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| 31916-1920
| È vero dunque che l’affare non fu concluso, ma che le trattative per concluderlo erano bene avviate. È vero che per ottenere da un gruppo di finanzieri americani un prestito di tre miliardi si era pensato come garanzia alle forze idrauliche della Venezia tridentina. Non entriamo oggi a discutere in merito all’affare stesso. Gli americani lavoravano sicuri. Ogni anno si sarebbero fatti i conti ed il governo italiano avrebbe rifuse ogni anno le spese di costruzione più il 10% di tutte. Essi avrebbero poi ceduto alle ferrovie dello stato e alle industrie locali la forza a prezzo di costo più il 10%, e così avanti per cinquant’anni. Queste condizioni ricordano quelle dei prestiti politici della Francia, dell’Inghilterra e della Germani nei Balcani o nell’Asia minore. Sono prestiti ad usura, in cui i creditori sfruttano l’imbarazzo momentaneo di un debitore, la cui firma sia tenuta in poco conto, ipotecando largamente l’avvenire. Ma occuparsi dei termini della transazione, posto che almeno in questa forma appare tramontata, non è per ora urgente. Anche delle cautele finanziarie e delle premesse d’ordine economico che dovrebbero accompagnare simili concessioni, per divenire accettabili al nostro paese, abbiamo parlato specificatamente altra volta. Oggi due sole considerazioni d’ordine generale che mantengono il loro valore, anche se per questa volta l’accordo cogli americani non venne raggiunto. La prima è questa: come mai potè accadere che il pubblico trentino venisse colto completamente alla sprovvista da tale notizia? Come mai il governo nazionale potè avviare e favorire simili trattative, trascurando del tutto la nostra amministrazione provinciale, i nostri comuni e i consorzi locali che avevano presentata domanda formale di concessione? Come mai potè succedere che dopo gli espliciti impegni presi dal governo in confronto della consulta trentina, si trattasse per vendere ed ipotecare al capitale straniero la ricchezza naturale più grande che possiede la nostra regione? Come mai insomma si potè pensare ad applicare nel Trentino i metodi coloniali di sfruttamento economico in uso nei paesi d’incerta esistenza politica? Non c’è che una risposta sola: perché il Trentino non ha una propria rappresentanza elettiva la quale controlli il proprio governo e salvaguardi gl’interessi della regione! Anche da questo tentativo balza fuori quindi il nostro «coeterum censeo», che ripetiamo da tempo, per tante altre ragioni: bisogna indire i comizi elettorali, urge che il popolo venga alla ribalta ed abbia finalmente la parola. Fino a tanto che il paese non avrà eletti i propri rappresentanti, esso non sarà un membro vivo dell’organismo statale italiano, ma sarà sempre una colonia. La seconda considerazione è forse ancora più grave. La Venezia tridentina non è una regione povera, ma nel suo carbon bianco possiede una miniera di straordinaria ricchezza. Quando si tratta di imprestare dei miliardi, i banchieri se li fanno garantire coll’ipoteca sulle nostre ricchezze naturali. Noi apportiamo quindi alla patria italiana non solo gli aggravi della nostra zona devastata, della nostra valuta, delle nostre amministrazioni locali dissestate dalla guerra. No, vi apportiamo anche in attivo una grande ricchezza. Se calcoliamo la differenza fra il prezzo del carbone, importato dall’estero, e quello del carbon bianco, importato da casa nostra, possiamo concludere che facciamo risparmiare alla nazione centinaia di milioni. Siamo consapevoli di questo per gioirne coll’Italia, che cioè le nuove terre abbiano per la patria non soltanto un valore ideale; ma siamone consci anche per presentarci a fronte alta al ministro del tesoro e dirgli: Noi abbiamo oggi bisogno del vostro aiuto, ma non ve lo domandiamo come dei pezzenti col cappello in mano, quali talvolta ci riguardano i vostri delegati. Ve lo chiediamo a fronte alta come gente che sa di aver credito. A Roma pare imminente una decisione che regoli definitivamente la valuta. Ebbene il paese, tutto il paese si drizzi in piedi e gridi alto all’on. Schanzer : il Trentino non vi chiede un sacrificio a fondo perduto. Non lesinate su quello che ci è assolutamente necessario per la nostra esistenza economica! La nazione può prestarci a cuor tranquillo quel tanto di cui abbiamo bisogno. In alcuni anni di sfruttamento razionale, le nostre forze naturali ripagheranno ad usura quanto ci avete anticipato per il cambio della corona e per la ricostruzione dei paesi distrutti. |
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| 31916-1920
| Il «Contadino» ha pubblicato un articolo riprodotto subito dalla «Libertà» (lavorano in accomandita) intitolato «due pesi e due misure, a proposito dell’amministrazione provinciale». Il «Trentino» ne riferirà i punti essenziali in altra parte del giornale perché l’avversario abbia la parola contemporaneamente alla nostra ed il pubblico controlli la polemica. Ed ecco le nostre osservazioni. Anzitutto signor Bosetti , Ella ha da sapere che i «clericali intransigenti, invadenti e prepotenti», «in principio dell’occupazione del Trentino» – scusate, ma vi preghiamo di controllare: è lo stile di Bosetti – «in principio dunque dell’occupazione» cioè quando l’autorità civile governativa era rappresentata dal cav. Stanchina, furono anch’essi convocati in Capitanato per uno scambio di vedute circa la ricostituenda amministrazione provinciale. Allora alla presenza del direttore Peterlongo , fu deciso di proporre che l’amministrazione provvisoria venisse affidata ai due assessori giuntali ch’erano in paese cioè all’on. Conci e all’on. Peterlongo e che poi si riconvocassero i deputati dietali coll’incarico di designarne un terzo. Questa la nostra intransigenza, invadenza e prepotenza! Le stesse proposte vennero presentate assieme al bar. Malfatti anche al governatore militare Pecori-Giraldi. Fu il Comando supremo il quale, richiamandosi a quanto esso aveva già disposto per l’Istria e per Gorizia, rispose di voler nominare solo un commissario regio. La nomina venne anche difatti dopo parecchio tempo e dopo che il nostro giornale s’era espressamente lagnato che per la nostra regione si tardasse tanto a provvedere all’amministrazione autonoma. Fu nominato l’on. Conci e – gran concessione del signor Bosetti – «la scelta era logica». Senza dubbio; fu il solo atto di governo che non potesse trascurare i «clericali». Di loro si poté fare a meno, quando si occuparono tutti i posti che aveva da assegnare l’amministrazione militare e civile, dai commissari civili ai sindaci, dagli ispettori scolastici a tutti gli uffici dei servizi pubblici. Ma saltare a piè pari l’on. Conci, l’esperto amministratore provinciale, l’uomo egregio che aveva con fierezza ed a prezzo di non comuni sacrifici tenuto alto il nome italiano, era un po’ difficile, e la nomina quindi finalmente venne. Che faceva allora Bosetti? «Tacemmo, ma restammo in guardia ed osservammo le mosse avversarie». Oh, ma noi non tacemmo, signor Bosetti. Noi chiedemmo ad alta voce che si ripristinassero le autonomie, noi domandammo le elezioni, noi proponemmo che tutti i partiti in base alle proprie forze, venissero chiamati dal popolo non solo alla sua rappresentanza politica, ma anche all’amministrazione autonoma del paese. Voi invece non solo vi limitaste «ad osservare le mosse avversarie», ma tentaste d’indebolire la nostra campagna autonomistica, scrivendo che preferivate ad una rappresentanza popolare che poteva riuscire con una maggioranza «clericale» la tutela della burocrazia, voi faceste le più goffe capriole per rompere – senza aver l’apparenza di farlo – la compagine che avrebbe dovuto formarsi in paese contro la venuta del commissario con poteri eccezionali e contro la sua consulta nominata dal governo. Anche noi, in riguardo vostro, abbiamo taciuto, ma non crediate per questo che non abbiamo osservate le vostre mosse ipocrite. Vi abbiamo capito a meraviglia! A traverso le vostre goffe enunciazioni per la repubblica e per la costituente… fuori di casa, a traverso i vostri pronunciamenti ora socialisti ed ora nazionalisti, abbiamo letto ben chiaro il vostro genuino pensiero politico e le vostre aspirazioni. Voi siete per le soluzioni provvisorie, decretate dal governo, per le nomine venute dall’alto che v’impongano al popolo, come gl’imposero i commissari e certi sindaci. Non a torto, perché voi contate che in tal modo la maggioranza del paese non avrà la parola per farsi valere in proporzione alla sua forza, ma che il governo il quale non ha nessuna voglia di favorirla, e non pensa che a tenere a bada gli urloni, vi rimetterà in valore al cento per uno. Sicuro: un clericale, un leghista, un socialista – che bella rappresentanza democratica e proporzionale. Che costituente! Che repubblica! Con queste belle idee era naturale che restaste muti, quando noi protestammo contro tute le nomine arbitrarie e domandammo le elezioni ed è naturale che oggi, dopo aver contribuito a mandare all’aria la consulta trentina, istituita per accordi intervenuti fra i partiti, e nella quale il D.r Conci sottoponeva alla discussione anche i problemi provinciali, pensiate ad un altro provvisorio e goffamente – la parola ritorna volentieri alle labbra, perché la goffaggine è caratteristica immancabile delle vostre pose – chiediate all’on. Conci stesso d’istituirlo, quasicché potesse essere compito del commissario e non del governo che gli ha affidato l’incarico, quello di cambiare l’organismo dell’amministrazione provvisoria provinciale. Ebbene, signor Bosetti, fatevi coraggio. Chiedete apertamente al governo la creazione d’un’altra amministrazione provvisoria. Noi non vi attraverseremo la via, giacché siamo convinti che, quando sarà assicurato il vostro concorso, «i rami dell’amministrazione – come scrivete voi – non saranno più trascurati, abulici», né «i provvedimenti lenti ed inadatti». Chiedete un provvisorio che dia al governo il pretesto di differire ancora più le elezioni, chiedetelo: noi non ci opporremo, in nome di un’egemonia che non abbiamo. Ci limiteremo semplicemente a chiedere con nuove insistenze le elezioni politiche e amministrative nell’intima persuasione che solo la forza del popolo può salvare le autonomie che le contraffazioni democratiche dei vostri provvisori mettono in pericolo. Lo sappiamo, di ciò voi non vi date pensiero. Siete tornati dalla guerra pieni il grand’animo di idee piccine, e con dentro il bruciore ancora delle vecchie disdette. Durante la guerra avete contribuito largamente ad ingerire nei vostri protettori l’opinione che il partito popolare andava distrutto, avete anzi promesso di mandarlo all’aria voi colle vostre cooperative e colle vostre leghe. Ed ora che lo vedete risorgere in tutta la sua forza, gridate ai «prepotenti», «invadenti», «intransigenti». Di grazia, «prepotenti», perché spogliati di qualsiasi rappresentanza, domandiamo che chi detiene tutto il potere, lo condivida col popolo? «Invadenti», perché al cospetto di un governo costituito e circondato da soli avversari politici, domandiamo che il popolo colla scheda in mano decida fra voi e noi; «intransigenti», perché quanto chiediamo per noi intendiamo venga concesso anche a qualsiasi partito che ottenga il suffragio popolare? No, queste parole velano, ma non traducono il vostro pensiero. Voi avete la sensazione, l’amara sensazione, che noi siamo potenti, e questo è vero. Potenti non perché abbiamo in mano gli strumenti del potere, perché se ne sono impadroniti a forza i nostri avversari, ma potenti di forza morale, potenti per le giuste rivendicazioni che propugniamo, potenti soprattutto di tutte le più sane energie del popolo trentino, il quale ci ha visti incamminare diritti, anche a questa rapida svolta della sua storia, per la via maestra della sua causa. Il popolo al governo, questo è il nostro programma. Rappresentanza democratica e proporzionale di tutti i partiti al Parlamento, nella Provincia e nei Comuni, questo il nostro postulato, che propugniamo, applicando in ogni corpo rappresentativo «lo stesso peso e la stessa misura». Il signor Bosetti ed i suoi maggiori ne applicano due, uno in confronto dell’oligarchia burocratica che ci governa ed un altro in confronto dell’«egemonia» dell’unico uomo del paese, che contrasta passo passo l’invadenza della burocrazia accentratrice. |
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| 31916-1920
| Vienna, 2 aprile Tra Weimar e Belgrado lungo la valle del Danubio e i suoi confluenti Vienna rimane tra la Baviera e l’Ungheria come un’isola: s’incrociano qui gli echi della «socializzazione integrale» che sta attuando a Monaco il prof. Neurath coi rumori degli esperimenti bolscevichi, inaugurati dal governo rivoluzionario a Budapest. Sarebbe errato il ridurre entrambi questi avvenimenti a proporzioni di incidenti semplicemente sintomatici, mentre secondo il nostro parere si tratta di veri e stabili rivolgimenti sociali. A Budapest è il partito socialista, il quale pur avendo, come in Germania e in Austria, combattuto la corrente comunista, si è dopo le dimissioni di Karoly alleato coll’ala più radicale del movimento operaio, costituendo un governo leninista . Un apostolo del socialismo ufficiale s’è assunto nell’Arbeiter Zeitung il compito di difendere il poco coerente atteggiamento dei suoi compagni. Suo argomento principale di difesa è stato, che l’Ungheria era ormai socialmente così distrutta, l’ordine politico sociale borghese era talmente minato per la guerra e per le conseguenze della guerra che una ricostituzione sulla vecchia base appariva impossibile e che perciò più facile sembrò ancora l’audace esperimento del comunismo completo. Intanto benché all’estero si voglia ridurre questa rivoluzione proletaria a una dimostrazione contro l’Intesa, è giocoforza rilevare che essa contiene in sé i due elementi costitutivi del bolscevismo puro e semplice con carattere permanente e punto incidentale. È stato attuato cioè anche in Ungheria il sistema dei consigli degli operai e dei soldati, ossia, abolendo il sistema democratico parlamentare, è stata introdotta la dittatura d’una sola classe, o meglio, d’un gruppo relativamente piccolo della classe stessa. In secondo luogo è stato introdotto l’esercito rosso, ossia la forza armata è unicamente nelle mani d’un organo di classe e si compone di volontari pagati a spese dello Stato per tenerne assoggettata la maggioranza della popolazione. Le misure che vennero prese, ancora nei primi giorni non lasciano dubbio che i comunisti, i quali appariscono – se si vuole distinguerli ancora dai socialisti propriamente detti – nell’attuale governo dei trenta in minoranza, hanno tuttavia un influsso decisivo. Ancora nei primi giorni venne proclamata e attuata la socializzazione della abitazioni a Budapest, così che tutti in città ora devono pagar pigione, anche i proprietari delle più grandi case, poiché le case stesse appartengono ora non più ai loro proprietari, ma allo Stato, che le appigiona ai cittadini. Venne inoltre introdotta la socializzazione delle banche; sequestrate tutte le scorte di viveri nei negozi e suddivise con un sistema razionale, proclamando che nessuno il quale non si dedichi a un lavoro manuale o intellettuale riconosciuto dallo Stato come proficuo non ha diritto ad alcun favore sociale e nemmeno alla razione di viveri. Infine, ancora nei primi giorni, il governo bolscevico si avventurò sul terreno delle riforme politico morali e pubblicò una pazza ordinanza sul matrimonio, dichiarando che qualsiasi uomo sia celibe o maritato, il quale convive da un anno con una donna, ha diritto di presentarsi all’autorità politica dichiarando questo fatto e pretendendo con ciò il riconoscimento di questa convivenza come vincolo civile riconosciuto dallo Stato. Lo Stato stesso provvederà a mantenere i figlioli di primo letto, che in tal modo fossero rimasti senza padre o senza madre. A consolidare tale situazione politica i bolscevichi provvedono con leggi eccezionali le quali aboliscono la libertà di riunione e di associazione per i borghesi, monopolizzano la stampa al servizio del commissario di propaganda (niente di più curioso che leggere ora il Pester Lloyd noto organo della plutocrazia, che deve ora scrivere articoli ammirativi per l’espropriazione) e sovrattutto pubblicando una legge elettorale, la quale esclude dal diritto di voto per i «consigli», «tutte le persone, dice il decreto, intermediarie del lavoro altrui», negozianti, per esempio, che sono un inutile incomodo fra il compratore ed il venditore ed i preti, i quali sono alla più – come dice lo stesso decreto – intermediari di preghiere. Il rivolgimento di Budapest è stato salutato a Vienna da un telegramma di adesione molto caldo ed entusiastico del consiglio centrale degli operai e dei soldati in Austria; e da questo s’è potuto capire che se a Vienna il consiglio dei soldati finora è apparso un congegno politico del tutto innocuo e moderatore, ciò non è perché fra le idee dei suoi componenti e quelle degli altri consigli più ardimentosi dell’estero regni una differenza sostanziale, ma perché a Vienna per molte ragioni e sovrattutto, perché si ha bisogno dell’approvvigionamento dell’Intesa, non si ritiene giunto ancora il momento opportuno di tentare l’esperimento della dittatura proletaria. L’Arbeiter Zeitung stessa che evidentemente sente nell’aria la suggestione del caso di Budapest ha tentato in una serie di articoli di dimostrare ai suoi lettori come l’Austria non si presti a un’imitazione del sistema ungherese o russo, poiché se venissero introdotti i consigli degli operai, dei soldati e dei contadini, questi ultimi riuscirebbero nella grande maggioranza cristiano sociali, ossia si arriverebbe allo stesso contempramento di rappresentanze che esiste attualmente nell’assemblea nazionale; si avrebbe un governo sulla base dello stesso compromesso su cui poggia l’attuale, colla differenza che il proletariato si assumerebbe apparentemente tutta la responsabilità, mentre sarebbe frenato nelle sue iniziative dai consigli dei contadini. Meno attrazione poteva esercitare sul pubblico viennese il sistema di governo introdotto in Baviera. Qui più che con rivoluzionari della piazza abbiamo da fare con rivoluzionari di gabinetto. Un professore, il Neurath assieme con altri 2 compagni ha pubblicato prima in Sassonia e ora sta attuando in Baviera una serie di progetti di legge per la così detta socializzazione integrale dello Stato. A differenza cioè del programma accolto dai socialisti ufficiali nell’assemblea di Weimar cioè della socializzazione di quei mezzi della produzione che sono maturi per una simile trasformazione, il Neurath vuole la socializzazione di tutti i mezzi di produzione, negando che un qualsiasi provvedimento parziale possa produrre gli effetti che i socialisti hanno sempre sperato dall’attuazione di tutto il sistema comunista. Bisogna, egli dice, non accontentarsi come Scheidemann ed Ebert , di socializzare le miniere, le foreste, i petroli ecc., ma se si vuole superare il sistema capitalistico, bisogna espropriare tutta la proprietà privata e socializzare tutto il possesso sia agricolo che industriale, che commerciale. Intanto, da bravo professore, egli ha incominciato col fondare un ufficio centrale di statistica, ove si elaborano proposte concrete. Se Ludendorf , egli ha detto, è riuscito ad organizzare economicamente ed industrialmente tutta la Germania per sostenere la guerra, perché non potremmo noi trovare nel popolo tedesco lo stato maggiore che organizzi scientificamente il comunismo? – L’accenno a Ludendorf vi ricorda subito una cosa: che il militarismo prussiano e il socialismo comunista provengono dallo stesso paese d’origine e sono entrambi incarnazione d’una stessa filosofia e concezioni della stessa razza germanica. È fatale che in Germania dopo Ludendorf venga il prof. Neurath. Per queste stesse ragioni però non è da ritenere che codesto integralismo comunista d’indole professorale possa attecchire qui in Vienna. Lasciati a sé, i rappresentanti dell’assemblea nazionale austriaca, si manterranno su quella linea di compromesso, sulla quale si muovono ora socialisti e cristiano sociali assieme. Avete rilevato, che nella nuova repubblica per la socializzazione si è proclamata non la dittatura di qualche «incaricato dal popolo», ma si è dato incarico ad una commissione mista di socialisti e cristiano-sociali nella quale presiede un socialista accanto ad un prete, il prof. Seipel , ministro per brevi giorni col prof. Lammasch ? La commissione ha già elaborata una legge per l’espropriazione e la socializzazione. È in essa che noi troviamo i termini d’un progresso possibile senza nuove tirannie ed un giusto contemperamento fra il diritto di proprietà ed il diritto che, secondo la vecchia dottrina dei Padri, ha la società di reclamare che del possesso venga fatto il miglior uso per il bene sociale. L’assemblea viennese dunque si trova, socialmente, sulla via giusta e purché resista alle tentazioni esterne, e segua solo le proprie inclinazioni è certo che procederà su di essa. Ma d’altro canto non si può negare che le tentazioni vicine sono assai pericolose e che nella repubblica austro-tedesca non esiste che un esercito volontario di 30 mila uomini in mano non del governo, ma di un consiglio di soldati, il quale almeno teoreticamente, ha telegrafato il suo plauso ai comunisti di Budapest. Un sistema quindi come a Monaco, o una pazza rivolta come a Budapest, non sembrerebbero a Vienna prevedibili. Ma chi può escludere un colpo di pazzia, un esperimento di esaltati? |
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| 31916-1920
| Convinti che oggi commemoriamo l’avvenimento più felice e provvidenziale della nostra storia civile, noi riaffermiamo, ad un anno di distanza dalla gloriosa giornata, i sensi della nostra riconoscenza verso la nazione e di fede inconcussa nella sua missione e nel suo avvenire. Usciti appena dalle fumanti rovine di una gigantesca istituzione secolare, che per eternare il suo ingiusto dominio aveva provocata e condotta una guerra ingiusta e crudele, noi allora, precorrendo colle speranze gli eventi, e nella convinzione che la fine della guerra segnasse il principio di un mondo nuovo fondato sulla giustizia e sulla fratellanza umana, noi attendevamo una rapida ricostituzione della nostra vita economica ed una sollecita ripresa della nostra vita politica in seno alla nazione. Ma quest’anno è passato senza che la nostra ardente speranza abbia avuto compimento. La tardata regolazione dei rapporti internazionali, un perdurare ancora il disagio morale e materiale delle nazioni paralizza sovra tutto il rinnovamento di quelle zone, le quali, dovendo instaurare un nuovo ordine civile, politico ed economico, hanno innanzi a sé più lungo e più difficile il nuovo cammino. È naturale quindi in noi un senso d’amarezza ed un sentimento d’impazienza. Ma come le incertezze dell’ora non possono attenuare nella nostra mente il concetto dell’avvenimento che oggi commemoriamo, così non dobbiamo trarre da esse ragioni di sconforto e scoraggiamento. Noi crediamo invece che la chiara coscienza dei doveri presenti imponga ai partiti ed agli uomini politici di abbandonare ogni contemplazione passiva degli avvenimenti ed ingiunga loro d’insorgere per affermare al cospetto della nazione e di chi delibera sui rapporti internazionali ch’esiste accanto ad altri fattori, anche una volontà delle popolazioni redente e che questa volontà chiede ed esige che si chiudano finalmente le porte del passato e si spalanchino quelle dell’avvenire, che il trattato di pace venga ratificato e che venga proclamata l’annessione di queste terre all’Italia. In nome delle migliaia di aderenti del nostro partito, interpretando certo il pensiero di tutto il paese, noi chiediamo oggi con quell’insistenza che ci impone la precarietà della nostra situazione civile ed economica, che gl’italiani redenti un anno fa, vengano finalmente fatti cittadini d’Italia e che il Trentino, investito dei suoi pieni diritti politici, possa prendere il suo posto tra le provincie sorelle, gareggiando con esse, per la ricostituzione sua e per i progressi della patria. Con tali sensi, che noi estendiamo nell’affetto e nell’augurio a tutte le altre terre d’Italia le quali della redenzione attendono il fatto o il compimento, celebriamo oggi la prima festa nazionale dell’epoca nuova. La Direzione del Partito popolare |
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| 31916-1920
| Tempi nuovi, uomini nuovi. La corrente innovatrice può volgersi un pochino più a destra come in Francia, o più a sinistra come in Italia, ma essa nasce, ingrossa e si impone travolgente là ove hanno dominato finora coalizioni, clientele e partiti, i quali non poggiano su di una salda organizzazione di classe o su di una granitica base di una concezione positiva della vita. I parolai, gli scettici, i camorristi, i massoni, gli uomini dei comitati di salute pubblica che s’impadroniscono del potere, quando la grande massa è inerte o inerme scompaiono sotto la valanga. Le forze reali spazzano via le menzogne convenzionali. Questo è il primo significato delle elezioni italiane. Il socialismo esisteva e da anni corrodeva l’impalcatura del presente ordine sociale. Il liberalismo dominante invece che affrontarne coraggiosamente la propaganda ed i principi, tentò di imbavagliarlo con concessioni a spalle dello Stato, permettendogli di affermarsi in ogni organismo statale, purché gli desse tregua sul terreno del dominio politico. Ora le elezioni, abbattendo d’un solo colpo la sovrastruttura fittizia rivela la forza reale del socialismo anche come agente politico. Senza dubbio la guerra e le conseguenze della guerra, sfruttate senza scrupoli, hanno aggiunto a queste forze un qualche aumento di potenzialità che è solo temporaneo: ma questa aggiunta è piccola. Esagerarla, come fa la stampa liberale, è voler mentire a sé stessi. Un’altra forza ha avuto, politicamente, una rivelazione ancora più improvvisa. Bisogna ricordare che l’organizzazione politica del P. P. I. è vecchia appena di mesi, che i cattolici per cinquant’anni s’erano astenuti dalle urne, che i loro uomini, toltine pochi, erano affatto nuovi alle lotte politiche, che in certe circoscrizioni non esisteva nemmeno l’ombra di un’organizzaizone, che in cert’altre D. Sturzo ha dovuto improvvisare liste e comitati, per comprendere tutta la portata della vittoria popolare. Se in tutta l’Italia i popolari fossero organizzati, come in certe poche provincie settentrionali o, diciamolo pure, come nel Trentino, i mandati raggiunti sarebbero certo raddoppiati. Questo partito ha ancora delle forze latenti, esauribili non in una né in due legislature. La battaglia incomincia a pena. La vittoria popolare è quindi in via relativa più grande di quella socialista. Entrano in parlamento uomini nuovi che hanno una coltura sociale e che sanno guardare in faccia ai problemi più gravi. I socialisti non trovano in loro dei facili bersagli di reazione né degli uomini dall’orizzonte ristretto, ma degl’innovatori con un programma radicale. I socialisti dovranno decidersi fra la corrente delle riforme o il baratro che conduce alla dittatura proletaria ed alla guerra civile. Noi confidiamo che i popolari, questi ultimi venuti, abbiano la forza di raccogliere attorno a sé tutte le energie incorrotte del paese per trarlo fuori dalla grave crisi che lo travaglia. Questa forza attingeranno dalle loro organizzazioni, che dovranno rinsaldare ed allargare, dalle esperienze sociali che hanno tentato nel campo agricolo, industriale e del credito, ma sovratutto dall’ispirazione cristiana che deve animare tutto il loro lavoro d’innovazione. |
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| 31916-1920
| Quest’elezioni, abbiamo detto ieri, aprono la grande crisi del rinnovamento politico d’Italia . Avremo agio più tardi di seguire lo svolgimento di questa crisi e d’illustrare specialmente la parte che vi assumerà il partito popolare. Ma oggi sostiamo un momento per rilevare il mirabile successo di questo nuovo partito del popolo italiano. Fino a ieri i cattolici erano assenti. Le loro organizzazioni di coltura, di previdenza e di riforma sociale, di difesa e libertà religiosa non arrivavano ad influire sulla legislazione e sull’amministrazione dello Stato, perché non avevano a disposizione uno strumento politico, cioè il partito e la sua rappresentanza parlamentare. Ch’era valso a Toniolo, a Talamo , a Chiri , a Boggiano ed agli altri apostoli della dottrina sociale cristiana di propugnare le loro idee e predicare i loro programmi, se poi non c’era in Parlamento nessuno che sorgesse a propugnare l’attuazione in progetti di concreta riforma? Ch’era valso a Sturzo, Mauri ed altri molti di propagare l’idea del decentramento e delle autonomie locali, se poi le loro idee non trovavano un’eco potente nella rappresentanza nazionale? Che valeva organizzare gli operai e i contadini, se lo Stato ne ignorava ostinatamente i postulati? Che valevano le associazioni in difesa della scuola, quando la Minerva ne dirigeva incontrollata le sorti? Alcuni pochi, è vero, avevano praticata una breccia angusta nella muraglia cinese; ma questi pochi, per quanto abili, non poterono superare quella limitata cerchia d’influenza che s’erano guadagnata colla loro personalità. Quando Meda uscì dal ministero, la sua riforma tributaria entrò in crisi anch’essa, perché mancava un partito organizzato e forte che la sostenesse. Dicendo questo, siamo certi di non venire fraintesi. Non vogliamo esagerare l’importanza del partito né svalutare il movimento d’idee e d’azione sociale. Il partito non è che lo strumento; l’elemento direttivo e propulsore rimangono il programma e l’organizzazione cristiano sociale, entrambi superiori al partito. Ma l’uno è necessario all’altro. Senza il partito, cioè lo strumento per agire sullo Stato, il movimento sociale diventa a lungo andare un’elica che gira nel vuoto, come il partito che non abbia profonde radici nella scuola dell’idea e nell’associazione dei suoi sostenitori, minaccia d’isterilire. Oggi per la prima volta in Italia sorge un partito che si mette al servizio dell’idea e delle organizzazioni di classe per inaugurare il grande tentativo di rinnovare lo Stato italiano secondo i principi della democrazia cristiana. Noi salutiamo quest’alba novella con fede sicura nell’avvenire della nostra nazione. Il partito popolare balza sul ponte nel momento in cui la nave è sconquassata e incomincia a far acqua. Ci vogliono idee chiare, prudenza, ardimento, nervi d’acciaio, disciplina ferrea. Gli eletti dello scudo crociato avranno quest’indispensabili virtù civili. Ce ne assicura la grande tradizione nazionale che li accompagna, la preparazione ideale e tecnica di molti di loro che conosciamo e sovrattutto l’ideale che rischiara loro la via. Il saluto augurale che mandiamo quindi da quest’estremo lembo d’Italia ai nostri amici è il saluto di quella fidente solidarietà che ci fa sicuri del trionfo dell’idea cristiana, per la quale anche i cattolici trentini hanno lavorato nella loro piccola regione con coraggio, con tenacia e non senza fortuna. Ma noi professiamo quest’atto di fede innanzi al nuovo partito non solo per il rinnovamento generale ch’esso si propone, ma anche per il suo programma rispetto alle questioni particolari del paese nostro. Il partito popolare è per il decentramento e per le autonomie locali. I nostri postulati concreti in questo campo gli sono noti, ed ebbero anzi il suo appoggio, quando la sua forza era ancora in germe. Ora che questa forza si dispiega rigogliosamente, noi abbiamo piena fiducia ch’essa si farà valere contro l’accentramento burocratico che vorrebbe soffocare le nostre istituzioni autonome. Il programma istituzionale dei trentini, qualunque siano le differenze che li dividono in altri campi, è contenuto tutto intero nel programma della riforma politicoamministrativa, propugnata dal Partito popolare italiano. Plaudendo quindi con vivo entusiasmo alla magnifica affermazione di questo partito, i trentini salutano nel suo avvento anche la promessa, che non può mancare, di un loro più sicuro avvenire. |
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| 31916-1920
| Il risultato delle elezioni – La difesa contro l’anticlericalismo d’importazione – Il decentramento e le libertà regionali – Il pensiero di Millerand e Clemenceau – Le leggi sociali – Cuore e lingua I lettori avranno avvertito che il «Trentino» – unico in questo fra i giornali d’Italia – ha seguito con una certa cura lo sviluppo della politica nell’Alsazia-Lorena. Il nostro interessamento era naturale, per l’analogia della situazione. Anche là si tratta di nuove provincie, anche a Strasburgo risiede un commissario generale, anche in Alsazia-Lorena si assiste al raffronto di due metodi amministrativi, il latino ed il germanico, ed al cozzo di due sistemi politici, il centralismo napoleonico e il federalismo provinciale. Il raffronto potrebbe continuare per vedere che cosa è stato fatto in Lorena nella questione della valuta, nell’organizzazione dell’amministrazione transitoria, nello sviluppo dell’economia; ma questo studio ci porterebbe troppo oltre e rischierebbe di riuscire imperfetto, data l’impossibilità di seguire a distanza il groviglio dei decreti e di osservarne l’applicazione. Ci pare cosa utile invece dare uno sguardo retrospettivo alla campagna elettorale, ivi testé chiusa colla vittoria degli elementi d’ordine e sovrattutto dei cattolici, ospiti prima della guerra, del Centro germanico, i quali come abbiamo riferito, mandano alla Camera francese accanto a sette moderati 17 deputati di colore, tra cui tre sacerdoti, già benemeriti per la loro opera politica nel Reichstag o nella Dieta dell’Alsazia-Lorena. Ecco anzitutto alcuni dati statistici. Nelle ultime elezioni per il Reichstag germanico (1912) l’Alsazia-Lorena contava 137.899 elettori inscritti; nelle elezioni dei 16 nov. per la Camera francese, nonostante l’abbassamento del termine d’età, da 25 a 21, ed evidentemente in causa della partenza dei tedeschi, gli elettori inscritti erano 118 mila. Nelle elezioni germaniche aveva votato il 78% degli aventi diritto a voto; nelle elezioni del 16 novembre votò l’80.71%. Questa è la media, ché nella circoscrizione rurale di Thionville votò fino l’89.05 per cento! Ed ecco i risultati complessivi dello scrutinio. L’«Union lorraine républicaine» raccolse 61.255 voti cioè il 62.2% dei suffragi, i socialisti 26.524 voti, i radicali della «ligue lorraine» 6.611 voti, cioè il 7.04% dei suffragi. Lo schieramento degli elettori avvenne, come risulta dalle cifre suesposte, sotto tre bandiere: i socialisti con un programma tra il massimalista ed il collaborazionista che si potrebbe chiamare «massimalista fino a un certo punto», i radicali, partito d’importazione, commisto di massoni, anticlericali e qualche fascio di combattenti d’ispirazione massonica, affastellati nella «ligue lorraine-française», ed infine i cattolici uniti ai moderati, tra cui un generale francese, sotto l’insegna di «Union républicaine lorraine». I titoli paiono simili, ma hanno un significato diverso. La lega volle accentuare il suo francesismo e legò quindi al primo aggettivo un secondo, l’unione ci premise invece l’epiteto di repubblicano, per rilevare che i cattolici redenti volevano chiaramente distinguersi da quei cattolici francesi che nutrono ancora sentimenti monarchici. Il francesismo della lega voleva dire sovratutto l’applicazione integrale della legislazione francese, compresa la legge di separazione. È qui ove il suo programma cozzò contro quello della maggioranza dei redenti. I cattolici ed i moderati vi opposero questo principio: «completa libertà di culto ed eguale trattamento per tutte le confessioni». «Mantenimento delle nostre istituzioni religiose attuali nella Lorena, accordo fra i poteri civili e religiosi, mantenimento alla scuola del suo carattere educativo attuale sul terreno nazionale sociale e confessionale, conforme alle nostre tradizioni». Nel difendere questo caposaldo del loro programma i repubblicani dell’Unione si richiamavano anche alle dichiarazioni del commissario generale Millerand, del presidente Poincaré e di Clemenceau, i quali tutti avevano dichiarato di voler rispettare le tradizioni religiose delle nuove provincie ed, in quanto alle leggi anticlericali, avevano almeno detto che per un certo periodo di transizione non conveniva pensarci. S’era visto subito del resto che tale programma di difesa religiosa non era senza speranza. Quando Millerand aveva in un discorso elettorale inneggiato alla pace religiosa e Clemenceau stesso nella sua orazione di Strasburgo, per quanto con grandi cautele aveva parlato di «legittime rivendicazioni delle libertà confessionali», i cattolici lorenesi dovevano ben dirsi che il momento politico era favorevole al mantenimento delle loro prerogative. Il risultato generale delle elezioni francesi confermò tali previsioni. Il secondo caposaldo del programma dell’Unione era… (vedete un po’!) quello ch’essi chiamano «régionalisme» e che noi chiamiamo con una parola storica «autonomia». Millerand – è sempre il loro commissario generale che i lorenesi citano volentieri quasi per dimostrare l’ortodossia del loro programma – Millerand dunque aveva detto in un discorso a Parigi che conveniva agevolare i compiti del futuro parlamento mediante una larga decentralizzazione ed aveva aggiunto (vedete un po’!) che «nos chères provinces d’Alsace et de Lorraine nous offrent, à ce point de vue, un exemple qui sera suivi avec fruit». «Le nostre care provincie, l’Alsazia e la Lorena ci offrono in tal riguardo un esempio che sarà seguito con frutto». I lorenesi si attaccarono a tali ammissioni come ad un’ancora di salvezza e i candidati dell’Unione repubblicana richiamandosi a Millerand aggiunsero che, se eletti, «apporterebbero il loro concorso allo stabilirsi di un regionalismo che, entro il quadro della repubblica una ed indivisibile, permetterà alle nostre provincie uno sviluppo conforme alle loro tradizioni». I fascisti della «Ligue» tacciarono questo programma di campanilista e bollarono i suoi propugnatori come centristi (dal centro germanico) i quali volevano riaprire le porte al Kaiser. Ma l’accusa non fece impressione. I tempi sono mutati anche nel paese del centralismo classico. Lo stesso Clemenceau nel citato discorso di Strassburgo aveva insistito sulla necessità di organizzare il regime delle libertà regionali, in cui «le nostre provincie ritorneranno alla vita d’un’espansione indipendente» «après l’étouffement final décrété par Napoléon». Non resistiamo alla tentazione di citare tali e quali le altre parole che seguono: «Les Chambres s’allégeraient du travail revenant aux assemblées locales. Du même coup l’administration pourrait se délester du pullulement de fonctionnaires mal payés, et trop souvent disposés à ne pas fonctionner du tout, qui prive le pays de précieuses forces de production. Débarrassés des obstacles d’une organisation particulièrement propre à tout empêcher, les Français, qui, après tout, ont le droit de n’être pas de Paris, retrouveraient d’heureuses issues aux moments de la vie régionale, qui sont en tous pays la condition nécessaire de la liberté». Quale risposta migliore ai «francesisti», agli ortodossi della lega ? Infatti i giornali di quest’ultima dopo tale bottata abbandonarono la discussione dei programmi per lanciarsi sulle persone dei candidati. Venne scrutato il grado di «purezza nazionale» di ciascun candidato e sul «Thionvilllois» in modo particolare un redattore importato di fresco dalla Bretagna accusò di germanofilia questo o quel candidato dell’Unione repubblicana. Ma s’ebbe da chi era rimasto in paese le debite risposte. Mirman, prefetto della Mosella, attestava pubblicamente questo fatto meraviglioso, che anche i lorenesi di sangue germanico hanno il cuore così francese, come il suo. Infine della parte sociale del programma è notevole che gli unionisti chiesero il mantenimento delle leggi di protezione operaia, giudicate migliori delle francesi. Quest’ammissione è una delle più umilianti che la Francia democratica dovette fare innanzi alla Germania imperiale. La ragione è semplice: in Francia si perdette il tempo a dilaniarsi per la forma di governo o condurre una lotta nefasta contro la Chiesa. In Germania il Centro cattolico, rintuzzato il Kulturkampf, si mise alla testa delle riforme sociali. Che la Francia e l’Italia – poiché anche per riguardo nostro, benché in misura minore, può valere lo stesso raffronto – riguadagnino ora il tempo perduto! Questo il fronte di battaglia dell’ «Union lorraine» contro il radicalismo borghese. Gli argomenti contro il socialismo si possono immaginare. Non mettono «les bolchevistes» in pericolo l’ordine ed il credito della Francia, ed i frutti della sua vittoria di fronte ad una Germania esasperata e pronta alla rivincita? Caratteristico è tuttavia che i patrioti delle nuove provincie dichiarano che il 50% della popolazione parla il tedesco, che quindi la provincia è bilingue, per cui nel programma domandano: «Enseignement général de la langue française en tenant compte de l’idiome local». E dopo la vittoria un giornale del partito, il «Journal de Boulay», così concludeva: «Lorenesi, voi avete votato bene e la vostra ricompensa sarà il mantenimento integrale delle libertà che vi sono care: la vostra religione, l’educazione dei vostri figliuoli, la vostra lingua». Accanto a un parallelismo stupefacente colla nostra situazione in quasi tutti i riguardi, ecco un programma linguistico che per noi i quali abbiamo imparato che la lingua è l’anima delle nazioni ed abbiamo addosso i tirolesi, rimane difficilmente comprensibili anche se non abbiamo ragione di dubitare nella chiaroveggenza del prefetto Mirman il quale assicura «que les Lorrains de langue allemande ont le coeur aussi français que le mien». |
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| 31916-1920
| Ho potuto leggere in ritardo i commenti che il «Tiroler» di Bolzano e il «Bürggräfler» di Merano hanno fatto seguire alle sobrie parole che rivolsi ai tedeschi dell’Alto Adige nella mia recente conferenza popolare; ma se li avessi anche letti prima d’ora, devo ritenere che non avrei sentito maggior bisogno di reagire di quello che senta oggi . Un duello giornalistico nelle attuali condizioni mi pare inefficace e forse dannoso; inefficace perché il pubblico tedesco al quale mi vorrei rivolgere non ha la possibilità di ascoltarmi e di comprendermi; dannoso, perché, quei pochi tra i miei avversari che mi possono leggere, non sono ancora in tale stato di animo da divenire interpreti fedeli e benevoli delle mie parole presso i molti che li ascoltano o li leggono; ché anzi la loro fosca visione della situazione politica e la loro esasperazione l’inducono a ritorcere ogni discussione in nuove recriminazioni ed in nuove proteste. Per questo e non per un minore interessamento per la questione dell’Alto Adige, il «Trentino», fin dal principio della nuova era, si è rifiutato di assumere la veste e la posa che nell’epoca felicemente tramontata prendevano le «Innsbrucker Nachrichten» contro di noi. Ed oggi i larghi commenti fatti a quei miei parchi accenni, che dovevano aprire una breve parentesi, sono lì a confermare che i tempi per una discussione serena avviata col reciproco proposito di arrivare ad un’intesa, non sono ancora maturi. In vero, quando il «Tiroler» si sbriga del programma annessionista, snazionalizzatore e brutalmente egemoniaco del congresso di Sterzing col dichiarare ch’esso è cosa morta cui sarebbe vano il voler ravvivare, guardandosi bene però dal sconfessarlo o dal condannarlo e rifiutandosi anzi espressamente qualsiasi accenno di pentimento, io mi domando se non sarebbe ingenuità la nostra quella di mettersi a discutere sopra il miglior assetto che si debba dare all’organizzazione politica dei popoli in base ad ideali principi di giustizia e di solidarietà umana con coloro che tali principi invocano non per coerenza di convinzioni, praticamente seguite, né con sensi di compunzione per avervi mancato, quando avevano la possibilità di attuarli, ma solo per trarne profitto per sé in un momento in cui una forza maggiore impedisce loro di conculcarli «Fuit Ilium, fuimus Troes» dice il «Tiroler», quasiché i tedeschi si potessero paragonare a Quei pochi afflitti, e miseri Troiani Ch’avanzano a gl’incendi, a le ruine, Al mare, a i Greci, al dispietato Achille . Noi abbiamo ben diverso concetto del conflitto mondiale e della parte che vi ebbero i tedeschi, e ci è impossibile di confrontare Hindenburg e Ludendorff col pio Enea ed il suo fido Acate. Da questo diverso concetto della guerra deriva anche una diversa valutazione della pace testé conchiusa e del nuovo assetto del mondo. E se possiamo deplorare che la pace ideale non sia stata raggiunta, non ci riescono tuttavia estranee le ragioni di quei popoli e di quei governi che, diffidando dei tedeschi, hanno voluto che a una pace ideale, che non potrà venir attuata se non dalla lega delle nazioni, antistasse frattanto la sicurezza che può derivare da garanzie di alleanze difensive e da confini strategici. Ecco l’abisso che ci separa dai tedeschi, quando si tratta di giudicare e fissare le relazioni fra i popoli; e ciò vale tanto nei problemi più vasti, come nei più piccoli. I francesi diffidano della conversione dei prussiani, ma potremo noi sperare che i nostri vicini aderiscano sinceramente ai nuovi principi che invocano, quando evitano perfino di condannare il programma di Sterzing? Un’altra differenza capitale mette in luce il commento del «Bürggräfler». A Merano m’ero permesso di rilevare il vantaggio che rappresentava la «cittadinanza» italiana in confronto della «sudditanza» austriaca. Da una parte la stasi dell’assolutismo monarchico, dall’altra la dinamica di una democrazia, che apre la via ad ogni miglioramento. I miei contradittori classificano tutto ciò uno scherzo di cattivo genere. Ed essi non scherzano davvero, dicono proprio sul serio! Qui l’abisso diventa immensurabile. Sono due secoli, due mondi che si stanno di fronte. A qual pro quindi intavolare una discussione, nella quale i contradittori partono da premesse così profondamente diverse? Attendiamo quindi con pazienza che le menti, passata la burrasca, si rasserenino; e per conto nostro proponiamoci di fare o, meglio, di consigliare a chi la può fare, una politica di equità e di fermezza. Lusinghe, promesse che non si possono mantenere, ci sembrano altrettanto pericolose quanto le provocazioni che si devono evitare. Del resto riaffermiamo la speranza espressa a Merano. Anche questi Troiani volgeranno infine le prore verso l’Italia. a.d. |
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| 31916-1920
| Pubblichiamo oggi, come annunziato, le prime offerte pervenuteci. Non è una lista numerosa, perché lo spazio di un tempo intercorso fra l’appello e la pubblicazione fu troppo breve, ma consideriamo questi nostri amici come un drappello d’avanguardia. Bisogna che quanti a cui il sacrificio non riesce impossibile lo facciano con spirito di franchezza e generosità. Siamo un partito di poveri. Pochissimi degli aderenti al partito popolare hanno rendite assicurate e capitali di riserva, pochi hanno potuto controbilanciare il vuoto prodotto dal rincaro vertiginoso con aumenti corrispettivi di entrate e coll’adeguato rialzo dei salari. Lo sappiamo, e perciò appunto abbiamo fatto appello non a chi può dare il superfluo, ma a chi deve dare con sacrificio. Attendiamo quindi un’altra schiera più numerosa per martedì prossimo. Facciamo intanto seguire la prima lista d’offerte, delle quali parecchie per dichiarazione stessa degli oblatori, si devono considerare come un primo acconto. Le offerte si dirigono alla Direzione regionale del P. P. (presso la redazione del «Trentino»). Il segretario D.r A. D. |
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| 31916-1920
| Come i lettori avvertiranno, la nostra amministrazione ha aperto l’iscrizione ai nuovi abbonamenti. Si è dovuto elevare il prezzo annuo a Lire 28, rispettivamente a Lire 30. Crediamo superfluo motivare questo aumento, quando a tutti è noto, come sia spaventosamente salito il prezzo della carta, degli inchiostri e della mano d’opera. Se l’abbonamento fosse rimasto qual era, avremmo dovuto lavorare colla certezza di un insanabile passivo. Non è detto con ciò che il nuovo prezzo d’abbonamento basti a garantirci da una crisi. Per evitarla, dovremo con ogni probabilità aumentare a 15 cent anche il prezzo d’una singola copia, il che del resto s’intende fare anche nelle altre provincie d’Italia. Ciò è rincrescevole senza dubbio, ma la nostra piccola industria giornalistica non può sottrarsi alle gravi condizioni create dal rincaro delle materie prime e dalla svalutazione della moneta. Noi confidiamo tuttavia che gli amici vecchi ci rimarrannno fedeli e se ne aggiungano di nuovi. Quanti sono persuasi della funzione indispensabile ch’esercita la nostra stampa in questo periodo decisivo della nostra storia, devono anche convincersi che bisogna fare dei sacrifici per sostenerla. Le associazioni culturali ed economiche, aderenti al nostro indirizzo, si ricordino che devono gran parte della loro forza alla propaganda dell’idea fatta a mezzo del giornale. I soci del partito popolare non dimentichino che le elezioni non possono essere tanto lontane e che la stampa è l’arma più potente del partito. L’esperienza di lunghi anni ci dice che non avremo scritto questo appello invano. Non credasi però ch’esso sia uno dei soliti atti convenzionali, compiuti quasi per rito a fine d’anno. La nostra stampa ha veramente bisogno dell’appoggio largo e rinnovato di tutti i suoi amici. Chi vuole che il Trentino affronti con sicurezza le traversie del 1920, bisogna che ci aiuti in questo mese con uno sforzo intenso di propaganda. |
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| 31916-1920
| Dopo la favorevole accoglienza della nostra idea, lanciata attraverso le sezioni della valle, in seguito alla deliberazione dell’adunanza di direzione a Trento, ci troviamo ora proprio alla vigilia del nostro primo convegno. Era sentita ormai, come un ardente bisogno di vita, la necessità di riunirci a un convegno che si estendesse a tutti i soci del Partito popolare che abitano la zona devastata, per sollecitare tra loro un affiatamento che li incoraggi alla lotta ideale, e per concretare un nuovo voto di popolo i reclami che dovevamo presentare al governo, onde provvedesse con la necessaria larghezza e prontezza al risorgimento di quella parte del paese che per il bene della patria sofferse i sacrifici più grandi. Ed è per questo che facciamo appello alla solidarietà di tutte le nostre Sezioni, perché vogliano partecipare alle adunanze con il maggior numero di soci, perché concorrano tutte a portar il loro senno e la loro voce in favore del nostro paese. Oltre all’on. Degasperi, interverranno anche l’on. Coris , deputato di Verona e l’on. Cingolani , già vicesegretario del partito e deputato di Perugia. La presenza di questi rappresentanti del popolo varrà ad accrescere la serietà e la solennità della nostra manifestazione, ed essi si faranno interpreti dei nostri desideri dinanzi al Governo di Roma. Il convegno è convocato a Rovereto per la domenica 21 dicembre nel salone del Ricreatorio A. Rosmini col seguente ordine del giorno: «Ore 9.30-12 Discussione dei seguenti problemi della zona devastata: 1. Ricostruzione immediata dei fabbricati; 2. Distribuzione equa e ragionevole ai comuni e alle famiglie di speciali sussidi governativi che si devono chiedere urgentemente; 3. Esenzione temporanea da ogni imposta e tassa; 4. Approvvigionamento della zona; 5. Igiene della stessa; 6. Risorgimento delle industrie di Rovereto; 7. Patrimonio zootecnico (animali da latte e da tiro); 8. Provvedimenti agricoli; 9. Valuta e titoli; 10. Regolazione delle poste rurali; 11. Tramvie e ferrovie; 12. Insegnamento religioso nella scuola; 12. Sicurezza pubblica. Pomeriggio Ore 14, a) Presentazione e votazione degli ordini del giorno formulati e discussi al mattino. (Relatore prof. Enrico Tamanini); b) Il nostro programma – On. dott. A. Degasperi; c) Parole dell’on. avv. Giovanni Battista Coris, deputato di Verona; d) Parole dell’on. Cingolani, già vicesegretario del Partito e consigliere municipale di Roma; e) Chiusura del convegno. La mattina i soci sono pregati di intervenire alla s. Messa letta da mons. arciprete di S. Marco nella cappella del Ricreatorio». Quanti degli amici si sentono di prender parte alla discussione siano i benvenuti per il mattino; tutti gli altri non manchino assolutamente all’adunanza del pomeriggio. I partecipanti porteranno seco l’invito personale, di cui la loro Sezione li provvederà. È dovere d’ogni ben pensante e amico d’intervenire al primo nostro convegno regionale, poiché l’organizzazione nostra s’imporrà sulle decisioni riguardanti la nostra zona devastata ed avrà il cosciente sentimento di aver provveduto colla sua azione al risorgimento economico della stessa. Sono tali i problemi da discutere che certamente nessuno negherà il suo aiuto in pro di essi, ma ognuno vorrà contribuire almeno colla sua presenza a farli valere. LA DIREZIONE della Sezione roveretana del P.P.I. |
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| 31916-1920
| Leggiamo nei giornali romani: «La Giunta comunale di Roma del 18 ha deliberato di concorrere a quelle manifestazioni che si sono già verificate in Italia per venire in soccorso dei bimbi poveri di Vienna. Ha pertanto disposto di erogare a favore dei bambini di Vienna la somma di lire 50 mila e lire 100 mila a favore dei fanciulli delle nostre terre redente in considerazione dei non lievi bisogni in cui essi pure versano» Ecco la nota giusta. In Italia si fa largo un movimento in favore dei bambini viennesi, che soffrono la fame. È giusto, è bello, è nobilmente umano e profondamente cristiano. Il gesto è tanto più ammirabile quando si pensi che chi lo fa è Roma, «caput mundi», donde partì in questi giorni l’appello del Pontefice in favore dei fanciulli dell’Europa centrale. L’urbe si mette alla testa di quella ripresa della solidarietà umana, che va manifestandosi tardiva ma insistente in tutto il mondo. Ma Roma in quest’occasione ha voluto anche evitare che il suo atto potesse interpretarsi come un gesto di quell’umanitarismo internazionale che si fonda su di una presunta antitesi fra umanità e patria, e, provvedendo ai bambini viennesi, ha voluto contemporaneamente riconfermare i vincoli più stretti e particolari che la congiungono ai fratelli redenti. La carità non conosce confini e la capitale d’Italia sa essere generosa anche coi figliuoli dei suoi più accaniti nemici, ma la carità farebbe torto alla giustizia, se, attratta dal valore dimostrativo d’un bel gesto, ignorasse chi la può invocare non solo per ragioni oggettive di commiserazione, ma più ancora per la ragione di un affetto mai smentito e di un attaccamento che ha costato, prima, tante persecuzioni e, infine, il martirio della guerra. La carità va fatta anche ai tedeschi, ma la giustizia esige che si provveda in prima linea agli italiani. È una legge di natura che ordina i nostri affetti secondo i vincoli di sangue e fa procedere l’uomo per gradi dalla «pietas erga parentes» all’amor di patria e dal sentimento nazionale al sentimento umanitario Enunciando questa semplice verità, pensiamo anche ai nostri vicini dell’Alto Adige ed a quello che hanno scritto i loro giornali in questi giorni. Un giornale di Bolzano, dopo aver scritto con dispetto mal celato che il governo italiano dopo tutto non contribuisce all’azione viennese che con le spese di trasporto dal Brennero a Bolzano – il Tiroler ignora o finge d’ignorare che il governo nazionale pagando la differenza fra il prezzo d’importazione ed il prezzo di smercio dei viveri ci rimette nella sola Venezia Tridentina parecchie decine di migliaia di lire al giorno – rileva sdegnosamente ed orgogliosamente che il peso di quest’azione caritativa viene a premere sulle spalle del popolo tedesco. E noi rispondiamo: non era naturale, non era doveroso per voi che foste chiamati in prima linea a soccorrere la gente del vostro sangue? E non è naturale che i trentini, rivolgano il cuore e la mente prima che ad altri, ai loro connazionali della zona devastata? Nessuno di noi ha voluto negare che sia giusto seguire negli affetti quest’ordine stabilito dalla natura; del qual ordine invece sembrano certi tedeschi fare le meraviglie. Noi per il contrario siamo stupiti che i tedeschi non apprezzino di più quel poco che, subordinatamente al nostro superiore dovere verso i fratelli dei paesi distrutti, abbiamo potuto fare, sia appoggiando l’azione presso il governo, sia direttamente: – ancor oggi un villaggio presso Trento offriva d’accogliere 40 bambini viennesi! Perché in quello che quantitativamente può riuscire poco, c’è qualitativamente moltissimo. C’è, egregi colleghi di Bolzano, ad un anno di distanza dalle ultime stragi, tutto il superamento di un passato sanguinoso, l’oblio di un grande torto secolare, il generoso atto di fede verso un’umanità rinnovellata nella bontà e nelle giustizia. Si adempie insomma la profetica parola del poeta: Ripassin l’Alpi e sarem fratelli! E poiché quest’atto in mezzo alle fumanti rovine del Trentino riesce più difficile che in Campidoglio, non ce n’è sembrato indegno il rilievo in una nota di commento alla deliberazione di Roma. |
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| 31916-1920
| Non esitiamo a dire che il decreto, invocato da tutti con somma insistenza e da mesi, farà [righe censurate] Per noi, ex-austriaci, il cambio della corona a 40 centesimi, mentre sul mercato neutro di Zurigo essa non ne vale oggidì che 33, rappresenta un favore, una concessione del governo italiano. Per noi, cittadini italiani, la conversione della nostra valuta cartacea al ragguaglio del 40, rappresenta economicamente un errore, politicamente uno sproposito madornale. È inutile dopo tutto quello che abbiamo scritto d’insistere su tali ragionamenti. Il deprezzamento della corona austro-ungarica è la conseguenza dello sfasciamento della vecchia monarchia e della vittoria italiana . Ora quando s’è parlato di noi in confronto degli avvenimenti del 3 novembre ci si è messi sempre, razionalmente e politicamente fra i vincitori. Gli stessi fattori attivi della vittoria ci hanno chiamato a partecipare al trionfo comune. [paragrafo censurato] Era manifesto invece che la conversione della valuta doveva riguardarsi come una delle tante misure finanziarie che lo Stato italiano aveva dovuto prendere durante la guerra, per vincerla colle armi e nelle coscienze, una misura come s’era presa per tener basso il calmiere del pane o per ridurre i noli. Il freddo criterio finanziario non doveva essere né prevalente né decisivo. Ma doveva essere determinativo il criterio di equità verso gl’italiani delle nuove provincie, sui quali non era giusto riversare tutte le conseguenze economiche della sconfitta, pur chiamandoli poi a contribuire con tutti gli altri italiani al pagamento delle spese di guerra nazionali o dovevano essere decisive considerazioni d’indole economica e politica, sulle quali i rappresentanti del nostro paese hanno insistito con una precisione che non lasciava dubbi. Anche in via relativa, in confronto dei singoli detentori delle corone, la tassa sul capitale mobile che veniamo a pagare colla conversione al 40% è imposta a tutti nella stessa misura colpendo tanto lo speculatore milionario quanto il piccolo rentier. [paragrafo censurato] E il paese si chiederà – e si chiederà invano – perché si sono lasciati passare cinque lunghissimi mesi a stillare la recondita sapienza di codesta ordinanza, la quale risponde ancora ai criteri che dominavano il cervello del ministro Nitti ai primi di novembre [righe censurate]. Oggi non ci rimane che formulare la nostra franca, recisa, solenne protesta. [paragrafo censurato] L’articolo 7 rappresenta ancora una speranza sulla quale il compilatore del decreto ha messo invero l’ufficiale sordina . Ma sta in noi, di sfruttare con tutta l’energia la promessa che vi è contenuta. Verrà finalmente anche la tanto sospirata annessione e saremo presto italiani nel pieno e giuridico senso della parola. Di tale pienezza di cittadinanza approfitteremo per dimostrare, che insipienti ed ingiuste misure d’un governo che passa non scuotono la nostra fede nella grandezza e nella sapienza della nazione come non ci fanno dubitare della forza vittorioso del nostro diritto. |
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| 31916-1920
| […] Parla l’on. Degasperi È invitato allora a prender la parola l’on. Dott. Degasperi, il quale prima d’incominciare il suo dire, legge il seguente telegramma del Segretario politico del Partito. «Roma, 21 dicembre Imminenza voto politico impossibile amici deputati partecipare vostra adunanza. Mando saluto cordiale, vivissimi auguri, assicurazione appoggio vostri giusti postulati. Segr. politico: STURZO». Applausi vivissimi accolgono il telegramma, quantunque sia con rammarico che non si possano udire i deputati che avevan promesso il loro intervento. Quando l’on. Degasperi porta l’adesione della direzione regionale del partito e manda un plauso speciale ai promotori del convegno, in particolare all’infaticabile relatore ed a suo fratello, il quale preparò con tanto successo l’intervento all’assemblea. L’oratore esprime la sua ammirazione per l’energia, la tenacia e la abilità dei roveretani, i quali, fondati in gran parte sulle forze proprie, seppero ridare in così poco tempo una vita nuova alla bella ed industre città che durante l’esiglio piangemmo quasi come morta. Fa voti che governo, paese e nazione sappiano apprezzare tali sforzi ridonando con largo concorso finanziario alla capitale lagarina nuovo impulso alle industrie ed ai commerci, di cui a buon diritto era orgogliosa. Scioglie un inno agli abitanti tutti della zona devastata, che con ostinato amore alla propria terra, sopportano immense privazioni ed inauditi disagi pur di rifare quello che la guerra ha distrutto. Il partito popolare s’è occupato fin dal suo sorgere dei bisogni della zona. Disgraziatamente gli manca ancora una forza rappresentativa alla Camera, per farsi valere, come converrebbe. Ma, in attesa delle elezioni, farà di tutto per premere sul governo e mediante i deputati popolari sul Parlamento perché si applichi anche nel Trentino e subito «la legge sul risarcimento danni», che dev’essere il nostro postulato massimo. L’oratore descrive poi brillantemente e provocando frequenti gli applausi della folla, la situazione politica nostrana, come s’è definita nelle adunanze e nella stampa di questi tre ultimi mesi. Il discorso ch’è durato un’ora ed era intessuto di felici improvvisazioni, è stato coronato infine da una grande ovazione. (Ne daremo un cenno più largo prossimamemente. Ndr.) Terminati gli applausi, il presidente ringrazia gli oratori e tutti gli intervenuti e chiude il convegno. I soci sfollano al grido di «Viva il Partito popolare italiano». |
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| 31916-1920
| […] L’on. Degasperi s’introdusse, rilevando che i popolari fin dagli inizi della ripresa politica compresero che la questione centrale era il problema delle nostre istituzioni e delle nostre amministrazioni locali. Rinnovarle e reintegrarle, dopo la rovina causata dalla guerra e prolungata poi dal governo militare, salvarle dalle ondate minacciose della burocrazia invadente e della fiumana centralista, ecco il nostro fermo proposito fin da principio, ecco la battaglia che abbiamo combattuto con qualche fortuna e con logica fermezza. Per questo chiedemmo le elezioni per i comuni, per la rappresentanza provinciale, per il parlamento; per questo diffidammo di commissari straordinari e di corpi consultivi nominati dall’alto. C’era in fondo la convinzione che in questi momenti in cui si rinnova il paese, il popolo sovrano aveva diritto di dire la sua parola. Il primo effetto della liberazione doveva essere quello di divenire padroni in casa propria. Questo diritto chiedemmo per tutti, in modo eguale, senza distinzione di partito. Tuttavia riuscimmo a fatica a trascinare con noi gli uomini d’altra fede politica. Un gruppo di liberali celava a stento le proprie simpatie per un regime provvisorio che spostava artificialmente i valori politici del paese; i fascisti ci accusarono di volere «l’autonomia austriaca», e Bosetti, pur votando per il nostro ordine del giorno, segnalava nel suo organo il «pericolo» di una «troppa autonomia» che ci farebbe schiavi d’un «principotto» o d’un qualche «pidocchio rifatto» invece che dei re (vedi «Contadino», 3 luglio) , mentre i socialisti, pur aderendo ai nostri postulati, si lasciarono distrarre per troppo lungo tempo dall’ammirazione per i soviets per poter dare alla causa autonomistica tutto l’appoggio che avrebbero potuto offrire. Ma l’attentato più grave contro questo sano movimento democratico sostanziato di postulati concreti, doveva essere la «diversione anticlericale» in cui si tentò di trascinare il paese. Il comizio del 27 agosto , in cui tutti i partiti anticlericali invocano lo Stato laicizzatore contro la scuola autonoma, e si reclama la applicazione della legge scolastica, prima ancora che gli elettori abbiano detta la loro parola, ha un doppio intento: quello di minare le nostre autonomie e quello di porre in discussione il problema religioso. Ed eccovi, atorno a questo comizio, i proclami dell’«Italia alpina» per la lotta «contro il cattolicismo e il cristianesimo, la politica cattolica e l’etica cristiana», per «la lotta a morte contro il prete e i suoi accoliti» (Italia Alpina 9 settembre), eccovi la propaganda giovanile dei socialisti i quali insegnano che i furbi cristiani hanno adescato gl’ingenui «colla paura dell’ignoto della vita d’oltre tomba» finché uno dei loro capi, sorprendendo la buona fede di un paesello di campagna, ne dedicherà la piazza principale a Giordano Bruno e farà poi nell’«Internazionale» (6 luglio) l’apoteosi di Meano che «in un fulgidissimo giorno di luglio gettò l’inginocchiatoio, gettò il saio… calpestò atavismi, superstizioni, credenze antiquate e salì a passo fermo e deciso uno ad uno i gradini dell’Umana Ribellione» . Fu allora che la coscienza del nostro paese si riscosse. Gli uomini politici strapparono al governo l’impegno che nulla avrebbe innovato fino a tanto che non venissero convocati i comizi elettorali, i «padri di famiglia» si raccolsero a migliaia in una federazione che, al di fuori di ogni partito, si propone la difesa dell’insegnamento del catechismo, e si piantò in breve tempo una mirabile organizzazione politica popolare di 16 mila soci. Questa energica reazione sconcertò i nostri avversari. Bosetti, che conta sovratutto sui contadini, s’affrettò per il primo ad attenuare il significato del suo intervento al comizio del 27 agosto («Contadino» 4 settembre) , i fascisti rimproverarono all’«Italia alpina» di fare il gioco dei clericali ed i socialisti nel loro recente congresso si vantarono, qualunque siano state le vere ragioni, d’aver espulso Belluta perché massone; anzi Pilati , l’eroe di Meano e dell’Umana Ribellione proclamò a Mezzolombardo d’ambire tra le sue file i buoni cristiani, perché sa che i buoni cristiani sono anche operai onesti. Così la coscienza sana del nostro popolo, reagendo contro gli attentati anticlericali, ha già ottenuto la prima vittoria, quella cioè di costringere gli avversari a contenere, sia pure per ragione d’opportunità, l’impeto del loro anticlericalismo. Ma anche sul terreno economico-sociale il buon senso del nostro popolo reagisce con successo contro la propaganda utopistica o rivoluzionaria. Il bolscevismo parve dapprincipio aver fatto strage anche fra la gente di campagna. La propaganda socialista per l’espropriazione violenta e per la dittatura del proletariato, favorita dalle conseguenze morali ed economiche della guerra, trovava buon terreno, sovratutto quando il dominio militare impediva la pubblica discussione. Chi poteva controllare i panegiristi della Russia e dell’Ungheria? Ma anche su questo terreno la nostra propaganda, che si rinforzava a mano a mano che la predicazione religiosa ravvivava la fede sopita e ristabiliva la morale, ha già ottenuti buoni effetti. Ho voluto intervistare, racconta a questo punto l’on. Degasperi, uno dei nostri giovanotti ritornati recentemente dalla Russia. Vi aveva servito 5 mesi in uno dei reggimenti «internazionali» istituiti a Kiew da ex ufficiali ungheresi per il governo bolscevico. – La libertà? abbiamo chiesto. – La libertà, ci ha risposto, è consistita in questo, che noi prigionieri di tutte le stirpi, ch’eravamo fuggiti da Kirsanoff e volevamo varcare la frontiera per tornare in patria, fummo costretti colla minaccia della fucilazione ad arruolarci nell’esercito bolscevico. Cinque i quali non ne volevano sapere vennero fucilati dai cinesi. – Ci sono dunque i cinesi!, interruppi io che ricordavo la smentita di Flor a Merano. – Altro che esserci, replicò il nostro «bolscevico per forza». Sono i pretoriani dei capi socialisti. Basta, dovetti adattarmi, sperando di poter svignarmela in un momento più propizio. Ma intanto dovetti rimanere sotto le armi dal maggio fino all’ottobre di quest’anno. In ottobre riuscii a varcare la frontiera polacca. – E che cosa avete visto in questi 5 mesi? – Orrori! Prigionieri non se ne fanno. Chi cade nelle mani, ufficiale o gregario, viene trucidato. L’esercito vive di saccheggio. – E i campi si lavorano? – Affatto. Fino che si trattava di espropriare i latifondisti, tutti ci stavano, ma ora che si vogliono espropriare anche i contadini, questi si ribellano. Lavorano quel poco che basta per i loro bisogni ed il resto lasciano incolto. Così regna una grande carestia, perfino nell’Ucraina che prima era ricchissima di viveri. – Insomma che concetto vi siete fatto del sistema comunista? E il nostro campagnuolo risponde concludendo: – Dove che ghe n’è, i tol; ma meterghene arent, nessun ne mete; e così ven distrut tut . A questa conclusione, alla quale i prigionieri, tornati ora dalla Russia, arrivano per trista esperienza, i nostri campagnuoli giungono col ragionamento. Di ciò si sono accorti anche i socialisti trentini i quali nel recente congresso accanto al programma massimo, ne hanno approntato uno opportunistico in vista delle elezioni, nel quale promettono un «provvisorio» ai nostri piccoli proprietari, («Conservazione in via provvisoria di fatto, ma non in via di diritto dell’attuale piccola proprietà», vedi «Internazionale», 5 novembre). È strano che i propagandisti socialisti ritengano che i contadini si rassegnino facilmente a tale «provvisorio»; ma è significativo che i socialisti si vedano costretti a derogare dal caposaldo del loro programma: il comunismo. È anche questa una vittoria del buon senso del nostro popolo. Bosetti già da tempo aveva fiutato l’aere infido. Mentre ancora il 1° maggio vagheggiava l’unione coi socialisti («Lavoratori di tutto il mondo, stringiamoci uniti», gridava Bosetti alla commemorazione socialista sulla tomba di Battisti: vedi il N. unico del 1° maggio), al 7 settembre nel convegno roveretano della Lega dei contadini è già tormentato dal dubbio. A Pompilio Valle che, «in vista del fatto che oggi l’anima di una gran parte della popolazione anche agricola è socialista», domandava «un intimo affratellamento tra la Lega e il Partito socialista», il Bosetti risponde «che la questione è molto delicata» e che «per intanto» non se ne può far nulla. Anche il Bosetti ha dunque il suo provvisorio elettorale. Ora poi sta tentando di ricomparire sotto veste completamente nuova e cerca fiduciari in tutti i paesi per un’organizzazione di classe. E poiché tarda a trovarli, chiede addirittura che si differiscano le elezioni, fino che la sua propaganda sarà finita. (Leggere nel «Contadino» dei 18 m.c. codest’ingenua invocazione in favore dei socialisti-fascisti-democratici, che sarebbero ancora impreparati!). Tutto ciò dimostra, conclude l’on. Degasperi, che gli avversari hanno avvertito che il buon senso del nostro popolo resiste e che la sana coscienza del paese, a contatto col veleno della loro propaganda, ha reagito. |
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| 31916-1920
| Il segretario politico del Partito popolare italiano ha diramato a tutte le sezioni e ai comitati provinciali la seguente circolare per la introduzione della proporzionale nelle elezioni amministrative comunali e provinciali, per l’estensione del diritto di voto alle donne, e per alcuni fondamentali ritocchi alla legge elettorale politica. Richiamiamo l’attenzione dei nostri lettori su questo autorevole ed importante documento. Il Consiglio nazionale del partito nella sua ultima tornata, a proposito delle prossime elezioni amministrative approvava alla unanimità il seguente ordine del giorno: «Il Consiglio nazionale del P.P.I. constata che l’esperimento fatto nelle elezioni politiche del sistema proporzionale risponde, alle attuali esigenze della coscienza civica del Paese; che deve orientarsi verso programmi concreti, che solo nei partiti organizzati possono trovare la più sicura espressione; rileva però le deficienze del sistema adottato e domanda la maggiore ampiezza di circoscrizione, l’abolizione del voto aggiunto e della busta, e l’adozione della scheda di Stato con l’ordine di lista fissato dai rispettivi partiti; domanda l’immediata applicazione del voto alle donne, già deliberato dalla Camera dei Deputati nella passata legislatura; domanda pure l’immediata applicazione del sistema proporzionale nelle elezioni amministrative provinciali e comunali, almeno nei comuni capoluoghi di provincia e di circondario e in quelli non capoluoghi che abbiano una popolazione notevole; e che le elezioni amministrative generali debbano avvenire in seguito a tali provvedimenti; delibera intanto di iniziare una agitazione nazionale, e di invitare il Gruppo parlamentare a farsi promotore alla Camera di apposito progetto di legge». Nel darne partecipazione ai Comitati provinciali e alle Sezioni del Partito popolare italiano, si richiama tutta l’attenzione degli organizzati per una propaganda atta a formare una coscienza generale rispondente alle tre richieste contenute nel deliberato e riferibili alle prossime elezioni amministrative: a) applicazione della proporzionale alle elezioni amministrative provinciali e comunali; b) estensione del voto alle donne; c) modifica del sistema dei voti aggiunti e preferenziali e abolizione della busta. Le obiezioni che si muovono all’applicazione della proporzionale alle elezioni amministrative provinciali e comunali sono di varia natura. Anzitutto, ed è ripetuto sui giornali liberali, si dice che la proporzionale nelle elezioni politiche abbia fallito allo scopo; e quindi non deve estendersi nelle elezioni amministrative. Il rilievo è privo di reale fondamento: perché l’esperimento della proporzionale è servito intanto ad incanalare correnti politiche più forti e rispondenti ad uno stato della coscienza collettiva, e a darvi la rappresentanza legittima; ha costretto inizialmente i partiti non organizzati ad assumere un contenuto programmatico e a rilevare una specificazione, che i nomi e le persone per sé non potrebbero dare; ed ha tolto la sperequazione di maggioranze fittizie e sopraffattrici. I difetti dell’attuale legge politica sono dovuti, in gran parte al congegno scelto ed anche alla poca preparazione collettiva. Insistendo nel sistema, si delineerà ancor meglio la ragione dei partiti, e la loro organica vitalità, i partiti fittizi e inorganici cadranno; è il loro destino, mancando di funzione precisa. Altri osserva che applicando il sistema proporzionale ai comuni e alle provincie, non si riuscirà, nel frazionamento delle rappresentanze consigliari a formare un’amministrazione stabile e sicura. L’obiezione sembra forte ma non lo è. Nelle grandi città e nelle provincie le frazioni di partito anche oggi esistono; o si uniscono nei blocchi elettorali, o formano in seno ai consigli stessi, i blocchi di amministrazione. Col sistema della proporzionalità il corpo elettorale esprime il suo voto più chiaramente, più sinceramente; gli eletti hanno mandati più precisi; e le combinazioni amministrative si potranno tentare sul terreno dei contatti dei partiti organizzati e dei loro esponenti. Invece i blocchi elettorali fatti per la conquista delle maggioranze oggi non sono destinati a reali successi anzi si infrangono per la diffidenza delle masse organizzate, per le difficoltà di avvicinare sul terreno elettorale uomini e partiti organici insieme a consorterie inorganiche e parassitarie. La difficoltà maggiore potrebbe essere quella di applicare il sistema proporzionale ai comuni che avranno un numero troppo limitato di consiglieri assegnati. Per quanto ciò non sia per noi proporzionalisti una difficoltà insormontabile, si potrebbe eccezionalmente mantenere per i piccoli comuni il vigente sistema delle maggioranze limitate. Il Partito popolare italiano crede che al risanamento della vita locale, alla formazione della coscienza amministrativa a dare maggiore responsabilità agli eletti, e a costituire attorno ai comuni saldi partiti di programmi e di idee, occorre l’applicazione della rappresentanza proporzionale con le opportune modifiche. È superfluo insistere nell’estensione del voto alle donne anche per le prossime elezioni. Il Gruppo parlamentare del nostro Partito a mezzo del suo segretario On. Micheli, ha già ripresentato il progetto alla Camera dei deputati e occorre mostrare al Governo e al Parlamento la decisa volontà di ottenere il riconoscimento immediato di tale diritto da parte delle donne italiane. Infine è ormai convinzione generale che l’attuale sistema dei voti preferenziali e dei voti aggiunti debba modificarsi, e che debba abolirsi la busta, e su questo argomento sarà bene interessare le nostre assemblee. Prego di segnalarmi i voti che in proposito saranno emessi dai comitati e dalle sezioni del Partito, voti che debbono essere trasmessi al presidente del Consiglio dei Ministri. Desidero che si intensifichi con riunioni, comizi e conferenze l’opera di propaganda, perché il Partito popolare italiano deve affermarsi vigorosamente su questa rivendicazione della vita comunale e provinciale. Ricordo che la Commissione reale per la riforma dei comuni e delle provincie votò la proporzionale per le elezioni amministrative e redasse analogo progetto: e che a Trento è già stata applicata fin dal 1913, che fin dal 1914 alla Camera, l’on. Meda si fece eco del pensiero proporzionalista, anche nella vita amministrativa, e che l’associazione dei comuni questa riforma che oramai è matura. |
