella solita prassi, anzi deviando da essa solo per considerazioni eccezionali, intendo qui proporre in una enunciazione descrittiva dati di fatto e cifre, onde rendere la vostra discussione più concreta e più proficua. Anticiperò solo un breve cenno sul problema di più immediato interesse. Il governo è consapevole che il problema di Trieste e del Territorio libero è quello che tiene più in ansia la coscienza nazionale. In questo momento però sono in corso delle conversazioni internazionali destinate a predisporre un esame in comune. Si comprenderà quindi ch’io debba mantenere un certo riserbo. Debbo ricordare però, riconfermando o integrando dichiarazioni antecedenti, che per quanto riguarda la questione di fondo del Territorio libero, una nuova fase era in corso dopo la conferenza di Lisbona, in quanto che le Potenze atlantiche e più particolarmente l’Inghilterra, la Francia e gli Stati Uniti, si erano convinte che le speranze di una soluzione concordata fra Italia e Jugoslavia erano destinate a naufragare definitivamente, se esse Potenze non fossero intervenute, nello spirito delle loro precedenti enunciazioni e nell’interesse dell’alleanza atlantica. Credo di sapere che fu proprio il ministro Eden a prendere in proposito l’iniziativa di uno scambio di idee fra le cancellerie più direttamente interessate, ed è certo dovuta al nuovo spirito con cui si giudicano le cose, la determinazione d’indire a Trieste le elezioni, secondo il presente sistema italiano. Ma prima ancora che questo scambio d’idee maturasse in conclusioni precise, intervenivano gli incidenti di Trieste, i quali collocavano in prima fila, per la necessità di provvedimenti immediati, la questione dell’assetto amministrativo della zona A. La conferenza dunque che abbiamo chiesto e ottenuto per esaminare a Londra in comune con gli alleati occupanti la zona A non è surrogatizia della trattativa diplomatica generale, riguardante il Territorio libero, ma riguarda solo intese sulla zona A «atte ad assicurare una più stretta collaborazione fra gli alleati e l’Italia e fra le autorità alleate e le autorità locali». La formulazione della proposta fu molto prudente e circoscritta, perché noi stessi non perdiamo di mira il problema integrale del Territorio libero e le sorti della zona B; e se la situazione creatasi a Trieste rende più urgente un’intesa cogli amministratori della zona A, vogliamo evitare anche la sola parvenza di non dare adeguata considerazione al travagliato destino della zona amministrata dalla Jugoslavia. Non altrettanto circospetto e prudente – se dobbiamo prendere atto del suo discorso di ieri – è stato invece il maresciallo Tito, il quale nega financo il nostro diritto sulla città di Trieste e qualifica le nostre rivendicazioni con un linguaggio a mala pena comprensibile nell’immediato dopoguerra. Tutta la concezione violenta, tutta la passione che abbiamo sentito sfogare dalla delegazione jugoslava durante la conferenza della pace, sentiamo ora rigurgitare in questo discorso. Tanti anni sono dunque passati invano? L’avvicinamento dell’Italia democratica attuato anche attraverso quelle intese economiche che Mates nel suo discorso di avanti ieri ricordava come basi di una collaborazione fra i due paesi, ma che furono rese possibili solo con le nostre anticipazioni creditizie, non è dunque, secondo Tito, che un «rinnovato tentativo imperialista»? Il maresciallo ha accennato a delle trattative per il problema del Territorio libero. In realtà non vi furono negoziati, perché i sondaggi non offrirono una base per trattative: i suggerimenti che venivano da parte jugoslava non erano accettabili, non perché gli italiani vi opponessero delle pretese imperialiste, ma perché tali proposte non salvaguardavano l’esistenza nazionale degli italiani nel Territorio libero e non offrivano alcuna possibilità di collaborazione pacifica fra italiani e slavi. Nessuno potrà credere, ad esempio, che un territorio dichiarato misto e amministrato in comune, o alternativamente, rappresenti uno strumento di collaborazione e di pace: specie quando vi dominano concezioni e sentimenti come quelli espressi in codesto discorso; del quale si comprenderà ch’io non voglia occuparmi ulteriormente, per non avvelenare la polemica in modo irreparabile. Ma esso merita di essere letto e meditato. Lo facciano gli italiani specie coloro che hanno tanto svalutata la «dichiarazione tripartita»; lo facciano gli «occidentali» contro cui è rivolto così minaccioso linguaggio polemico, solo perché si sono dichiarati disposti ad esaminare con noi la situazione amministrativa della zona, a loro per trattato affidata. Oggi per conto mio voglio limitarmi a rispondere solo a una questione conclusiva che il maresciallo pone al governo italiano ed a me personalmente. «Volete – egli chiede – che il popolo jugoslavo sia vostro amico o volete che siamo nemici? Si vuole rafforzare la pace oppure no?». Rispondo: vogliamo la pace, cerchiamo l’amicizia, ma l’amicizia con dignità e la pace con giustizia. E al discorso irato di Tito rispondo con la calma di chi ha ragione: maresciallo, cerchiamola entrambi, questa conciliazione! Per quanto ci riguarda, nulla vi chiediamo che vi umilii, nulla di quanto vi appartiene, niente che possa pregiudicare l’auspicata collaborazione fra due popoli destinati a vivere in breve spazio, l’uno accanto all’altro! E passiamo ora a un panorama più generale, che sarà oggetto dei vostri interventi. Per quanto riguarda l’attività della NATO, l’organizzazione del trattato nord-Atlantico ha ulteriormente sviluppato la sua efficienza e la partecipazione italiana ha contribuito in modo decisivo allo sviluppo di un nuovo spirito di intensa collaborazione fra i paesi firmatati del trattato, non solo per la difesa, ma anche nei vari settori politico, economico, emigratorio, sociale e culturale. Ciò rappresenta lo sviluppo concreto di quanto previsto sin dalla origine nell’articolo 2 del Patto atlantico; tutti i paesi membri hanno riconosciuto la fondatezza della proposta, avanzata dall’Italia e da altri nella conferenza di Ottawa, per dare un contenuto sempre più concreto a quella che può ormai propriamente essere chiamata la «comunità atlantica», ora che il più urgente problema della difesa è stato avviato a soluzione. Le conferenze di Roma e di Lisbona hanno permesso di far stato dei progressi raggiunti nell’ambito della collaborazione fra tutti i membri della comunità ed hanno gettato le basi per nuove realizzazioni concrete in questo campo, che sono ora affidate direttamente al Consiglio atlantico e non più a comitati speciali di studio. Naturalmente la NATO ha proseguito il suo sforzo difensivo, allo scopo di costruire una barriera sempre più efficace, che permetta ai 14 paesi membri di sviluppare con tranquillità le proprie pacifiche attività. Anche in questo campo è stato raggiunto un risultato di eccezionale importanza: cioè la cosiddetta conciliazione, anzi l’inquadramento dello sforzo difensivo nella situazione economica dei vari paesi. I piani di difesa, sia quelli già in corso di realizzazione, sia quelli per gli anni futuri, sono stati studiati e determinati in stretta relazione con le possibilità economico-finanziarie dei paesi NATO. È stato questo il risultato dei lavori del Comitato dei dodici saggi che, in tre mesi di attività a Parigi, ha compiuto una rassegna della situazione economica generale di ciascun paese NATO, valutandola nelle sue componenti essenziali e traendo le necessarie conseguenze per quanto concerne in particolare le possibilità nazionali di finanziamento dello sforzo difensivo sotto tutti i suoi aspetti (dal mantenimento delle truppe alla produzione dei mezzi per la difesa). In tale sede l’Italia ha potuto richiamare l’attenzione degli Stati alleati sui problemi principali della sua struttura economica e sociale, problemi che condizionano le possibilità del nostro paese in tutti i campi. In questo quadro noi abbiamo annunziato ai Dodici quale sarebbe stato il bilancio della difesa italiana, esattamente come è stato annunciato a questa Camera: compiuto l’esame, accolta la nostra impostazione, i Dodici hanno riconosciuto che il nostro sforzo finanziario per la difesa era adeguato ed in armonia con la nostra situazione economica generale. L’ammontare del bilancio per la difesa è pertanto rimasto invariato e le spese che verranno fatte sui fondi stanziati in esso, unitamente agli aiuti in materiali da parte degli Stati Uniti e di altri paesi alleati, permetteranno alle forze armate italiane l’approntamento delle unità e dei mezzi previsti per l’Italia dai piani di difesa. È quindi lecito affermare che i sacrifici per la difesa sono stati inseriti nel modo più logico nel più ampio problema della stabilità economica dei paesi della comunità atlantica ed è da attendersi che essi porteranno, dopo la prima fase di assestamento, ad un intensificarsi dell’espansione economicoproduttiva generale dei paesi alleati. Per rendere più efficace l’azione dell’organizzazione atlantica, destinata a facilitare la realizzazione dei piani di difesa, coordinando nel modo più economico gli sforzi dei singoli governi, il Consiglio atlantico di Lisbona ha approvato una riorganizzazione degli organi civili della NATO. Questa si impernia sulla creazione della carica di segretario generale della NATO, con ampi compiti di coordinamento e di esecuzione delle decisioni concordate fra i 14 paesi. Il segretario generale sarà anche il vicepresidente del Consiglio atlantico, con incarico di presiederlo nel corso della sua attività continuata, che è stata ormai resa del tutto effettiva mediante la nomina dei rappresentanti permanenti di ciascuno dei 14 governi. Essi siederanno a Parigi con tutti gli uffici dell’organizzazione, avranno ampi poteri e responsabilità e rappresenteranno direttamente la volontà dei governi, in modo da poter concordare rapidamente le decisioni ed assicurarne l’immediata esecuzione. La situazione attuale dell’organizzazione atlantica, di cui noi siamo membri attivi ed apprezzati, risulta perciò adeguata al grande compito di pace che i 14 paesi alleati si sono assunti. L’Italia può quindi trarre dai risultati raggiunti nello sforzo comune la tranquillità per proseguire la sua politica di pace e di progresso sociale ed economico all’interno delle sue frontiere non più indifese. Circa l’esercito europeo, la conferenza di Parigi, composta dalle delegazioni di esperti dei sei paesi partecipanti, da più di un anno lavora intensamente alla preparazione di un progetto di trattato per la comunità europea della difesa. Completato ormai il grosso dei suoi lavori, essa si dedica, in queste ultime settimane, a definire le questioni non ancora risolte. Le linee principali di questa nuova costruzione sono state fissate d’accordo dalle sei delegazioni, dopo un tenace lavoro di conciliazione tra le diverse legittime esigenze nazionali, lavoro ispirato alla volontà, comune a tutti, di creare finalmente un organismo nuovo, sopranazionale, primo solido nucleo dell’unità dell’Europa. Avevo già in precedenza informato la Commissione degli affari esteri del Senato che, ancora durante i lavori della conferenza, avrei fatto un’esposizione completa delle linee principali della Comunità europea della difesa. È noto agli onorevoli senatori che l’idea della costituzione dell’esercito europeo ebbe origine dalla necessità, unanimemente riconosciuta, di far partecipare la Germania alla comune difesa dell’occidente e della sua civiltà e contemporaneamente trovare il modo per sopire, o meglio far scomparire, i conflitti che da secoli hanno dilaniato i popoli dell’occidente europeo, eliminandone le cause materiali e soprattutto gli stati d’animo che da esse facilmente derivano. Si è pensato quindi ad instaurare una solida fiducia reciproca, superando le consuete concezioni di alleanza e di coalizione, per introdurre il principio dell’integrazione, anzi della fusione degli eserciti. Il progetto di trattato prevede che il reclutamento, attuato dagli organi nazionali, venga compiuto in maniera uniforme sia per quanto riguarda la coscrizione come l’assunzione di personale di mestiere; unici saranno lo stato giuridico del personale, l’amministrazione delle forze, i regolamenti tattici e tecnici, l’organizzazione, i materiali, l’istruzione e la formazione dei quadri, l’uniforme, pur conservando i segni tradizionali dei corpi, che ricordano le glorie passate. I membri delle forze armate, la cui situazione giuridica e tecnica è regolata in modo uniforme, fanno parte di unità cosiddette di base, di nazionalità omogenea, studiate per ogni forza armata, secondo le necessità funzionali. Nelle forze terrestri l’unità di base è il gruppo, nel quale si combina organicamente l’azione delle diverse armi per scopi tattici limitati. In altre parole il gruppo ha gli stessi compiti che negli eserciti nazionali sono tradizionalmente riservati alla divisione. Sono previsti tre tipi di gruppi: fanteria, corazzato, meccanizzato, con organici da 12.600 e 15.000 uomini, secondo le esigenze di pace o di guerra. Questi gruppi vengono inseriti nel corpo d’armata che costituisce il primo elemento integrato dell’esercito europeo. Il corpo d’armata comprende quindi da tre a quattro gruppi di differente nazionalità, uno stato maggiore integrato, un assieme integrato di unità di supporto tattico e logistico. Gli effettivi del corpo d’armata sono variabili: si aggireranno all’incirca sugli 80.000 uomini per un corpo d’armata di tre gruppi. Nelle forze aeree l’unità di base è la mezza brigata, composta di elementi di nazionalità omogenea e di materiale omogeneo con effettivi dai 1.200 ai 1.800 uomini. L’unità superiore, comando tattico aereo, è composta di mezze brigate di nazionalità diverse, mentre i servizi, analogamente a quanto avviene per il corpo d’armata, sono anch’essi plurinazionali. Le forze navali sono composte di raggruppamenti omogenei secondo le esigenze tattiche, di entità quindi variabile. Dato il carattere particolare della marina da guerra, l’integrazione avviene quindi soltanto al livello dei comandi. Non sono comprese nelle forze navali da versare alla comunità europea le flotte di alto mare. Sono ugualmente escluse dalla comunità europea le forze necessarie per la difesa dei territori di oltremare degli Stati membri, per l’evidente ragione che, altrimenti, la comunità europea si addosserebbe la responsabilità della difesa anche di tali territori. L’organizzazione militare territoriale dipende dagli organi della comunità per la parte che riguarda i servizi relativi alle necessità delle forze della comunità, mentre dipende dalle autorità nazionali per tutti quei compiti che sono squisitamente nazionali. Le istituzioni della comunità rappresentano l’ossatura giuridico-pratica dell’organizzazione. Il commissariato è l’organo rappresentativo della comunità e possiede facoltà proprie per l’esecuzione del suo compito. Le sue funzioni corrispondono, grosso modo, a quelle di un Ministero della Difesa. È un organo collegiale composto di nove membri, nominati per un periodo di sei anni; le designazioni sono compiute da tutti gli Stati partecipanti e non vi potranno essere più di due commissari della stessa nazionalità. I commissari non rappresentano i rispettivi governi, ma sono i membri di un organo sopranazionale, che deve operare e decidere nell’interesse della comunità. Il Consiglio dei ministri, composto dei rappresentanti di ciascun governo, esercita funzioni di controllo sull’opera del Commissariato con lo scopo precipuo di far concordare la politica del Commissariato con la politica e gli interessi dei governi dei paesi partecipanti. A tale scopo ha potere di dare al commissariato direttive generali con effetto vincolante. Le decisioni del Consiglio dei ministri per le questioni più importanti, che mettono in gioco gli interessi essenziali dei paesi partecipanti, vengono prese all’unanimità; per le altre questioni è stata fatta una suddivisione fra quelle che debbono essere decise, a seconda della loro importanza, dalla maggioranza di due terzi o a maggioranza semplice. Si è in tal modo ottenuto di conciliare le esigenze di un rapido ed efficiente funzionamento del Commissariato con l’esigenza, altrettanto fondamentale, di non compromettere gli interessi e le prerogative degli Stati partecipanti, quando si tratti di questioni che possono incidere in maniera rilevante sulla vita dei paesi. L’assemblea, infine, è l’organo di controllo composto dalle delegazioni dei singoli Parlamenti nazionali, affinché fin dall’inizio questi possano continuare in seno alla comunità europea l’opera di controllo dell’esecutivo che rappresenta la loro prerogativa preminente. Il bilancio per il mantenimento delle forze della comunità è unico e alimentato dalle contribuzioni dei singoli Stati; viene preparato dal Commissariato e sottoposto al Consiglio dei ministri, il quale deve approvare all’unanimità sia il contributo dei singoli Stati, sia l’ammontare totale delle spese. Finché non sarà trovata una formula automatica di ripartizione delle spese fra i diversi Stati, a seconda delle singole capacità contributive, la determinazione dei singoli contributi nazionali avverrà secondo i princìpi ormai accettati in seno alla NATO ai quali ho accennato in precedenza. La costituzione della comunità non costituisce quindi, in alcun modo, una causa di aumento dello sforzo finanziario per la sicurezza. Vi è anzi da prevedere che, dopo la prima fase di organizzazione, l’uniformità e standardizzazione degli armamenti ed equipaggiamenti provocherà una diminuzione dei costi unitari e quindi una utilizzazione più economica dei fondi disponibili. Il contributo di ogni Stato sarà comunque votato annualmente dai Parlamenti nazionali. Dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri della comunità, il bilancio è infine sottoposto all’assemblea. Per il controllo circa l’esecuzione delle spese è infine prevista la costituzione di un organo di controllo con funzioni analoghe a quelle della nostra Corte dei Conti, nonché di un controllore finanziario, il quale dovrà dare il suo visto preventivo ad ogni impegno di spesa ed esecuzione di pagamenti. È infine prevista la costituzione di una Corte costituzionale la quale avrà funzioni di dirimere i conflitti di interpretazione ed applicazione del trattato, che possono sorgere tra gli Stati della comunità, nonché di offrire una competente sede giurisdizionale ai privati che vedessero i propri interessi lesi dalle attività della comunità. È ancora allo studio il collegamento giuridico col Patto atlantico e col trattato di Bruxelles: si tratta più che altro di concordarne la formulazione, dato che nessun nuovo obbligo di garanzia dovrà derivarne e che la esecuzione degli impegni deve avvenire conformemente alle singole procedure costituzionali. Rispettando cioè, per quanto riguarda l’Italia, le prerogative del Parlamento in materia. Il trattato prevede, infine, che l’assemblea, entro sei mesi dalla sua entrata in funzione, prepari un progetto per la trasformazione della comunità in un organismo federale basato sul sistema bicamerale e la divisione dei poteri. Sarà quindi un’assemblea con veste di pre-Costituente europea. Non appena il progetto sarà pronto esso sarà inviato ai governi che dovranno, entro tre mesi, convocare una conferenza allo scopo di dar vita alla federazione europea. Se entro un anno dalla sua convocazione la conferenza non sarà pervenuta ad un accordo, gli Stati membri procederanno di intesa a rivedere la composizione dell’assemblea della comunità. Come vedete, onorevoli senatori, l’impegno federalista introdotto nel trattato è di duplice ordine: da un lato i sei governi si impegnano a riunirsi in conferenza entro breve termine, un anno circa, dall’entrata in vigore del trattato, per risolvere il problema della federazione europea; dall’altro, ove i lavori della conferenza, per inopinate difficoltà o perché in quel momento la maggioranza parlamentare di qualche paese non si mostrasse disposta a proseguire rapidamente sulla via della federazione, sarà possibile, mediante la revisione della composizione dell’assemblea, dare a questa un contenuto più direttamente rappresentativo delle opinioni pubbliche dei paesi partecipanti e giungere, per questa via, ad una più intima fusione politica dei paesi. E se questa comunità, con legami ulteriormente stretti, basata su un’assemblea democratica, non si chiamerà federazione, ne avrà, di fatto, molte importanti caratteristiche. Al Consiglio nord-atlantico di Lisbona le linee fondamentali del progetto hanno riscosso il plauso degli altri alleati atlantici, che hanno voluto marcare il loro riconoscimento per l’importanza storica dello sforzo che i sei paesi stanno compiendo. Infatti dalla primitiva ricerca di mezzi per rafforzare la difesa dell’occidente, si è a poco a poco venuto delineando un obiettivo ben più ampio: la realizzazione dell’unità europea e l’abolizione degli storici conflitti che da secoli dilaniavano l’Europa occidentale. Conflitti che, in un mondo così strettamente legato ed interdipendente quale è quello moderno, erano ormai divenuti vere e proprie guerre civili. Il governo italiano è fiero di aver potuto portare alla costruzione il suo contributo, effettivo e da tutti apprezzato, ottenendo che fosse inserito nel progetto di trattato l’incentivo per la creazione della federazione europea, i cui organi saranno ispirati alle tradizioni democratiche e parlamentari comuni ai sei paesi partecipanti. Non appena firmato e ratificato il trattato, dovrete designare, onorevoli senatori, i vostri delegati all’assemblea della comunità: essi parteciperanno fattivamente al lavoro preminente dell’assemblea stessa, la preparazione della costituzione federale. È stata questa una proposta italiana che, nelle riunioni dei ministri degli Esteri dei sei governi, a Strasburgo ed a Parigi, ha trovato l’adesione degli altri partecipanti. Fedeli ai programmi che abbiamo sempre enunciato, abbiamo così dato concreta attuazione alle nostre aspirazioni europeistiche e ci auguriamo che i Parlamenti dei sei paesi, quando dovranno esprimersi sulla nostra opera, vorranno consacrare con la loro approvazione lo sforzo dei governi. Ci auguriamo anche che gli altri paesi europei, le cui istituzioni si ispirano agli stessi princìpi democratici, vogliano presto aggiungere i loro sforzi ai nostri su questa via, che noi riteniamo la sola atta a risolvere stabilmente ed efficacemente i gravosi problemi che affliggono l’Europa moderna: siamo convinti infatti che non è ormai più possibile che gli Stati, singolarmente, possano dare ai propri popoli quella sicurezza e quel tenore di vita cui essi hanno diritto. Soltanto l’Europa, nella riunione delle singole forze, risorse e capacità, potrà dare alle sue popolazioni la speranza di una vita migliore. Per quanto riguarda la proposta inglese circa il Consiglio d’Europa, sempre in relazione al continuo affermarsi del movimento per l’unificazione europea, segnalo che in occasione della decima sessione del comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, tenutasi a Parigi il 19 e 20 corrente, il ministro degli Esteri britannico ha fatto conoscere con molta franchezza le proprie idee circa i compiti che l’avvenire potrebbe riservare alla organizzazione di Strasburgo. Egualmente preoccupato delle eventualità che il Consiglio d’Europa possa inaridirsi oppure evolvere verso forme semifederali con poteri legislativi ed esecutivi, alle quali la Gran Bretagna non potrebbe associarsi, Eden ha proposto che gli organi di Strasburgo vengano rinnovati in modo da poter servire quali istituzioni del piano Schuman e della comunità europea di difesa. La proposta britannica è stata accolta con simpatia per l’intenzione che essa manifesta di stabilire più stretti legami con il continente europeo, pur dovendosi rilevare che essa solleva complessi problemi d’ordine politico e statutario, in relazione all’inserimento a Strasburgo del piano Schuman e della CED, problemi che potrebbero forse causare rallentamenti nell’avvio, pur pieno di promesse, delle due comunità a sei. Sotto questo profilo la proposta dovrà essere esaminata con la massima attenzione. Infatti, una premessa per noi indispensabile è che tale progetto tenga comunque conto della necessità di non creare modifiche, anche formali, che possano rimettere in giuoco le ratifiche del trattato della comunità del carbone e dell’acciaio e di risultati già acquisiti nei negoziati per l’esercito europeo. Un giudizio definitivo sulla iniziativa britannica non potrà darsi fin quando non sarà conosciuto nei suoi dettagli il progetto per l’attuazione dei princìpi enunciati da Eden, attualmente in corso di studio al Foreign Office. Per quanto riguarda la nostra politica economica internazionale, desidero segnalare al Senato che gli indici relativi all’intercambio con l’estero dimostrano che esso, nell’ultimo anno, ha largamente superato quello del 1938. I risultati conseguiti, malgrado le note difficoltà strutturali e contingentali della nostra economia, vanno bene al di là dei soli benefici economici, in quanto rappresentano una vitale affermazione della politica italiana nei confronti dell’estero. In particolare desidero sottolineare l’ottimo risultato dato dalle commissioni miste, stabilite con i paesi aderenti all’OECE, per procedere periodicamente agli aggiustamenti dei rapporti economici e finanziari e alla risoluzione delle principali questioni in sospeso. Tale sistema di contatti diretti si è dimostrato utile, ed ha dato ottimi risultati, particolarmente nei riguardi del Regno Unito, della Francia, della Germania, della Svizzera e del Benelux. In genere i rapporti economici del nostro paese con le diciotto nazioni partecipanti all’OECE hanno subito negli anni recenti un notevolissimo incremento, rispetto al 1947. Delle centinaia di accordi economici e finanziari raggiunti nell’ultimo quinquennio, neppure uno è rimasto in sospeso; tutti non solo sono stati concordati, ma hanno avuto applicazione molto soddisfacente. D’altra parte, persuasi che, dopo il periodo di stasi seguito alla guerra, l’Italia debba anzitutto riprendere interesse ai lontani mercati delle Americhe e dell’Asia nonché a quelli del vicino oriente, ove maggiore è la possibilità di nostre affermazioni di pacifica politica, abbiamo già conseguito o rinnovato accordi di largo contenuto con alcuni paesi extra-europei, mentre con altri abbiamo iniziato e conduciamo non facili trattative. Nel dicembre 1950 è stato concluso un accordo di pagamenti italo-britannico in sostituzione del precedente, rendendo possibile l’incremento dei nostri traffici oltre che con il Commonwealth anche con i paesi del vicino e medio oriente, dove siamo riusciti a riprendere e talvolta a superare le posizioni prebelliche. Le relazioni commerciali con tutta l’area della sterlina, che ha importanza fondamentale per l’economia italiana non solo per il volume degli scambi ma perché ci fornisce buona parte delle materie prime essenziali, hanno tuttavia mostrato, negli ultimi mesi non poche difficoltà dovute soprattutto alle ben note restrizioni alle importazioni adottate dal governo britannico. In conseguenza, i lavori dell’ultima sessione del comitato economico, tenutasi nel gennaio del corrente anno, sono stati diretti soprattutto ad evitare che il peso della crisi economica britannica si riversasse in misura eccessiva sul nostro paese. Importanti accordi economici sono stati stipulati nel corso del 1951 con il Portogallo, la Spagna, la Francia, la Germania occidentale, l’Unione economica belgo-lussemburghese, la Svizzera, l’Olanda, la Jugoslavia, la Finlandia e l’Austria. Si ritiene di poter quanto prima iniziare trattative con la Grecia, la Polonia e la Cecoslovacchia per la conclusione di nuovi accordi commerciali e di pagamenti. Per il settore dell’America latina sono stati, nel 1951, conclusi accordi commerciali con l’Ecuador e l’Uruguay, mentre sono in corso trattative per la conclusione di nuovi e talora complessi accordi con Argentina, Cile, Columbia, Costarica, El Salvador, Haiti, Honduras, eccetera. In estremo oriente, mentre i rapporti economici con la Cina sono scesi a livelli bassissimi, con il Giappone dovranno tra breve iniziarsi le conversazioni per la conclusione di un accordo commerciale e di un accordo di pagamenti. Anche con la Repubblica delle Filippine sono da tempo in corso trattative per la conclusione di un accordo commerciale. Per quanto riguarda l’emigrazione, l’azione del governo italiano continua ad esercitarsi in tutti i modi, presso i singoli governi e presso i competenti organismi internazionali, allo scopo di utilizzare convenientemente l’eccesso di mano d’opera italiana. Soprattutto attraverso la nostra azione in sede diplomatica e in quella delle organizzazioni internazionali il problema della sovrapopolazione europea è ormai riconosciuto come un problema di importanza e di responsabilità mondiale. Nel novembre scorso è stata convocata, su iniziativa del governo americano, la conferenza di Bruxelles, dalla quale è nato il comitato intergovernativo provvisorio per i movimenti migratori europei, finanziati dagli Stati Uniti per 10 milioni di dollari e per il resto da paesi di emigrazione e di immigrazione e, per la prima volta, da terzi paesi non interessati direttamente al problema. Nell’anno in corso è previsto che tale comitato provveda, con la spesa di circa 38 milioni di dollari, al trasferimento oltre oceano di 137 mila emigranti europei – e tra questi da 35 a 50 mila italiani – non in grado di sopportare in proprio tutta o parte della spesa di viaggio. Un nuovo accordo per l’emigrazione, particolarmente importante, è stato stipulato nello scorso anno con l’Australia per l’emigrazione colà di contingenti di determinate categorie di lavoratori richiesti dagli australiani. Un nuovo accordo è stato raggiunto anche con la Francia per il coordinamento, l’aggiornamento e la semplificazione dei precedenti accordi di emigrazione. Onorevoli senatori, con ciò ho finito il panorama descrittivo che volevo sottoporre al vostro esame per rendere più concreta la vostra discussione. Mi riservo, naturalmente alla fine della discussione stessa, di tornare sulla parte della direttiva politica che ha ispirato l’opera del governo. (Vivi applausi dal centro e dalla destra).
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Mi associo anzitutto alle parole pronunciate dal presidente della Commissione degli Esteri e dal relatore in riconoscimento della perspicua opera compiuta dal personale del Ministero degli Affari Esteri, senza distinzioni di sorta tra membri appartenenti alla carriera e uomini, successivamente inseriti, di provenienza politica. Affermo in proposito che tutto il personale, senza discriminazioni, ha efficacemente corrisposto all’attuazione della politica estera perseguita dal governo. Pur associandomi ad alcuni apprezzamenti e suggerimenti assai preziosi del relatore, non posso tuttavia dichiararmi, in linea di massima, d’accordo sulla proposta che gli ambasciatori e i rappresentanti diplomatici italiani all’estero vengano direttamente ascoltati su singoli problemi in seno alle Commissioni parlamentari degli Affari esteri. In linea generale, ove un tale principio e un tale metodo si affermassero, dovrebbero valere anche per i prefetti, gli intendenti di finanza, eccetera, cioè per tutti gli strumenti locali del potere esecutivo facendo così quasi assumere al Parlamento poteri di carattere esecutivo che non gli sono proprii. Per quanto concerne la questione di Trieste, siamo, come ho detto nel mio breve discorso introduttivo, in conversazione e bisogna che siamo prudenti affinché la polemica pubblica non turbi la serenità necessaria. Il nostro scopo immediato, ripeto, è quello di migliorare a Trieste la situazione amministrativa in modo che la città non debba, innanzi tutto, nutrire preoccupazioni per il suo carattere, per il suo sviluppo, per i suoi rapporti con la famiglia nazionale italiana, a cui appartiene per diritto e per unanime riconoscimento. Questo è lo scopo immediato. Certo il raggiungimento di tale scopo, anche se sarà perfetto, riguarda sempre l’amministrazione provvisoria prevista dal trattato e non porta a soluzione, né totale, né definitiva, il problema del Territorio libero. Però non vi contraddice, ed ogni progresso in questo campo, senza dubbio, rappresenta un contributo verso la soluzione. Non c’è bisogno di dire qui a dei colleghi che hanno seguito l’atmosfera della città di Trieste che, oltre all’entusiasmo mirabile ed allo spirito di sacrificio dell’enorme maggioranza, bisogna tener conto delle obiezioni delle minoranze e dobbiamo, in seguito a questo, provvedere anche ad assicurare ed ottenere maggiori garanzie. Non occorre che mi spieghi ulteriormente. Il richiamarsi che fa il governo di Tito al trattato, per quanto tale richiamo dal punto di vista strettamente giuridico non possa essere riferito al caso specifico, conferma però la tesi globale del governo italiano, cioè che gli alleati non possono esimersi dal prendere posizioni e responsabilità nella soluzione dell’intero problema. Certo è sempre augurabile che la soluzione avvenga per via conciliativa tra Italia e Jugoslavia. Ma gli alleati, come corresponsabili del trattato e dell’amministrazione provvisoria che esso affida alle due parti occupanti, non possono lavarsi le mani; hanno l’obbligo di farsi parte attiva e convincente. Questa è la responsabilità storico-giuridica degli alleati, in base al trattato che noi abbiamo subito e che essi hanno voluto. C’è, oltre a questa responsabilità, anche una responsabilità morale, più morale che giuridica, se si vuole, che risale alla dichiarazione del 20 marzo 1948. Quanti in Italia per comodità polemica e, permettete che io lo dica, per faziosità interna, hanno svalutato questa dichiarazione? Leggano il recente discorso di Tito, che si lancia contro di essa con violenza inaudita. Non credo che si possa dire che egli è Don Chisciotte e che la dichiarazione è un mulino a vento. Essa non fu pronunziata in una occasione improvvisata, ma dopo una meditata discussione fra le cancellerie e previo formale accordo fra i governi di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. E sarebbe facile, per chi volesse ricercare fra le carte e gli archivi di Palazzo Chigi, trovare note frequentissime di circolari, appunti di richiami e di istruzioni del ministro Sforza (al quale da qui mando di nuovo un augurio di buona salute); sarebbe facile trovare la prova che questa dichiarazione non è stata improvvisata e non è nata nel capo degli Alleati che poi l’hanno pronunciata, ma è nata in trattative, su suggerimenti, in seguito ad insistenze, ed è la conclusione, il coronamento di un’opera diplomatica, nella quale il governo italiano ha agito ed ha ottenuto il risultato. (Applausi dal centro e dalla destra – Commenti dalla sinistra). Dovevo dire questo, perché a furia di ripetere che, poiché questa dichiarazione è venuta a proposito in un periodo elettorale… (vivaci commenti dalla sinistra) …a disturbare la campagna che aveva iniziato Togliatti su un’altra piattaforma, (ilarità al centro), e ha inciso in quel momento, noi dobbiamo comunque affermare che se gli Alleati avessero fatto questa dichiarazione proprio in vista delle elezioni, ben vengano simili dichiarazioni che impegnano gli Alleati a favore dell’Italia. (Applausi dal centro). mAnCini. Se la dichiarazione esiste e non è messa in pratica, è come se non esistesse. de GAsperi. Questa è una seconda questione. Fatemi il favore di distinguere prima il fatto storico. Se comunque non mantengono la dichiarazione voi dovete insistere perché la mantengano e non dovete cominciare a dire che fu detto per ischerzo. (Vivi applausi dal centro). pertini . Insista lei perché sia mantenuta. de GAsperi. Non mi pare di dire cose che vi possano far male. Se voi mi faceste questa questione: se il 28 giugno 1948 – che è la data dello scisma di Tito – fosse venuto prima della dichiarazione, si può ammettere che la dichiarazione sarebbe stata in questa stessa forma? Può essere di no: dubito anche io. Dubito che si sarebbero trovate altre forme, perché gli Alleati, da quel momento, hanno cominciato ad avere riguardo per quest’uomo che abbandonava il bolscevismo, in quanto contavano di trovare, presto o tardi, in lui, un alleato contro il monolito russo, e perché si sperava che l’eresia avesse qualche suggestione anche sopra altri popoli. (Ilarità dalla sinistra). A Santa Margherita, a Londra e a Washington, le tre occasioni diplomatiche di incontro in cui abbiamo ottenuto la conferma della dichiarazione tripartita, è vero che gli Alleati hanno aggiunto l’espressione del desiderio di un incontro conciliativo tra Italia e Jugoslavia. A questo desiderio anche l’Italia si è associata, ma questo buon volere non ha inteso, né potuto modificare, né la situazione giuridica, né la situazione morale soprattutto dell’impegno alleato. Questo è il secondo e terzo viene il Patto atlantico. Ecco la causa della rovina, dite voi: la colpa è del Patto atlantico. Per quale ragione e in che misura potrebbe il Patto atlantico nuocere ai nostri postulati circa il Territorio libero? Forse che l’alleanza ci rende più deboli in confronto della Russia che ci ha sempre vietato il Territorio libero o indebolirebbe la nostra resistenza, se occorresse, di fronte alle avventure dell’altra parte? E se fossimo soli, come ha proclamato che siamo, mi pare l’onorevole Banfi, se fossimo soli di fronte alla Jugoslavia in questo momento e la Jugoslavia fosse amica o semi amica dell’occidente, le nostre prospettive sarebbero forse migliori? Comprendo che i fautori del Patto atlantico, e coloro che hanno assunto la responsabilità di deliberarlo o di associarsi ad esso, abbiano diritto di insistere perché esso agisca più efficacemente in senso solidale con i nostri postulati nazionali ed abbiano diritto di attendersi che ciò avvenga sempre e più; ma voi, che siete contro il Patto atlantico, dove è la vostra logica e la vostra coerenza? Certo la nostra posizione è estremamente difficile. La lotta è assai dura. Non ve lo nascondo, non me lo sono mai nascosto nemmeno nei momenti di entusiasmo, oggi specialmente, che ho saggiato le difficoltà e le resistenze, e la difficoltà maggiore è il far sì che quello che è così chiaro per l’anima italiana diventi chiaro, trovi una corrispondenza nell’opinione pubblica mondiale, agitata da tante altre questioni e travagliata da tante preoccupazioni. La difficoltà per noi che esiste in Italia è quella di richiamare e di concentrare tutta l’attenzione mondiale su questo nostro problema; nei miei contatti internazionali me ne sono reso ben conto. Lo riconosco: la responsabilità è grave e mi pesa terribilmente sulla mente e sul cuore. Credetelo: se non al politico, all’uomo, che fin da ragazzo, fin dalla sua vita universitaria si è battuto per Trento e Trieste, e soprattutto per Trieste. Ma la nostra generazione deve accettare questa responsabilità, e deve affrontarla con fermezza e con spirito di resistenza, come ha detto il senatore Merzagora. A Tito, che ha rifatto a modo suo la storia della guerra e dell’anteguerra, potrei replicare ricordando altri fatti, altre tragedie, altro sangue sparso, Ma che giova? Passata l’eco delle parole e dello sfogo retorico, ditemi: a che giova rimestare il passato per cercare spiegazioni e giustificazioni delle nostre debolezze o delle difficoltà che incontriamo? Lo so, noi abbiamo ereditato delle gravissime responsabilità, che non sono nostre; noi democrazia italiana, noi Repubblica italiana, abbiamo dovuto assumere tutto un patrimonio compromesso. (Vive approvazioni). L’abbiamo dovuto assumere e non voglio dare alcun giudizio sul passato, né contro uomini del passato, ma è vero che abbiamo dovuto assumere la liquidazione e pagare debiti che non erano i nostri. (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra). Nonostante questo, noi che abbiamo la responsabilità del presente – ripeto qui a parecchi anni di distanza quello che dissi anche alla conferenza di Londra per la pace nel primo scontro con gli slavi – noi che siamo responsabili del presente e non siamo responsabili del passato portiamo sulle spalle meriti e demeriti della nostra nazione e li portiamo con orgoglio. Non per imitare tutto quello che fu fatto, né per esaltarlo, ma per trarne ammaestramento e cercare pace e rinnovamento nella libertà e nella giustizia. (Vivi applausi dal centro e dalla destra). Penso in ciò di essere d’accordo con gli Alleati e con lo spirito dell’amicizia atlantica. Sono certo di essere d’accordo e per questo non ho bisogno di ricorrere a parole forti. Essi sanno, perché glielo abbiamo detto, che la nostra volontà è fermissima, inesorabile nel difendere i diritti degli italiani, ma rispettosa dei diritti degli altri popoli, compresi gli slavi. La democrazia repubblicana della nuova Italia non accarezza ideali imperialistici con riferimenti a Giulio Cesare, come ha detto Tito, ma difende l’ultima trincea del trattato, al di là della quale augura alla Repubblica slava prosperità, libero sviluppo per le maggioranze e per le minoranze: però questo augurio non può rimanere una parola senza eco, oppure con una eco contraria; ed oggi non possiamo nonostante la prudenza che ci impone il momento, soffocare e reprimere un grido di protesta per il trattamento che si fa ai nostri della zona B e le persecuzioni vecchio stile, (applausi dal centro e dalla destra), maresciallo Tito, che voi meno degli altri dovreste attuare, in quanto ora vi opponete allo stile del vostro patrono principale, che ve ne ha dato tanti esempi. La nostra posizione è aspra ed esige tenacia, esige duttilità e fermezza ed a un tempo esige fiducia. L’Italia non si è fatta in un giorno: le nostre questioni non si risolvono in un anno o in due anni. Le contingenze diplomatiche si evolvono. Noi dobbiamo essere fermi, dobbiamo insistere, fino a che il momento opportuno venga di una soluzione piena del soddisfacimento dei nostri diritti. Ma i nostri critici, aspri critici, hanno un’altra soluzione. Alla Camera e qui al Senato, specialmente l’onorevole Banfi, essi hanno parlato in tono perentorio, come se avessero in tasca una magica soluzione o l’avessero avuta in qualche momento della storia, del problema di Trieste. Dove l’avete avuta? Quale era la vostra soluzione? Badate, io non ve ne faccio tutti responsabili voi che siete qui, ma le masse comuniste, in nome del programma e della dottrina leninista, a Trieste, in primo luogo chiesero la federazione slava. In un secondo tempo, voi avete visto una soluzione possibile nel Territorio libero ma una soluzione attraverso la quale il comunismo sarebbe stato il cemento di livellamento non solo per quei popoli ma anche per quello Stato indipendente. Anche oggi, nonostante tutti gli esperimenti, venite a dire che quello dovrebbe essere un territorio indipendente, che poi, attraverso l’evoluzione dei tempi, potrebbe portare all’annessione. Ma mettetevi la mano sul petto e ditemi, in verità, conoscendo la situazione ed avendo letto il discorso di Tito e conoscendo lo spirito dell’avanzata slava: credete sul serio che un Territorio libero, ove gli italiani si trovassero dinanzi alla fiumana slava che va verso il mare, senza l’appoggio e l’aiuto dell’Italia, della madre patria, credete che codesto territorio resisterebbe, credete che rimarrebbe italiano? Ci sarebbero molti orrori, e il risultato sarebbe fatale per l’italianità dello Stato libero. (Applausi dal centrodestra – Interruzioni dei senatori Mancini e Spano). Questo punto di vista non l’ho espresso solo adesso. L’onorevole Bosco ha ricordato prima la dichiarazione dell’onorevole Bonomi; non so se poi – in quel momento ero assente – abbia ricordato anche l’altra mia dichiarazione alla conferenza di Parigi, nella quale io avvertivo e ammonivo gli alleati che sarebbe andata a finire così, che quella soluzione non era una soluzione, ma era una gabbia entro la quale cane e gatto si sarebbero alla fine divorati. Ho detto che quella soluzione era impossibile, non solo, ma ho sostenuto allora, non solo in nome dei diritti dell’Italia, bensì in nome delle esigenze della pace e della collaborazione tra i popoli, che quella era una soluzione fatale, che anzi non era una soluzione: era un ponte verso nuovi e profondi dissidi. Oggi quello che dissi allora e quello che fu poi ripetuto altre volte, si rivela ancora chiarissimo, ed io spero (e bisogna sperare talvolta nonostante le difficoltà e le delusioni, bisogna insistere nella speranza) io spero e confido che gli uomini di Stato europei, non più incalzati dalla necessità di fare un accordo come che sia, un compromesso come che sia, per concludere un trattato di pace, oggi abbiano visto e vedano ancora più chiaro che quella soluzione è impossibile. Infatti lo stesso Tito ha avanzato delle proposte a Brioni e poi ha accennato egli stesso a conversazioni che ci sono state fra slavi e italiani. È verissimo, ci sono state queste conversazioni, le quali però non erano negoziati, ma solo sondaggi, per vedere se vi era una base di trattative. La base non si è trovata perché durante queste conversazioni una delle proposte di Tito, anzi l’ultima delle sue proposte, è stata quella di ricostituire il Territorio libero, di fare un governatore neutro, con due vice governatori, oppure addirittura un governatore per tre anni italiano e per tre anni jugoslavo. Oggi tutte queste discussioni – la parola trattative non sarebbe esatta – questi sondaggi, rappresentano ancora un fermento di idee intorno al plebiscito. Auguriamoci che esso si possa sviluppare in una forma che consolidi la dichiarazione tripartita e il nostro punto di vista di diritto in modo che questa soluzione ci sia ancora aperta. Comunque, bisogna anche scusare Tito in certi momenti: nel 1945 egli si sente tradito dalla soluzione degli Alleati e in genere dall’intervento dell’Italia e crede che noi gli abbiamo portato via la preda che aveva già in mano. Bisogna scusarlo, ricordando che proprio i comunisti a Trieste, coloro che avevano lavorato nella resistenza, insieme con lui, lo avevano incoraggiato, lo avevano assicurato, gli avevano garantito che la popolazione nella massima parte, slovena e italiana, era favorevole alla soluzione della federazione di Trieste con la Jugoslavia. Il Lavoratore diceva che in quel modo si sarebbe avuto a Trieste finalmente un piccolo Parlamento che sarà il Parlamento regionale, in confronto del quale poi il Parlamento centrale sarebbe stato quello comune di Belgrado. Non lo potete negare, amici comunisti – permettere che usi questa parola – non lo potete negare. Ma io potrei anche non farvene colpa, perché in quel momento, nel 1945, forse avevamo nel cuore la speranza che tutti questi problemi di carattere così acuto, nazionale, o nazionalista, si superassero in un grande slancio di fraternità ed era anche pensabile, sperabile – ed io personalmente nei primi anni di governo ho peccato di queste illusioni (e non me ne pento) – che fosse cioè possibile superare il grande abisso ideologico ed arrivare a leggi comuni che si trasformassero in leggi di convivenza costituzionale. Non mi meraviglia dunque che voi abbiate ciò fatto, ma non negatelo, perché la collezione de Il Lavoratore l’abbiamo; abbiamo al Ministero degli Esteri le circolari e le dichiarazioni che sono state fatte alla Commissione di inchiesta inviata per la delimitazione dei confini; e sappiamo che cosa hanno eletto coloro che si fregiarono del nome di comunisti. Io, a Parigi, mi sono visto una delegazione lavorare contro, appunto in questo senso, e disgraziatamente temo che siano anche riusciti, in parte, a sabotare la tesi italiana e ad aiutate la tesi degli avversari. (Commenti). Temo che siano riusciti, e quando Tito si richiama a questo, io dico: storicamente vi comprendo, maresciallo – e lo posso oggi dire con tutta la serenità che merita questo richiamo storico – maresciallo, vi hanno ingannato! I triestini in grande maggioranza già non erano d’accordo e non sono d’accordo, non la vogliono la federazione slava, vogliono un buon accordo con voi, vogliono lavorare con voi, attraverso il porto di Trieste, attraverso le ferrovie, attraverso tutta la nostra attrezzatura industriale. Essi la vogliono questa collaborazione, ma dentro i confini della propria nazione, della propria patria! (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra – Grida di: «bravo!»). Dopo ciò io vorrei pregarvi, colleghi comunisti, di non approfittare della campagna elettorale per rinnegare la verità storica che possiamo documentare, a meno che non desideriate che su tutti i cantoni delle città compaiano le dichiarazioni dei comunisti italiani e de Il Lavoratore. (Interruzione dalla sinistra). Amico Negarville se poi avete accomodato le cose, sta bene, e credo bene che Togliatti quando era ministro, e come tale, non abbia agito in questo senso; sarebbe stato un giuoco troppo arrischiato. (Interruzione dalla sinistra). Ma non rinnegate il vostro passato, solo perché poi avete preso un diverso atteggiamento. spAno. Già allora nel 1945… de GAsperi. E lo avete preso dopo che la soluzione era avvenuta. (Interruzione dalla sinistra). La distanza fra la nostra tesi e la vostra è già grande lo stesso e quindi non occorre che ci preoccupiamo di essere troppo d’accordo; ma non c’è dubbio che il passato fu così. E poiché Negarville prima, interrompendo, ha detto: ma noi li abbiamo smentiti, ma questo non era l’atteggiamento, allora io, fra le altre collezioni, citerò anche Il Lavoratore di Trieste del 25 maggio 1945, dove è esposto il pensiero del compagno Negarville sul problema di Trieste . È verissimo; in quella intervista, Negarville non dice che Trieste debba andare alla Jugoslavia, non dice questo, ma vi prego di ascoltare. Domanda: «signor Negarville, qual è il parere del Partito comunista italiano riguardo all’attuale polemica giornalistica su Trieste ed i nostri confini orientali?». Risposta: «il Partito comunista italiano ritiene che questa polemica parte da un principio sbagliato. Quando leggiamo numerosi articoli, specialmente dei giornali più reazionari, abbiamo l’impressione che molti italiani non si sono ancora resi conto della realtà, che cioè l’Italia ha collaborato all’attacco contro la Jugoslavia e che la Jugoslavia è in questa guerra un paese vittorioso, che gode di un grande prestigio internazionale, mentre all’interno è forte e stabile nella sua democrazia». (Commenti dal centro – Proteste dalla sinistra). Domanda: «l’Italia che ha attaccato la Jugoslavia era un’Italia fascista, ed è necessario pagare il debito?». Risposta: «questo è vero, ma le umiliazioni e i danni che l’Italia ha recato con questo attacco al popolo jugoslavo non è possibile dimenticarli facilmente. Devo dire che il distacco dell’Italia fascista da quella antifascista non è tanto facile per un popolo che ha soltanto intuito l’azione terroristica di molti generali italiani, veri criminali di guerra. Dobbiamo pagare il debito e noi faremo di tutto per sdebitarci, perché la democrazia italiana possa appianare i rapporti con la democrazia jugoslava». (Interruzioni dei senatori Negarville, Spano e Massini – Commenti e proteste dalla sinistra). Neanche da lontano io voglio qui tradurre queste parole nel senso che il senatore Negarville volesse dire che dobbiamo dare Trieste alla Jugoslavia. Però, che cosa debbono dire gli altri quando leggono «dobbiamo pagare il debito»? Per forza deve rimanere nella testa a Tito che c’è un debito da pagare e che chi paga deve essere l’Italia, perché ha perduto la guerra. Questa è la vostra tesi di quel tempo. Ora, amici ed egregi avversari, poiché c’è stato un accenno sicuro, perentorio, come sono tutti gli accenni dell’onorevole Casadei, che ha detto: «pagherete il fio, vi accorgerete che noi aumentiamo sempre di più» con un accenno dunque di carattere elettorale, io rispondo: può essere che noi pagheremo il fio, ma lo pagheremo evidentemente, soprattutto se non avremo il coraggio di affrontare la vostra campagna di menzogne e di smascherare la vostra condotta. (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra). Perché io dico: si può aver sbagliato nel passato, si può cambiare atteggiamento ma bisogna dirlo, bisogna ammetterlo, non bisogna erigersi a giudici innocenti contro coloro i quali hanno fatto il loro dovere e si sono sforzati di difendere l’italianità di Trieste sin dal primo momento, (vivi applausi dal centro), e non bisogna essere così rigorosi eroi. Non avete il diritto di chiamarci dinanzi al tribunale del popolo, in questa questione soprattutto, e, se lo farete, finché avremo fiato, non ve lo lasceremo ripetere sulle cantonate delle città, senza mostrarvi e provarvi che voi fate il doppio gioco, perché, o voi rinnegate voi stessi, e smentite i vostri che vi hanno preceduto, oppure, se non lo fate, assumete anche oggi la responsabilità di un doppio gioco. (Approvazioni dal centro). L’onorevole Banfi, ad una interruzione – e domando scusa se, alla mia età, quando dovrei essere un po’ più calmo e sereno… (vivissimi applausi all’indirizzo del presidente del Consiglio) – l’onorevole Banfi, ripeto, ha risposto: «lasciate quel posto e poi ci penseremo noi». (Ilarità). Io non ho il piacere di conoscere, onorevole Banfi, tutti i suoi meriti. So che lei è un grande professore, che merita molta considerazione per l’opera che ha prestato e presta, eccetera: quindi non vorrei diminuirla in niente. Io la conosco come uomo politico, ed è un peccato, perché se la conoscessi come uomo, se ci conoscessimo tutti come uomini, parleremmo diversamente. Ma disgraziatamente non ne abbiamo il modo. L’onorevole Banfi fu un giorno indicato come membro della delegazione italiana dell’associazione Italia-URSS per l’anniversario della rivoluzione d’ottobre, e in un suo discorso ha affermato che il viaggio della delegazione italiana corona l’opera di tre anni di lavoro dell’associazione Italia-URSS. In quello stesso discorso egli esaltò la situazione della Cecoslovacchia, dicendo: «il nostro spirito, al tempo della liberazione, era acceso quando, deposte le armi, ci accingevamo al nuovo e vero risorgimento dell’Italia democratica. Questo spirito in Cecoslovacchia, per opera dell’assistenza sovietica, è diventato forza operante, sorgente di fiducia e di gioia: questo spirito deve risorgere fra noi per il benessere del paese, per la pace, per la collaborazione civile fra tutti i popoli del mondo». (Commenti dal centro). Onorevole Banfi, abbiamo un grosso sospetto: che il popolo italiano diffidi molto di questo spirito, come esso si è rivelato nella Cecoslovacchia. E noi non mancheremo di ricordare che voi avete esaltato lo spirito della liberazione e della resistenza, tramutatosi in dittatura in Cecoslovacchia, là dove nessuno – nemmeno i socialisti – hanno più avuto ospitalità e dove tutti gli avversari sono stati soppressi o hanno dovuto andare all’estero. Voce dalla sinistra. Che c’entra col ministro degli Esteri? de GAsperi. Qui non c’entra il ministro degli Esteri, perché non ho da parlare come ministro degli Esteri in questo momento, ma dei rapporti fra Italia e Cecoslovacchia, rapporti che sono correttissimi; ma parlo da italiano che si preoccupa che l’esempio della Cecoslovacchia non venga imitato in Italia, e parlo nei confronti di coloro che avrebbero l’aspirazione, e forse la possibilità, di fare questa transumazione che noi giudichiamo come una tragedia, come la fine della libertà e della democrazia. Finché avrò fiato ancora ed energia, fino all’ultima parola, ripeteremo questo su tutte le piazze d’Italia: no, no, no, perché non vogliamo l’oppressione di nessuno, perché vogliamo la libertà di tutti i partiti, perché vogliamo salvo il sistema democratico. (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra – Proteste dalla sinistra). Dice un interruttore che questo è un discorso da campagna elettorale sul bilancio degli esteri; ma voi sperate invano di poter far discorsi di propaganda diretta, più al di fuori che qui, ripetendo le solite menzogne, nonostante le contestazioni che vi facciamo. Voi avreste diritto mentre invece io dovrei venir qui, in nome della correttezza e dell’imparzialità, a parlarvi semplicemente come amministratore del governo. Ma io non sono solo un amministratore: io ho il mandato, come i nostri colleghi, ho il mandato dal popolo italiano di difenderlo dall’insidia e dall’agguato. E noi lo difenderemo! (Vivi applausi dal centro e dalla destra). Vi ho fatto una lunga esposizione riguardante il Patto atlantico, la sua organizzazione, la CED, e le proposte riguardanti l’esercito europeo. Non avete avuto possibilità di occuparvene. No voglio farvene un’accusa, però vi faccio accusa del fatto che voi, senza tener conto di quello che ho detto, e che è acquisito ai verbali del Senato, avete ripetuto le accuse che ho già contestato, le false versioni che non hanno fondamento, e so che questo non è che il preannuncio di quello che direte al popolo italiano. È questo che costringe me, che dovrei essere al di sopra dei partiti e delle polemiche, ad occuparmi della vostra polemica e dei vostri argomenti. Che cosa avete detto voi che si possa definire una politica positiva circa l’europeismo, la comunità europea, voi comunisti anticomunitari, voi che vedete in ogni sforzo, anche imparziale, di ricostruzione di questa Europa, una congiura contro la Russia? Ma noi vogliamo realizzare l’Europa e la vogliamo realizzare non per escludere sempre la Russia, ma per trattare, per chiarire, per fare la pace con la Russia. Questo è il nostro ideale, la nostra forza; ma prima dobbiamo avere l’accordo fra di noi, dobbiamo sapere cosa vogliamo e trovare entro noi stessi la forza di ricostruire un’Europa e di darle una vitalità ed un campo d’azione. Ora su questo sono ben disposto ad accettare tutte le critiche, tutti i dubbi e le perplessità, perché critiche ne ho fatte e molte, e dubbi e perplessità ne ho anch’io. E chi non li ha o non li avrebbe? Siamo dinanzi a una costruzione nuova, ardita, che può implicare anche degli errori. Non pretendo di arrivare a conclusioni a questo riguardo, in questo momento; ma pretenderei che la critica si rivolgesse alle strutture, alle finalità, al contenuto, e supponesse un minimo di buona volontà in coloro che le mettono assieme. Ma se voi cominciate a dire che non siamo che servi degli americani e che non facciamo altro che unirci per rafforzare la Germania e quasi ristabilirne la dittatura in Europa, allora voi non fate altro che affermare un’accusa che invano cercate di dimostrare, cianciando, tirando in ballo argomenti dai giornali e dalle riviste, utilizzando il materiale cominformista che vi viene tra le mani. D’altro canto vi ripeto quello che ho detto altre volte. Voi qui, volere o no, e siamo in grado di constatarlo, avete sostenuto la tesi totale di Potsdam e avete detto che la Germania deve essere esclusa da ogni forma militare. L’altro giorno poi è venuta la concessione russa del piccolo esercito difensivo. Scusate quel che vi ho detto l’altra volta con una citazione un po’ scherzosa: non eseguire l’ordine, aspettare il contrordine. (Ilarità). Io vi dico: badate che anche Molotov nel 1939 dichiarava che la forza della Germania è assolutamente una necessità di equilibrio in Europa. Volete che vi rilegga quelle parole? Può darsi che domani si trovi una dichiarazione consimile. Siate quindi prudenti nelle affermazioni. lussu. Noi abbiamo fatto delle critiche e lei non risponde. de GAsperi. Onorevole Lussu, lei ha ripetuto quasi letteralmente le critiche che ha fatte qui nel precedente dibattito, alle quali io ho risposto con gli argomenti che mi parevano sufficienti. Può essere che a lei non sembrino tali, ma non può dire che io eluda la discussione: io accetto la discussione. Se voi aveste osservato che non credete all’alleanza della Germania e della Francia e alla possibilità di organizzare un bilancio in comune, se foste entrati nel merito di questi problemi, io mi sarei creduto in dovere di rispondere punto per punto con argomenti in favore della tesi contraria, e avrei magari dovuto ammettere qualche vostra eccezione. Ma poiché voi sospettate il tutto e respingete il tutto sotto il pretesto che «si lavora per rafforzare la Germania», con ciò prendete un atteggiamento che inficia le nostre intenzioni, accusa e calunnia il nostro proposito, nega totalmente la nostra politica di collaborazione. (Approvazioni dal centro e dalla destra). Ho alluso prima ad una dichiarazione di Molotov. Egli, nel suo discorso alla quinta sessione straordinaria del Soviet supremo dell’URSS, dichiarava nel 1939 testualmente: «noi siamo stati sempre di questo avviso: che una Germania forte è condizione necessaria per una solida pace in Europa». 