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21911-1915
I classici neopagani rimproverano alla nostra età di trovarsi ancora in regresso in confronto alla cività greca e latina. Ma i lodatori del tempo antico hanno torto. Giorni fa è morta tragicamente a Budapest Elisa Turcsanyi. La camera mortuaria, ove giacque il corpo dell’estinta venne trasformata in un tempio. Migliaia di ceri ardettero per quarantott’ore e balsami preziosi profumarono l’aria. Il cadavere venne rivestito di una vestaglia meravigliosa tutta di pizzo di Fiandra e al collo ed alle dita lampeggiavano brillanti di straordinario valore. La bara era incastonata di legni esotici e costruita in stile Pompadour: regalo – annunziarono i giornali – di un grande fabbricante di mobili, amico della morta; e innanzi e intorno alla bara s’elevavano trofei di corone di fiori, offerte dall’aristocrazia del sangue e del denaro che impera nel regno di S. Stefano. Quando la sala venne aperta al pubblico, una folla enorme tentò di riversarsi. La polizia che pure aveva provveduto un certo concorso si lasciò sorprendere da questa fiumana imprevista; avvennero tafferugli, vi furono svenimenti e contusioni. Infine la polizia rinforzando le sue fila riuscì ad incanalare quell’onda di gente, la quale passò per ore e ore dinanzi al cadavere con tutto il rispetto dell’ammirazione, con tutta la devozione del culto... Ma chi era questa donna, innanzi alla quale il popolo magiaro così fiero della sua indipendenza faceva atto di omaggio e i conti e i banchieri deponevano le insegne della loro grandezza? Un’eroina della carità, una martire della giustizia o almeno una Giuditta dell’insurrezione nazionale o una Sarah Bernhardt del teatro ungherese? No. Né Giuditta, né Giovanna d’Arco, né Cornelia, né Vittoria Colonna , né Gaetana Agnesi , ma Frine o Bilitis , risorta, dopo millenni, dalla schiuma delle acque danubiane, là ove il gran fiume si rompe contro l’isolamento di Margherita. Elisa Turcsanyi nacque figlia di un povero operaio occupato in una fabbrica di saponi, ma divenne per la sua facile bellezza la regina delle cortigiane di Budapest e l’amante effimera dei grandi di questa terra che la copersero di brillanti. Le gioie che vennero trovate nei suoi scrigni sono valutate a centinaia di migliaia, le sue vesti di seta a 160 mila corone, la suppellettile ornamentale della sua abitazione a settantamila. Visse così come una principessa, mentre i suoi genitori stentavano la vita e faticavano a guadagnare per gli altri figlioli un tozzo di pane. E come visse volle morire. Lasciò scritto che il suo corpo venisse avvolto nel suo abito più prezioso e che si abbellissero con esso parte dei suoi brillanti. In vita ebbe il titolo di «Elisa dei magnati»; morta, il pubblico – plebei e magnati – accorse in massa ancora a salutare l’idolo che scompariva. E voi, querelanti ostinati, persistete a parlare di regresso e ad invidiare la civiltà del mondo greco ed alessandrino? Io vi dico che non abbiamo nulla da invidiargli. Quando negli scavi alessandrini si è scoperta la tomba di Bilitis, l’etera famosa, alunna di Saffo e come lei dispensatrice della voluttà e sacerdotessa di Venere, i rinnegatori del cristianesimo ebbero un lungo rimpianto. Sul corpo imbalsamato s’erano trovate delle gemme preziose e nella tomba un epitaffio che proclamava Bilitis regina e signora e degna di essere assunta nel consesso dell’Olimpo. Ecco la civiltà greca – avevano gridato, ecco la luce dell’amore e della bellezza che regnava con dominio assoluto e infinita apoteosi. Perché il cristianesimo ha distrutto col principio di rinnegazione tutto codesto mondo ideale? Orbene, quetatevi, o magnanimi spiriti e tu Gabriele D’Annunzio, non ripetere invano la tua invettiva contro il Golgota. La civiltà che voi rimpiangete sta per risorgere ed il medio evo cristiano tramonta. Invero questo mondo rinato non è ancora aperto a tutti. A milioni si contano ancora gli uomini che sommettono la loro vita alle esigenze dello spirito e sacrificano il corpo mortale alle aspirazioni d’un’anima che non morrà. Il circolo degli eletti è ristretto a che in quest’ordine di cose sociali e politiche può godere e dimenticare; ma, ammettete una grande diffusione del progresso terreno che predicate, attendete che le vostre dottrine compiano per intero la loro missione, e poi la civiltà ch’invocate farà ritorno – verrà a ricostruire i mausolei ed a ripristinare l’antico culto di Venere... Ammenoché... Un lugubre ricordo m’attraversa la mente. Non ebbero la stessa speranza, la stessa illusione anche gli ottimati dell’ancien régime i quali predicavano nei salotti delle duchesse l’emancipazione dalle idee cristiane e l’avvento della piena libertà dell’energie personali e credettero che il plauso del popolo fosse ormai l’assenso alla nuova concezione edonistica della vita, e quindi anche dell’ordine sociale che la rendeva possibile? Badate alla storia, signori magnati, e non fidatevi della prima impressione. Quel popolo passò, è vero, innanzi al trono del vostro idolo con un certo senso di ammirazione spinto dalla brutale curiosità che provoca il vizio quand’è circondato da tutte le attrattive del mondo. Ma quel primo effetto può essere passeggero. Badate che poi dal fondo di quella coscienza popolare non si sprigioni lo spirito dell’odio e della vendetta e venga a rigorgogliare alla superficie; badate che a questo non si aggiunga il sentimento di rivendicare una causa giusta, e che, scomparsa l’adorazione sensuale per l’idolo, non rimanga la compassione per la vittima popolare, per la figlia del saponiere che fu sedotta dall’oro dei magnati. Allora il nome di Elisa Turcsanyi diventa un simbolo per tutta una corruzione e il corteo funebre, il funerale di tutto un ordine di cose. Il popolo, quando è preso da un’idea, non distingue, non analizza, ma fa una sintesi di tutto il passato e vuole la palingenesi per l’avvenire. Allora signori, rinchiudetevi in casa, tappatevi bene gli orecchi se vi può giovare, ed esaminate la vostra coscienza. Perché io sento già il rombo dei tamburi della Bastiglia. Vienna, 18
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Di regola il Trentino non dà né l’annunzio né la cronaca dei balli. Con ciò noi non abbiamo preteso di proclamare un principio assoluto intorno a simili divertimenti né di arrogarci una funzione generale di moralisti, in quanto non ci compete, ma com’è doveroso, seguiamo il criterio prudenziale che ad un giornale cattolico trentino è consigliato dall’insegnamento del nostro clero e dalla pratica della sua pastorale. Chi tace, non dice nulla. Parlandone, dovremmo sottoporre una simile festa almeno allo stesso criterio morale che c’impone una riserva nella recensione d’un’opera d’arte o nella critica d’una rappresentazione teatrale; ma qui il terreno è troppo incerto ed il problema troppo individuale, perché di regola sia chiamato ad occuparsene il giornalista. Tale contegno riservato abbiamo mantenuto, indistintamente, di fronte a tutte codeste feste pubbliche, ove il ballo costituisce la suprema attrattiva. Troppo naturale, perché «il fine non santifica i mezzi» né, perché si tratta di beneficenza si può applicare il non olet. L’Alto Adige invece non la intende così ed in parecchie occasioni ci ha mosso il rimprovero di passare sotto silenzio il gran veglione della Lega Nazionale , quasiché, commettessimo un peccato d’omissione innanzi al patriottismo o di mancato zelo per la difesa nazionale del Trentino. I rimproveri non ci parvero degni di risposta, tanto dovevano sembrare ridicoli. Anche quando il nostro confratello c’insegnava che non potevamo trascurare almeno il fatto di cronaca, al maestro non chiamato ci limitammo a ricordargli ch’esso aveva avuto ben altri, e più eloquenti silenzi, quando a mo’ d’esempio non prese nemmeno notizia del congresso francescano che portò a Trento parecchie migliaia di persone. Ma con questo non siamo riusciti a fargli mettere il cuore in pace, ché sabato ci stuzzica e punge ancora. Questa volta avviene per bocca di un presunto «clericale», da cui l’Alto Adige avrebbe ricevuto la seguente lettera: «Mando 4 corone per un biglietto postumo per il Veglione della Lega Nazionale. Me le ha cavate di tasca il silenzio del Trentino, il quale, se anche ha protestato di non parlar mai più di balli, dovrebbe pur capire che il Veglione della Lega Nazionale, per il nostro paese, è qualche cosa di più che un ballo...». Assolutamente insomma, ne dobbiamo parlare? Volete proprio, nell’interesse della Lega Nazionale, che ci occupiamo del suo veglione? Naturalmente dovremo approfittare della cronaca degli altri giornali. Ecco per primo il Risveglio, che ha scritto forse la pagina più entusiastica: «Festa di luce, di amore, di bellezza. Festa dei cuori e festa della eleganza. Trionfo di un pensiero ed apoteosi di gloria. Il sentimento e la fede che la mondanità... o nelle più squisite manifestazioni di essa attingono nuovi mezzi e nuove forze per l’opera generosa cui si collega la difesa, la vita, l’avvenire di un popolo. Questo il Veglione della Lega Nazionale: quel Veglione che è divenuto una tradizione ed una affermazione, quel Veglione che è sempre la meravigliosa “fèerie” (sic!) la quale anima il Sociale in uno sfolgorio di luce, di eleganze, di incanti». Ci pare che il «clericale» dell’Alto Adige dovrebbe esserne contento e soddisfatto né comprendiamo come non abbia mandato il suo obolo al Risveglio, il quale si addimostrò ben più patriottico e più compreso del grande avvenimento sociale di qualsiasi altro concorrente. Ma veniamo al punto culminante della nottata. Ecco il Popolo: «Dopo la mezza notte si suonò l’inno della Lega vecchio, quindi quel nuovo. Si chiese poi con insistenza l’“Inno a Tripoli” per ballare il tango. L’Inno a Tripoli fu infatti suonato un numero infinito di volte e si “tangheggiò” a tutto andare. Il diavolo non è poi brutto come si dice: così si finì col trovar bello anche il famoso passo dell’orso, passo che ieri formò il numero d’attrazione dei ballerini». E conferma l’Alto Adige: «Venne l’inno a Tripoli fra lunghi applausi chiamato dopo l’inno nuovo della Lega (che lasciò il pubblico un po’ freddo), e tutto il denso mosaico si mosse in turbine ondeggiante in giro, mentre nel mezzo fece la sua comparsa l’esotico Tango ballato freneticamente da alcune coppie, alcune delle quali s’accontentavano del tango corretto e riveduto, altre si diedero a tangheggiare un tango piuttosto... sgangherato. Questione di gusti» . Si è «tangheggiato» dunque a tutto andare. Attenuante: si è ballato il tango al suono dell’inno a Tripoli. Aggravante: lo si è ballato anche nella sua forma più... sgangherata. Questione di gusti. In tutte le capitali d’Europa la società che ci tiene alla decenza o almeno alle sue forme ha bandito il famigerato ballo argentino: a Trento, edizione riveduta o edizione originale, è questione di gusti. L’ambasciatore dell’Argentina a Parigi dichiara che nessun salone che si rispetta può accogliere il ballo delle donne perdute, a Trento lo si balla al suono di un inno nazionale un numero infinito di volte e freneticamente. A Vienna, a Roma, a Como, per non citare che alcuni casi recentissimi, il tentativo d’introdurre il tango in pubblici balli di beneficenza è soffocato da fischi e dimostrazioni ostili. A Trento trovano che è questione di gusti. Che dire poi delle coscienze cristiane? Cardinali e vescovi hanno avuto parole di fuoco contro le danze lascive, in modo particolare contro il tango, persone del mondo ben lontane da ogni sospetto di esagerazione (vedere a mo’ d’esempio l’intervista del Wiener Tagblatt colla cantante Guilbert ) hanno dichiarato che il meno che si possa dire del tango è che si presta assaissimo ad essere ballato con movenze oscene; a Trento invece si trova che «il diavolo non è poi brutto come si dice», anche se non si balla piuttosto... sgangherato, questione di gusti! In verità abbiamo sentito dire che parecchie signore hanno fatto le scandalizzate, ma fu un risentimento privato che in pubblico non fece parlare minimamente di sé. Diavolo, si ballava al suono dell’inno a Tripoli, si ballava a beneficio della Lega, e la critica, lo sdegno sarebbero state dichiarate un’offesa al patriottismo. Chi sa quanti «clericali» sul fare di quel bel tomo dell’Alto Adige avrebbero mandato in protesta il loro obolo! Per patriottismo si trova bello ed elegante anche il passo dell’orso; perché far difficoltà sul criterio morale più che su quello estetico? Abbiamo visto ieri che la Tribuna si è affrettata a smentire in tono recisamente significativo la notizia di un giornale massonico di Bologna che in Quirinale, all’ultimo ballo di Corte, si fosse ballato il tango. Smentiamo assolutamente, scrive il giornale ufficioso. Questione di gusti, il diavolo non è poi così brutto, scrivono invece i nostri ufficiosi del Veglione della Lega. Né compare alcuna deplorazione degli organizzatori, ai quali dovrebbe almeno rincrescere che di una festa il cui nome è legato a quello della Lega Nazionale, si abusi per dare la cittadinanza trentina a danze esotiche che hanno provocato tante e così esplicite condanne.
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Ai 27 novembre 1912 l’assemblea generale dell’Unione popolare dopo viva discussione votava all’unanimità il nuovo regolamento che stabiliva norme precise sul sistema e sull’organizzazione interna e sul modo di designare e proclamare i candidati di partito . Dopo un anno e mezzo la Direzione può annunziare che l’opera di organizzazione fatta per mezzo del segretariato è stata notevolissima. Fatte poche eccezioni in quasi tutti i «luoghi elettorali» esistono i fiduciari locali dell’Unione. Il nostro quadro di organizzazione registra 566 fiduciari e 26 fiduciari distrettuali. Anche per l’arruolamento dei soci la Direzione ha promosso una propaganda che a tutt’oggi conta 73 adunanze popolari. Non è il momento di registrare tutta l’ulteriore e multiforme attività della nostra centrale; ci basti concludere che l’Unione politica popolare, cioè la nostra organizzazione politico-elettorale di partito ha fatto certo in questi ultimi tempi un progresso rimarchevole verso il suo stabile assetto. Non possiamo dire lo stesso se abbiamo riguardo alle premesse formali che in base al regolamento sono necessarie per la designazione dei candidati. Com’è noto, per dare alla designazione un valore proporzionato alle nostre forze elettorali nei singoli luoghi, il regolamento stabilisce un sistema preciso, col quale debbono costituirsi le adunanze confidenziali del distretto giudiziario, ove si fa la designazione dei candidati. A queste adunanze vengono invitati: a) i fiduciari locali dell’Unione politica popolare, b) le seguenti persone di fiducia, in quanto non siano comprese oramai nella prima categoria ed in quanto siano soci dell’Unione Politica. I. I presidenti ed in loro mancanza i vicepresidenti delle società di coltura (Società Operaie Cattoliche, circoli di lettura, Alleanze, unioni professionali e società con simili scopi (escluse le giovanili e femminili) e delle società economiche sociali, consorzi cooperativi, leghe, ecc.) di ciascun luogo elettorale, in quanto aderiscano in partito popolare e come tali siano stati riconosciuti dal fiduciario distrettuale e dalla Direzione, che ne compileranno previamente apposito elenco. II. Il curatore d’anime locale e il capocomune. Inoltre i delegati dei soci dell’Unione politica, raccoltisi in ciascun luogo elettorale in base alla seguente disposizione di regolamento. «In seguito ad avviso dato dalla Presidenza dell’Unione popolare entro un termine da esso prescritto, i soci di ciascun luogo elettorale si raccolgano in adunanze private ed eleggono a maggioranza assoluta i loro delegati per la designazione delle candidature. Si potrà eleggere al massimo un delegato ogni 30 soci. Frazioni di questa cifra oltre la metà si calcolano come un intero, se pari, o inferiori alla metà, si trascurano». Quest’ultima disposizione è un premio per lo spirito di organizzazione. È giusto che i paesi in cui l’Unione recluta il maggior numero di soci abbiano anche modo di farsi valere più degli altri. Purtroppo però, nonostante parecchie sollecitatorie, l’arruolamento dei soci è proceduto molto lentamente. Noi abbiamo atteso con pazienza i ritardatari, ma ora il tempo stringe e dobbiamo porre un termine ultimo. Prima avvertenza quindi, sulla quale richiamiamo l’attenzione di tutti gli amici e fiduciari: La direzione ammetterà che nelle adunanze confidenziali del distretto siano rappresentati mediante delegati solo quei gruppi locali che prima del 10 marzo prossimo avranno mandato alla direzione i nomi nella misura minima prevista dal regolamento. Seconda avvertenza. Ovunque anche ove non vi siano delegati, ci saranno persone di fiducia e i presidenti delle associazioni che interverranno alle adunanze. Ma anche queste persone possono venir invitate solo all’espressa condizione che abbiano dato il loro nome all’Unione politica. È una condizione democratica, forse un po’ egalitaria, ma è indispensabile per la forza e la compattezza del partito. Facciamo vivo appello quindi ai fiduciari locali e allo zelo degli altri amici che possono aiutarli, perché con tutta sollecitudine ed ai più tardi per il 10 marzo i nomi delle persone di fiducia ad II ed ai presidenti delle associazioni come a I, in quanto si tratti di persone aderenti al nostro programma, compaiano anche formalmente come soci nei registri della nostra Unione. Trento, 27 La Direzione dell’«Unione Popolare»
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L’Alto Adige fa tutte le meraviglie perché sabato abbiamo pubblicato un appello ai nostri amici, esponendo così anche agli avversari, i quadri della nostra organizzazione . Lo fanno per impressionare il pubblico, dice l’Alto Adige; ed è tattica fina ed ammirevole . Ma no, egregi signori, non si tratta di una mossa così geniale. Il regolamento dell’ Unione politica è stato pubblicato integralmente colla rispettiva discussione che se ne fece all’assemblea generale già nel novembre 1912 . E sapete perché mettiamo così tutto in pubblico? Una delle ragioni, eccovela qua. Speravamo e speriamo ancora che il nostro esempio giovi anche al vostro partito; speriamo che date le vostre tendenze democratiche convocherete in ogni distretto giudiziario un’adunanza dei vostri amici politici, almeno sulla base delle nostre (da 150 fino a 250 persone, secondo i distretti) e che discuterete un po’ con loro il da farsi. Poiché anche a voi non può essere sfuggito il lamento universale dei liberali che, quando si tratta di parlare a nome del Paese voi chiamate a deliberare un crocchio di venti persone. Inoltre l’esempio vi potrà giovare almeno nelle città e nelle borgate ove tenete la maggioranza. Almeno qui potrete applicare i nostri metodi, almeno qui potrete liberarvi dall’accusa che entro le vostre fila si leva sempre più forte, di decidere cioè le questioni del partito al tavoliere. Come vedete le nostre intenzioni erano e sono buone in vostro riguardo. Ve l’abbiamo detto altre volte il perché: una delle principali disgrazie della nostra politica, è che il partito liberale non è saldamente organizzato. È semplicemente un partito con cui non si può trattare, perché non esiste nessuno che possa assumere un impegno, il quale il giorno dopo non venga smentito dagli altri. Non esiste deputato liberale che non sia certo di dover combattere un mese dopo la proposta fatta da lui stesso, né è mai esistito un club che abbia potuto vivere un mese in pace senza tremare per la minaccia d’una rivolta di palazzo. Chi paga le spese di codest’anarchia non è semplicemente il partito liberale, ma sovratutto il paese. La storia è là a dimostrarlo. Ecco perché noi, francamente, preferiamo un partito liberale organizzato, anche se con ciò le difficoltà per il nostro partito divenissero maggiori. E poi, perché non dirvi anche questo? La conoscenza non piccola dell’ambiente liberale fuori di Trento ci fa ritenere che se tutte queste voci potessero farsi valere, la politica del partito liberale sarebbe più saggia. Ciò sia detto senza offender nessuno, e senz’ombra di voler immischiarsi nei fatti vostri... come, viceversa, fate voi.
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Il Popolo critica di nuovo il regolamento della Dieta. Sta bene, non ne siamo entusiasti nemmanco noi. Si sa, esso è il frutto di un compromesso e, una volta abbandonato il terreno dei principi, n’è venuto fuori quello che n’è venuto fuori. Ma chi l’ha abbandonato? Noi eravamo disposti ad introdurre il suffragio eguale, o almeno a dimidiare le curie privilegiate aumentando invece i mandati delle curie popolari. Ma i possessori dei privilegi stettero duri. Chi sono da noi? Sono i signori liberali. Il Popolo l’ha dimenticato. Il «grande possesso nobile trentino» elegge 4 deputati. Sono 100 circa questi nobili e la maggioranza sono liberali; noi non c’entriamo. Metta insieme i 4 col rappresentante della camera di commercio (venti persone, come dite voi) ed abbiamo 5 privilegiati liberali. Noi eravamo disposti a sopprimere l’unico privilegio che abbiamo, il mandato dei prelati; ma se gli altri vogliono i loro cinque, noi avremo dovuto cedere l’unico che abbiamo? Il Popolo parla anche dei privilegi del censo! Sta bene, ma perché non fa i debiti confronti? Nei collegi rurali per avere il diritto di voto basta pagare 2 corone d’imposta diretta, a Trento e a Rovereto invece 10. Così nei collegi rurali, per volontà dei «clericali» potranno votare quasi tutti gli elettori, perché pochi sono coloro che non pagano due corone. In città invece il diritto elettorale per la curia del censo dietale è ancora molto più ristretto del vecchio diritto elettorale per il III corpo comunale! Chi ha voluto questo? I liberali. E perché voi, socialisti, che lo sapevate non vi siete mossi a protestare? Quanti comizi avete fatto? Non trascinavate invece il proletariato nei comizi per Fiemme, mentre i liberali lo escludevano dal voto? Deplorate anche nel Popolo d’oggi la spartizione del collegio delle borgate settentrionali e l’avreste desiderato mantenere come quello della Valsugana. Volete dunque voi, socialisti, un peggioramento del voto. Vorreste che ad esempio i cittadini di Mezzolombardo, a mo’ d’esempio potessero votare solo se pagano 5 o 10 corone come avviene nei collegi privilegiati delle borgate o città, invece che solo 2 cor., come stabilito per i collegi rurali? Ma perché, chiedete voi, manteneste allora il collegio delle borgate valsuganesi? Perché? Perché ce l’hanno imposto i liberali come condizione sine qua non per lasciar passare la riforma. Ma che cosa facevate voi, mentre i liberali in Dieta sostenevano i loro privilegi? Avete taciuto o protestato contro... i preti. I socialisti tirolesi nella Volkszeitung di Innsbruck hanno attaccato i loro borghesi e li hanno costretti a recedere dalle loro pretese; ma voi, che avete fatto? Ov’eravate voi, propugnatori dell’uguaglianza e della giustizia? Ed oggi, anche oggi, forse che avete il fegato di combattere i privilegi più grandi che sono in mano dei liberali cittadini? Staremo a vedere. Ma già continuerete sulla rotta, sempre seguita fino a qui e protesterete contro... i preti. Poiché voi anzitutto e sovrattutto non siete né egalitari, né democratici, né socialisti, ma anticlericali.
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21911-1915
Da tutti i luoghi, dove negli ultimi giorni, per cura dell’Unione politica popolare, si sono tenute conferenze, ci giungono notizie che gli elettori hanno accolte con soddisfazione le candidature già pubblicate e apprezzando altamente il lavoro compiuto dalla deputazione popolare nello scorso sessenio dietale, esprimono il vivo desiderio e la ferma fiducia che anche nella nuova Dieta essa abbia a riprendere e continuare il lavoro. Questi voti espressi in adunanze numerose e ordinate riescono di speciale soddisfazione e di incoraggiamento per il partito popolare, perché rispecchiano il vero sentimento del popolo nostro. È facile a certa gente cantare trionfo, convocando dei comizi rumorosi, conducendovi una truppa di moretti, facendosi da questi applaudire a ogni menzogna, a ogni insulto, a ogni spacconata che lanciano, e impedendo poi col fracasso di parlare liberamente agli altri; ma questi comizii sono cosa ben diversa, anzi sono una semplice falsificazione dell’opinione pubblica. Anche una notizia recentissima ce ne offre prova novella. Alla fine di marzo i leghisti tenevano sulla piazza di Caldonazzo il noto comizio nel quale gente forestiera faceva folta corona agli oratori leghisti, li applaudiva freneticamente e copriva poi con fracassi la voce dell’oratore popolare, al quale da qualcuno furono gettati in faccia quei sanguinosi e calunniosi insulti che il Contadino pubblicò, cercando poi di negare di averli diretti contro la persona presa di mira. Il Contadino e lo scrittore di quella robaccia mostrano un coraggio da leoni! Ebbene, quali furono i frutti di quel comizio? Disgusto profondo nel paese, anche presso persone che non militano nelle file dei popolari e una reazione vigorosa da parte dei benpensanti contro simili sistemi. Chi avesse voluto avere la prova del vero sentimento della popolazione di Caldonazzo, non avrebbe avuto da fare altro che trovarsi ieri sera alla conferenza tenuta nella vasta sala del Circolo di lettura dei due candidati on. Gentili e Luigi Dalcastagné , contadino e segretario comunale di Torcegno. La platea e la loggia erano addirittura gremite: l’uditorio si accalcava anche nell’andito d’ingresso e parecchi non poterono entrare. L’on. Gentili espose brevemente la riforma elettorale, rilevando, fra il resto, come i popolari volevano la riduzione delle curie privilegiate, un limite più basso del censo per concedere il diritto di voto e il diritto personale di voto per le donne . Egli rilevò come a tutto ciò si opposero il gran possesso tedesco e i liberali tedeschi e italiani che, naturalmente, dai privilegi sentono – e sentono essi soli – il vantaggio. Espose poi il lavoro compiuto dalla Dieta, esponendo con cifre e fatti ciò che essa votò per le scuole, per l’agricoltura, per strade, acque, ferrovie e in generale per pubblica utilità, e ricordò e confutò solidamente le menzogne di avversari sull’imposta personale, sulla tassa del vino ecc. rilevando come al Parlamento – unico foro competente – i popolari presentarono e votarono l’abolizione dell’imposta personale per le rendite inferiori alle 1600 cor., come – unitamente agli altri rappresentanti di regioni viticole – fecero cadere al Parlamento e alla Dieta la tassa sul vino privato tanto dannosa ai contadini – benché sostenuta anche da parte dei socialisti trentini, e rilevando infine come coloro che vogliono e pretendono l’esclusiva rappresentanza di classe degli agricoltori devono riuscire molto sospetti per il fatto che non attaccano che il partito popolare, mentre nulla hanno da dire contro gli altri partiti, anzi si giovano del loro appoggio, benché né liberali né socialisti non siano certo quelli da cui gli agricoltori possano attendersi la rappresentanza dei loro interessi. Non è questo che un pallido e manchevole cenno della conferenza che spesso fu interrotta dagli applausi fragorosi di parecchie centinaia di persone che dimostravano così il loro pieno assenso alle parole del conferenziere e all’opera del partito popolare. E applausi coronarono altresì il discorso sostanzioso e positivo tenuto dal candidato della curia del censo per i comuni della Valsugana, Luigi Dalcastagné, contadino autentico che colla sua assiduità seppe procurarsi una bella coltura e che da venti anni presta la sua opera utile e stimata come capocomune e al presente come segretario comunale. Il Comizio di Caldonazzo è un esempio che non è solo. In parecchi luoghi del collegio di Vallagarina si ebbe di questi giorni lo stesso spettacolo di quello che pensa, fa e vuole la popolazione in contrasto coi mestatori e gli amanti del fracasso. La popolazione mostra di sapere che alla Dieta si trattano gravi questioni riguardanti l’educazione religiosa e morale della gioventù; questioni che richiedono non vaghe frasi di facile elusione, ma una professione franca e provata di integri sentimenti cattolici, la popolazione mostra di sapere che altro è gridare in piazza coll’aiuto di moretti che troppe volte rappresentano interessi affatto diversi da quelli degli agricoltori, e altro è lavorare sul serio alla Dieta dove si richiede esame diligente delle questioni, forza numerosa e concorde della deputazione che rappresenta la stragrande maggioranza del popolo trentino, affidamento sicuro di propositi quale solo può essere dato da coloro che già da tanti anni prevennero le chiacchiere altrui con i fatti propri e che in sei anni di attività dietale portarono al Trentino risultati quali mai prima si ottennero. Le numerose adunanze di fiduciari e di elettori – tenute, è vero, senza chiasso, ma tanto più utili e preziose – adunanze che ci confermano la serietà del popolo, sono una soddisfazione, come già dicemmo, e devono anche servire di incoraggiamento e di sprono a quanti sono chiamati in questi giorni a lavorare e votare. Esse indicano che in mezzo al cancan della stampa e di agitatori avversari, il buon senso non è andato smarrito, ma sa manifestarsi e attende solo il momento opportuno per dare una dimostrazione eloquente della sua forza e della sua voce. Facciamo tutti, con compattezza e disciplina, il nostro dovere e non mancherà la corresponsione dei fatti!
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21911-1915
Il programma del partito liberale per le elezioni dietali dice, fra il resto: «La recente riforma del regolamento elettorale per la provincia non può costituire l’ultima parola in materia: converrà dar opera a toglierne le ineguaglianze, a farne possibilmente scomparire le varie forme di privilegio ed a rendere meno illusoria la competizione dei partiti nei collegi rurali». Credete di sognare? No, no; sono proprio parole del programma liberale. Dunque siamo intesi. I liberali vogliono togliere i privilegi che ancora rimangono nella legge elettorale. Perché non hanno cominciato a farlo nella riforma approvata testè? I popolari volevano ridurre la curia dei prelati e del gran possesso nobile fondiario. Ma i liberali italiani – d’accordo in ciò coi liberali tedeschi e coi coautori del grande possesso nobile fondiario tirolese – vollero mantenuti tutti e dieci i mandati di questa curia che conta duecentocinquanta elettori. Perché? Perché almeno tre di questi mandati toccano senza lotta e senza contrasto ai liberali italiani che hanno già proclamata la candidatura del bar. Ciani , del dott. Bellat e del conte Martini come membri e di altri tre come sostituti. Ah, i liberali sono contro i privilegi se i privilegi si rivolgono contro di loro, ma sono per i privilegi se questi assicurano loro senza fatica tre mandati. E quindi nella votazione seguita già nel luglio 1913 in seno alla commissione, quando si trattò di ridurre i mandati del gran possesso nobile fondiario, i popolari restarono in minoranza, schiacciati dai voti tedeschi cui si unì il voto del rappresentante dei liberali italiani, on. dott. Antonio Stefenelli. Ora che si sono assicurati i mandati privilegiati, i liberali – nel proclama elettorale – dicono che bisognerà ridurre i privilegi. Quando? Aspetta, cavallin, che l’erba cresca? Un altro privilegio è il mandato della camera di commercio. Hanno detto i liberali una sola parola o fatta una proposta per toglierlo o renderlo – nel modo di votazione – meno duro? Nulla di nulla. Quando si deve fare, allora conservano i privilegi, promettono poi a parole di abolirli in avvenire. E per la curia del censo? Volevano che per aver diritto di voto nelle città autonome fosse necessaria un’imposta erariale diretta di 20 cor.; quindi chi non paga almeno 20 cor. non avrebbe avuto diritto di voto a Trento e Rovereto. Per le altre città e borgate volevano legato il diritto di voto a un’imposta erariale diretta di almeno 10 cor. I popolari si opposero e, ottennero finalmente che le 20 cor. per le città autonome fossero ridotte a 10, e le 10 delle altre città e borgate fossero ridotte a 5. Questa è storia; storia che fu conservata negli atti dietali e contro la quale nessuno osò ribattere verbo. Ed è anche storia recente che tanto nel comune di Trento quanto nelle elezioni dietali i popolari proposero che le donne avessero voto personale; invece i liberali le vollero escluse dal voto per il Comune di Trento e dal voto per la Dieta a Trento e a Rovereto, consentendo solo al voto per procura per gli altri luoghi nelle elezioni dietali. E trovarono che nei collegi rurali non è possibile la gara dei partiti. Ma, dov’è, signori, che si lotta, fuorché nei collegi elettorali? Nel gran possesso che è vostro dominio incontrastato, non vi è lotta; nella Camera di commercio, vostro feudo, non vi è lotta; nelle città autonome e col voto ristretto ai censiti di almeno 10 corone, non vi è lotta. Questi sono i privilegi, e se la Dieta fu costretta a concederveli perché non impedire coll’ostruzione la riforma, non può certo crearvi elettori dove non ne avete, e dove invece, fate d’ogni erba fascio, favorendo leghisti, socialisti e confusionisti in odio al partito popolare.
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Ciò che può metter in pericolo la nostra vittoria non sono né le candidature socialiste, né quelle liberali, né quelle leghiste, ma due cose sole: la certezza di vincere e il confusionismo fatto nascere all’ultimo momento. In molti paesi si è apatici. La campagna elettorale è stata troppo soave, le nostre forze di propaganda sono troppo limitate. Non siamo quindi arrivati in certi paesi, e perché forse si è fatto troppo assegnamento sulla centrale, si è rimasti apatici, cullandosi anche nell’illusione che dopo tutto la vittoria è sicura. Qui esiste il pericolo che non si vada a votare. Bisogna scongiurare questo pericolo con tutte le forze 1) perché è doveroso e necessario che i nostri candidati ottengano non la semplice maggioranza numerica ma un’affermazione vigorosa la quale dia nuovo slancio al partito e riesca d’incoraggiamento per la faticosa azione da svolgere nell’avvenire 2) perché le astensioni, dato il sistema della maggioranza relativa, e le possibili sorprese dell’ultima ora, mettono sul serio in pericolo la riuscita dei nostri. Poiché qui interviene a nostro danno l’insidia del confusionismo. Se avessimo di fronte, come nelle ultime elezioni parlamentari, liberali, socialisti e leghisti, tutti gli anticlericali insomma, schierati sotto le loro bandiere, la battaglia sarebbe più facile, la vittoria sicura. Ma invece questa volta accanto alla candidatura socialista, leghista e liberale, ci sono sorti ai fianchi dei mettizizzania, dei confusionisti e i regionalisti. Ora conveniamo anzitutto in questo: è dovere sacrosanto di quanti aderiscono al partito popolare di andare a votare e di votare la lista proposta dall’Unione politica. Le candidature sono state poste dopo laboriose trattative e dopo aver chiamato a deliberare, nella forma più democratica possibile 1237 fiduciari. Pubblicata la lista del partito, subentra la legge ferrea della solidarietà democratica, che è la disciplina. Chi non intende questa legge e vi si sottrae, è uomo il quale non è ancora maturo per le necessità della vita politica moderna. Inoltre si badi ad un’altra circostanza. Le candidature confusioniste sono appoggiate dalla stampa avversaria, se addirittura non sono state promosse direttamente da anticlericali. E perché sono appoggiate dai nostri nemici politici? È chiaro. In odio a noi, in odio al nostro partito, per indebolire le nostre forze. E ci può essere qualcuno degli aderenti al nostro programma che astenendosi o votando addirittura per un confusionista, pianterà il coltello nella schiena al suo partito! No; proclamiamolo chiaro e senza tergiversazioni. Chiunque vuol venir meno alla parola data, chi vuol mancare all’impegno preso da galantuomo entrando nelle nostre associazioni ed accogliendo con ciò il nostro regolamento, è indegno di chiamarsi popolare ed è meglio si metta bello e netto fra gli avversari, che così sapremo almeno con chi abbiamo da fare. Richiamiamo sovrattutto l’attenzione degli amici sulla IV curia . Nella curia generale gli uomini si trovano di fronte uomini conosciuti e benemeriti. Se ci sarà concorso, la nostra vittoria sarà splendida. Nella IV, in qualche collegio, le condizioni elettorali sono meno buone. Anzitutto il censo di 2 corone è già a nostro sfavore (tanto è vero che ci torna a conto sostenere privilegi!) e poi in questa curia parecchi candidati sono uomini nuovi, che non possono presentarsi dappertutto. Gli avversari si sono buttati addosso a questa curia, dividendosi le parti, favorendo qui le candidature regionali, lì le candidature indipendenti, le agrarie ecc. Sono tutti diversi nomi del medesimo concetto: il confusionismo. Vergognosi sono in modo particolare quei liberali che soffiano nel basso istinto del campanile. Il Trentino per costoro è divenuto un continente che si può prendersi il lusso di dividere suddividere in... regioni! E alla Dieta si potrà così ottenere non una deputazione del Trentino allineata secondo il proprio programma, ma un sacco di noci, dove l’on. Cembrano, Pinaitro, Fiemmese, Primierotto, Rendenese, Canalino ecc. ecc. senza programmi e senza club, rappresenteranno ciascuno magari l’uno contro l’altro gli interessi di un campanile contro le ambiziose aspirazioni di un altro campanile. Bel Trentino innanzi al Tirolo sarebbe codesto, bello e fiero paese in veste d’arlecchino! Di fronte a questi tentativi non v’è che un’opera da fare nell’interesse del paese e della nostra causa: eccitare, riscuotere tutti i nostri dall’apatia e risollevarli dalla miseria delle beghe locali, attizzate dagli anticlericali e dai confusionisti, nell’atmosfera della dignità e dei sommi interessi del paese. In politica bisogna avere un programma, un’organizzazione e lo spirito di solidarietà. È urgente che i nostri fiduciari ed amici – anche nei paesi più piccoli – ove non arrivano i nostri propagandisti, convochino una riunione degli elettori, spieghino la situazione elettorale e li eccitino a votare. Questa istanza è rivolta a tutti indistintamente. Diremo ora qualche cosa in particolare su qualche collegio. [...] Collegio di Fiemme, Fassa, Primiero, Civezzano Un giro di propaganda fatto domenica in Piné dal candidato della V curia dott. Degasperi, ha smascherato una losca manovra degli avversari. Il dott. Degasperi tenne tre comizi, uno la mattina a Montagnaga, che ebbe ottimo esito per il nostro partito, un secondo la sera tardi al Central per Piazzo, Bedollo, Regnano e Brusago, ove gli elettori accorsero numerosi e applaudirono senza eccezione al dott. Degasperi. Nella terza adunanza invece a Baselga intervenne il cosiddetto gruppo della Lega Nazionale di Miola, con a capo il noto Giovanni Sighele , casellaro e aiutato da un drappello di Baselga. Si venne ad una discussione sulla nomina della presidenza, che il Degasperi stesso troncò, accettando il proposto dal Sighele, quantunque la maggioranza non fosse accertata. Poi il Sighele con altri incominciarono a gridare che il Degasperi parlasse della questione stradale, che si scolpasse perché la strada non venne finanziata dalla Dieta, ecc. Il Degasperi espose colle cifre alla mano per quali ragioni non si siano potute costruire nuove strade, perché siano avvenuti i sorpassi nelle vecchie e così via. Quando gli avversari s’accorsero che l’esposizione del Degasperi impressionava l’assemblea, incominciarono a gridare, a interrompere. Qualche screanzato si mise anche a fischiare. Una parte gridava: viva Cadrobbi! un’altra: viva Degasperi! Il Sighele, interrompendo, gridava che i popolari avevano tradito Fiemme, al che il Degasperi fra gli applausi della maggioranza rispondeva che su Fiemme erano chiamati a giudicare i fiammazzi... Quando però il Degasperi, rispondendo a tono sulla questione stradale, dimostrò che gli avversari approfittavano di una questione locale, per far opera di partito, senza avere il coraggio di dirlo, la maggioranza si dimostrò a noi favorevole. Qualche civile se ne andò schiamazzando e fischiando. L’Alto Adige si compiace che il dott. Degasperi sia stato «fischiato». I pinetani ci pensarono il 27 ad esprimere il loro parere colla scheda. Lo scontro ha però servito a strappare la maschera agli avversari. In Piné alcuni astuti ed alcuni illusi tentavano da giorni di lanciare la candidatura di un signor Cadrobbi, consigliere in pensione, persona rispettabile, ci hanno detto, ma che non sapppiamo in quanto c’entri con simili mene. Si diceva che per la strada bisognava avere un candidato di Piné. Questi emissari però si guardarono bene dall’avvicinare le nostre persone di fiducia, lavoravano invece nell’ombra e scrissero, come oggi sappiamo, in Primiero assicurando che tutti partiti, compresi i popolari, si erano accordati per il Cadrobbi. In Fiemme poi si sono recati in persona a parlare con quei liberali. Tentavano quindi una sorpresa, contando sulle astensioni eventuali dei nostri. Il comizio di Baselga ha strappato la maschera ai confusionisti. L’Alto Adige di ieri sera pubblicò come «candidatura indipendente» nella quinta curia quella del cons. Cadrobbi, in pensione a Rovereto, presentandolo come candidato dei «comuni di Baselga, Miola e Bedollo». (Chi avrà autorizzati i comuni a candidare?) e aggiungendo come confidino che sul suo nome si affermeranno tutti gli elettori del collegio non vincolati da pregiudiziali di partito. Naturalmente le pregiudiziali devono essere solo del partito... popolare. Il Popolo se la gode un mondo della «ribellione anticlericale» di Piné . Gli amici sono avvisati.
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Fu antica usanza dei liberali o astenersi dalla Dieta oppure ostruirla per proposito deliberato. Gridava il popolo, gridavano i maestri che si provvedesse alle strade, alle arginazioni, all’agricoltura, alla scuola; ma i liberali rispondevano che la causa del paese va sopra tutto e che essa richiedeva di impedire ogni lavoro alla Dieta. Questo vecchio e disastroso spettacolo si ripetè nel mese di febbraio. D’accordo fra i capiclubs ed anche col consenso del presidente del club liberale on. d.r Bertolini, si era combinato un programma di lavoro; ma il club liberale lasciò in asso il suo presidente e decise di ostruire quel programma. Esso conteneva l’erezione di un istituto di maternità a Trento, istituto che avrebbe servito a un sentito bisogno di tutto il Trentino e che avrebbe costato circa un milione. Ebbene, che fecero i liberali? Lo ostruirono, e per tutto compenso ora lo mettono nel programma per le elezioni. Bel metodo, non è vero? Prima impedire la cosa, quando si può averla; poi prometterla. Per l’avvenire. È il caso analogo a quello dei privilegi elettorali: prima si pretendono e si pigliano i privilegi, poi si promette, durante le elezioni, di abolirli . Il programma di lavoro della Dieta conteneva anche l’aumento del fondo per le strade comunali a 300.000 corone all’anno. Che cosa fecero i liberali? Impedirono anche questa votazione. Così il fondo resta come prima. Il programma di lavoro della Dieta conteneva inoltre l’aumento del fondo per la costruzione di acquedotti di acqua potabile. Esso doveva venir elevato a 150.000 cor. all’anno. Che cosa fecero i liberali? Impedirono anche questa votazione. Il programma di lavoro della Dieta conteneva la creazione d’un fondo annuo di Cor. 48.000 per sovvenzioni ai caseifici. Che cosa fecero i liberali? Impedirono anche questo sì necessario ed utile sussidio. Come impedirono tutto ciò? Colle famose 94 proposte d’urgenza, fra cui una per la conservazione dell’orso e l’altra per la caccia colla civetta. Il popolo trentino può andar grato ai liberali di questi benefizi che essi gli recarono alla fine del sessennio dietale. Ed ora i liberali – per esempio nel collegio di Mezolombardo, Lavis, Cembra – mettono propri candidati, il d.r Sette e il d.r Vielmetti che con tutta disinvoltura, tacciono le benemerenze del loro partito e criticano i popolari; e dove non pongono propri candidati aiutano i leghisti e i socialisti. Questa cooperativa di mutuo soccorso non è molto eloquente? Non indica forse che di tutti e tre questi partiti – liberali, socialisti e leghisti – non si può e non si deve fidarsi? E che dire dei leghisti, che si atteggiano ai più sviscerati amici dei contadini, ma coprono con un manto pietoso i danni recati al nostro popolo dall’ostruzione con cui i liberali ammazzarono in febbraio la Dieta?
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Ieri sera nella sala Manzoni circa 150 fiduciari del partito popolare si erano raccolti a discutere la situazione creata dal ballottaggio di lunedì . Due socialisti che vi erano voluti penetrare per forza, benché fossero avvertiti che si trattava di adunanza confidenziale e di partito vennero fatti uscire, rivolgendo loro un pubblico appello di dichiararsi consenzienti o di andarsene. La riunione era animatissima. Acclamato a presidente il signor G.M. Ferrari che accennò fra rinnovati applausi alla recente affermazione fatta sul suo nome, si mise in discussione l’atteggiamento del partito nel ballottaggio di lunedì. Parlarono i signori Francesco Tomasi, G. Prada, Giulio Pallaveri, Don Weber, D.r Degasperi, on. Gentili, Smadelli. Riassumiamo per il pubblico il nerbo ed il risultato della discussione. La votazione di lunedì è per i popolari assai difficile. Gli elettori ricordano ancora che cosa fecero in una situazione analoga i liberali davanti al ballottaggio del 1907 e del 1911. Nel primo la defunta lega democratica votò un involuto ordine del giorno che implicitamente consigliava d’appoggiare il socialista Avancini contro il nostro candidato D.r. Conci; nel 1911 l’associazione liberale decise il disinteressamento, formola equivoca la quale portasse allo stesso risultato pratico, che la maggioranza dei liberali votò nel 1911 per il Battisti, come aveva votato nel 1907 per Augusto Avancini. I liberali hanno quindi contribuito a creare la situazione d’oggi, ed essi, non noi, ne sono corresponsabili. Nessun dovere quindi ci lega ad una partecipazione alle urne; e molto meno poi ci spinge qualsiasi obbligo di reciprocità. Se consideriamo anzi il contegno della stampa liberale tenuto negli ultimi mesi e quello seguito ancora durante la campagna elettorale, se ricordiamo l’atteggiamento preso dal candidato del partito liberale le ragioni del sentimento, della dignità offesa, dello sdegno per un trattamento così poco equo, ci spingerebbero a non muovere nemmeno un dito in favore della candidatura liberale. Anche dal punto di vista dell’interesse del partito, noi non ne avvantaggiamo certo se il club liberale, aumentato già in virtù dei privilegi elettorali, viene rinforzato per il nostro atteggiamento, come nelle città meridionali, così ancora nella V curia di Trento. Aggiungiamo che la tattica violenta, ma più aperta dei propagandisti socialisti ha certo dei lati meno antipatici di quella insidiosa seguita da certi liberali. Il nostro partito però, al di sopra di ogni ragione del sentimento, prima di ogni considerazione opportunista, al di fuori di ogni riguardo a persone, si è imposto sovra tutto un programma e la difesa di un principio. Esso ha sempre creduto e sempre proclamato che il socialismo come dottrina è antireligioso e antisociale e che l’organizzazione del partito socialista internazionale è contraria alla dignità ed all’interesse della nostra rappresentanza politica nazionale. In buona parte dobbiamo infatti alla propaganda del quotidiano e più ancora dei periodici socialisti la diffusione nelle classi popolari dei principi del laicismo ateo, e della libera morale. Il socialismo, come principi di cultura ha portato anche nel Trentino l’organizzazione dell’irreligione e come partito politico ha portato alla terza potenza il radicalismo parolaio e demagogico. Noi non possiamo assistere inerti all’andata al potere di codesto programma di distruzione, né all’apoteosi della bandiera socialista. Abbiamo un’arma a disposizione, la scheda, usiamola quindi lunedì per protestare contro il socialismo, anche se per fare il nostro dovere ci tocchi necessariamente d’appoggiare chi s’è comportato in modo da ostacolarcene l’adempimento. Un’altra protesta è da farsi ancora, ed è contro l’equivoco politico che domina a Trento e di cui il candidato socialista è l’esponente. A Trento i confini fra proletariato e borghesia, i contrasti fra nazionalismo e internazionalismo sono indefinibili. L’equivoco fu favorito dal quotidiano socialista, ma ancora più dai socialistoidi del campo liberale e dalla reclame di simpatia fatta ai socialisti dalla loro stampa. Eppure questi confini e tali contrasti esistono e si manifestano crudamente alla Camera, ove il deputato di Trento siede sul banco dei socialisti tedeschi internazionali e dovrebbero manifestarsi anche nella rappresentanza provinciale. La nostra scheda sia quindi anche una protesta contro codesto ibridismo. È ora di farla finita. I socialisti appariscano quel che sono dappertutto nelle altre province italiane dell’Austria e quello che importano il loro programma storico ed il loro atteggiamento di fatto, e chi li appoggia ne assuma intiera la responsabilità. Lunedì noi intendiamo protestare non solo dunque contro il socialismo, ma anche contro l’ibridismo dei socialistoidi; contro le viltà e le condiscendenze di qualche gruppo liberale, che pur mantenendo tale nome ha aperta la via all’entrata ed al progresso del socialismo nel nostro paese. Il nostro partito combatte quindi lunedì disinteressatamente, forse anzi contro l’interesse momentaneo della propria organizzazione politica, ma combatte per un principio, per un programma e per il risanamento della vita politica trentina. Molte difficoltà ci vennero opposte per renderci meno agevole tale risoluzione, ma il partito popolare di Trento darà lunedì un esempio che sovra ogni considerazione di partito e di persone, prevale in esso l’alto concetto del bene morale nazionale ed economico del Trentino. Queste le conclusioni della discussione, le quali vennero accolte con applausi fragorosi. Il presidente mette al voto la partecipazione al ballottaggio col motto: contro il socialismo e l’ibridismo socialistoide. Tutta l’assemblea acclama con entusiasmo. Ora la parola d’ordine è data. Vedano gli amici di mantenerla coll’usata lealtà e colla disciplina che fu sempre nostro vanto.
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Il nostro articolo di ieri riferendo decisioni dei nostri fiduciari concludeva che bisognava andare alle urne per combattere il socialismo e l’ibridismo socialistoide . Ma il nostro articolo non lasciava minimo dubbio che noi avevamo deciso di andare alle urne, indipendentemente da ogni riguardo per il partito liberale o per il suo candidato; anche vi andavamo in protesta contro la viltà socialistoide di un loro gruppo nonostante che la stampa ed il candidato del partito liberale si fossero comportati di fronte a noi in modo da difficoltare la nostra andata alle urne contro il socialista. Ci pare che una forma più chiara e più precisa per dire che noi prendevamo la nostra via senza curarci di quello che ne pensasse il partito liberale o il suo candidato, non ci poteva essere. Invece l’Alto Adige per un caso di patologia elettorale che in condizioni normali sarebbe inesplicabile, ha potuto ritenere che la sua opinione fosse in grado di modificare la nostra condotta e comechesia di esercitarvi una qualche influenza. E ieri sera in un articolo, dettato dalla paura di colui che l’Alto Adige ha contribuito a mettere sugli altari, i signori ci mandano a dire che «avrebbero preferito che i fiduciari clericali avessero deliberato d’astenersi» , che il Trentino sarebbe stato meglio consigliato se avesse deciso di tenere per sé i voti che nessuno ha mai chiesti né sollecitati, e che anzi, non sono punto «desiderati» per far trasparire in una parentesi alla fine dell’articolo la possibilità che forse dopo simili dichiarazioni dell’Alto Adige il partito popolare receda dalle sue deliberazioni. Ci affrettiamo, se ce ne fosse bisogno a disingannare l’Alto Adige. Il partito popolare fa della politica per un principio e per un programma e non agisce a scatti. Noi abbiamo deciso di andare alle urne per protestare contro il socialismo e l’ibridismo socialistoide e manterremo la parola, tutti fino ad uno. Questa è la nostra posizione chiara, netta, precisa. Naturalmente la legge stessa ci preclude altra scelta che non sia quella di dare il voto al candidato liberale. La situazione quindi reale e di fatto è questa. Nei ballottaggi la designazione degli elettori chiamati a decidere in ultima istanza, è più vasta di qualsiasi affermazione di partito. Noi facciamo lunedì dell’antisocialismo e per farlo efficacemente dobbiamo dare il voto al liberale. Vuole il partito liberale escludere la possibilità che i cittadini nella loro maggioranza, facciano nell’atto elettorale una protesta di antisocialismo? Non gli resta che ritirare la sua candidatura. Oppure vuole il partito liberale pur non ritirando per pudore la candidatura riuscire di fatto ad impedire la caduta del candidato socialista, ch’esso ha combattuto? In tal caso, faccia come gli è toccato di fare altre volte, si divida in due schiere: l’una voti per il candidato proprio, l’altra per il candidato contrario. Noi e con noi la maggioranza dei cittadini e la maggioranza del paese staremo a vedere se alla caduta del socialista, si preferisce la capitolazione o lo sfacelo. È inutile che ne discutiamo a parole. I fatti parlano chiaro. In quanto al partito popolare, esso è pronto in tutta la sua unità, in tutta la sua compattezza, per entrare nella lotta. Qualcuno può forse aver desiderato che noi sciogliessimo le nostre file, che scomparissimo come partito, per ricomparire in veste equivoca e vergognosetti a deporre nell’urna il nome del candidato liberale, col proposito poi magari di far passare tutti i voti come adesioni al programma liberale. No, per noi non ci sono le formole equivoche né direttive segrete. Noi spieghiamo la nostra bandiera al sole, su cui sta scritto: Contro i socialisti ed i socialistoidi. Questa è la nostra parte, questo il nostro dovere. Il resto sarà quel che sarà. Da Vienna a Innsbruck Eravamo nel 1911. La città di Trento doveva mandare un deputato al Parlamento. Postulato massimo della nazione in quel consesso: la facoltà giuridica italiana. Chi sarà il campione della conquista? Su chi si poseranno gli occhi e le speranze di molti e molti cittadini di Trento? Manco dirlo, sul d.r. Battisti. Lui che sa sempre trovare una parola più reboante del più radicale fra i liberali radicali; lui che sa trinciare un gesto più energico, lui, la spola di dinamite che con uno scoppio solo manderà per aria i campanili delle chiese, la compagine politica, il presente ordine sociale... Egli è l’uomo della rivoluzione – così lo proclamava pur di recente un foglietto volante – egli l’uomo dell’avvenire; egli il taumaturgo che deve tradurre in atto ciò che i nazionali invano predicarono, promisero, sospirarono. Gli elettori di Trento gli danno il voto. Finalmente Trento ha trovato il suo messia. I cuori palpitano in trepida aspettazione. Vedrete: al suo ingresso nella Camera di Vienna, la dinamite scoppierà, crollerà tutto il vecchio edificio, compariranno i cieli nuovi e la terra nuova. Ahimè, che delusione! La via di Vienna sembra mutata in via di Damasco; colui che a Trento pareva un Mazzini «più vero e maggiore», giunto là fuori entra mogio mogio nell’ovile di Valentino Pittoni . Egregi signori! Sapete chi è Valentino Pittoni? È un socialista autentico, internazionale; è il politico italiano più benvisto e più caro al principe Hohenlohe, luogotenente di Trieste; è l’uomo più cordialmente esecrato dai nazionalisti adriatici. Egli è anche il capoclub dell’on. Battisti, e Pittoni non scherza. Freddo, calcolatore, energico, par che vi dica: o piegarsi o spezzarsi. Lo sa il compagno Pagnini di Trieste, che voleva dare un po’ di tinta nazionale al movimento socialista triestino. Pagnini dovette dimettersi, Pagnini perdette il mandato: il suo cadavere penzolante dal patibolo è monito solenne a chiunque sentisse qualche velleità di innovazioni o ribellioni. Battisti a Vienna è un soldato della compagnia Pittoni. Ahi, speranze deluse! E fosse tutto qui. L’on. Pittoni col suo gruppetto non forma un corpo a sé, anzi è l’unico membro che mantenne fede ai tedeschi, dopo che la lotta nazionale corrose la grande Federazione internazionale che formava l’orgoglio dei socialisti alla Camera di Vienna. Il gruppo dell’on. Pittoni – di cui fa parte l’on. Battisti – è rimasto fedele all’Adler, all’Ellenbogen e compagnia, anche dopo che i socialisti cechi, per ragioni nazionali, se ne staccarono rumorosamente e gli mossero aspra guerra. Spola di dinamite o docile agnello? Anima sdegnosa e ribelle, o peccatore pentito che, alla voce della suprema inquisizione viennese, laudabiliter se subiecit et opus reprovit? Ma c’era una foglia per coprire lo scandalo. Quei socialisti di vario colore e poco soavi favelle sarebbero stati, sotto l’influsso magico di Cesare, la leva potente che avrebbe dato agli italiani la loro facoltà. L’internazionalismo avrebbe risolta un’acuta questione nazionale, e l’avrebbe risolta secondo giustizia. Con ciò i partiti borghesi avrebbero ricevuto il colpo di grazia. Che bisogno c’era più di loro? Cesare si sarebbe sollevato trionfante sul trono mentre crollavano tutti gli altri. Quanto diversa da queste menzognere predizioni la cruda realtà! Ripetutamente i socialisti – al pari di tutti i partiti borghesi, avversari o poco benevoli agli italiani – trovarono che c’erano questioni molto più grosse della facoltà giuridica da trattare al Parlamento e gli italiani, da tutti isolati e abbandonati, dovettero aspettare. Invano dal fondo del loro settore ove esso digrada e confina con l’emiciclo della Camera, invano essi si volsero alla montagna, dove spiccavano le cravatte rosse, attendendo dall’alto il compimento delle promesse e delle profezie; invano essi fissarono l’occhio su Cesare, sul messia, sulla spola di dinamite; la spola non si accendeva, non scoppiava o non si vedeva... Altro sono il teatro Modena e la piazza Madruzzo; altro la Camera di Vienna. Il rivoluzionario, la speranza dei socialisti e di certi borghesi era scomparsa; e quando si udì la sua voce essa colpì anzitutto i suoi compatrioti, travolgendo anche i liberali nella condanna di adoratori del «dio prendi», coll’unica attenuante che la condanna inflitta ai liberali non comparve sulle coraggiose e feroci colonne del Popolo, ma per conto del flagellatore sarebbe restata sepolta nei volumi polverosi del protocollo. Ora Cesare vuole andare alla Dieta, per far saltare in aria anche quella, per creare un nuovo mondo, per fare anche lì la spola di dinamite e il messia. Come al Parlamento? Proprio così. Se Cesare andrà alla dieta, le vecchie figure barocche che ornano la sala, sbarrerranno tanto di occhi. Ciò che non raggiunsero gli altri partiti, lo raggiungerà il socialismo. Un tedesco e un italiano, Abram e Cesare, formeranno un solo club. Si avranno quindi clubs tedeschi, clubs italiani e un club... tirolese, dove il Trentino abbraccia il Tirolo. Come sarà contento il governo, e come riderà di questi due feroci oppositori! I due membri del club eleggeranno forse un presidente e questo – non ne dubitiamo – sarà l’Abram. Il capitano e il suo soldato ci daranno l’autonomia. Sicuro, e il Popolo si è già vantato parecchie volte di avere alleati in questa causa i socialisti tedeschi. Essi hanno già cominciata la campagna autonomistica durante la lotta elettorale. Come? Il Popolo non si è curato di farlo sapere. Eppure la cosa è interessante. In conferenze, in comizi, con migliaia e migliaia di fogli essi hanno dipinto gli italiani come le sanguisughe dei tedeschi. I tedeschi lavorano, sudano pagano, e gli italiani mangiano. L’on. Gentili e i popolari vi vengono dipinti nell’atto di spogliare i tedeschi e involarne a vantaggio del Trentino le ricchezze. Immaginatevi dunque che razza di autonomia costoro sono disposti a darci: la autonomia con un calcio nel sedere, come si dà ai pezzenti che entrano in casa altrui a far mano bassa. E se Abram suona così, come canterà il suo compagno o subalterno? Davvero, che l’internazionale socialista promette miracoli a Innsbruck, come li ha fatti a Vienna. E i socialisti tedeschi devono dire che gli italiani – gli unici rimasti fedeli a fornir loro aumento di club a Innsbruck e a Vienna – sono il più bel tipo di elettori che calchino la terra. In Boemia, in Moravia, nella Slesia, nella Galizia e negli altri regni e paesi rappresentati al Consiglio dell’Impero, non trovano di queste mosche bianche neanche nel campo socialista!
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L’esito delle elezioni di ieri è questo: Inscritti 5555, votanti 3835, Battisti 2015, Menestrina 1777, il resto bianche o invalide; eletto Battisti con 238 voti di maggioranza. Al primo scrutinio Battisti aveva avuto 1618 voti, è cresciuto quindi di 397 voti; i popolari avevano avuto 710 e i liberali 971 voti. La somma è 1681. I voti raccolti dal Menestrina questa volta sono appena 96 più della somma di cui sopra. Il nostro comitato calcola, riservandosi di fare uno spoglio più esatto, che dei nostri sono andati a votare almeno 300 di più dell’altra volta; così abbiamo oltrepassato il migliaio, il quale non rappresenta certo la nostra ultima parola, ma è tuttavia una bella affermazione, quando si pensi che siamo andati a votare per compiere un nostro dovere, esclusa ogni possibilità di entusiasmo. Le cifre quindi dicono anche questa volta con eloquenza inconfutabile che un certo gruppo di liberali ha abbandonato il proprio candidato ed è andato ad accrescere, anzi a garantire, la vittoria socialista. Il fenomeno avveratosi due volte nel 1907 e ripetutosi altre due volte nel 1911, nonostante tutti gli appelli dei capi liberali, è subentrato immancabilmente anche questa volta. Nel 1907 hanno abbandonato nel primo scrutinio l’on. Tambosi e nel secondo hanno votato apertamente per l’Avancini, affinché non riuscisse il «clericale» on. Conci. La cosa si trovò giustificata, perché, si diceva, è naturale che si voglia escludere una rappresentanza «clericale» a Trento. Nel 1911 hanno piantato il prof. Onestinghel e nel ballottaggio hanno riversato i loro voti sul Battisti piuttosto che sul D.r Cappelletti . Ci si diceva: La colpa siete voi, clericali, che colla vostra sete di dominio, provocate una reazione in favore del socialista. Questa volta abbiamo voluto fare la prova a rovescio. A primo scrutinio ci siamo limitati ad un’affermazione, escludendo coi fatti e colle dichiarazioni pubbliche ogni intenzione di conquista. Siamo riusciti così ad impedire che il candidato socialista riportasse la vittoria di primo colpo. Nel secondo scrutinio abbiamo spinto il nostro disinteresse a dare il nostro voto al candidato liberale, nonostante gli atteggiamenti assunti in quel campo. Ma qui si è rivelato il pericolo che il candidato socialista cadesse e questo è bastato perché il gruppo dei socialistoidi accorresse in suo soccorso. Riesce quindi dimostrato colla prova del fuoco: non è che si voti per il Battisti per reazione ai clericali o per scongiurare il pericolo d’un loro dominio, ma si vota per il Battisti perché riesca il Battisti, tanto se il controcandidato è un popolare che un liberale. Sarebbe facile spiegare anche come a Trento si sia arrivati a codesto fenomeno elettorale. Basti accennare ad una sola circostanza: che dell’attività dell’ on. Battisti sia alla Camera, sia nella propaganda in paese è banditrice generosa la stampa liberale. I suoi discorsi, le sue interpellanze, almeno in quella parte che più può sollecitare i borghesi, vengono riferiti e sottolineati come cosa seria del «deputato di Trento» e nessuna riserva e molto meno nessuna critica gli viene mossa, tanto che gli stessi deputati liberali si sono trovati parecchie volte a disagio. Quando si educano i lettori a siffatta ammirazione, oggettivamente molto infondata, è difficile poterli persuadere del contrario discoprendo all’ultimo momento il deputato socialista e assicurando che eran tutte chiacchiere vuote, prelette ai banchi o consegnate semplicemente a protocollo. Come ancora è un po’ difficile persuadere i lettori che a propugnare il principio di indipendenza bastino liberali, quando tutto l’anno s’è fatta la reclame al candidato socialista, quale indispensabile toreador contro il «clericalismo». Ma lasciamo questo terreno che non ci riguarda direttamente. Il socialistoidismo è un fenomeno che ha la forza sufficiente in certi momenti di dare il tracollo alla bilancia, ma non è punto il fatto più saliente della vita politica di Trento. Esagerarne l’importanza sarebbe grave errore di prospettiva. Il fatto più saliente è l’avanzata del socialismo. Su esso bisogna concentrare la nostra attenzione e contro di esso conviene avvisare ai rimedi. Il nucleo centrale di voti guadagnati dal D.r Battisti è composto di voti socialisti. Questo nome assume in Trento un carattere specifico, ma in fondo sono pur operai e piccoli borghesi che in tante occasioni esprimono la loro solidarietà col partito socialista internazionale ed il cui programma si riassume in due parole: odio al prete e odio al padrone. Si dice: tutti gli operai socialisti non sono così. Innegabilmente. Ma basta un nucleo di duecento, imbevuti oramai di tale spirito, che abbiano in mano le direzioni delle società economiche per muovere a piacimento tutti gli altri. Ebbene qui è il terreno su cui bisogna lavorare più di quello che abbiamo fatto, qui ove conviene ritentare la prova, malgrado le enormi difficoltà pregiudiziali che vi si oppongono. Non si tratta invero per noi né semplicemente né principalmente di conquiste politiche. Si tratta del principio e dell’avvenire della nostra classe operaia. Ogni sforzo fatto in questo senso sarà quindi lodevole e porterà dei frutti. I giovani sono chiamati sovratutti ad addestrarsi su questo campo scabroso. Le nostre società di ferrovieri, di tabaccai, di segantini, boscaiuoli, ecc. sono una prova di quanto il principio cristiano possa raggiungere anche nell’organizzazione professionale. Bisogna riattaccarsi a tale movimento e saper vincere anche a Trento l’eventuale terrorismo che potrà opporre la maggioranza. Iersera un buon gruppo della società operaia è venuto al Circolo sociale, ove si è svolto in proposito un interessante discussione, chiusa con rinnovato proposito di lavorare. Quanto alla situazione elettorale, i nostri amici non avevano certo bisogno di conforto. Hanno lavorato ieri, obbedendo ad un nobile e disinteressato concetto morale e trattenendo con uno sforzo la piena del proprio animo, e ieri sera erano lieti d’aver fatto il proprio dovere, d’aver fatto anche questa prova. Ora nessuno li potrà più rimproverare se tireranno avanti per la propria via, convinti che per combattere il socialismo non c’è più di forza vera che la nostra. Nel 1911 il nostro candidato avv. Cappelletti riceveva in ballottaggio 1703 voti, malgrado che il candidato socialista avesse in suo favore l’appoggio individuale e il disinteressamento ufficiale dei liberali. Abbiamo tutta la ragione di sperare, di lavorare, di rimetterci con slancio sul nostro cammino. Per il confronto: PRIMA ELEZIONE 14 maggio 1907 13 giugno 1911 Votanti 3470 Votanti 3778 (+ 308) Avancini 1576 Battisti 1454 (– 122) Conci 960 Cappelletti 1345 (+ 385) Tambosi 933 Onestinghel 979 (+ 45) BALLOTTAGGIO 23 maggio 1907 20 giugno 1911 Votanti 3412 Votanti 3821 (+ 409) Conci 1274 Cappelletti 1708 (+ 429) Avancini 2138 Battisti 2105 (– 33) Iersera una folla numerosa colla bandiera rossa in testa fece il giro al sass, cantando l’inno dei lavoratori e la Carmagnola gridando: viva «Trento socialista» ecc. Battisti ringraziò in piazza per il successo ottenuto eccitando i socialisti a lottare anche nelle prossime elezioni comunali. Innanzi al Circolo liberale si venne ad un tafferuglio, dal quale uscì malconcio e colpito sulla testa da un socialista un giovane liberale, il sig. Cestari, il quale al colpo cadde a terra e si dovette trasportar via in carrozza. Fischi in quantità, ma, relativamente, la dimostrazione si contenne ancora entro certi limiti. Il Popolo pubblica stamane parecchi telegrammi. Il primo è del presidente della neutra società «studenti trentini» che telegrafa al deputato socialista, eletto contro il liberale: Magnifica vittoria plaudiamo esultanti Studenti trentini!!!