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| 31916-1920
| Mille novecento e diciannove, anno di transizione faticosa. Avremmo voluto, per usare una frase d’Agostino, divorare il tempo ed essere divorati da lui. Ai primi di gennaio, Wilson trionfante compare alla frontiera italiana. Passate rapide, o giornate di Parigi, su, sbrigatevi, o diplomatici di Versailles, il mondo ha sete di giustizia ed ha bisogno di pace. Ah, la pace! Quando sarà firmata la pace, vi rispondono i governanti, avrete il disarmo; quando sarà firmata la pace, vi dicono i negozianti, i prezzi scenderanno; quando verrà la pace, vi assicurano i burocratici, l’amministrazione si rimetterà in ordine. I prigionieri siberiani, i profughi sparsi per l’Austria, gl’internati ad Isernia o in Sardegna? Ritorneranno a pace firmata. I vostri crediti, i vostri depositi, le vostre pensioni? A pace conclusa, tutto sarà rifuso, tutto pagato. I danni di guerra? È con la pace che verrà applicata la legge per il loro risarcimento. E dalla firma della pace dipende l’annessione, dall’annessione le elezioni e colle elezioni viene la ricostituzione della provincia, il rinnovamento dei comuni. Colla pace cadono sovrattutto le barriere commerciali. Si riprendono i traffici, si rimettono in movimento i motori delle fabbriche, cresce la produzione, diminuisce il rincaro, si ristabilisce l’agiatezza. Ritorna insomma la vita normale dell’anteguerra. Milioni di braccia si protendono perciò verso Parigi, milioni di cuori sospirano l’indomani. Avremmo voluto divorare il tempo ed essere divorati da lui. Passarono così i primi mesi di quest’anno in un’ansiosa aspettazione della grande aurora liberatrice. Ora sappiamo che quell’aurora era la fata morgana del deserto. Non è vero che la ricostruzione del mondo nuovo parta da quella data o da una data qualsiasi; non è vero che la vita riprenda il suo ritmo come ad un colpo di bacchetta dei direttori d’orchestra di Parigi. È inutile che cerchiamo la salvezza fuori di noi. Essa è dentro di noi. Il mondo si rinnova, solo se si rinnovano gli uomini. Bisogna rifare la propria coscienza, ritemprare le proprie energie, ricostituire il proprio senso morale, far rinascere nel proprio spirito il senso del dovere, l’amore all’ordine, la volontà del lavoro. Molti se ne sono già accorti. Quando sopraggiunsero le delusioni della pace, le braccia vennero lasciate cadere, i cuori si restrinsero. Troppe di quelle braccia tornarono a levarsi in atto di minaccia, troppi di quei cuori si accesero di passioni e di vendetta. Molti però di quegli ansiosi dopo il primo disinganno, si ripiegarono su sé stessi e presero, ciascuno per conto suo, la decisione di riguadagnare il proprio cammino. Riguadagnarono così il tempo perduto. Se tutti o se i più li avessero imitati, la pace sarebbe già tra noi. Ciò vale anche per l’attività pubblica. Nel Trentino si è ricominciati a vivere, quando si è tornati a fare da sé. La nervatura di questo paese si rifà, perché risorgono le associazioni, le rappresentanze comunali, le scuole, le chiese. Questo corpo, incurvato sotto il peso della guerra, si solleva lentamente con lo sforzo dei propri muscoli. Eccolo qui il principio morale della nostra campagna autonomistica. Chi vi ha visto semplicemente un problema istituzionale, si è fermato alla superficie. C’era e c’è in fondo l’appello a tutte l’energie indigene, il richiamo di tutto l’orgoglio d’indipendenza della stirpe nel suo particolare «genius loci». Su, in piedi! abbiamo gridato in marzo al primo congresso dei comuni che fu in quell’epoca grigia di scoramento e di semiparalisi il primo atto solenne di volontà. E questo grido fu ripetuto poi cento volte, in diverse maniere. Uomini piccini quelli che v’hanno scorto un calcolo di partito. La voce usciva dallo speco più profondo della nostra storia, come le nostre acque sgorgano dalla roccia più antica e più remota. Oggi pure, al finire di un anno che ha divorato il tempo senza aprirci la porta della nuova era – e credevamo d’essere sulla soglia! – la voce risuona ancora, più imperiosa che mai. Bisogna tendere i muscoli, serrare le mascelle, concentrare gli sforzi e prodigare le energie e la fatica. «Noi», sempre «noi» saremo i primi fattori del nostro risorgimento. Chi dubita, chi dispera qui ancora delle proprie forze? Guardate a Rovereto voi, querimoniosi Amleti. Chi più della bella città del Leno, che piangemmo morta, si trovò tra l’essere e il non essere? Guardate Mori, Marco, Telve, Strigno, Roncone e tutti i comuni distrutti, con qual sforzo ed a prezzo di che stenti e che fatiche risorgono. Se c’è qualcuno che dubita della razza trentina, gli diamo appuntamento in uno di questi villaggi. Ricostruiamo le case, rifaremo anche il nostro benessere. Il trattato di S. Germain ci ha lasciato tutto da fare. Abbiamo atteso invano che i diplomatici ci rimettano in ordine i nostri affari coll’Austria. Bisognerà tornare a pensarci noi, pensare alle nostre finanze, alla nostra amministrazione autonoma, a fare l’inventario ed a chiudere le partite. Ma fede ci vuole nelle proprie forze, e concordia! L’ardore dei giovani e l’esperienza dei vecchi devono stringere alleanza. Ogni iniziativa che ridesta le energie sane, ogni istituzione che può valorizzarle, vanno accolte con plauso ed appoggiate. Di questi giorni taluno ha detto e scritto che il consiglio comunale di Trento deve sciogliersi, perché non si dia più oltre lo spettacolo di un collaborazionismo liberale-clericale. Sono frasi d’importazione, idee piccine in un momento grande. È vero, il municipio di Trento non è stato in quest’anno un’officina ove il maglio del paese abbia battuto il tempo alla canzone del suo risorgimento, come si converrebbe alla capitale. Là dentro si soffre alquanto di marasma. Il ringiovanimento s’impone e verrà. Ma fino a tanto che non può venire, abbandonare il campo è viltà, è diserzione. Si è chiesto dappertutto l’autonomia, e per le insistenze dell’opinione pubblica, si ricostituiscono le rappresentanze comunali; e Trento, prima città con proprio statuto , farà getto con tanta facilità dei propri diritti e si rifiuterà di procedere coll’esempio nel lavoro di restaurazione? Attenti a’ mai passi. Non è un partito che si decapita; è la decapitazione della capitale. Poiché badate: noi col nostro richiamo alla coscienza individuale e col rilevare la necessità della riforma interiore, non abbiamo voluto svalutare l’opera delle istituzioni. Abbiamo solo ristabilita la scala dei valori. Riformato l’uomo, bisogna rinnovare l’amministrazione pubblica, i pubblici servizi, il governo del Comune, della Regione, dello Stato. Abbiamo incominciato in quest’anno la lotta contro gli abusi e il disordine della burocrazia. Questa campagna dev’essere continuata con vigore, parallelamente alla lotta per l’autonomia. È il migliore contributo che possiamo dare alla nazione. Abbiamo premuto con tutte le forze sul governo e sul parlamento, perché provvedano al nostro assetto definitivo. La pressione va aumentata fino all’ultima atmosfera, di cui è capace il nostro paese. Sono momenti decisivi, bisogna tenerci coi denti. Dicendo così, abbiamo tracciato anche il programma del nostro giornale per l’anno nuovo. Come vi abbiamo corrisposto in quello che tramonta, diranno i lettori. Per i quali aggiungiamo qualche confessione di fine d’anno: sappiamo di non averli accontentati tutti e d’averne accontentati molti solo a mezzo. Tra questi ultimi ritroviamo noi stessi. Anche noi rimpiangiamo gli articoli ossigenati di cristiane ideologie che apparvero in altri tempi su queste colonne; anche noi ci piace rammemorare lo stile battagliero di certe apologie e riaccendere la memoria al fuoco di vivide e vittoriose polemiche. Né quella penna è spezzata, ed il fuoco cova ancora sotto alla cenere. Ma l’animo nostro ha dovuto accogliere in questo periodo l’impressione del tempo. Il disastro economico, il disordine sociale, la crisi della vita politica hanno imposto al giornalismo funzioni speciali. L’amore al nostro paese, il senso di responsabilità aumentato per il cresciuto contatto colle complesse realtà dell’ora presente, la sensazione che nessun riguardo è troppo quando in sì gravi momenti serva ad evitare qualsiasi dispersione di quelle forze che sono tanto necessarie alla patria, possono talvolta avere imposto a noi ed ai nostri collaboratori dei limiti che a taluno sembrarono forse ristretti. Crediamo tuttavia che i riguardi all’ora che corre non ci abbiano mai fatto subire dei mancamenti rispetto alla verità ed ai principi generali che ispirarono sempre l’opera nostra. Per certo almeno tutti i lettori concederanno al «Trentino» d’aver visto chiaro nei problemi complessi che agitarono quest’anno il nostro paese e d’aver detta anche a tempo debito la sua parola. Comunque ricordiamo il versetto del Salmista: Exibit homo ad opus suum et operationem suam usque ad vesperum… |
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| 31916-1920
| Se la censura non fosse, a Trento come in ogni luogo affetta da quella caratteristica e insanabile ingenuità che tutti conoscono, si sarebbe dovuta risparmiare la briga di sopprimerci, nel giornale di sabato, parte delle nostre considerazioni intorno al decreto che stabilisce il cambio della corona al 40 per cento [righe censurate] . |
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| 31916-1920
| Protestiamo con tutta l’energia contro una censura la quale ci sopprime ogni parola di difesa degl’interessi del paese. Reclamiamo la libertà di criticare disposizioni che ci sembrano errate ed ingiuste e d’invocare gli opportuni rimedi. Chiediamo per noi italiani il riconoscimento della stessa pienezza di diritto che poterono esercitare i pubblicisti czechi e slovachi nella critica del piano finanziario del ministro Rasin . Di tale critica la repubblica non patì detrimento ma se ne avvantaggiò il ministro per adattare il suo progetto a più equi criteri di giustizia distributiva. Siamo noi da meno degli slovachi? La coscienza nazionale del nostro popolo è forse meno sicura da temere ch’esso confonda la riprovazione d’un atto qualsiasi dell’autorità con un minore attaccamento alla nazione? Lasciateci la libertà di provare anche in confronto dei tedeschi che ci stanno guardando, che la nostra redenzione politica non significa passaggio da un dominio ad un altro dominio; ma liberazione da una signoria per venir assunti in una famiglia di fratelli e d’uguali, per i quali l’affetto della Madre comune è convincente ragione d’ordine, ma non impedimento alla piena difesa dei propri diritti. |
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| 31916-1920
| I giornali del Veneto hanno pubblicato una lettera del ministro Raineri, il quale comunica quanti milioni il governo ha deciso di mettere a disposizione per l’opera di ricostruzione nelle cosiddette «Terre liberate». Si tratta, come abbiamo già riferito, della somma complessiva di 1 miliardo e 250 milioni, di cui 600 milioni vennero assegnati dal Ministro all’istituto federale veneto per gli anticipi ai danneggiati, 200 milioni vengono messi a disposizione degli agenti di finanza per la liquidazione, 400 milioni vengono attribuiti al comitato di Treviso per le opere pubbliche e 50 milioni rimangono a disposizione del «Ministero per le terre liberate» per anticipi o sussidi a consorzi, enti locali e cooperative, onde combattere la disoccupazione. Si tratta naturalmente di un bilancio preventivo e gli’importi non vengono liquidati globalmente, ma a mano a mano che se ne avrà bisogno. Così p. e. si sa che l’istituto federale veneto avrà a disposizione 50 milioni al mese. Il ministero del Tesoro tende, com’è la funzione sua, a distribuire i milioni preventivati sul numero maggiore possibile di mesi, per la ragione semplice ed intuitiva, che il Parlamento si mostra ora disposto ad autorizzare la spesa, ma non provvede ancora al coprimento. È noto che a Roma si pensa di lanciare un prestito di 4 miliardi per la ricostruzione; ma questo non è davvero il momento propizio per emettere prestiti! Comunque non è di queste cure che abbiamo incarico. Vediamo piuttosto che cosa abbiamo da dire in proposito con riguardo alla nostra regione. Come si vede, il Ministero è venuto incontro al desiderio della deputazione veneta, la quale insisteva da tempo perché alle erogazioni saltuarie e del caso per caso si sostituisca un certo piano organico di finanziamento, in modo che i lavori potessero procedere senza scosse e che l’opinione pubblica potesse godere una certa tranquillità. Si è incominciato col dotare l’istituto federale veneto, il quale ha già consumato 400 milioni di altri 600 milioni. L’istituto, com’è noto, è la banca per gli anticipi sui danni non ancora liquidati: esso riceve i danari dal Tesoro in prestito all’1 per cento e li anticipa ai danneggiati al 3 per cento. Si sono poi accantonati 200 milioni per la liquidazione dei danni già accertati dagli agenti di finanza e che quindi sono maturi per il pagamento. Si capisce – sia detto di passaggio – che la liquidazione procede assai lenta, se per un periodo certo notevole non si preventivano più di 200 milioni. Una partita forte è invece quella di 400 milioni assegnati al comitato di Treviso per le opere pubbliche. Il comitato di Treviso è un organo governativo di ricostruzione colle funzioni di genio civile; dovrebbe avere il compito di ricostruire le opere pubbliche come case comunali, scuole, chiese ecc. ma è notorio invece che questi fondi sono destinati in gran parte alla cosiddetta «azione ricovero», cioè alla ricostruzione di case private che possano servire per più famiglie. Si continua cioè sotto questo titolo l’opera del genio militare che anticipava il risarcimento danni in natura, costruendo a proprie spese le case private. Ora c’entra o non c’entra il Trentino, ossia la Venezia Tridentina, in queste impostazioni? Ecco una domanda precisa che gl’interessati e l’opinione pubblica rivolgono al commissariato generale. Bisogna che una volta tanto otteniamo una risposta chiara ed esauriente. Purtroppo essa si può indovinare. È evidente intanto che il comitato di Treviso non ha nessun incarico per il Trentino e che quindi dei suoi 100 milioni a noi non arriverà un centesimo. È anche chiaro che gli agenti di finanza del Veneto liquideranno i loro 200 milioni in casa propria, e già colà risuonano voci di lagno perché son pochi. Qualche dubbio può sorgere circa la dotazione dell’istituto federale. È risaputo che il nostro consorzio dei comuni benché a malincuore, si è indotto negli ultimi tempi a trattare coll’istituto veneto, firmando una convenzione, per la quale l’istituto veneto avrebbe dovuto passare al nostro consorzio gl’importi necessari per gli anticipi, verso la corresponsione di mezzo per cento. L’istituto veneto non fa in questo caso che il trasmettitore dei fondi governativi, rincarandoli del mezzo per cento. Tuttavia il consorzio aveva finito col capitolare, visto che a Roma non c’era altro verso di far danari e che d’altro canto l’istituto veneto s’impegnava di tener conto nella distribuzione delle erogazioni di un’equa proporzione, assegnando al Trentino, corrispondentemente ai danni, una quota del 22.5% del totale. Oggi quindi si può chiedersi: dei 500 milioni quanti verranno assicurati per il Trentino, o per dirla più praticamente: dei 50 milioni mensili che avrà a disposizione l’istituto veneto riceverà il consorzio trentino il suo 22 per cento? A Trento non se ne sa nulla. La convenzione non è ancora operativa; gli affidamenti sono scarsi, le esperienze purtroppo scoraggianti. Noi crediamo che si debba tornare al programma primiero e insistervi con tutta l’energia. Altre volte, quando abbiamo insistito nello stesso senso, al Commissariato ci si è risposto di lasciar andare, di badare ai fatti: che intanto i danari venivano tutti i mesi e ch’era indifferente se esisteva o meno un preventivo assicurato per un certo periodo. Ora però ci pare che a scanso di dolorosi equivoci per l’avvenire sia giunto il momento di mettere le cose in chiaro. Presto o tardi, per quanto riguarda la ricostruzione, anche le nuove provincie passeranno al ministero delle Terre liberate; e se non passano il nostro ragionamento vale per un altro verso. Bisogna dunque per entrambi i casi che compaia nel bilancio dello Stato, cioè nel bilancio della Presidenza del Consiglio o in quello delle Terre liberate un certo piano di finanziamento anche per la ricostruzione nostra. Tanti milioni al Genio civile per le opere pubbliche e l’azione ricovero. Tanti milioni alla Direzione di finanza per la liquidazione dei danni accertati. Tanti milioni per anticipi alle cooperative, consorzi, comuni ecc. per ovviare ai ritardi causati dalla liquidazione contabile del genio civile. E sovratutto tanti milioni al Consorzio dei comuni per gli anticipi. Che bisogno c’è che questi ultimi danari dello Stato passino per Venezia, quando è sorto a Trento un istituto per cui garantiscono la provincia e i comuni? Che bisogno c’è che i danari dello Stato vengano rincariti del mezzo per cento, perché invece che arrivare direttamente da Roma, devono fare il giro di Venezia? Di queste ed altre questioni bisogna ora venire in chiaro. Ne venne già parlato anche al Ministro del Tesoro; ma qui è tutto un problema organico ed amministrativo che deve venir risolto. Solo che bisogna anzitutto che il paese sia d’accordo sul da farsi. Che dire p. e. di quei rappresentanti del socialismo trentino i quali intruppatisi recentemente coi delegati «delle leghe di resistenza e del P. S. I. delle Venezie» si recarono a Roma, agli ordini degli on. Musatti , Todeschini ecc. a minacciare nientemeno che la rivolta armata se il Governo non concedesse una posta di 100 milioni per lavori pubblici (dalla relazione dell’Internazionale dell’altro ieri è impossibile ricavare di qual posta veramente si tratti) divisi così: 70 per il Veneto, 20 per la Venezia Giulia, 10 per la Venezia Tridentina? Ma com’è possibile che si minaccino le misure più estreme, per ottenere una proporzione che sarebbe per noi un’iniquità? Nel campo delle cifre specie quando queste cifre riguardano la zona distrutta, non ci hanno da essere né superficiali esperimenti di partiti né concorrenze di campanile. Mettiamoci una volta ben in testa: prima bisogna essere concordi su quello che s’ha da chiedere, poi bisogna esigerlo con tenacia e con concordia! Fuori di questa tattica non c’è salute! |
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| 31916-1920
| Nessuna opposizione ai salari ed all’orario – Protesta contro la sovrimposta del Sindacato – Perché Flor vorrebbe inscenare uno sciopero generale «Vigilate, o lavoratori tutti, vigilate sugli emissari del pipi che vi si presentano per tradire il vostro contratto di lavoro, le vostre conquiste. Ammoniteli con calma e serenità a smettere il loro mestiere di “Giuda” del proletariato, e se ciò non giovasse siate contro i nostri traditori senza riguardi e trattateli come si conviene pur di impedire il loro tradimento a vostro danno». FLOR nell’Internazionale di ieri. La nostra campagna contro l’atto di brigantaggio sociale tentato dal signor Flor nelle trattative per gli edili ha scossa la sovrana serenità di codesto aspirante al «commissariato del popolo». Durante la discussione del contratto egli ci ha completamente ignorati e quando i delegati delle nostre cooperative di lavoro e degli operai organizzati dalle associazioni bianche si sono presentati in sede di trattativa per dire la loro opinione su di un contratto che riguardava anche i loro interessi, egli ha protestato, ha negato loro il diritto d’interloquire e colla connivenza di un’autorità politica debole ed incosciente, è anche riuscito a farli uscire dalla porta. Ora che i nostri amici dichiarano di non voler lasciarsi imporre un contratto, discusso e firmato da una parte sola senza il loro intervento, egli perde le staffe e grida al tradimento, quasi che si possano tradire impegni che non si sono presi e che anzi non si è voluto venissero presi. Ma evidentemente il Flor sperava che come era riuscito alle sue arti di ricattare l’appoggio e la sanzione dell’autorità, così gli sarebbe riuscito d’imporre di fatto dappertutto il contratto suo, e a padroni e a operai. Ora il nostro grido d’allarme, il nostro rifiuto di riconoscere le sue impostazioni lo sconcertano e lo fanno andare in bestia. Nell’Internazionale di ieri, ci gratifica d’improperi, ci minaccia di finimondo ed eccita gli operai ad usare violenza contro i nostri propagandisti. Vana fatica, signor Flor. Noi e gli amici nostri non abbiamo nessuna intenzione d’imitare in suo riguardo gli organi governativi. La ragione è una sola ed è tutta dalla parte nostra, e la sosterremo fino all’ultimo. Per quanto egli tenti di confondere la partita, o d’invertire i termini della questione essa è troppo chiara, perché la verità non si faccia strada. E la verità è questa. Nessuna obiezione contro le clausole economiche Il contratto del sindacato edile si compone essenzialmente di due parti: la prima contiene le clausole economiche cioè il salario e le ore di lavoro. Contro queste clausole noi non abbiamo sollevato alcuna eccezione. Già nella prima fase delle trattative, quando era in discussione il prolungamento del contratto di Trento, il nostro Consorzio delle cooperative e l’Unione del lavoro scrivevano al Magistrato civico, quale intermediario nella trattativa e al Flor stesso che le nostre organizzazioni non si opponevano alla proposta tariffa che anzi le Cooperative bianche la avevano già adottata quale base dei loro contratti col genio civile. Su questo dunque non si può sollevare onestamente alcun dubbio, come non è vero che ci siamo dichiarati contro le 8 ore. Se qualche gruppo d’operai o qualche Cooperativa ha espresso il desiderio di poter lavorare di più, ciò corrisponde alla lettera ed allo spirito del contratto del sindacato edile stesso, il quale ammette che in via eccezionale ciò possa venir concesso. Le clausole politiche Ma nel contratto Flor è contenuta una seconda parte, costituita da clausole politico-sociali. Queste clausole tendono ad imporre: 1) che gli operai debbano venir assunti solo a traverso l’ufficio di collocamento del sindacato rosso; 2) che gli scioperi politici e la partecipazione a scioperi generali debbano venir tollerati, senza che li si possa calcolare come infrazione del contratto; 3) che una data percentuale sui salari debba venir trattenuta a beneficio del Sindacato socialista. Contro queste clausole di carattere politico noi siamo insorti e per queste clausole oltre che per aver trascurate le organizzazioni bianche, venendo meno così al proprio dovere d’imparzialità, abbiamo protestato contro gli organi governativi. E contro queste clausole la nostra protesta deve venir mantenuta perché è legittima, doverosa, sacrosanta. Essa non contiene nulla che leda gl’interessi degli operai, a qualunque partito appartengano. Libertà per tutti Se sono socialisti, se sono organizzati dal sindacato edile, essi siano pienamente liberi di cercare il collocamento per mezzo dell’ufficio del sindacato stesso; ma identica libertà va riservata e garantita a quegli operai che sono organizzati in altre associazioni o non sono organizzati affatto, di ricorrere cioè per il collocamento a quell’ufficio in cui hanno maggior fiducia o di cercarsi lavoro direttamente da per se stessi. Chi cerca d’imporre un tale monopolio per il collocamento, lo fa per sfruttare quest’ufficio a scopi di partito; i padroni che accettano tale formula si fanno complici d’una lampante coartazione della libertà e i funzionari governativi che si prestano a far accogliere e sanzionare simili clausole tradiscono il loro dovere di tutori della libertà e del diritto comune. Che dire poi del diritto allo sciopero politico che il contratto vorrebbe previamente garantito? Lo sciopero politico è un atto rivoluzionario che potrà essere in qualche caso particolare spiegabilissimo e se circostanze specialissime vi concorrano, anche degno di venir considerato con indulgenza. Ma è assurdo ed immorale che un contratto collettivo impegni in antecedenza datori del lavoro e autorità politiche a concedere la sanatoria ad ogni sciopero politico, venga esso proclamato per simpatia a Bela Kuhn o a Lenin o addirittura come manovra della rivoluzione sociale. Se Silvio Flor vuol tentare la rivoluzione comunista e la tenti, ma non pretenda d’imporre un contratto il quale gli garantisca che facendo la rivoluzione non rischia nemmeno una giornata di salario. La quota per la cassa socialista Più grave, perché più densa di pratiche conseguenze è la terza clausola, quella della trattenuta sui salari in favore della cassa del sindacato socialista. Essa vuol dire in pratica che tutto un organismo ufficiale, qual è quello delle casse ammalati dovrebbe servire per prelevare sugli operai e sui padroni una tassa in favore di un organizzazione di parte. Ne verrebbe che come accade delle trattenute per le casse ammalati, la tassa passerebbe al sindacato, senza che gli operai se ne accorgessero, con un certo ritmo automatico, qualunque sia l’idea dell’operaio e qualunque sia l’operaio che nella fluttuazione del mercato, capiti a lavorare presso quella data impresa. Anche qui noi diciamo: libertà per tutti. I soci del sindacato edile paghino direttamente la quota che credono alla loro società, i soci d’un’altra organizzazione pensino per la loro e chi non è organizzato sia libero di non pagar niente. Il Flor ci accusa qui d’aver errati i calcoli, perché le trattenute della percentuale si farebbero non sull’ammontare dell’intero salario, ma su quel tanto di salario che forma la base della trattenuta per le casse ammalati, cioè dice, su circa 10 lire al giorno. Non siamo in grado di controllare questo dato, ed osserviamo ad ogni modo che ciò non risulta dal tenore dell’art. 12 del contratto di Trento o di Borgo. Ma comunque sia, rimane sempre la questione di principio, Flor si difende allegando che infine, non si tratta di contributi che vadano al fondo di partito, ma del Sindacato, il quale in compenso offre agli operai la sua protezione, la consulenza giuridica gratuita ecc. Sta bene, il fatto che di questi danari dispone a suo talento il sindacato e questo basta perché sul loro uso apolitico siano legittimi i più gravi dubbi, giacché è notoria l’alleanza (come la chiamano loro ufficialmente) delle società di mestiere col partito politico socialista. Ma oltre a ciò, la protezione, la consulenza ecc. ecc. non sarebbe pagata piuttosto cara? Flor calcola che su ogni 100 lire di salario debbano versarsi alla cassa del sindacato 0.62 centesimi. Una imposta addizionale sulla ricostruzione Ebbene anche pretendendo per base la quota ridotta che ammette il Flor e, calcolando solo 240 giornate lavorative per anno, il Sindacato in base al contratto incasserebbe per i soli 4000 edili del distretto di Tione un 120 mila lire all’anno di cui 2/3 a carico degli operai. Aggiungasi che anche la metà della trattenuta per la garanzia del contratto dovrebbe ricadere alla fine del periodo stabilito nella cassa del Sindacato. Sono altre 60 mila lire, in tutto 180 mila lire alla cassa del sindacato per la protezione, consulenza ecc. Pare al Flor che tutto questo sia un’inezia? Si tenga presente poi che il distretto di Tione è piccolo, che vi sono ancora gli operai di Rovereto, Riva, Trento, e sovratutto i 12 mila edili della Valsugana e poi ci si accusi di esagerazione se abbiamo scritto che la quota del Sindacato – se andasse secondo le mire dei socialisti – dovrebbe sorpassare il milione! Per la cassa di disoccupazione Ben s’intende invece che non siamo contrari ad una trattenuta in favore della cassa contro la disoccupazione. L’istituzione di tali casse sarebbe dovuta avvenire in Italia in base ad un decreto andato in vigore il 1 gennaio. In realtà però il decreto rimase anche nelle vecchie provincie lettera morta o quasi, cosicché recentemente il ministro Labriola annunziò alla Camera che avrebbe presentato un progetto di legge per una più pratica e più attuabile organizzazione di tali casse. In attesa che tale legge vada in vigore è ottima cosa che intanto si accantonino degli importi che formino un fondo contro la disoccupazione involontaria. Ma tale fondo dev’essere amministrato sotto il controllo dell’autorità pubblica e deve poi venir usufruito a seconda di quanto stabilirà la legge. Questo abbiamo chiesto fin dall’inizio della nostra campagna e si deve ad essa se il Commissariato generale ha aperto gli occhi ed ha emanata una circolare nella quale è stabilito che gli importi da pagarsi in forza dell’art.12 del contratto edile debbano venir versati su di un libretto vincolato e tenuti a disposizione fino all’entrata in vigore della legge sulla disoccupazione e poi impiegati secondo le norme della legge stessa. Il signor Flor finge di far buon viso a questa circolare, vantandosene quasi come di conquista sua. Ma allora perché insistere tanto sulle clausole dell’articolo 12, quando la circolare, interpretata a dovere, esclude che i denari possano andare a finire, anche per la sola quota prevista, al Sindacato e vuole invece che tutte le trattenute vengano accantonate per formare il fondo contro la disoccupazione? O intende il Flor di equivocare anche su questo? Questo è oggi lo stato delle cose, queste le ragioni della nostra opposizione al contratto del signor Flor. Che se questi per giustificarsi si richiama all’esempio delle vecchie provincie, noi gli rispondiamo che tale richiamo non fa effetto, perché in qualche vecchia provincia l’egoismo padronale che non pensava se non a impedire la sciopero, unito all’insipienza delle autorità governative ha permesso ai rossi ben altri atti di brigantaggio sociale (li chiamiamo così, usando la terminologia del Nowicov) ma nel caso concreto possiamo anche rispondere che nel contratto della federazione edilizia di Milano ed in quella di Brescia, contratto firmato dalla Camera del lavoro e dall’Unione del lavoro assieme, nessuna clausola è contenuta che conceda alla cassa del Sindacato i contributi che Flor vuole gli vengano riservati nel Trentino. Un ultimo accenno: l’«Internazionale», vorrebbe descriverci come alleati delle imprese edilizie. Ma qui ci sono dei fatti troppo evidenti in nostro favore. I fatti sono le Cooperative sorte in buona parte per nostro impulso, le quali tendono precisamente a sostituirsi alle imprese. Il Sindacato rosso invece sembra accordarsi volentieri colle imprese, purché paghino quella certa quota. Chiaro? Dopo ciò vedano gl’interessati, vedano gli uomini che hanno la testa a posto quale scopo, quale fondamento potrebbe avere uno sciopero generale edile che il Flor minaccia di proclamare per lunedì prossimo qualora non venga firmato il suo contratto nel distretto di Tione. Sarebbe un nuovo delitto contro gli operai ed un tradimento contro la causa dei profughi rimpatriati che attendono la ricostruzione delle loro case. Le agitazioni in Giudicarie Come ci si telefona da Tione, la situazione è stazionaria. Nella maggior parte dei paesi si lavora. Ieri, e ier l’altro ebbero luogo delle conversazioni fra i delegati del consorzio delle cooperative, rispettivamente dell’Unione del lavoro, D.r Carbonari , Molino, avv. Savorana da una parte e il rappresentante della federazione edilizia e del Sindacato edile dall’altra. Fu rilevato che cooperative ed organizzatori nostri sono pienamente d’accordo coi socialisti riguardo ai salari ma non riguardo alle clausole politiche. Da parte socialista venne proposto che la trattenuta del Sindacato venisse passata per la quota parte dei suoi organizzati all’associazione bianca: ma i nostri si dichiararono contrari ad imporre per contratto una trattenuta a favore delle associazioni, qual si sia il loro colore. L’Unione del lavoro ha presentato in commissariato un abbozzo di contratto che deve servire per le trattative, pregando il commissario d’invitare tutti i datori del lavoro, le cooperative o le associazioni sindacali, di qualunque colore ad intervenire a discuterlo. Pare che il convegno si possa fare domenica. Auguriamoci che si possa trovare un pieno accomodamento. |
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| […] Come rileverete, anche la relazione passa sopra senza dir parola sulla questione territoriale, rifiutando, evidentemente per proposito preso, di dir qualche cosa di preciso sui confini dei territori annessi. Fino a prova in contrario si può quindi interpretare che intendasi annessa anche la Venezia Giulia, salva la fissazione del confine orientale. La relazione però toglie ogni dubbio sugli «atti successivi» dell’art. 3. Sono qui intese le convenzioni che riguardano il confine settentrionale per cui si rettificò la frontiera intorno a Tarwis. L’art. 4 che autorizza il governo del Re a pubblicare lo Statuto e le Leggi del Regno venne copiato letteralmente dalla legge d’annessione del Veneto. Dal 66 in qua nessun mutamento. E poi accusano Giolitti di bolscevismo! Si confronti quest’articolo coll’art. 6 del disegno di legge sul passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace, presentato in Senato da Nitti il 5 dicembre 1919, il quale articolo diceva che le leggi politiche, finanziarie, penali e amministrative verranno pubblicate «con le modificazioni ed aggiunte che siano necessarie» e «provvedendo inoltre alla convocazione degli elettori per la costituzione dei corpi amministrativi e delle rappresentanze politiche», e si dovrà concludere che Nitti aveva evidentemente una concezione più elastica e dinamica. Ciò appare sovrattutto dalla motivazione di quel disegno di legge che fu poi anche approvato nel Senato il 3 febbraio, là ove si dichiarava che il governo non intendeva far pieno uso dell’autorizzazione «per non danneggiare istituti ed interessi meritevoli di alto riguardo; e anche possibilmente per far coincidere l’unificazione legislativa completa con riforme, già avvisate e assai desiderabili, nel diritto positivo nazionale» ed infine là ove s’impegnava «a tener conto della parte buona e utile della legislazione ivi (cioè nelle nuove provincie) tuttora vigente, in quanto sia più conforme ai bisogni locali». Parole, come si vede, assai caute, ma ch’erano indice tuttavia d’una preoccupazione che Giolitti non mostra ancora d’avere. |
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| Sta per comparire dunque un altro decreto sull’amministrazione delle Nuove Provincie. Cioè adagio; decreti ne hanno da comparire due, quello del 22 luglio , il cosidetto decreto dei commissari, il quale ufficiosamente venne trasmesso ai giornali di Trento e Trieste, ma non comparve ancora nella Gazzetta e quello che ci venne segnalato ieri come decreto esplicativo e complementare. Ne pubblichiamo oggi più sotto il testo integrale. Ed ora confrontiamo un pochino l’uno con l’altro i due decreti. L’art. 5 del «decreto dei commissari» si occupa dell’ufficio di Roma stabilendo: «Presso la Presidenza del Consiglio è istituito uno speciale ufficio col compito: 1. di agevolare i rapporti dei commissari generali coi singoli Ministeri…». Fermiamoci qui! È chiaro come il sole che questo art. 5 distruggeva non solo nel nome ma anche nella sostanza quell’«ufficio centrale per le nuove provincie» che era stato istituito da Nitti col decreto luogotenenziale del 4 luglio 1919 e che in base all’art. 2 di questo primo decreto era messo alla diretta dipendenza del Presidente del Consiglio, ed «esercitava i poteri spettanti al Governo nell’amministrazione generale dei territori oltre l’antico confine del Regno». Ma ora viene il decreto esplicativo, il quale, con disinvolto richiamo all’art. 5 del «decreto dei commissari», nel suo art. 1 non solo restituisce il nome dell’ufficio centrale, ma anche il suo carattere plenipotenziario e, in confronto agli altri ministeri, accentrativo, giacchè alle competenze attribuitegli nell’art. 5 e che erano in realtà come abbiamo scritto altra volta delle delimitazioni, si aggiunge in questo art. 1 che l’ufficio «esercita ogni altro potere spettante al Governo centrale nell’Amministrazione dei territori oltre l’antico confine del Regno». Ed ecco che l’interpretazione annulla in realtà il testo interpretato. L’art. 2 del nuovo decreto, reca una novità vera e cioè che il capo dell’ufficio centrale può essere chiamato ad intervenire al Consiglio dei Ministri. È su per giù la formula che fa la stessa concessione ai commissari generali. Abbiamo rilevato che tale concessione era assicurata ai commissari già col decreto del 24 luglio 1919, ma che in realtà i commissari non vennero mai chiamati. Ora ex novo acquista lo stesso diritto anche il Capo dell’ufficio, il quale ottiene contemporaneamente il grado di dignità che spetta ai cosidetti «dignitari dello Stato». Per il pubblico basterà sapere che s’intitola «eccellenza». L’art. 3 s’occupa della «commissione consultiva» e copia l’art. 3 del citato decreto fondamentale del 4 luglio 1919. C’è solo un’attenuazione in peius. Il vecchio decreto diceva che alla «commissione consultiva spetterà di emettere voti e presentare proposte»; il nuovo dice che la stessa commissione «potrà emettere voti e presentare proposte». L’art. 4 prevede che il sostituto del Pres. del Consiglio nella presidenza della commissione possa essere il sottosegretario alla Presidenza o il Capo ufficio, mentre nel vecchio decreto il sostituto era il Ministro del Tesoro. Adattamenti ai nuovi padroni. L’art. 5 è il vecchio art. 5 con una omissione insignificante. È noto del resto che la commissione consultiva non venne mai costituita. Ed ora dopo quest’analisi qualche nostra affrettata considerazione. In quanto alla sostanza rileviamo prima con soddisfazione che l’ufficio centrale rimane e che quindi per intanto non si può parlare di gestione diretta dei singoli ministeri, ma di gestione centralizzata a traverso la Presidenza del Consiglio, e questo è, come abbiamo dimostrato altra volta, vantaggioso. Il momento non è ancora venuto per l’incanalamento ai singoli dicasteri. Siamo anche lieti che a capo dell’ufficio rimanga il comm. Salata. L’abbiamo detto con tutta franchezza altra volta. La sua gestione ha senza dubbio meritato delle critiche ed in particolare i trentini devono lagnarsi che egli abbia avuto la tendenza di legarci troppo alle sorti adriatiche, ma noi non vediamo oggi negli attuali circoli politici amministrativi romani alcuna persona che lo possa sostituire per ingegno e preparazione a quell’opera di coordinamento amministrativo e legislativo che oramai s’impone per le nuove provincie. Salata ha anche dirette tutte le trattative fatte finora circa il nostro assetto politico-amministrativo. Ci sono dei trentini che dubitano se egli abbia bene assorbite le ragioni che caratterizzano il programma dei partiti trentini; ma noi invitiamo questi signori a starsene un pochino a Roma, a conversare con ministri, parlamentari, burocratici sulle cose nostre. Siamo certi che concluderanno con noi che il peggio che possa toccare alla nostra causa è di vederla affidata all’improvvisazione di facili ingegni napoletani, al conservatorismo rigido piemontese o alla sentimentalità ed ignoranza dei più. Se fosse opportuno mettere certe cose in pubblico, ne sapremmo in proposito di belline. Quanto alla commissione consultiva, così com’è congegnata, diciamo subito che non ci prestiamo fede; oggi, meno che mai. In seguito all’annessione il Trentino si stacca dalla Venezia Giulia e la precede nella sistemazione giuridica e politica. Altra è la situazione della Venezia Tridentina che avrà tra pochi mesi i suoi deputati, altra quella della Venezia Giulia. Noi ammettiamo che per la Venezia Tridentina possa acquistar valore una commissione tecnica di consulenza, ma possiamo invece ammettere anche che per la Venezia Giulia – che non avrà per ora deputati – la commissione abbia oltre a ciò una funzione rappresentativa. Sono quindi due cose differenti, e se si vorrà fare sul serio, converrà proprio distinguere. Ma noi dubitiamo assai che si arrivi a fare sul serio qualche cosa in questa forma. Del resto importante è per noi che tra poco, per comuni insistenze ed in modo particolare dell’on. Degasperi, si raccolga un’apposita Commissione per definire tutti i problemi sulla valuta e che su proposta della commissione parlamentare il governo convochi una conferenza per le altre questioni inerenti al trattato. La consulta per la sistemazione autonoma s’è già avuta colla partecipazione di tutti i partiti. Ora bisogna agire. Bisogna che l’ufficio centrale prepari la circoscrizione elettorale e le elezioni politiche e poi quelle amministrative. Ora il tergiversare ancora sarebbe una colpa. Anche per questo siamo contenti che la crisi a Roma sia superata. Noi speriamo che in fondo ne siano contenti anche i commissari generali e che vogliano collaborare nella cerchia delle loro aumentate funzioni nell’interesse del paese. Bisogna che la tattica di palleggiare le responsabilità finisca. L’on. Credaro ha in mano tanti poteri, quanti gli bastano per deliberare e, se la decisione trova ostacoli per via, egli può appellarsi al Consiglio dei ministri e chiedere d’esservi sentito. Salata può fare altrettanto. È vero che in altri paesi si direbbe che questo sistema di lasciare contrastate le competenze deve portare al caos. Ma Roma si è governata per secoli coi poteri dei consoli e dei tribuni, tutt’altro che armonizzanti. Oramai non c’è che tirare innanzi, fino che la plebs intervenga direttamente a traverso il parlamento. Forse di tutta questa crisi che finisce da una parte col decentramento in favore dei commissari e dall’altra coll’aumento in dignità di S. E. Salata c’è anche una morale, e la morale sarebbe questa: Volete che le questioni personali non prevalgano mai su quelle oggettive? Ebbene non approfittate delle oscillazioni della politica romana e della sua impreparazione per cavarne ora l’uno ora l’altro decreto, più o meno contraddittorio. Gl’interessi del paese devono venir trattati e discussi all’aperto, con argomenti oggettivi. Il popolo vedrà e giudicherà secondo i suoi interessi. Il decreto sostituisce qui ancora la legge, ma guai se la legge per siffatte manipolazioni perde la sua maestà. La morale anche di questo episodio è quindi: finirla coll’era assolutista, inaugurare il regime costituzionale! |
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| 31916-1920
| Prima che la seduta termini, il presidente fa noto l’esito della votazione circa l’approvazione del trattato di pace coll’Austria e l’annessione della Venezia Tridentina . L’una e l’altra sono stati approvati con 170 voti contro 48. Grandi applausi scoppiano nell’aula al grido di Viva Trento! e all’indirizzo dell’on. Degasperi, il quale è presente in una delle tribune. Sono le 22.45. Perché si addivenga all’annessione formale del Trentino e dell’Alto Adige occorre che il decreto, ieri approvato alla Camera dei deputati, sia approvato dal Senato, abbia la firma reale e venga pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale del Regno». – Questo perfezionamento di procedura, è certo, non importerà molta perdita di tempo: riconvocandosi il Senato nella prossima settimana, è a sperare che fra una quindicina di giorni la nostra annessione sarà un fatto compiuto. A ogni modo, col voto di ieri si è fatto il passo più importante, il passo decisivo, e oggi possiamo dire che il periodo di incertezze, di sospensioni, di minorità, nel quale siamo stati tenuti per quasi ventidue mesi, è al suo definitivo tramonto. Quest’alba di annessione, da tutti e così insistentemente e così forte invocata, noi la salutiamo con vivissima gioia e, non insensibili al grido di «Viva Trento» che dai seggi dei rappresentanti della nazione è salito alla tribuna ove sedeva un rappresentante del Trentino, ci auguriamo che quel grido, oltre che di letizia fraterna per il fatto solenne ieri verificatosi, abbia il preciso significato di promessa che al nostro paese, congiunto all’Italia, sia consentita e agevolata la libertà di svilupparsi e di progredire economicamente, moralmente e socialmente; non si menomi il suo diritto di condeterminazione in tutto quello che riguarda il suo assetto; vengano rispettate e, ove occorra, perfezionate le sue autonomie. Sotto questo aspetto, ci dà affidamento, nel decreto di annessione, il testo riformato e approvato, dell’art. 4, il quale stabilisce che l’emanazione delle disposizioni necessarie per concordare le leggi del regno con la legislazione vigente nei territori annessi, abbia luogo «con particolare rispetto alle autonomie provinciali e comunali». Ci dà affidamento la dichiarazione del presidente del Consiglio, il quale, ieri, rispondendo a diversi deputati, prometteva che, astrazione fatta dai provvedimenti urgenti e improrogabili, gli adattamenti legislativi saranno fatti quando in Parlamento andranno i nostri rappresentanti, e, pure allora, e solo allora, si procederà all’ordinamento amministrativo delle Terre Redente. Restiamo, dunque, fiduciosi e vigili, in attesa che le promesse maturino, presto e bene, in realtà, e mentre a nome del Trentino inviamo un ringraziamento ai 170 deputati che votarono la nostra annessione – e in modo particolare ai deputati del gruppo popolare, i quali meglio interpretarono la volontà del Trentino – auguriamo che presto, eliminato ogni ostacolo internazionale, il Parlamento nazionale sanzioni pur l’annessione della Venezia Giulia e l’Italia, possa, concorde, marciare al suo lucido fine di tranquillità e di progresso. |
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| 31916-1920
| Roma, 10. Riassumere la discussione di queste due ultime giornate non sarebbe facile. Più facile sarebbe la critica ma, confessiamolo, essa sarebbe crudele. L’enorme serie delle leggi e leggine ingerite e digerite in questa sessione, la continuità delle sedute senza nemmeno il riposo festivo, il caldo ostinato che tramutava la Camera in un bagno orientale, tutte queste non erano davvero premesse per una discussione approfondita del trattato. E poi oramai tutti comprendevano che si aveva dinanzi non un documento che chiudeva un periodo storico, ma il frutto di laboriosi compromessi che già stanno cadendo a brandelli, ad uno ad uno. Tuttavia sarà lecito meravigliarsi che nessuno si sia occupato delle clausole economiche, cioè delle famose riparazioni che l’Austria ci deve e che il relatore stesso, toccandone alla sfuggita, le abbia in precedenza svalutate troppo. Su questo argomento bisognerà riprendere la parola e sarebbe opportuno assai che in Senato, ove siedono tre senatori redenti , si riparasse alla grave lacuna. Detto questo, mi limiterò dunque a brevi cenni su qualche punto caratteristico della discussione. I socialisti avevano buon giuoco, ma per aver voluto giocare tutte le carte buone contemporaneamente, si contraddissero in modo troppo manifesto. Il loro rappresentante nella commissione, l’on. Turati, votò con tutti gli altri per l’approvazione del trattato, limitandosi a proporre degli emendamenti circa gli art. 3 e 4, cioè circa l’assetto interno della regione (due diete politicoamministrative, una a Trento, l’altra a Bolzano e nomina di una commissione parlamentare per delimitare i confini delle due provincie e il contenuto delle autonomie) . Il plebiscito, egli disse, volgendosi ai compagni durante la discussione alla Camera, è già istituto superato dall’introduzione del suffragio universale e non è sovrattutto un istituto socialista, giacché contrasta al principio della lotta di classe. Ma i suoi compagni non furono di questo parere. Ciccotti-Scozzese parlò in favore della sospensiva, sostenendo che, giacché i bolscevichi stavano per imporre la revisione dei trattati, era opera pericolosa ed inutile quella d’ingaggiare la Camera nell’approvazione di un contratto che stava per venir disdetto. Riboldi motivò la sospensiva colla richiesta del plebiscito. Con larga documentazione, citando tutti i plebisciti delle provincie italiane, gli fu facile dimostrare che il plebiscito è la costante tradizionale del risorgimento nazionale. Che cosa doveva rispondere la maggioranza borghese della Camera? Il combattente D’Alessio , il riformista Susi tentarono una confutazione della tesi plebiscitaria, dicendo che il diritto al plebiscito va riservato a popoli intieri, non a frazioni; i popolari avevano rilevato in commissione che l’autodecisione può accogliersi come unico criterio per la costituzione degli Stati solo se essa viene applicata come criterio, generale e reciproco, del diritto internazionale, di maniera che per la sicurezza ch’essa porta rende possibile l’eliminazione di altri criteri, come quello strategico e geografico, e per mezzo dell’on. Mattei-Gentili vi accennarono anche alla Camera (I). Ma iersera, quando in argomento stava per aprirsi la discussione. Giolitti tagliò corto dicendo che il governo non poteva accettare l’o.d.g. Riboldi, perché era contro l’approvazione del trattato e perché metteva la questione di fiducia. La Camera troncò quindi un dibattito evidentemente imbarazzante e passò ai voti. Subordinatamente fu la questione dell’Alto Adige che appassionò la Camera. I socialisti, con a capo Turati, sostennero la costituzione di una provincia separata per i tedeschi, ma anche qui si rivelò la contraddizione della loro tesi. Da un lato coll’on. Treves prospettarono il pericolo dell’irredentismo tedesco e Treves disse chiaro: «voi affiderete la difesa del Brennero a dei traditori»; dall’altro tentarono provare che la provincia tedesca era la panacea contro ogni irredentismo. Qui fu tirata spesso in ballo la testimonianza di Battisti che nel suo libro sul Trentino dimostra con copia d’argomenti la impossibilità della convivenza fra trentini e tirolesi. Gasparotto del Rinnovamento volle svalutare tale testimonianza, ricordando che Battisti scriveva sotto l’impressione delle lotte provocate dal regime austriaco negli ultimi anni; che trentini e tirolesi invece, lasciati soli, si troverebbero facilmente d’accordo e come prova asserì che nel 1809 i trentini e i tedeschi combatterono in perfetta intesa, al comando di Andrea Hofer , contro la Baviera (!?). Tuttavia Gasparotto aggiunse di non voler pregiudicare già fin d’ora la questione delle due provincie, ma di voler limitarsi ad ammonire il governo a trattare l’argomento con grande prudenza, diffidando degli adescamenti dei tedeschi. Federzoni si dichiarò assoluto partigiano della provincia unica, però ricostituendo (?) le rappresentanze circolari, idea che fece capolino anche in qualche altro discorso. I popolari avevano già dichiarato in commissione e ripeterono qui che non mettevano alcuna pregiudiziale sull’assetto interno della regione, ma che credevano prematuro che la Camera se ne occupasse ora, in assenza dei deputati di quelle terre. Vedessero i tedeschi di mettersi d’accordo coi trentini e i popolari sarebbero pronti a sancire tale compromesso. L’on. Carnazza , per la commissione, respinse gli emendamenti Turati, perché la sistemazione interna non doveva far parte di una legge che aveva carattere internazionale; argomento a dir vero non molto solido, quando si pensi che la commissione aveva fatto suo l’emendamento popolare dell’art. 4, che garantisce le autonomie provinciali e comunali; ma sta bene riferirlo, perch’esso dà maggior rilievo a questa nostra conquista. Infine l’on. Giolitti sgombrò il terreno con uno dei suoi soliti tagli di chirurgia semplicista: «È inutile che discutiate su tutto questo. Il governo dichiara di non comprometter nulla, farà le elezioni politiche e poi decideremo coi nuovi rappresentanti. Intanto non introdurrò che la legge elettorale e qualche altra urgentissima disposizione per aumentare la libertà di quei cittadini (accennando evidentemente alle leggi sulla stampa e di riunione). In quanto ai tedeschi, giacché la geografia li ha posti entro i termini dell’Italia, li tratteremo in modo che diventino nostri buoni amici». Unanime, di un’unanimità veramente confortante, fu la Camera nel sostenere le nostre autonomie e la parte buona della legislazione vigente. D’Alessio reclamò il decentramento più completo e il riconoscimento alle nuove terre d’amministrarsi da sé stesse. Non lasciatevi spaventare, egli disse, dalle preoccupazioni di chi vede la salvezza d’Italia solo nell’uniformità delle leggi e dell’amministrazione! Susi deplorò il continuo alternarsi di decreti e disposizioni contraddittorie, Gasparotto raccomandò che tutte le autonomie «come l’intese l’Austria stessa», siano rispettate. Degli oratori popolari e socialisti (II) non occorre rilevare il già noto punto di vista. Così la Camera passò ai voti. L’accettazione a grande maggioranza dell’art. 4 e dei due o.d.g. autorizza il governo ad attuare un grande programma: Giolitti ha dichiarato intanto di voler limitarsi alla prima parte. Anche questo limite ha per il momento il valore di garantirci da ogni sorpresa. (I) Ecco il passo in parola del discorso Mattei Gentili: «Un’ultima parola su questo argomento (cioè sull’annessione dell’Alto Adige, n.d.r.). Un ordine del giorno dei colleghi socialisti propone che l’annessione delle terre redente sia subordinata ad un plebiscito. Ora, noi siamo partigiani dichiarati del principio di autodecisione dei popoli; ma questo principio può e poteva essere applicato solo come base dell’intiero assetto europeo, non come criterio unilaterale da seguirsi in favore di una nazione e a sfavore di un’altra: l’applicazione, cioè, deve essere reciproca, per dare vera garanzia di pace e stabilire un ordine di cose che renda inutile ogni precauzione di carattere strategico-territoriale». (II) All’ultimo momento Turati introdusse incidentalmente anche un accenno al caso dei Laghetti, accusando Credaro di non aver saputo salvaguardare la libertà scolastica. Matteotti chiese che ogni persona che abitasse nelle nuove terre da almeno un anno acquistasse il diritto di cittadinanza e il diritto elettorale, ma Giolitti rispose che il diritto elettorale va attribuito agli abitanti stabili di quelle terre, non agli ultimi venuti. Cosattini ha attaccato violentemente il regime militare della Venezia Giulia, rilevando che i bandi militari pubblicati a Pola e in Dalmazia, sono peggiori che quelli austriaci e affermando che gli slavi sono oppressi. La Camera però non poté accogliere una sua proposta formale, perché non può legiferare, come osservò Giolitti, su territori che non può ancora annettere. |
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| 31916-1920
| Il voto di ieri è stato anzitutto il primo passo decisivo fatto dalla Camera italiana per uscire dal caos. Ieri non vi fu una maggioranza per lo spirito e le clausole del trattato, ma vi fu una maggioranza per l’annessione. Bisognava finirla una volta, bisognava uscire da questo pericoloso stato d’incertezza, che può essere generatore di nuovi conflitti; e poi bisognava pure dare agli abitanti delle nuove terre, occupate oramai da venti mesi dall’esercito italiano, una legge, un diritto, una cittadinanza. Questa fu la concezione che ispirò il voto favorevole della commissione e della maggioranza della Camera, concezione o sensazione ch’io, attento ascoltatore dalla tribuna, dedussi dai discorsi venuti dai più diversi settori, ma che fu formulata più nettamente dall’o.d.g. Mattei Gentili e dalla dichiarazione di voto dell’on. Tovini . Il Partito popolare infatti, che già nella passata legislatura aveva protestato contro il trattato di Versailles e che nei congressi di Bologna e di Napoli, ripudiando la conferenza di Parigi, aveva acclamato all’internazionale bianca, non doveva lasciar sorgere nemmeno il più lontano dubbio ch’esso potesse aderire all’opera diplomatica di Wilson, Clemenceau e Lloyd George. Ma, posti innanzi al dilemma di dare un voto formale per «l’entrata in vigore» del trattato, di quanto riguarda l’Italia, dopo ch’esso è già da lungo tempo entrato in vigore per quanto riguarda gli altri Stati, ovvero di negare questo voto, con la conseguenza di mantenere nell’attuale caos politico amministrativo le nuove provincie e protraendone ancora più oltre l’opera di ricostituzione, i popolari hanno preferito il formale sacrificio dell’intelletto al reale sacrificio dei nuovi cittadini. Forse un minore empirismo da parte del governo ed una maggiore preparazione da parte della Camera avrebbe potuto trovare una via di mezzo che segnasse più precisamente la volontà della nazione nel senso «annessionista» per i territori che incontrastatamente spettano all’Italia e «revisionista» rispetto al trattato in genere. Ma chi ha assistito a questo laborioso e fecondo scorcio di sessione sa ben rendersi conto delle condizioni psichiche e fisiche nelle quali la Camera dovette affrontare il problema. Comunque, della soluzione di questo conflitto psicologico in nostro favore e per riguardo nostro, noi abitanti della Venezia Tridentina dobbiamo essere grati a tutti coloro che in tale senso lo superarono, ed in modo specialissimo al partito popolare. Ma l’obbligazione che noi dobbiamo verso questo non si esaurisce qui. Essa è ben maggiore se consideriamo che all’iniziativa ed al paziente lavoro dei popolari, specie dei loro rappresentanti nella commissione, è riuscito di far includere nell’art. 4 del disegno di legge un impegno preciso e formale della Camera italiana in favore delle nostre autonomie provinciali e comunali. Il governo è autorizzato ad applicare nelle nuove terre la legislazione italiana, ma coordinandola colle esistenti autonomie provinciali e comunali. Ciò equivale ad un riconoscimento della nostra rappresentanza regionale (dieta) e della costituzione autonoma dei nostri comuni. Quanto cammino ha fatto questa idea! Ricordo che nei primi mesi dell’armistizio, quando venne don Sturzo a Trento per preparare il congresso dell’Associazione dei comuni italiani , quest’ingegno, sempre mobilitato sulle trincee più avanzate della politica, comprese subito l’importanza del nostro movimento autonomista e predisse il valore che avrebbe acquistato tale esperimento per la rinnovazione dell’assetto politico-amministrativo di tutta l’Italia. Ma allora quanto pochi degli uomini politici, venuti lassù, ci credevano! Come? ci dissero parecchi deputati e giornalisti, voi volete qualche cosa di diverso da quello che hanno le altre regioni? Voi volete una specie di parlamentino regionale? Ma e lo statuto e le leggi del regno? Nel Trentino stesso in un primo periodo i circoli più nazionalisti che volevano abbattere quanto fosse d’origine austriaca, vedevano con un certo sospetto questo movimento regionalista. È l’identica situazione che trovò Millerand quando fu mandato a Strasburgo a sostituire il sig. di Hennesey ? È contro costoro che si rivolgeva l’on. mons. Gentili, quando nel congresso di Bologna ricordava che le autonomie locali erano di pura origine nazionale e che lo scudo crociato era chiamato a proteggerle come per una sua missione storica. Ora, dopo quasi due anni di propaganda e di tenace affermazione, si può dire che la battaglia è moralmente vinta. Non solo l’unanimità più completa è raggiunta nella regione stessa ma nella Camera; nessuno durante la discussione, fosse partigiano della provincia unica o delle due provincie, con una particolare autonomia ai tedeschi, espresse alcuna riserva o alcuna diffidenza in senso centralista; ma tutti dai banchi dell’estrema fino alla destra proclamarono la necessità di rispettare le rappresentanze autonome, qualunque fosse la loro origine. Al governo non può essere sfuggita quest’impressionante unanimità. Vero è che entrando nei particolari, qualche oratore disse degli spropositi circa i dati di fatto, giungendo così anche a delle proposte di ricostituzione assai discutibili; vero è che Turati, quando propose di conservare le autonomie nella «maggior misura possibile», parve in un certo momento rimettere in discussione tutto il problema; ma l’unanimità della tendenza non fu però meno significante. Anche qui i popolari presero la via maestra; nessuna pregiudiziale intanto circa l’assetto interiore della regione, se far cioè una o due provincie. L’importante, il decisivo è che si ricostituisca accanto ai comuni anche la rappresentanza regionale autonoma, la dieta, colle sue attribuzioni consultive e, per certa sfera determinata, legislative. Ora la legislazione dietale è in vigore, come sussiste oggidì un commissario regio per tutta l’amministrazione provinciale; ma bisogna far le elezioni, riconvocare la rappresentanza regionale. Si vedrà poi se, per la miglior convivenza coi tedeschi, sarà opportuno istituire due diete politico-amministrative, come propone Turati, o una con due sessioni ovvero mantenere la dieta unica. Questo il punto di vista dei popolari che fu anche quello della commissione e che ottenne infine l’adesione della Camera. Mi manca il tempo oggi di mettere in rilievo tutta l’importanza di questa affermazione in quanto essa dà un contenuto concreto alla vaga tendenza al decentramento, inteso non come semplice decentramento burocratico, ma come decentramento dei poteri esecutivi e legislativi. Il Partito popolare italiano avrà qui da combattere ancora una buona battaglia. Mi sarà permesso intanto di concludere che il Partito popolare, ottenendo che con l’art. 4 la Camera italiana facesse, nell’atto stesso dell’annessione un patto solenne per il coordinamento della legislazione italiana colle autonomie esistenti nelle regioni annesse, ha salvato ai nuovi cittadini quel tanto di diritto di autodecisione ch’era praticamente salvabile, diritto, è vero, non di delimitare il territorio, ma diritto, a traverso i poteri della ricostituita dieta, integrata dall’opera dei deputati parlamentari, di condeterminare l’assetto politico-amministrativo del paese, di salvaguardare il proprio costume, la propria lingua, la propria tradizione. I nostri nuovi concittadini di nazionalità tedesca non saranno soddisfatti nemmeno di questo ed è comprensibile; ma quando essi, a tale riguardo, accusano nella loro stampa il Partito popolare di «mancato cristianesimo», bisogna davvero rispondere loro che oltrepassano il segno. Il Partito popolare non è responsabile né di Versailles né di S. Germain, come non è responsabile dei conflitti che vi hanno condotto, ma esso è ora chiamato fatalmente a liquidare situazioni di fatto, che non può liquidare, semplicemente creando intorno all’Italia un «vacuum» di diritto internazionale. Ma quando ripenso a certe sedute della Camera austriaca e a cert’altre della Dieta d’Innsbruck, ove per mezzo secolo ogni più modesto postulato autonomistico venne soffocato dalle ragioni di Stato dei conservatori e dei cristiano-sociali, ho l’impressione che la seduta della Camera italiana di ieri fu una seduta immensamente più «cristiana» di tutta la politica dei cattolici austriaci. |
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| 31916-1920
| Roma, 17, sera. In città sono ricomparsi i manifesti per il 20 settembre: commemorazione, evocazioni, enfatici appelli all’unità nazionale. Ma perfino i buoni Quiriti passano via e leggono appena. C’è ben altro da fare che occuparsi del passato! Il presente è minaccioso, l’avvenire oscuro; malgrado la fenomenale disinvoltura degli abitanti della capitale, nonostante la magnificenza di queste giornate meravigliose, un incubo indefinito ed indefinibile pesa su Roma. In alto, fra il Vaticano e Porta Pia si sentono sbattere rapide e in tumulto le grand’ali del tempo. È un’epoca che se ne va, un’altra che viene; e nessuno guarda dove scompare la prima, ma tutti fissano lo sguardo nell’ombra dalla quale uscirà l’era nuova. Sarà tinta di sanguigno o sarà l’aurora di porpora che precede una pacifica ascensione umana? La massa bigia degl’intellettuali e della classe dirigente è oppressa da questo dubbio che non sa risolvere. Il governo? Dicono i furbi che abbia un piano. Non credeteci; non ha che una tattica: la tattica del materasso; opporre all’urto violento il cedevole ostacolo di uno Stato inerme, nella speranza che l’urto finisca coi perdere la sua forza propulsiva. Affermiamola anche noi coraggiosamente la verità che qui confessano a mezza voce un po’ tutti. Dei politici solo i popolari non hanno perso la testa – o meglio diciamo proprio tutta la verità – solo la maggioranza di loro hanno dimostrato di non spaventarsi della grandezza e dell’irruenza del problema, solo essi hanno riaffermato con forza la necessità della soluzione politica che impedisca e sostituisca la soluzione catastrofica. Il manifesto votato dal Consiglio nazionale è il loro manifesto per il 20 settembre 1920 . Oggi non è più tempo di retorica vana, di boria cinquantenaria. L’Italia si salva solo con uno sforzo d’energia per riguadagnare il tempo perduto. L’industrialismo liberale e la lotta di classe hanno lavorato entrambi per mezzo secolo a separare nettamente il capitale dal lavoro. Ebbene, bisogna che lo Stato intervenga per creare un organismo, in cui entrambi debbano cooperare insieme. L’impero assoluto del capitalismo anonimo deve finire, ma non deve sostituirlo il regime sindacalista d’una classe, ma un sistema sindacale integrale che rappresenti cioè tutti i fattori naturali della produzione. Il manifesto spiega più in particolare come dovrà essere tale organismo e l’appello della confederazione bianca è in tal riguardo ancora più esplicito. Riuscirà questo programma? L’appello fa al riguardo una precisa riserva. I popolari da soli non possono attuarlo; solo se tutte le forze che non sono ancora guadagnate alla causa della dittatura di classe vi concorreranno con slancio e con fede, l’opera potrà ancora riuscire. Quanti anni abbiamo già perduti, quanto grande fu la rovina morale causata da un’avidità senza scrupoli e da una speculazione che ha rovesciati tutti gli argini della giustizia cristiana! Quanta resistenza ha fatto lo stato amorale e anticlericale allo spirito della democrazia cristiana! Oggi stesso che codesta borghesia vede chiudersi il suo ciclo e si trova innanzi al dilemma «o rinnovarsi o morire», com’è ostinata, com’è cieca, quando si tratta di riconoscere la nostra forza salvatrice! Se non si trattasse che di questa classe colpevole, converrebbe limitarsi a gridare: «Tu l’hai voluto, G. Dandin!» . Ma è la civiltà stessa ch’è in pericolo: perciò i cattolici devono lavorare e cogliere questi momenti di trepidazione per indurre finalmente la società individualista capitalista a trasformarsi. Noi non abbiamo ricchezze accumulate da salvare: venisse anche il comunismo, i popolari, in quanto sia salva la libertà politica, rimarrebbero in piedi. Ma che importa il resto, quando la rivoluzione in Italia significherebbe oggidì la miseria e la disgregazione? Però, badate, dice infine il manifesto, «noi partito politico vi additiamo dei rimedi politici ed economici. Ma ciò sarà troppo poco, se non provvederete ad avviare una volta la riforma morale. Dio e la legge devono rientrare nei cuori». Ascolteranno, comprenderanno in quest’ultima ora? Non lo sappiamo, ed è questa anche per noi l’ansia dell’attesa; ma quando alziamo lo sguardo sul cielo di Roma, per scrutarne i presagi del tempo venturo, un conforto infinito pare scenda giù nei nostri spiriti dalla Cupola. Quelli là, e quelli altri laggiù, e chi sta più in là ancora potranno essere travolti. Tu o Cupola di S. Pietro, rimarrai eterna! |
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| 31916-1920
| La maggioranza possibilista degli operai, aderenti alla Confederazione del lavoro, quando si affermò con mezzo milione di voti l’o.d.g. D’Aragona contro 400 mila voti dati alla proposta massimalista, votò però anche la aggiunta esplicativa, con cui si diceva che il controllo sindacale delle industrie doveva servire per aprire un varco verso il comunismo. Ora il controllo operaio è assicurato, nel senso che il governo e gl’industriali ne hanno accolto il principio e dato incarico ad una commissione paritetica di preparare un progetto concreto per la votazione in Parlamento . Siamo dunque o saremo tra breve al varco del comunismo? Ovvero siamo alla vigilia di una ricostruzione economica tipo russo, nella quale, scomparsa ogni proprietà, ogni funzione del risparmio, ogni molla per l’interesse privato, non esistano che due fattori: da una parte lo Stato a traverso i suoi ispettori o controllori che poi diventano in realtà gestori e dall’altra parte gli operai, possessori in teoria, ma di fatto semplici usufruttuari, delle fabbriche verso il compenso di quella quota di beni che loro è necessaria non per nuove ascensioni economiche che sono una ripudiata conseguenza del sistema capitalista, ma per campare la vita? E raggiunta tale costruzione economica non s’imporrà parallelamente la nuova forma politica di governo, la forma sovietista, la dittatura del proletariato, il che vuol dire il dominio assoluto del Partito comunista? A questa domanda va risposto con un sì o con un no, a seconda delle condizioni politiche in cui si andrà elaborando ora nel prossimo tempo l’esperimento. Senza dubbio l’Italia è giunta al varco, ma il varco non dev’essere necessariamente verso il comunismo. Il varco aperto ora col decreto Giolitti sbocca su due vie: economicamente, o nella gestione comunista delle imprese o nella loro gestione sindacale, nel senso cioè che i sindacati di tutti i fattori naturali della produzione (industriali, ingegneri, impiegati, operai) gestiscano collegialmente l’impresa con assoluta prevalenza delle rappresentanze del lavoro; politicamente o nel passaggio del potere dello Stato ad una sola categoria ed effettivamente alla dittatura del partito massimalista, ovvero nella creazione di una democrazia del lavoro, nella quale, sia mediatamente a traverso il suffragio universale, sia organicamente a traverso il riconoscimento giuridico delle classi, le categorie dei produttori intellettuali e manuali esercitino nello Stato una definitiva prevalenza. Ebbene quali delle due vie prenderà la nostra nazione? Entro il movimento socialista, la parte politica è assolutamente per la conquista comunista. L’«Avanti!» e tutti i dottrinari o propagandisti politici, rimasti in minoranza entro la Confederazione del lavoro, subiscono la regolazione legale del conflitto metallurgico, colla riserva che il futuro organismo di controllo sia un nuovo mezzo di lotta in mano dei socialisti contro la attuale gestione delle imprese, non uno strumento per trasformarle. Essi credono con Marx che nessuna trasformazione economica sia possibile senza la confisca violenta, decretata dal potere politico, e quindi per loro ogni progresso nel terreno economico viene valutato solo in quanto può servire alla conquista della dittatura politica. Vi ha però una grande massa, sia pure organizzata dai socialisti, la quale non si preoccupa del comunismo come sistema di Stato o come ideale del collettivismo economico, ma quello che vuole è il cooperativismo nelle imprese, la propria elevazione a comproprietario, la fine di questo sistema rigido del salariato coi suoi scioperi e coi suoi conflitti a turno fisso. A questo senso giusto e sano della classe operaia corrisponde il programma del Partito popolare che propone, secondo i casi, due soluzioni alternative: quella ideale, la cooperativa di lavoro e di produzione, quella subordinata ma necessaria ancora in un grande numero di casi, l’azienda mista, colla partecipazione degli operai alla gestione dell’impresa, assicurando mediante l’azionato operaio una graduale, ma possibile e legale presa di possesso degli operai di tutta l’azienda mediante il passaggio delle azioni dagli anonimi capitalisti agli operai, impiegati ecc. che lavorano nelle fabbriche. Il decreto Giolitti dà accesso a tutte e due le soluzioni. La commissione paritetica, secondo il decreto, «studia l’organizzazione delle industrie sulla base dell’intervento degli operai al controllo tecnico e finanziario o all’amministrazione dell’azienda». Se la commissione si arresterà al primo compito, cioè al controllo e se il Parlamento voterà una simile legge, può essere davvero che si apra semplicemente un varco verso il comunismo, un organo cioè che prepari gli operai alla confisca ed alla gestione collettiva: sarebbe la rivoluzione economica più grave ancora quando passasse nel campo agrario. Se invece dalla futura legislazione risulterà disciplinata, agevolata e, date certe premesse, necessaria la partecipazione degli operai all’impresa e regolato il crescere di tale partecipazione, allora il varco è aperto verso una grande trasformazione sociale che poggia sulla collaborazione delle forze naturali della produzione per arrivare però, salvando la funzione sociale delle proprietà e del risparmio, alla prevalenza direttiva del lavoro. Batterà l’Italia questa via? Ripetiamo la domanda e ripetiamo la risposta. Noi crediamo che se le classi medie, le quali sono interessate indirettamente al conflitto, faranno sentire vivace la loro voce e la loro pressione sui fattori politici, se nelle classi industriali prevarrà uno spirito dì accorgimento e di lealtà, se nell’opinione pubblica ogni propaganda catastrofica sarà controbattuta da un ottimismo alacre e combattivo, venga essa dai rivoluzionari a tutti i costi, o venga dai conservatori alla «Corriere della Sera» che ora vorrebbero precipitare gli avvenimenti per approfittare dell’ondata di reazione che… verrà, sì, ma quando e a qual prezzo, e dopo quali esperimenti? ….noi crediamo che la grande opera può ancora riuscire. Studiate la storia della Convenzione francese e poi studiate quella della Camera dei comuni dello stesso periodo, e poi scegliete! Per il Partito popolare è giunta la sua ora. Da solo non può riuscire, ma riuscirà se saprà divenire nei momenti di ansia e di confusione il faro d’orientamento. |
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| 31916-1920
