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| 41921-1925
| Roma, 21. Non è possibile riferire dettagliatamente i dibattiti avvenuti in seno alla Commissione consultiva, perché i commissari sono tenuti ad una certa discrezione; ma da informazioni assunte da varie parti ritengo di essere nel vero caratterizzando la situazione come segue. L’Ufficio amministrativo del Ministero dell’interno aveva preparato come materia di discussione un abbozzo di decreto legge il quale introduce la legge comunale e provinciale col primo gennaio 1923 assieme a parecchie altre leggi affini, quale quella sugli acquisti dei corpi morali, quella sui pubblici servizi da parte dei comuni e quella sul credito comunale e provinciale. Il progetto conteneva disposizioni transitorie per quanto riguarda il diritto elettorale, la tenuta dei registri di stato civile, che fino all’introduzione degli uffici di stato civile rimane com’è, la regolazione dei segretari ed impiegati comunali e provinciali, la amministrazione provinciale interinale fino all’insediamento degli organi elettivi, la parte tributaria che avrebbe effetto solo col 1.o gennaio 1924, l’esclusione, fino a nuove disposizioni, di quanto sia previsto da questa legge riguardo alle scuole (fondo per il patronato scolastico ecc.) con un ultimo finale articolo che demanda al Ministero dell’interno ulteriori coordinamenti che risultassero necessari. Dalla discussione risultò l’unanimità per chiedere che le amministrazioni provinciali attuali tengano l’amministrazione fino all’insediamento delle elettive; l’unanimità per differire ad altro termine l’introduzione delle leggi affini, specie quella sui servizi municipalizzati, l’unanimità per chiedere la modificazione delle norme previste per i segretari comunali, con riguardo allo stato di fatto e agl’impegni degli enti autonomi; e su tutto ciò il presidente on. Acerbo diede già durante la discussione assicurazioni tranquillanti. Convenne anche che si dovesse introdurre un articolo per rendere possibile l’attuale decentramento delle funzioni dei sottoprefetti, in analogia a quelle che esercitano tuttora (1.a istanza politica). Il dibattito si allungò poi su altre norme involgendo anche dichiarazioni di principio, fatte specialmente dall’on. Degasperi e da altri senatori e deputati. Notevole fu il discorso del deputato fascista Albanese il quale ricordò che la legge italiana è in pieno stadio di riforma; che un progetto il quale rappresenta un progresso in senso autonomista e decentratore sta già stampato fra gli atti del testè defunto comitato interministeriale; che sarebbe assurdo introdurre tale e quale la legge nel testo vigente per doverla fra poco modificare; che la riforma verrà senz’altro e che probabilmente andrà più in là ancora di quello che si proponeva il cessato Ministero, e si confermava in tale previsione leggendo alcuni brani di un recente articolo di Mario Govi nel «Popolo d’Italia», il quale assicura essere proposito di Mussolini di arrivare al decentramento amministrativo e «legislativo» regionale per tutto quello che riguarda economia, tecnica e scuola. Concludeva l’Albanese col proporre che frattanto si costituissero le provincie e si facessero le elezioni, attendendo entro un congruo termine (proponeva il 1.o maggio) l’introduzione del testo unico, nella sicurezza che questo sarà senz’altro riformato in un senso che lo approssimi all’attuale ordinamento delle Nuove Provincie. In favore di tale proposta parlarono o si dichiararono i deputati Bilucaglia (fascista), Degasperi, Suvich (nazionalista), Piccinato (fascista), i senatori Mortara, presidente della Cassazione, Conci, Zippel, Bombig, Chersich, l’on. Scek, il segretario politico dei fasci friuliani Heiland e il comm. Bezzi, i quali tutti apposero la loro firma al progetto Albanese. Non firmarono i rappresentanti della amministrazione presenti cioè il sen. Pironti, direttore gen. del Ministero dell’Interno, il pres. del Cons. di stato Perla, il sen. Peano, pres. della Corte dei conti, né l’on. Dudan, l’on. Girardini (Udine), e il sen. Mayr. L’on. Giunta non era in quel momento presente. Sta ora al Governo di decidere; ma comunque decida, l’affermazione della maggioranza della commissione è sintomatica. Essa significa che da uno studio oggettivo e da un dibattito concreto il nostro punto di vista esce giustificato e trionfante. In una commissione, che venne costituita con pregiudizi antiautonomistici la verità si è fatta strada. Se i tempi non fossero così turbinosi, se le frasi politiche non incalzassero, si potrebbe star certi che la tesi del decentramento autarchico otterrebbe un successo immediato. Se non l’avrà subito, è fatale che lo raggiunga nel prossimo domani. Non si dimentichi però, per la giusta prospettiva, che l’attenzione del partito di governo è oggi assorbita dal problema delle circoscrizioni provinciali, in rapporto all’esistenza entro i nostri confini di quasi mezzo milione di slavi. Come si assimileranno meglio e più presto? Ecco il problema che sovrasta a quello degli ordinamenti decentrati o non decentrati. La commissione in maggioranza si è pronunciata per una ripartizione degli slavi fra le tre provincie storiche di Trieste, Gorizia e Parenzo. Sembra però che la tesi di mettere il Goriziano con Udine abbia fautori potenti entro il Governo. Lo sloveno Scek dichiarò: o tutti gli sloveni con Gorizia, o tutti con Udine. Non vogliamo essere smembrati. Più facile appare il problema trentino. Contro il mantenimento di Ampezzo, da unirsi ad un mandamento ladino, non vennero sollevate forti eccezioni, e Trento capoluogo non soffrì l’offesa di avere oppositori. |
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| 41921-1925
| Alcuni amici si lagnano perché il «Nuovo Trentino» non ha una direttiva precisa ed un atteggiamento più risoluto e più combattivo. Abbiamo esaminato altre volte questo lagno pervenutoci tratto tratto durante gli ultimi tempi e da varie parti ma per ragioni diverse, delle quali talune sono ovvie, abbiamo sempre finito col tenere per noi le conclusioni, alle quali eravamo arrivati. Ma oggi, a fine d’anno, riconsiderando i tempi trascorsi, siamo anche disposti a fare qualche confessione. Ammettiamo dunque, in primo luogo, per quanto riguarda la trasmissione delle notizie, dei comunicati, dei commenti al pensiero altrui, che il nostro giornale non seppe sempre sceverare rigorosamente, rilevare adeguatamente, accentuare proporzionalmente, infine stampare o non stampare, pubblicare con rilievo o accennare di sfuggita, seguendo in tutto ciò un criterio logico e un pensiero chiaramente indiziato per ogni lettore. Di queste infrazioni alla logica, alla coerenza, alla chiarezza per una piccola parte chiamiamo noi stessi in colpa, in quanto ci sia mancata l’accortezza, lo spirito critico, la sensazione giusta del momento e delle sue risonanze. Ma recitato fino a questo punto il nostro confiteor, proclamiamo in generale che per la maggior parte le cause della discontinuità e dello squilibrio risiedono fuori di noi. La stampa di provincia infatti è costretta ad attingere notizie, ad assorbire coloriture, ad assimilare orientamenti dalla stampa delle capitali e dai suoi servizi. Le fucine del pensiero giornalistico sono Roma e Milano. Nessun corrispondente può sottrarsi al clima più o meno artificiale e viziato di queste serre, in cui si coltivano piante ed erbe d’ogni specie dall’olivo all’aconito dalla palma alla… carota. Anche gli uomini più onesti e più indipendenti soffrono del contatto cogli uomini corrotti, servili o semplicemente servitori. E anche se riescono a preservare lo spirito dal contagio difficilmente dominano uomini e ambiente così da saper mantenere un severo controllo sull’origine e sulla tendenza d’una notizia o d’un articolo. Gli onesti, per non essere complici, rimangono spesso vittime della mistificazione. Chi non ha assistito con stupore alle rapide evoluzioni della grande stampa romana, quando si è compiuto l’avvento fascista? Chi non ha sentita l’umiliazione per il proprio paese, quando ha constatato che non tacere – ciò che infine era consigliato dalla prudenza – non aderire con discrezione – ciò che forse era debito di patriottismo – ma videro adulare e incensare certi giornali che dodici ore prima avevano imprecato? E, badate bene, noi ci riferiamo a questo fatto non per riguardo particolare alle cause che l’hanno prodotto, ma a documentazione del fenomeno che si ripete di contingenza in contingenza. Nessuno ci può contestare che una della cause principali del filosocialismo democratico sia da ricercarsi nell’atteggiamento procacciante della grande stampa liberale e nessuno può negare che la svalutazione del parlamentarismo risale anche alla complicità della stampa coi più chiassosi e più buffi attori di Montecitorio. Tale è il clima della capitale; e qual meraviglia che talvolta uno sbuffo di quest’aria non diciamo intacchi (perché in tal caso sarebbe colpa non avvedersene), ma appanni anche il pensiero che dovrebbe uscire limpido e severo in un giornale onesto e indipendente di Provincia. Ma un’altra causa – scusate egregi ed onesti lettori – risiede proprio in voi stessi. Ci siamo accorti infatti che non tutti sanno leggere il giornale. Una volta il commerciante cercava di contrabbandare a traverso la riputazione del giornale l’elogio della propria merce: ma ora anche il lettore più ingenuo sa leggere diversamente un avviso reclame di quarta e terza pagina e un articolo di fondo. Le ragioni e la misura di credibilità sono diverse. Ma bisogna saper leggere anche nella altre rubriche. Bisogna sapere che il comunicato ufficiale è compilato dall’Ufficio stampa del Ministro dell’interno, bisogna sapere che l’agenzia telegrafica ottiene suggerimenti e direttive dal Governo, che quel giornale che viene citato è organo del tal gruppo finanziario e portavoce del tal altro gruppo di interessi. E bisogna soprattutto distinguere il colore di un comunicato o di un trafiletto che viene dal di fuori dalla parola più direttamente responsabile che dice la redazione. Onde il lettore che saprà destreggiarsi a traverso l’intrico che fatalmente s’innesta in ogni tessuto che si chiama giornale eviterà molte di quelle ragioni di disorientamento e di disappunto che lo urtano alla prima lettura. Tutto questo discorso, non si è fatto però allo scopo di sfuggire alla questione principale sollevata dal lagno degli alcuni amici citati nell’introduzione di quest’articolo. Non c’è la direttiva. Ebbene, se volete dire, che talvolta il giornale più che l’espressione di una volontà sicura, fu l’espressione di uno stato di perplessità, magari anche di dubbio, non potremo ragionevolmente negarlo. Ma noi vi chiediamo se innanzi alla complessità di certi fenomeni politico-sociali ci sia stata una voce qualsiasi, anche autorevolissima, che abbia anticipato un giudizio sommario. Noi vi chiediamo se il giornale possa trasmettere una luce che non esiste nell’ambiente politico o evitare un’ombra che si proietta nella vita politica, che esso stesso è costretto a vivere. Lo sappiamo quale domanda c’incalzi. Il fascismo? Ebbene, per quello che riguarda il costume politico, abbiamo forse mancato di chiarezza? Non abbiamo sempre biasimato il metodo della violenza, chiamato barbaro il sistema della rappresaglia, incitato tutti gli amici, ovunque nostro malgrado la violenza s’imponga, a soffrirla piuttosto che a commetterla? Per quanto riguarda la tendenza, non abbiamo chiaramente distinto sul concetto di Patria, Nazione, Stato, non abbiamo precisati i limiti della forza, contenuta dai diritti della libertà? E che vi può essere ancora che in quanto ai principi e al programma, ci renda dubitosi? Il fascismo riconosce il valore del fattore religioso? Non fa che approssimarsi alla via maestra, sulla quale noi camminiamo da tempo. Il fascismo crea organizzazioni sindacali e cooperative? Già lo scrisse un deputato fascista, il Pighetti, che il loro programma operaio combacia con quello della Confederazione bianca. Il fascismo vuole irrobustire l’autorità dello Stato? Ma che cosa abbiamo deplorato noi, specie noi delle Nuove Provincie, se non che in Italia ci fossero troppi a comandare e nessuno ad obbedire? Cosicché una direttiva ci è apparsa risultare evidente da tutto il nostro giornale: anche il fatto nuovo non scuote il nostro programma, che anzi ce lo rinvigorisce e rivalorizza. Fermi quindi ai posti, avanti sulla nostra via con sicurezza, con prudenza. Giunti a questo punto, comprendiamo bene di non aver soddisfatto completamente i nostri critici. Oltre che la direttiva, essi vorrebbero probabilmente il giudizio sugli uomini. Che ne dite di Mussolini? Vuole ristabilire sul serio l’ordine e le libertà costituzionali o intende eternare una dittatura di partito? Vi rispondiamo: comprendiamo la vostra impazienza, ma non sapete anche voi che la risposta, non da una nostra assicurazione vi può venire, ma solo dal compiersi graduale dei fatti? E voi chiedete ancora: Che ne dite di certi nuclei massonici e riformisti, trasformatisi all’ultimo momento in fascisti della sesta giornata? O che pensate di certi raggruppamenti di minoranze campagnole, che nel passato furono a volta a volta o socialisti o anticlericali o liberali o «contadini»? Che ne pensiamo? Pensiamo quello che ne pensate voi, quello che ne pensa la maggioranza della popolazione che la sta a guardare. E stiamo a guardare anche noi se saranno convertiti sul serio, se diventeranno proprio rispettosi della religione ch’essi volevano cacciare e Gentile vuole rimettere nella scuola, se – lasciando in asso cazzuola e triangolo – valuteranno la Chiesa cattolica nei confronti dell’Italia, come proclama di valutarla Mussolini… Volete proprio una direttiva anche in loro confronto? Fate quello che facciamo noi. Tirate dritto per la vostra strada ch’è la nostra e quella giusta, quella che conduce al risorgimento della Patria. E, per il Capo d’anno, augurate agli altri quello che auguriamo noi: di trovare anch’essi la via che conduca l’Italia alla pace ed al progresso nella giustizia e nella libertà. |
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| II Il mio parere sulla proposta di trasferire la sede della Prefettura da Trento a Bolzano e di rettificare i confini della Venezia Tridentina» è presto esposto. Circa la decapitazione di Trento conterrò il sentimento del natio loco entro due citazioni d’indole generale, che le diranno il pensier mio. Il primo chiamato a deporre per la mia tesi è Gian Domenico Romagnosi il quale spero non valga nell’estimazione degli italiani per tocco da tabe localista. Scrive dunque il Romagnosi come non possa mai dirsi «civilmente posto, radicato e assicurato l’ordinamento fondamentale, se salva l’unità di direzione capitale, le genti non siano ripartite, con tutti i compatibili rami di attribuzioni, in gremii proporzionati di locale attivata, pei quali la individualità venga con l’opera impegnata nella società. Senza la quale dispensazione di politica fisiologica la nazionale attinta non si può dire fondata, assicurata come richiede l’organismo normale dello Stato, e meno poi che il vigore dovuto delle membra corrisponde a quello del capo, e possa reagire d’accordo a produrre una vita durevole, robusta e sicura». Ebbene, noi sosteniamo che il Trentino è un’individualità storica e vivente: a provarlo c’è tutta una letteratura dal Vannetti a Cesare Battisti. L’Alto Adige viceversa è un’espressione geografica che può vivere una vita provinciale solo congiungendosi in qualche forma colla permanente vitalità amministrativa del Trentino. Se è vero questo la questione del capoluogo è risolta. La seconda citazione è più pratica e più conclusiva. È di un illustre maestro di diritto amministrativo, il senatore Carlo Ferraris , nella sua opera sull’Amministrazione locale in Italia (Padova, 1920). E suona «Ma dove l’azione della storia si è più particolarmente da noi manifestata fu nella scelta dei rispettivi capoluoghi. Costituitosi il nuovo Regno si trovò una serie di città, le quali per le vicende dei secoli erano divenute come il centro naturale di un dato territorio; se anche non erano molto popolose, tuttavia per la somma d’interessi e di abitudini che si erano raccolte intorno ad esse, si dovette aver loro riguardo nella formazione delle circoscrizioni amministrative e costituirle come capoluoghi di provincia. Possiamo ricordare Siena, Arezzo, Ravenna, Benevento, Caserta, Mantova e molte altre. Per rispettare interessi costituiti fu persino conservata la piccola provincia di Porto Maurizio, frammento di quella di Nizza, cedute in parte alla Francia dopo la guerra del 1859. Questa varietà produce qualche inconveniente e rende più difficile per il legislatore la creazione degli ordinamenti amministrativi. Ma coloro, che elevano in proposito alti lamenti e vorrebbero radicali innovazioni, mostrano di ignorare che si tratta di un fenomeno inevitabile e che quelle innovazioni darebbero occasione ad inconvenienti anche peggiori. Quindi, se qualche ritocco potrà essere necessario ed anche giovevole, se si potranno anche mutare le circoscrizioni pei sevizi puramente governativi, bisognerà essere molto cauti nel toccare quelle che servono per l’amministrazione autonoma, quelle in cui si esplicano le libertà locali, tanto più degne di rispetto, quanto più profondamente sarà in esse impresso il carattere storico». In quanto alla rettifica, è certo che non è possibile nascondersi le ragioni che militano per un distacco dei distretti di Ampezzo, Livinallongo e forse di qualche altro. Ma non si dimentichino due criteri inderogabili: il primo che non bisogna indebolire la popolazione italiana della provincia a vantaggio della tedesca; il secondo che non è opportuno aggregare ad altre Provincie dei mandamenti, i quali non siano totalmente assimilati per la legislazione di diritto privato e pubblico e per il sistema tributario. Onde io penso che estesa una volta alle nuove Provincie la legge amministrativa del Regno, con quei temperamenti che verranno accolti, una più razionale rettifica di confini debba venir rimessa a quando il nuovo Governo intraprenderà e condurrà a termine quel lavoro che fu invocato da tanti anni, cioè un più razionale riparto delle circoscrizioni amministrative del Regno. Alcide De Gasperi Deputato al Parlamento. |