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A campagna finita, vi rivolgiamo ancora una volta la parola per ringraziarvi del vostro lavoro e della vostra fedeltà. Venti deputati sono stati eletti nelle curie popolari col nostro programma e 32 mila elettori hanno seguita la nostra bandiera. Noi sappiamo lo slancio dei nostri amici, e conosciamo l’abnegazione di centinaia e centinaia di semplici elettori, perché li abbiamo incontrati dappertutto sul terreno della lotta. A loro più che il nostro ringraziamento sarà premio la sodisfazione del dovere compiuto e della vittoria ottenuta. Il lavoro, lo sforzo fu grande e talvolta ci parve esaurire le nostre energie; ma l’alto principio spirituale per il cui trionfo, sovra ogni conquista materiale, abbiamo combattuto, ci ha sospinti per il lungo cammino fino alla meta. FIDUCIARI! Il nostro dovere è ora di continuare con maggior calma ma con assiduità l’opera di consolidare l’Unione politica e le società locali che ne forniscono la costruttura. Anche le presenti elezioni hanno provato che la organizzazione democratica può vincere solo se rimane fedele al suo principio d’esistenza, che è la solidarietà, la disciplina. Singoli casi d’indisciplinatezza hanno provocato l’intervento degli avversari, che speravano di rompere le nostre file, ove già ripiegavano per la confusione messavi dai separatisti. Ne venne per conseguenza uno spreco delle nostre forze direttive là ove altrimenti sarebbero state superflue e con danno talvolta irreparabile per quelle posizioni, ove sarebbero state indispensabili. La responsabilità di chi manca alla disciplina è perciò gravissima. A simili tentativi è necessario opporsi con energia e con prontezza. Ovviarvi all’ultimo momento è mossa che spesso fallisce al suo scopo. Noi insistiamo vivamente presso tutti i fiduciari ed i capi delle associazioni locali, perché ricavando l’ammaestramento dai casi, per quanto pochi, ma non meno deplorevoli, avvenuti di recente, richiamino tutta l’attenzione dei nostri elettori su queste massime indispensabili all’esistenza di ogni partito. Chi non li riconosce cercherebbe invano di rientrare nelle nostre file per valersi della forza di quella stessa solidarietà, cui egli è mancato. Ricordate ancora: Le elezioni sono un barometro delle tendenze politico-sociali e più o meno esplicitamente anche di quelle religiose. In qualche luogo sovvolsero dal fondo alla superficie certi fermenti che sarebbero forse rimasti ignorati fino a guasto completo. Qui bisogna provveder subito. Ricordino gli amici l’esempio di Vallagarina. Coll’energia e colla tenacia l’idea buona riguadagna terreno . Sovratutto nessuno s’illuda di poter affrontare nuove battaglie, senza organizzazioni. L’opera isolata ed individuale senza il sussidio degli organismi moderni della vita pubblica, perde sempre più efficacia e, presto o tardi, è destinata a soccombere! AMICI! FIDUCIARI! Il nostro partito esce dalla campagna con una vittoria di più, con un numero di elettori accresciuto di parecchie migliaia. Godiamo oggi di questa soddisfazione, ma domani ripigliamo il nostro posto di vigilanza e di combattimento. Forse non andrà molto che saremo chiamati di nuovo a dar prova dei progressi che dovremo frattanto preparare. Trento, 6 maggio. La Direzione dell’Unione Politica Popolare.
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Grandi, popolare, V curia venne eletto con 4.449 voti Petrolli, popolare, V curia con 4.522 ” Degasperi, popolare, V curia con 3.598 ” Gentili, popolare, V curia con 4.450 ” Conci, popolare, V curia con 4.440 ” Delugan, popolare, V curia con 4.336 ” Tonelli, popolare, V curia con 4.904 ” Battisti, socialista, V curia, con 2.015 ” Chiesa, liberale, V curia con 1.983 ” Toffol, popolare, IV curia con 3.264 ” Cristel, popolare, IV curia con 2.894 ” Corradini, popolare, IV curia con 4.203 ” Ciccolini, popolare, IV curia con 4.049 ” Zambanini, popolare, IV curia, con 3.426 ” Paoli, popolare, IV curia con 3.511 ” Panizza, popolare, IV curia con 3.335 ” Perghem, popolare, IV curia con 3.285 ” Polla, popolare, IV curia con 3.213 ” Zanoni, popolare, IV curia con 3.215 ” Dalcastagnè, popolare, IV curia con 2.187 ” Pizzini, popolare, IV curia con 3.231 ” Tabarelli, popolare, IV curia con 3.248 ” Bellat, liberale, IV curia con 557 ” (152 di maggioranza) Sartori, liberale, IV curia con 632 ” (186 di maggioranza) Peterlongo, liberale, IV curia con 610 ” Viesi, liberale, IV curia con 604 ” Pinalli, liberale, IV curia con 424 ” Stefenelli, liberale, IV curia con 371 ” Raile, liberale, III curia con 17 ” Ciani, liberale, II curia con 19 ” Lorenzoni, liberale, II curia con 19 ” Martini, liberale, II curia con 19 ” Moll, lista patriottica, II curia con 28 ” Parteli, aderente al club popolare, I Curia, designato da primo elettore. Preghiamo i lettori di considerar bene queste cifre e di ripensarvi quando si parlerà del «volere del popolo» e «della voce del paese». Il club popolare ha più di 33 mila elettori dietro di sé (calcolando assai modestamente i nostri voti nel collegio meridionale) ed ha per vero il diritto di parlare a nome della maggioranza del paese; il club liberale non arriva a rappresentare che un 3500 voti circa. Se si facesse la proporzionale si troverebbe che il partito popolare è ancora decurtato, sia pure che si calcoli al suo attivo il seggio prelatizio, mentre il partito liberale è favorito enormemente dai privilegi e dalle limitazioni del voto. I liberali hanno in mano 11 mandati. Di questi uno solo appartiene alla curia popolare ed ebbe l’appoggio di elettori antisocialisti . Sei altri mandati liberali hanno mantenuto limitando il voto ad un censo di 5, rispettivamente 10 corone , un altro lo tengono in mano sicuro, monopolizzando con 7 voti della direzione della Camera di commercio la rappresentanza di questa curia e 3 mandati hanno complessivamente per il voto di 58 nobili tirolesi liberali nazionali che pagano 100 corone all’anno di fondiaria! A vantaggio di qual partito si sono quindi mantenuti i privilegi? Chi gode e chi ha sfruttate le restrinzioni del voto? Le cifre sono qua a rispondervi. L’unico privilegio che riesce a favore dei popolari è il seggio dei prelati, ma il nostro partito avrebbe ben più vantaggio a rinunziarvi, se invece delle curie privilegiate subentrasse il suffragio propozionale. Ebbene voi avete sentita la grande menzogna della campagna elettorale testè chiusa. Socialisti e leghisti diressero la lotta per il suffragio universale contro i popolari, quasiché gli sfruttatori dei privilegi fossimo noi e le restrizioni fossero state mantenute in nostro favore. Battisti segnò la marcia e i bottoli minori del leghismo gli andarono dietro. L’ariete fu lanciato a tutta forza contro quel povero banco di prelati, sui quali parve risiedesse tutta l’incarnazione del privilegio. Appena in seconda linea, in seguito ai nostri richiami, si ricordarono anche dei liberali. Ma sovratutto e malgrado tutto, doveva essere di prammatica che il privilegio significhi oscurantismo clericale. Il perché è chiaro. Il socialismo trentino è prima d’ogni altra cosa una degenerazione anticlericale. A Battisti poco importa d’abbattere i privilegi o meno, ma quello che gli preme è di mantenersi le simpatie degli anticlericali. Le riforme democratiche al Parlamento, alla Dieta, al Municipio sono state volute o promosse o favorite dai popolari. Ciò non toglie che bisogni sempre dipingerli come i primi sostenitori e sfruttatori del privilegio, per avere un pretesto di più di fare gli anticlericali. Il Popolo scrive oggi di biasimare una marcia parallela dei socialisti e dei cristiano-sociali, anche se è fatta in protesta contro il predominio di un’amministrazione monopolizzata da un partito com’è quella di Bolzano e di Innsbruck. Lo crediamo. Il Popolo è sovratutto anticlericale e poi democratico. La pregiudiziale «contro i preti» è tanto forte da mettere tutto il resto, compreso il socialismo, in seconda linea. Vedremo quanto la dura! E i liberali? I signori liberali si sono dati anch’essi allo sport di combattere a forza il privilegio. Tutti, compresi quelli che se lo son pappato con 17 e 19 voti, lo trovano odioso e insopportabile ma, badate bene, non lo... risputano. Ebbene, il paese vedrà, osserverà e giudicherà. Nel programma liberale-nazionale, in base al quale gli 11 liberali sono stati eletti sta scritto a grandi caratteri: «La recente riforma del regolamento elettorale per la provincia non può costituire l’ultima parola in materia: converrà dar opera a toglierne le molte ineguaglianze, a farne possibilmente scomparire le varie forme di privilegio ed a rendere meno illusoria la competizione dei partiti ne’ collegi rurali». Attendiamo dunque!
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Il Popolo di ieri, rispondendo all’Alto Adige che gli chiedeva il suo parere circa il preteso appoggio dei cattolici di Innsbruck ai candidati socialisti che nella capitale del Tirolo erano in ballottaggio coi liberali, dice che non solo non approva qualsiasi accordo di rossi con neri, ma trova di sconsigliare vivamente ai socialisti la accettazione anche puramente passiva di qualsiasi appoggio da parte dei clericali. Chi tiene di vista la politica e la tattica seguita dal cosiddetto partito socialista trentino non si meraviglierà punto di questa risposta. I socialisti trentini vogliono sopratutto l’anticlericalismo, anche quando per essere anticlericali si trovano nella necessità di essere antidemocratici. Altrimenti come potrebbe il Battisti avere l’appoggio efficace, anzi decisivo di una forte schiera di liberali che in tutte le elezioni corre a dimostrargli le sue simpatie con la scheda? Non così la pensano i socialisti tedeschi. Oltre Salorno i partiti politici assumono fisionomia più chiara che a Trento e i socialisti ci tengono praticamente assai più al loro programma democratico, che non i socialisti di Trento. È noto infatti che, benché non si possa parlare affatto di compromesso, buon numero di socialisti a Bolzano corse a dare il voto al candidato dei cattolici, dott. Probizer, e fece questo precisamente in odio ai liberali che hanno opposto un rifiuto reciso alle proposte dei cristiano-sociali, di riformare in senso democratico il regolamento comunale . Leggere la Volkszeitung, organo dei socialisti tirolesi, per persuadersene. Infatti, benché il partito socialista avesse lasciato mano libera ai suoi aderenti, tuttavia mandò a Bolzano il compagno Abram, il quale «visto – come narra testualmente la Volkszeitung – che gli agitatori tedeschi nazionali trascinavano i ferrovieri a votare, disse loro che dovevano pensarci bene prima di deporre la scheda per i liberali». E con tanta energia l’Abram si oppose ai socialisti che venivano trascinati a votare per i liberali, che su denunzia di galoppini tedeschi nazionali, venne arrestato e condotto in guardina, donde venne poi tosto rilasciato, essendosi egli richiamato all’immunità di deputato. E la Volkszeitung afferma ancora che i tedesco-nazionali sapevano che gran numero di lavoratori avrebbero votato il clericale per protestare contro la tirannia dei liberali; e chiude il suo commento dicendo che se i liberali nel ballottaggio di lunedì hanno vinto per 26 voti grazie ai socialisti di Merano, devono però persuadersi che i lavoratori sono stanchi di lasciarsi menare a naso dai liberali, e che se questa volta gran numero di socialisti ha votato dimostrativamente per i clericali, può darsi che un’altra volta volgano la fronte direttamente contro il liberalismo. E l’Abram ai tedesco-nazionali che credevano esser lui venuto da Innsbruck per consigliare i socialisti a votare contro il candidato dei cattolici, rispose netto e tondo che piuttosto di far agitazione tra i lavoratori perché votassero per i tedesco-nazionali, avrebbe loro strappato la scheda di mano parole che provocarono il noto incidente del suo arresto. Questa la posizione presa dai socialisti tedeschi. Ma a Trento e nel Trentino il socialismo sarà prima di tutto e soprattutto anticlericale anche a costo di essere antidemocratico.
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La politica elettorale ci ha impedito quest’anno di commemorare con particolari pubblicazioni la data che ritorna domani. Ma sarebbe grave omissione il non ricordarla affatto, proprio nel tempo, in cui fra i cattolici stessi paiono rinascere certe opposizioni che hanno preceduta la comparsa della Rerum Novarum. I nostri amici del Trentino non vengano meno e oggi riprendano in mano la grande enciclica, vi leggano com’è fissato il concetto cristiano del giusto salario, come vi è accentuato l’elemento di giustizia naturale che precede ogni formula di contratto; come è reclamato nei rapporti fra operai e padroni l’intervento dello Stato, come è caldeggiata la necessità dell’organizzazione professionale, semplice o mista, a seconda delle opportunità e come la Chiesa richieda per se il diritto d’interloquire nella questione sociale. Sovratutto ripensino i nostri amici alla tendenza generale che inspirò l’enciclica. Essa afferma in faccia ai potenti che «un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un giogo poco men che servile», essa reclama i diritti delle plebi per ragioni di giustizia, trae dal Vangelo il concetto dell’eguaglianza fra ricchi e poveri, rievoca, in mezzo ai più aspri conflitti l’ideale della fratellanza e carità cristiana, rivendica di fronte alle invadenze poliziesche dei poteri civili il diritto di coalizione come un diritto di natura. Con ciò l’enciclica diventa oltre che un’esposizione dottrinale sulla questione operaia un documento di grande valore per il movimento democratico in genere. Ma la Rerum Novarum, per ben comprenderla, va riletta e considerata assieme alle altre encicliche alle quali è sorella, come quella sui poteri pubblici, sulla libertà umana e sulla costituzione cristiana degli Stati. Sono questi i documenti a cui dovranno attingere i cattolici, fino che dovranno partecipare come organismo alla vita pubblica. Il nostro Vescovo ha spiegati e, diremo, concretizzati questi documenti con riguardo al nostro paese e mettendoli in relazione anche colle norme dell’attuale Pontificato. Non manca quindi ai nostri amici la guida sicura. Confidiamo per certo che il Trentino non darà il triste spettacolo di cieche reazioni o d’inconsuete aberrazioni demagogiche. Fu sempre nostro vanto quello di essere di buon senso e soprattutto di lavorare con energia e con assiduità. Rinnoviamo tali propositi anche oggi, e sarà la migliore commemorazione dell’anniversario della Rerum Novarum. Lavoriamo soprattutto per la libertà della chiesa e della sua dottrina, sia di fronte ai poteri civili, sia di fronte a quell’incubo immenso di pregiudizio e d’odio che si chiama «anticlericalismo», il quale è riuscito di fatto a ritardare i benefici effetti della scuola sociale cristiana. Lavoriamo nel campo delle associazioni, rivolgendo una cura speciale ai giovani della classe operaia, dell’artigianato, dei contadini. O c’inganniamo, o il problema dell’organizzazione giovanile, sarà quello che prossimamente s’imporrà anche nel Trentino sovra tutti gli altri.
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21911-1915
I giornali tirolesi reclamano per i tedeschi l’equiparazione cogli italiani. Per colmo d’ironia il reclamo viene lanciato da Salorno. Ebbene, prendiamoli in parola. Viva l’equiparazione! Incominciando coll’amministrazione autonoma, conveniamo che in tutti gli uffici della Giunta Provinciale l’uso del tedesco venga completamente equiparato a quello dell’italiano, e ci dichiariamo soddisfatti se i mandatari e i funzionari, dal capitano provinciale in giù, conosceranno e parleranno l’italiano quanto il tedesco. Il quale principio ammettiamo per le autorità politiche provinciali. Ci adattiamo che alla Luogoteneza e nei Capitanati gl’impiegati italiani vengano pareggiati ai tedeschi, che i tedeschi sappiano ed usino l’italiano, tanto che debbono fare viceversa gl’italiani. Siamo anche d’accordo che fra gli organi subalterni, finanza, gendarmeria ecc., il tedesco sia rimesso in onore quanto l’italiano o magari viceversa che nell’amministrazione postale, ed in quella ferroviaria, l’italiano non goda nessun’altra prerogativa di quella ch’è riservata al tedesco... Va bene così? Vi desideriamo di cuore che si faccia l’esperimento; che vi tocchi, come avviene a noi, di vedere la vostra lingua messa non in seconda, ma in ultima linea, e di sentirla bestemmiata nei testi ufficiali e sulle labbra burocratiche; che vi tocchi, come avviene in certi nostri paesi che l’impiegato capitanale, alla testa di un commissario o sopraluogo, non sappia farsi intendere dalla popolazione o che l’impiegato forestale nelle conferenze popolari sia costretto a leggere ai poveri contadini delle insipide traduzioni di ordinanze e decreti, che nessuno capisce e che ognuno dovrebbe capire, a scanso di multa; che si ripetano dei soprusi o degli equivoci ridicoli perché il gendarme non capisce la lingua del paese. Vorremmo ancora che, per l’equiparazione con noi, foste costretti a chiedere, supponiamo per la Hungerburg, che il timbro postale porti almeno anche questo nome, come da anni chiediamo invano per la Mendola, territorio italiano del comune di Ruffrè, che per le stazioni reclamaste invano la scritta e la chiamata in tedesco, che in uffici, capolinea di servizi automobilisti per una vallata vostra, chiedeste inutilmente che compaia anche la lingua della valle come accade ad Egna. E vorremmo ancora che Innsbruck la vostra teutonica capitale, non ottenesse di vedere nell’orario ufficiale delle ferrovie il nome suo, ma protestasse inutilmente contro la traduzione di Eniponte . Infine, vorremmo che una volta sentiste anche nell’animo vostro tutto il senso d’amarezza che ci affligge nel vedere come dappertutto ci si voglia stampare sulla nostra individualità di popolo e di nazione un’impronta esotica, che non può mai assimilarsi al nostro sangue e che susciterà sempre nel nostro spirito una reazione naturale e tanto forte, com’è forte il senso dell’esistenza. Che direste voi allora? A quale ribellione insorgerebbe il vostro legittimo orgoglio nazionale, il vostro spirito di conservazione? Eppure voi stessi l’ammettete: la nostra lingua è l’organo d’una civiltà ben più antica, ben più gloriosa ed essa, com’oggi è scritta, era già voce viva dei comuni e delle repubbliche italiane, molt’anni prima che la vostra Kanzleisprache vi servisse all’intesa comune. È troppo chiedere eguale diritto per la lingua che i vostri più grandi scrittori appresero ad amare come l’organo d’una storia meravigliosa di glorie latine ed italiane? Dietro il nostro Dante di bronzo sorge l’ombra di Volfango Goethe a farvi un mesto rimprovero. Da Salorno si domanda ancora una cosa: la soppressione del nome «Trentino». Dicono il nome ed intendono la sostanza. Noi invece manteniamo il nome come affermazione quotidiana che vogliamo davvero la cosa. Perciò il nome s’è creato e verrà mantenuto. Esso è protesta contro chi attenta alla nostra vita, è monito di solidarietà fraterna per la comune difesa, è la bandiera delle lotte avvenire, perché a questa terra vengano conquistate le basi della sua esistenza libera ed autonoma.
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[...] Il dott. Degasperi si scusò dicendo di non poter tenere per esteso l’annunziata conferenza perché indisposto, ma di dover limitarsi a brevi cenni. Ricorda come nell’autunno del 1909 in un’adunanza dell’Unione Politica venne lanciata l’idea della rappresentanza proporzionale, com’essa venne dibattuta sulla nostra stampa e in altri giornali, e come da principio trovasse molti increduli e molti oppositori . Nella campagna elettorale che seguì, anche se lo stesso consiglio si era rimangiata la deliberazione, il fatto che il consiglio durante la discussione del preventivo del 1910 aveva in via di massima riconosciuto il principio della proporzionale servì come arma alla minoranza popolare. Tutti ricordano che in seguito alla vigorosa campagna elettorale i popolari conquistarono per la prima volta il terzo corpo e le vicende che seguirono sono note , com’è noto anche che noi non abbiamo lasciato passare occasione di rilevare nel nostro programma tale riforma, finché il pensiero della rappresentanza delle minoranze assunse tale forza morale, che i liberali, nel ripresentare le loro candidature dovettero tenerne conto e lasciare alla minoranza alcuni costi. Questo non poteva però essere se non un espediente provvisorio e i popolari, giunti in Consiglio, insistettero perché venisse fatta la riforma del regolamento elettorale. Dopo ripetute urgenze nella commissione a ciò eletta il 26 aprile 1912, il dott. Viesi, a nome del partito liberale, dichiarava che era disposto a concedere l’introduzione della proporzionale in tutti i corpi, a patto che venissero fatti i quattro corpi, che gli elettori in questi quattro corpi venissero suddivisi secondo il censo ora stabilito e che fosse escluso il voto delle donne. I popolari accettarono, e così si arrivò dopo alcuni mesi di elaborazione alla riforma votata e presentata nell’estate del 1912. Oggi, alla vigilia della sua prima applicazione, sta bene ricordare il progresso di un’idea perché ci serva nell’avvenire come ammaestramento, quanto presto cioè un’idea, se è giusta e se è agitata con energia e costanza, può penetrare nella coscienza pubblica e nell’ordinamento pubblico. Oggi è anche buono ricordare le ragioni che ci hanno mosso a una simile propaganda e ci hanno spinti a una tale conquista. Anzitutto noi volevamo che nella città di Trento la cittadinanza potesse essere rappresentata in consiglio, nell’amministrazione cittadina, non attraverso il monopolio d’un partito, ma direttamente per i suoi mandatari a seconda del loro indirizzo politico o economico. In verità la prima applicazione risentirà l’effetto dei partiti politici e non così facilmente si potranno sostituire amministrazioni che facciano astrazione dalle suddivisioni politiche; ma, come c’insegna la storia dell’applicazione della R.P. in altri paesi e in altre città un po’ alla volta essa condurrà l’amministrazione cittadina a maggiore equità e a maggiore oggettività. Il secondo motivo che ci ha spinti a questa propaganda fu di carattere politico morale. Noi abbiamo visto che Trento, in questo riguardo, è la chiave della situazione per tutto il paese. Qui si crea la confusione fra il partito anticlericale in genere, e attenuando le differenze reali che esistono fra socialisti e liberali, e a tali confusioni e attenuazioni spingeva il sistema elettorale stesso, che facilitava o consigliava connubi e dedizioni e che d’altro canto escludeva dalla partecipazione all’amministrazione in proporzione delle sue forze il partito socialista, il quale così poteva esimersi da un atteggiamento corrispondente al proprio programma. Abbiamo quindi insistito per l’introduzione della proporzionale perché siamo convinti ch’essa presto o tardi arriverà a introdurre nel programma dei partiti e nel loro atteggiamento più logica e più chiarezza. Gli amici nostri ch’entreranno in comune sappiano usare di quest’arma con energia e con abilità. Si servano del potere loro demandato per accelerare la funzione della rappresentanza proporzionale costringendo i singoli partiti a prendere un atteggiamento logico e conseguente, sia di fronte agli affari economici, sia alle relazioni dei partiti affini. Se quest’arma, che l’agitazione e la propaganda di cinque anni da loro in mano, verrà usata bene, le conseguenze non si limiteranno a Trento, ma avranno un’eco anche nel paese in generale. Infine l’oratore, ch’è stato spesso interrotto da applausi, dichiara che, per tagliar corto a inutili insistenze degli amici che gli venivano fatte anche nell’adunanza, non può accettare la ripresentazione della sua candidatura, sovrattutto perché non potrebbe dare che piccolissima parte della sua attività, essendo già aggravato da altre molteplici occupazioni . Permettano gli amici che egli dedichi quella parte ormai poca del suo tempo e delle sue forze che gli resta dopo il disimpegno delle sue cariche pubbliche, alla propaganda delle idee. Il partito non deve commettere l’errore di esaurirsi nel lavoro quotidiano della politica o dell’amministrazione, ma deve ritornare con slancio alla propaganda e alla diffusione delle idee generali che sono la bandiera che sventola sopra le nostre masse in movimento. (Grandi applausi e ovazioni).
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S’è rilevato a ragione che il Trentino ha avuta la sua più ampia e la più attenta redazione sull’attività dietale: eppure non bastò a contenere tutta la somma di lavoro che venne compiuto alla Dieta . Le sedute plenarie furono troppo rapide, troppo sintetiche perché dalle relazioni che ne pubblicò il giornale fosse possibile ai lettori lontani farsi un’idea di quanto si era lavorato nelle varie commissioni e preparato nei clubs. I deputati erano quasi tutti occupati dalla mattina alla sera, e nell’ultima settimana fin oltre la mezzanotte, tanto che non trovavano assolutamente il tempo di sbrigare la corrispondenza. La commissione militare discusse la nuova legge d’aumento; quella delle comunicazioni, colla attivissima collaborazione dell’on. Tonelli , oltre agli oggetti minori, preparò il grande programma di costruzioni stradali; la commissione scolastica era quasi in permanenza per sbrigare le tre leggi magistrali (il relatore preparò ben 32 varianti del famoso § 23, sugli stipendi dei maestri); quella del bilancio trattò tutte le questioni finanziarie importanti, l’aumento delle tasse negli istituti provinciali, i lavori di ampliamento a Pergine, Hall, S. Michele, Stadlhof, l’erezione dell’istituto di maternità a Trento e nell’ultima settimana, esercitando il suo diritto di revisione sulle spese oltre le 10.000 cor. votate dagli altri comitati, tagliò, ritoccò, ridusse, rimise ad altri bilanci una serie di poste, per giungere faticosamente al pareggio. Un lavoro proficuo e solerte compì anche la commissione idraulica, che sottopose al voto delle sedute plenarie una serie notevolissima di progetti. Non vogliamo poi oggi specificare il mosaico di proposte e di leggine che uscirono dalla commissione economica, da quella industriale e da quella agraria. Se purtroppo non accadesse anche alla Dieta tirolese quello che avviene in quasi tutti i corpi legislativi, cioè che nelle ultime sedute, come per esaurimento, si votarono a precipizio le proposte dei comitati riducendo al minimo la discussione, il pubblico avrebbe potuto almeno prendere notizia del grosso volume di stampati che gli onorevoli si trovavano sul banco. Una sola delle commissioni si arenò, poco dopo la sua uscita dal porto, e fu la comunale colla sua riforma del suffragio. Nelle prime sedute i liberali tedeschi si dichiararono avversari decisi della proporzionale, mentre i liberali italiani dichiararono di volerne il trionfo. Il punto di vista del club popolare venne precisato già dapprincipio nella proposta formale presentata dall’on. Degasperi: proporzionale e diritto di voto a tutti gli elettori dietali. Ma, come abbiamo detto, si palesò ben presto l’impossibilità dell’accordo e la sua commissione sospese le trattative. Le riassunse alla vigilia della chiusura la seduta dei capiclubs, ma solo per precisare le divergenze e le convergenze. Molte le prima, poche le seconde. Si può dire anzi che convergenza non vi fu se non fra le dichiarazioni dei popolari e quelle del socialista Abram che propugnò la r.p. in tutti i comuni, fatta eccezione per i più piccoli, ove la r.p. non avrebbe senso. Anche i liberali italiani si dichiararono qui contro la r.p. La seduta decise però di non troncare il filo delle trattative. Alla fine di settembre commissione e capiclub si raccoglieranno per un nuovo tentativo a Bolzano. Ma, tolta questa eccezione, gli altri comitati lavorarono attivissimamente, esaurendo il loro compito temporaneo. Dei risultati raggiunti a beneficio della popolazione, parleremo, riassumendo, altra volta. Aggiungiamo intanto per dare ai nostri lettori un quadro completo della laboriosità dei nostri deputati, che le sedute del club popolare furono molte, ordinate e vivaci. Nelle prime vennero discusse e preparate le singole proposte d’iniziativa che nel pieno comparvero col nome dei primi proponenti, nelle sedute seguenti si discussero le relazioni che i rappresentanti del club facevano di proposte sorte nelle varie commissioni, e si decisero le questioni di tattica riguardanti la legge militare, la questione scolastica, quella delle tasse, delle strade ecc. Si ebbero discussioni animate che durarono tre, quattro, cinque ore, arrivando però infine ad un completo accordo, tanto che il club per bocca del suo presidente e degli oratori ufficiali designati, riaffermò nel pieno quella disciplina e quella completezza che è vanto antico del nostro partito.
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«Per sei decenni e mezzo divisi con i miei popoli gioie e dolori, sempre memore, anche nelle ore più gravi, dei miei austeri doveri, e della mia responsabilità per la sorte di milioni di sudditi dei quali devo render conto all’Onnipotente» . Francesco Giuseppe nel suo recente manifesto. Le ore più gravi? Ricordiamole. Scoppia a Vienna la rivoluzione. Il conte Latour ministro della guerra è impiccato ad una lanterna. La rivoluzione trionfa, Ferdinando fugge ed abdica. Francesco Giuseppe, un giovanotto di 18 anni, sale al trono. (Dicembre 1848). Un giorno il giovane imperatore passeggia presso l’antico antemurale di Vienna. Un individuo si lancia su lui e gli dà una coltellata al collo. È salvo per miracolo (1853). Nel 59 i suoi eserciti vengono battuti a Palestro, Magenta e Solferino. Nel trattato di Zurigo perde la Lombardia. 1866. Sadowa! Diciottomila morti, duemila prigionieri, centosessanta cannoni perduti. L’Austria è esclusa dalla confederazione germanica. La Prussia le strappa la supremazia. Cessione del Veneto. 1867. Massimiliano, suo fratello, muore fucilato a Queretaro. Sua cognata diventa pazza dal dolore. 1889. Morte violenta del figlio ed arciduca ereditario Rodolfo. 1898. Assassinio della sposa, imperatrice Elisabetta. 1914. Assassinio di Francesco Ferdinando e della sua consorte . Quasi un secolo di storia europea deve ripassare innanzi alla sua mente, quando, dopo 65 anni di regno, ricorda le sue ore più gravi. Quelle che sono fissate già nei volumi della cronaca e vengono imparate nelle scuole non sono però che una parte. Quante «ore gravi» stanno ancora sepolte nel segreto degli archivi?... Ognuno di noi si sente piccino innanzi alla grandezza di tali dolori ed alla tragicità di questo destino. E se vedessimo il colpito affranto e schiacciato dall’immensità del dolore, il nostro sentimento sarebbe di pietà, e se vedessimo levarsi la sua testa canuta con un gesto di ribellione contro il tremendo destino dovremmo dir tutti: Vi comprendiamo. Ma questo monarca è un cristiano, ed ecco che alla pietà, alla partecipazione noi sentiamo di dover aggiungere l’ammirazione. A Vienna ed a Saraievo autorità militari e civili si sono palleggiate le responsabilità, i ministri hanno accusato d’imprudenza i generali ed i generali d’incuria i ministri, la stampa ha predicato la guerra d’espiazione colla Serbia ed in Bosnia è scoppiata davvero la guerra civile: una tempesta d’odio si è scatenata sopra i corpi degli uccisi e dietro le bare in lunga teoria camminarono le passioni umane. Ed ecco in mezzo a loro, in una magnifica solitudine si è levato il vegliardo quasi secolare ed ha detto, né ribelle né disperato, la parola giusta, la parola grande della verità: «Il nuovo affanno è dovuto alla volontà imperscrutabile di Dio verso di me e verso i miei». Chino il capo innanzi al mistero di questa Provvidenza eterna; la nuova prova non mi scoraggia ma mi eccita a persistere fino all’ultimo respiro sulla via riconosciuta giusta per il bene dei miei popoli. Ecco la concezione cristiana del dovere, della vita. Noi dobbiamo essere grati all’Imperatore per questo insegnamento e per questo esempio. In mezzo al materialismo ed all’utilitarismo dell’arte attuale di governo tali richiami sono divenuti sempre più rari, quasi echi isolati di tempi lontani. Si perderà questa voce come tante altre nel frastuono della politica quotidiana? Se la concezione cristiana del dovere penetrasse davvero in tutti i nostri governanti, se i nostri ministri cercassero sempre il bene dei cittadini, la «via riconosciuta giusta» rappresenterebbe non solo la profonda coscienza che ha un uomo della sua alta missione, ma un sistema permanente di governo, a cui sentirebbe il dovere di cooperare ogni onesto e libero cittadino.
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I deputati popolari sono andati alla Dieta con un programma minimo di lavoro chiaro e preciso e l’hanno svolto con costanza e con abilità, riuscendo a toccarne nei punti principali il raggiungimento. Scegliamo infatti dalle loro numerose proposte d’iniziativa, le principali e quelle che hanno un carattere generale. Già nella prima seduta (25 maggio) i popolari propongono a) che la commissione delle comunicazioni prepari un nuovo programma di costruzioni stradali, incominciando col 1914 b) che il fondo piccole strade, dal quale i comuni possono ricevere un contributo fino al 50% venga aumentato a 300.000 cor. c) che il fondo acquedotti venga aumentato a 300.000 cor. d) che venga creato un fondo per caseifici di 48 mila cor. all’anno e) che venga eretto l’istituto di maternità a Trento. Nei giorni seguenti: f ) che venga creato un fondo per sovvenzionare la costruzione di pubbliche scuole g) che venga introdotto il riposo domenicale coattivo per tutti gli esercizi. Queste proposte, le quali erano state presentate dai popolari già nella tornata penultima, interrotta dall’ostruzione, riguardano un complesso di provvedimenti sociali ed economici di attuazione prossima che hanno lo scopo di sollevare le condizioni del paese e ad esse venne accennato anche nel proclama elettorale. Orbene tali proposte – come molte altre d’indole locale – non vennero fatte per la lustra, ma il club popolare ne sorvegliò la sorte nelle rispettive commissioni, aprì loro il cammino con trattative fra i partiti finché uscirono trionfanti dalle sedute plenarie della Dieta. Dopo un mese di lavoro la commissione delle comunicazioni presenta alla Dieta il «grande programma stradale del prossimo avvenire» in cui sono contenute 14 strade trentine con una spesa per la provincia (contributo del 20%) di 2 milioni e fra queste un programma di 6 strade per le quali già nel bilancio 1914 compaiono per il Trentino cor. 201.562 di contributo provinciale. Inoltre la commissione propone l’aumento del fondo piccole strade a 300.000 corone. Già in una seduta antecedente il fondo acquedotti veniva aumentato – se non di tutto l’importo richiesto – almeno di 50.000 cor. Il fondo caseifici, su proposta della commissione economica, viene stabilito in annue cor. 33.000. Parecchi comuni vi hanno già fatto ricorso. Per l’istituto di maternità la commissione del bilancio propone e la Dieta vota una prima rata di 150.000 corone. Anche la proposta pro riposo festivo viene accolta. Solo quella per gli edifici scolastici, che stava anche a cuore ai nostri comuni, non ottenne il favore dei partiti. Ma già le proposte accennate, senza toccare di tante altre d’indole più locale, che ebbero ottimo successo, sono là a dimostrare la serietà, l’impegno, l’infaticabilità che i deputati popolari mettono nell’adempiere al loro mandato.
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Certa stampa ha inaugurata una violenta campagna contro le autorità civili della Bosnia e particolarmente contro il ministro delle due provincie occupate, il Bilinski. Non conosciamo la Bosnia e Dio ne liberi dalla malinconia d’occuparcene; quindi non possiamo discutere il quesito di chi sia stata la colpa. Ma la campagna contro il Bilinski ricorda molte analogie. Lo si accusa di aver preso troppo sul serio i deputati serbi, d’aver concesso troppi poteri alla dieta, di essere stato debole e troppo transigente. Questo sistema – concludono i succitati giornali – ha creato ed allevato l’irredentismo rivoluzionario. In poche parole la causa ultima dell’attentato sarebbero le libertà costituzionali. Ci siamo dunque! È la vecchia storia. Questa gente non ha in testa che la repressione e la reazione. La ragione ed il cuore ci sono per niente? Non è passato alla storia oramai che senza guadagnarsi quella o questo o, meglio ancora tutti e due, nessun governo può durare? Sì, guardate quello che avviene in Italia colle vostre libertà, ci rispondono. La rivoluzione di Ancona, la sommossa repubblicana delle Romagne è recente . E sta bene. Ma vorreste forse dire che le sommosse rivoluzionarie sono scoppiate per le libertà civili, quando la scintilla nella polvere fu proprio la proibizione di certi comizi? Non la libertà civile, né il principio democratico costituzionale creano ed alimentano il sovversivismo, ma l’educazione senza morale che lo stato moderno impartisce o lascia impartire ai suoi cittadini. Il resto è accidente. Innanzi al problema della formazione delle coscienze la questione se si debba concedere o limitare la libertà di riunione, se si debba permettere o reprimere la libertà di parola, se si debbano allargare o restringere i poteri parlamentari diventa secondaria. Qui siamo oramai sul terreno dei sintomi e degli effetti. La radice delle cose è più profonda. Come si spiegherebbe altrimenti che la rivoluzione e l’anarchia hanno fatto spesso la loro comparsa tanto negli stati più costituzionali, quanto sotto i regimi più assolutisti? Gli è che anche in questi ultimi anni si bada più all’ordine esteriore – ordine di cimitero – che all’ordine intrinseco, all’ordine morale. E chi non sa che in tal riguardo chi è tentato sovratutto ad esagerare nel primo e a trascurare il secondo sono le autorità militari? Indubbiamente è da quella parte che ha origine la campagna contro il sistema Bilinski. È lo stesso spirito, la stessa concezione politica che un giorno consigliava di mandare nel Trentino un «bravo ed energico generale». Quello avrebbe messo tutto a posto! Bravo! E, a proposito, in Bosnia non c’era il «bravo generale»? Anzi un generalissimo! Avevamo scritto questa nota, quando ci sono venute tra mano le Innsbrucker Nachrichten. Questo giornale, dopo aver descritto a modo suo il «sistema Bilinski», fonte di tutti i mali, aggiunge: «Questo sistema, che ora ha fatto fiasco su tutta la linea, è in fiore anche altrove. La mente corre spontaneamente ad istituire confronti col contegno delle nostre autorità verso l’irredentismo italiano nel Trentino». La mente corre spontanea Già, è l’atavico istinto dei padri.
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La grande stampa radicale francese ha cercato di scusare il delitto di Seraievo. Per le vittime non ha avute che poche frasi convenzionali, mentre ha dimostrato apertamente le sue simpatie per l’irredentismo rivoluzionario dei serbi. Perfino il Temps, di cui si vantano le relazioni col ministero degli esteri, ha avuto un commento molto freddo e nessuna parola di aperta condanna. È stato invece notato con piacere che la stampa italiana manifestò una partecipazione cordiale e lo stesso Temps faceva rilevare con quanta delicatezza d’animo s’era dimenticato in Italia innanzi alla tragedia bosniaca che le vittime erano accusate, a torto o a ragione, di nutrire poca simpatia per la nazione italiana. Di sì diversa impressione si fecero interpreti in questi giorni i deputati salisburghesi. Abbiamo già avuto per telegrafo il discorso dell’on. Silvester, presidente della Camera. Ora è la volta dell’on. Stölzel uno dei capi, anzi la guardia centrica del Nationalverband. L’on. Stölzel si è sentito in diritto di impartire una solenne risposta ai francesi, perché deputato di quella città ove la cultura tedesca fin ab antiquo si mobilitò fondendosi col genio latino. Ecco la sua risposta. I francesi, facendo gli elogi dell’assassinio politico, si mettono fuori dal resto del mondo civile. Vorremmo noi dopociò continuare a condannare nella loro sfera d’influenza culturale le venture generazioni del nostro popolo? Seguendo un’antica tradizione, le scuole civiche, medie e di perfezionamento, insegnano come seconda lingua straniera obbligatoria il francese. Ebbene noi facciamo appello alla nostra dieta, perché, in protesta contro il contegno della Francia, si cancelli il francese dagli oggetti obbligatori e s’introduca in sua vece l’italiano. A dirla proprio, la rappresaglia ci pare alquanto strana, perché una lingua – se non erriamo – la s’impara per comodo proprio e non per far piacere agli altri. Ragioni intellettuali o commerciali hanno su questo terreno un’influenza decisiva in confronto delle ragioni del sentimento. La tendenza però del discorso a noi italiani non può certo dispiacere. Anzi, lasciando andare i francesi pei fatti loro, saremmo tentati per conto nostro di approfittarne. Se l’on. Stölzel come l’Austria potrebbe dare una lezione di superiorità intellettuale alla Francia e contemporaneamente aumentare la sfera d’influenza della civiltà italiana magari a scorno dei detentori di Nizza e Savoia? Se il distinto parlamentare tedesco-nazionale frugherà un pochino nella sua memoria, troverà che lo Stato ha da saldare con gli italiani un certo conticino scaduto già da anni. Si ricorda l’on. Stölzel della povera università italiana? Oh se se ne ricorda! Rappresentò in uno dei suoi periodi critici la fatica principale del deputato salisburghese, che bisogna ammetterlo, non le voleva male. Ma ora chi ne parla più? Il parlamento è in articulo mortis, ed intorno a lui vanno seppellendosi tante altre speranze e fra esse anche la nostra facoltà. Ma non c’è il governo che col paragrafo taumaturgo richiama a vita nuova? In questi giorni si sono fatte col § 14 leggi giudiziarie, le quali non erano state nemmeno discusse nelle commissioni, si è perfino emanata una legge per i veterani. Ma chi ha un tale concetto della costituzione e perché mai non arriva all’idea di provvedere col § 14 anche ad un istituto dove i professori della cessata facoltà italiana possano raccogliere attorno a sé gli studenti? E i deputati del Nationalverband i quali, se vogliono essere schietti, non vedono malvolentieri l’attuale governo assolutistico del loro amico Stürgkh , perché non sussurrano il consiglio che, rebus sic stantibus, tant’è che col § 14 si faccia anche qualche cosa di ragionevole, e si dia valore di legge alla deliberazione quasi unanime, presa dalla commissione del bilancio nel febbraio 1913? Il momento è buono on. Stölzel, e sarebbe peccato lasciarlo sfuggire. Ci vorrà forse un po’ più di coraggio, che a fare quella tal intimazione alla Francia. (Wir müssen den Mut haben – egli ha detto – den Verherrlichen des Meuchelmordes unsere Meinung ins Gesicht zu sagen) ma la meta vale il piccolo sforzo. Allora sì che ci piacerà venire nella vostra «Roma germanica» e celebrare con voi le gloriose tradizioni che fanno di Salisburgo un centro di fusione della cultura germanica colla civiltà latina.
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La situazione internazionale implica oramai tali minacce e tali pericoli, che l’azione militare contro la Serbia passa per il momento in seconda linea. Nel pomeriggio di ieri abbiamo ricevuto un telegramma da Londra che classificava la situazione gravissima. Poco dopo arrivava la proibizione temporanea di fare edizioni straordinarie e perfino di esporre i telegrammi. Non sappiamo se tale proibizione abbia carattere militare con riguardo alle operazioni in corso sul Danubio e sulla Sava o se sia suggerita piuttosto dalla minaccia del conflitto europeo. Certo che attraversiamo un momento gravissimo. La Russia ha pubblicato dei manifesti che sulle prime hanno potuto tranquillare, ma di fatto ha incominciato una mobilitazione la quale va assumendo proporzioni sempre più gravi. Ed oggi uno dei nostri telegrammi annuncia che la Germania ha chieste spiegazioni. Quali i pronostici? A Londra si caricano forse le tinte per convincere la Germania che la Russia vuol proprio fare sul serio; a Berlino incomincia a scemare l’ottimismo degli altri giorni, da Vienna non si è comunicato alla stampa nessuna notizia, dopo il commento del Fremdenblatt di ieri mattina (telegrafatoci troppo tardi per l’edizione ordinaria di ieri) in cui si giustifica di nuovo l’atteggiamento austro-ungarico contro la Serbia. Un incubo grave pesa su tutte le cancellerie europee. L’Austria-Ungheria ha interrotte le trattative dirette colla Russia. Mancava infatti la base. La Russia pretendeva la sospensione delle operazioni militari in Serbia. Anche le proposte Grey , il quale cercava di ottenere dalla Monarchia delle garanzie per la sovranità e l’integrità della Serbia, sia pure dopo la guerra, non hanno approdato. Ora Grey annunzia che ritenterà; ma il problema è difficile; e s’incomincia già ad augurarsi che nell’azione militare sopravvenga presto un fatto compiuto, il quale dia soddisfazione all’Austria-Ungheria e le permetta d’intavolare delle conversazioni anche con terzi sulle condizioni di pace.
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Il Trentino considera come suo dovere principale di contribuire a mantenere la calma e ad evitare qualunque eccitazione ingiustificata . Ci sforziamo quindi anzitutto di accertare più ch’è possibile le notizie. Mettiamo in guardia contro notizie allarmistiche che si sono sparse un po’ dappertutto. Ricordiamo che contro i propagatori di falsi allarmi ci sono anche delle sanzioni penali. Siamo ad una svolta della storia. Ognuno cerchi di affrontare l’ora che corre con fermezza d’animo. È lo stato psichico necessario per uscir meglio da simili frangenti.
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Dunque ci siamo: l’edificio eretto faticosamente con sottili accorgimenti, con ipocrisie e con intenzioni oneste dalla diplomazia europea per scongiurare gli orrori della guerra, è sorpreso da una scintilla balenata d’improvviso, sgretola e s’inabissa, nell’incendio divoratore. Le dottrine pacifiste che in questi ultimi anni hanno raccolto milioni di proseliti e ritenevano come vanto di aver stretto tra le diverse razze i vincoli di una fratellanza resistente a qualunque prova: la larga corrente di simpatie che strinse e affratellò nella collaborazione vicendevole per il comune ideale del progresso umano, uomini di diversa nazionalità: tutta insomma la civiltà moderna, caratterizzata dall’ansia di abbattere le vecchie e ingombranti barriere per rendere possibile ad ogni uomo di respirare del gran respiro dell’intera umanità, devono cedere le loro ragioni supreme davanti al fato austero della guerra, che ha preso il sopravvento, che suona da tutte le torri, ritte lungo tutte le grandi vie del mondo, l’antico ritmo lugubre della raccolta, che persuade le stirpi della santità degli odi vicendevoli sopiti da anni nel fondo della loro psiche, per scagliarle una contro dell’altra con accanimento cieco e implacabile. Un fato inesorabile è la guerra contro del quale gli uomini sono impotenti quando la sua ora tragica scocca. Provate a rendervi conto delle ragioni che determinano le nazioni europee, ieri appena vincolate da legami se non di amicizia, certo di benevola simpatia intrattenuta dalla rete immensa dei mutui scambi e dei servigi incalcolabili che questi recano, ed oggi invece tutti in arme, con la spada in pugno, con la bocca del cannone pronta ad incrociare la fiamma orrenda, devastatrice. Vi si affacciano gli episodi più volgari della politica internazionale, ma evidentemente ad essi non è possibile attribuire le responsabilità tremende della guerra; mettete pure quegli episodi in rapporto con alcune tradizioni storiche dei singoli popoli belligeranti, con le note rivalità delle stirpi, forse che il conto torna? No, sarebbe enorme che per così poco si debba venire al disastro immenso della guerra, che le ragioni profonde della guerra non sono visibili attraverso il diaframma della storia contemporanea; occorre risalire più alto, a Dio che conduce i destini dei popoli secondo un disegno inaspettato e ineffabile. È questa l’ora sua, gli uomini non contano più. Nel nome suo ogni uomo si affretta a raggiungere i ranghi, le madri danno alla patria la loro balda prole e i vecchi monarchi snudano la spada. È l’ora di Dio; egli nasconde nel mistero del suo alto consiglio, le ragioni del flagello e le sorti prossime e future degli uomini. È un castigo ai peccati del mondo la presente guerra? è una sapiente epurazione della storia da ogni scorie di mali, per una età migliore? Mistero! Qual popolo sarà annientato nel tremendo cozzo; quale uscirà trionfatore? Ciò che rimane agli uomini nell’ora in cui il Dio degli eserciti passa per rivelare sensibilmente il suo dominio nella storia, è quello di chinare riverenti e umili la fronte, adorando il mistero della sua sapienza austera e pregarlo sommessamente perché sia mite nel castigo.
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L’annunzio brevemente dato ieri, a mezzo della stampa, che stamane, alle 7.30 sarebbe partito un reggimento di cacciatori, composto in gran parte di trentini, ha fatto accorrere alla stazione una immensità di gente: – tutta Trento! E non era vana curiosità di andare ad osservare uno spettacolo; non era desiderio di provare una eccezionale emozione; era invece bisogno cordiale di portare, con la propria presenza, un saluto e un augurio a tanta gioventù partente per chissà dove, a compiere quello che è il dovere di chi è chiamato sotto le armi, specialmente in tempo di guerra. Il reggimento, con la musica in testa, è arrivato alla stazione poco prima delle 7, e vi è entrato per la cancellata a destra dell’ufficio postale. Man mano che avanzavano, i soldati andavano a prender posto nei vagoni del lunghissimo convoglio. Al loro seguito, e da tutti gli ingressi alla stazione, si riversava intanto la massa enorme di popolo, che ha subito ingombrato i binari fino all’altezza della scaldatoio della Valsugana, si è gremita nei vagoni vuoti, si è acccalcata in piedi, sui tetti dei vagoni stessi. Contemporaneamente, è cominciata una lunga abbondante distribuzione di vino, birra, bibite, commestibili, sigari, sigarette, fiori.... Era un correre affannoso di quaranta o cinquanta distributori – fra i quali molte signore e signorine – da un vagone all’altro. Le Cantine Riunite facevano distribuire un migliaio di bottiglie da litro piene di vin bianco, e l’etichetta diceva «salute e auguri». Così il Sindacato A. I. faceva distribuire ad ogni soldato un sacchetto contenente salame e formaggio. E le mani si protendevano a raccogliere tanto ben di Dio, e i poveri giovani rispondevano ringraziando, gridando evviva. E l’attesa è stata abbastanza lunga, essendo il treno partito alle 8.20. E fino a quell’ora tutto il pubblico è rimasto lì, con S.A. il Principe Vescovo, il Comando militare, il Capitano distrettuale, il Consigliere di governo, le maggiori autorità giudiziarie, ecclesiastiche e civili. Quella parte del pubblico, che non è riuscita a trovar posto nell’interno della stazione, ha preso letteralmente d’assalto la passerella a fianco al ristorante; e tutti hanno applaudito commossi, agitando cappelli e fazzoletti, battendo le mani alla banda militare che nel primo vagone ha suonato, fra l’altro l’inno a Trento e l’inno a S. Giusto. Poi, con puntualità militare, alle 8.20 è stato dato il segnale di partenza; il treno si è mosso... Il rumoroso sbuffar della locomotiva è stato coperto da uno scroscio di applausi, fra l’ultimo indescrivibile ricambio commosso di saluti e di auguri. La banda si allontanava sonando l’Inno dell’Impero. Ritto, con umido ciglio, circondato dalle Autorità, Sua Altezza benediceva ai partenti. Ed essi, sifilandogli innanzi, si mettevano sull’attenti, o si segnavano. In un vagone di seconda classe, pieno di graduati, ne abbiamo visti molti inginocchiarsi [...] . Quando il treno è fuggito, la massa di popolo, lentamente, silenziosamente, si è avviata attraverso le uscite. Addio, valorosi figli delle nostre alpi, il Trentino vi segue col cuore!
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Chi vincerà? Non sappiamo. Sappiamo questo solo, che vi ha fin d’ora un vincitore, un trionfatore, cui nessuno osa contrastare il passo, se ne invoca anzi la protezione con un sospiro, con un grido che sale dal profondo dell’anima dei popoli. Sappiamo questo solo, che la innumere e spavalda legione dei suoi avversari oggi non è più o si nasconde, conquista per la inattesa plebiscitaria sconfitta. Il vincitore è Dio! Di lunga mano, per ogni via, con tutti i mezzi, salendo di tra il volgo come volgare bestemmia, discendendo dalle cattedre e dalle scuole come dottrina controllata, serpeggiando in ogni manifestazione della vita sociale, in ogni classe, in ogni ceto, la negazione di Dio sembrava essere il più notevole fatto morale della civiltà moderna. Tolta la femminuccia, il superstizioso, il reazionario interessato, esclusi i preti, mesto avanzo di una dominazione spirituale rovesciata per sempre, nessuno aveva bisogno di Dio, idea e parola inafferrabile e priva di ogni significato, lontano ricordo di un giogo spezzato di fronte al trionfo irrefrenato delle passioni umane, dell’umano arbitrio: di fronte alla grande marcia dei popoli verso la loro sovrana libertà. Gli stati, le nazioni fidavano solo nella legge e nella forza, le classi arrestavano ogni aspirazione al proprio interesse ed alla propria supremazia; la scienza ammainava le vele ai postulati delle dottrine positive. Tutto, prosperità e ricchezza, come dolore e miseria, tutto trae origine da una causa che era nella nostra volontà e nel nostro operare. Nessuno aveva più bisogno di Dio, il grande dimenticato, il grande esiliato di una civiltà che lo aveva vinto. I popoli hanno veduto i potenti della terra disprezzarlo nel pensiero, nella parola, nella vita; combatterlo nella fede più viva e più radicata; perseguitarlo nelle opere più benefiche; hanno veduto alla sua giustizia, alla sua carità sostituire una nuova giustizia ed una carità nuova che avrebbero dovuto attuare ogni più bell’ideale umano nella legge della fratellanza, dell’eguaglianza e della libertà. Era un gran sogno; fu appena esperimento e si credette una conquista, e si gridò alla fine di Dio! Ma bastò un grido di guerra, bastò lo scatenarsi di antiche e sopite cupidigie, bastò che malgrado tutto la vita dei popoli fosse affidata al trionfo della forza, perché l’eguaglianza e la fratellanza apparissero un mito; perché intere nazioni si lanciassero l’una contro l’altra rinnovando le gesta di una barbarie rediviva. Bastò tutto questo nel breve volgere di pochi giorni, perché i popoli reclamassero il Dio dei loro padri, perché nazioni e stati portassero le loro bandiere nei templi che parevano prossimi a chiudersi! Ed ecco che si invoca pubblicamente Dio per la pace, per la vittoria; Dio nei parlamenti, Dio nelle reggie, Dio nelle piazze, Dio fra gli eserciti, Dio nei campi di battaglia, Dio perché protegga le nazioni, perché ne guidi le schiere, perché ne allontani le sventure, perché benedica ai morenti, perché soccorra ai superstiti! La ragione di questo fatto è pure chiara; nell’ora in cui incombe lo spettro della guerra che racchiude nel suo cuore di sfinge un destino di sangue, un destino di sangue e di morte, l’anima ingenua del popolo si libera dalla scorie ingombrante dei dottrinarismi vani e artificiosi, ritrova sé stessa con le sue profonde aspirazioni, risente lo slancio naturale verso l’al di là, ritrova insomma la sua vecchia amica fede nel Dio che domina sulle vicende della storia, anche su quella terribile della guerra, e conduce le sorti degli uomini. I retori della incredulità dozzinale possono ben sorridere di questa fede ravvivata dal pericolo, ma spregiandola non s’accorgono di coinvolgere nel discredito tutta la storia, la quale è seminata di eroismi immortali, fioriti precisamente di lì, da questo sentimento di sicura fiducia nella assistenza di un Dio che non è sordo alla preghiera e che corona gli sforzi degli uomini. Dio appare dovunque l’ancora di salvezza, l’usbergo sicuro, il padre universale; e il popolo lo vuole così, come lo credette, come imparò ad amarlo ed a temerlo; e da sovrano, almeno nel giorno del dolore che i suoi ingannatori gli predicavano impossibile, lo proclama eterno vincitore. Eterno vincitore contro i sofismi che non possono convincere e soggiogare le moltitudini; contro i sofismi che vivono di ipotesi, ma che la dura realtà della vita sconvolge ad un soffio; contro i sofismi che promettono tutto e tolgono Dio che è tutto quando nulla più rimane. Ed oggi è appunto così: ogni speranza nelle opere di pace è perduta; una guerra che è una catastrofe ha chiuso al di là del domani ogni speranza in un orizzonte gravido di sventure: forse è perduto tutto. Che sarebbe dei popoli oggi se, non restasse Iddio; questo Dio, nella cui fede è ancora tutta la speranza; questo Dio che dopo il flagello ha pure promesso il perdono? Dove sono i tuoi nemici; ove sono coloro che l’hanno negato; gli apostoli della felicità sulla terra? Dove sono, che cosa dicono in questa ora; che cosa danno all’umanità che trema dell’avvenire, in cambio di Dio? Dopo di aver tentato una vana protesta contro ciò ch’essi dicono prepotenza di dominatori e di classi, dopo di aver minacciato l’impossibile, nulla hanno da aggiungere: e i primi maestri dalle cui negazioni discendono le folli dottrine piazzaiuole, negano forse ancora tutto, fuorché il disastro incombente ed irreparabile. E nel silenzio e nel fallimento della nuova scienza e delle sue orgogliose applicazioni sociali, risponde alla gran voce dei popoli, la pietosa voce di Dio; all’anarchia e alla disperazione della coscienza collettiva rispondono le immutate leggi del suo regno. Nella vittoria e nella sconfitta ristabilirà la giustizia ed il diritto, ultimo e supremo vincitore. Se questa triste pagina di storia che si verga col sangue di intere nazioni, sarà monito indimenticabile per l’avvenire, Iddio non avrà permesso che essa sia scritta invano, e all’ora della prova seguirà felice quella della pace e della fede.
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21911-1915
In parecchi ritagli di fogli del Regno leggiamo delle relazioni sui rapporti austro-italiani nelle quali si finisce coll’assicurare che il Trentino è unanime nell’approvare la neutralità del Regno d’Italia nella presente conflagrazione europea . Non sappiamo per quali ragioni si chiami in causa il nostro paese avanti l’opinione pubblica, attribuendogli quasi una parte attiva che non può avere. Noi non abbiamo nessun elemento per poter giudicare i rapporti che corrono oggi fra le potenze della triplice e quindi sarebbe ridicolo che noi c’impancassimo ad emettere un parere qualsiasi. Giudicando però con quei criteri comuni che a tutti è lecito avere e se si trattasse d’interpretare il sentimento dei più, dovremmo, di fronte ad affermazioni contrarie, constatare che niente corrisponderebbe maggiormente ai desideri di migliaia e migliaia di trentini partiti in guerra contro lo slavismo che il sapersi spalleggiati anche da quella gran parte della Nazione che è organizzata in ente politico-militare e che senza dubbio condividerebbe con noi i rischi ed i pericoli di un’eventuale strapotenza dello slavismo.
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21911-1915
Domenico Gnoli in un articolo del Giornale d’Italia e il prof. Hartmann, facendogli eco nell’Arbeiterzeitung di Vienna, hanno cercato di spingere lo sguardo al di là di questa terribile guerra. La guerra si fa per la pace e a che gioverebbero gli enormi sacrifici dell’ora presente se non valessero a garantire una lunga era di pacifica prosperità? Questo sentimento che tanto sangue non debba venir sparso invano, che tutto non debba finire colla dittatura militare dell’uno o dell’altro popolo, ciò che perpetuerebbe l’alternativa di sconfitte e di rivincite, è quello che oramai incomincia a prevalere in tutti i paesi fra la gente che pensa. Tale sentimento si rafforzerà sempre più, mano mano che aumenta il sacrifizio imposto ad ogni stato belligerante. In esso è racchiusa l’ultima speranza della civiltà europea. Che diverrebbe infatti di lei, se il nuovo assetto che riuscirà dall’immane conflitto di tante nazioni dovesse essere ancora la continuazione di quell’«equilibrio di odi inestinguibili e di pronte offese» nel quale si trascinò per cinquant’anni la vecchia Europa? A che tante rovine, se da esse non dovrà rifiorire una nuova vita? [...] Il governo ungherese aveva insediato a Debreczin un vescovo greco. I rumeni avevano protestato, ed uno studente esaltato lanciò delle bombe. Nei primi giorni della guerra il conte Tisza permetteva al vescovo di partire da Debreczin e cercarsi un’altra sede. [...] Da lunghi anni la diocesi polacca di Posen non aveva titolare, perché il governo prussiano si rifiutava di nominare mons. Likowski. Appena scoppiata la guerra la nomina venne e fu accompagnata dagli auguri del cancelliere che ci vide un pegno di conciliazione colla nazione polacca. [...] Anche gl’italiani dell’Austria, ha scritto il Pester Lloyd, combattono bravamente in Galizia accanto alle altre nazioni della Monarchia e questa circostanza, ha aggiunto il giornale ufficioso, avrà certamente buoni effetti sui rapporti fra loro ed il governo. In questi momenti, in cui lo stato assorbe per il supremo sforzo della guerra tutte le energie, non è lecito esprimere il pensiero di una singola nazionalità. [...] Raccogliamo tutte le nostre forze, stringiamo vieppiù quei vincoli che ci legano in una fratellanza di sangue, di coltura e di vicende, moltiplichiamo le opere di carità e solidarietà con coloro che soffrono e combattono, ritemprando così anche la nostra coscienza di popolo. E sopra le angustie del giorno teniamo alta la fede che combatteranno e non soffriranno inutilmente.
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21911-1915
Uno dei più celebri scrittori francesi, tristemente noto un tempo per una produzione letteraria tutt’altro che buona, scrive in questi giorni nel Figaro: «Alcuni prevedono, dopo questo periodo di tensione e di sforzi, di economie, di tristezze e di emozioni gravi e dolorose, lo sfrenarsi di un incredibile ardore a divertirsi e godere la vita. Ahimè! Il lutto sarà molto diffuso negli abiti di questo inverno e la festa urterebbe troppo spesso il dolore. Ma poi, perché non si dovrebbe godere della vita in guisa semplice e buona? Godere della vita vuol forse dire gettare il denaro dalle finestre, pagare le cose dieci volte il loro valore, essere degli snob, seguire una moda vertiginosa che cambia tutte le settimane, divertirsi a delle inezie? Da parte mia io credo invece fermamente che dopo la guerra assisteremo ad una rigenerazione, ad un rinnovamento mirabili. Vedremo allora una Francia piena di grazia e di bellezza, in cui le città cesseranno di congestionarsi e le campagne si ripopoleranno, in cui la vita regionale ritornerà in fiore, e i giovani saranno robusti, e le lettere e le arti ritroveranno le loro classiche linee; soprattutto vedremo una Francia laboriosa e caritatevole in cui nessuno morrà di fame. Se fosse altrimenti, se dovessimo ritrovare ancora l’alcoolismo, la miseria, i cappelli da mille lire l’uno, il tango, gli spettacoli ignobili, l’intolleranza, la persecuzione, l’arrivismo, i processi scandalosi e le scandalose assoluzioni, allora tutti quelli che furono i soldati della grande guerra avrebbero diritto di dire, in loro nome ed in nome dei morti: Non è per questo che ci siamo battuti!». Queste parole di Maurizio Donnay , che afferma la speranza in una rinascita morale della Francia, e che si augura come epilogo della lunga e dolorosa guerra non tanto il trionfo della forza materiale, un allargamento delle frontiere, una conquista di nuove e ricche colonie e l’umiliazione degli avversari definitivamente abbattuti, quanto soprattutto un rifiorimento della vita morale, una restaurazione degli spiriti e delle coscienze, un ritmo di vita più nobile e più degna, meno pervasa da crisi febbrili, più calma e ordinata, più sana e schietta, meno avida di beni materiali e più gioiosa del suo morale perfezionamento, sono veramente parole di bellezza e di bontà, sono un eloquente esempio di superiorità etica. E come in Francia il Donnay, così in Inghilterra, così in Germania, così in tutti i paesi belligeranti tutti gli spiriti generosi dovrebbero purificare il loro pensiero, adergerlo al di sopra del presente turbine di follia e d’odio (flagellum iracundiae come ha definito con una parola scultorea la presente guerra Benedetto XV) nel pensiero di uno sforzo più degno, di una mèta più alta che non sia la vittoria del nemico, la distruzione dell’avversario, lo spargimento del terrore e della strage: la vittoria di sé stessi, il proprio perfezionamento, la salutare opera del bene e della verità. Considerare la guerra non come lo sfogo di odii e di livori lungamente repressi, ma come una prova dolorosa da sopportare con fermezza e con abnegazione, trasformare i sacrifici e i pentimenti ch’essa impone in uno strumento di elevazione e di rigenerazione significa auspicare nella pace tempi migliori e sorti più elette, significa affrettare inconsapevolmente l’ora augurale della pace. Poiché se in guerra è troppo spesso lo scatenamento di istinti belluini, tutto ciò che migliora la nostra umanità, tutto ciò che ci fa meglio intendere le voci della pietà e della bontà umana non può non essere una parola pacifica...