1939: sapete cos’è avvenuto da allora. Quando voi parlate – e mi riferisco al tono cattedratico e perentorio dell’onorevole Casadei, il quale parla con didascalie precise come se avesse davanti un governo di scolaretti – mi accusate e dite: il governo italiano non ha una politica; tutta la politica che fa è una politica di riflesso dell’iniziativa altrui. In parte è vero. Quando si tratta delle questioni germaniche, l’iniziativa spetta per forza alle potenze occupanti e alla Russia. È tuttora il problema dei cinque che noi non abbiamo ancora liquidato. Noi non abbiamo partecipato in piena misura alla guerra, è evidente quindi che ci troviamo in una posizione diversa. Ciò non toglie che noi veniamo informati, ed interveniamo, ed interverremo ogni qualvolta si tratta di riflessi ed interessi che riguardano l’Italia. Ma che da un certo tempo la nostra iniziativa non abbia avuto qualche valore nei consessi internazionali, non si sia fatta valere in proporzione delle nostre forze e delle nostre possibilità finanziarie, cioè delle nostre possibilità di difesa, non è vero. Se l’Italia è forte, la parola del ministro è forte: a mano a mano che l’Italia si libera è più forte e libera dalle grosse e tristi eredità della guerra, e si rinsalda all’interno con le sue riforme, è più forte la sua voce al di fuori. Forzare la voce in certe situazioni sarebbe assumere una posizione che non corrisponde alla realtà: codesta sarebbe politica vana, che si paga con delusioni amare. Ma non è vero che, quando si è trattato dei nostri diritti, di avere un vantaggio concreto in una situazione, o di mantenere o di difendere la parità dei diritti, la nostra voce non sia stata forte; e non è vero neanche che noi non abbiamo preso iniziative. Ma quando l’onorevole Sforza prese l’iniziativa dell’unione doganale, quanti sorrisi faceste voi, e quante ironie! Forse voi ci avete appoggiato? Voi avete detto subito: andate a cercare l’alleanza economica con la Francia, anche qui c’è sotto il desiderio di costituire una forza europea che possa bilanciare l’altra forza: che è la forza del vostro ideale e delle vostre ideologie. Anche qui avete sospettato e irriso alle nostre iniziative. Quante irrisioni poi per le iniziative venute dall’assemblea di Strasburgo, quando si è trattato del piano Schuman e poi del piano della difesa! E soprattutto quante irrisioni quando noi abbiamo preso coraggiosamente l’iniziativa per il Patto atlantico, soprattutto, in un primo stadio come patto di difesa, e poi come associazione e comunità a Ottawa. Fu nostra soprattutto la proposta di applicare l’articolo 2 e di interpretarlo appunto in questo senso. Ditemi un poco: cosa vi disturba in questo? Forse che noi ci arrischiamo in questa iniziativa per romperci la testa e naufragare? Potrà essere delusione del governo, sconfitta di una iniziativa, ma sempre è sforzo legittimo. E voi, partito operaio, dovreste bene ammettere, almeno, che è uno sforzo di elevazione per le classi lavoratrici italiane, uno sforzo per rimettere in circolazione il lavoro d’Italia e il genio d’Italia! (Vivi applausi dal centro e dalla destra). Io dico che la nostra unione doganale, il nostro federalismo, il nostro europeismo non sono un espediente elettorale, e nemmeno fine a se stessi, ma sono un elemento di ricostruzione in Europa, e soprattutto un elemento di ricostruzione per la pace. Non vi pare esatto questo, dopo la dichiarazione di Stalin, che ha detto che la pace è più sicura oggi che due anni fa? Che cosa è intervenuto in questi due anni, se non il rafforzamento del Patto atlantico? Ma voi da codesti banchi di sinistra ci avete predetto la guerra ogni 24 ore. Lei, senatore Lussu, ricorda quel rumore terribile dei carri armati che ci ha fatto sentire quando ha parlato delle forze russe? Ma no, io sto con Stalin e dico che il Patto atlantico ha effettivamente rafforzato la pace, e se il Patto atlantico sarà veramente forte, noi ci saremo liberati da questo timore e da questo terrore, e, da uomini liberi, da pari, tratteremo con la Russia. Rispetteremo le sue evoluzioni; riconosciamo la possibilità di vita del mondo comunista e del mondo nostro, ma vogliamo anche per questo libertà e difesa delle garanzie della libertà. (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra). mAnCini. Sono stati i partigiani della pace a fare questo. de GAsperi. Voi dite che sono i partigiani della pace quelli che hanno portato la pace. Onorevole Mancini, ringrazi Iddio che ci sono i democratici cristiani che difendono la libertà dei socialisti in Italia! (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra). tupini. Avreste fatto la fine di Clementis e di Masaryk . de GAsperi. Onorevole Mancini, è possibile che contro le 175 divisioni sovietiche mandiamo l’onorevole Nenni con la bandiera dei partigiani della pace. Lo manderemmo in mezzo alle file, quando, naturalmente, si trattasse di venire ai fatti, se ci potesse servire anche questo. Ad ogni modo, voi comprendete onorevoli colleghi, che mi dispiace essere così polemico, non ci trovo certo molto gusto. Voci dalla sinistra. Fini elettorali! de GAsperi. C’è ancora tempo! Ne vedremo delle altre! Io vengo qui con delle relazioni abbastanza concrete, positive, non c’è una riga di polemica, così mi pare o quasi. (Si ride all’estrema sinistra). Cosa avete da ridere? Nella mia esposizione scritta non c’è una riga di polemica; adesso c’è, ma voi avete svolto una condanna senza appello contro di noi, e con quella certa sicurezza che solo la dottrina marxista e solo Lenin vi danno! (Commenti). Voi conoscete la storia, voi conoscete le relazioni della storia, voi antivedete e profetizzate tutti gli avvenimenti, ma vi siete sbagliati parecchie volte e vi sbagliate ancora! Posso sbagliarmi anch’io; ma non pretendete allora che questi dibattiti si trasformino semplicemente in dibattiti accademici: è il vostro attacco che intona la mia replica e mi dispiace di non essere più giovane e non avere maggiore energia per rispondervi con forza ancora maggiore. (Applausi dal centro e dalla destra). Veniamo alle cifre che forse sono più conciliative. A proposito dell’emigrazione, vorrei dare le ultime cifre, adesso pervenutemi dall’ufficio statistica. Espatri per emigrazione transoceanica 135.096; espatri per emigrazione continentale: 63.529; totale 198.625 unità, rispetto alle 188.155 del 1950. Rimpatri da emigrazione transoceanica: 28.567; rimpatri da emigrazione continentale: 11.108; totale rimpatri: 39.675 rispetto ai 54.847 del 1950. Totale degli emigranti stabilizzati: 158.950. Certo, da questi dati, da queste constatazioni, le percentuali dei rimpatri rispetto agli espatri sono sempre significative per giudicare della bontà del collocamento all’estero, la cui mobilità nel 1951 è scesa al 19 per cento, rispetto al 29 per cento del 1950. Se il flusso migratorio netto del 1951, rispetto a quello del 1950, presenta una percentuale di aumento notevole, a questa percentuale va aggiunta l’emigrazione stagionale per la Svizzera e per la Francia, che ha raggiunto 141.289 unità. Per il flusso delle rimesse, i trasferimenti ufficiali, tramite compensazioni valutarie salgono a 69,3 milioni di dollari ed i trasferimenti non ufficiali, tramite compensazioni private, rimesse dirette, circolazione di assegni, non prepagati e risparmi importati a seguito dei rimpatrianti, oscillano sui 45 milioni di dollari; talché abbiamo quest’anno un totale di rimesse certamente superiore ai 100 milioni di dollari, rispetto ai 92 che l’Istituto centrale di statistica computava nel 1950. Questo è il quadro. Si tratta non di parole, ma di fatti. Una cosa è certa: si può e si deve desiderare una migliore organizzazione. Lo so. Il consiglio di emigrazione, che il presidente della Commissione ha auspicato, potrà portarci gran giovamento e forse si potrà arrivare ad un organo più attivo e specializzato; ma quando si consideri che oggi lo Stato si accolla sempre l’assistenza e spesso il collocamento, che al lavoratore, in alcuni casi, può essere perfino corrisposto il prezzo di passaggio, che in sede internazionale si negozia in posizione di perfetta parità fra paesi eccedenti, paesi deficitari e terzi paesi interessati; chiamare periodo aureo quello dell’emigrazione italiana del primo dopoguerra e diffamare il periodo presente, è veramente fare opera antistorica . Senza dubbio noi sappiamo che il nostro dovere principale è di cercare di dare lavoro in patria, ma sappiamo anche che il lavoro di ricerca di occupazione non può essere che lento e graduale e in questo periodo di evoluzione non possiamo negare il contributo utile dell’emigrazione. Abbiamo soltanto il dovere di presidiarla dal punto di vista umano e dal punto di vista italiano. È ciò che facciamo. Egregi senatori, dopo ciò, vi chiedo l’approvazione del bilancio. Vi chiedo non un’approvazione, direi, meccanica e formale, ma vi chiedo un’approvazione sostanziale, soprattutto per lo spirito che ci anima, per il proposito, che non si arresta, di migliorare sempre gli strumenti della nostra politica, per la volontà che ci anima tutti, dal ministro all’ultimo dipendente, a tutti gli organi dell’amministrazione, di risalire. Sì, risalire, perché non possiamo dimenticare che eravamo in basso e che ci vuole tempo per risalire e dare all’Italia la posizione che merita . (Vivissimi, prolungati applausi dal centro e dalla destra – Moltissime congratulazioni).
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Onorevoli senatori, associandomi come uomo di governo alle eloquenti parole di commemorazione unanimi pur nella loro varietà, qui pronunciate, sento di non poter dir meglio, dell’uomo di azione e di governo, di quello che scrissi e dissi all’amico. Egli fu un conservatore rurale, come egli stesso, del resto, ammise sempre, ma di quelli che in Inghilterra chiamano tories di sinistra, cioè un conservatore illuminato, progressista, e soprattutto tollerante. Ebbe le sue idee sulla riforma agraria, mosse delle obiezioni, fece valere ragioni e critiche, ma al momento decisivo all’atto della deliberazione definitiva, dichiarò che, da democratico convinto, si sarebbe arreso alle conclusioni della maggioranza. Fu di sentimenti monarchici, ma, nel momento cruciale, riconobbe che bisognava sacrificare i propri sentimenti a ciò che rappresentava l’unità della patria, perché espressione della maggioranza. Fu soprattutto leale servitore del paese, leale servitore dell’unità del paese e anche dell’unità del suo partito e spesse volte, dopo aver espresso un suo parere, bastò una mia parola, o quella di altri che rappresentavano la direzione del partito, perché egli si mettesse sull’attenti, dicendo: «la disciplina, soprattutto la disciplina», non intesa come conformismo, ma come razionale ragione di unità nel partito, nel Parlamento, nel paese. Egli fu soprattutto un gentiluomo ed un galantuomo, ed in queste parole è detto tutto. Dopo le commemorazioni echeggiate qui da varie parti, non ho altro da aggiungere se non riassumerle tutte in queste parole: ho già deposto ai piedi della salma l’omaggio del governo e l’espressione delle più vive condoglianze del governo e del paese.
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Nessuno attenderà che io risponda alle obiezioni di carattere giuridico con argomentazioni diverse da quelle che ho già usato nell’altro ramo del Parlamento; e poiché è assai molesto per gli uditori sentir ripetere le stesse cose mi limiterò ad alcune osservazioni che mi sembrano rispondere alla serietà del momento. Innegabilmente si tratta di un importantissimo atto parlamentare; ed io comprendo come tutti coloro che hanno senso di responsabilità sentano nella loro coscienza il dovere di affrontare il problema con tutta la preparazione necessaria. Qualcuno potrebbe rimproverare al governo di aver messo il Parlamento troppo rapidamente di fronte al problema stesso, ma questo qualcuno dimenticherebbe l’iter già percorso dal progetto di legge. Vi prego di ricordare che la commissione internazionale che ha studiato ed elaborato il trattato che è argomento di discussione, si è convocata il 20 giugno 1950, che ha lavorato fino al 18 aprile 1951, nel qual giorno la convenzione venne firmata, che questa commissione composta di uomini rappresentanti degli interessi di categorie e di governi, e composta soprattutto di giuristi, ha discusso tutti i problemi che sono stati dibattuti nell’altro ramo del Parlamento e qui ancora verranno, come è ovvio, dibattuti e studiati. Non c’è nessun problema di carattere giuridico ed internazionale che non sia stato affrontato, perché si trattava di grosse divergenze che nella discussione stessa dovevano trovare la loro soluzione. Quando si pensi che vi sono Stati che hanno costituzioni nuove, come è la nostra, ed altri invece che hanno ancora la Costituzione del 1830 o del 1848, completamente lontane dalle forme che possono garantire una simile convenzione internazionale, si può immaginare che i giuristi rappresentanti i vari interessi e le varie tradizioni hanno avuto la possibilità di discutere tutti gli aspetti di carattere costituzionale e i rapporti internazionali che sono alla base di ogni trattato. È vero che in questa riunione mancavano i rappresentanti dell’opposizione, nel senso dell’opposizione pregiudiziale, quale oggi è stata presentata da due oratori dell’estrema sinistra; però gli oratori dell’estrema sinistra e gli oratori dell’opposizione in genere hanno potuto, in tutti i parlamenti, esporre in parecchi dibattiti pregiudiziali o dibattiti che affrontano l’essenza del problema tutte le ragioni della loro opposizione. Direi che se c’è un problema che è stato veramente discusso nella vita internazionale europea, è proprio questo del carbone e dell’acciaio, anche perché gli interessi, che qui si vogliono descrivere come monolitici, sono viceversa contraddittori fra gli stessi rappresentanti di categorie, fra gli stessi produttori, ed inoltre gli interessi dei singoli paesi hanno dovuto avere necessariamente rappresentanti che talvolta reciprocamente si contrastavano. Quindi, il problema è stato veramente discusso, affrontato, setacciato, filtrato ed abbiamo presentato così il progetto al Parlamento l’8 agosto 1951. Al Senato il progetto è stato discusso a lungo nella Commissione, e lì i rappresentanti dell’opposizione e i rappresentanti della maggioranza hanno avuto modo di esporre tutti i loro argomenti, tanto che chi ha avuto la fortuna o la disgrazia di poterli seguire, oggi difficilmente riesce a trovare un’argomentazione nuova, sia pro sia contro. Al Senato la discussione pubblica è finalmente avvenuta nel marzo del 1952 . Dopo tre mesi il disegno di legge viene qui. Si dirà che il governo doveva insistere perché il problema venisse affrontato dalla Camera prima, con una certa serenità e tranquillità; però se i colleghi, in qualunque parte siedano, vogliono volgere il loro pensiero al calendario parlamentare, troveranno che noi abbiamo insistito, ma ci trovavamo dinanzi alla difficoltà grandissima dell’enorme attività parlamentare che ci impediva di portare il problema prima ancora che suonassero queste ultime ore. Dico questo, perché mi pare che nella discussione pregiudiziale che c’è stata ieri sera si è fatto anche cenno al fatto che noi saremmo incalzati da un termine internazionale, e quindi saremmo servi dello straniero. Ma che modo di ragionare è questo! Siamo in un mondo in cui ormai, attraverso i trattati, attraverso le convenzioni, attraverso gli organi internazionali, quasi nessun problema può essere posto esclusivamente dal nostro punto di vista: in quasi tutti i problemi dobbiamo sottostare ad una volontà più o meno determinante di carattere internazionale. È chiaro che l’onore e la dignità e l’interesse dell’Italia reclamano che si mantenga fede agli impegni che si prendono e si dia l’impressione di avere un governo e un Parlamento che tengano conto di queste necessità di collaborazione, a meno che non si voglia assolutamente arrivare all’eccesso contrario di ritenere che ciascuna ruota possa andare per conto suo, e si voglia negare l’esistenza di qualsiasi ingranaggio internazionale. Ora, si può essere nemici di questi ingranaggi: si può essere favorevoli o contrari, ed è troppo evidente. È evidente che siamo profondamente divisi su certi problemi, ed è doloroso che siamo così profondamente divisi su questioni essenziali. Però è anche giusto, è anche utile che il Parlamento, gli uomini politici, gli uomini di governo e anche tutti coloro i quali sono preoccupati delle sorti del paese, ogni tanto vengano messi di fronte ai problemi decisivi e li considerino e li meditino bene. Poiché dalla concretezza delle decisioni si può misurare la diversità delle concezioni e la consistenza della politica di unione, di distensione, alla quale facilmente si fa appello nei momenti di elezioni ed in quelli in cui si domanda di accettare la collaborazione delle classi cosiddette dei lavoratori. Che cosa volete? Potremmo veramente avere in cuore il desiderio vivissimo di accettare quell’invito che ogni tanto ci fa l’onorevole Togliatti all’unità, quando come, per esempio, questa mattina, leggiamo dei manifesti addirittura violenti contro colui che è il supremo comandante delle forze atlantiche? Di tutte le forze atlantiche, anche del nostro paese, ed in base ad una legge parlamentare, in base alla nostra Costituzione. (Vivissimi applausi al centro e a destra – Commenti all’estrema sinistra). Quale è questa unità? Quale è il paese che può cercare e trovare un’unità, quando davanti ad un fatto così semplice, ad un fatto che appartiene, fra l’altro, alle regole della cortesia internazionale, ci si trovi divisi? E che cosa mai volete parlare di evoluzione del Patto atlantico, dell’accettarne una parte, e poi di vedere di non respingere l’altra?… inVernizzi GAetAno. Non vogliamo il generale «peste»! (Proteste al centro e a destra). de GAsperi. Qui si tratta di una visita di cortesia, anzi, direi, più che di cortesia, di dovere del comandante atlantico. E voi, fondandovi su accuse dimostrate false, continuate in una campagna di calunnie, (applausi al centro e a destra – proteste all’estrema sinistra), dettate da Mosca. Vergognatevi! (Vivissimi applausi al centro e a destra – Rumori all’estrema sinistra). pACCiArdi. Non avete accettato l’inchiesta della Croce rossa internazionale!… (Rumori all’estrema sinistra). de GAsperi. Vi voglio ancora dire una cosa: una cosa veramente responsabile. Vi è una pregiudiziale che è quella di tutte le pregiudiziali: la buona fede. (Applausi al centro e a destra – Interruzioni all’estrema sinistra). Quando ci si fanno, da parte delle sinistre, proposte di transazione, di collaborazione, che dovrebbero fondarsi sopra un modus vivendi anche in problemi internazionali, io mi domando come un governo e una maggioranza che si rispettino possano discutere simili proposte, quando avvengono le agitazioni che oggi avvengono e che avviliscono il decoro e la dignità del paese. (Vivi applausi al centro e a destra – Proteste all’estrema sinistra). inVernizzi GAetAno. In Inghilterra si preoccupano di sapere la verità sulla Corea: perché non se ne preoccupa anche lei? de GAsperi. Io dico ai colleghi, all’opposizione, alla maggioranza, al paese: «si tratta degli interessi d’Italia; bisogna difenderli». (Vivi applausi al centro e a destra – Rumori all’estrema sinistra). Ma, se è lecito a un oratore, come è, di richiamarsi nientemeno, che all’autorità di Flandin – la prossima volta sarà citato De Gaulle a sostegno dell’estrema sinistra – se è lecito ricorrere a tutto, perfino alla difesa del diritto di proprietà da parte dell’estrema sinistra, (commenti all’estrema sinistra), se è lecito questo, sarà lecito a me di accettare ed accogliere il grido testè lanciato: «basta con la guerra!». Sì: «basta con la guerra!». E così intendiamo noi questo progetto: che esso serva come strumento di pace e sia un limite alla guerra: e come questo, così quello per l’esercito europeo. Basta con la guerra! Ma ci sono due guerre: c’è la guerra sanguinosa e c’è la guerra fredda. Questa guerra fredda, (indica l’estrema sinistra), la state combattendo voi. Ed io aggiungo: «basta con questa guerra fredda!». (Vivissimi, prolungati applausi al centro e a destra – Rumori all’estrema sinistra). russo perez. Sta arrivando Pinay ! AssennAto . Fascista, provocatore! lAConi. Vuol ritentare, forse, il colpo di Stato del 3 gennaio? presidente. Basta, onorevoli colleghi! Esigo che si lasci parlare il presidente del Consiglio! de GAsperi. Io prego la Camera di respingere, perché manifestamente infondata, l’eccezione di incostituzionalità. Il governo non chiede che la Camera voti senza discutere; discuta, discuta profondamente, entri nel merito. Non vogliamo altro che governare con il Parlamento e per il Parlamento, sulla base del Parlamento; ma il Parlamento governa e si regge se può veramente affrontare i problemi in tutta severità e in tutta serietà, e se le nostre assemblee hanno atmosfera di serenità sufficiente perché le discussioni possano arrivare a conclusione. inVernizzi GAetAno. Sta dando una bella prova di serenità! de GAsperi. Onorevoli deputati, votate per discutere questo trattato, votate per la vostra libertà di decisione. Sono certo che voi alla fine deciderete per questo strumento, che è strumento di pace e di lotta contro la guerra calda e contro la guerra fredda . (Vivissimi, prolungati applausi al centro e a destra).
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(Vivissimi applausi al centro e a destra). Intendo replicare con pacatezza alle affermazioni dell’onorevole Togliatti, il quale ha incominciato con delle domande che avrebbero avuto il diritto ad una risposta, ma ha terminato con un tono che questa risposta rende molto difficile. Tuttavia, prima di addentrarmi nell’argomento, poiché l’onorevole Togliatti ha mandato dai banchi del Parlamento un saluto ai pochi che hanno seguito e subito gli effetti dell’agitazione di questi giorni, e hanno o scioperato o partecipato a movimenti, io sento il bisogno, credo a nome della maggioranza, di ringraziare i moltissimi che hanno resistito, (vivi applausi al centro e a destra), ad una campagna che non è, onorevole Togliatti, una campagna fondata sul dileggio, sulla calunnia, sul vilipendio; hanno resistito, e soprattutto credo che abbiano resistito non perché conoscano in dettaglio le questioni di cui ci occupiamo, ma per il sentimento della disciplina nazionale e per il sentimento della dignità dell’Italia, (applausi al centro e a destra), la quale sta ricevendo un generale che ebbe affidato da parte delle 14 nazioni della NATO il coordinamento delle forze anche in tempo di pace, oltrechè essere designato come comandante per il caso di guerra. Questo generale ha il diritto ed il dovere di presentarsi dinanzi al governo italiano, di fronte anche al quale è responsabile. Non si tratta di un generale straniero, non si tratta quindi di servilismo all’America: si tratta di un generale che ha responsabilità diretta in nome di una legge deliberata dal Parlamento italiano. (Applausi al centro e a destra). E una seconda osservazione: abbiamo fatto molto cammino, onorevole Togliatti, negli ultimi anni. Ho qui dinanzi un numero di un giornale del 5-6 giugno 1944. Esso contiene a metà della pagina un saluto diretto alle truppe angloamericane che entravano per la liberazione di Roma. Questo saluto, scritto in italiano e, per comodità dei lettori cui era diretto, tradotto in inglese, è il saluto dell’Avanti!, il quale dice: «benvenuti! Gli applausi ed i fiori coi quali voi siete stati salutati in Roma, figli delle grandi, libere Nazioni Unite, vi hanno dimostrato, meglio di ogni parola, l’animo grato del nostro popolo. Le stelle che voi portate sulle vostre uniformi significano per noi tutti libertà, questa parola magica, questa concezione della vita e della politica che in voi è congenita e della quale noi fummo privati per venti anni». (Applausi al centro e a destra – Commenti). Il discorso continua così. Abbiamo fatto del cammino, se oggi un rappresentante non dell’esercito americano ma di tutta la collettività delle nazioni occidentali non può venire in Italia senza essere esposto ad una campagna di ingiurie e di dileggi. (Interruzione del deputato Pietro Nenni). Perché di questo si tratta. Ed è per questo che noi abbiamo preso le particolari disposizioni a cui si è riferito l’onorevole Togliatti; non perché avessimo paura della discussione, perché la discussione l’abbiamo tranquillamente accettata: ma non si trattava di discutere, si trattava di manifestare violentemente, si trattava di rendere impossibile l’esercizio di un diritto, di un dovere che aveva questo generale; si trattava, in poche parole, di un atto di sobillazione, di un atto insurrezionale, che noi non abbiamo permesso. (Applausi al centro e a destra – Proteste all’estrema sinistra). Il testo del manifesto dei partigiani è di tale stile (è inutile io lo rilegga qui: credo lo abbiate letto) da convincere che esso non era fatto per sollecitare manifestazioni di pace ma esplosioni di odio e di vendetta. Ma non basta: non si tratta semplicemente di questo testo. Una serie di manifesti, di cui ho qui le copie, di piccoli e grandi volantini sparsi in tutta Italia, dovevano montare l’opinione pubblica, creare artificiosamente questa atmosfera di odio con cui doveva scoppiare poi la manifestazione definitiva che avrebbe dovuto dimostrare che qui in Italia chi comanda è il bolscevismo, e chi domina è soltanto chi si oppone alla sicurezza della confederazione atlantica. Lo scoppio di un deposito d’armi a Milano, in via di trasferimento, nella casa di un comunista; la scoperta a Roma di un certo ordigno il cui scoppio sarebbe stato micidiale… (vive proteste all’estrema sinistra) …È così! Si è trattato di cinque attivisti, fra cui il segretario della sezione comunista, ancora latitante, colti sul fatto alle due di notte. Gli arrestati si sono dichiarati responsabili di questo preparativo. E v’è l’arresto di giovani comunisti muniti di grimaldello (proteste all’estrema sinistra), secondo le loro stesse dichiarazioni, per scassinare le porte delle terrazze donde gettare dei volantini, dei manifesti sopra i passanti… L’aggressione a carabinieri isolati, come ieri è accaduto sulla via Appia; il tentativo di catturare macchine private, come ieri è accaduto al Tritone, per lanciare contro la «celere»; il tentativo di staccare i trolley dei filobus naturalmente sono piccolezze. Ma che cosa avreste fatto se noi non avessimo mostrato di essere preparati? (Interruzioni all’estrema sinistra). Mi sono davvero meravigliato che l’onorevole Togliatti si sia occupato per esteso del comunicato, così «melenso», che è stato pubblicato alla vigilia dell’arrivo del generale Ridgway. Quel comunicato «melenso» diceva delle cose molto semplici ma chiare. Diceva in primo luogo che l’aggressione in Corea fu opera del governo bolscevico nord-coreano e che il generale Ridgway comandò le truppe internazionali intervenute a difendere la aggredita Corea del sud. Secondo: che l’accusa di aver scatenato la guerra batteriologica si è mostrata completamente falsa, tanto che i comunisti non osarono accettare l’inchiesta internazionale imparziale. (E questo è un fatto per noi e soprattutto per la storia di domani molto significativo, ai fini di giudicare quella vostra contraddizione per cui dite che gli aggressori sono aggrediti, senza che possiate naturalmente portarne la prova; voi avete infatti portato delle prove prima o delle affermazioni che riguardano eventualmente studi e laboratori, ma non il fatto che siano stati veramente lanciati questi batteri, che cioè sia stata veramente fatta questa guerra batteriologica; a questo proposito, vi leggerò dichiarazioni definitive di persone che sono state sul posto e che hanno potuto constatare la reale situazione). Terzo: che il generale Ridgway non viene in Italia come un generale straniero, ma come comandante supremo delle forze atlantiche, a ciò nominato dai governi di tutti gli Stati alleati. È in tale qualità che egli viene a presentarsi anche al governo italiano, come ha fatto e farà nei confronti di tutti i governi degli altri paesi. È dovere quindi del governo italiano di considerarlo come ospite gradito, ed è nell’interesse dell’Italia e del patto di sicurezza di riconfermare anche in tale occasione lo spirito di collaborazione che ha animato il popolo italiano quando a mezzo del Parlamento e del governo nazionale ha stretto una alleanza difensiva la quale, garantendo la sicurezza, vuole assicurare la pace. Il governo, certo che la cittadinanza non si lascerà sedurre dalla falsa propaganda bolscevica, torna però ad ammonire gli organizzatori che ogni agitazione pubblica verrà repressa e nessun disordine sarà tollerato. Mi pare che abbiamo agito secondo questo comunicato, secondo questa direttiva, che è semplice e piena di responsabilità. E senza dubbio abbiamo sentito il dovere di intervenire in modo particolare, perché agitazioni violente, che fossero sfociate in dimostrazioni di cui noi avremmo poi dovuto correggere gli effetti, avrebbero indebolito all’interno e all’esterno la posizione dell’Italia. Tornerò su questo argomento per illustrare la nostra direttiva politica, affrontandolo con il massimo senso di responsabilità e la massima franchezza. Ma, tornando indietro rapidamente alla polemica dell’onorevole Togliatti, quando egli dice che noi limitiamo i diritti del cittadino egli dice cosa non vera. Qui in Parlamento i rappresentanti di qualunque partito hanno il diritto a provocare quelle discussioni che ritengono opportune, e il governo è tenuto a rispondere. Ed è indubbiamente una prova di tale libertà il fatto che questa discussione abbia luogo, benché da parte vostra sia stata scatenata una campagna di dileggio e di ingiurie; è prova – da una parte – di forza del governo, perché sa di essere dalla parte della verità, ed è prova della forza del regime democratico che resiste a queste campagne e sa affrontare, attraverso libere e franche discussioni, gli argomenti degli avversari! Però, l’onorevole Togliatti vede nella Costituzione un principio secondo il quale ogni limitazione alla libertà sarebbe esclusa. Quindi, tutta la legislazione che regola e limita la libertà dovrebbe cadere. Ed egli è arrivato sino a rivolgerci questa accusa: «voi siete fuori dalla legge repubblicana e, perciò, legittimate l’atteggiamento negativo (voleva dire insurrezionale o rivoluzionario) di coloro che protestano o agiscono contro questa vostra condotta». È il solito tentativo di creare un alibi alle macchinazioni di parte bolscevica e alle riserve rivoluzionarie che i comunisti, naturalmente avendo sempre in vista il processo di Norimberga, sperano un giorno di mettere in pratica. Quanto a me, onorevole Togliatti, ella non mi spaventa col processo di Norimberga! Certo, io mi batterò! (Vivi applausi al centro e a destra). Durante la sua esposizione, l’onorevole Togliatti è entrato nell’argomento principe, direi: è sboccato nel problema della guerra o della pace, e ha detto che la guerra di aggressione l’Italia non la farà mai. Ma questo è ciò che diciamo noi: non la faremo mai una guerra di aggressione! (Applausi al centro e a destra). Ma vogliamo che il popolo sia difeso, vogliamo che il popolo si sappia difendere! Dopo il comunicato, che era così chiaro, con insigne malafede l’onorevole Togliatti domanda: perché è venuto il generale Ridgway? Visita ispettiva alle truppe? Non può essere. Visita alle basi americane? Non sembra lo abbia fatto. Le trattative, che si dovevano svolgere col ministro della Difesa, non possono sussistere, data la brevità del tempo degli incontri. E per la cortesia se l’è cavata citando Dante . Si tratta – dice l’onorevole Togliatti – di un emissario dell’imperialismo americano, che è venuto a vedere se il governo De Gasperi o in genere gli organi esecutivi italiani sono in regola e pronti a fare la guerra di aggressione che – naturalmente – sarebbe nel nostro programma. Voi continuate ad insistere su una calunniosa concezione del nostro operare. Potrebbe essere, potrà essere che noi sbagliamo, e questa è un’altra questione e potrà essere oggetto di discussione, ma imputarci sempre la volontà di fare la guerra aggressiva è non soltanto offendere noi, ma offendere l’onore e la dignità dell’Italia che noi rappresentiamo! (Vivi applausi al centro e a destra). Mi pare che sarebbe tempo perso entrare nella discussione circa la posizione ufficiale del generale Ridgway, entrato nella discussione sopra la questione dello statuto delle truppe italiane nella NATO, che secondo il comunicato dei partigiani della pace sarebbe applicato prima che il Parlamento lo abbia votato. Sullo statuto si è avuta una discussione ed anche una deliberazione in Commissione. Lo statuto deve venire presto in discussione all’Assemblea; non so se verrà discusso contemporaneamente al bilancio del Ministero degli Esteri, ma comunque verrà discusso prossimamente, ed avrete tutte le occasioni di opporre le vostre ragioni. Riguardo alla campagna che l’opposizione ha condotto, vorrei, ma forse perdiamo tempo, leggervi una serie di manifesti per dimostrare lo stile, la perfidia con cui voi avete preparato l’agitazione. Voi, che dite che l’opinione pubblica ed il popolo sono pronti ad agire e spontaneamente reagiscono, avete bisogno di questi stupefacenti, di questi irritanti manifesti, di queste descrizioni veramente ingiuriose per poter portare il pubblico a manifestare: ma il pubblico in gran parte non vi ha creduto! (Applausi al centro e a destra). Una voce dall’estrema sinistra. La polizia! de GAsperi. La polizia doveva, naturalmente, tenere a bada quella minoranza violenta e faziosa che sarebbe capace di agire al di là della volontà del popolo. Per questo la polizia vi è e vi sarà sempre. Ma vi dico ancora che io comprendo, fino ad un certo punto, che abbiate bisogno di dimostrare ai vostri padroni in Russia che avete fatto qualcosa. (Applausi al centro e a destra – Proteste all’estrema sinistra). Voi vi siete adontati perché sarei diventato nervoso l’altra sera, durante il dibattito sul piano Schuman, ed avrei reagito in una forma inusitata. Ma in realtà non ho reagito per quello che veniva detto nel corso della discussione; ho reagito perché avevo in mano il numero de l’Unità con quell’appello dei partigiani della pace ed ero veramente sdegnato del tono e della viltà con cui si era scritto quel documento! (Applausi al centro e a destra – Interruzioni all’estrema sinistra). miCeli . Il Parlamento non è una sede per i suoi sfoghi. de GAsperi. Abbiate pazienza, che verrò a parlare anche di questo. Riguardo alla guerra batteriologica ci troviamo di fronte a dichiarazioni formali che negano che si sia fatta la guerra batteriologica; dichiarazioni formali, le quali non sono soltanto quelle di Acheson, che naturalmente l’onorevole Togliatti, se ho ben capito, con fare ingiurioso ha messo subito da parte, accantonate come faziose; ma vi sono anche le dichiarazioni dei nostri rappresentanti, vi è la dichiarazione del direttore dell’ospedale della Croce rossa in Corea del 9 aprile 1952, una dichiarazione dettagliata di un testimone, di un uomo il quale non ha nessuna ragione di essere da una parte o dall’altra, perché sta esercitando una missione di pietà, il quale ha potuto assistere a tutte le misure che vengono prese contro l’epidemia; abbiamo delle dichiarazioni della Croce rossa. Infine abbiamo questo: che è stata proposta la Croce rossa per un’inchiesta, e voi non l’avete accettata, la Russia non l’ha accettata! (Applausi al centro e a destra). Vi è la dichiarazione fatta dai rappresentanti del governo inglese al parlamento inglese, persone di piena autorità e di responsabilità. Vi sono le dichiarazioni del ministro degli Esteri canadese Pearson. Vi sono le dichiarazioni di tutti i rappresentanti delle potenze più importanti che partecipano alla guerra in Corea. Si tratta, dunque, di una cosa che è impossibile che rimanga nascosta. Del reso, è inutile che mi perda a ripetere le dimostrazioni che sono già state fatte da tecnici per porre in evidenza l’assurdità di questa accusa, che è naturalmente fabbricata mediante fotomontaggi eseguiti appositamente. Ma, se non sbaglio, non è la prima volta che si ricorre a questi espedienti. Se non sbaglio, nel 1933 (l’onorevole Togliatti, che sa la storia russa a menadito, mi corregga), anche in Russia, a un certo momento, i contadini che ebbero a resistere a certe misure furono accusati di avere iniettato artificiosamente malattie agli animali, per cui vi è stata la ragione di trasferirli in massa in Siberia. È un metodo che mi pare si conosca bene al di là; quindi è facile che si supponga che anche al di qua facilmente si applichi. Una voce all’estrema sinistra. Lo ha letto sul Popolo d’Italia! de GAsperi. No! L’ho letto su documentazioni molto serie. Ma mi sia permesso, poi, di citare anche l’accusato principale. Prima di partire, a Ciampino, al generale Ridgway è stato, durante una conferenza stampa, chiesto dai giornalisti (immagino che fossero comunisti) che cosa vi fosse di vero in questa campagna batteriologica; se cioè la campagna batteriologica sia stata veramente iniziata e condotta avanti in Corea. Premetto che quest’uomo mi ha fatto oggi l’impressione di essere un galantuomo: senza dubbio è molto ardito, è un militare che ha fatto la sua professione. Si dovrebbe ricordarne i meriti. Quando il vostro Stalin desiderava il secondo fronte, chi lo ha iniziato è stato il generale Ridgway con i suoi paracadutisti in Normandia. (Applausi al centro e a destra). Nemmeno questo bisogna dimenticare! Bisogna pesare i meriti e i demeriti, se si vuol dare un giudizio nei riguardi di un uomo. Ebbene, quest’uomo ha fatto ai giornalisti la stessa dichiarazione che ha fatto a me. La troverete sui giornali, ma io ne voglio ricordare il contenuto: «come ex comandante in capo delle forze delle Nazioni Unite in Corea (e me ne sia testimone Iddio) vi dico che nessun elemento di quel comando ha mai usato qualsiasi forma per una guerra batteriologica e che tutte le cosiddette prove, comprese le fotografie, sono fabbricate dai nostri avversari» . Questa è una dichiarazione che merita attenzione. Comunque, è in corso, riguardo a questa polemica, una nuova procedura. Si sta proponendo anche una inchiesta internazionale che abbia il carattere dell’imparzialità. È inutile che noi ci perdiamo ora in dettagli. Io sono persuasissimo che questa inchiesta dirà la verità. D’altro canto, chi deve provare la verità sono coloro che accusano. È molto facile inscenare una campagna e poi negare la possibilità della prova. Coloro che accusano sono chiamati a portare gli argomenti probanti. Riguardo ai prigionieri devo dire che violando la convenzione internazionale sino al punto di sequestrare il generale comandante del campo e di organizzarsi in battaglioni per compiere esercitazioni con armi di fortuna e con armi procuratesi di nascosto, si è arrivati al punto di uccidere i compagni di prigionia dissenzienti. Badate bene, questa è la verità: una delle ragioni per cui non si conclude l’armistizio è questa: che i nord coreani esigono la consegna di tutti i prigionieri, anche di coloro che non vogliono tornare sotto il regime bolscevico e che sono almeno il 70 per cento. (Vivi applausi al centro e a destra). D’altro canto, onorevole Togliatti, se si tratta di misericordia per i prigionieri siamo tutti d’accordo, (interruzioni del deputato Pajetta Gian Carlo), che si restituiscano tutti i prigionieri, ma lasciate che io dica nel Parlamento italiano: restituiteci i nostri 80 mila prigionieri! (Vivissimi, prolungati applausi a sinistra, al centro e a destra – I deputati di questi settori e i membri del governo si levano in piedi – Proteste all’estrema sinistra – Commenti – Rumori). spAllone. Sciacalli! presidente. Onorevole Spallone, la richiamo all’ordine. spAllone. Chiedo la parola per giustificarmi. presidente. Alla fine della seduta gliela darò, ma il suo contegno si spiega da solo, o per lo meno spiega la mia reazione. (Scambio di apostrofi tra i deputati Spallone e Spoleti ). Onorevole Spoleti, la richiamo all’ordine. de GAsperi. Se permettete, rispondo ad alcune domande postemi esplicitamente o implicitamente dall’onorevole Togliatti. Ieri sera, l’onorevole Di Vittorio mi ha chiesto che cosa intendiamo per distensione: forse – egli ha detto – la capitolazione dell’opposizione? Francamente, onorevole Di Vittorio, mi pare che fra capitolazione dell’opposizione e il discorso di oggi dell’onorevole Togliatti ci corra parecchio. Comunque risponderò sia all’onorevole Togliatti sia all’onorevole Di Vittorio, esponendo il mio pensiero sopra le direttive politiche del governo, da uomo responsabile. nenni. Sovente non lo è… (Proteste al centro e a destra). de GAsperi. Io non ho mai stilato degli appelli in nome della pace come quelli del comitato che ella presiede, onorevole Nenni. Onorevoli colleghi, siamo dinanzi ad un problema di grave responsabilità quando parliamo delle direttive di politica interna ed estera. L’opposizione comunista e quella dei socialisti vincolati ai comunisti dice di accettare il sistema democratico, ma in realtà non riconosce né l’autorità del Parlamento né quella della legge. Voi non avete accettato la volontà del Parlamento espressasi in forma di legge, quando si è trattato della questione atlantica e di vari altri trattati internazionali. In questo modo voi non potete fare appello alla democrazia. Voi potete discutere ma non potete sobillare la gente, non potete portarla all’agitazione e non potete soprattutto portarla ad uno stato d’animo che, diciamolo francamente, e riconoscetelo anche voi francamente, potrebbe sfociare in conseguenze gravissime. Ma questi giovani, montati in questa maniera, sobillati in questo modo, in caso di necessità di difesa a chi obbediranno, a voi, o al generale Ridgway o a qualunque comandante che venisse nominato? (Proteste all’estrema sinistra). Io ripeto: devono obbedire a voi, partito, o a coloro i quali hanno il comando militare delle forze armate nazionali? E se è comando nazionale oggi, domani può essere un comando supernazionale, al quale partecipa anche l’Italia. Voi vi rifiutate di accettare questa situazione che scaturisce da una legge, e preparate l’animo dei giovani creando una situazione che un governo responsabile non può accettare e tollerare! (Applausi al centro e a destra). Uno Stato democratico deve prevenire e non deve lasciare che si arrivi all’urto. Se noi rimanessimo con le braccia incrociate finchè si arrivasse veramente all’atto di insurrezione, chi ci assolverebbe dalla responsabilità di aver mancato al nostro dovere preciso? Dovete sapere, e vi prego di prenderne atto, che finchè resto io al potere e resta il nostro governo e gli uomini di questa direttiva, noi non vi riconosciamo il diritto di preparare in Italia la rivoluzione! Non ve lo riconosciamo! (Vivi applausi al centro e a destra – Rumori all’estrema sinistra). Potete accusarmi di tutto quello che volete, ma non di malafede. Ho tutta la franchezza e corro tutto il rischio di essere franco e sento la responsabilità di questo momento, responsabilità che non è di cinque minuti perché è la responsabilità della preparazione dell’animo dei giovani per il domani. Sento questa responsabilità e faccio appello ai colleghi che hanno la responsabilità del governo, ai senatori e ai deputati, alla classe dirigente in Italia, perché si ricordino che questi momenti sono seri e non bisogna scherzare. Non bisogna essere vili, bisogna affrontare le difficoltà! (Applausi al centro e a destra). Faccio appello alla magistratura, agli organi esecutivi, ai prefetti, agli intellettuali, alla stampa, agli scrittori, a tutti coloro che possono essere elementi direttivi e chiedo loro di inculcare e di difendere i necessari sentimenti di disciplina nazionale. Libertà massima finchè è possibile, entro questo quadro, in tempi normali; ma la libertà non deve minare quelle forze a cui si deve fare appello nel momento del pericolo. Noi non possiamo ignorare e permettere che si prepari la gioventù ad atteggiamenti che il codice penale militare classifica per tradimento. Non lo possiamo e saremmo veramente ciechi se non vedessimo che questo si sta facendo, che questo si vuole fare. Ora, vi sono dei limiti anche nella tolleranza ed anche nella Costituzione. La Costituzione ci permette senza dubbio di non far truffare il senso democratico della libertà e la democrazia; permettetemi, dicevo, di dirvi che, se oggi ho un’ambizione, è di evitare tutte quelle che possono essere le riduzioni di questa libertà. Ma vi sono dei limiti, vi sono delle responsabilità politiche; non si può andare al di là, non andrò al di là. (Vivissimi applausi al centro e a destra – Commenti all’estrema sinistra). Allora, per riassumere e per rispondere anche all’onorevole Di Vittorio che mi ha chiesto se vogliamo la capitolazione, gli risponderò: no! L’opposizione ha i suoi diritti; l’opposizione continui pure a fare opera di critica, di discussione, opera di controllo, di propulsione. È nel suo diritto, è nella regola democratica. Ma l’attitudine non deve essere ingiuriosa, provocatoria, offensiva, agitatoria, al punto di venir meno, in realtà, ai princìpi stessi democratici e costituzionali. Attitudine che è spesso anticostituzionale, nello spirito e spesso anche nella forma; perché si può peccare contro la Costituzione anche nello spirito, oltre che contravvenire alle sue forme. Attitudine – badino bene i nostri avversari dell’opposizione – che è estremamente pericolosa, perché con ciò si crea uno stato psicologico che, nel caso di necessaria azione di difesa, porterebbe a rinnegare la disciplina nazionale, e quindi ad una condotta che il codice penale militare classifica come tradimento! (Interruzioni e commenti all’estrema sinistra). Quel giorno che voi, tenendo fede ai vostri ideali bolscevichi, chiederete la libertà per propagandare il comunismo, io non ho il diritto di negarvela se, come conclusione, direte: in ogni caso, quando sarà necessario, difenderemo la patria e l’indipendenza della nazione. Ma questa dichiarazione non l’avete mai fatta! (Applausi al centro e a destra – Interruzioni all’estrema sinistra). Per questo siamo preoccupati, per le ragioni interne, perché non vorremmo che certi nostri scrupoli od ottimismi non si scambino per acquiescenza o per viltà; e, quanto all’estero, non vorremmo che si creda che l’Italia è paralizzata dalla vostra opposizione. Questo sarebbe pericoloso: primo, per la sottovalutazione che potrebbero fare all’Italia gli alleati; secondo (più grave conseguenza), per l’illusione che ipotetici avversari potrebbero pensare ed immaginare e sperare che, nel caso grave, ci sarebbe chi fosse in grado di collaborare attivamente sotto il titolo e la funzione di quinta colonna!… Una voce all’estrema sinistra. Chi sono gli avversari? de GAsperi. Dunque, abbiamo un dovere, un sacrosanto dovere. Così lo sento almeno io, che vorrei evitare qualsiasi limitazione alla libertà, io che mi sento profondamente attaccato a un regime libero. Ma per difendere questo regime libero e democratico abbiamo il dovere di contenere e possibilmente eliminare i pericoli di questa vostra attività, e di dimostrare, con energia e con lo sviluppo logico della nostra politica, che l’Italia è un soggetto sicuro, leale e capace della politica internazionale. (Vivissimi, prolungati applausi al centro e a destra – I deputati di questi settori si levano in piedi – Congratulazioni).