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| DE GASPERI. Il Gruppo popolare non ha presentato un proprio ordine del giorno, perciò è tenuto a fare precise dichiarazioni sugli ordini del giorno presentati da altri Gruppi della Camera . L’ordine del giorno dell’onorevole Celli termina con le parole «approva le dichiarazioni del Governo». È chiaro, corrispondentemente alle nostre dichiarazioni antecedenti, ai nostri ordini del giorno, che noi voteremo per questa conclusione. E possiamo aderirvi in piena coerenza con il nostro atteggiamento, come fu precisato negli ordini del giorno durante la crisi, perché le dichiarazioni del Governo contengono i punti essenziali del nostro programma immediato, i quali sono: fare opera di pacificazione e di autorità contro ogni violenza (interruzioni a sinistra); garantire la libertà di sviluppo a ogni organizzazione sindacale e cooperativa; fare una politica finanziaria di economie, intenta a risanare il credito ed elevare la produzione; cooperare ad una politica internazionale che miri alla ricostruzione economica ed alla solidarietà dei popoli. Detto questo, possiamo aderire anche ai considerando dell’ordine del giorno dell’onorevole Celli, perché le linee programmatiche in esso tracciate, per quanto non poste nella prospettiva integrale del nostro programma, non vi contraddicono in nessuna parte. E questo affermo anche in confronto alle riserve fatte dall’onorevole Casertano, perché il secondo capoverso, che parla della partecipazione alle responsabilità nell’andamento delle aziende e di mettere le classi operaie in grado di concorrere allo sviluppo della legislazione del lavoro, corrisponde precisamente al nostro programma e anche alla sua pratica attuazione, come è già avvenuto in molte occasioni. Siamo lieti del resto di ritrovare che anche nell’ordine del giorno presentato per la democrazia dall’onorevole Cocco-Ortu i punti programmatici sui quali sono impostate le dichiarazioni del Governo vi si riportano in forma generica, e – fatta qualche riserva su alcuni accenni che ci sembrano oscuri, come quelli, ad esempio, di «risanare la circolazione e controllare i buoni del tesoro» – possiamo dargli la nostra adesione, ritenendoci autorizzati a supporre che fra gli urgenti problemi sociali ed economici citati nell’ordine del giorno siano da intendersi anzitutto quelli che sono già maturati in progetti o in relazioni sotto il presente Governo come il latifondo, le camere agrarie, i contratti agrari, il Consiglio nazionale del lavoro, ed altri e che, in tesi più generale, la formula «equa tutela dei lavoratori» e «libertà di organizzazione» non escluda la nostra tendenza programmatica verso il riconoscimento giuridico di classe e il partecipazionismo. Il recente accordo raggiunto con il direttorio della democrazia ci assicura, d’altro lato, che la nostra opinione sulla inderogabile necessità di risolvere rapidamente il problema scolastico, nel senso della libertà con l’esame di Stato, è pienamente condivisa anche dalla sinistra democratica, e l’accenno che nell’ordine del giorno si fa alle autonomie locali e alla particolare cura che oltre il Mezzogiorno e alle isole deve volgersi alle terre liberate e redente fa sperare che problemi economici e politici speciali, che furono finora troppo trascurati, trovino anche in quella parte della Camera attenzione più efficace. Ci è lecito quindi sperare che la crisi, la quale ci può dividere nella valutazione del passato, abbia fruttato una maggiore stabilità per la situazione avvenire. L’ordine del giorno della destra, più che una indicazione pratica di governo, ci pare contenga affermazioni di una dottrina. Senza indugiarci a discuterla, dobbiamo dichiarare che la formula della reintegrazione della «funzione nazionale dello Stato», accanto alle enunciazioni interpretative date in questi giorni, che giunsero fino a mettere in discussione il Parlamento e ad augurare la dittatura (bravo!), che qualifichino i nostri sforzi verso riforme sociali come «disastrosi e costosi esperimenti riformistici» e che respingono la nostra tendenza verso le riforme organiche come il decentramento e le autonomie come «conati diretti a compromettere, se non pure a spezzare, l’unità originaria dello Stato italiano», questa formula con tali commenti interpretativi, che sono non solo nelle parole ma anche nei fatti, non possiamo accettarla. Sappiamo apprezzare gli alti valori morali che hanno rimesso in vigore il nazionalismo e sentiamo che è nostro dovere difendere la dignità, il prestigio, il carattere della nazione quale essa fu creata e fusa anche dallo sviluppo delle sue migliori tradizioni. Ma la nazione è anzitutto il popolo italiano, il quale chiede oggi un regime di libertà e di ordine, di giustizia e di riparazione sociale (approvazioni al centro), di pacificazione all’interno e all’estero. Da ultimo un accenno sulla collaborazione con i socialisti. È inutile fare dichiarazioni in riguardo al fatto della collaborazione perché questo fatto viene dai socialisti stessi smentito. Dal momento però che vi si è accennato da parte dell’oratore della destra, mi sia permesso dire che noi consideriamo tal fatto, non dal punto di vista direi contingente della situazione parlamentare, ma dal punto di vista dell’inserzione nell’opera di ricostruzione nazionale delle forze cospicue del lavoro. Questo fine crediamo che sia profondamente democratico e profondamente italiano . (Vivi applausi al centro). |
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| DE GASPERI. Mi limiterò a poche dichiarazioni, senza seguire il collega Flor nella parte economica e sociale e nei punti di lagnanza che ha toccato per le nuove province. Il suo discorso e le dichiarazioni venute di straforo attraverso i fatti personali dimostrano come sarebbe utile una buona volta che affrontassimo il problema della amministrazione delle nuove province, e in tale occasione si sentissero le varie opinioni dei vari settori della Camera perché, senza dubbio, si è dimostrato in parecchie occasioni che forse noi deputati delle nuove province abbiamo mancato a un compito specifico: quello di interessare irappresentanti delle altre regioni su quelli che sono problemi non locali ma che hanno radicalmente riflessi nazionali. Mi limiterò alla parte, direi, sistematica e organica toccata dall’onorevole Flor, cioè a quella che riguarda il metodo di amministrazione delle nuove province, anche perché credo che ce ne sia il bisogno essendo un sistema poco noto: il che spiega le lagnanze che vengono fatte; se domandiamo a un deputato degli altri settori e un po’ anche a rappresentanti delle nuove province, difficilmente veniamo in chiaro sul modo come vengono amministrate. Lo Stato italiano amministra le nuove province con un sistema speciale, differente da quello delle vecchie province; fin qui si sa, più in là no; quando si deve dire attraverso quali organi, qui cominciano il divario e gli apprezzamenti diversi sui dati di fatto. Noi abbiamo due commissari generali, uno a Trento e uno a Trieste. Se prendiamo in mano il decreto di investitura dei poteri leggiamo che i commissari generali civili esercitano i poteri di governo nell’amministrazione del territorio posto oltre l’antico confine. Essi sono alla diretta dipendenza del presidente del Consiglio dei ministri; possono corrispondere direttamente, quando lo credono opportuno, con i singoli ministri e con tutte le autorità del regno. Questo risulta dal decreto 22 luglio 1920. In realtà abbiamo visto che a proposito di una discussione in Senato si è alzato a difendere la politica del Governo il commissario generale che contemporaneamente è senatore, l’onorevole Credaro; e ogni volta che noi abbiamo portato qui alla Camera delle questioni generali riguardanti l’amministrazione e la direttiva politica ci siamo trovati dinanzi a questa difficoltà, di dover pretendere dagli egregi uomini che siedono al banco del Governo una risposta in questioni di cui direttamente non avevano mai avuto occasione di occuparsi. Viceversa ogni volta che ci rivolgiamo a quelle persone che per decreto o per situazione di fatto sono chiamate ad occuparsi di queste questioni ci viene risposto che esse non sono in grado di assumere responsabilità politiche perché la responsabilità politica viene assunta dai commissari generali attraverso il presidente del Consiglio. Oggi vediamo, per esempio, una anomalia e cioè che, con molto nostro piacere, assume l’incarico di rispondere alle interpellanze sulle nuove province il sottosegretario di Stato agli interni mentre, in base al decreto 14 agosto 1920, dovrebbe essere il sottosegretario della Presidenza del Consiglio perché in realtà le nuove province sono sottoposte direttamente al controllo e alla responsabilità del presidente del Consiglio e, specialmente, del sottosegretario di Stato della Presidenza del Consiglio. Esiste innegabilmente una grande confusione nel sistema amministrativo e nel meccanismo che deve portarci al di là di questo punto che è di assimilazione fra il vecchio ed il nuovo nelle terre redente; esiste una grande confusione, esiste una mancanza di contatto, d’ingranaggio, cosicché le cose non vanno non solo per gli ostacoli da superare, ma anche perché il meccanismo è tale che non può funzionare, e perché non è nelle mani di alcun uomo in modo particolare. Se si facesse il confronto fra questi due decreti, uscito l’uno il 22 luglio 1920, che stabilisce il potere dei commissari generali, e l’altro il 14 agosto 1920, uscito cioè a pochi giorni di distanza, il quale stabilisce il potere del capo dell’Ufficio centrale nelle nuove province e quello del presidente del Consiglio; se si facesse questo confronto, si troverebbe che in base a questi decreti è assolutamente impossibile sapere chi, per una data azione, per il disbrigo poi di un tale affare amministrativo nelle nuove province, deve assumere le responsabilità, se il commissario generale o, attraverso l’ufficio centrale delle nuove province, il presidente del Consiglio. Se tutto si riducesse all’uomo che deve venire alla Camera e da quei banchi deve rispondere alle interpellanze e alle mozioni dei deputati, la cosa potrebbe essere risolta facilmente, ma il male è che questa differenza, questo contrasto di competenze si manifesta e si rivela pubblicamente dinanzi agli occhi dei più profani, perché ormai nelle province delle terre redente apertamente si dice da parte degli uomini che sono alla testa dell’amministrazione: «ma noi non possiamo far niente, noi non possiamo assumere delle responsabilità che sono dell’Ufficio centrale delle nuove province e quindi del Governo». Viceversa avviene quello che accennavo poco fa a proposito di quanto si è detto in Senato; chi risponde anche per l’ufficio centrale, chi è chiamato come responsabile insieme con il presidente del Consiglio, non è il capo dell’Ufficio centrale, ma il commissario generale della rispettiva regione, e questo con una procedura che, per quanto io non abbia molta esperienza in materia, mi sembra completamente nuova: è infatti strano che il commissario generale assuma delle responsabilità e risponda dinanzi alla Camera. Il peggio si è che questo contrasto di competenze, questa confusione di responsabilità ha un triste riflesso anche sopra tutti i congegni amministrativi, cioè sopra tutti i congegni che si sono creati per attuare finalmente il passaggio della legislazione nuova alle nuove province. Le commissioni consultive che si sono create e che dovrebbero dare il loro parere ai commissari e all’Ufficio centrale sono tre e la sfera dell’una è in contraddizione con quella dell’altra. Cosicché noi non arriveremo mai ad una chiara responsabilità in simili questioni, e non arriveremo nemmeno alla possibilità di far servire queste commissioni a qualche utile risultato se non stabiliremo in modo preciso chi abbia la precedenza e quali siano le commissioni che debbano essere dirette ad interpretare la volontà di coloro che vengono chiamati a dare parere. Quindi si spiega benissimo come recentemente il collega onorevole Grandi abbia sentito l’impotenza delle commissioni consultive regionali e si sia domandato che cosa stiamo a far noi deputati e senatori. È evidente, ed è stato evidente soprattutto durante la crisi, che bisogna cambiare assolutamente sistema se si vuole, in primo luogo, che la sistemazione sia rapida e sia attuata, ed in secondo luogo che la grave questione dei rapporti fra italiani e non italiani, la sistemazione cioè delle nuove province, non rimanga insoluta e, rimanendo insoluta, ci porti al grave pericolo di una conflagrazione. Perciò noi abbiamo insistito perché l’amministrazione delle nuove province avesse una rappresentanza politica speciale in una forma o nell’altra. Il Ministero recentemente si è deciso a concedere, direi, una specie di diritto alla collaborazione diretta ai capi dell’Ufficio centrale. Non ho visto pubblicato in proposito il decreto relativo ma spero che questa pubblicazione avvenga presto. È una concessione minima, che certo non ci dà quella regolamentazione che secondo la mia convinzione è assolutamente necessaria. Però io voglio desiderare che di fatto almeno, se non nella forma, si crei un tale sistema per cui la assimilazione di una legislazione con l’altra possa venire fatta in presenza di coloro che dirigono l’amministrazione e possono controllarne realmente gli effetti. Io, per le questioni di carattere generale e politico-amministrative cui ha accennato l’onorevole Flor, non posso in linea generale che associarmi a quelle che furono le sue direttive, salvo naturalmente il colore e il punto di vista particolare che può venire dall’uomo di opposizione. FLOR. Quale colore? DE GASPERI. Rosso. Senza dubbio noi siamo tutti d’accordo, credo almeno tutti i deputati delle nuove province, nel chiedere la rapida convocazione delle rappresentanze regionali, o provinciali che si vogliano chiamare, quelle che secondo il sistema ancora localmente vigente si chiamano diete provinciali. Dopo l’elezione dei comuni deve finalmente avvenire l’elezione delle diete provinciali e a questo riguardo io osservo che noi dobbiamo prima risolvere evidentemente la questione della loro competenza, stabilire cioè se a loro spetti oltre la competenza dei consigli provinciali delle vecchie province, anche la prerogativa di carattere legislativo che esse