| A Trento e a Bolzano la massoneria ha affisso un manifesto di prosa viscida e d’idee rancide . A Trento lo stupore fu grande, a Bolzano l’indignazione alimentò nuovi attacchi della stampa. Poiché la Reverenda Loggia Cesare Battisti aveva affermato nel suo manifesto che «la lotta gagliarda che ha portato il nostro tricolore fino alla Vetta d’Italia» è opera della massoneria, il Tiroler esclama in tono trionfale: «È vero dunque, come sempre sostenemmo, che l’irredentismo era provocato e nutrito dalle loggie massoniche e che l’Austria ed il Tirolo vennero battute in breccia perché potenze cattoliche!» Il gran maestro Torrigiani e l’Oriente di Trento possono davvero menar vanto di questa propaganda a rovescio ch’essi fanno in confronto dell’italianità. Quel manipolo di fratelli affaristi, capitati a Trento o a Bolzano per pelare i redenti in nome dei Grande Architetto dell’Universo, quel pugno d’impiegati che deve a qualche cavaliere Kadosch , annidato nei ministeri, l’indennità di missione e quei pochi – oh! auguriamoci che siano pochi davvero –! ufficiali… libici, tutti codesti signori che nell’ombra della R.:. L.:. Cesare Battisti hanno stilato il manifesto millantatore, ci risparmino per carità un’ulteriore documentazione della loro esistenza. Eh! noi, trentini, per conto nostro, abbiamo ben altre prove della loro nefasta presenza. Ne abbiamo già sentito il puzzo in certe cancellerie, ne abbiamo vista la mano in certe agitazioni, ne abbiamo scoperto l’influsso nel coagularsi di certe camorre di nuovo stampo. Noi trentini ne sappiamo abbastanza; non ci occorrono manifesti, simboli, trepuntini. Il puzzo della mala bestia già ammorba l’ambiente; e abbiamo tutto il proposito di arieggiare. Ma a Bolzano, figuratevi che forza novella di attrazione può diventare codesta segreta conventicola che si chiama R.:. L.:. Cesare Battisti, la quale fa appello sulle cantonate di Bolzano, «per la concordia degli animi e per la dignità della Patria». Quale impressione deve esercitare sui cervelli tedeschi la proclamazione di codesti postumi milites gloriosi i quali annunciano che al Brennero faranno sventolare il tricolore… nei secoli! E immaginate voi il contadino di Passiria , che s’arresta a bocca aperta davanti ad un affisso con tanto di A.:. G.:. D.:. S.:. A.:. D.:. L.:. U.:. e, sentito a mezza voce da un cittadino che si tratta della Freimaurerei, gli sale alla mente, come una rivelazione, tutta la concezione storica del Risorgimento italiano, in parte vera, ma unilateralmente esagerata, che da bambino in su gli avevano messo in testa! E che governo è questo, esclamerà il buon Passirio, che in base alle leggi, denunzia noi se non chiediamo il permesso per una riunione o se facciamo affiggere un manifesto alla macchia, ma tollera e sembra proteggere codesta camorra tenebrosa, interdetta dalle leggi vigenti, ma che può vivere, svilupparsi e pavoneggiarsi anche in pubblico nelle occasioni solenni? La stampa tedesca è fortunata e, conveniamo, dal suo punto di vista, ha ragione di approfittarne. L’Or.:. di Trento le serve come nuovo spauracchio per aumentare l’avversione contro la città capitale della regione, e per esasperare tale avversione fino al ribrezzo. Noi, trentini, dobbiamo arrossire. Ma non faremo altro? Ci sopporteremo in silenzio la vergogna? Condivideremo le conseguenze tristi, senza separare nettamente le responsabilità? Chi sono codesti massoni della Val d’Adige? Fuori i nomi, fuori alla luce, o venerabili dell’Or.:. di Trento. Se non volete che la libertà, l’uguaglianza, la fratellanza, perché avete bisogno di nascondervi? Ma se invece costituite la verde compagnia dei camorristi, oh risparmiate almeno a Trento, Trento, città del concilio, Trento che la nazione ha posto sotto la protezione di Dante Alighieri, risparmiate l’onta e la sozzura dei vostri ipocriti manifesti! |
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| 31916-1920
| Roma, 26. […] Non facciamo della retorica! Scriviamo in questo momento netto e preciso il nostro pensiero. Nella immaginazione la legale annessione allo Stato italiano doveva essere per il nostro paese un termine: lasciare al di là di questa pietra miliare tanti stenti e tante sofferenze e portare al di qua una speranza ed una pace raggiunta, ecco il programma della nostra fantasia e del nostro cuore. Basta soprusi di stranieri, basta conflitti nazionali fra una minoranza esasperata nella difesa ed una maggioranza indurita dai secoli nell’offesa, via codesto microcosmo trentino in cui la struttura politica nazionale dello stato austriaco e le ragioni stesse della nostra tenace difesa ci avevano costretti, tagliandoci l’orizzonte. Spalanchiamo le finestre e gli usci, ch’entri a fiotti l’aria, la luce; e riposiamo finalmente gli animi travagliati nel porto tranquillo, sicuro della nostra nazione. La quiete del porto raggiunto, l’amplesso della madre ai figlioli che ritornano, il godimento d’un nuovo ordine politico-sociale che elevi a nuovi, prima insperabili, progressi, ecco le immagini che ritornavano e ritornano in ogni discorso augurale. Ebbene la Provvidenza ha invece voluto che l’annessione del Trentino all’Italia si compisse in uno dei momenti più procellosi che abbia mai attraversato la nostra nazione. Come concepire l’annessione quale un termine, piantato allo spartiacque di due epoche, se oggi la grande fiumana europea ha travolto tutti i termini, già straripa al di là di tutte le dighe, e la nostra Italia si dibatte tutta in mezzo a queste onde? In verità niente finisce oggi e niente incomincia; tutto scorre, come diceva il filosofo greco. Nessun porto in Europa è sicuro innanzi a questa bufera, a questo sommovimento generale che viene dal di sotto, coll’inesorabilità di un terribile e prolungato fenomeno sismico. La rivoluzione è passata prima violentissima nei paesi vinti e vi continua ancora i suoi sussulti. La Germania, l’Austria, paesi dell’ordine e della disciplina sono ancora un caos, l’una non senza segni di qualche ripresa, l’altra colle stigmate oramai della decadenza inevitabile. La fredda Inghilterra è percorsa dallo stesso fremito e la… Francia. La Francia, voi chiedete? Ne discorreremo, ma ad ogni modo, non dimenticate che la Francia la sua grande rivoluzione politica, agraria, sociale, l’ha già fatta. Così nessuna meraviglia che anche in Italia siamo entrati nel periodo rivoluzionario. Ed ecco che in questo momento storico ci affacciamo anche noi sulla soglia di casa col fardello delle nostre miserie e delle nostre speranze. Qual meraviglia che a qualche poverello si stringa il cuore e che questa giornata, pensata come tutta una gloria di sole, gli appaia come turbata da una nebbia fredda? Aggiungete le preoccupazioni della casetta propria. Giacché anche qui non è vero che i conflitti fra due nazioni siano terminati; non si avvera la speranza, l’ardente aspirazione nostra che i nostri giovani, liberi e sicuri da ogni conflitto con altri popoli, possano dedicare tutto il loro slancio ai progressi della nazione propria; e i rapporti italo-tedeschi sulla frontiera dello Stato italiano minacciano di diventare le palle di piombo per lo sviluppo politico economico del Trentino e forse un ostacolo grave a quella missione particolare che questi montanari potrebbero svolgere entro la nazione. E noi potremo continuare ad analizzare il sentimento che in questi giorni è in tutti coloro, e sono i più, che non hanno esuberanza di idealismo sentimentale o che si lasciano dominare da uno spirito di sincerità critica. Ebbene a costoro noi vogliamo dire una parola, nuda di ogni ornamento retorico, ma chiara come la verità. L’avvenimento che festeggiamo è un avvenimento secolare. Poteva capitare in un’ora più quieta, in un momento meno oscuro. Fortunati noi, se la nave su cui ci siamo salvati avesse potuto entrare in porto tranquilla! Invece siamo ancora in alto mare e ci dibattiamo fra i marosi; ma non è meno vero che questa nave fu il nostro salvamento, che questa nave è la nostra nave, su cui dovevamo arrivare da secoli e lontano dalla quale tante volte fummo rigettati per la prepotenza degli uomini. Il mondo è in tempesta, ma anche nella bufera il nostro posto è qui su questo ponte, colla nostra razza, a gareggiare di sforzi, di sacrifizi per condurre questa nostra santa bandiera a glorioso porto. Oggi in Italia echeggia il grido: Tutti gli uomini a bordo. Qual dolore, quale vergogna, se noi anche in questo momento decisivo, fossimo rimasti fuori a fare i mozzi su altre navi, condannate al disastro, perché l’acqua vi entrava ormai dappertutto. Eh lo sappiamo anche noi, ch’è triste, dopo tanto soffrire, dopo tanto aver sperata la tranquillità di un seno quieto, il vedersi ancora sballottati là fuori, in mezzo a contrastanti correnti! Ma è delle generazioni, come degli uomini. Alcune nascono e vivono in un’epoca che corre tranquilla come un fiume al suo delta, altre nascono al travaglio del cozzo storico. Ognuna deve assumere tranquillamente e coraggiosamente il suo compito. Per noi oggi è una festa in anticipo. I padri fanno festa per i loro figlioli. Ammettiamolo pure: tutti coloro che si attendevano di poter combinare oggi un tripudio di consolazioni momentanee si sono illusi. La festa riguarda la grande epoca che comincia, non la nostra giornata. La nostra giornata? Passerà come un lampo. Di che ci meravigliamo noi che abbiamo vissuto la lunga guerra? Non abbiamo ancora capito che sotto il gran maglio delle forze umane Dio sta forgiando le basi dei nuovi secoli? E non abbiamo fede che da questa officina esca la nuova armatura d’Italia? Dio! La sua mano provvidenziale nella storia, ecco il pensiero che vorremmo dominasse nelle giornate della celebrazione. È solo questa grande fede che vi afferra nei momenti dello scoramento, e vi solleva con braccio onnipotente nella sfera dell’ideale. Ricordate il Recessional del Kipling ? Questo poeta della forza inglese, questo cantore dell’imperialismo britannico, descrive sì tutte le energie naturali della razza e canta le conquiste britanniche nel mondo, ma il suo inno più solenne, l’inno conclusivo, in occasione delle feste per il giubileo della regina, lo riserverà non alle flotte di tutti i mari raccolte al Tamigi, non alle rappresentanze di tutti i popoli e tutte le razze dell’universo venute ad omaggiare l’imperatrice dell’immenso impero coloniale, ma al momento sacro e misterioso, in cui receduti i celebranti dall’altare della cattedrale di Westminster, la folla, questa rappresentanza genuina dei nuovi romani, innalza la sua preghiera a Dio, padre di tutti e governatore del mondo e riconosce in Lui il fattore dei suoi destini mentre l’organo della celebre abbazia colla sua maestosa sonata supera gli spari delle salve ed il sibilo delle sirene. Il canto della redenzione, intesa così nell’ordine della storia, è il Tedeum, quel Tedeum che nel duomo di Strasburgo cantarono credenti come Foch e non praticanti come Clemenceau, come Millerand, come Jonnart , tutta gente che nei momenti decisivi della nazione, qualunque siano state le loro convinzioni personali si sentono ricondotti dal genio della loro stirpe a rinnovare la loro fede in quel Dio che animò Giovanna d’Arco. Così va sentita la storia, così sopratutto essa va predicata al popolo, così vanno celebrati gli avvenimenti, se l’altezza del loro significato debba attrarre gli attori e spettatori fuori delle più o meno liete contingenze quotidiane, nella visione feconda dell’avvenire della patria. |
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| È noto che le due provincie strappate nel 1870 alla Francia erano riuscite a conquistare negli ultimi anni del dominio germanico una vasta autonomia che veniva esercitata dal Landtag di Strasburgo, vero parlamentino, di fronte al quale lo Statthalter ed i suoi ministri erano responsabili per l’amministrazione ed il potere esecutivo. Rientrata la Francia a Strassburgo, si ebbe subito un cozzo violento fra il regionalismo ormai caro ai lorenesi ed il centralismo amministrativo francese. Di questo cozzo abbiamo descritto altra volta gli effetti perniciosi. Clemenceau dovette correre ai ripari, sostituendo il commissario generale Hennesey con Millerand, il quale cambiò rotta, e mutò sistema. Niente di più istruttivo che seguire i decreti ed i provvedimenti di Millerand in questo secondo periodo. Fu un continuo disfare quanto di affrettato avevano fatto ed introdotto i centralisti. Per caratterizzare intanto il nuovo sistema ci basti ricordare le parole dette alla Camera da Millerand, divenuto presidente del Consiglio, durante la discussione del bilancio dell’Alsazia Lorena al 3 giugno 1920. «Ritengo – disse testualmente Millerand – che occorre del tempo per passare dal regime attuale al regime francese. Aggiungo che spero che particolarmente per quanto riguarda l’amministrazione, la Francia attingerà nell’Alsazia-Lorena insegnamenti ed informazioni preziosissime, e invocò con impazienza il momento in cui la Camera – nell’interesse dell’Alsazia-Lorena e del resto della Francia – esaminerà e voterà il progetto che deve sostituire il Consiglio superiore. Questa è, a mio parere, la condizione necessaria perché l’ordinamento attuale possa svolgersi verso un ordinamento diverso e perché il resto della Francia s’avvii, come mi auguro, verso il decentramento». In queste dichiarazioni è non solo espressa con grande chiarezza la tendenza autonomistica, ma è toccata anche in concreto la questione principale, cioè quella della rappresentanza regionale o, come noi diremmo, della Dieta. Clemenecau infatti, in un primo periodo, aveva istituito accanto al commissario generale una commissione consultiva, il Consiglio superiore dell’Alsazia-Lorena, composto di 32 membri, 11 francesi e 21 alsaziani e lorenesi. Ma il Consiglio fece cattiva prova. Da una parte, giacché tutti i suoi membri erano nominati dal governo, scontentava le nuove provincie, dall’altra sembrava già troppo ai centralisti della vecchia Camera francese, i quali si affrettarono a stabilire che il Consiglio superiore dovesse cessare di vivere tre mesi dopo l’inizio della dodicesima legislatura, tre mesi dopo cioè che le nuove provincie avessero potuto eleggere i propri deputati ed i propri senatori. Le elezioni si fecero nell’ottobre 1919 e la nuova Camera francese nominò subito una speciale commissione che dovesse studiare i temperamenti ed i modi con cui introdurre in Alsazia-Lorena la nuova legislazione. Ma le commissioni parlamentari, l’opera dei nuovi deputati mandati dalle provincie disannesse alle due Camere si addimostrarono inadeguate ed insufficienti per la buona amministrazione delle nuove terre. Bisognava creare un qualche cosa nella regione stessa che assumesse in tutto o in parte le funzioni della Dieta cessata. E qui le aspirazioni della deputazione lorenese trovarono un fortissimo appoggio nell’imbarazzo del governo. «Senza una rappresentanza regionale, – confessò in occasione del citato dibattito al parlamento francese, il commissario generale che sostituì Millerand, il signor di Allapetite –, mi è impossibile governare il paese. Ho bisogno, egli disse, del controllo e della collaborazione dei rappresentanti locali». Tali dichiarazioni valsero a superare tutte le obiezioni degli oppositori, e così andò formandosi alla Camera una maggioranza favorevole ad un ardito esperimento autonomistico. L’idea che bisognasse convocare a Strasburgo un parlamentino locale, il Consiglio regionale, si fece strada, tanto che se la Camera non fosse stata occupata da altri gravissimi problemi generali, l’istituzione di un consiglio regionale con determinati poteri legislativi sarebbe ora un fatto compiuto. Quello che non arrivò a fare il parlamento, fa ora in parte Millerand, con decreto-legge, pubblicando l’ordinanza che traduciamo più sotto. È un provvisorio ancora, ma è già un bel passo innanzi. Anzitutto il Consiglio generale, 30 membri su 35, è elettivo. Sono i deputati, i senatori, i consiglieri generali (in Italia si direbbe: consiglieri provinciali) che designano i nuovi rappresentanti regionali. In secondo luogo i poteri del consiglio sono bensì soltanto consultivi, perché solo una legge del parlamento potrebbe attribuirgli funzioni legislative, ma siccome è stabilito che il consiglio debba venir convocato 4 volte all’anno e il commissario generale è obbligato a sottoporre al suo voto il bilancio, ogni modificazione e novella di legge di ordine amministrativo ed economico, le istituzioni di carattere pubblico e i lavori pubblici, e siccome al consiglio è riservato anche il diritto d’iniziativa, è chiaro che il Consiglio generale ha di fatto la forza di essere e diventare quello che era prima la Dieta. Esso si conquisterà via facti un potere deliberativo, prima ancora che lo sancisca il parlamento. Confronti? I lettori comprendono senza che noi facciamo il parallelo. Anche l’esempio dell’Alsazia-Lorena deve confortare il Trentino ad insistere nella via che noi abbiamo già tracciata l’anno scorso. Il centralismo è pernicioso, le commissioni consultive di nomina governativa concludono poco e non corrispondono allo scopo. È necessario istituire una vera rappresentanza regionale elettiva. Il centro delle nostre aspirazioni autonomistiche è la Dieta. Bisogna volerla colla massima energia, bisogna conquistarla a qualunque prezzo! Il testo del decreto Art. 1. – In via transitoria, e fino all’istituzione di un Consiglio regionale nelle condizioni che saranno fissate, da una ulteriore legge, è istituito un Consiglio consultivo accanto al commissario generale della repubblica a Strasburgo. Art. 2. – Il Consiglio consultivo del commissariato generale comprende 35 membri, dei quali: 1. tre senatori, designati, in ragione di uno per dipartimento, dai senatori dell’Alto Reno, da quelli dal Basso Reno e da quelli della Mosella; 2. sei deputati, designati, in ragione di due per dipartimento, dai deputati dell’Alto Reno, da quelli del Basso Reno e da quelli della Mosella; 3. 21 consiglieri generali, designati in ragione di 6 dai consiglieri generali dell’Alto Reno, 8 dai consiglieri generali del Basso Reno e 7 dai consiglieri generali della Mosella; 4. cinque nominati in ragione della loro competenza e dei loro studi anteriori, con ordinanza del presidente del Consiglio, su proposta del commissario generale della repubblica a Strasburgo. Il Consiglio consultivo è presieduto dal commissario generale della Repubblica a Strasburgo; in caso d’impedimento, il commissario generale è supplito dal segretario generale del commissario generale. Art. 3. – Il Consiglio consultivo è convocato dal commissario generale della Repubblica, che lo riunisce almeno 4 volte all’anno; la durata delle sessioni e l’ordine del giorno è stabilito dal commissario generale. Art. 4. – Il Consiglio consultivo delibera ed emette il suo parere su tutte le questioni sorpassanti il territorio di un dipartimento che sono sottoposte al suo esame dal commissario generale. Esso è obbligatoriamente consultato: 1. sul bilancio delle uscite e delle entrate dell’Alsazia e della Lorena e su tutte le modificazioni al regime fiscale in vigore; 2. su tutti i progetti di legge e di regolamenti di ordine amministrativo o economico, interessanti l’insieme delle popolazioni dei dipartimenti dell’Alto Reno, del Basso Reno e della Mosella; 3. su tutti i progetti di modificazione delle circoscrizioni amministrate oltre quelle dei comuni e dei giudizi, 4. sulla creazione di tutte le istituzioni d’interesse pubblico comuni a più dipartimenti; 5. sui progetti di grandi lavori pubblici interessanti più dipartimenti. Art. 5. – Un segretario permanente è annesso al Consiglio consultivo: i direttori generali e i direttori dei servizi di amministrazione generale o i loro delegati compiranno, se è necessario, le funzioni di commissari del governatorato. Art. 6. – Prima di emettere il suo parere su una questione o su un progetto d’ordine economico o sociale, il Consiglio consultivo può sentire i rappresentanti delle professioni interessate a quelle questioni o a quel progetto: questi rappresentanti sono convocati dal commissario generale sulla proposta delle Camere di commercio, delle Camere di mestieri, dei sindacati e di altri gruppi professionali. Art. 7. Il presidente del Consiglio, ministro degli Affari esteri, è incaricato della esecuzione del presente decreto che sarà pubblicato nel «Giornale Ufficiale» e inserito nel «Bollettino dell’Alsazia Lorena». Dato a Rambouillet, il 9 settembre 1920. Il Presidente della Repubblica F.to Paolo Deschanel . Ministro degli Affari esteri Il presidente del Consiglio Firmato: Millerand. |
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| Annessione è una brutta parola della terminologia internazionale, che nei rapporti fra i popoli civili dovrebb’essere ormai superata. Può valere ancora per le colonie e si può applicare in ogni caso ai territori, non agli uomini. Si può annettere il Brennero, ma non si annette il Trentino che nella storia e nella coscienza della nazione fu sempre un paese, non un territorio. Domani quindi celebriamo non l’annessione, ma l’unione del Trentino all’Italia. Questa parola dà chiara e dignitosa espressione alla parte attiva ed efficace che gli uomini del Trentino ebbero in questo avvenimento. Si tratta di un ricongiungimento che fu desiderato da secoli e fu atteso con ansia in tutto il periodo del risorgimento italiano e si tratta di un’unione che fu voluta a costo di sacrificio e di vittime. Ebbene, oggi che l’epoca del risorgimento sembrò chiusa oramai da parecchi lustri, eccovi balzar fuori il Trentino, riuscito finalmente a liberarsi da una secolare sovrastruttura forestiera, eccolo balzar fuori e ricongiungersi d’un salto agli anelli della storia che formano il risorgimento delle varie parti d’Italia. A Trento dal 3 novembre in qua le cerimonie patriottiche furono frequenti. Alcune valsero, com’era doveroso, alla storia dell’esercito liberatore, alcune ebbero carattere di propiziazione per la Gran Madre, come usiamo dire con enfasi di pronipoti romani, altre furono feste di effusione fraterna o di commemorazioni per quelli che combatterono, soffrirono o morirono per la patria. Tutte queste la cerimonia di domani le riassume, le trasfonde e le corona in un unico atto ancora più comprensivo, ancora più solenne. Ma si farebbe opera a mezzo, se la testa di domani riuscisse nel suo significato principale solo un coronamento del passato. La cerimonia di domani chiude il periodo di transizione, ma soprattutto apre ed inaugura il periodo della cittadinanza italiana. «Civis romanus sum», si ricordi domattina ogni trentino, ogni sindaco, ogni lavoratore della terra e dell’industria, entrando in Trento. «Civis romanus sum» ed, entrando, ne porti in fronte la gioia e l’orgoglio. Domani si festeggia la volontà del popolo trentino per la tenacia colla quale esso volle e raggiunse l’unione alla patria; domani si celebra con tutta la pompa questa nuova dignità. questo nuovo carattere di libero cittadino italiano, di socio eguale nel diritto e nel dovere entro il consorzio nazionale. Domani più che nel passato, si guarda all’avvenire. In piazza del Duomo verrà data lettura della legge sull’annessione. È un documento di carattere formale, intessuto di formule tradizionali, che ci richiamano al ’66, al ’59, alla costituzione del regno d’Italia. Eccovi anche per lo stile ricongiunti a quell’epoca di formazione. Si sente l’opera del muratore che inquadra a posto le pietre basilari. Art. 3: il Trentino «fa parte integrante del regno d’Italia». Siamo alla fine di codesto grigio ed umiliante periodo d’occupazione. Oggi qui ove l’Italia fu sempre nel costume, nella lingua e nei cuori, si presenta anche nella sua veste politica ufficiale di Stato italiano: due figure che la natura e la Provvidenza vogliono che nella storia dei popoli combacino e si coprano. Ma «far parte integrante» non vuol dire scomparire in unità d’atomi uniformi. Integrare è completare, aggiungere, unire qualche cosa. In questo senso noi riaffermiamo che il Trentino non viene annesso, ma si unisce all’Italia. Lo spirito si trasfonde, ma l’organismo si riconnette, si adatta, si modifica, e ciascun organo mantiene la sua funzione distinta. L’art, 4. della legge precisa appunto che l’unione del Trentino all’Italia è unione organica, non una miscela meccanica. Bisogna emanare nel campo politico-amministrativo una legislazione speciale per coordinare le leggi del Regno colle nostre autonomie provinciali e comunali. Ecco il nesso organico, con cui veniamo congiunti. Ricordiamolo domani e riaffermiamolo con precisione e chiarezza. L’art. 4. è una novità nella serie dei decreti e delle leggi del risorgimento. È il fatto nuovo che segna l’evoluzione dei tempi, il sintomo della grande trasformazione politica che si prepara in Italia. E, ricordiamo anche questo: che l’art. 4, cioè l’avvenuto riconoscimento di massima delle nostre autonomie, è stato voluto e conquistato da noi, conquistato attraverso mille ostacoli, strappato all’indifferenza e salvato di mezzo a gravissime preoccupazioni che tormentavano la nazione. Il volere quell’articolo fu il primo atto di fierezza autonoma e solo quanti hanno lavorato il terreno per arrivarvi, solo coloro che con fede tenace e con mezzi inadeguati, sono giunti a farlo votare dal parlamento nazionale, potranno dire quale progresso e quale pegno esso rappresenti. Sindaci e rappresentanti che vi raccogliete domani a Trento, a voi farlo valere! Nel Duomo noi ci prostriamo innanzi alla maestà di Colui che tutto regge e la lode che s’innalza a Dio è rivolta anche a tutti gli uomini che ne furono gli strumenti fortunati. Fuori, sulla piazza, è l’arringo del popolo libero, in piedi, innanzi alle autorità, di fronte alle quali assumiamo dei doveri ma facciamo valere anche dei diritti. Non ci turbi la visione del gravissimo momento che attraversa l’Italia né ci confonda il caotico frastuono delle migliaia che gridano, minacciano, invocano, protestano. Pochi uomini, che hanno la testa, il cuore ed il fegato a posto attraverseranno la folla tumultuante senza smarrirsi. Bisogna solo che vedano chiaro il punto a cui vogliono arrivare. Guardate quello ch’è avvenuto per la stessa annessione. Se i trentini non si fossero mossi attenderebbero ancora. Il trattato di San Germano venne firmato il 10 settembre e approvato dall’Italia per decreto-legge il 6 ottobre 1919. Ricordate poi quello che avvenne. Ad ogni commissione che si presentava, l’on. Nitti rispondeva: Pazientate, l’annessione non si può fare, bisogna attendere la soluzione adriatica. Con ciò tutte le solenni promesse già fatte dallo stesso presidente del Consiglio fin dal 25 luglio 1919 in confronto della deputazione popolare cadevano: niente annessione, niente elezioni, niente ricostruzione del paese. Ogni mese, ogni quindici giorni succedeva un qualche avvenimento che ricacciava le nostre speranze ancora più indietro «Liberatemi da D’Annunzio, esclamava Nitti, ridendo, e poi discorreremo». E tutta l’opinione pubblica italiana, tutta la grande stampa pensava e scriveva così. Ma anche noi abbiamo pensato e scritto, e siamo arrivati ad altre conclusioni. Il testo del trattato ci pareva chiaro, in nostro favore. Un giorno, fu il 28 febbraio, uno dei nostri uomini politici , in assenza di Nitti, affronta la questione in un colloquio col conte Sforza e coll’on. Rossi, allora vicepresidente del consiglio. Il conte Sforza ammette la possibilità dell’annessione graduale delle nuove provincie. Il nostro rappresentante insiste sulle ragioni che consigliano di affrettare e ve ne sono di quelle che fanno breccia sul ministro degli Esteri. Allora a conclusione del colloquio dal gabinetto del ministro Rossi parte un telegramma per Nitti che sta a Londra, che faccia premure presso Lloyd George per la ratifica del trattato, cosa che fino allora il nostro governo aveva lasciato dormire; e nella stessa sera il conte Sforza ne parlava all’ambasciatore di altra potenza alleata. Fu in seguito a questo passo che il 2 marzo la commissione estera della Camera inglese invitava l’Inghilterra e la Francia ad accelerare la ratifica. Fu allora che per la prima volta la stampa romana rilevò la possibilità dell’annessione separata della Venezia Tridentina. Noi insistemmo e scrivemmo allora che, approvato il trattato, l’annessione diventava una necessità. E avevamo ragione. Pur ancora nel giugno Nitti nella dichiarazione fatta in confronto dei partiti trentini tentennava, non volendo prendere un impegno assoluto; ma fu già molto l’aver indotto Nitti e Salata ad ammettere come possibile, anzi probabile, l’annessione separata. Le trattative con Giolitti e colla maggioranza della Camera sono più fresche, per aver bisogno d’essere ricordate. Ma via via, a traverso tutti i rivolgimenti, c’è un filo continuo, talvolta tenue, talvolta più forte, di cui i trentini intessono la loro vicenda politica. Se domani celebriamo questa festa e la celebriamo così, nella pienezza cioè dei nostri diritti regionali, è, o trentini, ricordatelo, opera nostra. Consapevoli di questo, riaffermiamo domani in piazza Vittorio Emanuele, sulla storica nostra piazza del Duomo, innanzi al palazzo del podestà sotto la torre del nostro antico municipio, al suono della vecchia renga, che il Trentino vuole essere dell’Italia un membro vivo, un organismo fattivo e ordinato; che vuole ricostituita una propria rappresentanza regionale, si chiami esso consiglio o dieta, colla forza deliberativa, già conosciuta da antichi statuti e che la nuova democrazia non potrà che intensificare. Noi vogliamo l’autonomia regionale in questo senso e nel senso che i migliori italiani augurano alle loro regioni. Troppo indugiammo di già, e le nuove provincie francesi ci hanno già preceduti nella conquista. Ma ora la via è sgombra. Non ci sono più pretesti, e tutti gli ostacoli devono cadere. Fra poco si metterà in moto il piccone elettorale. Ma sia domani la celebrazione di questa nostra fermissima volontà, la cerimonia propiziatrice della nuova era, in cui noi, fatti partecipi della piena cittadinanza italiana, entriamo nel grembo della nazione, eterna, ma in uno stato mutevole e in completa trasformazione. L’annessione del Trentino avviene secondo le leggi della dinamica, non della statica. L’Italia si evolve e si ricostituisce e noi ci evolviamo con Lei. In questa evoluzione la forza dinamica principale è la nostra volontà. Questa festa di fascie e coccarde tricolori ricorda un po’ le grandi cerimonie federali dell’89 e ’90, quando la rivoluzione era tutta una fratellanza, soffusa di sogni ed impregnata di giustizia. Noi siamo a quella svolta della storia. Vogliamo il rinnovamento, la trasformazione, ma odiamo il caos della rivolta, deprechiamo la violenza e il terrore e odiamo i giacobini. Con questi sensi i trentini o la grande maggioranza di loro s’affacciano sulla soglia dello Stato italiano e chiedono le loro libertà e rappresentanze autonome, intendono fare opera organica di rinnovamento politico, e di contribuire, col decentramento ben inteso ed applicato su terreno ormai sperimentato, al rinnovamento politico amministrativo d’Italia, il quale dovrà poi rivestire il suo nuovo ordine sociale. |
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| […] La relazione del segretario Amici! Secondo i nostri registri siamo 15572 soci, in 256 sezioni. Mancano all’appello ancora, anche tenendo calcolo della zona devastata, troppi comuni. Perché mancano? Per un senso di esagerata sicurezza. Sembra a molti che il successo elettorale sia già garantito senza lo sforzo di un’apposita organizzazione politica; poi perché la forza propulsiva dal centro ad un certo punto venne meno. La direzione ha promosso infatti dall’ottobre al gennaio passato un centinaio di conferenze di propaganda; ma poi, vistasi allontanata ormai la speranza di elezioni a prossima scadenza, più che ad organizzare il partito dovette pensare a rappresentare gl’interessi del paese. Giustizia vuole che, giudicando la nostra attività, non dimentichiate il carattere particolare del periodo straordinario che abbiamo attraversato. Fino che parve vicina l’elezione dei deputati, la direzione doveva pensare anzitutto alla propaganda politica, ma quando fu manifesto che il paese sarebbe rimasto ancora a lungo senza rappresentanti, la direzione fu costretta a sostituirli, bene o male, nella loro funzione di sostenere l’interesse del paese. Su questo terreno abbiamo svolta un’attività che credo non potesse essere più intensa. Dal 27 ottobre in cui il vostro segretario presentava all’on. Nitti i vostri o.d.g., votati nell’ultima assemblea fino a questi ultimissimi giorni la direzione esercitò un vero mandato di delegazione presso il governo o presso il parlamento nazionale. Ricordo rapidamente: il nostro intervento per la ricostituzione dei comuni, per i problemi della liquidazione austriaca (on. Grandi) , per il rimpatrio dei prigionieri dall’Estremo Oriente, per il pagamento delle pensioni ai sinistrati, per l’applicazione della legge sul risarcimento dei danni di guerra, per i contributi al genio civile, per la ricostruzione, per i contributi dello Stato o dell’istituto federale veneto al consorzio dei comuni, per l’estensione dell’inchiesta parlamentare sulle spese di guerra e di armistizio anche alle terre redente, per la sistemazione dei pubblici funzionari, per miglioramenti ai ferrovieri, ai postelegrafonici, alla guardia di finanza, ai cancellieri giudiziari, per l’assimilazione agli effetti economici di tutte le categorie di addetti ai servizi pubblici, salvi sempre i loro diritti acquisiti, per sostenere memoriali di maestri e di operai del tabacco, dei segretari ed impiegati comunali, per prorogare l’imposizione di nuove tasse ai contadini per la questione dei vini e dei trattati commerciali, in favore della caccia, del concorso forestieri ecc. I problemi centrali Abbiamo anche esercitato attiva opera di vigilanza nel campo della scuola intervenendo anche efficacemente in favore dei nostri fratelli adriatici, quando l’on. Ciuffelli tentò di eliminare l’insegnamento religioso. A tutta questa opera, che non è davvero esaurita in questi rapidissimi cenni, aggiungete l’azione quotidiana e svariatissima che la direzione svolse presso il commissario generale e le autorità locali; e mi direte se questo compito di esercitare – certo imperfettamente e non completamente – quelle funzioni che sarebbero state dei deputati, non abbia già da solo reso travagliato e affaticato quant’altri mai questo periodo di attività della direzione. Ma due problemi, sovra ogni altro, richiesero tutta la nostra attenzione, quello della valuta e quello della ricostituzione politico-amministrativa del nostro paese. Del primo possiamo dire che i nostri replicati e disperati interventi contribuirono – senza con ciò voler menomare l’opera altrui – al risultato di costituire e far lavorare quella commissione che ora a Roma sta risolvendo ad uno ad uno l’intricate questioni che vi sono connesse; del secondo ci sia lecito affermare che senza la nostra tenace propaganda, senza le nostre insistenze, che non disperarono mai né di fronte all’ignoranza né di fronte alle opposizioni, esso non sarebbe oggi divenuto per l’Italia uno di quei problemi istituzionali, che oramai s’impongono a qualsiasi governo e a qualsiasi parlamento. La Dieta trentina Considerate il cammino che ha fatto l’idea. Sul principio il nostro postulato della rappresentanza regionale autonoma, della costituzione di una Dieta trentina, suscitò a Trento stesso le ire sdegnose degli iperpatriotti che ci tacciavano di legittimismo austriacante; ora tutti i partiti trentini lo accolgono. A Roma incontrammo ignoranza o avversione. Quante conferenze, quante discussioni, quanti atti di energia ci vollero prima che l’idea trovasse ospitalità! Ora essa è investita di piena cittadinanza in forza della legge di annessione. Amici, questa vittoria fu potuta raggiungere solo in forza di una fede irremovibile e di un’opera cosciente, avveduta, perseverante. Avremmo mancato in molte altre cose, ma in questa che a noi parve il problema centrale del paese, abbiamo prodigate tutte le nostre energie, e ci pare che per merito di essa ci possiate perdonare le altre nostre mancanze! Per essa abbiamo fatto la più attiva propaganda nella stampa, presa la parola nei congressi del Partito popolare italiano di Bologna e di Napoli, conquistata l’adesione della direzione centrale e del consiglio nazionale del partito, l’appoggio del nostro gruppo parlamentare che ne fece oggetto di pattuizione per il programma della coalizione governativa, cercato e raggiunto l’accordo coi decentralisti e regionalisti d’Italia d’ogni fede politica e trovata infine l’adesione di massima dei governi da Nitti a Giolitti ed il voto di principio delle due Camere. I futuri deputati sono chiamati ad attuare; noi fummo i pionieri che abbiamo aperta la via. Giammai un postulato particolare di una nuova regione trovò il resto dello Stato così poco disposto a prendere notizia, a discuterlo, ad avviarlo alla soluzione (applausi). Noi abbiamo dovuto svolgere la nostra azione a scatti, con intermezzi di lenti assedi e poi con attacchi frontali, agendo in mezzo ad una crisi politica in permanenza e fra le convulsioni che preparano la rivoluzione sociale. La politica in tempi più normali fu paragonata ad una partita a scacchi; oggi essa assomiglia piuttosto all’acrobatica; chi non ha il polso fermo e l’orecchio pronto, si rompe il collo. – Noi non ce l’abbiamo ancora rotto, e ci pare già questo un successo così fortunato da dover vantarlo al cospetto di quest’assemblea (ilarità, applausi). Dovrò pur ricordare qui la nostra azione, per la ratifica del trattato di S. Germano, ratifica ch’era indispensabile per giungere all’annessione? In questo nesso avrei da ricordarvi anche le trattative avviate a Trento e finite a Roma per l’assetto politico-amministrativo della provincia in confronto dei postulati dei nostri vicini tedeschi, trattative alle quali collaborarono mons. Gentili e Ciccolini in prima linea, colla loro preziosa energia. Dovrei ricordarvi la nostra opera svolta in paese per ristabilire l’autonomia comunale e l’iniziativa presa dai nostri amici, nostri rappresentanti nel consiglio municipale delle città autonome per l’abolizione dei corpi elettorali? Fu tutta una serie d’iniziative prese seguendo sempre la stessa direttiva: ricostruire il paese su basi autonome e ricostruirlo al più presto possibile. Azione ausiliaria Se dovessi esaurire questa relazione, bisognerebbe dire anche dell’opera svolta dal partito nella sfera di non sua diretta competenza, là cioè ove si trattava di fiancheggiare e sostenere un movimento apolitico: tale opera ausiliaria abbiamo dato alle organizzazioni dell’Unione del lavoro specie quando era in causa la libertà dell’organizzazione per il contratto edile e tale appoggio abbiamo raccomandato a tutte le sezioni di dare al movimento apolitico delle società dei padri di famiglia, che si propongono di difendere la scuola cristiana e all’azione promossa dal «comitato diocesano per l’azione cattolica» contro la progettata legge per il divorzio. Le società cattoliche o i sindaci hanno una propria sfera d’azione ed una funzione particolare. Il partito politico non le assorbe né pretende dirigerle o sfruttarle, ché esse hanno vita propria e, direi, anteriore e superiore al partito, ma ne appoggia l’azione quando essa rientra nella direttiva del suo programma. Ed ora la vecchia direzione ha terminato il suo compito e chiede da voi la discussione ed il giudizio sul suo operato. Per preparare le elezioni La nuova direzione avrà il compito di preparare le elezioni e di dirigere la campagna elettorale e, rimessa poi ai neoeletti deputati la gestione degli affari politici, di dedicarsi con maggior lena all’organizzazione dei partito. Per la designazione delle candidature vi proponiamo di mantenere il sistema già adottato dall’ultima assemblea generale. L’assemblea eleggerà nella commissione elettorale un fiduciario per ogni distretto giudiziario (26), due per la città di Trento, uno per la città dì Rovereto ed uno per l’altipiano di Lavarone e Folgaria, avuto riguardo alla massa compatta di lavoratori che stanno oggi sull’altopiano. Queste 29 persone più i 16 membri della nuova direzione costituiscono i membri eletti dall’assemblea, la quale dà loro l’incarico di cooptare nel seno della commissione due membri delle organizzazioni di classe dei contadini, due dei sindacati operai, due delle società dei pubblici funzionari, inoltre due rappresentanti delle minoranze italiche dell’Alto Adige. La commissione è così composta di 55 persone. Essa avrà il compito di designare le candidature, salve le competenze delle altre istanze previste dallo statuto, e di fissare l’ordine della lista e eventualmente delle preferenze. Le candidature verranno fissate a scrutinio segreto, colla maggioranza qualificata di due terzi. Ogni sezione avrà diritto di far proposte. Esse devono pervenire alla direzione per iscritto entro un termine da stabilirsi. Io confido che questo sistema concili la libera iniziativa delle forze democratiche coll’esigenze della disciplina. La commissione dovrà spogliarsi d’ogni interesse particolaristico e locale, d’ogni egoismo di classe e d’ogni considerazione meno oggettiva. Il criterio nella scelta dei candidati Il Trentino ha oggi bisogno di uomini integri, abili, energici che si propongano di salvaguardare gl’interessi globali della regione, senza disperdere le energie nel propagare interessi contrastanti o postulati di fazioni locali. Siamo nel periodo ricostruttivo. Bisogna quindi che diventino gli architetti della nostra ricostruzione politica ed amministrativa. Occhio quindi alle basi, alla travatura ed alla chiave di volta. Che cosa varrebbe per loro aver ottenuto qualche miglioramento per la classe dei contadini, se non arrivassero a ricostruire la Dieta regionale, che ha la competenza legislativa di risolvere il problema agrario? La Dieta è – o socialisti –, il nostro soviet. Un consiglio regionale che sappia imporsi al governo vale per lo sfruttamento delle forze idrauliche e quindi per il nostro sviluppo industriale, più che una serie di favori strappati su questo terreno al governo. Una buona amministrazione scolastica, sorvegliata da un consiglio scolastico elettivo vale per i progressi della futura generazione più che centinaia di sovvenzioni ottenute ai comuni per le sedi scolastiche. Una liquidazione onesta dei crediti di guerra importa al Trentino immensamente maggiori vantaggi che qualsiasi politica di sgravi fiscali. E così via discorrendo. I futuri rappresentanti devono quindi guardare alle questioni grosse, a quelle basilari e gli elettori devono designarli ed eleggerli con tale criterio-direttivo. Certo che il criterio regionale non basta. I trentini alla Camera italiana varranno quanto sapranno valere non in funzione di rappresentanti d’interessi regionali, ma in funzione di propugnatori degl’interessi nazionali. Do ut des. La nazione ci ripagherà in ragione di quello che le offriamo. Perciò i nostri candidati dovranno avere delle idee e delle energie per risolvere la grande crisi della patria italiana. Queste idee e queste forze attingeranno al programma trasformatore del Partito popolare, al quale programma generale abbiamo dato già l’anno scorso la nostra adesione e al cui maturare nelle soluzioni concrete abbiamo anche noi, ultimi venuti, contribuito colla nostra stampa e col nostro delegato nel consiglio nazionale e dovremo contribuire ancora più a mano a mano che i vincoli della regione nuova con quelle vecchie, si faranno più stretti (grandi applausi). |
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| 31916-1920
| L’altro giorno sentendosi chiamato in causa da un articolo del «Trentino» che pur non si occupava direttamente di lui, lo scrittore dell’«Internazionale» ha risposto: ebbene sì, anche noi predichiamo la lotta estrema e tendiamo ad abbattere la borghesia. Ma fu un’ammissione a denti stretti; perché chi scrive l’«Internazionale» sa bene che non può onestamente e logicamente accordarsi la propaganda di socialismo minimalista e all’acqua di rose, che Groff e compagni fanno ogni domenica battendo la campagna, colla propaganda violenta che, seguendo più davvicino i dettami del partito, fanno i suoi colleghi in città o nei centri più grossi, ma sovratutto sa che tale suo genere di propaganda non è in armonia colla linea direttiva del partito il quale oggi accetta in pieno le dottrine di Mosca e vuole che vengano apertamente predicate. Chiamate innanzi alle supreme assisi del partito le idee di Groff, o Flor, che votò per la minoranza già a Bologna, e – non parliamo – di qualcun altro che sta dietro le quinte, esse subirebbero la stessa condanna – si licet parva componere magnis – delle idee di Turati. Ma questo il pubblico non lo deve sapere. Il binario doppio è comodo, purché si arrivi alla medesima stazione. Sul primo binario cammina il socialista tipo vecchio, predicato già da Battisti e da Piscel, ossia la democrazia sociale, come la chiamerebbero i russi. Questo socialismo è ancor buono per il senso comune della nostra campagna. Si presenta moderato nelle idee e sobrio nelle parole, parla degli interessi del giorno, non insiste troppo sulla rivoluzione né sulla confisca, guardandosi sovratutto di non accennare all’espropriazione della proprietà agricola e dice del Parlamento come di un luogo, in cui si debbano mandare uomini energici per far leggi giuste, non come di un’istituzione che bisogna far saltare in aria per sostituirla colla centrale dei soviets. Di ciò noi potremmo essere lieti. Che cioè il socialismo nostrano dimostri una maggiore serietà e una maggiore comprensione degli interessi del paese, dovrebbe essere per i trentini tutti motivo di sodisfazione. Ma c’è l’altro binario. E sull’altro binario corre all’impazzata la macchina rivoluzionaria sulla quale stanno attizzando i segretari delle C.d.L., nuovi venuti, i propagandisti stipendiati, inviati dal P.S.U. o dalle organizzazioni economiche e viaggiano tutti i nuclei anarcoidi del movimento. Questa macchina arriva prima in stazione e la conquista; i moderati che vi giungono dopo, si adattano e, per la unità del partito, lasciano fare. Il «buon senso» quindi non giova a nulla, non impedisce nulla; anzi il doppio binario serve per mantenere un equivoco, per tenere legati al partito socialista certi elementi moderati e per guadagnargliene degli altri; ma, tutti finiranno nella stessa corrente, travolti dalla volontà rivoluzionaria dei dirigenti e delle masse oramai fanatizzate. È chiaro infatti che anche il socialismo trentino si radicalizza e si soviettizza. Ciò appare meno dal giornale specie dopo che il dottrinario del partito, il prof. Salvetti, dirige le cooperative del lavoro, quanto da manifestazioni pubbliche e da certe rivelazioni dello stato d’animo operaio. Il dottor Carlo Tappainer ha quindi avuto ragione domenica 17 ottobre in occasione della festa della bandiera della sezione di Arco ad inneggiare «all’adesione della sezione locale al partito socialista italiano e alla terza internazionale di Mosca». Anche il socialismo trentino giura oramai nel verbo di Lenin Kameneff e Trotzki. E la matrina della bandiera ha colto il giusto significato della cerimonia, battezzandola «la comunarda»! Non tanto però in onore dei morti della comune di Parigi, quanto come labaro funesto di quella guerra civile che il partito socialista italiano, obbediente agli ordini di Mosca, vuole a tutti i costi scatenare in Italia, instaurando gli orrori della dittatura proletaria e del terrore comunista. «Comunarda», sei proprio la bandiera del Trentino nuovo e redento, sei la bandiera del nostro risorgimento economico, della nostra speranza in un avvenire migliore. Quando tu sventolerai sulla torre di Trento le libertà dei nostri comuni, che i tuoi seguaci avranno distrutto per sostituirli coi soviets, saranno spente, l’autonomia provinciale che noi chiediamo come salvaguardia di tutte le classi sarà calpestata come un’istituzione borghese. Comunarda, quando ti isseranno sul Castello del Buon Consiglio, il tricolore verrà calato giù nella fossa come in una tomba, in quella tomba ove fremono altre ossa e palpitano altri ricordi e ove verrà seppellita anche la libertà. Come ci arriveremo? Non lo sappiamo. L’«Internazionale» annunzia che ieri Serrati e Bombacci sono passati per la nostra stazione in viaggio per Berlino. Non lo sanno nemmeno loro, ma vanno a confabulare con Zinovieff , quello che fece massacrare 800 arrestati, dopo l’attento contro Lenin, per sentire, come bisogna fare. Tanto meno quindi lo possono sapere i Groff, i Flor e compagnia. Ma ci conforta una speranza. Il redattore dell’«Internazionale» all’annunzio suddetto aggiunge la notizia che ha potuto parlare per ben due ore con Bombacci. Bombacci, com’è noto, è il massimalista dei massimalisti, colui che per i sovieti italiani ha in tasca il progetto bell’è fatto. Il redattore dell’«Internazionale» ne farà un’intervista. Siamo curiosi. Che ci abbia finalmente detto, come si possa salvare codesto paese? |
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| 31916-1920
| Noi abbiamo da fare a Roma una semplice domanda: in agosto Giolitti ha promesso di indire, subito dopo l’annessione, le elezioni per il parlamento. La legge dell’annessione porta la data del 28 settembre, oggi è il 27 ottobre, e non soffia ancora il minimo vento elettorale né si muove una foglia. Notate che disgraziatamente dovrà intercorrere anche dopo l’indizione un certo periodo per la revisione delle liste. Ci vogliono proprio rimettere al 1921? Hanno telegrafato ieri al «Trentino» che il Consiglio dei ministri si è degnato occuparsi di noi per la promulgazione dello Statuto albertino, cioè della legge fondamentale o della «patente», come avremmo scritto nell’anteguerra, emenata da Carlo Alberto il 4 marzo 1848. Ne siamo oltremodo riconoscenti; lo Statuto albertino è un bel documento storico, tanto storico e sorpassato oramai da leggi posteriori e pratica di governi che, promulgandolo per il Trentino alla distanza di tre quarti di secolo l’on. Giolitti – così ci telefonarono ieri – lo farà accompagnare da un commentario per dire che nessuno se ne inquieti. Sta bene; ma non è il momento degli archivisti e degli studi storici. Dello Statuto più che l’ereditarietà della Monarchia «secondo la legge salica», diventa di palpitante attualità il diritto che ci viene riconosciuto dell’esercizio del potere legislativo. Quando si darà campo a questo diritto? Quando finalmente anche questo lembo di terra, congiunto all’Italia da due anni, potrà dire la sua parola? Il Ministero esita a occuparsi della legge elettorale e delle elezioni, perché può proiettare una qualche luce sintomatica sulla futura sistemazione della regione. Ma questo è proprio un Gabinetto il quale ha paura non solo delle questioni, ma anche delle loro ombre? È ora di finirla! Si sbrighino, altrimenti bisognerà provvedere a romper loro l’alto sonno nella testa. |
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| Dopo la clamorosa carnevalata antireligiosa a cui avevano dato lo spirito e il colore i fascisti dell’«Italia alpina», e della vecchia «Libertà», la lotta contro l’insegnamento della religione nelle nostre scuole non ha più trovato la forza di riardere. Ha prevalso il buon senso insieme con l’opportunità; e perfino i maestri aderenti all’Unione magistrale nazionale, una società che ha tutta una tradizione di laicismo e di settarismo, hanno votato perché l’istruzione religiosa sia mantenuta così come ora, concedendo l’esonero dal frequentare le lezioni a chi ne faccia dichiarata richiesta. Ed anche nella Venezia Giulia, dove l’infelice ed arbitrario decreto dell’onorevole Ciuffelli, aveva tentato la sopraffazione delle coscienze della grandiosa maggioranza dei cittadini imponendo di sorpresa il deploratissimo regolamento del regno che riduce l’insegnamento religioso alla condizione avvilente d’un intruso mal tollerato, si agitò per qualche tempo la polemica giornalista pro e contro l’indirizzo educativo cristiano: ma anche lì prevalse a poco a poco la ragionevolezza; e mentre il decreto ciuffelliano, per la sua manifesta e violenta illegalità, rimase in moltissimi luoghi lettera morta, andò ristabilendosi lentamente l’ordinamento tradizionale, con la logica dispensa prevista a favore dei dissenzienti dalla nota disposizione del comando supremo. Parlare di un tale ordinamento, come fosse offensivo alla libertà delle coscienze religiose è cosa ridicola e disonesta. Poiché esso stabilisce bensì che gli alunni, i cui genitori non dichiarano di essere contrari all’insegnamento religioso, devono frequentare le lezioni catechistiche; ma d’altra parte non fa nessunissima difficoltà a concedere la dispensa a chi faccia la più semplice dichiarazione di non volerne sapere. Né si deve dimenticare che i cittadini favorevoli all’insegnamento religioso formano la grandissima maggioranza, mentre i contrari rappresentano una minoranza insignificante che in molti luoghi si abbassa fino al livello eloquente dello zero. Ma ecco che, a rompere la calma, giunge dalla Venezia Giulia un nuovo squillo di battaglia. Contro l’insegnamento della religione nella scuola, e precisamente con lo scopo di eliminarlo totalmente da ogni ordine di scuola, muove in guerra la filiale triestina della «Giordano Bruno», la massonica associazione romana che il rivolgimento spirituale degli ultimi anni non ha potuto scuotere da quell’atteggiamento di goffo e idiota materialismo in cui s’era fin dal principio cristallizzata. Che al giorno d’oggi, in mezzo a questo fervido rinascere di valori spirituali e cristiani, ci possa essere una persona intelligente che prenda sul serio la vecchia retorica dei «libero pensiero», e giudichi i problemi della vita religiosa con la mentalità semplicistica di un barbiere anticlericale, è cosa appena credibile. Tanto più fa meraviglia che il presidente della «Giordano Bruno» triestina sia un tale che, per la carica di cui è rivestito, si dovrebbe ritenere un po’ intelligente: il presidente d’un liceo femminile di Trieste, prof. Luigi Candotti. Dove si vede che qualche volta, anche per presiedere un liceo femminile, l’intelligenza non è un requisito necessario. Il signor Luigi Candotti, dunque, terribile «libero pensatore» al cospetto di tutta la Venezia Giulia, ha inviato al commissario generale civile di Trieste un lungo memoriale che è riportato anche da vari giornali massonici del regno. In esso dopo aver esposto, a modo suo, la situazione giuridica attuale in merito all’insegnamento religioso e dopo aver trovato del tutto insufficiente per le sue velleità laiciste anche il decreto Ciuffelli, perché ammette l’istruzione religiosa, come facoltativa, il bravo preside esclama costernato: «Resta il fatto che la religione sia pure in forma facoltativa, fa se non altro parte del piano d’istruzione e dell’orario, viene impartita nella scuola stessa e rientra quindi nell’ambito dell’istruzione pubblica!». Vi immaginate voi un’infamia più scandalosa di questa? L’insegnamento religioso «nella scuola stessa»? Nella «scuola stessa» si potranno fare comizi anticlericali, feste da ballo, sproloqui di liberi pensatori, ma per bacco, parlare di Dio e di Cristo, no e poi no! Ma il valoroso Candotti ha a sua disposizione tutta una serie di argomenti economici, pedagogici, morali e politici, per richiedere lo sfratto della religione dalla scuola. Vediamo. Dopo aver dimostrato, con una meravigliosa logica candottiana, che l’invitare i genitori a dichiarare se vogliano l’insegnamento religioso o non lo vogliano, significa violentare la loro libera coscienza, come se fosse violenza l’appello a fare un atto preciso di coscienza e di libertà, il generoso Candotti rileva che è contrario alle regole d’una seria e oculata amministrazione lo spendere molte migliaia di lire per i catechisti, erogandole dai fondi del comune: questo sarebbe uno sperpero del denaro pubblico «quello cioè di tutti, anche di quelli che non intendono sia impartito l’insegnamento religioso ai loro figli». Il buon Candotti non capisce evidentemente che seguendo il suo criterio, col denaro pubblico non si arriverebbe mai a far nulla, perché c’è sempre qualcuno di parere contrario. Cosi non si potrebbe dare la sovvenzione comunale ai teatri perché ci sono molti che non la vorrebbero accordare e non si dovrebbero fare nemmeno i marciapiedi delle città, perché il contadino della montagna, con le sue scarpe ferrate, non vuol saperne di marciapiedi. E ci potrebbe essere anche qualcuno che considera uno sperpero del pubblico denaro la spesa di un liceo femminile con una simile perla di preside alla testa. Ma c’è poi l’argomento pedagogico. Trascriviamo: «…non è possibile che persone appartenenti alla ferrea disciplina della gerarchia ecclesiastica possano esercitare l’ufficio di educatori nella scuola laica moderna… Gli insegnanti di religione, in forza dei voti prestati, non possono essere tolleranti, devono esplicare una attività uniforme ai voleri della curia, sono costretti a insegnare una dottrina rigidamente confessionale e dal punto di vista didattico si trovano in posizione equivoca, tale da mettere gli alunni in uno stato di tormentoso turbamento dell’animo…». Il lettore ne ha abbastanza per giudicare, da questi cavoli mille volte riscaldati dall’anticlericalismo analfabeta, la mente e la dottrina del signor Candotti. Quando quotidianamente si trovano liberali e perfino socialisti che mandano i loro figli alle scuole confessionali perché le trovano più efficaci e più educative, non resta che un sorriso di compassione per la piccolezza di questo «libero pensatore», che nega al sacerdote, in via assoluta, la capacità di educare. Piuttosto si potrebbe studiare se una persona legata così tenacemente alle trivialità del rude dogmatismo massonico possa stare degnamente alla presidenza d’un delicatissimo istituto di educazione. Ultimo argomento è il politico; ed è stupefacente. L’insegnamento religioso, dice il Candotti trasformato in uomo di Stato, deve essere abolito perché… per i cattolici «è fatta esplicita riserva del dovere preciso di riconoscere il dominio temporale del pontefice…». E poiché riconoscere il potere temporale significa prendere posizione contro lo Stato italiano, ne risulta che i catechisti predicherebbero «l’odio e il disprezzo per il paese che li ha visti nascere». Dunque, abolizione! E il signor Candotti è ancora troppo generoso se non propone la «fucilazione per tutti i catechisti». Questa miseria morale e intellettuale, questo analfabetismo politico e pedagogico di un uomo in cui il settarismo vorrebbe occupare il vuoto dell’intelligenza, non può spaventare i cattolici. L’attacco è troppo goffo e troppo compassionevole. Ma lo rileviamo, sia per dimostrare con un esempio la mentalità sopraffattrice degli avversari, sia per richiamare l’attenzione alla attività che i nemici dell’idea e della educazione cristiana vanno continuamente svolgendo, ora nell’ombra delle sette, ora nella pubblica luce. Il nemico non dorme. Per questo, anche quando una calma apparente nasconde il pericolo e lusinga in una presunta sicurezza i difensori dei diritti della coscienza cristiana, conviene vigilare e stare in guardia. Non mancano anche nel Trentino uomini e sette il cui pensiero corrisponde con quello dell’ineffabile Candotti e della «Giordano Bruno». Occorre che le organizzazioni di difesa dei padri di famiglia, degli studenti, dei giovani cattolici, delle nostre donne preganti e credenti stiano salde ed accorte a respingere ogni possibile attentato. Il problema che dovrebbe essere solo educativo, è divenuto per necessità di cose e per il mal volere degli avversari, una ardente questione politica. Ebbene, nella campagna per le prossime elezioni, anche tale questione dovrà essere posta. Ed ognuno sarà tenuto ad assumere, in un senso o nell’altro, la sua piena e dichiarata responsabilità. |
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| 31916-1920
| «Per divulgare alla massa operaia e a tutto il popolo il significato dell’agitazione» (stile dell’«Internazionale» n. 151) i socialisti hanno convocato ieri nella zona della ricostruzione una serie di adunanze, spiegandovi che le loro organizzazioni avevano presentato al Governo un ultimatum per la completa ripresa dei lavori entro il 22, per la garanzia di liquidazione dei danni di guerra, compreso l’affidavit sulle 500 cor. ecc. ecc. Se il 22 l’ultimatum non avrà ottenuto una risposta favorevole, allora la «direzione del movimento» passerà dopo 48 ore alla Camera del Lavoro ed al Partito socialista. «Qualsiasi ulteriore tergiversazione – dice l’appello dell’«Internazionale» – si rende completamente superflua e fa d’uopo agire, agire più che con le parole coi fatti». In questo linguaggio i lettori riconosceranno subito lo stile ch’è ora di prammatica fra i predicatori del movimento rivoluzionario, sia poi che, all’atto pratico, la rivoluzione rimanga un’esercitazione verbale, sia che venga fatta delibare con qualche revolverata o qualche panierino di bombe. Tutti ricordano che cosa volesse dire dopo l’occupazione delle fabbriche la votazione avvenuta a Milano in un convegno delle supreme istanze socialiste sul passaggio o meno della direzione delle cose dalle associazioni economiche (confederazione del lavoro) all’organizzazione politica (Partito socialista) e tutti comprendono cosa voglia dire l’appello ai fatti, cioè all’azione diretta. Intendiamoci bene; non facciamo gli spaventapasseri. Intravvediamo perfettamente l’equivoco della bifida tattica di Flor e compagnia. Essi stampano le frasi grosse, ma il famoso ultimatum se lo formulano in modo che possano poi, a volontà, strombazzare una vittoria strepitosa o leggere nell’atteggiamento del governo una ripulsa offensiva, e ciò, a seconda del fine politico e demagogico che durante l’agitazione si credono di poter raggiungere. Così oggi i socialisti potranno annunciare che il loro ultimatum è accolto, perché di fatto, in seguito alle precedenti trattative che abbiamo già descritte, un minimo per la continuazione ridotta dei lavori è assicurato. Potranno però anche dichiarare, se meglio giova ai loro scopi, che l’ultimatum è respinto, perché non c’è governo in Italia che possa garantire su due piedi la liquidazione di tutti i danni di guerra in modo diverso da quello che lo garantisca già la legge. Non sappiamo in questo momento a quali delle due tattiche si appiglieranno i socialisti; pensiamo che si limiteranno, come al solito, alla rivoluzione verbale e che le autorità, come al solito, fingeranno di essere liete d’aver scampato un grande pericolo e magari daranno modo ai rivoluzionari rientrati di proclamarsi, in base ad una qualsiasi risposta ufficiale, riportatori di una grande e decisiva vittoria. Ma, comunque sia, e, peggio se questa nostra previsione fosse errata, volevamo oggi rilevare il veleno di questa campagna politica che i socialisti fanno nella zona devastata. Il canevaccio di tutte le conferenze è dato da questo periodo dell’«Internazionale» di lunedì: «Gli organismi del proletariato Trentino fin dal primo giorno dell’armistizio erano consci della gravissima situazione nella quale si sarebbe presto o tardi trovato il nostro paese in conseguenza della non mai abbastanza «maledetta guerra» voluta dalle classi capitalistiche a tutto loro uso e consumo, ed a danno esclusivo delle classi povere dei contadini, dei lavoratori, dei nullatenenti. Noi eravamo pure convinti che i governi borghesi che scatenarono la più grande sciagura su questo povero paese, non avrebbero SAPUTO, POTUTO né VOLUTO riparare come di dovere al male da essi cagionato e ciò oltreché per la loro mentalità borghese capitalistica e burocratica anche per la mancanza di buon senso ad impedire che il popolo venisse spinto alla più acuta esasperazione, in braccio alla disoccupazione e alla fame». La dottrina che si predica dunque ai danneggiati, con frasi, come si può imaginare, più forti ancora di quelle scritte è che la guerra, voluta dai capitalisti italiani ed austriaci «a tutto loro uso e consumo», per scopi cioè puramente di classe ha ridotto il Trentino in queste miserabili condizioni, che i «governi borghesi i quali scatenarono la più grande sciagura su questo povero paese», non hanno saputo né voluto riparare al male da essi cagionato. Conseguenza logica: darsi a corpo morto in braccio al socialismo. Qui veramente i retori rossi si arrestano, l’imparaticcio non serve più. Nelle tesi del Congresso di Mosca non c’è alcun punto il quale spieghi come mediante la rivoluzione e la dittatura proletaria si possa ricostruire una zona distrutta. Molti ci hanno descritto quali esperimenti potrebbe tentare il comunismo nelle industrie e nelle aziende agricole, ma nessuno ci ha saputo dire quali esperimenti si potrebbero fare fra le rovine. Del resto nessuna paradisiaca descrizione del futuro Stato comunista ci potrebbe tranquillare sulle conseguenze immediate che ci recherebbe una crisi di regime o una rivolta sociale in Italia. L’attuale ministro del Tesoro confida di trovare più larghi mezzi per la ricostruzione in un prossimo prestito interno. I bolscevichi a quali condizioni si troverebbero, quando si trattasse di cercare denari? Bombacci ha spiegato al redattore dell’«Internazionale» che in Russia stampano banconote da 10 mila a rotta di collo. Il danaro perde così ogni valore, ha soggiunto l’on. Bombacci, ma è appunto quello a cui tendono i comunisti, cioè l’abolizione della moneta. Applicate questo piano finanziario all’Italia, aspettate che la trasformazione del regime economico si compia (cinquanta, forse cent’anni, anche per la Russia, ha detto Lenin), e poi attendete che il prossimo «commissario del popolo» per le finanze vi fornisca per la ricostruzione rapidamente quei milioni che lo Stato borghese non ha saputo né voluto dare!!! Non è dunque nella forza d’attrazione di un simile programma positivo che può consistere il pericolo e la nocività della propaganda rossa; ma il veleno sta nel modo con cui viene teorizzata la critica dell’attuale situazione. Il seme socialista lanciato sul putrido terreno della miseria getta larghi e numerosi germogli. Di qui il dovere oltre che per giusta riparazione verso i danneggiati, anche per prudente valutazione delle conseguenze politiche, di fare ogni sforzo per tirar fuori da un ambiente di miseria ad una vita normale la nostra brava gente dei paesi distrutti. Di qui anche però il dovere per gli uomini di altri partiti e di diversa tendenza, di differenziarsi nettamente dalla propaganda rivoluzionaria a proposito di liquidazione danni e di zona distrutta. Le situazioni aspre richiedono frasi forti, gli indugi del governo non si bandiscono spesso che con un intervento energico; ma non confondiamo la risolutezza del volere, l’energia dell’esigere col linguaggio rivoluzionario dei predicatori dell’odio di classe. E soprattutto non prestiamoci in nessuna forma ed in nessuna misura a far credere che nel Trentino possa essere opinione accreditata e generalmente accolta quella che riduce tutta la guerra passata ad una guerra voluta collo stesso scopo e con pari nequizia dai borghesi austriaci e dai borghesi italiani per sfruttare – come dice l’appello – «le classi povere dei nullatenenti». |
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| Nell’«Internazionale» di ieri leggiamo il seguente bollettino di guerra: «Occupazione di cantieri nel Basso Sarca. In esecuzione dell’ordine del giorno votato all’assemblea di mercoledì a Trento i disoccupati di questa zona e organizzati alla C. d. L. passarono all’occupazione dei lavori. La direzione dei lavori esercitata fin qui dal Genio civile venne assunta dalle cooperative che stanno sulla lotta di classe. I lavori occupati sono: Arco: Piazza 3 novembre, Piazzale Pomar, Arginazione Sarca. Riva: lavori di Tenno, lavori della strada Biacesa-Pregasina. Nessun incidente». Chiaro, conciso e menzognero come un comunicato dello stato maggiore di Trotzsky. «Passarono all’occupazione dei lavori»: principio dell’offensiva. «La direzione venne assunta ecc.»: vittoria senza colpo ferire. La linea raggiunta nella rapida e trionfale avanzata passa per le arginazioni del Sarca, che sono ancora da iniziare, attraversa una piazza ed un piazzale di Arco e va a finire nei lavori ancora da farsi della strada di Tenno. Il capo di stato maggiore bolscevico deve aver avuto però l’impressione che la conquista non era ancora ben definita, perché per illustrarla meglio, vi pose a titolo: occupazione dei cantieri… Ma, insomma, che diavolo è avvenuto nella ridente conca archese? È scoppiata davvero la guerra civile e lo «stato borghese» ha capitolato senza difendersi? Il tono deciso del primo bollettino di guerra legittimava ogni nostra curiosità. Ed ecco secondo le più sicure informazioni, giunteci fino a ieri sera, a che cosa si ridusse la battaglia. Anzitutto non venne occupato nessun cantiere. I cantieri contengono macchine, utensili e, per lo più, larghe scorte di materiali, legno, ferro, laterizi; rappresentano quindi valori di milioni. La presa di possesso di questi sarebbe stata un’occupazione a la «Fiat» di Torino. I cantieri dunque niente; è vero solo che i socialisti avevano fatta manifesta propaganda per questa «occupazione», e quando nei comizi e negli o.d.g. si minacciava di passare «ai fatti» si pensava proprio a simili imprese. Ma quando seppero che lo Stato avrebbe difeso la propria roba, se occorresse anche colle baionette, allora l’impresa dei cantieri si fermò nel titolo del bollettino: sotto, viceversa, si annunziò che vennero «occupati» i lavori. Occupare i lavori, che cosa vuol dire? Sui ruderi di due case abbattute in Arco (piazza e piazzale) comparvero per breve tempo e poi disparvero due bandiere rosse; così fu lungo il Sarca sul ghiaieto, ove dovrebbero farsi quegli argini, la cui costruzione è ancora una posta del bilancio dietale; così venne piantata una bandiera sulla traccia probabile della strada di Tenno, per iniziare la quale strada l’ufficio edile della provincia aveva già da parecchio tempo disposto che al primo del mese venturo un ingegnere provinciale aprisse in Riva uno studio, per i lavori preliminari di picchettazione. Ma che cosa significa questa bandiera rossa issata sulle rovine o piantata sul terreno ove devono eseguirsi dei lavori edili? Se è una dimostrazione contro la disoccupazione ed una manifestazione perché il governo metta a disposizione i fondi onde eseguire i lavori progettati, ebbene essa rimane nei limiti di quelle dimostrazioni più o meno serie più o meno efficaci del partito socialista, che si possono discutere. Ma è chiaro che gli agitatori rossi tenterebbero di dare all’inalberamento della bandiera un significato, diremo, militarista. Essi vogliono prendere possesso del lavoro, conquistarne la direzione e l’esecuzione; sostituire la trattativa, l’appalto o la libera ed individuale assunzione degli operai coll’imposizione di una data società o di un dato gruppo. Essi stampano già nel loro bollettino di guerra che le cooperative «che stanno sulla lotta di classe» hanno assunto la direzione dei lavori e fanno balenare innanzi alla fantasia dei disoccupati il magico trionfo di un partito che, colla minaccia della violenza, improvvisa un lavoro e si accaparra dallo Stato i milioni per eseguirlo. Ora è necessario che il Governo non si presti in nessun modo ad accreditare un tale significato delle «occupazioni». Se le cooperative di lavoro o gruppi comunque di lavoratori possono credere che per accaparrarsi un edificio da costruire o un’opera edilizia da eseguire, basti prendere possesso delle rovine o dell’area di fabbrica, piantandovi una bandiera allora l’assegnazione dei lavori abbandona ogni via tracciata fin qui dalla legge e dal diritto comune, e siamo al «chi piglia, piglia», colla prospettiva che i meno scrupolosi e i più violenti avranno ragione. Eh, no; qua non bisogna lasciar sorgere equivoci, anche se questi possano giovare alle speculazioni politiche dei comunisti. L’assegnazione di una casa da costruire deve dipendere dal consenso del proprietario e da chi anticipa i danari e in quanto si tratti di opere pubbliche o dell’azione-ricovero, i lavori devono venir ripartiti con equità alle cooperative o assegnati in appalto secondo i criteri comuni. Giustizia ed eguaglianza per tutti. La bandiera rossa non ha da essere un privilegio per nessuno, come non lo pretende la bandiera bianca. Due diritti di prelazione esistono solo, e sono quello legale della preferenza a società cooperative in confronto di imprese private e quello naturale della preferenza che nelle misure per combattere la disoccupazione deve darsi agli operai della nostra regione. Non è giusto che operai accorsi qui da più o meno lontane provincie debbano rimaner qui a tutti i costi, anche quando vi sono migliaia di lavoratori trentini che non hanno lavoro. Se ce n’è per tutti, tanto meglio; ma quando i lavori debbano venir ridotti, com’è inevitabile nell’inverno o a mano a mano che la zona di ricostruzione si restringe, è logico e naturale che i primi chiamati a lavorare in casa propria devono essere i trentini. O dovranno, per recare un esempio, i forti e provetti lavoratori dell’Altipiano di Folgaria emigrare in America perché qui siano occupati dei marchigiani che abbiano issata la bandiera comunista? I trentini staranno all’erta. I socialisti tentano di conquistare il paese, disgregandone la ordinata compagine, coll’inportarvi da altre zone e onorevoli e propagandisti, e operai. Non abbiamo nessun interesse a favorire tale tattica, a pregiudizio dei terrazani. I nostri lavoratori in questo riguardo sorveglieranno molto bene anche le mosse degli agitatori socialisti e del commissariato. Della loro risolutezza si è avuto ieri mattina un energico esempio. Sparsasi a Borgo la notizia che i rossi avrebbero tentato d’impadronirsi del cantiere e che l’autorità paresse disposta a cagliare e lasciar fare, un forte gruppo di lavoratori delle cooperative bianche si presentò al capo dell’ufficio edile distrettuale e al commissario civile a dichiarare che essi volevano l’ordine ed il diritto eguale per tutti, che però se lo Stato rinunziasse a difendere il diritto comune e avesse lasciato che un partito s’impadronisse dei cantieri, essi lo avrebbero impedito, prevenendo il colpo e montando la guardia. Quello che si faceva a Borgo si sarebbe fatto o tentato dappertutto. Per fortuna questa volta Giolitti, dopo il molla molla di Torino, ha stretto i freni ed ha dato ordini severi. Speriamo che duri: in ogni caso gli uomini amanti della legge e dell’eguaglianza di diritto, tutti coloro che non vogliono la dittature proletaria e si rifiutano di pregustare nei bollettini di Consani o di Flor il libero governo comunista non intendono affatto che l’«occupazione» – se ha da venire – avvenga «senza incidenti»; ma intendono resistere e rifiutare ogni consenso ad eventuali atti di debolezza e di vigliaccheria da parte degli organi governativi, a cominciare dai capi fino agli ingegneri. Ci attendiamo che tali eventualità non si avverino. Sarebbe un tradire la causa di un paese che ha dato così luminosi esempi di disciplina nazionale e che anche nelle più acute lotte fra partiti ha sempre conservato il rispetto al diritto comune. |