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Onorevole presidente, onorevoli senatori, con la ratifica del Parlamento italiano – che è stata cronologicamente l’ultima fra quelle dei sei paesi – si sono realizzate le condizioni per la messa in atto della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, conosciuta sotto il nome di piano Schuman. Purtroppo i ripetuti rinvii della riunione di Parigi fra i ministri degli Esteri – dovuti particolarmente alla concomitanza delle elezioni olandesi – non hanno ancora permesso che la messa in atto avvenisse con la nomina da parte dei governi dell’Alta Autorità e dell’Alta Corte di giustizia. Parve anzi a un certo momento che di rinvio in rinvio si dovesse differire la riunione a dopo le vacanze estive: ritardo che l’Italia, più che ogni altra sollecita dei progressi della collaborazione europea, avrebbe vivamente deplorato. La settimana scorsa tuttavia e precisamente l’8 luglio, si è potuto finalmente accertare che la riunione dei sei ministri avrebbe potuto aver luogo prima delle vacanze estive, e quindi il governo ha inviato alla Presidenza delle Camere la richiesta di procedere alla nomina dei 18 rappresentanti italiani all’assemblea della comunità del carbone e dell’acciaio. Tale assemblea infatti dovrà riunirsi per disposizione statutaria un mese dopo la nomina dell’Alta Autorità e – siccome tale nomina dovrebbe avvenire nelle riunioni del 23 e 24 luglio corrente – è prevedibile che l’assemblea si raduni al termine di agosto o ai primi di settembre. Sulla base dell’articolo 21 del trattato per la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, ratificato dal Parlamento italiano, il governo chiede dunque al Senato di eleggere dal suo seno a maggioranza assoluta i 9 rappresentanti di sua spettanza all’assemblea della comunità. Inoltre a termini dell’articolo 1 del protocollo allegato al trattato per la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, anch’esso ratificato dal Parlamento italiano, il governo raccomanda alle Camere di voler scegliere di preferenza i parlamentati che già fanno parte dell’assemblea di Strasburgo. Le ragioni di tale raccomandazione sono ovvie. Per la realizzazione dell’unità politica dell’Europa, che è la meta costante dei nostri sforzi, è auspicabile concentrare in una sola istituzione gli organi di tale unità. Ora fino a quando tale obiettivo non possa essere raggiunto, appare opportuno realizzare almeno una forma di unione personale, assicurando per quanto è possibile l’identità dei componenti delle due assemblee .
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Onorevoli senatori, cercherò di essere molto breve. Naturalmente non posseggo un’armatura giuridica tale che mi consenta di lanciarmi nel torneo regolamentare. Del resto i colpi principali sono stati scambiati tra uomini così valorosi e competenti, che io non saprei aggiungere alcunché di nuovo a questo riguardo. Ma, per la serietà della questione e per l’autorità dell’interrogante, mi permetto di precisare, di fronte alla domanda, ai dubbi, alle perplessità dell’onorevole Orlando, quello di cui si tratta, per che cosa ci si impegna, il significato del voto. Evidentemente nella sostanza, cioè per riguardo all’argomento, oggettivamente abbiamo qui ratificato il trattato della comunità del carbone e dell’acciaio. Le attribuzioni e le competenze, in questo trattato sono molto chiare. Si tratta proprio di quel settore specifico a cui si è riferito l’onorevole Orlando. In realtà il voto di oggi, la delega, diremo così – non so se dico degli spropositi giuridicamente parlando, ma chiedo venia e domando che mi si corregga – riguarda l’incarico, da dare ai nove membri, di rappresentare l’Italia nell’assemblea della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. La responsabilità, direi, del Senato, di coloro che votano – parlo di responsabilità giuridica – è giuridicamente impegnata per questo e non per altre determinazioni. È escluso che questa assemblea in qualsiasi momento possa deliberare una proposta di costituzione europea e possa in qualsiasi maniera, anche moralmente, impegnare le sovranità nazionali, prima che queste sovranità nazionali e gli organi competenti possano prendere la parola e decidere nelle determinate materie. Tutto ciò è compatibile con le diffidenze dell’onorevole Orlando e con le speranze mie. Mi pare che l’onorevole Orlando diffidi e tema che si possa scivolare in una situazione che egli non vede con molta simpatia. Io invece desidero vivissimamente che ci si metta su quella strada, perché spero. Ma sulle speranze in questo momento non votiamo, ciascuno le conserva nel proprio cuore, qui parliamo soltanto di responsabilità che impegna il nostro voto. La cosa quindi mi pare abbastanza chiara. La confusione può essere venuta perché la stampa si è impadronita di quest’altra circostanza, cioè di un incarico suppletivo che si è detto i governi hanno intenzione di affidare a questa assemblea, di certo lavoro preparatorio che dovrebbe fare l’assemblea della CED (non questa si badi bene) in base all’articolo 38 che è merito, se di merito si tratta, della nostra iniziativa, articolo che tenta di inserire un elemento propulsore verso l’Unione federativa europea. Tale articolo 38 che è da alcuni temuto e da altri considerato troppo poco è l’unica molla operante che esista in forma impegnativa per i governi. I governi che hanno firmato il trattato della CED, che sarà a suo tempo discusso qui e sarà da voi ratificato o no, hanno detto tra loro di voler incaricare l’assemblea del comitato di difesa anche di questa elaborazione ed hanno fatto ciò in tal modo e con tali scadenze che l’Italia ritiene di avere introdotto una procedura che darà forza all’Italia stessa di dire: o voi vi mettete su questa strada – a quelle condizioni che troveremo naturali, che il Parlamento approverà, che saranno quelle che crederemo felicemente avviate per il nostro paese – oppure i nostri impegni che riguardano l’esercito europeo diventano condizionati. Perché, se entro un dato periodo l’assemblea non sarà in grado di preparare uno statuto da sottoporre ai rispettivi governi e ai rispettivi Parlamenti, al periodo di scadenza avremo il diritto di rimettere in discussione la formazione della struttura stessa della CED. Ecco la molla operante che costringe i governi a prendere posizione. Naturalmente i governi, e dietro loro i popoli e i Parlamenti, sono completamente liberi di prendere posizione favorevole o no, in concreto, posizioni di modifica e di accettazione. Il problema della sovranità nazionale in questo senso è fuori questione. Naturalmente il trattato del carbone e dell’acciaio investe un settore della sovranità nazionale che viene ceduto. Questo è chiaro. Domani il problema sarà più grosso, perché più importante e perché toccherà da vicino i problemi della difesa quando discuteremo della Comunità della difesa (quella che si dice CED); ma oggi non impegniamo ancora niente altro (ed è onesto dirlo). Con la riunione del 23 o 24 di questo mese, dei ministri, a Parigi, invitiamo soltanto l’assemblea che noi stiamo nominando – e che per statuto non ha questo obbligo – a trovare il modo di accelerare i lavori per poi trasferire questi lavori alla CED, se si farà, al momento della ratifica, quando comincerà ad esistere il trattato della difesa e quindi la molla operante incomincerà a lavorare sul terreno pratico dopo la ratifica del Parlamento. Se questo non vi sarà, noi (cioè tutti coloro che sono attaccati a questa idea, a questa speranza) cercheremo di influire per provvedere in modo che, anche al di fuori di questo trattato, e cioè anche se l’unione della difesa non sarà possibile, ci sia tuttavia un’altra strada aperta per arrivare alla federazione o ad una discussione sulla federazione. Il nostro intento è quindi di non perdere i vantaggi che crediamo di aver ottenuti faticosamente inserendo questa molla operante entro la solidarietà della difesa, cercando di garantirci, in ogni caso, una possibilità di ritornare sui nostri passi qualora trovassimo una resistenza assoluta in senso negativo. Comunque, tutto questo appartiene ad un programma, ad una idea, ad una speranza e, se volete, ad una direttiva. Io comprendo che possano votare a favore di questo progetto tanto coloro i quali vi vedono questa speranza quanto coloro che non vi vedono questa speranza o che, per lo meno, in via di massima non sono assolutamente contrari. Ma trovo anche logico, scusatemi, amici dell’estrema sinistra, che voi siate contrari. È logico, perché qui non si tratta di rappresentanza di opposizione o di rappresentanza della maggioranza nel senso che questa sia una maggioranza di governo e l’opposizione sia semplicemente una opposizione anti-governativa. Qui, nello schieramento che si è verificato alla Camera ed altre volte al Senato sullo stesso argomento, e che si dimostrerà anche adesso, uomini che sono contro il governo per parecchie ragioni di politica interna ed anche di politica estera, saranno favorevoli all’istituto che si sta per creare e condivideranno con noi la speranza che da questo istituto nasca qualche cosa di meglio di quello che si presenta strutturalmente in questo momento. Quindi non si tratta di opposizione o di maggioranza nel senso classico della parola, dove ci sia un certo carattere di esclusività: si tratta di una opposizione pregiudiziale, si tratta di una pregiudiziale assoluta. E quando, egregi rappresentanti della sinistra, siete venuti a dire, come avete detto l’altra volta, chiaramente, che è vostra convinzione che questo nostro tentativo del piano Schuman e della coalizione della comunità della difesa europea non siano altro che strumenti di guerra e di preparazione alla guerra; quando voi dite che è vostro dovere, secondo la vostra coscienza, di fare tutto il possibile per impedirne l’attuazione ed il funzionamento, voi siete logici quando non volete assumere responsabilità in questo… Voce dalla sinistra. Ma noi vogliamo assumerle! de GAsperi. …ma noi saremmo altamente illogici se, in qualsiasi maniera, cercassimo di favorire voi in questa opera negativa di sabotaggio. (Vivi applausi dal centro). GrisoliA . Con questo ragionamento dovreste cacciare i monarchici dal Parlamento. de GAsperi. I monarchici non c’entrano. Comunque la logica porta a questo schieramento. Deve essere vero quello che dicono i maestri del giure, che il diritto riveste nelle sue forme una certa logica morale che viene già di per sé dall’evoluzione delle cose. Ed oggi vi è uno schieramento fatale, quello voluto dall’estrema sinistra: vi è una impossibilità d’intendersi sui problemi più gravi ed essenziali, quelli che noi crediamo essenziali per la pace e lo sviluppo dell’Europa, per la salvezza della democrazia, soprattutto della libertà in Italia. È fatale che, poiché non siamo d’accordo su queste linee generali sulle quali ci potrebbero pur essere tanti ponti di passaggio, tutto questo si esprima anche nel modo di fare le leggi e nel modo di rappresentare le forze attive che contribuiscono alla ricostruzione per gli uni ed offrono per gli altri argomenti di lotta. Bisogna essere chiari: ci sono dei limiti nell’opposizione a simili cose. Quando si tratta di responsabilità fondamentali si può discutere sulla struttura, sulle competenze, ridurre le attribuzioni, trovare l’argomento accettabile o non accettabile in questo momento. Lo so, si può discutere di tutto questo, ma quando pregiudizialmente se ne fa una questione morale, fatalmente non possiamo trovare la forma della decisione. Ebbene, vi dico, amici comunisti, scusate la parola, voi non avete la fede, voi avete un’altra fede, credete in un’altra unione. Lasciateci provare la fede nell’unione dell’Europa, lasciateci fare questo tentativo che vuole essere soprattutto di pace e di collaborazione. (Vivissimi, prolungati applausi dal centro e dalla destra).
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101951-1955
Dopo il fervido lavoro compiuto, il governo riconoscente ed ammirato esprime l’augurio che i colleghi rinnovino durante le prossime vacanze le loro forze, preparandosi al grande e decisivo lavoro autunnale. L’onorevole Raffaele De Caro ha accennato ad alcuni punti interrogativi. Li ha posti ma non vi ha dato risposta. Molto meno ho diritto di farlo io, in questo momento. Vorrei riassumere tutti gli interrogativi in uno solo, che è il più grande, credo che sia la preoccupazione più profonda che si debba avere: e cioè se il Parlamento e il governo saranno in grado di difendere e consolidare il sistema parlamentare e il sistema democratico in Italia. Questo è il problema. Conoscendo e avendo sperimentato la coscienza patriottica dei deputati, la loro preoccupazione per le sorti e l’avvenire d’Italia, il loro amore per la giustizia sociale e per il nostro popolo, posso rispondere con somma fiducia. Sì. Questo compito è grave. Sarà però compiuto da tutti. (Vivi, generali, prolungati applausi).
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Informa che dall’esame eseguito con Piccioni sui lavori parlamentari è risultata la necessità di un’assidua vigilanza per stimolare il lavoro e frenare le manovre dell’opposizione . Piccioni ne assumerà la responsabilità. Informa altresì che in agosto non vi saranno riunioni consiliari: la prossima seduta sarà in settembre. Piccioni alternerà di massima le vacanze con il presidente. Tra l’altro dà notizia dell’arrivo dell’ex re Faruk a Capri. Vengono disposte le cortesie d’uso. Riferisce poi sugli sviluppi dei lavori della recente Conferenza dei ministri degli Esteri a Parigi. La Francia ha proposto di internazionalizzare la Saar per farne la sede extranazionale europea. La Germania è sospettosa di un doppio gioco. L’Italia ha indotto la Francia e la Germania ad affrontare la questione della Saar e chiarire come intendono risolverla. Schuman ha fatto presente che la Saar è terra etnicamente tedesca e non è possibile pensare che la Francia voglia conquistarla: ma bisogna risolvere il problema del carbone e ha soggiunto che tutte le convenzioni anche le più recenti sono discutibili. La Germania accenna all’estensione della zona europeizzata anche a terra oggi francese (Saarmin). Dopo le parole di Schuman, tutti i ministri tacevano. Egli ha detto parte in francese, parte in tedesco, che dopo le parole di Schuman non era lecito ignorare la questione. Adenauer ha manifestato una certa distensione. Dopo la colazione ha espresso la convinzione che si era creata la possibilità di un accordo. L’Olanda ha insistito perché l’Aja fosse scelta come sede dell’Assemblea comune. L’Italia ha proposto di rinviare la scelta della sede definitiva ad un momento successivo alle conversazioni franco-tedesche. Sono seguite le lunghe ore di discussione sulla sede provvisoria, profilandosi il rinvio di ogni decisione al 10 settembre. Egli ha proposto allora che la sede fosse provvisoriamente stabilita a Parigi. Dopo una lunga discussione è stata proposta anche Torino. Van Zeeland era favorevole alle distribuzioni dei vari organi della comunità nelle singole nazioni. L’Italia aveva ottenuto di essere rappresentata da Pilotti presso la Corte di giustizia, e allora si profilava la possibilità di attribuire all’Italia la sede dell’Assemblea comune secondo la proposta fatta da Van Zeeland; ma è prevalso il criterio della concentrazione degli organi. Dopo un intervallo si è ripresa la questione e si è fatta una nuova votazione. In via provvisoria è stata accettata come sede Lussumburgo. Il Belgio ha richiesto un proprio vice presidente dell’Alta Autorità (un secondo, che non è previsto dallo Statuto ma non è escluso). Entro il 10 agosto si riunirà a Lussemburgo l’Alta Autorità. Il nostro rappresentante Giacchero è persona idonea dato il suo spirito europeistico . L’Assemblea Comune provvisoriamente si riunirà il 10 settembre a Strasburgo. I rapporti fra Germania e Francia a proposito della Saar sono di enorme importanza per lo sviluppo della comunità del carbone e dell’acciaio. Nella conferenza stampa è stato chiesto se i buoni uffici messi dal presidente del Consiglio per la questione della Saar non possano essere invocati per analogia anche per Trieste. Ha risposto che ciò deve essere escluso perché nella Saar non vi sono contrasti per quanto riguarda la popolazione ma soltanto per ciò che concerne gli interessi economici .
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101951-1955
Il presidente del Consiglio rievoca il defunto ministro Carlo Sforza, ricordandone i servizi resi all’Italia, la fervida collaborazione all’opera del governo, sottolineando la generale partecipazione italiana e estera al cordoglio comune. Si rallegra, poi, con l’on. Scelba per la recuperata salute e il rientro al Ministero dell’Interno e nel contempo ringrazia l’on. Spataro dell’interim esercitato negli ultimi mesi. Indi, il presidente fa una relazione sulla situazione internazionale e l’attività svolta dall’Italia in questi ultimi mesi nel settore della politica estera. Primo argomento toccato è stato quello riguardante la Comunità del carbone e dell’acciaio e la sistemazione dei suoi organi. L’Italia ha avuto congrua rappresentanza tra i funzionari sinora assunti. La sistemazione dei vari organi e uffici sta procedendo con sufficiente razionalità e unitarietà. Riferisce poi sull’azione svolta per l’attuazione dell’art. 38 dello statuto della Comunità carbone-acciaio, relativo allo studio da parte dell’assemblea di una evoluzione in senso federativo, o confederale dell’Europa; e riferisce anche sul cosiddetto piano Eden per il coordinamento tra questa iniziativa e il Consiglio d’Europa. La conclusione è stata che le commissioni dell’Assemblea lavoreranno a identificare lo schema della costituzione della Comunità generale. Nel suo discorso all’Assemblea d’Europa, il presidente ha cercato di dare delle indicazioni sui possibili sviluppi. In complesso il presidente esprime la chiara fiducia che il movimento a favore dell’Europa si sviluppi continuamente con successo. In questo quadro degli incontri di Lussemburgo e di Strasburgo, si è acutizzato il problema di Trieste, la cui importanza per l’Italia è stata posta dal presidente all’attenzione del ministro Eden, nell’incontro avuto a Lussemburgo.
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Onorevoli senatori, in parecchi consessi internazionali ebbi in questi ultimi tempi l’onore di partecipare a nome del governo italiano, a solenni commemorazioni del conte Sforza. Ora qui, su questo banco, sento più viva la sua perdita, perché fu qui, accanto a me, che egli si sentì colpito più gravemente dal male, e da qui egli intervenne l’ultima volta in un pubblico dibattito. È giusto dunque che qui, se permettete, quasi a chiusa di un primo ciclo commemorativo, il ministro degli affari esteri rilevi con orgoglio la grande, commossa eco che la dipartita di Carlo Sforza ha avuto in mezzo a tutte le nazioni libere e l’unanime riconoscimento del carattere universale dell’opera di questo illustre servitore del nostro paese.
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101951-1955
Onorevoli senatori, la limitatezza delle mie forze e la ristrettezza del tempo non mi fanno trovare, in questo momento, parole adeguate per ricordare i lineamenti e l’opera di lui, nemmeno per quanto riguarda il settore della sua attività politica e di governo che pure, in questa sua figura poliedrica, fu un solo lato, e non il principale. Altri, in più specifica occasione, darà rilievo della sua opera come ministro dell’istruzione nel quinto ministero Giolitti. Io ricordo, anche perché nei fui testimone, la sua saggezza e la sua dirittura, come membro dei governi della liberazione. Uomini della nostra travagliata generazione, abbiamo visto e ammirato in lui il difensore impavido e tenace del regime libero, il rivendicatore della razionalità e della spiritualità della politica di fronte alla spregiudicatezza ed al materialismo di regimi avversi. Conseguentemente, anche negli ultimi tempi, pur interamente dedicato ai suoi studi, egli accompagnò col suo consiglio e, talvolta, con l’incoraggiamento, la nostra direttiva politica in quanto mirava alla difesa della libertà, e, pur nella differenza delle opinioni, egli ebbe parole di comprensione per la nostra «buona volontà di servire l’Italia e di proteggere le sorti pericolanti della civiltà, laica o non laica che sia». Di questa buona volontà egli ci fu luminoso esempio e maestro insigne, onde, inchinandoci dinanzi alla sua salma, invochiamo che il suo esempio di fermezza e di fierezza, che ci rinfrancò nei lunghi anni della prova, non vada perduto e che la sua chiaroveggenza politica illumini anche le nuove generazioni.
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101951-1955
Ho trovato al Ministero degli Esteri una luminosa tradizione di cui Di San Giuliano fu uno degli interpreti più celebrati. Egli fu tra l’altro uno degli autori di quell’opera di governo che portò alla liberazione della mia contrada. Mi associo, pertanto, con convinzione, alla commemorazione di questo grande figlio della Sicilia.
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101951-1955
Caro direttore, Ella mi ha chiesto le mie personali impressioni di fronte all’imminente campagna elettorale amministrativa. Se ben capisco, ai lettori di Oggi più che la cosiddetta impostazione politica, propria della terminologia dei partiti, interessa il lato psicologico ed umano di questa vicenda. Sarò franco e confesserò che la prima mia impressione è di fastidio, perché la campagna amministrativa finisce sempre col diventare una stortura. Si dovrebbe parlare di criteri amministrativi, di programmi comunali, di affari provinciali; e invece, volere o no, la polemica si svolge sulla politica nazionale e internazionale, sulla Repubblica o la Monarchia, sulla attività governativa, sulla guerra e sulla pace. E s’è dimostrato inutile il tentativo di sbarrare la via alla fiumana verbale politica, che sommerge ogni problema concreto; inutile dare rilievo al fatto che gli eletti sono chiamati ad amministrare un determinato Comune o una ben circoscritta Provincia e non a fare le leggi in Parlamento o a concludere trattati internazionali. Tant’è, bisogna rassegnarsi – per ora – a questo fatale andamento, che non è in verità di tutti i paesi, ma che in Italia è diventato ormai una tradizione difficilmente superabile. A rendere più acuto il fastidio, si aggiunge anche la consapevolezza, nata dall’esperienza, che gli avversari – parlo degli avversari più rudi e inconciliabili – non ammettono nessuna regola di fair play e ti si buttano addosso come mastini tentando di strapparti le vesti e morderti a sangue. Si dirà che anch’io, quando occorre, so difendermi con le unghie e coi denti e non risparmio gli avversari. Sarà, ma lo faccio con uno sforzo, nel quale trabocca l’amarezza di vedere che si condanna tutto e niente si riconosce; che si giunge al dileggio e alla diffamazione; e che c’è una parte così faziosa e così fanatizzata da plaudire tanto più forte quanto più grossolana è l’invettiva e più violento l’attacco. Sì, lo confesso, tutto ciò mi dà fastidio, benché l’esperienza mi abbia ormai indurito e quasi calafatato verso le frecce più velenose. Ma sotto la veste ufficiale c’è pur l’uomo, e l’uomo rimane amareggiato, avvilito, quando vede un suo simile venir meno alle leggi dell’umana probità e gentilezza. Un’altra circostanza rende queste lotte estremamente penose. Prima ancora di iniziare la partita, sappiamo che l’avversario bara e froda. Noi ci impegniamo in base a una regola del giuoco che si chiama Costituzione democratica; è supposto che questa sia anche la regola dell’avversario; ma la supposizione, diciamolo pure, è una menzogna convenzionale, che manteniamo velata, per evitare di peggio. Non vi è esempio di un regime conquistato dai bolscevichi nel quale essi abbiano lasciato vivere e circolare i loro avversari sconfitti. In nome della Costituzione reclamano a gran voce libertà, diritti e governo; ma quando vi siano arrivati eliminano ogni libertà e ogni diritto altrui in nome della loro dottrina totalitaria e delle esigenze della conquista di classe. E poi gli amici o quelli che tali dovrebbero essere! L’esperienza più curiosa l’ho fatta coi partiti cosiddetti minori. Ho tentato a più riprese di mettere assieme tutte le forze che credono nel sistema democratico e hanno volontà di difenderlo. Ogni volta che ho ripetuto i miei sforzi, pensavo al paese, all’Italia che bisognava consolidare nelle sue libere istituzioni; e poi mi lasciavo guidare da un certo senso eclettico che mi faceva desiderare che in un periodo di ricostruzione tutte le tendenze e tutte le tradizioni rispettabili contribuissero a rinnovare la struttura politico-sociale del nostro paese. Chi avrebbe potuto prevedere che un giorno mi si sarebbe mossa l’accusa di voler distruggere proprio quei partiti che chiamavo a collaborare? Eppure ci furono i soliti «furbi» che mi tacciarono di trasformismo e di corruzione politica. E si proclamò che per rifarsi alle sorgenti vitali, convenisse entrare in lotta contro il governo democratico e fargli opposizione, una opposizione misurata e calcolata, cioè qual tanto che bastasse a indebolire il governo senza però assumere la responsabilità di rovesciarlo. Si osò anche parlare di duplice totalitarismo e, mantenendosi in una presunta equidistanza, si attenuò l’avversione all’unico, reale, minaccioso totalitarismo statale del socialcomunismo. Con qual pro? Oggi pare si comprenda finalmente. Ma lo schieramento difensivo, per quello che riguarda i partiti minori, è oramai intermittente e qua e là lascia scoperti dei varchi, verso i quali l’avversario, saldamente inquadrato, muove violento e insidioso. Innanzi alla sua fanatica e granitica compattezza che esercita innegabilmente quella suggestione sulle masse, che corrisponde ad una legge fisica ed è propria di un esercito in marcia, noi ci spieghiamo in ordine sparso, raggruppandoci a seconda degli interessi di categoria o delle correnti subacquee e ci preoccupiamo soprattutto di dimostrare la nostra fiera indipendenza dal governo che abbiamo noi stessi designato, di fronte allo Stato che abbiamo costituito, nel partito che abbiamo organizzato. Questo personalismo nella tattica e nel movimento si chiama libertà e libertà legittima è veramente, ma fino ad un certo punto; al di là di questo punto, parlare di libertà è commettere abuso di qualifica. L’individualismo contiene senza dubbio fermenti di progresso e sprigiona quelle forze dinamiche che sono necessarie per la lievitazione delle idee e il lancio delle iniziative; ma ciò vale per i tempi, direi, normali; quando invece bisogna assumere posizioni di combattimento e prepararsi all’urto, allora si impone la necessità che pochi comandino e molti, tutti, obbediscano e agiscano secondo una unica parola d’ordine. Solo così si sostiene l’urto, si inchioda sulla linea di difesa la massa elettorale, e si salva il paese. Lo so, è duro concludere che la elezione, cioè la scelta finisce per diventare operazione di massa; ma è la realtà, la realtà che s’impone oggi e che un po’ forse ci siamo creata colle stesse nostre mani. D’altro canto le espressioni militari che adoperiamo hanno per fortuna solo un significato analogico. In termini di democrazia il comando vuol dire fiducia e la parola d’ordine si traduce con direttiva. Ma che fatica comprendere ed accettare questa realtà! C’è della gente che trova ridicolo l’appello unitario, che non dà alcuna importanza alla disciplina esteriore, che considera un proprio sfogo in un articolo di giornale più meritorio di un gesto di osservanza statuaria e regolamentare. E così viene meno quel senso coesivo che deriva dal dominio di una idea suprema che ci deve animare, da una necessità di azione che ci deve unire. Quante volte mi sono sorpreso nel desiderio che un regime ferreo di partito totalitario sopravvivesse a completare l’educazione civica di taluni signori che hanno sempre pronto il cosiddetto appello della loro coscienza, quando si tratta di rifiutare il loro doveroso contributo alla salvezza di tutti. Naturalmente ho sempre scacciato questo peccaminoso desiderio che si aggiornasse in tal modo la propedeutica politica, perché l’avvento del totalitarismo soffocherebbe (e questa volta per sempre) la personalità di tutti. Per quanto mi riguarda, la mia coscienza di cittadino e di cristiano è sempre in allarme e mi grida che il mio paese ha il diritto di chiedermi ogni sforzo, ogni sacrificio, che sia necessario per salvare la sua indipendenza, la sua dignità nazionale, la sua personalità storica. Tra queste esigenze, la più incalzante è quella della disciplina, che vuol dire subordinazione delle proprie preferenze, delle proprie tendenze particolari alla suprema necessità del momento. Se siamo capaci di questo sforzo tutto si salva; se mancherà questo atto di insorgenza del nostro spirito, al di sopra delle nostre divisioni, tutto sarà perduto. C’è qualcuno che dubita della fatalità di questa alternativa? Io no, ho l’esperienza di cinquant’anni di vita politica, ho misurato il pericolo da vicino e da tempo lo guardo in faccia; e se la esperienza personale non bastasse, nelle conferenze internazionali l’ho raffrontata a quella degli uomini più responsabili che governano il mondo. Tale è il destino della nostra generazione ed è viltà inutile quella di volervisi sottrarre per egoismo personale o interesse di classe. «Oggi» va difesa la libertà; «domani», garantita la libertà, ottenuta la sicurezza, discuteremo di tutto il resto. Libertà vuol dire oggi conservare, difendere, nelle sue linee essenziali, l’ordinamento politico, che protegga la dignità personale, l’integrità familiare, il sano sviluppo della nazione, la linfa vitale della sua civiltà. E queste linee essenziali non sono ormai argomento di dottrina, ma sono trasfuse in formule concrete da lunga esperienza di storica convivenza. Domani? Quando verrà questo domani? Non lo so, ma ben vedo chiaro il dovere e il compito di oggi. Ed ecco che innanzi a questo ineluttabile imperativo della storia rinasce in me la forza del combattimento; e il fastidio è superato dalla gioia di parlare al popolo e di servirlo ancora una volta richiamandolo a contrastare il male e a consolidare colle proprie mani il suo destino. Sì, i vari fastidi che più sopra mi hanno dato noia, sussistono; ma il dovere è quello di superarli, di passar sopra a tante piccole cose, di levar gli occhi all’orizzonte e di veder grande. Quanti credono fermamente nell’Italia di domani e la vogliono fondata sulla giustizia sociale e sulla consapevolezza della sua storia e della sua missione civile nel mondo, bisogna facciano appello al senso di responsabilità e di solidarietà di questa nostra generazione, perché è proprio essa, nata fra due guerre e maturata in una vigilia tormentosa, che tiene le chiavi di un’era di rinnovamento. Mi scusi, caro Direttore, se questo finale ha una certa aria di apparente retorica. Ma oso sperare che la schiettezza delle confessioni precedenti avvalli la sincerità anche di questa conclusione. E poi m’è venuta sulle labbra, perché faccia riflettere, non a me solo tocca di difendere il paese. Tutti dobbiamo servirlo e tutti siamo responsabili. E forse taluno prenderà coraggio vedendo in me come in tanti altri meglio di me che gli anni passano, ma che la speranza sempre rinverdisce quando germogli sulla terra dei padri e germini la nuova fioritura per i nostri figli.
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101951-1955
In questo modesto convito circondato dal fervore delle vostre anime giovanili, permettete che io parli a voi, non dal banco dell’alta responsabilità politica che ricopro, ma da uomo a uomo, da fratello maggiore a fratelli minori, alla luce della speranza cristiana che arde nei nostri cuori; dico speranza perché la fede è «sostanza di cose sperate» e perché è questa speranza che costituisce l’energia vitale che ci sospinge nel nostro travagliato cammino e ci caratterizza non soltanto contro gli avversari che questa speranza hanno spento o tentano di spegnere, ma anche in confronto di coloro che, a tratto a tratto, possono fare con noi lo stesso cammino, benché nutriti, consapevolmente o non, solo da ideali che si esauriscono nel ciclo umano e terreno. Dirsi cristiani nel settore dell’attività pubblica non significa avere il diritto di menar vanto di privilegi in confronto di altri, ma implica il dovere di sentirsi vincolati in modo più particolare (nelle manifestazioni della vita pubblica) da un profondo senso di fraternità civica, di moralità sociale e di giustizia verso i più deboli e i più poveri. A buon diritto il Santo Padre, nel suo messaggio deplora «il basso tono morale della vita pubblica e privata» . Orbene, noi abbiamo il dovere di accogliere in umiltà questo monito che ci viene dalla più alta Autorità Spirituale e di esaminare se ciascuno di noi abbia fatto il doveroso sforzo inteso ad elevare questo tono e particolarmente se nella nostra opera di uomini pubblici abbiamo fatto quanto era in nostro potere di fare per impedire la «sistematica intossicazione delle anime semplici» di cui ha parlato il Papa. Quando il Padre comune chiama tutti i suoi figli spirituali «sul fronte del rinnovamento totale nella vita cristiana e sulla linea della difesa dei valori morali»è certo che per quanto riguarda la nostra persona tutti siamo impegnati intimamente e totalmente; ma per quanto riguarda la nostra attività pubblica, lo sforzo ed i compiti saranno diversi a seconda della funzione che abbiamo e la responsabilità che portiamo. Ci sono, infatti, dei doveri particolari che sono inerenti al nostro stato, che spettano alla carica di cui siamo investiti o al mandato che abbiamo ricevuto. Poiché parlo a voi che volete dedicarvi alla propaganda dei nostri princìpi politici ed a ciò vi andate preparando con dotte lezioni di benemeriti insegnanti, lasciate che mi limiti a dirvi solo poche cose che provengono dalla mia esperienza. 1)Siate sempre partigiani dell’unità ed imparate a fare dei sacrifici per mantenerla. La democrazia organizza i partiti ed i parlamenti e li fonda sul criterio della maggioranza. Non si è trovato nel regime moderno che la forza del numero come elemento determinante per attuare e legittimare una deliberazione. Salvo naturalmente i princìpi fondamentali della morale che, specie per chi si dice cristiano, devono essere pregiudizialmente supposti. Chi accetta un mandato accetta implicitamente o esplicitamente questa regola; se egli vuole sottrarsi ad essa, è ovvio ed onesto che lo dica prima di accettare l’incarico. Talvolta può costare qualche umiliazione o sacrificio, ma questo è nobilitato e compensato dagli effetti dell’unità. Essere uniti vuol dire dare il senso della sicurezza democratica, della stabilità delle libere istituzioni parlamentari, della difesa compatta dei princìpi per i quali siamo stati eletti. L’allarme suscitato da certe passeggere differenze rivelatesi in seno alla rappresentanza democratica cristiana è stato esagerato, ma non si può negare che queste differenze vennero abilmente sfruttate dagli avversari, adombrando dei dubbi sulla sicurezza del mandato affidatoci dal paese nel ’48. Ma a prescindere da questo fatto contingente, è indubbio che sarebbe grave danno mostrare con i fatti che un partito che s’ispira al pensiero evangelico non trova nel suo spirito ideale quell’elemento coesivo, necessario per superare differenze, le quali, esistendo un programma politico ed economico-sociale preventivamente accettato, non possono che riguardare mezzi e metodi. Sono grato a coloro che in questi giorni danno un esempio unitario sospendendo gli organi di stampa delle cosiddette correnti interne. Ritengo che abbiamo il sacrosanto dovere di sopportarci l’un l’altro. La sopportazione è, infatti, una virtù democratica di vecchia data. Ricordate che cosa raccomanda S. Paolo ai Colossesi, che pur chiama «fratelli, come eletti di Dio, Santi ed amati?». Per loro dettò questa norma connaturata all’umana debolezza: «sopportarsi l’un l’altro». Noi non siamo nè eletti di Dio, nè Santi: nessuno, quindi, ha il diritto di meravigliarsi che vi siano fra noi dei contrasti, ma tutti avrebbero diritto di sorprendersi se anche un partito che vuole rinnovare la democrazia nello spirito cristiano non sapesse esercitare la virtù fondamentale della democrazia. 2)La seconda raccomandazione che voglio fare a voi è questa: non basta apprendere la nostra dottrina politica e sociale, entusiasmarsi per i nostri princìpi, infervorarsi con tutti gli elementi psicologici ed affettivi che rendono suggestiva la parola; bisogna anche sapersi collocare al posto giusto, nel momento storico che attraversiamo, conoscere la proporzione delle forze che ci osteggiano, o ci possono appoggiare, concentrare i nostri sforzi sul punto decisivo della lotta. Ora non v’è dubbio che il punto decisivo della lotta è la libertà politica, intesa come libertà preliminare di tutte le libertà più essenziali e fondamentali. Non siamo idolatri del sistema parlamentare e misuriamo nello spazio e nella storia tutta la relatività delle istituzioni politiche; ma dopo l’esperimento ventennale di una dittatura di partito, che ha lasciato il paese in rovina e nel sangue del popolo italiano il microbo del totalitarismo, noi siamo più che mai convinti che la questione pregiudiziale politica è quella della libertà. Certamente essa deve essere la libertà di uno Stato forte, di una democrazia autorevole e rispettata. Noi riconosciamo che non è stato fatto ancora abbastanza per renderla tale nei suoi uomini e nei suoi organismi, ma l’analisi di queste deficienze è complessa e porta ad indicare la causa principale nel fatto incontrovertibile che la democrazia italiana deve evolversi, svilupparsi e migliorarsi non solo in un periodo di incalzanti problemi economici e di complessa e minacciosa situazione internazionale, ma dovendo proteggersi dai colpi incessanti del maglio bolscevico, che la vorrebbe disgregare e frantumare. Questo supremo pericolo è riconosciuto dai più, ma piccole questioni secondarie trattengono alcuni dal partecipare alla difesa o li deviano sui binari morti; c’è inoltre chi ostinatamente vorrebbe ripetere la marcia del ’22 per ricadere negli errori che ci condussero al disastro. Non dubito che la Democrazia cristiana resterà fedele a se stessa e credo che i cattolici avranno fiducia nella sua direttiva, sia pure invocando da essa più unità, più energica consapevolezza: giacché nelle nostre circostanze il mondo religioso per poter compiere la sua auspicata opera di rinnovamento ha bisogno che nella vita civica esista uno schieramento che difenda vittoriosamente la libertà e risani e consolidi la democrazia. È vero che per quanto riguarda i partiti democratici in genere si rivelano dei sintomi scoraggianti. Sono deplorevoli. Ma non bisogna disperare dei sentimenti democratici dei cittadini i quali, se saremo uniti e fermi, risponderanno – ne sono sicuro – all’appello. I tentavi di far rinascere l’antico conflitto tra Chiesa e Stato sono destinati a fallire. Ci provvede la Costituzione che ha incorporato i Patti lateranensi, e più ancora il sereno buon senso del popolo italiano. Io non ho autorità per rivolgermi ai cattolici, come tali, costituendo essi un cerchio più vasto di quello che comprende i militanti della Democrazia cristiana, ma mi pare di poter dire a voi tutti, miei giovani amici, che questo sforzo nel settore che ci è proprio, cioè in quello politico, non contraddice ma si inserisce nel più vasto impulso di fondamentale rinnovamento auspicato dal S. Padre. Con profonda devozione comprendiamo la Sua «instantia quotidiana», come dice S. Paolo, cioè il cruccio di ogni giorno che incombe su di lui, per la cura di tutte le Chiese, alcune delle quali hanno perduto ogni libertà d’azione e soffrono persecuzioni sanguinose; e a questo triste spettacolo di tirannia sentiamo più volte il dovere di batterci fino all’estremo per garantire la libertà della fede e della Chiesa, libertà che implica «la difesa dei valori morali e l’attuazione della giustizia sociale», come il Santo Padre ci raccomanda. Questa libertà è conciliabile con le nostre più pure tradizioni risorgimentali, è necessaria per lo sviluppo dello Stato democratico verso una cristiana struttura sociale; è parte integrante della nostra Costituzione: è elemento essenziale della vitalità e della grandezza del popolo italiano.
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Ecco perché io sento una immensa soddisfazione di parlare davanti a voi, rappresentanti veri del lavoro, rappresentanti consapevoli anche di interessi specifici di classe. La classe, però, voi non volete sovrapporla alla nazione, ma la ponete al servizio della nazione. Prepariamoci da italiani e prepariamo i nostri figli e i nostri nipoti a questa larghezza di visione, ora che, nonostante le disgrazie che abbiamo avuto, siamo riusciti a liberarci da molti pesi. Questo senso di solidarietà bisogna cominciare a dimostrarlo prima entro la nostra nazione. Avete fatto molto bene ad insistere per la difesa dei vostri interessi dell’agricoltura in particolare, perché sono gli interessi di tutti, di tutto il paese, ma accanto agli interessi bisogna pensare a quello che ci unisce al di fuori dello specifico lavoro. Lo stimolo, la spinta per l’italiano di domani, dovrà scaturire dalle tradizioni dei nostri padri. Abbiamo il diritto di lavorare per poter guadagnare e poter rendere più feconda la nostra terra la quale all’infinito non può nutrire tutti e non può dare a tutti quello che pure tutti si meriterebbero. Amici miei io lo so, lo sento quello che voi volete esprimere con la parola Europa. Volete esprimere qualche cosa che è l’allargarsi del respiro,questo lasciar cadere inutili superflue frontiere, questa speranza che finalmente l’umanità trovi il modo, in un periodo e in un mondo di pace, di costruire, di ricostruire in spirito di unità. Questo è il problema! Ci sarà certamente maggior fraternità di popolo se avremo il senso noi stessi della solidarietà della famiglia umana e prima della famiglia nazionale. Amici miei guardiamo l’avvenire, non il presente d’oggi, ma l’avvenire dei nostri figli e dei nostri nipoti. La nazione voi non volete sovrapporla alle altre nazioni ma metterla a servizio della cristiana civiltà. Ecco come si sviluppa il senso della solidarietà. Quando ieri mi trovavo a parlare dinnanzi alla colonia italiana a Lisbona e vedevo i vostri visi stessi perché tutti siamo della stessa madre, di una stessa natura e di una stessa famiglia, mi ponevo innanzi il problema di questi emigranti, partiti soprattutto dai rami dell’agricoltura, che hanno portato il braccio italiano ed hanno portato la mente italiana, hanno portato la volontà di lavoro, lo spirito ricostruttivo, le capacità della nostra nazione. Ed io dico: come mai noi domani potremo restringerci alle preoccupazioni del nostro paese, o del nostro piccolo o del nostro grande paese, quando in realtà gli italiani sono in tutto il mondo ed hanno bisogno di tutto il mondo? Gli uomini e i popoli cominciano a capirlo, anche gli altri popoli hanno bisogno di noi, del nostro lavoro, delle nostre braccia. E abbiamo lavorato per questo. Perché non è vero quello che vanno raccontando, che ci riuniamo in congressi per la questione semplicemente delle armi. Sì, anche per la difesa, perché è necessaria la difesa, altrimenti le guerre ci possono distruggere tutto il lavoro che abbiamo fatto. Ma è per la ricerca di una maggiore circolazione del lavoro che noi battiamo alle porte delle altre nazioni anche di quelle ancora dure ad aprirsi. Quelle porte le hanno appena un po’ socchiuse e, se le socchiuderanno ancora, il nostro ingegno, la nostra capacità, la nostra forza italiana, saranno i primi per portare il lavoro là dove c’è bisogno di idealismo cristiano. È esso che spingerà innanzi questa nostra umanità affaticata; attingendo ad una profonda tradizione cristiana del nostro popolo l’umanità intera attinge all’acqua spirituale di cui noi stessi abbiamo bisogno e che sola ci disseta. Onde, amici miei, non lasciatevi prendere solo dai problemi vostri e nostri e se vi sentite soffocati e talvolta ci sentite in difficoltà, non disperate. Tenete ferma soprattutto l’idea fondamentale, cioè la solidarietà nazionale, la solidarietà della famiglia nazionale, intesa come fraternità.
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Egli ha cominciato con un ringraziamento che ha rivolto in modo particolare a coloro che della riforma agraria si sono occupati, in primo luogo il ministro Fanfani, successore del ministro Segni, che fu iniziatore della riforma, ai loro collaboratori e ai rappresentanti dei partiti democratici e al segretario della Democrazia cristiana, che rappresenta il partito più forte. Questo partito è la garanzia migliore che la riforma in corso sarà portata a compimento. Non c’è infatti nessuna ragione di interrompere un lavoro iniziato con tanta fortuna, né di arrestare una riforma, della quale si vedono i frutti. Tutto invece induce il governo a proseguire. È stato detto che questa riforma è una rivoluzione, è vero: è una evoluzione pacifica che si svolge in forma legale, democratica. Una rivoluzione che deve conseguire i suoi risultati senza alcuno spargimento di sangue e anche con sacrificio personale. Questa di oggi è festa del lavoro: festa per i contadini che hanno ottenuta l’assegnazione di terre celebrata anche con un pensiero ai mutilati del lavoro. È una festa che non porta con sé alcun atto di ingiustizia, nessuno spirito di ostilità di classe, nessuna ostilità preconcetta. Non è vero che il governo sia contro i proprietari terrieri. Non è vero che abbia condannato l’attività e l’inattività di alcuni. La riforma è il prodotto di una evoluzione storica: dalla proprietà estensiva si passa ineluttabilmente alla proprietà intensiva. Come membri della nazione italiana, corresponsabili tutti del progresso generale della nazione, quello che si vuole è trovare lavoro per coloro che vogliono lavorare, senza ostilità per alcuno. In questa nostra azione di costituzione della piccola proprietà contadina, c’è anche un riconoscimento per quanto è stato fatto prima. Non si può dimenticare quanto è stato fatto dai nostri avi. È la storia che ha preparato le condizioni della trasformazione e del progresso. Questa storia deve essere oggi illuminata da un senso sociale, da una ispirazione cristiana, sulla quale noi vogliamo fondare i criteri di una maggiore giustizia sociale. Non si è voluto lasciare che l’evoluzione storica della proprietà si compisse spontaneamente, perché l’aumento della popolazione, il problema della disoccupazione divengono questioni pressanti, che si pongono non soltanto in termini economici, ma in forme sociali. Si tratta cioè di un problema di carattere politico e amministrativo, di adeguamento della struttura sociale. Senza una revisione della concezione della proprietà terriera, senza l’adozione di misure perequative, tutte le forze negative si svilupperebbero, fino a sconvolgere la situazione in modo tale che la democrazia non potrebbe essere più salvata. Si è ritenuto anche doveroso di dare ai contadini non soltanto il diritto, ma anche il senso della proprietà. La riforma agraria è stata iniziata per sostanziali ragioni di giustizia. È un problema essenzialmente di perequazione. Si vogliono evitare conflitti, inasprimenti che potrebbero arrivare fino a mettere in pericolo la libertà stessa oltre che il progresso sociale. Si è pensato, si è riflettuto a lungo. Sono state ascoltate le opinioni di tecnici e il passo è stato misurato sulle possibilità finanziarie del paese: soltanto dopo di ciò è stata iniziata questa riforma, che per il governo e per la Dc rappresenta un atto di fede e di costanza, senza speculazione alcuna. Per chi ha fede nella democrazia non c’è certamente bisogno di rivoluzioni, perché il progresso si attuerà pacificamente, nella legge e nell’ordine. I problemi della famiglia, della casa, hanno spinto a questo atto: perché se si dimenticano questi due problemi, si finisce per diventare facilmente schiavi della dittatura. E c’è alla base della riforma un’altra ferma convinzione: non esiste progresso se non esiste vera libertà, non esiste possibilità di vita. Ecco la meta: famiglia e casa. Passando a parlare del sistema di attuazione della riforma, l’on. De Gasperi ha poi detto che gli enti di riforma saranno provvisori. I contadini saranno aiutati attraverso questi enti, perché non esistano rischi e perché occorre una capacità tecnica, insieme con lo spirito di sacrificio. Il vostro impegno deve essere il riconoscimento di avere assunto – mediante l’applicazione della riforma agraria – un dovere particolare verso la nazione, la quale anche in questo campo compie un grande sforzo. Voi anche dovete lavorare perché altri contadini, i vostri figli e i figli dei vostri figli trovino terra da coltivare: così facendo essi contribuiranno anche allo sviluppo dell’economia nazionale. Dopo aver accennato alla risoluzione di alcuni problemi locali, ai quali il governo si è interessato o si sta interessando, il presidente del Consiglio ha detto che il governo vorrebbe fare molto di più in tutti i campi, ma difficoltà di ogni genere, e specialmente difficoltà di ordine finanziario, impediscono talvolta la realizzazione di giuste richieste per soddisfare le quali non manca la volontà. Tutti, si capisce, chiedono qualcosa e questo deve essere per il governo uno sprone per maggiori realizzazioni nell’interesse della nazione e del popolo. Una delle principali virtù della democrazia è la pazienza, che vuol dire anche saper attendere con senso di responsabilità ai nostri doveri. L’Italia è un paese povero, ma – come ho potuto constatare anche recentemente a Lisbona – la nostra povertà è dignitosa, nobile, è povertà di lavoratori che hanno coscienza del proprio lavoro, che lavorano – come noi lavoriamo – per una maggiore giustizia sociale.