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21911-1915
L’urbe era quasi deserta . Pochissimi i forestieri che vagavano come ombre pensose tra le rovine del Foro o sotto le volte arcane del Palatino. Alla fine del 1914 l’umanità non sente più il linguaggio dei secoli e non scruta i segreti della sua storia millenaria. Il piccone dell’archeologo s’è arrestato. Tutto il mondo antico che fino ieri si disse moderno precipita, tutta l’Europa è un’immensa rovina, altri palazzi cesarei crollano o sono abbattuti, altri templi, altre basiliche cadono in polvere. Non diventa piccola, non scompare quasi codesta vecchia e secolare tragedia del Foro romano innanzi alla tragedia immane che si svolge oggi nel mondo? E a qual pro ricostruire faticosamente le secolari vicende umane e ricercare fino in fondo, sotto il lapis niger, le origini d’una civiltà, tentando di strappare ai ruderi dell’opera umana millenaria il loro segreto quando oggidì si rivela in modo così spaventoso che da codesta storia di trionfi e decadenze, di violenza e di sangue non abbiamo imparato niente? Povera filosofia delle menti umane, come appari nuda oggi ed impotente quando ti chiediamo una parola illuminatrice, un responso qualsiasi sul tetro spettacolo che ci offre il mondo in quest’ora d’orrore. I sapienti della civiltà greco-latina messi in fila e quasi chiamati a rassegna nei musei capitolini non vi sembreranno mai così glaciali, così muti, com’ora che guardano col loro occhio freddo e scettico codesta povera creatura del secolo ventesimo che passa accasciata e sgomenta, non trovando nelle figurazioni dell’arte che una sola immagine corrispondente al suo pensiero; quella del gladiatore morente, curvato sulla sua ferita e già avvolto dalle tenebre della morte! Discendendo dal Campidoglio pare che s’abbassi e scompaia con voi nella banalità della vita quotidiana tutta la retorica, tutto il lustro d’una civiltà troppo esteriore, e si spenga il fascino di tutte le declamazioni ed incensazioni umane dal carmen saeculare ai canti eroici del poeta dannunziano. In quest’istante d’immenso sconforto noi finiremmo per disperare della nostra generazione, dell’avvenire, delle sorti dell’umanità e del nostro popolo se per nostra fortuna non avvenisse che mano mano che dintorno nell’ambito della civiltà esteriore si spengono i fuochi fatui accesi dall’orgoglio umano, dentro di noi, nella nostra coscienza di credenti si ravvivi la fiamma della verità cristiana e ritorni a brillare con efficacia nuova la luce del Vangelo. Oh come s’intuisce allora, mentre tutta l’epoca moderna vi crolla d’attorno in un abisso di sangue e di rovine, l’arcana sapienza dei cristiani nostri padri che fuggendo altro clamore e altre rovine ricercarono sé stessi ed il proprio Dio nell’oscura quiete delle catacombe, lasciando quasi all’umanità il loro testamento nei simboli riletti dall’epigrafia: la colomba, la palma, l’ancora, l’agnello ed il saluto che oggi risuona doppiamente nostalgico: IN PACE. E come ci sentiremmo perduti oggi nel tetro labirinto d’un’umanità sconvolta e travolta dall’odio, se sulla faccia della terra non si elevassero sopra i destini degli uomini che le reggie dei principi, e la torre Eiffel e i fumaiuoli degli Skoda e dei Krupp, che la Bavaria o la piramide di Waterloo! Ma per fortuna dell’umanità, discesi dal Campidoglio, noi possiamo salire ancora al Vaticano. Io ho rifatta questa via in un momento in cui l’animo, forse come mai, è disposto a comprendere tutto il significato di quest’ascensione. E senza incarico, senza autorizzazione, ma anche senza presunzione alcuna, e per una colleganza spontanea e naturale colle fibre più intime del nostro popolo, per una comunione intensa con lo spirito che pervade in questo momento e fa palpitare tutti i nostri cuori doppiamente fraterni, io mi sono sentito l’interprete di tutte le nostre anime, specie di quelle che soffrono più crudelmente e l’ho detto al Vicario di Cristo, al Padre comune, a chi rappresenta nella sede apostolica il Principe della pace . Ebbene, perché non so riferire testualmente le molte parole di conforto ch’Egli disse e descrivere l’interessamento vivo e intimamente paterno che dimostrò? Quello che Benedetto XV dettò attorno alla guerra nelle sue lettere e nelle sue encicliche egli lo ridice con una convinzione profondissima, colla voce che gli viene da un cuore acceso dalla carità di Cristo per l’uman genere e colla mente sicura e tutta illuminata dall’eterno sole dell’evangelo. Qui nessuna rettorica nessuna frase artefatta, nessun infingimento diplomatico, quantunque il nuovo Papa dimostri subito a chi ha la fortuna di sentirlo che della diplomazia e di tutti gli accorgimenti umani saprebbe servirsi in modo eminente quando il servirsene possa giovare all’onesto raggiungimento dell’ideale cristiano e civile che gli splende negli occhi. In verità, quando vedete la sua figura esile e bianca nello sfondo damascato della sua biblioteca agitarsi nervosamente sotto il tormento di un desiderio vivissimo e curvarsi tratto tratto, sporgendo inanzi il viso attento quasi a scrutare nelle tenebre d’Europa lo spazio aperto che gli permetta di levare in alto la fiaccola trionfatrice, voi comprendete, come forse non mai la forza morale che rappresenta il Papato nel mondo. Se questa povera Europa l’avesse compreso finora, si troverebbe forse oggidì innanzi ad una tale catastrofe? E come sarà domani, quando diverrà palese l’immensità delle rovine sparse per ogni dove? Benedetto XV è senza dubbio il papa che la Provvidenza ha messo a cavallo di due epoche, perché se il suo compito avesse a fallire, nessuno potesse attribuirlo a mancanze della persona cui si affida un mandato così grave; ma si potrà domare questa volta l’insania umana che l’ha sempre osteggiato? Benedetto XV lo spera e il suo ottimismo gli riluce dallo «sguardo d’inesprimibile affetto» con cui «dall’altezza dell’Apostolica dignità contempla il corso degli umani avvenimenti». Ond’è che quand’Egli avrà alzato la mano per benedire, rivolgendo la mente a chi soffre e nel dolore si rinnova, vi risolleverete non solo confortati del momento presente, ma anche rinfrancati nella speranza di un domani migliore. E quando discenderete dal Vaticano non vi sentirete più soli. Altre terre, altri templi potranno crollare, altri fari estinguersi per la violenza della bufera; ma lassù in alto sfolgorerà ancora sul mondo umiliato il faro del Vaticano. Fortunati noi se la nostra generazione potrà ancora assistere al rinnovarsi di codesta vecchia Europa e al rifiorire di una nuova vita sulle rovine.
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Il tentativo fatto da Benedetto XV per ottenere la tregua del Natale illumina ulteriormente lo spirito dell’ut diligamus alterutrum che informa tutta l’enciclica programma del pontefice . Che se l’effetto specifico non si è potuto raggiungere, altri effetti si sono raggiunti: e fra questi quello soprattutto di ricordare solennemente al mondo che la fratellanza umana voluta dal Cristianesimo, non è soltanto il contrapposto ai particolari eccessi con cui nei giorni presenti l’odio insanguina il mondo, ma è il fondamento essenziale dell’umana società. E invero, specialmente questo punto l’Enciclica metteva innanzi. Essa traeva dal vangelo il gran principio, sul quale si poggia tutto ciò che è stato finora civiltà, tutto ciò che tale rimane ancora in mezzo al cruento disordine incivile, tutto ciò che dà speranza alla civiltà di risorgere ancora dall’odierno ottenebramento. «Gesù Cristo – essa ricordava – disceso dal Cielo appunto per questo fine di ripristinare tra gli uomini il regno della pace, rovesciato dall’odio di Satana non altro fondamento volle porvi che quello dell’amore fraterno». La Società umana è un fatto naturale, non solo nella sua elementare qualità di accolta di un gran numero di viventi, ma anche in quella di fonte delle correlazioni tra loro. Il bisogno che ciascuno ha di tutti e tutti di ciascuno può indurre da sé gli uomini a mettere in comune, sia nella vita d’una generazione sia d’una continuità delle generazioni i loro talenti e i loro sforzi: in modo che da un semplice agglomeramento di individui si venga ad un organismo, nel quale ognuno contribuisce all’insieme e l’insieme giovi ad ognuno. Di qui lo spontaneo avviamento alla civiltà. Ma, come si vede, questa mutualità, questa solidarietà, finché restano in tali limiti, non solo possono coesistere coll’egoismo, ma essere un perfezionamento di esso. Lo stare uniti, il cooperare diventa infatti per ogni uomo un suo tornaconto. Senonché tutto ciò che l’egoismo fonda o consente produce una unione fallace: troppi sono i casi in cui esso consiglia a dividersi quelli stessi che ha consigliato ad unirsi. Oggi sarà l’uomo singolo che non contento dei beni procuratigli dagli onesti commerci, adopra per avvantaggiarsi la frode, ossia si dà un egoismo più momentaneamente fruttifero di quello che cercava di soddisfare nelle relazioni regolari coi suoi simili. Domani sarà una nazione, che pure assorbendo in sé gli egoismi dei cittadini ed esigendone le abnegazioni patriottiche, sfoga questo trasformato egoismo collettivo nelle aggressioni ad altre nazioni, ossia nell’infrangere il vincolo dell’umanità. Il Redentore vide divinamente questa fallacia e trasformò la società umana, dandole un altro elemento: volle cioè che gli uomini fossero tra loro uniti, non per il puro e defettibile interesse reciproco, ma per un immortale amore, che pur avvalorando quell’interesse, facesse in essi valere la qualità inviolabile di figli di un comun Padre ed oggetto d’una sola redenzione. Questa fu la risoluzione operata in terra dal Cristianesimo. Esso aveva trovato una società umana e ne fece una famiglia umana: poiché se nella famiglia serbarsi congiunti è per ciascuno una difesa e un vantaggio, il sentimento egoistico di questi beni è assorbito e quasi nascosto da un sentimento precedente e superiore, quello dell’affetto disinteressato e scambievole. L’Enciclica svolge mirabilmente l’insistenza con cui nei suoi insegnamenti e nei suoi atti il Redentore inculcò ed operò questa sublime trasformazione. Mai con pari efficacia mostra come gli uomini, dopo aver universalmente e progressivamente accolta nei secoli la parola evangelica di «fratellanza» e averne fatto un vanto principale dell’età nostra, l’abbiano vuotata di senso e d’efficacia. Poiché alla vanità di essersi fatti belli d’una parola, alla quale non si rinunzia mai, non ha corrisposto quello spirito onde la fratellanza diventa un fatto: lo spirito cioè di piena sudditanza al Vangelo intero, dogma e morale; di quella piena adorazione di Dio, dalla quale discende non solo la nozione precisa dell’amore fraterno, ma la disposizione effettiva degli animi a praticarlo. Gli uomini nel loro traviamento hanno voluto empirsi la bocca del lusinghiero vocabolo di «fratellanza», ma hanno voluto mandarlo d’accordo con tutto quello sfrenamento di passioni anticristiane, che anche invisibilmente coltiva il gran nemico della fratellanza, ossia l’egoismo. Che cosa ne è accaduto? Che quest’ultimo ha finito per trionfare spudoratamente anche di quest’ostentato vocabolo. L’Enciclica lo dice con eloquenza scultoria: «Ma purtroppo oggigiorno diversamente si comportano gli uomini. Mai forse più di oggi si parlò di una fratellanza: si pretende anzi, dimenticando le parole del Vangelo e l’opera di Cristo e della sua Chiesa, che questo zelo di fraternità sia uno dei parti più preziosi della moderna civiltà. La verità però è questa, che mai tanto si disconobbe la umana fratellanza quanto ai giorni che corrono. Gli odi di razza sono portati al parossismo: più che da confini, i popoli sono divisi da rancori: in seno ad una stessa nazione e fra le mura d’una città medesima ardono di mutuo livore le classi dei cittadini: e tra gli uni individui tutto si regola con egoismo, fatto legge suprema». E l’Enciclica, fatto suo il perpetuo lume evangelico, non si illude intorno ai modi di sanare le piaghe odierne. Bisogna rifare la via che fu abbandonata: riporre la società sulla base dell’amore. Se non si fa ciò non potrà giovare nessun risultato delle forze armate e nessun giuoco per quanto sapiente della diplomazia. L’iniziatore di un nuovo pontificato essenzialmente religioso, diffida d’ogni politica che sia fine a sé stessa, che egli voglia esser qualche cosa di diverso da quella prudenza con cui si debbono far valere gli stessi intenti religiosi nel mondo. Che dico? Egli diffida delle stesse industrie di pietà, che non abbiano in mira un amore più profondo e più vasto della semplice compassione. Dice infatti l’Enciclica: «Sono belle per fermo, sono commedevoli le pie istituzioni di cui abbondano i nostri tempi: ma allora solo produrranno un reale vantaggio, quando contribuiranno in qualche modo a fomentare nei cuori l’amore di Dio e del prossimo: diversamente, non hanno valore, perché qui non diligit, manet in morte». Il combattere l’egoismo in tutte le sue forme, s’ammanti pur esso di apparenti nobilitazioni collettive, o si attenui in transazioni con una pietà insufficiente: il restituire alla società il solo substrato durevole, ossia l’amarsi vicedevolmente secondo la carità di Cristo «questo – proclama l’Enciclica – sarà sempre il nostro obiettivo, questa l’impresa speciale del nostro pontificato». E la proposta della tregua natalizia ne è stata una solenne manifestazione. Si fosse almeno celebrata con una sosta dell’armi la festa in cui gli angeli congiunsero l’augurio di pace agli uomini di buona volontà coll’Osanna a Dio nell’alto dei cieli! Ma il tentativo fruttificherà: Il Papa che con questa offerta nelle mani si presentò ai potenti, ha dato di sé lo stesso spettacolo che ha descritto un giovane sacerdote e promettentissimo poeta , nel suo libro di Canti dell’Alba e dell’Aurora, uscito testè a Firenze pei tipi Seeber, ricordando Pio X che muore accorato per la guerra: Dovunque si piange e si muore or ecco! Egli passa gittando il suo grido d’amore. Indarno furenti Garriscon le avverse bandiere: dinanzi a Dio solo, s’arresta il Padre di tutte le genti! E il gran Sacerdote! Le vite infrante egli enumera: i cuori infranti per sempre; le spemi, le glorie, gli amori di stirpi, di secoli, al pari di sogni infantili dispersi ne l’alba che fosca traluce sul ciel della storia Fra gli Angeli delle Nazioni che intorno gli piangon sublimi; nel mentre implacta ancor rugge la tarda, divina vendetta, Ei leva all’eterno Il gran sacrifizio ed aspetta.
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21911-1915
Quando ci si è rovesciato addosso questo terribile uragano ed il corso normale della nostra vita venne spezzato dalla violenza della bufera, appena rimessi dal primo stordimento dicevamo tutti: Pazienza, facciamoci coraggio, sarà per poco: al più tardi a Natale la guerra sarà finita. Pareva che nella festa della pace e dell’amore tutti dovessero smettere gli odi e ritornare ai propri focolari. La nostra generazione l’aveva sempre celebrata attorno al ceppo ed innanzi l’idillio pastorale del presepio. Non eravamo avezzi fin da bambini a ripetere ogni anno il manzoniano: Dormi, o fanciul celeste: Sovra il tuo capo stridere Non osin le tempeste? Invece la guerra non è ancora finita e la pace sembra ancora lontana. Milioni d’uomini stanno ancora nelle trincee e spiano il momento propizio per mandarsi l’un l’altro una palla omicida nel cuore, milioni d’uomini guardano in faccia alla morte, come se il Redentore non fosse ancora nato. Migliaia dei nostri bravi soldati rinnovano ogni mattina – quando riprende il sibilo degli shrapnels ed il martellare delle mitragliatrici – il sacrificio della loro giovane esistenza, migliaia giacciono negli ospedali dispersi e lontani, centinaia e centinaia agognano invano in mezzo ai geli della Siberia il sorriso del nostro cielo e della nostra patria, e molti altri ancora sono morti in terra straniera senza l’ultimo saluto, senza l’ultima palata, senza l’ultimo requiem . Che faremo noi quest’anno intorno a codesti deserti focolari del Natale, in cui il tizzone stesso pare faccia eco gemendo ai nostri lamenti e la fiamma va strisciando bassa e fumosa, quasi senta anch’essa l’incubo che pesa sugli animi? [...] Eppure, amici, in alto i cuori! Guardate questa meravigliosa notte stellata di Natale. Non è vero che le stelle ci paiono quest’anno più vicine e il cielo più aperto? Sono le stelle a cui guardano in questo momento i nostri cari pensando di lontano ai loro figlioletti, alle loro spose, alle loro mamme; sono le stelle che vegliano pietose sui nostri feriti e sui nostri poveri morti; sono le stelle del nostro amore, della nostra speranza comune. Gli altri anni avevamo forse lo sguardo rivolto troppo alla terra, gli affari ed i fastidi della vita quotidiana ci preoccupavano, ci assorbivano come se non vivessimo che per quelli. Eravamo piccoli e ci perdevamo quasi nell’ingranaggio delle cose. Ma quando l’orribile tromba della guerra ci ha chiamati come a discussione colle ragioni stesse dell’esistenza e trovandoci improvvisamente faccia a faccia colla morte, abbiamo gettato da un canto tutte le cure che pur ci parevano gravi, quasi per sciogliere le nostre energie da ogni altro legame e raccoglierle tutte per l’estremo cimento, quando nel distacco da tutte le cose care rialzammo gli occhi al cielo, come a citarne in silenzio la testimonianza per il sacrifizio ed il dovere compiuto, allora ci sentimmo più grandi, più elevati da terra, più vicini a quelle stelle da cui Dio ci governa e a cui faremo ritorno. Ed oggi, a Natale dell’insanguinato 1914, ci pare di comprendere più che mai il misterioso linguaggio che esse hanno parlato nei secoli e mentre un mondo di artifici, di menzogne e di odio ci crolla d’attorno, noi sentiamo che la loro luce, fatta più vicina risplende su di noi, divenuti più poveri e più umili, come sul nudo paesaggio di Betlemme. Il papa aveva proposto una tregua, ma alcuni potenti della terra non l’hanno voluta. Che importa? C’è un campo su cui, fuori di noi, nessuno può comandare e proibire ed è il campo del nostro spirito e della nostra coscienza. Su questo campo combattenti o feriti, morti o superstiti concluderemo tutti la nostra tregua. Quando volgerai al tuo mezzo, o notte di Natale, noi tutti guarderemo alle tue stelle vivide che splendono del pari sulle trincee come sui focolari, sugli ospedali e sulla poca terra di sepoltura e sentiremo rinnovarsi in noi indissolubile il vincolo dell’amore che ci lega ai nostri cari al di qua e al di là della vita e svolgersi nel cuore una mutua corrispondenza d’affetti. Poi il nostro palpito si allargherà ancora più, comprendendo tutti gli uomini, anche quelli che si chiamano i nemici. A tutti, a tutta l’umanità in questa tregua della carità cristiana noi auguriamo giorni migliori, di felicità e di pace. Noi sentiamo, noi sappiamo che in questa sacra notte il nostro palpito non si arresterà nel nostro petto, il nostro augurio non rimarrà un segreto della nostra coscienza, ma si trasmetterà all’amico, al vicino, a tutti i fratelli in Cristo, poiché su tutta indistintamente codesta povera umanità insanguinata vibra il richiamo misterioso di quell’ora in cui un Dio, per amore di lei, si fece bambino.
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21911-1915
Oggi la data di fine d’anno non è che un avvenimento convenzionale. Oggi niente finisce, domani niente comincia, ma al di là di ogni mutazione del calendario la guerra continua. La giornata quindi si presta ancora meno degli altri anni a delle considerazioni retrospettive. Guarderemo indietro, quando gli avvenimenti che incalzano ci avranno dato tregua, ma fino che la valanga ci trascina e quasi ci precipita, il nostro compito ed il nostro dovere è di fare ogni sforzo per star ritti e guardare coraggiosamente in faccia l’avvenire. Che cosa ci riserberà? Non lo sappiamo, siamo nelle mani di Dio. Ma quello che sappiamo, quello che dobbiamo sapere è che chi s’aiuta Dio l’aiuta. Mai come in questi momenti riesce pericoloso il contegno nettamente passivo, la torpidezza d’animo, l’abulia della volontà. Come per l’individuo questa è l’ora della massima tensione di nervi, così per ogni organismo civile è l’ora del massimo sforzo e della più grande risolutezza. Bisogna aumentare attorno a noi tutte l’energie fattive del paese, per riempire almeno in parte gl’immensi vuoti che si producono. Si ricordi ognuno che è potuto rimanere a casa che deve a sé stesso, ai fratelli che combattono e all’avvenire del paese uno sforzo straordinario di attività privata e sociale per sopperire almeno in intensità alle forze mancanti. Non è necessario di dire su qual terreno tale sforzo debba essere compiuto: dobbiamo in primo luogo intensificare ogni opera di solidarietà cristiana verso chi soffre, dolora, patisce la miseria. In questo riguardo nel nostro paese s’è fatto molto: ma bisogna fare ancora di più. È l’anno del sacrificio. Molti vi perderanno la salute, i beni e forse la vita. Chi vorrà rifiutarsi di sacrificare almeno una parte della propria ordinaria agiatezza? Quando ritornerà il bel tempo, la folla su cui si sarà rovesciata la bufera imprecherebbe a ragione contro chi nei momenti critici non si fosse ricordato che di se stesso. Ma, al di là delle angustie presenti, conviene sovratutto prevedere e provvedere per il prossimo avvenire. Poteri pubblici, comitati centrali, sta bene: ma è storia vecchia come proprio nelle grandi crisi l’efficacia delle funzioni statali diminuisca. Bisogna aiutarsi da sé. Anche al Trentino va detto: aiutati, che Dio t’aiuterà. Quanti siamo in grado di farlo, rinnoviamo quindi a capo d’anno il proposito di voler vigilare, lavorare, provvedere per ovviare come sta nelle nostre forze alle conseguenze della guerra. Bisogna rinnnovare, aumentare, intensificare la produzione della nostra terra. Siamo tagliati quasi dal resto del mondo. Ogni agricoltore diventi un Robinson e pensi di sfruttare con tutti i mezzi le risorse dell’agricoltura e della pastorizia. Mancano le forze ordinarie? Bisogna sopperirvi colle straordinarie. E qui, come dicemmo già in estate, accanto agli organi agricoli ufficiali (Consiglio d’agricoltura e consorzi) sono chiamati ad intervenire, come lodevolmente in molte parti si è fatto, i sacerdoti, le persone colte, quanto resta delle nostre associazioni. Andiamo verso la primavera. Si organizzi, si prendano disposizioni già ora. Se ci anima la carità di Cristo, lo spirito di fratellanza per i fratelli partiti, quanto non potremo raggiungere? Abbiamo visto quest’estate in un piccolo villaggio anaune delle colte signorine di condizione borghese sopperire direttamente a certi lavori agricoli per le famiglie diminuite dei contadini. Se si vuole, si può fare più che non si creda. Ma prima di tutto bisogna scuotere di dosso ai contadini quello strano ottimismo che li rende indolenti, come se la guerra dovesse finire domani e come se colla conclusione dell’armistizio le condizioni economiche dovessero automaticamente ristabilirsi. In ogni caso, nel minor dei casi, se non facciamo ogni sforzo per aiutarci da noi, avremo nel prossimo inverno un rincaro, che potrà anche essere carestia. La previsione del guadagno stesso del resto dovrebbe spingere ogni buon calcolatore ad aumentare la produzione. Abbiamo accennato all’agricoltura, ma altri campi vi sono, per cui va invocato lo stesso atteggiamento dello spirito, lo stesso sforzo di solidarietà. Ma basti per oggi aver parlato genericamente. Che se gli argomenti toccati non bastassero a smuovere taluno – e sono pochi – da quell’appartarsi egoistico che può sembrare in certi momenti l’estremo della furberia, vorremmo affacciare un’altra considerazione ch’è pur ovvia. [...]
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21911-1915
I Comunicazioni del Podestà f) Tramvia di Fiemme [...] Il Cons. D.r Alcide Degasperi in merito all’ordine del giorno presentato dal Cons. Italo Scotoni dice: Oggi il Consiglio si trova di fronte al fatto compiuto del voto dietale e di fronte ad esso se possiamo ammettere che l’atteggiamento della maggioranza corrisponda alla posizione di protesta sempre assunta, non potevamo aspettarci che si portasse nelle comunicazioni così di sorpresa una questione sì importante e delicata e che si venisse qui con un ordine del giorno, con un linguaggio violento e con insinuazioni ed accuse contro i Deputati e Consiglieri di parte popolare. Questo non è provvedere ai bisogni di Trento, ma pensare di crearsi una piattaforma elettorale. Voi qui non fate solo il processo alle persone, ma anche alle loro intenzioni. Portate delle accuse, che non avete mai sentito il dovere di provare e non potere provare, perché sono infondate. Ci lanciate contro le frasi da comizio ed il fango ammassato in certa campagna giornalistica. Nessun impegno segreto fu pattuito a svantaggio della città di Trento, nessun atto nostro vi autorizza a parlare di tradimento. Quando ci parve impossibile ottenere per Trento qualche cosa di più, accettammo la soluzione proposta, come il meno peggio, coll’intento di lavorare per migliorarla, oggi o nell’avvenire. E da questo momento dell’accettazione il nostro atteggiamento fu manifesto, aperto e conseguente. Potevate quindi deplorare, e se volete, protestare contro l’indirizzo da noi seguito, ma non portare qui tutto l’odio di parte e gettare in mezzo a noi l’accusa di malafede. Che se si volesse fare anche un’ampia istruttoria converrebbe domandarsi anche che cosa ha fatto il famoso Comitato tramviario, di cui, come di un fantasma, si fecero sì grandi parole. Su questo terreno ci sarebbe ancora molto da fare in comune: c’è la questione della traccia della linea di Cembra che per Trento non può essere indifferente, c’è la fornitura della forza alla linea di Fiemme, c’è in ogni caso la continuazione dell’Avisiana, cui nessuno ha rinunziato. Voi gettando in faccia parole d’odio ai rappresentanti di Cembra e di Fiemme e al partito popolare che, volere o no, rappresenta la maggioranza del Paese, non fate gli interessi di Trento, ma cercate quelli del vostro partito, speculando sulla facile folla, che, ignara della realtà delle cose, segue facilmente il radicalismo delle parole. Di fronte ad essa avremo potuto forse fare il bel gesto del rifiuto e ripiombare nel nulla. Ci sarebbe stato facile acquistarne il plauso, ma la coscienza degl’interessi generali del Paese ci ha trattenuti dal farlo. Oggi voi ci lanciate una sfida e colla stessa coscienza e collo stesso coraggio noi l’accetteremo. [...] Il Cons. Dr. Alcide Degasperi alle osservazioni mossegli dal Baron Ciani osserva: Davvero non so quand’io sia fuggito al momento di votare. Se accettai di ritornare in Comune si è perché ritenevo giusto che un Rappresentante di Fiemme ci fosse. Non so con quali votazioni io sia in contraddizione col mio atteggiamento, né so a chi avrei potuto giovare dando le mie dimissioni. Se ho fatto un accenno alle elezioni prossime si è perché voglio affrontare di colpo la situazione. Col governo noi non abbiamo nessun impegno; non facemmo contratti. Non vogliamo far attacchi né conquiste, ma il nostro contegno è una doverosa difesa che si addimostra logica di fronte alla questione elettorale. Io ritengo che nella questione fiemmese ci sia ancor molto da fare e che ad essa noccia assai un conflitto tra rappresentanti. [...] Il Cons. Dr. Alcide Degasperi osserva che se il secondo comma dell’ordine del giorno significa solo che con ciò si augura una continuazione della Lavis-Cembra, allora è d’accordo anch’egli nel votarlo. È lieto che il Cons. Battisti non escluda tale possibilità. In quanto alla votazione del milione e mezzo osserva che nei protocolli delle sedute comunali c’è un passo dove egli parla di trattative fatte sulla base medesima di quelle deliberate in Dieta per cui riguardo suo non c’è equivoco. Altro è dire fate un’offerta definitiva, altro è accettarla ed impegnarsi. Coll’ultimo punto all’ordine del giorno invece egli si dichiara d’accordo. [...] Il Cons. D.r Alcide Degasperi chiede come intenda il punto in cui si parla di impedire che l’azione così iniziata dal governo porti alla rovina ecc. Si deve intendere nel lavorare di comune accordo ad integrare ciò che fu fatto? [...] Il Cons. D.r Alcide Degasperi osserva che inteso così l’ordine del giorno non intende di votarlo . [...] VIII. Discussione ed approvazione del consuntivo comunale pro 1912 [...] Il Cons. D.r Alcide Degasperi riconosce che esistevano le consuetudini e le convenienze accennate dall’on. Tambosi – il quale, tra parentesi malgrado l’asserita sorpresa procuratagli dalla relazione della minoranza, ha mostrato d’essere molto addentro nelle questioni del bilancio – ma allora non esisteva nemmeno la consuetudine e la sconvenienza di chiamare traditori ed indegni di cooperare all’opera amministrativa i Consiglieri popolari. Del resto, la presentazione della relazione di minoranza in questa forma ebbe un precedente nel 1911. [...] Continuato lo stesso giorno ad ore 21. IX. Discussione, ed approvazione del Preventivo comunale pro 1914 [...] Il Cons. D.r Alcide Degasperi rileva come gli oppositori della Banda Sociale entrino in un circolo vizioso: essi dicono che la Banda non dà alcun concerto, mentre d’altro canto la Banda non può darne non avendo alcun fondo. [...]
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21911-1915
Continuazione della discussione ed approvazione del Preventivo comunale pro 1914. Rubrica V. Beneficenza [...] Il Cons. D.r Alcide Degasperi propone di inserire in un articolo speciale una sovvenzione di Cor. 300 alla Pia Unione di Provvidenza. Tale Società è altamente benemerita, risparmiando essa non poca spesa al bilancio della pubblica beneficenza, perché provvede al collocamento di ben 16 persone di Trento, delle quali 8 a tutta spesa dell’Associazione. [...] Rubrica VII. Edilizia [...] Il Cons. D.r Alcide Degasperi è favorevole alla proposta avanzata dal Cons. Pallaveri , per affermare il dovere sociale, che ha ogni Municipio, di venire incontro ai danni della disoccupazione. Egli raccomanda alla Giunta municipale inoltre di sollecitare la esecuzione dei lavori già approvati, anche se questi implicano oneri maggiori. [...] Titolo I. Entrate effettive Rubrica III. Sovrimposte e tasse [...] Il Cons. D.r Alcide Degasperi parla in favore della proposta del Cons. Pallaveri, osservando che ogni qual volta in Consiglio comunale vi è un qualche accenno alle sovrimposte e tasse si parla sempre di una Commissione per la riforma tributaria, come se essa fosse chiamata a sanare le finanze cittadine d’un sol tratto. Non bisogna però in argomento farsi troppe illusioni: l’esito d’una riforma, diremo così rivoluzionaria, è molto dubbio, e di essa d’altro canto non si conoscono ancora le basi. La proposta del Cons. Pallaveri invece è qualche cosa di concreto e che indica la strada che guida ad un pratico risultato. Per salti è impossibile di poter procedere, e noi non dobbiamo illuderci troppo sull’opera di questa commissione, la quale certo non potrà di colpo abolire completamente la tassa sul pane. Sarà meglio perciò attenerci alla riforma, che viene proposta dalla minoranza popolare, la quale trova la sua giustificazione nelle cifre.
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21911-1915
IV. Approvazione delle tasse civiche indipendenti per il quinquennio 1915-19 [...] Aperta la discussione sull’urgenza della proposta, il Cons. D.r Degasperi osserva che non può approvare il modo troppo spiccio di portare al Consiglio l’approvazione delle tasse con proposta d’urgenza. Ad una proposta d’urgenza si deve ricorrere solo in casi eccezionali, quando non si sia potuto inserire a tempo il relativo oggetto nell’ordine del giorno . [...]
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21911-1915
L’eccelsa Dieta voglia deliberare: «Di fronte alle tendenze di limitare l’emigrazione l’i. r. Governo è invitato a fare il massimo calcolo delle esigenze economiche della popolazione ed a tener conto della circostanza, che ingiustificate misure repressive avrebbero conseguenze disastrose per l’economia dell’intero paese» .
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21911-1915
La proposta ha un’origine semplicissima: ieri abbiamo potuto leggere nei giornali un riassunto ufficioso del preventivo dello Stato per l’anno 19141915, e in questo preventivo alla posta «pubblica sicurezza» è contenuto un aumento di 2 milione di corone di spesa di fronte al 1913. Si motiva questo aumento coll’accenno a nuove disposizioni che si devono prendere per riguardi militari contro l’emigrazione, e modo particolare si fa cenno alla provincia del Tirolo e Vorarlberg, dicendo che bisogna sistemizzare nuovi posti di agenti di polizia per impedire l’emigrazione. Oltre a ciò si fa cenno che a Vienna si vuole fondare (in realtà si è già fondato) una sezione centrale di polizia col compito di sorvegliare l’emigrazione. Ora questa posta di bilancio viene a dire che le preoccupazioni e i timore da noi nutriti, che le ordinanze e le disposizioni che si sono prese recentemente anche nella provincia del Tirolo e sui confini, in modo particolare meridionali, non fossero semplicemente disposizioni di carattere transitorio erano fondate e che si vuol dar loro una forma stabile di attuazione organica. Ora a noi era noto che, contro ogni disposizione costituzionale, – era noto per quello che ne avevano detto i giornali – alle autorità politiche erano state mandate circolari presidiali, in cui si dava l’ordine di non staccare passaporti per gli emigranti dai 17 ai 36 anni; o di ritardare questo distacco di passaporti, finché avesse dato il proprio parere in riguardo l’autorità militare di completamento. Ora oggettivamente considerata la cosa, a parte che essa in tutti i casi porta un enorme ritardo di viaggio e si presenta di primo colpo come impedimento all’emigrazione, specie nei primi anni per gli emigranti, che hanno già preso tutte le disposizioni per la partenza, queste disposizioni sono in perfetta contraddizione colla legge fondamentale dello Stato del 1867, la quale permette e concede ai cittadini la libera circolazione. Questa legge accenna anche in verità alle eccezioni doverose per riguardi militari, in quanto in essa vien detto che l’emigrazione può venir limitata dallo Stato, quando lo imponga l’obbligo al servizio militare. Ma nella nuova legge militare votata nel 1912 vi è un paragrafo, il quale stabilisce in concreto quali siano i casi in cui questa emigrazione possa venir per riguardi militari impedita o difficoltata. Nel § 44 della legge militare è detto che nel caso che si tratti di persone obbligate al periodo militare e dopo l’inizio di questo periodo non si possono staccare passaporti se non per circostanze particolarissime . Ora da noi in parecchi casi, in linea concreta, è già avvenuto che sono stati arrestati ai confini degli emigranti, i quali erano stati dichiarati inabili al servizio militare, e altre persone che erano al di là di ogni occasione di poter essere dichiarati abili. È successo non solo che sono stati negati passaporti e molte legittimazioni di viaggio, ma nel caso specifico è successo l’enormità, che il capitanato ha dato in mano agli emigranti il passaporto e poi la rispettiva gendarmeria ha telegrafato alla gendarmeria di confine, e gli emigranti col passaporto in tasca sono stati arrestati, in modo che senza ulteriore intervento, avrebbero perduto il vapore, per il quale avevano ormai pagato le spese di viaggio. In generale con queste disposizioni si è riusciti ad ottenere da noi che un certo numero di emigranti abbia dovuto rinunziare all’intenzione di andare a cercare lavoro all’estero e, a quanto si sente, si vuole ora – e, come ho accennato prima, la posta del bilancio conferma questa opinione – stabilire un sistema di spionaggio su tutte le ferrovie, incaricando perfino i conduttori di domandare eventualmente i passaporti, perché tanto nella terza che nella seconda classe sia impossibile ai cittadini austriaci di emigrare. Ora io credo che in questo momento che a Vienna viene presentato – a dir vero non ai deputati, perché sono messi in disponibilità di servizio – ma alla presidenza della Camera e di qui abbassato anche al pubblico, fra cui ai deputati, il bilancio preventivo, in questo momento che si afferma con ciò e in una posta del bilancio dello Stato per il 1914/15 la ferma intenzione, il sistema del governo di voler combattere l’emigrazione con questi mezzi di polizia, io credo che sia doveroso che la Dieta del Tirolo prenda posizione tanto per quanto riguarda il principio, come per le conseguenze disastrose alle quali si potrebbe arrivare. Si tratta anzitutto di una misura anticostituzionale, misura che se il Parlamento fosse convocato e ai deputati fosse dato il mezzo di protestare, senza dubbio il governo non avrebbe il coraggio di applicare con presidiali segrete mandate all’autorità politica, perfettamente contrarie allo spirito della legge fondamentale e in questo riguardo al § 44 della legge militare. Credo quindi che dal punto di vista della legge fondamentale dello Stato la Dieta del Tirolo sia chiamata a fare la sua protesta. Oltre a ciò vorrei che si considerasse che si tratta qui di una enorme ingiustizia sociale verso i lavoratori. Noi non siamo per principio favorevoli all’emigrazione; come tutti dovrebbero naturalmente desiderare che in casa sua si potesse trovare l’occasione del lavoro necessario per il sostentamento o per rinsaldare la propria base di esistenza! Ma d’altro canto non si può negare che purtroppo nel nostro paese ci sono delle vallate in cui l’emigrazione è assolutamente necessaria, in cui se l’emigrazione cessasse, con ciò stesso cesserebbe contemporaneamente una fonte di sostentazione assolutamente indispensabile. Oltre a ciò, se si considera che questi lavoratori (io penso per esempio alla valle di Non, donde moltissimi partono per lavori faticosi nelle miniere d’America e ritornano uno o due anni dopo), si obbligano alla seconda coscrizione e non hanno la minima intenzione di sottrarsi al servizio militare, e partono non per sottrarsi al loro dovere, ma solo perché costretti dal bisogno di guadagnare e di farsi una modesta fortuna per poter riscattare il campicello dei loro padri o la loro casa o per stabilirsi una base economica qualunque. Se si considera che in realtà qui abbiamo da fare, le eccezioni non contano, con lavoratori che si possono chiamare i migliori, i più arditi e coraggiosi del nostro paese, e che di fronte a questi lo Stato usa una simile ingiustizia per impedire loro di andare a lavorare e a portare a casa il sostentamento alle loro famiglie; credo che se consideriamo la cosa anche dal punto di vista sociale, la Dieta del Tirolo, la quale si compone pure per la maggior parte di rappresentanti delle classi operaie e lavoratrici dovrebbe unirsi alla nostra protesta. Vorrei ancora accennare, che se per lo Stato non vale il diritto del cittadino, né il diritto di giustizia sociale di fronte ai membri della società civile, dovrebbe valere per lo meno il punto di vista fiscale. Se consideriamo che due terzi della ricchezza mobile del nostro paese viene precisamente dall’emigrazione, e che i denari che i nostri emigranti portano a casa vengono investiti nel nostro paese nelle banche, e quindi pagano tasse allo Stato, alla provincia, ai comuni, o vengono investiti in tutte le forme di economia pubblica produttiva, e quindi sono denari tassati dallo Stato e formano un buon cespite per il fisco, almeno dal punto di vista fiscale (e in questo riguardo il nostro Stato eccelle sopra gli altri Stati) si dovrà ammettere che tali misure sono perfettamente assurde e contrarie ai principi utilitaristi. Quindi se non valgono i diritti di cittadino e di giustizia sociale, dovrebbero valere almeno gli interesse dei censiti di fronte allo Stato fiscale che impone imposte. Io vorrei poi aggiungere ancora che accanto alle altre questioni di principio della libertà individuale e delle leggi fondamentali del 1867 si aggiunge anche un’altra considerazione. Io credo che non ci sia nessun altro Stato dove si possa arrivare quasi per fatalità atavica e storica a misure repressive, là dove invece c’è bisogno di misure sociali e di provvedimenti economici. È addirittura assurdo che si voglia impedire l’emigrazione, che si voglia sanare, diremo, il male, purtroppo spesso inevitabile, che è l’emigrazione, impedendola colla polizia. Evidentemente una simile logica non può entrare altro che nel cervello di coloro i quali per sistema da lunghi anni prima ancora di Metternich sono avvezzi a vedere ogni disposizione, ogni atteggiamento della vita moderna presentarsi sotto il rapporto in cui possano stare coll’inasprimento più o meno grave del sistema poliziesco. Credo quindi che anche dal punto di vista politico–sociale noi dobbiamo protestare contro questo sistema assurdo, antiquato che dovrebbe essere tramontato per sempre, che in una questione in cui bisogna assolutamente ricorrere a provvedimenti sociali, di carattere economico, di previdenza, di giustizia ed equità sociale, si ricorra invece ad un inasprimento poliziesco. Se consideriamo nel bilancio le poste riguardanti la provincia del Tirolo, vedremo una diminuzione degli importi dedicati a spese produttive, a lavori pubblici e invece che l’unica posta – per quanto si possa dedurre da questo sunto ufficioso mandato ai giornali – l’unica posta in cui il Tirolo ha l’onore di veder tenuta in maggior considerazione la propria economia, è precisamente la posta della polizia: si aumentano gli agenti di polizia, mentre contemporaneamente si peggiorano le condizioni e si diminuiscono le possibilità di lavoro. Domando se questa è politica, e se noi possiamo approvarla col nostro silenzio, e se non è giusto e doveroso che tutti i partiti della Dieta protestino contro una simile tendenza. Io ho formulato la mia proposta in una forma molto moderata, ho tenuto conto di tutti i punti di vista anche di coloro che credono, come è accennato nel progetto del bilancio governativo, che «aus wichtigen militärischen und gesamtstaatlichen Interessen» sia necessario introdurre un simile sistema poliziesco e di repressione riguardo alla emigrazione e precisamente tenni conto di questo, perché ritengo che anche questi punti di vista vengono a dar ragione alla motivazione della proposta da me presentata. Cioè credo che sia un ben triste sistema di educazione dei sudditi dello Stato all’amore della patria quello di impedir loro di andarsene per anni due o tre al massimo e ritornare poi in patria coi guadagni ottenuti col proprio lavoro, credo che sia una ben triste educazione alla concezione dei «gesamtstaatlichen Interessen», e che viceversa la patria in questo momento debba venir concepita dagli emigranti e lavoratori che vanno via, come qualche cosa di perfettamente contraddittorio agli interessi dell’individuo. Signori! Per queste ragioni spero che i rappresentanti anche degli altri partiti daranno ragione a noi nella presentazione di questa proposta – e accenno in modo particolare ai partiti di carattere conservativo della parte tedesca della provincia. L’altro giorno il signor presidente cons. aulico Schumacher ha trovato nel mio discorso tinte troppo fosche, e troppo nere, e ha sentito la necessità di mettervi qualche lume, in modo da fare un quadro di carattere, diremo così, fiammingo ; io ritengo che oggi non sentirà questa necessità, perché ho parlato così moderato, così oggettivo, così sereno, ho riferito semplicemente la verità, anzi molto meno della triste e cruda realtà appunto per rendergli possibile di unirsi alla nostra proposta, senza andare in cerca di lumi non necessari. Mi pare di aver distribuito le ombre e le luci in proporzione equa, e se ne riesce un quadro molto fosco, molto tetro, questo non è certo colpa di retorica, di artificio polemico, ma della triste realtà, la quale viene destinata e decisa, stabilita, imposta contro la nostra volontà. Contro questa imposizione sistematica che è criterio governativo purtroppo noi abbiamo troppo poche volte l’occasione di protestare, di far sentire la nostra voce. E credo che la Dieta del Tirolo, la quale è uno dei pochi corpi legislativi che ora sono convocati e ha una certa libertà di parola, che è quasi un’isola in mezzo all’assolutismo che dilaga dappertutto, farà bene a mandare al governo questo monito e levare questa voce di protesta, perché non si continui in un sistema che può ripiombarci addietro almeno di quarant’anni. [Applausi].
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Prendo la parola soltanto per osservare che non si tratta, come ho accennato prima, di ordinanze, ma si tratta di circolari confidenziali che sono venute a nostra cognizione soltanto per la indiscrezione di qualche giornale e non del Trentino – e quindi la cosa è ancora peggiorata anche dal punto di vista della legalità. Esprimo ancora la mia soddisfazione per il fatto che tutti gli oratori che hanno preso la parola sulla presenta proposta l’hanno appoggiata e perché contemporaneamente è stata presentata anche una interpellanza nello stesso senso .
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Parte della dichiarazioni di S. E. il signor Luogotenente, in quanto siano prese come promesse e prospettive per l’avvenire, possono senza dubbio essere accolte con soddisfazione. In quanto fossero il riassunto di quello che è avvenuto, certo non potremmo ammettere che corrispondano a quello che è veramente accaduto nel nostro paese. Quindi io faccio voti che le intenzioni che sono state espresse, nella realtà si dimostrino anche attuate, e che nella prossima occasione in cui si possa ritornare sull’argomento, si possa anche dall’autorità dimostrare coi dati concreti che le intenzioni sono veramente state applicate e che ad esse venne corrisposto. A ogni modo non è qui il luogo di discutere il comunicato ufficiale; io mi limito ad esprimere la speranza che quelle prospettive che sono messe lì per l’avvenire trovino corrispondenza nei fatti, di modo che i lagni possano diminuire. È vero che non si è emesso un formale divieto di emigrazione, ma però di fatto, se le difficoltà date agli emigranti dai 17 ai 36 anni sono così forti che l’emigrazione è per le persone di quest’età impedita, si potrà dire che infine tali difficoltà equivalgono a un divieto generale dell’emigrazione. Perché è ben difficile che anche i nostri lavoratori si mettano in testa, dopo fondata la famiglia arrivati ai 37 anni, di andare nelle miniere d’America, per esempio, a sottoporsi a quegli enormi disagi. Io finisco raccomandando l’accettazione della mia proposta e raccomando al governo che venga tenuto conto del punto di vista che in essa è normeggiato, affinché in via d’ordinanze presidiali non si inasprisca il testo chiaro della legge, il quale dice che legittimazioni e passaporti si devono dare «nach nachgewiesener dringlicher Notwendigkeit» anche «über den Zeitpunkt der Hauptstellung hinaus» . Con ciò ho finito .
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21911-1915
Eccelsa Dieta! Parlai in prima lettura per tratteggiare in un quadro detto troppo fosco, ma che, malgrado le obbiezioni, ritengo preso dal vero, la situazione generale del nostro paese, come paese di confine di fronte all’organismo ed ai pesi militari, riservandomi di fissare poi nel corso della discussione, nella commissione e qui in seconda lettura nel pleno della Dieta l’atteggiamento del nostro partito di fronte al progetto concreto, che sta ora in pertrattazione . Nella commissione diffatti, in contraddittorio con parecchi signori e con i rappresentanti del governo, abbiamo avuto occasione di precisare nettamente il nostro pensiero. Lo riassumerò brevemente. Il progetto attuale è composto di una cifra secca e nuda e categorica, come un’operazione matematica. Vi si dice: È stabilito un aumento generale di 4580 uomini, e si invita la Dieta del Tirolo a fare le rispettive equazioni e a trarne le rispettive e doverose conseguenze . Noi ci siamo trovati di fronte ad altri progetti militari, e allora abbiamo potuto assumere un atteggiamento diverso, perché tanto nell’aumento del 1910, quanto nel progetto di legge sulla ferma biennale incontravamo una tendenza di rendere almeno meno gravosi i pesi militari, ritenuti inevitabili, e una diminuzione della durata di questi pesi, così che si poteva dire che, se abbiamo un regresso, un peggioramento in intensità, avevamo però un progresso, un miglioramento in estensione. E questa tendenza corrispondeva in genere al concetto moderno che si suole applicare nella legislazione. Perciò noi potemmo venir a patti con simili proposte. Ma qui invece in questo progetto concreto ci troviamo di fronte a una cifra nuda, a un aumento inesorabile, senza concessioni di sorta, così che sembra che questa legge rappresenti un ritorno al concetto antico di tributo, un abbandono di quella via, per la quale sembrava che si fosse ammesso, che di fronte ai doveri militari ci sono anche diritti e riguardi per la popolazione, di cui bisogna tener conto. Quindi per queste ragioni, per queste differenze in confronto di altri progetti, noi abbiamo preso un atteggiamento negativo. Ma c’è di più. Nel secondo capoverso del § 1 del progetto si prende addirittura un’ipoteca sull’avvenire. Il corrispettivo aumento generale non è fissato né da una patente imperiale a § 14, né da una legge, ma è semplicemente previsto nella patente imperiale, così che non corrisponde affatto a legalità, se la Dieta del Tirolo viene eccitata a occuparsi o a tirar le conseguenze non di una legge, che vuole fissato il contributo generale, come è previsto dalla legge militare fondamentale della provincia, ma di previsioni più o meno autorevoli. L’unica base legale che sta di contro a questo progetto del Tirolo è la legge ungherese. Ora domando, se questo povero privilegio tirolese è giunto al punto da dover essere gettato ai piedi del conte Tisza , forse in riconoscenza dell’atteggiamento che il conte Tisza avrà occasione in pochi mesi di prendere nella questione del compromesso ungherese e nelle questioni doganali che interessano certo molto anche la provincia del Tirolo. Abbiamo quindi fatto in tal riguardo la proposta sospensiva cioè, che questa volta non si votasse sul secondo capoverso del § 1, ma ci è stato risposto che qualunque siano le preoccupazioni d’indole teorica, veduta la cosa dal punto di vista pratico, meglio era addirittura inghiottire la pillola amara d’un colpo fino al 1918, senza che la Dieta ogni anno sia costretta a ritornare al triste passo. E fino a un certo punto si potrebbe anche esser d’accordo, se qualcuno dei signori rappresentanti del governo, dei signori rappresentanti dei partiti favorevoli a questa legge avessero comunque potuto prendere un impegno, che almeno fino al 1918 non ci venisse fatta una nuova richiesta di contingente militare. Ma quando io molto ingenuamente ho fatto questo accenno, ho incontrato, come è naturale, un sorriso di compassione. Oltre a questi motivi di carattere generali e intrinseci del progetto, vi sono altre ragioni che ci hanno mosso a un atteggiamento negativo, e in modo particolare quali rappresentanti del Trentino. Ho letto nei giornali di questi giorni ad Innsbruck che agli esami di maturità negli istituti magistrali si è dato come tema: «Tirol eine Festung». Non so come riesca la classificazione degli scolari che hanno fatto questo tema, ma so che se fosse dato da noi il tema: «il Trentino una fortezza», tutti piglierebbero eminenza. Con tutto ciò noi siamo tanti realisti da ammettere, che la posizione del nostro Trentino riguardo ai pesi militari, di fronte all’organismo militare dello Stato, è creata da destini storico-geografici, i quali risalgano ancora agli albori del sacro romano impero. E appunto per questo chiediamo che lo Stato nel suo atteggiamento di fronte agli abitanti del Trentino riconosca la particolar funzione per la difesa generale, i particolari servigi che il nostro paese con enorme sacrificio rende alla difesa dello Stato. Gli albergatori, i quali devono abbandonare l’industria, come è accaduto in luoghi di cura, che ho accennati nella prima lettura, perché vi vengono costruite caserme, i pastori che devono abbandonare i pascoli perché vi si fanno i tiri col cannone, i consumatori, i quali devono pagare di più i genere di prima necessità, perché il governo militare impedisce la costruzione di strade, tutti questi naturalmente sono dei creditori dello Stato, e tutto il nostro paese in tal riguardo diventa creditore dello Stato. Noi dobbiamo quindi conchiudere, e ognuno ragionevolmente dovrebbe ammettere, che a una politica militare improduttiva in paese di confine deve corrispondere come obbligo dello Stato una politica economico-sociale di ricostruzione. La vita moderna è movimento di libertà, e invece a un organismo moderno, economicamente e socialmente, come è il Trentino, si impone un’armature di ferro medievale, che lo opprime dalla cervice alle ginocchia. Ma, se non si provvederà ad aumentare la resistenza di questo organismo rinchiuso nel ferro, è chiaro che dovrà rimanere schiacciato. Sua Eccellenza il signor Luogotenente nell’ultima seduta ha avuto la bontà di ammettere, che i nostri contadini per le condizioni geografiche del nostro paese sono in condizioni da dover sentire con più gravezza che gli altri i pesi militari, e noi saremo grati a S. E., se a questo riconoscimento vorrà aggiungere anche la logica conseguenza, che è quella del dovere di compenso, di rifusione da parte dello Stato centrale, e se vorrà per questo dovere far propaganda presso l’attuale gabinetto, il quale sembra a tal concetto finora un po’ refrattario. Con ciò sostanzialmente avrei motivato l’atteggiamento preso dal nostro partito in questa questione. Come vedono i signori della maggioranza, io non ho fatto nessuna «tirade», nessun attacco, come prevedeva un giornale di Innsbruck, e benché i ricordi amari, trattandosi di una questione militare, vengano a frotte nella memoria, e sulle labbra si faccia un tumulto di frasi forti, io le ho respinte, le ho trattenute, da una parte perché sono troppo orgoglioso per incorrere nel pericolo dell’accusa d’una facile retorica, e d’altra parte perché i nostri argomenti sono troppo forti per aver bisogno di frasi forti. Ho evitato anche di richiamare in mio soccorso delle considerazioni d’indole generale, come ha fatto il signor relatore Schraffl, o in generale, le dottrine e i principi. Ho avuto occasione di ammirare nella biblioteca del palazzo della pace all’Aia la voluminosa letteratura pacifista, di cui conosco anche parecchi libri. Però io tra pacifismo e militarismo sono piuttosto per il realismo, per comprendere che non bisogna, o sarebbe inutile, cercare in quei libri gli elementi di criterio per giudicare una legge sull’aumento del contingente militare nella Dieta tirolese. Un’altra visione però ho ancora negli occhi dal mio viaggio all’Aia, al palazzo della pace: è la visione di una statua del redentore, che s’impone in mezzo al palazzo dell’istituto . Questo ricordo mi torna per affermare il dovere che secondo me ha ogni aderente a un partito cristiano, sia pure che per circostanze ineluttabili del momento voti in favore o contro un dato progetto di legge, il dovere cioè di cogliere tale occasione della discussione di progetti militari, per riaffermare la tendenza pacifica del principio cristiano, per richiamare i governi alla necessità della riforma sociale cristiana, perché a lungo andare gli stati non si puntellano sulle baionette, ma vivono solo col progresso economico e sociale dei popoli. Di fronte alla tendenza cieca in senso contrario che va verso il precipizio per sistema, e quasi godendone, pare a me che tutti gli aderenti al principio cristiano nella politica dovrebbero ripetere la parola e il monito che disse uno dei grandi politici cattolici, il presidente dei ministri bavarese conte Hertling a proposito di armamenti cioè: «Così, in questa maniera non si può più andare avanti» . Il signor relatore ha accennato anche a motivi di indole patriottica. Ora io ritengo che il voler tirare, il voler imporre come criterio dominante in tale discussione il patriottismo sia cosa anacronistica, perché il patriottismo di un corpo legislativo va senza dubbio concepito come un sentimento di corresponsabilità per l’amministrazione e la legislazione in genere dello Stato. Ora come sarebbe ridicolo che in Francia i radicali, perché la maggior parte di essi non è favorevole alla ferma di tre anni, vengano ritenuti come non patrioti, mentre venisse celebrato come solo patriota Ribot col suo ministero ; come è ridicolo supporre che in Italia l’attuale ministro della guerra Grandi nel gabinetto Salandra sia meno patriota, perché si accontenta di 194 milioni di spese militari invece dei 300 milioni che si dice abbia preteso il gen. Porro come sarebbe anche ridicolo e comico, (né l’ho mai sentito) che si porti in campo il punto di vista patriottico, quando i ministri delle finanze austriaci e ungheresi fanno resistenza alla domanda di aumenti di spese militari, o del contingente da parte del ministro della guerra; così credo che sarebbe fuori di posto di voler introdurre il criterio di patriottismo nel giudicare la misura, l’opportunità o meno di un dato aumento del contingente militare o di un aggravio militare qualsiasi. Noi reclamiamo per noi la libertà di giudicare questo progetto di legge semplicemente per ragioni intrinseche o oggettive. E quello che abbiamo fatto nella commissione e oggi a queste ragioni io ho accennato; e come nella commissione, così anche qui devo conchiudere per le stesse ragioni, che abbiamo deciso di votar contro. [Bene].
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21911-1915
La confisca in Germania È passato forse inavvertito un nostro telegramma che annunziava gli ultimi provvedimenti della Germania per assicurarsi i viveri. Eppure il nuovo decreto rappresenta forse il documento più importante di politica economica che ricordi la storia 1). Si tratta dell’espropriazione forzosa e generale di tutto l’impero germanico delle granaglie, cioè del frumento, della segala, dell’orzo e dell’avena. Tutti i proprietari di cereali sono obbligati a denunciare le loro riserve di questi cereali e a datare dal 1 febbraio lo stato le confisca, pagandole secondo la tariffa antecedentemente stabilita. Ai privati vengono lasciate solo quantità inferiori ad un quintale e inoltre alle aziende agricole quel tanto ch’è indispensabile per la semina. Intanto per impedire transazioni e sotterfugi all’ultimo momento il ministero ha già proibito qualunque affare commerciale in grano tra i privati a partire dal 26 m. c. Contemporaneamente si crea un particolare istituto di stato che provvede alla vendita delle granaglie secondo il bisogno e secondo la disponibilità. Ogni provincia distribuisce fra i comuni ed ogni comune vende ai privati, sempre proporzionalmente ai bisogni ed alla disponibilità. È un esperimento colossale e radicale di socialismo di stato. Per un momento, date le circostanze eccezionalissime, lo stato abolisce il commercio privato delle granaglie, e fino ad un certo minimo ne abolisce anche ogni proprietà privata. Non è questa l’ora di chiedersi quale esito avrà tale esperimento nuovissimo e quali ne saranno le conseguenze per l’avvenire. Certo se v’era un organismo che più d’ogni altro potesse correre il rischio di tentarlo è la Germania colla sua disciplina di ferro, colla sua omogeneità di volere e col patriottismo che in quest’ora tragica anima il suo popolo. Ed è certo ancora che per il momento, date le circostanze eccezionali, l’espropriazione apporterà subito un vantaggio, quello di escludere la speculazione privata i cui eccessi si fanno purtroppo sentire in altri paesi che si trovano in condizioni analoghe. Da noi il governo non sembra pensare a provvedimenti così radicali. Vero che tanto in Ungheria come in Austria si è preparata con due ordinanze la base, diremo così legale, per la requisizione, ma anche in Germania e già da tempo il diritto di requisizione era concesso alla Kriegsgetreidegesellschaft, istituto semigovernativo; ma la circostanza che, ciò nonostante, si credette opportuno di ricorrere al monopolio di stato fa ritenere che i provvedimenti che precedettero non ebbero l’efficacia voluta. Ora noi non possediamo gli elementi necessari per concludere se l’esperimento germanico sarebbe in genere consigliabile anche per il caso nostro e se, comunque, sarebbe giunto il tempo di applicarlo. Parlando in termini generali però abbiamo l’impressione ch’esiste nel pubblico un certo ottimismo non giustificato né giustificabile il quale forse nell’intonazione certo ottima di non allarmare viene coltivato dagli organi governativi e crediamo che quest’ottimismo possa recare dei danni e delle delusioni. Non siamo persuasi che i consigli e gli eccitamenti pubblicati dal ministero e dalle società economiche avrebbero maggior effetto se i fattori competenti dimostrassero la situazione qual è, non gravida, come informazioni pessimiste potrebbero far ritenere, d’immediate minaccie, ma seria e tale da esigere la costante e conseguente opera di tutti. Fino che c’è spensierato ottimismo, nessun risparmio, fino che manca un’opera vigilante ed organizzatoria, nessun’equa distribuzione secondo il luogo e la disponibilità. Pochi ed abili speculatori, ed alcune centinaia di cosiddetti «furbi» possono approfittare del bisogno di tutti. In tal riguardo ci sarà lecito, speriamo, d’aggiungere che anche una maggior libertà di stampa apparterrebbe a quei mezzi che sono atti ad influire in senso benefico, dando la parola anche al pubblico consumatore. 1) I decreti simili della convenzione francese e quelli del re di Piemonte nel 1815 non possono misurarsi colla portata e l’estensione di questi.
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21911-1915
La pretesa avanzata dal governo francese col suo atto e con le sue richieste è semplicemente assurda, come quella che mira ad imporre alla Santa Sede il riconoscimento esplicito delle ragioni della Francia ed a farla uscire dalla neutralità che essa, con alta sapienza e con senso di vero cristiano amore ha adottato. Il Governo francese manda a dire sostanzialmente al Papa: «Se il Vaticano riconoscerà che il diritto è dalla parte della Francia, autorizzerò la preghiera, altrimenti no». Quanto sia temeraria questa pretesa non v’ha uomo sensato che non veda. Benedetto XV ha già più volte e magistralmente illustrato la indispensabile neutralità della Chiesa, non nel senso che questa neutralità infirmi il diritto e la giustizia dove essi veramente si trovano, ma nel senso che, per mantenere integra la concordia religiosa anche fra i cattolici di nazioni l’una di fronte all’altra, e per affrettare quanto è possibile il ritorno della pace, la Chiesa debba astenersi, almeno per ora, dal pronunciare alcun giudizio, sopra le divergenze politiche degli stati belligeranti e sulla loro rispettiva azione. Né la pretesa del Governo di Parigi può aspirare ad alcuna attenuante nel far appello alla interpretazione data alla parola del Papa dal card. arcivescovo di Parigi e dai vescovi della Francia. Non abbiamo sott’occhio il testo di questa interpretazione e non possiamo giudicarne. Ma, qualunque essa sia, è ben chiaro che, pur nell’affermare le ragioni del patriottismo francese, essa non può estendersi fino a menomare il principio della neutralità adottato dalla Santa Sede per quanto la riguarda. Di guisa che, pur ammesso che l’episcopato francese, nel promulgare le disposizioni del Papa, auguri il trionfo della Francia, ciò non potrebbe mai aver significato di additare nel Vaticano una solidarietà politica, attuale con le ragioni della Francia. Il Papa è il Padre indistintamente di tutti i cattolici. La guerra che devasta l’Europa immensamente affligge il suo cuore paterno, ma Egli deve ricordare e ricorda che il suo più eccelso attributo è quello di Padre. E i cattolici di ogni nazione, pur conservando integro il loro patriottismo, hanno il preciso dovere di rispettare questa sua universale, altissima qualità, che è ancora pel mondo, di beni inestimabili, in mezzo alle lotte fratricide che funestano e devastano tante misere terre. L’atto stesso poi del sequestro risale al vecchio giacobinismo o ad una fondata paura che il pensiero della pace incondizionata, trovi facile terreno nel popolo francese.
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21911-1915
Molti lettori ci scrivono, muovendoci quasi rimprovero, perché tratto tratto li derubiamo di qualche colonna di giornale. Un abbonato tra altri che deve oramai aver fatto il calcolo in colonne e righe di quanto gli dobbiamo semestralmente, ci scrive indignato: oh non avete ancora capito che certe cose non vanno; perché cozzare inutilmente colla censura col bel gusto di soccombere giorno per giorno? Mettetevi una regola una volta per sempre e poi tirate dritto. [...] Bel tipo costui! Lo vorremmo vedere nei nostri panni. Come si fa ad indovinare quelle certe cose che non vanno? In sulle prime, quando abbiamo constatato ch’erano gli articoli o i commenti redazionali che non andavano, noi, con la mansuetudine e l’umiltà che consiglia il momento, ci siamo picchiati il petto ed abbiamo detto: Capito, siamo proprio noi fuori di strada, è la nostra penna che sgarra; quindi zitto, niente originalità, via la penna, qua le forbici e riproduciamo il pensiero degli altri. Giusto! siamo capitati peggio. Giorno sì, giorno no, urtavamo daccapo nelle cose che non vanno. Allora facemmo questo altro ragionamento: se non va lo scrivere di proprio pugno, se anche il copiare ci può far ricommettere i peccati altrui, proviamo a tradurre. Tradurre, s’intende, non dal francese o dal russo o da qualsiasi altra lingua nemica, ma dal tedesco, anzi dal tedesco austriaco di Vienna o addirittura dal tirolese. Ebbene il crederesti, o abbonato ingiusto e pretendente? Il periodo stampato e quindi lecito a Vienna, a Graz e ad Innsbruck, tradotto a Trento capitò fra quelle certe cose che non vanno. Non ci rimane quindi che affidarci completamente al criterio della censura. Noi lavoriamo e loro dispongono, a seconda delle disposizioni che quelle egregie ed ottime persone ricevono di quando in quando da chi dispone. Ce ne lagniamo noi? Dio ce ne guardi. La colpa infine è nostra che, dopo sei mesi, non ci abbiamo fatto ancora il callo e che abbiamo trasportato con noi in questa che fu detta la grande epoca, die grosse Zeit, le debolezze del tempo antico (oh! rimembranze lontane!), quando oramai ci si era attaccato addosso il vizio di pensare per scrivere e di scrivere per far pensare. Non bisogna disperare però. Colla pazienza, colla costanza abbiamo fiducia di arrivare a perdere le cattive abitudini. In quanto allo scrivere incominciamo di già a peccar meno e per il pensare vedrete che un po’ alla volta smetteremo anche quello. Allora, egregio abbonato, saremo in perfetta regola e Lei avrà tutte le sue colonne.