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| Il governo avrebbe fatto qualche cosa di ragionevole, omettendo nell’applicazione della legge elettorale alle nuove provincie le disposizioni riguardanti le ragioni d’ineleggibilità ed incompatibilità. In Austria non esistevano, come, in tale misura, non esistono per alcun altro paese d’Europa. Nelle nuove provincie si era abituati ad un criterio più largo; tutti potevano venir eletti, qualunque professione o mestiere esercitassero. La libera scelta era rimessa alla volontà degli elettori. Né si sapeva che si fossero riscontrate perniciose conseguenze, o, se si verificavano, provvedevano i partiti e gli elettori stessi ad eliminare le conseguenze o a cambiare i deputati. D’altro canto bisognava pur avvertire la dolorosa impressione che doveva fare su tutti una legge la quale abolisse d’un colpo un diritto esercitato, per mandato di elettori, da lungo tempo. Pensate al caso di un deputato eletto ripetutamente alla Camera. Perché d’un tratto dev’essere interdetto agli elettori di rinnovargli la loro fiducia? Non assume qui la disposizione della legge, qualunque sia lo spirito che l’abbia promossa, un carattere di odiosa eccezionalità, ch’era interesse dello Stato italiano d’evitare? Inoltre abbiamo già avvertito che in riguardo ai funzionari dello Stato esiste in favor loro un diritto precostituito dalla prammatica di servizio, ancora in vigore. Il trascurarla, anzi il sopprimerla completamente coll’emanazione di una legge generale può apparire un sintomo grave ai funzionari, i quali sono incalzati dal timore che anche altre prerogative fissate dalla prammatica, possano venir in tal modo eliminate. Ognuno comprende poi come debba sembrare odiosa l’esclusione dei sacerdoti che abbiano cura d’anime o giurisdizione. Se un prete debba o non debba andare in parlamento decidano gli elettori e veda la Chiesa. Ma che lo Stato emani contro il clero una legge eccezionale per escluderlo dal mandato politico e dal mandato amministrativo, è un’enormità! Siamo qui dinanzi ad una delle leggi forcaiole, fabbricate dall’anticlericalismo italiano di giacobina maniera. La motivazione si trova nel solito sofisma. Il Flores, che fu capo-gabinetto di Nitti, nel suo commento alla legge elettorale scrive a questo punto: «Non si può permettere che entri a far parte del Parlamento chi per attirarsi suffragi possa giovarsi dei delicati poteri fornitigli dalla Chiesa». Per abbattere questo miserabile sofisma basterebbe ricordare che nella stessa legge elettorale sono comminate pene gravissime a chi abusa del pulpito o in genere della chiesa a scopi elettorali; cosicchè a scongiurare gli abusi è sufficentemente provveduto, senza che ci sia bisogno di escludere addirittura dall’elettorato passivo. Le stesse considerazioni dobbiamo fare per i casi d’incompatibilità. Chi ci sa dire perché un sindaco, perché un deputato provinciale (assessore di giunta) non possa venire mandato anche al parlamento a Roma? Si potrà temere in qualche caso l’accumulamento delle cariche o altre personali conseguenze, ma a correggere o attenuare tali casi provvederanno i partiti o gli elettori. Ma in quanti casi invece non s’è dimostrato opportuno che il sindaco di un grosso comune sia anche deputato del collegio, di cui il suo comune è capoluogo, ovvero quante volte non avviene che un sindaco di un piccolo villaggio non si presenti quale migliore candidato del distretto per il Parlamento? E come giustificare l’incompatibilità fra assessore giuntale e membro elettivo della Camera? Specie nelle nuove provincie, nelle quali l’opera della Giunta autonoma è azione parallela ed integratrice dell’azione dello Stato, e non subordinata alla stessa, quale giustificazione si può accampare per una sì rigida incompatibilità? Il Flores nel commento citato parla anche a proposito dei sindaci e dei deputati provinciali di un’incompatibilità precauzionale. «Si è ritenuto cioè che l’autorità e l’influenza del Sindaco fossero troppo forti nel territorio del Comune – specialmente perché formate nella più parte da quelle mille piccole dipendenze che a lui legano i comunisti – perché non ne consegua legittimo il dubbio che egli possa sfruttarle agli scopi personali dell’elezione politica». E l’argomentazione continua così per parecchie pagine. Un lettore settentrionale rimane di stucco. Evidentemente il legislatore che così infierisce in questa serie di articoli si sentiva attorno attorno circondato dalla camorra. Sono articoli contro le clientele, le camorre, le maffie. Nel mezzogiorno può essere che tali preoccupazioni, almeno parzialmente, abbiano una qualche ragione d’essere; ma perché si dovevano introdurre proprio nelle nuove provincie, ove l’essere sindaco è per un candidato al parlamento, piuttosto un inciampo che un aiuto? Ma è superfluo che noi entriamo a discutere la fondatezza o meno dell’ineleggibilità o dell’incompatibilità. La Camera italiana stessa sta per farne giudizio sommario. Ai 20 novembre 1920 è stata presentata alla Camera la relazione dell’apposita commissione composta dei deputati Belotti Bortolo , Gronchi , Tangorra , Grassi , Modigliani, Casertano , Rossi Fr. , Volpi e Turati, relatore, la quale propone ad unanimità l’abolizione degli articoli sull’ineleggibilità e sull’incompatibilità. Per i funzionari dello Stato la relazione propone che essi siano eleggibili, ma che non sia compatibile il loro mandato coll’esercizio dello loro funzioni, cosicché durante la legislatura, il funzionario dev’essere collocato in aspettativa senza stipendio, ma mantenendo il posto e i diritti d’anzianità; temperamento su cui si può discutere. Ma il principio dell’eleggibilità ha ormai trionfato. Interessante è infine rilevare che secondo l’art. 9 della citata proposta di legge, essa avrà effetto retroattivo. L’art 9, infatti al primo comma suona: «In quanto la presente legge estende l’eleggibilità o la compatibilità a casi, o a categorie che prima non ne godevano, gli effetti della stessa decorrono dal principio della presente XXV legislatura». Dopo ciò noi ci chiediamo come mai al 4 dicembre doveva uscire per le nuove provincie un decreto-legge senza tener conto di quelle modificazioni ch’erano ad un tempo invocate dai rappresentanti delle terre redente (qualche anticlericaluccia eccezione non conta) ch’erano consigliate da una buona politica in confronto delle loro tradizione e del loro diritto acquisito e che contemporaneamente combinavano colla linea direttiva e riformatrice della maggioranza e forse dell’unanimità della presente Camera italiana? In verità noi cominciamo a temere che nel Ministero sia entrato uno spirito gretto di conformismo formale e che l’Ufficio per le Nuove Provincie non abbia né la forza né l’elasticità per indurlo ad un ragionevole adattamento. Il caso presente ci preoccupa sovrattutto come un sintomo e come una minaccia. |
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| Ecco secondo l’Internazionale di venerdì in un articolo di Pietrobelli , che inaugura la campagna elettorale, come si dividono i partiti in lotta nel Trentino: «Se il volere abolire lo sfruttamento dell’uomo a mezzo del capitale; se il voler purificare il mondo dalla nequizia della speculazione sfrenata; se il voler spazzare dalla terra i mercanti di religione, gli ipocriti della politica, gli sciacalli del lavoro; se il voler infrangere le catene che aggiungono i più al carro dei pochi: se il volere togliere le disparità sociali, condannati alla miseria chi produce, ed elargenti gli agi a chi… distrugge; dare il potere al proletariato è opera di bolscevichi, ebbene NOI LO SIAMO. Ma se per contro i patriotti siete voi, gente che non produce e gavazza consumando; che incensa alla guerra distruggitrice, tremenda e maledetta, che benediceste le armi di tutti gli eserciti e gli ordini imperativi di tutti i coronati; che osannaste sempre a tutte le gesta della grande sciagura sanguinosa; che lieti della morte e della strage cantavate l’inno dell’odio al suono dei dividendi, che chiamate sempre piombo per la plebe, per la plebe dimostrante, che ogni energia fattiva rivolgete al gaudio e al lusso, allora noi abbiamo mille volte ragione di affermare tutta la bellezza del nostro ideale e, dire nei nostri comizi, stampare nei nostri giornali e gridare in faccia al mondo intero che voi siete i responsabili, voi gli autori materiali di tutte le pene, di tutte le torture che affliggono il proletariato, grandissima maggioranza dei cittadini componenti la patria che voi dite di amare mentre invece la rovinate e la gettate nella più squallida delle miserie». Nessuna menzogna storica più evidente di questa classificazione. Non metterebbe conto di rilevarlo, se essa non fosse il ritornello immancabile ed il luogo comune dei nostri conferenzieri bolscevichi. In un paese, ove la guerra non fu né poté venire discussa o quanto meno voluta, in un paese in cui l’enorme maggioranza dovette subirla in vario e prolungato martirio, in un paese in cui anche quei pochi che varcarono l’antica frontiera per combatterla, seguirono un’ispirazione indiscutibilmente idealistica, com’è possibile dipingere tutta la massa non socialista quale un coro di osannanti alle gesta della grande sciagura sanguigna, lieti della morte e della strage, cantori dell’inno dell’odio al suono dei dividendi…! Voi amate inoltre dipingere i vostri avversari in blocco conte «sciacalli del lavoro», «mercanti di religioni», «ipocriti della politica», come la borghesia insomma, che bisogna espropriare per dare il potere al proletariato. Borghesia! Proletariato! Tolti i pochi arricchiti dalle venture della guerra, dei quali stessi si possono relegare fra i capitalisti sfruttatori solo coloro che producono nuova ricchezza, monopolizzando, ovvero che non investono il capitale nella produzione, la «borghesia», quando sotto questa parola voi intendete comprendere tutta la massa non socialista, ecco di che si compone: 70390 aziende agricole, di cui 21499 sotto 0.5 ettari, 44923 sotto 2 ettari, 6542 superiore ai 5 ettari; una stragrande maggioranza dunque di proprietà piccola e minima, mentre le poche aziende di maggiore estensione, quando non hanno carattere forestale e non sono di enti pubblici, sono sempre suddivise in poderi a mezzadria. E voi volete espropriare questa «borghesia», per infeudarne il «proletariato»? Accanto ai contadini, i commercianti. Certo vi sono fra loro degli strozzini, dei ladri, e comunque, degli sfruttatori, ma si può affermare che bisogna espropriare e comunizzare il commercio, per togliere degli abusi, limitati già dalla legislazione, dalle cooperative e dal controllo (volutamente debole purtroppo) del pubblico e che per la via dell’organizzazione sociale si possono combattere maggiormente, senza spegnere per ciò la iniziativa individuale e procedere ad una nazionalizzazione di cui durante la guerra abbiamo avuti esempi terrificanti? Non si può negare d’altro canto che a lato del commercio sfruttatore vi è un commercio che esercita una funzione di utilità sociale e non di sfruttamento di classe e che questa funzione può venire sostituita, ma non soppressa. Inoltre nel caso dei nostro paese, si può dimenticare che accanto ai negozianti che fecero danari vi furono moltissimi che perdettero la sostanza o dovettero consumare tutte le riserve? Come dei commercianti, si dica dei piccoli industriali. In buona parte domina ancora da noi la piccola officina. Il proletario è il «maestro», venuto su dal mestiere che dirige e lavora egli stesso. Quest’artigianato non merita i fulmini degli espropriatori. La loro rettorica s’infrange contro l’onestà e la produttività di questo sistema. Certo che noi pensiamo ad una necessaria evoluzione anche su questo campo; pensiamo alla forma associativa, alla cooperazione, all’azionariato operaio, ma queste sono trasformazioni, non soppressioni. S’aggiungono poi gli addetti al commercio, gl’impiegati privati, gli impiegati pubblici, che in gran massa sono fuori del socialismo. È su codeste magre e spolpate ossa di siffatta «borghesia» che si lanceranno le bramose canne del… «proletariato»? «I mercanti di religione»… Poveri preti! Nessun bidello di nessuna Camera del lavoro d’Italia accetterebbe la media dello stipendio che riceve oggi un prete cattolico! Sono poveri e devono sottoporsi a delle limitazioni e privazioni che pesano inesorabilmente su uomini di un grado superiore di coltura. O la borghesia che vi affrettate a espropriare sono i nostri rentiers? Come se all’espropriazione non avessero pensato in buona parte le vicende della guerra? La perdita del 40% su tutti i risparmi, il rinvilimento della moneta avuta in cambio, la sospensione del pagamento di tutti i coupons hanno rovinato buona parte di coloro che vivono di rendita. Vogliamo dire con ciò che non vi siano sfruttamenti da impedire, sopraffazioni da combattere, abusi da togliere? No, davvero! Apparteniamo ad una direttiva sociale che non crede alla statica dell’attuale sistema individualista, ma lo vuole sostituito colla dinamica del federalismo sociale. Affermiamo tuttavia che la retorica socialista bolscevica che si è voluta introdurre anche nella nostra magra regione, non ha né può avere alcuna risonanza nella realtà della nostra vita sociale: affermiamo che qui appare evidente la necessità di un programma popolare, che tende a instaurare cioè le forze esaurite dei popolo intiero, non ad instaurare la dittatura di una classe sola. Affermiamo che la divisione fatta dai socialisti, in proletariato rosso da una parte e borghesia dall’altra, è per il nostro paese il mascheramento di una suddivisione politica con una classificazione sociale inesistente. I socialisti non sono il proletariato, gli altri non sono la borghesia; nella lotta elettorale l’elettore non ha da scegliere fra sfruttati e sfruttatori: (sarebbe troppo comoda!) ma fra il Partito socialista comunista bolscevico colle sue 21 tesi di Mosca e coi suoi esperimenti italo-russo-ungheresi e gli altri partiti, coi loro uomini e col loro programma. |
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| Napoli, 12 notte. Nell’ultima giornata il primo oratore è stato l’on. DEGASPERI di Trento salutato al suo apparire da fragorosi applausi e da grida di Viva Trento. L’oratore richiama l’attenzione del congresso sul fatto che le provincie dell’ex monarchia che sono meno avanzate nella riscostruzione politico-amministrativa sono decisamente quelle assegnate all’Italia in seguito alla guerra. È uno dei fatti politico-giuridici più anomali dell’Europa che queste provincie a diciotto mesi di distanza dallo sfacelo della monarchia austriaca non abbiano ancora rinnovato il loro ordinamento secondo i nuovi principi della democrazia. Si crede generalmente che ciò deve ascriversi alla insoluta questione adriatica ma questo non risponde ai fatti: tra la Venezia Tridentina e la Venezia Giulia sussiste un distacco – non certamente morale, poiché tutti abbiamo i medesimi diritti e le medesime aspirazioni e noi siamo in ciò solidali con le provincie sorelle – ma sussiste un distacco giuridico e di fatto prodotto dall’articolo 34 del trattato di S. Germain, che fa una netta distinzione fra la linea a occidente di Tarvis – per la quale la cessione dell’Austria significa senz’altro annessione all’Italia – e la linea a oriente dello stesso punto, sulla quale sussistono ancora dei contrasti. Ora è avvenuto che il governo italiano s’è affrettato a ratificare il trattato di S. Germain insieme con quello di Versailles e la sua fretta e cortesia verso la Francia è stata tale che la ratifica italiana precedette perfino la ratifica del parlamento francese. Ora noi ci domandiamo: Come mai il governo italiano non ha la forza di ottenere dalla Francia un pari servizio? L’oratore accenna quindi al dibattito avvenuto in Senato sul trattato di pace, per documentare che la risposta del conte Sforza è stata del tutto insufficiente. Noi insistiamo sulle elezioni perché non possiamo permettere che anche l’opera di ricostruzione politica e amministrativa del nostro paese venga fatta senza la compartecipazione dei rappresentanti eletti dal popolo. È vero che il programma del partito popolare in merito ai trattati di pace è revisionista, ma non si può partire per tale opera di rinnovazione dal nulla, ma dall’assetto generale che i trattati assicurano. L’oratore conclude affidando il suo o.d.g. al gruppo parlamentare, al quale – al di sopra e al di fuori d’ogni tendenza – augura che riesca a foggiare in parlamento un forte strumento di trasformazione legale dell’ordine sociale. Applausi calorosi accolgono il lucido e serrato discorso dell’on. Degasperi, già spesse volte interrotto da manifestazioni di simpatia e di adesione. L’o.d.g. presentato dall’on. Degasperi a sintesi del pensiero dei trentini è accettato tra acclamazioni. L’on. Degasperi presenta quindi il seguente ordine del giorno: «Il gruppo parlamentare e la Direzione del Partito sono invitati a fare la massima urgenza presso il Governo, perché esso esiga finalmente dagli alleati la ratifica del trattato di S. Germain; e perché, comunque, dia immediatamente alle popolazioni che in base al trattato devono venire annesse, mezzo di esercitare i propri diritti costituzionali eleggendo i loro rappresentanti al Parlamento nazionale. Il Congresso inoltre fa voti che in correlazione alla storica unità delle terre venete si affretti in tutte le regioni della Venezia invase e redente, la ricostruzione in esse della vita civile ed economica, schiantata dalla guerra, con adeguati provvedimenti amministrativi, tecnici e finanziari». |
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| I casi di Cavalese e di Daiano sono istruttivi . In questo periodo di armistizio si è peccato troppo contro le autonomie locali e le disposizioni tassative della legge comunale . Si sono fatti e disfatti sindaci, sciolte e ricostituite rappresentanze, improvvisati a capriccio consigli consultivi, e certi commissari civili o semi-civili hanno scambiato i sindaci per i loro uscieri. Il comune ha veduto così svanire il suo prestigio, le deliberazioni consigliari, spoglie dell’aureola della legalità, hanno perduto la loro efficacia ed il popolo, traviato da questa scuola dell’arbitrio, ha oltrepassata d’un balzo la soglia della legge per raggiungere colla violenza una nuova amministrazione. I popolani che a Cavalese irrompono nella sala delle sedute e cacciano i rappresentanti a suon di legnate hanno appresa questa funzione epuratrice dai tenentini che nel primo mese dell’occupazione ci prendevano un gusto matto a spazzar via capicomune e rappresentanti per sostituirvi degli uomini creati sindaci per grazia del presidio e volontà della guarnigione. Quel gruppo di operai di Daiano, che, raccolti in una bettola, conclamano un loro fiduciario a sindaco del paese e attendono sul serio che il governo sanzioni tale nomina, devono aver trovato possibilissimo tale sistema, ricordando come in qualche paese il comandante provocasse con ben minori scrupoli di forma un plebiscito dello stesso genere. Fin da principio abbiamo avvertito che il disfacimento dell’autonomia comunale portava con sé non solo il pericolo di un’amministrazione incontrollata e quindi troppo contrastata, ma minacciava le basi della coscienza civile nel popolo. I soviets militaristi sono i padri legittimi dei soviets rivoluzionari. Disgraziatamente proprio in questo periodo di sbandamento è mancata anche l’autorità e la tutela della Giunta provinciale. Troppo tardi, con una soluzione provvisoria del tutto insufficiente, venne nominato un commissario provinciale , il quale però, tutto intento a raccogliere le membra sparse della sua amministrazione, errando quasi solo tra le rovine, perché lo avevano privato anche degl’impiegati, fu in un primo tempo assorbito nella cura di dover difendere di fronte al dispotismo militare o al centralismo burocratico borghese i diritti e le attribuzioni della sua autorità stessa più che a tutelare quella degli altri. L’autonomia della provincia era infatti quella primordiale. Se si ripristinava lo stato di legge, per il quale il governo doveva ottenere l’assenso dell’amministrazione autonoma prima di introdurre dei cambiamenti nelle amministrazioni comunali, si aveva in mano di che riparare agli abusi e impedirne degli altri. Ma l’amministrazione provinciale non vi riuscì allora, nonostante un voto della consulta trentina, ripetuto tre volte, e integralmente, non vi è riuscita nemmeno oggi. E sì che l’impegno e la direttiva di Nitti sono precisi e formali: mantenere le autonomie provinciali e locali e, ove fossero lese, reintegrarle. Ciò vuol dire in concreto ed in prima linea che all’amministrazione provinciale autonoma devono venir restituite tutte le sue attribuzioni, fra cui anche quella della tutela dei comuni. Ciò vuol dire che il commissariato non può nominare un «sindaco» (anche l’abusare di questo nome per i commissari governativi fu errore politico) o meglio un commissario regio senza il consenso dell’amministrazione autonoma: ciò vuol dire che l’autorità statale deve venire ad un accordo colla Giunta o chi la rappresenta sul come e il quando devono venir reintegrate quelle autonomie che furono violate. Tutto questo non s’è fatto o s’è fatto parzialmente. A noi è parso che sia mancata meno la volontà di chi dirige quanto lo spirito di chi eseguisce. È inutile, la burocrazia italiana è assolutamente refrattaria al concetto dell’amministrazione autonoma. I nuovi venuti non capiscono come si possano e debbano condividere i poteri civili con un’altra autorità, la quale invece che essere nominata dal ministro, ha origine elettiva. Non tutto è scritto nel regolamento della provincia o del comune. Una parte del loro prestigio ed anche della loro forza sta nella tradizione. Ora questa si ha o non si ha, ma non si apprende. Evidentemente chi è avvezzo a considerare le amministrazioni provinciali come congregazioni di carità o consorzi stradali fatica a capire che cosa era e vogliamo che sia per noi la Giunta, eletta dalla Dieta, corpo, questo, con attribuzioni legislative ed amministrative, ereditate dagli stati generali e difese gelosamente contro gli attacchi della monarchia accentratrice. Per sentire qual rango convenga assegnare al capo della provincia (capitano provinciale) bisogna averlo visto presiedere una seduta dietale, in cui si vota una legge sull’agricoltura o sulla scuola, il regolamento elettorale comunale o un progetto delle camere agricole (organizzazione professionale). Vi sareste voi mai potuti immaginare, a mo’ d’esempio, che la firma del vecchio Kathrein fosse comparsa al quinto posto sotto un appello per il prestito nazionale? Eppure scommettiamo che oggidì tra i nuovi funzionari vi saranno molti che sinceramente si meraviglieranno delle nostre meraviglie. È quest’abito mentale che dovremo combattere e vincere – non per questioni di protocollo s’intende, ma per la sostanza che simboleggiano. E non si vince senza il fatto compiuto. Bisogna che la Dieta sia, affinché il centralismo venendo ad urtare colle sue innumeri braccia di polipo in questa roccia viva, ritragga braccia e corna. Per questo abbiamo domandato e reclamiamo ancor oggi le elezioni. Urge frattanto però che non si perda il terreno sotto i piedi. Il concetto della legalità non deve essere intaccato – o meglio – dev’essere reintegrato. Fin tanto che non si fanno elezioni non c’è altra via di mezzo: o riconvocazione delle rappresentanze comunali vecchie, le quali sono pur state elette, se non da tutti, certo dalla maggioranza degli abitanti dei comuni, toltane qualche eccezione; ovvero scioglimento e, previo accordo coll’amministrazione provinciale, nomina d’un commissario regio. Altri espedienti, per quanto bene intenzionati, ci sembrano pericolosi. Che se in qualche comune, specie la azienda annonaria fosse in tali condizioni da giustificare le insistenze di qualche gruppo per controllarla, ebbene rimane sempre la revisione dell’autorità provinciale o la nomina di un apposito comitato di revisione, che la rappresentanza non si rifiuterà di eleggere anche fuori del proprio seno. Ma importa che non s’aprano frattanto delle breccie nel nostro sistema rappresentativo per quanto riformabile, prima che non sia legalmente riformato, e che non si perda sotto i piedi il terreno della legalità. |
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| È interessante seguire il movimento che i francesi chiamano «régionalisme» e che noi diciamo movimento autonomistico. Anche là i più convinti fautori sono gli uomini politici di parte cristiano-sociale. Già Le Play aveva scritto che «tutte le regole cavate dall’esperienza e dalla ragione si accordano per insegnare che la riforma della Francia dev’essere intimamente legata al ristabilimento della vita provinciale». Ora il «segretario sociale» di Parigi pubblica un articolo circolare per ricordare come tutte le grandi riforme sociali ed amministrative proposte dai cattolici in Francia, compresa l’ultima sulle pensioni operaie, naufragarono perché si urtarono contro lo scoglio del centralismo parlamentare, essendo esse fondate sul principio dell’organizzazione regionale. Già nel 1915 però Briand , allora al Governo, parlando d’una di queste riforme ammetteva che il regionalismo è la chiave di queste riforme indispensabili. Ora che lo Stato è in disordine e bisogna assolutamente riformarlo, il principio regionalista è divenuto di piena attualità. Volete voi – si legge nel succitato articolo – sostituire alla politica di partito una politica urgente di sollevamento economico? Ebbene, ove sono gl’interessi economici, se non raggruppati in regioni che reclamano un organo per farli valere? Volete trarre il mondo del lavoro dall’anarchia che produce la lotta di classe? E come fondere insieme le classi se non nell’interesse comune della loro industria; come organizzerete i rapporti tra i fattori della produzione se non raggrupperete le industrie regionali? Sarà lo Stato colla sua magnifica amministrazione che aprirà i canali e sfrutterà le forze idro-elettriche? Si tratta di suscitare le attività economiche, di promuovere le iniziative d’industrie e di gruppi: tutto ciò è locale e regionale; non è punto concentrato a Parigi. Prendete qualsiasi problema d’ordine sociale e arriverete sempre a questa premessa indispensabile: dar della forza agli enti locali, raggrupparli, secondo i loro interessi, e dar loro delle rappresentanze qualificate che conoscano e difendano i loro interessi… Abbiamo tradotto il testo potevamo tradurre anche i nomi. Roma invece di Parigi, l’Italia invece della Francia. |
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| 31916-1920
| Il principio che si farà strada a traverso le presenti agitazioni è che il personale venga chiamato a collaborare mediante propri delegati alla regolazione della prammatiche di servizio – come usavamo dire fin qui – ed in genere alla riforma dell’amministrazione. Il principio è giusto o meglio è di pratica utilità. Se ciò vale per l’amministrazione in genere, a maggior ragione si può invocare questo principio per le nuove provincie in cui si tratta di trasformare tutta l’amministrazione, adottando certi temperamenti di assaggio e mantenendo quanto di buono è rimasto dell’amministrazione cessata. Nell’interesse del pubblico ed anche dei funzionari noi cogliamo quindi l’occasione per insistere nuovamente sulla necessità che il personale del cessato regime venga chiamato a nominare dei delegati i quali assieme ai rappresentanti del governo preparino la regolazione definitiva sia riguardo ai diritti ed alle funzioni degli impiegati stessi, sia riguardo alla gestione di fronte al pubblico. In particolare la regolazione definitiva del personale ferroviario, assunto dalle vecchie gestioni, la sistemazione del servizio postale, l’ordinamento degli uffici tecnici, forestali ed agrari, la organizzazione degli uffici scolastici e delle scuole, la riforma delle amministrazioni dipendenti dai ministeri delle finanze e del tesoro, l’incardinamento dei nostri uffici nell’amministrazione politica ecc. non devono né possono venir attuati senza la valida collaborazione dei nostri funzionari. E poiché l’ufficio centrale di Roma sembra che tardi assai a iniziare tale lavoro, che è uno dei suoi primi compiti, riteniamo che l’iniziativa debba partire da Trento. I capi dei singoli dicasteri facciano in tal riguardo delle formali proposte. Non dubitiamo che il commissario generale vorrà per conto suo appoggiarle. È anche questo il mezzo più efficace e più pratico per coordinare delle forze che ora possono sfogarsi solo nella critica, allo scopo a cui tutti dobbiamo tendere, cioè ad un assetto della nostra amministrazione che possa soddisfare e pubblico e funzionari. È ben naturale che con ciò non si vuole far rinunzia all’influsso costituzionale che dev’essere riservato a tutti i cittadini in funzione di elettori, nel deliberare riforme o modificazioni che implicano gl’interessi del pubblico. Ma anche in tale riguardo noi abbiamo tanta fiducia nei nostri funzionari, che possiamo tranquillamente augurarci ch’essi nello studio e nella preparazione delle riforme abbiano la possibilità di dare con tutta franchezza il loro parere. |
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| 31916-1920
| Il giornale è l’eco della vita quotidiana. Quando nella vita le questioni preoccupanti sono quelle dell’ordinamento economico e della organizzazione politica, il giornale nota, commenta, rileva fatti economici, problemi finanziari, riforme politiche. Così dopo la guerra europea, il giornalismo, che in tempi più tranquilli dava largo spazio alle discussioni filosofiche e alle trattazioni letterarie, è oggi quasi assorbito dalla stessa cura che affatica gli economisti e i politici: come riformare l’amministrazione degli Stati, affinché possano salvarsi dalla catastrofe che li minaccia; come evitare il disastro finanziario e l’anarchia politica? Chi dei nostri lettori però – e speriamo siano molti – sente la nostalgia di altri tempi, in cui il giornale poteva essere uno strumento di apologia diretta dei principi morali ed un predicatore delle verità filosofiche, avrebbe torto d’impazientirsi, poiché mai forse come ora i problemi stessi economici, finanziari e d’ordine materiale in genere si preparano a ricondurre i lettori alle questioni di principio. Lasciate che gli economisti discutano tutte le tesi per rifare in Europa la ricchezza perduta, lasciate che i politici caldeggino i loro progetti riformisti o rivoluzionari per cambiare gli ordinamenti politici ed i rapporti sociali…: nessun’apologia diretta dei principi morali in economia, nessun richiamo esplicito a direttive soprannaturali che devono ispirare popoli e governi, è così imperiosamente efficace come questo spettacolo dell’inanità di tutti gli sforzi, della vacuità di tutti i progetti, dell’impossibilità di tutte le riforme, in quanto, rivolgendosi ai popoli ed ai governi europei, facciano astrazione dalle supreme ragioni dello spirito. Quando il «Temps», giorni fa, si rivolgeva alla nazione francese, ancora ebbra della vittoria, per annunziarle che la situazione è finanziariamente e politicamente insanabile, senza la «rinuncia» a parte dei consumi, dei comodi, dei godimenti di cui fruivano i francesi prima della guerra, i lettori dell’autorevole organo parigino che appartengono agl’intellettuali della città lumière, avranno dovuto chiedersi: Rinuncia, perché e per chi? Se pochi idealisti arriveranno a comprendere che la rinuncia è necessaria per l’interesse della nazione, cioè di tutti e quindi anche di sé stessi, come infondere tale spirito di rinnegazione, di mortificazione (eccovi la parola dell’ascetica cristiana che balza fuori dal ragionamento dell’economista!) alla grande massa del popolo, ai molti, ai quali s’è inculcato da anni la sola difesa degl’interessi di classe? Le leggi, le misure coattive sono state sperimentate quasi tutte e a chi ne progetta di più draconiane, a chi ne inculca di più severe s’affaccia l’insuperabile obiezione che angustia ogni legislatore: di qual mezzo costrittivo posso io disporre nei momenti in cui la legge e la coscienza dell’individuo si trovano da soli a faccia a faccia, senza la sorveglianza del doganiere o la sanzione del gendarme? I tedeschi, come sempre i più consequenziari, hanno sentita anch’essi la necessità di rinfrescare il prestigio dell’imperativo categorico di Kant. Ma le scarse riviste che arrivano di là confessano che quest’imperativo in cui si imperniava l’orgoglio della razza, se esercitò il suo effetto sulla resistenza durante la guerra, quando si trattava di opporsi alla violenza esteriore, ora che si tratta di esigere dei sacrifizi nell’ambito dell’attività interna dell’individuo, non riesce più a farsi valere. Il richiamo alla patria, alla collettività non agisce più sulle coscienze o vi agisce troppo poco. La molla del civismo si è spezzata, appena venuta la vittoria o la sconfitta. Quale principio morale invocheremo allora per muovere gli uomini alla necessaria rinunzia? Wilson, Lloyd George, Clemenceau, Bela Kuhn, Lenin… Nitti l’hanno cercato invano su questa terra rifattasi quasi buia, dopo tanto sfolgorare di luci! Evidentemente è al di sopra degli uomini, delle patrie, dell’umanità che bisogna cercare questo indispensabile principio animatore. Se non esiste nei rapporti fra uomo ed uomo, esso deve esistere nei rapporti fra l’uomo ed il suo Creatore. La storia conobbe epoche simili. Noi non crediamo alle Cassandre catastrofiche, noi crediamo ad un indefinito progresso umano guidato da una Provvidenza divina. Vi fu un tempo che ad uno statista della tarda romanità, Celso, parve che, vacillando l’impero, il mondo ripiombasse nella barbarie. Come politico ed economista egli non poteva forse giungere a diverse conclusioni. Ma egli non aveva capito i cristiani: «queste comunità, in cui, dice l’Harnack , nella profonda commozione che invadeva anima e corpo all’annuncio dell’imminente giudizio, sotto la vivificante potenza dello spirito del Cristo operava l’energia umana che lottava per affermarsi in modo più certo e più puro… giacché i cristiani combattevano la cupidigia, l’avarizia e la disonestà nei negozi civili, insomma il mammonismo in tutte le sue forme, con la durezza di cuore che da esso consegue». Da queste cellule si sviluppò la civiltà nuova, la vera civiltà. Possono credere i Celsi dell’era prebellica che la civiltà sarà salva, che il progresso umano riprenderà il suo cammino senza la «vivificante potenza del Cristo»? Noi in tale potenza crediamo e l’invochiamo, attendendo a tale invocazione anche coloro che in una lunga epoca di progresso assicurato, di questo avevano dimenticate le premesse morali. E un’altra considerazione ancora. Clemenceau ha proclamato che per salvare la Francia bisogna produrre e quindi lavorare di più. Era la ripetizione della parola d’ordine di Lloyd George passata poi a Nitti e a tutti gli uomini di Stato. Ora, siccome questa parola d’ordine veniva data nello stesso momento in cui si riducevano per accordi internazionali le ore di lavoro, conviene ammettere, per non legittimare un paradosso politico che l’appello al lavoro si riferisca più alla «intensità» e «produttività» che alla sua durata. Intensità e produttività: che cos’è questo se non effetto di diligenza, di amore al lavoro, di coscienziosità? Eccoci quindi di nuovo al problema della coscienza. Le tariffe collettive o i soviets vi potranno risolvere il problema della durata, e per il contrario le cooperative il cottimo, i premi, mettendo in azione la molla dell’interesse, vi potranno assicurare fino ad un certo punto la produttività del lavoro, ma, mentre queste due concezioni diverse di regolare il lavoro stanno contendendosi ancora il campo, addimostrandosi entrambe unilaterali, difettose o perniciose, rimane certo che né l’uno né l’altro regime risolvono il problema della fatica che va indissolubilmente congiunta al lavoro. La fatica considerata come molla del progresso non può essere che un dovere morale. Chi potrà imporre la fatica del lavoro, quando le leggi o i contratti collettivi gli assicurano comunque la mercede, se non una ragione superiore ai premi umani? L’argomento diviene qui attraente per i psicologhi. Ma il tempo incalza e noi lo abbandoniamo alle loro considerazioni. Ricordiamo anche qui però che il problema è risolto nella dottrina cristiana del lavoro. Com’è profondo nella sua limpida semplicità il testo dell’antica didachè (Dottrina degli apostoli): «Chi dimostra mala voglia (rifiutandosi al lavoro indicato) non è un cristiano, ma è uno che fa mercato di Cristo» . Sempre Cristo! Anche un economista incredulo, un sociologo scettico, quando nelle ore grigie della storia alza lo sguardo all’orizzonte, alla ricerca di una salvezza che non scopre nei suoi calcoli o nelle sue leggi scorgerà sempre quest’immensa figura protendersi sul mondo. Dopoché comparve nella storia, il progresso umano si regolerà a seconda dei rapporti che interverranno fra lui e gli uomini, fra le loro attività e la Sua dottrina. Non che per questo noi credenti s’intenda tali rapporti quasi un’inerte contemplazione del Suo esempio o come una semplice invocazione della Sua dottrina. I cattolici militanti d’oggi non assomigliano in ciò a Tertulliano che, prevedendo la catastrofe dello Stato romano, si limitava a pregare per il suo differimento – pro mora finis! – No, noi combattiamo nel campo delle riforme sociali e politiche per rivendicazioni ed innovazioni concrete, ma in ciò ci distinguiamo sovratutto dagli altri, che, sempre memori delle ragioni morali che presiedono a tutti i problemi dell’economia e del governo delle nazioni, propugniamo che alla dottrina del Cristo venga garantita la massima libertà di espansione e che la Sua Chiesa abbia la massima possibilità d’influire sullo spirito degli uomini, giacché senza «la vivificante potenza del Cristo», tutte le nostre riforme politiche e tutte le più radicali trasformazioni economiche e sociali saranno opera vana. |
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| 31916-1920
| Più volte abbiamo segnalata la tendenza spiccatamente socialista della «Lega nazionale delle cooperative», il cui ufficio a Trento è diretto da P. Bosetti. Abbiamo anche avuto occasione di dimostrare che la propaganda fatta nel Trentino per la cooperazione «liberata» o «neutra» in confronto di quella «clericale» è una propaganda equivoca e menzognera. Non facciamo naturalmente il processo alle intenzioni. Dato il noto funambolismo politico del signor Bosetti, è difficile dire quali siano stati in materia i suoi propositi iniziali, quando si è messo al servizio della lega nazionale. Il fatto che fino alla guerra entro alla lega esisteva una minoranza, per quanto debolissima, la quale, per ragioni di massima o di opportunità, era contraria ad infeudarsi al Partito socialista, lasciava adito ancora alla possibilità formale di sostenere che si trattava di cooperative «neutre» e non socialiste. Ma già da tempo la neutralità non era che un velo tenuissimo a traverso il quale il color rosso appariva anche ai ciechi. Già da tempo quindi non si poteva più affermare in buona fede che il movimento cooperativo della lega nazionale non fosse movimento socialista. Ma d’oggi in poi chi volesse mettere in dubbio ancora il carattere socialista delle cooperative affigliate alla lega, dovrebbe cozzare con prove irrefragabili. La più grave è data dalle deliberazioni del convegno nazionale tenuto a Roma lunedì scorso. Ne riferiamo sulla scorta dell’«Avanti!» e del «Resto del Carlino»: «Era presente del comitato direttivo della lega nazionale: Bassi, Baldini, Belelli, Calda, Dugoni, Giumelli, Pastore ; del consiglio nazionale della Lega: Azimonti, Bacchioni, Bernardi, Bardel, Marchetti, Borghesio, Cabrini, Casarucci, Cella, Cresci, D’Ambrosio Goffredo, D’Ambrosio Manlio, Evangelisti, Faraboli, Frangipane, Galli, Giacometti, Quartieri, Guzzini, Leoni, Lugli, Luppi, Mazan, Maffari, Pagilani, Piemonte, Pinotti, Ramella, Rossi, Schiavi, Sorace. Sono presenti vari deputati del gruppo parlamentare, Serrati e Pastore per l’“Avanti”. È pure presente il compagno Pittoni per le cooperative di Trieste». Come si vede, era completamente in famiglia. Dopo la relazione Vergagnini , il quale riferisce che le cooperative di consumo e lavoro federate sono 3765 (numero non straordinario, quando si consideri che i soli consorzi trentini aderenti alle nostre centrali sono 56) si passa alla relazione Schiavi il quale fa approvare il seguente ordine del giorno: «Il consiglio generale riafferma che il fine ultimo della cooperazione è la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio e dà mandato ai suoi rappresentanti in Parlamento di sostenerne l’inclusione nel disegno di legge per la riforma della legislazione sulle cooperative». Quest’affermazione di carattere socialista fu come il ponte di passaggio per la relazione Cabrini sul «carattere politico della cooperazione» ed i suoi rapporti colla confederazione generale del lavoro e col partito socialista. Cabrini concluse coll’o.d.g. che più sotto riferiamo, dopo aver affermato che «in Italia, se anche fuori della Confederazione del lavoro e del Partito socialista ufficiale vi sono persone che propugnano la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, soltanto il movimento che fa capo a quel Partito e a quella Confederazione può fare affidamento, come movimento di massa, di procedere diretto verso quell’obbiettivo. La nuova orientazione della Lega implica l’appartenenza al Partito socialista, ma la posizione della lega verso il partito deve essere analoga a quella che verso il partito ha la Confederazione del lavoro. Qualche cooperativa potrà staccarsi, ma l’azione della Lega guadagnerà in sicurezza di movimenti e in risolutezza di atteggiamenti». Nella discussione solo Bassi si dichiara contrario all’o.d.g. temendo defezioni di qualche cooperativa e proponendo sulla questione un referendum tra le cooperative federate; Bombacci invece, il soviettifico si disse lieto dell’alleanza della Lega col Partito socialista ufficiale. Si venne quindi al voto, e l’«Avanti!» sotto il titolo l’«alleanza della lega col partito socialista approvata» annunzia che contro il solo voto di Bassi è approvato il seguente ordine del giorno: «Il Consiglio generale della Lega nazionale delle cooperative, considerando la realizzazione dei programmi sociali un problema di forza politica, considerando che la classe lavoratrice è la sola classe sociale integralmente interessata alla soppressione di ogni ceto intermediario tra la produzione e il consumo e alla socializzazione della gestione sociale; considerando che in Italia il movimento politico organizzato per quella associazione dei mezzi di produzione e di scambio, in cui il congresso nazionale cooperativo del 1916 ravvisava le finalità della cooperazione, è solo il movimento che fa capo al Partito socialista italiano, alleato alla Confederazione generale del lavoro; considerando che anche nelle recenti elezioni generali politiche solo tale movimento ha lottato contro la massa degli esercenti, dei negozianti, degli industriali e degli agrari, e cioè contro il ceto sociale che la cooperazione tende ad eliminate, ritenendo che le istituzioni cooperative debbano stringersi sempre più al movimento della resistenza, sia per intensificare lo sforzo proletario per la liberazione dagli ordinamenti della società borghese, sia per guadagnarsi la fiducia proletaria che ne utilizza i meccanismi di consumo, di produzione, di lavoro, di scambio e di credito nella gestione controllata e socializzata; autorizza il Consiglio direttivo delle leghe a prendere accordi colla Confederazione generale del lavoro e col Partito socialista italiano; per affiatare i rispettivi movimenti nell’ambito internazionale, nazionale e locale, rendendo così più disciplinato nei vecchi, e nei nuovi argomenti di difesa e di conquista l’avanzata delle classi lavoratrici verso le unirivendicazioni, per confidare ad un unico organo, il Gruppo parlamentare socialista, l’azione legislativa e parlamentare intorno alle richieste dei congressi della Lega nazionale delle cooperative». Così il movimento cooperativo, per il quale la grande stampa liberale, ad esempio il «Corriere della Sera», non ha mancato di fare in ogni occasione la più diffusa reclame, in quanto non è sorretto dagli amici nostri, diventa un organo rivoluzionario di più contro lo Stato. I governi liberali lo favorirono e hanno fatto bene, ma non si curarono per niente ch’esso potesse venire un giorno sfruttato per scopi socialisti rivoluzionari, ed hanno fatto male. Per codesti signori il nemico era il «confessionalismo» ed intanto che privavano d’ogni appoggio e osteggiavano le società che ospitassero un prete, non avvertivano che crescevano in seno, colle sovvenzioni del pubblico erario, il serpe che doveva morderli. I cattolici in Italia, per raggiungere il diritto comune, cioè per godere gli stessi favori da parte dello Stato, dovettero in questi ultimi anni cancellare dagli statuti ogni accenno di cristianesimo, giacché quell’articolo in cui era detto che i soci dovevano essere buoni cristiani, aveva per i ministri l’effetto d’uno spauracchio: guai, si trattava di una fazione, di una confessione entro lo Stato. La «libera» cooperazione invece godeva tutte le preferenze e tutti i privilegi, finché oggi che è cresciuta forte e potente si trasforma in organo di lotta di classe e di comunismo. Noi non siamo, personalmente, partigiani in tesi generale dell’esplicita professione di fede religiosa in uno statuto di una società economica. Questa fusione ideale di funzioni morali ed economiche può di fatto ottenersi solo in piccoli villaggi. Ma là ove la vita economica è più complessa, l’articolo che attribuisce alla società anche il compito di imprimere e mantenere nel socio un dato carattere religioso o di controllarne la condotta morale s’addimostra nella maggior parte dei casi ineseguibile, ove non diventi addirittura compromettente. Non che per questo debba abbandonarsi lo scopo ideale. Tutt’altro, esso va affermato anzi con tutta la forza, solo che nell’organismo sociale che si crea, le funzioni delle varie società devono essere così distribuite, che l’una non si confonda con l’altra, ma tutte agiscano concordemente sullo stesso oggetto che è il popolo organizzato economicamente, professionalmente, moralmente. Ma di ciò potremo discorrere a migliore occasione; intanto volevamo arrivare solo a questa conclusione, che qualunque possa essere stato il pensiero degli uomini di governo sul cosidetto paragrafo confessionale, non sarebbe dovuto loro sfuggire il valore di un fatto, che queste società, cioè, riprendendo nell’ispirazione e nel contenuto morale la gloriosa tradizione delle corporazioni italiane, rappresentavano una sana corrente d’idealismo, da opporre alla fiumana materialista che dilagava. La rappresentano, speriamo, ancora, e, meglio, la potranno rappresentare nell’avvenire se centralizzeranno la loro organizzazione raggiungendo e superando senza dubbio per numero e per forza la cooperazione socialista. Questo blocco di fronte alla lega socialista, che considera il problema sociale semplicemente come un problema di forza politica, sarà là per affermare la superiorità dei principi morali della giustizia e di fronte alla lega collettivista rivendicherà alla cooperazione quello che fu il suo programma iniziale: difesa della piccola proprietà privata, sia essa capitale o lavoro, consociata per regolare la distribuzione della ricchezza facendo rifluire agli organi più deboli della società gli utili della produzione e del commercio ed impedendone l’accumulamento in mano di pochi. |
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| 31916-1920
| L’on. ci telefona da Roma: L’on. Degasperi per incarico del Partito popolare italiano ha insistito in questi giorni presso i vari membri di governo affinché venga chiarita e sollevata la questione dell’annessione delle provincie redente. In un colloquio coll’on. Rossi – che sostituisce il presidente del Consiglio – e col conte Sforza dirigente il ministero degli esteri è stato definitivamente stabilito che l’annessione della Venezia Tridentina non sta in alcun nesso con la soluzione della questione adriatica. In base all’articolo 6 del trattato di Saint Germain l’annessione può venir proclamata appena ratificato il trattato stesso. Ora nel colloquio venne assicurato che gli alleati non hanno alcuna difficoltà ad approvare il trattato stesso finchè il ritardo avviene per ragioni formali e parlamentari. Il nostro governo si è fatto premura anche recentemente presso l’Inghilterra e la Francia e tornerà a farne. L’on. Degasperi ha avuto campo di mostrar tutte le ragioni di carattere politico, amministrativo e finanziario che dicono di non protrarre più oltre la speciale annessione al regno d’Italia. |
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| 31916-1920
| Nel partito socialista italiano è stata ufficialmente discussa, in questi giorni, una grave questione: si deve o non si deve fare in parlamento un lavoro positivo in favore delle masse lavoratrici, si deve usare della grandissima influenza di un gruppo così notevole di deputati per togliere sempre più al regime borghese la sua impronta capitalistica e impregnarlo di democrazia oppure si deve limitarsi ad agitare il bandierone della rivoluzione, pascendo per intanto gli elettori coll’erba trastulla delle speranze nel comunismo di là da venire? Il problema si presentava acuto alla vigilia della riapertura della Camera, dovendosi pur stabilire il programma d’azione del gruppo parlamentare, e nella falange rossa non mancavano gli individui più sensibili alle correnti vive degli strati popolari, i quali avevano notato dei sintomi non dubbi di impazienza e di malcontento per una politica puramente negativa. Il dibattito si svolse in una riunione comune della direzione del Partito e del Comitato direttivo del gruppo parlamentare. Si manifestarono subito due correnti, quella di Turati che propose un lavoro pratico e quella utopistica e catastrofica di Bombacci e compagni, fatta proprio dalla direzione, che dopo il congresso di Bologna ha espulso tutti i dissidenti e gli annacquati. Turati fu esplicito; egli mise nella vera luce, senza eufemismi e senza ambiguità, il vuoto assoluto che sotto le frasi roboanti nasconde il programma massimalista. Esso è sonoro ma sterile. «Dal punto di vista della Direzione, egli dice, è critico, negativo, catastrofico. Credo che le masse siano contrarie a tale programma; esse richiedono la soluzione di problemi immediati. Per preparare una rivoluzione bisogna svolgere tentativi di erosione nello Stato borghese. La rivoluzione è dapprima nelle coscienze. Le conclusioni del Congresso di Bologna furono molto vaghe. Ritiene che ci si può trovare d’accordo su di una divisione di lavoro. Riconosce che la guerra ha aperto la possibilità di maggiori conquiste per il proletariato. Pensa che un’azione di riforme può preparare la piattaforma alle rivendicazioni future e vede la possibilità di un accordo fra il suo punto di vista e quello della Direzione». (Questa e tutte le altre citazioni sono prese dall’Avanti). Modigliani , pur dissentendo in parte da Turati, si associò a lui nel rilevare il carattere irrealistico della tendenza avversaria. «Il programma di Turati è collaborazionista, ma il programma della Direzione è utopistico. Tutta l’azienda dei deputati non può essere che antitetica a questo programma, il quale è antitetico allo spirito delle masse. Altro è afidarsi nelle direttive teoriche, altro seguire le necessità della vita. Occorre conciliare le due necessità, trovare la continuità nel programma della Direzione fra le premesse e i provvedimenti contingenti cui questa si richiama. È assurdo ritenere che il socialismo possa essere accelerato: si possono modificare le forme politiche della società, non preparare organi nella trasformazione socialista. Se noi ci rendiamo conto di quel tanto che il proletariato italiano può realizzare, noi faremo una gran cosa avvicinando il proletariato al socialismo attraverso l’esperimento della socializzazione. Con ciò non intendo fare opera di governo. L’esperimento deve essere fatto dalla massa. Ritiene che il partito dovrebbe valorizzare i problemi economici più urgenti, attenuando un pò la sua idolatria comunista. Il programma della Direzione del Partito rompe il contatto colla realtà». Ma non ostante queste ottime ragioni l’ordine del giorno Treves che esprimeva le idee di Turati non ottenne che il voto di questi due sopravviventi di un tempo che fu, mentre tutti gli altri voti andarono a favore del nullismo della direzione. Ciò che, del resto, era da prevedere. Già il giorno innanzi Bombacci aveva chiamati «contingenti e riformistici» i progetti delle sezioni tecniche del gruppo, Zanettini aveva rilevato «Il danno che reca al movimento rivoluzionario il tecnicismo parlamentare, il quale porta all’azione riformistica, espresso il desiderio che i deputati siano fra le masse a tenervi opera di propaganda, di volgarizzazione; criticato l’opera svolta fino ad ora dal gruppo parlamentare». Serrati aveva detto: «La direzione deve affermare il concetto che i nostri progetti di legge non devono essere presentati con l’intendimento di risolvere la crisi borghese, ma anzi allo scopo di acuire il dissidio colla classe borghese. La crisi attuale non può avere che una soluzione rivoluzionaria». Le quali idee erano poi state concretate nel programma – opposto a quello dell’on. Turati che fu poi respinto – i cui punti più salienti stabilivano: «La Direzione esprime la certezza che di fronte a qualunque situazione politica e parlamentare sarà evitata ogni debolezza e ogni illusione di possibili conquiste efficaci e socialiste nell’ambito borghese e ogni tentativo di collaborazione degli strumenti di dominio capitalista cogli organi proletari»; e cioè condanna i deputati socialisti alla più assoluta infecondità legislativa fino al giorno in cui sorgerà il sole dell’avvenire, anzi ancora più condannava lo stesso parlamentarismo, come istituzione costituzionale, tollerandola soltanto provvisoriamente come tribuna di propaganda per il «soviet»; «riconferma che l’opera del Gruppo oltre ad essere coordinata allo sforzo esterno delle masse per il rigettamento del parlamentarismo borghese, deve attendere alla propaganda dei principi comunisti, la quale partendo dalla tribuna parlamentare può avere più larga ripercussione e vibrazione più vasta per le masse proletarie». E questo fu il programma sostenuto, in contraddittorio con Turati e Treves, da Lazzari , l’assennato Lazzari, il quale dichiarò: «La nostra essenza di Partito ci invita al compito di violentare la storia. I partiti come il nostro hanno anche questo dovere. In eventuali elezioni ripeterei ai miei elettori quanto dissi sempre: “noi non intendiamo al Parlamento di fare, bensì di disfare”. Noi possiamo affrontare il nostro destino storico seguendo il logico concatenarsi degli avvenimenti». Questo il programma approvato con tutti i voti meno due. |
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| 31916-1920
| L’amministrazione provinciale autonoma ha constatato esistere in diversi comuni trentini – e in particolare nei maggiori – una forte tendenza delle attuali rappresentanze comunali a scaricarsi di ogni responsabilità e a dare le proprie dimissioni, rendendo così inevitabile per il rispettivo comune la nomina di un amministratore ufficioso. Una tale tendenza riesce psicologicamente spiegabile se si tiene conto della circostanza che il periodo di funzione delle rappresentanze comunali è da vario tempo decorso, e mentre esse sono state elette in base ad un regolamento elettorale che certo punto corrisponde allo spirito dei tempi. Riesce quindi perfettamente comprensibile il desiderio delle rappresentanze comunali di poter quanto prima abbandonare il loro posto e quindi anche in ispecie di vedere al più presto introdotto un nuovo regolamento elettorale comunale che dia modo di procedere senza ritardo a nuove elezioni. E senza dubbio da parte dei fattori competenti e in particolare anche da parte di questa Amministrazione provinciale si cercherà di adoperarsi con ogni cura perché ciò avvenga al più presto. Nel frattempo però è necessario che le attuali rappresentanze comunali si armino di pazienza e costanza e rimangano ulteriormente in funzione. La Amministrazione provinciale deve richiamare l’attenzione dei comuni al fatto che dimissioni delle rappresentanze comunali possono avere delle conseguenze molto dannose. La Amministrazione provinciale manca cioè di persone adatte cui essa possa – di concerto col Commissariato generale – affidare con piena tranquillità l’amministrazione ufficiosa dei singoli comuni. Se in un caso determinato, in riguardo a condizioni affatto eccezionali, la Amministrazione si è privata per qualche settimana di uno dei suoi migliori funzionari per affidargli una molto importante gestione comunale, un simile provvedimento non potrebbe punto essere ripetuto. E se non vi è a disposizione personale adatto per le amministrazioni comunali ufficiose, i comuni in cui viene sciolta la rappresentanza comunale corrono il rischio che la rispettiva gestione sia per necessità affidata a persona non adatta e che ne derivino dei gravi guai; e questo tanto più in quanto che le persone del Comune e che conoscono quindi da vicino le sue condizioni e i suoi bisogni si rifiutano di frequente di assumere la rispettiva amministrazione la quale deve perciò venire data a persona del tutto estranea al Comune. La Amministrazione provinciale non può quindi che raccomandare vivamente alle attuali Rappresentanze dei comuni di adattarsi ancor per quel periodo di tempo sperabilmente che sarà necessario all’onere loro incombente senza provocare crisi le quali potrebbero in singoli casi riuscire perniciose. |
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| 31916-1920
| […] Una dichiarazione dei popolari […] Cambiamenti di nomi dunque, non di sistema, non di programma, non di rotta. Chi capisce per qual ragione invece di Baccelli viene all’Istruzione il prof. Torre, o perché Schanzer invece che al Tesoro debba essere alle Finanze, o perché all’Agricoltura invece di Visocchi debba insediarsi l’on. Falcioni ? Che cosa significano tali cambiamenti? Nulla per i governati, se si eccettua forse Luzzatti al Tesoro ove dovrebbe mettere in azione, secondo il suo programma, la lesina o il socialista riformista Bonomi alla guerra, ove dovrebbe proporsi di liquidare la guerra sul serio. Sono cambiamenti di persone, che potranno essere miglioramenti o peggioramenti, ma che non modificano la situazione. Anche questo Nitti N. 2 è un gabinetto di transizione e d’imbarazzo, coll’aggravante che non partecipandovi nessuno dei popolari, nemmeno con ministri… tecnici, come s’usa dire, qual era l’ing. Cesare Nava, è un ministero che rappresenta alla Camera la minoranza dei cosiddetti partiti intermedi e che può vivere solo fino al momento in cui i popolari riterranno opportuno o doveroso di appoggiarlo. Ciò vuol dire che non siamo ancora arrivati ad applicare nel governo i principi che hanno vinto nelle elezioni del Parlamento. Questa Camera non ha ancora raggiunto un effettivo influsso sul modo di amministrare lo Stato, questa è la verità. Perché? Per quanto si può giudicare da lontano si dovrebbe dire che la ragione fondamentale è questa: i liberali hanno paura di affrontare la crisi dello Stato in tutta la sua profondità e di tentare di risolverla sul serio. Essi sanno che questo lavoro di rinnovamento cozzerà contro la numerosa falange socialista, che vuole non la ricostruzione, ma il terremoto e rifuggono dal pensiero di questa lotta suprema, nella quale devono appoggiarsi per forza sui popolari. Evidentemente, trascinandola, la crisi del Parlamento e dello Stato si aggrava; ma ciò non è mai stata la preoccupazione di codesti ministeri, i quali di adattamento in adattamento, di debolezza in debolezza, di complicità in complicità, hanno condotto l’Italia sull’orlo dell’abisso. Frattanto noi plaudiamo vivamente all’atteggiamento netto ed oggettivo del gruppo popolare. Essi non hanno mercanteggiato dei portafogli, ma hanno stabilito delle direttive programmatiche che avrebbero dovuto inspirare il governo al quale avessero partecipato. I lettori hanno trovato nel «Trentino» di sabato tali caposaldi . Non c’è nulla in essi di «specificamente clericale o confessionale» (secondo i termini degli anticlericali) che non avesse potuto ottenere l’appoggio anche di liberali riformatori o di socialisti riformisti. Perché non vennero tuttavia accolti come piattaforma di collaborazione? È difficile saperlo, non avendo a disposizione per le proprie deduzioni che i giornali, ma c’è da dubitare che un punto in particolare sia sembrato all’on. Nitti un ostacolo assai difficile a superarsi, la proporzionale cioè all’elezioni amministrative. Non è un segreto che i socialisti, i quali coll’attuale sistema o colla rappresentanza delle minoranze, com’hanno proposto essi stessi, venendo meno ai loro principi, sperando di conquistare gran parte dei comuni settentrionali, farebbero opposizione accanita ad un progetto di legge sulla r.[appresentanza] p.[roporzionale] nei comuni. E Nitti, come abbiamo detto, non vuole il cozzo, dal quale teme che la compagine socialista esca rinforzata, mentre tirando innanzi, egli crede di poter sperare ancora in una secessione. Un prossimo avvenire gli darà torto. Intanto noi siamo in dovere di esprimere, anche come redenti, un ringraziamento di cuore ai popolari per l’inclusione nelle condizioni programmatiche della nostra annessione, delle nostre autonomie e dell’indizione delle elezioni. Fu l’unico partito che pensò ai fratelli che attendono, l’unico che si ricordò di Trento e Trieste anche nel momento di risolvere una crisi di governo. La solenne affermazione non andrà perduta. |
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| 31916-1920
| Il presidente sig. Silvio Dallabrida, apre l’adunanza poco dopo le 14, e dopo avere manifestato il dispiacere che la mancanza di treni, specie la domenica, abbia impedito a molti soci della Valsugana e d’altre linee di intervenire, porge il saluto ai convenuti e in modo particolare all’on. Degasperi, che dopo aver prestato tanto dell’opera sua per la classe dei ferrovieri, ha voluto presenziare anche questa adunanza. La nostra Federazione – fa piacere constatarlo – mentre prima dello sciopero recente aveva appena 300 soci, oggi ne conta quasi cinquecento. Tutto dà a sperare che questo numero andrà sempre più elevandosi, in modo da avere con noi se non proprio tutta, una buona maggioranza dei ferrovieri trentini e raggiungere i nostri scopi, specialmente in vista del passaggio all’amministrazione F. S. delle linee ex gestioni. Dà quindi la parola a l’on. Degasperi Doveva, osserva l’oratore, riferire particolarmente al basso personale in merito alle trattative ultime, ma gli avvenimenti mi hanno preceduto, mentre parecchie altre decisioni si avranno nella prossima settimana. Crede meglio che sui postulati tecnici ed economici che si riferiscono al problema del cambiamento di amministrazione riferisca con maggiore competenza il sig. Cabassi. I ferrovieri che prossimamente si recheranno a Roma vedranno tutte le difficoltà che si frappongono a trattare concretamente e a conchiudere positivamente. Il meccanismo burocratico complicato e gli ostacoli ad avvicinare le persone con cui è necessario trattare, oppongono le prime e non lievi difficoltà. Ma poi c’è dell’altro: per le continue trasformazioni politiche del ministero dei trasporti che ora fa a sé, ora si incorpora a quello delle industrie, ora a quello dei lavori pubblici, si finisce in una vera confusione e non si sa con chi trattare. Dopo aver avvicinato l’on. Devito e aver preso degli accordi con lui, tocca ora rifare tutto col nuovo ministro, che sembra debba essere l’on. De Nava . Dicono che costui se ne intenda delle nostre cose essendosi, a differenza dell’on. Devito, interessato direttamente delle ferrovie ex gestioni, venendo a studiarle sul posto. Meglio così, poiché è appunto di un ministro competente e conoscitore delle cose nostre che si ha bisogno. Ma dobbiamo convenire che quello che in certo modo danneggia di più i ferrovieri ex gestioni è la confusione che regna nella loro stessa classe riguardo al modo come si prospetta la sistemazione delle ex gestioni. Così nella Venezia Giulia per esempio, qualche gruppo domanda la parificazione alle F. S., a noi si vogliono mantenere i diritti acquisiti. È indispensabile, quindi, il più perfetto accordo e la più completa uniformità nelle richieste, e i delegati nostri che si porteranno a Roma bisogno che subito – magari durante il viaggio, quando si troveranno con gli altri delegati – si mettano a discutere e cerchino di accordarsi. L’idea fondamentale che deve regolare la discussione e l’accordo, va imperniata su questi due punti: 1. o mantenimento dei diritti acquisiti; 2. o conquista dei miglioramenti di cui fruisce il personale F. S. Perché i diritti e gli interessi dei ferrovieri possano essere continuamente ed efficacemente tutelati, è necessario che nella commissione centrale sia rappresentata la classe dei ferrovieri. Il concetto della rappresentanza del personale è stato ammesso. Intendiamoci: non si tratta di rappresentanze delle singole società, ma di tutti i ferrovieri. C’è questo, però, che chi ha promesso – l’on. Devito – se ne è andato, ed ora bisogna ricominciare, per ottenere dal successore lo stesso impegno. Gioverà, allo scopo di far rispettare la promessa, la lettera impegnativa, scritta anche a nome dell’on. Devito, dal sottosegretario ai trasporti on. Sanjust , lettera che i nostri delegati faranno bene a portare a Roma. L’oratore si diffonde quindi a dimostrare l’importanza del compito che la nostra commissione dovrà svolgere a Roma, per appoggiare le richieste contenute nell’ultimo memoriale della Federazione trentina dei ferrovieri, specie in punto di rappresentanza di classe e di miglioramenti immediati (300 lire al messe, ecc.). Da ciò l’on. Degasperi trae argomento per illustrare la grande importanza del fatto che nella commissione centrale dell’amministrazione ferroviaria si sia deciso di chiamare la rappresentanza dei ferrovieri. Tutti i ferrovieri che hanno agitato il postulato della compartecipazione al possesso delle ferrovie vedono con soddisfazione questa vittoria programmatica. È vero che la partecipazione del personale alla commissione centrale, da stabilirsi con sistema proporzionale, può non essere ben vista da chi teme di perdere il monopolio delle agitazioni; ma l’importante è che una classe dei servizi pubblici – e si farà lo stesso in seguito, anche per tutti i servizi pubblici – abbia acquistato il diritto di rappresentanza nell’amministrazione centrale. Questo non riguarda per ora i nostri ferrovieri, che, fino all’annessione – salvo uno strappo – non parteciperanno alla nomina dei commissari centrali; ma ciò non diminuisce la necessità di illustrare bene la questione, perché questo segna un passo che formerà come lo spartiacque fra quelli che vogliono la collaborazione con le pubbliche amministrazioni per migliorare le condizioni degli addetti ai servizi pubblici e quelli che la collaborazione non vogliono. Circa le concessioni da noi richieste per tornare ai postulati immediati dei ferrovieri trentini, ne abbiamo di già ottenute e di altre da conseguire (i due anni e mezzo di anzianità, il vestiario, le trasferte). Per il vestiario, il ministero ha assicurato che furono ordinate 500 uniformi alla ditta Callegari, ma qui non sono giunte. Sulle indennità di trasferte, il governo si è mostrato d’accordo in via di massima, e solo aspettava il rapporto favorevole della Delegazione. Voci. È stato mandato. È insoluta, invece, la questione delle trasferte per quelli che durante la guerra furono mandati a lavorare in Germania. Precisiamo: un importo di 14000 corone fu versato alla Banca Cooperativa, ma dal ministero del Tesoro, per quanto se lo sia promesso, non è stato ancora concesso il cambio; per un altro importo di 63000 corone i denari non si sono avuti e ci sono soltanto i titoli accertati di credito. Poiché le cose vanno per le lunghe nelle pratiche fra ministero del tesoro e ministero dei trasporti, e poiché i creditori hanno indubbio ed urgente bisogno di soldi, non c’è che un’unica strada da seguire: che il debito se lo assuma e lo liquidi subito l’amministrazione. Per la richiesta dei caroviveri al cento per cento fu anche dal ministero del tesoro risposto che in via di massima si è d’accordo: rimane soltanto da stabilire il termine iniziale del riconoscimento del diritto alla parità. Fu invece risposto che se ne tratterà dalla commissione che deve recarsi a Roma la questione dei caroviveri mensile posteriore all’occupazione italiana. Infine, riguardo alle licenze, è stato accordato che esse rimangano quali vigevano nella antiche gestioni. Il PRESIDENTE ringrazia vivamente l’on. Degasperi per tutto quello che disinteressatamente, senza badare a sacrifici di sorta, ha fatto per i ferrovieri trentini, e si augura che la sua preziosa collaborazione continuerà anche per l’avvenire. |
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| 31916-1920
| La crisi nei lavori di ricostruzione della zona devastata data dal 30 dicembre p. p., da quando cioè l’Ispettorato tecnico di Vicenza ha ordinato che venga assolutamente sospeso l’inizio di nuovi lavori per opera del Genio Militare. Questa sospensione, se colpiva i danneggiati, colpiva particolarmente le Cooperative di Lavoro che, per il trattamento ingiusto subito da parte della camorra insediatasi nei vari cantieri, non avevano sufficienti lavori in corso per occupare i propri soci operai. Il Consorzio provinciale trentino delle Cooperative di Lavoro si rivolse già allora al Commissariato civile, alla Direzione militare Lavori Venezia Tridentina ed al Ministero delle Terre Liberate per ovviare all’inconveniente ed ottenere, in attesa della ripresa dei lavori per parte del Genio civile, che avrebbe dovuto fin d’allora subentrare nella competenza, che si assegnassero alle Cooperative i lavori in corso e se ne iniziassero di nuovi almeno dove se ne mostrava urgente la necessità. E fu appunto con richiamo al memoriale del Consorzio provinciale che la Direzione Militare Lavori Venezia Tridentina con foglio 342 del 16 gennaio stabiliva le seguenti direttive: 1. assegnare alle Cooperative di Lavoro tutti i lavori che venivano eseguiti ad economia; 2. considerare come iniziati al 1 gennaio una parte di quei lavori per i quali esisteva già il contratto con la Cooperativa, sebbene in realtà non iniziati; 3. concedere alle Cooperative un anticipo dell’80 p. c. sul valore dei materiali da costruzione approntati a pie’ d’opera; 4. parziale cessione alle Cooperative dei lavori già assegnati ad imprese di speculazione. Era questo un ripiego provvisorio in attesa che il Genio civile potesse riprendere la piena attività. Senonché il Genio civile, per l’atteggiamento preso dal Ministero del Tesoro, riceveva ordine di non eseguire per proprio conto che le opere pubbliche: i privati avrebbero dovuto ingegnarsi cogli anticipi del Consorzio dei comuni, ciò che significava rimandare alle calende greche la ricostruzione della zona devastata. Già nel Congresso dei delegati delle Cooperative di Lavoro raccoltosi a Trento il 22 febbraio venne rilevata la necessità non solo che il decreto-legge sugli indennizzi per i danni di guerra venga esteso alla Venezia Tridentina, ma anche che il Genio civile continui l’opera di ripristino delle case distrutte per il ricovero dei profughi e per il ripristino delle aziende agricole. (Vedi ordine del giorno da noi pubblicato). Ed il Consiglio d’amministrazione del Consorzio prov. trentino delle Cooperative di Lavoro nella seduta del 2 marzo, di fronte alle nuove voci che il Governo centrale intendeva insistere nel suo proposito, votava una vibrata protesta che una deputazione del Consorzio presentava il giorno appresso all’on. Credaro. Veniamo ora informati che di questi giorni venne presentato al presidente del Consiglio il seguente memoriale, che risolleva nella sua interezza la grossa questione della ricostruzione della zona devastata, che s’identifica nel caso concreto colla crisi subentrata nella Cooperative di Lavoro in seguito al mancato assegno dei fondi relativi. Il memoriale, che porta le firme del Consorzio provinciale delle Cooperative di produzione e lavoro e del Comitato centrale esecutivo del Rinnovamento, società per gli interessi della zona devastata, suona:[…] . |
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| 31916-1920
| Le deputazioni delle varie classi, le commissioni delle varie zone delle nuove provincie si succedono a Roma con grande rapidità, intersecandosi, sovrapponendosi, talvolta contraddicendosi, ma riuscendo in ogni caso a mantenere il regime burocratico sotto la pressione di audizioni, memoriali, preoccupazioni, minacce. I rappresentanti della burocrazia si liberano dalla pressura con qualche concessione, con molte promesse, con sapienti dilazioni e si destreggiano fra l’una richiesta e l’altra creando e moltiplicando i ripieghi e le soluzioni provvisorie, rimettendo a più tardi ad un termine fantastico chiamato «annessione» la regolazione definitiva. Così innanzi a codesta soglia misteriosa e dagli incerti contorni, sulla quale dovremo passare per entrare nello stato giuridico di italiani, si accumulano ogni giorno le difficoltà, si ammassano i problemi, si concentra il malcontento che cresce fino all’esasperazione. Nitti di fronte al gruppo popolare veneto ha preso recentemente due impegni: immediata applicazione della legge sul risarcimento danni e in prossimo tempo decreto di annessione della Venezia Tridentina, con riferimento alla ratifica avvenuta, per parte dei due contraenti più interessati, del trattato di S. Germain. Noi siamo in attesa che prossimamente questi due impegni vengano mantenuti. Il resto sono accademie. Che s’inizino delle conversazioni coi tedeschi e poi cogli italiani sull’assetto provinciale, come ci venne annunziato a Roma, sta bene (quantunque l’ordine ci paia alquanto strano) ma giacché il governo molto giustamente ha dichiarato di non voler prendere decisioni sull’assetto provinciale prima che non dicano la parola i rappresentanti eletti dalla popolazione, cioè la popolazione stessa per mezzo dei suoi deputati, l’importante, il decisivo sono non le conversazioni, ma le elezioni. E per le elezioni politiche non occorre chiarire che una cosa sola: quante e quali debbano essere le circoscrizioni elettorali e quanti i mandati. Non vorremmo quindi che i «pourparlers» sieno un mezzo per menare il can per l’aia. Il problema centrale è quello dell’annessione, rispettivamente della consultazione popolare, con o senza decreto di annessione. Noi siamo, come italiani, molto orgogliosi del fatto che un nostro connazionale sia stato chiamato a Marienwerder a presiedere la commissione del plebiscito e che vi dia fuori dei francobolli colla scritta «populi voluntas». Ma che l’Italia convochi e presieda i comizi elettorali fin nella Prussia occidentale, e che governi invece le sue provincie in nome dell’assolutismo militare del Comando Supremo Interalleato (la interpretazione pratica sarà benevola, ma lo Stato di diritto è questo) è una condizione di cose che assolutamente non si può tollerare più oltre. Ier l’altro si è riunita la nostra direzione regionale del P.P.I. Essa ha deciso di contribuire per parte sua con tutti i mezzi a forzare il governo a prendere una decisione risolutiva, e dopo Pasqua il Partito popolare intende svolgere una viva agitazione in questo senso. Noi assistiamo giorno per giorno con invidia a quello che avviene in Alsazia-Lorena. Le due nuove provincie francesi hanno oramai da 5 mesi i loro deputati ed i loro senatori, i quali a Parigi si sono costituiti in un blocco regionale. In questo gruppo tutti gl’interessi del paese vengono affrontati secondo chiare direttive e precisi criteri di massima. Il popolo ha così la sensazione che si governa con lui e nessuna classe è trepidante per i suoi interessi. Ne abbiamo data occasionalmente una frequente documentazione. Oggi un altro esempio, riguardante la regolazione degl’impiegati. Non discutiamo i singoli caposaldi. Rileviamo il metodo «costituzionale» e «legale», il metodo parlamentare. È a tale metodo che bisogna ritornare al più presto anche nella Venezia Tridentina, se si vuole che il nuovo edificio si costruisca con ordine e secondo i bisogni e il volere degl’inquilini. |
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| 31916-1920
| Abbiamo attesa e ci è stata promessa come uovo pasquale la applicazione al Trentino del decreto legge sul risarcimento danni. Fino al momento in cui scriviamo l’uovo non è ancora venuto. Il giorno 23 marzo l’on. Nitti s’impegnava in confronto dei nostri amici deputati veneti di estendere al nostro paese la validità del decreto «nei prossimissimi giorni». I prossimissimi sono passati, siamo già nei prossimi, e il decreto non viene ancora! Gli on. Luzzati e Nitti devono mantenere il loro impegno. Il paese esige con tutte le forze, con tutto il diritto. Che cosa significa l’applicazione del decreto-legge? Significa che lo Stato adempie al suo obbligo già assunto nel testo della legge stessa che parla anche delle «terre che saranno annesse», di rifondere cioè anche ai nostri danneggiati le spese necessarie per l’integrale ricostruzione delle case, per la riparazione delle officine, per la rimessa in valore dei campi e degli opifici. Fino ad oggi siamo andati avanti ipotecando l’avvenire, con prestiti, i cui interessi stanno a carico dei danneggiati o con acconti in natura, cioè colle riparazione del genio militare, riuscite assai onerose per i danneggiati e per l’erario. Solo l’applicazione del decreto legge garantisce ad ogni danneggiato la liquidazione integrale dei danni. È qui che bisogna puntare con tutte le energie del paese. È merito del «Rinnovamento» società per gl’interessi della zona devastata, di aver formulato con tutta chiarezza questo postulato già nel suo primo congresso del 27 luglio, quando fra gl’interessati regnava ancora una grande indeterminatezza sulla via da seguire. Su questa via si mossero poi altre organizzazioni, altre rappresentanze. Speriamo ora di essere vicini alla meta. S’intende che bisogna chiedere anche l’applicazione dei susseguenti decreti sugli anticipi, che hanno perfezionata la legge. Ma bisogna battere questo ferro, tutti d’accordo, e non venir fuori all’ultima ora a chiedere la liquidazione del 50% dei danni, come fanno ora molto impensatamente le organizzazione socialiste! Il 50% viene già anticipato dal consorzio dei comuni, ma s’è visto che nella maggior parte dei casi col 50% non si fabbrica! Altra cosa, come abbiamo già rilevato altra volta, è che il genio civile, continuando l’opera del genio militare, prosegua l’azione degli anticipi in natura, costruisca cioè, indipendentemente da ogni liquidazione del danno ai privati, una quota parte di case, tanto che basti per mettere sotto tetto la popolazione prima del prossimo inverno. Queste case vengono naturalmente costruite a conto degli indennizzi che verranno liquidati ai danneggiati, ma intanto è lo Stato che anticipa i fondi. Si è calcolato che siano necessari 16 milioni al mese. Dispone il Commissariato di questo importo? Pare di no, ma se intendiamo bene il comunicato che pubblichiamo qui sotto, il Commissariato generale crede di avere trovata una soluzione sodisfacente mediante un accordo col ministero della guerra. Non tutti i danari che occorrono ma ne avrà una buona parte, tanto che si possano non solo pagare i lavori fatti, ma continuare ad eseguire quelli progettati. Se ciò si verifica, è già molto di guadagnato, poiché supereremo tal modo il periodo critico della stasi e scongiureremo il pericolo della disoccupazione. Situazione soddisfacente, secondo informazioni del Commissariato L’on. Credaro fa pubblicare la seguente comunicazione che riassume evidentemente le informazioni ch’egli ha avuto a Roma, Importante è l’assicurazione che si provvederà al compimento e alla continuazione dei lavori, cavando i danari per gli anticipi in natura (azione ricoveri) dal bilancio del Min. della guerra, come faceva finora il genio militare. L’ultimo capoverso dovrebbe riferirsi al preannunziato decreto sulle concessioni delle forze idrauliche. La ricostruzione degli abitati del Trentino e atesini devastati dalla guerra si avvia a una soddisfacente soluzione. Il Ministero della guerra, verserà al Commissariato generale la somma necessaria per condurre a compimento i lavori iniziati dal Genio militare, dei quali rimane così assicurata la continuazione. Saranno inoltre messi a disposizione del Commissariato generale venti milioni già bilanciati. L’Istituto federale veneto verserà al Consorzio dei comuni le indennità dovute ai privati via via che saranno presentate le documentazioni. Così il Consorzio sarà messo in grado di restituire al Commissariato le somme ricevute in anticipazione e potrà indennizzare i privati. Si ritiene che in un tempo relativamente breve si potranno cominciare anche le opere per le derivazioni delle acque pubbliche poiché le domande sono ammesse all’istruttoria. |