avevano avuto finora. A questo proposito osservo che il punto di vista, se non del Parlamento certo del Governo, è in gran parte pregiudicato in nostro favore. Non solo noi abbiamo, in tesi generale, una legge del Parlamento fatta al momento dell’annessione delle nuove province in cui si dice che la legislazione del regno deve essere estesa, «concordandola con le autonomie esistenti», alle nuove province (articolo 4), ma nell’atto stesso in cui il Governo ha emanato lo statuto nelle nuove province si accennava al potere legislativo delle diete provinciali e delle rappresentanze regionali e si facevano le debite riserve per la emanazione dello statuto, dicendola piuttosto atto storico che atto di conseguenze immediate accennandosi soprattutto agli articoli 3 e 10 dello statuto che, rendendo partecipe del potere legislativo le Camere, escluderebbero la ripartizione delle funzioni legislative che per ordine di materia e di territorio la costituzione locale faceva tra Consiglio dell’impero o Parlamento centrale e diete provinciali. E la relazione al re dell’onorevole Giolitti diceva: la base delle autonomie è quella che la legge dell’annessione vuole trasmettere integralmente alla futura sistemazione definitiva dell’ordinamento delle nuove province. Ora, per non parlate sempre inutilmente, ed a vuoto, delle autonomie provinciali e arrivare ad un progetto concreto che potrà venire sottoposto in una forma o nell’altra agli organi deliberativi, per arrivare a questo è necessario che il Governo abbia a sua disposizione un meccanismo che, sentito il parere delle persone più addentro in materia, possa preparare il progetto e possa anche sostenerlo di fronte al Consiglio dei ministri per l’eventuale presentazione alla Camera. Per questo abbiamo insistito sulla emanazione del decreto a cui prima ho accennato. Ci sono, riguardo all’assimilazione, alcuni altri problemi che vanno assolutamente risolti parallelamente e sono quelli della assimilazione degli impiegati. Si tratta di problemi a cui il collega Flor ha già accennato e che io mi limito a toccare di sfuggita. Noi abbiamo ancora degli impiegati venuti dal cessato regime; li abbiamo nei quadri con la sistemazione austriaca e non li abbiamo ancora trasportati nei ruoli dei quadri italiani con differenza notevole di stipendi e, soprattutto, con differenza di promozione, eccetera. Nel momento in cui si stava operando questo passaggio è intervenuta questa estate la legge sulla burocrazia, la quale ha avuto l’effetto di arrestare questo movimento di promozioni nelle nuove province. Ora noi domandiamo che l’assimilazione venga accelerata e che, per intanto, si dia non solo l’anticipo votato recentemente dal Consiglio dei ministri ma si tenga conto anche di quelle indennità speciali, che vennero concesse agli impiegati delle nuove province perché condizioni speciali le giustificavano, soprattutto riguardanti i prezzi, tanto più che oggi non c’è nessuno che possa affermare che tali prezzi siano diminuiti o che le condizioni della vita siano migliorate. L’accenno che ha fatto il collega Flor al decreto-legge sugli invalidi è senza dubbio di grande valore. Noi comprendiamo che ragioni sentimentali possano dare suggerimenti diversi al riguardo ma, se pensiamo alle madri dei caduti e alle vedove, non c’è nessuna ragione sentimentale che possa essere invocata. In ogni caso domandiamo, e preghiamo il rappresentante del Governo di invitare a questo proposito il sottosegretario alle pensioni, che si promuova una revisione del recente decreto-legge per l’applicazione della legge sugli invalidi nelle nuove province. Toccati questi argomenti e riservandoci di discutere i singoli problemi quando i vari bilanci verranno portati alla Camera, mi limito a dire, nei rapporti con i tedeschi, cui ha accennato il collega Flor, che anche noi apparteniamo a un indirizzo il quale intende che i tedeschi, come gli slavi, debbano venir trattati come tutti gli altri cittadini; ma pensiamo che evidentemente con questa frase generale non è ancora precisata una politica in confronto ai loro postulati nazionali. Nella Venezia Tridentina abbiamo, di fronte ai postulati tedeschi, diverse obiezioni, direi pregiudiziali, da risolvere: anzitutto quella del confine linguistico; perché non è detto che i tedeschi esistano in masse perfettamente compatte, per cui bastano leggi e misure speciali secondo le circoscrizioni territoriali. Vi è una certa zona mista sulla quale naturalmente non possiamo proclamare delle rinunzie e per cui bisognerà evidentemente pensare a provvedimenti particolari. Inoltre noi, pur essendo decentratori, pur essendo autonomisti, pur dovendo riconoscere ai tedeschi ciò che domandiamo per noi, dobbiamo tener conto delle necessità, direi amministrative, di ogni singola regione. Questi accenni bastano per comprendere come il problema sia tutt’altro che semplice; però è anche vero che, per far cessare l’acerbo malcontento che esiste nelle regioni tedesche – è inutile nasconderlo – e per arrivare il più rapidamente a una soluzione soddisfacente, è assolutamente necessario che questo sistema amministrativo, e direi rappresentativo, del passaggio dall’una legislazione all’altra, venga rinforzato non soltanto con maggiori cure da parte degli organi governativi, ma soprattutto mettendo alla testa di quelle regioni una persona la quale abbia una direttiva propria e possa assumere la responsabilità. A questo riguardo sono completamente d’accordo con il collega Flor e credo di interpretare il pensiero anche degli altri colleghi delle terre redente. Se da questa discussione che è stata frammentaria, e non poteva essere sistematica, la Camera avrà l’impressione che vi sono gravi problemi i quali, benché limitati territorialmente alle regioni attorno a Trento e attorno a Trieste, non sono problemi che si possano trattare con criteri solamente locali, ma poiché si tratta dei confini della patria hanno un nesso intimo con la sistemazione generale dello Stato e interessano tutta la nazione, credo che la discussione avrà portato già qualche vantaggio, indipendentemente dalle risposte dell’onorevole sottosegretario di Stato, che auguro siano completamente favorevoli, anche per quei punti specificati dal collega Flor e che io non ho qui indicati. (Approvazioni al centro). |
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| 41921-1925
| DE GASPERI. Io osservo che nessuna legge votata dalla Camera è stata applicata senz’altro alle nuove province. È sempre stato inteso (e dirò anche come) che ogni legge per venir applicata alle nuove province debba venire estesa con decreto speciale del Governo, a ciò autorizzato dalla legge d’annessione, la quale dice che le leggi, tanto vecchie che nuove… MODIGLIANI. Nuove non c’è scritto… DE GASPERI. Dice «le leggi»… MODIGLIANI. Quelle esistenti!… DE GASPERI. Io non so come sia possibile mettere in relazione questo vostro criterio giuridico con la pratica seguita fino adesso. Il fatto è questo che né la legge sulla burocrazia, né le leggi riguardo alle case operaie né le ultime che noi chiedevamo d’urgenza che venissero applicate, vengono applicate alle nuove province, perché per disposizione della legge di annessione, per l’estensione ad esse di ogni legge, è necessario un decreto speciale del Governo. Diversamente noi avremmo dovuto per ogni legge indicare esplicitamente se doveva essere o no applicata alle nuove province. MODIGLIANI. È assurdo… DE GASPERI. Ma questa è la questione… MODIGLIANI. Questo discorso vuol dire la disannessione delle province annesse!… (Vivi commenti). DE GASPERI. Il discorso non vuol dire niente!… Io non faccio un apprezzamento: dico che di fatto è avvenuto fino adesso così! |
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| 41921-1925
| I sottoscritti chiedono di interpellare il Governo per sapere – premesso che la legge 13 agosto 1921 sulla riforma della burocrazia prevede di proporzionare il personale stabilendo per le singole amministrazioni le nuove tabelle organiche; il relativo trattamento economico e le norme di carriera a nuovi ordinamenti da ottenersi con la semplificazione e col decentramento dei servizi; che col decreto-legge 7 aprile 1922, n. 412, il Governo adotta dei provvedimenti riguardanti il trattamento economico provvisorio degli impiegati per i mesi di aprile e di maggio, annunciando che entro tale periodo sarebbero state emanate le nuove tabelle ai sensi della legge sulla burocrazia – quali siano i suoi intendimenti in ordine alla attuazione della legge sulla riforma della Amministrazione dello Stato e come intenda coordinarvi la sistemazione economica definitiva del personale. De Gasperi, Rocco Marco, Paleari, Boggiano-Pico, Stefani, Agnesi, Zucchini, Graziadei, Locatelli, Aldisio, Tupini, Vassallo Ernesto, Corazzin, Ferrari Adolfo, Cicogna, Signorini. |
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| 41921-1925
| DE GASPERI. Non ho che da richiamarmi all’ordine del giorno votato all’unanimità dalla prima Commissione, nel quale ordine del giorno si domanda che anche nel bilancio di quest’anno sia inserito uno stanziamento di fondi a contributo e integrazione dei bilanci degli enti locali e, per le considerazioni generali riguardanti tutto il Veneto e le terre liberate, mi associo alle insistenze fatte, oramai note al Governo, da tutti i rappresentanti di quelle regioni. Per le nuove province, poiché si parla qui di estendere l’eventuale stanziamento di fondi alle nuove province, debbo osservare che se vi sono delle lamentele giustificate per le terre liberate – ove pure si è provveduto nel primo anno con un fondo di 70 milioni, nel secondo con un fondo di 84 milioni, nel terzo con 32 milioni, mentre 37 milioni sono ancora a disposizione – per le nuove province questo decreto non ha mai avuto applicazione, sicchè non si è mai avuto nemmeno un centesimo a disposizione per integrazione dei bilanci. In attesa che venisse esteso anche alle nuove province il funzionamento della Cassa depositi e prestiti – che non può funzionare ancora da noi e non vuol funzionare perché non è regolata ancora la questione delle casse di risparmio postali – si sono dati mutui ai comuni, dal Ministero del tesoro, mutui in anticipo di quelli che dovrebbe concedere la Cassa depositi e prestiti, e che sono garantiti, con quelle certe regole molto severe che conoscete, mediante le entrate comunali. Ma questi mutui si sono dimostrati finora del tutto insufficienti perché, dati soprattutto ai grandi accentramenti ed alle grandi città, hanno lasciato completamente sprovvista l’enorme quantità dei piccoli comuni. Questo è avvenuto anche perché gli interessati in principio non sapevano di questa possibilità, non conoscevano questa legislazione e, non conoscendo la via per arrivare al fine, hanno perduto due anni di tempo, prima di presentare la loro domanda. Appena sono venuti a conoscenza della cosa, i piccoli comuni si sono svegliati ed hanno inviato le loro domande, ma queste che chiedono in complesso 100 milioni, rimangono presso il Ministero del tesoro e non vengono esaudite, perché si dice che il Ministero del tesoro non aveva a disposizione che un fondo di 25 milioni, ormai esaurito per le grandi città, per Trieste soprattutto. Ora io, insistendo sul voto della Commissione, il quale chiede che lo stanziamento venga fatto per le terre liberate e che il decreto venga esteso, in modo che le nuove province abbiano la possibilità di attingere a questa fonte, colgo anche l’occasione per raccomandare al rappresentante del Ministero del tesoro una maggiore larghezza nel sovvenire con mutui i piccoli comuni delle nuove province. (Approvazioni). |
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| 41921-1925
| DE GASPERI. A voler essere sereni ed obiettivi bisogna riconoscere che è alquanto difficile discutere in queste condizioni, quando non è presente nessuno dei componenti della Commissione che hanno approvato questa relazione. Quindi io vorrei pregare la Presidenza di voler provvedere perché, trattandosi di questioni simili, sia presente un rappresentante della Commissione. In questo caso non propongo già la sospensiva, ma voterò la proposta fatta all’onorevole Mancini, per negare l’autorizzazione a procedere . |
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| 41921-1925
| DE GASPERI. In via generale io sono d’accordo con quello che ha detto l’onorevole Agostinone. Dovrei però osservare che vi è ben differenza tra le scuole dell’Alto Adige e quelle della Valle d’Aosta, perché il decreto Corbino riguarda le scuole italiane che sono in minoranza nella zona tedesca, mentre nella Valle d’Aosta è tutto al contrario… (Commenti). |
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| 41921-1925
| DE GASPERI. Ho da fare una semplice dichiarazione. Chiunque legga la relazione della Giunta deve constatare che gli atti di violenza commessi in quella regione, non sono atti di violenza sporadici o passionali, ma si tratta di violenza organizzata; deve constatare inoltre che si tratta non di brogli sporadici ma di brogli sistematicamente preordinati e consentiti. Basta accennare alle elezioni del giro a gruppi, e alle votazioni degli emigrati e dei morti. Inoltre è evidente l’assoluta inosservanza delle formalità di legge, tanto che si può dire che in quei centri, in quelle città, il voto segreto venne trasformato in voto pubblico e controllato. Cosicché dovremmo concludere che tutta la lista è inficiata, e deplorare di non poter rimettere in discussione la lista intera. Ora ci troviamo dinanzi ad una proposta della Giunta, direi più che ad una proposta, ad un appello della Giunta. La Giunta, dopo matura discussione, sentito un comitato inquirente di diversi partiti, fa un appello alla Camera perché in nome della moralità pubblica, si pronunci tale sanzione che gli elettori e gli eletti e il Governo – il Governo del tempo che farà le elezioni – non ricadano più nella tentazione di simili elezioni. L’appello ci viene fatto a nome della moralità pubblica, ed anche a nome della stessa Sicilia, che non vuole si confonda la reputazione generale propria col disonore che deve ricadere sui singoli luoghi dove questi fatti sono avvenuti. È vero, come ha detto l’oratore precedente, che nella profilassi della legge elettorale questa operazione chirurgica chiesta dalla Giunta non è prevista; ma noi sentiamo che lo scopo supremo della legge è quello di garantire la sincerità del suffragio popolare, e crediamo che soprattutto si debba soddisfare allo spirito della legge. Quindi accetteremo tutte le conclusioni della Giunta; voteremo anche per la non surroga, perché crediamo che si debba pronunziare un monito agli elettori e ai candidati, e un monito anche al Governo: il Parlamento non è più disposto a concedere la sanatoria a sistemi che disonorano solo delle località, ma che, se restassero impuniti, getterebbero il sospetto e il disonore politico non solo su tutta l’isola, ma su tutto il paese. (Approvazioni – Commenti). […] DE GASPERI. Io ritengo che queste dichiarazioni personali dei colleghi che si dichiarano disposti a dimettersi , se fanno onore alla loro franchezza e lealtà, d’altro canto non ci aiutano a risolvere la questione. (Approvazioni). […] DE GASPERI. Chiedo di parlare. PRESIDENTE. Ne ha facoltà. DE GASPERI. Dopo le dichiarazioni dell’onorevole presidente della Giunta delle elezioni, vorrei pregare l’onorevole Modigliani di non ritirare la sua proposta aggiuntiva in modo che si possa prima votare sulla proposta del presidente della Giunta: altrimenti correremo il rischio cui il presidente ha accennata. Noi non siamo assolutamente per la possibilità della sostituzione. Se altrimenti non avviene, saremmo costretti a votare contro l’emendamento Modigliani. […] DE GASPERI. Domando scusa se prendo ancora una volta la parola; ma dopo le spiegazioni dell’onorevole presidente ed altre affermazioni che ho sentito su altri banchi è necessario che io sia molto esplicito. Scopo del nostro atteggiamento è quello, oggi, di dare una sanzione morale riguardo a tutta la lista «Stella». Se questo atteggiamento potesse essere sospettato nel senso che si cerchi di approfittare della situazione attuale per giungere alla sostituzione di altri candidati, io subito mi dichiarerei contrario alla proposta Modigliani. Siccome la proposta della Giunta è quella di non sostituire i due annullati, cioè di non assegnare quei due mandati, noi voteremo la proposta della Giunta. Se l’onorevole Modigliani trova modo di accordare questo con la possibilità di future indagini, sempre allo scopo morale di cui ora dicevo, tanto meglio. GIUFFRIDA. Chiedo di parlare. PRESIDENTE. Ne ha facoltà. GIUFFRIDA. Io vorrei domandare alla cortesia e alla equanimità dei colleghi pochi minuti di attenzione. L’onorevole De Gasperi ha detto che desidera che il voto della Camera significhi condanna della lista «Stella». DE GASPERI. Ho chiesto l’indagine . (Interruzioni). |