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Nella creazione della legge elettorale amministrativa, col sistema degli apparentamenti, la Dc vide il metodo più corretto e più equo di costruire una coalizione di forze atte ad impedire il passaggio delle amministrazioni al bolscevismo. L’apparentamento delle liste, infatti, permette che i risultati del voto si sommino per formare la maggioranza, senza che i singoli partiti siano obbligati a fondersi e scomparire in una lista comune, ossia nel cosiddetto «blocco». Il presente sistema elettorale, inoltre, assicura a tutte le liste associate per la formazione della maggioranza la ripartizione proporzionale del premio che, onde facilitare il funzionamento delle amministrative locali, viene attribuito alla lista o alla somma di liste che raggiunge o sorpassa il 51 per cento dei voti . Si può, quindi, affermare che questo sistema è moralmente e politicamente corretto ed equo, vantaggioso alla democrazia e in modo speciale ai partiti minori. Sventuratamente, le lunghe trattative svoltesi per trovare dei criteri comuni fra i partiti della maggioranza del 18 aprile fecero nascere, forse contro la volontà dei promotori, problemi di direttiva politica nazionale, che non sono di per sé inerenti a elezioni locali e provinciali, che per loro natura è improprio e difficile di voler sottoporre a regole rigide e valide per tutti i casi. È noto che la Dc, premessa una piattaforma comune, la quale escludeva i due estremi di sinistra e di destra, ammetteva che si procedesse fra tutti gli altri partiti secondo la tattica del caso per caso, a seconda che le forze reali dei partiti rendessero indispensabile, o consigliassero, l’apparentamento con l’uno o con l’altro o con tutti i partiti considerati democratici. E qui si manifestò una diversità di valutazione intorno al carattere democratico da riconoscersi ai partiti. La Dc sostenne che tale carattere non può essere negato a un partito per il solo fatto che si presenti in sede amministrativa come «monarchico», purché sia manifesto che esso agisca con il metodo democratico e si impegni ad operare lealmente in confronto alla Costituzione che ci regge. In base a tale valutazione e considerando che nel Mezzogiorno, in parecchi Comuni, il contributo dei monarchici sarebbe stato estremamente utile per impedire la conquista della maggioranza da parte dei socialcomunisti, la Dc sarebbe stata disposta ad apparentarsi in alcuni Comuni, oltre che con altri partiti democratici, anche con liste monarchiche , purché la lealtà verso le istituzioni fosse nel loro metodo e nell’operare dei monarchici messa fuori di discussione; e, ben s’intende, essi non apparissero collegati con le liste del Msi . Era quest’ultima una richiesta esagerata? Nessuno potrà affermare che questo ultimo partito si possa inquadrare fra i partiti che difendono il regime parlamentare democratico contro le aspirazioni totalitarie del comunismo. Anche a voler essere estremamente ottimisti e augurare una sua possibile e futura evoluzione verso la democrazia, nessuno potrà affermare che oggi tale evoluzione sia in vista, perché alcune generiche dichiarazioni, fatte per l’occasione, non possono cancellare la diffidenza che deve far nascere, in chiunque sia preoccupato per le sorti del nostro paese, la stampa neofascista con una continuata, perturbante esaltazione del passato regime, con una pericolosa apologia della sua politica interna e internazionale, con una denigrazione demolitrice del sistema parlamentare e dei princìpi direttivi della democrazia; e la recente campagna amministrativa nel Nord ha offerto ai candidati del Msi l’occasione di manifestare questi loro sentimenti. Si discute molto sull’opportunità o sull’efficacia della legge che si propone di sbarrare la via al neofascismo, rendendo applicabile e fattiva una disposizione precisa della Costituzione. Se ne dovrà ancora dopo il Senato, occupare la Camera; ma intanto nessuno vorrà almeno negare la legittimità e la doverosità di un atteggiamento che si rifiuta di assumere la corresponsabilità di presentare assieme o appoggiare le liste di tale partito. Il Pnm è di diverso parere, come risulta da un’intervista di sabato dell’armatore Lauro ? Non sappiamo se l’opinione del capo sia condivisa dal suo stesso partito, in seno al quale sussistono senza dubbio degli scrupoli per una alleanza avvallante il partito che, fra l’altro, assume l’eredità anti-monarchica della Repubblica di Salò. Ma comunque, se la Dc che pur considera superato il problema istituzionale nelle formule giurate della Costituzione, potrebbe ritenere buona tattica quella d’inserire nell’attività democratica monarchici leali, come dal canto suo ebbe a fare dal Risorgimento in qua la Monarchia nei confronti dei repubblicani, la stessa Dc non ha mai fatto un passo o detta una parola per lasciar credere che il medesimo atteggiamento possibilista sarebbe tenuto in confronto col Msi per la «contraddizion che nol consente» almeno fino a che uomini e cose non compiano una radicale evoluzione, della quale non vediamo alcun inizio . Se quindi il comandante Lauro ha deciso di vincolarsi al Msi e di esprimere tale vincolo nell’apparentamento delle liste, egli sapeva benissimo per chiara e diretta conoscenza che ciò significava rinunciare a ogni approccio con la Dc. La sua responsabilità è grave. La conseguenza può essere la perdita a favore dei socialcomunisti di parecchie posizioni: i monarchici di queste città o di queste provincie non sentiranno il disagio o lo scrupolo di tali situazioni? La Dc non poteva fare di più, né si pente di essere andata fino al limite di quello che, nell’interesse della democrazia, poteva essere tentato. Nessuna cieca intransigenza, nessun risentimento per il passato, ha ispirato il nostro contegno. L’appello che la Direzione del partito ha lanciato è rivolto a tutti i partiti democratici; essa ha desiderato inserire fra questi anche quei monarchici che non si sentissero vincolati colla estrema destra; non poteva andare oltre e in nessun momento fu dubbio ch’essa volesse e potesse andare oltre. Noi riteniamo che il tentativo era prudente e saggio. Ma, comunque si possa pensare in argomento, ora, a chiarificazione avvenuta, è venuto il momento della responsabilità. La Dc intende fare con forza e compattezza il suo dovere. Essa resta più che mai il baluardo che non bisogna indebolire né pregiudicare, perché la battaglia politica decisiva, che sarà fra mesi, esige uno strumento organizzato, una bandiera spiegata, un programma politico senza equivoci. Superate una volta le situazioni locali che portano fatalmente a locali schieramenti, la battaglia politica si concentrerà intorno ad un’alternativa sola: democrazia, o non democrazia, intendo sotto questo nome non semplicemente la forma, ma la sostanza della nostra vita nazionale, coi suoi princìpi morali, colle sue libertà spirituali, ed organiche, colle sue tradizioni nazionali e con le sue aspirazioni di giustizia sociale. In considerazione di questo scontro supremo, levino i partiti democratici il loro sguardo a tutta l’ampiezza dell’orizzonte e agiscano oggi, in maniera da preparare l’indomani, facciano anche essi nell’interesse del paese il loro dovere, come intende farlo la Dc. Ogni debolezza, ogni esitanza può diventare irreparabile diserzione.
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Signor presidente della Repubblica, Eccellenze, signori. Nel giorno medesimo in cui – cinque secoli or sono – Leonardo da Vinci vide la luce, noi siamo qui convenuti, per celebrarne la memoria, in Vinci, parvus sed non parvi nominis vicus, che gli diede i natali; sulle stesse pendici del monte Albano dove si svolse la sua prima esperienza, dove Egli prese dalla natura le sue prime lezioni, vedendo correre gli insetti fra le erbe, osservando il crescere delle piante, seguendo il volo degli uccelli, guardando gli astri volgere nel cielo. Qui il mistero della natura accese la immaginazione di Lui fanciullo. Eccitò il suo desiderio di conoscere, lo portò a decifrare l’alfabeto (come Egli disse) del mondo e perdersi nelle cose per scoprire al di là di esse le irresistibili leggi delle mutazioni che celano la loro vicenda. Qui Egli cominciò a presentire e ad apprendere spontaneamente, e per pratica elementare esperienza, alcune di quelle verità che lo studio e la sperimentazione scientifica gli confermeranno poi esatte. E quando si partirà da Vinci, non lo abbandonerà il sentimento della terra natale, il ricordo del piccolo borgo che per la gloria di Lui vince la fama delle grandi città. E sarà la ruota del mulino di Vinci che gli studiosi dei sui codici troveranno disegnata negli appunti di idraulica e sarà il ricordo del nibbio che era volato a Lui bambino e l’aveva percosso con la coda sulla bocca, che Egli richiamerà nei suoi studi sul volo degli uccelli e quando scruterà in seguito le valli e i crateri della luna, la sua curiosità scientifica si esprimerà forse con le stesse parole con cui si esprimeva la sua stupefazione sulle pendici del monte dove visse fanciullo: «la luna densa e grave, come sta, la luna?». Il desiderio di imparare con umiltà e tenacia, di penetrare le infinite ragioni delle cose «che non furono mai in esperienza» gli nacque in Vinci e non lo abbandonò più mai né a Firenze, né a Milano, né a Venezia, né a Roma, ovunque gli Egli fu, entro ed oltre i confini della patria, in Francia, ove terminò la sua vita. E come qui aveva imparato dalle cose, così, partito di qui, resterà poi sempre figliolo dell’esperienza, rifuggirà sempre dalla precettistica di quegli «speculatori che le loro ragioni non hanno confermate dalla esperienza» e le sue conoscenze amerà trarle, Lui – homo senza lettere – più dalla sperimentazione che dall’altrui parola. Il grande libro dell’Universo che è scritto da Dio, che canta le lodi del Creatore, lo convince più di quelli che nella dotta Firenze dei suoi tempi letterati e filosofi scrivevano derivando dagli antichi. E poiché il libro dell’Universo «è scritto in lingua matematica e i caratteri sono triangolo, cerchi ed altre figure geometriche, senza quali mezzi è impossibile intendere umanamente parola», così Egli indica la necessità tutta moderna di ordinare il sapere asserendo che «non si ha scienza vera se non si passa per le matematiche dimostrazioni». Anticipava i tempi e precorreva Galileo , ma indicava anche il valore del sapere scientifico come virtù, in un’epoca in cui la brama di potere e di ricchezza e l’orgoglio di durare nella memoria degli uomini teneva l’animo dei principi e dei condottieri, suggestionando quello dei letterati e degli artisti. «Quanti imperatori e quanti principi sono passati che non ne resta alcuna memoria! E solo cercarono gli stati e ricchezze per lassare fama di loro. Non vedi tu che il tesoro per sé non lauda il suo cumulatore dopo la sua vita, come fa la scienza?». E la scienza la troviamo ancora, come esigenza fondamentale del suo spirito, alla base della sua stessa sorte; per quanto poi la scienza del pittore abbia per Leonardo quasi una «deità» che «si trasmuta in una similitudine di mente divina», la quale a Lui concesse di sollevare il suo spirito verso l’infinito, in opere dove la naturale religiosità dell’animo si manifestò nella espressione formale della più ammirata ed indiscussa bellezza; dall’Annunciazione all’Adorazione dei magi, alla Vergine delle Rocce, al Cenacolo, dalle Grazie del Cartone di Sant’Anna al San Giovanni Battista. Queste opere, che sono espressione dell’inesprimibile, mostrano come si dia nell’arte – per adoperare le recenti parole del Sommo Pontefice agli italiani – l’ esclusivamente «umano», l’esclusivamente «naturale», o «immanente». Del resto «La Pietà» di Leonardo non ha nulla della paganeggiante pietà degli umanisti che Egli teneva a vile. «Io t’ubbidisco, Signore, per l’amore che ragionevolmente portare ti debbo». E quando quel Dio che «sa abbreviare e prolungare la vita degli uomini», lo chiama a sé, egli si muove «ben disposto e con tutti gli ordini della Santa madre Chiesa», come scrisse alla famiglia il Melzi , che lo vide morire. Coloro che [ne] hanno fatto un razionalista avanti lettera, hanno contraffatto il suo pensiero alla stregua di quelli che lo hanno esaltato preconizzatore del positivismo. La ricchezza della sua anima è tale e così diversamente si è manifestata, da non potersi limitare a considerarlo in un suo scritto, in un suo appunto, in un suo pensiero o in una sua nota, ma da doverlo considerare in tutta la sua espansione. Quel che tocca l’aspetto razionalista o positivista della sua intelligenza non attinge gli altri piani e non sfiora le qualità e le certezze di cui si nutre la sua vita spirituale. Ma non siamo qui per disputare, sì bene per ammirare ed imparare. Questo scienziato, in cui si ritrova di tanto in tanto il moralista che ha parole aspre di condanna contro chi opera il male, che considera l’uomo immorale «assai meno che bestia», ha poi sempre presente l’uomo e le sue esigenze, nelle proprie indagini scientifiche, essendo la scienza per Lui (prima che per Bacone ) il modo di vincere operando sulle forze della natura per porle a servizio dell’uomo per il suo maggiore benessere, per la sua maggiore potenza. Lo zibaldone dei manoscritti di Leonardo mostra come egli sia penetrato in tutte le regioni dello scibile e come il bisogno di allargare il campo della conoscenza, di dare una risposta a tutti i problemi che si affacciavano alla sua mente, lo assillasse: ma mostra anche come Egli fosse sempre sollecito dei benefici e dei vantaggi che le conoscenze scientifiche recano all’uomo, a cominciare dall’aumento delle possibilità di lavoro che ne derivano. Così accanto al geografo e al topografo che traccerà ammirevolmente itinerari, rilievi, carte corografiche e piante di città, noi troviamo l’ingegnere militare e civile che progetta opere di difesa, opere idrauliche per la bonifica dei terreni paludosi ed escogita i mezzi meccanici idonei alla escavazione dei canali e alla rimozione della terra: accanto al matematico e al fisico, l’inventore di macchine utensili, accanto allo studioso di botanica e di geologia il precorritore del volo strumentale e della navigazione sottomarina; accanto all’iniziatore della moderna biologia, l’architetto che progetta la città nuova, regolata dall’igiene, dalla pubblica economia e dalla politica. Ed ecco che considerando il vario campo delle esperienze e degli studi di Leonardo, il vasto orizzonte delle sue idee rinnovatrici e delle sue preoccupazioni sociali e l’alternarsi del suo inquieto spirito del fervore della ricerca meccanica con lo sforzo creativo della bellezza artistica, Egli ci appare sulle vette della storia come un rappresentante universale di quella civiltà italiana che oggi ancora costituisce nella sostanza quel patrimonio individuale e nazionale che nell’evoluzione dei tempi le presenti e le future generazioni dovranno affinare, sviluppare e integrare sia col progresso tecnico che Egli intuiva, sia col fondere in una più perfetta armonia gli ideali del lavoro, della bellezza e della esperienza scientifica; armonia che Egli [in] parte attuava in sé stesso, ma più ancora presentiva come sintesi vitale dell’umana convivenza. Civiltà italiana sì, ma non chiusa entro l’orgoglio di anguste frontiere, tanto che, progettando il Canale di Romorantin, per unire la Loira con la Saona, pensava a facilitare le comunicazioni tra l’Italia e la Francia. «M’è grato pensare – disse un giorno Poincaré – che il figlio illustre della piccola Vinci ritiratosi in terra di Francia, abbia concepito nell’ultima ora nella sua vita questo generoso pensiero di concordia e di unione». E a me torna gradito nella memoria questo pensiero di un uomo che fu capo della nazione francese, oggi che abbiamo avviato e stiamo realizzando tra i due popoli ed altri popoli una politica di operosa concordia e di unione che Leonardo, uomo di civiltà europea, avrebbe avuto cara. E civiltà pacifica sovra tutto perché Leonardo è quando occorre anche valido ingegnere militare che sa apprestare le difese necessarie. Egli si preoccupava tuttavia di non divulgare certe sue esperienze sulla navigazione subacquea per tema che «le male nature degli omini» non avessero a servirsene per gli «assassinamenti». Civiltà infine che deve essere fondata su princìpi morali. Quest’uomo in cui Dio volle stampare una più vasta orma del suo spirito creatore ebbe accanto ad una altissima concezione dell’arte e al genio precorritore dello scienziato una dirittura morale che gli dettava questa norma d’azione: «chi non può che vuol, quel che può voglia: vogli sempre poter quel che tu debbi». La volontà di bene, la generosità e la dolcezza dell’animo, la misura e l’equilibrio nelle più smisurate imprese, l’aderenza alla realtà e al tempo stesso il potere di trasferire gli atti della vita e la visione delle cose su di un piano ideale, completano la sua figura rappresentativa di questa nostra civiltà. Cinquecento anni sono passati dal giorno in cui Egli nacque e questa è ancora sempre la civiltà, sulla cui base si muove il nostro destino. Tale consapevolezza ha fatto osare a me, non artista, non scienziato, non uomo di competenza specifica, di pronunziare queste parole di celebrazione in presenza del capo dello Stato e dei rappresentanti dei paesi amici; onde una voce comune che viene dal popolo e del popolo italiano ha in questo momento funzioni di interprete, possa riaffermare in confronto di scettici avversari: ecco, questa e non altra è la civiltà che abbiamo ereditato dai padri, questo, fratelli stranieri, il contributo che ancora sappiamo offrire al progresso del mondo; e questa, o italiani, è la civiltà che nel nostro spirito e nelle nostre libere istituzioni bisogna sviluppare; questa è la civiltà che è necessario difendere.
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Il vostro riuscitissimo Convegno mi conferma nell’ottimismo che nonostante tutto ho sempre mantenuto e mantengo: i pessimisti hanno torto e avranno torto. La vostra presenza, rappresentanti dei Comuni italiani, mi ricorda che la Democrazia cristiana e gli altri partiti democratici, nelle ultime elezioni amministrative, hanno strappato ai socialcomunisti 714 Comuni tra cui 16 capoluoghi di provincia; che nelle passate elezioni provinciali la Democrazia cristiana, da sola, ha ottenuto più voti di tutto lo schieramento di sinistra, nonostante si sia presentata in 164 collegi in meno rispetto ai socialcomunisti, cioè 5 milioni e 839 contro 5 milioni e 569, mentre le destre ne hanno ottenuti 862 mila . Per noi democratici cristiani ragione di eventuale diminuzione di voti è la scarsa frequenza alle urne: noi perdiamo quando gli elettori stanno a casa, vinciamo quando si recano a votare. Questa volta nella lotta si inserisce anche un elemento di confusione, si inserisce la complessità delle liste, il fatto che non si tratta di problemi politici impostati come tesi generale, che l’alternativa politica non è impostata chiaramente, che le situazioni locali sono influenzate da fatti contingenti. Questo può spiegare l’indecisione di qualche elettore. Il fatto saliente di questa campagna elettorale è però rappresentato dal mimetismo comunista: il comunismo si presenta sotto la maschera della rinascita del Mezzogiorno. A Roma Nenni e Togliatti si nascondono dietro la schiena di Nitti . Mi spiace per Nitti, che forse agisce in buona fede, ma egli dovrebbe ricordare Benes, suo amico e presidente della Repubblica cecoslovacca, uomo di sinistra, pieno di fede nella democrazia, incline per temperamento alla bontà e alle soluzioni concilianti; fu di queste sue virtù, e del suo cattivo stato di salute, che i comunisti nel 1948 si valsero per attuare il loro colpo di Stato. Ricordi Nitti e non se l’abbia a male se tentiamo di sbarrargli il cammino: non si tratta, in questo caso, della sua persona, si tratta del paese, si tratta della salvezza dell’Italia. L’on. De Gasperi ha proseguito ricordando, a quanti non si rendono conto della tattica trasformista dei comunisti, quello che ebbe a dire, in un suo discorso, Dimitrov , che è tra i massimi teorici bolscevichi: «ci si rimprovera talvolta – diceva Dimitrov – di deviare dai nostri princìpi comunisti. Quale bestialità e quale accecamento! Noi non saremmo rivoluzionari marxisti, leninisti, né discepoli di Marx, Engels, Lenin, Stalin, se non sapessimo interamente modificare la nostra tattica e la nostra azione in conformità con la sua congiuntura del momento. Ma le svolte e i serpeggiamenti della nostra tattica hanno un unico scopo: la rivoluzione mondiale. Voi vi ricordate dell’antica leggenda del cavallo di Troia. L’esercito attaccante non riportò la vittoria fino a quando, con l’aiuto del famoso cavallo di Troia, non potè penetrare dentro la città, nel cuore stesso del nemico». E Nenni non ha meditato le parole scritte da Togliatti su Rinascita del novembre ’51, in un articolo che è una vera apologia della dittatura? «È comprensibile e giusto – scriveva Togliatti – che in questa Società nuova (la comunista) l’esistenza di diversi partiti scompaia e i cittadini più avanzati si raccolgano in una sola organizzazione politica alla quale è affidato il compito di educare tutta l’umanità nella pratica e nello spirito del socialismo» . Questo deve meditare Nenni, che oggi serve Togliatti, portandogli le munizioni contro i democratici, sperando tuttavia in cuor suo che i democratici esistano finchè venga il giorno in cui egli potrà vantarsi di avere salvato la democrazia. La confusione diventa grave quando problemi politici si sovrappongono ai problemi amministrativi. Io rispetto i sentimenti monarchici, ma in queste elezioni si tratta di scegliere il sindaco, non il Re! Se mi sentissi monarchico mi riserverei di decidere quando si tratta della forma dello Stato, non allorché, come oggi, sono in gioco problemi amministrativi. E tutto questo genera confusione, come altra confusione è causata dalle cosiddette «forze nazionali»: sono dunque esse una terza forza pur escludendo in realtà la maggioranza della nazione? L’on. De Gasperi a questo punto ha ricordato [un discorso] di De Marsanich , nel quale si diceva che le giovani generazioni erano «annoiate e umiliate dall’alternativa tra il circolo parrocchiale e la cellula comunista». Tuttavia essi si proclamano cattolici, anzi, pretendono di rappresentare i cattolici. Del resto, le forze prevalenti del Movimento sociale sono per la riabilitazione della Repubblica di Salò, contro la Monarchia: ed ora costoro sarebbero i monarchici «nazionali» mentre i volontari del Nord che combatterono per tenere fede al legittimo governo del Re sarebbero gli antinazionali? Comunque oggi le elezioni non riflettono il potere politico, del Parlamento, del governo: il Parlamento resterà ancora per un anno e di fronte alla sua maggioranza il governo resta responsabile. Si tratta di votare per le amministrazioni locali. Certo non intendiamo abdicare ai valori politici fondamentali nelle prossime «amministrative» e a suo tempo tutta la nazione sarà chiamata con alternative politiche chiare e precise e dovrà decidere con pieno senso di responsabilità e con piena conoscenza di causa. E noi crediamo che il Parlamento abbia ancora un compito grave da assolvere; garantire la democrazia e la Costituzione da ogni attacco sovversivo e da ogni rivolgimento di regime e proteggere la democrazia contro la tattica ingannatrice del comunismo camuffato. Ed è certo doloroso che il Senato non sia giunto all’approvazione degli articoli del Codice penale riguardanti il sabotaggio, l’occupazione delle fabbriche e delle terre. Ma il rinvio non vuol dire che la questione sia superata: presenteremo una legge più ampia, che con effetto polivalente difenda la democrazia contro gli attacchi, da qualunque parte provengano e ci protegga contro nuove o rinnovate dittature! È nostro vivissimo desiderio che le Camere ci aiutino in quest’opera lavorando con estrema energia; basta in Italia con i colpi di Stato, con la violenza, con le rivoluzioni, con l’odio, il popolo italiano vuole progresso, riforme, pacificazione, sicurezza, ma non vuole né odio, né guerre tra i popoli. Ad ogni modo, questa esperienza elettorale amministrativa deve valere come preparazione per le elezioni politiche; ed in primo luogo deve insegnare la necessità di essere uniti. Deve essere superato quel senso di debolezza che può, ad esempio, derivare da una critica troppo accesa ed in particolare i dirigenti della Democrazia cristiana hanno il dovere di agire in questo senso, perché il popolo italiano deve essere sicuro che questo bastione della sua libertà non crolla e che resterà sempre compatto al di là di ogni battaglia. Occorre che intorno a noi vi siano fiducia e senso di responsabilità di fronte ai destini del paese. Sbarrare il passo al comunismo vuol dire garantire la pace e la libertà, opporsi all’esaltazione della restaurazione del passato vuol dire cercare la pacificazione e l’unione con tutti quanti sentono sinceramente e democraticamente la patria. C’è chi dice che non siamo stati capaci di debellare il comunismo; ma noi abbiamo respinto i comunisti dalle posizioni politiche che durante la guerra avevano conquistato e abbiamo diminuito le loro posizioni sindacali. I comunisti, che hanno come unico scopo della loro azione la rivoluzione mondiale, non possono vivere in una eterna attesa. È questione di energia da parte nostra; se saremo forti e tenaci, un giorno essi crolleranno, perché coloro che hanno sperato nella loro vittoria, magari con il concorso diretto della Russia, attraverso una guerra resa sempre più rischiosa dalla forza del Patto atlantico, non hanno oggi che una sola speranza che la Democrazia cristiana venga meno al suo compito. Per questo ogni voto contro la Democrazia cristiana vuol dire aumento delle possibilità comuniste: contro questa verità non c’è sofisma che tenga. L’on. De Gasperi ha quindi negato che esista un’analogia tra la situazione dell’immediato dopoguerra, malgrado le affermazioni dei neo-fascisti: in quel periodo l’alternativa era tra l’ordine e il caos; ma oggi, in Italia, c’è un governo efficiente, un governo che lavora e nessuno può impunemente vilipendere i segni del valore, come accadeva nel ’21. Il confronto con l’altro dopoguerra è dunque frutto della speculazione di alcuni nostalgici che sognano la restaurazione di un regime che portò l’Italia alla rovina. Noi non possiamo seguirli su questa strada, noi non abbiamo odio per nessuno, non siamo animati da sentimenti di vendetta, siamo per la pacificazione più larga e lo dimostrano, tra l’altro, i provvedimenti che abbiamo adottato a favore dei combattenti della Repubblica sociale e degli appartenenti all’ex milizia. Ma la pacificazione non può voler dire la riabilitazione di un metodo che è stato funesto per il nostro paese! Questa è la concezione che additammo agli elettori il 18 aprile; questa la strada sulla quale intendiamo proseguire. Siamo sicuri che il comunismo in Italia non potrà mai arrivare al potere per via democratica, perché si trova di fronte a un governo – espressione di forze democratiche che si battono con tenacia per l’elevazione del popolo – che provvede a soddisfare legittime esigenze sociali, un governo che con le sue realizzazioni ha portato il paese alla rinascita! Il presidente del Consiglio ha ricordato quindi il pieno e leale riconoscimento dei risultati ottenuti dalla politica economica del governo, contenuto in un articolo di Alberto De Stefani , il quale osservava, a proposito della relazione finanziaria del ministro Pella al Parlamento che «essa costituisce un solido contributo, forse il più solido di tutti, alla difesa di una realtà politica nella quale è impegnato sia pure sotto varie particolari e non essenziali bandiere, tutto il popolo italiano. Quali sarebbero i risultati delle prossime e delle future elezioni se la pubblica finanza non avesse stabili fondamenta e se fossero prevalsi i tentativi proposti di una diversa finanza che avrebbe certamente compromesso la stabilità della lira, la consistenza del risparmio monetario, la capacità di acquisto delle remunerazioni? Ecco perché oggi, nella dura e decisiva battaglia pro e contro la libertà del popolo, possiamo renderci conto e sentire quanto la sicurezza finanziaria aiuti e rafforzi». Ed è certo strano che, ad esempio, Achille Lauro rivolga al governo l’accusa di «spendere moneta falsa» quando parla della ricostruzione del paese, lui, uomo di traffici, che ha svolto e sviluppato i propri commerci proprio grazie alla tranquillità e al progresso economico che l’opera del governo ha reso possibile nel paese… Ma dunque il governo democratico, che ha assunto l’eredità della guerra e della disfatta, che si è assunto l’immane onere della ricostruzione, dovrebbe ancora rispondere di non aver fatto di più? E a chi? A coloro che ancora oggi plaudono alla politica che ha condotto il paese a questo disastro? Ma il governo può essere orgoglioso di quanto ha fatto in questi anni per tutte le regioni d’Italia. Si è fatto in pochi anni ciò che molti autorevoli ed esperti in economia prevedevano che si potesse compiere almeno in venticinque anni. Il presidente del Consiglio ha riepilogato i gravissimi danni causati dalla guerra in Italia, che si possono così compendiare: nell’edilizia privata si sono avuti 3.011.100 tra vani distrutti e gravemente danneggiati; 3 milioni 788.900 vani lievemente danneggiati; nell’edilizia pubblica 14.030 vani distrutti e 176.150 vani danneggiati; 1.414 ponti distrutti o danneggiati oltre a 27.333 km di viabilità minore danneggiati e 11.000 ponti e ponticelli distrutti o danneggiati. Si aggiungano 27.980 km di linee elettriche danneggiate o distrutte, 910 acquedotti, 726 fognature, 604 ospedali, 1.124 cimiteri e 9.460 km di bonifiche distrutti parzialmente o totalmente. Questo, a grandi linee, il quadro pauroso lasciatoci dalla guerra e dal fascismo. E non contiamo i morti, i feriti, i mutilati, i dispersi, i lutti e le miserie. Nel 1951 è stato, in agricoltura, superato l’indice di produzione del 1938, il valore lordo della produzione è passato nel 1949 a 1.990 miliardi e nel 1951 a 2.520 miliardi. Gli investimenti in agricoltura hanno superato nel 1951 i duecentosessantacinque miliardi dai 180 miliardi del 1950. Per quanto riguarda l’industria, un esame dettagliato dei numeri indici della produzione porta a risultati soddisfacenti: l’indice complessivo dal 1950, che si calcolava a 119 è passato nel 1951 a 136. Per quanto concerne la riforma agraria, riforma che riguarda particolarmente l’Italia meridionale e centrale, fatta eccezione per il Delta Padano, sono stati pubblicati ormai piani di esproprio per un totale di 666 mila ettari: di questi ne sono stati già assegnati 52.827 a undicimila 993 unità contadine. Nel settore della bonifica, 73 miliardi di spesa sono stati autorizzati a tutto il 1951 per l’Italia meridionale; 3.334 ettari di terreno sono stato acquistati dalla Cassa per la formazione della piccola proprietà contadina. Quanto alla ricostruzione edilizia l’on. De Gasperi ha detto che i vani dichiarati abitabili per tutti i Comuni nel 1951 si possono valutare a circa 600 mila con aumento di oltre 30% nei confronti del 1950. Nei Comuni con oltre ventimila abitanti le costruzioni sono state doppie rispetto a quelle del 1938. L’INA-Casa ha approvato stanziamenti per costruzioni edilizie per un totale di 185 miliardi che corrispondono a 99.439 alloggi, comprendenti 499.138 vani. Inoltre, sono stati appaltati lavori per altri 75 mila alloggi per un importo di 147 miliardi. Quarantamila alloggi sono stati ultimati e 22 mila già assegnati. I dati sui salari chiaramente indicano un aumento del potere di acquisto delle retribuzioni dei lavoratori. In particolare, il consumo di carne nei Comuni con oltre cinquemila abitanti è aumentato da 12,50 kg a testa nel 1948 a 14,08 nel 1949 e così il consumo dello zucchero è passato da 8 kg a 11,50 nel 1950. Aumentate sono le spese pro-capite per i pubblici spettacoli, per il consumo del gas, per il consumo di energia elettrica come pure è aumentato il numero complessivo delle utenze per l’applicazione di elettrodomestici. Gli abbonati alla radio sono passati da 978.392 nel 1938 a 3.135.195 nel 1950. Gli abbonati ai telefoni, che nel 1938 erano 452.889 sono saliti a un milione 035.937; i Comuni allacciati con centralino telefonico sono saliti da 5.378 a 8.811. Dal 1947 ad oggi il servizio telefonico è stato installato in 844 Comuni dell’Italia meridionale, entro l’anno altri 516 Comuni del Mezzogiorno avranno il telefono, mentre in 135 Comuni è stato impiantato un ufficio postale telefonico. Le scuole popolari istituite per la prima volta nel 1947 ad iniziativa dell’on. Gonella sono frequentate da 350.000 allievi adulti. Nel 1951-52 risultano aperti 16.411 corsi popolari. Si accusa il governo e la Democrazia cristiana di essere «clericali», oscurantisti: ma anche per questa accusa parlano le cifre. Nel 1938 in Italia vi erano 177.750 classi elementari, oggi, per la valida opera svolta in questo settore dall’on. Gonella, ve ne sono 223.102 e in particolare nel Mezzogiorno sono quasi raddoppiate. Quale consistenza hanno dunque tali accuse: come ci si può rimproverare di voler negare la cultura, di voler tenere il popolo italiano nell’ignoranza? Al contrario, noi lavoriamo perché la cultura si diffonda, perché questo è il nostro dovere: non siamo noi, ma i comunisti a dover contare sull’ignoranza del popolo, perché noi sappiamo bene come proprio le zone lasciate nell’oscurantismo siano più facile preda dell’ideologia comunista. È ora, dunque, di non essere troppo modesti: se, infatti, c’è una differenza tra noi e la propaganda dei governi totalitari, è che noi sbandieriamo i risultati del nostro lavoro. Ma perché oggi le nostre realizzazioni sono contestate e negate, io voglio affermare che in 80 anni di unità nazionale il Mezzogiorno non è stato mai come oggi al centro dello sforzo di rinascita nazionale! Con legittima fierezza possiamo contestare che nessun governo e nessun regime hanno mai dedicato alle provincie meridionali un programma di opere così vasto e organico come quello affidato alla esecuzione della Cassa per il Mezzogiorno. Volumi, congressi, comizi infiniti sono stati dedicati ai problemi del Mezzogiorno nei decenni trascorsi: ma soltanto il governo democratico si è messo a risolverlo concretamente. La redenzione del Mezzogiorno è in atto ed è dimostrata da significative cifre: 1.652 lavori per un importo di 97 miliardi sono stati appaltati. A tutto marzo 1952 sono stati approvati 2.043 progetti per un importo di 128 miliardi e 755 milioni. Sono stati ricostruiti 6.837 km di strade, 12.432 km sono stati rifatti e ricostruiti quasi un milione di vani per abitazioni private, 280 mila vani di case popolari e di abitazioni per i senza tetto sono stati costruiti; 140 mila edifici pubblici ricostruiti o riparati, acquedotti e fognature per 3.500 km; 98.233 ettari bonificati idraulicamente. E si è lottato anche contro la disoccupazione. Ogni anno la popolazione aumenta di 320.000 unità, ciò vuol dire che dal 1948 ad oggi il numero della braccia disponibili è salito di oltre un milione. Per risolvere il problema abbiamo istituito dei corsi di qualificazione e dei cantieri di lavoro. Oltre 220.000 operai nell’Italia meridionale sono stati occupati. L’on. De Gasperi ha proseguito rilevando l’importanza della riforma agraria come strumento non soltanto di più equa distribuzione della terra, ma anche nel valore sociale che assume la formazione della piccola proprietà contadina. Egli ha ammonito nuovamente a non trincerarsi esclusivamente dietro il problema agrario per la lotta politica. Sono proprio coloro che non vorrebbero dar nulla che chiedono i voti dei molti che nulla hanno. Circa un mese fa in Calabria ho consegnato la prima casa-ricovero costruita per gli alluvionati, cui altre seguiranno perché interi villaggi dovranno essere ricostruiti. In quel paese il sindaco era comunista: ed io ho voluto ricordargli che noi non siamo come il Barbarossa , al cui avvicinarsi i sindaci uscivano dalle città, il capo cosparso di cenere, per consegnare le chiavi della loro terra al dittatore. Noi governo democratico costruiamo le case e consegniamo le chiavi al sindaco. Finchè avremo forza non intendiamo cedere di fronte ad una propaganda di chi vuole la disgregazione nazionale: abbiamo peccato di modestia, non peccheremo di pusillanimità. Se si è peccato di particolarismo, oggi rimediamo con la nostra compattezza di fronte alle prove che ci attendono. L’on. De Gasperi ha poi osservato che, senza dubbio, sarebbe preferibile evitare questa polemica politica e che i partiti, in certe situazioni particolarissime come in quella di Roma, si fossero sottomessi ad una disciplina eccezionale, cui la Democrazia cristiana era pronta anche con sacrificio, come sarebbe desiderabile si facesse per i corpi amministrativi in genere; ma l’attuale contingenza storica, l’indole dei nostri avversari e la tecnica elettorale ci hanno costretto ad accettare la battaglia in queste condizioni. Ora, dunque, alla compattezza dei socialcomunisti gli elettori devono rispondere votando compatti per la Democrazia cristiana e per le liste dei partiti democratici apparentati, che rappresentano in ogni caso il blocco più forte e capace di battere l’estrema sinistra. Se l’unità costituisce un impegno per tutti i cittadini democratici, ancor più deve costituire un impegno per i cattolici. Il presidente del Consiglio a tale proposito ha ricordato quanto ha scritto recentemente, in polemica con De Marsanich, L’Osservatore Romano, il quale respingeva «la mentalità di chi si ostina a non vedere e perciò a non ammettere, che i cattolici, sul terreno politico, economico e sociale, possano avere un’azione autonoma e responsabile; che cerchino di costruire un ordine civile ispirato secondo la concezione cristiana della vita». Vogliamo spiegarci chiaramente – continua il giornale –. Il De Marsanich dice, con un lungo discorso, quello che si può esprimere con poche parole: nelle prossime elezioni la Democrazia cristiana non dovrebbe godere più il favore non soltanto dei «moltissimi di diversa opinione» che le concessero il voto quattro anni or sono, ma neppure degli stessi cattolici. I quali dovrebbero volgere le loro preferenze in altra direzione, dove, non è necessario dire, e per questo egli sembra incline a rimettersi alle autorità ecclesiastiche e all’Azione cattolica perché «l’errore del 18 aprile 1948 non deve essere ripetuto». «Siamo giusti, senza pronunciarsi sugli aspetti particolari di quel voto e sulle conseguenze politico-tecniche che ne discesero – concludeva poi L’Osservatore Romano – è pur merito di quell’errore se in Italia furono salvate certe libertà fondamentali che, volere o no, furono e sono utili a tutti. E questo avvenne perché i cattolici italiani davanti ad una minaccia totale delle libertà spirituali, base di ogni altra libertà, videro la esigenza di dare al voto una espressione unitaria. Oggi, dopo quattro anni, nulla è cambiato». Ed è curioso che proprio Nitti capeggi l’attacco di chi considera la Democrazia cristiana ora alla stregua del vecchio clericalismo – allo stesso modo de l’Unità, dell’Avanti! e de Il Paese – ora come un fenomeno post-bellico passeggero. Nitti, il quale ha scritto un volume, copiosamente documentato, sul Socialismo cattolico, per la verità solo fino alla Rerum Novarum e con interpretazioni spesso contestabili, ma con copiosa indagine e documentazione, in cui faceva la storia del nuovo movimento cristiano-sociale affermando che era una nuova scuola socialista la quale, nel rispetto dei valori eterni della religione, non rinunciava alla lotta per il progresso sociale del popolo: anche lui, dunque, sentiva che si trattava di una nuova corrente ideale e non soltanto della base per un partito politico . La Democrazia cristiana infatti non è solamente una organizzazione di partito; è una scuola, è un movimento di idee che anima giovani e vecchi. Se il fervore di questo movimento illanguidisse, si spegnerebbe una fiamma ideale nata cent’anni fa nel vecchio mondo in fermento. L’abbiamo servita questa idea, forse non adeguatamente, forse con errori, ma in buona fede; senza clericalismo, ma con convinzione alimentata da una dottrina sociale che risale al supremo Magistero della Chiesa e che fu sperimentata in tutti i paesi a contatto delle esigenze e delle istanze popolari. Quando abbiamo portato questa idea al governo, essa si era già innestata sul tronco della tradizione nazionale, aveva contribuito a creare e a formulare il nuovo patto costituzionale, si era inserita nella democrazia politica, si era consacrata all’opera di conciliazione tra Stato e Chiesa, rispettando le regole della tolleranza civile e il metodo o cercando di attuare nei rapporti con il popolo la fraternità cristiana e la giustizia sociale. L’on. De Gasperi ha qui ricordato l’opera del Pontefice che salvò Roma, che svolse intensa opera di cristiana solidarietà nei confronti dei deboli e dei perseguitati di qualunque colore politico, resistendo alla prepotenza e inculcando le leggi della giustizia. È con questo patrimonio ideale che abbiamo servito la patria – consapevoli di essere impari al compito, ma orgogliosi di condurre a fondo questa esperienza di rinnovamento sociale e cristiano sul terreno della Costituzione democratica e inserendola nella tradizione nazionale. Ci possono essere stati errori e insufficienze, certo, ma se questo strumento rappresentato dalla Democrazia cristiana, che si fonda su elementi dottrinari e sperimentali di quasi un secolo, si spezza non vi è altro avvenire per l’Italia che quello di diventare un paese satellite del bolscevismo. I medesimi princìpi che hanno ispirato l’azione del governo e della Democrazia cristiana nella politica interna li hanno guidati nella iniziativa in campo internazionale: per servire la rinascita dell’Italia e per amore del popolo vittima di errori e di ambiziose avventure, si sono sopportate le conseguenze di una sconfitta prevista, riuscendo a sollevare il nostro paese alla parità e alla corresponsabilità della cooperazione internazionale. E la politica seguita dal governo democratico, che l’opposizione ha cercato di ostacolare in tutte le maniere, la politica atlantica, alla quale l’Italia partecipa in perfetta parità di diritti, ha salvato la pace: lo ha affermato lo stesso Stalin in una sua intervista, quando ha espresso l’opinione che il pericolo di una guerra si è allontanato; ciò costituisce una lampante smentita a tutta la propaganda comunista, la quale ha ripetuto per anni che il Patto atlantico ci avrebbe portato alla guerra. Passando ad esaminare il problema di Trieste, l’on. De Gasperi ha dato lettura della seguente lettera, speditagli dal corrispondente di un giornale inglese: «Leggendo su l’Unità del 30 marzo l’articolo De Gasperi contro Trieste di Giancarlo Pajetta mi sono meravigliato ancora una volta della pazienza per non dire della passività con la quale il governo italiano lascia sviluppare questa propaganda pseudo patriottica dei comunisti per Trieste, senza ricordare come si comportavano gli stessi comunisti italiani proprio quando il destino della Venezia Giulia era in gioco». Sono stato a Trieste e nei dintorni nel maggio 1946. Ho osservato ovunque la propaganda frenetica dei comunisti in tutta la Provincia per la loro annessione alla Repubblica federale popolare Jugoslava del maresciallo Tito, allora fedelissimo sostenitore di Stalin. Ho visitato con altri colleghi stranieri i cantieri navali di Monfalcone, allora ancora per la maggior parte un ammasso di rovine che aspettavano di essere sgombrate. Ma erano quasi deserti. La grande massa delle maestranze era soprattutto a passeggiare ogni giorno sui camion a Trieste e nella Provincia sotto la guida dei capi comunisti e dietro bandiere sia rosse con la falce e il martello sia tricolore italiane con la Stella Rossa sovietica, per dimostrazioni in favore dell’annessione di tutta la Regione alla Jugoslavia. Quando rimanevano nei cantieri erano principalmente occupati a dipingere, ovunque, parole d’ordine inneggianti a Tito, Stalin e Togliatti, io stesso ho preso nei cantieri di Monfalcone alcune fotografie di questa propaganda filo-sovietica da parte dei comunisti italiani. Unisco a questa lettera due di queste fotografie e metto anche le negative a sua disposizione. Sull’una si vede la Stella Rossa dominante tutti i cantieri dalla più alta armatura; sull’altra si leggono chiaramente, su ingrandimenti, le parole d’ordine «Venezia Giulia», «4 mila sono morti per questa (Stella Rossa)», «vogliamo la Jugoslavia per collegarci con la nostra naturale retroterra», «vogliamo i poteri popolari in seno alla RFPJ». E più sopra: «viva Tito. Vogliamo la RFPJ». Sono stupito di constatare che quasi mai nella stampa italiana è ricordato quali erano le pretese dell’URSS per i suoi satelliti di Belgrado alla Conferenza di Parigi del 1946. La rivista Relazioni internazionali del 6 marzo ha pubblicato con un articolo molto pacato e documentato una carta, mostrando le differenti «linee» allora proposte dai quattro Grandi per il futuro confine italo-slvavo . Mi pare che è completamente dimenticata oggi la linea Molotov che dava alla Jugoslavia non soltanto Trieste e Gorizia, ma anche parte del Friuli, con Cividale e del Veneto con Grado e Monfalcone. I comunisti non hanno mai protestato; infatti hanno sempre e dovunque giustificato e sostenuto tutto quello che la Russia chiedeva laggiù e altrove. Se queste domande fossero state esaudite e Tito fosse ancora una gloria del Cominform, i Togliatti e i Pajetta sarebbero oggi i più accesi difensori di questa frontiera di pace, come lo sono Pieck , Grotewohl e Ulbricht , quando parlano dell’annessione di Königsberg alla Russia e di Stettin e di Breslau alla Polonia comunista. Oggi strillano sulle piazze d’Italia, nel Parlamento e nelle pagine de l’Unità, parole d’ordine patriottiche; ma se domani la cricca di Tito fosse rovesciata dal Cominform e Viscinski domandasse di nuovo Trieste, Gorizia e Monfalcone per la Jugoslavia i comunisti italiani farebbero un altro salto mortale nell’altro senso. Ci ripugna – ha esclamato il presidente del Consiglio – doverci continuamente battere per dimostrare la nostra buona fede e la bontà della soluzione che noi proponiamo quando i nostri avversari in realtà non hanno soluzioni. Ma anche per questo occorre essere uniti. Se il 25 maggio Trieste, votando insieme alle altre provincie sorelle, ribadirà la sua posizione di italianità, questo si deve alla nostra azione. Se il nuovo ordinamento amministrativo di Trieste che uscirà dalla Conferenza di Londra renderà possibile l’attesa per un nuovo sforzo in vista della soluzione totale, ciò è dovuto al governo democratico. Noi non rivendichiamo merito, ma non accettiamo rimproveri da chi ha storiche responsabilità. Intanto, a Londra si esita ancora; ci si smarrisce nella ricerca di formule giuridiche. Hanno riconosciuto che avevamo ragione. Se si cedesse di fronte ai prepotenti, tutta l’Italia si leverebbe in piedi. Confido che gli Alleati agiranno secondo coscienza e lealtà nell’interesse comune dell’alleanza atlantica. Nessuno scambi la nostra pazienza con debolezza, né la nostra tenacia per ostinazione. Interpretiamo i sentimenti del popolo italiano, ma anche le inderogabili necessità della collaborazione internazionale coi popoli vicini e lontani, nell’interesse della pace e della sicurezza; e per la ricostruzione europea.
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Sono venuto tra voi anzitutto per curiosità perché nei giorni scorsi, durante i comizi di Roma, un oratore ha detto che la riforma agraria era soltanto un trucco economico e sociale; un altro ha affermato che tutto era restato sulla carta. Ma io sapevo che a quest’opera gigantesca avevano lavorato Fanfani, Colombo, Gui e tutti i dirigenti degli Enti di riforma; possibile che nulla fosse stato realizzato? Allora sono venuto tra voi a cercare la verità e qui ho trovato la prova del lavoro fatto. Non c’è dunque soltanto una «Sagra delle prime pietre», come ironizza l’opposizione, ma vi è anche la sagra di quelle che vengono dopo e che compiono l’opera. Si stanno completando i lavori di irrigazione, tra poco vedremo anche qui cadere la pioggia artificiale; speriamo che almeno sotto quell’acqua i nostri avversari non potranno gridare: «piove, governo ladro!». L’on. De Gasperi ha quindi rilevato come si operi dovunque per congiungere l’opera di assegnazione delle terre a quella di bonifica, trasformazione e progresso fondiario, perché gli Enti di riforma sono decisi a seguire i contadini anche dopo che essi sono entrati in possesso della terra, aiutandoli ad aumentare la produzione e a far progredire l’agricoltura. Questa riforma non è una guerra che divide e che crea conflitti tra classe e classe, è un’opera che vuol superare i contrasti per andare incontro al popolo, ai più deboli, in nome di un superiore ideale di giustizia. Dopo aver rivolto il suo ringraziamento agli uomini che lavorano negli Enti di riforma ed avere riaffermato l’impegno del governo di procedere su questa strada di progresso, l’on. De Gasperi ha auspicato che quest’opera sia accompagnata dalla fede, dalla intelligenza, dalla fraternità del popolo. Noi abbiamo bisogno di sentirci sorretti dal consenso dei contadini e dei poveri. Noi non domandiamo a nessuno di sacrificare il proprio interesse, ma ci farebbe male al cuore vedere che non siamo capiti da coloro per i quali lavoriamo. Quello che abbiamo fatto fino ad oggi significa che non ci fermeremo domani alle parole, che attueremo gli altri programmi di rinnovamento. Non è vero che il Mezzogiorno è abbandonato: è vero che per lungo tempo è stato abbandonato, ma oggi per esso è cominciata un’epoca nuova che potrà essere proseguita a condizione che non ci abbandoniate e che siate decisi a superare il passato nell’attuazione della giustizia sociale. Amici di Melfi, portate con voi queste parole: non troppe promesse, non troppe acclamazioni per quello che è stato fatto, non eccessive soddisfazioni, ammissioni anzi che occorre fare di più, ma anche necessità di lavorare insieme, perché se saremo uniti e non ci faremo dividere da fanatismi partigiani, raggiungeremo le nostre mete di progresso e di rinascita. Questa è la nostra bandiera: un paese democratico, un paese sostanzialmente cristiano!
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Il presidente del Consiglio ha iniziato dando lettura di una serie di domande che l’on. Togliatti, attraverso l’Unità di oggi (nell’edizione meridionale) poneva all’on. De Gasperi. Alla prima domanda e cioè: «perché i lavori di bonifica dell’Alta Val d’Agri, che avrebbero dovuto impiegare più di un milione di giornate lavorative sono stati abbandonati», l’on. De Gasperi ha risposto: non è affatto vero che i lavori di bonifica siano stati abbandonati in Alta Val d’Agri. Essi sono in pieno svolgimento. Sono stati eseguiti lavori di impianti di irrigazione, di sistemazioni idrauliche, di sistemazioni montane e di strade di bonifica per 730 milioni di lire. Tali lavori hanno richiesto l’impiego di 240 mila giornate lavorative. Nella stessa Val d’Agri sono in corso di appalto lavori di impianti di irrigazione, di sistemazioni montane e di strade di bonifica per complessivi 2 miliardi e 225 milioni. Tali lavori richiedono 780 mila giornate lavorative. Alla seconda domanda: «perché la costruzione della diga sul Bradano è stata abbandonata», l’on. De Gasperi ha risposto ricordando che il 30 aprile 1952 sono stati eseguiti scavi di fondazioni in roccia, per gallerie di derivazione, per traversa di deviazione del Bradano, ecc. Entro il mese di maggio si prevede di iniziare i getti per il corpo della diga e per il 1953 si prevede che l’opera sarà completata. Alla terza domanda e cioè: «perché i lavori per il Borgo La Martella a Matera dopo essere stati inaugurati parecchie volte impiegano adesso solo 50 operai», l’on. De Gasperi ha detto: i lavori del borgo La Martella furono inaugurati una sola volta e precisamente dal ministro Campilli nel settembre del 1951. Sono stati già eseguiti lavori per 32 milioni, impiegando 10 mila giornate lavorative. Sono in corso di esecuzione o di prossimo appalto lavori per complessivi un miliardo e 15 milioni di lire, impegnando 330 mila giornate lavorative e 120 operai! Noi non chiediamo ai nostri avversari che una sola cosa: che riconoscano i fatti e che non mentano. Negare che veramente c’è un movimento nuovo, una nuova energica volontà è negare la verità. La Cassa del Mezzogiorno è una realtà. Alla fine del mese di aprile 1952 i cantieri della Cassa del Mezzogiorno in attività sono 1.800, per 123 miliardi e 573 milioni di lire, mentre sono in corso appalti per 114 opere per l’importo complessivo di 33 miliardi e 760 milioni. Questa negazione della verità significa accusare voi di poca intelligenza, voi che potete constatare i fatti. L’on. De Gasperi ha ricordato poi che nel 1951, quando egli venne per la prima volta a Potenza , era avvenuta l’aggressione comunista in Corea. Ricordate che allarme da parte dei comunisti? Essi allora protestavano perché noi stavamo apprestando delle cosiddette difese, ci accusavano di preparare la guerra, di essere contro la pace. Allora io vi dissi: abbiate fiducia nella pace, perché la pace si conquista anche con la energia e la volontà. Abbiamo preparato la nostra difesa, ci siamo stretti in un patto di alleanza: il Patto atlantico. Ebbene vi dico che il Patto atlantico ha salvato la pace. Lo stesso Stalin in una recente intervista ha detto che il pericolo di guerra negli ultimi anni si è allontanato. E si è allontanato perché chi aveva intenzione o disposizione ad attaccare ne è stato scoraggiato dalla unione dell’Europa e dell’America nella alleanza atlantica. L’on. De Gasperi ha rilevato che da parte socialcomunista questa campagna elettorale è stata impostata non più sul motivo della guerra o della pace, della situazione internazionale in genere, ma sui problemi dell’amministrazione interna, cioè di quello che si è fatto e di ciò che si potrebbe fare. Il presidente del Consiglio polemizzando con Augusto De Marsanich, il quale in un recente discorso ha accusato il governo di aver compiuto la «truffa sociale ed economica della riforma agraria» ha detto: a Melfi il prof. Ramadoro , presidente dell’Ente Puglia e Lucania, davanti ai contadini ha fatto stamane una relazione impressionante. Dopo aver ricordato che nel 1950 ci eravamo incontrati in occasioni simili per dare inizio alla campagna di irrigazione dell’Alta Val d’Agri, il cui primo lotto è ora quasi finito portando le acque nella pianura di Viggiano, il 2 giugno, un’altra volta, per iniziare le prime opere irrigue del Tara, il Ramadoro ci faceva la storia recente della riforma a Cerignola, Gravina, Ascoli Satriano, Candela, Lucera, Manfredonia, Carovigno, Nardò, Palaggiano, Montalbano, Pisticci, Bernalda, Iarina e Lavello. In questi paesi ci sono 2.366 famiglie contadine delle più povere che hanno realizzato il loro sogno. Su queste terre si fanno contemporaneamente le opere di trasformazione fondiaria e si costruiscono case rurali con la partecipazione al lavoro dei nuovi proprietari. Solo così si fa una bonifica integrale. Notevole mi è sembrato il rilievo di un tecnico del valore di Ramadoro: che cioè il sacrificio chiesto ai vecchi proprietari in base alla legge stralcio rappresenta solo il 15 per cento della superficie agraria e forestale del comprensorio e che parte notevole dei proprietari ha accettato come ragionevole e sopportabile tale esproprio tanto da non presentare nemmeno ricorso contro i relativi decreti; a Leonessa sorgerà una borgata e un centro di servizio a San Nicola di Melfi. Sarà la nuova classe sociale di proprietari coltivatori che, unendosi al processo produttivo, costituirà il rimedio eroico per la rigenerazione agricola del Mezzogiorno. Dopo aver rilevato il senso sociale che presiede alla attuazione della riforma agraria, l’on. De Gasperi si è soffermato sulla campagna che l’estrema destra, in concordanza con l’estrema sinistra, conduce contro la politica estera e interna del governo. Riferendosi particolarmente alla politica estera, il presidente del Consiglio ha ricordato la situazione in cui si era trovata l’Italia dopo la disfatta. Da quella situazione col nostro senso di dignità e la nostra fermezza siamo riusciti a riassumere una posizione di prestigio e di parità in campo internazionale. Noi abbiamo dovuto subire l’eredità della guerra mal preparata e poggiata sul bluff di 8 milioni di baionette. L’orgoglio, l’avventatezza, la passione faziosa portarono al disastro. Ora, per non ammetterlo, si accusa d’insufficienza o addirittura di viltà coloro che con dignità e ferma prudenza sono riusciti a risollevare l’Italia dall’abisso e dall’isolamento. È la stessa operazione che riuscì ad Hitler dopo la sconfitta della prima guerra e portò la Germania ad un secondo ed irreparabile disastro. È nostro dovere di segnalare questo pericolo e di mettere in guardia le forze giovanili, inesperte del passato. Affrontando in genere il problema dell’estrema destra, l’on. De Gasperi ha detto: noi riconosciamo il valore delle energie volitive e sentimentali della gioventù, sappiamo che in uno schieramento nazionale c’è posto anche per un’avanguardia di ardimento e di baldanza. Non neghiamo quanto di costruttivo vi fu nel movimento fascista e giudichiamo serenamente uomini e cose del passato e del presente ; ma abbiamo il dovere, per la responsabilità storica che portiamo, di avvertire il pericolo, ogni volta che nel tentativo di giustificare gli errori si riveli la tendenza di ripeterli. Per questo senso di responsabilità non per risentimento, non per angusta visione di parte, facciamo sentire il nostro monito, pur apprezzando i sentimenti di quanti in buona fede, ignari della storia, volessero ricalcare in buona fede le vie dello smarrimento! Accetto questo richiamo di Trieste non per scopo elettorale, ma con sentimento fraterno. Il governo fa ogni sforzo per consolidare la posizione degli italiani a Trieste, badando a non spezzare la solidarietà che lega la città con il destino della zona B, attraverso un Trattato che abbiamo subito, senza peraltro mai aderire alla soluzione che proponeva per Trieste. Bisogna rafforzare la nostra posizione a Trieste senza compromettere il nostro diritto sul Territorio libero, vigilando perché gli Alleati conservino l’impegno che loro deriva dal Trattato che hanno voluto e dalla loro dichiarazione del 20 marzo 1948.