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| 31916-1920
| Il comunicato pubblicato ieri dalla Stefani e preannunziato dalla stampa dell’Alto Adige, rappresenta senza dubbio uno schiaffo in viso ai trentini senza distinzione, siano essi partigiani delle due provincie o della provincia unica. È chiaro che rilevando in un comunicato ufficiale, stilizzato previa intesa coi tedeschi e come conclusione delle trattative cogli stessi, che il capo del governo, in armonia col discorso del Trono, è convinto della necessità di costituire nella Venezia Tridentina due provincie, la questione tanto dibattuta è oramai, per parte del governo, pregiudicata, prima ancora che i trentini siano stati interpellati. Noi sapremo tra breve se l’on. Nitti aveva autorizzato l’ufficio delle nuove provincie a tal passo; ma fin d’oggi esprimiamo il nostro doloroso stupore che a commettere codesta gaffe politica abbiano contribuito due uomini come il commendator Salata e l’on. Credaro, il primo buon conoscitore dei conflitti politico-nazionali, l’atro ben informato sui postulati trentini. Né l’uno né l’altro avranno potuto sperare che noi ci sorbissimo lo schiaffo senza reagire; se l’avessero sperato, ci affrettiamo a disingannarli. Questa volta speriamo che anche gl’indolenti della politica si riscuoteranno sotto il bruciore di staffilate simili e che tanto i partigiani dell’una soluzione come dell’altra, si uniranno nella più fiera protesta contro il metodo antidemocratico e anticostituzionale inaugurato nelle trattative autonomistiche e contro un procedimento che tocca non solo gli interessi, ma offende anche la nostra dignità ed i nostri sentimenti. |
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| 31916-1920
| Tremila delegati di tutte le valli trentine, raccolti domenica a Trento, hanno votato una protesta «contro un sistema di governo che è contrario ai diritti, agl’interessi, ed alla dignità dei paese» ed hanno chiesto «di poter usare dell’unica arma legale di difesa che le può venir messa a disposizione cioè dell’arma del voto, per le elezioni nel Parlamento, nella Dieta e nei Comuni». L’adunanza ha avuto la sensazione giusta che l’attuale è un sistema di governo burocratico, che per natura sua, a parte anche gli uomini che lo compongono, non dà alcuna garanzia che i problemi urgenti vengano risolti o che ne venga affrontata sul serio la soluzione con riguardo alla volontà del paese. L’assemblea ha ricordato come dal giorno dell’armistizio, durante le trattative di Parigi, durante il lungo dominio militare, al momento di risolvere i problemi gravi del periodo transitorio, al momento di stabilire il sistema di governo attuale e più tardi, il Trentino è sempre stato messo innanzi ai fatti compiuti. Ora poi nella questione provinciale un comunicato governativo affacciava il pericolo che si prendesse una decisione senza sentire i trentini, quasicché non si trattasse delle sorti di una terra che è in gran parte cosa loro, né essi avessero altri titoli per prendere dai primi banchi la parola. Di fronte a tale eventualità, la protesta e la ribellione erano naturali, com’era fondata l’apprensione che l’attuale governo, debole, per programma e per consuetudine di metodo, di fronte ai prepotenti, s’impegnasse coi tedeschi per una via di cui non avesse ancora studiato il cammino e gli sbocchi. Con sentimenti non dissimili si apprestano alla dimostrazione di questa sera il Consiglio comunale di Trento e la cittadinanza. Negozi chiusi, gente in strada, proteste nell’aula municipale. Anche questa sera dunque come tante altre volte nella storia passata. Qualcuno potrebbe sorridere, pensando che nulla ci sia di mutato, che la situazione sia identica, ma solo capovolta. Forse anche a Bolzano spunterà questo sorriso sarcastico: i trentini sono sempre gli stessi: prima l’indirizzo era Vienna, oggi è Roma, prima erano le guardie, oggi sono i carabinieri. Ma le apparenze analoghe ingannano e sarà bene rilevarlo, forse anche per qualche trentino. Una volta eravamo nello stato austriaco una minoranza esigua e la nostra protesta mirava più in là dell’ordine del giorno che si votava; una volta la protesta aveva in sé il colorito della disperazione e ad un tempo della rassegnazione degli oppressi; oggi, viva il cielo, siamo in Italia; e se una serie di errori da parte del governo, qualcuno dei quali vorremmo volentieri imputare alle difficoltà della situazione, ma la maggior parte dobbiamo attribuire all’ostinazione con cui non venne tenuto conto degli uomini del paese; se, dunque, una serie di errori da parte del governo ci costringe ad un movimento di protesta, essa è ben di diverso spirito di quella d’una volta, poiché oggi è animata dalla sicura fiducia che non faremo invano appello alla nostra nazione. La nostra affermazione sarà quindi circondata da quella calma dignitosa di chi non può dubitare del proprio avvenire. Alla nazione nostra infatti noi non chiediamo nulla che contrasti collo spirito dei tempi, nulla che sia in contraddizione coi suoi interessi. Fautori ardenti e convinti del decentramento amministrativo e delle autonomie locali, noi riaffermiamo la nostra precisa volontà che il regime autonomista venga nelle nuove provincie ricostruito ed allargato, disposti ad esaminare spassionatamente ogni speciale postulato di regione o di circondario. Ma noi neghiamo che tale costituzione possa avvenire sotto la pressione di agitazioni politico-internazionali e che possa venir determinata o comunque pregiudicata da trattative unilaterali fra il governo di Roma e i vecchi rappresentanti della politica tedesca, e reclamiamo per i trentini il diritto di trovare a Roma il tavolo sgombro da qualsiasi pregiudiziale. Solo a questa condizione può ancora venir rimediato al grave ed offensivo errore di procedura commesso. Di più il diritto primordiale di ogni Stato democratico va anche questa volta solennemente riaffermato. Simili questioni non si possono risolvere senza che vi concorrano col loro voto i rappresentanti eletti della popolazione. Vogliamo quindi le elezioni quanto prima, subito! È il mezzo più sicuro di far valere le nostre ragioni. L’on. Nitti ha preso solenni impegni in tal riguardo: è ora che, come spesse volte fece il nostro partito, oggi il paese intiero reclami il mantenimento della parola data. |
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| 31916-1920
| Il 22 aprile a conclusione delle trattative coi rappresentanti dell’Alto Adige il governo pubblicava un comunicato nel quale era detto che «il presidente del consiglio… è convinto della necessità e opportunità di istituire per la Venezia Tridentina due provincie a sé con propri collegi elettorali». Il comunicato sollevava subito le proteste della nostra stampa, senza distinzione. Noi scrivevamo al 24 aprile che «tanto i partigiani dell’una come dell’altra soluzione dovevano unirsi nella più fiera protesta contro il metodo antidemocratico ed anticostituzionale inaugurato nelle trattative autonomistiche e contro un procedimento che tocca non solo gl’interessi, ma offende anche la nostra dignità ed i nostri sentimenti» . A Roma s’era previsto del resto che il comunicato ufficiale avrebbe dispiaciuto ai trentini e gli si aveva quindi lanciato dietro un commento ufficioso in cui si assicurava che il governo come tale non aveva presa ancora alcuna posizione e che si trattava soltanto d’una visione personale dell’on. Nitti. Lo stesso giorno in cui compariva codesto commento, arrivava a Trento l’on. Credaro il quale faceva subito venire a sé i rappresentanti dei partiti pubblicamente organizzati o delle combinazioni politiche, di cui il Governo aveva notizia, e trasmetteva loro l’invito del governo di recarsi a Roma. Seguirono subito trattative fra diversi gruppi, in modo particolare fra popolari e liberali, tra i quali veniva ottenuto un accordo su queste basi: protesta contro il procedimento del governo, rifiuto di accettare l’invito a trattative o conversazioni autonomistiche prima che il governo non avesse deliberato formalmente che la questione era del tutto impregiudicata, insistenza per le elezioni, a dopo le quali andava rimessa la soluzione del problema provinciale. Come s’è visto a questi caposaldi concordati s’inspirò anche l’azione pubblica, in quanto fu comune a diversi partiti. In confronto del Governo poi i rappresentanti dei partiti che avevano ricevuto l’invito di recarsi a Roma rimisero all’on. Credaro la seguente lettera: «Eccellenza, il sottoscritto officiato dall’E. V. a nome del governo a provocare dai propri amici politici la designazione dei delegati che partecipino a trattative col governo centrale sul problema provinciale, ha avuto incarico di dichiarare che, data la pubblicazione del noto comunicato ufficiale, nel quale, a conclusione dei colloqui coi tedeschi atesini, veniva affermato “essere il presidente del consiglio dei ministri convinto della necessità ed opportunità d’istituire per la Venezia Tridentina due provincie a sé”, non intendono accettare l’invito, prima che il Governo non abbia data l’assicurazione formale che la questione da parte del Governo stesso è assolutamente impregiudicata. Colgo l’occasione per segnarmi di V. E. ecc.» Con questa lettera i trentini esigevano quella che si chiama una restitutio in integrum dello stato anteriore alle trattative coi tedeschi. Ciò era tanto più necessario, in quanto che era trapelato che i tedeschi avevano iniziate le trattative a Roma, ponendo senz’altro la pregiudiziale delle due provincie. La cosa che avevamo saputo d’altra fonte fu poi confermata in forma indubbia dal sindaco di Bolzano D.r Peratoner che nella seduta del 1.o maggio del consiglio comunale così riferì sulle trattative: «I delegati della Federazione tedesca che si recarono a Roma per trattare della pratica attuazione del progetto autonomistico, dovettero con loro sorpresa constatare che il governo italiano non aveva ancor presa una decisione definitiva in ordine alla prima e più importante questione che era il Tirolo tedesco meridionale, di cui fanno parte anche i comuni ladini, e che anzi si era anche ventilata la possibilità di creare una provincia autonoma, che doveva abbracciare il Tirolo meridionale tedesco e il Trentino. I nostri rappresentanti fecero intendere al Governo che era inutile ogni ulteriore trattativa, finché non veniva risolta questa questione, che cioè era impossibile l’esistenza di una provincia autonoma, in cui i tedeschi verrebbero condannati per sempre ad essere minoranza e si troverebbero esposti all’oppressione e allo sfruttamento da parte degli italiani, ed inoltre che si agiva in antitesi al diritto di autodeterminazione, se i nostri nemici ereditari del Tirolo italiano (Welschtirol) avessero da decidere sulle condizioni finanziare della nostra esistenza, sulla nostra vita culturale e nazionale. Perciò il minimo che la nostra deputazione doveva pretendere prima di entrare in trattative era una dichiarazione autoritativa del presidente dei ministri, che egli cioè come per il passato persisteva nel suo punto di vista dell’autonomia per il Tirolo meridionale tedesco. Questa dichiarazione giunse telegraficamente a Roma da San Remo il giorno 19 aprile». Ora in data 3 maggio l’on. Credaro ha consegnato ai firmatari della dichiarazione surriferita la seguente risposta: «In esecuzione dell’accordo preso con Lei e co’ Suoi amici, e in risposta all’ordine del giorno, comunicatomi a mano, sono autorizzato a dichiarare, a nome di Sua Eccellenza il Presidente dei Ministri, quanto segue: Il Governo è ben lontano dall’avere preso alcuna precisa determinazione intorno alla sistemazione della Venezia Tridentina. Esso va raccogliendo con colloqui con le parti interessate gli elementi necessari per concrete proposte da sottoporsi al Consiglio dei Ministri dopo l’annessione. La convenienza di raccogliere, senza indugio, i materiali necessari per un disegno di legge ministeriale e predisporre quanto occorra per le prime elezioni e quindi anche per la circoscrizione elettorale, è manifesta; ma il Governo sinora non ha assunto alcun impegno. In ogni caso il Governo assicura nel modo più categorico, che non intende rinunziare, né rinunzierà mai all’esercizio fermo dei diritti della Sovranità dell’Italia fino al Brennero né abbandonerà comunque minoranze italiane dell’Alto Adige, né pregiudicherà mai i diritti ed i legittimi interessi del Trentino. Con ossequi Dev.mo CREDARO». Noi non sottoporremo questa risposta ad una analisi minuziosa anche in quella parte in cui si tiene conto delle affermazioni particolari contenute negli ordini del giorno o nei telegrammi di protesta e si rasenta il merito della questione, ma ci fermiamo a quello ch’è detto in risposta alla pregiudiziale sollevata dai rappresentanti trentini. In proposito si risponde che «il Governo non ha presa alcuna precisa determinazione intorno alla sistemazione della Venezia Tridentina», che si è limitato a delle conversazioni informative, «che sinora non ha assunto alcun impegno». Con ciò a noi pare che la condizione messa dai trentini per avviare le trattative è accolta e che dopo la deviazione dei 22, si ritorna sulla giusta rotaia dalla quale non si sarebbe dovuto scostarsi mai. Ben s’intende che factum infectum fieri nequit, ma in politica quando una dichiarazione disgraziata è caduta, per annullarla non resta che farne un’altra in senso contrario. Ma la dichiarazione è importante anche perch’essa parla di sistemazione della Venezia Tridentina. Non è vero dunque quanto affermano i tedeschi (vedi discorso del Toldt nel municipio di Bolzano) che i trentini nella questione dell’autonomia non c’entrano più, che non sia per la liquidazione del patrimonio provinciale e rimane sovratutto lettera morta il presuntuoso ordine del giorno dello stesso municipio in cui è detto che «ogni intervento dei trentini nella autonomia e nelle trattative del Südtirol viene respinto come ingerenza illecita in cose che vanno regolate solo fra Alto Adige e Stato Italiano». No, quello che i popolari hanno sempre sostenuto con logica chiarezza deve diventare oggi finalmente realtà. Bisogna tornare sulla rotaia giusta. L’ordine del giorno delle trattative di Roma deve essere: sistemazione della Venezia Tridentina e non l’autonomia dell’Alto Adige. In questa sistemazione bisogna prima ottenere la certezza che il governo intende mantenere l’autonomia comunale e dietale. Assicurato questo si deve vedere come possano venir soddisfatti i postulati particolari dei tedeschi. Essi sono di natura politica e di natura politico-amministrativa. Per questi ultimi, riguardanti in modo particolare l’amministrazione autonoma, i trentini hanno diritto a un voto deliberativo e di costituente, per i primi molti titoli l’investono di un voto consultivo di prima categoria. Rimessi su questa rotaia auguriamoci ora che in casa nostra non ci abbandoniamo alla faciloneria di proteste generiche e ordine del giorno frasaiuoli, ma che si affronti in concreto tutta la questione, a parte, in base a dati statistici e studi sereni, col proposito di maturare quelle decisioni che saranno prese alla Camera nazionale col concorso dei rappresentanti della nostra regione. |
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| 31916-1920
| Su questo argomento, in appendice al comunicato ufficiale telegrafato ieri dalla «Stefani», riceviamo da Roma: le conferenze incominciarono mercoledì sera e furono dichiarate chiuse il pomeriggio di lunedì. Non è possibile, dato il loro carattere confidenziale, riferire particolarmente sulle singole fasi. Possiamo dire però ch’esse furono assai laboriose e che per l’energia e l’abilità dei nostri rappresentanti la moderata e passiva funzione d’inchiesta, ch’era loro originariamente assegnata, si trasformò in qualche momento culminante in vera funzione di trattativa, tantoché fra la conferenza e la Presidenza del Consiglio si ebbe lo scambio di sei note verbali, le quali rappresentano ciascuna un progresso nella chiarificazione dei postulati nostri e nell’atteggiamento del Governo in loro confronto. Il risultato, in quanto era maturo per la pubblicazione, venne fissato nel comunicato ufficiale, che vi sarà stato già trasmesso. Esso contiene, come impegno del governo: 1. che il problema dell’assetto della regione non verrà trattato e risolto separatamente a due riprese, definendo cioè prima i rapporti dell’Alto Adige con lo Stato italiano e poi quelli del Trentino, come oramai si accennava a fare, ma la sistemazione della Venezia Tridentina viene trattata e risolta en bloc, in presenza cioè di italiani e tedeschi, e ciò tanto riguardo all’amministrazione statale, quanto riguardo all’amministrazione autonoma. La pretesa dei tedeschi, affermata così assurdamente nella nota sessione del consiglio comunale di Bolzano si dimostra così senza speranza. 2. Il Governo conferma il proposito di conservare per tutta la regione le autonomie comunali e provinciali: ciò vuol dire che è programma di governo di rimettere in vigore la costituzione provinciale colla Dieta e la Giunta elettiva. Era necessario che tale principio venisse confermato e precisato, come infatti avvenne durante queste conferenze, e che tale conferma venisse fatta in confronto dei trentini e con riguardo all’intiera regione, di modo che è tolto qualsiasi dubbio che una parte di essa potesse arrivare a godere maggiori libertà e prerogative dell’altra parte. 3. Il Governo dichiara che la sistemazione definitiva sarà riservata alla competenza legislativa, quando al Parlamento vi concorrano col loro voto anche i rappresentanti della regione. Dunque niente decreto legge imbastito sulla base di accordi fra Governo e tedeschi, come si sognava a Bolzano ed anche altrove, ma trattativa o discussione costituzionale in presenza dei nostri deputati. È questo il principio su cui noi abbiamo insistito con maggior forza fin dall’inizio della campagna. 4. Quando si faranno le elezioni? Il governo ne riconosce la necessità indifferibile. Esso ammette che per la imminenza della ratifica del trattato l’annessione della Venezia Tridentina e quindi le elezioni politiche per tale regione sono imminenti. Nell’ipotesi tuttavia che per qualsiasi ragione internazionale o interna il governo non intenda fare le elezioni politiche, esso s’impegna tuttavia per l’autunno prossimo a consultare la popolazione in altro modo, provvedendo, dice il comunicato, alle elezioni amministrative della regione. Sappiamo che ciò significa che in tal caso verrebbe senz’altro convocata la Dieta, la quale avrebbe così, entro certi limiti, e salve le sanzioni costituzionali, carattere di costituente per tutto quello che riguarda la sistemazione interna. I lettori ricordano che questo consiglio regionale costituente fu invocato dalla Consulta Trentina nella sua prima seduta degli 8 giugno 1919 su proposta dei popolari e che solo la prossimità apparente delle elezioni politiche distrasse più tardi i partititi dall’insistere su tale procedura che è certamente, in confronto delle elezioni politiche, di carattere più straordinario. Crediamo di non errare nell’affermare che la conquista di questo criterio democratico, che vuol dire per i trentini anche garanzia da ogni sorpresa, rappresentò il perno delle conferenze romane. Dopo questo punto la conferenza riprese il suo carattere d’inchiesta, non ch’essa fosse divenuta un soliloquio dei nostri partiti, come potrebbe apparire dal comunicato, ma perché appunto per non togliere il valore alle pregiudiziali di procedura la discussione nello stadio attuale non poteva avere che carattere espositivo. I lettori avranno avvertito che le parole d’ordine «provincia unica» e «due provincie» sono scomparse. Gli è che tutti i partiti trentini già nelle discussioni che precedettero la conferenza, si sono persuasi che all’esame concreto delle cose, non si può piantare la questione su tale antitesi. E tutti i rappresentanti unanimi hanno aderito a questi criteri, accennati nel comunicato: a) politicamente parlando, cioè nei riguardi dell’organismo statale (amministrazione politica, di finanza, poste, ferrovie, ecc.) la regione sia unica colla sede centrale Trento; b) sul terreno dell’autonomia amministrativa si consente in massima che alla parte tedesca venga concessa un’amministrazione separata. c) Intanto però per un periodo di transizione, per ragioni insite nel suo carattere stesso di costituente, anche l’amministrazione autonoma (giunta) e la legislazione autonoma (dieta) devono essere uniche, come oggi per l’intera regione. Tutti comprendono che queste linee direttive alle quali si giunse lungo una risultante comune a tutti i partiti, segnano un indirizzo pratico e preciso, il quale mentre tiene conto nei limiti del possibile di tutte le preoccupazioni sollevate dal postulato tedesco e riduce questo stesso alle proporzioni che ne possono garantire l’accettabilità, nel criterio di massima accedono al desiderio espresso dai tedeschi di avere un’amministrazione autonoma separata. È un gran atto liberale questo compiuto dai partiti trentini, anche da quelli tra essi, che s’ispirano in modo particolare alle ragioni del sentimento; e i tedeschi, se hanno senno e senso politico, dovrebbero prenderne cognizione tirandone le debite conseguenze. I trentini sanno dimenticare e diciamolo pure senza alcuna intenzione d’umiliare chicchessia, anche perdonare. Sappiano i tedeschi abbandonare quella trentinofobia che oggidì fa loro preferire… Trapani a Trento e si mettano sulla via dell’accordo. Se per un momento equivoche manifestazioni della politica attuale li hanno potuti illudere, se hanno potuto credere che in Italia vi siano per Bolzano delle libertà che l’Italia stessa negherebbe a Trento o che in Italia sia comunque sostenibile una politica che abbia al nord di Bolzano degli ammiratori ed a sud dei detrattori, si disingannino. La marcia è separata, ma la vittoria sul centralismo burocratico dipende, per loro almeno certo, da un nostro vicendevole accordo. L’inchiesta, come i lettori possono immaginare, non si fermò a queste linee direttive, ma investì tutti i singoli problemi; circoscrizione elettorale. contenuto dell’autonomia ecc. ecc. ma, in questo stadio, non è opportuno insistervi. Diremo solo che in tutte le questioni i trentini ebbero di mira che gl’interessi degl’italiani fossero salvaguardati in qualunque parte della regione essi si trovino e che nessuna soluzione fosse possibile quando riuscisse a loro economico e morale detrimento. |
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| 31916-1920
| La conferenza con Giolitti – L’autonomia delle provincie – Il trattato e la legge per l’annessione alla Camera – Nessun cambiamento automatico «Nihil de nobis sine nobis» La trasmissione telefonica del comunicato sulla conferenza degli on. Conci e Degasperi col presidente del Consiglio (bisogna avvertire che tali comunicati per arrivare a Trento devono venir ritelefonati una seconda volta da Milano) non è andata esente da errori . Vogliamo quindi riassumere sulla scorta delle informazioni di chi fu presente al colloquio i risultati dell’udienza. Lo faremo, riferendo non il dialogo, ma, nella loro parte sostanziale, le dichiarazioni dell’on. Giolitti, che naturalmente furono una risposta a domande o questioni fatte dai nostri deputati, domande che non riproduciamo perché s’indovinano. L’on. Giolitti dichiarò dunque questo: Il governo è autonomista, cioè favorevole al decentramento provinciale e regionale in genere. Ne viene da sé che è autonomista anche per quanto riguarda le nuove provincie. Voi avete un consiglio provinciale (Dieta) che ha ampie attribuzioni, compresi alcuni poteri legislativi, riguardanti in specie l’agricoltura? Ebbene la tendenza dell’attuale governo è e dev’essere non quella di livellare i vostri consigli provinciali a quelli delle vecchie provincie, ma di estendere i vostri poteri autonomi alle vecchie provincie italiane. Sul programma del governo non può esservi alcun dubbio, aggiunse l’on. Giolitti, anche se il mio primo discorso non fece di tale punto un cenno espresso, avendo preferito limitarmi a motivare i disegni di legge presentati per l’immediata realizzazione parlamentare. Circa l’annessione della Venezia Tridentina: appena il ministro degli Esteri comunicherà che tutte le formalità per la ratifica del trattato sono compiute (si annunzia ora che il cosidetto deposito delle ratifiche si farà il 16 luglio), il ministro presenterà alla Camera un progetto-legge per l’annessione della Venezia Tridentina. Il gabinetto Giolitti cioè sceglie la via parlamentare – quantunque nel programma suo abbia ammesso di servirsi eventualmente dei decreti-legge per tutto quello che riguarda le nuove provincie fino all’annessione; – il ministero Nitti pensava evidentemente al decreto legge, valendosi di una speciale autorizzazione contenuta nella «legge sul passaggio dallo stato di guerra a quello di pace», votata dal Senato il 5 dicembre, ma non ancora passata alla Camera. È chiaro che Giolitti non intende riesumare il progetto votato dal Senato , progetto che garantiva al ministero per certe materie specifiche i pieni poteri dei decreti reali, anche dopo la ripresa costituzionale. Del resto, dice Giolitti, alzandosi e andando verso la libreria per toglierne un volume, lo statuto parla chiaro. All’art. 5 si legge: «I trattati che importassero un onere alle finanze, o variazioni di territorio dello Stato, non avranno effetto se non dopo ottenuto l’assenso delle Camere». Ci vuole quindi la dichiarazione dell’annessione in rapporto all’approvazione per parte del Parlamento del trattato di S. Germano. «Ma le due Camere approveranno subito o s’ingolferanno nella discussione adriatica?». Giolitti, come si sa, si compiace di ridurre la questione nei termini più semplici e quindi risponde: «Non credo, è questione di senso comune. Per la Venezia Tridentina tutto è a posto: facciamo quindi l’annessione. Per la Venezia Giulia c’è purtroppo ancora qualche cosa da accomodare e bisogna attendere per accomodarla». Riguardo alle elezioni politiche Giolitti è ancora più esplicito. Ad annessione proclamata, le elezioni sono indispensabili. Non è più che una questione tecnica: approntare le liste, stabilire le circoscrizioni. In questo momento del colloquio i deputati puntano sull’ufficio centrale per le «Nuove Provincie». Anche la Venezia Tridentina, malgrado l’annessione, ha bisogno per un certo periodo ancora di un’amministrazione speciale. Anzitutto il governo è d’accordo che modificazioni essenziali nelle leggi non avvengano prima delle elezioni. In secondo luogo il governo si rimette alla via parlamentare per la sistemazione della provincia: è quindi più che mai necessario che a Roma esista ed abbia tutta la pienezza delle necessarie competenze un ufficio che per il suo organismo possa servire di filtro e diriga il periodo transizionale nell’adattamento politico amministrativo. Giolitti ha assentito ed ha date le assicurazioni più tranquillanti. I deputati non ne avevano parlato a casaccio. Nell’entourage di Giolitti c’è forse chi pensa che, arrivata l’annessione, le nuove provincie, almeno quelle annesse, possano scomparire per far da «terre liberate» o da «terre qualsiasi», cadendo, alla più, sotto la giurisdizione molto lata di qualche sottosegretariato o dicastero in seconda, che in realtà lascerebbe che tutti i ministeri pasticciassero nella nostra amministrazione. Qui il paese bisogna che stia bene all’erta! Noi per un lungo periodo ancora abbiamo bisogno di un foro speciale a Roma, diretto da persona competente che conosca entrambe le amministrazioni: giacché è inutile nascondere l’ignoranza delle cose nostre, tanto nei circoli parlamentari come in genere nei circoli politici romani, è strabiliante. È meglio non parlane. Ciò può essere fatale non solo per l’amministrazione ordinaria, in cui senza il filtro metterebbero le mani un po’ tutti, tanto per fare degli esperimenti in corpore vili ma sovratutto quando si tratti di applicare o meno nuove leggi Non è chiaro ancora in qual forma verrà incanalato il passaggio della legislazione. Anche il presente ministero è però mosso dai seguenti criteri di massima: non precipitare nulla, non livellare, non imporre. Dev’essere un adattamento graduale ed organico, col proposito che il meglio deve prevalere, anche se è di origine allogena. Giolitti ha accennato ad un’autorizzazione eventuale che il ministero potrebbe farsi dare dal Parlamento per l’applicazione sicut in quantum della nuova legislazione e vi ha accennato dicendo che si potrebbe accogliere nella legge d’annessione un articolo analogo a quello previsto nel citato progetto accolto dal Senato il 5 dicembre. La questione di forma non è demandata alla nostra cura: quello che importa è questo. Col semplice atto d’annessione nulla dev’essere automaticamente mutato. L’introduzione delle nuove leggi deve seguire a mano a mano con atto specifico: ed è ben inteso che nessuna modificazione essenziale possa esser fatta prima che la popolazione abbia detta col voto la sua parola. Questo impegno del cessato ministero venne rinnovato da Giolitti in confronto del gruppo parlamentare popolare: su questo puntiamo. Non dubitiamo del proposito ministeriale; abbiamo paura dei giureconsulti zelanti, conoscitori della lettera dello statuto e ignoranti delle nostre condizioni di fatto. Perciò stiamo all’erta. E – ci sia permesso quest’invito – stia all’erta anche l’on. Credaro. Il commissario generale sa quali siano i voti unanimi del paese in riguardo: la Venezia Tridentina ha reclamato e reclama il diritto di condeterminare assieme ai fattori nazionali la propria amministrazione. Nihil de nobis sine nobis! |
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| 31916-1920
| «Sono stati ricevuti dall’onorevole Porzio i rappresentanti socialisti della Venezia Giulia, nelle persone del professor Inwinkl , Benutti per la Federazione socialista, Tuntar per la direzione del Partito e Fowel, direttore del Lavoratore, accompagnati dall’onorevole Modigliani per il direttorio del Gruppo parlamentare socialista. Aderendo alle richieste della rappresentanza, l’on. Porzio ha dichiarato che la convocazione dei comizi per le elezioni amministrative nella Venezia Giulia avrà luogo quanto prima e indipendentemente dalle soluzioni dei problemi internazionali connessi con quelle regioni. Le elezioni seguiranno, in ogni caso prescindendo dalla legislazione austriaca in materia, e saranno regolate da una legislazione fondata sul suffragio universale libero ed eguale. Il giorno della convocazione dei comizi sarà fissato dai commissari civili». Come si vede a Roma regna il caos. Quel povero avvocato napoletano che è l’on. Porzio, il quale dovrebb’essere incaricato da Giolitti a presiedere alle nuove provincie, non ha evidentemente la minima idea della matassa che c’è qui da dipanare, altrimenti non avrebbe aderito sic et simpliciter alle richieste socialiste. A noi può importar poco, perché noi desideriamo vivamente anche le elezioni amministrative e qui nel Trentino tutto è pronto per farle; ma ci assicurano che nell’Istria le cose stiano assai diversamente. Ma probabilmente saranno frottole o parole da collegio. Se si procede così però ed ogni partito saprà trovare nell’entourage del Ministero qualcuno di cui la buona fede possa essere sorpresa, si finirà, coll’avere l’impressione del caos. Non ne facciamo colpa a nessuno personalmente, e molto meno all’on. Porzio, ma consci della nostra responsabilità diciamo francamente ai reggitori di Roma: mettete ordine; le nostre questioni sono troppo complesse per farne oggetto di addestramento a future carriere ministeriali. La direzione politica delle nuove provincie dev’essere in mano di persone che sanno e non abbisognano d’incominciare appena ad apprendere. Perché dovremo avere un ufficio centrale? Esso, e per decreto e per tradizione, dev’essere organo del ministero non solo in senso amministrativo, ma anche in senso politico. Diremo anzi che mentre in linea amministrativa ci pare che gli uffici regionali possano avere maggiore libertà di movimento, in linea politica invece c’è bisogno d’un organo che sappia e voglia preparare il lavoro ricostitutivo che compirà il Parlamento. Qui ci vuole conoscenza della materia ed esperienza. Non sono più i tempi di andare a tastoni. |
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| 31916-1920
| Ci sono alcuni uomini nel Trentino, venuti dalla classe politica del paese e dalla cosiddetta borghesia, che si attribuiscono il compito audace di garantire le sorti avvenire della regione e di assicurarne per sempre la prosperità. Costoro nel giorno della sagra di Trento si sono raccolti a convegno , ed essi, i dotti del partito, circondati dal drappello dei semidotti, hanno riconfermato il programma socialista per salvare, rinnovare e rendere felice, assieme al resto del globo, anche questa nostra regione. Di questo programma abbiamo già riferito i caposaldi. Ma ecco com’esso si potrebbe anche formulare, tenendo d’occhio la realtà che ne circonda. Il Trentino ha bisogno di ricostituire le sue amministrazioni autonome e di mantenere nell’amministrazione del comune, della provincia, dell’agricoltura istituzioni già sperimentate, libere, che potranno venir aumentate, ma non diminuite. In questo stadio bisogna impedire sia nella legislazione come nell’amministrazione un livellamento accentratore che distruggerebbe senza edificare. Ebbene i nostri socialisti per bocca dell’on. Alessandri , tuonano contro il governo, perché non introduce subito, di punto in bianco, la legislazione delle vecchie provincie, perché non abbatte tutto quello di particolarmente regionale che qui ha trovato e «invita il gruppo parlamentare socialista a fare di ciò, argomento di protesta in Parlamento». Il Trentino ha un credito, per il risarcimento danni della zona nera, di un miliardo e mezzo verso lo Stato italiano (Stato borghese). Il Trentino ha d’avere dall’Austria, rispettivamente dall’Italia creditrice dell’Austria, dei notevolissimi importi per sussidi e requisizioni non pagate, risparmi non rifusi, corone non cambiate, titoli non convertiti, importi che si possono calcolare in 700-800 milioni. Sono questi denari, per la massima parte, della povera gente. Che cosa propongono i nostri socialisti per mettere a posto i debitori? Dinamite ai palazzi e alle chiese cioè la rivoluzione sociale. Bisogna «aggravare ed affrettare il fenomeno di dissolvimento borghese» ed «avvisare ai mezzi immediati dell’azione rivoluzionaria». Renner e compagni s’affaticano a sollevare il credito dello Stato austriaco; i nostri socialisti invece che pur si vantavano un giorno di tali maestri, avvisano a tutti i mezzi possibili per sgretolare lo Stato italiano e spingerlo sulla strada del fallimento. Un socialista trentino oggi, fosse anche il più fervente partigiano di Marx, di fronte alla situazione specialissima del nostro paese, dovrebbe fare questo ragionamento. L’ordinamento comunista introdotto nel momento della più profonda depressione economica, è certo un disastro; pensiamo quindi a metterci prima un poco a posto. Appena passato il terremoto, e subito dopo il terremoto, fra i ruderi, non si può fare la rivoluzione. Ah sì; Flor, L. d’Avio, Groff e compagnia trovano in vece che è urgente fare «la più intensa propaganda socialista e rivoluzionaria nella forza armata» e che la meta che bisogna raggiungere subito è il «crollo del sistema capitalistico», come scrive in bello stile il Flor stesso. Questo Sansone ha un programma allegro; le masse filistee possono raccogliersi fiduciose sotto le volte del tempio; codesto organizzatore degli edili ha un sistema edile meraviglioso: il crollo! |
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| 41921-1925
| S. Flor scrive nell’Internazionale un articolo per inaugurare quella ch’egli chiama «propaganda edilizia». In realtà si tratta di propaganda socialista con periodi come questi: «Convinti che il movimento sindacale edile non può esser fine a se stesso, né deve ridursi al corporativismo neutralista, ma che tutta la lotta combattuta dalla nostra classe deve basarsi alla (sic!) fede socialista che mira alla completa emancipazione del proletariato» … gli organizzatori edili hanno deciso di fare proprio organo l’Internazionale perché vogliono che i lavoratori edili del Trentino «a traverso l’Internazionale si formino una vera coscienza socialista, che si educhino a tutte le battaglie del lavoro dalla lotta di resistenza a quella cooperativista ed infine alla lotta politica poiché solo nella triplice alleanza del lavoro sta il segreto dell’azione proletaria». E più sotto: «Il proletariato deve opporre il “fronte unico” alla demagogia ed al funambolismo gesuitico dei clericali, alle varie democrazie rifo-repuleghiste-liberaloidi dei variopinti nazionalismi, al fascismo ed al bolscevismo bianco dei vari carbonari, ecc.». Abbiamo riprodotti questi periodi per documentare ancora una volta come i socialisti stessi confessino ora che anche la loro propaganda sindacale è propaganda socialista, propaganda di partito, propaganda di politica. La neutralità non esiste. Se lo tengano bene a mente quegli operai e quegli impiegati che scusano la loro appartenenza alla Camera del lavoro, col suo presuntivo carattere di apolicità. Ma se lo tengano a mente sovratutto le autorità, gli enti pubblici che vengono a contatto colle organizzazioni rosse. Noi non abbiamo mai chiesto né ci sogniamo di chiedere che si usi alle associazioni sindacali socialiste un trattamento d’eccezione in senso sfavorevole; noi abbiamo protestato e protestiamo soltanto che si usi in confronto loro un trattamento d’eccezione in senso favorevole, e più ancora abbiamo avuto occasione di protestare contro il fatto che si considerino le organizzazioni socialiste, non come organizzazioni di parte, ma come organizzazioni di carattere universale, alle quali sia affidata la tutela degl’interessi pubblici. È questo carattere di universalità che i socialisti vogliono raggiungere quando nei loro contratti collettivi domandano il riconoscimento dell’organizzazione come sola forza rappresentativa della classe operaia. L’anno scorso al primo risvegliarsi del bolscevismo fu un inchinarsi generale innanzi a questa pretesa dei socialisti. Il primo spettacolo di mancanza di filo della schiena lo diede il Municipio, concedendo la Cà di Dio alla Camera del lavoro fingendo di credere alle affermazioni dei rossi che si trattava d’installarvi le rappresentanze operaie sic et sempliciter e non di farvi la sede delle organizzazioni socialiste. Questo tristo esempio di debolezza venne seguito anche da parecchi principali. Ricordiamo il primo contratto dei sarti col quale i principali si obligavano a trattare solo coll’organizzazione socialista e s’impegnavano a non dar lavoro a operai non organizzati alla Camera del lavoro, cosicché povere mamme che non volevano che le loro figliuole apprendiste s’intruppassero in quella compagnia, dovettero rinunziare a mandare le loro figliuole nei lavoratori. Ricordiamo il famigerato contratto edile, accettato nel distretto di Trento ancora l’altr’anno, e talmente favorito dal supino appoggio dell’autorità politica che se non fosse stato l’energico intervento delle organizzazioni bianche esso sarebbe oggi in vigore in tutto il Trentino, colmando di centinaia di migliaia di lire la cassa delle organizzazioni rosse. E potremo ricordare altri fatti di debolezza, d’acquiescenza, di viltà. Il primo, netto esempio di resistenza ci venne da fuori di Trento, da Mezolombardo e Lavis ove simili pretese dei rossi vennero energicamente respinte. È venuto ora il contratto dei sarti il quale ha spezzato il giogo e riconsacrata la libertà di lavoro, e speriamo che questo movimento non s’arresti. Intendiamoci bene: qui le condizioni di lavoro, cioè l’orario, il salario, l’assicurazione, ecc. sono fuori di questione. Sono questi i termini economici del contratto e, tanto gli operai come i principali hanno diritto di far valere le proprie ragioni e di misurare le proprie forze. È fuori di questione anche il diritto di organizzazione. Gli operai devono essere liberi d’organizzarsi e i datori di lavoro devono trattare con quell’organizzazione, alla quale essi liberamente affidano la loro tutela. Ma su tale terreno non deve essere ammesso nessun monopolio e nessuna dittatura; né le organizzazioni di parte devono assumere comecchesia carattere universale o pubblico. Questa dev’essere una direttiva di giustizia e di libertà che bisogna difendere in tutte le contingenze. Chi l’abbandona si rende complice della bolscevizzazione del paese. Al qual proposito vorremmo avere dal Municipio di Trento alcune spiegazioni. In piazza del Duomo nei locali sotto il tiglio s’è installato un «ufficio di collocamento di zona». Ci hanno detto che è l’ufficio di collocamento promosso dai consorzi industriali da una parte e dalle organizzazioni socialiste dall’altra. Si tratta di un cosidetto ufficio di collocamento paritetico, piantato in analogia a cert’altri uffici di collocamento consimili delle vecchie provincie resi possibili da un famigerato decreto di guerra, dell’ottobre 1918, concordato fra l’allora ministro del lavoro D’Aragona capo della Confederazione del lavoro da una parte e Dante Ferraris , presidente della Confederazione industriale dall’altra. I soldi li danno loro, i pescicani – se non erriamo, o meglio hanno messo a disposizione un fondo iniziale; per il resto sperano nei contributi del Comune e dello Stato. Il decreto qui non è mai entrato in vigore, tuttavia l’ufficio per impulso di Flor si è fatto. E il consiglio dell’ufficio sapete com’è composto: Da una parte 4 datori di lavoro (P. Giovannini, Menestrina, Tomasini, V. Tomasi) dall’altra come rappresentanti della classe operaia quattro operai designati dalla Camera del lavoro, tra cui in prima linea S. Flor! E quest’ufficio, piantato in questo bel modo, presume di fungere per tutto il Trentino, ove la maggioranza dei lavoratori non è ancora socialista, e quest’ufficio ottiene dal Comune i locali, quasi fosse un ufficio di carattere universale, e quest’ufficio pretende di ottenere una forte sovvenzione dallo Stato, quasiché il paese gli avesse affidato carta bianca, per rappresentarlo! E non c’è stato nessuno in comune che ha sollevata qualsiasi obiezione? Giacché una dello due: o il Comune deve sovvenzionare tutti gli uffici di collegamento, ovvero se ne sovvenziona uno solo, deve esigere ch’esso abbia carattere pubblico e che non sia quindi il monopolio di nessun partito. Un altro caso di consimile acquiescenza vorremmo chiarito a tranquillità del pubblico. È vero che nell’ultimo concordato concluso tra la «Federazione gassisti elettricisti» e il Municipio si è tra l’altro stabilito che gli operai dietro loro domanda possono autorizzare il Municipio stesso a far le ritenute sulle paghe mensili delle quote a favore della Camera del Lavoro e che in tal caso il Municipio fa da esattore dell’organizzazione socialista? È vero inoltre, che in base agli stessi accordi gli operai non organizzati nella suddetta società rossa, per poter fruire dei vantaggi accordati dall’amministrazione, dovranno rivolgersi particolarmente al Municipio, quasiché esso riguardi gli operai non per quanto tecnicamente valgono e rendono, ma in quanto siano inscritti o meno nella lega rossa? I chiarimenti su tali quesiti avranno per noi e per il pubblico valore sintomatico. Noi crediamo che nel Trentino non siamo ancora giunti al punto di dover capitolare innanzi alle organizzazioni comuniste e sovratutto crediamo che sarebbe da imbecilli l’aprire colle nostre stesse mani la via alla dittatura bolscevica. Né reazione né acquiescenza per viltà d’animo, ma difesa del principio di libertà del lavoro, ecco la nostra direttiva. E sovratutto: filo della schiena! |
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| Le scuole popolari del Vercellese, dalle quali la malvagia brutalità grottesca dei socialisti profanatori aveva ardito strappare i Crocifissi, hanno riavuto, dopo brevi giorni, nelle loro aule i simboli venerati della Redenzione. Per volontà magnifica di popolo. Poiché è vero che, una volta tanto, l’autorità statale si mosse con energia a mettere a segno i sacrileghi iconoclasti, i quali con un oltraggio diretto al Cristo intendevano congiungere uno sfregio alla legge italiana vigente, applicando, in contrasto con essa, il decreto 12 luglio 1918 del regime di Lenin, che stabilisce l’allontanamento dalle aule scolastiche di qualsiasi oggetto di culto. Ma è certo che la resistenza governativa alla sopraffazione dei tirannelli rossi non sarebbe stata così rapida ed efficace se più rapida ancora e immediata non si fosse manifestata la volontà del popolo reclamante che il simbolo del Cristo fosse conservato, almeno esso, quasi a diffondere in silenzio uno spirito di santificazione e di fede sulle nuove generazioni accorrenti alla scuola. E l’intervento popolare è stato meraviglioso. Non solo le autorità ecclesiastiche e i cattolici praticanti si sono mossi protestando e invocando un freno ai turpi politicanti oltraggiatori di Cristo. Non solo moltissimi maestri e maestre, quantunque costretti a dipendere dalle amministrazioni comunali socialiste, hanno deplorato la follia anticristiana dei loro padroni e hanno fatto opposizione ai loro ordini. Ma la popolazione intera, quella che pareva asservita al settarismo comunista e pronta sempre ad assecondarne le velleità faziose o i capricci, ha trovato la forza di reagire, energicamente e di chiedere a gran voce che Cristo, almeno in effige, ritornasse, nelle scuole. Si consideri bene. Si tratta di una zona prettamente rossa, dove il socialismo, nella sua forma più brutale e mascalzonesca, ha stabilito e radicato profondamente il suo potere. Le leghe operaie, le cooperative, le associazioni agricole sono strette in potenti fasci su cui sventola da per tutto la bandiera rossa. I comuni in grandissima maggioranza sono nelle mani dei rossi. Una propaganda costante e audace di odio ha brutalizzato le masse, ha tolto ogni autorità al prete, ha reso semideserte le chiese. Il materialismo idiota o presuntuoso dei capoccia socialisti è quasi l’unica predicazione che trovi ascolto nel popolo. È una zona nella quale pareva lecito al socialismo osare i più audaci ardimenti nella sicurezza di trovare consentimento e obbedienza. Eppure questa popolazione, posta davanti all’insulto atroce al Cristo e alla negazione spudorata non solo della sua natura divina, ma pure del suo simbolo di fervida umanità fremente di amore e di dolore, ha trovato in fondo al suo cuore un impeto sano e imperioso di ribellione, ha sentito mirabilmente che tra il Cristo oltraggiato e discacciato e la lurida empietà fanfaronesca dei discacciatori, essa doveva prendere la parte dell’insultalo contro l’insultatore, doveva anteporre la presenza silenziosa e divina del Crocifisso alla grottesca prepotenza del frate sfratato, dell’ex maestro rinnegato, da cui era partito il malvagio tentativo. E si sono viste assiepate contro i giannizzeri mandati dai bolscevichi a strappare i Crocifissi le donne delle leghe rosse che già avevano partecipato agli scioperi politici e alle dimostrazioni anticlericali. E per quei «due pezzi di legno», come con parola blasfema l’Avanti! chiama il Crocifisso, sono insorti, con la folla protestante, perfino i leghisti rossi che portavano all’occhiello lo stemma bolscevico di Lenin. Evidentemente i capoccia del socialismo di Novara e di Vercelli, misurando con le solite misure i limiti e la portata della loro audacia, non si sono accorti, questa volta, che avevano passato il segno. E forse nell’insorgere spontaneo di quell’ultimo rimasuglio di fede e di sentimento cristiano annidato in fondo alle anime dei popolani, noi possiamo riconoscere un nuovo alitare della grazia e trarne ragione di sperare bene per una rinascita spirituale nell’avvenire. Il frate sfratato, il maestro rinnegato (maestro il Fietti, come il Martelli e il Pini a Bologna, come altrove i più fanatici depravatori del popolo) contrapponendo a Cristo la sua presuntuosa persona come a sfida e a dispregio, ha voluto motivare con un pretesto pedagogico, l’ostracismo imposto al crocifisso dalla scuola. Rimasticando un vieto sofisma del vecchio anticlericalismo borghese, egli ha affermato che la serenità degli scolari non deve essere turbata da visioni di morte e di dolore. Cristo in croce il Redentore divino che al genere umano ha dato la rigenerazione e la vita spirituale, non sarebbe dunque per lui che un oggetto ripugnante da non sottoporre agli occhi dei giovanetti. Ragionamento idiota e canagliesco ad un tempo. Ma quando in diciannove secoli la figura del Redentore ha mai offeso la tenera anima di un bambino? Quel Cristo che ha portato nel mondo le più delicate immagini di fanciullezza santa e serena, che ha santificato e coronato di tranquilla giovialità il pensiero e il lavoro, che al dolore umano, come dura e terribile realtà, ha circonfuso la calma della rassegnazione e il sorriso della speranza, che perfino alla morte ha tolto il suo orrore, esaltandola e rendendola serena amabile ad ogni età di persone, sarà dunque oggetto di scandalo all’anima dei bambini, amareggerà loro la vita con brutte visioni di sofferenza e di strazio? Ma allora, se siete così vigliacchi che il dolore vi spaventa, e così illusi da immaginare di escludere il dolore dalla vita, allora allontanate pure il bambino dal padre che soffre e che muore, chiudetegli gli occhi davanti allo strazio della madre e dei fratelli, fate che egli non veda mai, né senta, né si figuri l’ululo del dolore, l’apparizione della morte in mezzo ai suoi cari. Poiché voi assicurate a lui la perfetta felicità socialista, nella quale il dolore non avrà più posto, cacciate dunque Cristo dalla scuola e dalla famiglia. Mettete in suo luogo lo stemma dei soviets con la falce e il martello e, come simbolo della serenità imperturbabile, il fiasco di vino che allieta la brigata, che celebra le nascite dei nuovi rampolli comunisti, che accompagna i balli e le orgie della nuova felicità. Che c’entra in tutto questo il nome di Dio e la figura di Cristo? A questo estremo, che sarebbe parso inconcepibile fino a pochi anni fa, è giunta la spudorata empietà di pochi fanatici i quali abbacinano il pubblico con lo sventolamento dello straccio rosso e lo trascinano ai loro loschi intendimenti. Quello che nelle regioni del socialismo più progredito viene compiuto con tanta audacia deve ammaestrare anche noi, una volta di più, sulle finalità che il socialismo bolscevico si propone e persegue da per tutto. Sarebbe una colpa l’illudersi in proposito. Il socialismo, fondato su una dottrina che ha per base il più crasso materialismo, predicato con metodi di intimidazione e di menzogna, è mosso necessariamente a sopraffare e a schiacciare ogni concezione spirituale della vita. Esso è naturalmente ostile a ogni manifestazione e ad ogni credenza cristiana. Per lui l’uomo non è che un animale senza un destino superiore. Se sono diversissimi e scelti secondo le circostanze i metodi e i mezzi della lotta anticristiana, tutti sono tuttavia coordinati allo scopo finale: l’abolizione del Cristianesimo. E così avviene che quel Cristo, il quale davanti agli ingenui era ed è decantato come il più antico e autentico socialista e messo in contrasto con i preti faccendieri e bottegai, viene in altri luoghi deriso nella sua dottrina e nella sua morale, viene infine messo al bando ignobilmente come un abbietto di cui non si tollera nemmeno la silenziosa presenza. L’opera anticristiana che la borghesia aveva iniziato con la sua legislazione settaria e con la sua immoralità pratica, viene in tal modo assunta e compiuta dal pseudo proletariato socialista che nell’abolizione di tutte le forze morali e spirituali sembra vedere il suo compito primo. O proletari, che dal rosseggiare della bandiera di Lenin, vi aspettavate fiduciosi il benessere economico e la tranquillità sociale: il benessere e la ricchezza tardano a venire; la lotta civile vi dilania, gli scioperi vi intorbidano la quiete dell’esistenza, ma potete essere sodisfatti. I vostri capi si occuperanno di voi quando avranno saldato la loro partita con Cristo, con quel primo e autentico socialista che ora, nel giudizio di Lenin e dei compagni comunisti italiani, s’è tramutato in un esecrabile delinquente… E ci vorrà pazienza, perché la partita appare grave e faticosa. È molto incomodo e molesto questo Cristo che, con quei suoi «due pezzi di legno» tanto più facilmente vince e trionfa quanto più sembra essere definitivamente schiacciato! Non è vero compagno Groff? |
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| Cappella di Lavarone, 16. Oggi ebbe luogo qui un frequentato pubblico comizio, in cui l’on. Degasperi parlò innanzi a numerosissimi lavoratori della «parrocchia» e di tutte le frazioni sul programma del partito popolare italiano. Egli colse l’occasione anche, in contraddittorio con un intervenuto e interloquendo anche D. Guido Floriani, di chiarire l’atteggiamento del partito di fronte ad una nuova organizzazione di danneggiati che si vuol fondare . Se si trattasse, egli disse, di un’associazione con scopi meramente economici, in pro dei danneggiati, il partito popolare dovrebbe appoggiarla; ma siccome si assicura ch’essa vuole avere scopi elettorali, cioè politici, che tende cioè a far eleggere propri candidati, è chiaro ch’essa invade il terreno politico-elettorale, su cui agiscono i partiti politici precostituiti ed in prima linea il partito popolare. Dovremmo quindi venire a conflitto fra la lista dei popolari e l’eventuale lista della nuova associazione. È meglio parlar chiaro fin da principio. Il partito popolare crede di poter fare gl’interessi dei danneggiati meglio che altre organizzazioni, perché può mettere a disposizione della loro causa anche i deputati eletti nel Trentino settentrionale e può alla Camera influire sul governo colla forza di un centinaio di deputati. I danneggiati trovano le porte aperte: entrino nel partito, si facciano valere, quando si tratta di designare i candidati. Ma non creino un nuovo partito, il quale indebolirebbe e dividerebbe i danneggiati stessi. Siccome poi per il nuovo partito s’era fatta propaganda in base a questi criteri: l’Italia deve rifondere subito tutti i danni, altrimenti mettersi d’accordo coi ferrovieri e coi postelegrafonici per ricorrere ad altre armi, eventualmente minacciare che le tre Venezie proclamerebbero la repubblica e si staccherebbero dal Regno, l’on. Degasperi spiegò le attuali possibilità finanziarie dello Stato e come si stia ora per emettere un nuovo prestito in favore della zona devastata, fece rilevare che per la riuscita di questo prestito ed in genere per rassodare le finanze dello Stato, è indispensabile ritornare alle vie dell’ordine, del lavoro, della produzione, anziché fomentare nuove rivolte; e infine fece toccare con mano il ridicolo della minaccia repubblicana. Le terre devastate hanno bisogno di venir aiutate dalle altre provincie, non di separarsene. Può parlare eventualmente di repubblica di Sicilia che esporta di più di quello che importi, non le tre Venezie le quali formerebbero la repubblica dei danneggiati, e quindi della miseria. L’oratore chiude con un appello agli amici, perché vogliano intensificare l’azione per il rinnovamento, l’ampliamento ed il rassodamento delle sezioni locali del partito le quali sono chiamate a promuovere tutte quelle iniziative che hanno rapporto coll’azione da svolgersi dagli enti pubblici ed in modo particolare dal parlamento. Il comizio dopo alcune parole d’assenso del signor parroco D. Floriani e del presidente maestro Osele venne chiuso fra grandi applausi all’oratore. |
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| Del convegno delle casse distrettuali ammalati abbiamo riferito per i primi succintamente; ci sta dinnanzi ora la relazione ufficiale, la quale aggiunge poco di nuovo. La federazione non si è di fatto ancora costituita, giacché è riservata l’adesione delle singole casse per quanto riguarda il testo definitivo dello statuto e l’ammontare del contributo. È previsto però che si faranno due federazioni o meglio due sezioni, una a Trento, una a Bolzano. Quello che appare tuttavia ancora più chiaro dalla relazione ufficiale è che nel convegno si dichiarò la guerra a fondo contro le casse libere, cioè contro le casse legalmente autorizzate e registrate cui l’avv. Pozzilli fa grazia di chiamare «tollerate». Non solo la guerra, ma si chiese formalmente e replicatamene che tali casse venissero senz’altro soppresse, e, prima che soppresse in ogni caso ignorate, talché dovendosi mandare un delegato delle casse ammalati in una commissione per studi sociali a Roma, il convegno pretese in un ordine del giorno che il diritto di delega venisse riservato alle sole case distrettuali, omettendo tutte le altre. Non solo, ma per colmo d’impudenza la designazione anche senza incarico alcuno venne già fatta e venne dato incarico al designato di sostenere a Roma che le casse distrettuali dovranno essere le uniche le quali faranno non solo il servizio contro le malattie, ma le uniche anche ad assumere la nuova assicurazione contro la disoccupazione. In argomento interloquì soprattutto l’avv. Pozzilli, direttore della cassa nazionale infortuni, il quale riassunse, secondo la sua visuale, delle conversazioni avute col segretario dell’Unione del lavoro e coll’on. Degasperi, concludendo di aver dichiarato che si era esclusa dagl’inviti la cassa centrale cattolica «per non invitare rappresentanti di partiti politici»; che però per indurre le casse libere a scomparire sarebbe cosa opportuna introdurre nelle elezioni delle casse distrettuali la proporzionale; e in tale senso venne accolta anche una risoluzione, a condizione che le casse libere s’impegnassero a scomparire definitivamente. In coda alla relazione ufficiale leggiamo nella «Libertà» un commento autorizzato, del quale indoviniamo lo stile. Eccone il punto saliente: «Le Casse ammalati distrettuali hanno sempre considerata la loro missione ufficiale solamente dal lato umanitario e nissuno s’è mai sognato di farne campo di lotta politica o tanto meno di speculazione politica. Il partito popolare ha fatto e fa attraverso la sua Cassa di Mutuo soccorso speculazione, sopratutto, politica. Per intanto tutti gli onesti devono prender nota di una cosa e cioè: uomini politici del partito popolare hanno ammesso che pur sapendo di far danno alle Casse distrettuali (e chi non sa la legge dei grandi numeri essere uno dei fattori più importanti dell’assicurazione?) intendono mantenere la loro Cassa di concorrenza». Ed ora tentiamo di riassumere in poche parole il nostro punto di vista. In Italia si sta ora appena elaborando la legislazione contro le malattie e in tale elaborazione sono in lotta due tendenze quella che vuole la sola assicurazione ufficiale o di stato e quella che vuole la libertà. Per le mutue libere sono non solo gran parte dei popolari, ma anche molti socialisti e moltissimi liberali. Non è il partito politico che divide, ma una concezione sociale ovvero l’interesse locale o di classe. Nelle nuove provincie l’assicurazione contro le malattie esiste secondo il principio che l’assicurazione è obbligatoria e che per essa lo Stato promuove l’istituzione di apposite casse, ma si riserva di autorizzare e parificare in diritto anche altre casse promosse per libera iniziativa di terzi. Queste son le casse legalmente autorizzate e pareggiate. Nessuna meraviglia che come nelle vecchie provincie ferve la lotta intorno al principio da applicarsi, ci sia chi nelle nuove provincie chieda la modificazione dello stato legale di fatto in favore del monopolio delle casse ufficiali. Ma ci fa meraviglia che tale cambiamento venga cercato di raggiungere non per mutui accordi ed in base a discussioni; ma di sorpresa, ricorrendo a degli accorgimenti tattici e a dei procedimenti camorristici. Il gran pubblico e il commissariato devono ignorare che nella Venezia Tridentina esistono numerose casse libere e migliaia di operai che vi sono assicurati. Si organizzano delle federazioni, le quali hanno lo scopo di arrivare alla soppressione delle casse libere, ossia al monopolio e si evita d’invitare in qualsiasi forma le altre casse, gettando su loro il previo disprezzo dal punto tecnico e il previo sospetto dal punto di vista politico; e in questo convegno di una sola parte in causa si presume di poter designare il delegato di tutti gli assicurati contro le malattie a far parte della commissione sociale in Roma; e lo si designa col preciso incarico, badate bene, di domandare la soppressione delle casse libere, e ed è quel che più urge, di avocare alle sole casse ammalati distrettuali il nuovo servizio contro la disoccupazione. Questa è guerra d’insidie e d’agguati, ma è sovratutto guerra ed è inutile che l’avv. Pozzilli ci venga innanzi col viso sorridente a calmare le nostre preoccupazioni. Non siamo degli ingenui. Protestiamo però energicamente contro la sua sciocca allegazione ch’egli aveva escluso la cassa cattolica, per non invitare rappresentanti di partiti politici. Si chiami «cattolica» o «protestante» la cassa centrale di M. S. è una cassa istituita in base alla legge ed una cassa che provvede all’assicurazione degli operai, né esercita punto una funzione politica. Gli uomini che l’avrebbero rappresentata, politici o no, avrebbero saputo nella discussione valersi di criteri oggettivi, almeno come i Piscel, i Tappainer , i Calzà. È quindi ridicolo ed offensivo ricorrere a simili motivazioni e ci meravigliamo che un impiegato di un istituto che sta sotto la tutela di Stato proceda e parli in tale maniera, e lo faccia in un’adunanza ufficiale citando nominalmente gli uomini nostri, senza però che sia data loro la possibilità di dire la loro opinione. Nel «commento» si aggiunge poi quello che non appare nella relazione ufficiale. Le casse distrettuali ammalati sono completamente apolitiche; non c’è l’ombra di politicismo da parte dei socialisti; chi fa la politica e disgrega e distrugge sono i popolari. Già come se i fatti non fossero là a prova del contrario. Vi sono senza dubbio delle casse distrettuali ammalati in cui non prevale alcuna tendenza di partito; quelle dei distretti rurali, la maggior parte. Al convegno stesso un rappresentante di Riva dimostrò un diverso atteggiamento di spirito di quello dei promotori e proprio nella questione che dibattiamo; e sappiamo che egli non fu solo. Ma è vero e notorio d’altro canto che non solo nella Venezia Giulia – si pensi alla cassa di Trieste – ma anche nella Venezia Tridentina nelle casse ammalati si procedette troppo spesso con criteri di partito. Citiamo solo l’esempio recente di Rovereto, in cui si dette l’assalto alla cassa, imponendole una presidenza rosso-scarlatta, cacciandovene il provetto e benemerito amministratore Marco Ossato . Maggiore però e più fondata ancora è la preoccupazione per l’avvenire. Non ha tentato il sindacato edile di far delle casse distrettuali un organismo che fosse al suo servizio anche per riscuotere la quota che va a beneficio del sindacato socialista? E non si sono viste delle casse mettersi spontaneamente a disposizione di quest’organizzazione di partito? E a queste casse dovremo obbligare i nostri operai a dare il loro nome? A loro solo, e senza ulteriori garanzie, dovremo affidare l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione? Ora si parla di proporzionale, e sta bene; ma l’idea l’abbiamo lanciata noi, e i socialisti l’accettano, se le casse libere disarmano. È quindi ridicolo dipingere noi come lupi di parte e gli altri come agnelli imparziali. No, no, è questione di franchezza e, anche qui, di filo di schiena. Noi siamo sul terreno della legge e del diritto comune. Difendiamo il nostro paese dal pericolo ch’esso diventi un braciere socialista e lo difendiamo, non chiedendo per noi e gli antisocialisti dei privilegi o delle posizioni privilegiate, ma propugnando l’eguaglianza del diritto e le libertà garantite dalle leggi. Ella forse, egregio avvocato Pozzilli, è d’opinione diversa. Forse non vede che la legge dei grandi numeri forse è d’opinione essere affatto indifferente per lo Stato italiano che le istituzioni di previdenza sociale ch’esso fonda e mantiene coi denari di tutti i contribuenti, sieno già diventate in buona parte per l’incoscienza e la debolezza dei governi liberali un feudo del partito socialista. Noi siamo di parere diverso e di questo parere assumiamo tutta la responsabilità. E del nostro parere confidiamo sia in grande maggioranza il nostro paese, maggioranza composta di tutti coloro che hanno profonda la sensazione dell’attuale momento politico, e dispongono di una direttiva da seguire e del fegato per seguirla. |
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| Ricomparsa d’un Indomito paladino e ripresa della propaganda lacrimogena. – Il salvataggio elettorale dei danneggiati. – Intransigenza socialista e appoggio transitorio. – Collaborazione, non compromissione. – Il coraggio dei riformisti. Odor di polvere! Si fiuta nell’aria la battaglia. Se non si sapesse per notizia certa che questa volta le elezioni si avvicinano davvero, si potrebbe indovinarlo dai segni precursori che compaiono sul nostro orizzonte politico. Eccovi in prima linea sfolgorare di nuovo la stella cometa di Patrizio Bosetti. Bosetti nell’ante guerra era il redentore dei contadini, il contadino puro, il contadino in senso assoluto, il concentrato insomma della contadineria, al di fuori della quale nessun partito, nessun movimento esisteva che potesse interessarlo. Dopo la guerra, dopo un passeggero connubio socialista il signor Patrizio si mise a predicare la repubblica, la costituente, la rivoluzione, finché assorbito dal nuovo movimento ch’egli aveva iniziato trascurò «i poveri contadini» per dedicarsi al bene dei lavoratori. Ma dal nido delle cooperative lo cacciarono con una polemica crudele ed una guerra atroce i socialisti che nel nido deposero l’uovo del cuculo (leggi D.r Salvetti); ond’è che oggidì, alla vigilia delle elezioni P. Bosetti può ricomparire alla ribalta a fare di nuovo il «contadino puro», il «solo contadino». Ma questa volta ricompare in forze. Egli ha assoldato per la propaganda non solo il lacrimogeno Adami , ma anche uno speciale segretario, Rodolfo Valdagni. I tre battono ora la campagna coi soliti argomenti; Adami a Vezzano ha detto: «Ora tutti i partiti ci fanno l’amore perché sanno che stiamo organizzandoci ed hanno paura di noi; le promesse ci piovono da tutte le parti; le lusinghe ci circondano dovunque; noi resistiamo fieri della nostra indipendenza ed allora vengon le minaccie, vengono le calunnie, le denigrazioni». Oh davvero? Sarebbe interessante sapere quai partiti mettono a sì dura prova la fiera indipendenza di codesti indomiti paladini. Comunque essi hanno resistito e, più eroicamente ancora dell’Adami, ha resistito l’impareggiabile Patrizio, il quale nello stesso comizio (citiamo sempre dal Contadino) avrebbe esclamato: «Ho avuto il coraggio di proclamare in faccia a tutti che i contadini hanno ragione. Ecco la mia colpa. E per questo ecco la lotta personale che mi si fa. Di questa colpa me ne vanto, della lotta me ne infischio, poiché la mia coscienza è netta, la convinzione è profonda, il mio intento è onesto». E pensare che nella lotta politica che gli mossero, i contadini non c’entravano per nulla e ch’egli perdette il posto e l’automobile solo perché i socialisti internazionali volevano occupare la sua prebenda. Così, facendo i martiri e i perseguitati, lacrimando sulle miserie del povero contadino, tornano a peregrinare di villaggio in villaggio fingendo d’esservi invocati come salvatori dai contadini stessi; mentre i contadini autentici, mai come oggi desiderano che torni l’antica unione ch’esisteva nella campagna, prima che il Bosetti vi seminasse la zizzania, mai come oggi hanno salutato il sorgere delle leghe dei contadini e della loro federazione come consorzio economico, e mai come oggi sono persuasi che la tutela dei loro diritti politici è meglio affidata ad un grande partito che comprenda tutte le classi. I «contadini puri» di Bosetti ove andranno a finire in Parlamento? Colla pattuglia massonico-repubblicana, della quale il Bosetti ha tentato importare nel Trentino oratori ed idee e sembra riuscito ad importare davvero fondi di propaganda. Ma gli anticlericali hanno di questi giorni un’altra consolazione. L’Internazionale proclama che il partito popolare è «contro i preti o contro i danneggiati» alludendo al nostro atteggiamento contrario alla nuova organizzazione politica dei danneggiati di guerra che si vuol avviare, della quale si è fatto promotore D. Silvino Pontalti cappellano di Lavarone. I nostri lettori hanno avuta notizia della cosa dal resoconto d’una conferenza tenuta colà domenica scorsa dal nostro direttore. In contraddittorio con un intervenuto (il signor U. Giongo e non il Pontalti come inventa l’Internazionale) egli rilevò questo: «se voi istituite un’associazione economica, il partito popolare vi darà appoggio; se voi piantate un’organizzazione politica», con scopi elettorali, è segno che non avete fede nel partito popolare ed allora nel momento di votare, la lotta fra «i candidati e fra le liste diventerà inevitabile. Chi ne avrà danno saranno proprio i danneggiati». La loro situazione non è sanabile che coll’appoggio di forti partiti; dividerli, staccarli vuol dire abbandonarli. Oltre a ciò, poiché gli era stato riferito che la propaganda veniva fatta colla minaccia che se entro breve termine l’Italia non avesse rifusi tutti i danni, verrebbe proclamata la repubblica delle Venezie e si cercherebbe l’accordo coi grandi organismi rivoluzionari dei ferrovieri, postelegrafonici, il nostro direttore descrisse l’attuale situazione finanziaria e le possibilità che si avranno col prestito d’imminente emissione e dimostrò l’assurdità di sperare in moti rivoluzionari, mentre i danneggiati hanno interesse specialissimo che l’Italia possa ristabilire nell’ordine e nel lavoro le sue finanze. Questo fu il discorso onesto e chiaro del nostro segretario politico . Né allora né poi abbiamo avuta occasione di occuparci più oltre della propaganda di D. Silvino Pontalti finché udimmo che gli accadde quello che Turati direbbe un infortunio sul lavoro, cioè un conflitto coi carabinieri. Non sappiamo di che genere sia; speriamo non sia grave. Caratteristico però è il contegno subdolo ed opportunistico del partito socialista. Questo partito ch’è il partito della purezza e dell’intransigenza e condanna tutti coloro che non accettano le 21 tesi di Mosca e i dogmi dell’Internazionale dichiara di far subito largo al partito danneggiati. Ecco come scrive l’Internazionale: «In quanto alla posizione che prenderà il nostro partito di fronte al partito dei danneggiati, dichiariamo già fin da ora che esso non può essere menomanente ostacolato, trattandosi di un partito che è limitato ad una zona determinata e possiede un programma particolare e di carattere transitorio. Purché non sia palesemente contro al programma nostro, in quanto che è programma universale». I «compagni» della Valsugana e di tutta la zona nera sono quindi avvertiti. Essi possono benissimo tesserarsi nel nuovo partito… transitorio. Oh, non è così forse? L’Internazionale intende forse che il nuovo partito si sviluppi solo a costo del partito popolare, e che i socialisti soffino nel fuoco, ma stiano fuori, per averne poi l’eredità come è loro avvenuto colle cooperative di Bosetti? O dirittura e fierezza proletaria. Ma che! L’Internazionale lo confessa chiaramente: il nuovo partito è una tegola sulla testa del P.P.I. Quindi battiamo le mani. Una seconda tegola, aggiunge lo stesso giornale è il processo mantovano, non tanto per il suo contenuto che veramente non riguarda il Trentino, ma perché, dice il giornale socialista, il contegno assunto in tale occasione dalla Libertà ci toglie la speranza di poter fare qualche pateracchio coi liberali democratici. L’Internazionale è male informata. Noi a pateracchi non ci abbiamo pensato mai né, data la nota direttiva del P.P.I., ci potevamo pensare. Noi abbiamo sostenuto e sosteniamo ancor oggi che nel momento grave che attraversa il nostro paese e data la somma d’interessi, che bisogna tutelare, è desiderabile e doverosa la collaborazione di tutti coloro che vogliono ristaurare le nostre amministrazioni autonome, regolare le nostre finanze, liquidare i nostri rapporti coll’Austria, difendere le buone istituzioni vigenti. Questa collaborazione non è né dev’essere confusione di programmi, limitazione di dibattito, o compromissione elettorale. La nostra organizzazione distinta e il sistema elettorale proporzionale facilitano che ognuno marci per la sua via senza mutue dipendenze o equivoci accordi. Certo che è il tono che fa la musica, e noi crederemmo nocevolissima a qualsiasi possibile collaborazione una campagna denigratoria contro istituti del paese. Per questo in un recente trafiletto abbiamo voluto illuminare l’Internazionale assicurandola che non siamo degl’ingenui, i quali non capiscano che il riferire d’un processo contro il direttore d’una banca di Mantova con certi titoli come «Banca cattolica truffaldina», all’«ombra di una banca cattolica», e il «crack della cattolica» come, riferendosi alla Libertà, fanno i due giornali socialisti, abbia una significazione del tutto casuale. Ma tutto giova vero, egregio Popolo, alla causa del massonico riformismo? Quando si è incapaci di combattere la battaglia sul proprio terreno, su quello cioè del socialismo e del proletariato, quando a Trento e a Rovereto ove s’agitano le masse operaie si deve lasciare l’assoluto dominio ai socialisti internazionali e ai comunisti, allora ci vuol poco coraggio a buttarvi addosso anche voi al partito che, unico, fa sul serio la guerra al bolscevismo, ci vuol poco coraggio a racimolare anche voi i vostri adepti nella campagna, appoggiando «il partito dei danneggiati», (poveri danneggiati con tale appoggio!). Né davvero c’era bisogno che sorgeste voi «nuova democrazia» (Lysis et co.) per ravvivare quelle vecchie beghe antipretine, e per eruttare tutti i vostri vecchi catarri anticlericali, o per inscenare di quelle cagnare che vorreste inscenare, per esempio, per l’Hotel Trento. Non illudetevi, o cortesi ed onesti avversari. Di quella faccenda lì non ne farete gran capitale. Il P.P.I. non c’entra per nessun verso. Si comperi o non si comperi per il nostro partito è del tutto indifferente. Si tratta di una questione tecnica e finanziaria, nella quale il P.P.I. non ci ha che vedere. Già, ma voi dite, il vostro on. Conci è tiranno ed arbitro, vuole fare da despota unico e sommo! E fingete d’ignorare che l’on. Conci fu il primo (ma non il solo del nostro partito) che chiese la costituzione di una Giunta provinciale, in cui fossero rappresentati anche altri partiti, che in argomento fece anche ultimamente proposte formali e nuove istanze e che il governo non le accolse finora per riguardo all’opposizione dei tedeschi. Ma oggi ogni argomento è buono. Si odora la polvere della battaglia; e ci si accanisce addosso a quel partito popolare che affonda con un programma ben netto e con una direttiva precisa. Che hanno paura costoro che vanno latrando sui margini della via? Ci prendano pure di fronte, impugnino il nostro programma, ci contrastino i nostri principi, neghino o contestino le garanzie che vogliamo dare al paese. Su questo terreno noi c’ingaggeremo a pieno. Ma di fronte alle diversioni personali, alle deviazioni demagogiche, alle rifritture anticlericali noi non avremo altra difesa che il richiamo dei nostri amici alla gravità della battaglia, all’entità dei beni che stanno in giuoco e alla necessità che il Trentino sorga compatto, fiero, cosciente non solo a difesa dei propri interessi regionali, ma anche per prendere, in mezzo al cozzo delle concezioni che si contrastano il dominio della nazione, nettamente e coraggiosamente la propria via. |