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| 41921-1925
| DE GASPERI. Io desidero rilevare l’importanza che la cosa ha per noi e le ragioni per le quali dobbiamo insistere, perché si rifaccia la votazione. La cosa ha un’importanza notevole. Questo noi stabiliamo con una legge per risarcimento di danni che si tratta di ricostruire la sede di un municipio o una chiesa, noi in quel momento riconosciamo la funzione pubblica che aveva prima della guerra o la sede municipale o la chiesa e non pensiamo affatto a riformare la legge comunale né pensiamo a riformare la legge sull’esercizio del culto. Noi non vogliamo che in nessuna forma, neanche in forma incidentale, venga manomesso il principio, che potevamo discutere in altra sede, ma non va discusso in questa maniera, né va accentuato in questa forma. Quindi è chiaro che debbono essere ricostruite solo quelle chiese che prima erano officiate, che servivano appunto al culto, e quindi lo Stato mi pare sia salvaguardato contro eccessive pretese per la ricostruzione di chiese che rappresentino un lusso, e mi pare che sia garantita anche l’Amministrazione da assalti eccessivi alle casse dello Stato. Quindi dobbiamo limitarci ad approvare un articolo che sia chiaro, il quale dica precisamente che si tratta di risarcimento di danni a chiese che erano prima regolarmente officiate. |
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| 41921-1925
| DE GASPERI. Come al solito queste questioni appassionano i Gruppi, direi eccessivamente, in modo che non ne viene salvaguardata quella ordinaria compattezza che si manifesta nei Gruppi bene organizzati, cosicché ho notato anche nel mio Gruppo qualche dissenso e qualche dubbio… (Rumori – Commenti). Qualche volta, onorevoli colleghi della sinistra, tocca anche a voi questo fenomeno… (Rumori – Commenti). Ed allora io dico che in qualcuno dei nostri amici c’è la legittima preoccupazione che, trovandosi in un momento in cui si possa manifestare possibile l’aumento del nostro Gruppo di un mandato… (Rumori vivissimi)… l’assunzione in questa Camera di un nostro carissimo amico, secondo noi legittimamente eletto, dico che è possibile che per questa ragione, e per altre, ci possa essere una diversità di apprezzamenti. Debbo rilevare però che tutti siamo d’accordo in questa tendenza, che, allargando le indagini, arriviamo ad un esame della situazione analogo a quello imposto in occasione di un’altra elezione, arriviamo cioè ad allargare le indagini in modo che, se non è possibile arrivare alla negazione della convalida ormai formalmente e giuridicamente concessa, arriviamo a quella sanzione morale che costringe i soci di lista a tirare le dovute conseguenze. (Rumori). Questa è la ragione fondamentale per cui abbiamo dichiarato di non opporci alla domanda del comitato inquirente. (Commenti prolungati – Rumori all’estrema sinistra). […] DE GASPERI. Io sono altamente meravigliato che dall’estrema sinistra sia venuto un simile attacco e una simile designazione di quella diceria a cui si riferisce l’onorevole Vella . Si tratta in fondo di questo: d’aver io detto essere senza dubbio desiderio del Governo che questa questione si risolva in via pacifica… (Interruzioni all’estrema sinistra). PRESIDENTE. Lascino parlare! DE GASPERI. Ma non c’è stato nessun compromesso e nessun patto al riguardo, né turpe né meno turpe. Al desiderio espresso da membri del Governo si è risposto da parte nostra che a noi importava soprattutto la sollecita discussione d’importanti argomenti che stanno all’ordine del giorno. (Vivi rumori all’estrema sinistra – Commenti). Voci all’estrema sinistra. Mercato! Mercato! (Vivi rumori). FACTA, presidente del Consiglio dei ministri, ministro dell’Interno. Non è vero! Non è vero! (Applausi a destra). DE GASPERI. Perciò di fronte ad una proposta venuta da altra parte della Camera, noi abbiamo preso questo atteggiamento, coerentemente a quello preso in altre occasioni. E questo non ha alcun rapporto con contatti o pattuizioni che leghino il Governo e noi. (Rumori – Commenti). |
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| 41921-1925
| DE GASPERI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto. PRESIDENTE. Ne ha facoltà. DE GASPERI. Accettiamo la proposta di sospensione della seduta, dandole il significato di deplorazione di quanto è avvenuto e riservandoci il giudizio sulla responsabilità e sui provvedimenti nel caso specifico e nel fatto generale, di fronte alla grave situazione del Paese. |
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| 41921-1925
| DE GASPERI. Onorevoli colleghi, se io fossi incaricato di esprimervi tutto il sentimento che anima i miei colleghi del Gruppo popolare in confronto delle dichiarazioni del presidente del Consiglio, dovrei anzitutto riferirmi al linguaggio da lui usato nel giudicare l’attività di questa Camera, È un linguaggio nel quale risuona una eco rivoluzionaria, un linguaggio che da questi banchi non può essere accolto per due ragioni. Perché esso può venire interpretato come svalutazione del supremo organo costituzionale dello Stato italiano, e perché accomuna in un ingiusto e sommario giudizio uomini che hanno la coscienza di essere venuti qui a fare tutto il loro dovere di legittimi rappresentanti della nazione. È vero, questa Camera fu talvolta sorda e grigia, ma spesso anche accolse la eco delle più sincere preoccupazioni per gli interessi del paese, spesso risuonò di vivaci proteste contro gli attacchi che fuori si muovevano contro le leggi, contro la nazione, e fu spesso testimone e animatrice di sforzi tenaci diretti a sanare moralmente e materialmente la patria straziata dal lungo travaglio del dopoguerra. Il fascismo rivoluzionario avrebbe potuto allora farne un bivacco, ma il giorno dopo, ne siamo convinti, avrebbe sentito che ne sarebbe stata colpita la stessa maestà della nazione che esso si proponeva di reintegrare. Noi non abbiamo qui funzione di rappresentare l’universalità della Camera; ma per parte nostra teniamo ad affermare che oggi, come ieri, come domani, liberi da ogni viltà per la sollecitudine delle nostre persone che sono poca cosa, forti dell’assenso che ci viene da chi liberamente ci diede il mandato, lo eserciteremo con serenità ed equilibrio, con la sola preoccupazione dei supremi interessi del paese. (Approvazioni). Ma in verità, il tono rude con cui il presidente del Consiglio ha iniziato il suo discorso ci richiama ad una realtà ancora più dura, cioè al fatto rivoluzionario che ha condotto il presente Governo al potere e alle condizioni rivoluzionarie dalle quali non siamo ancora del tutto usciti e che, per assegnare nettamente le responsabilità e per stabilire il giuoco delle forze agenti nella politica del paese, sarebbe opera vana e dannosa voler nascondere sotto le forme convenzionali e tradizionali del costume parlamentare. Le ragioni dello sviluppo di questo rivolgimento istituzionale possono addebitarsi a vari fenomeni della guerra e del dopoguerra e anche alla crisi economica; ma in parte notevole, è vero, devono attribuirsi alla paralisi statale causata dall’eccessivo accentramento dei poteri negli organi centrali del parlamentarismo e della burocrazia, all’accumulamento di ogni potere legislativo nella Camera, alla atrofia del Senato e alla mancanza di organi periferici con la conseguente disintegrazione delle forze locali. Contro questo Stato accentratore e monopolizzatore, il partito popolare ha proceduto con opera di critica e con propositi di legale trasformazione. Il fascismo invece è insorto con l’azione diretta e violenta. Noi ci spieghiamo le origini e abbiamo comprensione per lo spirito ed il proposito che lo hanno animato; ma il metodo non rispose né risponde ai nostri criteri etici e politici. Ecco perché, in una certa misura, noi ne abbiamo anche sofferto l’urto. Ciò non pertanto i nostri amici, dopo che il movimento insurrezionale ebbe vita costituzionale dall’incarico della Corona, entrarono a far parte dei nuovo Governo con la ferma speranza che al di là di ogni valutazione della sua opera e funzionalità passate, quell’istituto parlamentare che i nostri padri ci hanno conquistato attraverso il martirio delle lotte per la libertà e che rappresenta il patto d’alleanza fra la maestà del re e il suo popolo, debba rimanere per rinvigorirsi a presidio della libertà dei cittadini e per la grandezza d’Italia. (Applausi al centro). Perché, secondo le nostre convinzioni, inseparabili sono nel nostro regime la volontà del popolo e la volontà del re, le due fonti dei nostri diritti civili e politici. Né può supporsi in alcuno il proposito di ritornare ai Governi paterni e illuminati, riducendo il Parlamento ad una funzione meramente consultiva. MUSSOLINI, presidente del Consiglio dei ministri, ministro dell’Interno e ad interim degli Affari esteri. Sarebbe già una gran funzione! DE GASPERI. Per questo a noi non fa impressione la frase detta dal presidente del Consiglio, di una Camera passibile di scioglimento fra due giorni o fra due anni… (Commenti). Fra due giorni o fra due anni, il Gruppo popolare è pronto alla sua civile battaglia; ma l’appello al paese, subito o a tempo, deve esprimere sempre la libera volontà del nostro popolo. Saprà il re trovare il momento in cui ha da essere fatto. Noi, per la nostra dignità, chiediamo soltanto che lo scioglimento avvenga non un giorno più tardi di quello in cui si avverta la necessità di farlo per il bene della nazione (commenti), e che il sistema elettorale non sia mutato con artifici aritmetici o geometrici che sovrappongano una minoranza alla maggioranza o ledano il principio della giustizia rappresentativa. MUSSOLINI, presidente del Consiglio dei ministri, Ministro dell’Interno e ad interim degli Affari esteri. E non permettano di governare! (Approvazioni a destra e a sinistra). DE GASPERI. Noi non siamo, onorevole presidente del Consiglio… MUSSOLINI, presidente del Consiglio dei ministri, ministro dell’Interno e ad interim degli Affari esteri. Bisogna decidersi! DE GASPERI. …di questa convinzione, e siamo certi di trovare nella pratica soluzione del problema la via per conciliare le due necessità e la compatibilità dei due centri… MUSSOLINI, presidente del Consiglio dei ministri, ministro dell’Interno e ad interim degli Affari esteri. Siamo in quest’ordine d’idee! DE GASPERI. …ma frattanto quello che oggi importa, e quello che è mancato da parecchio tempo, è la volontà fattiva di Governo ed il proposito e la forza di ristabilire la legge e la disciplina nel paese. Questo proposito ci viene annunziato con tutta fermezza là dove il presidente dice che la legge sarà fatta rispettare a qualunque costo, anche contro l’eventuale illegalismo fascista! E la forza crediamo e ci auguriamo vi sia: allo scopo che va assolutamente raggiunto, se la boccheggiante nazione deve essere salva, conviene concorra l’assidua volontà, lo spirito di abnegazione anche di questa Camera! Tale significato ha il nostro appoggio ed il nostro voto. Ci si chiedono i pieni poteri per la riforma amministrativa e per la riforma finanziaria. Noi non opponiamo a questo esperimento chirurgico esagerate misure cautelari che siano superflue: il male è giunto ad un punto che ogni più ardito proposito di combatterlo deve essere fatto ed incoraggiato. Per la riforma amministrativa già l’articolo 1 della legge 13 agosto 1921 concedeva quasi uguali poteri ad altri Governi. Per la riforma tributaria la Camera ha appreso ed avrà modo di conoscere più particolarmente le direttive del Governo, dopo di che dovrà essa esprimere concretamente il suo pensiero e prospettare a voi quali siano i termini di questa via nella quale il Governo eserciterà i suoi poteri discrezionali. Un cenno ancora che non riguarda immediatamente le comunicazioni del presidente del Consiglio, ma si riannoda al discorso dell’onorevole Terzaghi, oratore del Gruppo fascista. Due argomenti hanno animato le sue dichiarazioni: la necessità di ricostruire e di valorizzare le organizzazioni sindacali del lavoro e l’argomento della pacificazione. Antichi assertori dell’ordinamento sindacale corporativo e partigiani della costituzione giuridica delle classi, convinti, non da ieri, che la politica dell’Italia che risorge dovrà rappresentare soprattutto l’ordinato impulso del lavoro organizzato, i popolari fanno voti perché si giunga presto alla concentrazione di tutte le forze operaie che vogliono il loro progresso entro la nazione e per la nazione, ed a tale scopo daranno il loro contributo di forze e di buona volontà. Il secondo pensiero, quello della pacificazione, chiudendo tutto questo periodo di odii, di contrasti violenti e di sangue, trova la sua più formale espressione nella richiesta rivolta al Governo, da parte fascista, di una amnistia. È una richiesta alla quale ci associamo di tutto cuore. Attendiamo dal Governo la inesorabile soppressione di ogni illegalità, la rigida tutela delle libertà costituzionali. Ma in questa azione di autorità tutti i partiti e tutti i cittadini devono aggiungere la loro opera di conciliazione. Nel fascismo (si è affermato spesso qui) divampa la passione e l’orgoglio di rendere l’Italia d’oggi degna della sua grande tradizione millenaria. Ebbene, questa è tutta illuminata da una fede religiosa, non instrumentum regni, non strumento di Governo, ma vita intima delle coscienze e insopprimibile forza di ogni progresso della gente nostra, animatrice di tutte le lotte per la libertà e restauratrice dell’ordine nella pace e nella giustizia, dopo le fosche ore dei periodi di decadenza. (Applausi al centro). Onorevole presidente del Consiglio, che la nuova classe dirigente d’Italia sappia veramente inserire se stessa e l’opera sua in questa grande tradizione nazionale: ecco l’augurio che facciamo per le fortune della patria! (Vivi applausi al centro). Poiché l’oratore precedente si è riferito a delle questioni locali – con un cenno però, tendenziale, di carattere politico, che può avere nesso con il punto di vista nazionale – mi si permetta di dire, affinché dalle eventuali risposte del presidente del Consiglio non possa sorgere dubbio, che quando noi italiani delle nuove province parliamo dello stesso argomento istituzionale del quale ha parlato l’onorevole Reuth Nicolussi, se noi riteniamo possibile conciliare con la più perfetta unità alla patria, con la più gelosa difesa del sentimento nazionale sulle nostre frontiere il mantenimento o l’acquisizione al diritto italiano di elementi decentrativi locali, ben distinguiamo questo nostro sentimento, e tendenzialmente e sostanzialmente, da quella che può esser la tendenza e da quella che può essere la sostanza delle richieste fatte qui a nome di una parte, la quale può di fatto nell’elemento decentrativo coincidere con il nostro postulato, ma non già in quella che deve essere la tendenza doverosa d’ogni italiano nelle nuove province. (Vivi applausi al centro – Molte congratulazioni). |