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21911-1915
Il Fremdenblatt scrive che nella conferenza dei ministri tenuta a Budapest si è arrivati a un chiaro e preciso risultato tanto per il problema dei cereali e delle farine, quanto per sapere l’ammontare dei depositi di vettovaglie nell’Austria e nell’Ungheria, come pure per la misura nella quale l’Ungheria è disposta a cedere all’Austria quel quantitativo che non adopera per sé. La conferenza dei due ministeri ha stabilito che usando una certa economia, e impiegando i surrogati più idonei, come orzo, mais e patate, le riserve esistenti in paese basteranno a nutrire sufficientemente la popolazione fino che sarà disponibile il nuovo raccolto. Il governo ungherese ha dichiarato di essere pienamente disposto a cedere all’Austria quelle vettovaglie (grani ed eventualmente farine) di cui non ha stretto bisogno; nell’Ungheria è già in pieno corso, anzi è presso al termine, l’inchiesta per accertare il quantitativo esistente. L’inchiesta fatta nell’Austria lo scorso ottobre per fissare il quantitativo è stata insufficiente, e quindi si rifarà presto una nuova inchiesta, che stavolta sarà condotta con maggiore energia tanto da dare risultati esatti e precisi, e per raggiungere tale scopo non rifuggirà dal minacciare la confisca di quei depositi che si tentasse di tener nascosti. Anche per i depositi privati delle famiglie si fisserà un limite massimo. Stabiliti che siano i quantitativi di granaglie nell’Austria e nell’Ungheria, si penserà a impedire la speculazione privata dei grani e delle farine, affinché a tutti sia data la possibilità comprarsene secondo il bisogno, a prezzi onesti. Basterà forse a tale scopo che sia proclamata la serrata (Sperre) dei depositi, cioè si proibirà severamente di trasportare da un magazzino all’altro tali depositi. Applicando la suddetta serrata, la amministrazione di tutti i depositi di granaglie e farine passa allo stato, il quale potrà fornire in via di requisizione il quantitativo di vettovaglie demandato dalle singole autorità amministrative, in base all’ordinanza sulle tariffe. Fra il governo austriaco e quello ungherese si verrà probabilmente a un accordo per il quale l’Austria comprerà dall’Ungheria quel quantitativo di provvigioni che le fa bisogno. La «Società per la compera di cereali» (Getreideeinkaufsgesellschaft) servirebbe allora a trasportare, verso equo compenso, le provviste dove ce ne sia bisogno.
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21911-1915
Ormai le funzioni della Settimana Santa sono compiute. Nelle nostre chiese stamane è risuonato il Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis; i nostri altari, smesse le gramaglie per la morte del Redentore, sono parati a festa per la solennità della Pasqua; le nostre campane da stamane suonano giulive a festa per annunziare alle genti la risurrezione dell’Uomo Dio. Nei primi tre secoli della Chiesa, l’Alleluia echeggiò nelle Catacombe; poi, dopo il decreto di Costantino, risuonò nei templi del vuoto paganesimo purificati e consacrati al culto cristiano; indi a pochi secoli, nelle maestose basiliche dal genio degli artisti innalzate come tributo di gratitudine al Redentore del mondo. E l’Alleluia risuona oggi così dalle alte torri delle cattedrali nelle popolose città, come dai modesti campanili delle chiese dei nostri villaggi, sparsi in piano e in colli e sugli alpestri gioghi. Fin nelle case più modeste, fin nelle famiglie dove è passata la folgore della sciagura, la Pasqua reca un po’ di sollievo e di conforto. Chi può esser sordo alla voce dell’amore e della speranza, mentre Gesù, compiuto il sacrifizio sublime, è risorto vero Dio e vero Uomo? Consolatevi o madri, o spose o sorelle! I vostri cari che sono caduti lontano lontano in Polonia, in Galizia, e nei Carpazi, senza che voi li abbiate potuti abbracciare non si sono spenti privi di conforto, poiché essi credevano in Cristo risorto e Cristo, accettando il loro sacrifizio, li farà un giorno risorgere per sempre al nostro amore ed alla gloria. Nel Signor chi si confida Col Signor risorgerà. E voi fratelli che vi trovate ancora a migliaia sul campo sappiate che in questo giorno solenne la nostra più viva preghiera, il nostro pensiero più ardente è per voi. Su voi vigila l’affetto del nostro paese che non dimenticherà mai il vostro sacrificio.
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21911-1915
Già in febbraio, quando in occasione dell’inventario generale delle farine il governo centrale stabilì provvisoriamente il massimo giornaliero di farina in 200 gr., abbiamo fatto rilevare ripetutamente e nelle forme più energiche consentite dalle attuali condizioni, che lo stabilire in via definitiva il massimo di 200 gr. per paesi che si nutrono prevalentemente di polenta, sarebbe imporre una limitazione impossibile. La stessa cosa venne rilevata da tutti i deputati popolari, radunati in convegno, e i nostri assessori di giunta richiamarono in iscritto ed a voce tutta l’attenzione dell’autorità rispettiva sulla gravità del problema. Ai 26 marzo tuttavia, finito l’inventario ed in base ai suoi risultati, veniva pubblicata l’ordinanza ministeriale che stabiliva il massimo di consumo in 200 gr. di farina per giorno e per persona (kg. 1 e 40 alla settimana). Si faceva un’eccezione solo per i «possessori di fondi agricoli», ossia per i contadini ai quali si riconosceva la necessità di un consumo maggiore, cioè di 40 gr. di farina al giorno in più (kg. 1 e 68 gr. settimanalmente). In base a quest’ordinanza ministeriale la luogotenenza del Tirolo fissò il massimo e combinò la tessera per la Provincia, non facendo purtroppo distinzione tra farina da polenta e le altre farine. In pratica, essendoché nel Trentino la tessera venne introdotta per intanto solo a Trento, Rovereto, Sacco, Riva, Arco, Romarzollo ed Oltresarca, nella maggior parte del paese non si sentì ancora in tutto il suo rigore l’effetto della limitazione. Ma lo si sentì tanto più nei luoghi ove venne formalmente applicata e da quella parte più bisognosa della popolazione che, in mancanza di riserve, deve ricorrere alla razione giornaliera. Queste povere donne, ridotte a far coda tutti i giorni per ore intiere innanzi alla porta del magazzino comunale, donde dopo sì lunga e travagliata attesa, escono con un sacchetto di farina, affatto insufficiente ai bisogni della famiglia numerosa, hanno dato ieri un qualche sfogo al loro comprensibile stato d’animo, mandando una deputazione in Municipio ed accalcandosi sotto sulla via per dare maggior rilievo alla manifestazione. Il Podestà ha potuto fare delle dichiarazioni tranquillanti. La Commissione d’approvvigionamento, nella quale lavorano con zelo i rappresentanti di tutti i partiti, aveva già chiesto telegraficamente il giorno 5 aprile alla Luogotenenza il permesso di aumentare la razione della farina fino al massimo concesso secondo l’ordinanza ministeriale ai contadini, cioè 240 gr. La luogotenenza non aveva ancora risposto, ma si sapeva esistere già la disposizione ad accogliere la domanda. In quanto ai magazzini sussisteva già il proposito di aprirne degli altri. Il Municipio farebbe il possibile; vedessero le interessate stesse di favorire i passi del Municipio presso le autorità superiori con un contegno calmo e dignitoso. Dichiarazioni simili ripeteva ai vari crocchi anche il cons. Avancini. Si dovrà anche convenire che la piccola dimostrazione ebbe di fatto un carattere assai tranquillo e se si considera l’urgenza del bisogno, lo stato dei nervi in un’epoca così travagliata, si dovrà ammettere che fu anzi una dimostrazione, se così si può chiamare, sommessa. I piccoli incidenti intervenuti e che finirono con cinque arresti dovuti più a bisticci che a baruffe colle guardie, i cui nervi pure sembrano risentirsi dei tempi, non hanno dato affatto il colore alla manifestazione. L’autorità di polizia ha fatto assai bene, anche per intercessione del Podestà e dell’on. Degasperi, a rilasciarli e sarebbe equo che si concedessero loro tutte le attenuanti. Sono lagni e postulati che sarebbe errore voler soffocare con misure repressive, al loro primo manifestarsi, anche se in un primo sfogo spontaneo non si rispettassero rigidamente le norme di legge. Noi confidiamo che le autorità siano invece persuase che bisogna fare ogni sforzo per venire incontro ai bisogni della gente più povera e che tale sforzo bisogna anche mostrare di farlo, perché niente è più triste nei deboli che il scuso fondato o infondato di essere abbandonati. Che siamo nel vero dimostra il fatto che al Ministero si sono prese già nuove disposizioni per i paesi consumatori di polenta. La luogotenenza è così in grado non solo di soddisfare alle richieste del Municipio fatte entro l’ambito dell’ordinanza ministeriale, ma prossimamente sarà in grado di concedere l’aumento della razione della farina gialla da 200 a 300 gr. Si può quindi ritenere che prossimamente e forse già domani il magazzino sarà autorizzato a dare per ogni tagliando di 200 un quantitativo di 300 gr. di farina da polenta. Il Municipio poi per conto suo sta provvedendo all’apertura di nuovi magazzini. Tranquillante dev’essere anche un’altra considerazione. Il Muncipio di Trento con molta saggezza ha provveduto a tempo, investendo circa 500 mila cor. in farine, risetta, patate e paste alimentari. Egli è in grado di vendere a prezzi molto più bassi dei negozianti (farina gialla 60 invece di 70, bianca 80 invece di 96, patate 14 invece di 20, paste 114 invece di 160, risetta 80 invece di 160). In cumulo le quantità esistenti sono tali da escludere per un periodo abbastanza notevole, se non sopravvengono altri guai, la mancanza della farina da polenta. È questa una ragione di più perché l’autorità politica provinciale favorisca coi suoi ordinamenti le previdenze del Municipio. D’altro canto la nostra libera coscienza di pubblicisti ci consiglia d’aggiungere una parola a quella autorevole del Podestà, per raccomandare nell’interesse nostro cittadino e di tutti la prudenza impostaci dal carattere eccezionale dei tempi. Oggi le manifestazioni pubbliche non vengono riguardate per quello che nei tempi soliti erano divenute, cioè uno strumento ordinario della politica o un elemento ormai normativo della vita pubblica. Incidenti del tutto personali, provocazioni o atti ritenuti tali, che provengono da un individuo isolato possono trarre con sé per la speciale psicologia che oggi domina – misure che pesano su tutti. Crediamo quindi che tutti i cittadini, i quali sentono la responsabilità dell’ora che corre, debbano contribuire oltreché a lenire le cause del disagio, ad illuminare anche il popolo, meno accorto, sopra gli eccezionalissimi rapporti che oggi possono sopravvenire tra una dimostrazione ed i mezzi per impedirla .
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21911-1915
Un gruppo di fuggiaschi trentini, il più lontano dalla patria, dispersi in uno dei più remoti angoli della selva boema, a breve distanza dal confine bavarese, è formato da 128 levicensi. Al trentun luglio anch’essi dovettero abbandonare la patria per prendere la via comune dell’esilio. Giunti a Schmelz, loro luogo di destinazione, furono collocati in stanzoni che in tempi più felici si chiamavano Tanzsaal e che ora formano l’abitazione dei profughi. Quelle sale però non potevano essere comoda abitazione a tante persone avvezze in patria non al lusso, ma a spaziosi e sani quartieri del nostro Trentino. Pensarono d’ingegnarsi, e, fatte rarissime eccezioni, ogni famiglia si prese un quartierino (la solita cucina che è stanza da letto, ripostiglio, ecc. ecc.) in Dreihacken dove possono frequentare la Chiesa e provvedersi del più necessario per la vita. Qui si sta tutti bene e si potrebbe essere più contenti se non ci fosse il pensiero della patria che tormenta.
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21911-1915
Dai confini della Sassonia e della Baviera Ai 17 ottobre, trasportati dall’Ungheria, giunse a Eger il primo drappello dei nostri fuggiaschi. Vennero alloggiati in quelle viuzze fredde ed oscure che sboccano sulla piazza attorno alla casa del borgomastro Pachebel, ove cadde Wallenstein trafitto dalla lancia di Deveroux . Questa parte della cittadina, che va fino alle rovine della Kaiserburg, ove s’impongono alla memoria altri ricordi, da Barbarossa che innalzò la torre con enormi blocchi di lava, alla tragedia della sala de’ cavalieri, in cui vennero trucidati i generali del duca di Friedland, mantiene un’impronta triste e quasi tragica. Ignare della storia, la sentono tuttavia anche le nostre emigrate, che chiudono talvolta gli occhi innanzi a queste mura annerite e a questi tetti coloriti di perso e di sanguigno per pensare alla verde marina di Pola o di Rovigno ed al sole che splendeva sulle rive del patrio Isonzo. Ma del resto ne hanno passate tante in Ungheria, che qui – poiché l’esilio è necessario – si trovano ancora contente e lodano il buon cuore degli egeriani e la provvidenza dell’Autorità capitanale. Soltanto, signore, ripetono tutte, ci vorrebbe della «farina da polenta»! Polenta! Quante volte girando di distretto in distretto, sento ripetere questa parola con accento d’affetto antico e d’invincibile desiderio. Quante volte ho visto le nostre donne agitare disperatamente le braccia, perché dal negoziante non si trova farina, o perché nella piastra del fornello non c’è il buco per immettervi il paiolo o perché infine non c’è in tutto il villaggio, in tutto il distretto un paiolo qualsiasi, e a domandarlo, provoca un sorriso di stupefazione! Benedetta polenta! E pensare che per tanti anni l’abbiamo sospettata come un amico infido, che l’abbiamo sorvegliata, analizzata, disseccata, sequestrata, distrutta ed a lei abbiamo attribuiti il novanta per cento dei malanni della nostra generazione . Ora la polenta si vendica! Ora che migliaia di bocche la chiamano e la vogliono, essa non si lascia più trovare: qui e là in qualche botteghino si scopre ancora un chilo di farina gialliccia, ma proprio in quel paese manca il previdente che abbia portato con sé lo strumento indispensabile e meraviglioso, in cui la polenta nasce, si forma e si fa perfetta, fino alla scodellazione. Peccato, oltre che per la ragione più evidente, anche per un’alta ragione di pedagogia sociale. Quante massaie tedesche o boeme vorrebbero apprendere il mistero di quest’arte culinaria, così difficile nella sua semplicità! Quante signore dell’aristocrazia, quante mogli dei notabili della città e del paese, che tentarono di introdurre in casa la polenta per darne esempio alla popolazione dovettero abbandonare l’impresa, disperate di non poter ottenere, mescola che ti mescola, nient’altro che mamaliga, sterzo, broda o focaccia. Ebbene, quale compito potrebbe soddisfare maggiormente il nostro orgoglio nazionale che quello di diventare, fra le più diverse nazioni, maestri della polenta? Mandate farina, dunque, mandate farina! abbiamo detto alle autorità competenti di Praga e di Vienna . Ché, per conto nostro abbiamo già fatto il proposito di emendarci, e quando verrà la pace, quando i nostri uomini, rimessa la spada, impugneranno il matterello avito, ed attorno al focolare domestico tornerà a spandersi il delizioso profumo della polenta vicina alla cottura, intoneremo tutti il patriarcale «salve o polenta» con ben altri sentimenti che quelli della spensieratezza passata. Ma to’, ora m’avvedo d’essermi lasciato trascinare ad una digressione alquanto lunga. Ma la lingua batte ove il dente duole. Continuiamo dunque la nostra visita al distretto di Eger. Nella città stessa, come accennai prima, i 99 profughi sono tutti del Litorale. In Franzensbad invece, 34 sono friulani o istriani e 67 trentini, arrivati di fresco, ai 23 c.m. Altri 58 sono suddivisi nelle case di Oberlohma e Oberndorf, due comuni che costituiscono oramai due sobborghi della città di Franzensbad. Da Eger a Franzensbad la ferrovia è già in amministrazione germanica. Franzensbad, come Marienbad, è una città, che, per dir così passa l’inverno aspettando l’estate. Ora è in letargo, qualche ospitale militare ed i nostri profughi sono i soli estranei che ne rendono il sonno meno profondo del solito. Attraverso viali e giardini, scintillanti di neve, e prendo a destra per la Karlstrasse, una bella via larga, fatta d’edifici nuovi e con tanto di scritte e mi fermo avanti un palazzotto che porta il nome di Parsifal. Indovinate chi trovo dentro: i profughi di Pannone, gli ultimi venuti col loro curato Don Placido Pasqualini . Stanno ancora a metter regola nelle loro nuove dimore, chi a rizzarsi un letto, chi a costruirsi una banca, chi a distendere il misero bucato, chi a far pulizia. Ma, in sostanza, sperano di accomodarsi benino. Naturalmente più d’una delle nostre donne s’è messa subito in testa, dal momento che sono a Franzensbad, di bere le acque per fare la cura. Io ho espresso il dubbio che le acque ferruginose o alcooliche, senza l’accompagnamento possano sortire un buon effetto. Non mi sembravano persuase. Ma se n’accorgeranno, quando, bevendo l’acqua, crescerà l’appetito, una conseguenza che non sta in alcuna armonia colla sovvenzione giornaliera di 90 centesimi. Nei nostri tempi la «cura» più consigliabile è quella di mangiare per vivere; quando tornassero i tempi antichi, allora vi potrete di nuovo concedere la «cura» di vivere così da poter mangiare. Ma non occorrerà Franzensbad: basterà Levico!
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Quando il treno dei profughi entrava lentamente nella stazione di Braunau, non erano che le 5 di sera, ma già la nebbia vischiosa che nelle giornate di dicembre si leva dalla corrente dell’Inn si era congiunta ed addensata colle umide emanazioni di quella vasta «savane» che si stende dalle ultime Alpi fino alla frontiera bavarese e i rumori e la fioca luce del giorno cedevano l’impero al silenzio della lunga notte invernale. Scarsi fanali rischiaravano tratto tratto la via fangosa che dalla stazione si abbassa verso l’accampamento, quando la turba dei nostri emigrati vi s’incamminava verso le nuove dimore. Venivano prima le nostre popolane, avvolte le spalle ed il capo chi in uno scialle, chi in un cencio qualunque e portavano le loro creature, trascinandosi dietro i più grandicelli, che avvinghiati alle vesti delle loro madri, allungando il passo nelle pozzanghere facevano schizzare il fango e l’acqua sporca nella faccia e negli occhi di chi seguiva. Erano costoro i fanciulli ed i ragazzi più grandi, che curvati sotto un baule o il sacco dei cenci e delle masserizie famigliari non potevano proteggere il viso dalle ingiurie della fanghiglia e se ne rifacevano, mandando fuori tratto tratto qualche imprecazione che interrompeva l’affaticato silenzio di quel convoglio. In coda seguivano più stentatamente i vecchi, aiutandosi con un bastone o con un ombrello centenario, mentre col braccio destro stringevano al fianco qualche cencio infagottato malamente. Chiudeva il convoglio un carrozzone, trascinato da due ronzini, in cui l’amministrazione del campo aveva ricoverato i pochi vegliardi, le cui membra non sorreggevano più oramai il peso degli anni. Fra una generazione e l’altra Camminando più lestamente sul margine della strada, arrivai in mezzo alla triste processione e mi v’intruppai, quando mi vidi a fianco un gruppo di uomini giovani che andavano avanti chi zoppicando chi con un braccio legato al collo, chi nascondendo nelle pieghe del tabarro un glorioso moncherino. Mi prese allora una stretta al cuore e vergognandomi di far parte a me stesso, offersi il braccio ad un invalido che vi si appoggiò ringraziando. I giovani del suo gruppo erano quasi i soli che rappresentavano nel mesto convoglio la nostra generazione: i Superarbitrati come lui avevano tutti visto le steppe delle Russie ed erano stati rilasciati, dopo aver compiuto fino all’invalidità la loro opera sanguinosa. Si marciava così con davanti le madri, che portavano i loro bambini ed in coda i vecchi che seguivano a stento: si camminava fra l’avvenire ed il passato, fra le speranze ed i ricordi, fra la generazione che dopo la guerra costruirà un nuovo mondo e quella che sta chiudendo oramai il suo corso nell’agonia della vecchia Europa che muore. Chi saprà descrivere lo stato d’animo di questo corteo notturno? E che gioverebbe infine fissare quest’attimo psicologico nella film vertiginosa di codesta guerra immane che in un’ora ci fa vivere cent’anni della vita ordinaria, quale s’è svolta dalla nostra infanzia? Ma un triste episodio mi ha fatto troppo pensare, perché non vi accenni almeno fuggevolmente. Ad una svolta la turba degli emigrati prese a sinistra ed abbassandosi alquanto dal livello dello stradone erariale discese nell’accampamento. Un soldato colla baionetta inastata segnava il termine iniziale, la via s’affondava poi nel fango tra baracche di cui non si scorgevano che i lumi; sulla nostra destra un chiarore più intenso ed il battito regolare di uno stantuffo indicano la centrale elettrica del campo di Braunau. Ma la via si fa sempre peggiore; lo sgelo improvviso dopo il freddo intenso dell’ultima quindicina il quale ha impedito che si provveda all’inghiaiamento delle vie ha trasformato tutto il campo in una maremma. Vi si affonda fino al ginocchio e lungo l’ultimo tratto di cammino le esclamazioni e le imprecazioni spesseggiano. Ad un tratto il carrozzone in coda al corteo si arresta nella gora melmosa. La frusta sferza le spalle dei poveri animali, il cocchiere incita e urla, ma la carcassa pare si sia adagiata nella melma con tutto il suo corpaccio. Allora un impiegato si volge ad alcuni profughi, già ospiti del campo da giorni e che stanno a guardare sulle soglie delle baracche e grida loro che vengano a dare una mano. Accadde allora questo: ai replicati incitamenti nessuno si mosse, e si svolse rapidamente il seguente dialogo: Venite, aiutateci, sono dei vostri, sono ammalati! Ammalati? Tutti siamo ammalati. Tiratevi d’impaccio voi! E dovemmo metter mano noi alle ruote e spingere con grande fatica i poveri vecchi verso la baracca del loro destino. Forse qualche impiegato che conosce meno la psicologia popolare, sarebbe in questo momento ricorso alla forza, avrebbe comminato pene severe. Il nostro si accontentò di gridare: vergogna! ed appoggiò le sue spalle nel fianco della carrozza sprofondata. Gli altri scomparvero nella penombra della baracca e nessuno si curò di sapere il loro nome. Che importa infatti il nome, quando essi sono i rappresentanti di quella psicologia generale che deprime nei primi giorni la vita dell’accampamento? È un certo ostruzionismo che invade tutti gli animi nei primi giorni, una sorda resistenza che indurisce il cuore e pare geli ogni sentimento. Ma non bisogna disperare. Questo stato d’animo è passeggero. Quando i profughi comprendono che le «baracche» non sono né un capriccio né una tortura, inventata per crudeltà od insania da una determinata pesona, che bensì potranno rappresentare un provvedimento erroneo, ma che in ogni caso, le persone che del campo sono gli ordinatori, fanno ogni sforzo per trarre dalla situazione enormemente difficile il meglio possibile, quando vedono ch’essi stessi impegnano le loro forze per rimettere in movimento il veicolo della loro ascesa sfortunata, i cuori si sgelano e la generosità innata del nostro animo popolare rimetterà in attività tutte le forze fisiche e morali di cui è capace. Così quando la turba si disperse, secondo l’avviso degli ordinatori, nelle nuove dimore, 20 o 100 per camerata, a seconda della capacità delle baracche, e le donne adagiarono sui letti le loro creature ed i ragazzi si alleggerirono dei loro pesi, disponendoli per ordine sui soppalchi tra i letti e i vecchi trovarono le stufe calde, pronte a riconfortare le loro membra, i visi di tutti i poveri profughi andavano spianandosi e rischiarandosi. Qualcuno, venendo dalle cucine, raccontò che v’erano le suore canossiane di Trento, qualche bambina corse anzi a dire alla mamma d’aver riconosciuta la suor «tale» o la suor tal’«altra»: e i ricordi ricondussero nell’animo come il conforto della patria. La minestra che venne presto scodellata parve meno la minestra dell’esilio, e i profughi si accinsero più rassegnati a coricarsi sul loro pagliericcio. Presto un mormorio leggero di voci infantili vennero allargandosi ed ingrossando per tutta la baracca e la preghiera dell’esule si levò invocatrice. Ad un tratto un bambino, inginocchiato presso una finestra grida: Mamma, la campana! E nel silenzio, invocato da quel grido, uno squillo argentino che non viene molto da lontano si fa sentire. È la piccola campana dell’accampamento che suona l’Ave Maria! Non so se ho mai compreso Schiller, Chateaubriand, Lamartine, Carducci, come in questo momento. Ogni fremito di questo pio bronzo fa trasalire il nostro animo di una commozione confortatrice, in cui tutto si fonde: il ricordo del luogo natale, le gioie ed i dolori della casa paterna, la culla, la tomba, tutto il passato, tutto l’avvenire. Dormite in pace, o profughi del mio paese. Iddio onnipotente ci ricondurrà presto nella terra dei nostri padri, a sentire ancora le campane della nostra infanzia. Chi allora vorrà più negare obbedienza alla loro voce ed al loro richiamo? Com’è fatto l’accampamento Per abbracciare collo sguardo tutto l’accampamento di Braunau bisogna attendere che i deboli raggi solari abbiano diradata la nebbia, cioè a mattino avanzato. Si vede disegnarsi allora nel morbido sfondo della prateria un quadrilatero irregolare, stretto fra due linee principali che sono, a sud, lo stradone erariale, a nord la corrente dell’Inn. L’entrata, la porta praetoria, direbbe Polibio, si apre appunto sullo stradone e da essa fino in fondo attraversa il campo quasi diagonalmente la via principalis. Ma vedano i lettori di non lasciarsi indurre dalle mie reminiscenze ginnasiali ad imaginare una specie di castra hibernia degli eserciti romani. Il campo di concentrazione attuale non ha nulla della robusta solidità dei campi romani, sulle cui basi sicure sorsero poi celebri città del Reno o del Danubio. Attorno, attorno, invece dei valli, un semplice reticolato e, dentro, delle case di legno, tutte uniformi, tutte bianchicce, le cui linee si congiungono in due soli angoli, cioè di 90° o 120°. Entrando, incomincia a destra la lunga serie di magazzini, la macelleria, la panetteria, a sinistra si protende fin quasi all’Inn la sezione degli ospitali. Sono queste otto baracche, più l’ambulatorio, più la cucina, le quattro prime ospitale ordinario, le quattro ultime riparto delle malattie infettive. L’igiene sta agli ordini del Dr. Bresciani, il quale cura specialmente la prima sezione dell’ospitale; mentre alla seconda è adibito il Dr. Pisetta. Queste baracche sono ricoperte interamente d’eternite ed in genere di una costruzione speciale. Qui non si è risparmiato né in spazio né in comodi, ed il medico in capo mi mostra con sodisfazione le ampie e lucide sale, gli stanzini da bagno ed i vari riparti, in cui gli ammalati, giacendo in nitidi lettini, esprimono nella compositura del viso la loro gratitudine. I malati per fortuna non sono tanti. In una stanza c’è un nugolo di bambini convalescenti, che quando scorgono il buon dottore col camicione bianco gli gridano in coro e a squarciagola, come hanno loro insegnato: «Buon giorno, sior dottor!»; in un’altra una tenera e leggiadra fanciulla che rifiorisce a vita novella, dopo aver superata la difterite. All’ambulatorio venne annesso provvisoriamente, il reparto delle partorienti. I figli dell’esilio verranno subito accolti da braccia amiche. Governano gli ospedali, aiutate da infermiere, le brave suore del Noviziato che finora curavano i ricoverati di Arco nella città di Braunau. Nell’ambulatorio stesso troviamo il medico condotto delle baracche, medicus baraccarum, il Dr. Largaiolli, e in un edifizio strano non molto lungi, con un certo fumaiolo di mattoni, scoviamo il quondam medico d’Albiano. – Ehi, dottore, che ci sta a fare in questo forno?, gridiamo a lui che sta manipolando non so che leve o stantuffi. Ed egli molto pulitamente ci spiega che quel forno è l’inferno dei parassiti, alle pene mortifere del quale vengono condannati tutti i pediculi capitis o vestimentorum, che i profughi hanno raccolto girando mezzo mondo e sono venuti poi a depositare in questo luogo di purgazione. In quell’inferno fa caldo fino a 120°. Ritornando sulla via principale, vediamo a destra le due grandi stalle per le mucche dell’accampamento. Bestie preziose quanto mai in questi momenti difficili! La previdenza del luogotenente di Linz le è andate a prendere […] affinché venissero a riconfortare del […] latte i figli degli emigrati. Povere bestie sono esuli anch’esse! Arrivarono bene in carne e copiose di latte, con negli occhi ancora tutto il pacifico riflesso degli sterminati piani erbosi, cui […] bagna e ravviva, ma ora ruminano con evidente disgusto la pastura continentale e riducono… la fornitura del latte. Pochi passi più innanzi, ma a sinistra, ecco un palazzotto di legno a due piani: è la baracca dell’amministrazione. Gl’impiegati però non vi risiedono ancora, perché internamente mancano molte cose. L’ufficio è aperto per intanto, poco più sotto, in una sede provvisoria. Quelle due stanzette sono nello stesso tempo il praetorium, il questorium ed il forum del campo. Mentre il direttore vi dà ordini, studia la questione dei commestibili e dei combustibili, il vicedirettore sottopone varii incriminati ad una procedura spiccia, in base ai rapporti dell’ispettore di polizia, signor Parisi. Si tratta in genere di crimini contro l’igiene pubblica. In un campo diventa cosa pubblica non solo il mangiare, ma anche il digerire. La vertenza fu ritenuta sempre di tale importanza, che Mosè vi dedicò un articolo delle sue leggi quando ordinò agli israeliti, accampati nel deserto, di uscir fuori per quella tal bisogna dalla cinta del campo, prendendo seco quel tal bastoncino, e Napoleone dettò di sua bocca uno statuto per i luoghi di decenza del campo di Boulogne. A Braunau l’unico comandamento è quello di tener pulito, cosa tuttavia non facile, quando si pensi, che se la canalizzazione è magnifica, le stazioni invece che ci vennero costruite sopra in forma di capannucce nere, più che a far il suo comodo, sembrano destinate alla tortura. Ma procediamo verso il centro dell’accampamento lasciando a sinistra l’ufficio postale, la cantina, il negozio di commestibili e le scuole, non ancora aperte, e sulla destra le officine, la macelleria e la lavanderia a vapore, in cui si stanno appena impiantando i macchinari, ed eccoci innanzi al corpo principale delle baracche. Sono un centinaio, messe tutte da est ad ovest, colle porte verso mezzodì. Ogni otto stanno come all’ordine di una baracca-cucina. Guardandole nella loro uniformità, vien fatto di pensare che la vita sarebbe ben vuota, noiosa, malinconica, se le abitazioni dell’uomo fossero stabilmente così. Appena ora sentiamo qual parte abbia assunto la pietra ruvida o levigata, la pietra massiccia, con cui i nostri vecchi innalzarono la casa paterna, creando attorno al nido famigliare quasi una fortezza, che ci difendesse dalle bufere della vita. Qui ci manca la verità della materia edile e la sua varietà. Penso che i profughi dopo il ritorno, ameranno con maggior intelletto il loro povero balcone fiorito, il ridente poggiuolo, per quanto sgangherato e quelle scale di pietra, su cui ogni generazione ha segnato il suo passaggio e la sua memoria. E penso anche che qui apprenderanno ad amare con affetto più cosciente le torri della loro città e il campanile del loro villaggio, che si eleva come un indice a mostrare il cielo. Come sarebbe infatti maggiore qui l’oppressione, come sembrerebbe insopportabile la bassa uniformità di codesta città di legno, se nel mezzo del campo non fosse sorta la chiesa col suo campanile. Essa sola può dotare l’accampamento di un centro morale e trasformare la caserma in comunità. Qui si danno convegno tutti i dolori, tutte le rassegnazioni, tutte le speranze, e, sia per un’arcana reciprocanza e per la comunione della fede durante la sommessa preghiera con cui ognuno accompagna il sacerdote nel sacrifizio divino, sia nel canto comune degli inni tradizionali, è l’anima del popolo che qui si plasma e rivive, l’ecclesia degli spiriti, che poi continuerà ad agire anche fuori di queste pareti. Sull’altar maggiore un Cristo di legno, sugli altari laterali una Vergine e un S. Giuseppe, due quadri che lo zelo dei nostri sacerdoti ha preso a prestito da chiese più ricche. Tutto è semplice, tutto è povero qui: ma quando abbiamo letto il motto di S. Paolo, che Mons. Parteli ha fatto scrivere sul pulpito, ci è parso che nella semplicità della forma risaltasse ancora più la magnifica ricchezza di una dottrina: Nos autem praedicamus Christum crocifixum! Il ventre della città di legno Ed ora dovrei dirvi del «ventre» della nuova città, parlarvi cioè dell’approvvigionamento. E qui per togliere ogni malinteso, conviene premettere che non intendiamo occuparcene con spirito critico. Partiamo semplicemente dalla premessa di fatto che il Governo ha creduto opportuno di concentrare i profughi in accampamenti, senza esaminare per conto nostro se le tendenze economiche del periodo che attraversiamo possano consigliare la concentrazione in massa dei consumatori. Il quesito che si presentò a Braunau fu questo: Come nutrire i profughi con una spesa massima di 90 cent. al giorno, calcolando anche nella spesa la regia ed un certo guadagno commerciale della società fornitrice dei viveri? Ne risultò una lista cibaria, costituita la mattina, di caffè nero, a mezzogiorno di una minestra d’orzo, di patate e fagiuoli o di paste e di un legume, a cena di una minestra, come sopra e di 290 gr. di pane; oltre a ciò due volte alla settimana 180 gr. di carne e il venerdì invece della minestra ed il legume 150 gr. di polenta e 90 gr. di formaggio. Ma già nei primi giorni l’applicazione della lista trovò grandi difficoltà. Sopravvennero anzitutto alcuni incidenti iniziali. Le patate agghiacciarono nel magazzino, cosicché nelle cucine per ottenere un sacco di patate commestibili se ne dovevano scernere 5, 8, 10 fino a 15 sacchi. Bisognava vedere la disperazione del buon direttore e delle brave suore canossiane che sovraintendono alle cucine, per comprendere quanto sia terribile la lotta contro simili incidenti, quando si abbia la coscienza della propria responsabilità e si senta fuori il mormorio della folla che chiede da mangiare. Un’altra volta parecchie infornate di pane andarono a male. Ma questi infine furono incidenti passeggeri. Peggiore invece è il fatto che la lista non poté applicarsi nella sua varietà di minestre ed appressi per la mancanza di certi generi o per una interpretazione rigorosa delle attuali disposizioni sui cereali. Il decreto-legge dei 26 marzo stabilisce infatti che ogni persona possa consumare soltanto 200 gr. di macinati (polenta e orzo compresi). Ora i 200 gr. legali sono già contenuti nei 290 gr. di pane, cosicché consumato il pane, non si può più consumare né orzo né polenta. Di modo che, per via d’eliminazione, la lista cibaria dovrebbe ridursi, in quanto a legumi, a patate e fagiuoli. Accenno a tale difficoltà per affacciare alcuni problemi, di cui si sta cercando una soluzione. Viene da sé che la loro gravità non è se non in rapporto alla situazione generale. Nessuna meraviglia se i profughi, che badano sovratutto al loro stomaco, si lagnino di codesto nutrimento uniforme. Ma d’altro canto si noti subito il grande vantaggio che ha Braunau sugli altri accampamenti nell’avere nei direttori e nelle suore persone che conoscono i gusti e le abitudini del paese. Essi proposero la suddivisione della razione di carne invece che in due giorni della settimana, in quattro, cosicché per quattro giorni i profughi ricevono il brodo e circa 90 gr. di lesso. Non è molto ma in questi tempi non è nemmeno poco. Oltre a ciò i bambini sino a 2 anni ricevono 1 litro di latte, e da 2 a 4 anni ½ litro di latte al giorno. Certo che bisogna riformare e migliorare ancora per poter raggiungere uno stato di cose permanentemente tollerabile. I profughi di Braunau contano in riguardo assai sulle paterne e benevoli disposizioni del signor luogotenente e la collaborazione del comitato. Ma ora m’avvedo che il desiderio di giovare mi trascina fuori delle linee obiettive della descrizione. Vediamo dunque come funge questo meccanismo comunista. Il campo di Braunau è costruito per 12 fino a 15 mila persone, ma il primo esperimento s’è fatto con 5327. Il magazziniere generale ha quindi l’ordine di far tenere alle cucine i viveri necessari per l’indomani, secondo le quantità previste dalla lista. Ed ecco, per esempio, quello ch’egli deve far condurre in un giorno «di magro» (secondo le disposizioni civili) dai magazzini della società d’approvvigionamento fino alle cucine. Pane 5327 porzioni (¼ di pagnotta per ciascuno). Caffè coloniale kg. 26.63, caffè Frank kg. 15.98. Zucchero kg. 85.23. Fagiuoli kg.117.94. Patate kg. 799.05. Lardo kg. 63.92. Burro kg. 42.61. Sale kg. 90.56. Pepe kg. 1.06. Cipolle kg. 15.98. Aceto kg. 53.27. Paste kg. 266.35. S’aggiunga inoltre che bisogna provvedere giornalmente al combustibile, al latte, agli ospedali e si avrà un’idea di quello che consuma un accampamento di sole 5 mila persone. Tre volte al giorno i capi di ogni sezione e i capisala si presentano alle cucine a prendere in consegna le razioni che distribuiscono nelle varie baracche. Vi lascio imaginare i discorsi, i commenti, le chiacchiere, quando in mezzo a quel formicolaio di donne, di vecchi e bambini si procede alla… dosatura! Intanto per caratterizzare questo comunismo di stato nel secolo XX, lasciandone la critica ad altri tempi, fissiamo questi tre punti, che paiono riassuntivi. Le tendenze attuali del mercato dei viveri sono contrarie alla concentrazione ed alla vendita in massa. Le difficoltà ed irregolarità dei trasporti inaspriscono ancora tali tendenze. L’approvvigionamento in comune sotto il controllo dello stato porta con sé l’applicazione severa e forse l’unico caso di applicazione integrale delle ordinanze che riducono al minimo indispensabile il consumo dei viveri. I profughi trasportati dalla diaspora, ove godevano ancora della situazione privilegiata che, nonostante le disposizioni più severe, mantiene il villaggio dei produttori, nell’ambiente artificiale di una città organizzata di soli consumatori, non sanno comprendere il nesso e le conseguenze inevitabili del fenomeno e si trovano quindi anche psicologicamente in uno stato morboso. Perciò mentre i fattori responsabili sono tenuti ad attenuare le conseguenze dei due primi fatti economici, i sacerdoti, i maestri e tutte le persone d’intelletto e di cuore che prestano la loro opera nell’accampamento sono chiamati a consigliare, ad istruire, ad ammonire, affinché i profughi in un progressivo adattamento psicologico ad uno stato di cose inevitabile trovino la forza di collaborare essi stessi al migliore ordinamento della nuova vita in comune. Nel qual proposito ci si permetta di finire qui con un appello che il delegato del comitato centrale dirigeva alla vigilia delle feste di Natale ai profughi di Braunau, costituendovi il comitato di soccorso. «Sovratutto ricordatevi che, siate di Rovereto, di Levico, di Folgaria, di Trento o di Val Lagarina, vi dovete sentire tutti fratelli e che oltre il soccorso dei buoni, altra forza non v’è, che possa giovarvi a contrastare la tristezza dei tempi e ad addolcire una vita di privazioni se non la carità fraterna. Che se, passato il tempo dell’esilio, ritornerete in patria, stretti da nuovi e più perfetti vincoli di fratellanza cristiana, riporterete nel nostro paese maggiore ricchezza di quella che vi abbiate lasciata».
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Attraversando Pilsen la mattina verso le 7 vi par di trovarvi in mezzo al tumulto industriale di una grande città americana. Treni e tramvie arrivano da tutte le direzioni e vi riversano migliaia e migliaia d’operai e di lavoratrici, centinaia di sirene stridono nell’atmosfera umida e greve e par che gemano, implorando più aria e più luce, mentre accanto a loro altrettanti camini accumulano in alto ancora più vapore ed un fumo più nero. Il treno si avanza pigramente, quasi per difficoltà di respiro, e tratto tratto i vetri dei carrozzoni e le facce dei viaggiatori che stanno a guardare si arrossano d’un riflesso sanguigno, mentre dinanzi, per un attimo, appaiono spalancate le voragini di fuoco delle ferriere e, come un immenso cratere in eruzione, le officine dello Skoda. «Sudate o fuochi a preparar metalli!» Al di là di Pilsen, nella direzione di Praga, il paesaggio mantiene ancora per un buon tratto il suo carattere prevalentemente industriale e lungo la linea ferroviaria sorgono i fumaioli delle ferrovie, delle vetrerie, delle ceramiche, delle fabbriche di macchine, di vagoni e di tessuti a segnare che la grande industria boema ha trovato modo di vivere, nonostante la guerra anzi d’intensificare la propria attività, modificandola. La stessa impressione ebbi discendendo da una stazione del distretto di Rokitzan, ove sono ricoverati alcuni valsuganotti. Così colla mente tutta presa da quella febbre intellettuale che produce la grande industria moderna, entrai in una vecchia fabbrica, abbandonata, messa a disposizione dei profughi. È una sala ampia, ma umida, perché rasente terra e non molto lucida, perché le finestre sono munite di grosse inferriate. I più vecchi dei nostri valsuganotti giacevano ancora sul pagliericcio e una dozzina di bambini ruzzolavano, cogli occhi ancora semichiusi, da un giaciglio all’altro, attendendo la colazione che le mamme stavano preparando attorno ad un fornello, assai malconcio e quindi assai fumoso. Come al solito venni accolto in sulle prime da facce attonite, rispettose ma quasi indifferenti, come di persone avvezze alle viste di simili signori, i quali vengono, guardano, parlano tra loro una lingua sconosciuta e se ne vanno non si sa con qual risultato e lasciando indietro più che la speranza del giovamento un certo senso di stizza perché non s’era potuto capire né sfogare la piena del proprio cordoglio. Ma poi il saluto nella lingua materna produce il miracolo d’una trasformazione straordinaria, negli occhi, nei lineamenti del viso, nell’atteggiamento, nella messa in scena di quello stanzone, ove perfino quei frugoli della generazione ventura, sospendono le loro capriole e mi stanno a guardare coll’occhio acceso e l’indice in bocca. Questo mutamento di scena si ripete dappertutto e in verità se avessi la penna di Dante, mi pare ch’esso meriterebbe per la medesima significazione miglior ritratto che l’episodio del «mantovano». Ma questa volta fermai l’attenzione su un dettaglio speciale. In mezzo alla sala stava seduto sul pavimento un ragazzotto sui quattordici anni che stringeva colle gambe un macinino da caffé. – Ah, ah, lo comperate in grani! – dissi alla mamma che stava accanto. – Ma non è caffé, signore, rispose la donna: maciniamo così il «sorgo». Mi curvo e vedo davvero un pugno di chicchi giallicci, che attendono il loro turno per entrare nel microscopico ingranaggio. Faccio le mie meraviglie: ed allora un vecchio che s’era finora levato a metà sul suo giaciglio, s’alza e viene a raccontarmi che loro, ultimi venuti dalla bassa Valsugana, avevano potuto portar seco due sacchi di grano di quello buono, nostrano, di propria coltivazione, ma che, arrivati nel distretto di Rokitzan qualche mulino, in forza delle disposizioni di legge, s’era rifiutato di macinarlo e un altro mulino più piccolo l’avrebbe anche fatto, ma non ci riusciva. «Dieci chili me ne hanno mandato a male» conclude il vecchio. «Io sono mugnaio di professione, signore, e con qualche piccola modificazione nel meccanismo, si sarebbe potuto regolare per nostro uso anche il mulino di Rokitzan; ma come fare ad intendersi? Il mugnaio di qua non sa che czeco, io non parlo che valsuganotto. Ho provato a segni, ma pareva una commedia, e finii coll’andarmene. Così, mi son detto, perché non macinare con quest’arnese qui? Tempo ne avanza, vero Carletto? Per avere una farina a tanto a tanto, bisogna passarla tre volte. Il lavoro è quindi lento e, su per giù, per far la polenta la sera, bisogna macinare tutto il giorno. Ma ringraziare Iddio che a qualche verso ci si arriva! -Se ci par dura? Sicuro che è dura. Quando penso al mio bel mulino della Valsugana, colle sue 10 «mole» e i suoi cinque buratti, ed io andavo tutto infarinato da una macina all’altra come un re nel suo regno, alzavo il coperchio dei cassoni, affondavo le mani nel macinato e così, palpandolo, constatavo il percento della macinazione, senza bisogno di tanti regolamenti e di tante ordinanze, e quando la mattina per tempissimo, al canto del gallo, uscivo sul ballatoio, sopra il canale (un bel canale costruito ancora da mio padre) e con un vigoroso colpo di braccia davo acqua alla ruota e l’ascoltavo scrosciare dentro le pale, finché tutto si metteva in moto e ricominciava il battito securo dei miei buratti, quella era la vita! Ora che tutto è fermo e non lo sento più, mi pare d’essere su di un’isola come un Robinson, ridotto a schiacciare il grano fra due sassi. Perché, signore, che importa a me che tutt’intorno in questa regione s’agiti la grande industria? Noi non intendiamo niente e, quando non si capisce, fossimo anche a Vienna, è come essere in un’isola. Chi sa cosa sarà ora del mio mulino? Il mio cavallo intanto sarà bell’andato di certo. Ah, Carletto, continuava il nonno rivolgendosi al nipote, che faceva sempre andare il suo minuscolo mulino, quanto meglio avevi, quando attaccavi il nostro «moro» (una bella bestia, signore!) e te ne andavi zufolando dentro al paese, a portar la farina. Un bel giorno il militare se l’è preso, ed è giusto che anche le bestie facciano la loro parte; ma mi piangeva il cuore. Poi per un lungo periodo non seppi più nulla, quando un giorno si figuri che Antonio, il fratello di Carletto, richiamato anche lui, ci scrive dalla Bucovina che, passando accanto a delle batterie, ha riconosciuto il «moro», che, invece di farina, trascinava cannoni! Povera bestia, anche a lui gli verrà in mente il nostro mulino! – Coraggio, coraggio amico mio, gli dicevo, stringendogli forte la mano. La guerra non è eterna. Se durasse troppo, vedete bene che ritorneremmo ai tempi di Mitridate che fu il primo ad inventare il mulino o ci ridurremmo alla civiltà degli Indiani che hanno ancora il sistema dei due sassi. La guerra durerà ancor poco e voi tornerete presto al vostro mulino e tutti, chi per un verso chi per l’altro, col braccio più vigoroso ancora per le traversie passate, «daremo acqua alla nostra ruota». E mentre dicevo così, gli splendeva negli occhi una lagrima e Carletto aveva sospeso, tutto assorto nella contemplazione di un migliore avvenire, il movimento affaticato del suo braccio.
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Molti dei sui discepoli, leggendo in patria, al campo o nella diaspora, la notizia della sua morte, penseranno a quel don Segata aitante e sorridente che compariva nella scuola, nelle aule, nel teatrino, nei giardini, nella cappella del collegio vescovile, portando ovunque un’impressione di vitalità ed un’espressione d’ottimismo modesto e laborioso . Ma non è qui il luogo di parlare della sua opera in patria e della sua attività come docente né di raffigurarlo nel nostro Duomo a presiedere a cerimonie solenni della basilica. Ho chiesto invece al «Bollettino» un po’ di ospitalità per interpretare il pensiero dei profughi, i quali m’hanno pregato di attestare su questo loro foglietto il bene che fece loro il professore come «curato degli emigrati» e l’amore e la riconoscenza che sentono e sanno d’essergli debitori. Ma quale testimonianza migliore potrei io rendere di quella che rendeva questa povera gente durante la sua lunga malattia? Tutti i giorni venivano, singolarmente o a gruppi, sotto la finestra della stanza a pianoterra, ove giaceva l’infermo, e domandavano a chi lo assisteva se migliorasse, se non ci fosse un filo di speranza e, quando la risposta data a voce sommessa era necessariamente triste, alzavano gli occhi al cielo e dicevano: «oh, poveretti noi! Cosa faremo senza di lui? Era proprio nostro padre!» Alcuni entravano anche nella stanza e portavano fiori e palme di piante resinose che l’ammalato voleva si collocassero sul letto, quasi pegno consolatore degli affetti che lo circondavano. Nelle ultime settimane egli dovette limitarsi a contraccambiare i loro saluti così disadorni ma così pieni d’affetto, accennando semplicemente colla stanca mano o abbozzando ancora sul volto orribilmente dimagrito, il dolce sorriso di simpatia che gli era naturale; ma dianzi, fino ch’ebbe fiato, chiamava i visitatori al capezzale, voleva che cessassero di chiedere di lui, per rispondere attorno agl’interessi propri: come stessero in famiglia di salute, se avessero ricevuto regolarmente il sussidio, se il figliuolo avesse scritto dal fronte, se trovassero da comperare patate o polenta, se avessero ricevuta la biancheria o le scarpe di cui abbisognavano, se la supplica, scritta da lui un mese fa, fosse stata accolta o se avesse lontana notizia dei parenti, rimasti laggiù nella patria lontana. Soprattutto insisteva nel chiedere se abbisognassero delle consolazioni spirituali che poteva dare il sacerdote e, già moribondo, col corpo così debole da non poterlo sostenere, seduto nemmeno con un grande sforzo di volontà, ascoltò la confessione di qualche povera donna o di qualche ragazzo, a cui impartì l’assoluzione e diede ammonimenti, che parevano venire oramai da una visione ultraterrena. Ma quale ammonimento migliore della sua stessa preparazione alla morte? Quando i medici gli dissero che non potrebbe prolungare la sua vita se non coll’operazione la quale gli avrebbe impedito di leggere la S. Messa e di ricevere l’Eucarestia, egli non esitò un minuto. Disse subito e ripeté a chi scrive: «A che vivere più a lungo, quando non posso vivere come prete? » E si preparò a morire colla calma, colla rassegnazione eroica che dà la filosofia cristiana. Vide così dall’alto del santuario il Svtay Kopecek, che domina la vastissima pianura di Olmütz, staccarsi dal lontano orizzonte la morte e muoversi lentissimamente verso di lui. Ogni sera, per quattro mesi, quando il globo rossastro del sole in tramonto provocava laggiù nelle ultime nebbie un fantastico incendio, egli la vedeva comparire come più vicina, ma i suoi passi erano lenti. Per tre mesi si nutrì di liquidi soltanto, ma più il corpo veniva meno, e più aumentava lo zelo dell’anima. Finch’ebbe un filo di voce comparve sull’altare a predicare il vangelo ai suoi profughi e a dare comunicazioni e istruzioni intorno ai loro interessi; quando non poté più uscire di casa, lesse la Messa nella cappella delle Norbertine (le monache bianche che lo circondarono di tante cure), finché un giorno se non lo si sosteneva, sarebbe caduto per esaurimento. Messosi a letto, lesse il breviario, fino a che gli occhi e la mente si rifiutarono assolutamente il loro servizio. Allora attese con desiderio la morte liberatrice. Ma essa saliva su per il sacro monte (Svtay Kopecek, Heiligberg, Monte santo), lentissimamente. Un intiero mese giacque ancora senza lamento, e non amando che si parlasse a lui stesso che di cose dell’anima, ma compiacendosi che, se due trentini si fossero trovati ai piedi del letto, parlassero della città patria e del paese in cui non doveva più ritornare. Di laggiù non aveva ancora che due desideri: di rivedere alcuno dei suoi e di ricevere la benedizione del suo Vescovo a cui era tanto devoto. Quando s’era già rassegnato a rinunziare al soddisfacimento di questi desideri, Dio prolungò la sua vita per concederli entrambe le consolazioni. Ci apprestammo così all’ultimo giorno, in cui la morte comparve finalmente sulla soglia di casa. L’infermo, che la mattina aveva ricevuto come tutti gli altri giorni, la Comunione, sentendo ormai che anche l’ultimo rimasuglio di vita se n’andava, chiese della carta e vi scrisse per il prevosto: «Prego, il colore violetto!» all’amico che gli era accanto poi consegnò il piccolo rituale dei moribondi, aperto alla pagina delle ultime preghiere dell’agonia e, quando l’agonia era imminente, fece segno che leggesse. Era il sacerdote che celebrava il proprio sacrificio, il cerimoniere di sé stesso e dei funebri suoi... Dietro la bara si raccolsero quasi tutti i «curati dei profughi» dispersi nella Moravia e piansero tutti i nostri emigrati, sparsi nell’altopiano di Hannak. Anche gli slavi dimostrarono la loro ammirazione, accompagnando alla tomba quel «Pane Professore» che ultimamente, per poter soccorrere ancora meglio i suoi, s’affaticava ad apprendere la lingua del paese, ed una signora volle accordargli ospitalità anche oltre la morte, dando asilo provvisorio alla salma nella tomba di famiglia, finché la voce della patria, non lo richiami di là – nella sua pace. Altri parlerà forse allora del professore, del maestro, dell’uomo colto; io qui non v’ho detto che del «Flüchtlingsseelensorger», nome ufficiale livellatore, nella cui veste modesta e povera girano tra i profughi, resi quasi tutti eguali in dignità e giurisdizione, coloro che in patria erano monsignori, arcipreti o cappellani, uomini di lettere o curati di campagna. Onde è che ponendo questo fiore sulla sua tomba, vengo a dare al mio atto di omaggio un senso estensivo diretto a codesto clero della diocesi tridentina, che disperso in tante province suscita per lo spirito apostolico che lo anima e la carità di Cristo che lo spinge, l’ammirazione delle genti d’altra lingua o d’altra fede. Amico.
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In seguito alle mie precedenti relazioni sullo sviluppo del campo profughi di Braunau am Inn mi permetto di aggiungere ancora quanto segue: La scuola di filet e di lavorazione di merletti a fusilli è frequentata complessivamente da 160 scolare e la maestra de Bonfioli è molto contenta dei progressi della scuola. Nella sartoria sono occupate 50 sarte con 20 macchine da cucire. La distribuzione dei capi di vestiario e delle scarpe tra i profughi avviene in maniera tale che per primi vi prendano parte i bambini soggetti all’obbligo scolastico, poi i più bisognosi che venivano proposti dal capo delle baracche; inoltre è introdotto un turno regolare, in modo che ogni mese un certo numero di profughi di ogni baracca giungano alla distribuzione. Anche il comitato di soccorso del campo ha introdotto un turno nella distribuzione dei piccoli aiuti dal fondo di beneficenza a cui noi abbiamo anche contribuito. Desidero qui sottolineare che i profughi che hanno sentito della proposta del comitato di un aiuto di 10 heller attendono con la più grande aspettativa. Sotto la presidenza del vice-direttore del campo, il commissario delle Finanze Postel, si è costituito un comitato che ha intenzione di aprire un circolo di lettura. A sostegno di questa iniziativa tramite il nostro comitato ho presentato una proposta separata. La scuola professionale italiana è aperta a tutti i bambini soggetti all’obbligo scolastico. La mancanza di insegnanti adatti ha tuttavia rimandato la prevista apertura di un corso di tedesco. A questo riguardo, come riguardo all’aumento degli insegnati di italiano, ho sottoposto contemporaneamente all’amministrazione delle baracche le istanze adatte. In genere nell’ultimo tempo l’organizzazione del campo fece significativi progressi. Il rifornimento di generi alimentari alle cucine, i controlli sulle spedizioni, la rappresentanza dei profughi tramite i capi sezione e delle baracche, la polizia e i vigili del fuoco funzionano irreprensibilmente. Di ciò bisogna ringraziare la saggezza, gli sforzi incessanti e l’energia del direttore e segretario della luogotenenza Arlach e del vicedirettore, il commissario finanziario Postel. Il riconoscimento più grande se lo meritano le 24 suore che dirigono la cucina e che sono incessantemente impegnate ad adattare la cucina al gusto e alle abitudini dei profughi. Se ciò nonostante qui e là si sentono ancora lamentele questo dipende in parte dalle inevitabili conseguenze della vita del campo e talvolta dalla circostanza che la società di approvvigionamento spesso non è in grado di consegnare secondo la lista delle vivande che vorrebbe portare una certa varietà nella cucina. A questo riguardo le esperienze di Braunau confermano il nostro intervento per una propria amministrazione; poiché la società di approvvigionamento sinora, nonostante la sua evidente buona volontà, non poté consegnare regolarmente né il fabbisogno giornaliero, né quanto scritto sulla lista delle vivande, tanto meno mantenere pronte le scorte complessive previste dal contratto. I miei interventi in merito a ciò presso le sedi centrali (Istituto per il commercio dei cereali di guerra) sono un contributo troppo modesto in rapporto all’aiuto sufficiente che avrebbe potuto dare una centrale commerciale fondata al tempo giusto. Per quel che riguarda i fabbricati del campo, devo ritornare a quanto spesso detto. Gli impianti generali (tubature dell’acqua, canalizzazione, illuminazione elettrica) e quelli destinati alla comunità, come il forno per il pane e la lavanderia a vapore ecc. possono essere definiti esemplari. Anche le baracche delle famiglie sono buone. Lo stesso non si può però affermare per le baracche comuni che sono un tipo di baracca che non si trova più nei campi costruiti contemporaneamente a questo. L’allestimento di piccole pareti mobili sarebbe consigliabile urgentemente da molteplici punti di vista. Per quel che riguarda gli impianti dei gabinetti, abbiamo già chiesto inutilmente una volta un miglioramento. L’esperienza ha però rafforzato la nostra previsione che noi non possiamo fare a meno di insistere con la nostra istanza.