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| 41921-1925
| La stampa conservatrice dell’Alto Adige va da tempo pubblicando degli articoli e delle informazioni, che essa vanta come provenienti da «fonti speciali», sulla futura circoscrizione della diocesi di Trento e di Bressanone e sui progetti per la nomina del vescovo di questa sede . La cosa, attesa l’insistenza con cui i tedeschi vi ritornano sopra ad ogni tratto, ci è parsa meritevole di essere vista un po’ da vicino. Ci siamo perciò rivolti a persona che in proposito può saper qualche cosa, e questa persona infatti, dopo le prime solite cortesi ripulse, ha acconsentito a chiarirci alquanto la ormai abbastanza intricata questione. Le abbiamo chiesto anzitutto se avesse letto l’articolo del Tiroler di sabato 5 febbraio, al che ella rispose positivamente confessando di seguire con una certa curiosità quanto i giornali conservatori dell’Alto Adige tedesco vanno stampando in proposito, per confrontare quello che si dice pubblicamente e quello che invece si manovra in privato (poiché l’egregio nostro informatore sembra essere al corrente anche di quanto nei circoli clericali tedeschi si dice in privato a proposito del problema della Venezia Tridentina) e veder così come si monta la situazione. Noi abbiamo cercato il più presto possibile, nonostante la riluttanza del nostro informatore, di tirare il discorso sulla vacanza della sede vescovile di Bressanone. Sta il fatto, ci ha risposto il nostro informatore, che essendo morto il vescovo di Bressanone soli pochi mesi prima dell’armistizio, il quale doveva far passare la città stessa di Bressanone e la parte minore della sua diocesi all’Italia, mentre la maggiore e più popolosa è al di là del Brennero, la cattedra di S. Cassiano non poteva essere subito coperta e sta anche il fatto che non si poteva pretendere che l’Italia aggradisse il candidato già preconizzato per la successione dal momento che, dopo l’armistizio, egli ebbe a dimostrare assai poco tatto. Però bisogna affermar subito che il chiasso che fanno intorno a questa questione certi giornali tedeschi è nient’altro che una montatura perché non sembra constare affatto, almeno per quanto ne posso saper io, che si abbia intenzione di eleggere vescovo di Bressanone un italiano e meno che meno di trasformare quella parte di diocesi di S. Cassiano che sta di qua dal Brennero in un vicariato di Trento. Del resto, ha soggiunto il nostro egregio informatore, è interessante osservare una cosa che mi pare anche, se non ho preso abbaglio, abbastanza evidente: l’imbarazzo in cui, a proposito di questa stessa questione, si trovano i tedeschi, che forse non è una delle ultime cause del tanto strepitio che fanno. Veda un po’. Da una parte, come si legge anche nel recente articolo del Tiroler, si protesta contro un’eventuale separazione di quella parte della diocesi di Bressanone che sta a nord del Brennero da quella che sta a sud, perché, si dice, ciò è contrario ai diritti storici, alle tradizioni, e a tante altre belle cose simili. Dall’altra, misconoscendo affatto altri diritti storici molto più antichi, si vorrebbe annettere a Bressanone quella che chiamerò la parte tedesca della diocesi di Trento. Ma un altro imbarazzo non confessato, ma da quanto so, non meno sentito, è che a Bressanone non riescono a trovare un candidato alla mitria che s’imponga. Infatti, supposto che anche gli alto atesini abbiano la cortesia di ammettere che non si potrà andare a prendere per pastore di una diocesi di confine un suddito estero, e che anche il governo italiano, in questo riguardo si farà lecito di manifestare il suo sommesso parere, il futuro vescovo, se lo si vuole indigeno, dovrebbe essere scelto tra i sacerdoti del moncone di qua dal Brennero. Ma chi sa come, in questa cerchia assai ristretta, a coprire posti di gran lunga meno importanti, non si sappia a che santo votarsi per trovare la persona adatta, non stenterà a comprendere che non ne salta fuori da oggi a domani un vescovo. Si fanno bensì, un po’ per pettegolezzo, un po’ per passatempo, dei nomi, ma è caratteristico che nessuno sia molto quotato, e che anzi ognuno susciti delle forti opposizioni. E quando si parla a quattro occhi le stesse persone più influenti confessano la fatale mancanza dell’uomo, e talvolta si lasciano scappare un: vedrete che finiremo col ricevere un vescovo italiano! – Crede Lei possibile la cosa? – Io non credo nulla. Ma vi faccio un’ipotesi. Se la S. Sede messa nella necessità di provvedere e non avendo un tedesco da mandare a Bressanone, dovesse scegliere un italiano, naturalmente uno che conosca perfettamente la lingua del paese, vi pare che faccia un bel servizio alla causa la stampa cattolica che già ora, senza saper nulla, fa un «can-can», invocando i ricordi di Andrea Hofer e della rivoluzione contro i Bavaresi, seminando la diffidenza e il malcontento tra il popolo, e rendendo ancor più intricata la situazione di una difficoltà già così grave per se stessa? Del resto, il terrore che ostentano i tedeschi per un vescovo italiano è evidentemente dettato da una mentalità tutta austriaca, mentalità cioè che non sa concepire un vescovo il quale non sia un agente del governo, mentre in Italia i vescovi sanno benissimo fare il loro dovere e sanno com’essi devono svolgere un’attività ispirata soltanto agli interessi spirituali del paese loro affidato. – E riguardo alla separazione della parte tedesca della diocesi di Trento e rispettiva aggregazione a quella di Bressanone, che cosa mi sa dire? – È un problema delicato, sul quale mi permetterà di non esprimerLe la mia opinione personale. Chi avrà a decidere su di esso dovrà tener conto di molti elementi e molti fattori, e mentre i tedeschi ne fanno una questione sopratutto politica, e noti che è nata già durante la guerra per motivi pangermanistici, essa dovrà invece essere considerata con criteri ecclesiastici e un po’ anche con criteri nazionali. Ma a questo ci pensi chi tocca. Solo una cosa io Le posso assicurare, e cioè che tutte le notizie in proposito date dal Tiroler e simili amici, che si vantano ben informati, sono cervellotiche. La S. Sede non è come un governo Nitti qualunque che si lascia imporre da un qualunque «Deutscher Verband» , e quando la famosa commissione Toggenburg andò in Vaticano a presentare i «postulati» ecclesiastici dei tedeschi, la si lasciò parlare, ma l’unica risposta che ottenne fu: vedremo e faremo. D’allora in poi i tedeschi, quantunque abbiano più volte cercato di sondare il terreno, non hanno più saputo nulla, ed essi sono dominati da una vera curiosità morbosa su quello che si sta preparando, morbosa ma insoddisfatta. E le «autorevoli» affermazioni del giornale di Bolzano non sono probabilmente che un sondaggio, oltre che l’espressione di un pio desiderio. E un’altra cosa Le soggiungerò. Anche l’agitazione, che, a credere a certuni, vi sarebbe nella parte tedesca della diocesi di Trento per l’unione a Bressanone non è se non una montatura di pochi, ed ha finalità nettamente politiche. Potrà avvenire che la S. Sede trovi opportuno questo spostamento di confini, potrà anche essere che riesca utile sotto vari aspetti, io come ripeto, su ciò non mi pronuncio e non mi ritengo nemmeno competente a giudicare; ma sta il fatto che, tolti pochi maneggioni, né il clero né la massa delle popolazioni si interessa punto per questa questione o si mantiene indifferente o manifesta una certa ostilità. Bisogna ammettere però, – ha conchiuso il nostro interlocutore sorridendo, mentre ci congedava – che se questa unione avvenisse, il campo di ricerca per un vescovo di Bressanone si allargherebbe alquanto, e forse per qualche autorevole informatore sarebbe una certa «chance». |
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| 41921-1925
| L’altro sabato, nel nostro giornale, a proposito di corrispondenza giudicariese, era scritto: «O che si crede di tornare ai tempi di guerra quando certi segretariati (ne sa qualcosa, signor Bosetti?) avevano carta bianca per far allontanare e internare i vecchi avversari politici, preti o secolari?» Il Bosetti da questo cenno fu toccato sul vivo e nel Contadino del 17, supponendo che l’inspiratore dell’indiscreta domanda potesse essere il Molino , così gli risponde: «A Molino che mi attacca personalmente dandomi la colpa del suo internamento in Italia, rispondo che, richiesto io nel tempo che ero a Verona di informazioni circa i suoi sentimenti nazionali esplicati nel Trentino, risposi che un “regnicolo che riesce a stare in Austria fino agli ultimi giorni del maggio 1915 indisturbato, che era prezzolato del partito clericale fedele incensatore del Checco, un individuo che nella sua propaganda di fronte a me cercava di mettermi sempre nell’imbarazzo parlando di fedeltà al governo costituito (Austria) non era un patriota da fidarsi ciecamente”. Sul conto di Molino e suoi sentimenti nazionali le Autorità italiane devono essere state ben certe se come si dice lo internarono in Sardegna! Egli regnicolo!». Ora precisiamo anzitutto i fatti. L’amico Vincenzo Molino non ebbe mai alcun decreto d’internamento né per la Sardegna né per altro paese. Il senatore Cassis , commissario governativo per la Lombardia, si limitò, per interposta persona, a consigliargli, verso la fine del settembre del 1915, di lasciare Milano, ove era stato chiamato dagli amici a dirigere il segretariato popolare per l’assistenza ai profughi trentini. Dovette allora separarsi dalla moglie e dalla bambina e stentare per alcun tempo la vita. Ma dalla confessione sfuggita di bocca al Bosetti risulta ora comprovato non soltanto su chi ricada la colpa delle lagrime amare versate dalla sua famigliola schiantata, ma anche che il Bosetti riteneva d’aver motivato colle sue «informazioni» l’internamento del suo avversario politico in Sardegna. E i capi d’accusa erano questi: d’esser rimasto indisturbato a Trento fino agli ultimi giorni prima della dichiarazione della guerra; benchè regnicolo d’esser «un prezzolato del partito clericale» e d’aver cercato nella propaganda di mettere in imbarazzo il Bosetti stesso, «parlando di fedeltà al governo costituito (Austria)». Ora né di fronte ai nostri amici, che lo conoscono più dappresso, né in confronto al pubblico, Vincenzo Molino ha bisogno d’una nostra difesa. Venuto a Trento, molti anni fa come tipografo, rivelò subito ingegno particolarissimo per la propaganda e per il giornalismo, tanto che nutritosi per via di studi seri e di un’erudizione che molti, non autodidatti come lui, gli potrebbero invidiare, fummo lieti di averlo come compagno nella redazione di questo giornale. All’ingegno aggiunse sempre un grande spirito di sacrifizio per la nostra causa, un disinteresse ed una fedeltà a tutta prova, e una dirittura in linea politica che mai in tante polemiche e contraddittori i suoi avversari più accaniti poterono mettere in dubbio. Quando la guerra parve inevitabile, il Molino riparò in Italia colla sua famiglia; ed era tempo, perché poco dopo la polizia austriaca si mise ad indagare ed a ricercare di lui. In Italia egli aveva diritto d’incontrare solo visi amici, giacchè quassù in nessuna forma ed in nessuna misura era mai venuto meno ai suoi sentimenti nazionali. Egli lo credette, anzi non gli passò nemmeno per la mente il sospetto del contrario. Avversari politici? Ma che cosa era in quel momento il ricordo delle beghe locali e delle polemiche di partito, quando oramai la storia lanciava nel conflitto nazioni contro nazioni e sui campi di battaglia si dovevano decidere le sorti degli Stati? E che potevano significare le scaramucce elettorali d’un tempo fra trentini, nell’ora in cui era in questione oramai l’esistenza del loro paese? Così pensò l’amico Molino, così sperarono molti. Ma s’ingannarono. Ignorarono che rimanevano al di qua e al di là della frontiera della anime piccine, dominate dalla passione politica, inspirate da un proposito di miserabile vendetta. Costoro divennero gl’«informatori» più o meno stipendiati dell’autorità militare. Di qua sussurrarono d’irredentismo, di là ghignarono d’austriacantesimo. A Katzenau corrispose la Sardegna e di qua e di là si fece languire e anche morire. È un brutto capitolo codesto della nostra storia, un capitolo che avremmo voluto sopprimere anche nella memoria, per non ricordare e rileggere che le pagine, ove si racconta della nostra solidarietà nel soffrire e nel combattere e la nostra fraternità nel dimenticare e attendere in un’aspettativa concorde l’avvenire. «Dimenticate, abbiamo inculcato anche recentemente ai prigionieri di Isernia e agl’internati di Toscana o di Sardegna, dimenticate, non per lasciar cadere le vostre giuste domande di indennizzo, ma per non rinnovare attorno a voi la ricerca di chi vi tese l’insidia. Sarebbe rinfocolare gli odi, e il nostro paese, per rifarsi, ha bisogno di pace». Dimenticare? Di fronte alla rivelazione di Bosetti, che oggi ancora, a 6 anni di distanza, mena vanto d’aver fatto inviare in Sardegna un suo valoroso avversario politico, di fronte alla giustificazione ch’egli oggi ancora ha la sfrontatezza di addurre senz’ombra di pentimento, noi abbiamo pena a trattenere l’impeto dei tristi ricordi. Bosetti non fu il solo a denunciare all’autorità militare i suoi avversari politici, e, mentre in Austria i deputati, gli uomini più in vista del partito popolare dal sen. Conci e da mons. Gentili fino ai più umili campagnuoli, dal vescovo al modesto cappellano di campagna venivano confinati, internati o processati, una quasi identica persecuzione veniva tentata, avviata, o condotta a termine al di là della frontiera a carico di nostri amici, riparati in Italia, o raggiunti nel Trentino stesso dall’autorità militare nazionale, e sotto l’identica accusa di appartenere al partito popolare o, come denunciò l’informatore militare Bosetti, d’essere «del partito clericale fedele incensatore del Checco». Ma che volete? – ci diceva l’on. Orlando, la prima volta che ritornando dall’Austria ove avevamo combattuta vigorosamente la politica austriaca delle persecuzioni, gli chiedevamo conto stupefatti, degli internamenti italiani. Che volete? Sono i vostri trentini stessi che denunciano! Si creò così quell’ambiente di sospetto e di diffidenza ch’ebbe non solo le sue vittime di guerra, ma turbò le radiose giornate della liberazione, cagionò Isernia e Castellamare e si protrasse per sì lungo tempo entro il periodo d’armistizio. Per la verità, molti degli emigrati rientrarono col nostro esercito e s’adoperarono, con chi era rimasto, a dissipare la nebbia asfissiante, prodotta dai denigratori del loro paese. Evidentemente ciò è dispiaciuto a certi omuncoli, che avevano in animo di continuare il bel mestiere, per fondarvi sopra la buona fortuna della fazione loro. E a Patrizio Bosetti, ch’è uno di questi, dopo aver esaurito il vocabolario delle ingiurie (calunniatori, impostori, vigliacchi ecc.) nella foga della polemica scappa detto: Sicuro, vi ho denunziati. E pare aggiunga: Peccato che mi state ancora tra i piedi e che le febbri malariche della Sardegna non v’abbiano tolto di mezzo! Nonostante però l’accecamento prodotto dalla sua contrastata ambizione politica, Patrizio sente che bisogna cercare contro il Molino anche altri capi d’accusa oltre che quello più grave d’essere affigliato al partito clericale («prezzolato», scrive codesto fior di galantuomo) e aggiunge che nella sua propaganda il Molino «lo metteva sempre nell’imbarazzo parlando di fedeltà al governo costituito». Ah! l’eroe, ah il martire, ah il povero confessore! Ma chi è mai riuscito a mettere in imbarazzo una figura politica anguilleggiante pari tua! Ma a chi sarà venuta mai la tentazione di descriverti come un ribelle all’autorità costituita tu che stampavi nel tuo giornale le giustificazioni della guerra dell’Austria contro la Serbia e le deplorazioni che l’Austria non l’avesse finita coi Balcani già nel 1908, scatenando allora una guerra che sarebbe costata «poco sangue e poca spesa» (testuali!), tu che già nel 1913 pubblicavi che dalla Russia e dai serbi «non ci difende ormai più nemmeno un Dio, ma solo Iddio coll’aiuto dei nostri cannoni». Sfortunato Molino, se si fosse ficcato in testa di mettervi in imbarazzo, voi, leghisti, che nel 1913 al vostro congresso d’Isera avete issata sul campanile la bandiera giallonera per mettere davvero in serio imbarazzo quel parroco, quand’egli dovette scagionarsi di fronte ai gendarmi d’averla fatta levare! Ah, quel signor ufficiale, nel cui seno avete riversato le vostre confidenze a danno d’un vostro collega in giornalismo, vi avrebbe dovuto ridere in viso, se avesse conosciuti un pochino i vostri metodi polemici ed avesse saputo che viceversa eravate proprio voi che nei contraddittori facevate rilevare al pubblico che il Molino era un «regnicolo» ed accennavate ad un «mafioso camorrista scappato dalle grinfie della polizia della bassa Italia» salvo poi, innanzi al giudice, a dichiarare con ingenua sapienza… geografica che quelle parole non potevano riferirsi a Molino il quale «è di Bari, e Bari è nell’Italia centrale». Questa è storia, storia documentata, signor Bosetti, che è segnata nella raccolta dei vostri giornali. Potremo tirarla fuori dalla polvere e completarla e fissarla in uno specchio, sì che voi vi miriate riflessa la vostra reale figura. Ma ci è parso finora che questa polvere non meritasse di venir sollevata. Eravamo prima rinchiusi in un piccolo paese, stretti da un pugno di ferro, come i polli di Renzo. Guardando a distanza, un filosofo potrebbe dire: qual meraviglia che si beccassero! Eravamo circondati dal sospetto di una politica di governo che rendeva spesso l’opportunismo premessa indispensabile di un’attività politica. In quest’ambiente era fatale che sorgessero equivoci, si alimentassero diffidenze e si mantenessero sottintesi. Ma ora si sono spalancate le finestre e l’aria è entrata a pieni fiotti. La larga ondata della vita nazionale sbatte sulle nostre montagne, la libertà politica restituisce a tutti l’integrità della coscienza. La rivoluzione portata dalla guerra ha richiamato le menti alle grandi questioni di principio e alla difesa di ben definite direttive sociali. Voi solo ricomparite sulla scena mutata del nostro mondo politico con immutati metodi e con armi usate. Voi solo riprendete gli antichi e tortuosi sentieri d’una politica equivoca senza principi, che specula sull’ignoranza e sulla dabbenaggine, voi solo rinfocolate gli odi delle nostre campagne e rinnovate come nel 1911 e nel 1914 le vostre polemiche piene di livore personale e d’ingiurie. Voi volete proprio così? E sia. Se l’ambiente politico trentino dovrà riabbassarsi fino a voi, converrà che si abbassi. Noi abbiamo fede che si risolleverà dopo la vostra sconfitta. Ma intanto disingannatevi di questo: la nostra repugnanza a scendere in lotta sul vostro terreno non ci tratterrà mai dall’intervenire, ogni qual volta miriate a colpire individualmente fuori dalle nostre file la persona di qualche amico. Voi volete diventare deputato ad ogni costo, a costo anche di inviare i vostri antagonisti in Sardegna. Ebbene noi, nell’interesse e nella dignità del paese, faremo le nostre vendette, col tentare d’impedirvelo. Parola d’onore però, non vi «manderemo» né a Katzenau, né in Sardegna. Cercheremo semplicemente di … «non mandarvi» in Parlamento! |
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| 41921-1925
| Abbiamo già riferito dell’agitazione scatenatasi a Trieste contro un’istruzione della presidenza del consiglio che, abolendo l’illegale decreto del commissario Ciuffelli, rimetteva in vigore la pratica antecedente riguardo all’istruzione religiosa nelle scuole . L’agitazione culminò in un comizio, convocato per domenica al politeama Rossetti. Riservandoci di dirne più dettagliatamente e sovratutto di dar nuovo rilievo alle nostre preoccupazioni ed ai nostri propositi, ci limiteremo oggi a far opera di documentazione. Il comizio, ideato dal professor Candotti per la lega insegnanti venne convocato da un blocco anticlericale che stringe in un fascio tutti i gruppi anticristiani dalla loggia massonica fino al fascio di combattimento. La città del libero pensiero Ecco la lista delle associazioni e dei partiti aderenti: Associazione Nazionale Giordano Bruno, Partito Nazionale Riformatore, Partito di Ricostruzione Nazionale, Partito Repubblicano Italiano, Partito Socialista Riformista, Fascio Triestino di Combattimento, Associazione Nazionalista Italiana, Unione Magistrale Triestina, Lega degli Insegnanti Medi, Società Ginnastica Triestina, Ordine dei Cavalieri della Morte, Sezione Giovanile dei Cavalieri della Morte, Sursum Corda, Lega Studentesca Italiana, Circolo Nazario Sauro, Fascio Randaccio, Lega Studentesca della Scuola Nautica. Partiti, come i lettori vedono, non ne mancano in quella travagliata Trieste, che scissa com’è tra nazionalismo ed internazionalismo, moderatismo e massoneria, riformismo e capitalismo ebraico, monarchismo e repubblicanismo vorrebbe pure nei momenti decisivi far mostra di avere una direttiva intellettuale e politica e imporla anzi al resto delle nuove provincie. I socialisti marxisti (comunisti ed unitari) che sono, non v’ha dubbio, la massa più ragguardevole non figurano in codest’olla potrida, ma non è un dissenso di principio che li ha tenuti in disparte perché il Lavoratore socialista, annunziando il comizio scrive che «l’iniziativa della Giordano Bruno è perfettamente giustificata e opportuna», chiama il ripristino dello stato legale un «folle tentativo», che «fa parte di tutto un piano che tende a ripristinare in questa regione il vecchio armamento della legislazione austriaca, in quello che aveva di peggiore e di obbrobrioso». Lo stesso giornale si affretta ad annunziare che «i compagni on. Zanzi ed Alessandri hanno interpellato l’on. presidente del Consiglio dei ministri in base a quali norme e disposizioni legislative viene imposto l’insegnamento religioso nelle scuole della Venezia Giulia». Un manifesto ipocrita. L’insegnamento del catechismo mette in pericolo la … vittoria Il manifesto dei convocatori ha per titolo «contro l’istruzione religiosa nelle nostre scuole» ed è caratteristico per il tentativo di ammantare di patriottismo e di reazione all’Austria il movimento anticristiano. Dice il manifesto: «Con la guerra di liberazione aspettavamo dall’Italia ufficiale il rispetto della libertà di pensiero che è fattore primo di ogni progresso civile e l’abolizione di ogni legge che ricordasse il doloroso passato. Il sacrificio di tante giovani vite avrebbe dovuto consigliare il Governo a non adagiarsi supinamente ai voleri dei nemici di ieri e fargli comprendere che la più grave offesa che si possa lanciare contro un popolo che per tanti anni ha custodito gelosamente il suo patrimonio ideale e la laicità delle sue istituzioni, anche sotto la sferza di un Governo reazionario, è la coercizione dei suoi più sacri pensieri e sentimenti. Chi liberamente sente, chi non vuole con il suo silenzio far credere di consentire a leggi liberticide, chi senza far guerra alla religione vuole la scuola laica e libera da estranee influenze e vede la necessità che con un tratto di penna non si cancelli la vittoria, ottenuta dopo secoli di immani lotte e sacrifici, dalla civiltà contro l’oscurantismo, accorra senza distinzione di classe e di partito al Comizio che avrà luogo il giorno 20 febbraio 1921, alle ore 10, al Politeama Rossetti. Oratore: prof. Giuseppe Meoni di Roma». La famiglia massonica L’associazione del libero pensiero Giordano Bruno sotto i cui auspici venne organizzato il comizio, lanciò quest’altro manifesto: «Concittadini, tutti i Popoli che hanno la pretesa di essere considerati liberali e civili, rispettano la religione in Chiesa ma non tollerano l’istruzione religiosa nella scuola». Il Piccolo annunziava poi con fratellevole compiacenza che oratore sarà il prof. Giuseppe Meoni «grande dignitario della famiglia massonica italiana». Interessanti sono anche le stamburronate che i giornali andarono pubblicando, per far la propaganda alla vigilia del comizio. L’Era Nuova, riformista, dà al comizio il significato di un comizio «contro l’Austria che torna nella scuola». «Qui siamo in Italia e nessun governo ha diritto di toglierci i diritti che ci spettano come cittadini italiani». Anche il Piccolo ricamava sulla stessa falsariga un grosso articolo. Esso contiene delle affermazioni generali di carattere politico così strabiglianti, che bisogna inchiodarle subito, riservandosi di farvi poi il commento. Il principio democratico del Governo L’articolista polemizza col comunicato dell’Ufficio centrale, da noi già pubblicato e specie contro la seguente enunciazione governativa: «Fedele alle proprie ripetute assicurazioni il Governo non poteva imporre d’imperio in una materia tanto delicata ordinamenti radicalmente diversi da quelli finora osservati, senza attendere di udire al riguardo la voce ed il parere di coloro che rappresenteranno tra breve legittimamente nel Parlamento le terre annesse». A questa dichiarazione il Piccolo risponde: «Noi non siamo disposti ad accettare per buona la teoria di aspettare la voce dei rappresentanti parlamentari delle terre annesse per sapere di quale natura dovrà essere l’insegnamento nelle scuole italiane della Venezia Giulia, se confessionale o laico, se nazionale o internazionalista ecc. Il pericolo di queste concezioni plebiscitarie a cui si fa ricorso in mancanza di più validi argomenti polemici è abbastanza evidente. … Nessun uomo politico italiano pensò mai che sul problema del decentramento amministrativo o del rispetto alle autonomie regionali potesse innestarsi il problema scolastico, il quale pur attraverso a infinite difficoltà e manchevolezze, rappresentò il miglior cemento che dopo il ’70 servì a rendere coesiva la struttura unitaria dello Stato nazionale. In altri termini: pensiamo – d’accordo in ciò con la grande maggioranza dei docenti giuliani – che quand’anche la rappresentanza parlamentare delle non ancora tracciate circoscrizioni elettorali della Venezia Giulia dovesse in materia scolastica chiedere il mantenimento della legge austriaca, “la voce od il parere” dei parlamentari non dovrebbero bastare ad imporre ecc.». Elettori e deputati non contano Non abbiamo bisogno di rilevare come codesti liberali accentratori e da strapazzo preannunzino già fin d’ora il loro disprezzo per la volontà espressa dal popolo, mediante il suffragio universale. Ben chiedono essi un differenziamento dalle vecchie provincie, quando si tratta di legislazione industriale, commerciale, comunale e civile, ma diventano cultori di una sacra uniformità intangibile, quando si tratta di conservare la religione nelle scuole. Uniformità che dovrebbe infischiarsi della volontà dei deputati, per inchinarsi a quella della massoneria e della giudia. Dopo tali preludi il comizio si fece. Il gran dignitario della massoneria venne accolto da ovazioni. Tenne un discorso somigliantissimo al citato articolo del Piccolo. Si votò poi il seguente o.d.g. Il bando alla religione «Le associazioni ecc. compresi di sdegno per le reiterate dedizioni compiute dal R. Governo al partito clericale con l’emanazione dei recenti decreti sull’istruzione religiosa, non solo nello scuole popolari e cittadine, ma perfino in quelle medie, esprimono la più completa sfiducia nella presidenza del Consiglio dei ministri e più precisamente nell’Ufficio centrale per le nuove provincie dal quale traggono origine i nominati reazionari provvedimenti; reclamano l’immediato ritiro dei decreti stessi e di quello emanato dal Commissario generale civile che impone l’istruzione religiosa nelle scuole di tirocinio, nelle scuole normali, nel Liceo femm. Giosuè Carducci ed esigono che, in omaggio a sentimenti ripetutamente espressi dall’intera città, l’insegnamento religioso venga immediatamente bandito da tutte le scuole». Dopo di che ci pare opportuno di chiudere questa documentazione coll’o. d.g. votato dall’«Unione popolare dei cattolici italiani, Sezione di Trieste». Esso è la voce di un gruppo, politicamente poco importante, ma speriamo sia ancora la voce del buon senso della maggioranza nella regione istriana. La voce del buon senso Ordine del giorno: «Considerando che la scuola è chiamata a completare l’azione educativa della famiglia non già in opposizione ai diritti dei genitori bensì in armonia con gli stessi; considerato che lo Stato non può togliere ai genitori il diritto naturale di determinare l’educazione della prole, e che ogni violazione di questo diritto sarebbe insopportabile violazione delle coscienze; considerato che i genitori di Trieste e della Venezia Giulia sentono il bisogno di far impartire ai loro figli l’istruzione religiosa, che senza solidi principi religiosi manca alla educazione del carattere ogni forza, ogni sanzione; visto del resto che tali sentimenti sono condivisi anche dall’immensa maggioranza dei genitori delle vecchie provincie del Regno, perché corrispondenti alle più pure tradizioni cristiane ed italiane dei nostri avi; mentre si compiacciono di rilevare che il 95% dei genitori di Trieste e il 99% della provincia, resistendo a sollecitazioni di persone e di parti, hanno liberamente iscritto i loro figli all’istruzione religiosa ben sapendo che il timor di Dio è il principio di ogni giustizia e sapienza; rilevano che le predette disposizioni governative ispirate a concetti di libertà di coscienza e di democrazia, lungi dal far torto a chicchessia rispettano la coscienza cristiana del paese, senza ledere la libertà di chi non vuole approfittare dell’istruzione religiosa». Nessuna coazione Deplorano ed altamente protestano che la Associazione del Libero Pensiero e gran parte della stampa locale, travisandone il senso, abbiano tentato di insinuare ipocritamente violenza e coercizione in un disposizione del R. Governo, che s’ispira alla tutela della libertà di scienza per tutti i cittadini, e non solo per i settari. Ravvisano nell’inqualificabile comportamento di protesta da parte di alcuni insegnanti delle nostre scuole popolari e cittadine, aderenti all’Unione magistrale e degli insegnanti delle Scuole medie, una indebita ingerenza in questione che non è di loro spettanza perché gli scolari appartengono ai genitori e non ai maestri; e una grave mancanza di quello spirito equanime che ogni educatore deve professare verso tutti i cittadini e quindi anche verso la maggioranza che vuole salva l’istruzione religiosa nella scuola. Fanno caldo appello alla coscienza e responsabilità dei genitori perché, senza distinzione di partito, anche per l’avvenire, sappiano curare con amore e con spirito cristiano l’educazione dei loro amati figli, reclamando energicamente dai poteri pubblici la osservanza di quei provvedimenti, che valgano ad assicurare l’insegnamento del catechismo e la funzione educativa della scuola e resistendo con fermezza di carattere alle imposizioni della setta. |
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| 41921-1925
| S’avvicina dunque una grande battaglia, a cui nessuno può sfuggire, e che bisogna assolutamente combattere sino alla morte. La battaglia s’ingaggia pro e contro l’insegnamento religioso nella scuola. Si deve in tal riguardo mantenere la legislazione locale vigente o introdurre la nuova che ostacola l’insegnamento del catechismo e, ove non lo sopprime, lo riduce ad eccezione tollerata? La risposta a questa domanda sarà data dai deputati delle nuove provincie. L’ha detto chiaro il governo quando in confronto al Partito popolare si è impegnato a non toccare l’attuale legislazione prima che siano eletti i rappresentanti delle Terre Redente e l’ha ripetuto poco fa, in confronto degli anticlericali triestini, quando in un comunicato ufficiale dichiarava che «fedele alle proprie ripetute assicurazioni il governo non poteva imporre d’imperio in una materia delicata, ordinamenti radicalmente diversi da quelli finora osservati, senza attendere di udire al riguardo la voce ed il parere di coloro che rappresenteranno fra breve legittimamente nel parlamento le terre annesse». Decideranno quindi i deputati, decideranno cioè le elezioni. In queste parole sta tutta la gravità della battaglia, tutta l’importanza del voto. Già per altri riguardi la prossima campagna impegna a fondo gl’interessi più capitali della regione. Si tratta di decidere se avremo o no l’autonomia amministrativa, cioè la Dieta e come l’avremo; si tratta di riuscire o non riuscire nella liquidazione dei danni di guerra e nella riscossione dei nostri crediti in confronto dell’Austria, nella regolazione della valuta e dei titoli di valore. Già questi problemi toccano le basi del nostro avvenire politico e finanziario. Ma nessuna incide così profondamente nelle radici della nostra esistenza come la questione della scuola. Qui, più che la nostra, sono in giuoco le generazioni venture. Il voto diventa quindi, più che un problema d’interesse, un problema di coscienza. Noi richiamiamo amici ed avversari a questa realtà e l’invitiamo a sollevare il dibattito e a incrociare le armi su quest’ideale terreno di un interesse e di una preoccupazione morale. Agli amici in particolare noi rivolgiamo il più fervido appello, perché raccolgano attorno a quest’assillante dilemma tutte le energie del loro spirito e, rispondendovi secondo la chiara voce della loro coscienza, ne ritraggano una persuasione sicura e fattiva. Essere o non essere. O salveremo l’insegnamento religioso, o il Trentino dei nostri padri avrà finito di esistere. C’è qualcuno, tra noi, che, pur avendo acquistata tale comprensione del problema, non senta tuttavia fortissimo il dovere dell’apostolato? È inutile nasconderlo. Noi avremo bisogno di fare il massimo sforzo, di cui siamo capaci. Le elezioni del 1907, del 1911 e del 1914 erano un nulla in confronto di quelle che verranno. Ben altro palio si corre questa volta! Inoltre il rischio è ben maggiore. In casa nostra socialisti e anticlericali delle varie tinte avversano il nostro postulato e una corrente tra i liberali cammina nell’equivoco. Ma peggio è ancora nelle altre provincie che manderanno a Roma con noi i loro rappresentanti. Auspice la massoneria, si è costituito a Trieste un blocco che ha proclamato il bando dell’insegnamento religioso dalla scuola . Quanti deputati si ritroveranno a Roma con tale programma rinnegatore? Nella Venezia Giulia noi possiamo contare su alleati molto deboli. Bisogna contare quindi sopratutto sulle nostre forze ed è necessario dispiegarle tutte, fino all’ultimo uomo. Scrisse il Popolo in un numero altra volta citato, a proposito della questione scolastica, che l’invocare un differenziamento dal resto del regno è un assurdo. Già, ma se gl’industriali chiedono il mantenimento del regolamento industriale austriaco, non è un assurdo. Se i negozianti, a protezione dei loro commerci vogliono conservare le restrizioni delle leggi vigenti, non è un assurdo. Se Trieste, pur dilaniata da sì opposte fazioni, si unisce in questi giorni concorde per reclamare da Roma la costituzione del porto franco, il distacco cioè più netto che si possa immaginare dal sistema commerciale italiano, ed insieme il privilegio più antiliberale che si conosca, non è un assurdo. E sia, fratelli di Trieste. I montanari trentini vi augurano che mettiate al sicuro la vostra ricchezza e garantiate le vostre fortune sul mare. Vi domandano in cambio che non contrastiate loro il diritto di conservare una scuola che ha irrobustito il loro carattere e ha conservate nelle loro valli le più pure grandi tradizioni italiane. |
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| 41921-1925
| La scorsa settimana si sono dati convegno a Vienna i delegati di alcuni partiti socialisti per discutere attorno alle basi programmatiche, sulle quali si potesse ricostruire una lega internazionale di tutti i partiti socialisti del mondo, com’era universale l’internazionale del ’48 fondata da Marx e Engels e la seconda quella fondata nel 1889 da Guesde e Vittorio Adler dopo che la prima si era disciolta. La conferenza, alla quale parteciparono gl’indipendenti germanici, gli austriaci, gli svizzeri tedeschi, gl’indipendenti inglesi, i maggioritari francesi (Longuet , Renaudel ), i serbi, i maggioritari czecoslovacchi e i menscevichi russi (Martow ), fu tutta una polemica contro la terza internazionale di Mosca, alla quale venne negato il diritto di chiamarsi tale, perché non comprendeva che un terzo del proletariato socialista del mondo. Ma, positivamente, questo convegno creò delle basi molto labili ed incerte. Un accordo sostanziale non venne raggiunto nemmeno sulla questione della dittatura del proletariato e dei mezzi per conseguirla. Gli austro-tedeschi accettano i soviety, i russi, anche i menscevichi li dichiararono l’unica organizzazione rivoluzionaria possibile, ma gl’inglesi sostengono che nella loro patria il principio della rappresentanza democratica e parlamentare ha così profonde radici, che anche gli operai, pena il suicidio politico, devono rimanere su tale terreno. Anche gli altri caposaldi programmatici dovettero, per accontentare tutti, rivestire delle formule così vaghe, da rendere assai tortuosa la linea direttiva comune. Troppo recente è ancora il ricordo della guerra, in cui quasi tutti i partiti socialisti vennero meno all’internazionale, per abbracciare la causa della loro nazione. Non si può negare tuttavia che questi replicati tentativi di ricostruire una solidarietà internazionale rappresentino ancora quello che, come tendenza, v’ha di più semplice nel movimento socialista. Il tentativo, almeno formalmente, l’una o l’altra volta riuscirà. Il socialismo, che nega la famiglia o, quanto meno, nella ricostruzione sociale la trascura, è spinto dalla sua tendenza iniziale a rinnegare anche la patria e la nazione o, quanto meno, a passarvi sopra, quasicché essa fosse un fenomeno artificiale e non un fatto naturale. Trascurate le patrie, non rimane che l’umanità, onde che il socialismo tende a passare rapidamente dall’organizzazione dell’individuo all’organizzazione del consorzio internazionale, saltando gli organi intermedi. Oltre a ciò il materialismo storico che ha infuso nella dottrina socialista un’esagerata ed unilaterale concezione dei fattori economici, induce facilmente i socialisti a ricavare dall’internazionalismo di certi rapporti economici una conseguente solidarietà internazionale di movimenti politici. Se far politica socialista vuol dire condurre la lotta di classe e se il capitalismo è un sistema proprio di tutti i paesi, l’internazionalizzazione della politica socialista diventa una logica e ferrea necessità: ecco perché i socialisti sono all’avanguardia nell’internazionalismo. Le premesse teoretiche sono però false e perciò anche l’internazionalismo socialista è destinato a sfasciarsi ogni volta che nei conflitti mondiali entrano in azione tutti i fattori reali della vita, l’uomo cioè col suo corpo, ma anche col suo spirito, l’uomo nelle sue classi sociali, ma anche nel suo carattere speciale, come membro di una nazione, l’uomo insomma nei suoi rapporti economici, ma anche coi suoi valori morali, che l’internazionalismo socialista nei suoi calcoli ricostruttivi quasi totalmente neglige. Detto questo, torniamo ad affermare che il risvegliarsi di un’aspirazione internazionalista, nonostante le gravi delusioni patite anche dopo il novembre 1918, va salutato con piacere. In questi due anni si è parlato molto anche dell’internazionale bianca. Di concreto finora non abbiamo che la lega internazionale dei sindacati bianchi rinnovata nel 1920 all’Aia e l’iniziativa del Partito popolare italiano per un’internazionale politica. Quest’ultima è ancor in incubazione. Se ne dovrebbe parlare nel consiglio nazionale della settimana ventura. Auguriamoci che l’argomento venga approntato colla debita preparazione. È aprire uno spiraglio verso un cielo più ampio, pur oggi che le condizioni del nostro paese assorbono tutta la nostra attenzione. Ma auguriamoci anche che su questo terreno venga evitato ogni mimetismo socialista. Noi non possiamo essere internazionalisti né nel senso di Lenin né in quello più elastico di Federico Adler. Nella ricostruzione internazionale noi ci fondiamo sulle nazioni, come nella ricostruzione nazionale ci fondiamo sulla famiglia e sugli organi locali. Per noi esiste una solidarietà nazionale morale e materiale. Il nostro internazionalismo non interseca le nazioni, per spezzarle, ma le unisce per federarle. L’internazionale popolare non dovrà essere quindi che una comunanza di propositi e di iniziative per attuare nei rapporti politico-economici tra popolo e popolo quelle massime di giustizia e di fratellanza cristiana che possono tener lontane le guerre e sul terreno economico e sociale rafforzare la solidarietà umana. |
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| 41921-1925
| I bolscevichi dell’«Internazionale», naturalmente per il loro profondo rispetto alla religione del popolo trentino, si sono messi a disposizione dei protestanti che insidiano alla fede della nostra gente colle due trappole della Società S.M.A.R.C.O. in Via Bellenzani e dell’Istituto Cesare Battisti al Bolgher, e qualche protestante o affine ha fornito al giornale bolscevico un articolo di due colonne, pieno di citazioni bibliche e di argomenti teologici, intitolato il Santo Ufficio…. Questa alleanza è istruttiva e interessante, e mentre conferma quello che tutti già sanno, in quanto ai leninisti, cioè che per loro ogni mezzo è buono per pescare nel torbido, d’altra parte mette nella giusta luce i banditori del puro vangelo, venuti a Trento a spander denari a piene mani per… convertire le anime. Ai protestanti ha dato evidentemente sui nervi la recente circolare del Santo Ufficio, riferita anche dal Trentino, la quale metteva in guardia contro la propaganda della I.M.C.A., e simili associazioni. Si sono sentiti colpiti; e nessuno se ne meraviglierà, si tratta del loro banchiere. Il giornaletto del proselitismo metodista in Italia, l’Evangelista, si è affrettato a protestare, e l’Internazionale lo copia fedelmente: «Esiste ancora in Roma ed ogni volta che dà segni di vita è un colpo contro la libertà di pensiero e di coscienza. Quel Sant’Ufficio che ha dietro di sé una storia orrenda e fosca di malefici, di tortura, di roghi, oggi, cambiati i tempi, fa quello che può per continuare la sua tradizione… Nella scorsa settimana la Congregazione del Sant’Ufficio ha inviato una circolare ai vescovi di tutto il mondo, niente di meno… per additar loro, il pericolo che proviene alla fede cattolica dalle manovre di certe associazioni non cattoliche che si propongono per fine principale – dicono esse – di assicurare con sani metodi la cultura morale e intellettuale della gioventù, ed in tale cultura fanno consistere la religione. La circolare continua a confutare a modo suo la tesi di comodo che si è formulata per confutarla. Ed i vescovi devono, entro sei mesi, informare la Santa Sede dei provvedimenti presi. Ecco, sta benissimo, il sant’Uffizio fa il suo mestiere di inquisizione, di spegnitoio di intelletti e di coscienze». Preso così l’aire l’Internazionale continua per suo conto, o meglio per conto dei metodisti locali, prendendo la difesa della «fede cristiana» (stampata in maiuscoletto) delle due imprese anticattoliche piantate nella nostra città e argomentando sulla falsa riga dei libelli protestanti che distribuisce la S.M.A. R.C.O. con testi presi da S. Luca, dagli Atti degli apostoli, dalle epistole di S. Pietro, persino dall’Apocalisse. È più probabile che questa olla podrida abbia interessato assai mediocremente gli operai socialisti, i quali saranno rimasti alquanto sorpresi nel vedere che il loro giornale si è messo a fare il teologo. Forse avranno pensato che si tratti di un semplice errore di impaginazione, e che quell’articolo invece che in seconda pagina andava in quarta, tra le inserzioni a pagamento. Comunque fino a prova in contrario, constatiamo che i bolscevichi trentini fanno la reclame gratis a della gente che ha per unico scopo di turbare la pace religiosa del nostro paese e danneggiarne quanto è possibile, usando soprattutto della seduzione volgare del denaro, il cattolicismo. È noto che in Via Bellenzani si cerca con tutti i mezzi, sotto il manto dell’istruzione, della beneficenza, del divertimento, di attrarre gente, e specialmente giovani e poveri. Orbene in quei locali non soltanto si distribuiscono bibbie protestanti, ma anche dei libelli, spudoratamente offensivi e calunniosi della religione cattolica e del popolo italiano, che ha il torto di non essersi ancora convertito a Martin Lutero. Ne abbiamo sul tavolo parecchi: ecco un opuscolo del D.r Luigi Sala, La tomba del patriottismo, stampato a Roma dalla Casa editrice metodista, che insieme con una sassata contro l’internazionalismo (raccomandata alle considerazioni dell’Internazionale) mantiene, nella sua maggior parte, una sfuriata contro il clericalismo «il nemico implacabile del concetto di patria». Col nome di clericalismo l’autore designa la Chiesa e il Papato. Ecco un altro opuscolo di Alessandro Gavazzi, Italia a Papato, edito dalla medesima officina, tutto un attacco violento, settario, volgare contro i Pontefici Romani, (paragonati al serpe, al leone, al drago), una espettorazione scritta colla retorica bolsa e l’ignoranza storica dei manifesti massonici o dei proclami della «Giordano Bruno». Ma più vergognoso ancora è un libercolo di Vincenzo Melodia (un pastore protestante siciliano) intitolato Il Cristianesimo nel ventesimo secolo. È forse impossibile raccogliere in 200 pagine d’un’opera che vorrebbe essere religiosa tante ingiurie, tante calunnie, tante assurdità, che se dimostrano luminosamente l’odio insaziabile che i protestanti italiani nutrono contro il cattolicismo, provano altresì con non minore evidenza la bassezza della loro cultura e del loro animo. La peggiore letteratura polemica germanica, dove pure la lotta tra le due confessioni è secolare, si vergognerebbe di una simile porcheriola. Bisogna risalire ai tempi dei centuriatori di Magdeburgo per trovare qualche cosa di simile. Se si volessero riportare anche soltanto le più grosse castronerie che vi si affermano con solenne sussiego ci vorrebbe tutto il giornale. Prendiamone solo un paio delle molte. «Il cristianesimo vero in Italia è in generale, sconosciuto» (p. 18). «Il popolo nostro, discendente da popoli pagani, attualmente cristiano di nome, professa in sostanza una religione prettamente pagana» (p. 45), «gli Italiani adorano gli angeli, le immagini, la Madonna; la Chiesa Romana è in piena adolatria» (p. 27-28), «il nostro popolo causa le molte sacre frodi, consumate dal clero papista, o è bigotto, superstizioso, e quindi non religioso nel senso vero della parola, o è indifferente, incredulo o ateo» (p. 37), «a che può giovare il domma papistico della transustanziazione, secondo cui l’ostia consacrata diventa Cristo in persona, che il fedele mangia e digerisce da antropofago o da terfago?» (p. 38), «nel Romanesimo si vendono: il perdono, chiamato indulgenza, parziale o plenario, a seconda la somma pagata dal compratore, il battesimo, la cresima… nonché il permesso di commettere tutti i delitti immaginabili» (p. 81), «il delinquente, responsabile dei suoi reati di fronte alla giustizia umana, se paga L. 1.13 alla Chiesa, in coscienza sua non può né deve avere rimorsi» (p. 82), «ecco autorizzati, per sole L. 1.13, il furto e l’assassinio! Chi abbia commesso questi delitti, pagando L. 1.13 è perdonato, non pagando è condannato» (p. 82). E su questo tono è scritto tutto il libello. Questi e simili libri vengono dati in lettura a povere donne, a giovinetti, a operai, i quali ne succhiano il veleno e se non hanno una fede robusta o una istruzione religiosa o storica un po’ superiore all’ordinaria non sanno reagire, ma ne rimangono quasi senza accorgersi infetti. La conseguenza è naturalmente che essi finiscono non già col divenire seguaci del puro evangelo, ma anzi col beffarsi di ogni religione, perché l’italiano non ha mai voluto saperne delle nordiche astruserie del protestantesimo, ma come ha già osservato altra volta Gaetano Negri , o è cattolico o è ateo. E questo lo sanno certamente, quanto noi, i propagandisti protestanti in Italia, che coi danari dell’estero devono pagare quei quattro gatti che entrano nelle loro chiese. Ma fare un dispetto al Papato è per loro il supremo piacere. Il socialismo poi nella scristianizzazione delle masse trova una magnifica piattaforma alla sua attività, in un popolo saldamente cristiano il più energico avversario. L’alleanza tra i due compari è quindi cosa naturale e proficua. I compari l’hanno intuito. E terza, per compire l’onorata società, vi è la loggia massonica, che si fregia del nome di Cesare Battisti egualmente come l’Istituto… agricolo del pastore Ravazzini e che ha la sua sede nei medesimi locali in cui si trova la S.M.A.R.C.O. La fratellanza «cristiana» è perfetta, a gloria del grande architetto dell’universo. |
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| 41921-1925
| Roma, 12. Si parla molto, come avete visto, di elezioni generali; se ne dà anzi per certo un termine prossimo. Ma è una sensazione, non una cognizione certa o probabile. Nessuno sa dire che cosa abbia deciso o che cosa pensi Giolitti. Cosa strana in uno Stato democratico, cosa stranissima di un parlamento, tanto geloso delle proprie sovrane prerogative. Tutto dipende da un uomo o sembra dipendere da lui, e quest’uomo è impenetrabile. I ministri? Ne ho interrogati alcuni, e li ho trovati di parere contrario, tanto sono costretti anch’essi di affidarsi ad induzioni più o meno fondate. Giolitti non ha detto niente, non ha fatto un accenno, non si è tradito con una confidenza qualsiasi. È il suo metodo, e mi assicurano che, ad alta voce, non tradisce il suo proposito nemmeno agli orecchi suoi. Lo strano è che tutti rispettano il suo segreto in modo assoluto. Non v’è chi tenti di penetrarlo, forse perché oramai si sa per lunghi anni di consuetudine, che il tentativo sarebbe inutile. Non che Giolitti si rifiuti di rispondervi o che, innanzi al vostro prudente assaggio, si ritiri nel mistero di una posta delfica. No, lo conoscete poco; egli vi risponderebbe con una formuletta semplice, condizionale, dirimente, cosicché di colpo avete l’impressione di saperne qualche cosa. È solo poi, fuori della porta, che v’accorgerete d’esser stato lasciato nell’equivoco. Accontentiamoci dunque di quello che fanno i deputati più consumati, i capi partito, i ministri; lavoriamo cioè d’induzioni. Si dice: le elezioni si faranno, e subito, per le seguenti ragioni. Primo: un governo saggio deve approfittare della scissione socialista e della reazione fascista e cercare di diminuire l’opposizione e aumentare la maggioranza. Secondo: nella Camera attuale Nitti, Ruini , Amendola , i tre toreros meridionali rendono troppo nervosa la situazione. Il governo deve correre ai ripari, quasi ogni giorno. Si capisce che al più tardi in autunno, la Camera dovrà rinnovarsi. E allora, perché non affrontare subito il cimento? Oggi Giolitti ha garantito un bilancio provvisorio di tre mesi, lo Stato può andare avanti senza parlamento. In autunno invece Giolitti dovrebbe rifarsi daccapo e conquistarsi prima il bilancio. Terzo: perché mai altrimenti differire a questo modo le elezioni nelle nuove provincie? Nelle annessioni passate, i nuovi deputati entrarono sempre con una Camera rinnovata. Giolitti lo ricordò già sei mesi fa anche in un colloquio col sottoscritto. Allora lo fece per rilevare che questa volta bisognerebbe fare uno strappo alla tradizione; ma oggi al punto a cui sono giunte le cose, e perché gli riesce comodo, non è probabile che ritorni al suo ciclo mentale abitudinario? Ecco i tre argomenti che si adducono in favore della tesi – diremo – elezionista. Gli oppositori rispondono che il conflitto fascista mette in pericolo la tranquillità delle elezioni, e che in qualche parte le potrebbe rendere impossibili, che c’è di mezzo il 1° maggio, che c’è ancora un grande programma da svolgere e che dopo tutto, nessuno che conosca il funzionamento della proporzionale, può prevedere nella composizione della Camera dei mutamenti notevoli che meritino il rischio di una nuova campagna elettorale. Tutte buone ragioni, alle quali oltre gli argomenti, di cui sopra, bisogna opporre due sintomi pericolosi; il primo che Giolitti lavora attivamente a costituire le nuove circoscrizioni elettorali allargate, il secondo che la sezione elettorale del ministero dell’Interno ha avuto l’ordine di tenersi pronta. Cosicché, pesa e controppesa, metti sulla bilancia anche la circostanza che i deputati non credono a ciò che non si augurano, e quindi, scambiando le proprie aspirazioni per ragioni di probabilità, influiscono soggettivamente sul calcolo, si finisce coll’inclinare ad ammettere che, si voglia o non si voglia, le elezioni non siano troppo lontane. Arrivati a tale conclusione, è chiaro che noi, delle provincie nuove, dobbiamo augurarci: fuori il dente, fuori il dolore, e subito. Ciò non solo, perché abbiamo atteso già troppo, ma anche perché se per noi si andasse al di là del maggio converrebbe rifare le liste elettorali, per includervi una nuova annata. Comunque, per il caso nostro, vi posso escludere che il commissario di Trieste abbia chiesto di rimandare le elezioni addirittura all’autunno prossimo. Al ministero gli si è fatto capire che, fine d’aprile o primi di maggio, bisogna saltare il fosso. Intanto s’avvicenda una ridda di delegazioni per discorrere le circoscrizioni. Domani i sindaci trentini, dopodomani i tedeschi. Giolitti le accoglierà entrambe, risponderà di non essere bene informato, e di voler attenersi all’imparzialità della Geografia. La Geografia (con lettera maiuscola) è un’invenzione tutta sua, come Marx ha inventato il materialismo storico. Ricordate il dibattito dell’estate scorsa in occasione della approvazione del trattato? S’era discusso a lungo sull’autodecisione, sul plebiscito e sulla linea strategica. Giolitti riassunse l’acre dibattito con questa formula mirabile per il suo candore: «Poiché la Geografia ha messo quei tedeschi con noi, vedremo d’intendercela meglio che possiamo». Una volta era la Provvidenza, poi la Storia, ora la Geografia. E tanto ci piace nelle situazioni imbarazzanti il ricorso ad una parola la quale ci liberi dalle angustie del pensiero, che siamo disposti ad accettarla, anche quando possa significare un nonsenso o una brutalità. |
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| 41921-1925
| ROMA, 12, notte. Il Consiglio nazionale sotto la presidenza dell’on. Degasperi ha tenute due lunghe sedute e completato i suoi lavori. Proporzionale amministrativa e voto alle donne Dopo un rapido esame dell’azione del Gruppo parlamentare per la approvazione del disegno sulla proporzionale amministrativa, dovuta alla volontà decisa dei popolari, il Consiglio ha fatto voti perché il disegno di legge sia presto esaminato dal Senato, ed ha dato incarico al Segretario politico di comunicare questo voto ai senatori popolari A questo proposito è sorto un dibattito sull’opportunità di insistere subito perché sia esteso alle donne anche il voto politico . Tovini ha fatto osservare che la proposta potrebbe far ritardare le elezioni politiche, che sembrano imminenti. Vigorelli ha rilevato come sollevando tale questione oggi si possa intralciare il lavoro del Parlamento per i provvedimenti economici e sociali da noi invocati. Insiste, poi sull’organizzazione politica della donna. La signora Novi Scanni ha ricordato, oltreché l’impegno programmatico del Partito, l’azione del Gruppo popolare a favore del voto politico alla donna, già approvato dalla Camera dei deputati, nella XXIV legislatura. L’impegno espresso nel progetto di legge Micheli , si deve mantenere. Dopo altre osservazioni di Piccioni , Campilli e Sturzo si delibera comunicare al Gruppo parlamentare il pensiero del Consiglio nazionale sulla estensione del voto politico alla donna. Rapporti con le confederazioni bianche Don Sturzo riferisce che in base all’incarico avuto dal Consiglio, la Direzione riprese le trattative con le confederazioni bianche per fissare i termini di un’intesa. Non potè accettare la formula nella proposta del Congresso confederale di Firenze, perché vi erano due condizioni che avrebbero turbato assai la compagine del nostro partito: la libertà alla Confederazione, in caso di disaccordo, di assumere un atteggiamento politico; e la tendenza a creare intese dirette con alcuni deputati saltando gli organi responsabili, cioè la Direzione del partito in primo luogo, e con essa la Commissione direttiva del gruppo. Dopo una riunione della Direzione alla quale parteciparono i due segretari confederali on. Gronchi e avv. Chiri venne a proporsi il seguente ordine del giorno: «Premesso che il Partilo popolare italiano ha lo stesso programma cristiano-sociale da realizzare nell’attività politica, che la Confederazione italiana dei lavoratori ha nel campo sindacale, e la Confederazione cooperativa italiana nel campo economico, nel rispetto reciproco dell’autonomia organica, si stabilisce una intesa permanente per la realizzazione del programma comune sia nel campo parlamentare e politico che in quello organizzativo e in modo speciale si stabilisce: a) che il Partito non appoggi nel campo sindacale che la Confederazione italiana dei lavoratori e le Federazioni e le Unioni del Lavoro ad essa aderenti, e nel campo cooperativo la Confederazione cooperativa italiana e quelle federazioni, consorzi ed enti che a questa fan capo; ogni altro movimento è considerato come dissidente; b) che la Direzione del partito insieme con la Commissione direttiva del Gruppo parlamentare sentiranno gli organi direttivi confederali prima di decidere sull’atteggiamento e proposte generali che involgano notevoli problemi sindacali o cooperativi di classe; c) che le Confederazioni suddette non assumano atteggiamenti politici, e quando la loro azione involge problemi politici gli organi direttivi confederali prima di decidere sentiranno la Direzione del partito; d) nel caso di dissensi locali e di singole federazioni su questioni pratiche, sindacali, economiche o politiche, è rimessa la decisione ad una intesa degli organi centrali della Confederazione e del Partito; nel caso di dissenso su questioni generali decideranno i rispettivi Consigli nazionali». Vigorelli redattore dell’ordine del giorno di Firenze, non trova che vi siano grandi divergenze fra le due proposte. Non crede che la formazione di un Comitato di deputati amici del movimento sindacale possa danneggiare l’unità del gruppo, ma non v’insiste. Egli crede però che è necessario che gli organi del Partito diano la sensazione di una vera unità di programma cristiano-sociale. Quarello e Colombo reputano che prima di approvarsi la proposta della Direzione si debba fare una chiarificazione del programma e dell’azione del Partito popolare. Segnalano il disagio di molti propagandisti verso l’orientamento del Partito. Cecconi-Pini e Calzolari rilevano che spesso i dissensi tra azione sindacale e partito nel campo pratico o sono fittizi o sono di metodo. È bene arrivare ad intese che eliminino motivi di contrasti dannosi ai due movimenti. Degasperi crede opportuno far vivere la vita del Partito agli organizzati bianchi, anche agevolandone la loro iscrizione nelle sezioni, perché possano sentire meglio la vita politica e possano gli altri avere la esperienza che viene dai contatti personali. L’avv. Cappi ritiene che la definizione formale dei rapporti fra Partito popolare italiano e Confederazione italiana dei lavoratori deve essere coordinata con la revisione dell’azione effettivamente esplicata dal Partito in ordine al programma economico-sociale specialmente nel campo parlamentare; ciò perché, pure ammettendo che l’opera di conquista sindacale debba subordinarsi alla valutazione politica ed alla visione complessiva degli interessi collettivi e nazionali non è possibile una efficace collaborazione ed una definizione praticamente utile dei rapporti fra Partito e Confederazione, se non vi sia armonia di azione fra i due organismi. Sturzo precisa che la base del programma sociale-cristiano è comune, l’azione è diversa, per cui sono anche diversi e autonomi gli organismi. Però siccome il partito politico è sintesi d’interessi generali deve poter coordinare ogni movimento e fissarne i valori; aggiunge che il movimento sindacale deve superare la sua concezione e conoscenza di categoria e divenire elemento e forza rappresentativa nel campo delle pubbliche attività. E questo è lo sforzo del Partito popolare italiano. Egli aggiunge che è dannoso a tutti e due i movimenti lo stato di diffidenza reciproca che alcuni alimentano; ed è necessaria una vera intesa, anche per evitare movimenti incerti, iniziative inopportune o metodi esagerati, quali ebbe a rilevare nel caso del tentativo dello sciopero fiscale per la tassa sul vino. Conclude auspicando alla più fattiva e convinta azione dei tre movimenti, che hanno la salda base nel programma cristiano-sociale; l’ordine del giorno è approvato, col voto contrario di Colombo e Quarello e l’astensione di Vigorelli. Quindi, dopo essersi occupato di alcune questioni interne, del porto di Genova e del Mezzogiorno, rinnovando, a proposito di quest’ultimo, gli impegni presi antecedentemente, passa a trattare Del decentramento amministrativo e della costituzione della regione Il Consiglio esamina l’azione svolta dalla Direzione del Partito perché venga impostata nel paese la battaglia per la costituzione della Regione come ente autarchico, e organo di decentramento amministrativo. Il segretario politico dà ragione della propaganda già iniziata e dei suoi discorsi di Treviso e di Trento e delle adunanze dei sindaci popolari dell’Alta Italia. Informa dei lavori della Commissione reale per la riforma dei Comuni e delle Provincie, ed è lieto comunicare che è pronto già il progetto dei tributi locali. Rispondendo all’on. Tovini e agli altri consiglieri fa notare che la costituzione regionale nel paese, mentre serve al miglioramento di tutti i servizi amministrativi, contribuisce al rinsaldamento della autorità dello Stato, minata dalla stessa elefantiasi del centralismo opprimente. Si approva infine il seguente ordine del giorno: «Il Consiglio nazionale del Partito popolare italiano mentre fa suo l’ordine del giorno presentato dall’on. Tangorra a nome del Gruppo parlamentare popolare a proposito della riforma dei servizi pubblici, rileva con soddisfazione la campagna iniziata dalla Direzione del Partito e promossa dai convegni dei rappresentanti popolari dei comuni e delle provincie per il decentramento amministrativo e l’autonomia degli Enti locali; ritenuto che una vera rinascita del nostro Paese non può non basarsi sul rinvigorimento delle forze locali e sulle libertà organiche degli enti che rappresentano tali forze e le sintetizzano nel campo amministrativo ed economico, attenuando quel centralismo statale, dannoso alla stessa compagine della vita nazionale e al più completo ristabilimento dell’autorità statale; crede matura ormai la costituzione dell’ente Regione, autarchica e rappresentativa d’interessi locali, specialmente nel campo dell’agricoltura, dei lavori pubblici, delle industrie, commerci e lavoro e degli interessi scolastici e delibera portare l’argomento al 3.o Congresso nazionale per un’azione decisiva; impegna il proprio Gruppo a tutelare e favorire le autonomie e libertà locali esistenti nelle terre redente e a promuovere la riforma in senso autonomistico dei comuni e delle provincie, riforma già promossa con D.R. 18 maggio 1918 e ancora allo studio della speciale Commissione; invita la Direzione del Partito a promuovere atte pubblicazioni per creare attorno al problema del decentramento e dell’autonomia amministrativa una coscienza popolare, necessaria perché le soluzioni invocate siano assistite dal consenso e dal favore generale». Terzo Congresso nazionale II Consiglio ha stabilito che il 3° Congresso nazionale abbia luogo nella prima quindicina di settembre, dando facoltà alla Direzione di anticiparne la data se ciò si reputa necessario per esigenze politiche; ha fissato i termini del regolamento ed i temi da svolgere, incaricando la Direzione a pubblicarne a tempo il testo definitivo. Una speciale Commissione composta di: Sturzo, Tovini, Degasperi, Cappi e Campilli redigerà le proposte delle modifiche allo statuto e il coordinamento delle norme, in base ai deliberati del Congresso di Napoli e del Consiglio nazionale. Questioni agrarie In ultimo sopra una larga relazione del segretario politico sull’opera svolta dal Partito e dai suoi organi nel campo delle riforme agrarie e sulla situazione presente, dopo varie osservazioni di Cappi, Vigorelli, Cecconi, Chiri, Pini, Miglioli e altri, viene ad unanimità approvato il seguente ordine del giorno: «Il Consiglio nazionale del Partito popolare italiano: prende atto delle dichiarazioni e della recente intervista del segretario politico sulla questione agraria e confermando le sue conclusioni riguardanti il problema agrario generale e la impostazione delle vane soluzioni tecnicoeconomiche e il carattere prevalentemente sociale, già adottato con ordine del giorno del 15 maggio 1920; rileva come non consone a tale deliberato diverse affermazioni di tendenza che, nei due sensi opposti, cercano impostare la questione agraria come questione di puri interessi economici di classe, mentre assurge a vero interesse politico e sociale dell’intera Nazione; richiama l’attenzione del Governo, del Gruppo popolare e della Commissione parlamentare sulla necessità immediata per la pacificazione sociale delle classi agricole e per l’aumento della produzione di affrontare in tutta la sua ampiezza il problema agrario, prevalentemente approvando i disegni di legge (opportunamente migliorati) sulle Camere regionali di agricoltura, sulla colonizzazione interna, e sulla regolamentazione dei patti agrari; approva i capisaldi fissati dalla Commissione speciale costituita presso la Direzione del Partito e il Gruppo parlamentare per l’esame sui progetti proposti dagli on.li Martini e Gavazzi, e invita il Gruppo ad adoperarsi a che il testo definitivo, rispondente ai deliberati del Congresso di Napoli, sia subito presentato al Parlamento; approva l’azione esercitata dalla Direzione del Partito e del Gruppo parlamentare riguardo l’assistenza data nelle agitazioni agricole, riguardo il disegno di legge sugli escomi agrari e sulla tassa sul vino e rileva con soddisfazione i provvedimenti promossi dal Ministero di Agricoltura per il credito agrario della Sicilia e della Calabria, per la siccità nel Mezzogiorno, per la bonifica dell’Agro Romano, per l’occupazione delle terre specialmente in Sicilia, per l’acquisto di terre da parte dei comuni per assegnarle ai contadini e per l’inchiesta sulla piccola proprietà coltivatrice; e fa voti che le Commissioni provinciali agrarie, gli Enti di credito agrario e le Associazioni padronali favoriscano le affittanze collettive e il sistema dalla struttura associativa nelle conduzioni dei fondi; deplora che il riconoscimento dei giusti provvedimenti chiesti dai lavoratori possa degenerare in conflitti violenti, e mentre invoca il maturarsi del nuovo diritto sociale agrario, invita gli organi del Partito e gli uomini in esso iscritti a fare opera di pacificazione tra le classi, perché tutti pervada il senso di responsabilità morale e sociale in momenti così difficili per la Nazione quando lo spirito di violenza e di sopraffazione si va diffondendo e propagando come nuova ragione di diritto collettivo». Il Presidente Degasperi chiude le sedute del Consiglio con un discorso di augurio per un lavoro proficuo specialmente in preparazione al terzo congresso nazionale. |
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| 41921-1925
| La Camera si è aggiornata ieri sera con un clangore semitragico, cioè coll’«abbasso» di Modigliani e coll’uscita del Ministero dall’aula . I topi abbandonano la barca che fa acqua. Anche questa volta vince chi ha i nervi più resistenti. Da una decina di giorni, dopo che le voci di scioglimento si andarono intensificando, la lotta fra Giolitti e chi voleva scoprire i propositi ed eventualmente attraversarli fu vivissima, ma coperta. Visti inutili gli attacchi nittiani, Turati divenuto il vero capo dell’opposizione cercò di scoprire terreno in tutti i modi, ma l’impenetrabilità di Giolitti rimase invulnerata. Quando Turati venne fuori colla domanda tale e quale sull’essere o il non essere della Camera, Giolitti si nascose dietro i diritti indiscutibili della corona, e l’attacco andò a esaurirsi nel materasso costituzionale. Domenica il leader socialista tentò l’ultimo colpo, raccogliendo firme per una protesta contro l’eventuale scioglimento o meglio per la riconvocazione a dopo Pasqua, ma la sua iniziativa più che nelle titubanze degli uomini illustri (gli ex presidenti) urtò nell’astensione del partito popolare. Cosicché all’ultimo momento Turati abbandona l’azione e si dichiara sconfitto, da chi? da un uomo che in tutto questo tempo non aveva mosso collo né piegato sua costa, e vince solo perché ha i nervi buoni e sa tacere. Ritiratosi il leader milanese, i socialisti mandano innanzi Modigliani, uomo abile, oratore fecondo, ma di troppo facile temperamento. E ieri sera, all’ultima ora, succede il disastro… tattico. Modigliani perde la calma, grida «abbasso la corona» e dà occasione a Giolitti di sfuggire ad ogni dibattito finale increscioso e andarsene calmo, deciso, impenetrabile, com’era rimasto fino qui. Giolitti farà ora le elezioni generali? Nonostante quello che si scriva e si dica ancora in contrario, noi crediamo che ciò sia il suo fermo proposito. Certo che un acuirsi della situazione interna potrebbe fargli sospendere la decisione, ma tolto questo caso non probabile, la convocazione dei comizi, secondo il nostro apprezzamento, è sicura. Da tale visione si è lasciato guidare nella tattica di questi giorni anche il partito popolare. Il partito, come tanti altri e per parecchie ragioni oggettive e soggettive, non desiderava le elezioni in questa primavera. Sarebbe stato utile infatti che la Camera avesse, prima dello scioglimento, affrontati i problemi sociali, cosicché la campagna elettorale si fosse svolta su di una piattaforma nuova, superando completamente la psicologia della guerra. Ciò voleva dire che la Camera avrebbe dovuto lavorare fino all’autunno prossimo. Più in là nessuno spingeva le proprie speranze, giacché ognuno comprendeva che la situazione elettorale, specie riguardo ai socialisti e ai comunisti, avrebbe meritato fra non molto una revisione. Giolitti è evidentemente di una opinione alquanto diversa e, dal punto di vista suo, più logica. Se le elezioni hanno da venire in autunno, meglio vengano subito, giacché in questo caso le faccio io; in caso diverso, che ci sia io al timone è quasi escluso. Questo è il suo discorso, e non ragiona male, giacché in giugno la Camera dovrebbe votare il bilancio provvisorio e difficilmente lo accorderebbe a chi gliene avesse così lungamente insidiata la vita. Di fronte a tale opinione doveva il partito popolare forzare il suo dissenso fino al punto da ritirare i ministri e rovesciare il Gabinetto? Sarebbe stato un grave errore. Sarebbe stato un ripiombare in una situazione caotica giacché, a meno di non ricorrere di nuovo a Nitti, non c’è in questo momento nessun altro uomo alla Camera che sia pronto alla successione. Perciò molto abilmente e molto prudentemente i popolari, manifestato il loro parere, si tennero discosti da ogni atto ostile e da ogni tentativo d’impedire a Giolitti di agire anche nelle vacanze pasquali, se lo creda opportuno. Noi siamo del parere che lo scioglimento verrà; ed è probabile ch’esso venga con riferimento alle nuove provincie. Tale riferimento dopo due anni di attesa, ha per noi sapore d’ironia, ma non è così in Italia, ove la nostra angosciosa attesa si è perduta senza eco in mezzo alle convulsioni delle altre provincie. Sembrerà quindi quasi naturale che annessa appena la Venezia Giulia, tutta l’Italia, secondo le tradizioni del risorgimento, venga chiamata ad una univoca manifestazione elettorale; e così Giolitti eviterà nella relazione al re di urtare comechessia le suscettibilità della Camera; e tutti rimarranno contenti e meravigliati di non averlo previsto prima. Le elezioni generali si avranno quindi in maggio, il 15 o il 22 del mese. Sarà l’ultimo ritardo che avranno subito anche le elezioni del Trentino. |
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| 41921-1925
| Chatteaubriand scrisse un capitolo del suo «genio del Cristianesimo» per dimostrare che cosa sarebbe rimasto della civiltà umana, se Cristo non fosse venuto a salvare il mondo. Oggidì il fragore di barbari attentati ci ridesta come sull’orlo d’un abisso. Noi sentiamo che la civiltà contemporanea pende sulla bocca del precipizio. Allora, in questi tragici momenti d’angoscia, una voce che risuona come d’al di là dell’infinito ci richiama alla speranza. La civiltà fu salva nonostante gli orrori di Nerone e d’Eliogabalo. Sarà salvata anche oggi, purché gli uomini tornino a credere nella parola del Salvatore del mondo. È questo il pensiero di fede e di operoso ottimismo che c’inspira l’avvento della Pasqua. Buone feste a tutti, cari lettori, buone feste in un lieto presagio dell’avvenire. Dio fece sanabili le nazioni. Guarirà anche la travagliata famiglia italiana, purch’essa si ricordi delle origini della sua grandezza, purché il cittadino italiano celebri nella sua coscienza rinnovata la Pasqua della sua risurrezione. Nessuna legge, nessuna politica, nessun atto di forza può garantirci l’ordine della vita sociale, se la vita terrena dell’individuo non è subordinata alla fede e alla disciplina dell’al di là. Nessuna volontà, nessuna forza può imporci quaggiù di sacrificare le nostre esigenze a quelle del prossimo e dell’umanità, se non ci stimoli la credenza che, dopo questa vita, ve n’è un’altra migliore e, che, dopo morti, risorgeremo! E noi risorgeremo! Domani siamo chiamati a confortarci, di questa verità affermata da Cristo. Allietiamoci di essa, oltre che per i nostri individuali destini, anche per la forza che tale certezza c’infonde, di lavorare con lieta speranza ai progressi del rinnovamento sociale e all’incremento della civiltà. |
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| 41921-1925