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| DE GASPERI. Onorevoli colleghi, non è il senso doveroso di una triste consuetudine che spinge anche il rappresentante di questo Gruppo a prendere in questa occasione la parola, ma è il sentimento dell’anima che si raccoglie in se stessa, e al di sopra di ogni dissenso, di ogni discussione, riguarda commossa l’altezza dell’ingegno, la purezza della coscienza, la illibatezza della sua vita politica. Come alta e serena era la sua persona, così alto e sereno era il suo spirito, che ritraeva sempre forza e gagliardia dalle più alte idealità di bene. Nell’ora in cui viviamo tutti possono apprendere qualche cosa ricordando la sua vita operosa, che, lontana dalle vuote parole e dagli inutili atteggiamenti, si volse sempre con sicura coscienza verso il raggiungimento di realtà positive e concrete. In verità non all’ultimo arrivato nella nostra vita politica e parlamentare sarebbe toccato di esprimere questo pensiero, che è il particolare pensiero degli autorevoli uomini che lo hanno circondato e più da vicino conosciuto, se agli amici non fosse sembrato che, oltre che per le sue funzioni nel Gruppo, il rappresentante di Trento, il quale nelle ore trepide dell’attesa del marzo 1920 [ma 1915] aveva udito dal labbro dell’estinto alte parole di fede e di riboccante affetto per le terre che bisognava redimere, fosse indicato a dire innanzi a questa bara una parola di vivissima riconoscenza, parola che può essere vergine di ogni eco politica e parlamentare, perché è la parola dei fratelli che, stando al di fuori, non potevano vedere in lui atti e opinioni contrastate, ma il merito sovrano e imperituro di avere contribuito in grado eminente a ricongiungerli finalmente alla patria italiana. Il fatto della liberazione delle terre redente e della aumentata grandezza d’Italia, rinvigorisce in noi la volontà di restaurare questa patria accresciuta e rinnovata in tutte le sue forze e di assicurarne fermamente l’avvenire. (Applausi). |
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| Tre sono gli elementi costitutivi del programma del Partito popolare italiano: l’uno riguarda l’ispirazione cristiana delle leggi, specie quelle che riflettono la pubblica istruzione, il diritto civile ecc., l’altro la trasformazione dei rapporti fra capitale e lavoro, il terzo la trasformazione dell’organismo statale, ossia la riforma dello Stato. Il primo elemento deriva dall’azione cattolica ed è comune a tutti i partiti politici affini delle varie nazioni cattoliche, anzi anche a taluni d’altra confessione religiosa; il secondo viene dal movimento cattolico-sociale, dalla democrazia cristiana e attinge i suoi principi dalla scuola cristiano-sociale che ha influenzato la legislazione di vari paesi; il terzo è specificatamente e solamente italiano ed è direi, l’elemento popolaristico per eccellenza del programma popolare. Riforma dell’organismo amministrativo Già nel cap. VI del nostro foglietto iniziale di programma si legge: «Libertà e autonomia degli enti locali, Riconoscimento delle funzioni proprie del Comune, della Provincia e della Regione in relazione alle tradizioni della Nazione e alle necessità di sviluppo della vita locale. Riforma della burocrazia. Largo decentramento amministrativo ottenuto anche a mezzo della collaborazione degli organismi industriali e commerciali del capitale e lavoro». E nell’appello augurale del gennaio 1919, diretto ai «liberi e forti» si rinnova l’affermazione «di uno Stato popolare che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali – la famiglia, le classi, i Comuni –, che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private». Più in particolare questo caposaldo del programma è fissato nell’ordine del giorno votato dal Congresso di Venezia (1921) il quale parla non solo di semplificazione dei servizi statali, col decentramento burocratico, ma di una riforma organica degli enti locali verso l’autonomia dei Comuni e delle Provincie, la creazione della Regione con organi elettivi ai quali organi dovrebbe coordinarsi la rappresentanza del movimento sindacale, cooperativo e mutualista; e siamo sempre sullo stesso tema quando Sturzo nel discorso di Firenze (gennaio 1922) chiederà accanto al Parlamento politico l’istituzione di «consigli superiori elettivi delle rappresentanze organiche del paese» con poteri regolamentari. Da ciò risulta chiaro che la riforma popolare dello Stato non riguarda i supremi poteri, ché anzi ignora completamente la questione repubblicana, ma riguarda gli organi, l’ossatura stessa, la costruzione dello Stato italiano. Il motto «Libertas» è lanciato contro lo «Stato-troppo» e contro lo «Stato-tutto». Onde noi comprendiamo meglio la caratteristica dei partiti, fatta da Sturzo nel citato discorso di Firenze, quando dopo aver sottoposto ad una critica profonda lo Stato democratico italiano (critica che si rivolge non contro i principi della costituzione democratica degli Stati ma contro la formazione che lo Stato assunse sotto l’influsso dei «partiti democratici» italiani) diceva: «Contro questo Stato democratico lottano tre forze: il socialismo ieri rivoluzionario e oggi collaborazionista che tende al socialismo di Stato; il fascismo espressione degli elementi di resistenza, e di conservazione, sotto la legge della violenza, che nega o si sostituisce allo Stato; e il popolarismo, che vuole la riforma organica dello Stato sulla base della libertà economica e morale, del decentramento amministrativo, del riconoscimento giuridico dei sindacati» (18 gennaio 1922). Origini del pensiero riformatore Ora se noi vogliamo comprendere le origini e i moventi di tale programma riformatore del Partito popolare, oltre che risalire ad una generale concezione dei cattolici contraria all’atomismo dello Stato moderno, per l’Italia dobbiamo rilevare due premesse che, nella convinzione dei fondatori del partito, sono fatti oramai incontrastabili della nostra storia politica, la prima che nel fissare gli ordinamenti politico-amministrativi dello Stato italiano sia stato commesso fin dagl’inizi un grave errore di costruzione, la seconda che il Parlamento dopo il 1893 abbia perduto la sua funzione direttiva sulla vita politica del paese, la terza che la guerra colle sue «bardature» abbia aggravato ancora gli errori preesistenti. Errore iniziale di costruzione L’errore di costruzione dipese, com’è risaputo, dall’accentramento.L’oratore ricorda qui il parere di Francesco Crispi, il quale prendendo dal banco dei ministri la parola per difendere la legge sui prefetti (4 luglio 1887) dichiarava: «Io non sono innamorato del sistema amministrativo del nostro Paese. I miei ideali sono tutt’altro. Io godo nel vedere che l’antico Municipio romano abbia trovato asilo in Inghilterra. L’Inghilterra è il solo paese, che ha conservate le antiche nostre istituzioni: colà recate dai nostri avi. Noi siamo schiavi del sistema francese». Ricorda ancora i progetti Cavour-Farini, i quali intendevano dare all’Italia un ordinamento decentrato. Il Farini, motivando il suo progetto scriveva: «Esso (cioè il fine della legge - N.d.R.), consiste, per mio avviso, nel coordinare la forte unità dello Stato coll’alacre sviluppo della vita locale, colla soda libertà delle Provincie, dei Comuni e dei Consorzi e colla progressiva emancipazione dell’insegnamento, della beneficenza e degli istituti municipali e provinciali dai vincoli della burocrazia centrale». E più innanzi: «Se vogliamo compiere un’efficace opera di discentramento e dare alla nostra patria gli istituti che più le si convengono, bisogna a parer mio, rispettare le membrature naturali, dell’Italia. Se noi volessimo creare l’artificiato dipartimento francese riusciremo a spegnere le vive forze locali, spostandone e distruggendone i centri naturali, e turbando l’antico organismo, pel quale esse si mantengono e si manifestano». Le idee dei fondatori del Regno d’Italia Non meno significative sono le motivazioni con cui, un anno più tardi, Marco Minghetti presentava alla Camera quattro progetti di analoghe riforme . Ecco alcuni pensieri tolti dal discorso bellissimo: «Il Comune è la prima, fondamentale e più intima associazione delle famiglie». «La Provincia ha in Italia antiche origini ed ha per avventura una personalità più spiccata che in alcun’altra parte dell’Europa». E riassumendo: «Pertanto il concetto, dal quale si partono le leggi che ho l’onore di proporvi, si è questo: che la Provincia non sia un’associazione fittizia, ma sia in generale, e salvo poche eccezioni, una associazione naturale fondata sopra interessi comuni, sopra tradizioni e sentimenti che non si possono offendere senza pericolo. Laonde io respingo la massima della formazione di Provincie artificiali più o meno grandi e create secondo le convenienze politiche e i calcoli dell’opportunità. Ciò posto, io credo che la Provincia debba esercitare un ufficio molto importante nell’ordinamento amministrativo d’Italia; LA LIBERTÀ PROVINCIALE È, A MIO AVVISO INSIEME CON LA LIBERTÀ COMUNALE, LA VERA SALVAGUARDIA DEL REGIME COSTITUZIONALE. IMPEROCCHÉ SE IN ALCUNE PARTI D’EUROPA GLI ORDINI COSTITUZIONALI NON FECERO BUONA PROVA EGLI È DA ATTRIBUIRSI PRINCIPALMENTE A CIÒ, CHE IL COMUNE E LA PROVINCIA NON VI ERANO BENE ORDINATI NÉ ABBA- STANZA LIBERI; PER LA QUAL COSA TROVANDOSI L’INDIVIDUO ISOLATO DI FRONTE ALLA OLTRAPOTENZA DELLO STATO, SI CORRE NON SOLO ALLA DEMOCRAZIA, MA ALLA DITTATURA E AL DESPOTISMO». Tutti questi progetti di dare al Regno d’Italia, all’atto stesso della sua fondazione, un ordinamento italico, consentaneo alle sue tradizioni e alla sua natura, caddero in seguito a discussioni con risultato negativo o a obiezioni oggettive, ma per la pressura degli avvenimenti che nello stato eccezionale dell’immediato dopo guerra o nell’imminenza di una nuova guerra o nel trasporto della capitale sembrò consigliare il differimento d’innovazioni e il ricorso all’espediente più semplice e più alla mano ch’era l’estensione della legge piemontese. Risulta però in modo indubbio da tutti i documenti parlamentari dell’epoca che l’estensione avvenuta per decreto e in base a leggi di pieni poteri era intesa come un provvedimento di carattere transitorio, che non impegnava affatto il consenso degli uomini di Stato ai criteri centralistici che la inspiravano. Nella relazione Boncompagni sui progetti Peruzzi, ministro dell’interno con Minghetti (62-64), si legge anzi il frequente rimpianto di ordinamenti e franchigie locali di pura tradizione italica improvvisamente soppressi, e ciò tanto per la Lombardia come per l’Emilia, come per la Toscana. Cavour e il concetto dell’autonomia Il caso della Toscana Interessante è ricordare in questo momento, quanto avvenne in Toscana. La Toscana, alla vigilia della già deliberata annessione, votò una speciale legge comunale e provinciale, nella attesa che il Governo italiano avrebbe assimilata tale legge nei nuovi ordinamenti del Regno, dato che, come si esprimeva nel suo discorso il presidente della Toscana, il Parlamento nazionale «vorrebbe piuttosto camminare per la via delle libertà comunali e provinciali che non per quelle di un’eccessiva centralizzazione dei poteri». Infatti il 22 marzo 1860 alla deputazione toscana, guidata da Bettino Ricasoli, il Re, alla presenza di Cavour, annunziava che il nuovo Parlamento avrebbe informato le leggi «al principio fecondo della libertà, il quale assicurerà alla Toscana i benefizi dell’autonomia amministrativa, senza affievolire, anzi rassodando quell’intima comunanza di forze e di voleri ecc.». Pochi giorni dopo, il 2 aprile 1860, il Discorso della Corona alle due Camere conteneva queste parole che chiariscono il pensiero del grande statista: «Fondata sullo Statuto la unità politica, militare e finanziera e la uniformità delle leggi civili e penali, la progressiva libertà amministrativa della Provincia e del Comune rinnoverà nei popoli italiani quella splendida e vigorosa vita che, in altre forme di civiltà e di assetto europeo, era il portato delle autonomie». Ebbene il credereste? Anche allora, anche in confronto a Cavour ci fu chi sollevò sospetti e diffidenze su questa disgraziata parola «autonomia», e il sen. Salata in un suo recente interessante opuscolo ricorda l’autodifesa del ministro fatta il 27 aprile 1860 in Senato: «Con ciò – diceva allora Cavour – noi non abbiamo inteso costituire l’autonomia assoluta della Toscana; tale non fu mai il nostro pensiero; e perciò credo opportuno di cogliere questa circostanza per far conoscere in modo positivo quale sia il concetto del Governo quando la parola AUTONOMIA venne per la prima volta impiegata in un atto solenne… (allude alla risposta del Re alla deputazione toscana). Il Ministero, non potendo, non volendo imporre alla Toscana questa condizione, disse ai Toscani: voi farete parte del nuovo Stato conservando le vostre leggi, e queste leggi (e qui esprimeva una opinione come potere esecutivo), e queste leggi non saranno modificate se non quando per mezzo del Parlamento s’introdurranno nelle leggi esistenti quei miglioramenti di cui sono suscettibili. E siccome il Ministero crede che le riforme da operarsi dal Parlamento nelle leggi amministrative debbano avere per iscopo di dare molto maggior libertà d’azione alle varie parti del Regno, agl’individui come ai corpi morali, ai comuni come ai circondari ed alle provincie, così esso disse ai Toscani: quando le vostre leggi si fonderanno colle altre del Regno, voi verrete a godere di una legislazione la quale vi lascerà tutta quella libertà d’azione che un’autonomia avrebbe potuto procurarvi. Ecco il vero significato della parola AUTONOMIA introdotta nella risposta data dalla Corona al primo Magistrato della Toscana». È poi noto che la legge piemontese venne estesa anche alla Toscana, alla vigilia del trasporto della capitale a Firenze. Perfino nell’estensione della legge comunale e provinciale alle provincie del Veneto si ritrova una certa esitazione. E si avverta che nel Veneto non esistevano allora autonomie provinciali da valutare o da mantenere e tuttavia il relatore della commissione consultiva Marsiaj (la commissione consultiva lavorò allora parecchie settimane e non tre ore e presentò una relazione scritta) deplorò che essendo già stata preventivamente introdotta la parte elettorale della legge amministrativa non si potesse mantenere la distinzione dei comuni in varie classi, con differente trattamento, com’erano allora le «città regie», i grossi comuni con «ufficio proprio», i comuni rurali ecc., analogamente alla nostra distinzione fra comuni autonomi e comuni rurali. Rinnovati tentativi di riforma L’on. Degasperi, continuando nella sua interessante esposizione, ricorda i tentativi di riforma, susseguitesi, dopo la generale applicazione della legge piemontese, in specie quello di Rattazzi e quello di Nicotera col primo gabinetto Depretis (1877) e la relazione della commissione Cairoli, la quale concludeva che: «le nostre tradizioni, il sentimento delle libertà, necessità inutili a dirsi perché troppo palesi, consigliavano all’Italia un ordinamento interno che conciliasse l’unità nazionale, nella quale essa veniva finalmente a riposarsi, colle libertà locali, che la nostra patria non poteva dimenticare». Altri problemi distrassero di poi la attenzione degli statisti italiani, ma uomini politici di grande valore e giuristi insigni (basti ricordare il Saredo) tennero sempre viva la fiaccola delle libertà locali e la trasmisero alla nostra generazione. Prima della guerra due società agitarono specialmente il problema, dal punto di vista delle necessità amministrative: «l’associazione dei comuni italiani», della cui attività l’onorevole Degasperi riferì in un recente articolo del nostro giornale e l’«Unione delle Provincie». Non è stato ancora rilevato nel «N. Trentino», che al congresso di Torino di questa società nel 1911 venne domandato che si affidassero «alle Provincie una circoscritta funzione legislativa per mezzo di leggi provinciali o statuti provinciali, proposti dal Consiglio provinciale, sanzionati con Decreto reale». In fondo dunque che si attribuissero ai Consigli provinciali i tanto deprecati «poteri legislativi delle Diete». L’opera dei popolari Non è un caso che, accanto a uomini di tutti i partiti, in tali società primeggiassero uomini che poi furono del partito popolare, il prof. Sturzo anzi tutti. È ai loro sforzi che si deve la nomina della commissione reale (18 aprile 1918) per la riforma della legge comunale, riforma che, pure con troppe riduzioni imposte dalla burocrazia, raggiunse l’assenso del comitato interministeriale e si deve alla forza parlamentare dei popolari se la legge 13 agosto 1921 si prefigge nel 1 articolo di «attuare un largo decentramento amministrativo con una maggiore autonomia degli enti locali». Il nostro problema locale e il partito popolare È a questo punto della storia del diritto amministrativo che interferisce la questione delle Nuove Provincie. Il partito popolare, logicamente, la acquisisce al suo programma e la coordina alle sue tendenze riformatrici. Nel I Congresso di Bologna (1919) l’onor. Gentili raccoglie larga messe di applausi, a Napoli, a Venezia il postulato del