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L’on. De Gasperi ha iniziato il suo discorso ricordando che – al tempo della sua ultima visita a Palermo, nel maggio dello scorso anno – egli tranquillizzò il paese a proposito degli allarmi circa la situazione internazionale, allarmi che allora venivano artificiosamente provocati in un tentativo di attaccare la politica del governo. La pace è stata assicurata armandoci e organizzandoci nel Patto atlantico. E se oggi Stalin afferma che il pericolo della guerra è più lontano di due anni fa, è perché da due anni è in forza il Patto atlantico, che è un’alleanza di sicurezza fra le nazioni europee insieme con l’America. Occorre che su questo argomento della sicurezza i nostri avversari di destra e di sinistra parlino chiaramente. Non si può contemporaneamente parlare di difesa della nazione e poi accusarci di sperpero di miliardi in armamenti. Passando poi a trattare del problema di Trieste, il presidente del Consiglio ha ricordato che il maresciallo Tito ha protestato contro gli accordi di Londra , affermando che essi ledono gli interessi slavi. Contemporaneamente da noi gli avversari e i denigratori tentano di svalutare gli stessi accordi tanto per dir male del governo e anche per la paura che i cittadini aprano gli occhi e dicano che questo governo «così debole e così inabile» è riuscito a realizzare un notevole progresso nella questione di Trieste. La soddisfazione è stata manifestata soprattutto dai rappresentanti della città martoriata, dal sindaco di Trieste e dalla stampa triestina. Le decisioni di Londra sono state accolte con un senso di liberazione e di soddisfazione . Il maresciallo Tito ha ricordato che nel 1945 lasciò Trieste per amore della pace. Ma ricordate che cosa è accaduto? Le truppe jugoslave avevano occupato Trieste e Gorizia e soltanto in seguito alla pressione anglo-americana richiesta e sollecitata dal governo italiano, lasciarono la città, rimanendo purtroppo amministratori della zona «B». Di chi è la colpa se Tito credette seriamente che Trieste dovesse appartenergli e se anche oggi lo ritiene accusando di tradimento gli Alleati? La colpa è di due forze – comunista e fascista –. Ricordate che i comunisti di Trieste avevano chiesto formalmente che Tito occupasse la città e ricordate anche il telegramma di Togliatti che invitava i triestini ad accogliere come liberatrici le truppe di Tito . E anche a Parigi, quando andai a difendere i diritti italiani di Trieste, trovai tra i comunisti gli avversari che volevano che Trieste fosse data agli slavi. Venendo a trattare dell’altra forza, quella fascista, l’on. De Gasperi ha ricordato che nel 1943 i tedeschi avevano occupato il litorale e l’Alto Adige nominandovi un «supremo Commissariato» , retto da un Gauleiter e arrivando a uno stato di pratica annessione con l’espulsione degli italiani, il richiamo alle armi e la nomina di tutte le autorità civili. E ora perfino voi che aveste responsabilità governative – ha chiesto l’on. De Gasperi alludendo ai discorsi elettorali di esponenti del Msi – osate accusare il governo di servilismo, voi che non avete il coraggio e la fierezza di difendere l’integrità del territorio nazionale? Qui il presidente del Consiglio ha documentato le responsabilità della Repubblica di Salò, citando un rapporto del commissario federale del Partito fascista del marzo 1944: tale rapporto riferiva che il Gauleiter, senza intervento del governo italiano e indipendentemente dal suo gradimento, aveva nominato prefetti e podestà slavi a Pola, Trieste e Gorizia e aveva rinviato i capi delle province nominati dal governo fascista. Inoltre l’allora ambasciatore a Berlino Filippo Anfuso scriveva a Salò, nel novembre 1944, che non c’era alcuna possibilità di indurre il Reich a demordere da quella politica ed elencava i fatti più gravi contro la sovranità italiana in quei territori; quell’ambasciatore riferiva anche circa un progressivo abbandono di ogni riconoscimento delle capacità ideali del fascismo italiano e la ripresa del vecchio cliché di Kukelm, secondo cui «l’Italia è una nazione che non farà mai niente sul serio». Questa era la situazione quando imperava la Repubblica fascista di Salò, allorché i tedeschi alleati del fascismo avevano strappato all’Italia due grandi provincie, poi fu l’armistizio, poi la pace. E noi che siamo accusati oggi di essere poco fieri, poco energici, abbiamo dovuto cominciare con pellegrinaggi di tristezza nel campo internazionale, noi abbiamo salvato l’Alto Adige con l’accordo De Gasperi-Gruber, abbiamo difeso Trieste, con la possibilità oggi di salvare quel territorio. Non me ne vanto, ho fatto il mio dovere, ma non accetto accuse di servilismo. Il presidente ha aggiunto poi che per il popolo italiano Trieste rappresenta come una trincea. Si dovrà combattere per difenderla e vincere. Riferendosi a recenti discorsi e polemiche, l’on. De Gasperi ha rilevato ironicamente che mentre dall’estrema destra lo si accusa di essere «filo-comunista», per contro la stampa comunista lo accusa di essere «filo-fascista». Questa è un’assurdità. È vero: fummo al governo con i comunisti, ma allora si trattava di salvare la democrazia, perché se i vari partiti non si fossero uniti in quel momento avremmo dato il paese in mano al comunismo che era rafforzato allora dalle truppe randage, che avevano abbandonato il fascismo, e alla Russia. Ora quando si dice dagli esponenti del Msi: non siete capaci di debellare il comunismo, io rispondo: anche qui bisogna parlar chiaro; che cosa volete, la dittatura? Volete usare le violenze che portarono alla guerra interna ed esterna? Volete fare occupare con la forza Trieste? Volete forse una guerra? Il popolo italiano è maturo. Ho fiducia che esso giudichi con la ragione, non con la passione o il sentimento. A questo punto il presidente del Consiglio ha ricordato che il governo nazionale ha fornito numerose prove della sua volontà di conciliazione nazionale, di pacificazione ed ha respinto l’accusa di non aver compreso l’esigenza della coscienza nazionale, per la quale invece ha fatto e fa tutto il possibile. Egli ha ricordato tra l’altro i provvedimenti in corso per gli invalidi della Repubblica sociale e quelli di prossima presentazione per la pensione agli ex appartenenti alla milizia. A proposito delle accuse secondo cui il governo seguirebbe una politica persecutoria, il presidente del Consiglio ha ricordato come di 5.583 condannati per collaborazionismo, 5.252 sono stati scarcerati mentre ne restano detenuti solo 331 per reati comuni e gravissimi. Passando quindi a documentare l’opera di ricostruzione compiuta in questi anni, l’on. De Gasperi ha rivendicato tra le iniziative del governo specialmente la Cassa del Mezzogiorno. Egli ha detto che l’importo complessivo delle opere finanziate dalla Cassa al 10 maggio per tutto il Mezzogiorno ammonta a 169 miliardi e 372 milioni, di cui all’8 maggio erano state appaltate opere per 136 miliardi e 263 milioni. Per la Sicilia rispettivamente 24 miliardi 626 milioni e 19 miliardi e 721 milioni. Queste cifre rappresentano lavoro, ricchezza, produzione; quanto ai lavori pubblici, egli ha rilevato che in questi sei anni in Sicilia si è avuta una felice cooperazione tra governo e regione; sono stati erogati in complesso dallo Stato e dalla regione 106 miliardi, 88 milioni 552 mila lire, con 37 milioni 410 mila 992 giornate lavorative. Il pericolo numero uno è il bolscevismo. E bisogna fare tutto quello che è nelle nostre forze per impedire che si impadronisca del potere. Questo bisogna farlo non solo con i discorsi, ma soprattutto combattendo la miseria che i comunisti sfruttano ai loro scopi di parte. Noi siamo circondati da un assedio condotto attraverso radio d’oltre cortina che ripetono contro di noi accuse che non potrebbero essere fatte in Italia; negli ultimi giorni anche i deputati Montalbano e Macaluso hanno, attraverso radio Mosca, preso parola per attaccarci. È deplorevole questa forma di collaborazione internazionale tra comunisti posti a considerare la Russia come lo Stato-guida, che dovrebbe preparare l’avvento del bolscevismo in Italia. Ma questo bolscevismo da noi non ci sarà, non ci può essere, non ci deve essere. Dopo aver accennato all’importanza ed efficacia sociale della riforma agraria e della riforma fiscale, nonchè all’azione di governo nella lotta contro l’analfabetismo (ricordando, tra l’altro, che il numero delle scuole elementari è raddoppiato e che sono stati istituiti 16.000 corsi popolari), il presidente del Consiglio ha detto: per vincere la miseria dobbiamo ancora aumentare i nostri sforzi ed io sono qui per dirvi: mettiamoci tutti insieme per spingere questa nave che si chiama Italia, a forza di remi, di energia e di volontà, perché questo popolo deve essere salvato. E salvandolo si salva anche la prosperità del paese. Questa lotta elettorale prelude a quella più impegnativa delle elezioni politiche, nelle quali non vi saranno nascondigli con liste e con nomi che non dicono nulla. Ognuno dovrà prendere la propria posizione con chiarezza. Io non temo che il popolo italiano possa credere che il bolscevismo o il fascismo possano affermarsi e prevalere. La battaglia sarà decisiva, ma l’Italia vincerà.
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Sono venuto a Reggio Calabria perchè so che qui dovete combattere su due fronti: noi siamo impegnati da parecchi anni in lotta contro i comunisti e siamo ora attaccati alle spalle dagli antichi squadristi che ci hanno accusato di aver tradito la grandezza e la dignità della nazione: loro che ci hanno condotto al disastro. E ci accusano di voler polemizzare con i morti: ma noi polemizziamo con i vivi i quali si assumono la responsabilità della disfatta. Essi hanno il coraggio di accusare noi, che abbiamo salvato il paese prima dal disastro cui ci avevano condotto e poi dal pericolo comunista. Ma essi non riusciranno a fare una seconda volta il giuoco della marcia su Roma; noi non siamo degli imbelli e dei deboli, siamo forti, il governo è forte. Non riusciranno a fare questo giuoco. Perché il maresciallo Tito pretendeva di avere diritti su Trieste? Perché egli, vincitore dei tedeschi, pretendeva di assumere la parte che già il governo di Salò aveva concesso ai tedeschi. L’on. De Gasperi ha citato – come aveva già fatto a Palermo – alcuni documenti dimostrativi delle responsabilità della Repubblica di Salò nella cessione del litorale Adriatico e dell’Alto Adige ai tedeschi. Il governo ha abbondanza di prove circa questa responsabilità e non mancherà di presentarle. Dopo aver ricordato l’azione svolta per la ripresa nazionale ed internazionale dell’Italia, particolarmente nella parte che si riferisce alla salvezza delle zone che erano minacciate di separazione dal corpo della patria, l’on. De Gasperi ha detto: l’Italia è oggi di nuovo rispettata e alla pari delle altre nazioni, ha riacquistato la propria dignità, non è più una miserabile Repubblica sociale. Ogni voto dato al movimento sociale italiano è un voto perduto; quanto alla Monarchia, non bisogna dimenticare che oggi si tratta di eleggere il sindaco e non il Re. Noi vogliamo la pacificazione, ma non si pretenda che ci assoggettiamo alla politica d’isolamento internazionale e di avventure che fu dei fascisti e a quella politica che porterebbe di nuovo il paese alla rovina. I nostri avversari fanno anche il gioco di Tito, il quale va dicendo che noi vogliamo ancora una volta il fascismo. Ma l’Italia vuole l’integrità nazionale e non intende affatto seguire una politica di avventure. Ma questa manovra dell’estrema destra porta un improvviso soccorso ai comunisti: non lasciatevi impressionare. Il pericolo numero uno è sempre il bolscevismo; se esso dovesse trionfare, non ci sarebbe più libertà per nessuno, ma soltanto la dittatura comunista. Perciò io pongo il problema di coscienza a coloro che votano per le liste che rappresentano i voti perduti. Cosa importa che ci siano cento voti in più o in meno in Calabria quando si tratta di nominare il Consiglio comunale? Coloro che mettono in pericolo la vittoria del più forte blocco anticomunista, quello dei partiti democratici, hanno sulla coscienza il pericolo che l’Italia vada alla rovina. Perciò, è in nome della salvezza nazionale che faccio appello a coloro i quali sentono la patria come forza viva ed operante e la vogliono difendere con dignità e fierezza, in libertà e democrazia, affinché riaffermiamo con il loro voto la fiducia in un’opera che è opera di ordine, di democrazia e di dignità nazionale in collaborazione con gli altri popoli liberi. Il governo non defletterà da questa linea di difesa democratica fino a quando sarà sorretto dal consenso popolare. A parte i problemi suscitati dalle elezioni amministrative, è in quelle politiche che nel Nord e nel Sud contemporaneamente affronteremo la battaglia decisiva e per essa intendiamo preparare intanto le leggi adatte per combattere contro coloro che minacciano la libertà: innanzi tutto contro il bolscevismo, che è il nemico numero uno e coloro che vedono questo pericolo hanno il dovere di aiutarci a respingerlo; in secondo luogo contro coloro che, d’altra parte, vorrebbero nuovamente imporci la politica dell’avventura e del manganello. È vero che molto c’è ancora da fare, ma è anche vero che questo è il primo governo che ha affrontato il problema del Sud. Anche Mussolini visitò i «sassi» di Matera, ma i «sassi» restarono; oggi, invece, la legge è in atto e questo non è che un esempio di quello che il governo ha fatto e sta facendo. Io credevo che avremmo dovuto condurre questa campagna solo contro i socialcomunisti, ma questi invece hanno trovato degli alleai all’estrema destra. Ci batteremo dunque su due fronti. Ma oggi e domani vinceremo. L’estrema destra ama qualsiasi appellativo di «forza nazionale», ma coloro che vedo qui davanti a me che cosa sono allora, non sono la nazione viva ed operante? Quasi che questo popolo non debba avere il diritto di risorgere nella democrazia, quasi esso non abbia compreso quello che il governo ha fatto. Certo non si fa tutto in un giorno, perché nel Sud vi sono cento anni di arretratezza che devono essere affrontati con imponenti programmi di opere. Lo stiamo facendo, lo faremo: dateci il tempo, dateci la forza della vostra fiducia e noi compiremo il secondo Risorgimento italiano!
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L’enciclica sulle «Cose Nuove» fu la luce, la passione della mia gioventù e oggi ancora, dopo sessant’anni conforta e ravvalora la mia semisecolare esperienza di uomo d’azione e di Stato. La sete di giustizia per le classi povere, la fede nelle conquiste del lavoro, l’apertura generosa e coraggiosa verso un regime di popolo, l’impulso al rinnovamento e alla riforma sociale ci vennero da quella dottrina. Oggi, commemorandola ancora una volta, rendiamo omaggio e riconoscenza alla Cattedra pontificale che nei momenti più gravi è intervenuta allora come sempre a stabilire e a inculcare l’insegnamento. Certamente nel lungo travaglio della contrastata realizzazione, quelli che ebbero la responsabilità della applicazione concreta possono aver commesso degli errori per insufficienza personale o scarsa idoneità di mezzi. Non ci è però mai venuto meno lo spirito informatore dell’impulso iniziale né, dopo tanta esperienza, è scossa in noi la convinzione che se i cattolici italiani potranno condurre a fondo il loro programma, dimostreranno con le loro soluzioni politiche e con le loro riforme sociali che il libero regime democratico è non solo compatibile con l’ispirazione cristiana della vita (il che fu per un secolo ostinatamente negato), ma che anzi unicamente da questa ispirazione esso può trarre la forza di salvare nella moralità la libertà e nella fraternità la democrazia. Questa, o amici, fu la nostra fatica di ieri ed è ancora il sacro impegno di oggi. Né altro vanto io cerco che quello di trasmettere ai giovani la bandiera che in anno in anno, in un combattimento e in uno sforzo senza pari abbiamo portato avanti fino al governo dello Stato, non per ambizione di dominio ma col fermissimo proposito di difendere la libertà e le tradizioni cristiane della civiltà nazionale. Quanti condividono questo impegno possono essere nostri compagni di lotta; agli altri, fino che avremo la forza e respiro, sbarreremo il cammino. E la nazione, la nazione che vive e lavora, la nazione che ricorda e spera sarà con noi.
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La vostra è opera di pace e, pur addestrandovi necessariamente alle opere di difesa, voi siete consapevoli che la missione cui assolvete è di umanità, di bontà, di pace. Oggi chiudiamo un periodo di guerre, guerre sanguinose e inauguriamo un periodo di associazione di diverse nazioni che vogliono collaborare per assicurare la pace nel mondo. Agli scettici noi diciamo: venite qua, venite a vedere, questa è una delle tante prove di quel che può essere ed è l’esercito europeo, forza armata a difesa della pace dei popoli, organizzazione di umanità e non di distruzione. Vi parlo con il cuore in mano, come rappresentante di questo popolo pieno di ansie, di angosce, che dà sublime spettacolo della volontà ricostruttiva con lo sforzo che compie per fare nuovamente, con quel che rimane dopo un tragico cataclisma, grande e rispettata la patria. Ma la patria non si può fare rispettare se non si hanno Forze Armate bene attrezzate, bene organizzate, disciplinate, forti. Ora, molta strada è ancora da compiere, anche se già tanto è stato fatto. Il governo si rende conto di questo ed ha in programma di attuare un più vasto riordinamento che ha già avuto uno sviluppo notevole mercè un complesso di iniziative che non è a tutti presente. Basterà accennare alla costituzione di nuovi reparti di cui si migliora quotidianamente l’equipaggiamento e l’armamento, alla messa in cantiere di unità navali, ai moderni velivoli che vengono dati in dotazione alle formazioni dell’aeronautica. Il miglioramento delle condizioni materiali di vita del soldato, dal vitto al vestiario, all’accasermamento, costituisce una costante preoccupazione del governo, che dedica al programma tutta la sua attenzione. L’addestramento ispirato ai moderni concetti di impiego, forma oggetto di cure particolari. Anche se resta da compiere ancora della strada, un buon cammino è stato percorso e si può con sicura coscienza affermare che le Forze Armate italiane hanno raggiunto un grado di efficienza considerevole, tale da garantire la difesa della patria. Mi sono ben note le aspirazioni degli appartenenti tutti alle Forze Armate e posso assicurarvi che il governo le tiene nel massimo conto, come ne dà prova l’impostazione di una serie di provvedimenti legislativi diretto a soddisfarle nella massima misura possibile. La legge sugli organici degli ufficiali dell’Esercito è già in vigore; si spera che presto possano essere perfezionate anche quelle sugli organici degli ufficiali della Marina e dell’Aeronautica e che ad esse facciano seguito in breve tempo le leggi sullo stato e sull’avanzamento. Parlando poi della nuova legge sull’avanzamento, l’on. De Gasperi ha detto che essa è stata studiata in modo da evitare ristagni nelle carriere e da ottenere che gli ufficiali pervengano ai vari gradi della gerarchia nelle migliori condizioni di età e di preparazione. L’Esercito Europeo come organizzazione internazionale ci costringerà, logicamente, a dover ottemperare ad alcune esigenze anche di carattere interno: fra queste lo sganciamento della gerarchia militare da quella civile, che dovrà affrontarsi nel quadro della riforma generale. L’organizzazione delle Forze Armate tende ad evolversi verso nuove forme, in relazione anche dei progettati organismi internazionali e la separazione delle due gerarchie, quella militare e quella civile, ne sarà una fatale conseguenza. Per quanto concerne i sottufficiali, l’on. De Gasperi si è riferito a quanto già detto dal ministro Pacciardi in un discorso agli allievi sottufficiali dei carabinieri di Firenze, confermando che il problema dell’elevazione della categoria dei sottufficiali sia sul piano morale che su quello materiale ed economico – in aderenza al nuovo spirito della ricostruzione delle Forze Armate ed ai più moderni criteri di impiego – può considerarsi all’ordine del giorno. L’apposito provvedimento legislativo, che ha richiesto uno studio approfondito e complesso è in fase di avanzata elaborazione. Le innovazioni contenute in detto provvedimento porranno i sottufficiali, che rappresentano una delle forze più vive di tutti gli eserciti, su un piano di più vivida collaborazione con gli ufficiali. Tale provvedimento costituirà anche il mezzo più idoneo per superare le difficoltà che in materia di trattamento economico dei sottufficiali derivano dalla legislazione che attualmente disciplina lo stato della categoria. Il ministro per la Difesa mi ha dato assicurazione che, con la costruzione di un blocco di alloggi dell’INA-Casa, destinato ai militari e con lo sviluppo del programma di costruzione di alloggi INCIS per i militari (che viene finanziato in parte dalla Difesa, in virtù delle apposite leggi emanate nel 1948 e 1950) il fabbisogno di alloggi sarà alla fine del corrente anno assicurato per i tre quarti: all’altro quarto penseremo in tempo. In tal modo anche la preoccupazione della casa, che tanto gravava sugli ufficiali e sottufficiali particolarmente soggetti a frequenti trasferimenti, sarà notevolmente alleviata e speriamo di poterla del tutto eliminare in un imminente futuro. Si va verso la completa riorganizzazione ed il magnifico spettacolo che offrono i ricostituiti reparti ha ridato al paese la fiducia nelle sue Forze Armate, presidio delle istituzioni e strumento sempre più valido per l’assolvimento dei compiti che, esclusa ogni mira aggressiva, la patria affida ai suoi soldati. E tali soldati sapranno meritare questa fiducia.
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Signor generale , nessun nome, più di quello che ella, onorevole senatore, degnamente porta, è atto a significare una alta, ininterrotta tradizione di patriottismo operoso, di virtù civile e militare, di dedizione assoluta alla causa nazionale, difesa colle Forze Armate dello Stato e colle Forze Volontarie, a servizio entrambe della unità e della libertà della patria. Innanzi a questa meravigliosa tradizione quasi secolare, innanzi alle gloriose bandiere e ai segni del valore che vi accompagnano, il presidente del governo nazionale e democratico s’inchina riverente e chiede l’onore di potersi associare alla vostra imponente affermazione e al fermo proposito che qui solennemente avete ripetuto: ricostruire sulla base della libertà e della lealtà democratica l’unità interiore del popolo italiano nelle sue forze attive e operose, superando i conflitti del passato e sbarrando la via ad ogni tentativo di rinnovarli. Per questa patria libera, una e indipendente si sono battuti i vostri padri, sullo stesso altare si compì il sacrificio dei vostri morti, con questa visione di libertà associata alla giustizia fra le classi e fra i popoli, avete affrontato le torture e i rischi del combattimento. Questi vostri ideali sono gli stessi che illuminano la faticosa ascensione del popolo italiano nel nostro periodo della ricostruzione: ricostruzione dell’organismo statale, ricostruzione delle strutture economico-sociali e soprattutto ricostruzione etica colle sue energie morali e coi suoi valori eterni. Solo questi ideali possono creare il cemento coesivo di una solidarietà nazionale fraternamente sentita e solo la dilatazione di questa solidarietà democratica nel mondo ci aprirà la via all’affermazione internazionale dei nostri diritti, nella stessa guisa che tale solidarietà ci ottenne già in questi anni un concorso indispensabile al nostro sviluppo economico e alla nostra sicurezza. È vero, ricompare talvolta sull’orizzonte internazionale il ceffo arrogante e minaccioso della dittatura e poiché le democrazie sono lente a reagire e spesso esitanti nel protestare, pare che la tesi della violenza della parola o del gesto riacquisti la forza con cui per troppi anni sedusse le folle d’Europa. Ma noi confidiamo che il popolo italiano, maturato in così tormentose vicende, sia immunizzato contro la provocazione e la tracotanza e attenda che la giustizia e la sicurezza vengano non sulle punte delle baionette, come si disse un tempo, ma sulla via di accordi ragionevoli e risolutivi. Tuttavia, guai alle democrazie che portano la responsabilità internazionale, se venissero meno ai loro impegni e se deludessero la fiducia dei popoli; lasciando credere che la spada del dittatore pesi più che il diritto, già codificato o solennemente riconosciuto. Non riconosciamo i programmi che si sono fatti a Londra, ma salutando con rinnovato affetto Trieste, ove speriamo che la collaborazione si svolga amichevole e feconda, pensiamo con ansia fraterna agli italiani dell’altra zona del territorio, affidata anche essa come la prima a una amministrazione fiduciaria con responsabilità internazionale, ma ove né noi né altri può elevare una voce di consiglio, di controllo o, almeno, di libera testimonianza. Noi insistiamo e insisteremo, perché si agisca con fermezza e con lealtà. Nessuno viene umiliato, se in attesa delle decisioni ultimative prospettate nel comunicato di Londra si stabilisce un assetto interinale che garantisce gli abitanti e al cospetto del mondo internazionale una onesta, dignitosa e pacifica convivenza. Ora amici combattenti, amici volontari, valorosi di tutte le battaglie, uomini del dovere e del sacrificio, permettete che io vi dica: addio. Ma abbracciandovi in ispirito ad uno ad uno, vi dica arrivederci, arrivederci ogni volta che si tratti di affermare i diritti della nazione, la fedeltà ai princìpi costituzionali e la volontà di un’Italia nuova che fondandosi su un regime popolare, si assida con dignità e fierezza nel consesso dei popoli liberi.
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Rispondendo al saluto rivoltogli dal segretario provinciale della Dc di Foggia, dott. La Mura, dall’on. Giuntoli e dall’on. Vocino , il presidente del Consiglio ha rilevato il carattere della battaglia elettorale che si svolge su due fronti, situazione che è stata imposta dagli avversari. Che i comunisti ci attaccassero era logico e naturale, ma che anche da altre parti (e il presidente alludeva evidentemente ai neo-fascisti del Msi ed ai monarchici del Pnm) ci si attaccasse, non ce l’aspettavamo. Il nostro schieramento è per la libertà, per la democrazia, per la grandezza dell’Italia. Abbiamo lavorato soprattutto per ricostruire ciò che la guerra e gli avversari avevano distrutto. Abbiamo lavorato per attuare le riforme, per dare al popolo una situazione migliore. Stavamo lavorando e difendendoci contro un nemico che disgraziatamente serve uno Stato straniero che considera come Stato guida, eravamo in lotta per l’Italia, per la libertà di tutti, senza tornare ai vecchi conflitti, alla storia del passato, della guerra civile, quando siamo stati attaccati vergognosamente alle spalle. E ciò tra l’altro, mentre dopo avere salvato l’Alto Adige e messo piede solidamente a Trieste, tentiamo da questa trincea di salvare i diritti italiani nella zona B. Cosa abbiamo dunque fatto in tutti questi anni, se non cercare di moderare gli estremismi e di salvare lo Stato da chi voleva portarlo alla rivoluzione? Noi saremmo stati i traditori del paese? Ma del paese siamo stati i salvatori! Illustrando a questo punto le realizzazioni del governo nel settore interno, l’on. De Gasperi si è particolarmente intrattenuto sulla riforma agraria, rilevandone la funzione sociale. Contro le critiche contraddittorie degli oppositori di sinistra e di destra, l’oratore ha auspicato che anche i proprietari sentano sempre di più l’orgoglio di aver contribuito con il loro sacrificio alla elevazione della classe contadina e smettano di raccogliere i denari per fornire mezzi agli avversari della democrazia. Pensano forse, costoro, di rifare il gioco del 1922? Non riusciranno! Pensano di trovare uomini deboli che non hanno forza e coscienza per sorreggere questo impulso di riforme rinnovatrici? Si sbagliano: noi non siamo vecchi incapaci di reagire, siamo forze giovani! Dopo avere sottolineato il carattere amministrativo delle elezioni, il presidente del Consiglio ha affermato che il governo è saldo e che gli avversari dovrebbero rinunciare ad ogni loro illusione circa il risultato della prossima consultazione amministrativa. Verrà l’ora della battaglia decisiva ed allora non ci sarà possibilità di camuffamenti per nessuno. Tutti dovranno rispondere chiaramente e dire se vogliono la pace o la guerra in Europa, se vogliono rinnegare o no il principio democratico del suffragio universale, se vogliono la democrazia o la dittatura, se vogliono la Camera rappresentativa o l’anticamera, dove il servo in livrea dice che il padrone ha sempre ragione. Ma noi siamo fermi nella nostra posizione di difesa democratica e sappiamo bene quali sono i nostri scopi: occorre avere volontà di pace, disciplina nazionale, difendere la libertà che è libertà di tutti, libertà per il popolo che lavora!
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Amici napoletani, siamo ormai alla fine di questa campagna elettorale: mancano ormai soltanto 24 ore al termine per i comizi ed occorre dunque parlare chiaro, in maniera definitiva. E permettetemi che risponda ai principali oratori che hanno parlato in questa piazza per gli altri partiti: e ciò non perché noi abbiamo necessità di difenderci, ma perché spesso la migliore maniera di dimostrare la giustezza dei propri argomenti e di confutare quelli dei propri avversari. E subito dopo il presidente del Consiglio è entrato in polemica con l’on. Togliatti, il quale parlando a Napoli ebbe a ripetere i soliti motivi dei «tempi tristi» che viviamo: tutto va male, secondo Togliatti, dal 1947. Ma perché mai proprio dal 1947? Perché è da quel periodo che i comunisti e socialcomunisti non fanno più parte del governo. Togliatti dice che allora tutto il popolo sperava che si sarebbe trovata una strada nuova sulla quale marciare verso il progresso, che si sarebbe conclusa l’opera di ricostruzione, che si sarebbe fatta una politica di pace, mentre oggi si torna a parlare di guerra. La causa di questo, secondo Togliatti, è che l’uomo che dirige attualmente il governo d’Italia non è competente, non sente amore verso il popolo, non ne conosce la storia e la necessità, non è legato alla sua vita e alla storia del suo Risorgimento. Ora è tempo di stabilire dinanzi alla storia perché nel 1947 comunisti e socialcomunisti cessarono di far parte del governo: 1) perché non erano d’accordo sulla politica estera e rivolevano spingere tra le braccia della Russia e di Tito; 2) perché avversavano la politica degli Stati Uniti, specialmente quando questi preparavano il programma di aiuti all’Europa. I comunisti irridevano all’America. Ricordate l’articolo di Togliatti dal titolo: Gli americani, questi cretini? . L’offesa non era casuale, era l’espressione di un atteggiamento completamente negativo; 3) perché i comunisti si opponevano alla politica di difesa della lira e non volevano che io chiamassi al governo Luigi Einaudi per salvare la nostra moneta e fare una seria politica economica; 4) perché avevamo cominciato a diffidare della tattica del doppio gioco attuata dai comunisti, i quali tendevano a conquistare determinate posizioni anziché occuparsi semplicemente dell’Amministrazione dello Stato. Il colpo di Stato in Cecoslovacchia nel febbraio del ’48 venne in tempo per persuaderci ulteriormente che uomini dello stampo di Nitti e Labriola sono buoni per servire da paravento a determinate ben chiare operazioni… Ma accanto a questa polemica politica vi è la polemica personale, cui si è abbandonato l’on. Togliatti: certo la svalutazione di una persona ha poca importanza perché importa quello che si fa, importa nel nostro paese la ricostruzione all’interno e una politica ferma e dignitosa all’estero. Però quando Togliatti afferma che io sono straniero in mezzo al mio popolo, che non ne conosco la storia, che non ne comprendo le necessità, devo dire che – se egli intende affermare che io non sono stato alla scuola di perfezionamento marxista-leninista di Mosca – ha ragione; se intende affermare che io non sono stato commissario politico in Spagna, mentre gli altri si battevano in trincea, ha ragione. Non sono un maresciallo come Stalin o un marescialletto come Tito. Ma allora perché il popolo sopporta da cinque anni che quest’uomo stia al governo senza attestato del prof. Togliatti? Per quale incanto quest’uomo ha trovato altri uomini che hanno dato inizio a tutta una politica di audaci e concrete riforme nei diversi settori dell’economia del paese a beneficio del progresso sociale del popolo? Il presidente ha quindi ripetuto gli imbonimenti dati riguardanti il poderoso programma di lavori pubblici attuato in questi ultimi quattro anni con una spesa di circa 697 miliardi e con una media annuale di 176 miliardi, ben superiore a tutte le medie raggiunte nel periodo prebellico. Quindi, fornendo i dati riguardanti l’attività della «Cassa del Mezzogiorno» a tutto il 20 maggio 1952, ha dichiarato che i lavori finanziati e posti in appalto ammontano a 178 miliardi e 787 milioni, di cui 28 miliardi e 923 milioni si riferiscono alla Campania e comprendono lavori di bonifica, strade, acquedotti, opere turistiche. Né è vero che nulla è stato fatto per le industrie del Sud: 107 miliardi rappresentano in questo settore il contributo del governo e di essi 93 sono stati assegnato alla Campania (Napoli 44 miliardi). Per quel che riguarda più particolarmente Napoli, l’onorevole De Gasperi ha accennato anche alla legge speciale che porrà a disposizione dell’economia cittadina complessivamente 52 miliardi ed ha esclamato: per attuare sempre più rapidamente questi programmi occorre la collaborazione tra Comune e governo; pensate voi al Comune, perché al governo ci penso io! A me si dice che sono straniero in Italia, forse perché i comunisti mandano ovunque i loro governatori e i loro generali e subito essi – anche se sono sovietici – sono considerati bulgari, se vanno in Bulgaria, ungheresi, se vanno in Ungheria. Ma un uomo cresciuto come me a Trento, che fin dalla sua gioventù si è battuto per Trento e Trieste, finendo nelle prigioni austriache; che ha difeso l’italianità al Parlamento di Vienna; che è lavoratore tra i lavoratori; questo uomo sarebbe straniero per il signor Togliatti, che è entrato nel governo nazionale qualche mese prima di me, sbarcando a Napoli dove era giunto direttamente da Mosca, con l’investitura di Stalin. Ma lo dicono i comunisti, che dovunque considerano la Russia come la loro patria. Dopo aver ricordato che egli ricevette la sua investitura di governo dall’on. Bonomi e dal Comitato di Liberazione Nazionale e che fra i primi atti del governo Bonomi fu quello di attuare l’impegno di contribuire alla liberazione dell’Italia dagli invasori tedeschi, l’on. De Gasperi ha ancora polemizzato con l’on. Togliatti, affermando che la via nuova dei comunisti è la via che porta a Mosca. Egli ha quindi ricordato la azione disgregatrice svolta dai comunisti italiani attraverso radio straniere e specialmente dalla radio di Sofia, di cui ha citato una trasmissione dell’11 maggio scorso, nella quale si afferma che la mortalità infantile è aumentata in Italia nell’ultimo decennio; l’on. De Gasperi ha rilevato a questo proposito dalle statistiche che nel 1950 la mortalità infantile è scesa in Italia al 63 per mille dal 106 per mille del 1938. Ed ha ricordato che in quello stesso giorno radio Sofia annunciava la fine del tesseramento dei generi alimentari in Bulgaria, in un paese, cioè, che i comunisti vorrebbero presentare come uno dei paradisi dei lavoratori. Eravamo e siamo impegnati completamente nella lotta contro il comunismo, ma siamo stati attaccati alle spalle e siamo stati costretti a lottare su due fronti contemporaneamente. Ricordiamo che i due estremi si odiano fra loro, ma adesso odiano più noi, finchè noi siamo al governo. Cosa vogliono i neofascisti? Essi ci accusano. Come ha fatto Valerio Borghese qui a Napoli, di accettare in politica estera condizioni di inferiorità rispetto agli altri popoli. No, non abbiamo mai accettato di dichiararci colpevoli di aver combattuto la guerra. Combattere la guerra è sempre un dovere, ma dichiarare di accettare la responsabilità di aver organizzato o dichiarato la guerra è un’altra cosa. Noi non abbiamo né avremmo mai accettato condizioni di non parità né nel Patto atlantico né nella Comunità europea di difesa. Mai. Dalla Conferenza della pace, non abbiamo cessato di difendere l’Italia in tutti i suoi postulati, per le colonie, per Trieste, per tutte le sue posizioni politiche o morali. Rispettiamo, veneriamo i segni del valore di tutti coloro che hanno combattuto per l’Italia. Ma a proposito delle vere responsabilità della guerra, l’on. De Gasperi ha citato scritti di un esponente del Msi, il quale ha chiaramente indicato le responsabilità di Mussolini nell’aver dichiarato una guerra senza alcuna preparazione materiale e morale del paese. Lo stesso autore scrive: «la decisione presa da Mussolini dell’intervento in guerra rappresentò un grave errore. Egli credette che la Germania avesse già vinta la guerra; temè che l’Inghilterra cedesse come aveva ceduto la Francia; perciò Mussolini disse al maresciallo Badoglio che allora era capo di Stato Maggiore di tutte le forze armate: le affermo che in settembre tutto sarà finito e che io ho bisogno di alcune migliaia di morti per sedermi al tavolo della pace quale belligerante». Questa è la responsabilità della classe dirigente fascista ma lo stesso scrittore missino continua: «non basta la responsabilità di avere fuori tempo e senza ragione dichiarato la guerra, ma la responsabilità peggiore fu quella di averla fatta essendo impreparato, perché non c’erano mezzi a sufficienza e i nostri poveri soldati venivano mandati al macello senza copertura. Il popolo italiano non può assolverlo, né può assolverlo dalla colpa di aver permesso, come ministro responsabile della difesa nazionale, che l’Italia si trovasse alla scoppio della guerra assolutamente impreparata». Continuando nella lettura di passi dello scrittore neofascista, l’on. De Gasperi ha detto: responsabile della guerra è Mussolini, responsabile politico della guerra è il fascismo. I missini che assumono la responsabilità della guerra non debbono accusare nessuno della disfatta. La colpa è dei fascisti, di un regime e della sua classe dirigente, che se dovesse tornare preparerebbe nuovi lutti all’Italia. Si dice dai missini che noi avremmo consigliato intempestivamente lo sganciamento dell’Italia dalla Germania. Nossignori: la storia la ricordo esattamente perché ad essa ho partecipato di persona e qui a Napoli molti uomini hanno seguito attentamente le fasi di quel tremendo periodo. Prima l’on. Bonomi e poi io direttamente non consigliammo lo sganciamento dalla Germania ricorrendo a meschinità. Avremmo in tal caso agito contro la dignità e la fierezza del popolo italiano. Bisognava dire chiaramente e lo dicemmo: questa guerra non era voluta dalla nazione italiana, ma da un partito. E poiché questo partito era crollato, noi avevamo il diritto di rivedere il patto concluso tra due regimi e dire onestamente alla Germania che era necessario denunciarlo. Questo fu il consiglio da noi dato. Purtroppo non fummo ascoltati ed arrivammo come arrivammo alla firma dell’armistizio che in quel momento rappresentò per noi una necessità assoluta. Ora io domando ai monarchici che ora ci calunniano: dove erano quando uomini come Croce, De Nicola, Porzio, si sforzavano di salvare la Monarchia? Questi monarchici di oggi erano nella Repubblica sociale, a dir male del Re, ad accusare la Monarchia di tutte le colpe, liberandoci da ogni responsabilità, riversandola tutta sul Re, con una campagna vergognosa. Ma oramai i documenti si conoscono e domani li conoscerà tutto il paese, perché provvederemo a diffonderli in modo che quei signori non abbiano più la faccia di presentarsi come salvatori della Monarchia. L’on. De Gasperi continua dicendo che i partiti democratici si sono sforzati di salvare il paese attraverso la ricostruzione non solo materiale ma anche morale e soggiunge che essi sono stato longanimi e generosi con coloro verso i quali forse si sarebbe dovuto essere rigidi come lo erano stati loro. E dopo aver ricordato che egli per venti anni non potè circolare in Italia, mentre i responsabili del disastro e gli oppositori in genere al governo circolano ora liberamente in Italia e dopo aver ripetuto quanto disse ieri a Bari , che cioè Umberto II definì traditori della patria gli italiani traviati dal fascismo, l’on. De Gasperi ricorda ancora i provvedimenti di clemenza adottati verso costoro nella speranza che facessero ammenda del loro passato. L’on. De Gasperi ha quindi osservato che gli estremisti di destra accusano le forze democratiche di essere tali soltanto a parole e che non fanno una adeguata politica estera. Che cosa vogliono costoro? Vogliono forse che si faccia ricorso alla forza? Vorrebbero marciare su Trieste per averla con la violenza? Una soluzione di questo genere sarebbe disastrosa per il nostro paese. Queste sono idee pazze che partono dai fascisti. E possono i monarchici trovarsi insieme con costoro per restaurare la Monarchia in Italia? Non sentono che con una simile alleanza compromettono la loro stella e la loro corona e mettono in pericolo non soltanto un partito che sarebbe poco, non solo la democrazia, ma soprattutto l’esistenza e l’indipendenza dell’Italia? I monarchici oggi ripetono il medesimo errore che commise Vittorio Emanuele III quando nel 1922 si alleò al fascismo. Fu la sua rovina e la rovina della Monarchia. So che i missini si presentano anche come cattolici ferventi, migliori degli altri; ma io so che là dove hanno comandato, come nella Repubblica sociale, hanno provocato, dato occasione a pastorali ed encicliche di vescovi lombardi, perché essi volevano creare addirittura una specie di chiesa nazionale, perché accusavano il Papa di essere internazionale. Ora occorre diffidare di queste correnti che si presentano come cattoliche, ma che non hanno quello spirito di solidarietà o democrazia che viene dal Cristianesimo. Noi abbiamo la sfortuna di doverci battere su due fronti, ma non importa: lotteremo con energia e con coraggio; prima contro le forze dell’estrema sinistra, perché è di là che ci viene il pericolo più grande, quindi contro le forze di destra perché anche questo inasprimento del neo-fascismo rappresenta per l’Italia un gravissimo pericolo. Avanti, avanti Napoli per la libertà e la salvezza d’Italia, avanti con la vostra fierezza! È doloroso che a Napoli sia sorto lo scisma monarchico che ci può togliere molte forze nella lotta contro il comunismo; coloro che l’hanno provocato ne porteranno una grave responsabilità. Ma non importa: Napoli ripari a questo scisma con doppia energia, con entusiasmo, tutte le forze del centro debbono essere insieme. Si tratta di salvare non solo la vostra città, si tratta del paese, si tratta dell’Italia, della libertà e della democrazia. Badate che in fondo si tratta di una alternativa gravissima, si tratta della pace o della guerra; la pace è con la democrazia, la pace è con la libertà!