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Ci sono le seguenti relazioni: Lager Beck (Braunau): Fabiani (Steinklamm) Bonfioli (Mitterndorf) Bugatto (Wagna) Austria inferiore: Hainburg (Bonfioli), Lilienfeld (Bonfioli) Viehofen (Bonfioli) Oberhollabrunn (2B Gabrijelcic 1B Dechant Dr. Knava) Gänserndorf (Gabrijelcic) Göblasbruck (Bonfioli) Austria superiore: Wels (Degasperi) Stiria: Graz e Leibnitz (Dr. Bugatto) Boemia: Kuttenberg, Kollin, Nez-Bydzov, Jungbunzlau, Turnau Laun, Ledec, Kladno, Schlan, Braunau, D. Brod, Königinhof (Delugan) Kaaden, Dur, Bilin, Tepliz, Luditz (Dr. Degasperi) Moravia: Iglau Mährisch-Budwitz (Prof. Dr. Fabiani) A. In generale. A prescindere dalla questione alimentare, che vorrei trattare poi separatamente, dai rapporti in questione si deduce quanto segue: 1. I profughi italiani nell’Austria inferiore, che stanno fuori dai campi profughi e perciò godono solo in parte dell’assistenza statale, si trovano ora organizzati, grazie alle cure dei nostri delegati, e anche rappresentati nei nostri confronti per mezzo sia di un comitato che di persone di fiducia. Ora possiamo perciò procedere in modo più razionale negli aiuti e nella distribuzione di abiti. Solo Stein rimane ancora un’isola triste. Grazie alla creazione di comitati ci è stato anche possibile favorire acquisti cumulativi in Austria inferiore. 2. I nuovi insediamenti di Oberhollabrunn e Gänserndorf, dove i nostri profughi slavi del sud si trovano sotto assistenza statale, lasciano molto a desiderare. Il deputato Gabrijelcic riferisce che «tutti i profughi di Gänserndorf chiedono di potersi trasferire in località dove si parli la lingua slovena e possano quindi sperare in un trattamento più umano». Gli alloggiamenti sono perlopiù cattivi. 28 persone, tra cui un uomo gravemente malato di tubercolosi, sono ricoverati in una stalla. In un’altra casa, 3 famiglie con un ragazzo molto malato giacciono sulla paglia in una cantina. C’è anche di meglio, ma in generale, secondo i rapporti dei delegati, in questo distretto «per quanto riguarda la sistemazione dei profughi si è messi male». Un quadro ancora più buio ci è dato dal delegato Dr. Knavs sul distretto di Oberhollabrunn, di cui egli ha visitato a fine ottobre tutti gli stabilimenti: Zierzdorf, Radlbrunn, Pfaffstätten, Gross-Meisselsdorf, Glaubendorf, Innsbruck, Rappersdorf, Ober-Stinkenbrunn, Weykersdorf, Dürnbeis, Mailberg, Kammersdorf, Roggendorf, Retz, Waitzendorf, Zellendorf, Siechenheim, Waltzeldorf, Pernersdorf ed altre dieci località nei dintorni di Oberhollabrunn. Sulla piaga maggiore, quella alimentare, tornerò più avanti, ma in questo distretto domina anche la carenza di tetti e di vestiti. L’organizzazione della partecipazione, che dipende dal campo di Oberhollabrunn, dev’essere molto carente. Perlopiù, i ragazzi non possono andare a scuola, poiché non hanno né scarpe né vestiti. 3. Dall’Austria superiore e in particolare dall’ambito dei profughi che non godono dell’assistenza statale (circa 2000 nel distretto di Schärding, Grieskirchen, Ried, Eferding, Wels) ci pervengono numerose richieste di indumenti e istanze d’intervento contro le direttive della commissione di sostentamento, che, rifiutando la prosecuzione o l’aumento del contributo di sostentamento, comanda nel campo di Braunau am Inn. Questi profughi hanno perlopiù trovato un’occasione di lavoro, godono dell’assistenza dei comitati locali e trovano che le condizioni di vita sono migliori all’esterno che all’interno del campo. 4. Il Dr. Bugatto esalta lodandole le istituzioni di assistenza della città di Graz: scuole popolari e borghesi, corsi medi, educazione musicale, scrittura a macchina e stenografia, tecnica di traforo-intarsio-a fuoco, intreccio, giardinaggio, un collegio studentesco: tutto ciò grazie alla cooperazione di Stato, magistrato cittadino, comitato d’aiuto locale ed altre associazioni. Il nostro delegato ha dovuto constatare anche un eccesso in posti assistiti. Nel distretto di Leibnitz si trovano 800 profughi. Il tranquillo comitato locale viene sostenuto da noi. 5. In Boemia, Mons. Delugan ha attivato e fondato altri comitati locali ed è intervenuto con l’usuale coraggio in una quantità di casi: le condizioni di approvvigionamento sono difficili, ma molto diverse da un distretto all’altro. Qua e là ci si lamenta del ritardo intervenuto nella distribuzione dei vestiti: il sussidio di 1 corona esige un aumento immediato. Alle stesse conseguenze giunge il delegato Degasperi, che discute anche l’offerta di lavoro per giungere alla seguente conclusione: a causa delle difficoltà linguistiche, in questo campo (agricoltura) purtroppo l’organizzazione ha in qualche distretto fallito. Bisogna però riconoscere che le donne non erano abituate ad affrontare duri lavori agricoli. Negli stabilimenti invece, dove ha potuto indagare un membro di comitato o un curatore d’anime, esse si sono subito adeguate alle esigenze. In ciò ha colpa anche la svalutazione del denaro: nel distretto di Ledec (Delugan) si dovevano ancora pagare 60 Heller al giorno, mentre nel distretto di Oberhollabrunn ci voleva 1 corona. Come può un profugo, con un simile sussidio, procurarsi il plus in cibo e in vestiario, che pure sono richiesti dal lavoro! B. La questione alimentare. La seconda circostanza che dobbiamo constatare è il totale venir meno della farina di granoturco. Per cui si accumulano le lamentele nella relazione e le richieste d’intervento. Si sono rivolti a noi non solo i nostri uomini di fiducia e i comitati distrettuali ma anche imperial-regi capitani di distretto. Abbiamo però dovuto rispondere che noi abbiamo già tentato tutto il possibile per raggiungere una regolazione o almeno per ottenere un’autentica informazione attraverso il campo se non ci possono realmente essere prodotti del mais e non se ne possono ottenere dall’Ungheria. Ma le nostre richieste scritte non sono ancora state evase dall’alto imperial-regio Ministero degli Interni e giacciono sepolte nel dipartimento degli approvvigionamenti. Nella seconda metà di settembre e nella prima di ottobre il pane è stato assai scarso e in alcuni distretti è completamente mancato per alcuni giorni. Nei territori industriali boemi la carta del pane può essere solo in parte incassata. La situazione peggiore sembra essere quella dell’Austria inferiore. In base al rapporto del Dr. Knavs, nel distretto di Oberhollabrunn, a Gross- Meiseldorf, i rifugiati sono da due mesi senza farina e il pane lo ricevono ogni due settimane, ma solo quello che è rimasto dai residenti locali. In tutto il territorio, i profughi si muovono per tutte le località alla caccia del pane e fanno spesso spedizioni di 6-8 ore per ottenere qualcosa. Per quanto riguarda il pane, abbiamo una brutta notizia anche dai campi dell’Austria inferiore: la razione viene ridotta da 250 a 200 gr., nonostante l’opposizione dei referenti per la sanità. Si sa che a Wagna ricevono solo 150 gr. Alla fine di luglio, allorché abbiamo inoltrato i noti formulari per il miglioramento del vitto nei campi, abbiamo anche richiesto un aumento della razione di pane per Wagna. L’amministrazione delle baracche comunica che per ora un aumento è escluso: alcune città della Stiria sarebbero rimaste per qualche giorno senza pane, il campo mai. Può essere, ma a prescindere dal fatto che fuori, nel commercio libero, à molto più facile che nel campo procurarsi un sostituto del pane, una simile direttiva eccezionale, in base alla quale i profughi ricevono in via di principio una razione di pane più piccola che tutti gli altri cittadini resta una misura pericolosa, dal punto di vista politico e morale. Si deve considerare che la massima parte degli attuali profughi-consumatori erano, a casa, contadini produttori. La loro situazione va considerata in comparazione con quella dei contadini, non con quella gli operai dell’industria. A ragione i profughi di Glaubendorf – secondo il Dr. Knavs – descrivono la loro condizione nel modo seguente: «Quelli che sono rimasti a casa hanno tutto e in più anche gli aiuti militari, noi invece dovremmo con 1 corona poterci procurare tutto il sostentamento vitale!». La situazione diventa estremamente minacciosa quando domina anche scarsità di patate. Io stesso ho visitato distretti industriali boemi dove, in alcune settimane, si poteva avere solo un kg. di patate a testa, cioè neanche 200 gr. al giorno, che è il minimo per una minestra di patate non troppo densa. Quando però ci siano un po’ di orzo o 100 gr. di fagioli. Giunge da Kladno la notizia che nella maggior parte delle località del distretto le patate non si possono avere a nessuno prezzo. La gente deve vivere con mezzo kg. di farina e una forma di pane a settimana. Il curatore d’anime locale, persona tranquilla e illuminata, scrive che i rifugiati ora se la prendono anche con i loro preti «quia petierunt panem et non erat qui frangeret eis». Secondo il rapporto del deputato Bonfioli, a Göblasbruck per la cucina comune dei profughi da settimane non si può avere una patata, da 6 mesi non c’è zucchero e da qualche tempo perfino il pane manca totalmente 1 o 2 volte la settimana. È però sintomatico vedere cosa può succedere, a questo riguardo, in un grande campo. Il campo di Braunau am Inn necessita giornalmente di 75 Meterzentner di patate. Ne sono stati chiesti 30 vagoni a maggio di quest’anno e altri 70 a settembre al posto di smistamento dell’ufficio di guerra per il commercio dei cereali di Linz; il campo però da alcuni giorni è senza patate e le grandi cantine, costruite apposta per conservare le patate durante l’inverno, sono ancora vuote. Il tempo migliore va perduto e frattanto i rappresentanti devono pendolare tra Linz e Vienna: a Linz si osserva che nei campi non sarebbero state prodotte patate e a Vienna che, secondo gli accordi, ci si deve curare innanzi tutto dell’Austria superiore. Alla fine sono stati promessi dall’ufficio per il sostentamento 10 vagoni. Ciò basta per una dozzina di giorni. Dov’è rimasta però la provvista invernale per 10000 profughi? Se poi leggiamo contemporaneamente in altri rapporti che i profughi hanno potuto, in Moravia e in una parte della Boemia, approvvigionarsi per l’intero inverno e sappiamo che alcuni distretti hanno potuto coprirsi per l’intera stagione grazie ad acquisti cumulativi protetti dal nostro comitato, appare allora chiaro che siamo qui in presenza non di una mancanza assoluta ma di errori o difficoltà nell’amministrazione. In un rapporto, il Dr. Knavs classifica i sindaci delle molte località che ha visitato in buoni e cattivi: sono buoni (secondo il parere dei profughi) i sindaci che procurano patate e cattivi quelli che non lo fanno. Purtroppo sono in maggioranza i secondi. Lo stesso vale per i capitani di distretto, con la differenza che questi ultimi sono sovraccarichi di preoccupazioni e non agiscono in base a motivi egoistici. Commovente e caratteristica è una lettera scritta da alcune donne da Brodeck bei Prerau: «Qua nel nostro Paese non se nessun che pensa per noi. Andremo dal Podestà, ne manda dal Capitano, andremo da lui mi manda in un altro luogo e così pure che mi mandino via. Il Podestà ni ga dito che lui non se por pensar per noi. Che noi mavemo a Vienna quei che pensano per noi. E lui mi dice sempre che nianche la sua gente non ga da mangiar. Allora noi di chi nemo?». Questa domanda non è senza ragione. I profughi nella diaspora corrono il pericolo di rimanere schiacciati tra gli interessi egoistici dei produttori e la pressione delle autorità politiche a spremere da questi ultimi il più possibile a favore dei consumatori organizzati delle città. Per evitare ciò, si è consigliato di concentrare i profughi nei campi. Un certo orientamento in questa direzione sta costantemente crescendo ma, a prescindere dal dato di fatto che i campi hanno ora posto solo per una piccola parte dei profughi della diaspora, la cosa non può essere risolta in blocco in questo senso. Non può essere decisivo solo il punto di vista locale del podestà o del capitano distrettuale. Inoltre, sono dell’opinione che una gran parte dei profughi, in particolare quelli che lavorano, vengono trattati ancora meglio fuori che dentro ai campi. Si pensi per esempio all’approvvigionamento di latte e alimenti grassi. È necessario soprattutto organizzare e gestire meglio il consumo. D’altronde, come comitato noi siamo ora impotenti. La nostra richiesta di gennaio di fondare un luogo di mediazione (agenzia d’informazione commerciale) pensata solo come primo passo per l’istituzione di magazzini centrali, si è smarrita in tutti i possibili anfratti politici dell’amministrazione. Abbiamo anche provato a favorire, conformemente ai nostri modesti mezzi, gli acquisti cumulativi. Ma finora, per le ragioni sopra enunciate, si sono potuti considerare solo 15 distretti. In questo settore, solo lo Stato può lavorare in grande. Leggo nel protocollo dell’ultima seduta, a cui purtroppo non ho potuto prender parte, la seguente dichiarazione piena di promesse del signor rappresentante del Ministero degli Interni: «È anche pianificato un tentativo di procurare loro (cioè ai profughi della diaspora) in misure maggiori certi mezzi di nutrimento da parte dello Stato. Questo tentativo verrà intrapreso a breve in Boemia e sarà proseguito oppure sospeso, a seconda delle esperienze». Non so se forse non possano esserci forniti dettagli ulteriori. Se il tentativo è stato intrapreso, si deve trattare di profughi dal nord, altrimenti ne avremmo dovuto aver notizia in Boemia. Ma la nostra domanda è: esiste dunque presso l’autorità centrale un ufficio centrale che si occupa dell’approvvigionamento dei profughi? Ho studiato a fondo l’organizzazione ma non ho trovato nulla del genere né nell’ufficio per il l’alimentazione né in quello per l’approvvigionamento. E quando comitati o società richiedono il nostro intervento, ci dobbiamo rivolgere, per farina e patate, all’ufficio di guerra per il commercio dei cereali e alle sue filiali, per lo zucchero alla centrale per lo zucchero, per il grasso alla centrale per il grasso e via dicendo. Ma se questo ufficio centrale ancora non esiste, esso dev’essere creato. Si fondano associazioni di guerra per i lavoratori che si trovano sotto controllo statale, associazioni di consumo per impiegati e funzionari, si lancia un piano generale di approvvigionamento per Vienna (patate) e un milione di profughi, la cui esistenza è direttamente affidata allo Stato e di cui una parte significativa è assistita dallo Stato stesso, devono essere abbandonati o a consorterie speculativi di assistenza o alla loro stessa incapacità? Dove debba essere istituito questo ufficio centrale, cioè presso quale comparto già esistente o da istituire ex novo, dobbiamo lasciarlo decidere a coloro che sono nella condizione di acquisire una visione chiara della nostra economia statale centrale. Da tempo è però divenuto urgentemente necessario un ufficio centrale che prenda cognizione dell’esigenza complessiva dell’assistenza ai profughi per quanto riguarda il consumo e che rappresenti e tuteli i loro interessi generali all’interno dell’organizzazione statale dell’alimentazione e abbia il diritto di incidere nell’assistenza, finora differenziata da regione a regione, contro le autorità e i gruppi d’interesse (società assistenziali) locali. Allo stesso tempo dovremmo però chiedere che – nella misura in cui è desiderata la collaborazione dei rappresentanti dei profughi e come tali noi agiamo in quanto membri del comitato – ci venga data la possibilità di stare con quest’ufficio che va creato in un contatto tale, per cui le nostre informazioni ed esperienze siano di vantaggio agli organi statali, mentre a loro volta questi ultimi, nell’ assicurarci una visione delle misure da adottare, ci diano la possibilità di agire in maniera istruttiva e tranquillizzante sui profughi. L’ultimo tipo di collaborazione proposta non è da sottovalutare, viste le difficoltà crescenti, e può essere solo di utilità coinvolgere gli stessi profughi nelle operazioni comuni volte a superare tali difficoltà. Il campo di profughi di Katzenau, dove i residenti nel campo sono coinvolti nell’amministrazione, presenta, per quanto riguarda l’assistenza, vantaggi decisivi rispetto all’economia da caserma di Braunau, che dipende da un’associazione assistenziale. In secondo luogo, vorrei proporre l’immediato aumento del sussidio agli internati, insistendo soprattutto sul fatto che se questi dovessero, per mancanza di pane, passare parzialmente al nutrimento di carne, la quota attuale è assolutamente troppo bassa.
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Era già noto prima dello scoppio della guerra che nelle zone abitate da italiani erano state compilate liste di proscrizione, ovvero elenchi di persone contro le quali, come presunte «sospette politicamente», in caso di complicazioni belliche con l’Italia dovevano essere presi provvedimenti eccezionali. Infatti immediatamente prima e dopo dello scoppio della guerra si procedette a una serie di confinamenti e di internamenti. Sacerdoti, medici, avvocati, insegnanti, possidenti, contadini, industriali, uomini e donne di ogni classe e di ogni età furono improvvisamente allontanati dalle loro famiglie e dai loro affari e senza riguardo agli svantaggi arrecati in tal modo a loro o alla popolazione e trascinati molto lontano dal loro paese di origine. In che maniera indiscriminata e senza meta si sia così proceduto, lo si può desumere dal fatto che tra gli altri, oltre a qualche cretino e oltre a bambini furono portati in un solo campo di internamento anche un cieco e tre sordomuti, i quali sicuramente non potevano rappresentare un pericolo per gli interessi di Stato. E persino soldati che erano stati feriti sul campo di battaglia ed erano diventati inabili al servizio vennero ugualmente internati, come dall’altra parte successe più avanti che alcuni internati vennero rilasciati dal campo di internamento per servizi bellici e dopo essere stati feriti venivano nuovamente trasportati come invalidi di guerra nel campo di internamento. Del resto a nessuno venne mai nemmeno accennato il motivo della disposizione, e anche ripetute istanze di chiarimento dei motivi rimasero senza risposta o vennero respinte. Negli internamenti si procedette in maniera molto brutale; per strada, in un caffé, di notte queste persone che dovevano essere internate venivano arrestate; non si lasciava loro il tempo per sistemare gli affari pubblici o privati, e neppure per congedarsi dalla famiglia e per prendere con sé il necessario per il lungo viaggio e per il soggiorno all’estero; come erano stati trovati, con gli abiti che indossavano al momento dell’arresto erano costretti a seguire coloro che li arrestavano. Vennero trattati come comuni delinquenti, gettati in carcere; durante il viaggio spesso non venivano neanche riforniti di viveri e fu loro perfino impedito di potersi procurare i viveri necessari a spese proprie. Arrivati al luogo di destinazione, nei cosìddetti «campi di concentramento» non trovavano nulla di preparato; sulla paglia e sul pavimento freddo dovevano dormire e soffrire la fame, anche se non pochi tra loro erano malati e deboli; e così è successo che internati subito dopo essere stati trascinati via perivano per gli strapazzi. Nella maggior parte dei casi, poi, l’internamento è stato operato senza una ragione plausibile: non vi era nessuna infrazione di legge; molti erano stati segnati nella lista dei proscritti pur aderendo ad una associazione espressamente autorizzata dal governo, oppure perché difendevano i diritti nazionali della popolazione o perché anni fa avevano avuto qualche scontro con un ufficiale, oppure con un impiegato politico, oppure con un gendarme in una qualsiasi riunione. Coloro che sono stati risparmiati a questo internamento conseguente allo scoppio della guerra, credevano che oramai la vita di proscrizione fosse finita e speravano di poter respirare in libertà. Furono perciò molto sorpresi quando videro prendere siffatte deliberazioni di internamento, senza un qualsiasi esame dei dati di fatto, ma in base a denuncie fatte, ad esempio, da un confidente o da un avversario che aveva spedito una lettera anonima. Gli organi dipendenti, come i gendarmi, i funzionari di polizia, ecc., si sentivano ormai in possesso di un nuovo potere ed in molti casi sfruttavano l’occasione con il piacere di colpire o allontanate personalità a loro non gradite e di potersi in tal modo fare dei meriti. Infatti, erano oramai in grado di formulare accuse senza dover portare dimostrazioni e prove, cosa che richiede sempre un lavoro minuzioso e spiacevole; e non occorreva neanche che citassero i fatti in base ai quali avevano agito. Bastava definire una persona sospetta di mentalità e atteggiamenti nazionalisti e subito gli effetti erano visibili. E questo sia detto sopratutto per i sacerdoti, che erano diventati vittime del loro profondo senso del dovere di fronte alla carica che ricoprivano ed agli interessi che venivano loro affidati. Tutte queste deliberazioni mancavano di una base giuridica qualsiasi, anzi esse si infrangevano contro la chiara e precisa norma del paragrafo 3, lit. c, della legge del 5 maggio 1869, R.G.BL. n. 66, la quale regola le conseguenze della sospensione dei diritti generali del cittadino, sospensione prevista nel senso dell’articolo 20 della legge fondamentale dello Stato del 21 dicembre 1867, R.G.Bl. n. 142, in caso di una guerra o nell’immediata imminenza di imprese belliche. Secondo questa legge persone che potrebbero mettere in pericolo l’ordine pubblico, in questi casi, da un lato possono venire espulsi da luoghi dove non sono autorizzati, dall’altro però possono anche essere costretti a non lasciare il comune o il distretto di loro attinenza. Nessuna legge invece dà diritto alle autorità di allontanare a proprio piacere la gente e di destinarla in comuni di loro scelta e tanto meno di chiuderle in campo di concentramento. Del resto, la punizione per una determinata infrazione di legge e in questo senso per la persona che si è resa colpevole di una tale infrazione, non può uscire dai limiti stabiliti dalla legge stessa e dalle misure previste dalla medesima. Perciò ci si sarebbe potuto attendere che verso coloro, che solo per un sospetto indeterminato e non dimostrato e senza base concreta di prove sono stati perseguiti, si agisse soltanto con la limitazione della loro libertà personale, nel senso richiesto da un possibile pericolo, nell’interesse pubblico e allo scopo di limitare questo pericolo. Per il resto, c’era da aspettarsi che sarebbero stati trattati con tutti i riguardi possibili. Invece, sono stati creati i famigerati campi di internamento che storicamente sono forse uno dei capitoli più tristi di questa guerra. Sarebbe stato almeno necessario affidare a impiegati e a funzionari particolarmente pacati, equilibrati e pieni di tatto, 1.1 direzione di questi campi di concentramento. Questo purtroppo non è accaduto. R accaduto invece che i direttori dei campi, per mancanza di ogni sorveglianza burocratica e di controllo, si sono immaginati di potere agire in maniera arbitraria e senza limitazione. Tanto per citare un esempio, il direttore del campo di Katzenau, presso Linz, ha superato il senso della misura fino al punto da dichiarare esplicitamente che gli internati erano privi di qualsiasi diritto, e li ha trattati in conformità. Egli lo ha detto esplicitamente e pubblicamente, dunque, che nel suo campo non vigeva nessuna legge. Dato questo punto di vista, si spiega facilmente come tutti i residenti nei campi fossero sottoposti a limitazioni e privazioni dei tutto ingiustificate. Per esempio, si prescriveva loro l’ora in cui si dovevano alzare, andare a letto; insomma erano trattati come criminali, come carcerati e non come uomini liberi. Sappiamo di casi in cui sono state applicate misure di punizione arbitrarie per la semplice ragione che, per esempio, il direttore del campo non era stato salutato oppure perché non si era andato incontro a lui con quella deferenza alla quale diceva di avere diritto. E non solo queste forme di punizione sono state inflitte agli internati, ma anche si è minacciato di procedere ad una segregazione più severa e si è proibito ad un internato di fare valere diritti di carattere privato verso un impiegato dell’amministrazione del campo. Così pure, ad un altro, è stato proibito con lo stesso genere di minaccia, di inoltrare una domanda al tribunale a difesa del suo onore ferito. Secondo informazioni attendibilissime, nei campi di internamento, in seguito a maltrattamenti, si sono verificati persino casi di suicidio. Alcuni internati sono stati chiusi nelle così dette camere di tortura, - sono così definiti dagli internati i locali di segregazione - li hanno legati e li hanno percossi, senza che la direzione del campo si sia presa la pena di intervenire oppure di prendere qualsiasi misura. Durante una ispezione, un internato è stato trattato in maniera tale da un sorvegliante che poco tempo dopo è motto per i maltrattamenti subiti. È però perfettamente chiaro che la responsabilità per questi eccessi non ricade solo immediatamente sugli impiegati del campo, ma anche sulle autorità preposte, che non adempiono o trascurano i loro doveri di sorveglianza nei campi di cui stiamo parlando. Anche in diverse piccole località dove si sono organizzati campi di confinamento, i confinati sono stati trattati in maniera dura ed indegna. Quando è stato concesso un breve permesso di visitare parenti, oppure per affari di carattere urgente, gli internati o i confinati sono stati accompagnati dai gendarmi con la baionetta in spalla, come se si trattasse di delinquenti colpevoli di grave reato. La corrispondenza degli internati o dei confinati veni va spedita con grande indugio, molto in ritardo. Si deliberò che tutte le lettere e le cartoline, a scopo di censura, venissero mandate a Vienna. Accadeva che la corrispondenza che proveniva dalla zona di guerra, oppure vi era diretta, in maniera del tutto superflua e spesso con grave danno di tutti gli interessati, veniva censurata due, tre volte con grande perdita di tempo. È accaduto che anche in caso di morte dei genitori o di altri appartenenti alla famiglia, internati e confinati hanno saputo la notizia soltanto uno o due mesi dopo il decesso. Sarebbe stato necessario rivedere tutte queste deliberazioni prese allo scoppio della guerra in maniera precipitosa, tanto più che queste deliberazioni portavano a conseguenze molto gravi. Sarebbe stato quindi necessario fare un esame a fondo della situazione, in modo particolare spiegando alle persone colpite il perché dell’internamento o del confinamento; in tutti i casi poi, in cui vi era effettivamente infrazione della legge, sarebbe stato necessario istituire un procedimento legale. In tutti gli altri casi, annullare le deliberazioni o il modo di procedere ingiustificato. Per moltissimo tempo nessuno si è curato di ciò e gli internati ed i confinati non sono stati affatto considerati. La questione è stata considerata chiusa, semplicemente colla deliberazione del confinamento e dell’internamento. La maggior parte delle persone colpite è stata privata della libertà per quasi due anni, senza che il Governo si sia presa la pena di esaminare il caso e di arrivare alla conclusione che, per condannare una persona alla privazione della libertà, sarebbe stato necessario almeno un procedimento di legge. In tutti i casi in cui le supreme autorità hanno ordinato una revisione delle deliberazioni prese, l’esecuzione di una revisione è stata fatta con una tale lentezza dagli organi designati a questo scopo che possiamo considerarla, nella maggior parte dei casi, un fallimento. La revisione, come del resto il confinamento o l’internamento iniziale, sono stati decisi senza che si comunicasse la ragione e senza praticare un interrogatorio e dare alle persone la possibilità di difendersi. Invece di attenersi a un esatto ed unico criterio, - cioè che solo le infrazioni alle leggi potevano portare alla privazione o alla limitazione della libertà personale e che si poteva agire soltanto in base ad un procedimento regolare per via legale -, è accaduto che molti, contro i quali non vi era alcuna accusa di infrazione della legge, siano stati sottoposti ad una limitazione della loro libertà ed in maniera del tutto arbitraria, e sono stati tenuti in confinamento più o meno severo. In parecchi casi, i singoli membri di una famiglia sono stati separati e i loro più che giustificati desideri, in fatto di destinazione del luogo di confinamento, non sono stati affatto considerati. Ma anche molti di coloro che sono stati messi in libertà come «completamente insospettabili» non possono godere di questa libertà, perché le autorità militari vietano loro il ritorno al luogo abituale di residenza. Quelli tra essi che erano prima pubblici funzionati oppure impiegati di enti pubblici, secondo le norme del comando militare del 27 aprile 1917, paragrafo 623 e del 9 maggio 1917, § 16.319, sono stati impiegati di nuovo in una zona né bellica né limitrofa a quella in cui si trovavano prima. Ecco un esempio tipico: una vecchia contadina, la vedova Teresa Bolner di Roverè della Luna, aveva cinque figli tutti sotto le armi, due di questi caddero sul campo di battaglia, un terzo fu ferito, un quarto però continuò a fare il suo servizio al fronte, il quinto si ammalò in servizio e fu perciò esonerato e dichiarato non idoneo. Madre e figlio sono stati internati; in seguito alla revisione, la madre è stata rilasciata senza però permetterle di ritornare a casa sua. Il figlio, invece, è stato confinato, e in questa maniera la madre era privata anche di quest’ultimo appoggio che le era rimasto. Queste persecuzioni politiche hanno avuto un effetto particolarmente deleterio tra coloro che dovevano prestare servizio militare, in quanto molti, a seguito di una lettera anonima oppure per l’animosità di una personalità più o meno influente, venivano qualificati come «politicamente malsicuri». E ciò senza alcun riguardo per il loro effettivo comportamento. Una tale definizione li ha seguiti sempre, perfino al fronte ed è stata causa di persecuzione di trattamento discriminatorio. Si è arrivati a questo punto: che da parte di autorità altolocate è stato pubblicamente dichiarato che persino il pensiero poteva essere perseguitato; cioè, si potevano sottoporre a processo disciplinare e condannare a punizioni molto sensibili persone qualificatifissime, rispettabili, come impiegati e funzionari, con i più futili pretesti, in particolare per la loro appartenenza a circoli o associazioni perfettamente autorizzati dal governo o almeno contro i quali il governo non aveva mai sollevato obiezioni o difficoltà. Dobbiamo rinunciare a fare l’elenco di procedimenti simili; manifestamente ingiusti; vogliamo però, a questo proposito, citare un caso che ha suscitato particolare scalpore. Il primo marzo 1916, una commissione politico-militare penetrò nella villa vescovile di San Nicola, presso Trento, e presentò a S. E. il vescovoprincipe, in nome del commando del fronte sudoccidentale e senza alcun accenno ai motivi, un mandato di arresto il cui contenuto diceva che a lui e al suo seguito più stretto veniva inflitto l’arresto domiciliare più stretto. Ogni ingresso veniva severamente vigilato da sentinelle militari che si facevano forti del loro potere di ottenere l’osservanza di questo mandato di cattura «anche facendo uso delle armi, qualora fosse stato necessario». Il solenne atto di protesta dell’Arcivescovo e la richiesta di spiegazioni per cui si era proceduto in tal senso sono rimasti senza risposta. Ogni contatto coll’esterno è stato precluso, si è impedito all’Arcivescovo ogni esercizio delle sue funzioni e, persino nella Settimana Santa, il popolo ed i sacerdoti hanno aspettato invano di vedere apparire il loro amato capo pastorale. La durezza e la mancanza di riguardo nel trattamento è arrivata a questo punto: si è impedito perfino all’Arcivescovo di fare venire per Pasqua il suo confessore ad adempiere la sua missione di sacerdote. Alla fine, l’Arcivescovo è stato trasferito verso l’interno dove ancora si trova sotto il controllo della polizia che sottopone a censura la sua corrispondenza, ivi comprese le comunicazioni ufficiali del Consiglio imperiale. Da un anno ancora aspetta che gli sia resa giustizia. La persecuzione di quest’uomo così popolare e tanto venerato nella sua Diocesi, a cui non ha giovato nulla appellarsi alla sua posizione ecclesiastica ed agli accordi esistenti tra lo Stato e la Chiesa; la persecuzione di quest’uomo a cui, per quanto si voglia indagare, non si può rimproverare nulla nell’adempimento del suo dovere e che ancor meno offre appiglio nella sua vita privata, ha fatto la peggiore impressione che si potesse immaginare a tutta la popolazione per cui si richiede imperiosamente una immediata presa di posizione per dare soddisfazione a chi è stato colpito. In maniera molto simile si è proceduto, del resto, per un certo periodo nei riguardi del reverendissimo Decano del Duomo di Trento, il quale poi in seguito è stato confinato. Non tutti questi procedimenti violenti sarebbero stati forse possibili se fin dal principio si fosse provveduto in modo che le persone perseguitate usufruissero di un minimo di protezione. Non è sufficiente il fatto che tutti i deputati, con la sospensione della Costituzione, con il controllo sulla stampa e lo scioglimento delle associazioni siano stati condannati ad una inattività politica; si è proceduto anche ai danni dì alcuni con i mezzi tanto conosciuti e provati dell’internamento e del confinamento; oppure si è impedito loro di ritornare al luogo di residenza, La loro stessa attività, riconosciuta anche dal Governo come utile per la vita pubblica, non ha potuto proteggerli da un trattamento ingiusto. Ora è chiaro che tali ingiustizie commesse con il più grande disprezzo dei diritti individuali e naturali della dignità personale, debbono finire e che anche per gli italiani ci deve essere la legge ed il diritto. I sottoscritti presentano perciò le seguenti domande al Presidente dei ministri come Capo del Governo: I. – È, disposto il Governo a procedere ad una inchiesta severa, esauriente ed imparziale sui metodi con cui vengono eseguiti gli internamenti ed i confinamenti di molti cittadini austriaci di nazionalità italiana ed è disposto a iniziare una inchiesta sul modo e la maniera in cui vengono condotti i campi di concentramento e le stazioni di confinamento ed è disposto a riferire sui risultati di questa inchiesta, come anche su tutte le norme relative a punizioni e a riparazioni che dovranno essere applicate per le ingiustizie commesse e le infrazioni alla legalità? 2. – A disposto il Governo a fare in modo che, anche nei riguardi degli italiani, si proceda soltanto secondo il diritto e la legge e che perciò anche contro coloro che sono stati considerati «sospetti politicamente» si adottino misure persecutorie solo nel caso in cui abbiano commesso una infrazione della legge e che si proceda verso di loro solo nei limiti in cui la legge prevede l’applicazione di determinate misure; e questo allo scopo di fare cessare le limitazioni della libertà personale, tra cui in modo particolare gli impedimenti che vengono opposti al ritorno in patria e alla ripresa della precedente attività svolta da queste persone perseguitate?
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1,917
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31916-1920
Com’è noto, fra migliaia di altri cittadini di nazionalità italiana, vennero confinati come «politicamente inaffidabili» anche i deputati del Reichsrat Dr. Conci e Dr. De Gentili. Nel corso degli interventi, le autorità civili dello Stato usavano scusarsi e declinare la loro responsabilità, facendo riferimento alla spietata onnipotenza delle autorità militari. La popolazione aveva però l’esatta sensazione della situazione ed era convinta che le autorità amministrative sviluppassero insieme un piano predisposto, consistente nell’eliminazione con ogni mezzo anche illegale di tutti quegli elementi che in politica erano intenzionati a difendere o a rappresentare i diritti costituzionali del popolo. Prima di tutto, il governo cercava di isolare con ogni mezzo dai loro elettori i deputati malvisti, escludendoli da ogni attività sociale. Dopo due anni di persecuzioni politiche si può constatare che il tentativo è completamente fallito e che la popolazione è più che mai pervasa dall’idea che la realtà della sua propria esistenza politica e sociale è strettamente congiunta con la questione della libertà dei suoi rappresentanti e della conferma indipendente dei suoi deputati. Essa non è però ancora del tutto a conoscenza di dove sia giunta l’indecorosa ingerenza delle autorità: Un caso come questo che riguarda l’imperial-regio ministero delle Ferrovie deve essere qui menzionato. I deputati del Reichsrat al confino Dr. Conci e Dr. Gentili erano anche membri d’amministrazione della ferrovia locale Dermulo-Mendola, costruita con mezzi privati locali. Con decreto del 21 luglio 1916, Z. 30208, l’imperial-regio ministero delle ferrovie ha ora dichiarato i nominati deputati consiglieri d’amministrazione politicamente inaffidabili, invitando il capitano distrettuale di Trento «ad esercitare sulla Società la necessaria influenza», allo scopo di revocare la nomina dei nominati deputati a consiglieri d’amministrazione e comunque d’impedire l’esercizio da parte loro di una funzione amministrativa. Ma poiché il decreto potrebbe venir applicato in occasione dell’assemblea generale della Società convocata per il 9 c. m. e poiché sussiste qui un caso inaudito di partecipazione illegale e indegna a una persecuzione politica infondata, i sottoscritti deputati indirizzano al signor direttore dell’imperialregio ministero delle Ferrovie la seguente interrogazione: «È il signor direttore dell’imperial-regio ministero delle Ferrovie pronto a revocare l’accennata disposizione e a impedire che in futuro simili disposizioni vengano ripetute?»
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1,917
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Eccelsa Camera! Quale collaboratore da due anni nell’assistenza statale posso così riassumere il mio giudizio sul trattamento dei profughi : ho visto molte cose buone e molte cattive e ho trovato nei funzionari statali molto zelo, ma anche molta durezza. Abbiamo trovato capitani distrettuali che trattavano i profughi come padri, ma anche gente che pensava come quel soprintendente edile che ha costruito un accampamento e che quando gli obiettai che gli impianti dei gabinetti per i profughi non erano decorosi e sufficienti, mi rispose che i profughi in genere e gli italiani in particolare sono comunque porci [senti! senti!] e di conseguenza gli impianti sono sufficienti. Ci sono quindi persone che hanno questa opinione e persone che invece hanno veramente cuore e comprensione per i profughi. Dal ministero degli Interni sono giunte istruzioni buone, ma anche istruzioni scaturite da uno spirito maligno . Nell’insieme si può appunto dire che il primo errore fondamentale dell’assistenza statale per i profughi è consistito nel fatto che non ci fosse alcuna precisa direttiva e che tale assistenza non avesse alcun fondamento giuridico, bensì fosse solo un sostegno per poveri, che i profughi perciò non fossero trattati come cittadini, ma bensì più o meno bene a seconda del modo di vedere e del punto di vista individuale come oggetti da amministrare. Essi vennero evacuati, instradati, perlustrati, approvvigionati, accasermati, come se non avessero alcuna volontà propria, come se non avessero alcun diritto. Questa azione caritativa calata dall’alto ha tuttavia promosso qualche bella istituzione, ma questo tipo di azione dovette rinunciare alla libera collaborazione degli interessati stessi, e qui è andata persa una quantità di lavoro, soprattutto il fondamento psicologico della collaborazione con la popolazione locale, e se i signori rappresentanti della popolazione locale sollevano ora il rimprovero che i profughi non hanno lavorato, così debbo dire che per quel che riguarda i nostri profughi il rimprovero è nell’insieme infondato. Devo però anche ammettere che ci sono stati dei casi in cui i profughi realmente non hanno lavorato. Ma perché? In primo luogo poiché il governo stesso ha fissato un tale rapporto tra sussidio e reddito da lavoro che il profugo non aveva generalmente alcun interesse a lavorare; poiché se avesse lavorato, in particolare all’inizio, egli avrebbe perso tutto il suo sussidio. In particolare nei lavori agricoli, per esempio in Boemia o in Moravia, dove i salari erano tenuti abbastanza bassi, i profughi avrebbero alla fine lavorato tutto il giorno per 10 o 20 heller . Questo fu l’errore fondamentale del governo nel trattare questa questione. In secondo luogo prego di considerare che i profughi a causa delle difficoltà linguistiche per lo più non riescono a capirsi con la popolazione locale. Si sarebbe naturalmente dovuto costituire comitati di collocamento per il lavoro, ma poiché il governo ha rinunciato a qualsiasi membro della nazione dei profughi che appartenesse alla classe colta, poiché gli esponenti dell’intellighenzia erano tutti internati o confinati, oppure, se parliamo di accampamenti, venne generalmente vietato agli esponenti dell’intellighenzia di entrarvi, non vi era quindi nessuno che potesse organizzare questa attività di mediatore. Sono giunto una volta in Boemia in un distretto e il capitano distrettuale si è lamentato che i profughi non vogliono aiutare nella raccolta di patate. Ho chiesto: perché? I profughi si erano appena lamentati con me di non poter lavorare, di non venire accettati dai contadini. Egli replicò: al contrario sono loro a non voler partecipare. Dissi allora: farò un tentativo, mi sembra ci sia un malinteso. Ho parlato con i contadini e con i profughi e ho detto ai profughi: si, i contadini vogliono che voi lavoriate e sono disposti a pagarvi in patate. Allora tutti i profughi si dichiararono disponibili a collaborare e anche il giorno seguente continuarono tutti ad aiutare nella raccolta di patate. Naturalmente i rappresentanti del Comitato potevano andare nel distretto al massimo una volta all’anno, per il rimanente periodo mancava qualsiasi persona mediatrice che conoscesse la lingua dei profughi e che avesse il necessario ascendente. Il secondo errore fondamentale, che fu molto più di un errore, fu un crimine, è scaturito dallo stesso spirito dal quale è venuta l’evacuazione: è lo spirito di persecuzione. Si sa con molta esattezza che per esempio nel Trentino almeno il 70% della popolazione evacuata lo fu non per motivi economici e neppure per motivi puramente militari, bensì per ragioni di economia mista, vale a dire per ragioni politiche... [il deputato Dr. Gentili: poliziesche] ... per ragioni poliziesche, ed essi non furono in realtà evacuati – questo è un termine eufemistico – bensì esiliati. Per esiliati non si poteva naturalmente avere particolare riguardo, di qui il sistema dell’evacuazione, di qui la preoccupazione di escludere qualsiasi collaborazione della società dalla evacuazione, poiché a eccezione dei pochi che hanno collaborato nelle commissioni per le evacuazioni a Trento, Rovereto ecc., quindi nel paese d’origine, gli altri non poterono accompagnare i profughi, e ancora oggi il governo ha un debito di riconoscenza verso i preti che senza aver avuto alcun permesso delle autorità e tanto meno essere stati pregati a farlo, su direttiva del nostro vescovo sono saliti all’ultimo minuto nei vagoni ferroviari che partivano e hanno condiviso cogli evacuati le prime difficoltà dell’esilio, e hanno molto aiutato anche nei primi due mesi, quando non era possibile alcuna organizzazione da parte del governo e dell’amministrazione statale. Questo spirito di persecuzione e di evacuazione spiega come si sia giunti ai campi di concentramento. Era già chiaro all’inizio della guerra con l’Italia che, dato che nelle città andava così male, era un’assurdità costruire nuove città di legno. Era chiaro che con la tendenza dei generi alimentari a non concentrarsi, non si sarebbero dovuti concentrare i nemmeno i consumatori. Questo fu l’errore principale. Già allora ho mosso questa obiezione alle autorità competenti e ai competenti rappresentanti del ministero degli Interni e di quando in quando lo si è anche personalmente riconosciuto. Si è però detto che c’erano anche altri motivi e questi altri motivi, su cui io come persona mezza sospetta non potevo esigere spiegazioni, erano naturalmente gli stessi che avevano provocato l’evacuazione. Vanno messi su questo conto anche le grandi carenze e le sciagure che sono avvenute in seguito nei campi di concentramento e in genere tutto il sistema di non organizzazione e di accasermamento dei profughi negli accampamenti. Colà non si è avuto a che fare e ancor oggi in parte non si ha a che fare con superiori e cittadini, con un capo, bensì con un comandante e con comandati. Ai profughi non si è concessa alcuna possibilità di rappresentanza e ancora negli ultimi giorni, credo un mese fa, è uscita una direttiva del governo che proibisce ai profughi di costituire tra di loro un comitato di beneficenza, poiché, si è detto, è pericoloso, se si giungesse in questo modo a una rappresentanza parlamentare, sa solo Iddio cosa potrebbe succedere nell’accampamento. Si è inoltre vietato ai profughi qualsiasi contatto con i deputati; è addirittura successo che il rappresentante del capitano provinciale del Tirolo, il barone Kathrein , dovette aspettare a Vienna due giorni prima di ottenere il permesso di andare a Mitterndorf per vedere come stavano i figli del Tirolo colà evacuati . Tanto severi erano il confinamento e l’isolamento di quella gente. I pochi, per lo più religiosi, a essere là a curarsi della gente sono presto stati sospettati di essere dei sobillatori, ed è successo che qualcuno di loro che aveva usato parole taglienti sul vitto, il giorno seguente spariva. Si è saputo solo due settimane più tardi che egli era stato confinato o internato da qualche parte. Desidero osservare ancora una cosa: sono molto grato ai rappresentanti tedeschi del Comitato, in particolare al signor deputato Kittinger , che nel Comitato di fronte ai rappresentanti del governo ha sottolineato che non in un campo profughi, bensì in un campo di internati dove egli collabora nell’amministrazione è riuscito a introdurre una migliore amministrazione, poiché vennero coinvolti gli stessi rappresentanti degli internati e venne introdotta una sorta di autonomia, molto limitata, ma pur sempre una autonomia, una autonomia amministrativa. Lo stesso lo si può dire di Katzenau . Se si andava da qualche parte, si è sempre sentito dire: «Guardi che grandioso campo è Katzenau» – ovviamente non per quello che riguardava l’internamento e i criteri politici, bensì l’amministrazione. Che colà le cose funzionassero eccellentemente, non lo posso ammettere; ma che là andasse molto meglio che nei cosiddetti liberi accampamenti di profughi è vero, e proprio perché là l’amministrazione era tenuta in parte dagli internati e non c’era un solo funzionario o una società profittatrice della guerra che dominavano tutto. Purtroppo, nonostante lunghe trattative nel Comitato, non siamo riusciti a raggiungere per i campi profughi quello che gli internati hanno raggiunto. La legge che noi ora votiamo stabilisce per prima cosa che i profughi hanno il diritto di scegliere liberamente fra un baraccamento o una colonia stabilita dal governo nella diaspora . È sicuramente ancora una limitata libertà, ma sicuramente significativa rispetto allo situazione attuale. In secondo luogo la legge da ai profughi anche la possibilità di prender parte all’amministrazione. È infatti detto in un paragrafo che negli accampamenti sarebbe stata accordata ai profughi la partecipazione all’amministrazione, e precisamente in maniera analoga all’organizzazione dei comuni d’origine . Noi sorveglieremo che questa organizzazione venga realmente realizzata e portata a termine. Il terzo grave torto fatto ai profughi era stato il rifiuto del sussidio. Non desidero spendere alcuna parola sul diritto. È infatti chiaro come il sole che secondo la legge essi avevano il diritto al sussidio. Ma cosa si era detto? Che i profughi ottengono comunque il vitto in natura, che cosa serve loro anche un sussidio? E nell’Austria superiore, dove a questo riguardo si agì in modo particolarmente duro, si è detto ai profughi: o andate nel campo di concentramento di Braunau oppure se rimanete fuori perderete ogni sussidio. I profughi risposero che sarebbero rimasti fuori poiché avevano diritto a un sussidio. Presentarono domanda alla commissione provinciale, e sapete come là si procedette all’inizio? Ogni qualvolta giungeva la domanda di un profugo che era rimasto fuori, che non voleva entrare nel campo, il funzionario in questione molto semplicemente telefonava al capitano distrettuale chiedendo: che cosa fa là il profugo, perché non è entrato? Egli doveva molto semplicemente essere condotto dentro manu militari con i gendarmi. Questa era la risposta alla richiesta di sussidio. Il profugo non riceveva alcuna risposta meritevole, in assoluto nessuna risposta scritta. In guerra si è visto che il telefono permette un lavoro molto più veloce, ma è anche uno strumento arbitrario nelle mani del governo. Si telefona e dell’atto arbitrario non rimane alcuna traccia scritta. Il torto descritto viene ora riparato nella legge che statuisce che i profughi hanno diritto al sussidio. Una cosa non siamo riusciti a fare nella legge, ovvero di dare abbastanza da mangiare ai nostri profughi. In questi due anni ho trovato che niente è così difficile come convincere la gente che è fuori che dentro si sta veramente peggio. La cosa viene sicuramente ben inscenata. Nella maggior parte dei campi c’erano all’inizio società per la distruzione del vitto, vale a dire società profittatrici della guerra che avevano colà grosse scorte e grandi magazzini. Allora è stato invitato un rappresentante della stampa, è arrivato un rappresentante del governo e cosa si è fatto? Si è mostrato loro i bei pezzi di lardo che erano là, i grossi pezzi di formaggio, le grandi quantità di pesce ecc. e alla fine il funzionario in questione o il giornalista sono usciti e hanno detto: i profughi stanno veramente molto bene, ci sono tanti generi alimentari, se noi avessimo qualcosa del genere fuori! Naturalmente non si è però mostrato ai funzionari amministrativi in questione il menu, non si sono specificati quanti grammi di burro o di lardo hanno i profughi nella minestra, che carne e verdura essi ricevono. Si è organizzata l’ispezione in modo tale che la gente dalla cucina dovette raggiungere rapidamente il portone d’ingresso, cosicché molti rappresentanti del governo e delle autorità superiori che erano giunte per visitare un accampamento, sono tornate a casa e, penso, abbiano in buona fede detto: «I rappresentanti del Comitato sono sobillatori, esagerano.» Anzi, anche di più! Credo che i rappresentanti della popolazione locale condividano questa opinione per lo stesso motivo. Essi vedono infatti tanti vagoni ferroviari colmi di cose che entrano in un campo profughi, ma è difficile farsi un’immagine della quantità che viene subito consumata. Per quel che riguarda il vitto ho preoccupazioni assai serie per il prossimo periodo. Nei campi già da lungo tempo non si può più lavorare con generi di sussistenza di massa, ma si è costretti a usare generi sostitutivi, invece delle patate, dei legumi ecc. che sono necessari in una cucina di massa, si devono dare marmellata, pesce sotto sale ecc. che si esauriranno presto. Conosco suppergiù le condizioni e devo purtroppo dire che se non sarà possibile destinare patate e legumi per i campi, non saprei proprio come sarà possibile assicurare la sussistenza nel prossimo inverno. Desidero qui sottolineare che i rappresentanti del dipartimento sanitario al ministero degli Esteri e esperti dell’attività culinaria che hanno esaminato i menu nei campi dell’Austria inferiore, e anche in altri, ma in particolare dell’Austria inferiore, hanno constatato che il vitto colà è assolutamente insufficiente. Facciamo questi calcoli non sulla base di un tanto di calorie, sappiamo infatti che i profughi non ne possono avere del tutto a sufficienza, ma almeno una quantità tale che essi possano resistere, la dobbiamo loro pur dare. Ho constatato che la gente non è morta non perché il vitto statale è stato sufficiente, ma bensì semplicemente perché i profughi si sono procurati uno straordinario; essi avevano ancora un po’ di soldi e hanno impiegato tutto il loro patrimonio per mangiare. Che questo però possa continuare nonostante i provvedimenti di isolamento attorno ai campi, dove ogni capitano di distretto desidera assolutamente vietare che ai profughi venga dato qualcosa, mi permetto di metterlo in dubbio, anche se i profughi, come potrebbe essere il caso, possono continuare a disporre di denaro. Ho perciò presentato una deliberazione nella quale chiedo che l’organizzazione della fornitura di generi di sussistenza per i campi venga presa in mano dall’ufficio annonario. Lì esiste già nel dipartimento XII una sezione profughi; ci auguriamo che si organizzi e che venga preparato un piano alimentare e che si cerchi partendo dal centro di rendere possibile tramite assegnazioni questo rifornimento di viveri. La seconda questione che mi ispira veramente grosse preoccupazioni è il rifornimento di carbone. Naturalmente tutti soffriremo nel prossimo inverno per la scarsa distribuzione di carbone. Ma riflettete cosa ciò possa significare dove ci sono solo case di legno, solo baracche, e in un campo dove tutto in realtà viene messo in movimento dal carbone, menziono solamente la centrale elettrica, quindi la luce, le pompe elettriche per l’acqua ecc.! Tutto dovrà fermarsi, poiché tutto è artificiosamente fondato su questa materia prima e un surrogato non è possibile. Se non arriva il carbone il campo si spegne e i profughi periranno. Provo grandissima preoccupazione in particolare per i nostri bambini e desidero appellarmi il più caldamente possibile al governo affinché il ministero dei Lavori pubblici provveda a un sufficiente rifornimento di carbone. Poiché se questo non viene fatto dal ministero dei Lavori pubblici, allora temo che già in autunno o all’inizio dell’inverno nei campi saremo senza carbone e allora i nostri bambini e i nostri malati dovranno perire a causa semplicemente del freddo. Anche in questo senso ho presentato una deliberazione. Desidero concludere le mie argomentazioni, ma non voglio dimenticare tutti coloro che hanno collaborato all’assistenza privata. Sento l’obbligo, dopo aver presentato tante rimostranze, di dare rilievo anche al lato buono, al lato positivo. Nella maggior parte dei distretti, in particolare nei primi tempi, si sono riunite assieme alcune persone che, per quanto non conoscessero i profughi e non avessero con loro alcun rapporto, hanno cercato di venire in soccorso dell’assistenza statale con quella privata. A loro dobbiamo il nostro grazie e va la preghiera di perseverare, anche se sappiamo molto bene che ora ovviamente anche l’assistenza privata è troppo gravata. Questo amore per i profughi, questo amore che abbiamo trovato nei diversi comitati in Boemia, Moravia, Austria superiore, Austria inferiore e nella Stiria, è stato come un accendersi della solidarietà umana e cristiana e noi speriamo che queste fiamme divamperanno fintantoché porteranno ai profughi e a noi tutti la definitiva pace negoziata. [Vivaci applausi].
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Eccelsa Camera! Se il dibattito si dovesse occupare soltanto del bilancio statale, rinuncerei alla parola, poiché non ci si può aspettare da qualcuno, la cui casa è stata incendiata o saccheggiata, che si occupi anche del bilancio pubblico e io mi rifiuterei di mantenere la finzione, come se un popolo che nella prassi viene trattato come un popolo nemico, come un popolo conquistato, nel contempo possa come parte alla pari attraverso i propri rappresentanti avere voce in capitolo e partecipare alle decisioni sull’amministrazione di tutto lo Stato. Ma questa tribuna è l’ultimo luogo libero che ci è rimasto dopo la soppressione di ogni libertà civile a casa, e d’altro canto sarebbe un peccato privare il governo della comparazione tra i bei principi del suo programma e la prassi delle sue autorità locali, militari e amministrative. A tale contrapposizione dà ampiamente occasione il discorso del presidente del Consiglio . Egli ha pronunciato un bel discorso quando ha detto che i danni di guerra sarebbero stati riparati dallo Stato rapidamente e in modo energico. Spero che egli si sia pronunciato nella consapevolezza di ciò che questo significa, in particolare in riferimento alla nostra terra; spero che sappia che da noi sono andati in malora valori per centinaia di milioni; spero che sappia che molti posti tra l’Adige e il Brenta e altri ancora sono stati in parte saccheggiati, che tutto ciò che lo zelo di anni e di secoli ha accumulato è stato distrutto in pochi giorni. E quando penso al destino della bella e ricca città sul Leno, quando penso a Rovereto, mi si stringe il cuore. Adhaeret lingua mea faucibus meis. Nessuno osa dire la verità su questa città morta. Un terribile mistero si è diffuso su di essa poiché, dopo la deportazione dell’intera popolazione, nessun civile poteva finora entrare, neanche il podestà liberamente eletto e successivamente commissario governativo, il nostro collega barone Malfatti , nonostante l’autorizzazione del supremo comando d’armata. Ma qua e là trapela la verità. Ci sono persone che erano là, che hanno visto, che hanno preso nota. Si sa che il saccheggio non si ferma davanti a nulla, né di fronte agli istituti pubblici, né di fronte alle case private, che nei musei persino l’alcol in cui erano conservati i serpenti e i preparati scientifici fu bevuto tutto, che le statue della Madonna furono depredate e lasciate nude, che le biblioteche furono saccheggiate e che nei campi adiacenti si trovavano ancora per lungo tempo tutti i possibili attrezzi per la casa e mobili, meccanismi di orologi e macchine da cucire, come resti di un grande naufragio, mentre molti altri attrezzi per la casa e mobili hanno trovato la via al di là del Brennero, ed è accaduto a qualche roveretano di rivedere i propri averi nelle province del nord in mani estranee. Ora il presidente del Consiglio vuole riparare a tutto ciò. Lo prendo in parola. Provvisoriamente deve per lo meno nominare subito una Commissione mista, in cui anche la popolazione sia rappresentata, affinché per lo meno venga accertato il danno. Mettere a tacere non aiuta più. Verrà un giorno in cui la popolazione deportata metterà di nuovo piede nella città dei padri, e allora risuonerà un grido di dolore che sarà sentito dall’Europa intera. Invece in questi giorni è iniziata a Rovereto una grande, ufficiale extra requisizione e certamente sarà in parte anche già compiuta, una requisizione con cui vengono requisiti tutta la lana, tutto il metallo, la carta, tutte le macchine, le condutture dell’acqua, le condutture del gas, le condutture del vapore, sia di privati che di enti pubblici; a questo riguardo neanche le chiese vengono risparmiate e ci si domanda perché questa città, che già ha dovuto dare così tanto, ora deve essere ancora sottoposta a una seconda requisizione generale, ciò che non accade in nessun altro luogo e che non corrisponde al § 28 della legge sulle requisizioni di guerra. La buona volontà del signor presidente del Consiglio avrà lavoro più facile in quelle località che non sono state evacuate del tutto, per esempio a Trento. Fino all’offensiva del maggio 1916 a questo riguardo a Trento non è accaduto molto; ma successivamente furti e saccheggi furono all’ordine del giorno. Tuttavia lì è stata organizzata una buona commissione di rilevamento dei danni che ebbe molto da fare. Ma gli atti relativi sono ancora presso l’amministrazione cittadina con l’annotazione: rinviato per la conservazione e il deposito degli atti, poiché l’indagine sui colpevoli è senza speranze. Fu infatti impossibile indicare con precisione i reparti militari o, dove ciò fu possibile, l’intendenza ha inviato l’atto relativo ai comandanti del reparto coinvolto per una dichiarazione e in molti casi gli ufficiali hanno risposto in modo simile a quello di un sottotenente, il cui caso l’ho davanti a me e che scrive: Respingo ogni sospetto di furto anche verso i più miserabili della mia gente. Chi ha avuto, ha avuto. Credo però che in questo caso lo Stato è comunque obbligato all’indennizzo. In base al § 19 della legge sulle requisizioni di guerra i danni provocati dall’acquartieramento sono, secondo questa legge, da indennizzare. Tuttavia la luogotenenza di Innsbruck ha stabilito nel decreto del 10 luglio 1916, nr. 509, che tali danni non sono da considerarsi come requisizioni di guerra e perciò non vanno trattati secondo il procedimento generale ; e in una ordinanza del ministero della Difesa austriaco del maggio 1917 si dice che per quanto riguarda le riscossioni dei danni di guerra saranno in breve tempo emanate disposizioni . Queste disposizioni però non sono state ancora emanate. Dopo la promessa del signor presidente del Consiglio vogliamo sperare che la rapidità consisterà per lo meno nell’emanazione di tali disposizioni. Desidero tra l’altro osservare che anche la liquidazione delle requisizioni di guerra è fortemente in ritardo. A Trento le richieste degli anni 1914 e 1915 sono ancora inevase. Nelle commissioni avremo ancora occasione di chiedere come mai è accaduto che 4000 capi di bestiame della popolazione evacuata della Valsugana che erano stati radunati a Pergine furono acquistati dall’intendenza in media da 200 a 300 corone per capo, cioè circa da 70 a 80 heller al chilo a peso vivo, mentre in una ordinanza del ministero della Difesa del 17 luglio 1915 era stato prescritto in modo molto chiaro di pagare questo bestiame per 2 corone al chilo a peso vivo. La stessa cosa è avvenuta anche nel distretto di Cles relativamente al bestiame requisito alla popolazione evacuata e io penso anche altrove, sebbene non l’abbia potuto constatare. Arrivo ora alle normali requisizioni presso la popolazione non evacuata. Se si procederà a un contingentamento proporzionale, allora non c’è nulla da eccepire; c’è ormai la guerra e dappertutto si requisisce. Ma che le zone di confine debbano pagare dei tributi extra rispetto al generale contingentamento proporzionale, che debbano assumere su di sé carichi maggiori, contro ciò noi protestiamo. Nella Val di Non e nella Val di Fiemme, per esempio, ci siamo dovuti assumere un tributo di enormi quantità di fieno e foraggio, senza che le quantità di fieno che venivano prima acquistate dai militari sul posto potessero essere calcolate, e la luogotenenza ha dichiarato in un’ordinanza del 30 luglio 1917 che non si concede alcuna detrazione dal contingente generale per le proprietà terriere e i pascoli presi in gestione dall’esercito . Ma poiché da noi molte proprietà terriere e pascoli sono gestite dai militari, è questo un tributo extra che ci viene addossato. Come si sia proceduto senza riguardo in queste normali requisizioni da parte delle autorità politiche, lo si può desumere da un’ordinanza del capitanato distrettuale di Cles del 19 maggio 1917 dove si dice [legge]: «All’imperial-regio comando di gendarmeria distrettuale e a tutte le postazioni di comando ad eccezione di Pizzano. Si deve agire con tutta l’energia e con tutti i mezzi, affinché da parte dei comuni sia versato in ogni caso all’imperial-regio magazzino di vettovagliamento militare a Malé quanto prima la quantità di fieno ancora da consegnare. Gli animali domestici dei singoli proprietari si devono accontentare di foraggio fresco. Tutto il fieno ancora disponibile nei comuni deve essere versato alla stazione di controllo (tutte le stazioni di treni merci). Il comandante della postazione è responsabile personalmente. Non si deve aver nessun riguardo per reclami e obiezioni dei sindaci e dei proprietari. Arrestare i riottosi e consegnarli al prossimo comando di retrovia. Ammesse misure di costrizione di qualsiasi tipo. Il fieno deve, e subito, essere raccolto. L’imperial-regio consiglio della luogotenenza.» Ma, al contrario, per il sostentamento della popolazione con generi alimentari come carne o grasso si è riscoperta la cosiddetta regione della nebbia, il Trentino, cioè per il sostentamento della città di Trento furono assegnati soltanto distretti italiani. Quando questi distretti che ho prima menzionato saranno esauriti, la città di Trento sarà imparagonabilmente in svantaggio nei confronti delle città tedesche del Tirolo. Non voglio ora entrare in discussione su ciò che concerne i piani politici del governo. Sarebbe ingenuo da parte mia parlare dell’autonomia nazionale o della posizione che la nostra parte di territorio avrà in futuro nei confronti della parte territoriale tedesca, in un momento in cui siamo completamente abbandonati alla nazione dominante, in cui il nostro vice-capitano provinciale, il dr. Conci , non ha ancora potuto prendere parte all’amministrazione territoriale, in cui noi siamo completamente amministrati dalla maggioranza, non abbiamo voce e non troviamo ascolto. Ma dirò ancora una sola cosa sul capitolo degli internamenti. Nella seduta del 15 luglio 1917 la Camera ha adottato la deliberazione di esortare il governo a consentire a tutte le persone che erano state internate o confinate di tornare in patria . Il ministro ha anche dichiarato che il Comando supremo dell’esercito ha incaricato i comandi d’armata di procedere a questo riguardo in modo liberale. Ora chiedo al signor ministro degli Interni quale percentuale tra coloro che furono precedentemente confinati o internati è tornata a casa. Noi riteniamo al massimo il 2 %. Ciò dipende certamente dal presidium della luogotenenza di Innsbruck, che si potrebbe chiamare centrale di persecuzione, al cui vertice è in realtà un uomo al quale potrebbe essere applicato il motto del Faust: «Sono lo spirito che sempre nega.» Come si è proceduto a questo riguardo lo si desume dall’interpellanza del mio stimato collega signor Dr. Conci e da questa voglio trarre solo un caso a illustrazione. Una vedova di Rovere della Luna, Therese Bolner, una contadina, ha cinque figli al fronte, due sono caduti e il terzo è invalido di guerra. Sia lei che l’invalido di guerra furono internati a Katzenau e rilasciati con l’amnistia generale. Ci si sarebbe allora potuto aspettare che essi, dal punto di vista della ragionevolezza e dell’umanità che il ministro degli Interni ha promesso di tenere in considerazione, potessero andare a casa, tanto più che sono agricoltori, hanno un proprio podere e hanno subito un danno molto grande. Invece al contrario: si è rifiutato a costoro già molto provati il rimpatrio. È anche molto chiaro dal procedimento che fu impiegato che nessuno può tornare a casa, perché qual’è in realtà l’istanza a cui ci si rivolge? È sempre lo stesso gendarme che ha condotto via la gente, o lo stesso sottufficiale che li ha fatti arrestare, e se quest’ultimo deve abbandonare il suo precedente punto di vista, lo riterrà un fallimento personale. Qui non servono considerazioni ufficiali. Ci sono comuni che hanno fatto richiesta affinché il medico comunale possa andare a casa, poiché lì la necessità a questo riguardo è grande, e viene rifiutata. Ci sono parrocchiani che hanno pregato affinché il parroco possa tornare a casa perché la parrocchia è abbandonata, ed è stato negato! C’è un gran numero di insegnanti che vuole tornare a casa per esercitare colà il proprio dovere: ed è stato negato. Beh, cosa si deve poi dire, quando persino il nostro principe vescovo viene ancora tenuto lontano dalla diocesi. Signori miei! Il governo rivoluzionario della Russia ha fatto tornare a casa l’arcivescovo di Leopoli, sebbene egli fosse un cittadino straniero, e la cattolica Austria tiene ancora lontano un principe vescovo dalla sua diocesi, al quale può essere solo rimproverato, e viene rimproverato, ciò che il Papa ha prescritto nella sua ultima istruzione come santo dovere pastorale. Ma cosa credono di ottenere a questo riguardo coloro che detengono il potere? Sono tornato per un po’ di tempo e posso dire che il vescovo Endrici non fu mai tanto caro al suo clero e al popolo come ora che è esiliato, mai fu la sua influenza così potente come nel momento in cui egli può agire solo attraverso il forte silenzio, e nella diocesi un popolo intero avverte in occasione delle solenni occasioni religiose dell’anno che – per dirla con Dante – l’ombra sua torna ch’era dipartita. [Molto bene]. Ma come può lamentarsi la nostra intellighenzia di questo trattamento, quando poi un popolo intero viene trattato così, quando anche i contadini e i profughi sono trattati così? Quando qui si parlò degli internamenti, dal banco dei ministri il principio non fu in realtà approvato. Ciononostante troviamo nell’ordinanza generale del 1° settembre sui rimpatri dei profughi, che lì il principio viene di nuovo fissato, infatti non viene concesso a tutti i profughi che furono evacuati di tornare a casa, ma vengono statuite delle eccezioni . Viene introdotto un trattamento individuale delle istanze. L’autorità distrettuale della località dove si sarebbe recato il profugo, dopo aver ricevuto la legittimazione, deve esaminare in accordo con l’autorità militare competente se il profugo in questione è degno di fiducia. Signori miei, ma è lo stesso. Si è mutato solo il nome, invece di fidato si è scritto degno di fiducia. È un peccato che l’ultima volta quando abbiamo discusso la legge sui profughi, non eravamo a conoscenza dell’ordinanza segreta della capitanato distrettuale di Lilienfeld del 14 marzo di quest’anno, dove molto apertamente si dichiara che tutti i profughi sono internati. Nell’ordinanza si dice [legge]: «A tutti i sindaci ecc. Oggetto: profughi di guerra italiani, confino. In considerazione del fatto che quasi la maggioranza dei profughi non è da considerarsi politicamente del tutto fidata, e per motivi di pubblica sicurezza e di ordine pubblico sembra necessaria una diretta sorveglianza di queste persone, è necessario il loro confino nei singoli comuni dove hanno finora soggiornato. I profughi italiani, trattenuti in tali territori comunali, vanno informati che un cambio dei comuni di soggiorno e dell’alloggio all’interno degli stessi è inammissibile senza approvazione delle autorità e comporterà corrispondenti conseguenze. È perciò disposta la precisa registrazione e stretta sorveglianza dei profughi italiani». Ma è molto chiaro che qui non si tratta di medici, preti, avvocati, della cosiddetta intellighenzia che è considerata meno fidata, no, si tratta di un intero popolo, un intero popolo è stato evacuato, per meglio dire deportato, e contro un intero popolo si è rivolto questo provvedimento politico. La colpa forse non era dunque un piccolo fatto qualsiasi che fu poi rimproverato a ogni internato, ma era il peccato originale a cui noi tutti siamo soggetti, il peccato originale di essere nati italiani. [È così!]. Questo demone che li ha mandati tutti in esilio, imperversa ancora tra coloro che sono rimasti a casa. Tuttavia la convocazione del Parlamento ha automaticamente comportato un certo alleggerimento psichico, ma nella regione sono rimasti gli stessi uomini che proseguono la stessa politica di potere. La centrale di queste persecuzioni, come ho precedentemente menzionato, è la luogotenenza di Innsbruck, cioè il presidium della stessa. In luglio, nella stessa seduta che ho ricordato prima, la Camera ha esortato il governo a rivedere i processi disciplinari condotti in fretta e nelle note «condizioni non chiare» contro impiegati statali e funzionari pubblici e il ministro ha promesso a questo riguardo di venire incontro al desiderio della Camera. Ora domando, quanti processi sono stati rivisti, non sono a conoscenza di nessuno. Al contrario, lo stesso demone imperversa ancora e il presidium della luogotenenza è persino giunto a ordinare ai comuni di annullare il contratto col medico comunale, con la motivazione generica che il medico che opera lì da 20- 30 anni improvvisamente non viene reputato del tutto patriottico. Naturalmente al peggio stanno gli insegnanti. Accade che un insegnante in un processo disciplinare comunemente condotto riceva soltanto un rimprovero. Il crimine era quindi modesto. Ma la conseguenza è grave. Contemporaneamente viene scritto a tutti gli ispettorati distrettuali che essi non possono più assumere gli insegnanti in questione. Così gli insegnanti vengono in realtà licenziati. Anche ai preti viene prestata un’attenzione particolare e anche molti di loro che non erano internati restarono confinati nella loro parrocchia. Nel mio distretto elettorale un prete per confessarsi non può neanche andare dal suo comune al comune vicino. Per passare a un altro argomento, vorrei far notare che su disposizione delle autorità militari in alcune località sono scomparse tutte le scritte italiane e sono state sostituite con quelle tedesche. Tutte, non solo quelle pubbliche, ma anche quelle private. Nel mio distretto elettorale, dove non sono più stato durante la guerra, al mio rientro non ho più trovato una sola scritta italiana, né privata né pubblica, è tutto scomparso. Ci può anche accadere che presso le ferrovie locali, in parte finanziate e costruite coi nostri soldi, non riceviamo biglietti se li chiediamo in lingua italiana. In questo piccola regione terrorizzata, di soli 300.000 abitanti, certi funzionari si sentono e si atteggiano come piccoli tiranni. Uno formula il suo programma di governo, che difficilmente dovrebbe concordare con le dichiarazioni del presidente del Consiglio, nel motto: «Si deve lasciare la gente nei propri guai.» [Senti! Senti!]. Un altro culmina le proprie azioni nella vergognosa danza macabra che fa inscenare attorno a una forca, un terzo – secondo un’interpellanza del Dr. Conci – ha pubblicamente introdotto in una ordinanza la pena corporale [ilarità]. Il popolo osserva stupito e spaventato e si chiede se il suolo che «lo zelo delle sue mani crea» e su cui può solo strisciare, possa ancora considerarlo come suo. E questi tirannucci credono, poiché è diventato silenzioso, che sia un cimitero. Ma lasciate un po’ soffiare lo spirito della libertà attraverso queste membra morte e, come un tempo prima del profeta, esse si riuniranno e formeranno uomini liberi pieni di vita. Noi possiamo tranquillamente dire col grande poeta tedesco: «Lasciate crescere il conto dei tiranni, finché un giorno si pagherà in una sola volta il debito generale e particolare.» [Bravo! Bravo!]. Questo giorno deve arrivare e arriverà. Un risultato sicuro di questa guerra è già stabilito e ha preceduto la decisione sui campi di battaglia, è la vittoria del principio della democrazia nazionale. [Approvazione e applausi].
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La Commissione profughi, colpita dalla sconvolgente notizia dell’uso delle armi contro i profughi a Wagna , su proposta del deputato dr. Bugatto , ha deciso di procurarsi informazioni sul posto tramite i propri uomini di fiducia. Questo apparve tanto più urgente dato che il ministro degli Interni , che prese parte ai dibattiti della Commissione, non era ancora in grado di esprimersi in merito all’accaduto. I deputati Fon, Hruska, Pittoni e il sottoscritto relatore assieme con il capitano provinciale deputato Faidutti e il delegato del Comitato meridionale di soccorso il deputato Bugatto si recarono quindi il 6 di questo mese a Wagna, dove hanno avuto uno scambio di idee con i profughi e si sono informati a fondo presso i funzionari dell’amministrazione del campo. Nella seduta del 9 di questo mese i suddetti deputati hanno riferito nella Commissione sulle circostanze di fatto e sulla base delle loro osservazioni hanno presentato delle conclusioni che sostanzialmente corrispondono a quanto scritto dal deputato Hruska che non aveva potuto partecipare alla seduta della Commissione. Sulla base di queste conclusioni la Commissione, a dibattito concluso, ha deciso di sottoporre alla Camera quanto illustrato dai propri uomini di fiducia e presenta le seguenti mozioni formulate dai deputati Bugatto e Kuranda : La Camera voglia deliberare: «1. La Camera dei deputati prende atto della descrizione dei fatti del 4 ottobre nel campo di Wagna da parte della Commissione profughi, esprime il suo profondo rincrescimento per l’avvenuto uso delle armi, di cui è caduto vittima un innocente bambino, e richiede l’immediato avvio e la risoluta attuazione dell’inchiesta del tribunale militare nei confronti del gendarme in questione. 2. La Camera dei deputati condanna nella maniera più drastica l’uso dei campi profughi come se fossero luoghi per la limitazione della libertà personale e perciò anche ogni utilizzo, non corrispondente alle norme generali, di organismi armati per il mantenimento dell’ordine all’interno dei singoli campi. 3. La Camera dei deputati esprime il suo vivo rincrescimento, poiché il disegno di legge sul regolamento dell’assistenza ai profughi, deliberato il 12 luglio di quest’anno , finora non è ancora stato dibattuto dalla Camera dei Signori. 4. La Camera dei deputati biasima il continuo utilizzo nei campi profughi di organi dirigenti che non conoscono la lingua dei profughi e che non sono pratici dei loro usi e costumi. 5. Il governo viene pregato di riorganizzare subito anche l’amministrazione del campo di Wagna ai sensi delle decisioni del Parlamento e di riferire entro il termine di un mese alla Camera sull’attuazione della riorganizzazione» .