mantenimento delle autonomie amministrative delle N. P., fino alla riforma delle legge generale, che si auspica imminente, viene affermato vigorosamente e il gruppo popolare – che già nel ’19 aveva ottenuta l’inclusione di una garanzia nella legge di annessione – vi conquista l’assenso dei partiti liberali democratici – crisi del febbraio 1922 – e di 5 governi. Oggi innanzi al momentaneo insuccesso, che cosa dobbiamo concludere? Il problema delle N. Provincie corre le stesse sorti di tutta la riforma dello Stato, voluta dal Partito popolare. Noi ci siamo trovati anzitutto con uno strumento guasto in mano che era impossibile usare. Ci siamo mossi in un circolo vizioso. Volevamo riformare lo Stato, con una trasformazione legale, ma questa non era per noi possibile senza il Parlamento, ma il Parlamento stesso abbisognava per il primo di radicali riforme. Abbiamo tentato di organizzarlo, introducendovi a traverso il comitato di maggioranza una disciplina di lavoro. Non ci riuscì; e qui l’oratore ne attribuisce le cause a) alla decomposizione della maggioranza democratica che si polarizzava intorno ad uomini e non a principi, b) alla crisi del partito socialista che paralizzava una forza cospicua alla Camera, c) infine allo scarso interesse che il nuovo gruppo, i fascisti, dimostrarono per ridar vita al nostro massimo organo costituzionale. Perché si arrestò la riforma amministrativa Conviene però non dimenticare che altri assillanti problemi preoccuparono nel dopoguerra partiti e governi. L’occupazione delle terre avvenuta con richiamo a promesse fatte nelle trincee, l’occupazione delle fabbriche, proclamata il primo passo della rivoluzione leninista, misero in prima linea i problemi sociali e in primissima i problemi agrari. Tuttavia anche nella legislazione agraria il P. P. non dimenticò la ricostruzione statale: si pensi alle Camere d’agricoltura. Poi attenuato alquanto il pericolo socialista, s’impose all’attenzione di tutti la gravità del problema finanziario: ed eravamo in lotta colle cifre, quando nel Paese si rendeva sempre più acuta la crisi dell’ordine pubblico. La crisi estiva del Ministero Facta rappresenta – almeno per quanto riguarda l’opera dei popolari – l’ultimo sforzo per deviare la crisi del paese verso uno sbocco legalitario; al quale scopo i popolari – come dimostrarono le ultime trattative con Orlando – avevano anche caldeggiata una collaborazione coi fascisti. Sopravveniva così l’insurrezione fascista. La riforma e il Governo L’oratore si domanda a questo punto quale sarà l’atteggiamento del nuovo Governo di fronte al decentramento e al programma di trasformazione organica propugnato dal partito popolare. Egli crede che bisogni distinguere due periodi: il primo periodo è quello in cui il Governo tratta ogni questione dal punto di vista del consolidamento dello Stato e dell’attuale regime, il secondo quello del rinnovamento dell’interna struttura dello Stato stesso. In questa seconda fase dovrà farsi valere il punto di vista della funzionalità e vitalità dell’organismo. Per questa fase l’oratore spera che il fascismo accetti e faccia suo il programma del decentramento e delle libertà locali. Molte già sono le manifestazioni del partito fascista per il decentramento burocratico e una affermazione notevole possiamo registrare anche per il decentramento autarchico ossia per le autonomie locali, quella di Mario Govi nella rivista di Mussolini, la «Gerarchia» , il quale arriva fino a chiedere poteri legislativi per materie economico-tecniche e per l’istruzione, da attribuirsi a rappresentanze elettive regionali. Disgraziatamente la nostra questione locale si volle risolvere subito, sotto l’impero di giudizi sommari ancora durante il primo periodo nel quale il criterio amministrativo viene soffocato da preoccupazioni politiche. Noi, fino che la decisione era in sospeso, abbiamo fatto ogni sforzo, d’accordo coi fratelli istriani e goriziani, fascisti e nazionalisti compresi, per togliere siffatte preoccupazioni, non senza dover concludere che a noi trentini in particolare riusciva difficile assai di combattere e vincere contro lo spettro dello slavismo che proiettava la sua ombra, forse ingrandita, sulla frontiera giuliana . A decisione presa, siamo ancora qui ad affermare che nessun nuovo legame formale alla Patria italiana – giacché tale funzione si attribuisce alla unificazione del sistema amministrativo – era necessario per rafforzare nei Trentini un vincolo morale e politico che è superiore a qualunque organismo amministrativo. E potremo anche aggiungere all’affermazione il reclamo alle garanzie di legge che il Parlamento nazionale votava or sono 3 anni. Ma noi non siamo soli; al di là di noi con diversi sentimenti stanno gli allogeni, né vorremmo che il nostro concetto amministrativo coincidesse con un loro pensiero politico; onde, inchinandoci oggi innanzi alle patrie leggi che amministrano tutti gl’italiani, acquisteremo nuovo diritto di lavorare, entro la Nazione e riattaccandoci alle più belle tradizioni della politica nazionale, per riformarle, combattendo coi fratelli delle altre provincie e fino alla vittoria la battaglia delle libertà locali. Il Partito popolare italiano non desiste e già per il prossimo congresso ha rimesso in discussione la riforma costituzionale dello Stato. Noi speriamo che il fascismo sbocchi sulla stessa via maestra, sulla quale camminarono i grandi fattori del Risorgimento nazionale. |
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| Non è possibile commentare nei particolari il decreto reale, senza conoscerne i singoli articoli. Quello che appare dal comunicato è che il Governo non ha tenuto conto delle proposte della Commissione consultiva «che ferissero il principio dell’unificazione legislativa del Regno o tendessero a procrastinare l’estensione della legge» . Temiamo che ciò voglia dire che il Governo non ha nemmeno accolto quell’articolo del progetto riguardante i poteri dei sottoprefetti, che era proposto dalla Prefettura di Trieste e che il Ministero nel caso dell’interno aveva accolto nel primo abbozzo sottoposto alla Commissione, articolo che tendeva a mantenere almeno in parte l’attuale decentramento di funzioni fra Prefettura e Sottoprefettura. Ma di ciò a ragion veduta. Quello che è certo, è che il Governo non ha accolta la proposta Albanese , alla quale aveva aderita la maggioranza della commissione, d’introdurre immediatamente solo la parte della legge necessaria per costituire le Provincie, differendo la parte tecnica della vigilanza, dei controlli, della contabilità, degl’impiegati e segretari comunali a quel momento in cui il Governo, avendo deliberato sulla riforma in corso della stessa legge, sarebbe stato in grado d’introdurre lo stesso testo di legge riformato per tutte le provincie del Regno. Eppure questa proposta per la quale votarono anche fascisti e nazionalisti, tra cui l’on. Piccinato , completamente estraneo alle Nuove Provincie, e il sen. Mortara, non ultimo venuto fra i legislatori, rappresentava la soluzione di mezzo fra chi voleva l’estensione del testo attuale, secondo il principio dell’unificazione, e chi voleva l’osservanza della legge d’annessione, autorizzante il Governo ad estendere alle N. Provincie le leggi del regno «coordinandole colle loro autonomie comunali e provinciali». Ma è inutile tornare a discuterne ora. Noi non abbiamo mai inteso né ci proporremmo mai di sostenere un nostro programma amministrativo, sabotando o comecchessia protestando contro l’applicazione di una legge, per quanto riformabile la potessimo ritenere, una volta che va in vigore. Oggi la legge viene promulgata. Noi abbiamo il dovere, nella nostra vita amministrativa, di contribuire ad applicarla. Domani, nel campo dell’azione politica e parlamentare, riprenderemo la lotta per riformarla. Col giorno di oggi ci mettiamo in linea con tutti i riformatori delle altre provincie e assommiamo la nostra questione locale, che scompare, alla grande questione della riforma amministrativa nazionale. In questo senso suona l’augurio del segretario del partito popolare, che gli amici accoglieranno con gioia come un pegno su di un avvenire non lontano. Questa nostra dichiarazione non venga interpretata come acquiescenza premeditata. Prima che la decisione venisse, tutti i rappresentanti del Trentino unanimi dissero francamente il loro parere e si fecero interpreti dei voti dei Comuni e dei partiti trentini. E questo vale non solo per la questione di massima, ma anche per quelle particolari, riflettenti i tributi, la parte contabile, la questione degl’impiegati. Ne potremo dar prova quando avremo innanzi il testo degli articoli. Avvertiamo intanto, ripetendo forse un monito detto altre volte, che la legge porta nei nostri regolamenti e più ancora nei nostri costumi amministrativi modificazioni radicali e molteplici. Il distacco dallo statu quo è quindi tutt’altro che superficiale. Se il disagio non ha da essere profondo, è perciò necessario che organi dello Stato e organi degli enti locali collaborino in piena e reciproca fiducia, con buona volontà e con larghezza di criteri. Agli uni e agli altri facciamo quindi appello, affinché siffatta disposizione d’animo non manchi e siamo particolarmente lieti che a quest’opera di transizione siano chiamati i benemeriti ed esperti attuali reggitori della Provincia e la provata probità politica ed amministrativa dei nostri sindaci e dei nostri impiegati comunali. Il commento del «Tiroler» Il «Tiroler» di ieri dice che i tedeschi oramai si attendevano la fine di ogni autonomia, dopoché i fascisti erano giunti al Governo. Inutile quindi protestare e lacrimare. Ma è evidente che il giornale bolzanino non attinge i suoi conforti da considerazioni filosofiche, ma da una speranza che in coda all’articolo esprime abbastanza chiaramente. Ecco i suoi calcoli. Per le elezioni del Consiglio provinciale vale il sistema già applicato per le elezioni comunali, cioè 4/5 dei seggi vengono assegnati al partito più forte (maggioranza relativa). Nelle ultime elezioni politiche la lista tedesca superò tutte le altre, quindi – se saremo compatti – conquisteremo la maggioranza del Consiglio provinciale. Tutto bene; solo che i calcoli sono sbagliati. Le elezioni avvengono non in un solo collegio provinciale, ma in parecchi collegi mandamentali, e solo nei mandamenti, ai quali viene assegnato un numero di 5 o più mandati, è possibile la rappresentanza della minoranza. Si disinganni quindi il «Tiroler». Questa ardita speranza però illumini i partigiani del collegio unico per le elezioni politiche e li faccia pensare alle conseguenze! |
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| Quando quattr’anni addietro come ieri, arrivava alla periferia l’appello di un gruppo d’animosi per la costituzione del «Partito popolare italiano», noi – trentini – eravamo ancora immersi nella profondità dei nostri problemi di ricostruzione locale, cosicché appena avvertimmo l’avvenimento politico e non ebbimo agio di misurarne l’importanza. Ci giunse però già allora l’eco vastissima che il nuovo linguaggio destava nelle altre provincie d’Italia. L’appello ed il programma s’imperniavano sul concetto di libertà . «Ma sarebbero vane – vi si leggeva dopo l’elenco di alcuni postulati concreti – sarebbero vane queste riforme senza il contenuto, se non reclamassimo, come anima della nuova società, il vero senso di libertà rispondente alla maturità civile del nostro popolo e al più alto sviluppo delle sue energie: libertà religiosa non solo agl’individui, ma anche alla Chiesa per la esplicazione della sua missione spirituale nel mondo; libertà d’insegnamento senza monopoli statali; libertà alle organizzazioni di classe, senza preferenze e privilegi di parte; libertà comunale e locale secondo le gloriose tradizioni italiche». L’appello fu molto discusso e trovò molte simpatie, guadagnò molti consensi, ma ridestò anche vecchi pregiudizi e ostilità anticlericali. I popolari si trovarono di colpo fra due fuochi: da una parte dileggiati come clericali, vaticanisti, demagoghi, socialisteggianti; dall’altra, per tema di un pericoloso concorrente, osteggiati come conservatori, bourgeois, reazionari. Il partito tuttavia si costituì, s’allargò, crebbe ed ingaggiò battaglia, raggiungendo nelle elezioni del 16 novembre 1919 cento mandati alla Camera e 1 milione 167.354 voti su di un totale di 5.682.136. Nelle stesse elezioni però i socialisti avevano conquistato 156 posti con 1.834.792 di voti . Cosicché l’atteggiamento dei socialisti parve subito risolutivo per la nuova Camera. Se i 156 avessero collaborato coi democratici al governo, i popolari avrebbero avuta la possibilità di muoversi alla Camera più liberamente, propugnando il loro programma, senza vincoli né responsabilità governative. Ovvero se i 156 avessero tentato davvero l’assalto allo Stato, come avevano predicato durante la campagna elettorale, ai popolari sarebbe spettata una parte grandissima nello stesso paese. Nei primi giorni la stampa democratica saggiò il terreno, cercò di guadagnare i rossi ad un programma d’azione anticlericale; ma i socialisti erano allora dominati dalla pregiudiziale bolscevica. Rifiutarono, e continuarono invece in Italia una tattica di agitazioni, scioperi, sommosse, violenze contro organizzazioni e persone, tattica che doveva preparare la rivoluzione soviettista. Da questo punto il gruppo popolare non ha più vie da scegliere. Non c’è che un unico binario: quello di una minoranza parlamentare la quale deve, contro sua voglia e contro il suo interesse, partecipare ai governi di coalizione, giacché se non partecipasse, nessun governo sarebbe possibile . Da questo punto, ad ogni crisi, il gruppo deve porsi lo stesso dilemma: o andare al governo coi gruppi democratici o provocare lo scioglimento della Camera e nuove agitazioni nel paese; agitazioni che nel clima accesissimo del dopo guerra potevano finire col mettere in forse l’ordine pubblico e le stesse istituzioni. Entrare nei governi di coalizione voleva dire rischiare di compromettere il proprio programma, voleva dire incamminarsi con una compagnia sospetta e imbrancarsi con partiti i quali rappresentavano una tradizione, una costumanza, un sistema politico, contro il quale appunto era insorto il partito popolare, lanciando il suo motto rinnovatore «Libertas». E se il partito allora fosse stato solamente un partito, se avesse avuto un programma o uno scopo che non fosse stato l’Italia e sovratutto il bene del paese, non si sarebbe piegato. Ma l’interesse pubblico esigeva il sacrificio e il sacrifizio fu compiuto. Entrammo nei governi di coalizione, tentando ad ogni nuova pattuizione di salvare quanto fosse possibile, di strappare alle democrazie sempre nuove concessioni per il nostro programma di riforme sociali, economiche, scolastiche e preoccupandoci contemporaneamente di tener alta la nostra bandiera, di predicare, fuori, il nostro programma integrale, perché i giovani non disperassero, ma seguissero con entusiasmo e con fede l’opera nostra. Situazione questa difficile quant’altra mai, cammino aspro e pieno d’intoppi. Ad ogni voto, si doveva temere che, fuori, lo si interpretasse come una dedizione, ad ogni compromesso imposto dalla situazione parlamentare, che lo si prendesse per una compromissione. D’altra parte gli alleati, i collaboratori erano indotti a diffidare dei nostri atteggiamenti e della nostra buona fede, sospettandoci infidi o incerti, quando non eravamo che preoccupati e cauti. Il pubblico, il gran pubblico che legge la grande stampa, si accanì spesso contro di noi, chiamandoci ora ingordi, ora equilibristi; e molti dei nostri stessi amici ebbero più spesso biasimi che lodi perché e amici e avversari non avevano capito che il partito popolare, nel suo giovanile sviluppo, aveva nel paese la funzione di agitare un programma rinnovatore dello Stato e della coscienza politica, mentre alla Camera, quale gruppo di minoranza necessario alla coalizione era costretto a governare assieme a partiti che a tali riforme e a tale rinnovamento resistevano più o meno tenacemente. E intanto l’agitazione bolscevica non dava requie, e il giovane partito era allora quasi solo a difendere la libertà delle organizzazioni e l’autorità dello Stato. I tumulti per il caro-viveri, gli scioperi frequentatissimi, culminati nello scioperissimo del 