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Amici romani, siamo arrivati alla fine di questa disputa lunghissima, composta di migliaia e migliaia di comizi, e forse io dovrei, o forse voi vi attenderete che io riassuma gli argomenti dei nostri avversari per confutarli, e gli argomenti nostri, per confermarvi nell’opinione che voi, ormai, vi siete senza dubbio fatta nella vostra coscienza. Ma io so, e voi lo avrete appreso durante questa campagna, che la battaglia che abbiamo combattuta sino ad oggi è appena una scaramuccia in confronto alla grande battaglia che dovremo combattere al momento delle elezioni politiche. Questa non è che una grande manovra, la quale ha rivelato i nemici, il loro carattere, la loro violenza, il loro numero. E noi siamo fin da oggi pronti a preparare lo spirito e le forze per la battaglia politica, che sarà decisiva, perché mai sarà che attraverso i camuffamenti e le confusioni di liste locali e di personalismi si risolva il problema della democrazia e della libertà in Italia. Mai sarà che noi cederemo dinanzi a una qualsiasi imposizione, come è avvenuto in altri paesi. E l’onorevole Nenni spera invano che noi facciamo come gli spagnoli, ai tempi della Monarchia, che, per un insuccesso amministrativo, abbandonò il campo. La nostra battaglia politica ci sarà e sarà chiara e precisa. Ma ora vinceremo anche questa battaglia. Amici miei, qui si tratta di sapere quale sia il regime che deve governare l’Italia, libertà o dittatura, democrazia o dittatura? Si tratta di vedere quali forze rappresentano veramente la nazione. Io mi limiterò ora a brevissimi accenni polemici e poi alla conclusione. L’onorevole Togliatti deve pur rispondere a coloro che gli hanno rivolto delle domande. L’onorevole Togliatti ha detto l’altro giorno su una piazza di Roma che io avrei mentito accusando il suo partito di aver abbandonato Trieste agli slavi. Non voglio rifare la storia: ci sono centinaia di documenti, di articoli, ma basterà che io vi legga un telegramma che Togliatti inviò il 30 aprile 1945 ai lavoratori di Trieste. Sentite: «lavoratori triestini, nel momento in cui ci giunge notizia che le truppe di Tito sono entrate nella vostra città, inviamo a voi, lavoratori di Trieste, il nostro fraterno saluto. Vostro dovere è di accogliere le truppe di Tito come truppe liberatrici e di collaborare con esse nel modo più stretto per schiacciare ogni resistenza» . Quale resistenza, amici miei, augurava Togliatti che venisse schiacciata? Non soltanto la resistenza tedesca o la resistenza fascista, ma la resistenza italiana in genere, la resistenza quale si manifestò subito dopo l’entrata delle truppe e che fu descritta da un corrispondente straniero ed imparziale, il quale scriveva che gli italiani risposero allora chiudendo le persiane, quelle persiane che si chiusero in seguito all’entrata di Tito col plauso di Togliatti e che si sono ora riaperte in seguito alla nostra azione per Trieste. Una seconda osservazione ha fatto Togliatti. Dobbiamo tutti raccoglierci su una posizione unitaria. «Ci deve essere, ha detto, una concentrazione di forze, una posizione unitaria che noi proponiamo al paese e per la quale combattiamo». Evidentemente egli si riferisce all’unità con i cosiddetti borghesi progressisti, i «borghesi di copertura», e, dall’altra parte, all’unità con i socialisti di Nenni, i quali sperano che un giorno Togliatti venga sconfitto, per poter dire di aver salvato con noi la democrazia. Ma che cosa è questa unità? È l’unità del partito unico, è l’unità del regime dittatoriale. Ed io non voglio addurre altre prove che una confessione sola di Togliatti. Recentemente, nella sua rivista, nel novembre 1951 scriveva: «è comprensibile e giusto che in questa società nuova (cioè società comunista), la quale non conosce più né le classi né i gruppi economici che si fanno concorrenza, la esistenza di diversi partiti politici scompaia e i cittadini più avanzati si raccolgano in una sola organizzazione politica, alla quale è affidato non solo il compito di dirigere, ma anche quello di educare tutta l’umanità nella pratica e nello spirito del socialismo» . Ecco la sua unità, la sua politica unitaria. Questa politica unitaria sarà quella che inghiottirà Nitti, Selvaggi e Molè, sarà quella che inghiottirà anche Nenni se non arriveremo in tempo a salvarlo. Questa unità è l’unità del partito unico: unità crudele, unità sanguinosa che balza agli occhi di ogni onesto democratico che si dia la pena di consultare la lista dei capi comunisti che collaborarono con Lenin e che furono poi eliminati attraverso una spietata eliminazione. Lista che riguarda non soltanto la Russia, ma tutti i paesi ove il comunismo è al governo, la Cecoslovacchia, la Romania, la Bulgaria, la Polonia. Ho qui gli elenchi, che potrei leggere nominativamente, di coloro che, (e badate bene, non dico in tutto il periodo, ma nel corso del solo anno 1951), deputati e ministri, vennero o arrestati o eliminati in altra maniera. In Cecoslovacchia, 25 fra deputati comunisti e 10 ministri, e fra questi ci sono dei buoni amici dell’onorevole Nenni, come il dottor Clementis, ex ministro degli Esteri arrestato in gennaio, e il signor Rudolph Slansky, vice primo ministro, accusato di essere un agente dell’Occidente. E non si fidi troppo l’onorevole Nenni, e non si fidino troppo i socialisti, delle decorazioni e delle onorificenze che ricevono oggi dai comunisti; ciò non vale niente, non c’è nessuna assicurazione contro l’intervento improvviso della polizia russa. A questo Slansky, poco prima, il 30 luglio 1951, il presidente della Repubblica cecoslovacca, concedeva l’ordine del socialismo, che è il più grande e ambito ordine di decorazione della Repubblica, con questa motivazione: «su proposta del governo della Repubblica cecoslovacca concedo al segretario generale del Partito comunista Rudolph Slansky, per i suoi meriti eccezionali, per la vittoriosa edificazione del socialismo nella Repubblica cecoslovacca, l’Ordine del socialismo». Quest’uomo veniva pochi mesi dopo arrestato, come «complice dell’occidente», come uomo pericoloso e con lui altri dieci ministri ed una ventina di deputati. E la stessa cosa è avvenuta in Polonia per dieci deputati tra cui alcuni ministri, e in Ungheria – parlo sempre del 1951, cioè di fatti recenti – nove deputati e tre ministri; in Romania sei deputati e tre ministri; in Bulgaria undici deputati e quattro ministri. E non vi dico quello che è avvenuto in Russia. Voi sapete che in Russia più di 53 fra i vecchi capi dei Soviet e della direzione del partito finirono o per fucilazione o per avvelenamento o comunque soppressi: erano capi del comunismo e del socialismo. Perchè io cito questo, e non parlo di Kostov e di Petkow ; non parlo di non socialisti e di non comunisti, ma solo di comunisti e di socialisti? Lo faccio perchè ho ancora pietà dei socialisti italiani, e spero sempre che all’ultimo momento si ricredano e ci pensino, sopratutto al momento del voto. Durante questa campagna amministrativa non siamo stati sorpresi dall’opposizione dei comunisti, perchè sapevamo che erano nostri avversari. Noi stessi li abbiamo combattuti ed abbiamo cercato di tenerli lontani dai nostri comuni. Noi stessi abbiamo dichiarato che non possiamo fidarci della loro collaborazione, per l’esperienza che abbiamo fatta nel governo e per l’esperienza di altri paesi. Quindi, franchezza per franchezza, erano e sono nostri avversari. Ma mentre eravamo impegnati nella lotta a fondo contro questo nemico comunista – il quale ci attaccava sopratutto per la nostra politica estera, difendendo cioè la politica russa mentre noi difendevamo la politica del mondo libero – eccoci attaccati da destra; e con tale sfrontatezza, con tale impudenza, con tale falsità di affermazioni da far smarrire la mente e la memoria, rievocando un periodo che pareva così lontano che ci sembra impossibile che in queste piazze d’Italia, aperte al largo respiro della libertà e della democrazia, persone che hanno una così grave responsabilità, osino ancora alzare la fronte e la voce e accusare noi che abbiamo fatto di tutto per salvare l’Italia dal disastro in cui esse stesse l’avevano gettata. Questi signori si sono sbagliati: ma da principio il pubblico è stato come travolto da queste manifestazioni improvvise, da questi forsennati usciti da tutti gli angiporti, usciti con l’antico furore e con l’animo di rappresaglia; da principio il pubblico è stato come sbalordito perchè accanto ai più forsennati vi erano degli uomini cosiddetti moderati che si erano alleati, sotto la veste monarchica, portando un certo disorientamento. Sopratutto quando si sono visti gli oratori del passato dividersi le parti e mentre Delcroix, questo giullare della dittatura, è riapparso come monarchico sulle piazze, i suoi compagni si presentavano come missini e neofascisti. Che cosa dicono in questi comizi?: dobbiamo «dilatare i confini territoriali della patria». Un altro dice: «dobbiamo seminare nel mondo il buon seme di Roma». Ed un altro ancora, il generale Fettarappa Sandri, in un comizio a Roma, ha detto: «diamo alla gioventù sogni, se vogliamo anche illusioni, ma senza illusioni la vita non è vita». E De Marsanich ha spudoratamente affermato che se egli fosse stato al governo avrebbe già nel 1947 occupato militarmente Trieste. Ma con chi l’avrebbe occupata, forse con la milizia? forse con i moschettieri che fuggirono il giorno in cui Mussolini fu arrestato? A questo punto, dopo tali esperienze, noi abbiamo il diritto di mettere in guardia il popolo italiano da una propaganda che non è nazionale, ma è un isterismo sciovinistico; siamo in diritto di chiedere se si vuole ancora spargere del sangue, se si vuole forse una nuova guerra per la nostra gioventù, se si vuole isolare di nuovo l’Italia, se si vuole compromettere tutto quello che abbiamo ricostruito, se si vuole minacciare la pace riconquistata. Che cosa vuole in sostanza il Msi? Nessuno ancora chiaramente ce lo ha detto. La campagna è stata condotta sulla base di violenti insulti: una campagna di denigrazione sistematica, puntata contro il governo ed i partiti democratici assai più che contro quel comunismo che essi dicono di combattere. Io sono stato gratificato delle espressioni più livide. I democratici cristiani e i loro apparentati sono stati chiamati gaglioffi, traditori della Fede, profittatori, i vigliacchi di tutti i tempi, i mercanti del Tempio. Uno degli oratori che ha pronunciato queste laide parole è stato per esempio il signor Lando Ferretti. Nello stesso discorso, tenuto qui a Roma, egli si è dichiarato cattolico e praticante. Non voglio entrare nell’intimo della coscienza individuale. Ma poichè questa professione di cattolicesimo è consueta nei comizi del Msi, non sarà male ricordare quanto lo stesso Ferretti scriveva nell’usurpato Corriere della Sera il 17 agosto 1944. Scriveva, riflettendo un pensiero allora ampiamente condiviso dai suoi molti amici che militavano nella Repubblica sociale: «questa è la radice della nostra secolare tragedia. Abbiamo nel cuore, nella capitale d’Italia un potere internazionale che non si contenta di coesistere, ma vuole sovrapporsi e dominare lo Stato. Questo accade solo in Italia, a causa della presenza del Papa in Roma, e determina un disagio che ora per opera della Santa Sede si inasprisce con grave rischio della disciplina e della compattezza del cattolicesimo italiano, perché non sono pochi coloro che nel gregge dei fedeli e fra gli stessi pastori, invocano il sorgere di una chiesa nazionale e che tolga dalle coscienze il perpetuo contrasto tra i doveri di credenti e i doveri di cittadini» . Questo scriveva Lando Ferretti, solo perchè il Papa a Roma manteneva una posizione paterna di fronte a tutti, anche di fronte agli avversari della Chiesa stessa. Questo egli scriveva, e non a caso, perchè in quel periodo ci fu veramente il tentativo nell’Italia settentrionale della Repubblica sociale di creare una chiesa nazionale, come si è creata recentemente in Albania, qualche cosa di simile con l’aiuto di qualche prete apostata, che si distaccasse dalla Chiesa di Roma. E costoro hanno il coraggio, la sfrontatezza di presentarsi a noi, di accusarci, di offenderci, pensando che il popolo non ricordi, che il popolo non abbia letto i giornali; osano presentarsi come cattolici, proprio in contrasto con noi. Ma sul piano programmatico generale che cosa propone il Msi? De Marsanich ha scritto che né Mussolini, né Hitler, né Nenni hanno mai formalmente ripudiato la democrazia. Lo so bene. Anch’essi si dicono democratici, come si diceva democratico Hitler, come si diceva democratico Mussolini, come si credono democratici anche i missini attuali. Ma intendono dire democratici nel senso che intende anche Stalin: usare cioè il metodo della democrazia, il suffragio universale, il Parlamento per conquistare il potere e poi imporre la dittatura. Se vogliamo entrare in maggiori dettagli troveremo, esaminando altre dichiarazioni, che essi accennano alla necessità dello Stato nazionale del lavoro e al Parlamento del lavoro. Ma questa è una cosa che conosciamo già. Questa è la dittatura con la Camera consultiva dei fasci e delle corporazioni. La conosciamo già: questa non è la Camera, ma è l’anticamera del servilismo, la negazione della libertà. Siamo dunque sempre all’antico: un partito unico con un consiglio nazionale consultivo. Ma questa è una esperienza che abbiamo già fatta. Si crede forse che abbiamo dimenticato le cartoline rosse, l’autarchia, l’esperienza che si è conclusa nel 1944-45? Si crede che abbiamo dimenticato quello che diceva Mussolini nel 1939: «quando io mi presento al balcone di Palazzo Venezia, non vengo a discutere o ragionare, ma vengo a portare decisioni». Ricordiamo quello che avvenne nel 1944-45, quando gli uomini venivano rastrellati nelle strade durante il coprifuoco e le madri temevano l’irruzione nelle case. Romani, volete che ritornino quei tempi? No. Voi dovete votare contro questi partiti, dovete votare per i partiti del centro, per il partito della Democrazia cristiana, che è il baluardo più forte contro la dittatura. Se la coscienza vi detta diversamente votate per gli altri partiti democratici. In realtà la Democrazia cristiana, questa democrazia così tirannica, ha creato un sistema elettorale per permettere a tutte le coscienze di votare anticomunista e anche anti-Msi senza essere costrette a votare per la Democrazia cristiana. È questa una prova di generosità verso gli altri partiti, anche se sarà una perdita di voti per noi; è una prova di quella lealtà e collaborazione che salveranno il paese. L’oratore cui prima ho accennato, Delcroix, a Roma si è lamentato che io ho citato un discorso fatto dal principe Umberto appena costituito il primo governo nazionale a Salerno, un discorso che fu detto e letto a Napoli, a Villa Rosebery, a tutti i ministri e che diceva: «il vostro compito è di costituire l’unità dell’Italia, di cacciare i tedeschi che occupano ancora l’Italia e punire quegli italiani che ormai hanno assunto il carattere di traditori perché stanno ancora con i tedeschi anziché con il loro paese». Questo era il programma che noi abbiamo applicato con moderazione e forse con troppa larghezza. Ecco un confronto: quando penso che l’ex ambasciatore Anfuso, il quale ha avuto il collocamento a riposo col pagamento di tutti gli arretrati, va lagnandosi del servilismo e dell’asservimento che l’attuale governo imporrebbe ai funzionari, ricordo che i fascisti nei pochi mesi che hanno avuto il Ministero degli Esteri, licenziarono, e senza liquidazione, circa 400 funzionari contro una trentina in tutto da noi liquidati. Questa è stata la nostra generosità; forse è stata troppa; se avessimo saputo quello che ci viene rivelato in questi giorni, avremmo dovuto essere più rigorosi, più rigidi, ma non ci pentiamo di essere stati generosi, perché domani avremo il doppio diritto di richiamarli all’ordine. La verità è che questi signori, che si dicono monarchici, sono una parte dei fascisti che hanno diviso le proprie responsabilità e funzioni con i missini. In realtà essi lavorano assieme. E con quale coerenza? Bisogna proprio che citi di nuovo il signor Lando Ferretti che mi ha insultato personalmente. Citerò quello che scriveva su Il Corriere della Sera. (Questi disgraziati si dimenticano quello che hanno scritto, ma quello che hanno scritto è stato stampato). Il 19 ottobre 1944, così scriveva dei monarchici: «è tutta gente che invocava puramente e semplicemente il ritorno dell’ordine monarchico vigilato dalle baionette inglesi. E ciò non perchè esiste in Italia un solo monarchico convinto (dove lo trovi dopo l’8 settembre?), ma perchè la Monarchia con la protezione militare britannica significa salvare patrimoni, piccoli o grandi, significa distinzioni onorifiche, tutte le impalcature, nonchè la facciata, di un mondo decrepito» . Signori monarchici, signori che appartenete – secondo queste dichiarazioni – a un mondo decrepito, ecco i vostri alleati, ecco coloro con i quali volete andare alle amministrazioni e che volete chiamare «forze nazionali». Una parola vorrei ora dedicare ai funzionari dello Stato, una parola dignitosa che non chiede loro nulla all’infuori dell’adempimento del loro alto dovere, ma che vuole esaltare la loro responsabilità e la loro funzione. Le categorie dei dipendenti pubblici non sono del tutto soddisfatte della propria situazione economica. Esse però sanno meglio di chiunque altro che se non è stato dato loro tutto ciò di cui hanno bisogno, è stato fatto per loro tutto quanto allo stato delle cose, si è dimostrato in concreto, possibile e attuabile. La questione degli statali non si esaurisce, però, in termini di trattamento materiale. Di anno in anno, i consuntivi delle diverse fasi della ricostruzione rovesciano sul paese un diluvio di cifre, che forse possono riuscire noiose per il cittadino medio, ma che non lo sono mai per gli impiegati e i funzionari, i quali sanno leggerle e comprenderle perfettamente. In questi anni è stato sollevato da terra, dov’era crollato, lo Stato; si sono integralmente ripristinati tutti i servizi pubblici. Esiste di nuovo un’Amministrazione, con i suoi problemi, con le sue difficoltà, con le sue esigenze, ma esiste. Non c’è da sorprendersi se, mentre la ricostruzione procede di tappa in tappa, si assiste ad un costante rinvigorimento dello spirito professionale della burocrazia, la quale, pur desiderando miglioramenti delle proprie condizioni economiche, guarda tuttavia con crescente compiacimento allo svolgimento e alla realizzazione di un programma che si estende a tutto il paese e che in gran parte è opera sua. Amici miei, non possiamo promettere tutto quello che vorremmo, ma credete voi che i funzionari starebbero meglio in certi paesi dove governa il comunismo? Il 30 marzo 1952 un giornale di Roma pubblicava che in Cecoslovacchia sono stati licenziati 70 mila impiegati e funzionari e che quella riforma, quella riduzione, era diventata uno dei punti capitali del programma comunista. Ma forse i nostri funzionari desiderano davvero il ritorno della dittatura? Quelli che hanno una posizione di responsabilità, il senso dell’Amministrazione, desiderano davvero l’amministrazione di un partito? O quelli che hanno la fierezza della loro libertà accetterebbero un governo che imponga loro come votare, il modo di votare e di agire contro la loro coscienza? Ora i nostri avversari puntano su due grandi alleati: il primo è l’astensionismo, l’altro è la dispersione. L’importanza dell’affluenza alle urne è dimostrata da alcuni dati veramente impressionanti. Voi ricordate che nel 1951 si è svolto il primo turno delle elezioni amministrative nell’Italia settentrionale, e in alcune regioni dell’Italia centrale. Un confronto fatto tra le elezioni amministrative del 1946 e quelle del 1951, svoltesi in quei comuni capoluoghi di provincia, dà i seguenti risultati: nel 1946 quando i votanti furono 3.556.468 la percentuale ottenuta dai socialcomunisti fu del 57 per cento. Nel 1951, quando i votanti salirono a 4.620.183 la percentuale dei voti socialcomunisti discese dal 57 al 39 per cento. Dunque, se i cittadini non fossero accorsi in massa alle urne e avessero lasciato che solo i più attivi di loro votassero, il 1951 avrebbe registrato una grande vittoria e non una cocente sconfitta del comunismo e su Torino, Milano, Firenze, Genova e Venezia la bandiera rossa non sarebbe stata ammainata. L’insegnamento di queste cifre è chiaro per i romani: da loro, e da noi, dalla vostra affluenza alle urne dipende se dopo il 25 maggio sventolerà sulla torre capitolina il tricolore o la bandiera della falce e del martello: sì, della falce e del martello, perché allora cadrebbero i camuffamenti, i «borghesi di copertura»verrebbero messi in un canto e i falsi simboli cadrebbero e sarebbero innalzati superbamente a Roma i segni della vittoria bolscevica. Secondo pericolo: la dispersione dei voti. A Bologna i comunisti che superarono di soli duemila voti circa il blocco dei partiti di centro, vinsero unicamente perchè alcune poche migliaia di suffragi furono dispersi nella lista del Msi. Votate per il centro, secondo la vostra coscienza. Rafforzate questo supremo baluardo della Democrazia cristiana. Se cade la Democrazia cristiana cade la democrazia in Italia. Non c’è, altro punto di sostegno per oggi; questa è la realtà; e gli avversari lo riconoscono e perciò ci attaccano da ogni parte. Votate dunque per noi, amici, perchè la vittoria della Democrazia cristiana è la vittoria della democrazia. Per chi si deve votare per battere lo schieramento socialcomunista? Prima di dare la risposta considerate il risultato delle elezioni amministrative svoltesi nell’Italia centrale e settentrionale nel 1951. Nelle elezioni provinciali la Democrazia cristiana ottenne 5.380.178 voti; il Partito comunista 3.303.933 voti; il Partito socialista italiano 2.365.767 voti; il Msi 577.843; il Partito monarchico 141.770 voti. La risposta è chiara: voti dati al Msi o al Partito monarchico sono voti che vanno a finire a favore dei comunisti. Questa è la responsabilità vostra di votanti e di tutti coloro che vogliono il trionfo della democrazia. Un appello particolare alle donne: voi, donne romane, che superate di centomila unità il numero degli uomini che possono votare, in questa competizione, contribuirete a determinare in modo decisivo l’esito della lotta. Io sono certo che il vostro voto sarà dettato dall’equilibrio, dalla saggezza, dalla fede che sono le virtù tradizionali e caratteristiche delle nostre donne. Voi voterete per la pace sociale e civile del vostro paese, perchè i vostri figli non siano sottratti all’educazione della famiglia, perchè non si faccia sacrificio della loro giovinezza e della loro vita, com’è accaduto nel passato, in guerre disastrose, dichiarate per volontà di prestigio personale e di regime. Voi, donne romane, volgerete le spalle a chi nel proprio contrassegno di lista ha cancellato la Croce che sovrasta la torre del Campidoglio, la Croce che ha visto passare tante bufere e tanti persecutori senza crollare, perchè i dittatori e i persecutori passano, ma Dio rimane. Ma voi non potete dare il vostro suffragio neppure a chi torna ad affermare concezioni e programmi del ventennio. Voi l’avete già conosciuto e sperimentato. Ricordate i nove mesi di Roma; ricordate quando tremavate nelle vostre case, non solo per le sofferenze della città affamata, ma per il timore che i vostri mariti, i vostri figli, vi fossero presi dai rastrellamenti e dalle azioni di rappresaglia, o strappati a voi? Ed ora una parola diretta ai cattolici. Noi per venti anni fummo soffocati, dispersi, perseguitati. Nessun diritto era nostro se non quello di mormorare. Ci fu contrastato un tozzo di pane. Fummo respinti ai margini della vita civile, di fronte a un partito accampato in Italia come un padrone assoluto e totalitario. E abbiamo dovuto assistere quasi esuli in patria ad esaltazioni spettacolari, a funeste avventure, sbocciate nel fatale stringersi e quasi confondersi del fascismo con il nazionalsocialismo, con il quale fu proclamata l’affinità di origine e di metodo, e alla cui sorte alla fine fu legato il tragico destino d’Italia. Quando tutto precipitò, fummo noi consiglieri disinteressati a salvare quello che si poteva salvare: l’onore e l’indipendenza della nazione. E suggerimmo prima al Re e poi a Badoglio di dichiarare francamente e subito la guerra alla Germania, perché l’alleanza era stata alleanza di regimi ed il crollo del regime fascista autorizzava un governo democratico antifascista a non essere vincolato a un patto come quello d’acciaio, che si proclamava patto fra due rivoluzioni. Era il consiglio politicamente e militarmente più saggio. I fatti lo hanno dimostrato. Si trattava di non ricorrere a sotterfugi. Si trattava veramente di affrontare il nemico dicendo chiare e nette le nostre intenzioni, e senza dubbio in quel caso gli alleati avrebbero creduto a un governo composto di antifascisti che non aveva nessuna responsabilità per quanto avvenuto in passato e che nondimeno assumeva su di sé la responsabilità della nazione. Ed io ricordo che tremavamo nel dire queste parole, per quel senso di responsabilità che sentivamo nell’assumere sopra di noi un rischio così tremendo. Ma lo esigeva l’onore, la libertà, l’indipendenza d’Italia. Però il nostro consiglio non fu seguito e troppo tardi andammo al governo, dopo un periodo di armistizio, dopo l’occupazione di Roma. Come abbiamo agito nel governo? Abbiamo agito da moderatori quando si trattò di punire, da ricostruttori quando si trattò di rinnovare i nostri organismi statali ed economici. Abbiamo agito da elemento di equilibrio trattenendo gli estremisti. Sereni nel plebiscito istituzionale, superando la questione in nome della salvezza del paese, e facendo appello al principio di una libera scelta. Rompemmo con i comunisti quando fu chiaro che l’evolversi della situazione internazionale e le necessità della politica finanziaria ed economica permettevano, da una parte, una nostra politica estera indipendente e democratica, ed esigevano dall’altra il salvataggio della lira. Per cui, contro il parere dei comunisti chiedemmo ed ottenemmo la collaborazione di Einaudi al governo. E poi, con questo spirito di difesa della democrazia e di coesione di tutte le forze, ci preparammo alla grande battaglia del 1948. Abbiamo affrontato con coraggio la battaglia. Gli avversari credevano di vincere. Hanno creduto di vincere fino a due giorni dopo il risultato elettorale. Oggi vengono gli eroi della sesta giornata, che ci rimproverano di non aver preso allora tutti i Comuni, di non aver eliminato il comunismo dall’Italia. Noi in quel momento non potevamo pensare ad eliminare il comunismo. Pensavamo a vincerlo, pensavamo a difenderci: ed abbiamo avuto dal popolo il mandato di salvare la democrazia su una base di libertà, e la democrazia abbiamo salvata! E quindi la parola d’ordine fu: democrazia contro bolscevismo. Ma non parlammo nè di manganelli, nè di distruzioni, nè di eliminazioni. Questo è un linguaggio che usano quei signori e questi i metodi a cui ricorrerebbero una volta giunti al potere. Ma non ci arriveranno, non ce li lasceremo arrivare. Il popolo italiano, come tutti i popoli, si rinnova e i giovani possono dimenticare. Però credo che moltissimi di voi ricorderanno il grande sollievo che fu la vittoria del 1948: vittoria che fu un fatto storico e come tale, ritenuta in tutto l’Occidente e non solo in Italia. La tracotanza degli avversari neo-fascisti oggi lo nega. Solo il livore, la faziosa passione degli avversari lo negano. Ma a chi si dovette quella vittoria? Badate, parlo a dei cattolici: certo si deve anche alla mobilitazione delle forze spirituali, ma per buona parte al sentimento della libertà e in genere al desiderio di un regime democratico. Sentimento generale, per cui anche Pio XII disse una volta: «i popoli dopo l’amara esperienza si oppongono ad un potere dittatoriale insindacabile e intangibile, e aspirano a un sistema di governo più compatibile con la dignità umana». Lo spettro di Praga e del totalitarismo rosso incuteva spavento anche in quanti avevano creduto in una dittatura più sanguinaria di quella tedesca. Ed allora tutti si strinsero intorno a noi non solo per le tradizioni spirituali che dovevamo difendere, ma anche perché avevamo dimostrato fermezza e non avevamo piegato il collo. E così riuscimmo a temperare gli eccessi rivoluzionari in nome di un antifascismo pratico, concreto, ché gli uomini liberi avevano capito che c’era solo nei nostri princìpi e nella nostra direttiva politica la garanzia non solo per la libertà nostra, ma per la libertà di tutti. Potremmo noi oggi, amici cattolici, far rinascere il sospetto che, come oggi partecipiamo al potere in democrazia, saremmo disposti a condividere domani i presunti privilegi di una nuova dittatura? Salvi sempre i princìpi, nelle condizioni storiche, della odierna civile convivenza, la esperienza ci autorizza a concludere che la norma di governo fondato sul metodo della libertà politica, quando si svolga sul binario della giustizia e della morale, è un metodo che merita di essere perfezionato, ma che assolutamente deve essere mantenuto e difeso. O i cattolici difendono questa posizione di primato conquistata dalla Democrazia cristiana o ben presto nella battaglia politica verranno ricacciati nelle retrovie a fare da Croce Rossa, come accadde durante il fascismo, quando apparve un successo l’ottenere per grazia ed in forza di raccomandazioni pietose quello che, spettandoci per diritto di cittadini, ci veniva tolto per sopruso della dittatura. Quel certo accordo del 1931, che impose con la forza l’esclusione dalle cariche dell’Azione Cattolica di tutti coloro che avevano appartenuto a un partito di opposizione, insegni. E ci volle tutta l’energia di Pio XI – e mi scuso di riferire un episodio personale – di santa memoria, per respingere il tentativo dell’ambasciatore di Mussolini, che voleva farmi cacciare dalla Biblioteca Vaticana, dove guadagnavo un tozzo di pane per la famiglia, dopo che tanti altri mi avevano sbattuto la porta in faccia. Risentimento, eccessiva sensibilità personale? No, è passata. Fui accolto fraternamente allora e come me anche molti altri, di diversa fede politica e di diverso credo religioso. Questa opera profondamente cristiana ed altamente umanitaria della Chiesa, che nei tempi più gravi si è estesa sempre più dovunque, rimarrà fra tante tragedie una pagina di gloria e di merito della Santa Sede. Cattolici romani! voi dovete mostrarvi degni di questa grande ora che passa su Roma. Roma custode del diritto, protettrice della libertà italiana, e ad un tempo maestra di universalità fra tutti i popoli. Come amministratori e governanti, crediamo di aver fatto se non tutto, certo il nostro dovere, sia pure con insufficienze e debolezze. Ma quale organismo può lanciare la prima pietra? Ora noi non vi chiediamo il voto come un’elemosina. Facciamo appello alla vostra consapevolezza di cristiani e di uomini liberi. Facciamo appello a romani che sentono la storia di Roma, di quella città che un nostro grande scrittore neoguelfo definì la «città delle memorie e delle speranze» . E lasciate a me, venuto da ultimo e dall’estremo Nord d’Italia, della regione decima «Histria et Tridentum», che mi conforti a questa profezia che si avverò, e fu scritta ai tempi del Risorgimento. Ecco come egli, profeta per i tempi nostri, parlava all’Urbe: «venti boreali appannarono talvolta la serenità del tuo cielo e offuscarono il tuo splendore, ma nulla essi possono sull’animo di quelli che credono alle sorti immortali del Campidoglio e del Vaticano. E questa ferma speranza ci rincuora e rinfranca, non solo come cattolici ma anche come italiani, giacchè la religione e la patria sono indivise nel nostro petto, come nei magnifici monumenti compresi dal procinto delle tue mura. Piantata in mezzo all’Italia, tu sei il comune ritrovo dei figlioli di essa; i quali movendo dal nord e dall’austro, dai monti e dai lidi, s’incontrarono nel tuo grembo, dove parlano la tua favella si riconoscono per compatrioti, e, benedetti dal padre, si abbracciano come fratelli. Questa italica concordia sarà un giorno da te suggellata con nodi ancor più tenaci e non perituri; e tutta Italia diverrà romana, come oggi tu sei italiana e il fosti sin da tempi più remoti di cui si abbia memoria. Allora il tuo Pomerio verrà segnato dalle Alpi e dai mari, e tutta la penisola farà una sola cittadinanza, atta a regnare moralmente sull’orbe abitato, onde si verifichi l’antico presagio, che ti promise un imperio perpetuo ed universale» . Romani, siate degni di queste memorie e riaffermate col vostro voto queste imperiture speranze.
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Cittadini, trentasei Provincie e duemilaquattrocento Comuni sono chiamati a rinnovare le loro amministrazioni. L’impegno e la volontà degli italiani consapevoli debbono essere mobilitati in questa prova affinché l’insegna dei gloriosi liberi Comuni torni ad essere innalzata in segno di unità, di autonomia e di vigore democratico. Per ottenere questo risultato è necessario che ognuno di voi possa giudicare e decidere sulla base di dati e fatti concreti. È ora, dunque, di non essere troppo modesti: se, infatti, c’è una differenza tra noi e la propaganda dei governi totalitari, è che noi non sbandiereremo i risultati del nostro lavoro. Ma perché oggi le nostre realizzazioni sono contestate e negate, io voglio affermare che in 80 anni di unità nazionale il Mezzogiorno non è stato mai come oggi al centro dello sforzo di rinascita nazionale! Con legittima fierezza possiamo constatare che nessun governo e nessun regime hanno mai dedicato alle Province meridionali un programma di opere così vasto e organico come quello affidato alla esecuzione della Cassa per il Mezzogiorno. Volumi, congressi, comizi infiniti sono stati dedicati ai problemi del Mezzogiorno nei decenni trascorsi: ma soltanto il governo democratico si è messo a risolverli concretamente. La propaganda di coloro che sono interessati a denigrare e a misconoscere i risultati ottenuti finora dal governo democratico, deve cedere le armi di fronte a ciò che ognuno può constatare con i propri occhi . Nel 1951 è stato, in agricoltura, superato l’indice di produzione del 1938; il valore lordo della produzione è passato nel 1949 a 1.990 miliardi e nel 1951 a 2.520 miliardi. Per quanto riguarda l’industria, un esame dettagliato dei numeri indici delle produzioni porta a risultati soddisfacenti: l’indice complessivo dal 1950, come si calcolava a 119, è passato nel 1951 a 136. Quanto alla ricostruzione edilizia, i vani dichiarati abitabili per tutti i Comuni nel 1951 si possono valutare a circa 600 mila, con aumento di oltre il 30 per cento nei confronti del 1950. Nei Comuni con oltre 20 mila abitanti le costruzioni sono state doppie rispetto a quelle del 1938. I dati sui salari chiaramente indicano un aumento del potere di acquisto delle retribuzioni dei lavoratori . Aumentate sono le spese pro-capite per i pubblici spettacoli e per il consumo di energia elettrica. Gli abbonati alla radio sono passati da 978.392 nel 1938 a 3.135.195 nel 1950. Gli abbonati ai telefoni, che nel 1938 erano 452.889, sono saliti a un milione 035.937 . I Comuni allacciati con centralino telefonico sono saliti da 5.378 a 7.811. Dal 1947 ad oggi il servizio telefonico è stato installato in 844 Comuni dell’Italia meridionale: entro l’anno altri 516 Comuni del Mezzogiorno avranno il telefono, mentre in 135 Comuni è stato impiantato un ufficio postale telegrafico. Le scuole popolari, istituite per la prima volta nel 1947 ed iniziate dall’on. Gonella, sono frequentate da 350.000 allievi adulti. Nel 1951-52 risultano aperti 116.411 corsi popolari. Per quanto concerne la riforma agraria, riforma che riguarda particolarmente l’Italia meridionale e centrale, fatta eccezione per il Delta Padano, sono stati pubblicati ormai piani di esproprio per un totale di 666 mila ettari; di questi sono stati già assegnati 52.827 a undicimila 993 unità contadine. Nel settore della bonifica 73 miliardi di spesa sono stati autorizzati a tutto il 1951 per l’Italia meridionale; 3.334 ettari di terreno sono stati acquistati dalla Cassa per la formazione della piccola proprietà contadina. Impariamo, dunque, ad essere fieri del nostro paese che per l’operosità dei suoi figli è risorto in pochi anni dalle rovine della guerra e che, trasformando e rinnovando le sue strutture sociali ed economiche nella libertà democratica, si avvia verso un sicuro avvenire di prosperità e di pace.
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Ho ancora nel cuore l’eco del vostro entusiasmo nella indimenticabile sera del 10 giugno 1949 . Ci confermammo allora nel nostro irrevocabile impegno di liberare tutto il Territorio dall’intollerabile ipoteca imposta dall’ingiusto trattato. L’amministrazione democratica uscita da quelle elezioni non solo ha bene curato gli interessi cittadini, ma è stata luce brillante di italianità e di patriottismo. Le nuove elezioni riaffermeranno – ne sono certo – l’immutabile animo italiano della città e sconfesseranno tanto le mire indipendentistiche quanto i tentativi faziosi dei comunisti e dei fascisti, gli uni e gli altri gravati dalle responsabilità del passato. Trovi Trieste nel consolidamento della sua coscienza democratica la più forte garanzia per il proprio avvenire.
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Abbiamo detto all’on. De Gasperi: visto che non ci vuol parlare di sistemi elettorali o del caso Duclos in Francia ; visto che, come amava ripetere talvolta Giolitti, non ama occuparsi di politica, ci parli da giornalista, da collega che ha fatto più carriera di noi. Vuole, allora, risponderci a questa domanda: crede, Lei, allo «Stato forte»? Lo Stato forte? Sicuro, io credo anche nello Stato «forte». Ma bisogna intendersi sulle parole. «Forte» significa reazionario o totalitario? Regime arbitrario o dittatura di classe borghese o proletaria o regime prevalentemente militare? Significa, infine, lo Stato partito? Se si escludono queste interpretazioni, lo «Stato forte» non può essere che quello ove si rispetta e si fa rispettare la legge. La legge, cioè la Costituzione e tutte le altre leggi che sono in vigore e servono per applicarla. Naturalmente nella applicazione delle leggi ci può essere un modo «più fermo» e un altro «meno rigido» e qui esiste senza dubbio un margine di elasticità che costituisce lo «stile di governo», variabile secondo le persone e i tempi e meritevole ora di approvazione, ora di critica, ora di sollecitazione; ma per i democratici veri, che nella democrazia credono e ritengono di doverla rendere vitale, sia pure correggendola, al di fuori di tale zona si tratta di metodo, di tempestività, non vi può essere altra alternativa che questa: o la «legge» o «l’arbitrio», con pericolo di scivolare nella dittatura. E poiché la Magistratura, come s’è visto in parecchi casi, ritiene che le leggi attuali non siano abbastanza chiare, bisogna aggiornarle e farne di nuove, ispirandosi all’esigenza della vita collettiva odierna, alla sua complessità, ai suoi pericoli. Ecco perché – fra l’altro – il governo aveva presentato alle Camere l’aggiornamento del Codice penale ed è tornato a ripresentarlo al Senato. Bisogna essere precisi circa il sabotaggio economico, l’occupazione delle fabbriche e delle terre; ed è fatale che uno Stato moderno debba vedere più da vicino di quello che fosse stato necessario nel passato il problema della difesa del regime democratico e delle libertà fondamentali. Tutto ciò vuol dire applicare la Costituzione, vuol dire difenderla contro i pericoli interni che la minacciano. Cosicchè Lei non accetta che si dica: bastano le leggi vecchie; basta applicarle e farle applicare. Rispondo che qui deve valere un criterio sperimentale, che va ricercato o dalla giurisprudenza o dal diverso modo con cui si va presentando il crimine che va colpito. Si può negare che le finalità, i metodi di lotta, i pericoli del bolscevismo sono di tal genere che devono essere affrontati con criteri nuovi e pertinenti? Si può ignorare l’esperienza che abbiamo fatta con la dittatura fascista? Da questa seconda esperienza la Costituzione stessa ha tirato le conseguenze dando origine ad una legislazione speciale ed eccezionale. Ma il carattere di questa legge è temporaneo, perché essa è destinata a venire assorbita nel Codice penale. Quanto al comunismo, dobbiamo ricorrere ad un’altra legge eccezionale? Vediamo l’esempio della democrazia svizzera, in tempo di emergenza la Svizzera ricorse ad una legge di emergenza e decretò, il 26 novembre del 1940, lo scioglimento del partito comunista, vietandone ogni attività. Ma, passato il pericolo più critico, prendendo atto che nei tempi normali, senza i mezzi della vigilanza straordinaria, era estremamente difficile rendere innocuo il trasformismo comunista clandestino, abolì la legge speciale e rafforzò, invece, la legislazione generale diretta a proteggere il regime democratico . Già il titolo 13 del Codice penale svizzero intitolato Dei crimini o dei delitti contro lo Stato e la difesa nazionale e il titolo 14 Sui delitti contro la volontà popolare costituivano uno strumento che gli svizzeri, accanto alle loro montagne e ai loro apprestamenti difensivi, non credettero superfluo per proteggere la loro libertà secolare. Ma con la legge federale del 1950 si aggiunsero altri articoli; cosicché ecco qua – dice l’on. De Gasperi levando dalla biblioteca un sobrio libretto di un cento paginette cha ha tutta l’aria di un testo scolastico – ecco qua; l’articolo 266 si leggeva già nell’edizione precedente che «chiunque commette un atto diretto a menomare, ovvero ad esporre a pericolo l’indipendenza della Confederazione, a provocare l’ingerenza di uno Stato estero negli affari della Confederazione in modo da mettere in pericolo l’indipendenza della Confederazione, è punibile con la reclusione o con la detenzione da uno a cinque anni». Ebbene, fu proprio in base a questo articolo e non ad accuse generiche di tendenza bolscevica, che nel dicembre 1951 venne condannato a quindici mesi di prigione Pierre Nicole, figlio del leader comunista svizzero, il quale aveva accusato in un foglio comunista i governanti svizzeri di «abbandonare la neutralità non soltanto politica ed economica ma anche militare in appoggio al clan dei fautori jankee della guerra». L’articolo incriminato faceva naturalmente parte di una campagna contro il presunto «asservimento all’America», che ben conosciamo; ma il crimine contemplato e colpito dal tribunale svizzero fu quello di attentato contro l’indipendenza della Confederazione e del delitto previsto dall’art. 174 (calunnia e reati contro l’onore). Infatti, nella sua requisitoria il procuratore Corbas configurava così l’accusa di «attentato all’indipendenza della Confederazione»: nello stato di tensione attuale fra due blocchi che dividono oggi il mondo e si guardano sospettosi, è essenziale per l’indipendenza del paese che si sappia in modo inequivocabile, da una e dall’altra parte, che la Svizzera è risoluta a rimanere neutrale. Ma Pierre Nicole sistematicamente semina il dubbio sulla volontà di neutralità dei nostri governanti. Egli agisce in modo da indurre certi Stati ad esercitare pressioni sul nostro governo. Egli denigra quest’ultimo e lo accusa di ipocrisia e di mene belliciste, «di allinearsi con i fautori di guerra americani; e fornisce allo straniero armi contro il proprio Paese, allegando fatti che egli sa essere inesatti». La cosa è apparsa ai giudici così chiara, così ovvia, che non hanno nemmeno avuto bisogno di ricorrere all’art. 266 bis inserito nel Codice penale con legge federale del 5 ottobre 1950 e che incalza nei seguenti termini: «chiunque nell’intento di provocare o di sostenere imprese o mene all’estero contro la sicurezza della Svizzera, entra in rapporto con lo Stato estero, con partiti esteri o con altre organizzazioni all’estero, o con i loro agenti, ovvero lancia o diffonde informazioni inesatte o tendenziose, è punito con la detenzione fino a cinque anni». Tutto, poi, si inquadra nell’articolo 275 sulla messa in pericolo dell’ordine costituzionale, che suona semplicemente così: «chiunque commette un atto diretto a turbare o a mutare in modo illecito l’ordine fondato sulla Costituzione della Confederazione o di un Cantone, è punito ecc.». Che cosa si vuol dedurre da tutte queste citazioni? Forse si vuole trasferire senz’altro la legislazione svizzera in quella italiana? Affatto, ogni paese ha il suo stile; il governo italiano ha presentato le sue proposte e il Senato vi mediterà sopra. Voglio soltanto provare con un esempio pratico e recente: 1)che il problema della sicurezza collettiva e, per riflesso, dell’attacco in forze del bolscevismo contro le democrazie europee (guerra fredda) induce tutti i paesi democratici a provvedere anche alla sicurezza interna; 2)che tali provvedimenti precauzionali sono possibili e compatibili con l’impegno di mantenere intatte le libertà fondamentali e precauzionali e rimanere fedeli allo spirito della Costituzione democratica e parlamentare. Questo binario che protegge la democrazia, senza svuotarla; che si muove nella libertà, ma ne limita gli abusi, esiste; ci si può muovere sopra, senza pericolo, purché si abbia fede nelle istituzioni libere e non si offra motivo di sospettare che si voglia tornare e ricorrere a sistemi dittatoriali o arbitrari. Bisogna, dunque, essere più che mai concreti e precisi, quando si parla di atti di fermezza, e di misure punitive ed essere soprattutto più fattivi, più tempestivi, quando si tratta di prevenire. Ma, in ogni caso, deve essere chiaro che si agisce colla responsabilità della legge; perciò l’aggiornamento della legislazione risulta inevitabile. Lo so. Salus Rei Publicae suprema lex e, in caso d’emergenza, ogni governo se ne deve ricordare; ma la sua responsabilità sarà tanto più salva, quanto più in tempi normali la legge codificata sarà regola e forza della sua condotta. Ora su questo binario, che si muove nello spirito della Costituzione e della democrazia e si fonda sulla quotidiana cooperazione del governo, del Parlamento e della pubblica opinione, bisogna che marciamo tutti: potere esecutivo, legislativo, giudiziario, quarto potere. Aiutino, i costituzionalisti, a creare delle leggi che nello spirito della Costituzione valgano a difenderla ed applicarla in libertà, ma anche con autorità. Non bisogna legiferare per il paese utopico di Tommaso Moro , ma per l’Italia del 1952; aiutino i magistrati con quello spirito di corresponsabilità e di consapevolezza democratica, che è il presupposto delle leggi che devono applicare; ci aiutino anche i rappresentanti delle categorie e degli interessi, perché la causa della democrazia è la causa di tutti. Certamente, se la comunità italiana deve vivere in base a leggi generali, valide per tutti e difendersi contro i pericoli dell’illecito, salvaguardando il più ampio campo possibile alla libertà dei cittadini onesti e sinceramente democratici, bisogna che anche questi riconoscano le limitazioni che la legge crede necessarie, perché la comunità viva e sia salva. S’invoca spesso il governo forte, quasi che la forza debba consistere nella robustezza dell’organo esecutivo. È vero che la forza fisica è spesso necessaria, per mettere a posto gli agitati o gli agitatori; ma la forza determinante di regime è quella morale: cioè la convinzione dei cittadini che nell’interesse comune della patria, della sua indipendenza e della sua libertà, bisogna conservare quella disciplina nazionale, che significa subordinazione degli interessi privati e di categoria a quello che è il supremo interesse pubblico . Si grida allo «Stato forte», ma quando si tratta di regolare gli scioperi, i funzionari reclamano il diritto di abbandonare l’ufficio contro ogni regolamento; i servizi pubblici, senza dei quali la comunità non può vivere, vengono spesso considerati da un punto di vista dell’interesse privato o di categoria; talvolta si licenziano gli operai senza riguardo a necessità sociali, tal altra si sciopera, senza riguardo per i consumatori. «Stato forte»: «libertà sindacali», ma la legge di applicazione costituzionale sui sindacati dorme alla Camera; «Stato forte», ma quando questo Stato inerme e impotente di fronte ad una stampa che lo insulta e prepara la rivoluzione per la restaurazione, chiede di poter frenare i massimi, i più gravi abusi contro le leggi, sotto la garanzia, però, di una sentenza dei giudici, ecco anche della gente per bene, che pur si preoccupa della democrazia e della dignità dello Stato, eccola ad insorgere in nome della libertà. Badi bene non sono entusiasta di simili leggi, né l’esperienza passata autorizza molte speranze. Preferirei cento volte che la consapevolezza della classe giornalistica fosse riuscita da sé ad eliminare gli abusi, ed altrettanto vorrei per i sindacati. Ma usciamo dall’utopia. La vita sindacale ormai è tutta penetrata e fatta oggetto di conquista politica, rivoluzionaria, antidemocratica. Ammiro gli sforzi e l’ottimismo dei sindacati liberi ed auguro loro il meglio; ma non è possibile che lo Stato si disinteressi dell’organizzazione sindacale; è una diserzione della democrazia, e – l’abbiamo sperimentato – questi peccati gravi di omissione si scontano. Quanto alla legge stampa, è chiaro che la libertà di critica deve essere piena. Criticate pure il governo, Parlamento, provvedimenti e leggi. Il controllo che esercita la stampa libera è un correttivo necessario della democrazia e la stampa è il naturale veicolo, il filtro delle idee. Della democrazia il Parlamento è un polmone e l’altro polmone è la stampa. Ma bene o male, le Camere hanno un Regolamento, dei reggitori responsabili, limitazioni costituzionali e procedurali; e la stampa no? Notate bene, badate bene che non difendo un testo né una tecnica particolare del provvedimento, la tecnica di una legge è sempre discutibile, è stata o sarà frutto di ulteriori discussioni, come fu già detto, ma quello che mi interessa è l’atteggiamento di principio. So bene che l’esperienza fascista ci allarma; che il monopolio statale nei paesi sovietici ci spaventa; ma si dimentica che oggidì chi propone una regolamentazione lo fa nei limiti previsti dalla Costituzione democratica allo scopo di difenderla colle garanzie della magistratura indipendente, nel quadro del regime parlamentare. Ovvero voi immaginate lo Stato democratico come un autobus sul quale tutti salgono e dal quale tutti scendono; un autobus che tutti utilizzano per un certo tratto di strada, sia che vogliano arrivare al colpo di stato bolscevico o alla restaurazione dello stato corporativo; alla Repubblica popolare o alla Monarchia conservatrice; un autobus che rifà tutti i giorni traballando il suo percorso, e il controllore si preoccupa solo dei biglietti e il conduttore unicamente di «fare l’orario»? No, lo so, non è così. Farei torto alla professione giornalistica se pensassi così; perché voi, anche voi, come uomini di pensiero ci avete sollecitato e non sempre a torto di vigilare perché non si preparino gli animi alla diserzione dalla causa nazionale; perché lo Stato non si lasci coprire di dileggio e di infamia; perché non si sviluppi un’azione di sabotaggio morale che precede il sabotaggio reale. Ma allora? Allora si tratta di limiti, di metodi, di tecnica esecutiva, di garanzie. Ebbene, se fossi ancora in stato di servizio, collaborerei per cercare la via della maggior sicurezza e della minor difficoltà; ma non rifiuterei pregiudizialmente qualsiasi limitazione, perché la democrazia è corresponsabile e la convivenza democratica è possibile solo se riposa sullo spirito di autolimitazione dei cittadini che per salvare la libertà di tutti accettano di limitare la propria. E allora ci sia consentito di rivolgere al giornalista De Gasperi questa domanda: trova giusto che il presidente del Consiglio diriga questo monito proprio a noi giornalisti, quasi che fossimo i principali complici della incomprensione democratica, mentre proprio noi abbiamo dato tante volte l’allarme e contribuito in maniera certamente valida a creare l’atmosfera di resistenza contro l’antidemocrazia? Credo che il presidente del Consiglio parli alla nuora, perché suocera intenda. Alla vigilia delle ferie egli non può impostare programmi di azione, ma spera di dare a mezzo vostro, argomento di meditazione a quanti nelle ore di riposo ritroveranno le forze per la ripresa autunnale.
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L’on. De Gasperi ha pronunciato un discorso, nel quale ha esortato l’assemblea a considerare realisticamente la situazione, tenendo soprattutto presente che le elezioni politiche si dovranno svolgere nella prossima primavera e potranno essere anticipate ma non posticipate. Accennando alla questione della legge elettorale, il presidente ha, poi, rilevato che la Democrazia cristiana ha tale base di consensi nel paese per la quale anche con la con la proporzionale è certo che contro di essa non si può costituire un governo ed è quasi impossibile farlo senza la sua collaborazione. La posizione della Democrazia cristiana nei confronti della riforma elettorale deriva, perciò, soltanto dalla necessità di assicurare alla maggioranza la stabilità del governo. Quindi non è che ci battiamo per una maggiore influenza del nostro partito, che ha la forza di influire con qualunque sistema elettorale sulla composizione del governo e di impedire che un governo si faccia contro di noi o senza di noi. Dobbiamo però ammettere la possibilità di coalizioni negative per rovesciare un governo nostro, ma non positive per crearne un altro senza di noi. Ecco il fatto che giustifica la nostra posizione nella riforma elettorale; riforma elettorale significa necessità di assicurare la stabilità del governo. Se le due estreme si coalizzassero, il paese certamente reagirebbe come contro un connubio immorale, perché intrinsecamente repellente. Sembra difficile, che esse possano mettersi insieme nonostante le molte affinità di metodo e qualche sbocco analogo nel sistema di governo. Ma supponiamo che avvenisse anche questo e che la reazione della popolazione, dell’opinione pubblica, non fosse così salutare, così rapida da poterlo impedire; noi avremmo allora un governo che non potrebbe svolgere né una politica interna comune, né una politica estera. L’anticlericalismo che potrebbe essere l’unica base per siffatta coalizione è un fatto negativo, non un fatto costruttivo. Dopo aver rilevato che contro la possibilità di una coalizione negativa non vi è nella nostra Carta costituzionale il mezzo adatto alla Costituzione di Bonn, con l’istituto cosiddetto del «voto fiduciario ricostruttivo», De Gasperi ha detto che ciò rappresenta un altro motivo per adottare un sistema che faciliti il funzionamento della maggioranza parlamentare. Il sistema più idoneo sarebbe proprio quello uninominale, che esprime la volontà della maggioranza in ogni circoscrizione, sistema riconosciuto perfettamente democratico in tutti i paesi del mondo libero. D’altra parte bisogna tener conto delle obiezioni che generalmente si fanno; la brevità del tempo (questa idea per maturare richiederebbe un certo studio, una certa riflessione); ed il fatto che accanto alla Dc ci sono i partiti minori, i quali ritengono che con il collegio uninominale scomparirebbero. E allora il desiderio di raggiungere l’effetto necessario col sistema che sembra il più diretto, contrasta con quello che è il pensiero vostro e anche mio personale, di collaborare con i partiti i quali ammettono la base comune della democrazia. Maggioranza vuol dire espressione della volontà prevalente, volontà positiva e costruttiva, capace di governare. Nessuno potrebbe trovare antidemocratico, se dicessimo che tale maggioranza governa per quattro, cinque anni (come in Svizzera) o se si trovasse qualche altro espediente regolamentare per renderla stabile, come le norme per il voto di fiducia o il voto francese per procura o infine se per aumentare la possibilità di circolazione interna si esprima con 50 più X invece di 50 più uno. È un errore sostenere che oggi il sistema proporzionale sia il solo aderente alla Costituzione. La democrazia è maggioranza e minoranza: una maggioranza responsabile del governo ed una minoranza che lo controlla. La formula della legge elettorale deve risultare corrispondente al fine di assicurare non la stabilità di un partito, ma la stabilità di un sistema che corrisponde ai fondamenti della nostra Costituzione ed alla volontà del popolo, espressa attraverso il voto. Qual è il sistema? È chiaro: la democrazia parlamentare. E risulterà evidente che si tratterà della democrazia e non di un partito, quando la maggioranza auspicata ed ottenuta si comporrà di più partiti uniti da un comune programma democratico, quando, entro tale schieramento, è libero lo sviluppo dei partiti e quando fuori di esso minoranza ed opposizione hanno il diritto e la possibilità dell’esercizio del controllo, il sistema democratico è assicurato nel suo meccanismo essenziale. Il meccanismo non altera i fondamentali princìpi democratici sanciti nella Costituzione, la quale non ha fissato una procedura elettorale, ma soltanto per ogni cittadino il diritto di votare, cioè di esprimere il proprio voto in modo uguale, ma non con effetto uguale garantito. Quando si svolgesse il referendum, data la nostra situazione, ci si troverebbe sempre di fronte ad una minoranza notevole, soverchiata da una lieve maggioranza, ma mai convinta. Eppure nessuno ha mai detto che il referendum – che anzi si invoca – è negativo e antidemocratico. La trasmissione della volontà popolare si fa per maggioranza; ma ad un certo punto anche per selezione: a tutti il diritto di rappresentanza ma non a tutti il diritto di governare. Vi esorto a prepararvi alla battaglia elettorale con gli occhi sulla necessità di consolidare il sistema democratico, aperto a tutti coloro che vogliono servire la democrazia e la necessità della nazione in questo momento. La nazione ha bisogno di un periodo di pace esterna ed interna: la pace interna non si può difendere che in base allo stato di diritto creato dalla Costituzione: «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Ora vorrei richiamare la vostra attenzione su due articoli della Costituzione, che ci vengono spesso ricordati da parte dell’estrema: articolo 3: «è compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese» . Innegabilmente questo compito è stato votato anche col cuore e con la fede da noi. Il concetto che l’attuale struttura sociale è ben lontana dall’essere tollerabile e che manca di giustizia, è stato espresso molte volte nelle discussioni costituzionali. Allora era addirittura la questione più calda, quella che si dibatteva di più. Ed oggi, possiamo dire che ci sia qualcosa di diverso? Penso ad un certo momento che se noi avessimo una sinistra socialista moderata, come in Germania, o come sono i laburisti in Inghilterra, penso che in quel caso saremmo in grado, noi maggioranza cattolica, di far davvero dei passi notevoli nelle riforme sociali. Credo che li faremo e che li potremo fare. Innegabilmente non possiamo adagiarci nella situazione in cui siamo oggi. Mi ha fatto impressione, l’altro giorno, in una conferenza con l’on. Pastore e i rappresentanti della Cisl, leggere i dati dei licenziamenti. Ebbene, quando le cose vanno bene non sentiamo niente: chi guadagna tiene in tasca. Gli operai sì e no riescono ad ottenere un lieve aumento. Ma quando le cose vanno in crisi, sono gli operai che ne scontano le conseguenze e non valgono per gli altri i guadagni che pure, prima, ci sono stati. Questo è uno dei fenomeni che ci dicono che il nostro organismo non va bene, che c’è qualche cosa da regolare, perché non corrisponde alla Costituzione. In via di fatto non si possono dare agli operai dei diritti politici ed economici senza la possibilità di uno sviluppo della persona umana. Che ha la sua base nella situazione economica. Giorni or sono, al Senato, parlando con alcuni deputati della sinistra moderata dicevo loro: guardate, se i socialcomunisti riconoscessero che la patria di tutti è l’Italia e sentissero il dovere della solidarietà nazionale invece di rappresentare una permanente minaccia per la libertà, molti problemi di giustizia sociale potrebbero essere avviati a soluzione. Ma questo pericolo ritarda l’attuazione delle riforme. E prima dell’articolo terzo della Costituzione il secondo dice: «la Repubblica richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». La solidarietà politica vuol dire: nazione italiana e doveri verso la patria; la solidarietà economico-sociale vuol dire: limiti alla rappresentanza degli interessi di classe, limiti che può imporre solo lo Stato attraverso le leggi. Noi che siamo gli eredi della scuola sociale cattolica e che nelle settimane sociali convergiamo il nostro sguardo sulle classi umili e meditiamo sopra le strutture sociali ed energicamente vogliamo che esse mutino, dobbiamo dire che questo nostro entusiasmo persiste, che questa nostra fede non è illanguidita, ma è purtroppo paralizzata dalla minaccia di tutti i giorni che esige, innanzi tutto, la difesa del baluardo democratico perché, caduto questo, tutto cade ed è precluso ogni sviluppo della persona umana ed è la fine degli ideali spirituali che ci animano. A questo proposito il presidente ha accennato alle polemiche in tema di revisione costituzionale, sostenendo che le basi della Costituzione non possono essere poste in discussione perché chi ne profitterebbe sarebbe l’estrema destra e l’estrema sinistra o coloro che vogliono mettere addirittura in causa la forma dello Stato. A Genova, mi pare, una volta la Costituzione veniva messa su un altare e poi letta al popolo una volta all’anno. Ma erano poche parole e lo si poteva fare. Noi non la abbiamo messa in un sacrato, e quindi alcune cose possiamo modificarle. Ma non dobbiamo toccare i punti fondamentali proprio quando è convalidata la base sostanziale della nostra convivenza civile. Dobbiamo salvaguardare la pace interna e non vogliamo accrescere i motivi di divisione. Oggi non siamo più nella situazione del Partito popolare che era all’opposizione. Ora siamo noi i responsabili e se noi cadiamo, cade la democrazia in Italia. Oggi la nostra espressione supera quella della Dc come tale, come rappresentazione del pensiero cristiano nella vita sociale. Incombono su di noi delle responsabilità ben più gravi: dobbiamo infatti sentire la responsabilità dell’unità e della stabilità democratica, proteggerla contro i catilinari di ogni specie, animarla con spirito di fraternità, di tolleranza civile, di giustizia, che è lo spirito cristiano applicato alle necessità della convivenza civile: ecco la meta che esige il nostro sforzo illuminato e concorde.