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Eccelsa Camera! Alla presente relazione stampata desidero aggiungere solo una breve spiegazione. La Commissione era ben lontana dal voler formulare un giudizio conclusivo sull’amministrazione complessiva di Wagna e sui provvedimenti che vi furono presi in favore dei profughi. Quei membri della Camera, che dall’inizio della guerra si occupano dell’assistenza ai profughi, sanno pienamente valutare le difficoltà che lì dovettero essere superate e apprezzare l’enorme somma di lavoro che vi è stata portata a termine. Le deliberazioni non devono perciò essere interpretate come se si volesse disconoscere quanto fatto da funzionari benemeriti. Piuttosto esse sono l’espressione di quella ferma volontà già manifestata dalla Camera votando la legge sui profughi, che essi d’ora in poi debbano essere trattati non solo come poveri da aiutare, bensì come veri cittadini e quindi che i campi non debbano essere solo colonie di senzatetto, ma debbano essere considerati come comuni e città provvisorie nelle quali il profugo, abbandonato il suo ruolo passivo, debba essere adibito alla collaborazione e all’attività pratica. Questo è però possibile solo se i funzionari di fronte ai profughi sono in grado di comportarsi non solo come autorità amministrativa, ma anche come guide morali. In questo senso vanno intese le deliberazioni generali ai punti 4 e 5. Del resto questo non è solo un postulato che si fonda su principi costituzionali, ma per qualsiasi distaccato osservatore anche un’esigenza che scaturisce da motivi di funzionalità. La scarsità di viveri, di combustibile e di tutti i possibili articoli di prima necessità sta crescendo ovunque; fuori però l’opposizione della reazione dei consumatori si disperde nei diversi fattori economici, in un campo invece l’opposizione si concentra solo contro lo Stato; un motivo in più affinché il rappresentante di questo Stato debba possedere tutte le qualità e capacità che lo abilitino a un ruolo di mediatore e informatore. Del resto − poiché qui rappresentiamo il giusto diritto dei profughi − siamo consapevoli anche del nostro dovere di agire sugli stessi profughi, affinché domini nei campi l’ordine e la legalità. Noi abbiamo agito in questo senso, siamo pronti a continuare a farlo, ma anche il governo e la Camera dei Signori devono fare il loro dovere; il nostro lo adempiremo sicuramente.
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Eccelsa Camera! Il signor deputato Einspinner ha usato parole dalle quali si coglieva il sospetto che qui si trattasse di una polemica contro i funzionari «tedeschi» o di una protezione di posti che si stanno liberando. In nome della Commissione devo protestare contro ogni parvenza di tali sospetti. Se noi chiediamo funzionari che conoscano la lingua, questo accade nell’interesse della situazione e ai sensi del progetto di legge deliberato da tutti i partiti. Desidero ancora aggiungere quanto segue: Il signor deputato Einspinner ci ha rimproverato di aver agito unilateralmente nella nostra indagine o, per meglio dire, nella nostra ispezione e raccolta di informazioni, cioè che noi non abbiamo interrogato i gendarmi. Prego di osservare che noi non ne avevamo il diritto. Ci siamo recati − tuttavia dopo aver interrogato i profughi − anche nell’amministrazione delle baracche e abbiamo raccolto informazioni anche lì. Tra l’altro desidero constatare che le nostre conclusioni e la nostra relazione corrispondono sostanzialmente con la relazione delle autorità comunicata nella Commissione da sua Eccellenza il signor ministro degli Interni . Per le nostre conclusioni non ci serve quindi attendere nuovamente un altro procedimento giudiziario e perciò non posso approvare la mozione del deputato Einspinner, che è in realtà una proposta di aggiornamento. Ci si è inoltre meravigliati della grande agitazione dei profughi a causa della confisca dei viveri. Riguardo a ciò desidero solo osservare che se accade qualcosa di simile a Vienna, vi è pure una grande agitazione. Prego i signori di leggere per esempio la relazione del Consiglio comunale di Vienna nei giornali di sabato, dove si parla della forte «ira», di grande «inquietudine», poiché non viene permessa la circolazione delle patate nei sacchi da montagna. Nel caso dei profughi non si è trattato solo di patate, bensì in genere di tutti i viveri; l’agitazione era quindi veramente opportuna o almeno molto comprensibile. Infine constato che non abbiamo sicuramente tentato di portare dentro all’accampamento una sobillazione nazionale, al contrario, mi sembra che ciò, consapevolmente o inconsapevolmente, sia accaduto da parte del deputato Einspinner. A questo riguardo voglio però mettere in rilievo che in alcuni campi profughi sono emerse tendenze − intendo tendenze nazionali −, di fronte alle quali in tempi normali sicuramente non saremmo passati oltre, nei confronti delle quali però, tenendo conto della provvisorietà dell’insieme, siamo stati temperanti. Prego perciò i rappresentanti della popolazione locale di fare lo stesso, affinché nemmeno una volta la fiaccola del contrasto nazionale venga gettata dentro a queste baracche di legno, poiché per l’incendio che ne avrebbe origine non saremmo noi i responsabili, ma i signori in questione. Prego di approvare le mozioni della Commissione .
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Il modo e la maniera con cui è stata introdotta la nuova legge sul sostentamento suscita nelle cerchia degli aventi diritto fondata agitazione e malumore. Questo accade anche per i profughi di guerra. Tre mesi e mezzo sono trascorsi dall’entrata in vigore della legge e i più attendono ancora una decisione sulle loro pretese: per esempio, dal campo di baracche di Mitterndorf sono pervenute alla commissione territoriale per il sostentamento (filiale) a Vienna circa 1660 domande, di esse fino a pochi giorni fa neppure un terzo è stato evaso. Gli interessati attendono invano i contributi che per legge spettano loro. Nei casi relativamente rari in cui il contributo di sostentamento è stato riconosciuto e assegnato, furono praticate in alcuni campi profughi delle riduzioni che stanno in aperta contraddizione con la legge (§ 5). In particolare a tutti, per il periodo dal 1 al 21 luglio, è stato defalcato tanto, che ai destinatari sono rimasti soltanto 50 heller al giorno e a testa. Gli organi statali si richiamano a disposizioni superiori. Le proteste delle parti in causa sono rimaste per ora senza risposta. Nel campo profughi di Mitterndorf viene inoltre tolto dal contributo di sostentamento anche la somma di 20 heller a persona e a giorno, e ciò con riferimento alla circostanza che ai titolari del contributo viene versato il cosiddetto soldo di campo, a cui essi non hanno diritto. A prescindere dall’illegittimità (§ 5 della legge citata) di questa procedura, appare quanto meno strano che ai titolari del contributo di sostentamento venga consapevolmente fatto un versamento che non gli spetta, per poi prelevare questa stessa somma in occasione del pagamento del contributo di sostentamento. Sarebbe certamente più semplice pagare il soldo di campo solo a coloro che ne hanno diritto. La richiesta da parte degli aventi diritto nei circoli di profughi a un ordine di pagamento degli arretrati loro spettanti viene disattesa costantemente da parte delle commissioni per il sostentamento, benché il tribunale amministrativo in numerosi casi abbia sentenziato che anche in base alla legge del 26 dicembre 1912 ai profughi spetta il contributo di sostentamento a prescindere dall’assistenza di fuorusciti goduta, e nonostante che il legislatore abbia approvato questo orientamento del tribunale amministrativo mediante una disposizione espressa nella nuova legge. Ma intanto, tutte le parti in causa sono costrette a percorrere la via del ricorso al ministero e del reclamo al tribunale amministrativo, per ottenere il rispetto dei loro palesi diritti. V’è di più! Fino a pochi mesi fa veniva energicamente sconsigliato, da parte degli organi ufficiali, ai profughi che stavano sotto assistenza statale di intraprendere passi per rendere effettivo il loro diritto, minacciandoli perfino, nel caso d’insistenza, di togliere l’assistenza statale ai profughi. Accadde così che molti profughi tralasciarono di fare ricorso contro le decisioni loro sfavorevoli della commissione per il sostentamento. Ora a queste parti in causa, che hanno rinunciato a difendere il loro diritto solo a seguito delle pressioni degli organi di autorità, viene obiettata la capacità giuridica. Noi siamo convinti che il governo non approva un tale procedimento e ci permettiamo perciò di rivolgere alle Loro Eeccellenze le seguenti interrogazioni : «1. Sono le Loro Eccellenza a conoscenza di questi dati di fatto? 2. Sono le Loro Eccellenze pronte a richiamare al dovere le commissioni per il sostentamento loro sottoposte, affinché le richieste dei profughi siano evase senza ritardo ed eventualmente anche ad accelerare la definizione di queste pratiche mediante l’insediamento di commissioni parallele? 3. Sono le Loro Eccellenze pronte a rendere attenti i sottoposti uffici della illegittimità delle trattenute compiute, a biasimare una simile procedura e a ordinare che le trattenute finora compiute siano rimborsate? 4. Sono le Loro Eccellenze pronte ad attribuire alle commissioni terrioriali di sostentamento l’incarico di evadere le pretese sollevate di pagamento dei contributi di sostentamento arretrati, nel senso della costante indicazione, sopra ricordata, del tribunale amministrativo e di versare le somme rispettive agli aventi diritto, senza badare a decisioni precedenti?»
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1,917
3Habsburg years
31916-1920
Dopo che la maggior parte dei relazioni dei delegati non sono più attuali a causa della nuova regolamentazione dell’assistenza intervenuta nel frattempo, l’estensore del presente rapporto ritiene di poter passar sopra i singoli suggerimenti e proposte dei delegati, ma vorrebbe constatare che tali proposte – come pure in generale le esperienze dei membri del comitato – sono state tutte pienamente utilizzati da quei delegati che hanno preso parte attiva alla nuova regolamentazione parlamentare dell’assistenza, in modo tale che il Comitato ha esercitato anche indirettamente un’influenza non priva di rilievo sul favorevole perfezionamento dell’assistenza ai profughi. Ciò premesso, l’estensore si limiterà ad utilizzare i rapporti in modo tale da poter ricostruire un quadro generale della situazione attuale dei profughi. Egli trova che, in generale, la situazione odierna presenti i seguenti peggioramenti: 1. Peggioramenti provocati da ostacoli o mancanze difficili da superare: a) Carenza di materiale da costruzione a Wagna e Braunau; perciò non può essere compiuta la ricostruzione delle baracche, poiché non è facile far i conti con le limitazioni al commercio di mattoni, cemento e calce, con la mancanza di ferro e di strumenti meccanici fino al fil di piombo. Così, ad esempio, non si sono potute realizzare le nostre richieste d’istituire una scuola agraria a Braunau e di procedere alla pulizia a Wagna (rapporto Beck). b) Mancanza di carbone. Esempio: bisogno quotidiano a Braunau, 20240 chilogrammi, consegna effettiva 5300 chili; di conseguenza la lavanderia e le docce sono fuori uso, la maggior parte delle misura igieniche al chiuso sono sospese, perfino l’apparato di disinfezione viene tenuto in funzione in misura limitata solo mediante fuoco a legna. A causa della carenza di combustibile si è realizzata anche l’impossibilità di incrementare il numero delle cucine autonome nel campo. c) Venir meno delle quote alimentari addizionali prospettate in autunno. Nei mesi autunnali, avevamo ottenuto quote addizionali di legumi e mais, oltre la tessera del pane, per distretti particolarmente difficili. Esse sono però ora cadute del tutto, cosicché i profughi in molti distretti del nord patiscono la fame. 2. Peggioramenti che possono essere rimediati: a) È stata acquisita la libertà d’acquisto di alimenti non razionati (richieste Beck, Dr. Bugatto, Bonfioli), ma non si è potuto porre in essere anche per i profughi il trattamento comprensivo nel piccolo commercio alimentare, che è ora stato assicurato alle città. A Palterndorf, ad esempio, è stato sequestrato dalla gendarmeria grano e mais raccolto dai profughi con un faticoso lavoro notturno e continua a succedere che questi alimenti debbano essere abbandonati dai profughi in occasione del loro ritorno a casa. Le condizioni peggiori esistono nei distretti di Jicin, Pisek, Schlan, Gänserndorf, Landskron e Göblasbruck; la creazione di posti speciali di distribuzione di alimenti per i profughi è avvenuta solo in pochissimi distretti. A Deutschbrod è stato realizzato un magazzino del genere. A Wagna non ha ancora avuto luogo l’aumento della razione di pane. Per quanto riguarda Mitterndorf, vorrei osservare che poco tempo fa è comparsa sul mercato viennese la carne di pecora congelata, che da lungo tempo viene lavorata in quella località, ma poi è subito sparita poiché le donne di casa, nonostante la convenienza del prezzo, non volevano comprare una carne di così scarso valore. b) In molti rapporti si lamenta il crescente abbrutimento dei bambini, sia nella diaspora che nei campi. Ciò va riportato, in primo luogo, alla mancanza della scuola. Vi sono distretti (Palterndorf) dove i ragazzi non frequentano da due anni la scuola e anche nei campi, a causa della mancanza di spazi idonei, l’insegnamento può essere impartito solo per metà giornata. c) Pagamento del contributo di sostentamento. Ancora attendono risposta le richieste di diversi delegati perché vengano istituite nei campi speciali commissioni per il disbrigo rapido delle domande. L’estensore del presente rapporto raccomanda l’annullamento del decreto del Ministero degli Interni del 17 aprile 1917, che dispone di dedurre il sussidio ai profughi dal contributo di cui sopra. d) Da molti rapporti emerge la necessità di organizzare un’azione speciale di aiuto per il ceto medio (richieste Fabiani). e) Le esperienze relative al rimpatrio costringono alla conclusione che non dovrebbe essere esercitato alcun obbligo generale, tranne che per determinate categorie e valutati tutti i fattori intervenenti e che sarebbe raccomandabile l’istituzione di commissioni speciali per il rimpatrio, a cui affidare la prosecuzione dell’assistenza ai profughi in patria fino al loro ritorno in condizioni di normalità. Il quadro generale presenta però anche i seguenti miglioramenti: a) Miglioramento finanziario. Viene qui in considerazione non solo l’aumento del sussidio, ma anche il simultaneo riconoscimento del contributo di sostentamento, per il cui ottenimento alcuni membri del comitato si sono guadagnati meriti particolari (Bonfioli, Bugatto). b) Miglioramento dell’organizzazione. Sono stati istituiti nei campi i comitati amministrativi. Vi sono già verbali di riunioni da cui si deduce che essi possono dare un utile contributo nell’amministrazione. Anche qui si è dimostrata utile o addirittura indispensabile, come nel caso di Mitterndorf, la collaborazione di singoli membri del comitato. Se prestiamo memoria alla seduta in cui venne respinta la nostra modesta richiesta di consentire comitati locali nei campi, dobbiamo ora ammettere che nella questione dell’organizzazione è stato raggiunto un progresso significativo. In questo capitolo rientra anche il miglioramento dell’approvvigionamento e delle cucine nel campo di Mitterndorf.
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1,918
3Habsburg years
31916-1920
Alcuni giorni fa il deputato del Reichsrat dr. Conci fu destituito dalla sua carica di primo vice-capitano provinciale del Tirolo. Questo provvedimento del tutto unico rappresenta una violazione della legge sia riguardo all’autonomia dell’amministrazione provinciale sia riguardo alla persona del dr. Conci, che era stato nominato primo vice-capitano provinciale del Tirolo per l’intero periodo della Dieta, e giacché l’ordinamento regionale stabilisce che la funzione di tutti i deputati della Dieta, quindi anche quella del capitano provinciale e dei sostituti dello stesso, duri sei anni. Una destituzione del capitano provinciale e dei sostituti in questione non è tra l’altro assolutamente prevista nell’ordinamento regionale. L’avvenuta destituzione significa anche una violazione dei diritti di immunità di un deputato del Reichsrat, il quale dovrebbe venire ammonito per il suo comportamento in questa qualità. Inoltre con la destituzione, disposta su richiesta di rappresentanti della maggioranza della Dieta tirolese, venne offesa la popolazione italiana della regione, alla quale fu dimostrato che di essa non si tiene conto e che si agisce solo su imposizione di rappresentanti della popolazione tedesca. Perciò i sottoscritti rivolgono al signor presidente del Consiglio dei ministri la seguente domanda: «Come può Sua Eccellenza giustificare l’avvenuta destituzione del deputato dr. Conci dal posto di vice-capitano provinciale del Tirolo?»
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1,918
3Habsburg years
31916-1920
Il capoverso 1. del § 7 della Legge del 31 dicembre 1917 relativa alla protezione dei profughi di guerra autorizza il governo ad aumentare il sussidio in contante dei profughi, conformemente all’andamento del carovita. I sottoscritti richiedono perciò : L’eccelsa Camera voglia deliberare: «L’imperial-regio governo viene invitato ad aumentare il sussidio in contante per i profughi di guerra in base all’autorizzazione contenuta nel § 7 della Legge sui profughi e al crescente rincaro dei generi alimentari e degli articoli di prima necessità». Si richiede formalmente l’assegnazione alla Commissione per i profughi.
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1,918
3Habsburg years
31916-1920
Il 25 luglio, i deputati Dr. Degasperi, Dr. Faidutti, Rauch, Fon, Dr. Lew Bacznusky e consorti hanno presentato la seguente proposta: Il capoverso 1. del § 7 della Legge del 31 dicembre 1917 relativa alla protezione dei profughi di guerra autorizza il governo ad aumentare il sussidio in contante dei profughi, relativamente all’andamento del carovita. I sottoscritti richiedono perciò: «L’imperial-regio governo viene invitato, in base all’autorizzazione contenuta nel § 7 della Legge sui profughi e al crescente rincaro dei generi alimentari e degli articoli di prima necessità, ad aumentare in misura corrispondente il sussidio in contante per i profughi di guerra». Nella riunione del 3 ottobre, la Commissione per i profughi ha ora assunto all’unanimità, su questa richiesta, una decisione positiva ed ha pure accolto con analogo voto la richiesta di Kolessa, che il sussidio in contante venga aumentato del doppio rispetto al suo valore attuale. La commissione per i profughi richiede perciò: L’eccelsa Camera voglia deliberare: «L’imperial-regio governo viene invitato, in base all’autorizzazione contenuta nel § 7 della Legge sui profughi e in base al crescente rincaro dei generi alimentari e degli articoli di prima necessità, ad aumentare il sussidio in contante per i profughi di guerra del doppio rispetto al suo valore attuale».
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1,918
3Habsburg years
31916-1920
Nel gennaio 1918 vennero arrestati 37 italiani del Trentino, tra i quali gli ex deputati Avancini e Paolazzi e il commissario governativo della città di Trento dr. Bertolini , e un comunicato ufficiale alla stampa diceva che le autorità miliari erano riuscite a rintracciare un’azione spionistica in grande stile. Finora degli arrestati due sono morti in arresto, 15 sono stati messi in libertà, 17 sono ancora in custodia preventiva, di questi 5 sono ricoverati nell’ospedale degli inquisiti in uno stato di forte deperimento. È diventato noto che gli imputati vennero interrogati solo molte settimane dopo il loro arresto e che anche coloro, contro i quali fu subito chiaro che non c’era nulla, vennero messi in libertà provvisoria solo dopo parecchi mesi di custodia preventiva; che anche contro tutti gli altri nonostante un’indagine di mesi non si poterono trovare le minime note per la formulazione dell’accusa. Si chiede perciò all’imperial-regio governo : «È disposto a fare al più presto una relazione al Parlamento sullo stato del processo e sulle accuse che sono sollevate contro gli arrestati?»
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1,918
3Habsburg years
31916-1920
Eccelsa Camera! Quando in gennaio il commissario governativo di Trento, dr. Bertolini, fu arrestato assieme a un gran numero di italiani, il nostro collega dr. Conci protestò contro questo nuovo atto di persecuzione. In risposta alla sua protesta apparve un comunicato nel quale, contro ogni norma di legalità, si affermava che le autorità militari erano riuscite a scoprire una vasta organizzazione spionistica. Dopo questo annuncio sono passati quasi dieci mesi. Dei trentasette imputati, già quindici dovettero venire messi in libertà e finora contro nessuno degli imputati è stata ancora formulata l’accusa. [Senti! Senti!]. È già un segreto noto che il giudice istruttore non è riuscito a trovare le prove per una accusa [Senti! Senti!]. e che dobbiamo solo agli sforzi crudeli di coloro che hanno intentato il processo e che si sono compromessi con autorità superiori se tante persone innocenti languono in carcere. Durante questo periodo di martirio sono purtroppo deceduti due degli imputati in seguito alle sofferenze subite e cinque giacciono ora nell’ospedale degli inquisiti. L’inchiesta aveva fin dall’inizio assunto un andamento terribilmente lento. Solo dopo diverse settimane gli imputati furono sottoposti al primo interrogatorio formale e solo dopo quattro mesi di arresto uno di loro fu messo in libertà provvisoria e fu subito chiaro che era stato scambiato per uno dei suoi fratelli. [Interruzioni]. Noi deputati abbiamo aspettato lungo tempo la completa sospensione del processo e abbiamo evitato una presa di posizione pubblica per un riguardo della sorte personale degli arrestati. Ma ora è venuto il momento di appellarsi all’opinione pubblica e soprattutto a questa sede, affinché il governo ponga fine a questo nuovo scandalo della giustizia militare. Noi chiediamo che ci venga pubblicamente detto che cosa c’è contro gli arrestati, affinché il pubblico possa farsi un’idea di come vengono istruiti tali processi e affinché il governo sia costretto, sotto la pressione dell’opinione pubblica, a compiere un atto di riparazione e di giustizia. E ora ancora un breve chiarimento: sul mio ultimo discorso, tenuto prima che fosse resa nota la proposta di pace a Wilson, un giornale viennese scrisse che era stato un leggero congedo dall’Austria, ma comunque solamente l’atto di una singola coscienza volubile e non la voce del Trentino e dei suoi deputati. Il capitano provinciale del Tirolo Schraffl , dopo un suo colloquio col barone Burian , ha fatto dichiarare ai giornali del Tirolo che egli adesso è perfettamente tranquillo, poiché la decisione definitiva dipende dalla presa di posizione della popolazione italiana e che, se fosse possibile un plebiscito, si potrebbe essere sicuri che la maggior parte degli italiani del Sudtirolo si pronuncerebbero a favore di una permanenza con l’Austria. Di fronte a queste affermazioni e al tentativo che si fa nel Tirolo di sfruttare isolate manifestazioni irrilevanti e poco significative, frutto dell’opera di costrizione delle autorità e del potere armato, si constata qui solennemente e francamente − anche per eliminare ogni dubbio riguardo alle aspettative e alle opinioni della popolazione italiana in questo momento, come forse si potrebbe dedurre dai discorsi del deputato Bugatto; e per reagire inoltre alle ultime affermazioni del signor deputato Kraft − che la popolazione trentina si attende dalla conclusione della pace il riconoscimento del principio nazionale e la sua effettiva applicazione per gli italiani viventi attualmente in Austria. È inoltre convinta che il governo austro-ungarico, in quanto ha aderito ai 14 Punti di Wilson, abbia già da parte sua riconosciuto questo punto di vista. Nel caso però si decidesse per un plebiscito, stiano pure tranquilli il capitano provinciale del Tirolo e con lui il signor deputato Kraft, che la stragrande maggioranza della popolazione italiana, se la dichiarazione della propria volontà potesse avvenire in modo veramente libero da misure coercitive, approverebbe senz’altro questo punto di vista e lo confermerebbe con piena convinzione. [Applausi]
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1,918
3Habsburg years
31916-1920
Il numero degli abitanti è di circa 5200: nell’ultimo periodo sono arrivate ogni giorno in media 30 persone e 30 sono partite. Coloro che sono usciti ritornano per lo più a casa; una piccola parte si trasferisce in distretti dell’Austria superiore; i nuovi abitanti arrivano dai distretti disastrati della Boemia e Moravia e in parte anche da Mitterndorf. È lodevole che l’amministrazione imperial-regia nell’accoglienza dei profughi, che sono cacciati dalla fame da certi distretti della Boemia, adotti la prassi più benevole. Riguardo a Mitterndorf ho proposto un’azione di compensazione tra i due campi, in modo che famiglie con molti bambini di Mitterndorf, i quali non possono fare a meno del latte, vengano scambiati con uno stesso numero di persone in grado di lavorare e laboriose di Braunau, ai quali dovrebbe essere assicurato un impiego nelle aziende di Mitterndorf. La proposta non incontrò alcun consenso, poiché i profughi di Braunau sono colà già occupati e le condizioni dei viveri a Mitteldorf sarebbero peggiori. Invece la commissione amministrativa che proprio in questi giorni, dopo otto mesi di attività, viene rinnovata con nuove elezioni, mi ha chiesto con urgenza di fare in modo che il Comitato difenda una maggiore possibilità di trasferimento degli abitanti del campo nei distretti dell’Austria superiore. Credo che questo sia sicuramente possibile senza gravare la popolazione locale in maniera insopportabile. La maggior parte degli abitanti erano infatti insediati anche prima nei distretti di Schärding, Ried, Grieskirchen, Efferding e hanno mantenuto buone relazioni con i contadini presso i quali essi erano prima; così succede che molti contadini si siano dichiarati pronti ad affittare l’appartamento agli abitanti del campo, ma che le autorità politiche neghino l’autorizzazione al trasferimento. Penso che la popolazione locale sappia difendere sé stessa molto bene e che non occorre che le autorità, se i contadini per diversi motivi sono ben disposti ad accogliere i profughi, vadano ancora oltre e intraprendano misure di sicurezza eccessive. Tendendo conto di questo e in considerazione delle molte circostanze note che fanno sembrare consigliabile di ridurre al minimo l’ammassamento nei campi per il quarto inverno, faccio la proposta di chiedere all’imperialregio ministero degli Interni, ovvero all’imperial-regia luogotenenza di Linz, che le imperial-regie sedi del capitano distrettuale dell’Austria superiore vengano in primo luogo assegnate a concedere il consenso dell’autorità al trasferimento a tutti quei profughi meridionali che vogliano trasferirsi dal campo di Braunau nella diaspora e che forniscano la prova che hanno trovato colà un alloggio. La commissione amministrativa ha inoltre chiesto che, nel caso il trasferimento non dovesse essere concesso in misura sufficiente, le baracche vengano ancora assegnate, in modo che ogni famiglia abbia uno spazio a disposizione. È sicuramente una richiesta ragionevole, se si pensa che così tante persone tra di loro estranee, senza differenza di ceto e di genere, sono costrette da tre anni ad abitare nello stesso locale. La ricostruzione incontra però le difficoltà maggiori e se si considera che la costruzione del nuovo edificio scolastico che avrebbe dovuto essere conclusa nello scorso settembre non è ancora terminata, si deve essere molto scettici nei confronti della realizzazione della richiesta ricostruzione, anche se dovesse venire autorizzata. Perciò non rimane nient’altro che insistere sull’agevolazione del trasferimento nella diaspora. Per quel che riguarda l’amministrazione del campo stesso non ho nulla da aggiungere alle mie precedenti relazioni. Il vitto non è più così buono come prima, poiché la razion e settimanale è stata ridotta di più della metà. In considerazione della momentanea situazione generale non trovo però opportuno fare richieste di miglioramento. L’apparato burocratico continua a lavorare sempre bene nonostante la riduzione del personale di quattro persone. Trovo solo da biasimare che la cosiddetta «Sezione per le questioni private», che dovrebbe essere un segretariato popolare, tuteli troppo poco gli interessi dei singoli profughi. Nella protezione giuridica, per esempio, tale sezione lascia il profugo sulla via del ricorso nei confronti dei ministeri e del tribunale amministrativo a sé stesso o a scribacchini, con la motivazione che essi non potrebbero comparire di fronte alle autorità superiori come rappresentanti di interessi privati del profugo. Questo si fonda su direttive sicuramente di gran lunga superate e non è conforme alla realtà degli altri campi. Prego il ministero a richiedere che l’amministrazione a questo riguardo faccia giungere istruzioni adeguate. In questo caso è tuttavia necessario che alla sopra citata sezione venga assegnata un’altra forza adatta al lavoro, poiché i due funzionari, del resto molto meritevoli, colà in carica non sarebbero nella situazione di sbrigare tutto il lavoro.
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3Habsburg years
31916-1920
Abbiamo appena celebrata la festa della nostra risurrezione politica, che già la nostra mente con innanzi lo spettacolo delle distruzioni cagionate dalla guerra e dei problemi gravissimi che c’impone la nostra ricostruzione sociale ed economica, è assorbita dalla gravità dei compiti che spettano alla nostra generazione. Siamo affranti dalla lunga guerra, indeboliti dalle sofferenze e resi inetti al lavoro dalla duratura paralisi, e tuttavia è giocoforza che ci leviamo su con uno sforzo collettivo all’opera comune della riedificazione. È anzitutto la così detta vita normale del paese che bisogna far rifluire nell’organismo intorpidito. Né si tratta qui semplicemente dei servizi pubblici, i quali vanno faticosamente rimettendosi in un assetto tollerabile, ma di far rivivere tutte le istituzioni ch’erano i gangli della vitalità nostra. All’apparato burocratico, alla rimessa in azione della macchina amministrativa è chiamato a provvedere anzitutto il governo, e vediamo che lo sta facendo con fraterno amore e con zelo da tutti noi riconosciuto. Ma accanto a questo apparato il paese viveva una vita autonoma costituita da istituzioni, società, iniziative ch’erano in tutto o in parte indipendenti dall’amministrazione statale, e qui il compito primo della ricostruzione tocca a noi, superstiti di quei molti che vi lavorarono da lustri adducendo il paese a delle forme di progresso sociale che ci venivano a buon diritto invidiate da qualche altra provincia italiana. Vorremmo quindi vedere in questi giorni concentrarsi attorno a questi problemi, che sono necessariamente da risolversi, lo sforzo di quanti hanno saputo apprezzare tali istituzioni nate dal popolo e create per esso: e per questi problemi noi chiediamo l’esplicazione d’un trentinismo pratico, il quale non vuole certo essere spirito di gretto localismo, quanto invece proposito di dare all’Italia nel giorno della pace definitiva non un paese sgretolato e atomizzato, ma un organismo ordinato, capace di vivere da sé. Abbiamo sentito con orgoglio dalla bocca degli attuali uomini di governo e per primo dalle labbra del presidente del Consiglio, che certi nostri istituti amministrativi, appunto perché la loro vita non dipese dalla politica austriaca, ma dalla forza indigena degli abitanti, meritano tutto l’appoggio del nuovo governo. Siamo certi che tali propositi troveranno anche pratica espressione, oggi in forme interinali per l’illuminato volere del governo militare, domani in forme permanenti per ratifica del governo nazionale. È nostro dovere intanto di dare alla collaborazione coi nuovi poteri militari e civili tutta l’opera nostra non solo per corrispondere a un senso di gratitudine verso l’esercito liberatore, ma anche per dimostrare in via di fatto la nostra capacità di governo. In questo senso, come abbiamo auspicato nel nostro primo articolo la continuazione di quella unità morale formatasi durante la guerra, auguriamo e desideriamo di nuovo e vivamente che tutti i trentini, tanto quelli venuti dalle altre provincie italiane quanto quelli rimasti fino ieri sotto il dominio dell’oppressore, costituiscano in uno scambio frequente d’idee quella «famiglia trentina» che oggi è necessaria per assumere con coraggio e speranza di vita novella la triste eredità della guerra. Tale conoscenza fra le due parti, fra le due schiere diverse non è forse ancora fatta completamente: qui e lì si possono dare degli equivoci, dei giudizi affrettati, dei rimproveri o delle accuse che risalgono a cause ormai tolte o a colpe di gran lunga espiate. Certo che nessuno, il quale durante questa guerra sia stato in qualsiasi modo strumento cosciente del governo oppressore e comunque abbia mancato ai suoi doveri d’italiano, può pretendere d’essere assunto nel seno di questa famiglia, ed è ben doveroso ch’egli venga fatto attendere sotto l’atrio dei neofiti prima che venga deciso sulla sua accettazione nel tempio nazionale. Ma è altrettanto doveroso d’altro canto di evitare ogni precipitata condanna e la circostanza che la guerra è finita e siamo oramai alle soglie della lunga era di pace ci esime dal prendere o consigliare subitanee misure di precauzione che forse altrimenti si sarebbero dovute mettere in atto precipitosamente. Per fortuna il tribunale dell’opinione pubblica ha questa volta un lasso di tempo non breve per pronunciare la sua sentenza: approfittiamone con senno e larghezza non lasciando adito a nessun altro sentimento che non sia quello dell’amore alla patria e alla dignità della famiglia trentina, nel momento ch’essa è chiamata a far parte della grande nazione italiana.
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0Beginning of political activity
31916-1920
Il congresso dei comuni trentini ha accolto con entusiasmo la proposta di costituire un consorzio di tutti i comuni per garantire le anticipazioni che verranno assegnate ai privati o agli enti della zona danneggiata. Esiste un decreto-legge col quale lo Stato s’impegna nella forma più precisa ed in misura assai larga di indennizzare i danneggiati dalla guerra . Gl’indennizzi però non possono venir pagati subito. È necessario costituire prima di tutto un apparato burocratico, previsto dal decreto stesso, procedere all’accertamento di ogni danno, alla stima ed alla liquidazione. Passerà del tempo prima che le apposite commissioni di liquidazione abbiano terminato i loro lavori. Ciò vale per tutte le provincie italiane, ma in modo particolare per le nostre che non sono ancora formalmente annesse al regno d’Italia. Ma intanto urge che i danneggiati possano riparare le loro case, rimettere in coltura i loro campi, riattivare le loro industrie ed i loro commerci. Ogni giorno che passa inerte vuol dire maggiore distruzione in causa delle intemperie, e perdita crescente per il mancato reddito delle pigioni, delle campagne, del lavoro. Bisogna quindi far presto, approfittare della buona stagione e dar subito la possibilità ai danneggiati di mettersi all’opera. Bisogna cioè metter loro a disposizione dei denari subito senza attendere la liquidazione governativa dei danni. Il modo è semplice e sicuro: i danari si danno a prestito come anticipo sull’indennizzo che pagherà lo Stato. Perché tale operazione riesca è però necessario che si abbia un controllo fidato sull’ammontare dell’indennizzo che lo Stato dovrà presumibilmente pagare e che i danari anticipati possano venir prestati a buone condizioni. È quello appunto che si propone di fare l’erigendo consorzio dei comuni trentini . Il comitato eletto nel congresso ha ora approntati gli statuti e si rivolge in questi giorni alle rappresentanze comunali per avere la loro adesione a termine di legge. I municipi maggiori e la provincia hanno già aderito. Tocca ora a voi, comuni delle vallate trentine, di corrispondere all’appello. Finanziariamente il rischio è nullo, perché il consorzio non anticiperà che la quarta parte dell’indennizzo, il cui ammontare viene calcolato dagli organi di controllo del consorzio stesso. È poi da attendersi che lo Stato metterà subito a disposizione del consorzio parecchi milioni quale primo fondo. Il precedente c’è e si può dire ottimo. Come abbiamo già pubblicato, lo Stato ha decretato di prestare all’apposito istituto di credito che si sta costituendo per il Veneto un primo importo di 200 milioni all’1 per cento, obbligando l’istituto a non far pagare ai danneggiati per gli anticipi più del tre per cento. Un prestito simile si potrà certo ottenere anche per il Trentino, purché ci sia un ente serio il quale garantisca che i danari verranno veramente impiegati allo scopo della ricostruzione. Quest’ente sarà per noi il «consorzio della provincia e dei comuni trentini». Noi aggiungiamo quindi la nostra voce a quella del comitato, affinché le rappresentanze prendano quanto prima il formale conchiuso d’inscriversi al consorzio. Quest’adesione ha anzitutto un grande valore pratico. Essa rappresenta un efficacissimo atto di solidarietà trentina dei comuni meno danneggiati dalla guerra verso le regioni che hanno tutto perduto. Tutti per uno ed uno per tutti. Il Trentino non è un’espressione geografica, ma un piccolo paese, legato dai vincoli secolari rinsaldati dalla comune oppressione politica, e stretti nuovamente dalla comunanza delle condizioni speciali con cui finalmente entriamo a far parte della nostra grande famiglia nazionale. L’atto ha inoltre un alto significato politico e morale. Politicamente veniamo a dire: comuni e provincia del Trentino reclamano la loro autonomia, domandano cioè di non venir assorbiti dall’amministrazione burocratica statale centralizzatrice, ma sanno anche di questa loro pretesa anticipare le logiche conseguenze, hanno cioè il coraggio di fare da sé, e nel momento in cui si tratta d’aiutare una parte del loro paese, danno per i primi l’impulso e il buon esempio. Moralmente, è questo dei comuni trentini il più sentito, il più fervido atto di fede nell’avvenire della patria italiana. Nonostante la gravità della situazione finanziaria creata da questa guerra immane, noi siamo certi che il popolo italiano col lavoro delle sue braccia, col genio delle sue menti, coll’energie innate del suo organismo rinfrancato dalla vittoria, riuscirà a riguadagnare l’erta della sua prosperità economica. I suoi amministratori potranno talvolta sbagliare, ma il sano equilibrio della razza congiunto a degli istituti statali fondati sulla libertà e sulla democrazia, rendono sanabile ogni malanno sociale e correggibile ogni errore di ministri. Il decreto-legge del 16 novembre rappresenta uno dei più gravi impegni che lo Stato abbia mai assunto in confronto di una parte dei suoi cittadini. Ma noi abbiamo la certezza che tale impegno potrà venire e verrà mantenuto; e di così irremovibile fede nei destini della nazione diamo atto, rendendoci garanti con tutto il nostro patrimonio della sua parola.
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1,919
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31916-1920
Analizzare in questo momento la gravità della situazione ed avvisarne i rimedi non può essere opera nostra. E meno ancora ci sentiamo chiamati ad argomentare e discutere colle affermazioni del presidente americano, le quali sono in così stridente contrasto colle aspirazioni della nostra nazione . Il nostro dovere come quello di tutti i buoni cittadini ci pare debba essere questo: unirci tutti in un solo pensiero, in un concorde atto di volontà e di fierezza nell’affermare la nostra solidarietà coi delegati del popolo italiano a Parigi. Noi sentiamo che l’Italia uscirà vittoriosa da questa crisi, solo se rimarrà interamente compatta e moralmente unita. A quest’unità noi vogliamo e dobbiamo contribuire con tutte le forze. Noi sovratutto abitanti di questa terra, redenta solo perché l’Italia tutta in un momento grave si strinse attorno al suo governo in un immenso sforzo di energie e di sacrifizi, sappiamo apprezzare più che altri forse che cosa significhi nei momenti difficili la concordia delle volontà e degl’intenti. Perciò mentre siamo certi che il nostro piccolo paese, seguendo i suoi spontanei sentimenti, farà tutto il suo dovere, esprimiamo il nostro vivissimo augurio che in nessuna parte d’Italia dissensi o contrasti vengano ad indebolire la posizione della patria nel mondo.
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Spettacolo magnifico, travolgente. Di fronte al pericolo che, all’ultimo momento, l’unità nazionale potesse rimanere incompiuta, di fronte alla minaccia che la pace italiana, dovesse significare la svalutazione dei sacrifici immensi fieramente sopportati e un’offesa atroce alla giustizia, tutta Italia s’è levata in piedi, unanime, a protestare, ad affermare, a volere. Non esistono partiti, non vi sono più divisioni politiche, non esistono più né imperialisti né rinunciatari. La gravità solenne dell’ora storica, la trepida consapevolezza che nel viluppo di questa crisi impreveduta e terribile si fucina forse uno stampo nuovo per foggiare i prossimi destini d’Italia, ha imposto un freno spontaneo a tutti gli eccessi, ha riunito e fuso le aspirazioni diverse nella unanimità fremente di una aspirazione sola. Tutti gli italiani, senza riserve, senza eccezioni, hanno trasfuso il sangue vivo dei loro cuori nel gran cuore d’Italia, che sa l’ardore del sacrificio pur ieri compiuto ed hanno manifestato il loro proposito entusiastico di fede e di grandezza. Ed ora, pronunciato il suo volere, l’Italia aspetta. Aspetta che il senno ed il cuore dei suoi deputati e dei suoi senatori trovino alle sue aspirazioni di giustizia o di patriottismo, la giusta formola politica, la risoluzione giuridica migliore. Aspetta che l’unanimità magnifica della nazione si rispecchi, e si completi nella unanimità del voto e del pensiero dei suoi rappresentanti politici. Tutto il mondo fissa ora gli sguardi sul Parlamento nazionale. Da Parigi e da Londra, donde con le melliflue parole si muovono pure gli intrighi e le invidie ai danni nostri, si studiano con ansia interessata gli atteggiamenti della Camera e dei partiti: ogni incrinatura della compagine ideale sarebbe rilevata con gioia come un segno di discordia e lusinga di cedevolezza indegna. Noi che nell’epoca triste del dominio straniero abbiamo conosciuto quanta acre gioia dessero al nemico le divisioni e le intemperanze della rappresentanza nazionale nei momenti fatali, noi che perciò abbiamo spesso deplorato nel segreto del nostro cuore che una più sicura padronanza di sé e della propria libertà non animasse, allora, laggiù partiti e persone, noi guardiamo adesso al Parlamento di Roma con fiducia e con trepidazione insieme: e ci auguriamo che, a coronare la volontà entusiastica di tutti gli italiani, a consacrarne con la formola solenne del potere legislativo, la giustizia e la grandezza esso pronuncerà la parola giusta che sarà degna di lui stesso e dell’Italia.
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31916-1920
Avevamo sperato che questo primo maggio dopo la guerra diventasse la festa generale della pace e una affermazione di fede nel progresso dell’umanità. Nei rapporti dei partiti e delle classi sociali nessuna nube avrebbe turbata questa festa, poiché il primo maggio non ha più ragione d’essere giorno di battaglia. Dopo la proclamazione della charta del lavoro a Parigi, dopo l’introduzione della giornata di otto ore, dopo l’esempio avuto nell’Europa centrale dei partiti democratici, i quali collaborano coi socialisti nell’opera di socializzazione, si può affermare che le linee ricostruttive della società avvenire sono quelle di un assetto razionale e permanente in favore di chi lavora e produce. In tale riguardo quindi il 1° maggio avrebbe potuto e dovuto essere non più un grido d’imprecazione e di minaccia contro lo sviluppo antidemocratico ed antiproletario della società, ma la celebrazione del principio d’una vita nuova e l’affermazione di una speranza ormai vicina dell’avvento della società anticapitalista. Ma questo primo maggio aveva una premessa e supponeva un precedente indispensabile. Bisognava cioè che a Parigi fosse cessata la lotta per competizioni territoriali, che si fosse conclusa la pace e si fossero gettate le basi di un accordo politico nel mondo, per il quale lo spettro della guerra e della distruzione venisse bandito per sempre. Malauguratamente la crisi politica mondiale perdura ed ha avuto proprio alla vigilia di questa festa un inasprimento, perché si vollero contestare i diritti della nostra nazione. Come uomini e come italiani siamo quindi oggi doppiamente perplessi. La tristezza del momento ci toglie quella chiara e precisa visione dell’avvenire che avrebbe altrimenti eccitato il nostro entusiasmo e nutrite le nostre speranze. Ma questa nube passerà. Noi abbiamo fede nei destini della nostra patria, abbiamo fede nelle sorti dell’umanità. Noi speriamo ancora in una pace giusta e durevole e nell’inizio di una nuova era di giustizia sociale. La vecchia società capitalista è oramai crollata e la crisi che oggi attraversiamo nasce precisamente dallo sforzo che deve fare l’umanità a liberarsi dalle rovine dell’immensa costruzione rovinatale d’attorno. Mano al martello ed alla cazzuola! Deposte le spade, le braccia e le menti si consacreranno alla ricostruzione della società nuova, ove le fonti della ricchezza ed i mezzi di produzione dipenderanno dal lavoro e da chi lo produce. In quest’opera chi s’inspira ai principi di rinnovamento cristiano non sarà l’ultimo né il meno attivo, e il Trentino liberato dal dominio straniero, ricondotto dopo tanti secoli in seno alla sua grande famiglia, vorrà gareggiare colle altre regioni nel dare al compito di questa generazione, vittoriosa della guerra, tutto il contributo di pensiero e di azione necessario perché l’Italia riesca vittoriosa anche nella futura pacifica gara del rinnovamento sociale. Questi i pensieri e i propositi che ci animano in codesto 1° maggio, ancora grigio e turbato dalle nebbie di un triste passato. Ma sarà l’ultimo che scomparirà nell’abisso dei secoli, senza rimpianti e senza ritorni. E già vediamo il sole del nuovo maggio che verrà e che celebreremo tutti come festa di un popolo messo socialmente e politicamente al governo dei propri destini. In questo maggio noi crediamo fermissimamente: lo crediamo per le forze meravigliose che abbiamo visto sviluppare dall’umanità in questa guerra, lo crediamo sovrattutto perché Dio fece sanabili le nazioni e infuse nell’anima umana una sete inestinguibile della giustizia.
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31916-1920
Nei tristi giorni della guerra, era per noi del più grande conforto pensare che dall’immane conflitto sarebbe sorto un mondo nuovo, assai migliore dell’antico. La lotta ci appariva come il parto doloroso della libertà dei popoli, della loro futura alleanza e di una pace sincera; e il fatto che il capo del popolo più potente, più ricco e sul quale si fondavano le più grandi speranze, bandiva e patrocinava questi principii, accendeva dappertutto entusiasmi e incorava ad una resistenza, che furono fattori eminenti della grandiosa vittoria. Oggi, sei mesi dopo che questa fu raggiunta, abbiamo finalmente dinanzi il testo dei preliminari di pace. Se le indiscrezioni che, volta per volta, sollevavano un lembo delle trattative segrete, erano andate man mano affievolendo l’attesa fiduciosa, la pubblicazione integrale ci ha recato una delusione ancor più grave. Dopo aver letto il lavoro faticosamente compilato a Versailles, noi prendemmo in mano un opuscolo uscito negli ultimi giorni della guerra, e contenente le principali manifestazioni di Wilson . La prima è il suo famoso messaggio al congresso degli Stati Uniti, in data degli 8 gennaio dell’anno scorso, e contiene i quattordici punti . Il primo vuole che i trattati di pace siano pubblici e frutto di pubblica discussione; il secondo richiede la libertà dei mari; il terzo l’abolizione delle barriere economiche fra le nazioni; il quarto la riduzione degli armamenti di tutti i popoli al minimo compatibile colla sicurezza interna; il quinto la regolazione libera, sincera, del tutto imparziale delle questioni coloniali, secondo il principio che gli interessi delle popolazioni indigene devono avere ugual peso che le giustificate richieste dei governi, i cui diritti sulle colonie devono venir determinati; il sesto riguarda l’indipendenza della Russia e la sua collaborazione colle altre nazioni nella loro mutua associazione; il settimo la sistemazione del Belgio; l’ottavo la restituzione dell’Alsazia-Lorena; il nono la rettifica dei confini d’Italia secondo le linee nazionali; il decimo l’autonomia dei popoli dell’Austria-Ungheria; l’undecimo la regolazione dei Balcani, per mezzo di amichevoli trattative e secondo l’appartenenza nazionale; il decimosecondo la questione turca; il decimoterzo l’erezione di una Polonia nazionalmente integra e libera con accesso al mare; il decimoquarto l’alleanza universale e l’assicurazione dell’indipendenza e dell’integrità per tutti i popoli, piccoli e grandi. Poco più d’un mese dopo, Wilson confermava il suo messaggio con un discorso tenuto al congresso degli Stati Uniti, nel quale fissava quattro principii, che tutti dovrebbero accettare e che, com’egli diceva, erano da tutti accettati, fuorché dalle potenze centrali. Primo, che ogni parte d’un accordo definitivo debba fondarsi sulla giustizia e su d’un accordo, del quale si possa con maggior probabilità ritenere che assicuri una pace duratura: secondo, che popoli e provincie non si devono trattare come mezzi da gioco secondo il sistema per sempre discreditato dell’equilibrio; terzo, che la soluzione d’ogni questione territoriale si deve risolvere nell’interesse e in favore degli abitanti, non già come oggetto di mero compromesso fra due parti rivali; quarto che tutte le aspirazioni nazionali devono trovare la maggior possibile soddisfazione, per non perpetuare le ragioni di discordia, o non crearne di nuove, che presto turberebbero la pace d’Europa e del mondo. La voce di Wilson tornò a farsi sentire ai 4 luglio dell’anno scorso nelle parole pronunciate sulla tomba di Washington. Gli alleati, così egli, combattono per questi scopi, che devono venir attuati, se si vuole ottenere la pace. Primo, annientamento d’ogni arbitrio e d’ogni potenza, che da sé sola e in segreto possa turbare la pace del mondo; e se al momento fosse impossibile annientarla, ridurla almeno all’impotenza di fatto; secondo, regolazione di tutte le questioni territoriali e di sovranità, economiche e politiche sulla base della libera accettazione dei popoli, non secondo gli interessi materiali di questo o di quello; terzo, consenso di tutti i popoli di regolarsi, nelle vicendevoli relazioni, secondo le norme dell’onore e del diritto; quarto, creazione di una società per la pace, la quale assicuri che le forze riunite di tutte le nazioni libere impediscano ogni offesa al diritto ed erigano un tribunale arbitramentale al quale si debbano sottoporre tutte le controversie internazionali. «Questi grandi fini, conchiudeva Wilson, possiamo riassumerli in un solo pensiero: noi vogliamo il dominio del diritto, fondato sul consenso dei governati, e sostenuto dall’opinione dell’umanità organizzata. Questi grandi fini non si possono raggiungere, discutendo e mettendo d’accordo i desideri degli uomini di stato e i loro piani per l’equilibrio delle grandi nazioni. Essi non si possono attuare che determinando, quali siano i desideri dei popoli, che aspirano alla giustizia e alla libertà sociale. La pace offrirà buona occasione di fare così. Nella stessa Germania, gli accecati dominatori, hanno svegliato tali idee, che, una volta sorte, non verranno più atterrate, perché possiedono una forza immortale che ne assicura il trionfo». L’ultima volta Wilson parlò ai 27 settembre, alla vigilia, si può dire, della vittoria, quando fu emesso il quarto prestito per la libertà. Erano di nuovo, secondo il suo sistema cattedratico, cinque principii che egli enunciava come regolatori della pace. Primo, una giustizia imparziale che non distingue fra coloro con cui vogliamo essere giusti, e coloro con cui vogliamo essere ingiusti; non fa distinzioni, non usa favori, ma a tutti i popoli riconosce uguali diritti. Secondo, nessuno speciale interesse di una nazione o di un gruppo di nazioni può essere preso come base di qualsiasi parte dell’accordo, se è inconciliabile coll’interesse generale. Terzo, nella comune famiglia dei popoli, non vi può essere nessun legame, nessuna alleanza, nessuna convenzione, nessun accordo speciale. Quarto, in seno all’alleanza non ci devono essere speciali ed egoiste combinazioni economiche, o esclusioni o boicottaggi, tolta la facoltà, conferita alla Società delle nazioni, di adoprare, come mezzo disciplinare, pene di indole economica. Quindi, tutti i trattati internazionali devono essere pubblici. E, concludendo, rilevava che la guerra era una guerra di popoli, non di uomini di stato; che questi devono assoggettarsi all’illuminata e generale opinione, se non vogliamo venire schiacciati; che lo scopo ultimo era una pace che assicurasse a tutti i popoli sicurezza e tranquillità, escludendo per sempre e rendendo impossibile il ripetersi di una tal guerra. Questo era il vangelo di Wilson; e tutto il mondo tendeva l’orecchio alle sue parole. Esse non erano che una risonanza dei principi cristiani, proclamati da ben più alta e sicura autorità morale; ma di fronte alla vecchia Europa, che ufficialmente ha abbandonato il cristianesimo, e, travolta da mille passioni, scissa da mille interessi, aveva dato di piglio alle armi come ultima ragione degli stati e dei popoli, esse acquistavano uno speciale valore, perché chi le pronunziava, aveva in mano enormi tesori e fonti meravigliose di soldati e istrumenti di guerra, per procurarsi ascolto. Così Wilson diventava il maestro e l’arbitro del mondo, e il suo viaggio in Europa per collaborare alle trattative di pace, fu, specialmente in Italia, un viaggio trionfale, che esprimeva i sentimenti dei popoli e ne attestava le speranze nel novello messia. Oggi, purtroppo, quelle speranze sono in gran parte deluse. Wilson ha subito l’influsso di Lloyd George che vuol rinsaldare ed estendere il dominio mondiale dell’Inghilterra; Wilson è soccombuto a Clemenceau , che, appena vinti e domati i nemici, ha proclamati i principi della vecchia politica europea, che oscillò tante volte ed oscilla fra l’egemonia francese o tedesca sullo sfortunato continente. Così abbiamo visto la Società delle nazioni trasformarsi in un’alleanza dei vincitori; così, fra i vincitori stessi, abbiamo visto l’Inghilterra, la Francia e gli Stati Uniti farla da padroni, e trascurare chi portò immensi sacrifici per contribuire alla vittoria; abbiamo visto applicarsi e negarsi a piacimento il diritto riconosciuto ai popoli di decidere le proprie sorti, e mettersi, in parecchie altre questioni, in non cale i principi che furono il vanto e una forza mirabile dell’intiero mondo, insorto contro la prepotenza e l’imperialismo germanico. Che più? Gli occhi degli italiani sono oggi rivolti, non senza preoccupazione a Vienna, dove il rappresentante della Francia sembra lavori per richiamare in vita il cadavere dell’Austria sotto le apparenze di una confederazione danubiana, che risolleverebbe tutte le vecchie cupidigie di tedeschi e di slavi, stretti in un nodo, sulle sponde adriatiche e creerebbe un permanente pericolo all’Italia. Chi l’avrebbe mai detto? Oggi, rileggendo il messaggio e i discorsi di Wilson, si prova un senso di tristezza e di sconforto. Che bel sogno svanito! Che idillio infranto! Forse, non è ancor tutto finito; e nei prossimi giorni si potrà ritrovare, almeno in parte, la via così presto smarrita; ma pure un monito, in mezzo a queste vicende, dovrebbe risuonare nel cuore dei popoli, che vedono frustrati tanti dolori e tanto sangue. La pace giusta, la pace duratura invano si aspetta dalle potenze terrene, e dagli stessi uomini che ci apparvero più compresi degli ideali di giustizia; essa non può essere che il frutto di un ritorno sincero ai principi proclamati da Cristo e dalla Chiesa, che purtroppo tanti, con indicibile danno, hanno bandito e bandiscono dall’umana società.
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31916-1920
«Parigi, 12: Il ministro italiano onorevole Crespi , a proposito delle rivendicazioni italiane, che la conferenza dovrebbe accettare, dichiara: “L’ Italia è desiderosa di continuare le buone relazioni che essa ha sempre mantenuto con la Serbia. La Polonia e la Czeco-Slovacchia possono pure fare assegnamento sulla sua sincera e cordiale amicizia; la Czeco-Slovacchia troverà a Trieste tutte le facilitazioni per assicurare alle sue merci lo sbocco che le manca sull’Adriatico. Quanto alla nuova Ungheria, ho la certezza che le relazioni economiche necessarie fra i due paesi la faranno vivere in buona armonia con noi. Siamo disposti a darle verso Fiume tutte le facilitazioni di comunicazione”. Interrogato sulla questione di sapere se le spese di guerra e le riparazioni dovute all’Italia sarebbero pagate dalla totalità dei popoli che costituivano l’ex impero austro-ungarico o soltanto da coloro che sono attualmente considerati come nemici, e cioè dagli austriaci e dai magiari, l’on. Crespi ha dichiarato che tale questione sarà fra breve oggetto delle discussioni della conferenza. L’Italia ritiene che tali spese e tali riparazioni debbano essere pagate dall’insieme dei popoli che dipendevano dai governi austriaco e ungherese nel 1914». Nell’ultimo capoverso di questo telegramma è toccata la questione forse più grave che si presenti all’Italia, ed in ogni caso la questione che tocca più direttamente i nostri interessi. Al capitolo «riparazioni», la Germania, secondo il trattato di Versailles, è obbligata a risarcire non solo tutti i danni diretti ed indiretti di guerra, ma a rifondere anche le spese fatte dalla Francia per il sussidio alle famiglie dei richiamati e ad assumere a proprio carico le pensioni di guerra pagate o da pagarsi agl’invalidi francesi; senza dire poi che l’Alsazia-Lorena viene restituita alla Francia, libera da ogni debito ed ipoteca, comprese le ferrovie, e che la Germania dovrà pagare la differenza della valuta. Tutto ciò è assicurato alla Francia. È ben vero che nell’affermazione generale del principio è detto che la Germania è responsabile di tutti i danni cagionati, in proporzione del suo intervento nella guerra, e che quindi l’Italia sarà chiamata ad avere la parte sua, ma questa ripartizione futura è messa sul secondo binario della commissione internazionale che risiederà a Parigi e che metterà in opera la sua pompa aspirante appena nel 1921. Ma comunque venga fatta la ripartizione dell’indennità pagata e pagabile dalla Germania, è certo che i primi chiamati a pagare le riparazioni dovute all’Italia sono i paesi dell’Austria-Ungheria. Crespi ha detto bene che tutti gli stati successori devono essere obbligati a pagare in proporzione; ma accoglieranno gli alleati tale punto di vista? È lecito purtroppo di dubitarne. Pare certo che gli czechi, ad esempio, abbiano oramai l’assicurazione di non pagare; anzi se è vero quanto il presidente della repubblica Masaryk ebbe a dire ad una nostra commissione in Praga, gli czeco-slovacchi avrebbero già in mano l’impegno formale che non solo verrebbero esonerati da ogni pagamento, ma parteciperebbero invece, come alleati, alla ripartizione dell’indennità germanica. Altri sintomi più recenti ci fanno vedere ancora più oscuro e fanno temere che i nostri plenipotenziari di Parigi camminino, anche in questa gravissima questione, da lungo su di un equivoco che non hanno osato o potuto affrontare a tempo. Ma non è questo il momento delle critiche retrospettive. Auguriamoci piuttosto che in questo nuovo cimento l’Italia non resti sola e riesca ad affermare i suoi diritti. Si tratta anzitutto di ottenere la fissazione del principio che cioè tutti gli stati successori dell’Austria-Ungheria sono solidali nelle riparazioni dovute all’Italia, salve quelle eccezioni e quelle graduazioni che gli alleati vorranno poi accordare. Fissato il principio, bisogna stabilire il metodo dell’esecuzione, il che vuol dire che l’Intesa ed in prima linea l’Italia devono intervenire direttamente nella liquidazione della massa comune austro ungarica. La diplomazia italiana s’è rifiutata finora d’intervenire ufficialmente a Vienna, aggrappandosi alla finzione d’un’Austria-Ungheria inesistente, colla quale siamo ancora in stato d’armistizio; vedremo fra poco se questa fosse buona tattica o non fosse stato più pratico il consiglio di chi voleva mettersi subito sul terreno della realtà. Frattanto è giunto il momento di rompere ogni indugio e metter le mani nel vespaio. A ciò spinge oramai la fase risolutiva del trattato di pace; ma riteniamo che ci si sarebbe ora arrivati lo stesso; poiché la Francia che non ha gli scrupoli dell’on. Sonnino tentava già d’assumere il protettorato delle nazioni slave, entrando come arbitra nella «conferenza degl’inviati», da cui «quale interessata» si sarebbe dovuta escludere, naturalmente,… l’Italia!
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Il trattato di Versailles, a differenza dei vecchi trattati di pace, si occupa anche delle relazioni commerciali e doganali fin nei più concreti particolari. Una clausola ci ha colpito subito nella lettura della parte decima del trattato che contiene appunto gli articoli d’indole economica. Per le relazioni commerciali in genere è previsto il principio del paese più favorito, ossia qualunque favore, immunità o privilegio, diretto o indiretto, che la Germania conceda ad una qualsiasi delle potenze dell’Intesa o ad un paese straniero qualunque, deve estendersi di diritto a tutte le potenze alleate ed associate. Da questo principio sono previste delle deroghe per le terre disannesse, cioè per l’Alsazia-Lorena. Per la durata di cinque anni i prodotti originari ed in provenienza dai territori dell’Alsazia-Lorena ricongiunta alla Francia, potranno entrare in Germania, in franchigia, senza pagar dazio di sorta, e durante lo stesso periodo sarà assicurata la libera sortita dalla Germania e la reimportazione in Germania di tutti i prodotti tessili allo stato che l’industria alsaziana trasformava o faceva trasformare in tempi normali. L’analogia colle condizioni del Trentino è evidente. Noi non abbiamo industrie le quali s’occupino di lavorare materie prime importate dall’Austria per reimportarle nell’Austria stessa, ma siamo in condizioni molto simili per quanto riguarda i prodotti del suolo, cioè il vino, la frutta ed, in qualche misura, anche i legumi verdi. Anche per l’Alsazia-Lorena la questione dei vini è la più importante. I grossi negozianti tedeschi di Landau, Magonza e Francoforte acquistavano tutti i vini leggeri della Alsazia-Lorena per usarli come vini da taglio, cavandone quel tipo che sotto il nome di «leichter Mosel» era assai ricercato in tutta l’Europa centrale. Di fronte a questa ricerca del tipo leggero e aspretto (aigrelet) i viticoltori alsaziani avevano abbandonata la coltivazione dei vini fini e forti, riuscendo così a trasformare tutta la viticoltura secondo i gusti del mercato tedesco. Ora bisogna fare l’operazione inversa, ma per tramutare di nuovo la coltura ci vuole del tempo, ed ecco la clausola che assicura libera importazione dei vini in Germania senza dazio, per un periodo di cinque anni, quando questi vini siano muniti di certificato che attesti la loro origine o provenienza dall’Alsazia-Lorena. Lasciamo ai nostri periti il compito di decidere quale periodo debba venir assicurato alla libera importazione dei nostri prodotti nella Germania e nell’Austria tedesca – si parlava almeno di un periodo di transizione di 10 anni, – a noi basta l’aver richiamata nuovamente l’attenzione sul problema nel momento in cui si aprono i negoziati di Saint Germain. I plenipotenziari italiani devono essere bene istruiti intorno ai nostri postulati giacché a parte gli studi che la Consulta ha certo intrapreso avanti e durante la guerra (anche durante le trattative del marzo-aprile 1916 furono consegnate all’on. Sonnino delle note illustrative) i nostri deputati ancora nella prima metà del novembre 1918 ne parlarono al presidente del Consiglio ed al ministro degli Esteri, e più tardi se ne occuparono, se siamo ben informati, il Consiglio d’agricoltura ed a Parigi l’on. Tambosi . Ma «repetita iuvant», per non essere sopraffatti all’ultimo momento da qualche poco lieta sorpresa.
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Per i lavori portuali di Trieste il governo metterà in bilancio una spesa di 205 milioni suddivisa su parecchie annate. Mentre plaudiamo a tali propositi, ci viene alla memoria che il nostro Governatorato, rispettivamente il segretariato generale, di fronte alla domanda della consulta che venisse stanziato un modesto importo per l’esecuzione della parte più urgente del programma stradale, ci rispondeva che si volesse presentare caso per caso ogni singola pratica a cui non sarebbe mancata la benevolenza del governo. Pari successo ebbe la richiesta per l’esecuzione dei lavori idraulici (acquedotti ed arginazioni). Bisogna qui avvertire che si tratta dell’esecuzione di lavori pubblici parte iniziati, altri progettati e per quanto riguarda i contributi locali, già finanziati, ovvero di opere danneggiate dalla guerra, la cui riparazione se fatta presto, rappresenta anche per l’erario – pensiamo in modo speciale agli acquedotti – un’economia. Tutto questo programma di lavori era approvato dagli uffici tecnici locali. Ora tenuto conto anche del fatto che l’esecuzione di tale programma aveva anche lo scopo sociale di ovviare alla disoccupazione, non abbiamo ragione di meravigliarci d’una risposta così burocratica, ed evasiva? È vero che al governatorato e segretariato mancherà la competenza di decidere in materia di contributi conglobali, ma di dare invece allora d’una risposta così spicciativa dovevano rimetterci semplicemente a Roma. La consulta lo farà per conto suo ed ha deciso, come venne pubblicato, d’inviare una speciale commissione a Roma. E a Roma ove per Trieste si è giustamente passati sopra a certe obiezioni di carattere giuridico ed internazionale, confidiamo che le insistenze vocali avranno più effetto dei memoriali scritti. I postulati trentini d’indole finanziaria sono modesti. Si chiedono: parziali anticipi sugl’indennizzi per i danni di guerra, stanziamento di contributi per l’esecuzione di quella parte di lavori pubblici che sono tecnicamente maturi e urgentemente necessari. In terzo luogo anticipi ai comuni danneggiati, per sopperire a bisogni delle amministrazioni. Il primo postulato, quello degli anticipi, si connette strettamente coll’azione di garanzia da prestarsi dal Consorzio dei comuni. Questa premessa va in questi giorni maturandosi, cosicché il comitato dei comuni ritiene ora venuto il momento di abbordare la questione capitale della sovvenzione governativa al consorzio stesso. Accompagniamo questi negoziati coi nostri migliori auguri, sperando che i buoni propositi manifestatisi per l’avvenire di Trieste valgano anche per la restaurazione del Trentino.