| Tutta la campagna antitrentina e antiitaliana si alimenta della menzogna ripetuta con ogni insistenza da giornali e oratori tedeschi che noi tendiamo a creare l’unità politica, elettorale, amministrativa della regione, per poter sfruttare fiscalmente l’Alto Adige. Tale argomento s’è fatto valere nella campagna contro l’amministrazione provinciale, si è ribadito nelle manifestazioni in favore del cosiddetto Unterland e si ripete oggidì in tutte le versioni per dimostrare che i Trentini hanno voluto incluso nella circoscrizione di Trento il distretto di Ampezzo e le due valli ladine, onde cavarne poi, coll’imporvi chi sa che addizionali provinciali, dei redditi che suppliscano agli ammanchi del miserabile Trentino . Bisogna però ricacciare in gola ai bolzanini questa menzogna convenzionale che dovrebbe sembrare grottesca, se per tante ragioni i circoli ai quali è diretta non fossero ancora troppo all’oscuro della realtà delle cose. La migliore confutazione sono le cifre. L’amministrazione provinciale ha già pubblicate le sue. Da queste risulta che l’Alto Adige sul terreno delle finanze autonome riceve quasi quattro milioni all’anno di più di quello che renda in addizionali e tasse. La stampa bolzanina s’è, naturalmente, ben guardata dal discutere o riferire tali cifre. Esse sono troppo eloquenti. Ma ci sono anche altre cifre che si possono opporre alle interessanti leggende tedesche. Sapete che cosa costa la Venezia Tridentina allo Stato italiano, secondo il bilancio dell’anno in corso? La cifra tonda di 100 milioni, non compresa, badate bene, l’amministrazione ferroviaria. Di quest’ultima conosciamo un dato solo, che cioè le ferrovie delle nuove provincie l’anno scorso erano in deficit per circa 170 milioni. Ma a parte anche le ferrovie, lo Stato spende dunque – per l’amministrazione ordinaria ben s’intende e non calcolati i 230 milioni per le ricostruzioni – 100 milioni all’anno, e che cosa ricava? Finora, secondo il bilancio di previsione attuale, 45 milioni in tutto. Siamo dunque passivi e di un bel poco. Ciò sia detto, senza negare con ciò la possibilità d’un’amministrazione più sobria e di un aumento della rendibilità delle nostre fonti economiche. Ma intanto queste cifre dimostrano tutta la ridicolaggine dell’accusa lanciataci contro, che gl’italiani e i trentini abbiano voluta allargata la circoscrizione elettorale per sfruttare fiscalmente gli ampezzani e i ladini. Siamo tutti passivi, abbiamo bisogno di aiuto dallo Stato: specie i paesi dell’alta montagna, specie la zona distrutta, com’è Livinallongo. Dobbiamo quindi aiutarci l’un l’altro e se c’è qualcuno che converrà sfruttare – ci si passi la frase che non è nostra –, non hanno da essere né l’Alto Adige, né la zona mista, né la Ladinia, né Ampezzo, ma lo Stato. Senza dubbio che le nostre Alpi, specie le nostre forze idrauliche, potranno diventare anche, con nostro locale vantaggio oggetto di sfruttamento (la brutta parola è oramai in bocca) da parte della nazione, ma di questa ricchezza, per molte cause, siamo già ricchi noi, trentini, senza bisogno di ricorrere, almeno in un primo tempo, ad altri. Oggi rimane comunque dimostrato che noi, tanto nell’Alto Adige che nel Trentino, riceviamo dallo Stato di più di quello che diamo. Uno spostamento quindi di qualsiasi linea amministrativa o politica entro la regione non può al riguardo portare allo sfruttamento di nessuna parte. Non occorre infine rilevare che tutta questa confutazione viene scritta contro la premessa data e non concessa che la circoscrizione elettorale avesse un qualsiasi nesso colle condizioni finanziarie dei distretti che vi sono inclusi; ciò che, per ragioni troppo intuitive, è escluso. Le valli di Gardena e Badia, Ampezzo e Livinallongo vennero chiamate a votare assieme ai Trentini per uniformità o affinità di razza, affinità riconosciuta perfino dall’anagrafe austriaca 1910, la quale divideva gli abitanti del Tirolo in due categorie: tedeschi gli uni, e italo-ladini gli altri. Che il governo italiano facesse così era naturale, doveroso. La meraviglia e l’opposizione manifestatasi in qualche paese è solo l’effetto di una lunga pressione psicologica particolare. Noi lasciamo al tempo il compito di diminuire e togliere tale pressione. Al tempo ed alla libera discussione, alla quale da parecchio abbiamo invitato anche coloro che se ne stavano in un canto, imbronciati e mal disposti. |
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| 41921-1925
| Sabato e domenica i cooperatori delle federazioni bianche si radunano in Treviso a congresso. Dal Trentino, regione cooperativisticamente parlando di primo ordine, noi inviamo il nostro caldo e fraterno saluto. Le nostre cooperative vi manderanno anche i loro rappresentanti. Noi li accompagnamo coi nostri auguri migliori e col voto sovratutto che la vivace partecipazione di tutte le provincie d’Italia, l’emulazione che nasce dalla rassegna degli sforzi altrove compiuti e dei risultati ottenuti, la rinnovata affermazione dei principi che devono ispirare anche quest’azione di indole economica, valgano a far rifluire nuovi succhi vitali nella robusta quercia della cooperazione trentina. Tecnicamente nella cooperazione di consumo e di credito veniamo citati come maestri e il nostro «Sindacato agricolo-industriale» può servire d’esempio. Anche la cooperazione di lavoro ha potuto prendere, per l’appoggio generoso dei nostri istituti di credito, uno sviluppo promettentissimo. Ma, moralmente parlando, il nostro movimento cooperativo ha bisogno di ossigeno. Bisogna ristabilire il contatto fra la funzione delle organizzazioni economiche e il compito di tutto il movimento sociale. Le cooperative non esauriscono la loro funzione, quand’hanno sodisfatto al loro fine immediato e tecnico, ma vanno considerate come organi di tutta la riforma sociale cristiana, organi nel senso ch’esse stesse sono destinate ad attuare parte di questa riforma e organi anche nel senso che basando la cooperazione dei soci sul precetto della fratellanza cristiana, costituiscono e mantengono vivi nella società dei nuclei di solidarietà, di altruismo e di collaborazione di classe, tendenze le quali per le prime sono appunto destinate a cementare quell’ordinamento cristiano-sociale, a cui aspiriamo. È appunto questo carattere integrativo degli scopi immediati dell’organizzazione cooperativa, che un giorno i nostri più battaglieri e più benemeriti promotori del cooperativismo chiamarono, con vocabolo improprio e di origine esotica, carattere confessionale, e che oggidì verrà riconfermato solennemente a Treviso, quando il congresso dei cooperatori culminerà nella commemorazione di Giuseppe Toniolo, caposcuola in Italia della nostra riforma sociale e apostolo della democrazia cristiana. Fra le molte leggine votate in fretta nelle ultime sedute della Camera non dovrebbe sfuggire all’attenzione dei cooperatori quella sulla riforma della legislazione cooperativa. Premettiamo anzitutto che in tale occasione venne votato anche un o.d.g., presentato dai popolari, e che ha valore pregiudiziale. L’o.d.g. diceva: «La Camera affermata l’eguaglianza di trattamento da parte dei poteri dello Stato, verso tutte le organizzazioni nazionali della cooperazione; considerato che il capitale dell’Istituto Nazionale di Credito per la cooperazione viene ad essere formato in assoluta prevalenza con fondi forniti dallo Stato; invita il Governo perché nella formulazione delle norme per il funzionamento di detto Istituto sia data nei Consigli di Amministrazione adeguata rappresentanza alle forze cooperative nazionali proporzionalmente alla loro efficienza nel Paese». Questo ordine del giorno viene a sancire un principio che, sebbene sia di palmare giustizia, tuttavia venne sempre e sistematicamente fino a oggi disconosciuto a nostro danno ed a tutto vantaggio della Lega nazionale delle cooperative (socialista). Essa, sotto il seducente quanto falso mantello della neutralità politica, era riuscita ad ottenere di fronte allo Stato il monopolio della rappresentanza in Italia del movimento cooperativo onde si era giunti all’assurdo che un organismo socialista, che del metodo cooperativo si fa un’arma per giungere al collettivismo, beneficiava quasi esclusivamente dei capitali di un Istituto «formato in assoluta prevalenza con i fondi forniti dallo Stato» mentre altre Società cooperative ne erano quasi del tutto escluse. Il principio sancito nell’ordine del giorno suddetto trova la sua pratica applicazione nell’articolo unico approvato subito dopo del disegno di legge sulla riforma della legislazione sulle cooperative. In base a cui i fondi dell’Istituto nazionale di Credito per la Cooperazione vengono aumentati sino a raggiungere la somma di 200 milioni, perché l’ultimo suo capoverso dice: «Con regio decreto il ministro per il Lavoro e la Previdenza sociale, di concerto con il ministro del Tesoro e udite le rappresentanze delle organizzazioni cooperative nazionali, provvederà allo stanziamento dei fondi, stabilirà le modalità per la loro erogazione ed emanerà le norme per il funzionamento dell’Istituto nazionale di Credito per la Cooperazione». In tal guisa, in virtù dell’opera spiegata in questa occasione alla Camera dai nostri amici, cade una delle più antipatiche forme di sfruttamento che il socialismo esercitava sui capitali dello Stato. |
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| 41921-1925
| Notizie attendibili ci informano che in un’adunanza di fiduciari tenuta martedì alla Chiusa sotto la direzione e l’ispirazione del «Deutscher Verband» si decise di presentare una propria lista più o meno completa anche nella circoscrizione di Trento. All’adunanza erano intervenuti alcuni sindaci di Badia e Gardena, qualche maestro e uno o due sacerdoti, e delegati del Verband di Bolzano. Fu deciso di forzare a qualunque costo una lista di protesta che verrebbe lanciata sotto la parola d’ordine «autonomia» ma che in realtà avrebbe il significato di adesione alle aspirazioni irredentistiche o legittimiste dei tedeschi. I delegati del «Verband» fanno il calcolo che Ampezzo, Livinallongo, Badia e Gardena votino compatti questa lista di protesta, nella quale come candidato «ladino» comparirebbe il noto Franz Kostner, albergatore di Corvara e maggiore dei «bersaglieri provinciali» durante la guerra, dopoché il dott. Testor di Livinallongo, fiutando il fiasco e per quanto a Bolzano sia nello stesso studio dell’avvocato Nicolussi, rifiutò la candidatura offertagli. Risulta chiaro del resto ad ogni persona intelligente che la lista non può essere che di protesta, senza alcun risultato. Si è calcolato un deputato ogni 60 mila abitanti. La circoscrizione di Trento ne ha in tutto sette. Se votassero anche tutti i ladini e gli ampezzani per la lista, ispirata dal Deutscher Verband, siccome questi sono al massimo 16 mila, è chiaro che la lista non raggiungerebbe il quoziente per nessun conto. Ma i calcoli del «Verband», sono sbagliati anche per quanto riguarda gli ampezzani e i ladini stessi. Informazioni sicure e di recente data ci dicono che Cortina d’Ampezzo non vuole più saperne di seguire una politica di protesta, e che lo stesso si può dire di Livinallongo, ove si è stanchi di seguire quel gruppo di dirigenti che colla loro politica compromettono inutilmente un paese distrutto che ha bisogno di venir ricostruito. Anche in Badia le persone favorevoli alla lista italiana, sono più numerose di quelle che si creda. Più favorevole ai tedeschi è la valle di Gardena, ma anche qui si può contare su di un forte gruppo per la nostra lista. Il colmo poi dell’imprudenza commetterebbero i tedeschi, se come si va dicendo, intendessero presentare nella circoscrizione di Trento l’intiera lista tedesca cioè, i quattro candidati del Verband, Toggenburg, Nicolussi, Walter e Tintzl più i candidati di protesta dei ladini e delle cosidette oasi. Sarebbe scatenare la guerra nazionale, ciò che appunto il governo e noi volevamo evitare. Ma se il «Verband» lo vuole, accetteremo l’imprudente sfida. Il giuoco di puntare sulla parola d’ordine autonomia, non gli gioverà. I propugnatori più energici e più efficaci dell’autonomia amministrativa furono i popolari trentini. Se v’è una speranza di garantire le nostre autonomie locali, si è perché in Italia stessa si fa largo la corrente autonomista e perché il Partito popolare italiano ha messo il decentramento in cima alle sue aspirazioni. Ora i popolari trentini e per loro i popolari italiani hanno impedito che la questione amministrativa venisse risolta unilateralmente, concedendo cioè una speciale autonomia ai tedeschi e concedendola per decreto reale, come pensava Nitti. Essi, d’accordo cogli altri partiti, hanno preteso e ottenuto che nulla si cambiasse fino ad elezioni avvenute. Ora nel futuro Parlamento non avranno i trentini tanta influenza da determinare il corso delle cose? I popolari in specie avranno certo anche da soli la forza di raggiungere almeno questo tanto: che nessun vantaggio in senso autonomistico venga stabilito per i tedeschi che non sia garantito anche ai trentini, e che neppure un centesimo venga a gravare sugli italiani più di quello che gravi sui tedeschi. Questa convinzione bisogna predicarla anche fra i ladini e gli ampezzani e in tutta la zona, in cui i tedeschi operarono quasi da soli, approfittando della scarsezza di informazioni esatte che arrivavano in quelle vallate. |
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| 41921-1925
| Più che 2000 congressisti – Un ministro e quaranta deputati – I rappresentanti della cooperazione trentina. Impressioni Treviso, 3 notte. Questo primo Congresso è stata una rivelazione, imponente, magnifica, una affermazione di forza e di volontà, una manifestazione spontanea di una coscienza altamente cristiana erompente con l’azione ricostruttrice e vivificatrice nell’odierna crisi sociale, una rivendicazione solenne di un principio di giustizia fin a poco tempo fa conteso ai cooperatori bianchi che dovettero attraverso una lotta paziente di questi due anni strappare al governo il riconoscimento di quell’equo trattamento mediante il quale tutti gli organismi cooperativi fossero parificati di fronte agli istituti pubblici. Esso ha segnata la sintesi di tutto un lavoro costruttivo sviluppatosi mediante l’opera di uomini infaticabili e il concorso di sane energie regionali fra mille difficoltà di mezzi tecnici e finanziari, lavoro che però ha portata oggi la cooperazione cristiana d’Italia a una vera fioritura in tutti i suoi singoli rami e nel contempo ha dischiuso le vie a un più sicuro cammino ascensionale di ampliamento e rafforzamento. Una fede viva e profonda, un entusiasmo sincero pervadeva l’anima dei congressisti. Le discussioni procedevano vivaci e stringenti; si sentivano in esse echi delle lotte, le gioie delle vittorie, i dubbi, i timori, le ansie per una prospettiva di un domani migliore, i consigli dell’esperienza, gli incoraggiamenti, gli auguri. Il Congresso era dedicato alla memoria del venerando maestro prof. Toniolo, all’apostolo infaticabile, all’eroe della democrazia cristiana, al sociologo insigne sulle cui direttive tutta l’azione sociale cristiana oggi si svolge e dalle quali trarrà ora e sempre fede di propositi, luce di ammaestramenti. Crediamo che atto migliore per onorare il maestro non si potesse compiere, perché l’omaggio di opere feconde di bene, inspiratrici di giustizia e pace cristiana, era la prova più efficace per dimostrare che i discepoli avevano amato il maestro e che il maestro aveva additata la via diritta. E chi c’era al congresso? Tutta l’Italia cristiana rappresentatavi dal più umile cooperatore fino all’uomo di governo. Tutte le più spiccate personalità del nostro campo cooperativo, sindacale politico erano intervenute. Non abbiamo sentiti discorsi retorici, né abbiamo assistito a parate accademiche. I problemi sono stati lumeggiati, discussi, analizzati al lume di una sorprendente praticità e questa è stata per noi la prova del vivo interesse e del grande convincimento che appassionava gli animi e affaticava le menti, perché i risultati dovessero segnare una tappa e perché l’azione iniziata avesse a perfezionarsi e intensificarsi. E noi trentini che alla cooperazione abbiamo data tutta la nostra attività e che l’abbiamo sviluppata fin già da 25 anni, abbiamo guardato ai nostri fratelli delle vecchie provincie con tutta la simpatia e ad essi abbiamo invidiato l’entusiasmo e la fede. Comprendiamo che gran parte dei problemi che oggi affaticano i nostri fratelli, che gran parte delle difficoltà che l’inceppano furono da noi felicemente superate, ma non per questo possiamo tacere questa impressione e questo confronto. Quando si pensa che nelle vecchie provincie fin a due anni fa si negava il riconoscimento alla cooperazione cristiana e che il Governo ciecamente o meglio astutamente appoggiava la rossa lega nazionale delle cooperative che sotto la parvenza della neutralità nascondeva un programma di carattere prettamente socialista, quando si pensa che la cooperazione cristiana è sorta con pochissimi mezzi e tecnici e finanziari e ha dovuto di propria iniziativa imporsi attraverso tutte le contrarietà dei socialisti detentori di un monopolio che li faceva i veri mantenuti dello Stato e che lo sviluppo della stessa si è svolto in una lotta continua contro gli avversari e contro i pescicani su di un terreno scottante ancora per gli echi della guerra che gli avversari sfruttavano a scopo rivoluzionario contro un governo debole; non si può fare a meno di ammirare e di imitare questi uomini e di trarre da loro quell’entusiasmo che è la molla potente che infrange tutti i dubbi e tutte le incertezze. Abbiamo sentite parole di vera ammirazione per la nostra cooperazione trentina specialmente nel campo del credito e del consumo perché di quello che noi abbiamo raggiunto in molte delle vecchie provincie non è stata ancora possibile l’attuazione, ma pensavamo che a sorreggere questa nostra organizzazione regionale, a perfezionarla ancor più, occorre una fede viva che faccia dei cooperatori dei veri apostoli disinteressati che, combattendo tutte le forme della speculazione adempiano al loro dovere di giustizia e di pacificazione sociale. Le organizzazioni cooperative hanno un carattere profondamente morale che se non si rileva nella tecnica deve però manifestarsi nella pratica e deve informare lo spirito e la coscienza dei cooperatori. Con tale pensiero l’Avv. Ercole Chiri il segretario generale della Confederazione cooperativa italiana, chiudeva la sua lucida e completa relazione e questo pensiero noi portiamo a tutti i nostri cooperatori, perché rinsaldino la loro fede e si confortino nel ricordare che anche nelle vecchie provincie nuovi fratelli battono la strada che essi percorrevano venticinque anni fa, e che la strada della cooperazione cristiana è quella che ci porterà tutti nel porto sicuro della pacificazione. E sappiano ancora i nostri buoni cooperatori che quando in seno al congresso fu portata la voce del nostro Trentino invocante giustizia contro l’Istituto nazionale di credito per la Cooperazione il quale fin’ora ha ignorato o voluto ignorare tutto il movimento nostro cooperativo specie nel campo della produzione e del lavoro, da parte di tutti fu levata fiera protesta e a nome del congresso la protesta stessa fu telegrafata al Ministero delle Terre liberate perché autorevolmente intervenisse a favore delle nostre cooperative. Questo nobile atto di solidarietà dei nostri fratelli sia esso un segno della loro viva simpatia per noi e ci sia di sprone a proseguire «tutti per uno e uno per tutti». |
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| 41921-1925
| Ai lettori non sarà sfuggita l’importanza che ha per la politica della nostra regione quel capoverso del comunicato di Treviso, telegrafatoci ieri, il quale si occupa delle Nuove Provincie. Rileggiamolo: «Circa le nuove Provincie, con riguardo allo scopo altamente nazionale che può avere una politica di pacificazione sulle frontiere della patria, la Direzione ha autorizzate – salvi i principi fondamentali del partito – anche eventuali combinazioni colle minoranze nazionali, confermando in confronto di queste, il proposito di una politica di equità e di larghezza, sempre inteso però che alle patriottiche popolazioni italiane di confine non deva derivare, da concessioni a popoli d’altra lingua, alcun detrimento, riconfermando che il partito popolare ha chiesto e chiederà le autonomie per tutto intero il territorio delle nuove provincie, iniziando così la grande riforma decentratrice dello Stato italiano e la creazione dell’ente regione». La prima parte con l’accenno ad eventuali combinazioni non riguarda direttamente la Venezia Tridentina, ma si riferisce ad eventualità, che nella prossima campagna elettorale si potrebbero affacciare nelle provincie dell’Istria o di Gorizia, ove non è escluso che qualche gruppo di slavi cerchi di appoggiarsi ai popolari italiani. La seconda parte formula invece una direttiva di politica popolare per tutte le nuove provincie e tutta la zona di confine. Il Partito popolare italiano dichiara qui di essere per una politica che tenga conto con equità e larghezza dei postulati degli slavi e dei tedeschi, ma trova opportuno di aggiungere che il giusto riguardo alle minoranze nazionali non debba mai andar congiunto con un indebolimento della situazione politica ed economica degli italiani stessi che abitano nelle provincie nuove; e in particolare la Direzione centrale del nostro partito rileva che il mantenimento e lo sviluppo delle autonomie locali (Diete e Comuni) non deve essere un provvedimento specifico, con scopi politici, per i tedeschi e per gli slavi, ma un provvedimento che si estenda a tutto il territorio delle due Venezie, tanto agli italiani quanto alle popolazioni di altra lingua, costituendo così l’esperimento iniziale della formazione della regione entro la compagine dello Stato italiano. Quest’impegno del Partito popolare italiano, alla vigilia delle elezioni, ha per noi un grande valore. Il più forte dei partiti costituzionali dichiara con ciò espressamente che non può accadere che, per parlare del caso nostro, i tedeschi mantengano o raggiungano vantaggi autonomistici che non abbiano anche gl’italiani. Il comune italiano o ladino non deve avere minore indipendenza di quello tedesco né nel rimettere in vigore la costituzione provinciale autonoma devono essere concessi ai tedeschi dei privilegi che non possano essere goduti anche dagl’italiani. In verità quest’affermazione dovrebbe apparire superflua. Ma la campagna fatta recentemente dai tedeschi, favorita da dichiarazioni superficiali e incoscienti di certi uomini di governo, l’ha resa necessaria. I tedeschi cercano di avvincere a sé quei comuni italo-ladini, che sono sul margine della loro sfera d’influenza, col proclamare che certe leggi buone del vecchio regime e certi istituti politico-amministrativi verrebbero conservati solo ai tedeschi ai quali verrebbero concessi quasi come compenso della disgrazia loro toccata di essere rimasti inclusi, contro la loro voglia, entro lo Stato italiano. Si è alimentata così la credenza che meno italiani che si è o si dimostra di essere, più facilmente si arriva all’autonomia amministrativa. Il Partito popolare italiano taglia corto qui con ogni perniciosa illusione e proclama che l’autonomia non deve riguardarsi come un premio concesso all’eterodossia nazionale, ma come un provvedimento esteso a tutto il territorio delle nuove provincie, e come esperimento pratico per il decentramento regionale di tutto lo Stato. Il comunicato di Treviso non entra nel dettaglio della sistemazione provinciale delle nuove provincie, ma quando esclude che qualsiasi provvedimento in favore dei tedeschi o degli slavi possa recar danno agli italiani, viene a dire che anche finanziariamente ed economicamente deve venir mantenuta almeno la parità. Non potrà accadere cioè che per concedere una speciale situazione amministrativa al territorio tedesco, i trentini debbano pagare imposte più gravose. Anche tale impegno ha per noi un valore significantissimo. Questo linguaggio non mancherà d’essere compreso in quelle zone marginali, in cui i tedeschi tentano di operare coll’attrattiva di un premio speciale autonomistico e finanziario per tutti quei comuni e quegli elettori che avranno il coraggio di assumereun contegno di inconciliabile protesta contro lo Stato italiano. Lo Stato in Italia è sovratutto il Parlamento e nel Parlamento il gruppo popolare saprà certo guadagnare una maggioranza per il principio che se non deve esser fatta violenza a chi non sa adattarsi ancora alla cittadinanza italiana, deve anzitutto essere resa giustizia a chi questa cittadinanza ha sinceramente voluta. |
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| 41921-1925
| Il fascismo fu sugli inizi un impeto di reazione all’internazionalismo comunista che negava la libertà e la nazione, è oggi un movimento spirituale e politico, sarà domani un partito con un programma massimo e con un programma d’immediata realizzazione. A giudicarlo come partito attendiamo il momento, quand’esso compaia alla ribalta con una fisionomia ben definita; a giudicarlo come movimento troppe distinzioni sarebbero necessarie, perché un giudizio complessivo possa riuscire utile. Da Bologna a Ferrara, ove è festeggiato come liberatore ed è veduto con simpatia anche dai nostri amici – ricordiamo l’atteggiamento dell’Avvenire d’Italia e l’intervista del conte Grosoli – a Firenze e in Toscana, ove talvolta si rovesciò addosso anche alle organizzazioni bianche, per quanto esse pure soffrissero della tirannide rossa, da Milano a Trieste, dal caffè Aragno a incendi dei villaggi croati, il movimento fascista ha assunto così diversi aspetti, ha tentato di raggiungere così vari obbiettivi, che un giudizio sintetico diventa estremamente difficile. L’unico giudizio che ci pare maturo è quello sui metodi impiegati in molti luoghi dai fascisti, metodi che hanno strappata talvolta una parola di riserva allo stesso Mussolini. Premettiamo che noi non condividiamo il parere di coloro i quali intendono condannare ogni azione fascista sotto la generica condanna della violenza. Ci sono delle situazioni, in cui la violenza, anche se assume l’apparenza di aggressione, è in realtà una violenza difensiva, cioè legittima. Renzo, forzando il curato a benedire il suo matrimonio con Lucia, era apparentemente l’aggressore; ma in realtà chi si faceva strumento della violenza più tirannica era Don Abbondio. Anche del movimento fascista si può dire quello che diceva Agnese: che è come dare due pugni a un galantuomo. È male, ma dati che glieli abbiate, neanche il papa glieli può levare. Tuttavia ci pare manifesto che nei metodi praticati in qualche occasione e quasi sistematicamente predicati dai fascisti o da buona parte di loro ci sia qualche cosa che non si possa assolutamente approvare, e questa è la cosiddetta spedizione punitiva, la rappresaglia collettiva. Per nessun conto si può ammettere come giusto o come legittimo che, per la morte di un amico, debbano soccombere degli avversari politici, i quali coll’assassinio non hanno avuto alcun rapporto – vedi il caso del circolo socialista di Milano –, come non si può ammettere che quale atto di rappresaglia contro agguati vengano dati alle fiamme intieri villaggi. Crediamo che qui i capi del movimento facciano male a non intervenire perché tali metodi vengano abbandonati e riteniamo sovratutto che l’autorità di pubblica sicurezza commetta, oltre che un’ingiustizia, anche un grave errore rispetto alla legge e all’interesse dello Stato, quando tollera simili azioni o, come appare avvenga spesso, le appoggia. La campagna elettorale può riuscire la prova del fuoco del fascismo. Se esso, rientrando nei metodi legali, abbandonerà le rappresaglie, considerandole come un’iniziale reazione contro situazioni di violenza politica o economica, il giudizio che si potrà dare più tardi sul movimento fascista dovrà essere assai diverso da quello che l’opinione pubblica si formerebbe, qualora si dimostrasse che certi metodi, più che congiunti ad un moto iniziale di reazione, siano immanenti nella sostanza stessa del fascismo. Infine è troppo chiaro che se ciò vale per ogni regione d’Italia, tanto più deve valere per regioni bilingui, ove la situazione, per l’interporsi del conflitto nazionale, è assai più gravida di conseguenze e molto più delicata. Il programma di Mussolini Com’è noto, Mussolini ebbe di questi giorni ovazioni trionfali a Bologna e a Ferrara. A Bologna tenne domenica un discorso programmatico che è riferito ora dal Popolo d’Italia . Ne riproduciamo, a orientazione dei lettori, i seguenti brani caratteristici: «Ma ancora è finito l’avvento di questo fascismo, di questo movimento straripante, di questo movimento giovane, ardimentoso ed eroico? lo sono qualche volta, io che rivendico la paternità di questa mia creatura così traboccante di vita, io posso qualche volta sentire che il movimento ha già straripato dai modesti confini che gli avevo assegnato. Infine noi fascisti abbiamo un programma ben chiaro: noi dobbiamo procedere innanzi preceduti da una colonna di fuoco perché ci si calunniava e non ci si voleva comprendere. E per quanto si possa deplorare la violenza, è evidente che noi per imporre le nostre idee ai cervelli dovevamo a suon di randellate toccare i crani refrattari. Ma noi non facciamo della violenza una scuola, un sistema o peggio ancora una estetica. Noi siamo violenti tutte le volte che è necessario esserlo. Ma vi dico subito che bisogna conservare alla violenza necessaria del fascismo una linea, uno stile nettamente aristocratico o se meglio vi piace nettamente chirurgico. Le nostre spedizioni punitive, tutte quelle violenze che occupano le cronache dei giornali, devono avere sempre il carattere di una giusta ritorsione e di una legittima rappresaglia. Perché noi siamo i primi a riconoscere che è triste dopo avere combattuto contro i nemici di fuori combattere ora contro i nemici di dentro, che vogliamo o non vogliamo, sono italiani anch’essi. Ma è necessario, e fin che sarà necessario assolveremo al nostro compito in questa dura ed ingrata fatica. Ora i democratici, i repubblicani, i socialisti ci muovono accuse di diverso genere. I socialisti fino a ieri hanno detto che siamo venduti ai pescicani o all’agraria: non ci sarebbero pescicani sufficienti in Italia per sovvenzionare un movimento come il nostro, e d’altra parte vi devo dire che sarebbero pescicani piuttosto stupidi perché fin dal marzo 1919 noi nei postulati fascisti abbiamo messo dei provvedimenti fiscali assai gravi e che sono in ogni caso antipescecaneschi». E più sotto, parlando direttamente delle elezioni: «Siamo dianzi ad un fatto che è il fatto elettorale. Essendo la Camera vecchia o peggio che vecchia, fradicia ed imputridita, essendo tutti i protagonisti di questa semitragedia degli uomini usati ed abusati, stanchi, o peggio ancora stracchi, si impone la nuova consultazione elettorale. Ebbene non sentite voi che se le elezioni del 1919 furono disfattiste e misianesche , le elezioni del 1921 saranno nettamente fasciste? Non sentite voi che il timone dello Stato non ritornerà più ai vecchi uomini della vecchia Italia: né a Salandra, né a Sonnino, né al lacrimoso Orlando, né al porcino Nitti? Non sentite voi che il timone passa per un trapasso spontaneo da Giovanni Giolitti l’uomo del parecchio neutralista del 1915, a Gabriele d’Annunzio che è un uomo nuovo? (applausi ovazioni prolungate: viva D’Annunzio)». |
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| 41921-1925
| Cortina d’Ampezzo, 10 Approfittando di una rapida congiunzione straordinaria mi affretto a riferirvi del successo ottenuto stamane dal vostro direttore nel primo comizio elettorale che sia stato tenuto per parte di oratori italiani in Cortina d’Ampezzo. Numerosi manifesti avvertivano che l’on. Degasperi avrebbe parlato alle 10.30 nel salone municipale su «le prossime elezioni parlamentari e gli interessi d’Ampezzo». La conferenza venne incominciata con qualche ritardo, perché si volle terminassero prima le Sante funzioni. L’oratore venne ricevuto dal Sindaco, da due consiglieri della Magnifica Comunità e dal segretario. La sala era stipata di gente d’ogni classe. Proclamato a presiedere il signor Sindaco, l’oratore seppe avvincere subito l’uditorio colla grande schiettezza, con cui affrontò la situazione. Spiegato il meccanismo elettorale, l’on. Degasperi ne dedusse che gli ampezzani e i ladini hanno dinanzi a sé due alternative: o votare per una lista italiana, comune a tutto il collegio, il cui capoluogo è Trento, o votare per una lista propria locale. Una terza possibilità non esiste, perché votare per una lista tedesca, cioè per una lista presentata nel collegio di Bolzano, sarebbe come rendere in antecedenza invalidi i voti. Dei due casi possibili, la lista locale, presentata regolarmente al commissariato generale di Trento e quindi ammessa alla concorrenza colle altre liste, potrebbe raccogliere nella migliore delle ipotesi i voti del distretto di Ampezzo, di Badia e di Gardena, cioè posto per l’impossibile che votassero anche tutti gli elettori iscritti, circa 3600 voti su 111 mila iscritti in tutto il collegio di Trento. Ciò vuol dire che una lista locale non avrebbe nessunissima prospettiva di portare alla vittoria nemmeno un deputato, giacché per ottenere un deputato bisognerebbe, se votassero 111 mila raggiungere 111 mila : 7 = 15.700, voti circa; se votassero 70 mila, bisognerebbe raggiungere 10 mila voti, se votassero anche soli circa 50 mila, converrebbe ottenere circa 7 mila voti. La lista locale diventerebbe quindi una lista di pura protesta negativa, senza alcun risultato pratico fuori di quello d’inasprire il conflitto, di riaprire le piaghe del passato, lasciando gl’interessi d’Ampezzo senza difensori. Gli ampezzani, anche se una qualche reminescenza del passato li potesse tentare a qualche affermazione antipatica, sono troppo intelligenti, per usare così male dell’arma del voto. È finita l’epoca delle proteste e dei risentimenti: ora bisogna lavorare per il bene della Comunità e per il bene di tutti, con un intento pratico. Resta quindi l’altra possibilità che è quella di votare per una lista comune a tutto il collegio di Trento, per una lista che porti dei candidati che hanno la certa probabilità di riuscire e che se riusciranno anche coi voti di Ampezzo, saranno impegnati a propugnarne anche i suoi interessi. Non è di Trento o di Bolzano quindi che si tratta, ma si tratta di Ampezzo. Le altre vallate del collegio di Trento non chiedono agli ampezzani, né ai ladini l’elemosina dei loro voti, né hanno alcun proposito né alcuna possibilità di sfruttarli come vanno scrivendo alcuni giornali di Bolzano, ma offrono loro da pari a pari una fraterna collaborazione per la difesa dei comuni interessi morali e materiali. Per la maggioranza degli ampezzani la lista del collegio di Trento che più corrisponde ai loro sentimenti è senza dubbio quella del partito popolare. La lista dei candidati popolari non è ancora pubblicata e certo il partito vedrebbe volentieri che in essa potesse comparire il nome di qualcuno d’Ampezzo o delle valli ladine, per accentuare più chiaramente il nuovo patto di alleanza. Comunque, quel che più importa è il programma. E qui l’oratore si diffonde sul principio autonomistico. Ancora durante l’amministrazione militare nel 1919, prima ancora ch’entrasse in campo il D. Verband, i trentini, ed alla loro testa i popolari, sostennero e domandarono ad alta voce l’attuazione dei due principali caposaldi autonomistici, cioè che venisse ricostituita l’indipendenza amministrativa dei comuni e che venisse convocata una Dieta cogli stessi poteri legislativi e amministrativi che aveva la Dieta di Innsbruck. Inoltre già fin d’allora sostennero che niente d’essenziale nell’attuale legislazione potesse venir mutato, prima che la popolazione stessa – mediante i suoi deputati eletti – non avesse modo di dire la sua opinione su quelle leggi o disposizioni del vecchio regime che dovessero venir mantenute e su quelle che dovessero venir modificate. Fortunatamente essi trovarono subito un efficace appoggio nell’appena costituito Partito popolare italiano, ed è noto che nell’occasione della nomina di S.E. Credaro, fu proprio in confronto del gruppo parlamentare popolare che il presidente del Consiglio Nitti confermò i suoi propositi di mantenere le autonomie locali e di non toccare intanto la legislazione vigente. Non è quindi vero che solo i tedeschi siano partigiani dell’autonomia e che i trentini siano invece favorevoli al centralismo e ad introdurre, senza distinguere, tutta la legislazione del Regno. Anche nel prossimo Parlamento i tedeschi, se vorranno, potranno appoggiarsi sui popolari e, si può ritenere, sui rappresentanti trentini in genere, per mantenere le prerogative dei Comuni e della Dieta. Altra cosa è come tali autonomie verranno amministrate entro la Venezia Tridentina. Si può pensare ad una sola Dieta con due sezioni locali, ad una Dieta con curie nazionali o a due Diete distinte. Questa sarà questione di trattative e di compromesso. È noto solo intanto che tutti i partiti trentini radunati l’anno scorso a Roma si sono dichiarati, in via di massima favorevoli, salvo modo e misura, ad accordare ai tedeschi un’amministrazione particolare, distinguendosi con ciò assai generosamente dai bolzanini che, in Austria, s’erano sempre opposti ferocemente a qualsiasi forma di autonomia trentina. È inoltre acquisito che i trentini, qualunque sia per essere l’assetto amministrativo della nostra regione, non permetteranno mai che i trentini abbiano una situazione inferiore a quella dei tedeschi, né in ordine finanziario, né in ordine politico, né in riguardo agli obblighi dei cittadini verso lo Stato. Essi avranno sempre la forza d’impedire che ciò avvenga e ne è già caparra, di per sé sola sufficiente, l’impegno che ha preso in tale senso il Partito popolare italiano nel recente comunicato di Treviso. L’oratore è venuto a parlare poi degli altri gravi interessi da liquidare, come: valuta, carte di stato, requisizioni, rifusione danni di guerra, prestiti di guerra ecc. ecc. seguito sempre con grande attenzione dall’intelligente uditorio. Infine rilevò che gli elettori hanno inoltre il dovere di coscienza di esercitare e di esercitare validamente il loro diritto di voto, perché s’impone anche la difesa del nostro patrimonio morale e religioso. I neoeletti deputati dovranno decidere se l’attuale legislazione scolastica potrà e dovrà venir mantenuta. Purtroppo non c’è da sperar molto dalla Venezia Giulia. Nella Venezia Tridentina bisogna quindi fare il massimo sforzo. Elettori che vogliono tenuti alti i principi d’ordine, d’autorità e di moralità devono volere che l’educazione pubblica della presente e futura generazione si mantenga cristiana. Per affermare ciò efficacemente devono dare voti validi e non negativi di mera protesta e devono concentrare i loro voti in modo che si raggiunga il massimo numero possibile di deputati, i quali s’impegnino a difendere il carattere cristiano della scuola, e la libertà e il prestigio delle religiose istituzioni. Questo un sunto della rapida conferenza, che riuscì spesso a strappare le approvazioni e fu infine coronata da applausi. Parlarono poi tre presenti, tutti in senso favorevole. L’oratore replicò per alcune spiegazioni suppletorie e il sindaco chiuse l’adunanza ringraziando. La folla s’è sparsa oggi a commentare, e vi assicuro che l’impressione è stata ottima. Non indarno l’on. Degasperi ha fatto appello al buon senso e all’intelligenza degli Ampezzani. Essi stanno maturando oramai il loro proposito che sarà quello di iniziare un’epoca nuova con un atto di onestà, di prudenza e di pacificazione. |
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| 41921-1925
| «Anche in queste regioni è diventato noto il programma autonomistico dei Südtiroler e la gente si chiede perché i loro postulati invece di venir fatti propri dai popolari, vengano accanitamente combattuti». (Tiroler, 9 aprile). Nel Tiroler compaiono tratto tratto dei trafiletti e degli articoli, che riguardano l’atteggiamento dei partiti trentini e più particolarmente dei popolari di fronte ai postulati autonomistici. Nell’articolo, da cui abbiamo levato il capoverso che sta sopra, si tende a dimostrare che i popolari trentini combattono l’autonomia e in un altro trafiletto dello stesso numero si afferma che i tedeschi dovranno avere l’autonomia indipendentemente dai partiti del Parlamento italiano e quindi anche indipendentemente dal consenso dei partiti trentini, giacché la concessione dell’autonomia dev’essere una conseguenza dell’impegno che i rappresentanti d’Italia hanno dovuto assumere a S. Germano prima della firma del trattato. Queste due affermazioni sono semplicemente false. A proposito della prima, abbiamo ricordato altra volta che i popolari trentini, prima ancora che i tedeschi presentassero il loro progetto autonomistico, chiesero in pubbliche risoluzioni il mantenimento dell’autonomia comunale e provinciale. Oggi documentiamo. Nel giugno 1919 – dunque parecchi mesi prima della presentazione del progetto autonomistico tedesco –, la Consulta trentina, su proposta dei popolari, votava la seguente mozione: «Considerando che la popolazione delle terre redente dev’essere chiamata a condeterminare l’assetto definitivo della sua amministrazione, la Consulta trentina propone e chiede: 1. Che vengano convocati entro il termine più breve possibile i comizi elettorali per eleggere sulla base del suffragio universale e con estensione del voto alle donne un Consiglio provinciale il quale abbia le attribuzioni della Dieta cessata e nomini una Giunta provinciale colle competenze e colla sfera d’azione, garantita dalle vigenti leggi. 2. Che venga demandato al consiglio provinciale di preparare d’accordo col Governo il passaggio e l’adattamento della legislazione rispettivamente dell’amministrazione in vigore alla legislazione ed all’amministrazione italiana in tutto quell’ambito ch’era finora di spettanza della legislazione provinciale e per tutti quegli istituti ed organismi amministrativi che dipendevano dalla Dieta o restavano in nesso coll’amministrazione provinciale o comunale». Il 16 giugno dello stesso anno l’on. Mons. Gentili parlava al primo congresso del Partito popolare italiano in favore delle nostre autonomie, e la grande assemblea su sua proposta votava il seguente ordine del giorno: «Il congresso chiede che il Governo in omaggio al principio di condeterminazione, prima di attuare nelle terre redente il passaggio dell’amministrazione vigente a quella italiana, senta il parere di una rappresentanza provinciale eletta a suffragio universale, eguale e proporzionale e, in ogni caso non intacchi quelle autonomie provinciali e comunali, che, oltre il valore locale, hanno quello di esperimento nazionale». Ma non basta. Il 25 giugno 1919 i deputati del primo gruppo popolare italiano (erano allora solo una ventina), su invito dei popolari trentini, si presentavano al presidente Nitti per chiedergli formali dichiarazioni sulla nostra autonomia. E Nitti dichiarava, secondo il tenore del comunicato allora ufficialmente pubblicato: «Il Governo assicura il massimo rispetto alle autonomie locali e scolastiche, reintegrandole ove fossero state intaccate durante il regime militare e ciò riguardo anche alle popolazioni tedesche». Potremo citare ancora una lunga serie di manifestazioni che i popolari hanno fatto o ottenuto in favore dell’autonomia; ma ci basti ricordare che l’art. 4 della legge sull’annessione, che ha il valore di un patto fondamentale fra Stato italiano e nuove provincie, e che contiene un esplicito riconoscimento delle autonomie comunali e provinciali della Venezia Tridentina venne così proposto e accolto dalla Camera per l’opera svolta dai popolari trentini mediante il gruppo popolare italiano. È quindi estremamente ridicolo che il Tiroler cerchi di ingerire ora nei suoi lettori e specie nei ladini che i popolari trentini ostacolano il principio autonomistico e che anzi la gente nel Trentino, alla quale il progetto tedesco sembra quasi sia arrivato come una rivelazione, si stupisca e si sdegni perché i popolari farebbero i sordi. È ridicolo, ma è anche insigne malafede, giacché il Tiroler deve sapere che «il partito popolare tirolese» si è anche ufficialmente e con dichiarazioni scritte compiaciuto del contegno autonomistico (e riguardoso verso i tedeschi) del Partito popolare trentino. Dobbiamo riprodurre anche qui il testo del documento. In quanto alla base, diremo, internazionale, su cui poggerebbe, più saldo che su qualsiasi consenso del Parlamento italiano, il postulato autonomistico dell’Alto Adige, tutti i plenipotenziari italiani chiamati in causa hanno sempre negato che siffatta affermazione abbia consistenza. Tutti gli atti invece ufficiali dello Stato italiano parlano di autonomie alle nuove provincie, e non di autonomia ai tedeschi o agli slavi. Potremo citare in proposito il disegno di legge Nitti-Mortara sul passaggio allo stato di pace, la rispettiva relazione della giunta del bilancio e, più addietro ancora, la circolare Nitti 26 luglio 1919 in occasione dell’istituzione dell’Ufficio centrale per le nuove provincie («senza alcun preconcetto noi vogliamo fare, anzi, di molti istituti politici e sociali delle nuove terre, e tra questi in particolare delle autonomie comunali e provinciali, utile studio sperimentale»), parole che corrispondono al proposito, più esplicitamente espresso nel comunicato pubblicato in occasione delle trattative coi partiti trentini a Roma, (estate 1920) ove è detto che le autonomie s’intenderanno concesse non solo ai tedeschi, ma all’intiera regione. Quod erat demonstrandum. Le affermazioni del Tirolo non corrispondono quindi alla verità, e la sua tattica bifida, fondata su premesse false, è destinata a naufragare. |
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| 41921-1925
| Il «Contadino» è il «settimanale politico economico sociale del partito dei contadini». Così sta scritto sulla testata del giornale. Si tratta dunque di un partito e di un partito politico. Questo partito ha sempre dichiarato di voler essere il partito dei soli contadini. Dal partito socialista esso ha voluto nettamente distinguersi, perché questo recluta principalmente operai dell’industria, del partito liberale non ne volle sapere, perché partito dei signori e al partito popolare i propagandisti leghisti rimproverano sempre d’essere un’organizzazione politica composta di varie classi, contadini, operai, piccola borghesia, impiegati. Solo la Lega era un partito puro da ogni e qualsiasi elemento che non fosse contadino. Noi e noi soli, dicevano i contadini leghisti, fanatizzati dalla propaganda di Adami e Bosetti, noi soli vogliamo rappresentare i nostri interessi, non vogliamo né preti, né impiegati, né dottori. Manderemo a Roma magari «en salam», ma che sia un contadino, ci urlava in faccia in un nostro comizio quel capolega di Lomaso. Era naturale, era logico quindi che la lega bosettiana, il cosidetto partito puro dei contadini, presentasse per le prossime elezioni una lista propria, composta solo di propri soci e di puri contadini. Si sa invece oramai quello che sta per avvenire. Il «partito dei contadini» fa il connubio col partito socialista riformista; entrambi cioè presentano una lista comune, in cui i candidati della lega compaiono accanto ai socialisti riformisti, i contadini se ce ne saranno accanto ai candidati impiegati, e ai dottori. La lista è unica e non si può votare a scelta, per l’uno o per l’altro, bisogna votare per tutta la lista: quindi i leghisti danno il loro voto anche ai riformisti e viceversa. La fusione, la compromissione è perfetta. Tutto ciò è lampante come il sole e quindi incontestabile. Tutta la stampa lo ha rilevato, e aveva pieno diritto di rilevarlo. Ebbene, no, il «Contadino» va in bestia, s’infuria, vorrebbe negare la verità, chiara come la luce del giorno, e tira calci a sinistra e a destra. L’articolo dell’ultimo numero intitolato «il nostro partito e le prossime elezioni» è per questo riguardo esilarante. Bosetti comincia col dare a noi dei cialtroni e dei mistificatori, perché abbiamo affermato che, aderendo al blocco riformista, egli aveva tradita la direttiva politica, sulla quale aveva organizzati quei contadini che avevano prestato fede alla sua parola. Per dimostrare il contrario egli espone la genesi del blocco. Seguiamola nelle sue fasi attenendoci, più che è possibile, alle stesse parole del protagonista. Fase I., in cui il partito riformista viene invitato a travestirsi in organizzazione sindacale economica. Scrive dunque il «Contadino»: «Il partito riformista di Trento, memore della considerazione sempre avuta da Cesare Battisti per il nostro partito, venne da noi per chiederci quello che intendevamo far nelle prossime elezioni. Rispondemmo che noi avremmo presa una netta posizione di fronte agli estremismi comunisti e di fronte ai clericali, che nostra intenzione era di affermarci con una lista aperta indipendente e che non avremmo trattato né concluso nulla con partiti “poiché nella nostra concezione tutti i partiti sono da noi considerati come accademie di dilettantismi teorici al di fuori della realtà e incapaci di dare nel momento attuale un parlamento tale da risolvere le grandi questioni internazionali, nazionali e regionali. Dicemmo che NON CON PARTITI NOI AVREMMO TRATTATO MA CON ORGANIZZAZIONI ECONOMICHE E SINDACALI, ché anzi ciò sarebbe stato nostro desiderio per dare inizio a quella intesa e collaborazione di classe che fa parte del nostro programma”. Quello che noi dicemmo ai riformisti ripetemmo poi a diversi che vennero a sondare il nostro pensiero. È quindi assolutamente falsa qualunque asserzione e dei clericali e dei liberali e dei socialisti che noi si siano fatte delle compattate con partiti». Di passaggio, notiamo come dev’essere stato divertente per i delegati del partito socialista riformista sentirsi dire dal capo del «partito dei contadini» o leghista ch’egli considerava tutti i partiti come accademie di dilettanti al di fuori della realtà. Dopo tale buffoneria [mirabatur cur non rideret aruspex aruspicem cum videret] ci dev’essere stato un momento di perplessità. E allora, avranno detto i riformisti, se voi, leghisti, come dichiarate, intendete presentare una vostra lista separata indipendente, non se ne fa nulla e buona notte! – Ma no, interruppe con un sorriso di furberia, P. Bosetti. Con voi, come partito, non tratto; ciò mi comprometterebbe, e forse i miei contadini non inghiottirebbero il rospo; ma cambiate soprabito, venitemi domani come rappresentanti di organizzazioni economico-sindacali, e combineremo. E così si arriva alla seconda fase. Fase II., in cui i riformisti assumono la veste di rappresentanti delle associazioni economiche e sindacali che viceversa non aderiscono, e si fa il pateracchio. Narra, continuando il «Contadino»: «Sparsasi la voce del nostro proposito di non trattare con alcun partito organizzato, vennero da noi diversi amici personali i quali, ci dissero che “piuttosto che votare per i clericali o per i socialisti o per quelle quattro malve, (testuali parole) che fanno capo alla Libertà, quantunque non contadini avrebbero appoggiato la nostra lista”. Noi ringraziammo costoro ma facemmo loro osservare che, appartenendo essi a classi organizzate sindacalmente come gli agenti, i maestri, impiegati, artigiani, ecc. avrebbero potuto scegliersi essi quei candidati che ben credevano ed aggiungerli alla nostra lista elettorale, non essendovi in ciò nulla di contrario ai nostri principii; ché anzi i contadini avrebbero veduto certamente di buon occhio questo accordo quando fosse impostato su un programma unico accettabile, e non contrario ai loro interessi. Essi ci dissero di preparare, avendo noi maggiore conoscenza di simili cose un abbozzo di programma comune. Noi facemmo ciò ed il programma piacque tanto e tanto ebbe largo consenso la nostra idea di una affermazione sindacale “al di fuori di ogni partito” che venimmo invitati a dare in diverse adunanze di agenti, impiegati, artigiani, ecc. spiegazioni più dettagliate. Ben volentieri noi accettammo l’invito e presenziammo a parecchie adunanze». … «Così si poté addivenire (fatto nuovo nel Trentino e forse anche in Italia) ad un accordo fra classi, intellettuali e non intellettuali, fra produttori e consumatori, ma tutti lavoratori, al di fuori ed al di sopra di partiti. Il Trentino potrebbe essere fiero di aver dato questo magnifico esempio di serietà e di intuizione dell’avvenire». Questo brano di genesi è ancora più interessante. Notate: sparsasi la fama che il profeta era intransigente e non voleva trattare con partiti, alcuni amici si recarono da lui e gli dissero: Maestro, quand’è così, siano anche pronti, per quanto impuri, non essendo contadini, ad appoggiare la vostra lista, cioè quella indipendente del «partito dei contadini». Era chiaro, pigliarli in parola ed impegnarli a votare la lista pura dei contadini. Che doveva fare allora il Bosetti? Ma no, Bosetti, con sommo stupore dei generosi interlocutori, ringrazia e rifiuta. Può fare la lista pura coll’appoggio anche dei «non contadini», e invece insegna loro che si potrebbe fare una lista mista, con candidati anche degli agenti, dei maestri, degl’impiegati ecc. I compaciscenti, a questa offerta evidentemente disinteressata, non credono ai loro orecchi, accettano subito ed incaricano anzi il Maestro come pratico di simili cose di estendere anche il programma del blocco, o come si chiamerà poi, dell’alleanza economica . E così si addivenne al grande fatto nuovo non solo per il Trentino, ma per tutta l’Italia, che i partiti politici cioè sono scomparsi e non rimangono che le associazioni economiche, le quali «vogliono un parlamento tecnico e gridano: abbasso la ciarlateneria dei dilettanti politici». («Contadino» num. citato, I. pag., II. col.). E il Trentino «va fiero di questo magnifico esempio di serietà e d’intuizione dell’avvenire». Fase III., ossia la catastrofe: giacché, dopo la scomparsa dei partiti, scompaiono anche le associazioni sindacali e compare in loro vece la «volontà del popolo», rappresentata da 11 persone. Il programma, abbozzato da Bosetti parla, come abbiamo riferito altra volta, di «organizzazioni, corporazioni e singoli aderenti» che dichiarano ecc. L’autore aveva scritto così, ma quando si trattò di firmare, si rivelò che nessuno era autorizzato a firmare né per l’associazione agenti, né per la federazione pubblico impiego né per l’Unione magistrale, né per qualsiasi altro sindacato. L’intesa sindacale o l’alleanza economica era quindi mancata. Senonché Bosetti sa trarsi d’impaccio in simili frangenti, ed ecco come conclude: «In questa intesa sindacale non agimmo personalmente; ebbimo il consenso del Direttorio del Partito (ma Bosetti, Bosetti! Se i partiti non c’entrano! n.d.r.) non solo ma anche quello di numerosi fiduciari e gruppi da noi interrogati. Il nostro agire è stato correttissimo e siamo sicuri del plauso e dell’adesione completa di tutti. È una delle solite falsità brigantesche, quella del N. Trentino l’affermare che Bosetti “tradisce il partito dei Contadini in mano dei socialisti riformisti”. IL BLOCCO CHE SI STA COSTITUENDO È BLOCCO DI CLASSI NON DI PARTITI! Chi asserisce il contrario mente ed è in mala fede. Questa è voce è volontà di popolo che noi abbiamo raccolta e che ripetiamo come eco fedele. La prova è data dal seguente manifestino volante distribuito ad amici e coscienzienti e regolarmente firmato da persone che per la loro rettitudine, per il lavoro dato alle organizzazioni di cui fanno parte per la serietà e fede di cui hanno dato prova in ogni occasione, sono superiori a qualsiasi attacco». E continua enfaticamente: «Segue come prova il programma dettato dal capo pasticciere, colla firma personale degli 11 signori, citati altra volta, dei quali nessuno rappresenta un’organizzazione, ma tutti o quasi appartengono al partito socialista riformista». E in coda si eleva l’apostrofe finale «Contadini liberi ed indipendenti, tendete sorridenti la mano alle altre classi che lavorano». Sorridenti? Ci par poco. Ridere dovrebbero addirittura, non sorridere. Ridere di questi saltimbanchi della politica, di codesti pasticcioni senza scrupoli. Ridere di questi partiti che si camuffano e di questi sindacati che hanno un programma, ma non esistono. Ridere a larga bocca, ridere a crepapelle di queste attitudini acrobatiche in chi si prepara ad un parlamento tecnico. Contadini, fate un viso sorridente! Il partito dei contadini è scomparso, il partito socialriformista è scomparso, i sindacati non esistono. Che resta? Vi resta Lui che «ha conoscenza di simili cose»! |
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| Dal congresso delle «forze liberali-democratiche», come si è convenuto di chiamarle, chiusosi a Roma ier l’altro, molti giornali si ripromettono la formulazione di un grande partito che riunendo sulla base di un unico programma le varie frazioni e fazioni liberali, conferisca alle stesse unità d’indirizzo e disciplina d’azione. Il prossimo avvenire dimostrerà quanta verità oppure quante illusioni contengano gli inni profetici acclamati al nuovo Ercole che torna a vagire sotto i veli promettenti della vecchia culla rabberciata. Noi, che abbiamo sempre preferito aver di fronte partiti ben definiti e programmi precisi, non ci dorremo se le correnti divaganti della borghesia liberale, alimentata finora da programmi equivoci e da ambiziosi personalismi, si sapranno incanalare decisamente verso una meta stabile e sicura. Potremo trovare nel nuovo partito una tale collaborazione per tradurre in atto quei punti del programma nostro che coincidono con postulati determinati del programma liberale democratico; e dove lo spirito e l’atteggiamento ideale dello stesso si troverà in opposizione allo spirito nostro, tanto più aperta e leale sarà la lotta. Il congresso, a dir vero, non ha dimostrato – lo confessano i giornali amici – nessuna profondità di idee nuove né alcuna salda preparazione a creare una compagine sicura di partito. La frase nazionalista copriva ripetutamente il moto dei concetti; e la evidente preoccupazione elettorale, nell’imminenza della battaglia delle urne, non è stata certo propizia ad un’analisi spregiudicata della situazione reale e ad una aperta dichiarazione delle nuove finalità politiche che il partito si propone. S’aggiungeva la difficoltà insormontabile di conciliare, entro le linee ancora incerte di una discussione programmatica, forze e indirizzi per natura e per consuetudine tra sé contrastanti, e di mettere d’accordo conservatori e fascisti, agrari e nazionalisti, democratici puri con non meno puri liberali. I quindici punti dell’ordine del giorno, votato all’unanimità, in cui sono tracciate le linee essenziali del programma liberale democratico, risentono necessariamente dell’ambiente incerto e discorde da cui sono scaturiti; e nella loro vaghezza e imprecisione, lasciano intendere troppe più cose di quelle che dicono in realtà, e ammettono interpretazioni tali da accontentare i gusti più opposti e diversi. Ma conviene tuttavia notare con sodisfazione che il partito liberale democratico (la denominazione fu accettata non senza molte e fondate opposizioni), nel suo sforzo di adattarsi, a modo suo, alle necessità politiche dei tempi nuovi, ha fatto sue alcune delle idee di riforme che ormai dominano col loro spirito tutta la vita italiana, ed ha assunto per questo riguardo un indirizzo, che se sarà mantenuto con lealtà e con fede, potrà dare buon frutto. Ha accettato per esempio, quantunque con qualche riserva e non certo con la energia di convinzione con cui l’ha posto, per primo, sulla sua bandiera il partito popolare, il concetto del decentramento organico dell’attività statale; e chi ricorda come il liberalismo passato abbia sempre rafforzato e difeso il centralismo statale nella forma più assoluta, non potrà disconoscere il progresso che anche i liberali hanno fatto su questo campo. Sta il fatto la parola «decentramento» lanciata dal partito popolare nella discussione politica non come una semplice frase di effetto, ma come l’esponente di una visione amministrativa profondamente radicata nella necessità storica e sociale, ha oggi scosso tutte le classi della nazione; e ignorarla e disconoscerla non è più permesso nemmeno ai liberali se pur vogliono vivere la realtà politica dell’oggi. Vedremo poi con quali metodi e con quale estensione i liberali democraticizzati daranno opera ad effettuare l’aspirazione del decentramento, e fino a qual punto l’assolutismo statale da essi sostenuto in tempo non lontano permetterà loro di procedere. Un altro punto di cui possiamo compiacerci che sia stato incluso nel programma del nuovo partito è quello che riguarda la difesa della famiglia. Ma poiché è ardente ancora la questione del divorzio proposto recentemente al parlamento, e nel congresso non mancavano gli elementi settari e massonici di solito non alieni da velleità divorzistiche, avremmo voluto veder precisato l’atteggiamento del partito con una dichiarazione meno vaga; e avremmo voluto sapere come i liberali intendano, nell’attività legislativa e politica, difendere, sul serio, la famiglia. Così il punto 13 che reclama la educazione della gioventù e la prevenzione della delinquenza minorile, contiene un postulato che in sostanza è accettato da tutti i partiti; ma quando si tratta di passare dalla vaghezza di una enunciazione generica alla definizione dei provvedimenti da adottare e dei metodi da seguire, allora ogni partito ha un proprio metodo e una propria tendenza particolare che sta perfino in contrasto con quella degli altri partiti. L’educazione liberale è cosa nota; ad essa si deve forse se l’Italia è oggi nelle condizioni morali e sociali che gli stessi liberali democratici trovano intollerabili. Occorreva quindi essere più espliciti e più precisi, anche a costo di perdere l’unanimità e di mescolare all’applauso qualche grido di protesta Il concetto dell’educazione della gioventù richiama, direttamente e indirettamente, la questione scolastica e i grandiosi progetti di riforme che ad essa si riferiscono. La questione scolastica sia oggi nel centro della discussione politica. Le elezioni imminenti devono prendere posizione di fronte ad essa. La stessa relazione di Giolitti, nell’occasione dello scioglimento della Camera, ha prospettato il problema della scuola e della libertà d’insegnamento come uno dei punti capitali sui quali la volontà degli elettori e dei partiti deve esprimersi con tutta chiarezza. Ebbene, di fronte a tale problema vitale, che implica il rinnovamento morale e culturale della nazione, il congresso nazionale delle forze liberalidemocratiche ha mantenuto il silenzio. Il partito che intende arrogare a sé il privilegio della cultura e della preparazione intellettuale non ha saputo e non ha voluto stabilire la propria posizione davanti al rinnovamento delle basi fondamentali della scuola italiana. Mentre la libertà d’insegnamento è reclamata o combattuta dai partiti e dalle sette, a seconda dei propri principi e orientamenti, e la questione pervade le masse con potenza travolgente, i liberali-democratici rimangono deliberatamente agnostici. Qui ci troviamo evidentemente davanti all’equivoco. Equivoco voluto e combinato per non rivelare la discordia interna delle varie correnti del partito e per riservarsi mano libera per il tempo, quando, passata la bufera elettorale, anche la divisione del partito, secondo le tendenze e le dottrine, potrà destare minor rumore. In vista delle urne, l’argomento è parso troppo scottante . Tra i liberali, si sa, le correnti favorevoli alla libertà d’insegnamento, non sono forti. E nel congresso non mancarono, e non tacquero, gli elementi massonici i quali alla libertà della scuola professano un odio irriducibile. Il monopolio statale della cultura aveva senza dubbio tra i congressisti numerosi e accaniti assertori. Ma i liberali democratici si sono sbagliati se credono di poter fare le elezioni senza uscire dal loro equivoco silenzio gravido di insidie e di inganni. Il popolo deve sapere se i deputati di codesto partito andranno al parlamento per favorire o per osteggiare la scuola libera. Deve sapere se voteranno per la libertà o per la massoneria. È scabrosa una dichiarazione? Lo comprendiamo. Ma bisogna farla! I liberali democratici, posti davanti alla questione scolastica, si trovano press’a poco nella stessa angosciosa situazione in cui si trovano i loro confratelli trentini di fronte alla questione dell’insegnamento religioso. Invitati a dichiararsi o favorevoli o contrari alle disposizioni ora vigenti in materia, eccitati a precisare se vogliono la scuola laica o la scuola cristiana, i liberali democratici trentini si sono chiusi nel più assoluto silenzio. Ma gli elettori comprendono quale insidia si nasconda in tale ambiguo silenzio. E sapranno strappare ai taciturni la dichiarazione che permetta di conoscerne il proposito e il colore. |
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| Oggi viene presentata al commissariato generale la lista del partito popolare italiano, per la circoscrizione di Trento. È questo il momento di dare quindi alcune notizie intorno alla designazione dei nostri candidati. La procedura per le designazioni Per la procedura si seguirono le disposizioni statutarie e le norme fissate già lo scorso anno dall’assemblea generale di tutte le sezioni trentine. In base a tali norme le singole sezioni della regione vennero invitate a mandare per iscritto le loro proposte alla direzione regionale. Questa sottopose le proposte alla discussione e alle deliberazioni della commissione elettorale che, a norma del regolamento, si compone dei membri della direzione regionale, di un delegato delle sezioni per ogni distretto giudiziario, di quattro fiduciari designati dall’Unione del lavoro e di due delegati del gruppo pubblici funzionari e addetti ai servizi pubblici, aderenti al partito popolare. La lista compilata da tale commissione venne poi, come descrive lo statuto, comunicata alla Direzione centrale che l’approvò telegraficamente. La commissione, che già s’era radunata altra volta in autunno, tenne la sua seduta decisiva il giorno 12 aprile. La trattativa aperta alle 10 della mattina si chiuse alle 17 del pomeriggio. Erano presenti i membri di Direzione: senatore avv. Enrico Conci, on. Mons. Guido de Gentili, on. D.r Alcide Degasperi, on. prof. Giovanni Ciccolini, on. Severino Cristel, Isidoro Rossi, C. Turri, prof. Enrico Tamanini, Oreste Cadonna, D.r Valentino Toffol, D.r Luigi Carbonari, Cristoforo Broito, e i delegati Virginio Parolari (Tione), Giacomo Radoani (Condino), Antonio Giovanazzi (Riva), Professore Emanuele Dalponte (Stenico), Giacomo Bortolotti (Vezzano), Cornelio Mattedi (distretto rurale di Trento), Luigi Barronchelli (Pergine), Francesco Simoncelli (distr. di Rovereto), Mansueto Adami (Villa Lagarina), Giuseppe Comandela (Mori), Innocenzo Fracchetti (Ala), Guido Dellantonio (Cavalese), prof. Grossi (Vigo Fassa), Vittorino Toffol (Primiero), C. Gadotti (Civezzano), Costante Lucchi (Mezolombardo), Beniamino Cesconi (Lavis), Luigi Springhetti (Cles), prof. A. Molignoni (Malè), Adolfo Libardoni (Levico), Antonio Spagolla (Borgo Valsugana), Luigi Tiso (Strigno), Guido Kettmaier (Trento), Giancarlo Tagliaferro (Rovereto), Virgilio Osele (Altopiano di Lavarone), Bottura (Ravina), ing. sup. Tib. Tonini (Trento). Scusato telegraficamente il delegato del distretto di Fondo. Presiede il senatore Conci. Venne prima data lettura della circolare della Direzione centrale che stabilisce alcune norme per la fissazione delle candidature e poi vennero comunicate le designazioni fatte per iscritto dalle singole sezioni. Premessa la decisione che uno dei posti della lista dovrebbe riservarsi fino all’ultimo momento ad un rappresentante dell’ampezzano e delle valli ladine, si aprì la discussione sulle designazioni delle sezioni, le quali si riferivano a 19 nomi. Prima di comunicare le conclusioni del lungo ed animato dibattito, ricaviamo dal verbale dell’adunanza i seguenti rilievi: Omaggio a Mons. Gentili Il segretario constata che quasi tutte le sezioni (e alcune poche tralasciarono di farlo, solo perché preavvertirono gli ostacoli che vi si oppongono) designarono in prima linea il nome del deputato uscente on. Mons. Guido de Gentili, prova della profonda fiducia che al benemerito campione del partito popolare conserva l’intiero paese. Non c’è bisogno di rilevare, aggiunge il relatore on. Degasperi, quanto generale e quanto sentito sia il desiderio degli amici di rivedere Mons. Gentili alla testa della deputazione che dovrà rappresentare a Roma, in momenti così gravi, gl’interessi del Trentino. Se ci fosse ancora un filo di speranza che la cosa sia possibile noi siamo qui a riaffermare che alla sua brillante, energica e fattiva attività parlamentare non vorremmo rinunciare a qualsiasi costo e a deplorare vivissimamente che una retrograda ed ingiusta disposizione di legge frapponga alla nostra aspirazione ostacoli così gravi. Sarà compito della futura deputazione delle Nuove Provincie di chiedere l’abolizione di quegli articoli di legge che colpiscono d’incompatibilità o ineleggibilità classi oltremodo benemerite di cittadini. A questo punto l’assemblea fa una grande ovazione a Mons. Gentili e parecchi dei presenti prendono la parola per insistere sulla sua candidatura. Ma Mons. Gentili, alzatosi commosso, tronca il dibattito con una dichiarazione, in cui dice: Gli amici sanno che se negli anni passati accettai ripetutamente le candidature offertemi, lo feci soltanto, perché essi credevano necessaria la mia collaborazione al partito ancor giovine e bisognoso di tute le forze di cui potesse in qualche modo approfittare. Essi sanno ancora che già prima del termine della guerra manifestai ai colleghi del parlamento il proposito di ritirarmi dalla parte fino allora rappresentata nella vita politica. Tuttavia non nascondo che le loro insistenze mi sono care, e ne rendo loro la più viva riconoscenza, perché vedo in esse l’approvazione di quel tanto, che insieme cogli altri colleghi potei prestare a vantaggio della nostra regione e di quell’indirizzo, che fu guida e meta costante di un’opera bene spesso faticosa e contrastata. Gli ecclesiastici esclusi dal diritto di elezione Del resto – egli continua – devo notare che anche altri ostacoli si oppongono al desiderio degli amici. È noto che la candidatura degli ecclesiastici in Italia dipende dal consenso della Santa Sede, e quando questa, interrogata, non credesse opportuno concederlo, la sua decisione non troverebbe in me che un sentimento di disciplina e d’omaggio. Ma non è noto invece che tale questione, nel caso mio e di molti altri sacerdoti, è risolta previamente e in radice dalla legge elettorale vigente, la quale dispone che ecclesiastici aventi obbligo di residenza, o ch’esercitino la cura d’anime o appartengano ai capitoli delle cattedrali, sono ineleggibili; e tale disposizione, nonché tolta o mitigata, fu rincrudita nella recente riforma che riportò i voti della Camera dei deputati, ma non fu pertrattata dal Senato, e non poté quindi acquistare forza di legge. Contro il privilegio odioso che non si riscontra nemmeno nella Repubblica francese, e che priva di uno dei principali diritti chi paga allo Stato le imposte come tutti i cittadini, e all’occorrenza deve pagargli anche il tributo del sangue, egli esprime una recisa protesta, augurando che in tempi più sereni e equanimi vengano cancellate queste reliquie di passioni partigiane spinte a deplorevoli eccessi. L’on. Conci ha anch’egli calde parole per ricordare l’opera tenace e benemerita di Mons. Gentili, augurandosi che, benché fuori del Parlamento, egli possa dedicare parte della sua molteplice attività alle sorti del partito, agli interessi pubblici del paese. A questo voto tutta l’assemblea si associa con acclamazioni. La candidatura dell’on. Degasperi e Grandi Si passa poi alla trattazione della candidatura degli altri due ex deputati, designati come candidati dalle sezioni, cioè gli on. Degasperi e Grandi . La ripresentazione di entrambi viene deliberata ad unanimità. Alla candidatura dell’on. Degasperi la commissione dà anche il significato di riconoscimento dell’opera indefessa, da lui svolta in questi due anni come segretario politico, e di tale riconoscimento si fanno interpreti il sen. Conci e il prof. Molignoni. Circa l’on. Grandi, il sen. Conci dovette purtroppo riferire che in una lettera a lui diretta egli aveva previamente dichiarato di non accettare una eventuale candidatura che gli venisse offerta. La commissione decise ad unanimità di fare nuove insistenze. A questo punto possiamo intercalare che, delegati dalla riunione, si recarono a Cles ancora in giornata gli on. Gentili e Ciccolini e che sabato scorso una trentina di delegati delle sezioni anaunesolandre, raccolti a Cles unirono le loro premure ai delegati della direzione Degasperi, Ciccolini e Molignoni. Finalmente lunedì scorso l’on. Grandi inviava la sua ambita accettazione colle seguenti parole: «Considerazioni gravi di ordine superiore unite alle forti pressioni degli amici, alle vive insistenze degli elettori e a simpatiche dimostrazioni di avversari mi costringono ad abbandonare il proposito di ritirarmi dalla vita politica e ad accettare l’offertami candidatura». Così è conservato alla nostra lista il nome di uno dei più abili e più apprezzati membri della cessata deputazione trentina. Gli altri candidati Degli altri candidati diremo brevemente che la commissione si affermò a votazione per scheda sul nome del dottor Luigi Carbonari , noto propagandista delle leghe dei contadini e delle cooperative di lavoro. I rappresentanti dei contadini presenti, dichiararono che, data l’inopportunità in questa votazione in cui sono in giuoco sovratutto gl’interessi globali della regione di suddividere le candidature in rappresentanze di categorie o di vecchi collegi locali, essi vedevano tra le candidature con particolare soddisfazione quella del dottor Carbonari, attivissimo organizzatore della loro classe e interprete fedele dei loro interessi. Il nome del prof. Enrico Tamanini venne caldeggiato specialmente dai rappresentanti di Rovereto e della Val Lagarina. Non occorre rilevare che la commissione, conoscendo già da tempo l’attività illuminata e instancabile dell’egregio professore, aderì di buon cuore a tali voti. Pietro Romani , proposto dalle sezioni di Borgo Valsugana, sua patria, e di Trento, è un giovane commerciante ed industriale che si raccomandava specie per le sue cognizione tecniche e per la sua eminente preparazione a rappresentare in particolare gl’interessi del nostro sviluppo commerciale e industriale. Studiò le commerciali a Trento, la scuola superiore di esportazione a Vienna e l’università di Ginevra, durante il quale periodo fu presidente della nostra associazione cattolica universitaria. Benché presiedesse in un periodo burrascoso alla amministrazione del proprio Comune e fosse consigliere della Banca Industriale, non avendo partecipato finora alla vita politica, egli non ebbe occasione di presentarsi ancora alla massa elettorale, ma la commissione tenne conto sovratutto delle sue particolari doti che lo rendono atto ad esercitare una preziosa funzione entro la deputazione trentina. Il dottor Valentino Toffol , già deputato alla Dieta, non ha bisogno di presentazioni. In varie cariche di fiducia, egli s’occupò con successo d’interessi pubblici e delle nostre associazioni economiche; nella direzione del partito fu sempre utilissimo collaboratore. Uomo di grandi cognizioni burocratiche e amministrative, non solo egli rappresenta nella lista gl’interessi degli addetti ai servizi pubblici, ma la commissione si affermò sovratutto su di lui, perché egli parve la persona più atta a propugnare tecnicamente quella parte del nostro programma che riguarda la riforma burocratica ed amministrativa, in nesso col decentramento statale e colle nostre autonomie. Accettando, tanto il Toffol come il Tamanini, hanno dato prova di grande spirito di sacrificio. Anche l’ing. architetto Guido Ferrazza non è «homo novus» per i lettori del nostro giornale. La commissione mettendolo in lista non ha semplicemente soddisfatto ad un legittimo desiderio delle Giudicarie, sua patria, ma ha contato sul suo concorso personale specie per quello che riguarda i problemi di ricostruzione, dei quali si occupa attivamente ed in genere lo sviluppo tecnico del nostro paese. La lista popolare A questo punto è doveroso aggiungere che la riunione del 12 c. m. aveva stabilito che al posto di uno dei candidati designati avesse a subentrare un ampezzano o ladino, qualora in questo frattempo dai consenzienti di colà venisse fatta adeguata e conveniente designazione. Avendovi essi rinunziato, la lista che oggi verrà presentata suona: Degasperi, Grandi, Carbonari, Tamanini, Romani, Toffol, Ferrazza. La commissione ha inoltre deciso di raccomandare ai propri consenzienti la lista pura e semplice e di usare delle preferenze solo nella misura e in quanto verrà indicato a suo tempo da un apposito comitato che riuscì composto dei signori: sen. Conci, Mons. Gentili, prof. Ciccolini, Cadonna, Broilo, Turri . La riunione si chiuse con un vigoroso appello rivolto ai fiduciari dal sen. Conci e dal segretario politico, perché il partito si presenti compatto alla battaglia elettorale e la combatta con tutto il vigore. Sono in giuoco gl’interessi morali e materiali e supremi della nostra regione e giammai elezione ebbe tale importanza come questa che deve portare per la prima volta i nostri rappresentanti al Parlamento nazionale. Questa sera, come abbiamo già annunziato, seguirà in un’adunanza di elettori trentini, la presentazione dei candidati. |