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La decisione del Consiglio dei ministri vuole essere innanzi tutto un atto di omaggio del governo e della nazione al sacrificio di quanti hanno combattuto e sono caduti per la patria. Un popolo grande e civile come il nostro non può dimenticare il passato di lotte e di sofferenze, che rappresentano il sacrificio dei Padri e il fondamento stesso dello Stato unitario. Abbiamo voluto quest’anno porre al centro della manifestazione del IV novembre una cerimonia che avrà il valore morale di un nuovo gesto di riconoscenza degli italiani. L’Ossario militare di Redipuglia – il più grande di quelli esistente in Italia – è affidato al culto e alla devozione delle generazioni. Ma da quando fu inaugurato, solo una parte dei loculi, contenenti le spoglie degli eroici Caduti della III Armata, fu chiusa da lastre di bronzo recanti il loro nome, il grado, il Reggimento di appartenenza, le ricompense al valore. Dei ventidue gradoni che costituiscono il complesso monumentale dell’Ossario, gli ultimi dieci, che comprendono i loculi di oltre 17 mila caduti, sono tuttora privi delle lastre bronzee e i nomi sono stampigliati alla meglio e a volte a malapena leggibili. E sono nomi gloriosi, nomi di medaglie d’oro, di fratelli e persino di padri e di figli assieme caduti sul campo della gloria nell’adempimento di un sacro dovere, così nel 17° gradone – quelli del maggiore Giovanni Riva e del figliolo sottotenente Alberto, medaglia d’oro: e così pure – nel 19° – quelli dell’operaio militare Luigi Stella e del figliolo sottotenente Gaetano, medaglia di bronzo. Il governo democratico nazionale ha deciso di provvedere rapidamente ai lavori di ultimazione dell’Ossario. Il governo intende pagare così un doveroso contributo alla gloria e allo spirito di abnegazione dei valorosi che resero unita e indipendente la patria. Si sta facendo il possibile perché i lavori siano compiuti entro i prossimi mesi, cosicché il IV novembre, sotto gli auspici del presidente della Repubblica, in presenza delle famiglie dei Caduti e con la partecipazione delle Associazioni di Arma e di masse popolari l’opera possa essere solennemente inaugurata in uno spirito di unione nazionale . Sarà nell’animo di tutti la fede che le 38 lapidi terranee della Via Eroica dell’Ossario ricordino la fede di Redipuglia, ma anche degli altri Ossari: di Oslavia, di Asiago, del Grappa, di Rovereto, di Fagarè, del Montello, del Pasubio e del Cimitero monumentale di Montelungo che raccoglie i Caduti del Corpo italiano di liberazione nella seconda guerra mondiale: la fede nella patria che non muore e che fino alla morte è dai suoi figli difesa. Sarà un gesto di gratitudine per i Morti e sarà un motivo di incitamento per i vivi; incitamento a rinsaldare i vincoli della comunità nazionale sulla base delle libere istituzioni e a proteggere uniti la pace e l’indipendenza dell’Italia.
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Cari concittadini, cari conterranei, signori espositori, visito sempre con grande interesse questa mostra specializzata, perché le attrezzature del turismo corrispondono ad una esigenza che si fonda sulla forza personale; basti pensare ai muscoli degli alpini, alle esperienze che sono necessarie perché l’artigianato si sviluppi; esperienze che richiedono una unione di forze che hanno qui una rassegna notevole; così anche l’attrezzatura alberghiera, che si fonda nella maggior parte dei casi su una collaborazione di famiglie e di imprese famigliari. Soprattutto interessa il vedere, in questa esposizione, un certo sforzo di distribuzione di redditi integrativi per centinaia di migliaia di persone. Ciò è rappresentato dall’interessamento e dall’apporto recati da tutte quelle industrie e quelle attività che hanno relazione con il turismo e che sono una conseguenza di esso. Ricordo, ed il sen. Conci ricorda anche meglio di me, quale fosse nei tempi lontani la nostra preoccupazione che si fondava soprattutto allora sulle prospettive vinicole; e penso allo sviluppo che è venuto dopo e che noi non potevamo prevedere, in quanto è limitata la possibilità profetica anche degli uomini politici; uno sviluppo immenso nel campo delle prospettive turistiche internazionali. Per questo sviluppo sono necessarie soprattutto qualità di volontà, di forma e di carattere di una popolazione; quando anche queste forze ci sono, unite ad un certo senso di solidarietà, non c’è da temere nell’avvenire. Il Trentino oggi, anche se a taluni il suo spirito può apparire campanilistico e con tutti i difetti del regionalismo, dimostra uno sviluppo particolare delle energie individuali, dimostra di essere adatto ad affrontare le esigenze dell’avvenire. La Regione, fondendo queste caratteristiche del carattere locale e nazionale può essere come nessun’altra forza adatta a questo scopo. In questa esposizione convergono, come difficilmente altrove, le forze del lavoro, dall’artigianato alla piccola industria; di quel lavoro che il governo non dimentica. Ho inteso delle parole dal sindaco, alcuni chiari richiami a quello che il Trentino e la sua gente hanno fatto nei momenti difficili e che merita una adeguata considerazione; e anche questo il governo non lo dimentica. In queste esposizioni di tipo regionale, vedo anche una conferma di una direttiva economica; quella per cui è stata pubblicata una legge contro la disoccupazione ed in appoggio all’artigianato e alle piccole industrie. Si tratta di cose che non possono essere improvvisate in giorni o in settimane; ma di programmi che debbono essere realizzati in un periodo di tempo di parecchi anni; tuttavia noi seguiamo questa direttiva che ci è parsa giusta e come una conseguenza delle esigenze naturali della popolazione: riserviamo allo Stato, per quanto è possibile, la gestione dei servizi pubblici e di pubblico interesse, affidandoli al controllo delle autorità locali che ne garantiscono un maggiore successo ed evitano le speculazioni, ci riserviamo anche il controllo dei monopoli, in quanto questi possono risultare contrari all’interesse generale. La massima libertà invece negli altri settori, all’iniziativa individuale e privata; attuando, là dove è possibile, quella cooperazione che è data dalle forme miste regolatrici nelle quali si incontrano le energie individuali e quelle della collettività, così come avviene nel fenomeno cooperativo, del quale, voi trentini, siete all’avanguardia. La nostra direttiva politico-economica è direttiva di mediazione tra il sistema socialista totalitario e le esigenze di libertà individuale, spirituale e politica che sono proprie della democrazia politica. Considero la democrazia politica nei suoi aspetti economici come uno sforzo verso l’attuazione di una maggiore giustizia sociale, col rispetto delle esigenze spirituali e politiche dei popoli. Gli sforzi nazionali, possono essere utili o definitivi; ma niente è definitivo, se non c’è una pace: ecco il nostro problema. Tutti si chiedono: «ma poi avremo un periodo di pace?». Questo è il problema massimo per l’impostazione della economia politica e sociale e non crediate che sia un problema di poco. Bisogna trovare il modo di far convivere le maggioranze e le minoranze, per creare un ambiente di pace nella regione, onde far confluire tutte le forze sulla strada di progresso economico e sociale. Questo dipende da voi, trentini, lo so che non dipende da voi soli, ma spetta per due terzi a voi e per il resto agli altri. Auguriamoci poi che si riesca a realizzare anche la pace più ampia, la più ampia collaborazione che superi i confini, così come ha augurato l’oratore che mi ha preceduto. La pace europea è il problema massimo, che ci assilla e tutto quello che si fa oggi corrisponde ad una ragione e ad una necessità. Non sono troppo ottimista né sono certo di raggiungere il risultato che speriamo; tuttavia, una cosa è certa: o tutti comprendono la necessità della collaborazione e la attuano, altrimenti l’Europa è destinata a cadere. Questo è nei miei sforzi diplomatici. Non faccio della politica per sport, né posseggo una inclinazione particolare nei ritrovi internazionali alla formula del compromesso; ma la mia convinzione è che l’Europa si salvi mettendosi insieme; o il suo destino è la rovina. Le difficoltà certo non sono poche: abbiamo però il dovere ed il diritto di influire – con il massimo rispetto per i due contendenti – come può essere nella questione della Saar – perché le trattative trovino una soluzione. Non importa se sarà riservato a noi l’onore del successo; importa soprattutto che la nostra azione in questo campo attinga alla fonte della nostra tradizione e della grandezza della nostra storia che hanno [fatto] strada alla nostra civiltà e l’hanno difesa contro le barbarie. Lasciate che ci nutriamo di questa gloria che non è solo dei libri ma è anche dello spirito della tradizione della nostra gente ed auguriamoci di contribuire alla risoluzione del problema del consolidamento della pace; e tutte le industrie, tutte le attività si svilupperanno; e voi potrete realizzare la vostra nuova sede ed avrete uno strumento magnifico per dar vita a mostre di carattere internazionale e per attuare quella collaborazione tra i popoli che è la prima necessità e la più alta speranza del nostro avvenire.
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Conterranei e amici! Quanti nomi, quanti paesi, quante regioni sono qui rappresentate! Tutti amici, lo vedo dal viso, dagli occhi, dal vostro atteggiamento. Tutti amici, amici di oggi, ma amici anche di ieri, amici da lungo tempo. Non sono 40 anni, caro presidente Odorizzi , sono 50 anni di azione politica In questo paese ho cominciato ad occuparmi dei lavoratori più poveri, i lavoratori a favore dei quali si dovettero organizzare degli scioperi per arrivare a undici ore di lavoro, perché ne facevano quattordici. Erano i segantini che allora protraevano la loro giornata con le lampade a petrolio fin dentro la notte; e bisognava lavorare perché bisognava organizzarli, bisognava agire per condizioni di lavoro migliori, non solo nel salario, ma anche nel ricovero; nel modo di vivere, nelle necessità della vita; e allora feci le mie prime armi, o quasi le prime armi, oltre quelle che come studente universitario facevo con gli arrotini emigrati dalla Rendena, emigrati dal Trentino, anche essi poveri, abbandonati, in mezzo ad una nazione straniera e che avevano bisogno di un appoggio, di una organizzazione. Allora ho sentito, nel primo contatto con i miei montanari, e con quelli che avevano le necessità assolute della vita l’imperativo della coscienza: bisogna lavorare per questo popolo, perchè il popolo abbia quello che è necessario, sopratutto perchè non perda la fede negli uomini che hanno il senso cristiano e non venga abbandonato a coloro i quali nella lotta contro il Cristianesimo credono di trovare anche la soluzione dei problemi sociali. Ecco perchè, amici miei, questo incontro è incontro di popolo, gente del lavoro. Non sono qui rappresentate le ricchezze, non sono rappresentati antichi castelli, nè io le potrei rappresentare, perché mi mancano le attitudini, l’esperienza della ricchezza. Ma è qui rappresentato il lavoro, è rappresentata la povertà, è rappresentata la onesta vita della fatica. Amici miei, io vorrei avere una parola anzitutto per il presidente della Regione, Odorizzi, che mi ha introdotto in questo discorso. Una parola per dirgli che sono ben consapevole che oggi si inizia anche in modo particolare per gli abitanti di questa regione la campagna elettorale regionale. Non voglio occuparmi direttamente di elezioni, dei problemi dibattuti; sono cose che voi farete egregiamente durante la discussione che preparerà le decisioni elettorali. Voglio dirvi però – perché devo questa testimonianza dinanzi ad una assemblea che rappresenta non soltanto la Regione, ma parecchie altre regioni (vedo perfino l’Emilia, vedo fino la Sicilia, fino la Romagna rossa, ma non tutta rossa) –. Voglio testimoniare dinanzi a uomini del mio partito e di altri partiti che furono però collaboratori miei al governo, che sono qui presenti e ai quali mando un particolare saluto, che questa Regione – e non dico questa sola – ha fatto buona prova. E quando si è inscenata nel paese una grande campagna contro le Regioni in genere, si è commesso lo stesso errore di coloro i quali per armonia simmetrica vorrebbero che si facesse dappertutto quello che si è potuto fare in Sicilia, in Alto Adige o in Valle d’Aosta. Ecco qual è, mi pare, il metodo giusto di applicare anche la Costituzione. La Costituzione, è vero, ha un progetto, un disegno, ha stabilito uno Statuto generale, ma l’applicazione va fatta con l’esperienza, in base alle conclusioni e all’adattamento locali. Mi pare che questa sia la soluzione del problema. Non hanno ragione coloro che vorrebbero il sistema regionale dappertutto, senza distinzione di uomini e di colore locale. Quando si è organizzata la Regione in Alto Adige e nel Trentino, Regione che, voi sapete, si è costituita in base ad un trattato internazionale, firmato da me e dal ministro austriaco Gruber nel 1946 e a uno statuto elaborato con molta fatica, ma poi accettato all’unanimità da tutte e due le parti, quando si è organizzata questa Regione, allora si temeva, e non a torto, che si sviluppasse un campanilismo cantonale, un localismo troppo ristretto, una diminuzione di solidarietà nazionale e che insorgesse una nuova burocrazia, cioè nuovi impiegati accanto a quelli dello Stato e che tutto questo gravasse sopra i poveri contribuenti e sopra la gente del lavoro. C’era ragione di temere che le cose potessero finire così perché esempi ce ne sono. Invece devo dire che a quattro anni di distanza dalla sua costituzione anche se non ho ancora potuto leggere – pur conoscendone il contenuto essenziale – il volume ufficiale che riassume tutta l’attività dell’Ente, questa Regione non è stata contro lo Stato, ma ha lavorato per lo Stato, come un’articolazione dello Stato . E il presidente e i suoi assessori si sono sforzati di essere qualche cosa di integrativo dello Stato, non in antitesi con lo Stato. È naturale che sia così, perché essi ci hanno messo della buona volontà. Non c’è nessuno statuto al mondo, né frazionale, né comunale, né regionale, che possa reggere e applicarsi senza la buona volontà, senza la tendenza all’accordo, la tendenza alle soluzioni pacifiche. Devo dire che il presidente Odorizzi, i suoi collaboratori e coloro che l’hanno sostenuto hanno avuto dell’autonomia regionale, con le esigenze nazionali sempre di mira questo scopo: conciliare lo sviluppo dello Stato e della patria. Perfino nelle questioni finanziarie dove le cose si presentano difficili (poiché si tratta di stabilire anno per anno delle percentuali che vanno in parte alla Regione e in parte allo Stato) e dove ci vuole sempre un certo sforzo di conciliazione, devo proclamare che questo sforzo di conciliazione è stato fatto. Devo dirlo come rappresentante dello Stato, ma devo dirlo anche come autore, o come collaboratore, dell’accordo con Gruber del 1946, che questa tendenza alla composizione, alla conciliazione c’è stata anche fra le due nazionalità che abitano questa regione e abbiamo dato così un esempio di come si devono trattare questi problemi. Certamente ci sono sempre dei malcontenti, ci sono delle frizioni, ci sono sempre delle impossibilità di soddisfare tutte le richieste, è vero. Però abbiamo ottenuto questo: abbiamo portato la maggioranza italiana e la minoranza tedesca accanto ai ladini e li abbiamo portati a lavorare insieme per lo sviluppo della Regione e delle province. È un grande fatto questo che bisogna sottolineare. Non bisogna fermarsi alle piccole cose e nemmeno agli articoli dei giornali, che naturalmente si fanno eco dei singoli stati d’animo che passano; bisogna guardare al di là della contingenza, mettere l’accento su questo fatto dell’accordo e della soluzione che si è trovata nella buona volontà degli uomini. Io mi auguro che, come son certissimo, non mancherà questa buona volontà da parte italiana e che essa non verrà meno nemmeno da parte dei Tedeschi e saluto con particolare entusiasmo i rappresentanti della democrazia italiana dell’Alto Adige, che son venuti qui a dimostrare non soltanto la forza della democrazia, ma la forza, la tendenza e la buona volontà di conciliarsi nel lavoro, assieme ai rappresentanti della maggioranza tedesca. Fino ad oggi la Regione – ripeto che non è la sola, ma mi devo occupare soltanto di questa in questo momento – ha dimostrato di spender poco anche per l’amministrazione. Non è arrivata nemmeno al 4% del reddito delle entrate, anche se per l’amministrazione gli impiegati sono abbastanza pochi. Vi raccomando di rimanere a questo livello e devo e vi anticipo questa lode e questo riconoscimento perchè serva anche di sprone a continuare su questa strada. Voi direte che lo Stato – a questo riguardo – predica bene e razzola male; ma noi ci siamo trovati con una eredità terribile dell’amministrazione e non possiamo da oggi a domani cambiare, mutare, ridurre, perchè, voi sapete, c’è sotto anche un problema di carattere regionale. Un altro argomento che io traggo dall’amministrazione regionale così ben riuscita è questo: è necessario avere la maggioranza. La maggioranza non la potrete formare se non avrete una forte Democrazia cristiana. E quindi, lasciatemi dire, anche se ci saranno ragioni di malcontento e ci saranno degli errori, non lasciatevi perdere nei rivoli di un indipendentismo egoista, nei vicoli isolati che non conducono a niente; bisogna marciare sulla strada compatti, organizzati, correggersi da sé, dentro di sé, nel partito. Il partito ha un’autorizzazione a esistere solo per questo; deve avere una funzione di forza quando si tratta di arrivare a delle conclusioni e a dichiarazioni di maggioranza. Ma da questa campagna, da questa situazione regionale, vorrei derivare anche un’altra osservazione generale . Si è fatta la campagna contro le Regioni, cioè contro l’art. 115 della Costituzione, il quale stabilisce che le Regioni vengano introdotte dappertutto, e si è avuto – come ho detto – il torto di sostenere, da una parte, che bisognava introdurle dappertutto, dall’altra che non bisognava introdurle affatto. Che cosa dobbiamo dedurre? Che anche le Costituzioni debbono essere attuate cum grano salis, cioè con l’esperienza, con i frutti dell’esperienza. La Costituzione è uno statuto; hanno studiato i professori costituzionalisti e hanno, attraverso le forme parlamentari, stabilito che bisogna far questo e quest’altro. Ma poi in pratica, per stabilire quale riforma sia esatta, quale formulazione sia quella pratica, bisogna vedere le conseguenze nell’applicazione. Ecco perchè io derivo una conclusione per tutta la Costituzione – e si fa rimprovero all’attuale maggioranza o all’attuale governo che la Costituzione non l’applica dappertutto – io dico: andate adagio, chi v’ha detto che della Costituzione, costruita con tanta fatica e che dovrebbe valere per secoli (questa almeno è l’illusione umana) debba essere fatto tutto, applicato tutto entro quattro, cinque anni? Specialmente quando – come adesso – noi siamo costretti, angariati, eccitati, incalzati dai problemi della ricostruzione materiale economica della nazione? È ben naturale dunque che vengano di mezzo molti altri problemi di carattere organizzativo e che altri problemi, direi di simmetria costituzionale, possano stare in arretrato. E allora, la Costituzione bisogna che venga attuata; però cum grano salis, con l’esperienza a tempo e luogo. Badate bene, quando io dico che qua c’è anche prevista una procedura di revisione, che corregga quello che si era proposto prima, non intendo dire che sia attuale una riforma delle basi fondamentali della Costituzione. Anzi, dico che per la dignità, per la serietà dello Stato italiano, perchè il popolo non pigli scandalo da questi continui cambiamenti, bisogna che le parti sostanziali siano permanenti, resistano alla critica e si protraggano al di là delle esperienze. Però, ci sono degli istituti, degli organi sopratutto, i quali possono subire delle modificazioni. Quando si dice da parte degli avversari: applicate la Costituzione, si pensa a certe leggi e a certi problemi da risolvere costituzionalmente; ma certi altri invece essi li escludono, per esempio, una legge sopra lo sciopero, una legge sulla stampa, la fissazione del possesso agricolo, tutti argomenti esplicitamente previsti nella Costituzione. E quante proteste invece la legge agraria ha suscitato, nonostante che la Costituzione l’avesse precisamente preveduta! Voglio dire in definitiva che bisogna intendersi. Se la Costituzione, nel suo complesso, deve rimanere nelle sue fondamenta, deve essere un impegno, una garanzia d’ordine, di tranquillità, dignità dello Stato; però, bisogna anche ammettere che dei cambiamenti possono essere fatti. Per questo c’è il Parlamento, per questo c’è la opinione pubblica e ci sono le campagne elettorali. Voi dovete immaginare che durante la campagna elettorale generale che verrà nel 1953 verranno sollevate per forza anche queste questioni, le quali devono essere portate a discussione pubblica. La Costituzione non è un semplice libro, un pezzo di carta; dev’essere qualcosa di vivente. La Costituzione è vivente. La Costituzione vivente è formata – diremo così – da un motore che si chiama sistema democratico e da due ali, che sono le due Camere. Ora il sistema democratico parlamentare su che cosa si fonda? Si fonda su questo principio: la maggioranza ha la responsabilità della decisione e la minoranza controlla. Quando Togliatti vi stampa l’Unità e intende dire con l’Unità, mettere tutti assieme, far l’ammasso dei voti e dei partiti, è perché in questo mazzo, come s’è visto in tutti gli altri Stati, i comunisti riescono con l’abilità e con la forza ad assorbire tutti gli altri e l’ammasso unitario porta al totalitarismo. Questo non lo vogliamo; vogliamo il principio democratico che stabilisce queste due forze: il controllo della minoranza, ma la decisione della maggioranza. Guardate, questo avviene dappertutto; quando vi trovate in qualsiasi riunione dove si discute, quando siete alla fine della discussione, bisogna decidere, non si può continuare in eterno e allora decide chi ha la maggioranza. E c’è una regola ormai, storta o non storta. Certe volte la regola viene male applicata, ma insomma è una regola a cui si è arrivati con l’esperienza umana. Per andare d’accordo cerchiamo una formula di maggioranza; chi ha la maggioranza vuol dire che deve avere la responsabilità di quello che fa; chi ha la minoranza, ha il dovere di accettare, sia pure temporaneamente, la decisione. In questo principio voi governate nel Consiglio comunale, nel Consiglio regionale, anche nel Consiglio dei ministri. Nella maggior parte dei casi, se non si tratta di decisioni severe, si viene ad una decisione di maggioranza. E anche alla Camera, nella Commissione oppure nella seduta plenaria, sempre vige il principio della maggioranza. Se no, che cosa avviene? Se non c’è una possibilità di ottenere o una volontà collettiva o una rappresentativa, allora dovete arrivare a fare i decreti legge, dovete arrivare alla dittatura aperta o larvata. Ecco perché il sistema maggioritario (cioè in questo senso, non parlo qui di sistema elettorale, ma di sistema maggioritario) è quello secondo il quale decide chi ha la responsabilità. Un altro sistema maggioritario è applicato in certi paesi subito, cioè quando si elegge il deputato. Vi ricordate quando avevamo la «Quinta Curia» (voi qui presenti non ricordate perché siete troppo giovani) quando avevamo il collegio nominale (neanche questo vi ricordate, siete troppo giovani. Benedetta gioventù, l’esperienza nostra purtroppo vaperduta!) ed uno veniva presentato candidato deputato, riusciva quello che aveva la maggioranza. Così fanno in Inghilterra, così fanno negli Stati Uniti, così hanno fatto la maggior parte degli Stati del mondo; già fin dal principio dunque, chi decide è la maggioranza. La minoranza non si adatta. Se poi non si fa così, non si ottiene la maggioranza, nel momento elettorale, la maggioranza, nel momento decisivo delle decisioni, capita spesso in una certa fase. Sarà alla Camera, sarà al Consiglio dei ministri, chi decide è sempre il pensiero della maggioranza. Ora, se nella formazione delle leggi c’è la maggioranza, voi mi chiedete: la rappresentanza proporzionale che abbiamo anche qui nella regione perché si introduce? Si introduce la maggioranza proporzionale per una certa giustizia distributiva, e sapete quando prevale il criterio della proporzionale in confronto della maggioranza? Quando si tratta di rappresentare interessi. Ora presentate frazioni in un paese lontano, una frazione non è giusto maggiorarla; bisogna fare in modo che venga rappresentata anche la minoranza; quando in un paese vi sono diverse nazionalità, tedeschi, italiani, ecc. non è giusto sottoporli a una assoluta maggioranza. Insomma ci son certe situazioni in cui il principio della rappresentanza proporzionale è prevalente, ma ci sono altri momenti in cui viceversa è prevalente il principio della responsabilità della maggioranza. L’onorevole Nenni – non c’è discorso nel quale non lo onori di una citazione – in un articolo recente, si preoccupa che la riforma elettorale che noi «minacciamo» non venga a spezzare «il processo in corso di integrazione delle masse nello Stato repubblicano» . Domando io: quale integrazione? Da quando è in corso questa integrazione? Quando penso ai tentativi che abbiamo fatto fino al 1947 – fino a quando cioè abbiamo governato con i comunisti – per ottenere, con un grande sforzo di conciliazione, questa integrazione e ci siamo poi accorti che i comunisti facevano il nido per conquistare tutto e abbiamo avuto contemporaneamente l’esempio degli altri Stati nei quali la introduzione dei comunisti ha voluto dire la soppressione non solo dei collaboratori, ma della minoranza, allora l’integrazione ci ha fatto paura e li abbiamo tenuti lontani il più possibile. Ma se l’onorevole Nenni crede che lui può convertirli, oppure convertire una parte, oppure cominciare a convertire se stesso, noi diciamo che non è nelle nostre intenzioni creare un sistema che precluda ogni conversazione. Tutti coloro che vogliono convertirsi, trovano la porta aperta. Tutti coloro i quali vogliono ragionare e vogliono sentire sopratutto la decisione per la formazione della volontà collettiva nazionale, nello Stato nazionale, possono domani adire a creare anche una maggioranza. Però bisogna intendersi: questo accettare, questo aderire, questo inserirsi – come dicono essi – non deve essere incidentale, ma programmatico. Quando invece sento dire che lo Stato-guida non è il proprio Stato nazionale, ma la Russia, quando sento dire che si fa una identità fra gli scopi e le finalità sociali-politiche della Russia, si identificano gli interessi e le finalità delle classi operaie anche in Italia come in tutto il mondo, allora dico: ma dov’è lo Stato italiano, la volontà collettiva della nazione come si forma? Siete veramente fatti voi per contribuire – e ne avete piena giustificazione? – alla formazione della volontà collettiva della nazione? E poi, se ci fossero soltanto i princìpi dello Stato-guida! Ma ditemi voi – ci sono dei comunisti qui presenti – ditemi il nome di un solo paese dove i comunisti governano pacificamente insieme agli altri partiti, oppure dove hanno – essi maggioranza – tollerato che esista una minoranza, anche socialista, anche anarchica (quindi tutt’altro che reazionaria). Mi dicano il nome di questo paese: non lo possono dire; è impossibile, non esiste. Allora bisogna dire che governo e partecipazione al governo dei comunisti – fino a che questi sono fedeli alla pratica seguita negli altri paesi o alla dottrina che oggi stesso proclamano – è impossibile: è in conflitto con la libertà, con la democrazia. Allora non è questione, amici miei, della riforma elettorale, dell’allargare e dello stringere; è questione di democrazia, è il sistema che non si accetta; è il sistema della libertà che noi dobbiamo difendere, perché questo è il problema principale; «libertà» non è una semplice parola scritta sul nostro scudo, no, si adatta benissimo alla situazione attuale per esprimere la essenza della nostra lotta; noi combattiamo per il partito, non combattiamo per comandare e dominare gli altri; combattiamo per essere liberi noi, per avere la libertà. Sembra, a leggere certi articoli dell’onorevole Nenni, che egli mi accusi di essere pessimista, di giudicare troppo male i comunisti, di non avere la speranza, né la fiducia nelle masse operaie; gli rispondo che fino a che quelle masse operaie sono educate a questi princìpi, fino a che vengono esaltati questi esempi che vi ho prima citato, certamente non abbiamo nessuna ragione di sperare; però la speranza è l’ultima dea. Se l’onorevole Nenni spera, io gli faccio i migliori auguri e gli dico questo: provi un po’, per un certo periodo a fare il tirocinio di una opposizione occidentale autonoma e poi vedremo se attraverso quel periodo riuscirà a superare l’esame. Potrei dire ancora molte altre cose sul pericolo comunista; ma è certo che se io insistessi su questo argomento, troverei i giornali, anche non comunisti, che direbbero: ecco la solita storia, la solita polemica, le solite accuse, il solito spauracchio spaventapasseri. So che per voi e per il pubblico che mi ascolta, bastano gli accenni che ho fatto. E mi rivolgo quindi dall’altra parte. Se ci fosse stata al congresso del Msi soltanto un’affermazione dell’economia programmatica socializzatrice (sentite come suona bene) corporativa, si potrebbe discutere di queste cose. C’è una parte di verità, una parte di errore, sopratutto molta fantasia, molta fraseologia senza contenuto: la esperienza l’abbiamo fatta e abbiamo visto come il sistema corporativo presupponesse la dittatura; ma su tutto questo – dico – si potrebbe ancora discutere se si fosse certi che essi accettano il metodo democratico. Dicono veramente che lo accettano nei rapporti fra i partiti. È facile accettarlo fra i partiti quando si è minoranza. Ma ci dicano: il metodo democratico lo accettano e lo applicano come Stato, se essi conquistano il potere dello Stato? Non c’è nessuna garanzia che lo facciano. Al loro congresso hanno fatto delle affermazioni ripetute, dicendo che la democrazia è un espediente tattico, ma in realtà il concetto dello Stato fascista – non è stata pronunciata la parola per la legge Scelba – ne impedirà l’applicazione. Certo se non ci fossero che un programma od una mozione; se fossimo dinanzi a giovani inesperti, a giovani che vogliono tentare una nuova via, animati da spirito patriottico per ricostruire l’Italia, bisognerebbe essere molto generosi con gli spiriti generosi, lasciarli sperimentare, rinfrancarli nella corsa e nel cammino; ma forse per colpa dell’età e dell’esperienza antica non riesco a vederli, anche se non li conosco personalmente, ma non riesco a vederli se non con gli stivali e col pugnale al fianco. Impossibile non vederli gambalati e in camicia nera; è impossibile per i miei occhi o forse mi sbaglio? Il passato pesa, vedo che se li lasciamo fare, se li lasciassimo fare, metterebbero ancora l’Italia al passo dell’oca. Qui siamo vicini al Brennero; come non pensare ai viaggi del Brennero e agli incontri dei dittatori, ad una politica di asservimento alla Germania? Il passato si dovrebbe dimenticare, si dovrebbe amnistiare; io sono pronto a dimenticare; ma perchè me lo ricordano sempre? Perchè mi accusano di essere debole, di essere vile? Perchè mi dicono di essere troppo acquiescente quando vado a Parigi, quando mi propongo di andare a Bonn per trattare, per discutere? Voi, accusatori di oggi, ieri eravate i servitori della Germania. Che alleati erano codesti? Mussolini riceveva di notte in un plico la notizia che i tedeschi erano entrati in Polonia; o alle cinque di mattina che erano entrati nel Belgio; o durante un’altra notte che ormai veniva attaccata la Russia. L’Italia veniva così trascinata, coinvolta, sbattuta in quel terribile disastro. Quello era l’asservimento! Dico a voi, che ci accusate di debolezza; è vero, quando viaggiamo non portiamo il pennacchio e spesso non ci sono nemmeno le grandi folle che plaudono, ma non ci sono neanche le lacrime, non c’è il sangue sparso. Mussolini aveva il pensiero fisso che l’italiano ama il guerreggiare. Sono parole che cita l’onorevole Anfuso nel suo libro recente . Amava il guerreggiare l’italiano; un’idea fissa: e se fosse stata un’idea fissa! È passato, giudicherà la storia e giudicherà la Provvidenza. Non vogliamo esprimere le condanne, ma non possiamo accettare che coloro che lo hanno seguito oggi ritornino mascherandosi con le debite cautele, allo stesso pensiero, alle stesse affermazioni, agli stessi ideali; abbiamo il dovere, noi che siamo i più vecchi e che abbiamo fatto più esperienza, di dire: «badate che precipitate voi e il nostro popolo ancora in un’altra guerra». Siamo accusati di avere anche noi un esercito e di armarlo. Lo facciamo, perché purtroppo dittatori ve ne sono ancora e qualche prudenza è necessaria. Ma le nostre armi sono difensive; e non ci soccorrono mai, in nessun momento, idee di impero, idee di spazio vitale, idee di liberazione del Mediterraneo o di conquista africana. Queste idee imperialiste hanno gonfiato le vene dei capi di un tempo: esse hanno portato delle guerre, nelle quali – occorre subito dirlo a testimonianza di questo nobilissimo popolo – i nostri si sono valorosamente battuti. Nello stesso momento in cui oggi condanniamo gli errori di coloro che provocarono e diressero le guerre, noi ci inchiniamo con il massimo rispetto, col massimo amore, dinanzi alle vittime di queste guerre e dinanzi ai combattenti di tutte le guerre. Chi non ricorda quali altre cose fossero in pericolo nel secondo periodo della Repubblica sociale? Proprio lo stesso autore che ho citato si pone la domanda: «se Hitler avesse vinto, l’Alto Adige sarebbe ritornato all’Italia?» . Lui stesso che difende Mussolini meglio che può dice di dubitarne assai. Voi ricordate – amici di Trento e di Bolzano – i due governatori Hofer in questa regione e Rainer per Trieste. Essi hanno preparato la situazione di fatto e psicologica per l’annessione: hanno spinto i popoli a credere a una diversa soluzione del dopoguerra. E noi abbiamo trovato le popolazioni allogene ormai calde della illusione di far parte di un nuovo impero, di un nuovo regime nazionale. È stato necessario tutto un lavoro lentissimo, paziente, per ricuperare gli animi dopo tanta dispersione. L’autonomia è stata uno dei mezzi, insieme al costante ragionare, argomentare, persuadere, trovare una forma di accordo e di concessioni. Così abbiamo salvato l’Alto Adige ed abbiamo salvato l’anima di Trieste. Io non voglio arrestarmi a considerazioni su questo problema in questo momento, voi capite perché: preferisco lasciare al vostro entusiasmo la espressione delle mie convinzioni e della mia fermissima volontà. Ci accusano di debolezze di fronte agli americani: uno degli errori commessi da Hitler e da Mussolini è stato quello di non considerare l’opinione pubblica americana. Oggi sembra si voglia ripetere lo stesso errore madornale. Io non dico che gli americani hanno sempre ragione. Hanno anch’essi le loro particolari visioni, ma costituiscono una democrazia capace di una forza straordinaria, capace di correggersi da sé. Essa per la sua stessa forma offre una garanzia maggiore di pace di qualsiasi regime di dittatura. Amici miei, Mussolini disse al suo ambasciatore a Berlino da dove venivano insistenze perchè si punissero i «traditori» (e i traditori erano gli imputati del processo di Verona, compreso il genero Ciano): «quanto ai processi per i traditori, potete dire che si sta facendo il necessario» . Mi par di sentirla questa espressione: «si sta facendo il necessario». Voi lo sapete, il processo di Verona fu una delle più grandi iniquità della storia italiana dopo il Medioevo. In tutta la nostra storia del Risorgimento vi furono conflitti, battaglie al di fuori e al di dentro della penisola; ebbene mai un fatto così atroce si verificò nella storia italiana. Mai. E lo affermiamo perchè non si creda che simili delitti possano passare inosservati. Oggi solo nei paesi retti dai comunisti si ricorre a simili sistemi. Questo è il pericolo dell’estrema destra; questa è la minaccia, che ci può venire da quella parte. Si deride la nostra politica, si dice che è la politica in pantofole. Sì, è vero, noi discutiamo pazientemente sull’ una e l’altra questione: discutiamo a Parigi, a Strasburgo; ma non sono né le lacrime, né il sangue. Facciamo dei lenti progressi ma sono progressi pacifici per consolidare la pace. Non so come tutta questa tragedia europea può andare a finire; mi manca il dono della profezia; ma ho quello della fede: credo nella pace, e lavoro per la pace. Nelle nostre chiese, un tempo, per la tradizione antica, si cantava l’Oremus per l’imperatore, perchè si trattava del Sacro Romano Impero. Finito il Sacro Romano Impero, è venuto un altro Oremus, molto più ampio: «degnati, o Signore, di guardare anche a coloro che ci reggono e indirizza i loro pensieri alla giustizia e alla pace». Mi piace questo Oremus: è programmatico e stabilisce la giustizia all’interno e nel mondo e la pace sopratutto. Io non so se qui sono presenti degli uomini che appartengono al Partito monarchico. Ho pensato se dovevo per il momento tacere o dissimulare su questo problema. Sento la responsabilità di parlare. Bisogna chiedersi a questo punto se uomini di sentimenti monarchici, rimasti per un’ora entro diversi partiti, considerino davvero nell’interesse della nazione giusto e tempestivo l’inquadrarsi in uno speciale partito di attivismo monarchico, escludendosi così dalla possibilità di partecipare ad una maggioranza che governi la Repubblica, nello spirito della Costituzione, deliberata ad unanimità. Essi contestano il plebiscito, indetto in base al decreto luogotenenziale del 16 marzo 1946 (plebiscito concordato col Luogotenente), il cui risultato è l’elemento fondamentale della Costituzione; e puntano su una revisione che è formalmente esclusa dal testo statutario, e in ogni caso potrebbe maturare solo attraverso due fasi: 1) abolire l’art. 139 secondo il quale la revisione costituzionale non può essere fatta per la forma dello Stato; 2) arrivare all’applicazione della revisione costituzionale con maggioranza qualificata nelle due Camere. Chiedo se c’è una prospettiva di poter effettuare ciò entro un tempo prevedibile. Perché allora essi si pongono in un vicolo cieco, alleandosi magari col Msi repubblicano? Lo dice nel suo libro lo stesso Anfuso («la crisi di Danzica evitò quella italiana prolungando il regno dei Savoia»), che Mussolini voleva nel 1939 disfarsi del sovrano e della sua casa. Comunque sia stato nel passato, comunque possa essere nell’avvenire, non si esce da questa questione senza una nuova crisi del paese. È il momento di provocarla? domando io agli uomini di coscienza e di responsabilità. Ma non vedete che dobbiamo guardarci le spalle dal comunismo, che domani può ridurci alle condizioni della Cecoslovacchia, della Bulgaria, dell’Ungheria? Come potete sollevare oggi la questione della Monarchia? Salviamo la libertà, anzitutto, questo è il problema. Anche coloro che conservano nel cuore la tradizione monarchica devono trovare più patriottico affidare alla storia la maturazione delle loro aspirazioni lavorando intanto concordi per la salvezza della libertà. Questa concordia però esige un’attitudine e un’azione leale verso la Repubblica. Avevo pensato di non parlare della legge elettorale. Ma poiché si chiede il nostro pensiero dirò quello che in questo momento è possibile dire. Nenni dice che la stabilità del governo poco gli importa; per lui è ottimo il sistema francese che durante il periodo di Mussolini (in cui c’era una forzosa stabilità, eccettuato qualche Starace cambiato) subì 43 mutamenti di ministeri. In realtà questa mancanza di stabilità del governo ha costituito senza dubbio uno dei contributi alla disgregazione della nazione francese nei momenti pericolosi. Quando noi parliamo di stabilità di governo non intendiamo la permanenza al governo di De Gasperi o di Gonella o del Partito democratico cristiano. No. L’alternativa può esserci, ma dentro le frontiere della democrazia italiana. Si tratta di facilitare la formazione di una coalizione di forze centrali che, essendo di accordo sull’impostazione dei rapporti internazionali e sui criteri del regime democratico presentino la risultante delle tendenze costruttive nella democrazia della Repubblica italiana. Oggi come oggi, non si tratta di fare delle leggi che precludano qualsiasi evoluzione. Oggi come oggi la situazione è quella che vi ho descritta. Ci sono dall’altra parte, accanto a queste forze centrali, due forze periferiche, una a destra e una a sinistra, che sono esse stesse incapaci di accordarsi sui princìpi di governo. Nonostante qualche dichiarazione dell’onorevole Almirante mi pare infatti difficile che comunisti e missini si mettano d’accordo per fare il governo, a meno che non duri 24 ore. Sommate insieme queste forze sono però capaci di impedire che si faccia un altro governo. È la parte negativa, l’unione per la demolizione e la impossibilità dell’unione per la costruzione. Questa la situazione di fatto: la somma di tali forze negative ci costringe a pensare alla riforma elettorale. Quale riforma elettorale? Quanti progetti, quante idee, quante discussioni! Ebbene il governo anche qui ha la sua responsabilità e la prenderà al momento opportuno; farà le sue consultazioni e presenterà un progetto di legge, che sarà discusso alle Camere e affidato alla pubblica opinione: le oche del Campidoglio non hanno alcuna ragione di gridare, quasi crollasse la democrazia. Non vogliamo affatto precludere la strada anche agli altri partiti che restino al di fuori dei quattro centrali, che hanno lavorato insieme il 18 aprile ed hanno uomini esperti e capaci. Questo è il nucleo centrale. Se poi da sinistra o da destra venissero delle conversioni (uomini che accettano la piattaforma comune e siano più capaci, più patriottici) la porta sarà aperta. Il nuovo sistema dovrebbe servire: 1) non a un partito solo ma alla democrazia; 2) a rispettare il principio di maggioranza (cioè la responsabilità della decisione); 3) rendere possibile la collaborazione dei partiti che accettino sinceramente il presente regime democratico; 4) assicurare il controllo delle minoranze. Cari amici, io sono uomo di partito, ho aiutato a fondare il partito e anche oggi mi sento legato al programma del partito e credo fermamente, nonostante tutto il male che si dice della partitocrazia, che il partito è necessario perchè è inquadramento dell’idealismo e della disciplina e tutti i tentativi dell’indipendentismo svelano egoismo e incapacità disciplinare di subordinare la propria forza. Bisogna che i quadri ci siano e i ranghi ci siano. Ma fissato questo dobbiamo capire che lo schieramento delle forze realizzatrici deve essere il più largo possibile. Questo è l’imperativo italiano nazionale in questo momento. Se per arrivare a ciò convenisse amnistiare il passato noi dovremmo farlo, purchè incontrassimo sincerità di adesione democratica e generosità di sentimento nazionale. Ma dobbiamo pretendere che la democrazia possa difendersi con la legge di tutti, cioè col codice penale e la magistratura ordinaria, che il Sindacato non sia il nemico, ma il collaboratore dello Stato democratico e che chi guadagna paghi in proporzione. Che il capitale senta le esigenze sociali e la superiorità del lavoro, che la produttività agricola aumenti, che la giustizia sociale faccia la sua strada. A queste affermazioni programmatiche corrispondono già leggi in esecuzione o disegni di legge innanzi alle Camere. I partiti che si preparano alle elezioni con animo costruttivo si concorderanno su programmi comuni o paralleli, a seconda che preferiranno la responsabilità di governo prima delle elezioni o la maggior libertà della marcia propria, diretta alla stessa meta. Ma esaminando ciò che il governo ha avviato o proposto per ogni settore economico, specie per la lotta contro la disoccupazione e il risanamento del Mezzogiorno, si troverà che converrà sopratutto eseguire, accelerare l’esecuzione di quanto si è autorizzati e impegnati già a fare. Amici, la Democrazia cristiana è una forza conservatrice e rinnovatrice ad un tempo. Conserva e alimenta le forze spirituali, le nobili tradizioni nazionali e trae dal Vangelo fermenti di vitalità e fraternità; e spiega in sé quella legge suprema di dilatazione delle menti e dei cuori, che altri chiamano sentimento di libertà o umanitarismo sociale e che noi deriviamo dal Vangelo. Il rinnovare invece riguarda le strutture sociali, l’organismo economico, l’architettura politica. Badate bene, amici; se non sperassi di parlarvi ancora un’altra volta, direi che lo lascio per testamento. La Democrazia cristiana cresce forte e robusta se affonda le radici nell’humus benefico cristiano ma diventa garanzia della vitalità nazionale di domani e di sempre se le sue fronde si sviluppano al sole della libertà e in clima di temperanza. Le forme mutano, lo spirito domina sopra tutti i cambiamenti. Amici predazzani, 50 anni fa ci occupavamo dei segantini, dei lavoratori in genere, della vicinia o delle questioni del feudo. Oggi, anche queste alte valli, sono cambiate. Con ritmo nervoso e rapido le acque cambiano il corso per il lavoro che deve procurare nuove energie. Ma le fonti dell’Avisio e del Travignolo sono sempre quelle. Le nostre silenziose e sonanti acque oggi echeggiano di grida festose di tutte le nuove generazioni; guardate lo spettacolo: pare che i popoli ogni anno più si avvicinino alle vette. Perchè allora dovremmo dubitare dell’ascensione della nostra patria? Scusate se qui, nel paese di mia madre, mi pare di tornare col pensiero alle fonti delle mie e delle vostre energie. Bisogna sperare nell’ascensione della patria ad una condizione: purchè nel faticoso cammino, incalzati come siamo dai problemi sociali e dalle folle non sempre acclamanti, ci ricordiamo, come il maestro Divino, di riposare verso il tramonto – per me il tramonto della vita – accanto alla fontana, e dissetarci alla fonte della Vita.
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Avendo noi accennato a quanto i vari giornali hanno pubblicato fra ieri e stamane, il presidente ha detto: Sono soddisfatto perché, in genere, i commenti sono molto favorevoli. Era da prevedersi che le due ali estreme avrebbero attaccato. E così è infatti già avvenuto da parte de l’Unità, dell’Avanti! e del Roma di Napoli . L’organo di Lauro mi attacca furiosamente per le mie affermazioni caute e riguardose, circa la questione monarchica. Gli estremi di sinistra, invece, mi accusano falsamente di voler includere nella coalizione il Partito nazionale monarchico. Entrambe le parti alterano il tenore e il significato delle mie dichiarazioni. L’Avanti! rileva fra l’altro che io, accennando alle contrastate e discusse possibilità della revisione costituzionale, avrei insegnato ai monarchici la strada per arrivare a un nuovo plebiscito: accusa particolarmente ridicola, quando si ricordi che la questione procedurale fu oggetto di discussione ancora durante la Costituente e venne presentata nel Mezzogiorno con insistenza durante la recente campagna elettorale. Vorrebbe ripetere ancora il suo pensiero in proposito, Eccellenza? In fondo non ho detto nulla di nuovo. Ma è vero che, alla vigilia di un’importante campagna elettorale, sentii la responsabilità di rivolgere a quei monarchici, che sono tali per tradizione sentimentale e non per calcolo politico, il monito: «badate di non mettervi in un vicolo cieco!». L’articolo 139 della Costituzione esclude che si possa far oggetto di una revisione costituzionale il cambiamento della forma dello Stato. Non potete quindi arrivare per questa via a un nuovo plebiscito. C’è, è vero, qualche costituzionalista, il quale afferma che si potrebbe arrivare alla meta passando per due fasi. La prima: voto delle Camere per l’abolizione dell’art. 139; la seconda: procedura di revisione per introdurre il plebiscito. È notorio però che tale iter delle due fasi viene ritenuto impraticabile dalla maggioranza dei costituzionalisti. Ad ogni modo lasciando da parte la questione giuridica, io, da uomo pratico, ho affermato che la situazione politica esclude in modo assoluto che nel Parlamento si trovi per ben due volte una maggioranza qualificata su tali argomenti. Ed ecco allora il «vicolo cieco». Perciò, a quei monarchici in buona fede ho detto: perché volete disertare la lotta che ora il paese deve condurre per la sua ricostruzione e la sua vita democratica, asserragliandovi entro un partito di un attivismo monarchico che non ha prospettive? È questa impostazione che ha provocato la reazione violenta dell’organo napoletano. Precisamente. Ma non è doveroso per un capo di governo formulare tali moniti? Non occorre attribuirli a particolari speculazioni machiavelliche? Pensa che l’argomento verrà discusso? È possibile. Ma mi pare opportuno che l’opinione pubblica venga illuminata a tempo. I giuristi possono prendere la parola: ma la prenderanno soprattutto gli uomini ragionevoli, che si preoccupano delle sorti del nostro paese.
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All’atto di inaugurazione del corso allievi ufficiali somali di polizia, formulo ogni migliore augurio e soprattutto quello che i giovani allievi somali possano rendersi degni delle gloriose tradizioni dei carabinieri traendo insegnamento e guida per la esplicazione della loro missione presente e futura dall’alto ed eroico senso del dovere sempre dimostrato dall’Arma.