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In un articolo mandato da Trento ad un foglio romano, e che citiamo in altra parte del giornale , si lamenta l’eccessivo regionalismo dei Trentini, il quale sarebbe provato oltre che dall’atteggiamento assunto in parecchie riprese dal «Trentino» anche da certe proteste di indole economica come quella recente dei tipografi e librai. «È vero – dice il corrispondente – il Trentino ha bisogno di autonomia, ma né più né meno di tutte le provincie italiane. Vi dovranno essere per il Trentino delle disposizioni speciali, ma temporanee, per regolare il passaggio dalla legislazione austriaca a quella italiana; non una permanente diversità dalle altre provincie». In quanto alle proteste economiche, il medesimo corrispondente crede che si «miri ad un protezionismo regionale che condannerebbe il Trentino ad un terribile arresto di sviluppo. C’è un po’ l’animo e il gusto di chi, per vivere tranquillo, si chiude nella sua casa e produce una cosa nel suo orto, intanto il mondo cammina e quando egli s’affaccia alla strada vede che gli altri sono più avanti». «Occorre pensare – egli continua – che il Trentino è terra di transito tra due imponenti civiltà; venendo dal sud o dal nord con le nari ricolme di vivo odore dei cantieri di Genova e delle officine di Mannheim, non bisogna sentire da Ala al Brennero odor di rinchiuso. Ci vuole aria, ci vuole sangue. E questo bisognerebbe stamparlo su tutte le cantonate». Infine, ricercando le cause di questi deplorevoli fenomeni, l’«Idea Nazionale» crede ch’esse risalgano ad uno stato d’animo lasciato nell’aria dal vecchio regime di clausura e siano uno degli avanzi tristissimi del governo giallo-nero. Poiché una tale visione, quale appare dall’articolo del giornale di Roma, sembra patrimonio di molti che hanno esplorato di recente il nostro paese, non saranno fuor di proposito alcune nostre osservazioni. Incominciamo coll’ammettere che la nostra psicologia è influenzata ancora da quel «trentinismo» che per nostro destino avevamo dovuto creare ed acuire fino all’esasperazione nella lotta contro il germanesimo e il dominio straniero ed in modo particolare nei secolari conflitti coi nostri prepotenti comprovinciali del Tirolo. Da più di cent’anni la nostra letteratura politica s’è imperniata sulla difesa della «trentinità». Da Clementino Vannetti , alla costituente di Francoforte , dalla campagna autonomistica fino alla lotta contro il Volksbund la parola d’ordine fu «il Trentino ai Trentini». Ora è ben vero che l’etichetta trentina veniva messa talvolta solo «per uso interno» e che nel pensiero delle menti direttive «trentinità» voleva dire «italianità», e autonomia locale significava indipendenza politica, ma non è men vero che le condizioni politiche e le necessità tattiche costrinsero il nostro animo e le nostre energie entro le strettoie delle aspirazioni e delle attività locali. Parallelamente le barriere innalzate dalla dogana e dalla polizia ci intercettavano, quando non ci tagliavano addirittura le comunicazioni spirituali ed economiche colla nazione, cosicché noi sentivamo bensì colla nazione, cioè soffrivamo dei suoi dolori e delle sue disdette e ci rallegravamo dei suoi progressi e dei suoi trionfi , ma mancandoci ogni possibilità di esercitare praticamente tali sentimenti, non vivevamo la vita della nazione che di riflesso, senza condividerne in realtà le peripezie. Così la guerra europea ci colse, mentre tutti ripiegati su noi stessi concentravamo i nostri sforzi per resistere nel nostro piccolo mondo ai germanizzatori e ci era mancata la possibilità di afferrare ed assorbire le idealità maggiori della nazione nei suoi rapporti col mondo civile. Ora è vero che la guerra stessa si è incaricata di allargare la nostra visuale politica e ci ha fatto sentire nelle fasi tristi e nelle ore liete l’indissolubilità delle nostre fortune colle sorti della patria italiana e sovratutto ci ha appreso quale missione possa avere l’Italia nel mondo, ma la tradizione di un secolo, l’abito mentale passato a parecchie generazioni dall’una all’altra, la prospettiva sotto cui per anni ed anni fummo accostumati di vedere e giudicare le cose non scompaiono d’un tratto né d’un sol colpo si possono cancellare. Siamo indotti quindi ad ammettere – e quest’ammissione vale per i più, non per le eccezioni che poterono sottrarsi all’ambiente – che ancora oggidì nel giudicare i nostri rapporti colla grande famiglia italiana il trentinismo influisca sul nostro criterio e sul nostro modo di vedere. Ed ammettiamo perciò del pari che tale «stato d’animo» debba venir combattuto, o meglio, poiché si tratta non di un nemico, ma di un compagno, ch’esso debba venir guarito. Errerebbe infatti chi volesse sbarazzarsene a colpi di propaganda polemica: il trentinismo inteso come assenza di pensiero nazionale (non di sentimento, perché quello non ci mancò mai) e come rilut-tanza ad una più intima fusione collo spirito della nazione non può venir guarito che dall’aumentata partecipazione del Trentino alla vita politicaeconomica e letteraria della nazione. Accelerare tale partecipazione, allargare tutti i canali che ci congiungono ai serbatoi della vita nazionale, quali possono essere le associazioni, i congressi, i libri, gli studi, gli scambi ed i commerci, ecco il mezzo di superare lo stato d’animo deplorato dal succitato corrispondente, ed ecco l’opera alla quale diamo volentieri il nostro concorso. Fin qui siamo dunque d’accordo. Ma dove non possiamo seguire il nostro collega è quand’egli accomuna sotto la medesima condanna di eccessivo regionalismo anche le nostre tendenze particolari in materia di amministrazione o le nostre preoccupazioni d’indole economico-sociale. Egli comprenderà di leggieri che in sede d’armistizio ci riuscirebbe ingrato d’insistere con esempi concreti sugli argomenti che militano in favore della nostra tesi. Non vi accenniamo quindi che sommariamente, quando rileviamo che in materia d’amministrazione pubblica vi sono attualmente nel Trentino degli istituti e degli organismi che vanno assolutamente conservati. Questo non è solo un postulato dei Trentini, ma come ebbero ad affermare a più riprese ben noti uomini di stato – italiani – ricordiamo ad esempio Orlando , Luzzatti , Meda , Nitti, Raineri , Riccio – il desiderio anche di quanti nella nazione si sono occupati sul serio di riforma amministrativa. Siamo qui sul terreno della legislazione agraria, dei lavori pubblici, degli ordinamenti – noti bene, si parla qui dell’organizzazione, non dello spirito – scolastici. E poiché tutta quest’organizzazione dipendeva dalla legislazione dietale ed in parte dall’amministrazione provinciale autonoma, è naturale che siamo indotti a chiedere ad alta voce il mantenimento sostanziale dell’autonomia provinciale. In logico nesso con quest’ultima sta l’autonomia comunale e, pur ammettendo che dalla legislazione italiana dobbiamo attenderci ulteriori garanzie per una buona amministrazione dei comuni, non possiamo essere disposti a sacrificare né lo statuto delle nostre città autonome né la tutela dei comuni che la legislazione vigente affida ad uomini del paese eletti dal popolo. In ciò consiste in breve il nostro programma autonomista il quale è così poco avanzo del regime giallo e nero che abbiamo avuto la soddisfazione di vederlo applaudire ed accogliere dalla più grande associazione dei comuni italiani, radunata a congresso a Trento ed a Trieste . O perché v’agitate allora se sono tutti d’accordo, ci obietterà qui forse taluno. Gli è che c’è qualcuno che sventuratamente non è d’accordo, e questo qualcuno è – più sventuratamente ancora – la «burocrazia statale», questa forza anonima che sfugge alle proteste e non discute, ma va minando «via facti» lentamente e ogni giorno quello che noi nell’interesse del nostro popolo e della nazione vorremmo conservare. È contro le insidie quotidiane di questa idra sotterranea che noi dobbiamo stare sul chi vive e lanciare di tratto in tratto il grido d’allarme. È per premunirci dai suoi agguati che noi durante il periodo di transizione domandiamo di ottenere delle garanzie. Le nostre preoccupazioni sono poi venute crescendo, perché in questa burocrazia non abbiamo trovato quei criteri d’ordine, di serietà di metodo, che riteniamo assolutamente indispensabili. È tutto un complesso quindi di organismi e di criteri amministrativi che noi comprendiamo sotto la parola d’ordine «autonomia». Trovate forse meno esatta la parola? Può essere, ma noi l’abbiamo tolta bell’è fatta dal nostro vocabolario politico locale per significare: la migliore amministrazione possibile fatta tutta per il popolo e più che possibile per mezzo del popolo stesso. Infine un ultimo accenno alle questioni economiche. Non è vero che i Trentini siano dei protezionisti in senso regionale. Con ogni simpatia abbiamo salutato l’avvento del capitale nazionale a sfruttare le risorse naturali della regione. Su questo concorso abbiamo fondato anzi tutte le speranze del nostro risorgimento economico. E venga pure anche il commercio onesto e laborioso. Ma d’altro canto non meravigliatevi se piccole industrie locali protette finora da una legislazione arginatrice domandano di non venir esposte repentinamente e senza la concessione di un periodo d’adattamento, all’inondazione di tutti i concorrenti, forse più sciolti e meno riguardosi, perché cresciuti in un’arena più libera e non chiedeteci di trascurare le sorti di quegl’istituti cooperativi e di credito che rappresentano una forza sociale del popolo e per questo devono essere messi in grado di resistere al grande ed inesorabile capitalismo accentratore. No, anche su questo terreno, come su quello politico-amministrativo, non si tratta di un cantonalismo ereditato da costruzioni storiche superate, non si tratta di un’autocrazia di una regione, ma di una autocrazia del popolo che in essa abita e lavora; e se è per esso che noi la invochiamo o tentiamo di contribuire ad attuarla, non è per esso solo né per esso in contraddizione col resto della nazione. Quando parliamo del Trentino e del suo programma autonomistico, non intendiamo chiamarlo a confronto colla nazione, ma stabilire i postulati d’una nuova provincia d’Italia «entro l’Italia»; e se la nostra voce di ultimi venuti non potesse apparire immodesta, vorremmo aggiungere che lo stesso interesse autonomistico rende tutte le provincie sorelle, perché il centralismo livellatore della burocrazia ed il capitalismo accentratore sono nemici di tutte.
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Ore d’attesa angosciosa abbiamo passate nel maggio 1915. Le informazioni erano scarse ed incerte ed intorno a noi si addensava come una nebbia di sospetto e di minaccia. Circolavano delle voci che gli uffici militari stavano preparando le liste di proscrizione. Si assicurava che in polizia ritornerebbe il Muck col mandato di sradicare col ferro e col fuoco il sentimento nazionale, si ripetevano con terrore le minacce di un colonnello, il quale intimava oramai lo sgombero di tutto il Trentino. Poiché i confini erano oramai chiusi dalla censura e le uniche notizie in arrivo erano telegrafate dal «Correspondenzbureau», la realtà della situazione era completamente ignorata. Incominciarono poi a sfilare i treni di «evacuazione», treni pieni di pianti e di miserie. Gli ultimi uomini rimasti in patria venivano chiamati al fronte, gli ultimi vecchi cacciati assieme ai fanciulli sui lavori delle trincee a colpi di calcio di fucile: in ogni famiglia lo schianto, lo strazio, la distruzione! In quelle ore disperate non c’era che una speranza nei cuori, che una parola abbozzata a mezzo sulle labbra o talvolta strozzata nella gola dalla paura: Italia! Italia! Tutti i circoli ufficiali imprecavano allora contro il «tradimento» ed il popolo che non aveva notizie dalla penisola, che non aveva preso parte (e come l’avrebbe potuto?) alle discussioni sulla neutralità in Italia e che in fine non sapeva spiegarsi i retroscena della politica internazionale, vedeva in questi giorni la guerra solo dal punto di vista della propria momentanea salvezza e dei vantaggi o danni immediati. Ma già negli ultimi tempi s’era andata radicando in tutti, anche i meno aperti alle ragioni del sentimento, una convinzione che non si esprimeva, ma che diveniva sempre più forte: Poveri noi, se non ci fosse l’Italia! Poveri noi, perché i dominatori facevano capire che i riguardi usati durante il periodo di neutralità erano dovuti al timore che si aveva dell’Italia e lasciavano intendere che le persecuzioni erano sospese per calcolo dell’atteggiamento dell’Italia. Così già allora fino nel più povero casolare si «sentiva» che la nostra esistenza era ormai legata alle sorti della nazione. In tal modo la politica austriaca otteneva proprio l’effetto contrario a quello che cercava e tentava di creare con tutte le pressioni, valendosi dell’orrore naturale della guerra, dell’istintivo timore dei danni che minacciavano e della disorientazione politica in cui ci aveva tenuti la censura. Quante arti, quanti intrighi, quante menzogne per ficcare nel cervello di codesta povera gente cacciata nuda ed affamata verso il nord ad una nuova schiavitù babilonica o nelle menti dei nostri soldati frammisti ai tirolesi, agli slavi o ai ruteni o nel cuore di chi vagava per la città e per i paesi, incerti di quello che porterebbe il domani, l’immagine d’un Italia fedifraga, assetata di guerra, distruttrice della pace e del focolare domestico . Ed invece fu proprio in questi giorni che anche nel cuore dei più umili e dei maggiormente asserviti al lavoro materiale l’immagine della Patria nacque e crebbe in una luce nuova ed ideale. Che sapeva il popolo di Salandra o Giolitti , di interventisti o neutrali di articoli della triplice alleanza o di patti coll’«Entente» e che importava infine sapere questo ed essere informati di tante altre cose? Il decisivo era il «sentire ed il sapere» che senza l’aiuto della nazione eravamo perduti e di sentire che bisognava oramai che la «Patria» ci liberasse. Così quando venne la dichiarazione di guerra essa fu sentita come l’annuncio della liberazione. Ormai il dado era gettato, la gran partita era arrischiata, e fra i rischi noi mettevamo i nostri averi, le nostre case, la nostra vita. Mentre attorno a noi rombava il cannone, nelle aurore del maggio compariva agli occhi, divenuti veggenti al di là del contingente, l’immagine dell’Italia liberatrice. Italia! Italia! Quante volte comparisti a noi in quei primi giorni nell’atto di fare il gesto decisivo e t’invocammo in segreto come per accelerare i tuoi passi. Lunghi anni dovevano invece passare prima che l’aspirazione di quei primi giorni si fosse compiuta, e fra il sogno e la realtà giace in mezzo tutta la gran guerra mondiale, che ora prospetta altre ombre ed altre minaccie nell’avvenire. Ma domani da quest’ultime vogliamo distrarre lo sguardo ed il pensiero e goderci solo le rimembranze delle ansie passate, richiamandole al confortevole confronto della realtà, che è la liberazione avvenuta.
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Attendere con abnegazione e disciplina. La parola rivolta dal Re ai soldati è la parola d’ordine per tutti . Un desiderio immenso di pace invade gli animi ed un bisogno di riprendere il ritmo della vita normale per produrre e ricostruire preme con una forza crescente sul nostro organismo sociale. Un fermento di vita nuova trascorre nelle vene di tutti, fermento di giustizia e di libertà, il quale non si calma con conquiste territoriali, ma esige riforme all’interno, riforme verso una partecipazione più libera e più seria del popolo alla vita pubblica e riforme per quello che Wilson, nel suo recente manifesto, chiama un po’ eufemisticamente «democratizzazione industriale». Durante la guerra, le grandi idee e le grandi speranze camminavano innanzi ai combattenti nell’alto dei cieli come la colonna di fuoco precedeva gli Israeliti nella marcia verso la terra promessa. Ora è come se l’immagine di quest’idee sia scomparsa e tutti gl’istinti bassi, tutti i fermenti vecchi vengano su dai bassifondi umani a contrastarci la visione di un mondo migliore. Gl’italiani sentono forse più degli altri popoli quest’ora di delusione generale, perché a loro viene contrastato anche il frutto immediato della guerra. E tuttavia bisogna attendere con fiducia. L’importante è che l’Italia, che noi tutti ci manteniamo fedeli a quel programma di rivendicazioni nazionali per cui la nazione ha fatto la guerra e che non pecchiamo per conto nostro contro le idee d’un nuovo assetto territoriale e sociale del mondo, com’esse hanno brillato da due anni su tutte le fronti, infiammando i combattenti alla vittoria. Il decisivo è che le aspirazioni e i postulati d’Italia marcino assieme alle grandi idee dell’umanità, e poi non c’è nulla da temere, in una forma o nell’altra, vinceranno. Sia che a Parigi si firmi la pace dei triumviri o debba la stessa venir sottoposta ad una revisione, sia che interni rivolgimenti in Germania o sull’altra sponda rimettano in questione i principi e le soluzioni concrete, l’Italia non ha nulla da temere, alcun pericolo, se non sia l’indisciplinatezza del proprio popolo o le deviazioni della propria diplomazia dal programma italiano, per soccombere innanzi alle seduzioni dell’imperialismo francese o del mercantilismo anglosassone. Oh, perché non abbiamo noi in questo momento un uomo grande che sollevi la nazione dalle apprensioni che appesantiscono gli animi non colle solite frasi, ma col riaccendere negli animi quella fiducia nella vittoria delle idee italiane, quella fede che può ridarci l’ossigeno dell’ottimismo fattivo e soffocare qualsiasi tentativo di disfacimento interno? All’uomo che manca si sostituisca il senso equilibrato ed il cuore incorrotto del popolo italiano. Le bandiere che sventolano oggi siano omaggio di riconoscenza ai soldati artefici della vittoria, dicano che la nazione anche quassù è tutta unita nella volontà della pace giusta e duratura, dicano che il popolo italiano marcia con fede verso quel mondo nuovo che dovrà venire, mondo ove ci sia più giustizia, più libertà, più democrazia e che spera di conquistarselo in casa propria, da sé per quella stessa molla di energia morale che presto o tardi dovrà premere innanzi i retrogradi in tutti gli stati, a scanso di scattare in balzi violenti.
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Nella penultima seduta della Consulta l’on. Conci presentò alcune proposte sull’assetto amministrativo da darsi al paese. Credetti, dice il relatore, di riassumere tali proposte in un più conciso ordine del giorno che culminava in questo, nel chiedere cioè che prima d’introdurre i cambiamenti dell’amministrazione locale del Trentino venisse eletto un consiglio provinciale coi poteri della vecchia Dieta, il quale decidesse d’accordo col governo su ciò che dell’amministrazione attuale deve rimanere e ciò che va modificato. L’on. Viesi fece opposizione a questa mia proposta e presentò una controproposta la quale, non ritenendo opportune le elezioni, domandava l’istituzione di un corpo rappresentativo, composto di persone del paese nominate dal governo. Nell’ultima seduta stavano di fronte la proposta Degasperi, com’è mantenuta oggi, e la proposta Viesi la quale proponeva il consiglio provinciale nominato dal governo ed un commissario politico con poteri eccezionali. Siccome Viesi motivava la necessità del commissario con poteri eccezionali colla ragione di dover avere speciale appoggio in seno al governo per ottenere dotazioni finanziarie, Degasperi completò il suo ordine del giorno coi p. 3 e 4, ove sono specificati i postulati finanziari del paese; postulati chiari e precisi, su cui il paese stesso può insistere senza bisogno d’intercessori speciali. Ecco quindi il tenore del suo ordine del giorno: Proposta: Nell’imminenza dell’auspicata annessione al regno d’Italia, considerando l’opportunità di mantenere al Trentino la più ampia autonomia provinciale e comunale e di promuovere anche con particolare riguardo agli attuali bisogni del paese il decentramento dell’amministrazione dello Stato, considerando che la popolazione delle terre redente dev’essere chiamata a condeterminare l’assetto definitivo della sua amministrazione, la Consulta trentina propone e chiede: 1. Che vengano convocati entro il termine più breve possibile i comizi elettorali per eleggere sulla base del suffragio universale, eguale e proporzionale, e con estensione del voto alle donne, un consiglio provinciale il quale abbia le attribuzioni della Dieta cessata e nomini una giunta provinciale colle competenze e colla sfera d’azione, garantite dalle vigenti leggi. 2. Che venga demandato al consiglio provinciale di preparare d’ accordo col governo il passaggio e l’adattamento della legislazione rispettivamente dell’amministrazione in vigore alla legislazione ed all’amministrazione italiana in tutto quell’ambito ch’era finora di spettanza della legislazione provinciale e per tutti quegli istituti ed organismi amministrativi che dipendevano dalla Dieta o stavano in nesso con l’amministrazione provinciale o comunale. 3. La Consulta INSISTE INFINE sulla proposta che venga istituito per la zona devastata un apposito ufficio o comitato di ricostruzione, nel quale oltre i ministeri sia rappresentata anche l’amministrazione provinciale, e che sia munito di larghe competenze e di una sufficiente dotazione. 4. E SI ATTENDE che il governo, accogliendo le ripetute proposte della Consulta fornisca i mezzi per attuare i programmi di lavori pubblici – strade, arginazioni, acquedotti – già elaborati e proposti dagli uffici tecnici locali. La mia proposta – continua il relatore – si basa anzitutto su alcune considerazioni di carattere generale. Essa si fonda sul diritto di condeterminazione del nostro popolo quando si tratta di stabilire il sistema di venir governato. Questo diritto emana dalla concezione generale che la guerra non fu soltanto un conflitto che apportò modificazioni territoriali, ma anche – secondo una parola indovinata dell’on. Orlando – una rivoluzione interna, nel senso che i popoli, dopo di essa, pretendono una maggior ingerenza nel fissare i propri destini. Un’altra considerazione è d’indole storica. Si è dimenticato troppo facilmente che, prima ancora che si potesse prevedere la prossimità della conquista italiana per parte dei nostri fratelli, i legali rappresentanti delle terre redente, per bocca dell’on. Conci proclamarono alla camera austriaca l’annessione del proprio paese all’Italia, esercitando con ciò, per la prima volta, il diritto di autodecisione . È logico quindi che tale diritto si voglia esercitare anche quando si tratta dell’amministrazione interna del proprio paese. Il relatore osserva che questo diritto non viene contestato nemmeno dal governo francese, malgrado il suo spirito centralizzatore, tantoché lo stesso Millerand , inaugurando il consiglio superiore dell’ Alsazia-Lorena, il 3 giugno, assicurava che, a parte ogni considerazione di diritto, sarebbe stato moralmente impossibile che il parlamento si occupasse dei problemi interessanti direttamente l’Alsazia-Lorena prima che i rappresentanti delle due provincie, regolarmente eletti, sedessero nelle due camere francesi. Anche per questo era stata sua prima cura di ordinare che si facessero d’estrema urgenza tutti i preparativi necessari per la compilazione delle liste elettorali. Il decentramento Una seconda corrente, nella quale il relatore ha inteso incanalare il suo ordine del giorno, è la tendenza al decentramento amministrativo, tendenza che si fa largo in Italia e abbiamo avuto il piacere di vedere appoggiata dalla maggiore associazione dei comuni italiani, nel loro convegno a Trento, e che venne confermata anche da altri autorevoli uomini di stato, cosicché è da sperare che il pratico soddisfacimento di questa tendenza del nostro paese assuma il valore di un esperimento nazionale, che potrà riuscire utile anche ad altre provincie. Un terzo riflesso ha ispirato la sua proposta: quello, cioè, di salvaguardare contemporaneamente le nostre autonomie locali, nel senso che il comune rimanga autonomo senza ingerenze statali di carattere amministrativo e la provincia abbia una giunta elettiva e non sia la giunta amministrativa prevista dal regolamento italiano con tre impiegati del governo, compreso il prefetto che la presiede, su sette membri. Le attribuzioni della rappresentanza provinciale Entrando nel merito della proposta stessa, il relatore osserva al punto 1. che le attribuzioni del consiglio provinciale rispettivamente della passata Dieta, sono accennate con una formula generica, non essendo possibile, per mezzo di una lunga elencazione, di precisare le competenze della Dieta, le quali, esistendo prima del parlamento austriaco, compaiono in tutte le leggi fondamentali dello Stato, come i corpi legislativi primari di fronte ai quali è il Parlamento che deve strappare di volta in volta le sue competenze. La forza storica dell’autonomia dietale consisteva nel fatto che ormai per tradizione nulla si poteva fare contro le diete o senza sentirne il parere. Alla più, per quanto non esaurientemente, le competenze delle rappresentanze provinciali sono stabilite dal § 18 del Reg. Prov., per il quale si dichiarano affari provinciali tutte le disposizioni riguardanti: 1. l’agricoltura, 2. le pubbliche costruzioni a carico di fondi provinciali, 3. gli istituti di beneficenza dotati con fondi provinciali, ecc. osservando però che il punto 4. di questo paragrafo è così largo da sfuggire ad ogni specificazione. Infatti, esso suona: «Sono affari provinciali le disposizioni concernenti altri oggetti relativi alla prosperità ed ai bisogni della provincia che da particolari disposizioni vengono demandati alla rappresentanza provinciale». Riguardo al punto 2, del suo ordine del giorno, il relatore nota che il demandare al consiglio provinciale la preparazione del passaggio da un’amministrazione all’altra non è soltanto il mezzo migliore suggerito dai tempi nuovi, ma corrisponde anche ad un certo diritto storico acquisito, poiché, secondo il § 19 del citato Reg. Prov., la Dieta è chiamata a dare il suo voto e a fare proposte «sull’emanazione di leggi generali e disposizioni richieste dai bisogni e dalla prosperità della provincia», ciò che s’applica benissimo alle disposizioni che fissano il passaggio dall’amministrazione vigente a quella italiana. In quanto alla sfera di attribuzioni, egli ha aggiunto, alla fine del punto 2, che il parere della giunta provinciale debba essere sentito anche intorno agli organismi che stanno in nesso con l’amministrazione provinciale, per quanto non dipendano direttamente dalla sua legislazione. Egli pensava qui all’organizzazione forestale, agli uffici per le operazioni agrarie, per la sistemazione dei torrenti, ecc. Passando alla controproposta Viesi il relatore per quanto debba ammettere che la sua edizione odierna rappresenta un avvicinamento, giacché mette in prima linea la costituzione di un consiglio provinciale elettivo, e solo in via subordinata chiede la nomina da parte del governo di un consiglio provvisorio, pure non può darvi il suo assenso. A parte le considerazioni d’ordine generale, a cui si è riferito dapprincipio, l’oratore non ha fede che il governo proceda imparzialmente nella nomina del consiglio provvisorio, e sovratutto teme che di esso, in pratica, tenga poco conto. Esempio più luminoso non vi è di questa Consulta stessa la quale, malgrado le promesse, non venne mai consultata, nemmeno negli affari più gravi. Per contrapposto ricorda che al consiglio superiore della Lorena sono state sottoposte persino le tasse postali, che il consiglio stesso non accettò, preferendo le vecchie. Eppure questa Consulta è nata con gli stessi criteri con cui nacquero tutti i governi provvisori dopo la rivoluzione, costituendosi cioè dei vecchi mandatari più i rappresentanti di quei partiti che nelle ultime elezioni non avevano avuto alcun mandato. In ogni caso, se la Consulta non era riuscita bene, si doveva tentare di modificarla. In realtà, però, è dell’istituzione stessa che non se ne vuol sapere, e non solo non venimmo previamente consultati, ma non si tenne conto dei nostri pareri quando di nostra iniziativa demmo loro espressione posteriormente (ricorda, ad es.: valuta ed amministrazioni comunali). Ancora più pregiudicata è la proposta Viesi dall’ultimo comma in cui domanda l’arrivo di un commissario straordinario con poteri eccezionali. Ora, noi vediamo in questi poteri un pericolo, che si prolunghino al di là della proclamata annessione le restrizioni alle libertà civili di cui anche i Trentini, dopo questa guerra, sono assetati. Certo non sta questo nelle intenzioni dell’on. Viesi, che egli vorrebbe anzi i poteri eccezionali nel senso che l’influenza personale di questo commissario straordinario valga ad ottenere al nostro paese i mezzi necessari per la ricostruzione. Ma, per ottenere ciò, non è necessario ricorrere a discutibili influenze personali. Necessario è sapere chiaro quali sono i postulati economici del paese d’immediata attuazione, insistere colla forza che viene dal mandato popolare, e creare gli strumenti organici indispensabili per la esecuzione. Il relatore ha creduto perciò di rendere superflua anche in questo riguardo la proposta Viesi, aggiungendo al suo ordine del giorno i due ultimi punti. Noi vogliamo la costituzione di un ufficio, rispettivamente di una commissione, per la ricostruzione delle zone devastate, ufficio che abbiamo proposto nella Consulta ripetutamente, ancora prima che l’on. Fradeletto istituisse a Treviso un organismo analogo che egli chiama «Comitato Governativo». Per questo ufficio e per il consorzio dei comuni domandiamo dei forti anticipi: ecco gli strumenti locali che, sostenuti dalla rappresentanza del paese, provvederanno alla ricostruzione delle zone devastate. Abbiamo domandato ancora e domandiamo una dotazione dallo Stato alle opere pubbliche, e ciò tanto per combattere la disoccupazione, quanto per eseguire lavori urgenti già incominciati avanti la guerra o durante la guerra distrutti. Anche qui abbiamo un programma minimo di immediata attuazione preparato dall’ufficio tecnico provinciale o dall’ufficio sistemazione terreni. Sei milioni e 350 mila in acque e strade; 1.800.000 per la sistemazione dei torrenti. Basterà qui che gli uffici tecnici locali vengano completati con tecnici governativi, che venga eventualmente costituita una commissione stradale e che vengano assegnati i fondi perché si possa subito rimettersi al lavoro. In ogni caso affidiamo il raggiungimento di tali postulati alla volontà e all’energia del popolo liberamente espresse, più che all’antiquato sistema delle influenze personali. Fatti maggiorenni per lotte secolari sostenute per la libertà, per il governo di noi stessi, approfittiamo oggi della conseguita liberazione, e siamo certi che il nostro atteggiamento avrà un’eco favorevole in altre provincie consorelle che nutrono le nostre medesime aspirazioni.
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Il risultato della seduta tenuta sabato dalla Consulta è confortante. I rappresentanti di tutti gl’indirizzi – è alquanto difficile parlare oggi di partiti ricostituiti – hanno chiesto ad unanimità un consiglio provinciale elettivo, autonomo, che tratti a tu a tu colla burocrazia statale per organizzare l’amministrazione del paese. È il popolo trentino divenuto parte cosciente attiva del grande popolo italiano che si alza e domanda la parola per dire la sua opinione sul sistema con cui ha da venir governato. Questa è democrazia vera e pratica. Questo è un postulato di libertà civile. I nostri soldati ci hanno liberati dai vecchi padroni, ora bisogna che anche interiormente si risveglino e si liberino l’energie popolari e che vengano alla superficie. Il popolo può nutrire dei pregiudizi e portare in sé ancora i germi delle vecchie malattie che lo indebolivano nel lungo servaggio, ma noi abbiamo fede nel suo buon senso, abbiamo fede nell’azione purificatrice della lotta e sovratutto abbiamo maggior fiducia nel criterio del popolo a trattare le cose sue che in un centinaio di cavalieri e commendatori. Nella seduta della Consulta è stato accennato lievemente, come si comportava ad un argomento penoso, che in qualche travagliato villaggio o meglio tra i ruderi d’un villaggio che fu, le elezioni non s’inspirerebbero forse a tutto quel vivo senso di gratitudine verso la patria italiana che ci vorremmo augurare. Ma noi vediamo in questo stato d’animo una ragione di più per chiamare anche codesti inacerbiti abitanti della zona devastata ad esercitare col voto un influsso sull’amministrazione pubblica. Bisogna che questa gente veda «via facti» la differenza tra un impero aristocratico ed uno Stato democratico; bisogna che essa senta che non si tratta di cambiar tutela, ma principio di governo; bisogna che le venga appreso con un esempio luminoso che l’Italia non è semplicemente il commissario regio e nemmeno il tenente che costruisce le baracche, l’Italia è il popolo italiano, del quale la frazione trentina sente in tutta la pienezza di far parte, quando ne condivide l’esercizio dei suoi diritti. Solo se il popolo sarà chiamato a governare in casa sua non lo sedurranno esotici ideali di dittatura proletaria, ideali che vengono predicati anche da noi e trovano nel malcontento generale di codesta crisi d’armistizio un terreno meno refrattario di quello che forse nei circoli cosiddetti direttivi si possa ritenere. Queste alcune delle considerazioni d’ordine morale che accompagnarono la proposta per l’elezione di una rappresentanza provinciale, in vista dell’imminente annessione. Con tutto ciò e coi supremi interessi del paese che sono in giuoco non sta in alcun rapporto la maggior o minor fortuna di quell’esile e vacillante consesso che è la Consulta, la quale, fosse anche stata tenuta dall’autorità in quella considerazione che le venne formalmente promessa e che avrebbe corrisposto all’interesse del paese e… dell’amministrazione, non avrebbe potuto mai e in nessun caso sostituire, nei momenti decisivi e nelle questioni grosse, un’assemblea emanante direttamente da tutte le classi della popolazione. Ciò sia detto per chi tenta di bagattellizzare il problema riducendolo ad una schermaglia pro o contro il mantenimento della Consulta, quasiché potesse avere ombra di fondamento il sospetto che il suo mantenimento venga consigliato da mire personali o di partito.
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Il brindisi che l’ing. Giampiero Clerici rivolse ieri a nome degli industriali milanesi ai trentini si distingue da molti altri per una certa lombardicità di contenuto. Non sono frasi, sono idee che corrispondono alle cose. Egli ha senza dubbio lusingato il nostro orgoglio locale, quando ha messo in rilievo la bontà delle nostre organizzazioni economiche e delle nostre amministrazioni autonome. Gli siamo grati sovrattutto per l’augurio ch’egli ha espresso che le nostre autonomie vengano conservate, anche perché ciò serva di esperimento utile ad altre provincie. Quest’idea della nostra autonomia amministrativa fa oramai il suo cammino. Ma non temano gl’industriali lombardi che noi abbiamo prestato meno favorevole orecchio alla seconda parte del discorso in cui si fa appello alla collaborazione delle terre redente con tutta la nazione. Noi siamo autonomisti in confronto della burocrazia, ma non siamo cantonalisti di fronte alla vita economica e spirituale della nazione. L’Austria ci toglieva ogni possibilità di sviluppo economico tagliandoci fuori dalla pianura del Po. Oggi, levate le antiche barriere, sentiamo che il nostro avvenire riposa tutto sul congiungimento colla grossa nervatura della produzione lombarda. E, accogliendo con grato animo l’augurio dell’ing. Clerici, ci associamo a lui nell’esprimere il voto che il Trentino sia messo in grado di lavorare e produrre non solo per sopperire ai suoi nuovi bisogni, ma possa anche collo sfruttamento delle sue forze naturali compensare in qualche parte la nazione dei sacrifici fatti per la sua liberazione politica. Accettiamo il motto «tutti per uno e ciascuno per tutti» ben volentieri e con entusiasmo, quando questa parola d’ordine ci viene passata da chi come noi invoca la solidarietà di tutte le energie vive della nazione, ma depreca come noi l’asfissia d’un’amministrazione accentratrice e livellatrice. Ecco ora un largo sunto del discorso Clerici. Signori trentini, i soci dell’Unione Meccanici Metallurgici di Milano, di cui sono presidente, avendo saputo che venivo a Trento pel congresso della Associazione Elettrotecnica italiana, mi hanno incaricato di portarvi il saluto degli industriali lombardi. È con un senso di emozione profonda che prendo la parola in Trento italiana. Scusatemi se vi ripeto questa frase che tutti i fratelli italiani venuti qui vi avranno detto e vi diranno in avvenire; ma è un sentimento così vero, così sentito, è stato così forte l’amore che nutriamo per voi, e così a lungo compresso il desiderio di ricongiungervi alla Patria, che ora il sogno fatto realtà al prezzo di tanti sacrifici ha bisogno di essere detto con una frase che non è rettorica, ma che riassume i sentimenti di tanti anni di aspettazione e di azione. E quasi mi sento l’obbligo, amici trentini, di scusarmi con voi per questo seguito ininterrotto di visite e di feste. È un necessario sfogo dopo quattro anni di guerra e di tragica attesa e voi dovete comprenderlo e perdonarci. Siate persuasi però che noi in parte conosciamo e in parte studieremo meglio i vostri problemi e che il nostro amore per voi non è solo fatto di brindisi e di feste. Noi industriali vi conosciamo da molto tempo, perché nel vostro squisito patriottismo voi avete negli anni passati preferito, appena vi fu possibile, la nostra industria, malgrado fosse ancora in un periodo di incertezza e di preparazione e malgrado le barriere doganali e politiche. Noi conosciamo la serietà, l’intelligenza, l’onestà delle vostre popolazioni, conosciamo le splendide organizzazioni economiche che vivificano tutto il Trentino, il vostro sistema bancario, le vostre cooperative di consumo e di produzione. E specialmente sappiamo che voi avete una organizzazione amministrativa, sia comunale che provinciale, perfetta, buona in sé, buona nei suoi funzionari e che le popolazioni apprezzano e coadiuvano. Noi sappiamo che voi, oasi di italianità sperduta e sola in mezzo al mondo tedesco, avete di fatto conservata la vostra autonomia culturale ed economica, con una azione meravigliosa di patriottismo, e di vita civile, industriale, agricola e commerciale. Gli industriali italiani vi dicono che noi qui abbiamo tutto da imparare, vi dicono che voi siete pienamente in grado, anzi siete i soli che possono dire ciò che occorre fare perché questa bella regione, levati gli impacci politici, acquisti quella prosperità economica che le compete e divenga sempre più fulgido faro e forte sentinella di italianità sulle Alpi. E specialmente gli industriali italiani desiderano che i vostri sistemi amministrativi siano, per quanto è possibile, mantenuti e che la vostra organizzazione serva di esperimento e di esempio per la riforma di cui è urgente il bisogno, di tutta l’organizzazione amministrativa del Regno. Ma non è questo solo che volevo dirvi. Altro da voi aspettano gli industriali lombardi. O signori, l’Italia nella guerra ha sacrificato i tre quarti della sua fortuna. L’Italia, che non era ricca, l’Italia che non può vantare che la laboriosità, l’onestà, il genio manifatturiero dei suoi figli, inizia ora fidente e calma la guerra economica; abbiamo vinto la guerra militare, speriamo di vincere la guerra diplomatica; tocca ora a noi, per la più grande Italia, di vincere la guerra economica. Per questo compito noi contiamo sulla vostra collaborazione. Questa collaborazione ha offerto spontaneamente il podestà di Trieste nel primo messaggio mandato al sindaco di Milano e i Milanesi ne ebbero un fremito di commozione e di orgoglio. Questa collaborazione noi abbiamo il bisogno di avere da voi intiera ed entusiastica. Perché voi molto potete fare. Nel parlamento, nella burocrazia, nelle nostre organizzazioni, economiche e politiche, la vostra voce, la vostra azione, forte di lunga esperienza e di puro entusiasmo, può aver una efficacia a cui voi forse non avete ancora pensato, ma che noi ci aspettiamo e che siamo certi che avrà. Poiché, continua l’oratore, la grande politica dei figli di Italia è: tutti per uno e ciascuno per tutti, e tutti e tutto per l’Italia, per la gran Madre, una di lingua, di altare, di aspirazioni. Sono per voi fortunatamente finite le oscure lotte fra le nazionalità e le razze nemiche, insieme tenute da un impero dinastico e militare: oggi avete la vostra Patria, grande e bella da amare, per cui lavorare, per la quale il sacrificio è un piacere e la cui grandezza è la grandezza di noi tutti. Solo con questo pensiero è possibile sopportare con pazienza il periodo penoso delle trattavate di pace colle sue inevitabili necessità militari e incertezze civili; solo con questo pensiero voi lavorerete al risorgimento delle vostre belle vallate, pensando che lavorate pel risorgimento d’Italia e la Nazione darà a voi i mezzi che vi occorrono perché possiate affrettare l’opera vostra. E non vi sembri strano che queste cose vengano a dirvele gli industriali di Milano; perché è appunto con questi sentimenti che hanno fatto un’opera meravigliosa durante la guerra; è con questi sentimenti che intendono di iniziare una azione non meno energica, intelligente e tenace nella vita politica del dopo guerra. L’Italia ai produttori, ai produttori del martello e della penna, ai produttori del braccio e dell’intelligenza.
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La Consulta trentina nella sua ultima seduta ha proclamato alto e forte un principio di democrazia e di libertà ed ha anche indicato il mezzo per attuarlo . Principio: Il sistema di amministrazione di un paese non dev’essere imposto dalla burocrazia, ma determinato dal popolo stesso. Mezzo: Indire le elezioni in base al suffragio universale e proporzionale e dare incarico a questa rappresentanza popolare in tal modo eletta, di fare le proposte concrete. Principio e mezzo vennero proclamati nel momento in cui, per l’auspicata annessione allo Stato italiano, il sistema amministrativo del Trentino deve venire rinnovato. La parola della Consulta ha espressa la volontà ferma e dichiarata di tutto il paese, ed ha trovato il consenso di larghissime correnti dell’opinione pubblica nazionale. Insistete e gridate, finché v’esaudiscano – ci hanno detto laggiù uomini politici di tutti i partiti. Non sta solo nell’interesse vostro, è anche nell’interesse nazionale che, ricostruendo sulla base che già possedete, si faccia da voi un esperimento il quale serva anche per le altre provincie ove s’invoca invano da tempo il decentramento amministrativo e la liberazione degli enti locali da una tutela statale che soffoca. La base su cui bisogna ricostruire è l’amministrazione autonoma nei municipi e nella provincia. Conservata, allargata, migliorata questa base, arriveremo logicamente ad una situazione in cui uomini eletti dal popolo parteciperanno immediatamente a buona parte dell’amministrazione pubblica ed indirettamente a costringere altri organi dell’amministrazione statale ad adattarsi alla particolare fisionomia locale, ossia arriveremo al decentramento della burocrazia. La via è segnata e mena diritto alla meta. Bisogna ora marciarvi con passo lesto e sicuro. Tutti gli uomini che hanno vivo il senso della responsabilità e sanno il momento decisivo che ci passa dinnanzi, si mettano risolutamente in cammino, e il popolo li seguirà. C’è stato da noi solo un piccolo gruppo di giovani che trovatisi innanzi a una via così diritta e ad un volere di popolo così spontaneo e naturale, si sono lasciati prendere da uno strano turbamento che li ha condotti per sentieri tortuosi e transversi. «I volontari trentini – dice un ordine dei giorno della Legione trentina – mentre auspicano l’avvento di un regime italico di larga autonomia provinciale, quale è da tutti in Italia desiderato e che potrà tener conto di quanto è utile prendere dalle vecchie organizzazioni provinciali, respingono nel modo più energico il progetto di conservare al paese nostro l’“autonomia austriaca” della provincia» . Basta citare questo periodo, perch’esso nella sua contradittorietà si elida da sé. Ma chi vi parla di autonomia «austriaca» perché «austriaca»? Noi abbiamo detto in concreto quello che vogliamo: liberi municipi e comuni senza ingerenza statale d’indole amministrativa e provincia autonoma con una giunta elettiva, indipendente dal prefetto, infine consiglio provinciale elettivo colle attribuzioni della dieta, specie riguardo all’agricoltura. Questa, egregi signori, è tutta roba che si domanda da trentini per trentini, dunque per italiani, e tutto questo si reclama come diritto del popolo redento e ricongiunto all’Italia. E voi prendete scandalo perché tali organismi d’origine prettamente italica, com’ebbe a dire recentemente a Bologna un nostro egregio amico, sono giunti a noi attraverso la dominazione austriaca ora scomparsa? Ma allora voi dovreste respingere in modo altrettanto «energico» qualsiasi opera o costruzione pubblica sorta sotto governo austriaco. A tali assurdità vi conduce quello spirito di critica appassionata, che ha alimentato il vostro ordine del giorno, scritto a quanto pare, più per dar sfogo ad un risentimento causato da un accenno incidentale fatto dal relatore della Consulta all’esercizio del diritto di autodecisione nella Camera austriaca che ad un sentito bisogno d’interloquire in un argomento di così grave importanza per l’avvenire del paese. Il quale relatore mentre crederebbe d’immiserire l’importanza della questione seguendovi sul terreno di una polemica del tutto secondaria, sente di dovervi dichiarare che come nessun atteggiamento polemico della legione trentina può diminuire in lui il senso di gratitudine e di ammirazione per quanti hanno sofferto e combattuto per la liberazione della patria, d’altro canto, questo stesso sentimento doveroso non gli può impedire di deplorare che un’associazione di fratellanza militare, assumendo ed esercitando funzioni politiche, presuma di condannare per «presuntuoso trentinismo» chi domanda ed esige che il Trentino venga annesso all’Italia non come corpo amorfo e costretto nel letto di Procuste della burocrazia, ma come corpo vivo, in piedi, e capace di reggersi per forza propria. Se poi alla «legione» dispiace che vi siano dei «vecchi rappresentanti» che ardiscono ancora prendere la parola, non ha che un mezzo per sbarazzarsene. S’unisca con noi, s’unisca col paese a domandare le elezioni. L’appello al popolo è il mezzo più spiccio e più radicale per impedire che la vita trentina si «cristallizzi» in forme arbitrarie di commissari regi e di comitati di salute pubblica. L’ordine del giorno contiene ancora questi periodi: «presa conoscenza delle discussioni e dei voti della “Consulta” sulla questione dell’autonomia provinciale, protestano anzitutto contro l’affermazione che il Trentino abbia esercitato per la prima volta il diritto d’autodecisione quando – all’ultima ora – i “legali rappresentanti” delle terre redente proclamarono alla Camera austriaca l’annessione del proprio paese all’Italia, quasi che il Trentino non avesse esercitato tale suo diritto già nel ’48 alla Dieta di Francoforte e – nell’ultima guerra – ancora nel 1914 per bocca del più autorevole dei propri rappresentanti, il deputato di Trento, Cesare Battisti e per mezzo di mille volontari accorsi a consacrare coll’opera e col sangue la volontà del popolo trentino; di fronte alla deplorevole imposizione del problema dell’autonomia fatta dai vecchi rappresentanti politici trentini, i quali non si peritano di considerare “diritto storico acquisito” quanto è disposto dal regolamento provinciale di quella Dieta tirolese che l’Austria ci aveva imposto in contrasto coi nostri diritti, condannano la costante metodica esaltazione di leggi, ordinamenti e metodi austriaci in opposizione a quelli italiani e riaffermano la loro irriducibile ostilità a quell’importuno presuntuoso “trentinismo” in cui dovrebbe cristallizzarsi la vita trentina che ha invece urgente necessità di più largo flusso di energia nazionale».
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Nella «Libertà» di ieri leggiamo il testo d’una circolare del comando supremo che autorizza i governatori a pagare il sussidio arretrato delle cosiddette 500 corone in base al § 9 della legge profughi 31 dicembre 1917 . Noi ignoriamo per quale particolare diligenza o per quale speciale favore il nostro confratello sia stato in grado di pubblicare la circolare; e ciò importa meno. Ma quello che importa è di sapere che la circolare data dalla fine di maggio e che i pagamenti, secondo l’ordine del comando supremo, devono essere compiuto entro il tempo più breve possibile, in modo che al 30 giugno «siano chiuse le relative contabilità». Ora noi osserviamo che la stampa non ebbe finora della circolare comunicazione di sorta, né per mezzo suo l’ebbero gl’interessati; aggiungiamo poi per informazioni assunte circa vari distretti, che gli interessati non ne ebbero notizia nemmeno in altro modo. È vero che in teoria si potrebbe ammettere che in qualche ufficio ben ordinato il lavoro preliminare di contabilità può essere compiuto in base alle denuncie già fatte sotto l’Austria o a quelle sommarie fatte in occasione dell’inchiesta sulle riparazioni, ma noi dubitiamo assai che nella maggior parte dei distretti sia possibile metter mano su tali elenchi. Ma c’è di più. Ai 5 di questo mese, dopo che la circolare del comando supremo era già uscita, i governatorati diramavano ai commissari civili ed alla stampa l’appello del comitato di Vienna per la statistica e la documentazione dei crediti in confronto dello Stato austriaco, compresi quelli derivanti dalla legge profughi. I comuni, i segretariati di Assistenza e del Rinnovamento si misero in moto ed hanno ancora un gran da fare per compilare gli elenchi e allegarvi le prove del credito compreso quello derivante dal § 9. Ed ora il pubblico viene a sapere, quasi di straforo che esiste un’ordinanza per la liquidazione di tali crediti ex § 9 della legge profughi da parte del governo italiano! Noi prendiamo a grata notizia la cosa stessa, ma protestiamo vivamente contro questa confusione burocratica, la quale finisce col creare una situazione babelica. Si tratta di povera gente che è in angustie per quello a cui crede d’avere diritto e la quale finisce col perdere la testa in siffatto guazzabuglio. Fosse l’unico ed il primo caso, pazienza! Ma una confusione analoga s’è fatta coi depositi alla cassa di risparmio postale di Vienna. Il comitato di Vienna aveva proposto il loro ritiro ancora quattro mesi or sono. Il permesso venne come al solito dopo due mesi, ma quando venne, si incominciò a raccogliere e spedire i libretti. Quand’ecco un contrordine sospende l’azione del comitato di Vienna ed avvia un’azione analoga dell’amministrazione postale la quale finalmente s’era accorta che sarebbe stato un po’ anche affar suo. Che dire poi delle lire venete? In molti dei nostri comuni lungo il vecchio confine e anche nell’interno si sono annunciati dei possessori di lire venete le quali provengono per lo più da profughi che si trovavano nel Veneto durante l’occupazione austriaca. Quando venne emanato il decreto del cambio per le lire venete, le terre redente vennero dimenticate. Si annunziò allora che si supplirebbe con un decreto aggiuntivo. Ma intanto sono passati i mesi, e non si vede niente. Invece se n’è occupato il benemerito comitato di Vienna, il quale offre la sua mediazione per il cambio delle lire venete. Come non sappiamo, ma il comitato lo può! Ora noi diciamo che è ora di finirla con queste confusioni! Si ha l’impressione che al segretariato generale o ai governatorati la destra non sappia quello che fa la sinistra, norma pessima, quando si tratti di amministrare la cosa pubblica. Il peggio è che noi temiamo di veder in questi disguidi solo dei sintomi preliminari d’una confusione ben maggiore che ci lascerà la conferenza di Parigi attorno alla liquidazione austriaca e sul conto dei molti nostri interessi ivi compromessi. Basta; noi abbiamo parlato a tempo, e ci duole che il governo nazionale non abbia sentito il bisogno ed il dovere, almeno dopo i ripetuti richiami della stampa, di consultarsi colle persone del paese. Intanto messa a parte questa preoccupazione dei guai maggiori, rispetto ai quali non ci resta che attendere sperando, torniamo a dire alle autorità di seconda e terza istanza, con riguardo al deplorato incrociarsi d’azioni contraddittorie che fanno ammattire gl’interessati: È ora di finirla! Così non va assolutamente! E fate ordine!
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La Consulta ha insistito ripetutamente su due necessità assolute della nostra vita sociale: l’una è quella di creare un organismo tecnico per la ricostruzione della zona devastata, e l’altra di mettere a disposizione dei nostri uffici tecnici civili esistenti (ufficio provinciale, ufficio regolazione torrenti, ufficio per le operazioni agrarie) rafforzati eventualmente da organi governativi una dotazione di una ventina di milioni per i lavori pubblici urgenti. A mano a mano che si avvicina la data della smobilitazione, queste due necessità imprescindibili, rimanendo insoddisfatte, assumono un carattere di grave minaccia sociale. Noi ci domandiamo, per non toccare che un lato della questione, che cosa sarà delle decine di migliaia di lavoratori, occupati ora dal genio militare nella riattazione e regolazione delle strade, in lavori relativamente leggeri e altamente retribuiti, allora che il genio militare avrà finito il suo compito. Noi ci chiediamo quando si procederà alla ricostruzione delle case, rispettivamente alla loro riattazione se, cessato il governo militare, non subentrerà immediatamente un organismo civile, il quale si sia preparato per il suo compito coll’organizzare lo sfruttamento delle materie prime. Speravamo che in seguito alle reiterate insistenze del paese, qualcuno a Padova o a Roma si occupasse sul serio del problema, sentisse il bisogno di studiarlo sul luogo assieme ai nostri rappresentanti ed ai nostri tecnici e ne avviasse la soluzione. Si è risposto invece coll’indifferenza e col silenzio. C’è qualche cosa di esasperante in codesto mutismo burocratico, qualche cosa che ci serra la gola. Noi non ci nascondiamo che codesta paralisi è fenomeno non solo italiano ma europeo, perché abbiamo letto nella stampa francese in questo riguardo dei lagni più forti dei nostri. Sappiamo concedere anche tutte le attenuanti che derivano da una situazione politica, imbarazzante e complicata; ma infine, dopo tanti mesi, è ora d’uscirne assolutamente! Abbiamo letto un decreto dei primi del mese scorso (8 giugno) che autorizza il ministro dei lavori pubblici a spendere 27 milioni per lavori stradali nelle terre liberate e per concedere alle provincie, ai comuni, ai consorzi stradali sussidi fino al 50 per cento della spesa che abbiano sostenuto o sostengono per straordinarie riparazioni di loro strade gravemente danneggiate dalla guerra. Noi ci chiediamo perché non è possibile che si dedichi un congruo importo anche ai lavori trentini, valendosi, sia pure sotto il più rigoroso controllo del governo, delle forze tecniche locali, e sovvenzionando le iniziative della provincia, dei comuni e dei consorzi. Abbiamo un programma concreto di lavori che non sopportano dilazioni, abbiamo i tecnici per dirigerli, gli enti autonomi locali per farli eseguire, e lo Stato non comprende la convenienza di dedicare a questa sana ripresa della nostra vita economica alcuni pochi di quei milioni che vengono sperperati in altro modo anche nella nostra regione? In quanto al secondo nostro postulato, che cosa domandiamo noi infine se non la creazione di un organismo analogo a quello istituito nel Veneto? A Treviso, com’è noto, è stato istituito il comitato governativo per la ricostruzione presieduto dal sottosegretario del ministero delle Terre liberate, e costituito dai delegati dei ministri dell’Interno, dei LL.PP., della Guerra, del Tesoro, delle Terre liberate. A questo comitato governativo spetta di coordinare l’opera dei comitati provinciali, istituiti già con un decreto precedente e composti del prefetto, di due ufficiali superiori, dell’ingegnere capo del genio civile, del presidente della deputazione provinciale e di due sindaci di comuni danneggiati nominati dal governo. Diciamo subito che tale organizzazione non va copiata letteralmente. Per noi un comitato governativo costituito di alti funzionari ministeriali e presieduto da un viceministro è un aeropago troppo in alto nei cieli della burocrazia perché vi possiamo o vogliamo aspirare. D’altro canto non ci potremmo accontentare nemmeno di un comitato provinciale, bench’esso sia costituito più democraticamente e ciò perché le sue attribuzioni sono assai limitate in confronto del comitato governativo ch’è la seconda istanza. Si rilevi che nemmeno il comitato di Treviso può approvare un lavoro di ricostruzione, la cui spesa superi 300 mila corone! Ci vuole in tal caso il ministero dei LL.PP. Cosicché se nel Trentino avessimo un comitato provinciale, esso dovrebbe sottoporre al comitato di Treviso ogni e qualsiasi lavoro per l’approvazione, la quale viceversa verrebbe rimessa a Roma quando si trattasse di un lavoro superiore alle 300 mila corone! Anche qui noi dobbiamo esigere il decentramento. A parer nostro il comitato o l’ufficio trentino dovrebbe comporsi di burocratici e di rappresentanti locali (a elezioni fatte dovrebbe essere il consiglio provinciale che nomina questi ultimi) e le sue attribuzioni dovrebbero essere, per quanto riguarda la spesa, assai più larghe di quelle concesse al comitato di Treviso. Non vi pare assurdo che per costruire una diecina di baracche (350-400 mila corone) si debba chiedere il permesso al consiglio superiore presso il ministero dei LL.PP? Ma allora che fare di codesto organo intermedio, il quale minaccerebbe di riassumere a sua volta la funzione d’imbuto che viene rimproverata al segretariato di Padova? A parte il limite della spesa, le attribuzioni del comitato governativo, corrispondono, se non c’inganniamo, alle esigenze dell’opera che è chiamato a compiere. Esso provvede infatti a carico dello Stato: a) alla costruzione di ricoveri stabili e provvisori (baracche); b) all’esecuzione delle indispensabili opere igieniche e complementari, nonché alla demolizione e al puntellamento degli edifici pericolanti e allo sgombero delle aree pubbliche; c) all’esecuzione dei piani regolatori; d) alla ricostruzione e riparazione delle opere d’interesse provinciale, comunale e d’istituzioni pubbliche di beneficenza, in quanto non vi provvedano direttamente tali istituti locali, nel qual caso il ministero del Tesoro rifonderebbe ad essi la spesa. Il comitato istituisce inoltre dei magazzini di materiale da costruzione, da cedersi agli enti locali o ai privati, valendosi anche del materiale ricuperato in conseguenza della smobilitazione. All’uopo il ministro per le terre liberate nomina un proprio delegato presso l’ufficio di ricupero o smobilitazione, il quale delegato avrà diritto di prelazione su qualunque altro acquirente. Il comitato inoltre può assumere la gestione diretta degli stabilimenti, impianti, teleferiche, decauvilles e simili, che fanno parte ora dell’organizzazione militare. Programma, come si vede, vasto ed esauriente, al quale non vengono lesinati i mezzi per l’attuazione. Nel decreto dell’8 giugno, 80 milioni sono previsti per le opere di cui alle lettere a) e b), 10 milioni per i piani regolatori, 40 milioni per le costruzioni pubbliche, 20 milioni per i magazzini e così via. Noi non sappiamo come quest’organismo, che noi abbiamo descritto, tal quale appare dagli atti ufficiali, funzioni in pratica. Ma è certo che toltine varii difetti, di cui alcuni saltano all’occhio e adattato al nostro assetto amministrativo, qualche cosa di analogo va creato assolutamente anche da noi e che è ora e tempo oramai che vi si pensi con tutta sollecitudine.
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[…] L’oratore rileva, prima di tutto, che torniamo a radunarci dopo cinque lunghi anni di silenzio. Il primo periodo di questo silenzio è stato penoso e si è svolto dopo scoppiato il conflitto europeo, durante la neutralità italiana, quando noi ingolfati da anni nella politica triplicista eravamo trepidanti in attesa che si sciogliesse il dilemma: o la nostra unione pacifica alla Madre Patria o l’entrata in guerra dell’Italia. Poi è venuto il periodo di silenzio tragico, quello che si è prolungato per quasi tutta la guerra, quando coll’animo straziato noi contemplavamo impotenti rovine e lutti, conculcazioni, ingiustizie e soprusi senza nome e sentivamo il pianto dei bimbi lasciati senza padre, i lamenti delle madri affrante da una terribile lotta per l’esistenza, la pietà per i profughi a centinaia e a migliaia sbattuti, dispersi in paesi lontani, fra nemici astiosi, nel bisogno di tutto, e la rabbia dei nostri soldati che sapevano di non combattere per una patria loro. Poi venne un terzo periodo, di fiducia, di speranza, e fu quando gli avvenimenti prendevano una piega conforme ai nostri desideri svolgendosi a favore dell’Intesa, e i deputati trentini al Parlamento di Vienna incominciarono a potere dar sfogo ai sentimenti del popolo. Infine, dopo la vittoria, tenemmo un silenzio un po’ preoccupato, un po’ forzoso, diremmo quasi diplomatico, in attesa della definizione delle nostre questioni e dei nostri confini, questioni che andavano rimesse ai fiduciari della nazione, e poi anche per timore che la nostra voce e le nostre critiche sembrassero ingratitudine verso i nostri eroici soldati. Il popolo domanda la parola Ma ora s’impone il dovere di rompere il silenzio e parlare per dare espressione alla volontà del popolo. L’oratore non vuole lo si consideri qui come uomo politico, come deputato che porti con sé il fardello del passato: egli non lo rinnega; deciderà in convegno costitutivo del Partito popolare che cosa di questo fardello debba essere preso nel nuovo cammino, che cosa gettato, ma intanto egli non vuol essere qui che un qualsiasi portavoce della massa popolare, o di gran parte di essa che oggi sente il bisogno di gridare: ci sono qui anch’io! e voglio dire la mia parola sull’assetto politico e amministrativo del paese. Il diritto del popolo a farsi largo si basa sovratutto sul sentimento oggi comune che è finito il tempo di lasciare far tutto a poche persone. I Trentini non vogliono essere megalomani e andare a dettar legge agli altri; vogliono che il passaggio amministrativo si compia con beneficio d’inventario e si consideri bene quello che del passato va ancora mantenuto, quello che va riformato e quello che va cambiato, e non si provveda senza aver sentito il loro parere. Ci sono infatti cose che tutti ritengono opportuno mantenere: le provvidenze sociali come le assicurazioni per gli operai e per gli impiegati, la legislazione agricola e specialmente quella forestale, certi ordinamenti scolastici, le provvidenze per l’incremento del concorso forestieri, ecc. Vogliamo poi il mantenimento dell’autonomia provinciale e comunale e cioè che la provincia e i comuni conservino i poteri che hanno di fronte all’autorità politico-amministrativa dello Stato. L’oratore non discuterà qui la parte tecnica dell’autonomia. L’essenziale è che s’era giunti a questo: che nessun passo importante veniva fatto in questioni pubbliche senza l’accordo fra il luogotenente e la giunta eletta dal popolo. Essa contemperava i poteri della burocrazia. Ci si rinfaccia di voler fare del Trentino una repubblichetta. No. La nostra tendenza va semplicemente al di là di quello che c’è ora della legislazione italiana: è un progresso verso quell’assetto ideale di amministrazione che godono certe contee inglesi. Certo, col tempo, noi vorremmo arrivare a sostituire addirittura la burocrazia nei gradi superiori con uomini eletti dal popolo. Sarebbe eresia il chiedere la stessa cosa anche per l’Italia? Allora accettiamo volentieri l’accusa di eretici, giacché sentiamo che questa guerra che ha tutto sconvolto sarebbe inutile senza il trionfo delle nuove idee (applausi). Del resto noi non facciamo che prevenire e sussidiare quel movimento decentralistico che si manifesta anche in Italia dove, se forse le autonomie non sono ancora intese come le intendiamo noi perché manca alla tendenza la forma concreta, si è però d’accordo sul principio di ridurre il potere della burocrazia e aumentare quello degli enti locali. Su questo dobbiamo insistere anche se ci troviamo a cozzare contro l’accusa dei pavidi che volessero gratuitamente tacciarci di antipatriottismo (applausi). Si dirà: aspettate un po’, fidatevi delle dichiarazioni ripetute degli uomini di governo. Come, fino ad oggi s’è cercata la collaborazione del paese Ma con quali garanzie, su quali esempi dobbiamo avvalorare la nostra fiducia? Due esempi tipici: nelle trattative di pace, quale cosa più logica e naturale che l’invitare a Parigi, per la regolazione delle cose che riguardano il nostro paese in confronto degli altri della cessata monarchia, i nostri rappresentanti? L’hanno fatto tutti, dalla Serbia che ha per delegati personalità slovene e croate, all’Austria tedesca che fra gli altri si è fatta rappresentare dal tirolese Schumacher . Ebbene soltanto dopo le ripetute insistenze nella nostra Consulta si consentì acché l’on. Tambosi si recasse a Parigi, ma egli si è trovato nonostante le sue attitudini come sperduto in quell’areopago, poiché il suo non era compito che potesse assolvere una sola persona e pensando a lui mi sono ricordato di quello che scrisse il Gazzoletti , quando gli emigranti trentini proponevano nel ’59 di mandare un delegato alla conferenza di Parigi. Arriviamo così forse alla mancata tutela nel trattato di pace, della nostra produzione vinicola, danneggiandosi così gli interessi di noi italiani per favorire altri che alla guerra hanno portato un contributo soltanto all’ultima ora. L’oratore passa quindi a dimostrare come neppure il trattamento che in questi otto mesi di armistizio si è fatto alle autonomie provinciali e comunali ci possa ispirare fiducia. A parlare soltanto delle autonomie comunali basti questo: che su 338 comuni di cui ha potuto aver notizie, 215 hanno sindaco e rappresentanza eletti regolarmente, 29 hanno la rappresentanza eletta e il sindaco nominato dal governatore, 34 solo sindaco e rappresentanza (una specie di Consulta) nominati, in 50 comuni c’è solo il sindaco nominato, in 5 c’è un commissario militare e in 2 (Cavareno e Quetta) si sono fatte le elezioni durante il periodo di armistizio. L’amministrazione provinciale poi è talmente ridotta nel personale di concetto che non può sviluppare un’adeguata attività. Dunque, fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. Possiamo poi aggiungere un terzo esempio e cioè l’esperienza fattaci fare in questi giorni con la creazione del nuovo ufficio d’amministrazione civile delle terre redente. (Notiamo fra parentesi che la Consulta, tutti l’hanno visto, non ha avuto nessuna autorità; strappata al governo dopo più di un mese dalla liberazione del nostro paese, essa non è stata mai consultata; non si è richiesto il suo parere su una sola delle questioni più essenziali per noi). Ebbene, per la nuova sistemazione è venuto fuori, all’improvviso, senza che nessuno ne sapesse nulla, un decreto che si dice essere stato però preparato, già da diversi mesi, dal gabinetto Orlando: l’on. Nitti deve averlo trovato a caso, riordinando le carte e spolverando la sua scrivania (ilarità). Questo decreto è molto più grave di quanto non possa esser sembrato a prima impressione; rileggendolo attentamente, si scorgono i pericoli che esso cela. Noi potremmo essere beneficiati per lungo tempo, magari per un anno, da un regime eccezionale durante il quale, senza consultare il parlamento o il nostro paese, ma soltanto, se si vuole, una nuova consulta risiedente a Roma e composta di persone scelte dal governo, il nuovo ufficio centrale dovrebbe affrontare e risolvere per decreto reale tutte le gravi, delicate e complesse questioni delle terre redente. Una questione grave Di queste questioni, l’on. Degasperi cita ad esempio quella davvero scabrosa dell’assetto provinciale del nostro paese. Si vuole dividere la parte tedesca in provincia distinta da quella italiana, o si vuole creare una sola provincia? L’oratore non vuole oggi pronunciarsi in merito, ma rileva che la questione è assai grave e sta in nesso assai stretto colle nostre tendenze autonomistiche. Il prof. Tolomei , sostenitore entusiastico della provincia unica, per scalzare le obiezioni dei dualisti, i quali prospettano con terrore la possibilità di una rappresentanza provinciale bilingue con una forte «minoranza tedesca» (24 su 38 o secondo l’ipotesi più ottimista 18 su 44) risponde che la cosa non ha importanza, perché la rappresentanza provinciale non sarà più una Dieta, ma verrà ridotta alle poche funzioni del consiglio provinciale italiano, che viene convocato una o due volte all’anno per brevissimo tempo. Ecco dunque che la questione della provincia unica o del dualismo è in nesso logico colla nostra autonomia. Inoltre quest’assetto darà il corso alla nostra politica locale per anni ed anni, giacché si tratta di decidere se avremo ancora tra i piedi la questione linguistica-nazionale o se ce ne saremo liberati. L’oratore accenna qui alle conseguenze previste dal Tolomei per gl’istituti provinciali (bilinguità) ecc. per concludere che la questione è troppo grave, troppo decisiva, perché possa venir abbandonata alla decisione di un decreto reale o di pochi consultatori. Il popolo ha assolutamente diritto di dire la sua parola. Non possiamo quindi accettare il provvedimento escogitato dal governo e contro di esso protestiamo. E allora, come si potrebbe risolvere la questione di provvedere in forma legale e non con disposizioni eccezionali al definitivo assetto del nostro paese? Secondo l’oratore ci sarebbero due mezzi: O aspettare un po’, fin che, approvata la riforma elettorale e fatte, con la partecipazione delle terre redente, le elezioni politiche, il nuovo parlamento risolva la questione in via legislativa, alla presenza dei deputati della regione (è ciò che fu promesso all’Alsazia-Lorena). Questa soluzione ha con sé lo svantaggio di un forte ritardo. O indire sollecitamente le elezioni del consiglio provinciale in base al suffragio universale uguale, diretto e proporzionale e dar modo al nuovo ente di decidere, in veste diciamo così di costituente, sul riassetto della provincia. Si potrebbe obbiettare che, per indire le elezioni provinciali a sistema proporzionale, occorrerebbe un decreto reale o del comando supremo, cioè uno di quei mezzi eccezionali che noi deploriamo e deprechiamo. È vero; ma di fronte a una situazione così complessa e delicata, è preferibile far uso per una volta sola di un rimedio di eccezione che tronchi definitivamente la lunga teoria dei decreti e delle ordinanze, anziché perpetuare tutta una struttura assurda politicamente e amministrativamente, dove un’accolta di burocrati dovrebbe assumersi in realtà non solo l’amministrazione statale, ma anche quella provinciale e comunale. Infatti come e quando arriverete voi altrimenti a reintegrare le autonomie locali? L’oratore dice di non voler addossare colpe specifiche e particolari su nessuno; è anzi disposto ad ammettere che al governatorato, al ministero e persino al segretariato generale per gli affari civili si sia animati della più grande buona volontà a nostro riguardo. Ma non si può non convenire che con siffatti metodi e sistemi, che assolutamente non vanno, si ingenera una grande sfiducia nella popolazione e si agevola la diffusione delle tendenze ultra radicali, che si manifestano col sovietismo – la cosiddetta «infezione asiatica» – il quale è possibile, oggi, principalmente perché si mantengono le masse sempre lontane dalla cosa pubblica. Energie popolari L’on. Degasperi si affretta alla conclusione del suo applauditissimo discorso indirizzando un appello agli altri partiti trentini. Si convincano tutti che il nostro atteggiamento non è determinato da mire egoistiche di parte, tanto è vero che noi, a base di tutto, invochiamo e reclamiamo la rappresentanza proporzionale. È soltanto il grande amore al nostro paese e il desiderio di vederlo retto a regime sinceramente democratico che ci fa parlare. Ai liberali diciamo: non vi mettete più a traverso al progressivo fatale evolversi del nostro paese, tacciando di antipatriottismo tutto quello che non è conforme alle pretese di uomini e di agglomeramenti politici che non sono l’Italia. Non sappiamo quel che del vecchio partito liberale trentino è destinato a sopravvivere, ma i migliori di esso siano uomini dei nostri giorni e si convincano che fra il passato e il presente v’è un abisso che noi non siamo forse ancora in grado di misurare, tanto è profondo; ce ne accorgeremo domani. Diano intanto la loro opera preziosa a costituire un’amministrazione democratica che possa servire d’esempio alle altre provincie. L’oratore rivolge anche un vivo appello ai socialisti, perché appoggino con forza questa tendenza di libertà, che non si perde in visioni lontane, ma si concreta in istituzioni locali, ove il popolo può addestrarsi a maggiori fortune, e termina con una vivace apostrofe al governo nazionale. Di questi giorni il governo ha promesso di sfruttare le nostre forze idrauliche, per il risorgimento economico nostro e a beneficio d’Italia. Noi applaudiamo con fede a tali propositi. Ma il governo voglia sfruttare anche quelle altre energie vitali che la lotta secolare e la stessa compressione straniera hanno accumulato nel nostro popolo, chiamandolo al libero governo di se stesso; forse qualche scintilla di quest’energia rianimerà qualche energia sopita dal centralismo burocratico anche in altre provincie: e sarà la fortuna d’Italia, poiché vale anche per il nostro Stato quello che dice Wilson della sua grande repubblica nel discorso sulla «liberation of peoples vital energies»: la fortuna dell’America non risiede nella Wall Street, né a S. Louis, né a Chicago, ma nelle libere comunità americane, ove i cittadini possono sviluppare al massimo grado le loro energie vitali .