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| […] L’on. Conci cede quindi la parola all’on. De Gasperi, segretario politico del partito popolare, il quale con tratti recisi e sicuri traccia le linee fondamentali della lotta imminente. Egli dice: La nostra lista si presenta col programma del Partito popolare italiano, programma che da noi e da altri meglio di noi venne spiegato e difeso in ogni paese della regione, (in questa lunga attesa delle elezioni). Non farò quindi un discorso, un’esposizione, ma per incarico dei miei colleghi, fisserò brevemente alcuni punti, su cui la battaglia elettorale deve impegnarsi. Noi affermiamo anzitutto che l’incarico che gli elettori delle Nuove Provincie affidano ai loro deputati è un incarico speciale, nettamente distinto da quello delle altre regioni. Introdurre quindi sul terreno della nostra lotta concetti e direttive politiche, copiate pappagallescamente da altre provincie, è fare opera di vana retorica. Non abbiamo bisogno di pappagalli; abbiamo bisogno di gente che, avendo conosciuto il nostro paese, nel momento in cui gli è crollata addosso l’impalcatura secolare che ne reggeva l’amministrazione, la vita sociale ed economica, e avendo attraversato con noi tutte le faticose vicende del regime provvisorio hanno un’idea chiara ed una sensazione precisa di quello che dev’essere in questo momento il programma della ricostruzione politico-amministrativa trentina. La dieta regionale Ecco in questo campo, quello che noi vogliamo: anzitutto la Dieta regionale, un corpo cioè elettivo, a base del suffragio eguale e dello scrutinio di lista colla proporzionale che abbia almeno le competenze amministrative e legislative della cessata Dieta. Alle elezioni dietali noi vorremmo arrivare subito, nei prossimi mesi. Bisogna fare un grande sforzo perché Governo e Parlamento si occupino di noi e della nostra questione autonomistica; a questo sforzo dovrebbero contribuire tutti gli uomini seri che comprendono il momento che attraversiamo. È la questione centrale, la chiave di volta della nostra situazione politica. La Dieta può fare le riforme agrarie che vogliamo, la Dieta può regolare e sfruttare l’unica nostra grande ricchezza, le forze idrauliche, la Dieta può regolamentare e istituire la rappresentanza organica e giuridica delle classi (ricordate la legge sull’organizzazione professionale dei contadini e il progetto della Camera del lavoro nella proposta autonomistica dei socialisti alto-atesini), la Dieta, organizzando l’amministrazione scolastica nei suoi vari corpi di controllo (consigli scolastici) influisce decisamente sull’indirizzo della scuola, la Dieta sovratutto diventa la forza non codificata ma vivente del nostro sano e vigoroso regionalismo, che vuole tagliare le teste all’idra burocratica, e rizzare un baluardo per mantenere integra la morale della vita amministrativa e politica. «Libertas» La Dieta sarà la gelosa tutrice della libertà amministrativa dei nostri comuni. I nostri comuni devono rinnovarsi dalle fondamenta, rinnovarsi col suffragio democratico, e rimettere il verde all’albero della loro autonomia; anche per loro vale il motto del nostro scudo crociato «Libertas». La Dieta infine sarà il corpo consultivo, in cui saranno rappresentati tutti gl’interessi della regione, la quale dirà al Governo e al Parlamento centrale quali leggi vigenti dovranno venir mantenute, quali temperate, quali sostituite. Sul terreno degli ordinamenti amministrativi e giuridici, nel campo della legislazione industriale, commerciale e forestale, sul terreno degli ordinamenti scolastici molto è da mantenere cogli opportuni adattamenti, nulla è da mutare senza previa ponderazione. La Dieta sarà là per dare il suo giudizio. Le relazioni coi tedeschi Ma a questo punto voi chiederete: Come vi regolerete coi tedeschi? I tedeschi sono più di un terzo della regione. Con loro bisogna trattare, con loro bisogna giungere ad un compromesso. Noi siamo disposti a farlo col massimo spirito di equità e di moderazione. Essi devono però persuadersi che l’autonomia non è per loro un’implicita e logica conseguenza del trattato di S. Germano, ma è, come per noi, una conquista che dobbiamo strappare al sistema centralista. Assicurato l’istituto dell’autonomia regionale, vedremo come esercitarlo. Mi parrebbe superfluo fissarsi oggi in un progetto particolareggiato e articolalo. Ammettiamo in principio che i tedeschi sul terreno delle autonomie locali possano avere un’amministrazione circoscritta al loro territorio nazionale (vedi dichiarazioni dei partiti trentini estate 1920), esigiamo però che nessuna concessione possa riuscire di premio a chi protesta e di svantaggio morale, economico e finanziario a chi il nuovo regime ha invocato o accettato con fiducia. In Austria siamo stati trattati, in confronto ai tedeschi, come cittadini di secondo ordine, in Italia noi chiediamo non che si capovolga la situazione di privilegio in nostro favore, ma che per tutti venga attuata la parità di diritto. A queste nostre richieste le quali hanno assicurato oramai l’appoggio di tutto il partilo popolare italiano, la stampa bolzanina risponde oggi con sdegno e con iattanza. Essa ci ha rizzato contro una muraglia cinese nell’«Autonomistenpartei» (contrassegno l’Edelweiss col motto: Südtirol) muraglia che dovrebbe dividere la Venezia Tridentina in due zone: a Nord le autonomie locali garantite come entro una piazza chiusa, chiamata Südtirol, a sud l’uniformità di un’amministrazione e legislazione centralista. È una costruzione assurda artificiale, che crollerà come un castello di carta, appena i deputati tedeschi entreranno in Parlamento e vorranno trattare sul serio per l’assetto definitivo della regione. La Ladinia Essi lo sanno, ma hanno immaginato la muraglia per attirarvi entro la sua cerchia la Ladinia o meglio quella zona che pure essendo abitata da una razza romana, per il lungo dominio politico dei tedeschi è ancora spiritualmente sotto la loro influenza. Noi gridiamo invece ai fratelli italo-ladini questa parola di verità: non lasciatevi trascinare a nuove manifestazioni di protesta. Ora siete in Italia. Cercate di conciliarvi col nuovo regime. La votazione del 15 maggio è per voi un ponte di ricongiungimento. Non vi chiediamo né un voto per Trento né un voto contro Bolzano. La questione della provincia si deciderà poi. Ora affermatevi per la ragionevole difesa dei vostri interessi: noi c’impegniamo a difendere la vostra posizione linguistica particolare, noi domanderemo che il Governo istituisca nelle vostre valli speciali organi politici amministrativi, che curino i vostri interessi locali e adattino l’amministrazione alla fisionomia speciale della vostra zona. Questa parola di verità vi diciamo, benché ci sia noto che non potrà dappertutto giungere agli orecchi di chi deve accoglierla. Non in quindici giorni si può abbattere un castello di pregiudizi e di risentimenti accumulati da secoli. Ma noi abbiamo fede nella forza della verità e nel risvegliarsi della voce del sangue. I partiti e le fazioni trentine Certo che saremo stati meno impari alla nostra missione, se anche questa volta nel Trentino e specie nella sua capitale non si svolgesse la solita gara piccina di cricche e di fazioni. A Bolzano i liberali si accordano coi conservatori e popolari, accedendo anche al programma di difesa religiosa di questi ultimi, pur di combattere uniti. Noi non siamo amici dei blocchi, ma la proporzionale permette che lo stesso scopo della concentrazione degli sforzi verso una meta comune venga raggiunto anche agendo su linee parallele. A Trento invece tutto è divergente. I liberali democratici, che hanno nel loro seno uomini d’indubbio valore e che potrebbero rendere al paese utili servizi barcamenandosi fra la destra e la sinistra, facendo talvolta l’occhiolino all’anticlericalismo, e poi ritraendosi, non pronunciandosi con assoluta chiarezza sui problemi vitali, come l’autonomia e la scuola, hanno dato occasione al cristallizzarsi di un blocchetto che è l’irrisione di ogni dignità politica. Uomini che vogliono il collettivismo socialista danno il braccio a chi lo combatte ferocemente in nome della piccola proprietà, rappresentanti «puri e intransigenti» della classe contadina si accodano ai rappresentanti dei signori, e su questa terra semidistrutta, su questo paese che bisogna ricostruire non solo nelle case e nei campi, ma anche nelle istituzioni, ma anche negli animi, perché sovra tutto e sopra tutti sono passate le commozioni di una tremenda burrasca, balzano su non dei ricostruttori, non dei riconciliatori, ma dei purissimi che erigendosi a giudici inesorabili di un passato che gli storici potranno discutere, ma i contemporanei difficilmente sanno valutare, chiedono al paese la deputazione non come un mandato cioè come un incarico di fare, ma come un premio per la loro immacolata concezione, la loro impeccabilità politica. Di fronte a quale spettacolo noi diciamo ai trentini: in alto i cuori e occhio all’avvenire! Incomincia una vita nuova ed un’epoca della storia si è chiusa definitivamente. Le vecchie provincie guardano a noi come a coloro che anche nella vita politica sapranno portare chiarezza di vedute, serietà di metodi, dignità del costume. Non svalutiamo questa estimazione, non deludiamo questa speranza. Difendiamo con tutte le forze la bontà delle nostre tradizioni, battiamoci con fierezza, con indipendenza di metodi e di mezzi. Respingiamo le attuali forme degenerative della vita politica italiana. Né bolscevismo, né dittatura, né bombe, né spedizioni punitive: vogliamo l’ordine e la libertà per tutti, garantita dalle leggi. Il veleno massonico Reagiamo sovratutto contro il veleno massonico. La Massoneria agisce oramai anche a Trento; vi tiene una Loggia, coi suoi bravi grembiuli e coi suoi rispettivi triangoli, spedisce circolari per fare adepti; alcuni ha già irretito, e sovratutto spende danari, inquina e corrompe. Il sangue trentino deve reagire, reagirà ma bisogna riscuotere tutti, fino che siamo ancora in tempo. Noi credenti, abbiamo da salvare dai suoi attacchi qualche cosa di più ancora che la morale pubblica, abbiamo da salvare l’insegnamento religioso nella scuola. Dei liberali chi non lo combatte, non lo difende, del blocchetto quasi tutti i connubbiardi si accordano per gridare: fuori il prete dalla scuola; grido che fu predicato già alle turbe del partito socialista. «Noi vogliam Dio» A questo grido noi risponderemo in coro di migliaia di voci col nostro trionfale: Noi vogliam Dio! I futuri deputati delle Nuove Provincie decideranno se l’insegnamento religioso nelle scuole, come oggi è, debba venir mantenuto. Decideranno dunque gli elettori. La decisione quindi è grave, è imminente, dipende dal voto. A voi persuadere in questi pochi giorni che ci rimangono tutti i nostri 100 mila elettori che lo starsene da parte sarebbe da vili, che il non votare sarebbe tradire la causa delle future generazioni, che il perdere sarebbe una tremenda iattura. Amici! Io ho toccato solo alcune considerazioni generali. Non poteva essere mio proposito di esporvi i singoli postulati del nostro programma, come sono noti oramai dalle nostre assemblee regionali; alcuni punti del resto vi verranno ricordati dai miei colleghi; né potevo questa sera ripetere l’esposizione del programma nazionale del P.P.I., che fu fatto su questo stesso podio dal suo più illustre propagatore. Una dichiarazione vorrei però aggiungere ancora a nome di tutti loro; noi tutti sentiamo la nostra insufficienza innanzi al mandato a cui veniamo proposti. Più di voi sentiamo quindi il vuoto che lasciano nella nostra lista i deputati uscenti, specie gli on. Conci e Gentili. A loro il nostro riconoscente saluto, a loro la preghiera che ci siano larghi di consiglio e di collaborazione. Alle urne! Amici, compagni d’arme, giovani specialmente, che fremete d’entusiasmo, noi vi chiamiamo alla lotta, al sacrificio! Noi ci battiamo per il nostro focolare, noi ci battiamo perché il nostro Trentino cattolico sia tramandato integro anche entro la compagine nazionale, noi ci battiamo perché questo pezzo della nuova Italia rimanga degno delle grandi tradizioni della nazione. Che il 15 maggio, festa della Democrazia e dei nostri entusiasmi giovanili, ci sia propizio. In moltissimi punti il discorso dell’on. Degaseperi è accolto da grandi applausi: gli accenni alle questioni della Dieta e dell’autonomia, alla lotta per la scuola, all’intrufolamento massonico nel Trentino trovano consensi unanimi e calorosi. Dopo che l’on. Degasperi ha toccato i punti fondamentali del programma, gli altri candidati presenti enunciano il loro atteggiamento e i loro propositi intorno a determinate questioni che interessano per la loro gravità in modo diretto la vita e la ricostruzione del paese. |
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| Abbiamo condannate le violenze di Bolzano per debito di giustizia e per obbligo di onestà. Simili attentati sarebbero riprovevoli e condannabili, anche se dovessero avere, politicamente parlando, un effetto buono. Ma, a parte che in nessun caso la violenza porta seco gli effetti durevolmente e sostanzialmente benefici, nel caso concreto di Bolzano, è particolarmente intuitivo che le bombe e le revolverate costituiscono anche un gravissimo errore politico. I capi politici dei tedeschi altoatesini sfruttano subito questo errore, ed eccoli a proclamare in un ordine del giorno, votato da 7 mila persone, che «l’assalto delittuoso copre di onta incancellabile … l’intera nazione italiana», ed eccoli a giurare che la «popolazione del Südtirol… farà in modo che il mondo intero sappia in quale infame maniera viene calpestato il più elementare diritto di un popolo, il diritto di vivere». Queste parole contengono una grave ingiuria, lanciata in viso a tutta la nostra nazione e costituiscono una grande menzogna storica. I bolzanini sanno quanto noi che l’atto di violenza fu opera di alcuni giovani sconsigliati, rimasti isolati in mezzo alle unanimi disapprovazioni dell’opinione pubblica, della quale si sono resi interpreti il capo del governo locale, la colonia italiana di Bolzano e tutta la stampa nazionale. Le violenze fasciste sono una malattia di guerra di cui è affetto il corpo della nazione italiana, una malattia come l’anno scorso e oggi ancora sono le violenze comuniste, un contagio di cui nessuna nazione, dopo la guerra è andata esente e meno che le altre la nazione tedesca coi suoi Spartacus, coi suoi assassini politici, colle sue insurrezioni sanguinose. Si potrà deplorare che il male non venga combattuto con una cura più energica, si potrà protestare contro la deficiente profilassi, ma coprire d’onta e d’obbrobrio l’ammalato è ingiusto, è sleale, è disonesto. Comprendiamo che ad animi ragionevolmente risentiti per la violenza patita, debbansi concedere tutte le attenuanti del momento, ma quest’insulto lanciato contro tutta la nazione in genere, passa i limiti del tollerabile, e non si può lasciar passare senza protesta. Un’iperbole dello stesso genere è contenuta nell’altro periodo dell’ordine del giorno che citiamo qui sopra. «Il mondo intiero deve sapere come viene calpestato il diritto d’esistenza d’un popolo…». Il mondo deve dunque sapere che l’Italia reprime i tedeschi dell’Alto Adige con una politica violenta e sanguinaria, che lassù nessuno è sicuro della propria pelle, che oltre Salorno è tutta un’Irlanda, irta di baionette e chiazzata di sangue. A quale menzogna presterebbe fede il mondo, se credesse a sì audace inversione della verità! Nessuna zona degl’imperi centrali che, in causa dell’esito della guerra, venne a cadere sotto diversa dominazione, è governata con tanta mitezza, con tanta liberalità, con sì timidi riguardi come l’Alto Adige da parte dell’Italia. O volete cambiare coi tedeschi della Czeco-slovachia, coi tedeschi della Jugoslavia, coi tedeschi della Polonia, coi tedeschi dell’Alsazia-Lorena o della Renania? – No, no, il «mondo» in questo riguardo non lascerà traviare il suo giudizio complessivo da quegli sciagurati colpi di rivoltella. Altri più numerosi e più permanenti segni stanno là a provare il contrario. Ciò nonostante i politici tedeschi, come più sopra hanno generalizzata l’accusa contro l’intiera nazione italiana, così qui tenteranno di portare la vittima di Marling come simbolo del martirio collettivo, a cui viene sottoposto il popolo tedesco. Nel primo caso, chiamando responsabile la nazione italiana, si alimenta nei propri connazionali, alla vigilia delle elezioni, l’avversione e l’odio contro l’Italia che dovrà trovare la sua legale espressione nel voto del 15 maggio; nel secondo, affermando cioè l’esistenza di una politica italiana a ferro e a fuoco, si alimenta all’estero – il mondo è sovratutto l’orbe germanico – l’idea della revanche. Sfruttamento politico dunque e sul fronte interno e sul fronte esterno. È manifesto quindi che i fatti di Bolzano vanno biasimati non solo dal punto di vista morale, ma anche dal punto di vista degli elettori politici. Ma non basta. C’è un altro lato da considerare. I fattacci di Bolzano in fondo si spiegano come tutti gli altri avvenimenti consimili di altre regioni del regno. Laggiù l’azione fascista nacque in protesta contro la debolezza dello Stato; e anche a Bolzano l’intervento dei fascisti ebbe la stessa origine. Par anche a costoro che il governo cedesse troppo in confronto ai Walther e ai Nicolussi, come troppo aveva lasciato fare ai Bucco e ai Bombacci. L’identica diagnosi consigliò l’identico intervento chirurgico. Non abbiamo bisogno di ripetere che noi siamo contrari a tali operazioni, ovunque si tentino. Non intendiamo nemmeno in questo momento di esaminare se rispetto all’Alto Adige la diagnosi abbia, e fino a qual punto, un fondamento. Ma, comunque, non dovevano i fascisti temere che la reazione suscitata dal loro intervento indebolisse ancora più la forza di resistenza del governo? Il mimetismo dei metodi è un semplicismo fatale. Bucco e Bombacci potevano venir sbandati, le loro truppe demoralizzate, sì che il governo riprendesse coraggio, ma Walther e Nicolussi non sono gli esponenti di un partito, ma i fiduciari di un popolo. Il partito può, più o meno durevolmente venir abbattuto a colpi di scure, un popolo no. Il governo dovrà sempre contare con esso; dopo la provocazione anzi più di prima. Ecco perché l’effetto politico può essere disastroso anche da questo lato. Può essere… Noi non vorremmo però chiudere l’articolo senza esprimere l’augurio che ciò non sia. Non s’illuda il governo né tragga dagli avvenimenti delle conclusioni errate. L’unica cura dei nostri malanni – e tra questi, accanto agli altri, mettiamo anche la prepotenza dei tedeschi –, è quella di irrobustire e irrigidire l’autorità dello Stato. Nell’Alto Adige, come in tutto il resto d’Italia, c’è bisogno di una politica più energica e di una direttiva più conseguente e più coraggiosa. |
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| Equivoco magistrale – Massoni a Trieste e cristiani a Trento? – Equilibrismo per non rispondere – Fuori il catechismo dalla scuola! – Scuola laica di Stato – Scala e Zanfei – Un documento importante – L’azione politica di una società apolitica – Perché gli ingenui si decidano. Abbiamo rilevato altra volta lo strano silenzio dei dirigenti l’Unione magistrale trentina di fronte al settario contegno dei maestri anticlericali della Venezia Giulia, pur essi appartenenti all’Unione magistrale nazionale, nella questione dell’insegnamento religioso della scuola. Come noto, i maestri unionisti trentini, associandosi in questo punto ai colleghi della «Tommaseo», chiesero nelle passate conferenze il mantenimento dell’istruzione religiosa nel modo in cui viene ora impartita e professarono anche nella stampa il loro attaccamento alla scuola cristiana. Era naturale attendersi dunque da essi un’esplicita dichiarazione di assenso al recente decreto dell’on. Giolitti che sanzionava i loro stessi postulati sull’argomento, ed una protesta contro l’atteggiamento dei colleghi giuliani, i quali alleati con la «Giordano Bruno» e con le più fetide emanazioni della massoneria, reclamavano a gran voce la revoca di quel decreto e la laicità assoluta dell’insegnamento. La contraddizione fondamentale tra il punto di vista degli unionisti trentini e quello degli unionisti giuliani non avrebbe potuto essere più evidente. E poiché la questione dibattuta dell’insegnamento religioso non riguarda solo i maestri, ma interessa anche tutta la popolazione trentina, nessuna meraviglia che questa stessa popolazione ritenesse doverosa da parte degli unionisti una dichiarazione e riaffermasse il loro passato contegno o almeno spiegasse la ragione del mutamento. Invece essi mantennero un silenzio che di necessità doveva apparire insidioso ed equivoco. Infatti di fronte al battagliare clamoroso dell’Unione magistrale delle vecchie provincie e specialmente di fronte all’alleanza offensiva degli unionisti di Trieste, di Gorizia e dell’Istria colla setta e con tutti gli elementi avversi ad ogni insegnamento religioso, non era strana e sospetta questa taciturnità ostinata degli unionisti trentini che non sentivano nemmeno il bisogno di fare qualche riserva e di separare la loro responsabilità da quella dei loro fanatici consoci? Il rilievo, certo, era seccante. E poiché una risposta onesta non si voleva o non si poteva dare, si fece ricorso ai soliti espedienti per non … rispondere. L’onorevole Zanfei con aria offesa, al grido di «giù la maschera», invitò l’articolista a mettere fuori nome e cognome se desiderava una risposta. E il maestro Scala, presidente federale degli Unionisti, distillò sei lunghe colonne della «Scuola Redenta» (1 aprile) per affermare con un acrobatismo logico molto significativo, il suo sviscerato amore per la religione e dichiarare i modi in cui essa dovrebbe essere insegnata, non senza tuttavia lasciar intravedere la sua propensione per le norme regolamentari vigenti nel Regno «che erano state (nella Venezia Giulia) accolte con segni manifesti di generale sodisfazione». L’equivoco dunque persisteva. Ma la logica dei fatti, se non la volontà e la sincerità dei maestri, sembra che concorra a chiarire la situazione. Nella «Scuola Redenta» del 15 aprile leggiamo, a firma C. Borghesi, un trivialissimo articolo dove si travisano coscientemente le intenzioni dei cattolici circa l’insegnamento della religione, affermando che essi vogliono solo «il comando e l’intromissione», si assicura che «i preti moderni e i clericali o i pipisti valgano né più né meno dei preti e clericali ebrei che condannarono Cristo», e si arriva alla conclusione che l’istruzione religiosa deve esser data nelle chiese e nelle sacristie o negli oratori religiosi in ore libere dall’orario scolastico, mentre «la scuola deve essere lasciata alla classe magistrale senza interruzioni inopportune di catechesi». E la redazione annota che «il collega Borghesi, in fondo, … non abbia poi tutti i torti». Dunque fuori la religione dalla scuola: e non importa se i genitori cristiani di cui i maestri devono supplire ed integrare l’opera educativa, reclamano che lo spirito religioso domini anche l’istruzione dei figlioli e che l’indirizzo cristiano della vita sia ad essi assicurato anche attraverso l’istruzione scolastica! Ma c’è di più. Il programma elettorale dell’Unione magistrale nazionale proclama nel suo primo punto di «non permettere la svalutazione della scuola laica di Stato». Tale punto è evidentemente inconciliabile con la scuola religiosa quale la abbiamo noi, e con le precedenti votazioni degli unionisti trentini favorevoli alla scuola religiosa. Tuttavia il presidente federale, maestro Scala, non solo accoglie integralmente il programma in parola e quindi anche il punto primo; ma, portandolo a conoscenza dei presidenti e delegati delle Sezioni trentine dell’U.M.N., raccomanda il maestro Alessandro Zanfei come il candidato più idoneo, se eletto deputato, a sostenerlo realmente nel parlamento. Riproduciamo il documento, che ci pare per diversi riguardi caratteristico e importante: «Trento, 17 aprile 1921 Ai Presidenti e Delegati delle Sezioni trentine dell’Unione Magistrale Nazionale. La Commissione esecutiva ci ha invitati a designare un candidato di classe per le prossime elezioni politiche della nostra regione, da inscriversi in quella lista più prossima alle direttive dell’Unione e che ne accolga integralmente il programma (di cui si unisce copia) ed offra garanzia di sostenerlo realmente. Dai rappresentanti dell’Alleanza economica fra le organizzazioni professionale e di mestiere che hanno un indirizzo sindacale come il nostro, quale eventuale candidato di classe il collega A. Zanfei, che sarebbe disposto ad accettare semprecché la designazione venisse accolta unanimemente dai dirigenti le Sezioni dell U.M. Trentina. Invitiamo perciò i Presidenti e i Delegati a pronunziarsi nettamente in proposito inviando subito risposta telegrafica, poiché per il 21 corr. si dovrà riferirne alla Commissione esecutiva. Notiamo che anche la Lega liberale democratica è pure in trattative per entrare nel blocco. Il Presidente federale Scala m. p. Indirizzo telegrafico: Mestro Scala, Trento, Seminario». Abbiamo già visto, per relazione del «Popolo», come le varie sezioni trentine dell’Unione magistrale abbiano dato, con commovente sollecitudine, il loro consenso entusiastico alla candidatura di Zanfei nel Blocco bosettiano riformista massonico fascista, e come Zanfei abbia potuto portare allo stesso blocco l’adesione dell’Unione magistrale trentina. E la Direzione centrale di Roma dell’Unione magistrale nazionale, impartendo la propria telegrafica approvazione all’entrata di Zanfei nella lista bloccarda ha riconosciuto che il blocco bosettiano fascista riformista, e notoriamente massonico, è il più prossimo alle direttive dell’Unione e ne accoglie il programma. Niente riserve, dunque. Tra unionisti e massoni, di Roma e di Trento, l’intesa è completa; e sul nome di Alessandro Zanfei si concentreranno gli sforzi di tutti gli anticlericali e di tutti i … poveri di spirito della classe magistrale per portare al trionfo quella bella cosa che è la scuola laica. Su di ciò non può rimanere alcun dubbio. Si noti bene: 1. Zanfei, nel Blocco massonico, si impegna a «non permettere la svalutazione della scuola laica di Stato», vale a dire si impegna a favorire la laicizzazione e la scristianizzazione della nostra scuola. 2. Zanfei, aderendo al partito riformista, porterà nella sua azione quello spirito massonico e settario che caratterizza i socialisti riformisti fra tutti i partiti del Regno. Infatti il suo giornale, il «Popolo», ha appoggiato espressamente la campagna massonica dei maestri e degli anticlericali giuliani e si è dimostrato favorevole a tutte le iniziative di carattere anticlericale. 3. Tutto l’indirizzo del blocco, di cui Zanfei è candidato, è dichiaratamente anticlericale e aspira a raggiungere l’esclusione del prete dalla scuola e dalla vita pubblica. Ci pare che non occorrano prove ulteriori per dimostrare la tendenza laicizzatrice che sarà propugnata dal rappresentante dell’Unione magistrale nazionale, se la ingenuità degli elettori manderà in parlamento lui o qualche suo compagno di blocco, e per constatare insieme la dichiarata partecipazione della stessa Unione magistrale, che si vanta apolitica, ad una lotta politica di marca schiettamente anticlericale e settaria. Quanti hanno a cuore le nostre tradizioni scolastiche cristiane, non hanno bisogno di altre informazioni. Il vecchio e prolungato equivoco è dunque chiarito? Pare. Ma faranno bene a manifestare in proposito la loro opinione quei maestri e quelle maestre (e sono non pochi) che credono di poter conciliare la loro profonda e sincera coscienza religiosa con la appartenenza ad una associazione, i cui propositi anticristiani si rivelano sempre più chiaramente. O che con il danno vogliono prendersi anche le beffe? |
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| Il poeta Vittori e la massoneria – Indirizzo anticristiano – Nathan e il Papato – Influenze legislative – Camorrismo e protezionismo – La corruzione amministrativa – Burocrazia massonica – Sfruttamento della patria – Loggia Battisti – Il cav. Berti – Imposizioni e favoritismi – Per la pubblica onestà. In un opuscolo del noto poeta trentino Vittore Vittori, pezzo grosso della massoneria bolognese, leggiamo queste sintomatiche parole: «La scuola deve essere laica, se siamo italiani. Sempre peggio questa è lasciata andare dai nostri ministri fornicanti col potere temporale. E ne approfitta il “pretismo” tanto che… saremo sopraffatti dalla scuola confessionale; il pretismo è sempre forte dell’obolo di S. Pietro e offre alle sue pecorelle aule decenti e soleggiate. Ben più disciplina, concordia, oculatezza è in esso che non è nella massoneria, la quale ricordando la sua missione storica dovrebbe pur volgere alla scuola italiana il meglio della sua attività». In queste frasi le idiozie suggerite dall’odio anticristiano sono molte. Ma è caratteristico l’appello alla setta massonica come istanza suprema per difendere il laicismo scolastico liberticida contro ogni tentativo di scuola libera; ed è pur notevole l’antitesi così francamente confessata tra la massoneria da una parte e l’indirizzo cristiano del pensiero, qualificato per dispregio come pretismo, dall’altra. Oggi, che la massoneria ha perduto anche il coraggio di mostrar la maschera e per le sue abbiette finalità si adatta ad ogni trasformismo, i giornali di tinta massonica nascondono i loschi interessi della setta sotto il manto dei diritti dello Stato, e in nome dello Stato laico e accentratore osteggiano ogni libertà delle organizzazioni e delle coscienze. Quest’identificazione dello Stato con la massoneria si spiega, del resto, da sé quando si pensi che la setta massonica è stata la più tenace propugnatrice di quel dottrinarismo statale, intransigente e borioso quanto vacuo ed esoso, al quale è ispirata gran parte della legislazione italiana. Ed ancora oggi, mentre il pensiero moderno si è da gran tempo divincolato dallo sciatto dogmatismo positivistico, la massoneria vi si aggrappa con zelo fanatico e fa propaganda di false dottrine umanitaristiche, diffuse con clamore di retorica e con sfacciataggine pari all’inconcludenza. In forza di questi principii positivistici, e mossa anche da molteplici interessi politici, la massoneria fu sempre ed è ancora l’esponente più forte e più insidioso della lotta anticlericale contro la Chiesa e il Papato. Più volte il gran maestro della massoneria, con posa che oggi appare ridicolmente abbietta, assunse l’atteggiamento cattedratico del «papa laico» che, in nome della ragione, vomitava eresie contro il Vicario di Cristo. Ed è ancora fresca la memoria dell’ebreo massone Nathan, testé morto, che parlando, quale sindaco di Roma dal Campidoglio, presumeva di annullare col suo dogma laico la grandezza secolare del Vaticano. Nessuna meraviglia pertanto se, approfittando del doloroso dissidio che, durante i rivolgimenti del secolo scorso, s’inasprì fra lo Stato e la Chiesa, le forze massoniche, giunte al potere con la Sinistra dopo il 1876, riuscirono a inquinare di uno spirito settario e anticristiano la legislazione e l’amministrazione statale. Gli ordinamenti scolastici, continuamente modificati e peggiorati per mezzo di regolamenti e decreti ministeriali, hanno creato ai cattolici condizioni di vita che sono una beffa per ogni libertà di insegnamento e di coscienza. La volontà di milioni di cittadini fu calpestata in nome del laicismo statale che irride alle credenze del popolo e mostra borioso il suo ateismo. Le leggi sul matrimonio, sulle congregazioni religiose, sulle proprietà del clero, sul diritto elettivo dei sacerdoti sono informate allo stesso proposito di togliere alla Chiesa e ai suoi rappresentanti qualsiasi autorità e qualsiasi forza. Ci sono stati dei tempi, in cui palazzo Giustiniani, la sede centrale della massoneria italiana, era l’anticamera dei ministeri e del parlamento. Ma se le influenze politiche e legislative della setta massonica sono state straordinarie, enorme è ancora l’inframettenza della massoneria nelle pubbliche amministrazioni. Dato l’indirizzo anticlericale dello Stato e dei partiti dominanti, è naturale che le cariche più autorevoli e i posti migliori nell’amministrazione statale fossero riservati ai «fratelli» che si ritenevano più fidati e intransigenti. Essere massoni, o avere qualche valido appoggio nella loggia, era, ed è ancora, un titolo di preferenza per salire in alto e per ottenere laute prebende. Il segreto di cui la setta si circonda e le vaste relazioni che essa ha in tutti i rami dell’amministrazione fanno sì che la sua potenza sia ritenuta anche superiore di quello che è in realtà. Di qui la credenza che senza essere iscritto alla massoneria non sia possibile far carriera. E la credenza non è infondata. Funzionari, anche onesti, si iscrivono alla loggia per timore di soffrire altrimenti dei danni materiali e morali. Il protezionismo più sfacciato e immorale si è sviluppato in tal modo. Si sa con certezza che certi incarichi nei ministeri e nelle provincie sono affidati di preferenza ai capoccia della massoneria. Il ministero dell’Istruzione e il ministero della Guerra sono designati come i più infestati dalla mala pianta. Ma niente arriva a sottrarsi all’invadenza massonica. Perfino i giudici vengono subordinati e sedotti dalla setta. È noto l’intervento diretto della massoneria nel processo Bonmartini, come prettamente massonica fu la campagna per la grazia a Linda e a Tullio Murri, condannati in quel processo . Eguale origine hanno avuto le montature colossali per gli «scandali clericali» dimostratisi poi del tutto insussistenti. Dovunque la viscida bestia si aggrappa, essa porta la insidia e la corruzione. Anche durante la guerra le persecuzioni anticlericali in nome della patria, gli internamenti di sacerdoti e di cattolici del tutto innocui rivelavano a prima vista lo spirito settario da cui traevano origine. È caratteristico che questa setta, la cui spudoratezza non ha confini, osi ancora presentarsi nei manifesti e attraverso i discorsi dei suoi adepti, come la più appassionata tutrice della patria. La setta che ha l’infamia di aver tollerato e difeso il suo socio Luigi Castellazzo , il denunciatore dei martiri di Belfiore , dovrebbe tacere. Le relazioni segrete, ma non più ignorate, della massoneria italiana con la Francia, i vincoli inconfessabili di notori massoni con personaggi esteri di indirizzo antiitaliano, sono fatti troppo gravi perché i veri e onesti italiani se ne possano scordare. Se la vita italiana è oggi così scossa, se la burocrazia italiana è ora così inquinata di elementi inferiori e mal fidi, ciò è dovuto all’opera immorale, disgregatrice e sovvertitrice che il favoritismo e il protezionismo massonico vi hanno esercitato. Per risanare lo Stato, bisognerà combattere il veleno con tutta energia. Orbene, mentre nelle vecchie provincie la setta si squalifica sempre più, qui tra noi essa è riuscita a radicarsi e ad acquistare proseliti. Fra i connazionali affluiti quassù dal regno si sono infiltrati non pochi massoni che hanno irretito nelle maglie della setta anche parecchi trentini. Sappiamo già della loggia massonica che, connivente e consenziente la moglie dell’eroe , sfrutta il nome di Cesare Battisti. E non sono più una novità le strette di mano particolari dei «fratelli» negli uffici governativi e nei luoghi pubblici. Si hanno prove di favoritismi esercitati anche tra noi a favore di massoni. La fuga sicura del cav. Cesare Berti , socialista riformista e massone autorevole, non sarebbe stata così facile se i «fratelli» non avessero provveduto a facilitarla. Al contrario non sono mancate le imposizioni massoniche e le volute… dimenticanze nei riguardi di funzionari trentini la cui riassunzione in servizio fu ostacolata perché non erano abbastanza anticlericali. Ed anche in argomento di nomine e promozioni a cariche importanti potremmo citare dei casi nei quali dalla loggia è partita, con tono imperatorio, la designazione di determinate persone e il divieto preciso di presceglierne delle altre. Fatti certi e documentati! Noi trentini, che abbiamo tradizioni magnifiche di moralità pubblica e di franchezza, che abbiamo fiducia unicamente nella legge e nell’autorità, non possiamo tollerare che forze occulte animate da fini inconfessabili turbino e corrompano la nostra vita amministrativa. La nostra amministrazione è fondata sulla fiducia assoluta del pubblico. Ma se le inframmettenze settarie soverchiano la legge e la giustizia, la fiducia deve crollare. Per questo noi consideriamo la massoneria come un grave pericolo non solo per la coscienza cristiana del nostro popolo, ma anche per la serietà e l’onestà della nostra amministrazione. Della gente che si nasconde nel segreto della Loggia, che non sa giustificare la provenienza dei denari copiosi di cui dispone, che sopra la legge pone il favoritismo e l’agguato insidioso, non può essere onesta. Tanto più che le regole della setta permettono la menzogna e lo spergiuro. Un massone può infatti negare ad ogni ora di essere tale; può denigrare in pubblico la massoneria a cui appartiene e fingere di esserle contrario. Pur di raggiungere lo scopo, la turpe congrega si rassegna perfino alle rinnegazioni e agli sputi dei suoi stessi adepti. E noi dovremo permettere che la massoneria s’impadronisca della nostra politica o mandi addirittura un suo esponente quale rappresentante del Trentino al parlamento? Sarebbe la massima vergogna. |
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| 15 maggio, giorno di battaglia, giorno decisivo. 111 mila trentini sono chiamati a votare. Chi manca all’appello è un disertore dei suoi doveri civili, chi non vota tradisce la sua causa, il suo paese, i suoi interessi. Contadini, operai, cittadini, fate tutti il vostro dovere. Accorrete in massa alle urne! È la prima volta che votate per il parlamento di Roma, la prima volta che votate come cittadini del vostro Stato. Affermate con la scheda in mano, che, dentro la Nazione, volete essere un popolo libero e fiero, che volete la vostra autonomia regionale, che volete l’insegnamento religioso nella scuola, che volete la rifusione dei danni di guerra, il pagamento delle requisizioni, il riscatto dei prestiti bellici per chi ha sottoscritto per forza. Abbasso la camorra, abbasso la massoneria! Fuori i parassiti! Vogliamo ordine e correttezza nei pubblici uffici! Finitela di tollerare i soprusi, le violenze, le prepotenze. Paghiamo le imposte, perché lo Stato ci garantisca l’impero della legge. Viva il Trentino colle sue tradizioni di onestà, di serietà, di laboriosità. Sono le virtù che ci hanno tramandato i nostri padri. Bisogna conservarle, difenderle sia colle leggi vecchie, sia con provvedimenti nuovi. Diamo mandato ai nostri deputati di propugnare i nostri interessi, di difendere i nostri diritti, chiedere giustizia per i nostri contadini, per i nostri operai, per i nostri impiegati; di ottenere protezione per il ceto medio dei dissestati dalla guerra, dei pensionati che patiscono la fame, degl’impoveriti che hanno perduti nella guerra i loro risparmi, di tutte le vittime del sanguinoso conflitto. Trentini! Il 15 maggio mettete nell’urna la scheda dello scudo crociato. Noi la voteremo assieme ai milioni di elettori delle altre provincie, che hanno fede nell’opera del PARTITO POPOLARE ITALIANO. Essi hanno fiducia che questo giovane partito salverà l’Italia dalla rivoluzione, perché farà la riforma agraria, spezzettando i latifondi, farà la riforma industriale, costringendo i padroni a dividere gli utili cogli operai, farà la riforma scolastica, introducendo la libertà d’insegnamento, farà la riforma amministrativa dello Stato, costituendo le autonomie regionali e l’indipendenza dei comuni, e diminuendo gli uffici superflui, farà la riforma militare, riducendo la ferma e introducendo la nazione armata. Viva il partito popolare! Il 15 maggio i Trentini accorrano in massa ai seggi elettorali. Sarà la nuova fortissima legione delle Alpi che si aggiunge a questo grande esercito della pace e del lavoro, che ha piantate le sue tende in tutte le regioni d’Italia. Avanti, al nostro posto, Trentini! Chi sta in disparte, chi sta fuori, è sordo alla voce della sua coscienza e ignora il richiamo dei tempi nuovi. |
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| 41921-1925
| Sul limitare dell’ultima settimana elettorale richiamiamo ancora la attenzione degli amici sui seguenti punti: I. L’esito della battaglia elettorale dipende dal maggiore o minore concorso alle urne. Se il numero dei votanti sarà molto alto anche il quoziente elettorale necessario per ottenere un mandato sarà assai alto e quindi meno facilmente raggiungibile da liste avversarie. Noi siamo un partito di maggioranza, abbiamo tutto l’interesse quindi che si raggiunga un quoziente alto. Bisogna perciò spingere alle urne anche le ultime riserve. Il risultato delle ultime elezioni deve essere assolutamente superato di molto. Gli assaggi fatti dai nostri propagandisti lasciano credere che ciò sarà possibile quando anche nei piccoli paesi di campagna il concorso alle urne venga energicamente controllato e organizzato. Le sezioni del partito e i fiduciari devono anzi tutto munirsi di una copia delle liste elettorali, distribuire la scheda a tutti gli aventi diritto al voto e incaricare il fiduciario che assiste all’atto elettorale, di segnare sulla lista quelli che hanno compiuto il loro dovere. A metà della giornata la presidenza della sezione deve fare il controllo dei mancanti e quindi disporre immediatamente che ciascuno dei ritardatari venga personalmente invitato ad accorrere alle urne. II. È incominciata da parte della sottoscritta direzione la distribuzione delle schede. Nei prossimi giorni verranno consegnate in tutti i paesi. Qualora entro giovedì 12 maggio in qualche sede elettorale non fossero ancora per svista pervenute, i fiduciari dovranno immediatamente darcene avviso col mezzo più rapido e sicuro. III. Come è stato votato ad unanimità dalla Commissione elettorale nella quale erano rappresentati tutti i distretti, le preferenze dovranno venir disciplinate per mantenere il rango di riuscita dei candidati come fu stabilito dalla commissione stessa. Il Comitato speciale eletto dalla stessa commissione e composto dei signori sen. Enrico Conci, on. Mons. Guido de Gentili, dei membri di direzione Oreste Cadonna, prof. Giovanni Ciccolini, Brollo e Casimiro Turri, ha già terminato i suoi lavori. I paesi più piccoli, più discosti o le vallate più lontane non avranno indicazioni di preferenza e voteranno quindi la scheda con lo scudo crociato, tale e quale, senza alcuna aggiunta scritta. La maggior parte degli altri paesi riceveranno dal Comitato un invito scritto di dare la preferenza a due nomi della nostra lista. Questi inviti verranno fatti pervenire ai fiduciari prima di giovedì prossimo o entro il prossimo giovedì. È inteso che quelle sezioni che non riceveranno tale indicazione prima di giovedì, voteranno la scheda senza preferenza. Noi facciamo appello al senso più rigoroso di disciplina e di solidarietà. Il metodo delle preferenze fu introdotto nella proporzionale per opera dei suoi avversari e ne sminuisce gli effetti in quanto che richiamando di nuovo l’attenzione degli elettori su determinati nomi di persone risuscita nella loro mente il concetto del collegio uninominale e rischia di far perdere il valore al sistema di lista che, trascurando il punto di vista personale o locale, dovrebbe far valere soltanto quello programmatico e regionale . Noi avremmo preferito invitare tutti gli amici a non far uso delle preferenze. Ma poiché è lecito supporre che almeno una piccola parte non avrebbe mantenuta questa parola d’ordine e che d’altro canto ne avrebbero potuto approfittare gli avversari per sconvolgere l’ordine della lista stessa; così la commissione elettorale ha deciso di regolare la graduatoria in modo da mantenere il rango voluto dal Partito. Noi crediamo quindi di poter fare affidamento sicuro su tutti gli amici, i quali arrendendosi a queste ragioni, si atterranno alle sole istruzioni che riceveranno per iscritto dal suddetto comitato e da nessun altro. In fine non manchino i fiduciari di rilevare in confronto di tutti gli elettori che nella prossima elezione più che in qualunque altra si tratta di difendere gli interessi comuni di tutto il Trentino e che i candidati che riusciranno saranno i rappresentanti non di questa o quella vallata, non di questa o quella classe, ma di tutte le classi popolari dell’intiera regione. TRENTO, 7 maggio 1921 La Direzione regionale del Partito popolare. |
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| 41921-1925
| In vista della giornata elettorale, l’Unione magistrale nazionale non riposa. Dopo aver proclamato la sua decisa volontà, da trasfondersi nel deputato del suo cuore, di non permettere «la svalutazione della scuola laica di Stato», vale a dire di quella scuola di marca massonica che ora delizia l’Italia e alla quale dobbiamo in gran parte l’anarchia morale della nuova generazione, l’Unione magistrale dirama ora al pubblico un altro manifesto, per eccitare i cittadini a riversare i loro voti e le loro preferenze «sugli uomini di più sicura fede democratica» . Quali siano gli uomini «di più sicura fede democratica» non occorre dire. Basta pensare gli esponenti di quel radicalume settario che con i nostri maestri anticlericali hanno sempre mantenuto relazioni strettissime. «I partiti clericali e conservatori – declama il turgico [sic] manifesto – vedono nella scuola soltanto uno strumento delle loro finalità reazionarie; e in nome di una falsa libertà d’insegnamento si coalizzano, auspice il Governo, per diminuire e distruggere il pubblico servizio scolastico, l’unico che possa assicurare l’istruzione a tutti i cittadini, nel pieno rispetto di ogni fede politica e religiosa». Chi ha scritto queste parole, che sono un cumulo di menzogne e di deliberati travisamenti della realtà, non può essere in buona fede. Capite? Il grandioso movimento di rinnovazione degli ordinamenti scolastici, al quale hanno dato la loro adesione e il loro appoggio gli uomini più competenti e più sereni d’Italia, senza distinzione di orientamento politico, non sarebbe altro che il risultato di una congiura di… delinquenti… «per distruggere il pubblico servizio scolastico». E a quest’opera di distruzione darebbero mano i clericali e i conservatori d’accordo col governo! Dopo tutta la discussione fatta sui giornali di ogni partito per dimostrare il fallimento disastroso della scuola laica quale lo Stato l’ha ridotta, e dopo quanto s’è detto circa lo scopo delle riforme scolastiche a cui il governo si è impegnato, crederemmo di offendere i nostri lettori se tornassimo a rilevare come la libertà d’insegnamento quale è intesa da noi e da tutti gli onesti, non importa una diminuzione dell’autorità vera dello Stato, ma anzi un rafforzamento; e come dalla libera concorrenza tra la scuola privata, sollevata dalla condizione indegna di soggezione e di schiavitù in cui ora si trova, e la scuola di Stato, non potrà che conferire a quest’ultima quel decoro e quella vigoria formativa che ora assolutamente non possiede. Gli unionisti, naturalmente, come tutti i settari animati da velleità liberticida, non vedono nella grande agitazione per la libertà d’insegnamento e per l’esame di Stato (due cose per sé ben diverse, ma che si muovono su un piano comune e hanno molteplici interferenze), altro che una promessa (o dobbiamo dire minaccia?) di maggiore sviluppo delle scuole libere confessionali; e per questo respingono a limine tutti i progetti in corso. Il loro affermato rispetto per ogni fede religiosa non arriva fino al punto da permettere a chi vuole educare i figli in piena conformità ai propri principi religiosi, di avere parità di condizioni e di diritti nelle scuole private come nelle scuole di Stato. Ma il settarismo offusca l’intelletto. E le osservazioni in mala fede dell’Unione magistrale non bastano ormai più a nascondere la realtà. La lotta per una scuola più libera e più rispettosa delle coscienze dei cittadini non è più limitata ad una tentazione, per dirla con le parole del vecchio anticlericalismo, tra la reazione clericale, e le forze democratiche progressiste. Oggi la lotta è tra coloro che vogliono sinceramente una scuola seria, formativa, educativa, e coloro che, per vecchi pregiudizi e per interessi inconfessabili, si aggrappano alla scuola quale è attualmente e… non «ne permettono la svalutazione». La reazione, il conservatorismo, la speculazione per le finalità reazionarie, non sono in questo caso dalla parte nostra, ma precisamente dalla parte degli unionisti. Ed è notevole questo. Per la libertà dell’insegnamento, assicurata a tutti gli indirizzi e a tutte le credenze, e contro la menzogna della scuola laica, che s’è risolta in una turpe degenerazione negatrice di ogni libertà e di ogni fede, stanno non soltanto i «clericali», ma quanti in Italia conoscono veramente la scuola e la desiderano migliore di quella che è. Insieme coi rappresentanti del partito popolare s’accordano su questo punto anticlericali dichiarati e pensatori non sospettabili di confessionalismo. Benedetto Croce, che si sappia, non è un clericale. E con la tesi di Croce consentono democratici e nazionalisti, i quali non vi aderirebbero certo se vi vedessero un pericolo di menomazione dell’autorità dello Stato. Tutta l’intelligenza italiana si è dichiarata per le riforme scolastiche che il governo ha posto nel suo programma. Contro di esse, con una cocciutaggine che sta in ragione inversa dell’intelligenza e della preparazione culturale, si rizzano e s’accaniscono invece due organizzazioni: l’Unione magistrale nazionale e la… massoneria. L’una, evidentemente, ispira l’altra. E in questa intesa amichevole, d’altronde già nota, di settari e di fanatici, si radica veramente la piaga maggiore che inquina la vita culturale e morale d’Italia. Gli elettori trentini, a cui il blocco multicolore propone, quasi a scherno delle loro tradizioni di libertà cristiana, anche un candidato che propugna il programma laicizzatore e retrivo dell’«Unione magistrale», vogliano tener conto anche di questo. |
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| 41921-1925
| [Appello agli Elettori con la lista dei candidati popolari trentini]. Una delle prove evidenti della bontà del programma popolare sta in ciò che i partiti avversari, e in modo speciale i cosiddetti partiti intermedi, fanno propri alcuni punti fondamentali del medesimo e cercano di dare con essi un po’ di consistenza della loro propaganda elettorale. Così vediamo che i postulati riguardanti il decentramento amministrativo e lo svolgimento delle funzioni statali, dopo essere stati elaborati dal partito popolare con profondo studio e con sicura intuizione delle nuove necessità nazionali, vengono ora propugnati, con maggior o minor valore, da tutti i partiti . Ma prima che il partito popolare vi dedicasse la sua magnifica azione, nessun liberale, di qualsiasi tinta, se ne preoccupava. Eguale fenomeno nel campo della scuola. Da decenni se ne discute. Ma un interessamento vivace e diretto per la riuscita dei nostri ordinamenti scolastici non si poteva notare all’infuori di pochi studiosi privi di forza e di significazione politica. I partiti, passate le elezioni, se ne disinteressavano. Ma ora che il partito popolare ha impostato il gravissimo problema su di una base nuova ed ha sollevato intorno ad esso la vigile attenzione di tutto il popolo, anche i liberali e i socialisti non possono sottrarsi alla discussione. E, sebbene in frasi ambigue e insidiose, danno assicurazioni e fingono di avere un proprio pensiero. Perfino i socialisti, là dove sussiste la piccola proprietà o dove potrebbe svilupparsi, rinnegano abilmente i loro principi per cui la piccola proprietà dovrebbe scomparire, ed espongono postulati che quasi coincidono con quelli del partito popolare. E sarebbe facile indicare parecchi altri punti di capitale importanza nei quali il programma popolare è stato, nelle sue linee caratteristiche, adottato, per fini elettorali, da liberali, fascisti e socialisti. Nel rilevare questo fatto, che è innegabile, bisogna pur fare qualche altra osservazione. E precisamente: il programma popolare, quale si presenta nella sua interezza e complessità, è la derivazione diretta dello spirito cristiano che anima il partito, e si fonda per di più su di una serena visione dei grandi problemi nazionali studiati senza pregiudizi e con profondo amore. Questo programma così conformato non è un elemento transitorio e superficiale del partito, ma ha anzi valore permanente, ed è per esso che il partito vive e vivrà nell’avvenire. Invece per i partiti avversari, e per i liberali-fascisti in prima linea, il programma, abborracciato in tutta fretta, non ha altro valore che quello di una improvvisazione elettorale; rappresenta un arnese di parata, di cui non si può far a meno nel momento decisivo in cui la parola spetta alle urne ma che poi si può gettare tranquillamente nel dimenticatoio. Tant’è vero che, mentre il partito popolare affida ai candidati della propria lista l’incarico preciso di propugnare e valorizzare in mezzo al popolo e alla Camera il programma popolare, sicuro e definito, i liberali di tutte le categorie, i blocchi multicolori dalle molte frasi, mettono insieme da prima la lista dei candidati e poi vanno architettando faticosamente un programma che si confaccia al carattere e al gusto dei candidati stessi. In altre parole: i popolari servono con fede una grande idea. Gli avversari si cercano di volta in volta una idea, o un suo surrogato, perché essa serva i candidati. Ma c’è dell’altro. Il programma popolare, sorto col sorgere del partito, maturatosi attraverso molteplici esperienze, si presenta alla nazione nella sua forma genuina e integrale. Non è mosso da intendimenti puramente elettorali, e se aspira ad acquistar voti, lo fa per la sua forza interna di persuasione, non con le abbaglianti seduzioni della rettorica, o con lo sfruttamento delle passioni del momento. Esso è quello che è, e non si muta né si maschera per nessun fine. Dei programmi avversari è invece caratteristica la lunghezza e l’imprecisione. Vi domina la reticenza e il sottinteso. Dicono e disdicono. Nessuna garanzia che le promesse saranno seguite dai fatti e nessuna certezza che l’interpretazione di oggi sarà anche quella di domani. Abbiamo visto l’ambiguità dei liberali e dei blocchisti davanti ai problemi della scuola e della famiglia. Né potrebbe essere altrimenti. Mancano agli avversari – e basta leggere i loro giornali per restarne persuasi – la sincerità e la convinzione. Manca loro la fede in un’opera costante e concorde di moralità e di giustizia. Appunto per questo, dovendo in qualche modo mostrare di possedere un programma di lavoro e la volontà di attuarlo, riproducono e scimmieggiano, con i rispettivi subdoli camuffamenti, il programma del partito popolare. Perché sentono, loro malgrado, che lì dentro arde e s’impone un’intelligenza, una volontà, una fede. |
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| 41921-1925
| È la domanda che si rivolge in una bellissima pastorale del 1914 il cardinale arcivescovo di Reims . Una pastorale che merita non solo essere letta, ma studiata, meditata, analizzata; e se il tempo e lo spazio ce lo permetteranno, non mancheremo di farlo, volendola un po’ alla volta riprodurre integralmente a norma e regola di quanti vogliono praticato in pubblico, ciò che credono e operano in privato. Il primo dovere è, egli dice, dichiararci francamente cattolici; il secondo dovere è l’azione; il terzo dovere è l’unione. Il quarto dovere dei cattolici è di esercitare, come cristiani i loro diritti di cittadini, specialmente il diritto del voto. Sul quale punto, dopo aver spiegato ampiamente l’importanza di fronte allo Stato, alla società, ai popoli, del seggio di deputato, dei membri di un parlamento, dopo aver fissate le qualità onde essi devono essere rivestiti, la sicurezza e la garanzia che essi devono darci di attenersi ai principi che assicurano di propugnare, egli continua: «In conseguenza: Voi dovete scartare gli ambiziosi senza principii che non cercano se non il loro interesse personale, e voi non dovete dare il vostro voto che ad uomini versati nella conoscenza delle questioni che avranno a trattare, che sieno amici sinceri e disinteressati del pubblico bene, attaccati per convinzione ai principii sui quali riposano l’ordine sociale, la pace e la prosperità d’una nazione. Voi dovete scartare i candidati che per le loro dottrine perverse, immorali, o rivoluzionarie, compromettono gli interessi vitali del paese, il prestigio della nazione, e voi dovete scegliere uomini che sapete zelanti degli interessi essenziali della nostra terra. Voi dovete scartare i candidati che non si fanno scrupolo di propagare l’immoralità, la profanazione delle famiglie, e lo spopolamento del paese; voi dovete scegliere rappresentanti decisi a sostenere la lotta contro questi abusi che sono la vergogna e la rovina di un popolo. Voi dovete scartare i candidati conosciuti come ostili alla religione, come uniti a sette che fanno professione di essere i nemici della Chiesa, quelli che hanno già abusato del loro potere o del loro mandato, che sono preoccupati solo di restringere sempre maggiormente la libertà della Chiesa, del suo culto, delle sue opere di insegnamento, di moralizzazione di […]tà, e voi dovete scegliere uomini risoluti di assicurarci la libertà; e di essere garanti della sua stabilità. Questo è dovere di coscienza! Non vi sono due morali, noi non abbiamo due coscienze, una per la vita privata che debba conformarsi in tutto alla legge di Dio, l’altra per la vita civile, che sia indipendente da essa. Il dovere elettorale obbliga tanto più strettamente la coscienza, quanto ne sono più gravi le conseguenze. Facciamo finalmente cessare quest’anomalia, che fa disonore alla nostra fede, alla nostra logica, al nostro carattere: un popolo nella sua gran maggioranza cattolico che confida la cura di essere rappresentato nei consigli ove si decidono i destini della nazione ai peggiori nemici della sua religione. Se tutti i cattolici avessero esercitato come cattolici il loro dovere elettorale, noi non avremmo ora a gemere sopra i mali che affliggono e disonorano il nostro paese. Ed è perciò che alla vigilia del prossimo consulto nazionale, voi avrete occasione di mettere in pratica i gravi avvisi che noi vi diamo. Noi ci rivolgiamo a tutti coloro che comprendono la necessità della religione per la pace sociale e a tutti quelli che credono in Dio nella sua Chiesa, a tutti quelli che non hanno rinnegato la fede del loro battesimo, a tutti quelli che si considerano sempre come cristiani, a tutti quelli che vogliono per i loro figli il Battesimo, il catechismo, la prima Comunione, a tutti quelli che chiedono la benedizione della Chiesa per tutte le grandi epoche della vita, a tutti quelli che amano la Francia, e diciamo loro: La sorte del paese, è fra le vostre mani, se voi amate la Chiesa difendetela, se amate la Francia, salvatela!» Crediamo non dover aggiungere altro a queste parole per noi Trentini alla vigilia delle elezioni. Per questo stimammo opportuno riportare interamente quest’ultimo tratto della bellissima Pastorale. |
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| 41921-1925
| La battaglia elettorale è al suo culmine. Domani cadrà la decisione. Ci siamo ingaggiati a pieno per difendere un’idea, per affermare una volontà, non per combattere uomini. Quest’idea richiamiamo ora alla mente dei nostri commilitoni nel momento di fare l’ultimo sforzo. Il Trentino si è acquistata, a traverso il travaglio dei secoli, una personalità propria. La sua italianità e la sua cristianità percorsero assieme, venendo dalla romana Aquileia, la via delle legioni. Vigilio , ci fece ad un tempo romani e cristiani e cementò col suo sangue e col sangue dei tre giovanetti di Cappadocia l’unione indissolubile fra il genio della stirpe e il genio del Cristianesimo. Le basi latine della nostra costituzione furono rese intangibili dalla Chiesa e per questo resistettero alle dominazioni dei popoli barbari. Così nacque la personalità del Trentino, così si affinò e irrobustì la sua anima, così esso potè esercitare la sua funzione storica sui valichi della catena alpina. Più tardi un altro avvenimento toglie Trento alla vita provinciale e la eleva per parecchi lustri a centro del mondo civile; è il Concilio universale. Qui con le eresie luterane si arrestano anche le onde del germanesimo, e un’altra volta Trento e il suo principato approfondiscono nella loro coscienza il concetto della loro missione romana e cristiana. Quest’idea, radicata nelle nostre tradizioni più pure, stampata nei nostri monumenti, ribalenata innanzi alle menti angustiate durante la guerra e la persecuzione d’un vescovo, non deve morire. Oggi che ci riuniamo alla Nazione, noi non scompariamo in essa, ma ci ricongiungiamo all’organismo nazionale come organo di struttura e di funzioni particolari. La nostra missione sugli spalti della Alpi non è finita. Essa ricomincia, fra l’ondeggiare della due grandi razze che s’incontrano nella nostra regione. Il nostro regionalismo deriva quindi per noi dal senso che abbiamo della missione del nostro Trentino. I secoli ci hanno forgiati a questo travaglio, l’aquila trentina, spennacchiata e insanguinata per il lungo martirio, è ancora l’uccello più adatto alle montagne dell’Adige e dell’Isarco. Per esercitare quassù la nostra missione di romanità, come l’Alsazia-Lorena alla Francia, noi chiediamo alla Madre patria maggiori libertà, maggiori autonomie, garantita la costituzione provinciale, salvi gli statuti delle città. Negli stemmi dei gloriosi Comuni italiani, è la libertas della lega lombarda. Narra la leggenda che durante la battaglia, dalle tombe dei martiri anauniesi in S. Simpliciano si levassero tre colombe che andarono a posarsi nel folto della mischia, sul Carroccio. È la fusione dell’idea trentina coll’idea italiana. Libertas non è un motto per rivendicazioni locali, è il motto per la ricostruzione e per il rinnovamento dell’intiera Nazione. Questo afferma domani il popolo trentino. Questo affermeranno domani tutti gl’italiani che votano per il partito popolare. ANDATE A VOTARE! Popolari, la vittoria dipende dal concorso! Domani, tutto il popolo trentino alle urne! |
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| 41921-1925
| I risultati definitivi sono arrivati a notte inoltrata. Ci manca quindi il tempo di commentare. Il linguaggio delle cifre è del resto eloquente . Il blocco è liquidato, incluso Bosetti che aveva proclamato di avere 15 mila inscritti nelle sue leghe. L’insincerità politica del «minestrone» ha trovato nel buon senso degli elettori la sua condanna. Il partito liberale che nel 1911 aveva raggiunto circa 6000 voti ha fatto certo il massimo sforzo toccando i 6700 voti. I popolari avevano nelle elezioni parlamentari del 1911 circa 30 mila voti. Sono quindi in aumento di 5275 voti. I socialisti che ne avevano 7000 hanno quasi triplicato il numero dei loro aderenti . Essi hanno evidentemente assorbito parte dei bosettiani, ma anche oltre a quest’assorbimento, la loro ascesa in certi distretti è rilevante. La causa del loro successo è da attribuirsi senza dubbio al fenomeno della guerra. Essa ci ha portato la zona devastata, colle sue miserie e col periodo della ricostruzione. I contadini della Valsugana vennero trasformati in operai edili, in mezzo ai quali gli operai venuti dalle altre provincie hanno svolto opera tenace di propaganda. A stento e con grande sforzo noi potemmo tenervi testa colle cooperative di lavoro. Operai edili discesero nella zona di ricostruzione anche dall’Anaunia e da Fiemme. Costoro il 15 maggio erano in patria a votare. S’aggiunga l’opera di demoralizzazione che in seguito alla guerra si è compiuta entro la gioventù. Ma non si trascuri la bassa speculazione che si è fatta prima alla spicciolata, poi in pubbliche adunanze, calunniando i popolari d’essere i responsabili della guerra e delle sofferenze da essa portate. Questa propaganda, fatta su larghissima scala a mezzo di stampati e di attacchi orali, specie da S. Flor, i nostri propagandisti non arrivarono a controbattere a tempo. Essa ha fatto breccia specie nei piccoli paesi rurali, mentre a Trento, Rovereto, ecc., non ha potuto avvincere gli elettori politicamente più istruiti. Confessiamo che i risultati di numerose piccole sezioni rurali ci hanno colti di sorpresa, come avranno stupiti i nostri amici del luogo. Vi ha contribuito infine la poca partecipazione della massa rurale. Le assenze in qualche sezione sono così numerose, che sarà giuoco-forza richiamare i nostri amici ad una seria meditazione sulle conseguenze della loro incuria. Aggiungasi che tutto a danno del nostro stato di possesso è stata anche la presentazione della lista tedesca . Essa è l’espressione più deplorevole e più drastica del malcontento contro il governo; ma questo malcontento ha certo influito su tutto il risultato elettorale, in favore dei socialisti. Noi abbiamo fede che le ragioni del successo socialista saranno passeggere, come è passata la guerra. Certo che bisognerà lavorare. Le elezioni sono un monito che parla chiaro. Noi dubitiamo ch’esse riscuoteranno dal sonno gl’indolenti e che nei nostri paesi ricomincerà una tenace e vigorosa azione di propaganda e di organizzazione, rivolta specialmente alla gioventù. La battaglia ricomincia e noi chiamiamo tutti i buoni a raccolta. Rallegriamoci intanto che, nonostante la situazione particolarmente e, speriamo, transitoriamente difficile dell’ora che attraversiamo, il partito popolare sia riuscito a conquistare 5 mandati, ciò che poteva essere il massimo delle nostre previsioni. Mandiamo un caldo ringraziamento a tutti coloro che a tale vittoria hanno collaborato, specie gli amici di Trento e Rovereto, che hanno tenuto così bene le loro posizioni o le hanno migliorate. |
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| 41921-1925
| L’avv. Piscel ha sempre avuto l’idea fissa del collegio unico, e la mantiene, nonostante i risultati elettorali. Secondo lui, col collegio unico si sarebbe evitato un plebiscito tedesco , si sarebbe dato il voto ai 20 mila italiani dell’Alto Adige e in ogni caso si sarebbero privati i popolari italiani della rappresentanza della maggioranza del Trentino. Così in un assai algebrico articolo del suo Domani di Vallagarina. Ecco: che il partito popolare italiano col collegio unico sarebbe andato peggio nessun dubbio, ma con lui sarebbe andata peggio anche la rappresentanza di qualsiasi partito italiano, fatta eccezione, s’intende per il partito socialista, il quale, presentandosi agl’italiani e ai tedeschi con una lista di bilingui, che avrebbe incominciato con Groff e terminato con Tappainer di Bolzano, sarebbe apparsa agli elettori, saturi d’internazionalismo, come la genuina rappresentanza dell’Internazionale, cioè della «Non-Austria» e della «Non-Italia». Ma il partito che ne avrebbe guadagnato sovratutto, sarebbe stato il Deutscher Verband. Già colle due circoscrizioni, come il Piscel ammette, esso ha raggiunto nel circolo di Bolzano 36574 voti, in quello di Trento 3624 voti, un totale quindi di 40198 voti. La lista tedesca è già oggi alla testa della Venezia Tridentina. Ma chi ci sa dire quanti voti avrebbe raggiunto di più se il Verband avesse avuto libertà di manovra e di propaganda in tutta la regione? È inutile nasconderlo. I malcontenti sono numerosi; le masse inclinano in questo periodo transitorio a voti di protesta. La protesta più feroce era il Verband. Prima della campagna elettorale noi l’avevamo intuito, durante la campagna l’abbiamo saputo con tutta certezza. Quando l’avv. Piscel avrà girato tutti i paesi e saggiato il polso, per dir così, a tutti i nuclei elettorali, come abbiamo fatto noi, allora venga e provi, onestamente, a smentirci. Si aggiunga che la zona ladina e ampezzana sarebbe stata per noi quasi del tutto perduta. Nessuno o pochi di questa zona, se avessero ritenuto di dover designare col loro voto la scelta fra Trento e Bolzano, avrebbero votato per una lista trentina. Qui abbiamo contro tradizioni e relazioni addirittura secolari. In quella zona siamo potuti penetrare solo dopo che essa era assegnata al circolo di Trento; prima sarebbe stato fiato sprecato. Il risultato della Ladinia è confortevole. Bisogna leggere la stampa atesina, per accorgersene. Bisogna esservi stati in quei paesi e sapere come furono i primi incontri e come si produsse un avvicinamento che fa sperare nell’avvenire, per conchiudere che la distrettuazione elettorale fu, razionalmente parlando, un vantaggio, non un danno. Ci sono gl’italiani nell’Alto Adige . È vero, ma la loro iscrizione nelle liste è affatto indipendente dalla questione delle circoscrizioni. Se tutti gl’italiani fossero stati inseriti, la manifestazione si sarebbe potuta avere tuttavia. La verità è però che l’elemento nuovo, avesse avuta anche la facoltà d’inscriversi, è ancora troppo poco organizzato, troppo fluttuante, per desiderare d’essere contato in un primo colpo, e l’elemento italiano indigeno (pensiamo qui alla zona mista, non ai nuclei urbani) è ancora troppo soggetto alle idee del vecchio regime e alle sue conseguenze ed è ancora in balia della propaganda tedesca, favorita dall’atteggiamento del Governo, per lasciar sperare che con una contropropaganda degli ultimi mesi si sarebbe potuto guadagnare. Questa è la verità, la cruda verità. Di verità ce ne sarebbero altre da dire, e forse le diremo a miglior agio. Ma intanto abbiamo avuto il piacere di aver trovato fra i partigiani del collegio unico molti convertiti, i quali ci hanno dato perfettamente ragione. I fatti sono più forti delle parole. L’avv. Piscel è rimasto del suo parere. Non ci stupisce. Evidentemente per lui il male maggiore sono i 5 mandati popolari; il bene massimo è rappresentato dal partito socialista, anche se il suo novello incremento sia dovuto in parte a quei manifesti e a quella propaganda che rinnegava qualsiasi guerra e proclamava che Battisti aveva, nei cinque minuti della guerra, perduta la testa. Abbiamo già preso nota che Piscel, recentemente, l’ha ritrovata. |
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| Dopo la battaglia elettorale abbiamo avuta ieri la nostra rassegna. Più di duecento fiduciari, convenuti a Trento da tutte le parti della regione fin dai più remoti paesi della valle del Cismone e della valle di Primiero, hanno ieri celebrato, commentato, discusso in un dibattito improntato alla più alta fede e alla più profonda serenità il risultato delle elezioni. Con tutta franchezza si rilevarono deficenze, si criticarono errori, si biasimarono traviamenti, ma con fede sicura e con un’unanime vigorosa manifestazione di volontà si riaffermarono i propositi del partito per una energica ripresa di azione su tutti i campi. Il partito popolare può essere orgoglioso di questa giornata. Essa ha dimostrato come sempre, che quando una vittoria è stata raggiunta dopo una lotta difficile e aspra, gli animi ne escono ritemprati per cimenti maggiori. Hanno presieduto alternandosi, il sen. Conci e Mons. Gentili, ha fatta la relazione il segretario regionale del partito on. Degasperi, hanno partecipato alla discussione i candidati e deputati presenti Grandi, Toffol, Ferrazza, Carbonari, Tamanini, Romani, gli on. Gentili e Conci, i delegati e propagandisti Martinello (Trento), D. Weber (Trento), D. Franchi (Cles), Rossi (Mezocorona), D.G. Delugan (Trento), Finotti (Mori), Madonna (Trento), Zamboni (Tione), Molignoni (Valle di Sole), D. Brunner (Martignano), D. Vaia (Albiano), D.r Pizzini (Roverè della Luna), Doff-Sotta (Primiero), D. Pederiva (Fassa), D.r Mattei (Trento), Demattè (Volano), Dal Ponte (Lomaso), Aurelio Tamanini (Rovereto), D.r Toffol (Primiero), Cristel (Fiemme), Mons. Delugan per i delegati di Arco, Zucchelli (Trento), Degara (Val di Ledro). Della discussione verrà pubblicato un protocollo a parte. I suggerimenti e le proposte fatte verranno raccolte in un sistematico ordine del giorno dalla direzione regionale. Riguardo alla valutazione dei risultati elettorali diremo brevemente che l’assemblea fu unanime nel rilevare che il risultato ottenuto per l’effetto dei mandati rappresenta il massimo che il partito avrebbe potuto raggiungere; per l’effetto dei voti ottenuti esso è rimasto di 5 mila voti al di sotto della cifra che si sarebbe dovuta toccare, mentre il partito socialista ha avuto 5 mila voti di più al di là della sua forza effettiva come organizzazione socialista. Le cause di questo relativo successo socialista vanno ricercate: 1) nelle conseguenze morali e materiali della guerra; 2) nella improvvisa e transitoria trasformazione del contadino in salariato, specie nella zona distrutta; 3) nella reazione contro l’attuale amministrazione pubblica; 4) nella deficente propaganda locale in parecchi comuni; 5) nella mancante diffusione della nostra stampa nel dopoguerra; 6) nell’indolenza morale di alcune nostre istituzioni economico-sociali; 7) nell’incompletezza della nostra organizzazione giovanile. Di queste, com’è chiaro, alcune cause d’indole generale sono state più forti degli uomini, alcune altre si possono togliere o attenuare a) col diffondere la stampa quotidiana e settimanale, dando a quest’ultima un carattere più combattivo b) col fondare, ovunque manchino, le sezioni del Partito c) col rinnovare lo spirito delle nostre associazioni economiche-sociali, escludendovi o tenendovi lontani tutti gli elementi infidi o ostili al nostro programma d) col dare grande sviluppo all’organizzazione sindacale degli operai e dei contadini e) col far sorgere dappertutto i circoli giovanili. Furono prese in considerazione le proposte di aumentare al centro le forze di propaganda e d’istituire nei distretti comitati distrettuali per l’organizzazione politica. L’on. Degasperi, in confronto di chi aveva espresso tale desiderio, osservò che la giovane deputazione trovandosi di fronte ad un compito nuovo e difficile, dovendo concentrare i suoi sforzi nella rappresentanza degl’interessi della regione e sovratutto nella risoluzione di gravi problemi della ricostruzione politico-amministrativa non potrebbe in un primo tempo dedicarsi in prima linea alla propaganda. Bisogna che i propagandisti e le forze locali lavorino da sé con slancio e spirito di sacrificio. Il relatore rivolse un ringraziamento personale a quanti prestarono la loro opera per la propaganda e per l’organizzazione e fra gli applausi dell’assemblea mandò un augurio a Vincenzo Molino, ancora degente all’ospedale. I candidati Ferrazza e Toffol che misero disinteressatamente la loro opera al servizio della causa, vennero fatti segno a ripetute ovazioni. Grandi applausi suscitò la lettura del seguente telegramma da Gardena: «Gruppo elettori popolari Ortisei inneggia vittoria popolari confida energica difesa nuovo spirito nazionale promette lavorare trionfo completo nostri ideali». Ieri sera alla Casa del Popolo si radunarono numerosissimi gli amici per festeggiare i nuovi deputati. Parlarono applauditissimi gli onor. Degasperi, Grandi, Romani, Tamanini, l’ing. Ferrazza, R. Doff-Sotta, Cadonna ed altri. Acclamatissimo fu il signor Dandrea, rappresentante di Ampezzo. L’on. Degasperi lo salutò come rappresentante di quella zona che la denominazione straniera aveva per tanti anni tenuta staccata da noi. Nella campagna elettorale il partito popolare continua anche questa volta quella sua funzione nazionale, che fu la sua gloria anche nel passato: avvicinare e ricongiungere alla nazione i fratelli dispersi. Questo primo riuscito tentativo ci ha rivelata tutta la grandezza dell’opera che ci resta ancora da fare. Noi non mancheremo alla nostra missione, anche se la grande stampa italiana, salutatrice superficiale e ingiusta dei nostri sforzi, ci accomuni coi socialisti nella condanna di mancante patriottismo. L’affratellamento del genio della nostra stirpe col genio del cristianesimo, affratellamento che predomina nella nostra storia, presiede anche oggi al nostro lavoro. Al saluto dalla Gardena fu risposto telegraficamente così: «Gruppo popolare Ortisei. Assemblea rispose a vostro saluto con acclamazioni a voi e Ladinia. Deputazione manterrà impegno difendere vostri interessi promuovere comuni ideali. – Degasperi, Grandi, Carbonari, Tamanini, Romani». |
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