20, 21 luglio 1919, il sabotaggio ferroviario ed infine (agosto-settembre 1920) l’invasione delle fabbriche sembravano preludiare ad un più radicale rivolgimento, che molti oramai giudicavano inevitabile. Conviene ricordare che mentre Giolitti intavolando trattative cogli occupatori, riconosceva loro nel patto del controllo delle fabbriche ancora una volta il monopolio della rappresentanza operaia e tentava nuovamente di acquietare la belva, col gettarle in gola una concessione pericolosissima per la produzione del paese, il partito popolare fu il solo che protestò e oppose a insidiose concessioni demagogiche un programma di serie riforme sociali e di ricostruzione nazionale. «Il popolo italiano – incominciava il bel manifesto del Consiglio nazionale dell’agosto 1920 – è ancora in tempo a scegliere fra la rivoluzione che ci porti alla dittatura di classe e la legale trasformazione dei rapporti sociali, la quale crei le basi della nuova economia e per essa della nuova organizzazione sociale e della nuova politica». E dopo aver enumerate le riforme sociali il manifesto conchiudeva: «Facciamo appello alla coscienza nazionale perché, riscosso da sé il fatalismo suicida, che pare l’abbia invasa, reagisca con tutta la forza della verità contro le suggestioni della propaganda rivoluzionaria e riaffermi altissimamente che il nostro paese non uscirà dalla presente distretta se non con la tregua dei conflitti d’interessi in nome dell’interesse comune … e se abbandonata ogni violenza ed ogni pervertimento materialista non verrà restaurato il senso morale e cristiano della vita e l’autorità della legge». Citazione un po’ lunga, che non abbiamo fatto a caso, ma per rispondere a coloro che ci rinfacciavano più tardi di non esserci richiamati all’autorità della legge che in confronto dell’illegalismo fascista. Nonostante questa situazione forzata alla Camera e le ondate rivoluzionarie del paese, il gruppo popolare riusciva tuttavia a far varare con Croce la riforma della scuola, e questo problema sarebbe diventato forse il pernio della situazione politica, se Giolitti non avesse sciolto improvvisamente la Camera il 7 aprile 1921. Lo scopo di Giolitti era duplice: incanalare il nuovo partito fascista nell’alveo parlamentare e premere sulla massa socialista per distrarne una frazione laburista. Si disse anche che, secondo il suo vecchio sistema, si proponesse di scompaginare i popolari. Ma i popolari erano a posto. Ecco come incominciava il nostro primo manifesto: «L’appello al paese per le elezioni generali politiche, ha un primo significato fondamentale: la riaffermazione che le forze vive di tutta la nazione, nell’atto solenne costituzionale del voto, negano la rivoluzione predicata alle folle in nome della dittatura economica e politica di una classe: negano il dominio della violenza che ha avuto qua e là bagliori di guerra civile». Il 15 maggio i popolari tornarono alla Camera in 107 con 1.637.857 voti su 6.347.903. Ma anche i socialisti, divisi ma non diminuiti di molto (socialisti più comunisti 138) sono tornati a creare la stessa condizione di necessità, per cui i popolari devono andare al governo, perché senza di loro il governo non regge. Ed ecco dopo il ritiro di Giolitti (26 giugno 1921) il ministero Bonomi. Già allora l’on. Meda, oratore designato dal gruppo popolare, dovette incentrare tutto il suo discorso su questo concetto fondamentale: che vana sarebbe stata l’opera di ricostruzione delle sorti del paese senza il suo risanamento morale, senza l’abbandono dei metodi della violenza e della forza armata il cui esercizio rivendicava alla sovranità assoluta dello Stato. Siamo dunque innanzi al problema della reazione antisocialista, dell’organizzazione armata illegale e ai metodi del fascismo nel suo periodo rivoluzionario. Del periodo che segue fino ad oggi parlammo altra volta, dimostrando come anche sotto la spada di Damocle della nuova rivoluzione, il partito popolare fece ogni sforzo per attuare il suo programma riformatore. Dopo quattr’anni di vita così travagliata, il partito è in piedi con tutta la sua forza e con tutta la sua energia rinnovatrice. Quando la calma sarà tornata definitivamente, allora appena incomincia la sua grande, la sua civile battaglia per il rinnovamento della patria. |
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| 41921-1925
| Sono tempi questi, in cui si vedono i cambiamenti più strani e più inaspettati. Uomini che rappresentavano nelle città e specialmente nei subcentri più piccoli l’opposizione rumorosa e combattiva sotto bandiera anticlericale e socialista ricompaiono ora in veste di estremisti della destra e dell’antisocialismo più acceso; altri che in un certo democraticismo massonico e nel trasformismo sociale dei cosiddetti riformisti credevano di aver trovata la linea di confluenza fra l’anticlericalismo borghese e la demagogia socialista, dopo un breve periodo d’incubazione, si ripresentano come predicatori convinti della nuova dottrina del nazionalismo fascista; e v’ha infine una terza categoria che, piegandosi alle opportunità del momento, sperando di accattar favori o di evitare imbarazzi, fa getto di ogni sentimento di dignità e di coerenza, pur d’intrupparsi nel grosso dell’esercito vittorioso. Di fronte a questa accozzaglia che si agita e schiamazza per dar segno non dubbio della nuova vita, l’uomo che porta nell’ambiente sociale l’onestà delle proprie convinzioni e la dignità del proprio carattere non ha che una parola d’ordine, non ha che un principio da seguire: rimaner fedele a se stesso. In verità non è che coloro i quali hanno fede nell’apostolato e nella forza delle idee possano mettere in dubbio che avvengano conversioni sincere e trasformazioni profonde le quali investono non solo la coscienza individuale ma anche la sua pubblica attività. La storia ci dice che la via di Damasco è una via larga e battuta nella quale si sbocca per cento straducole e diversi sentieri e sulla quale in tempi di profondi rivolgimenti cammina non più l’individuo isolato chiamatovi da una voce del cielo, ma anche la massa del popolo trascinatovi da un sentimento travolgente, dietro al quale s’indovina il grande soffio dello Spirito che, scuotendole ed agitandole, guida le generazioni umane. La grande guerra ha rigato d’un solco profondo, non solo le terre d’Europa, ma ha sconvolte, sommosse, trasformate anche le coscienze. Ond’è che se molti e molti, tornando dalle trincee, hanno incominciata una vita nuova e sul terreno delle pubbliche competizioni hanno chiesto di parlare e di agire in nome di una diversa dottrina, nessuno ha diritto di rinfacciar loro, per mettere in dubbio la veracità del nuovo sentimento, i sentimenti o le predicazioni della loro vita anteriore. La nuova dottrina e il nuovo sentimento vanno giudicati e valutati per quello che sono; e se importano uno zelo verace del pubblico bene, un senso vivo di altruistico civismo, un amore fattivo alla propria nazione, essi hanno diritto di piena cittadinanza entro la sfera delle virtù tradizionali e familiari alle persone dabbene, a quelle cioè che, non avendo tali virtù mai abbandonato, possono oggi rallegrarsi che vi ritornino anche coloro che le avevano misconosciute o combattute. Non è quindi in confronto a costoro che possono valere le nostre considerazioni. Esse valgono invece rispetto ai mascheramenti dell’ultima ora del presente rivolgimento politico e valgono sovratutto, anche in tale confronto, più per nostra norma che per la critica altrui. In confronto dunque ai trasformisti, agli opportunisti, ai zelatori della sesta giornata riepiloghiamo i criteri del nostro atteggiamento nel motto: rimaner fedeli a se stessi. Fedeli ai propri principi politici che importano anzitutto la difesa della libertà religiosa e delle istituzioni che la promuovono o la garantiscono, in prima linea della scuola cristiana. Il nostro popolo è onesto, laborioso, disciplinato, in tanto in quanto è sinceramente religioso. Attraverso il cristianesimo e in virtù della religione entrano nell’animo di tutti e specialmente degli umili il sentimento della patria e il senso del dovere verso la nazione e chi la governa. A traverso il cristianesimo s’intensifica e si nobilita anche il sentimento d’italianità. Come ai primordi della nostra civiltà la strada di Aquileia fu la medesima e per l’apostolo Vigilio e per le legioni romane, così in tutta la nostra storia e oggi più ancora nel periodo della riguadagnata libertà, sentimento di cristianesimo e sentimento di nazione arrivano al cuore del popolo per la stessa via. Chi ci propone il distacco o l’agnosticismo in confronto all’una, ci spinge all’abbandono o all’indifferenza dell’altra. Fedeli ai nostri principi sociali: le nostre organizzazioni del lavoro, antico e glorioso baluardo dei principii di ordinata riforma sociale contro gli attacchi del socialismo rivoluzionario, mantengono oggi intatta la loro funzione di difendere i più deboli e i più torteggiati e di accrescerne l’influsso sociale senza venir meno alla giustizia che esige rispetto alla proprietà e riguardo alla produzione. Fedeli insomma a noi stessi, in quanto l’opera nostra è stata sforzo diuturno e tenace di elevazione popolare e in quanto abbiamo sempre combattuto con sincerità di convinzione e per una solidarietà di partito che non ha mai rinnegato i principii ideali della sua ispirazione. |
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| È ora di moda l’accusa di demagogia. Una volta per ammazzar uno politicamente, gli buttavi in faccia l’ingiuria di «reazionario» o «clericale» (l’uno valeva l’altro); e la folla urlava e fischiava contro il malcapitato. Ora l’aria tira da un altro verso, e perciò gli griderai «demagogo», e la folla urlerà colla stessa convinzione e condannerà senza istruttoria e senza appello. Non è per codeste folle quindi che metta conto occuparsi un pochino di tale argomento. Senonché, al di fuori e di sopra di loro, vi sono delle brave persone in buona fede ma di memoria debole, per le quali non sarà infruttuoso il tentativo di ricordare e far ricordare. Si suol ripetere dunque che anche il partito popolare è partito demagogico. Distinguiamo subito, anzi tutto ad personam. Se l’accusa di demagogia viene lanciata da profittatori disonesti, da industriali sfruttatori, da padroni egoisti, è chiaro che ogni difesa riuscirebbe ingenua. Per costoro ogni intervento dello Stato o degli enti pubblici in genere, per frenare le speculazioni ingorde, impedire le sopraffazioni economiche, promuovere e regolare la produzione è atto di condannabile demagogia, e di fronte a costoro converrà ci adattiamo alla condanna, ch’è inspirata alle stesse ragioni per le quali i manchesteriani condannano tutta la legislazione sociale del secolo XIX e del ventesimo. Ma se l’accusa ci vien mossa da chi o è nella questione materialmente disinteressato o vi porta colla difesa dei suoi onesti interessi un senso di giustizia verso gl’interessi degli altri e una comprensione illuminata dei superiori interessi sociali e nazionali, allora riteniamo di poter interpretare la loro accusa nel senso che ci rimproverano di avere, per propria e originaria tendenza o per mimetismo socialista, coltivato nelle masse operaie l’odio contro il detentore del capitale, l’egoismo del lavoratore senza riguardo alle necessità della produzione, l’orgoglio dei diritti non temperato dalla coscienza dei doveri e infine, come conclusione logica, la tendenza ad impadronirsi del predominio economico e politico ricorrendo ad atti violenti e alla rivoluzione politica o sociale. Ebbene se questi nostri accusatori sono onesti e tale e siffatta è la loro accusa, possiamo ben rispondere ch’essa è proprio senza fondamento. Il Partito popolare italiano nacque col manifesto del 18 gennaio 1919, anno in cui il movimento bolscevico sembrava potesse sommergere la vita sociale italiana; e tuttavia quel manifesto parlando di difendere la famiglia, le classi, gli organismi locali tendeva, come vi è detto letteralmente, «a fermare o modificare le correnti disgregatrici, le agitazioni promosse in nome di una sistematica lotta di classe e della rivoluzione anarchica». Noi abbiamo espresso questa finalità fin dall’apparire del nostro partito – dirà Sturzo nella relazione per il congresso di Napoli – e proseguimmo su quella linea nello sforzo pratico dell’ora e del momento: abbattere l’accentramento statale, che sopprime la personalità alle collettività operanti in esso, che toglie la responsabilità alle persone che in nome di esso operano; ridare la coscienza giuridica agli organismi che natura crea, perché lo svolgersi della loro azione non sia senza i limiti della coesistenza e senza il rispetto delle libertà; chiamare la solidarietà umana col nome di giustizia e di carità che unica rende possibile la collaborazione delle classi e contingente la lotta; eccitare le energie individuali perché diano all’economia nazionale la fiducia e la forza, che eventi e malvolere di uomini oggi hanno ridotto quasi all’impotenza; ridare ai valori morali e ideali l’importanza suprema nell’educazione di un Popolo per la sua prosperità nelle ore liete, per la sua resistenza nelle ore tragiche del paese. Vi pare che in queste parole risuoni un programma bolscevizzante? E sì che in quel periodo (dal 19 al 21) molti che ora posano a antidemagoghi bolscevizzavano allora sul serio. Lo spirito del manifesto del partito si mantenne vigile anche nei gravi avvenimenti che seguirono. Basti ricordare il nostro atteggiamento all’epoca delle furiose dimostrazioni e delle violenze contro il caroviveri, quando in tutta l’Italia – fra lo smarrimento dei più – le nostre sezioni pubblicarono manifesti per invitare alle «soluzioni eque e pacificatrici», condannando ogni illegalità e violenza. Quando poi moti sempre più gravi culminarono nel cosiddetto scioperissimo del 20 e 21 luglio 1919, la parola d’ordine della direzione fu «di fronte ad una propaganda sovversiva dell’ordine, da qualunque parte venga, far opera a tener salda la compagine sociale»; e l’ordine fu eseguito. Come fu eseguito negli scioperi del gennaio 1920, promossi tra i ferrovieri e i postelegrafonici, benché la viltà del governo d’allora, cedendo agli scioperanti, sacrificasse poi i bianchi che avevano contribuito in misura risolutiva a far abortire il movimento. L’azione parlamentare era in armonia coll’azione del paese. Non diceva il primo dei famosi 9 punti che condizionavano – dopo la caduta del primo ministero Nitti – la partecipazione dei popolari al governo: «politica interna di rispetto alla libertà individuale e collettiva e di salda resistenza agli elementi di disgregazione anarchica della compagine sociale»? E tutta la politica sociale e agraria svolta in mozioni o formulata in proposte di legge da membri del gruppo popolare – dalla riforma del Consiglio del lavoro e dalla registrazione delle associazioni operaie alle Camere regionali d’agricoltura e allo spezzettamento del latifondo – non segue i principi che al congresso di Bologna e a quello di Napoli l’on. Grandi Achille e l’on. Martini fissarono per la legislazione operaia e per la riforma agraria, principi che prospettarono una regolazione e una trasformazione dei rapporti fra capitale e lavoro, ma anche il mantenimento della proprietà e della collaborazione fra tutti i fattori della produzione? E più chiari forse e più precisi risuonano tali altissimi postulati di un partito riformatore, ch’è ad un tempo partito d’ordine, nel manifesto diretto alla nazione, al momento dell’occupazione delle fabbriche. Taluni forse allegheranno come prova di demagogia il regime provvisorio per comporre i dissidi fra capitale e lavoro in agricoltura, come fu decretato dai ministri Micheli e Mauri . Superfluo che entriamo a discutere il merito di tali provvedimenti di carattere del resto affatto contingente; ci basterà però rilevare che appena il ministro De Capitani ne ordinò l’abolizione, dal Gran consiglio fascista venne la richiesta di rifare qualche cosa di simile; e ne fu incaricato il popolare Cavazzoni. Non crediamo che il ministro popolare, per soddisfare tale incarico, abbia bisogno di venir meno comecchessia alla linea direttiva del suo partito. Infine si osserverà che in qualche agitazione locale i propagandisti non si tennero sempre entro i giusti limiti, che in qualche movimento economico si ricorse con troppa facilità allo sciopero. Ammettiamolo pure; ma chi nel periodo del turbolento dopoguerra resistette a tutte le pressioni e pur agitando e lavorando entro le masse non subì una qualche momentanea deviazione, si faccia avanti e getti la prima pietra. Chi lavora può sbagliare; ma il decisivo è di constatare se il partito popolare, pur non potendo comandar agli avvenimenti e pur avendo funzioni di minoranza, tenne fede alla sua linea programmatica antidemagogica, interclassista e nazionale. La risposta non può essere che affermativa. Certo ch’essa vale per gli uomini – fascisti o non fascisti – che sono in buona fede o che nel fervore delle nuove lotte non hanno smarrito il senso della misura. Per gli altri, specie se convertiti di fresco, i quali abbiano un passato troppo recente di demagogismo rosso, o semirosso da far dimenticare, le nostre constatazioni dovrebbero assumere carattere comparativo e risalire più in su ad esaminare, in tutte le fasi del socialismo italiano, quali forze si siano trovate al di qua e quali al di là della barricata rivoluzionaria. |