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[…] La relazione dell’on. Degasperi Degasperi ricorda che i suoi amici politici già nella Consulta trentina, quando da parte liberale venne proposto di chiedere al governo l’invio di un commissario straordinario nella persona di un illustre parlamentare, si opposero subito a tale proposta per due ragioni: 1) perché la nomina di un commissario straordinario poteva importare il prolungamento del periodo extracostituzionate al di là del termine dell’annessione; 2) perché essendo il commissario straordinario un parlamentare ed uomo politico, la sua nomina sarebbe stata subito frutto di calcoli e combinazioni di gruppi parlamentari e avrebbe portato con sé gli appoggi e le avversioni, di cui tali gruppi lo avrebbero circondato. Noi volevamo invece che la nomina del capo dell’amministrazione civile delle terre redente fosse inspirata a soli criteri amministrativi e affatto indipendente dalle combinazioni di Montecitorio, servendo così non a rompere ma a mantenere una atmosfera di serietà e di oggettività necessaria nel momento in cui le nuove provincie devono poter vedere nell’inviato del governo il rappresentante dell’Italia e null’altro. La nostra opposizione non fu fortunata. Si agì contro il nostro consiglio e così dovemmo divenire purtroppo facili profeti d’una situazione allarmante. S’era appena attenuata l’eco provocata dalla nomina del nuovo direttore generale dell’ufficio delle terre redente commendator Salata, contro il quale i socialisti di Trieste iniziarono una campagna violenta, che il decreto della nomina dei governatori provocava in Italia e da noi una nuova tempesta. Fu in ispecie il nome dell’on. Credaro che divenne subito preda della discussione pubblica. L’impressione in Italia I nazionalisti ed il fascio parlamentare s’opposero vivacemente a tale nomina per ragioni che riguardano il suo atteggiamento durante la guerra. I popolari protestarono per ragioni di principio e tutte le gradazioni dei liberali, meno i più accesi di sinistra, trovarono che a parte ogni considerazione oggettiva era stato per lo meno un errore grave di tattica quello d’inviare in regioni come il Trentino e l’Alto Adige persona della fama e del passato come l’on. Credaro. Bisogna essere vissuti questi giorni a Roma per sapere quante e quanto varie furono le critiche sollevate contro tale nomina. Ne è giunta qui del resto l’eco della stampa nazionale di varie tendenze e si deve solo allo sciopero tipografico, che tuttora perdura nella capitale, se certa stampa, che avrebbe senza dubbio intensificata la campagna, dovette limitarsi allo sfogo di una dimostrazione subito soffocata. Fu con mia non piccola sorpresa che tornato qui constatai che parte della stampa locale s’era ingaggiata a pieno per l’on. Credaro. Evidentemente per la maggior parte, non per ragioni che riguardano il nuovo governatore stesso, ma per il semplice gusto di dare addosso ai cosiddetti clericali, che avevano assunto decisamente un contegno di protesta. Di fronte a tale situazione l’oratore vuol fare alcune semplici e franche dichiarazioni. Il nostro atteggiamento Noi, se richiesti in tempo, avremmo senza dubbio sconsigliato tale nomina o se ne avessimo avuto la forza, avremmo cercato d’impedirla. E ciò non perché, come falsamente s’è stampato, fossimo tanto stolti da domandare o da attenderci un uomo di parte nostra, ma perché avremmo chiesto un amministratore imparziale, un uomo che fosse politicamente una pagina non scritta. Ma a Roma ci siamo trovati di fronte al fatto compiuto, cioè al decreto reale che pubblicava la nomina. Allora abbiamo sentito che il nostro dovere era di risalire ai di là della persona, alle cause che avevano prodotto le nostre preoccupazioni, di chiarire cioè in forma indubbia il programma che il ministero intendeva attuare con tale nomina e le direttive che la avrebbero accompagnata. Fu perciò che immediatamente per mezzo dei nostri amici della direzione e del gruppo parlamentare popolare e direttamente in un colloquio col presidente del Consiglio furono posti questi quesiti pregiudiziali: 1. Urgente necessità per le terre redente di avere la loro rappresentanza elettorale, non appena proclamata l’annessione. 2. Durante il breve periodo transitorio avere il massimo rispetto delle autonomie amministrative e scolastiche. 3. Non si deve introdurre alcun mutamento nel regime degli enti locali prima che la rappresentanza elettorale delle terre redente possa concorrervi col proprio voto. Gl’ impegni ottenuti Il governo rispose ai nostri amici in forma precisa, come appare dal comunicato pubblicato oggi: 1. Il governo farà ogni sforzo perché le elezioni politiche nelle terre redente avvengano contemporaneamente alle elezioni generali ed accetterà gli emendamenti relativi che venissero proposti durante la discussione della riforma elettorale. 2. Le elezioni amministrative nelle terre redente verranno fatte immediatamente dopo la pace, non appena preparato l’apposito regolamento elettorale reso necessario perché in Austria esisteva, mediante le curie, il voto plurimo. Nel breve periodo fino alle elezioni il governo ha assicurato il massimo rispetto delle autonomie locali e scolastiche, reintegrandole ove fossero state intaccate durante il regime militare, e ciò anche nei riguardi delle popolazioni tedesche. 3. Il governo ha accettato pienamente il terzo postulato di mantenere fino alle elezioni l’attuale regime degli enti locali, salvo casi di eccezionale necessità. Con ciò, dice l’oratore, appare evidente che s’è ottenuto un successo, il successo di chiarire la situazione. Se i nostri avversari vorranno osservare attentamente, niente è stato qui chiesto ed ottenuto che non si sia domandato da tutti già nella Consulta, che sia in contraddizione con quello che la quasi unanimità della Consulta ha chiesto, niente in ogni caso in favore speciale del nostro partito, ma tutto in favore delle popolazioni trentine senza distinzione; il diritto cioè di condeterminare col proprio voto l’assetto definitivo delle nuove provincie. La parola autonomia sorpassa qui il significato comune per rivestire il pensiero della sovranità popolare esercitata in un momento decisivo per il nostro paese. Né autonomia clericale né repubblichetta I compagni dell’Internazionale – esclama qui l’oratore fra grandi applausi – dovranno ammettere che non si tratta qui di autonomia clericale, ma di autonomia trentina, di autonomia dei popoli redenti. Ridicola poi appare l’accusa che ci si muove da un’altra parte di volere la repubblichetta. Col chiedere l’immediata partecipazione al diritto di votare con tutti gli altri cittadini italiani nelle prossime elezioni generali noi non abbiamo chiesto e ottenuto che la piena e fattiva cittadinanza italiana (applausi). Fin qui – dice l’oratore –, si tratta dunque di ottenere il diritto di dire la propria opinione in base al suffragio universale eguale e proporzionale e di stabilire la procedura perché l’esercizio di tale diritto sia assicurato nel termine più breve possibile. Fin qui dovremmo quindi essere tutti d’accordo. Ove incomincia il dissenso Certo se entriamo nel merito delle questioni, che a suo tempo dovranno essere sottoposte al verdetto del popolo, il dissenso fra i singoli partiti è manifesto e lo sappiamo. Quando p.e. l’ Internazionale scrive che i socialisti vogliono la religione libera, ma fuori della scuola, noi le opponiamo invece la nostra formula: libertà d’insegnamento religioso nella scuola per chi lo vuole, senz’alcuna costrizione per i genitori, che non lo vorranno. E se il settimanale socialista a questo riguardo ci attende in atto di sfida alle prossime elezioni, noi gli diciamo che affronteremo con tutto l’ardore questa battaglia, chiamando il paese a dire francamente la sua parola. A questo punto l’oratore accenna che parallelamente alle trattative fatte dal partito popolare italiano, anch’egli rendendosi interprete dei suoi amici politici ha cercato di ottenere delle spiegazioni e delle informazioni precise sulle direttive, che dovranno seguire i nuovi governatori. La Libertà ha scritto che s’era recato a Roma a intimare il vade retro Satana, all’on. Credaro . No – esclama l’oratore – non dissi vade retro, ma non dissi nemmeno, se m’è lecito mantenermi sul terreno delle citazioni bibliche: Ecce ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum (ilarità). Ma francamente e lealmente abbiamo chiesto al capo del governo quali erano le sue intenzioni e le sue direttive, esponendo lo stato d’animo delle nostre popolazioni, che aveva provocato preoccupazioni e proteste. E quando l’on. Nitti, dichiarando che l’on. Credaro non è massone, ha tenuto a correggere l’opinione che si ha in Italia di lui, gli abbiamo risposto che noi ultimi venuti in Italia troviamo situazioni ormai compromesse e fame fatte indipendentemente dal nostro contributo, e che è su questi elementi che noi e il popolo nostro dobbiamo fondare il nostro giudizio; che ad ogni modo le intenzioni direttive e di imparzialità che il governo assicura voler attuare dai nuovi governatori, se rese pubbliche, potrebbero attenuare almeno l’impressione che la nomina doveva fare. L’oratore si è incontrato anche con l’on. Credaro, il quale ha ripetuto le dichiarazioni di Nitti nel senso di voler venire nel nostro paese semplicemente come rappresentante dell’Italia e non come uomo di parte. Speriamo – aggiunge a questo punto l’oratore – che la sana aria trentina, quando l’on. Credaro avrà abbandonato il nostro paese, avrà guarito o la fama dell’uomo, se i suoi amici hanno torto, o l’uomo stesso, se i suoi avversari hanno ragione. Ma l’accusa che ci si fa di perdere di mira gli interessi generali del paese, per il nostro punto di vista particolare è affatto infondata. Interessi materiali Come nel colloquio coll’on. Nitti abbiamo colto l’occasione per plaudire al suo programma di sviluppo industriale per il nostro paese dichiarando che questo sarà il migliore programma di propaganda nazionale per tutta la regione, così non abbiamo mancato di cogliere l’occasione, poiché l’on. Credaro s’interessa in modo particolare di cose agricole, per ricordargli che nel progetto di trattato con l’Austria pubblicato recentemente manca una clausola protettiva per i vini trentini ed istriani, e per pregarlo di voler interporsi presso l’on. Tittoni , perché si voglia ancora per l’ultimo momento introdurre almeno la stessa clausola, che assicura un trattamento speciale ai vini dell’Alsazia-Lorena. Vigilare e organizzarsi Ma se noi – conclude l’oratore – c’interessiamo in ogni occasione dei problemi del progresso materiale del nostro paese, ci consentano gli avversari che ci preoccupiamo anche degli interessi morali. Primo fra tutti è quello della libertà dell’insegnamento religioso . E questo è un patrimonio sacro, che abbiamo ereditato dai nostri padri, e che vogliamo trasmettere intatto alle generazioni che verranno. Perciò diciamo ai nostri amici: Vigilate, organizzatevi e diventate forti, perché solo nella vigilanza sta la nostra forza come organismo politico, sta la garanzia che le promesse d’imparzialità e di rispetto ai nostri sentimenti vengano anche mantenute. Per questa battaglia noi daremo tutte le nostre forze ed è qui in gioco l’interesse puramente ideale superiore a qualsiasi interesse passeggero di partito. Su questo terreno non transigeremo e domandiamo solo agli avversari di combatterci colla stessa franchezza e colla stessa sincerità con cui noi accetteremo la battaglia (applausi). La guerra non ha fatto che rafforzare le nostre convinzioni in tal riguardo. L’oratore ricorda di aver letto l’ultima lettera di un soldato trentino ferito e poi morto in un ospedale di Vienna, diretta alla moglie, ove il morente riassumeva le dolorose esperienze della campagna in Galizia e della fatale trincea: «Ricordati di educare e far educare religiosamente i figlioli, perché solo con la religione li renderai capaci di spiegarsi e di sopportare la vita». Questo testamento del soldato è il testamento di migliaia e migliaia dei nostri morti e pensando questa grande guerra come un’immensa burrasca abbattutasi sul mondo, all’oratore è parso che il monito scritto dall’umile soldato possa raffigurarsi a quell’ultimo documento che l’esploratore dei poemetti di De Vigny nell’istante in cui la nave corre sugli scogli e tutto è perduto, affida ad una bottiglia lanciandola nel mare col grido: «Che Dio ci conduca a terra!». Noi oggi, arrivati finalmente su questa terra benedetta d’Italia, raccogliamo il monito scritto guidato a noi dalla mano divina, d’onda in onda e di mare in mare. Lo raccogliamo e promettiamo di trasmetterlo come norma direttiva alla nostra e alla futura generazione: in esso è contenuta la difesa del pensiero cristiano ed infine anche la difesa più pura del pensiero italiano. Il lucido discorso dell’on. Degasperi, ascoltato con vivo interesse e interrotto frequentemente da calorosi applausi, è coperto alla fine da una lunga scrosciante ovazione.
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Come era stato annunciato, domenica 27 luglio si tenne nel salone Manzoni, gentilmente concesso, il primo Congresso del Rinnovamento, la società che vuole abbracciare tutti i danneggiati della zona devastata del Trentino . Che l’interessamento per la nuova società sia sentito lo prova il numero dei delegati venuti anche dai più lontani paesi del Trentino. Difatti la presenza dei delegati di Vermiglio, di Val di Ledro, della Valle Lagarina, di Vallarsa, dell’altipiano di Lavarone e della Valsugana da Tesino fino a Caldonazzo. Troppo lungo sarebbe nominare anche solo i paesi rappresentati e ci pare più utile riassumere il più ampiamente possibile le relazioni dense di fatti e di proposte. Appena gli interventi hanno preso posto l’on. Degasperi apre il Congresso con opportune parole d’introduzione. Nomina le personalità che vollero onorare della loro presenza il Congresso e che sono il colonnello Minna, e il cav. Mattei per il governatorato; il maggiore Micheletta per il Genio militare; il presidente del Consiglio d’agricoltura cav. Cattoni, l’ing. Benvenuti quale rappresentante dell’amministrazione provinciale e del consorzio dei Comuni, l’on. de Gentili e l’ing. d.le Sittoni, l’ing. Ferrazza, ecc. Ringrazia tutti gli intervenuti specialmente quelli dei siti più lontani e dà un rapido cenno della vita, e dello sviluppo del Rinnovamento. Annuncia che i soci, capi di famiglia, raggiungono la cifra di 6200 e più e che lo sviluppo è continuo. Funzionano già parecchi segretariati. Ma cita a titolo d’onore per l’attività che svolgono i due segretariati di Borgo e di Mori, che tanti aiuti portarono già ai soci danneggiati. I compiti della società Entrando a parlare di argomenti specifici, accenna ai pagamenti che l’Austria deve ancora ai nostri contadini per requisizioni od altro, senza parlare dei sussidi che ancora devono essere liquidati. Accenna a delle cifre che impressionano l’assemblea. Non nasconde le preoccupazioni che l’assalgono pensando al come saranno liquidate queste pendenze che sono contemplate solo in modo generico dal trattato di pace. Cita questi fatti non perché ciò debba essere materia di discussione del presente Congresso; ma perché si veda anche in questo campo la necessità che vi è di un’azione continua, instancabile, autorevole, quale solo un’organizzazione vasta, che abbracci tutti gli interessati può esplicare. Venendo a parlare delle ricostruzioni l’on. Degasperi ricorda che il Governo ha istituito un Comitato interministeriale per la ricostruzione delle provincie liberate e presieduto dal Sottosegretario di Stato del dicastero delle Terre liberate. Tale comitato è l’organo governativo che presiede ai lavori di ricostruzione. Ha il compito di dirigere e provvedere con fondi dello Stato alla riparazione e ai lavori di carattere pubblico anche se proprietà dei comuni, o delle province come edifici scolastici, ponti, strade, ecc. Di più dirige l’opera di ricostruzione degli immobili privati. Come organo di credito per anticipazione a privati e a enti, sui danni di guerra, sorse un altro istituto promosso da un consorzio di Casse di risparmio che è l’Istituto federale veneto con sede in Venezia. Nel Trentino abbiamo già un organo analogo nel Consorzio dei comuni trentini. Anche questa nostra istituzione, che va strenuamente appoggiata, ha il compito di anticipare somme ai danneggiati e di procurare i materiali da costruzione necessari all’infuori di qualsiasi intento speculativo. Occorre però, che quando cesserà l’opera del Genio militare, poter contare anche su di un organo che adempia per il Trentino alle funzioni alle quali provvede il Comitato interministeriale di Treviso. In due recenti occasioni a Roma l’on. Degasperi insistette presso il Governo centrale, a nome del Rinnovamento, perché sorga anche da noi con carattere regionale un’istituzione del genere di quella di Treviso e fece presente che è del massimo interesse che vengano chiamati a farne parte anche delegati dei danneggiati. Altro compito quindi della nostra società è quello di tener vivi questi postulati. Può comunicare in riguardo che ora presso l’Ufficio centrale per le terre redente in Roma si sta abbozzando lo statuto di un simile comitato di ricostruzione, che sarà presieduto probabilmente dal nuovo commissario straordinario. A questo punto l’on. Degasperi prega i delegati a voler prendere la parola per l’esposizione dei desideri e dei lagni dei soci delle varie zone danneggiate. Li incita perché si esprimano senza timori. Sono presenti le autorità che sa bene disposte. Occorre che i lagni, che spesso non trovano un’espressione chiara, e che perciò non giungono o giungono deformati alle autorità, siano portati al Congresso. Saranno riassunti, vagliati, raccolti in un memoriale e presentati a chi di dovere perché si provveda. Da perciò la parola al primo delegato iscritto, l’egregio maestro Gonzo, rappresentante della società della Valsugana. […] DEGASPERI: La parola dei delegati del Rinnovamento servirà senza dubbio a commuovere l’opinione pubblica in favore della zona devastata ed a richiamare l’attenzione delle autorità su parecchi postulati concreti. La commissione centrale esecutiva ricaverà dal protocollo tutti quei dati concreti necessari per compilare delle petizioni e dei memoriali da rivolgersi agli uffici competenti e veglierà sull’evasione delle rispettive pratiche. Intanto è indispensabile formulare in un ordine del giorno i postulati d’indole generale. Da quest’assemblea è uscito un grido d’angoscia. Speriamo che venga ascoltato. Abbiamo fede nella nazione. Già il fatto di questo convegno è un successo dell’organizzazione. Ora bisogna ampliarla, fortificarla. Solo se saremo forti e compatti riusciremo a superare questa crisi tremenda. Uniamoci tutti, al di fuori di ogni politica di partito. Qui non facciamo altro che la politica dei danneggiati (applausi). Fuori di qui ognuno è libero di seguire le proprie convinzioni politiche. Vedano intanto i delegati di costituire in ogni zona la società secondo lo statuto oramai adottato. Ciascuna società locale è libera. La commissione centrale ha carattere esecutivo e non è qui che per dirigere e concentrare l’azione comune onde arrivare allo scopo, che è quello del rinnovamento della zona devastata. Ringrazia le autorità presenti del loro interessamento e prega di favorire gli sforzi della società. […]
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Cari colleghi, rompo il mio silenzio feriale per domandarvi di pubblicare una mia proposta. Intrapresi ieri una visita alla montagna di Bocche (2745 m.) , a sinistra della strada nazionale che mena al Passo di Rolle. È un monte antipatico, di color grigio-oscuro che pur al di sopra della foresta, mantiene un declivio tardo e monotono terminando, più che in una cima, in una vastissima giogaia sassosa. Nessun turista nell’epoca prebellica era tentato da questa massa faticosa e nera, senza ardimenti di rocce a picco e senza bianchezza di nevai. Ma di qui innanzi è da credere che molti affronteranno la fatica della lunga ascensione, perché la guerra ha condotto lassù per quasi due anni migliaia e migliaia d’uomini, venuti dalla Galizia e dalla Baviera, e, dall’altro lato, dal golfo di Napoli; e tutti questi uomini con una fatica tenace e sanguinosa hanno scavato caverne, accatastati i massi, noti prima solo al vento ed alla bufera, minate le rocce e costruiti sul versante nord-est, verso S. Pellegrino, ove la montagna precipita a picco, dei nidi d’aquila, per lanciarsi poi addosso da tutti i pertugi e da tutte le bocche delle enormi masse di ferro, modellato in pallottole o in granate o in shrapnells o in mine [prodotte] a Wiener Neustadt, a Pilsen, a Essen, a Brescia o a Torino o a Terni. Certo, quando gli uomini stavano quassù, anche la bellezza, congiunta all’eroismo e all’amore della patria, era loro compagna e diffondeva attorno a queste rupi contrastate come un’aureola di gloria; ma quando questa landa venne abbandonata dagli uomini vivi, non rimasero qui che impronte di morte; l’orrore, il solo orrore della guerra, non attenuato dalla virtù degli animi. Salendo dalla tetra valle di Giuribrutto vi fermate un istante ammirati «a pie’ della stagliata rocca», perché lo spettacolo che vi si presenta è opera meravigliosa dell’audacia umana che, valendosi d’ogni sporgenza, approfittando d’ogni piega vi ha addossato tutta una costruzione ciclopica di scale, di corridoi, di gallerie, di abituri, da albergarvi due reggimenti. Ma quando salite quelle scalee o entrate in quelle tane, tutto il ciarpame in cui inciampate, i proiettili e le mine inesplose che v’insidiano ad ogni pie’ sospinto, le masserizie e gli utensili abbandonati vi danno subito l’immagine triste e funerea della rovina e della distruzione. Riusciti fuori poi attraverso i tunnels della trincea sulla cresta della montagna, eccovi su di una piaggia maligna, seminata di pietre ferrigne e di migliaia di schegge di granata o di pallottole di shrapnellss. Ferro e porfido, piombo e ghiaia nerastra dappertutto, sotto i raggi di un sole cocente. Nessuna vegetazione in questo regno della morte, se si eccettuano delle chiazze di margheritine bianche di alta montagna, sbocciate in qualche cratere, ove fino a pochi giorni fa s’era adagiata la neve. E si sale ancora continuamente verso la cima più alta della cresta, ove si mantennero sempre germanici o austriaci. Ad un tratto la scena lugubre diventa macabra. Siamo agli avamposti italiani. Nell’ultima trincea giacciono ancora a brandelli alcuni cadaveri. Uno scheletro, a pochi passi, vi sembra ancora un alpino disteso boccone col fucile in atto di sparare. Ma appressandovi v’accorgete che nell’elmetto non sta che un teschio bianco colla mascella fracassata e due occhiaie terrificanti. Un avambraccio, staccato, serra ancora il fucile che è contorto violentemente. D’intorno le schegge di una granata che ha colpito in pieno; presso lo scheletro un mucchio di cartucce vuote. Poco lungi altre ossa divenute bianchissime e luccicanti sotto i raggi del sole, poi altri brandelli, poi cenci impigliati nel reticolato, che contengono ancora le membra scheletrite di chi li portava. Eravamo a pochi passi dalle trincee austriache e l’inesorabile nemico non lasciava tregua per la sepoltura. Ben più grande ancora è il numero dei cadaveri che da questo punto della trincea sporgendosi sull’abisso sul quale s’apre la parete settentrionale, si scorgono distesi lungo la china. Sono ancora per la maggior parte nelle loro vesti e nella loro armatura e pare che questi scheletri muovano ancora all’assalto. Mi dicono che la morte li arrestò su quell’erta il 7 novembre 1916, quando la brigata Tevere tentò di prendere alle spalle gli austriaci che tenevano la cima di Bocche. Cadde poi allora la neve che li ricoperse pietosa del suo lenzuolo. Più tardi le mitragliatrici austriache negarono loro la pace, finché sopraggiunse la ritirata. Ora non dubito che i reparti di ricupero provvederanno alla sepoltura. Ma saliamo ancora, penetrando adesso nel sistema difensivo austriaco. Non era via da vestito di cappa Ché noi a pena… Potevam su montar di chiappa in chiappa . Ma le trincee hanno qui un aspetto meno lugubre e ne è chiara la ragione, essendo esse rimaste sempre in mano di chi le costruì, il quale ebbe tempo poi anche di far uno sgombero regolare e tranquillo. Arriviamo così finalmente sulla cima, donde l’occhio domina tutta la fronte dalla Marmolata al Caoriol . Non è il momento di fissare sulla carta le impressioni che vengono via o salgono su fino a voi da tutte queste montagne che mostrano dappertutto ancora i solchi profondi che la guerra ha scavato fin dentro la loro ossatura, le lacerazioni della loro veste di verzura, gli schianti delle loro foreste. L’alpinista, a cui tutti questi gran massi di dolomia o di porfido erano divenuti famigliari, quasi amici, cui ogni estate si veniva a render visita per parlare con loro il puro linguaggio della natura e riposare nel silenzio la mente stanca dei dibattiti umani, sente ora con amarezza che l’incanto è rotto: l’occhio e il pensiero non riposano più, e da tutte le trincee insanguinate (ove termini tu, in Europa, o solco che ti divincoli come un serpe sotto i miei sguardi e tagli le Alpi e attraversi le Argonne?) vengono su e pare s’addensino attorno a lui delle nebbie che oscurano e pesano e nelle quali tratto tratto pare baleni una luce vermiglia. Durante la guerra qualcuno profetizzava che, venuta la pace, per naturale reazione saremo caduti nel sentimentale e come Rousseau , come Chateaubriand saremo andati erborizzando. Ma ov’è oggi la natura virgiliana in cui rifugiarsi? La natura? Io penso alla tragedia di migliaia d’uomini su queste montagne e sento quasi odio contro codesta superbia sprezzante dei nostri destini, contro codesta matrigna fredda e muta che beve impassibilmente colle radici dei suoi boschi i succhi dei nostri morti. E qui, a più di 2700 metri, sento la voce rauca che vien su dalla valle di Giuribrutto e ripete l’eco sepolcrale del Col Bricon : Je roule avec dédain, sans voir et sans entendre, A côté des fourmis les popoluations; Je ne distingue pas leur terrier de leur cendre, J’ignore en les portant les noms des nations, On me dit une mère, et je suis une tombe Mon hiver prend vos morts comme son hécatombe, Mon printemps ne sent pas vos adorations . Ma scusate lo sfogo, e discendiamo per altra via: trincee, reticolati ed ordigni di morte. La cresta va come diroccando in un semianfiteatro che mi ricorda il «luogo è in inferno, detto Malebolge, tutto di pietra di color ferrigno» e là finalmente, dopo aver costeggiato un laghetto silenzioso e cupo, tra i primi segni della vegetazione troviamo uno dei tanti cimiteri di alta montagna. Il recinto – quattro sassi, le croci in buona parte abbattute dal vento e dalla tormenta, i nomi dei defunti quasi cancellati dalle piogge e, quel ch’è più orribile, poiché i sepolti erano coperti da poca terra – non vive zolla amica su queste pietre – le volpi e i tassi hanno frugato entro il terreno e nella notte profonda e scura hanno assolto il fiero pasto, come le iene. No, no, basta, esclamai, gettandomi entro il magro bosco di cirmi che incomincia proprio qui a pochi passi, basta con questi spettacoli macabri, e il mio animo mentre discendevo a salti, quasi fuggendo, in cerca dell’abitato, si avvelenava per l’impeto dell’imprecazione. Imprecare contro chi? E a mano a mano che il bosco s’infittiva e il silenzio era rotto dai sonori colpi di scure dei boscaioli e sulle larghe oasi d’erba i falciatori facevano stridere, aguzzandole, le falci, a questo spettacolo di vita rinnovata e di fidente lavoro, i bollenti spiriti s’acquietavano in un profondo desiderio di pace. Fu a questo punto che mi venne l’idea (e chi sa a quanti è venuta!) di proporre l’erezione di un ossario per tutte queste povere membra sparse lassù. In alto non c’è pace, non c’è riposo, non c’è sepolcro. Raccogliamo queste ossa in una gran fossa comune quaggiù nella valle di Paneveggio, in vista della strada. Basta una costruzione semplicissima, ma solida come sanno fare i nostri montanari, sormontata da una croce. Sottopongo la mia proposta alla Comunità generale ed al zelante commissario della valle col. Faracovi. Colla collaborazione di queste due autorità e ben s’intende col più ampio appoggio del militare sarà facile attuarla . Sorga questo semplice monumento come simbolo di pietà e di gratitudine verso i morti della guerra di liberazione e come prova della nostra fede che queste ossa un dì verranno richiamate dal loro Creatore ad una nuova vita. E se, come è avvenuto di altri ossari, si vorranno collocare, accanto ai nostri, anche i morti dell’altra sponda, meglio ancora. Oltre la tomba non vive ira nemica, e questa gran croce sulla strada di Rolle dovrà ricordare ai viandanti che queste sono le ultime vittime d’un mondo che finisce. Una nuova vita, un mondo diverso deve sorgere sulle rovine, e sarà il mondo della fratellanza dei popoli e della liberta delle nazioni. Fiemme, 17 agosto Ae. D.
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Quando leggiamo nella stampa francese che nell’Alsazia-Lorena ritornano in questi giorni i compratori di Magonza e Francoforte per l’acquisto dei soliti vini da taglio e che, in base al trattato, si riorganizza l’esportazione dei vini e di alcune manifatture verso la Germania, noi ci chiediamo con un senso di invidia e di stizza perché noi, italiani delle terre redente, non ci troviamo nella stessa situazione in confronto dei paesi della defunta Monarchia. E qui ci preoccupa naturalmente in prima linea la crisi stessa dei vini. Benché le cause della crisi siano molteplici e risiedano sovrattutto nelle condizioni del cambio, è tuttavia innegabile che la mancanza di una disposizione precisa nel trattato difficoltò la ripresa dei mercati. Perché nel patto di S. Germain non c’è stato assicurato un trattamento di favore? Il Governo non ignorava il nostro postulato; ricorderemo in proposito che un deputato trentino ebbe occasione di parlarne all’on. Sonnino già nella primavera del 1915, durante il periodo di neutralità e che lo stesso postulato riappare nei memoriali e nelle pubblicazioni degli emigrati trentini durante la guerra; che infine già da Berna il 2 novembre , prima dunque ancora dell’occupazione di Trento, i deputati appena usciti dall’Austria ne telegrafavano al Ministero degli esteri e pochi giorno dopo giunti a Roma ne parlavano all’on. Orlando e all’on. Sonnino, lasciando a quest’ultimo anche un memoriale; più tardi v’insistettero la consulta trentina, il consiglio d’agricoltura e ne trattò l’on. Tambosi a Parigi. Non v’ha dubbio tuttavia che se il paese avesse potuto imaginare che un postulato il quale sembrava così facile non avrebbe potuto ottenere soddisfacimento, si sarebbe riscosso dal suo torpore ed avrebbe ben fatta sentire diversamente la sua voce. Ma chi era pienamente informato, chi sapeva esattamente a qual punto stavano le trattative? E qui noi mettiamo il dito nella piaga. La mancata clausola sui vini non è che un esempio, e noi temiamo che nel trattato troveremo ben altre omissioni. Ciò deve ascriversi sovrattutto al fatto che nessun rappresentante del paese né politico, né tecnico, né commerciale, né agricoltore venne chiamato dal Governo a Parigi, a tempo debito e munito delle necessarie attribuzioni. Anzi, e questo è peggio, nel nostro paese né in Italia, con partecipazione della regione nostra, non sorse alcuna commissione a preparare e studiare le clausole finanziarie del trattato. In ogni più piccolo staterello sorto sulle rovine dell’Austria, si costituirono larghe e molteplici commissioni di deputati, industriali, commercianti, tecnici, finanzieri per preparare i trattati. I deputati redenti hanno potuto vedere quasi tutti i loro colleghi della Camera austriaca in quanto già non sedevano sui banchi dei rispettivi governi, partecipare o in commissioni preliminari in casa propria o in appositi comitati presso le loro delegazioni di Parigi ai lavori per la pace e hanno dovuto assistere a questo fenomeno con un senso d’umiliazione, perché viceversa il loro governo nazionale si ricordava della deputazione delle terre redente per consultarla solo incidentalmente. Non facciamo questione di persone; avremmo potuto ammettere che si fossero scelti almeno altri rappresentanti come periti in argomento. Ciò avvenne in parte per la Venezia Giulia, per noi, niente. Per iniziativa dei deputati il Comando supremo e con lui l’on. Orlando acconsentirono alla costituzione del cosiddetto comitato di tutela in Vienna, che nella mente dei promotori doveva diventare il rappresentante degl’italiani nella liquidazione a[ustro] u[ngarica] e, durante l’armistizio, servire d’organo di studio per la delegazione di Parigi. Ebbene, a fatica, appena dopo alcuni mesi preziosi si riuscì a convincere la delegazione che, invece di rivolgersi all’uno o all’altro per informazioni, procedendo a tastoni, poteva dirigersi al comitato, che aveva a sua disposizione la maggior parte d’impiegati italiani ch’erano prima nei ministeri austriaci. Ma la cosa più dolorosa è che, nonostante molte e ripetute insistenze tra delegazione e comitato non si è mai potuti arrivare ad una reciproca collaborazione sul terreno della difesa dei nostri interessi. Il caso dell’articolo 266 del trattato a cui s’è riferito recentemente il nostro collaboratore viennese, è sintomatico e, a ragion veduta, meriterà un maggior rilievo. E auguriamoci che nel testo del trattato che, quando Dio vorrà, potremo leggere, non si trovino altre simili sorprese. Frattanto però un senso di amarezza rimane nel nostro animo per la superficialità, l’assenza di ogni metodo e la mancanza di ogni criterio democratico che dominarono in questioni di così vitale interesse per la nostra regione. Il Trentino per questo trattamento soffre non solo nei suoi interessi, ma anche nella sua dignità.
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In tutto il periodo d’armistizio non ci siamo mai occupati dell’Alto Adige se non incidentalmente. Era nostra convinzione che le condizioni straordinarie del regime militare e la sospensione ch’era lassù in tutti gli animi in causa delle trattative di S. Germain, non permettessero di farsi un’idea chiara della mentalità politica di quel territorio, onde abbiamo preferito assistere silenziosi alla fiumana d’inchiostro che ha innondato tutta la stampa italiana e tacere anche in confronto di certi profeti facilitoni e superficialissimi psicologhi. Ora la venuta dell’on. Credaro e la conchiusione del trattato di S. Germain hanno fatto uscire i tedeschi dalla loro politica passivista. Si può ritenere ch’essi assumeranno di qui innanzi un atteggiamento d’azione innanzi ai singoli problemi, cosicché l’amministrazione italiana dovrà tenerne conto. Facciamo cenno, più sotto, del convegno di Bolzano, in cui l’on. Credaro dev’essersi convinto che dieci mesi di censura e d’isolamento, se hanno potuto permettere la creazione nel regno di un’opinione artificiale sull’Alto Adige, non hanno fatto che indurire la tempra tedesca. La censura continua ma, nonostante le vessazioni di monna Anastasia, i giornali bolzanini tentano ora di parlare su argomenti di attualità. L’altro giorno era il «Tiroler» che propugnando a spada tratta la obbligatorietà dell’insegnamento religioso ci rimproverava a torto di debolezza in tale riguardo, oggi è il «Tiroler Volksblatt» che in un articolo, intitolato «il classico liberalismo italiano», fa appello all’on. Credaro perché, in base alle sue promesse, venga ad una trattativa amichevole coi partiti tedeschi, prima d’introdurre nell’Alto Adige tutte quelle scuole italiane che vennero preannunziate nella «Libertà». Ammettiamo, dice il giornale, il diritto allo Stato italiano di fondare delle scuole italiane ovunque se ne manifesti il bisogno e non ci opporremo nemmeno all’erezione di scuole d’occasione per imparare la lingua italiana. Ma non vogliamo, dice il foglio conservatore, una lotta di comune in comune. Vediamo piuttosto di combinare amichevolmente un programma accettabile, in trattative dirette fra noi e il governatore. La mossa non manca di abilità. Senonché il richiamo che fa il giornale di Bolzano al proprio atteggiamento nel passato contro le «Trutzschulen» tedesche nel Trentino è tutto altro che a posto. Lo potremmo smentire con tutta l’attività del «Tiroler Volksbund» e colle famose dichiarazioni a Sterzing. Ma non è il momento di polemizzare, rimestando il passato. Noi non domandiamo né abbiamo mai domandato al governo italiano di trattare i tedeschi come i tedeschi trattavano noi. E questi stessi faranno quindi il loro tornaconto a non invocare le ombre di un’era triste. Ma noi abbiamo accennato a queste manifestazioni della vitalità politica tedesca per riuscire a questa conclusione. I tedeschi sono in piedi, con un pensiero politico ben determinato. Tutti i loro partiti potranno costituire agevolmente un blocco nazionale, perché i due partiti cattolici ora fusi assieme, possedevano prima della guerra 5 su 6 mandati parlamentari, ed oggi hanno non che peggiorata, migliorata la loro situazione. Diversa è la situazione nel Trentino. La campagna anticlericale vi renderebbe difficilissima una lista comune. Quindi il fare di tutta la regione una sola circoscrizione elettorale equivarrebbe a mettere tedeschi e italiani in lotta gli uni contro gli altri, e precisamente a mettere gl’italiani in condizioni d’inferiorità contro i tedeschi. Anche per questa ragione quindi noi reclamiamo la divisione del territorio in due circoscrizioni elettorali .
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Abbiamo potuto finalmente avere tra mano il testo del trattato di S. Germain. È un volume di 535 pagine e 381 articoli, formulati in francese, inglese ed italiano. L’architettura generale del trattato è uguale, com’è noto, a quella del trattato colla Germania. La parte riguardante le frontiere è già conosciuta. S’è pubblicato assai poco invece degli articoli riguardanti le sanzioni, le riparazioni e le clausole economiche. È di quest’ultime che abbiamo cercato qui di dare un’idea, riferendo quegli articoli che interessano direttamente o mediatamente la nostra regione. Se n’è riuscita una costruzione poco simmetrica non è certo colpa nostra! Il trattato, più che una elaborazione sistematica, è una collezione di articoli ordinata secondo criteri molto relativi; cosa spiegabile quando si pensi che riguarda tanti e così molteplici stati e quando si ricordino le vicende, a cui venne sottoposto. A noi poi manca la conoscenza della dinamica di questo lavoro; non abbiamo cioè potuto seguire le discussioni e le modificazioni che hanno subito alcuni dei più importanti articoli. In Austria, ove il trattato venne reso pubblico appena iniziate le trattative colla delegazione viennese e tutta la stampa ebbe agio di pesarne e discuterne le conseguenze, si faticherà meno a ricostruire il nesso fra certe disposizioni ed a comprenderne la portata. Ciò vale specialmente per il capitolo dei debiti che ha subito, pare, delle modificazioni. In genere noi vi cercheremmo invano la risposta a molti di quei quesiti che ci poniamo ansiosamente da mesi. Sul più bello la soluzione viene rimessa alla commissione delle riparazioni, al tribunale misto o ad una convenzione speciale da concludersi più tardi. Si ha l’impressione che dopo 10 mesi bisogni ricominciare daccapo e che appena ora debba incominciare il lavoro sul serio. Certe altre questioni sono lasciate semplicemente in sospeso, come quelle dei prestiti di guerra e delle pensioni ai funzionari su cui il trattato non detta che disposizioni negative. Abbiamo cercato anche invano una disposizione che assicuri un posto privilegiato ai crediti legali che gli ex sudditi dell’impero hanno in confronto della cessata monarchia. Frattanto vogliamo sperare che quanto pubblicheremo serva di prima orientazione per il pubblico, ed a tener desta l’attenzione degl’interessati. Poiché è chiaro che noi dovremo seguire ancora per molto tempo e colla massima attenzione l’applicazione in concreto di queste linee direttive generali, a scanso di veder trascurati ed abbandonati i nostri interessi più vitali .
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Fondo, 21 sera. […] In un paese come il nostro, egli dice, ove la stragrande maggioranza senza distinzione di partito fu della guerra non propagatrice, ma vittima, in un paese, ove il popolo, sorpreso dagli avvenimenti, venne cacciato a colpi di baionetta nelle lande della Galizia, in un paese d’altro canto, il quale fornì agli apostoli della guerra in Italia uno dei loro propagandisti più tenaci nella persona del capo e del deputato del partito socialista trentino , è strano, è strabiliante, è fenomenale, che lo stesso partito socialista trentino abbia la spudoratezza di presentarsi al popolo in veste di verginella per dichiararsi completamente innocente del sangue sparso e in veste di terribile accusatore per bollare a fuoco preti e borghesi e chiedere la loro condanna perché questi e questi soli avrebbero voluta, propagandata, sostenuta la guerra. Eppure tutto ciò si fa nelle adunanze elettorali socialiste, speculando sulla corta memoria degli uditorii; si fa anche nella stampa socialista. L’on. Degasperi legge qui ad esempio alcuni brani d’un articolo di fondo dell’«Internazionale» di venerdì 19 settembre. L’articolista dopo aver descritto a foschi colori le conseguenze della guerra (10 milioni di morti, 24 milioni di mutilati) si domanda: Di chi la colpa? E risponde: «Dei socialisti? No. – No, perché questi fin dal giorno in cui Carlo Marx lanciò il grido: Proletari di tutti i paesi, unitevi! predicarono sempre la fratellanza di tutti i popoli, negarono sempre a tutti i governi i mezzi per far le guerre, lottarono contro il militarismo, contro tutti i partiti e governi che lo sostenevano e che aizzavano un popolo contro l’altro popolo, una razza contro l’altra razza. Di chi dunque la colpa? Dei governi? Sì. – Di quali? Di tutti. Perché tutti i governi erano capitalisti, nessuno socialista. Perché tutti i governi ed i loro parlamenti erano composti di grandi maggioranze clericali, nazionaliste, liberali, che sempre sostenevano il capitalismo del loro paese… I sacerdoti cattolici, protestanti, ortodossi? Sì, perché, furono i cattolici democristiani che in Austria, in Germania, in Inghilterra sostennero i governi militaristi. Erano loro che aizzavano in tutti i paesi d’ Europa le masse alla guerra; erano i loro preti che benedicevano le bandiere, che predicavano da tutti i pulpiti, sulle piazze, nelle caserme che la guerra bisognava farla per difendere la patria, l’imperatore, il re. Erano essi che predicavano l’odio contro gli altri popoli, che incoraggiavano i battaglioni di marcia, che predicavano la pazienza e la rassegnazione alle madri, alle spose, ai bimbi privati dei loro cari. E così facevano i pastori protestanti in Germania, i pope ortodossi in Russia, in Rumenia. I preti di tutti i paesi e di tutte le religioni furono sempre prima e durante la guerra coi loro governi capitalisti e militaristi, oggi sono ancora con i medesimi contro le repubbliche socialiste, le quali non vogliono che pace. I nazionalisti, liberali? Sì. – sì, perché questi sono per principio i sostenitori del militarismo, perché solo nella brutalità della guerra e delle armi riscontrano i mezzi per salvaguardare i propri interessi capitalistici. Furono questi che crearono e nutrirono l’odio contro tutte le razze, che fecero nascere l’irredentismo nei vari paesi e fomentarono le guerre. Eccovi, o lavoratori e contadini, i responsabili della guerra! Eccovi le canaglie che sotto il pretesto di difendere la religione e la patria, seppero condurvi in trincea per ammazzare o farsi ammazzare. Eccoveli i responsabili dei vostri morti, dei vostri invalidi, dei tubercolosi, dei rachitici. Eccoveli coloro che vi fecero piombare nella miseria e che vi fecero martiri e vittime di tutte le barbarie provate in questi cinque anni!» Nessuna menzogna, esclama l’oratore, più audace di questa. Dopo aver ammesso che il capitalismo imperialista fu senza dubbio una delle cause principali, l’oratore si domanda se i socialisti abbiano proprio diritto di proclamarsi completamente estranei alla guerra. Il manifesto di Marx è vecchio del ’48. Ma i suoi seguaci abbandonarono la sua strada. I suoi più fidi, i socialisti tedeschi nell’agosto del 1914, votarono al parlamento germanico le spese di guerra, tutti, compreso il Liebknecht . Solo più tardi la frazione degli indipendenti, nelle votazioni successive, si dichiarò contraria, ma la maggioranza, tra cui i capi autorevoli, rimasero fedeli alla causa della guerra, fino alla sconfitta. In Austria i socialisti si divisero, uno dei capi più ammirati, il Dasynsky , col suo gruppo votò non solo per le spese della guerra ancora nel giugno 1917, ma organizzò addirittura le legioni polacche contro la Russia mentre va rilevato che nessun deputato trentino votò mai in favore delle spese o dei prestiti di guerra. L’Arbeiterzeitung stessa, organo del partito internazionale austriaco di cui facevano parte anche i socialisti italiani soggetti all’Austria, scrisse in favore della guerra contro la Russia. Che dire poi dei socialisti sull’altra sponda? Proprio il capo del Bureau socialista internazionale il Vandervelde fu membro del gabinetto di guerra del suo paese e grande propugnatore della guerra a fondo; in Francia furono ministri durante la guerra i socialisti Guesde , Sembat e Thomas quest’ultimo addirittura delle munizioni: in Italia basti ricordare Bissolati , Canepa , Bonomi . Nella stessa Russia i capi socialisti Plechanow , Burzew e Kropotkin (proprio quello ch’è citato stabilmente nella testata dell’«Internazionale») furono ferventi sostenitori della guerra. È vero che tutti costoro partecipando alla guerra si giustificarono con ragioni riguardanti la difesa della loro patria o la civiltà, ma ciò vale anche per i cattolici. Se l’«Internazionale» accusa i cattolici, deve condannare anche i socialisti, se assolve questi, non può accusare i primi. I socialisti trentini non hanno diritto oggi di riesumare Carlo Marx, fondatore dell’Internazionale, per rifarsi una verginità innanzi alla guerra e di richiamarsi a quella internazionale che fece all’atto pratico completo fallimento. In quanto ai preti bisogna distinguere un atto di culto, qual’è quello della benedizione delle bandiere, dall’eccitamento all’odio e alla guerra. Chi ha scritto pagine più feroci contro il nemico di Hervé ? E di contro a questi fatti quali atti di propaganda pacifista sanno i socialisti apporre che equivalgano agli appelli, alle proposte, alle iniziative del capo della Chiesa cattolica? E qui si potrebbero ricordare tutti gli atti pontifici in favore della pace. Già nel settembre 1914 Benedetto XV scriveva: «Bastino le rovine che già sono state prodotte, basti il sangue che è già stato sparso; si affrettino dunque ad accogliere nell’anima sentimenti di pace…». Tali appelli il papa ripeté al 1° novembre e nel Natale dei 1914 esclamava: «Deh cadano al suolo le armi fratricide, cadano alfine queste armi troppo macchiate di sangue: e le mani di coloro che hanno dovuto impugnarle tomino ai lavori dell’industria e del commercio, tornino alle opere della civiltà e della pace!». E qual grido fu più commovente, quale appello più forte di quello che il papa dirigeva ai potenti nel primo anniversario della guerra? Rievocate quelle parole che noi, profughi o combattenti per forza, per una causa straniera, leggemmo allora piangendo. «Nel nome Santo di Dio, nel nome del celeste nostro Padre e Signore, per il sangue benedetto di Gesù, prezzo dell’umano riscatto, scongiuriamo voi, che la Divina Provvidenza ha posto al governo delle nazioni belligeranti, a porre termine finalmente a questa orrenda carneficina che ormai da un anno disonora l’Europa… Voi portate innanzi a Dio ed innanzi agli uomini la tremenda responsabilità della pace e della guerra: ascoltate la nostra preghiera, la paterna voce del vicario dell’eterno e supremo giudice, al quale dovrete render conto…» . Questo scongiuro fece tale impressione che l’Austria ne proibì la ristampa nel «Bollettino diocesano». I socialisti allora, dall’Avanti all’Arbeiter Zeitung, riproducevano il documento a caratteri di scatola. Ora vorrebbero che tutto ciò fosse dimenticato. Il mondo dovrebbe affidarsi per l’avvenire unicamente alla nuova internazionale che Lenin sta ricostruendo col ferro e col fuoco. Quale è il mezzo con cui essi vorrebbero distruggere il militarismo se non con un altro militarismo alla Trotzky o alla Bela Kun ? La dittatura del proletariato, la guerra civile, la violenza insomma dovrà trionfare delle vecchie violenze? Non la lotta di classe, spinta fino alle sue ultime conseguenze, può bandire le guerre future, ma la riorganizzazione della società in base ad una rinnovata coscienza cristiana. La fratellanza di Cristo e solo questa ha la forza di attuare la prima. L’oratore termina applauditissimo ricordando la statua del Redentore che domina la scalea del palazzo della pace all’«Aia», posta come sulla soglia del nuovo mondo che deve venire.
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A Bologna al teatro comunale il 14 giugno 1919 inizia il I congresso del Partito popolare italiano. Luigi Sturzo propone all’assemblea come presidente De Gasperi, che assumendola tiene il discorso che segue. Bologna 14 (notte). […] Io vi ringrazio di questo omaggio; vi ringrazio tanto più perché non è solo un omaggio, ma il conferimento della piena cittadinanza al Trentino redento, prima ancora che il Congresso internazionale e le proclamazioni ufficiali compiano questo riconoscimento. (Vivi applausi). Noi accettiamo con cuore esultante questo voto di popolo in faccia a voi, rappresentanti delle vecchie provincie d’Italia, noi, ultimi venuti, e facciamo solenne promessa di voler dedicare tutte le nostre forze, come fino ad oggi, alla prosperità del nostro piccolo paese, d’ora in poi assieme a voi alla prosperità e alla grandezza d’Italia. Uomini di maturate convinzioni politiche, noi nella nazione prendiamo posto accanto a chi condivide con noi i nostri ideali e le nostre concezioni, ma mai scomparirà dai nostri sguardi l’immagine dell’Italia liberatrice, l’immagine di quell’Italia che il nostro spirito veggente vedeva sopra la gran cerchia delle Alpi su cui rosseggiavano i bivacchi della patria, su cui combatterono, vinsero, morirono tanti eroi col nome di Trento e Trieste sulle labbra, su cui un popolo intero fu tenace artefice dei propri destini e delle proprie vittorie. Di questa vittoria del popolo italiano noi, al di là della linea di fuoco, non abbiamo dubitato mai nemmeno nei momenti più tristi, e permettetemi al riguardo un piccolo ricordo personale. Eravamo ai primi di ottobre 1917, quando la potenza tedesca era all’apogeo, quando la Russia era arretrata e a Vienna dove si era, dopo tre anni di sanguinario assolutismo, riconvocata la camera austriaca, negli oscuri corridoi parlamentari ricevevamo quasi ora per ora notizia di grandi enormi preparativi che si facevano contro la linea dell’Isonzo e sentivamo i treni che passavano e conducevano contro l’Italia sempre armi, armi, armi che venivano a pesare e ad aumentare nel nostro cuore il lugubre presentimento che ormai lo aveva invaso. Ma nemmeno allora abbiamo mai dubitato della vittoria finale del nostro popolo. E permettete al riguardo una piccola prova dai protocolli parlamentari austriaci. Il 4 ottobre io tenevo un discorso nel quale dopo avere lamentato le sorti dei nostri profughi intisichiti nelle selve boeme e nei Carpazi, e dopo avere ricordato le migliaia di nostri contadini e lavoratori morti, dopo avere accennato che il nostro paese pareva veramente un cimitero, aggiungevo: Verrà giorno in cui queste ossa di morti, come una volta dinanzi al profeta quando soffierà lo spirito di libertà, si ricostituiranno e saranno uomini liberi, gli uomini della vittoria. (Applausi fragorosi e prolungati). Verrà giorno, dicevo, ricordando un loro grande poeta, il cantore di Guglielmo Tell, verrà giorno in cui d’un colpo solo, si pagherà la pena, si espierà la colpa dei singoli e di tutta la collettività. E continuavo testualmente così: «Questo giorno deve venire e verrà. Esso è già un sicuro risultato che ha preceduto la decisione sui campi di battaglia; esso è la vittoria dei principii nazionali e democratici». Signori! Due grandi fedi infondevano a noi questa tranquilla sicurezza d’animo. La prima fede è quella in ciò che molto tedescamente e molto poco italianamente molti con una parafrasi chiamano «immanenti ragioni della giustizia e della storia» e che noi italianamente chiamiamo Provvidenza. La seconda fede è nelle sane e sempre rinascenti energie della stirpe italiana. Amici! Il principio nazionale per noi è attuato o sta per compiersi. La vittoria del principio democratico è vicina in tutto il mondo. Ora i popoli sono chiamati a tradurre in atto questa ideazione sincera, radicale, cosciente; ed è questa idealità che è propugnata dal Partito popolare italiano. Questo è anche il voto, l’augurio con cui dobbiamo inaugurare questo congresso. (Le parole commosse dell’on. Degasperi sono salutate da una lunga, nutritissima ovazione).
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Abbiamo assistito ai recenti spettacoli parlamentari da un cantuccio della platea e ne abbiamo riferito meno ch’era possibile: e nella stessa guisa ci siamo contenuti di fronte agli avvenimenti che precedettero la crisi e la precipitata fine della rappresentanza nazionale . Eccone le ragioni. La prima è che, secondo il nostro parere, una politica seria trentina non ha da essere una merce d’importazione che si spaccia più per la marca ormai in voga che per la sostanza. Qui non si ha da importare né il giolittismo, né il fascio, né l’antifascio. L’attuale situazione politica nelle vecchie provincie d’Italia è conseguenza dei metodi amministrativi introdotti da parecchi anni in qua e, in ultimo, del modo con cui venne preparata e condotta la guerra. A queste cause il nostro paese è estraneo. Lasciamo quindi anche che la liquidazione si compia fuori di noi, assistendovi come chi sa che si tratta d’un periodo il quale sta per chiudersi, d’una svolta nella storia della nostra nazione. Non soffermiamoci, non guardiamo indietro; guardiamo avanti: e ricaviamo dalla situazione particolare del nostro paese e dalla maturità della nostra coscienza politica i criteri direttivi coi quali, al dì là dei nostri interessi regionali, faremo a suo tempo anche una politica nazionale. Fiume non poté essere per noi uno strumento di politica interna e parlamentare. Fiume vuol dire la causa dell’unità nazionale; e per un trentino essa significa un’aspirazione che per tanti anni fu intimamente sua. Gridiamo quindi viva Fiume!, ma non diminuiamo la grandezza di questa causa col scimmiottare nel nostro paese le manifestazioni di carattere politico-parlamentare che vi si sono aggiunte, quasi a deformarla. Trento e Fiume sono in marcia sulla via storica e fatale dell’unità d’Italia; Trento è sulla soglia, Fiume sta per arrivare. Che importa per Trento e Fiume, se a Montecitorio prevale questo più che un altro ministro? E del gesto dannunziano che c’interessa la parte politica che ha scatenato in Italia tante passioni e fa del comando Fiume un antigoverno contro il governo parlamentare di Roma? Pur seguendo con trepidazione d’italiani le fasi di questo conflitto e augurandoci vivamente che la disciplina dell’esercito non venga meno, non vorremmo dimenticata mai quella linea di condotta che, a parer nostro, si addice al Trentino in questo momento: solidarietà colla nazione, quando si tratta dei problemi internazionali, solidarietà in specie operosa, quando si tratta di integrare l’unificazione della patria, ma astensione da qualsiasi atteggiamento fazioso della politica interna e parlamentare che vi vada congiunta. Nella vita nazionale noi dobbiamo entrare con criteri propri quali ci detterà il carattere del nostro paese e la funzione attiva e passiva che esso, appena arrivato, sarà chiamato a compiere nella nazione. Questa l’una delle ragioni per cui ci rifiutiamo di partecipare ad una politica che importa dal di fuori atteggiamenti non nostri. Alla seconda accenniamo brevissimamente. C’è forse chi ritiene che il trapiantare nelle terre nuove d’Italia tutte le erbacce di codest’ orto di Renzo sia far opera di educazione nazionale? In questo momento di gravi preoccupazioni economiche e di trepidazioni dello spirito, il nostro popolo ha bisogno di uno spettacolo di disciplina morale, di ordine, di fede nel progresso della nazione. È questa l’idea della patria che deve poter risplendere sempre innanzi alla nostra gente travagliata che sta riprendendo faticosamente il cammino della vita. Non turbiamola colla gazzarra passeggera di lotte fraterne. Quando laggiù si grideranno l’un l’altro del traditore e rinfocolando sciaguratamente le polemiche neutraliste o interventiste rinnoveranno il più triste spettacolo della politica europea, noi per parte nostra stiamo un po’ alla finestra, e al di sopra del chiasso che si fa in strada, guardiamo serenamente con fede alla via nuova in cui la nostra nazione s’incamminerà, appena si sarà liberata da queste convulsioni; memori che questi uomini, i quali ora paiono così divisi, furono pure concordi, nei momenti più gravi della guerra, e divennero insieme gli artefici della vittoria.
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Nella stampa italiana riappare oramai quasi con sicurezza la notizia che le elezioni politiche nelle terre redente non si faranno per il termine delle elezioni generali. Qualche giornale aggiunge che si procederà ad elezioni suppletive a breve distanza. Ma contemporaneamente si aggiunge che tutto dipende dall’annessione e questa dalla ratifica del trattato con l’Austria, che il governo può fare, per decreto, ma che farà solo quando vi sia indotto da ragioni internazionali, cioè quando il trattato sarà già approvato da tre potenze, affinché l’Italia non sia esclusa dalla partecipazione alle commissioni esecutive, ovvero quando appaia che la ratifica da parte dell’Italia, mancando, fuori di essa, il terzo contraente, possa venir negoziata con vantaggio. La situazione quindi viene prospettata in maniera complicata e contradittoria. La «Stampa» ha anzi riferito da Roma che «il governo risponde che le nuove terre redente non prenderanno parte alle prossime elezioni generali per molte ragioni come, per esempio, per la mancanza delle liste elettorali e per la non avvenuta designazione delle circoscrizioni elettorali». Comunque sia, noi rileviamo che l’on. Nitti ha preso pubblico e formale impegno di far di tutto, perché le nostre elezioni vengano indette per il termine delle elezioni generali; e ricordiamo che avendo noi recentemente espresso il timore che ciò non avvenga, l’on. Credaro pochi giorni fa ci mandava una smentita scritta dichiarandosi autorizzato a confermare che le elezioni nostre si farebbero contemporaneamente a quelle di tutto il Regno. Ora noi abbiamo ragione di ripetere i motivi gravissimi che rendono sempre più urgente e necessario che il paese abbia la sua rappresentanza. Diremo brevemente che lo stato attuale della costituzione politico-amministrativa del nostro paese è disastroso per i nostri interessi, ed indegno delle nuove provincie d’Italia. Noi abbiamo l’irremovibile volontà di non tollerare più in nessun modo questo stato di cose, in cui gli interessi del paese nei momenti più gravi che abbia attraversato la sua storia sono affidati al buon volere e alla capacità di una persona, alle cure della burocrazia o alle influenze di pochi scelti fra chi vive lontano dal popolo e non ne condivide le aspirazioni. Né si può continuare più oltre con un’amministrazione provinciale provvisoria, la quale, per quanto affidata ad egregia persona, non ha la possibilità né l’autorizzazione di sciogliere i problemi più gravi. Non parliamo poi delle amministrazioni comunali. Per poco che continui il periodo anticostituzionale, delle nostre autonomie non rimarranno che ruderi e sulle rovine si assiderà trionfante la burocrazia accentratrice. Ora noi a questa rovina non ci vogliamo assolutamente arrivare. Una delle due: o noi in un prossimo tempo possiamo mandare i rappresentanti del paese a Montecitorio, perché di là incominci la ricostruzione legislativa ed amministrativa del nostro paese e perché là, presso il governo, la popolazione abbia i rappresentanti legali dei suoi interessi, ovvero, se questa via ci viene barricata, torneremo a domandare la precedenza per il postulato accolto già da tutta la Consulta trentina, cioè che vengano indette le elezioni di un consiglio provinciale col voto universale e proporzionale, consiglio provinciale che abbia le competenze della cessata dieta e l’incarico di regolare l’assetto definitivo delle amministrazioni locali e di governare d’accordo coi delegati dello Stato la nostra regione. Per una via o per l’altra il popolo deve avere la parola! Ci attendiamo intanto che l’on. Credaro, il quale pochi giorni fa era in grado di toglierci ogni apprensione circa il termine delle elezioni, sia oggi autorizzato a confermare o a smentire le notizie della stampa italiana e a dire com’egli s’immagina l’avvenire delle nostre istituzioni .