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Signore, signori, è con vivo piacere che porgo il mio saluto cordiale ai delegati dei 46 Stati membri dell’Unione internazionale degli organismi ufficiali di turismo convenuti da tutti i continenti in questa splendida città di Napoli, particolarmente cara a tutti gli italiani. L’Italia accoglie con intima simpatia questa assise e si dimostra riconoscente ed onorata di essere stata chiamata ad ospitarla. Il Congresso che sta per aprirsi rientra tra le manifestazioni di quella volontà di collaborazione pacifica fra le nazioni che trova alimento nell’aspirazione stessa dei popoli ad una coesistenza permeata di reciproca amicizia e comprensione. Il turismo, da fenomeno di proporzioni ristrette, è venuto assumendo in qualche decennio una tale importanza, per i suoi riflessi di ordine culturale, economico e sociale, da dover essere considerato come uno dei più salienti aspetti della vita contemporanea, nella maggioranza dei paesi. Noi siamo felici di questa nuova tendenza, che è foriera di progresso e che come tale va amorevolmente incoraggiata. È ancor vivo in noi il sentimento di prostrazione che ci accolse allorché, al termine del secondo, immane flagello, i fondamentali elementi della civile convivenza apparvero come dissolti nelle rovine spirituali e materiali di tanti paesi. Rifacendosi a questo doloroso e recente passato, si è portati a valutare con maggiore comprensione l’entità e la tenacia dello sforzo che ciascuno dei delegati qui presenti ha dovuto compiere per assicurare, nei limiti del possibile, il libero movimento delle persone da paese a paese, da continente a continente. Difficoltà, non lievi, sono state superate sia nel rimuovere formalità, limiti e ostacoli di vario genere, imposti dallo stato di belligeranza, sia nel rimuovere e incoraggiare la riorganizzazione delle attività turistiche, appena ripristinate le condizioni di pace. Talvolta il lavoro, di per sé arduo, degli organismi nazionali di turismo, è stato reso ancor più duro, per una certa resistenza che essi hanno incontrato sul piano politico legislativo, resistenza che può aver ritardato o ritardare tuttora il conseguimento di importanti obiettivi, ma che è anche, in larga misura, motivata dall’assillo dei vari Stati di risolvere più urgenti problemi imposti dalla dura realtà del dopoguerra. Io sono convinto che il sensibile miglioramento della situazione generale in ogni parte debba ormai consentire a coloro che dirigono la politica turistica di raggiungere l’optimum in tappe molto più accorciate. Questa convinzione è, però, condizionata, da una parte, al normale progredire delle attività produttive e organizzative all’interno dei vari paesi e, dall’altra parte, allo svilupparsi di rapporti di sempre più stretta amicizia tra i popoli. Quale fervido assertore della necessità, vorrei dire fatalità, di una Europa unita, sono ancor più convinto che lavorando, come stiamo lavorando, senza tregua, per costruire questa unica, grande famiglia, nel vecchio continente, i risultati di questa nostra fatica, anche se ancora parziale, faranno presto sentire i loro benefici effetti sull’intero sistema politico, economico e sociale dei paesi che si vanno associando in più vasti complessi e si riverseranno favorevolmente in tutto il resto del mondo libero. E poiché il turismo tende inevitabilmente al superamento di tutte le barriere, di tutte le inutili sovrastrutture e di tutti gli egoismi preconcetti, siamo lieti di considerare questa attività come sincera alleata nella campagna per la pace mondiale. L’unione internazionale degli organismi ufficiali del turismo può ben ascriversi tale merito e l’Italia che è sempre stata presente attivamente negli organi deliberativi ed esecutivi dell’Unione, ha la coscienza, da parte sua, di essere stata zelante collaboratrice, avendo fedelmente seguito ed attuato, nei limiti del possibile, le deliberazioni prese in sede internazionale. Nella sua ansia di perfezionamento e di ricerca di nuovi strumenti di lavoro, l’Unione ha da poco creato nel suo seno un Istituto internazionale di ricerche scientifiche sul turismo che, nei prossimi giorni, riunirà i suoi membri in conferenza generale. Vada a tutti gli esperti che ne fanno parte l’augurio che i risultati delle indagini cui essi si accingono siano tali da favorire concretamente e rapidamente il superamento di quelle residue difficoltà che ancora si frappongono al pieno riconoscimento del diritto sacro dell’uomo a spostarsi da un luogo ad un altro in tutta libertà. Signore, Signori, nel termine di questo breve indirizzo, desidero formulare a nome del governo d’Italia, il più vivo, caloroso augurio per il miglior successo dei lavori del VII Congresso dell’Unione internazionale degli organismi ufficiali di turismo, augurio dal quale mia sia consentito di non disgiungere la speranza, altrettanto viva, che ciascuno dei delegati di un così gran numero di nazioni, ultimata questa nuova fatica, porti con sé, ai suoi congiunti ed amici, impressioni ispirate a sincera simpatia per il popolo italiano, la sua volontà di rinascita e il suo tradizionale senso di ospitalità.
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Cari amici napoletani, vi ringrazio di essere venuti così numerosi ad ascoltare queste mie parole di doveroso riconoscimento verso gli ideatori, gli organizzatori, i dirigenti, gli architetti, gli operai che hanno con il loro contributo d’intelligenza e di forza muscolare creata questa opera meravigliosa, magnifica. Io ne ho sentito parlare bene ma altro è sentirne parlare ed altro vedere con i propri occhi. È un’opera veramente grandiosa per cui tutta l’Italia deve congratularsi con voi, con i napoletani, con lo spirito di iniziativa, con la volontà, con l’ottimismo, che nonostante le miserie, nonostante le difficoltà del dopoguerra, guida il vostro lavoro. Vi ringrazio e ringrazio questi uomini che hanno lavorato con grande abnegazione, li ringrazio perché essi, malgrado ogni difficoltà, hanno dimostrato di saper portare a termine un’opera che dà sempre più all’Italia e a tutte le altre nazioni una prova dell’energia del popolo italiano e dell’ottimismo costruttivo del popolo napoletano. Quando, amici miei, si va dicendo sopra i giornali o nei Congressi mondiali che l’Italia o che il popolo italiano è imperialista, si dice una menzogna convenzionale, perché non è per imperialismo o per avidità di ricchezza che si è sviluppato, dapprima, il nostro impero coloniale e poi, in genere, si è sviluppato il lavoro italiano nelle comunità all’estero. No, non è avidità di ricchezza ma è bisogno, è necessità di lavoro! Noi potremmo rispondere a coloro i quali facilmente ci accusano di aderire all’idea imperialista che noi non conosciamo che un impero solo, che è l’impero del lavoro italiano, del lavoro in genere. Il nostro Stato è stato fondato su questi elementi come lo è soprattutto la nostra società. Questa era una mostra che doveva essere la prima esposizione dell’opera compiuta nelle colonie. Quando le colonie sono scomparse, in forma militare o burocratica o amministrativa, non vi è stato bisogno di eliminare nulla. Se guardate ai singoli padiglioni vedrete che quello che era esposto oggi è soprattutto espressione del lavoro italiano ed il lavoro rimane. Perciò noi diciamo a quegli italiani che sinora questo non hanno compreso; noi diciamo soprattutto agli amici ed ai nemici all’estero, noi diciamo loro: lasciate cadere ogni diffidenza contro il lavoro italiano, contro l’emigrazione. E specialmente oggi desidero rivolgere una parola ai nostri conterranei cittadini americani, oriundi italiani negli Stati Uniti. Anche nel corso della campagna elettorale, alla quale non prendiamo parte in nessuna maniera, senza essere né per l’uno né per l’altro dei partiti in lizza, vogliamo ricordare a questi italiani come essi hanno il dovere di far presente a chicchessia, a qualsiasi partito assuma la responsabilità del governo, hanno il dovere di ricordare la legge sull’emigrazione e le concessioni che già Truman aveva formulate nella legge presentata al governo. E oltre ciò, gli americani, amici di origine italiana, sinceri democratici (non parlo qui, in riferimento ai partiti, ma soltanto alle tendenze) questi amici debbono ricordare che l’Italia moderna è un paese democratico, una Repubblica democratica, che vuole giustizia e uguaglianza per tutti, ma che vuole difendere anche i propri figli. Si ricordino di appoggiare l’Italia perché appoggiando l’Italia appoggiano l’avvenire della democrazia. E come l’America è stata il primo Stato, parlo degli Stati Uniti del Nord America, come l’America è stato il primo Stato che ha compreso l’errore di aver concluso, di averci imposto un trattato ingiusto, è l’America che sente più di ogni altro che una sana applicazione del trattato per un Territorio libero è anche una prova di giustizia e di democrazia. Perciò io dico, dico di qui agli amici, ai moltissimi amici che abbiamo negli Stati Uniti e dovunque, siate leali cittadini del vostro Stato; noi ammiriamo questa lealtà; ma appunto per i rapporti di lealtà e collaborazione, ricordatevi della patria lontana, ricordatevi degli italiani di Trieste e del Territorio libero. Visitando i padiglioni, abbiamo trovato la dimostrazione dell’opera degli esploratori, dell’opera degli scopritori, dell’opera di uomini che hanno lottato per la scoperta e poi per il potenziamento dell’America. Ora è con un senso quasi di diritto storico che noi domandiamo che come i nostri hanno avuto fede nell’avvenire dell’America, l’America abbia fede nell’avvenire di questo nostro popolo troppo grande in un paese troppo piccolo; ma che non vuole conquiste, non vuole invadere paesi altrui e se vuole andare al di là delle sue frontiere è soltanto per lavorare e non per conquistare, per lavorare, per creare coma ha già fatto negli Stati Uniti, una prosperità ed una possibilità di vita. E quando si dice ironicamente (in questi giorni lo avete letto sui giornali, lo avete sentito in comizi), da certi partiti che si dicono tradizionalmente internazionalisti e lo dovrebbero essere, che vogliamo ricostruire l’Europa per un certo romanticismo medioevale, feudale, che fa ricordare i tempi di Carlo Magno, noi possiamo rispondere: non si tratta di ricostruire Imperi, Stati, società di un tempo che sono superate: altre sono oggi le basi della società, altra è la vitalizzazione, diverse sono le aspirazioni e le energie dei popoli. Non è che noi vogliamo ritornare a queste forme antiche e sorpassate, perchè il problema che impostiamo è un problema di lavoro, di libera circolazione del lavoro, di circolazione italiana e soprattutto di circolazione di nuovo lavoro. Ecco perché è inutile, è risibile che alcuni avversari anche in patria nostra vogliano accusarci di voler noi fondare un’Europa cattolica, un’Europa del ’600 o addirittura del ’900. No, noi non guardiamo all’indietro. La nostra opera ha per base la solidarietà, ma la solidarietà anche oggi è una necessità assoluta ed è soprattutto una necessità di lavoro. Ovunque mi sono recato nei mie passati e recenti giri ho sentito aleggiare il lavoro italiano. Il riconoscimento di questo lavoro esige anche larghezza di idee, esige libertà di circolazione. Noi non vogliamo ritorni ad antichi tempi; ma sappiamo che abbiamo assolutamente necessità di allargare il mercato del lavoro, perché il nostro popolo in Italia non ha possibilità di espandersi come dovrebbe e potrebbe. Bisogna trovare il concorso di tutti coloro che guardino non soltanto agli interessi ristretti della propria nazione, ma che si preoccupino di considerare il problema della solidarietà in senso universale. Alcuni che sono per origine internazionalisti si oppongono al nostro movimento, creano intralci alla realizzazione delle nostre speranze. Noi resistiamo, noi agiamo, magari contro corrente, perché la nostra convinzione è profondissima ed è radicata in noi. La federazione europea agisce come mezzo pacifico, perché soprattutto noi vogliamo lavoro, perché vogliamo la pace, vogliamo assicurare la pace fra gli Stati. E per assicurare la pace bisogna prima di tutto che vadano d’accordo gli Stati confinanti in Europa. Ecco la ragione fondamentale perché noi perseguiamo questa grandiosa opera di pacificazione europea: un popolo libero ha tutte le possibilità di difendere la pace ed ha tutte le possibilità di difendere il proprio avvenire. Ecco perché, amici, quando si parla di una Europa unita, non si pronuncia una parola indefinita, non si accenna ad una utopia lontana perché si tratta di una qualche cosa che interessa non soltanto i politici ed i giornalisti, ma interessa soprattutto il mondo del lavoro, interessa gli operai italiani, come interessa gli operai di tutte le nazioni. Interessa soprattutto le possibilità industriali, gli sviluppi commerciali, interessa insomma la necessità del maggiore sviluppo del popolo italiano. Noi vogliamo che ciò ottenga l’adesione e l’appoggio delle forze sindacali. Amico Rubinacci che mi stai accanto e che rappresenti così degnamente il Ministero del Lavoro, nei tuoi contatti soprattutto con le rappresentanza sindacali, insisti presso le organizzazioni sindacali, insisti presso le organizzazioni operaie perchè comprendano a pieno, si rendano consapevoli di questo grande ideale che è soprattutto diretto a tutelare gli interessi dei lavoratori. Naturalmente questo esige che si ottenga anche il conforto e la solidarietà degli operai delle altre nazioni. Non si deve verificare, come è accaduto recentemente in Inghilterra che nostri operai, garantiti da contratti, abbiamo trovato organizzazioni più o meno ufficiali, più o meno riconosciute, ma ad ogni modo organizzazioni operaie che respingono il concorso degli operai italiani, che sarebbe tanto necessario per lo sviluppo di molte attività anche di quel paese. È una cosa che non si deve ammettere, questa infrazione della solidarietà. Bisogna che la società difenda la solidarietà, bisogna che la solidarietà diventi in questa nostra Europa elemento essenziale di ogni relazione altrimenti accadrebbe quello che è accaduto nelle antiche corporazioni che ebbero uno sviluppo solido, ma che poi finirono col degenerare e col diventare organismi che non permettevano assolutamente ad altri di sviluppare lo stesso lavoro o di svolgere opera artigianale. Ed allora venne la rivoluzione francese che in nome della libertà abolì queste corporazioni. Occorre che il principio di solidarietà divenga generale. Ora io dico queste mie parole dopo aver ammirato questa esposizione, dico una parola che è di fede nell’avvenire del mondo libero. Nonostante le difficoltà che ci dividono, gli uomini, si chiamino socialisti, si chiamino comunisti, si chiamino democratici cristiani, debbono rendersi consapevoli della indispensabile solidarietà che deve presiedere alle relazioni umane. Nonostante tutte le difficoltà io credo che la maggioranza dei lavoratori vorrà seguire questa idea che è idea del nostro avvenire democratico, della nostra espansione di lavoro. Se non fosse così non vi sarebbe progresso, ma regresso. Ed ora, amici carissimi, permettetemi che io dica accanto alle parole di riconoscimento e di gratitudine per tutti coloro che hanno lavorato alla mostra, che hanno contribuito alla sua affermazione, che io dica anche una parola di soddisfazione e di compiacimento per quello che è stato realizzato qui a Napoli. Io sono profondamente convinto che la mostra deve essere sviluppata nel tempo, non solo nell’interesse della città di Napoli, ma di tutto il paese come espressione di un nobile sforzo. Da essa lo stesso governo trae una parola di speranza e un ulteriore incitamento alla ferma volontà di consolidare l’Italia sulla via di una libera democrazia, fondata sulle solide basi del lavoro riconosciuto e organizzato: una democrazia politica sorretta da una democrazia sociale ed economica.
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Cari amici, mi resta poco da dire, ma per rispondere a qualcuno che dimentica la realtà delle cifre ho fatto alcune somme. Bilancio: sono stati spesi 30 miliardi fra i vari dicasteri. Non è una piccola cifra. È una somma notevole in proporzione a quanto può spendere lo Stato italiano. Mi pare un sogno che il disastro sia stato superato in un tempo relativamente breve. Non speravo che si potesse fare qualcosa così rapidamente. Ricordate quanto pessimismo era in tutta Italia? Perché siamo riusciti? Prima di tutto per un atto di volontà e di energia, che ha superato tutte le procedure legislative; perché la democrazia vinca, nei momenti di emergenza, occorre che la volontà e il senso di responsabilità prevalgano sulla procedura. La rapidità fu infatti dovuta alla procedura straordinaria adottata in seguito alla constatazione della fulmineità del disastro. Abbiamo speso 30 miliardi; un miliardo e mezzo per le strade, circa 10 miliardi per l’agricoltura, 5 miliardi e 625 milioni per l’assistenza, quattro miliardi e mezzo per i lavoro pubblici e per le case, molte case. Mi auguro di far scomparire le catapecchie e infatti fino ad oggi abbiamo costruito più case di quelle che erano state distrutte. Ma abbiamo altresì scoperto che in alcune zone del Polesine c’era lo stesso stato di arretratezza che nel meridione. La disgrazia ci ha fatto aprire gli occhi su miserie che non erano evidenti, ma tutto ciò non è risolvibile con il bilancio di emergenza. E il presidente dopo aver elencato i soccorsi internazionali, degli industriali, della Croce Rossa, ha dichiarato che l’attività del governo non si arresta alle opere costruite o in costruzione: abbiamo provveduto ad estirpare il male dell’anno scorso e a prevenire disgrazie possibili, ma occorre regolare tutta la sistemazione dei fiumi. È già davanti al Senato una legge sui fiumi che avrà la durata di un decennio con un’impostazione anno per anno. L’on. De Gasperi ha quindi esaminato le richieste presentate dal sen. Merlin; lo spianamento della fossa di Polesella per la quale ha dato assicurazione circa una sollecita attuazione; la costruzione di quattro acquedotti nel Polesine per la spesa complessiva già stanziata di 1.700 milioni (i denari ci sono e nessuno se li porta via), la strada di Roma, l’internamento delle valli da pesca. A proposito di quest’ultime, l’on. De Gasperi ha detto che gli organismi dello Stato hanno già comprato due valli e stanno facendo gli esperimenti circa la convenienza dell’operazione. Circa l’assistenza, l’on. De Gasperi ha detto che è stato istituito un fondo locale per dare un sussidio a chi ne ha assoluto bisogno. Speriamo – ha concluso – che attuando le opere, la disoccupazione venga diminuita. Questo è il bilancio contabile del disastro. Ma vi è anche un bilancio morale e pedagogico. Cosa abbiamo scoperto in seguito al disastro? Che nel passato la classe dirigente italiana non ha fatto il suo dovere nei confronti di questa povera gente. Lungi da me il proposito di condannarla in blocco, ma è vero che essa ha mancato completamente di sensibilità e non ha saputo né venire incontro né fare opera di mediazione. Ho visto con grande piacere l’iniziativa della Confindustria per quanto riguarda gli asili e spero che sia un acconto di quello che la classe dirigente avrebbe dovuto fare da quarant’anni. Un’altra constatazione che posso fare è che in questa contingenza il sentimento dominante è stato quello della solidarietà. Vi era prima in molta di questa gente un sentimento di odio, di disprezzo, di irritazione contro i militari e contro i ceti abbienti. Abbiamo visto invece quanti atti di sacrificio, quanti atti di solidarietà sono stati compiuti soprattutto da sacerdoti e da militari, i quali ultimi hanno dimostrato di essere uniti e non avulsi dal popolo. Non è vero dunque che siamo separati gli uni dagli altri e che c’è un abisso fra una classe e l’altra, ma siamo tutti fratelli legati ad un unico destino. Tutti hanno lavorato infatti volontariamente per un istinto di carità e per un senso di fraternità. Perchè? Perché si sente la famiglia cristiana, il sentimento della nazione, il sentimento dell’Italia. Ricaviamo da questo ammaestramento la conclusione che il mondo non è così cattivo da meritare sempre il nostro odio. De Gasperi ha voluto vedere in questa prova d’amore comune il sentimento cristiano e la tradizione della nostra gente. Dopo avere affermato la necessità di elevare il lavoro nella sfera della libertà e della democrazia, il presidente ha così riassunto gli insegnamenti del Polesine: ricordarsi del nostro dovere sociale e della necessità di un’equa distribuzione di fronte al popolo; stabilire una profonda solidarietà fra una classe e l’altra. Un ultimo insegnamento del disastro del Polesine il presidente l’ha ricavato dall’esempio di Trieste. Trieste ha offerto ai polesani il villaggio di Borgo San Giusto. Questo vuol dire che Trieste sente l’Italia soprattutto, ma Trieste è anche il simbolo della solidarietà di tutti gli Stati e di tutti i popoli perché il disagio di una nazione è il disagio di tutti e il bene massimo cui possiamo aspirare è la solidarietà con tutti gli altri paesi. È ciò che noi dobbiamo consolidare perché la pace sia assicurata e la guerra sia tenuta lontana. Abbiamo bisogno della concordia fra tutti i popoli liberi, abbiamo bisogno della pace per ricostruire l’Italia, per garantire soprattutto le future generazioni. Cerchiamo perciò in noi tutti gli argomenti di unità e di ricostruzione perché qui è la garanzia del nostro avvenire. Io vi ho fatto arrivare dal problema del Polesine al problema del mondo. Il disastro della guerra in un paese infatti è il disastro di tutti i paesi e un abitante del Polesine sarebbe in questo caso nella stessa situazione in cui si troverebbero gli abitanti di tutti gli altri paesi. Concludendo, il presidente del Consiglio ha auspicato e affermato la necessità della sicurezza collettiva per la difesa della pace.
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Signor presidente della Repubblica italiana! Quando il governo democratico nazionale decise sotto i vostri auspici di completare il glorioso ossario di Redipuglia esso non intese limitare il suo doveroso omaggio ai gloriosi cento mila che ora qui riposano dopo la vittoria, ma di interpretare il pensiero memore e devoto di tutta la nazione non solo verso i seicento mila caduti per la patria nella prima guerra mondiale ma anche verso tutti i caduti della seconda guerra mondiale, sia gli ottantacinquemila che riposano nei cimiteri italiani o comunali in Italia, sia i duecentomila forse che nel combattimento o in prigionia lasciarono la loro vita nelle terre di tutti i continenti. Oggi le supreme autorità e le rappresentanze più autorevoli della comunità nazionale, inchinandosi innanzi a Voi, morti vittoriosi di Redipuglia, al vostro illustre comandante piegano il capo anche innanzi al valore sfortunato dei vinti, sia che si battessero per convinzione o per spirito di sacrificio, nella necessità di una disciplina, che, divenuto inevitabile il conflitto, appariva loro come un dovere di pubblica salute. L’omaggio è dovuto a tutti i caduti in buona fede e in colui che soccombette per una causa illegittima, esso non giustifica l’orrore, ma esalta la purezza della coscienza personale e la nobiltà dell’olocausto. E come non pensare con immensa ambascia a quanti perirono non in lotta aperta, ma quali vittime innocenti di inique sentenze, di rappresaglie crudeli, di massacri nefandi? La fantasia inorridita si rifiuta di rivedere gli spettacoli spaventosi delle torture, dei roghi e delle camere a gas. Solo un conforto rimane a noi, superstiti di tanta sciagura; l’aver visto, l’aver saputo che la nostra gente nelle ore più tragiche, in faccia ai tormenti e alla morte ritrovò nella fede o nel patriottismo ereditato dai padri la dignità e il coraggio del più luminoso sacrificio, onde o eroi di Redipuglia, c’è una vittoria che è comune a voi caduti in battaglia e a coloro che furono spenti nelle foibe, nei roghi dei villaggi, nei campi di concentramento o sulle forche o falciati dai plotoni di esecuzione, ed è questa la vittoria dello spirito sulla materia. Loro, come voi, più o meno consapevolmente, sublimandosi nell’olocausto per la patria, operarono sulle soglie della morte tormentosa quel riconoscimento dell’umano col divino di cui seppe dare immagine solo Michelangelo nei gruppi della Pietà. «Ragazzi – fu l’ultimo grido dell’ammiraglio Campioni , prima che partissero i colpi del plotone di esecuzione – ragazzi, ricordatevi dell’Italia». Ed ecco, o morti di tutte le battaglie, ecco, o vittime di tutte le guerre, che quest’ultimo grido dell’ammiraglio della resistenza diventa anche il monito vostro, che noi qui, autorità e popolo, raccogliamo umilmente per meditare sul passato e come sacro impegno per l’avvenire. Quando la furia della guerra cessò, immane apparve il compito di ricostruire un patrimonio nazionale distrutto, che fu valutato in dodici miliardi di dollari, perdute le colonie, occupata da truppe straniere la Metropoli e contestate le frontiere da popoli inaspriti, decisi a farci espiare le avventure che ci avevano portato in Jugoslavia, in Francia, in Albania, in Grecia. La reazione vittoriosa delle potenze occidentali colpiva anche noi, accusati di essere stati complici del nazismo nel suo tentativo di soggiogare il mondo. Certo la vigorosa resistenza e la valida belligeranza dell’ultimo scorcio della guerra ebbero l’effetto di farci evitare la durezza della prima repressione e di salvare la nostra sostanziale unità, che invece andò perduta per la Germania. Riuscimmo anche, favoriti da circostanze obiettive, a recuperare l’Alto Adige, che durante la guerra sembrava perduto. Ma il peso della Russia, che nella Conferenza della pace fu spesso decisivo nel sostenere le rivendicazioni dello slavismo, sbarrò la via ad una soluzione equa e ragionevole del problema giuliano, imponendo, nonostante le nostre proteste, l’ibrida, irrazionale, o caduta creazione del Territorio libero. I tre altri alleati cedettero, credendo di aver assicurato con questo pericoloso compromesso, e a nostre spese, l’avvio alla pace europea. Cominciò invece da allora il sabotaggio dei trattati, la guerra fredda, la minaccia di quella cruenta. Ma poiché il vostro monito, o morti della guerra vittoriosa, reclama soprattutto un esame della nostra coscienza, siamo venuti qui a confessare, considerandoci tutti come un sol popolo quale siamo, anche la nostra colpa. No, qualunque sia la responsabilità dei dirigenti, non fu colpa di popolo né l’essere coinvolti nella seconda guerra europea, né la avventurosa conquista, né la rovinosa disfatta, né le responsabilità passate o attuali di altri popoli li autorizza moralmente a pronunziare contro la nostra nazione condanne e sanzioni collettive. Ma sul nostro peccato avete diritto di giudicare, voi o caduti, o morti della guerra, che combatteste per la indipendenza, per l’unità, per la concordia della patria italiana. Il nostro peccato verso la nazione fu quello di non aver saputo instaurare e rendere stabile la concordia fra gli italiani, fondandola sulla base comune di una convivenza libera e operosa. A Fiume, nel Natale del 1920, per la prima volta, dopo l’unità nazionale i fratelli avevano combattuto contro i fratelli, ma subito tutti ebbero l’impressione che questo scontro dovesse rimanere circoscritto e considerato come una fatalità di un crudele destino. D’Annunzio ordinò per il 1° gennaio il funerale per le vittime delle due parti ancora insepolte. Le bare erano collocate l’una accanto all’altra, coperte dello stesso grande tricolore. Il celebrante, l’arcivescovo Costantini , invitò a considerare quel seppellimento, come un atto d’amore che annullasse gli odi caduchi. «Ridiscendiamo – disse – da questo colle ribenedicendo alla vita, all’amore, alla giustizia e alla pace». E il comandante pronunziò questo discorso: «se colui che pianse presso la fossa di Lazzaro, se il figliolo dell’uomo ora qui apparisse tra l’Altare e le bare… e facesse grido e risuscitasse questi morti discordi su dai coperchi non ancora inchiodati, io credo che essi non si leverebbero se non per singhiozzare, per dirsi perdono e per riabbracciarsi. Li abbiamo tutti ricoperti con lo stesso lauro e con la stessa bandiera… ascoltiamo l’uomo di Dio!». Ora qui, dopo un trentennio di lotte interne, che condussero a una spaventosa guerra civile, non avremo noi il dovere di meditare in umiltà e compunzione e, lasciando alla polemica storica la ricerca delle singole responsabilità, di riunirsi nel proposito fermissimo di ristabilire quella concordia di animi che nella legalità democratica e nella libertà delle cose opinabili, garantisca la unità morale e sostanziale che è indispensabile per la dignità e per la salvezza della nazione? La nostra parola, come la nostra speranza, si rivolge specialmente ai giovani. Giovani di oggi, non ripetete gli errori di ieri. Giovani di domani non deviate dalla strada che percorsero i giovani del 1915 e che prima di loro avevano segnato altri giovani che combatterono nel nome dell’indipendenza, dell’unità e della libertà della nazione. Indipendenza, unità, libertà e giustizia sociale, sono termini indissociabili: a nulla vale che la patria sia indipendente dallo straniero se non è libera all’interno, se la sua unità è spezzata entro i confini da regimi che dividono i cittadini in dominanti e dominati, se il suo popolo non trova nella libertà il punto di incontro e la possibilità di una convivenza che si muova verso il progresso sociale. Ma, soprattutto, conviene affermare che lo Stato guida degli italiani è l’Italia. L’Italia con la sua civiltà, e con l’esperienza delle sue generazioni, col suo volto luminoso, creato dagli italiani nei secoli, con la sua compagine politica costituita con tanti sacrifici in guerra e in pace, nel combattimento e nel lavoro, l’Italia che con nuovi sforzi tenaci abbiamo in questo ultimo dopoguerra ricostruito quasi dalle fondamenta al libero e progressivo regime di popolo, l’Italia vostra, i gloriosi Morti d’Italia, che ci lasciaste un prezioso patrimonio nel nostro sentimento e nella nostra volontà. I nostri pensieri, i nostri voti, sono rivolti alla pace. Non fu questa il sospiro dei Morti, la speranza tenace dei vivi? Subito dopo la guerra Attlee confessava nel Congresso americano che «la nostra civiltà potrà sopravvivere soltanto con l’accettazione nelle relazioni internazionali e nella vita nazionale del principio cristiano della fratellanza degli uomini». Pare che in questi ultimi anni questa verità apparsa allora a tutti luminosa, per la vicinanza dell’orribile esperienza bellica, stia ora alquanto annebbiandosi per altri discorsi. Certo è il ferreo destino che ci porta a provvedere alle difese e lo dobbiamo fare per garantire sicurezza a noi stessi ed ai nostri alleati. È questo un dovere nazionale trasferito anche in un obbligo internazionale che vogliamo assolvere lealmente. Ma accanto alle armi, dobbiamo pensare agli uomini. La cooperazione della difesa esige una certa identità o un qualche parallelismo nei princìpi e nel sentimento, una sia pur limitata coincidenza su alcuni criteri fondamentali della convivenza. Il regime può essere diverso, ma la diversità non può arrivare fino ad essere contraddittoria circa punti essenziali, quali, ad esempio, il rispetto dei diritti della persona umana. So bene che la democrazia ha da essere ottimista e paziente, essa però deve guardarsi dal ripetere errori che nell’ultimo conflitto mondiale furono difficilmente evitabili, ma che portarono alla conseguenza che una guerra, ingaggiata per la libertà e la democrazia, finisse con l’imporre a un gran numero di paesi europei il dominio comunista e la minaccia della sua conquista. Posto al limite della pianura friulana, alle falde del Monte Sei Busi, là dove ha inizio il Carso Goriziano, e in vista del golfo di Trieste, questo Cimitero ossario di Redipuglia riunisce in sé spiritualmente anche quanti hanno nella storia combattuto dalle Alpi, agli altipiani al mare, contro la classica direttrice di tutte le invasioni italiane dall’epoca barbarica ad oggi. Da Redipuglia si guarda a Trieste, ai connazionali della Venezia Giulia; ma insieme parte un monito agli alleati di allora e di oggi. L’unità saldata ieri sui campi di battaglia dell’Isonzo e del Piave deve continuare pure oggi, ove si voglia guardare ad un domani più sereno, ad uno sviluppo pacifico e tranquillo dei popoli. Questi morti che qui invochiamo e veneriamo hanno combattuto contro un comune nemico anche per l’indipendenza nazionale jugoslava. Si è parlato recentemente in un disgraziato discorso jugoslavo dell’opposta sponda. Questo nome e questo aggettivo risuonò nella nostra memoria per ridestarvi il ricordo di una lapide inaugurata nel febbraio ’24 a Brindisi per celebrare il salvataggio dei serbi compiuto dagli italiani. Diceva l’iscrizione: «dal dicembre 1915 al febbraio 1916 con 584 crociere protessero l’esodo dell’esercito serbo e con 202 viaggi trassero in salvo 115.000 dei 180.000 profughi che dall’opposta sponda tendevano la mano». Quale magnifico sforzo, disse allora il rappresentante dell’esercito serbocroato-sloveno, generale Jaemenic, compiè la marina italiana trasportando in quella stagione di fiere tempeste circa 130.000 soldati serbi, alcune migliaia di cavalli, un certo numero di cannoni e una folla enorme di profughi. So bene che dall’altra sponda mi si potrà rispondere citando i fatti della guerra ultima, ma essi sono troppo legati agli sviluppi della guerra nazista per concludere che essi rappresentino l’atteggiamento normale del popolo italiano in un periodo di pace e di sue libere decisioni. Oggi ancora, se la mano ci viene onestamente tesa, noi non la rifiutiamo, ma la mano deve essere aperta, sincera, riparatrice. Non è che ci manchi la comprensione per lo sforzo unitario del giovane Stato jugoslavo, né che intendiamo svalutare il suo spirito di indipendenza in confronto al regime conformista o le sue possibilità di difesa. Noi chiediamo solo un atto di buona volontà, per risolvere equamente la questione del Territorio libero . Lo chiediamo perché siamo preoccupati della situazione dei nostri fratelli, lo chiediamo anche come pegno di pace adriatica, come ponte di collaborazione al comune progresso economico e, se sarà necessario, come premessa per una comune difesa. «Accantoniamo questa questione» ci avete risposto, forse verrà più tardi un momento di saggezza. Il tenore e lo stile di certe dichiarazioni ci fanno dubitare che questo momento non venga mai. Ma che cosa vuol dire accantonare una soluzione sulla carta, quando intanto nei patti, nella legislazione, nella prassi politica e amministrativa si identifica l’opera di snazionalizzazione e di integrazione della Zona B nella compagine jugoslava? Come potremo tacere e dissimulare innanzi ai vostri provvedimenti ufficiali, e soprattutto di fronte al grido di dolore che ogni tanto giunge ai nostri orecchi? La democrazia è paziente, ma è tenace, maresciallo, ed è tormentata dalla responsabilità che deve portare. Ma la responsabilità non è solo dell’Italia democratica, è anche vostra e soprattutto degli Alleati che ci hanno imposto un trattato che non possono eseguire o data in cambio una dichiarazione che da gentiluomini non possono rinnegare. O morti, che ci ascoltate in silenzio e parlate ai nostri cuori e alle nostre menti con l’esempio delle vostre gesta e col muto linguaggio del sacrificio sublime, voi ben sentite tutto il nostro palpito ardente e vi sorride la fermezza della nostra speranza e vi conforta il sapere che il vincolo di fraternità che ci unisce noi e voi con gli italiani profughi e perseguitati sempre più, si restringe e ad ogni contrasto si rinnova. E di nuovo risuona il monito: «ragazzi pensate all’Italia!». Che siamo noi, uomini di governo e di responsabilità, di fronte al secolare destino del paese che amministriamo? L’appello è quindi rivolto a tutti: a noi che dobbiamo irrobustire la democrazia e difenderla dai pericoli della demagogia e dai miraggi della dittatura, proteggerla dalle avventure, ma educarla allo spirito della dignità e della fierezza nazionale, a voi, esercito e popoli in armi, a voi Forze Armate in Italia, eredi ed emuli di tanta gloria, inquadrate in questo esercito risorto per volontà della nazione e con l’aiuto degli Alleati, strumento prezioso della nostra pace, a cui la nazione guarda con orgoglio e con fede e a voi ex combattenti, a voi volontari e partigiani di tutte le armi che, ragazzi sempre in ogni età, per il fervore delle convinzioni per ardimento antico e sempre nuovo, circondate l’Esercito, la Marina, l’Aviazione del vostro affetto e del vostro volenteroso concorso alimentando la fiamma delle nobili virtù militari. Pensare all’Italia! Ma è all’Italia che pensaste voi madri, voi donne, quando il vostro cuore fu trafitto dall’annuncio mortale e domaste virilmente il dolore, levando gli occhi al cielo, nel quale riponete per il sentimento religioso che vi anima la vostra speranza. Il sacrificio per la patria fu il vostro Golgota e il vostro spasimo si allentò, si acquietò, nel pensiero consolatore che Cristo nella Cena prima del Calvario pregò per tutti dicendo: «tutti siamo una cosa sola. Come tu, Padre, in me ed io in te». O Signore, tutti siamo una cosa sola: cotesto grande popolo di Morti che risusciterai e questa innumerevole folla accorsa da tutte le parti d’Italia, curva ancora sotto lo sforzo, ma decisa a ricostruire la vita della nazione. Signore, fa che i vivi siano degni dei morti e l’Italia risorga per un nuovo cammino.
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1,952
1Building the Italian Republic
101951-1955
Sono stato preceduto da un manifesto in cui si dice pressappoco che l’autonomia del Trentino-Alto Adige è stata un fallimento e che anzitutto non era nemmeno necessaria per risolvere il problema di carattere internazionale della frontiera e su questa questione tornerò poi, ma sento il dovere non soltanto come trentino e come rappresentante parlamentare, ma anche come capo del governo, dopo quattro anni di esperimento, di affermare che se l’amministrazione regionale, tutto il sistema regionale evidentemente è ancora in corso di assetto e vi sono stati errori specialmente negli organismi collettivi, nel complesso il risultato è altamente positivo, il risultato di carattere economico, di carattere sociale, lavorativo della massa popolare e anche nei rapporti tra i punti etnici. Questa è la conclusione a cui sono arrivato pure avendo vissuto dentro di me quelle obiezioni che si sono spesso manifestate. C’era il pericolo che l’autonomia portasse ad una missione troppo ristretta e circoscritta di campanilismo locale, cantonale, il pericolo che l’autonomia assumesse le ragioni di attrito invece che diminuirle nei reciproci interessi dei due gruppi etnici, il pericolo – come si diceva – che si raddoppiasse il numero degli impiegati e si complicassero ancora le difficoltà di una burocrazia, del pericolo di una corruzione nell’amministrazione, della dispersione di fondi ecc. Oggi dinanzi ad una relazione, a un rendiconto che la Regione in una forma meravigliosa di chiarezza e di consapevolezza ha presentato al pubblico e agli elettori, la Regione autonoma ha potuto dimostrare: primo, che in generale fu una buona prova; secondo, che l’amministrazione fu economa; terzo, che non si sottrasse dai compiti generali e dalla corresponsabilità e compartecipazione dell’economia nazionale in genere; quarto, che pure servendo di ponte fra i due gruppi etnici (uno dei quali non appartenente alla maggioranza della nazione); tuttavia questo strumento non è risultato disfunzionale per quello che riguarda la cultura, lo spirito italiano, il senso della nazione e della patria, ma anzi è servito come articolazione di una forza nell’organismo che la patria rinsalda e difende. La Regione quindi non è servita a peggiorare ma a migliorare i rapporti tra i due gruppi etnici. Si dice che non è vero che l’accordo De Gasperi-Gruber sia un fatto internazionale, imposto da una situazione, che se ne poteva fare a meno. Già, ma questi signori nel 1946 non c’erano quando si tiravano le somme e le conseguenze della disfatta. Non c’erano, allora, a rappresentare gli interessi della nazione eppure noi non eravamo corresponsabili di quello che era avvenuto durante la guerra: abbiamo dovuto assumerne le responsabilità e le conseguenze e abbiamo trovato uno stato d’animo e una concezione politica che hanno portato a determinati risultati. A questo punto il presidente del Consiglio è venuto a parlare dei rapporti fra i due gruppi etnici prendendo lo spunto dalle affermazioni degli uomini della Svp a proposito della legge elettorale in corso di approvazione. De Gasperi ha dapprima sostenuto la necessità dell’unione e della collaborazione delle forze democratiche ed ha soggiunto, entrando in argomento, che gli è parsa una strana miopia che i rappresentanti del pensiero tedesco abbiano detto (a proposito della clausola delle liste collegate le quali devono essere presentate almeno in cinque o sei circoscrizioni) che è stata inventata tale macchina proprio per reprimere o per sopprimere la rappresentanza del gruppo etnico. La realtà è proprio diversa: prima di tutto quando si è pensato al progetto di una riforma elettorale , si è pensato a una soluzione tenendo conto di tutta l’Italia e tenendo conto soprattutto del fatto che vi sono disgraziatamente in Italia due estremi i quali si toccano o possono toccarsi in questo senso; che possono unirsi per rinnegare o per rendere impossibile di fare il governo. Mi è parso strano, mi è parso proprio un eccesso di polemica, dire che il discorso di Predazzo annullasse gli accordi di Parigi, di vedere anche in questo un tentativo di diminuire una equa rappresentanza del gruppo etnico. Come si vede la parola d’ordine (che io stesso fino alla noia ripeto), la regola fondamentale della democrazia è la pazienza ed essa vale anche di fronte ai gruppi etnici. A questo punto De Gasperi ha parlato degli accordi di Parigi dichiarando che contrariamente a quanto ha affermato un giornale non è vero che egli abbia dichiarato a Trento che l’accordo di Parigi sia opera sua e che quindi sia merito suo la non annessione dell’Alto Adige all’Austria: si tratta di una esagerazione. È vero invece che io ho detto che mi pare di aver contribuito in una forma notevole alla creazione di questo accordo. Poiché mi si accusava da parte missina che io sarei stato austriacante, ho detto che [è] un austriacante curioso colui che doveva contestare giorno per giorno, ora per ora dinanzi a proposte e controproposte al ministro austriaco la soluzione di un problema che io volevo naturalmente nel senso nazionale e che il ministro vedeva da un altro punto di vista. Amici miei non sono ragioni di abilità parlamentari o dell’ambasciatore Carandini o del ministro De Gasperi o di chicchessia nella diplomazia quelle che portano alla conclusione, poiché anche queste, anche le abilità, anche le capacità possono avere una gran parte, però, non saranno mai la parte essenziale. La parte sostanziale è data da ragioni oggettive, da cause in sé, che corrispondono a una visione reale delle cose, ora queste ragioni oggettive furono quelle che piegarono la bilancia in nostro favore, ma certo hanno contribuito anche le ragioni che si riferiscono alla belligeranza italiana o alla resistenza (abbiamo resistito, in confronto al dominio nazista); queste due forze, questi due fatti hanno persuaso gli Alleati che l’Italia, l’Italia nuova, una Italia democratica era uno Stato ben diverso da quello che si era mostrato attraverso il volto fascista e che era quindi uno Stato su cui si poteva contare per l’equità, per il trattamento di giustizia anche delle minoranze nazionali. E quindi una ragione direi intrinseca che li faceva inclinare ad affidare o a mantenere la fiducia nell’Italia all’amministrazione in una zona occupata anche da una minoranza linguistica. Ricordo che Bevin dichiarò che il Patto dell’Alto Adige era l’unico raggio di luce della Conferenza della pace. Ora, devo dire che, nel fatto, Gruber difese in tutto e per tutto l’interesse della nazione tedesca e non allontanò il suo punto di vista, credo anzi che non sarà scortesia se io con questa affermazione posso contribuire al suo successo elettorale prossimamente, ma d’altro canto devo dire che anche noi sapemmo essere molto energici per raggiungere il testo che avremmo concordato e che voi conoscete, ma che io voglio qui riassumere. A questo punto De Gasperi annunciando la prossima pubblicazione di un libro verde che documenterà appunto la pubblicazione degli accordi di Parigi, ha ricordato come questo accordo preveda le seguenti concessioni: 1) insegnamento primario e secondario in lingua tedesca; 2) l’uso della lingua tedesca e dell’italiana nelle pubbliche Amministrazioni, nei documenti ufficiali e nella topografia; 3) il diritto di ristabilire i nomi di famiglie tedesche; 4) eguaglianza di diritto di ammissione negli uffici pubblici; 5) esercizio di un potere legislativo ed esecutivo; 6) infine il governo italiano s’impegnava a rivedere in uno spirito di equità e di comprensione, con le parole dell’accordo, il regime delle opzioni; poi ha concluso un accordo per il riconoscimento dei titoli di studio universitari, per diplomi, ha concluso una convenzione per il libero transito fra il Tirolo del Nord e il Tirolo Est e poi accordi speciali di carattere commerciale. Questo accordo è stato attuato si o no e in che misura? Ecco il problema che dovrebbe essere dinanzi alla coscienza tanto degli elettori italiani che tedeschi, tanto [di] coloro che si interessano delle sorti della nazione, tanto [di] coloro che s’interessano soprattutto delle sorti e del destino della loro minoranza. Ora infatti lo Statuto speciale per la Regione garantisce la lingua materna d’insegnamento in tutte le scuole elementari e medie. E qui De Gasperi ha letto le cifre informando che nell’anno scolastico 1951-52 hanno funzionato 204 scuole elementari di lingua tedesca con 31.145 alunni, 7 scuole medie, 8 scuole di avviamento professionale, 4 istituti e scuole tecniche, 17 scuole elementari ladine. Lo Statuto speciale prevede una serie di misure che garantiscono l’uso della lingua tedesca nei rapporti con gli organi ed uffici della pubblica Amministrazione, nelle riunioni degli organi collegiali della Regione, delle Provincie e degli Enti locali. Al 31 agosto 1952 esistevano funzionari bilingui in misura del 46,6% nell’Amministrazione dell’Interno, del 20,7% al Tesoro, del 52,8% nell’Amministrazione della Giustizia, del 43% nella Pubblica Istruzione, del 23,50 nell’Amministrazione dei Trasporti, del 79% in quella delle Poste; si ha così una media di 42,61% di funzionari bilingui i quali sono esattamente 1.114 su 2.614. Dopo aver elencato altre disposizioni che si stanno attuando per definire in questo settore la completa esecuzione degli accordi, il presidente del Consiglio è passato a trattare il problema delle opzioni . Egli ha detto che su 21.330 domande di riacquisto della cittadinanza italiana presentate da naturalizzati germanici, ne sono state decise 21.303, delle quali: decise favorevolmente 20.732 rappresentanti, con il computo dei familiari dei richiedenti. Il totale dei reintegrati nella cittadinanza italiana è di 40.615. Le domande decise negativamente 571. Su 28.593 domande di naturalizzati germanici emigrati, ne sono state decise 22.212 delle quali: decise favorevolmente 21.200, con il computo dei familiari dei richiedenti, un totale di 43.276; per la reintegrazione della cittadinanza italiana sono state decise negativamente 1.012 domande, con un totale di 2.446 esclusi dal riacquisto della cittadinanza italiana. Enunciati questi dati che stanno a dimostrare lo spirito di generosità dell’Italia per la soluzione del problema degli optanti, il presidente del Consiglio ha detto che però ai ministeri provengono di continuo lagnanze, come se l’Italia avesse oppresso i cittadini di lingua tedesca. Fate il confronto con la Francia, con il Belgio, la Germania, l’Austria e vedrete che si dovrà riconoscere che abbiamo usato un trattamento equo e generoso. Sarebbe ora che lo riconoscano!, mentre al contrario si ha l’impressione di uno scontento programmatico, uno scontento che però il ministro Gruber non ha fatto suo. E qui egli ha dato lettura di una lettera di pubblico riconoscimento del ministro austriaco (che nel 1948 ebbe a riconoscere lealmente quanto fatto dal governo italiano per la soluzione del problema degli optanti) e di una lettera firmata da Erich Amonn [e] dall’on. Guggenberg in cui si affermava che i problemi fondamentali della autonomia potevano considerarsi felicemente risolti. Simili dichiarazioni purtroppo in casa nostra si fanno sempre aspettare. Esistono i rapporti culturali, commerciali, c’è l’abolizione del visto consolare alla frontiera, c’è il rispetto dei diritti in genere anche ammettendo, come è umano, che ci possa essere qualche errore. Si è cercato insomma di far sentire la frontiera del Brennero meno molesta che fosse possibile, mentre l’autonomia – malgrado i tedeschi tendano più verso l’autonomia provinciale – ha soddisfatto ambo le parti. Non è vero che non ci sia stata collaborazione come ha detto Nenni. Perché questa collaborazione è stata operante. Di che hanno paura ? Di ammettere che lavorando insieme qualcosa abbiamo fatto? In sostanza si tratta di lealtà, di una questione di lealtà e io torno allora alla medicina della pazienza. Voi direte che di pazienza ne abbiamo avuta troppa; ai rappresentanti degli interessi italiani dico che molti di tali interessi sono stati soddisfacenti del tutto. Io dico a voi che rappresentate il proletariato italiano che per voi non c’è altra strada che la pazienza e di far sentire la vostra voce attraverso i vostri deputati. Cercate di frenare il vostro impeto, la vostra reazione, ad una condizione però che dall’altra parte ci sia lealtà perché non è possibile che da una parte ci sia una popolazione consapevole dei doveri verso la nazione e dall’altra una minoranza che si sente astratta, quasi avulsa dalla nazione che vede solo il proprio campanile quasi non ci fosse un’unica sorte che accomuna tutti i cittadini italiani, quasi ci fosse il diverso destino. Venendo a parlare della situazione internazionale il presidente del Consiglio ha detto che esistono motivi di contrasto in tutta Europa: anche qui non è tutto facile; non basta, come dice l’on. Nenni, un patto di non aggressione con l’Unione Sovietica per mantenere la pace. Perché i contrasti siano sanati, per evitare il peggio, occorre che la pace sia anzitutto preparata negli spiriti. Nell’affermare la necessità che l’Europa sia unita perché strumento di pace l’on. De Gasperi ha detto che all’unità europea si può arrivare per due strade: quella degli adoratori della forza, dello spazio vitale di Hitler. Ma attenti, o giovani del Msi, perché non sarebbero le camicie nere, ma le camicie rosse di Stalin, sarebbe l’Europa dei marescialli, sarebbe il ritorno alla tragedia: la via della spada, la via dei carri armati. L’altra strada è quella di armarsi di pazienza e di costanza, è la strada della costruzione paziente dell’accordo, nella collaborazione e nella comprensione reciproca. Deve prevalere un solo spirito di fraternità: ciò non solo per l’Europa, ma in tutti. Anche in questo l’esperienza regionale deve continuare.
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Signori delegati, cari amici, il Consiglio nazionale uscente mi ha dato quest’ultimo, graditissimo incarico, quello di rivolgere a voi, eletti dai consigli provinciali una parola di affettuoso saluto. Voi rappresentate le forze attive e militanti, foste scelti fra coloro che si dedicano in modo particolare alla diffusione dell’idea; siete animati da una disciplina interiore che vuol dire spirito di sacrificio e volontà di vittoria. Voi siete portatori di una delega che vi affida l’incarico di indicare col voto la linea direttiva degli iscritti al partito. Noi vi salutiamo con riconoscenza per la vostra opera e con fiducia nella vostra coscienza. Ma, al di là di questa rappresentanza numerica e specifica è inerente in voi anche una rappresentanza fiduciaria che si allarga e si estende anche al di fuori degli organizzati. Essa comprende la vasta cerchia di coloro che, pur non partecipando normalmente alla vita politica attiva, condividono la nostra concezione della vita pubblica e si ispirano alla stessa etica sociale, sì che, quando sono chiamati ad esercitare i loro diritti di cittadini, confidano nella parola dei nostri organizzatori e dei nostri mandatari. Appartengono questi alla massa dei nostri elettori. Voi non li rappresentate qui per delega formalmente espressa, ma il vostro animo è rivolto ad interpretarne le idee e gli interessi, sì che nel vostro spirito sono qui presenti e nel mio cordiale saluto compresi. Infine, voi costituite bensì un partito, cioè una parte della nazione, ma questa parte non è accampata sulla nazione per dominarla o per dividerla, ma è collocata in mezzo ad essa per servirla e precisamente per servirla secondo i criteri di convivenza, i quali prima che dalla Costituzione scritta, derivano dalle esigenze del nostro regime libero, dalla necessità primordiale di difendere all’interno le pubbliche libertà, sul binario della morale e della giustizia sociale; e di tener alto all’esterno l’onore dell’Italia e di proteggere gli interessi. (Vivissimi e prolungati applausi). Ecco che più che come parte, voi sentite la responsabilità di agire come centro, come il nucleo più solido di una democrazia, distinta in vari autonomi settori, ma uniti tutti nell’impegno, di consolidarla e garantirla nei suoi sviluppi a venire. Altri militanti, d’altra fede politica che qui assistono per attestare il loro spirito di collaborazione, entreranno domani nella gara; e siano qui, e poi nella lotta, i benvenuti. Da questo più largo orizzonte voi permetterete che il presidente del Consiglio nazionale, convinto come voi della indispensabile vitalità e combattività del partito, al suo saluto aggiunga il saluto del presidente del Consiglio dei ministri come rappresentante dello Stato, il quale Stato attende dalla vostra maturità e consapevolezza e dal vostro sentimento patriottico la forza di rinnovare le sue strutture e di restaurare, in regime libero, la sua autorità e il suo prestigio. (Applausi). Saluto, infine, le personalità che qui rappresentano nazioni amiche, sia per l’autorità di una investitura ufficiale, sia per l’autorevolezza morale loro attribuita dalle persecuzioni sofferte per la libertà, (vivi applausi), o dall’esilio sopportato con dignità e fede. L’Italia è solidale con tutti gli uomini liberi e cerca nella pace il ristabilimento della giustizia. (Vivissimi applausi).