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| 41921-1925
| C’è chi vorrebbe giustificare una sua pregiudiziale opposizione contro l’attuale governo coll’ostilità o colla diffidenza che il passato degli uomini che lo reggono può suscitare. Vi dicono: rispetto alla religione? Ma non ricordate gli attacchi del «Popolo d’Italia» che provocarono anche le pubbliche censure dell’autorità ecclesiastica? – Ripristino dell’autorità statale? Ma avete dimenticato il linguaggio rivoluzionario e le tendenze repubblicane di ieri? – Politica del lavoro? Ma non furono gli agrari e gl’industriali ad appoggiare incondizionatamente e sugli inizi il movimento? E in verità se fosse lecito giudicare l’attuale governo come la maturazione logica e lenta di un pensiero programmatico formulato nella normalità dei dibattiti giornalistici e parlamentari, le obiezioni e i contrapposti che, per esemplificare, abbiamo più sopra riferito, non mancherebbero di fondamento. Ma l’attuale governo non è l’espressione di un programma così maturato e così definito, ma rappresenta la condensazione di una forza rivoluzionaria, sviluppatasi nel torbido dopoguerra, e messa ora in una tubatura forzata al servizio della macchina statale che bisogna, a tutti i costi, spingere fuori dal pantano in cui s’era impigliata. Preso una volta colla propria coscienza e col proprio paese tale formidabile impegno, gli uomini che sono al governo ricorrono a tutti i mezzi che un intuito realistico loro dimostra più atti al successo. Chiamando a raccolta tutte le energie che sono o gli paiono sane, Mussolini le inserisce nello sforzo ch’egli dirige, non chiedendo guari né a sé né agli altri se l’atteggiamento odierno possa connettersi logicamente cogli atti e colle parole che caratterizzano le trasformazioni rivoluzionarie e le rapide evoluzioni politiche d’un periodo definitivamente chiuso. Crediamo quindi che le domande degli oppositori pregiudiziali debbano trovare una risposta in uno studio psicologico che voglia segnare lo sviluppo d’un uomo o d’un movimento, ma che non ci possano fornire criteri risolutivi per giudicare l’attuale politica del presente governo. Della nostra affermazione volete una prova classica? Prendete atto dell’approvazione chiesta dall’on. Mussolini delle convenzioni di Santa Margherita e dei discorsi da lui fatti alla Camera e al Senato su tale argomento e riconsiderate un momento i precedenti storici. Il fascismo è nato dalla passione adriatica. Il primo nucleo dei fasci di combattimento si formò a Milano, quando, dopo la conferenza Bissolati alla Scala , s’iniziò la lotta contro i cosidetti «rinunciatari». Fu nel giornale fascista che D’Annunzio pubblicò la sua «lettera ai Dalmati» e quando Wilson inviò il Messaggio agli Americani, nel quale tacciava l’Italia d’imperialismo, a cagione di Fiume e della Dalmazia , Mussolini scriveva sulla testata del suo giornale: «Non si barattano i vivi: non si tradiscono i morti». Dopo la marcia di Ronchi , che il «Popolo d’Italia» esalta incondizionatamente come «gesto rivoluzionario», fiumanesimo e fascismo appaiono una stessa sostanza e Mussolini scriveva: «La capitale è sul Quarnaro, non sul Tevere». Più tardi il giornale fascista apre una sottoscrizione per finanziare l’impresa fiumana, e D’Annunzio, dal canto suo, manda dei suoi legionari a sostenere i fascisti nella campagna elettorale (novembre 1919); i quali fascisti proclamavano di volere «l’annessione incondizionata di Fiume, con continuità territoriale, e delle città italiane della Dalmazia». È ben vero che nel novembre del ’20, quando si firmò il trattato di Rapallo, Mussolini giudicò il trattato meno severamente di D’Annunzio, ma il momentaneo dissenso non impedì che il fascismo solidarizzasse col Comandante, quando si parlava della marcia su Roma e quando Giolitti strinse d’assedio la città occupata dai legionari. Ora non è chi non veda come un tale passato legittimasse l’apprensione di quanti temevano che l’andata di Mussolini al governo significasse riaprire tutta la questione adriatica, specie sapendo che i fascisti ancora durante l’ultimo mese del governo Facta – la convenzione di Santa Margherita venne firmata solo il 22 ottobre 1922 – avevano intimato al gabinetto di non sottoscrivere. Mussolini invece ha potuto stupire la opinione di quanti l’osservano di lontano, coll’annunziare ancora il primo giorno alla Camera che i trattati, una volta firmati, dovevano venire attuati e che bisognava accordarsi colla Jugoslavia, per non rimanere inchiodati nell’Adriatico . Certo è lecito supporre che la visione generale della politica estera italiana abbia potuto influire sul suo proposito e che la preoccupazione di trovarsi ancora incatenato alla questione di Fiume, quando in un prossimo domani, sopravvenissero altri cimenti, gli abbia consigliato di tagliar corto. Ma, o ci inganniamo, la definizione dei problemi sospesi in confronto dell’estero, fa parte essa stessa del programma di ricostruzione all’interno. Regolare e conchiudere all’estero, per poter dedicare tutte le forze ad una politica di raccoglimento all’interno. È sempre il problema della ricostruzione finanziaria che è d’importanza capitale. Alla sua soluzione va dedicato ogni sforzo, piegata ogni volontà, frenata ogni passione, anche se essa può aver incendiate le menti e fatti palpitare i cuori di eroico idealismo. Senza dubbio questo atto coraggioso, diremmo quasi, chirurgico, della politica mussoliniana si presta a considerazioni molteplici; ma noi non vorremmo qui, concludendo, che riferirci ad una sola: ch’essa cioè è una prova classica di quel dinamismo concettuale e strumentale, secondo il quale, e non riferendosi a termini fissi, va giudicata l’attività del governo fascista. |
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| 41921-1925
| L’annuncio da noi dato l’altro ieri dell’imminente nomina del rag. Barbesino , ora segretario della federazione fascista, a membro della Giunta provinciale straordinaria, ha suscitato nell’animo del direttore del «Popolo» gli spiriti del miles gloriosus e il peana della vittoria. Iersera, infatti, sotto il titolo di «una battaglia vinta», il «Popolo», riassume tale nomina e l’emanazione del decreto sull’assimilazione giuridica degli statali; di quest’ultima preferiamo occuparci, quando avremo sottocchio il testo del decreto; per la prima, ecco lo squarcio del «Popolo», a cui una volta tanto, et pour cause, facciamo l’onore della citazione: «Il segretario della Federazione fascista, sig. Barbesino è stato chiamato a far parte della Giunta provinciale straordinaria. Il posto artatamente rimasto vacante – dopo il rifiuto dei socialisti a parteciparvi – viene ora coperto in periodo di liquidazione e la cricca che si era formata in seno alla Giunta subisce un altro scossone nella degringolade. Infierire sui vinti potrebbe sembrare ingeneroso. La Giunta provinciale fu, e nelle sale dell’ex Hotel Trento ormai spira aria di funerale. Ma giova su queste colonne, affermare il significato vero e preciso della presenza del commissario fascista in Giunta per rilevare come questa nomina sia l’epilogo di una battaglia combattuta e vinta. Sin dall’estate scorsa, quando il Partito popolare – resi prigionieri gli imbelli governi che si erano succeduti – dominava incontrastato, soli, osammo levare la voce contro lo scandalo della Giunta provinciale partigiana e parziale. In quella occasione rilevammo come fosse stato di fatto soppresso ogni controllo ed abolita ogni critica in seno alla Giunta poiché con l’accordo clerico-liberale-tedesco, si era raggiunta l’unanimità che veniva assicurata dall’assenza dell’altro membro di Giunta dimissionario. Demmo battaglia sul giornale e insistentemente chiedemmo – a Trento, presso il Commissariato, come a Roma presso la Presidenza del Consiglio – che, sull’esempio di quanto avvenuto a Trieste, si fosse provveduto a integrare la G. P. con la nomina di un altro rappresentante dell’opposizione. Il governo di Facta, pur riconoscendo la fondatezza della nostra richiesta, non osò spiacere al Partito popolare e nonostante la nostra serrata campagna, gli argomenti legali e morali addotti, la Giunta rimase quale era, e il posto lasciato scoperto dai socialisti non venne mai occupato. Più tardi, dopo l’avvento del governo fascista, il direttore di questo giornale, d’accordo col col. Ferrini – allora segretario provinciale della Federazione fascista – ripresero a Roma, presso la Presidenza del Consiglio, e poi a Trento le trattative che erano state avviate per la nomina di un nuovo componente della Giunta provinciale straordinaria in sostituzione del dimissionario. Quello che non aveva osato fare il governo di Facta si ottiene ora per virtù del governo fascista, e trionfa la nostra tesi fieramente avversata dal Partito popolare. È una nuova battaglia vinta, e con questo significato noi salutiamo l’ascesa alla Giunta provinciale amministrativa del segretario federale Barbesino, se pure ormai la Giunta provinciale sia in istato di liquidazione fallimentare. Senza contare che molte cose meritano di venire spulciate e portate alla ribalta, poiché sono state celate per molto tempo. Ma di questo parleremo ancora: per oggi registriamo il successo». Ed ora ecco le nostre osservazioni. Noi neghiamo assolutamente che si possa parlare dell’amministrazione provinciale come di una cricca partigiana, nel senso che un partito cattolico vi abbia spadroneggiato o vi spadroneggi a suo talento, senza la collaborazione o senza il controllo di altri partiti. Quando si costituì la Giunta straordinaria noi, partito della maggioranza relativa, abbiamo chiesto ed ottenuto ch’essa venisse formata colla proporzionale, partecipazione di tutti i partiti, sulla base dei risultati delle allora recenti elezioni politiche. Furono nominati così, accanto al commissario presidente che rimase il sen. Conci, due popolari italiani, due tedeschi – l’uno conservatore, l’altro liberale –, un liberale italiano e un socialista. Con questo sistema si raggiunse una molteplicità di collaborazione e di controllo, superiore a quello che si sarebbe ottenuto procedendo in analogia alla legge amministrativa per le altre provincie, giacché questa attribuisce il diritto di nominare tutta la deputazione provinciale e i quattro membri elettivi della Giunta amministrativa alla maggioranza relativa degli elettori a traverso la maggioranza dei membri del consiglio provinciale. La collaborazione e il controllo fu quindi da noi voluto e attuato con un criterio di larga modernità, al di là di quello che prescrive la legge, ora in vigore. È vero che i socialisti per un contro ordine venuto dalla direzione del loro partito, si astennero poi, dal coprire quel posto; ma nessuno in buona fede è autorizzato a ritenere che, mancando i socialisti, i rappresentanti di altri quattro partiti si siano trasformati in consorteria ai danni del pubblico. È vero, anche, che il direttore del «Popolo» non fu della nostra opinione , ma la sua campagna parve alla maggioranza dell’opinione pubblica così faziosa, così piccina e spesso così sleale che credemmo inutile reagire, se non quando – e furono casi rarissimi – si trattò di rettificare dati di fatto. Per gli attacchi generici e le insinuazioni velenose abbiamo preferito rimetterci al giudizio del pubblico il quale conosce gli uomini e sovratutto circonda di stima e di fiducia l’opera di coloro che servono da decenni la loro regione con purezza di vita e con indiscussa onestà di propositi. Ciò premesso, aggiungiamo che il partito popolare non ebbe mai occasione di accettare o respingere proposte del governo Facta per coprire il posto lasciato vacante dai socialisti. Leggiamo ora che durante l’estete, il direttore del «Popolo» fece urgenze, a Trento e a Roma, perché quel posto venisse coperto da «un altro rappresentante dell’opposizione». Ciò sembra coincidere colla notizia avuta a Roma che in quel torno di tempo noti massoni e ministri socialriformisti proponevano e raccomandavano la nomina del signor Luigi Razza a membro della Giunta straordinaria; ma non se ne fece nulla, sia che il governo, con riguardo alle sue pubblicazioni passate in favore della ricostituzione della Dieta autonoma, pensasse che la nomina del Razza potesse avere significato troppo autonomista, sia che con riguardo ai suoi metodi polemici presenti si fosse convinto ch’egli non era la persona più indicata per una collaborazione amministrativa. Più tardi…; già, più tardi, cioè fra la impresa di Bolzano e la marcia su Roma e specie dopo l’avvento di Mussolini, il «Popolo» richiese, profetò, annunziò come sicuro ed irrevocabile lo scioglimento della Giunta straordinaria e il licenziamento col primo gennaio degli attuali amministratori – cacciati quasi come indegni e reprobi gestori della cosa pubblica. Avvenne invece il contrario: la Giunta restò ed ebbe anzi l’incarico di fiducia di nominare i membri elettivi della Giunta amministrativa. Allora, ci racconta il «Popolo», il suo direttore riprese a Trento e a Roma le trattative – la continuità dell’azione da Facta a Mussolini è di una linea perfetta, senza spezzature – e infine «quello che non aveva osato fare il governo di Facta, si ottiene ora per virtù del governo fascista e trionfa la nostra tesi fieramente avversata dal Partito popolare». Ebbene noi non mettiamo in dubbio le novelle fatiche e i reiterati interventi del signor Razza; ci meravigliamo solo altamente ch’egli le abbia dovute mettere in opera, perché non solo i popolari né a Trento, né a Roma sollevarono in confronto del governo fascista eccezione; ma ancora in dicembre, nella Commmissione consultiva centrale sostenendo il regime di transizione della Giunta straordinaria rilevarono che il Governo, trattandosi in fondo di una commissione reale, era libero di completare o modificare la Giunta stessa. Gl’interventi furono quindi, se mai, necessari, per sollecitare l’opera del Governo, non per vincere né a Roma né a Trento – il signor prefetto informi – la fiera avversione del Partito popolare. Il «trionfo» è perciò millantato credito. E facciamo punto. Ci siamo occupati con ritrosia di una polemica che ha uno sfondo personale; ma vi siamo stati trascinati per i capelli. Nella vita amministrativa della nostra regione il momento che attraversiamo non è facile, poiché il trapasso da un sistema all’altro per i suoi effetti organizzativi e finanziari desta, naturalmente, preoccupazione che il periodo normale non conosce: sarebbe quindi da stolti l’accogliere un’onesta collaborazione con diffidenza. Questa è la nostra visione realistica e nazionale del problema; né da essa potrà distrarci nemmeno la polemica corrosiva e astiosa di un giornale che a traverso due periodi e due travestimenti non ha avuto altra continuità che quella di provare e alimentare una miserevole ed anacronistica campagna anticlericale. |
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| 41921-1925
| In uno degli ultimi numeri del Popolo, da noi citato di passaggio altra volta, Giuseppe Passerini, già segretario della federazione fascista, espone con patetici accenti il travaglio interiore dei fascisti massoni che pur essendo spiritualmente attaccati alla Massoneria, dopo l’ordine del Gran Consiglio fascista, per rimanere fascisti, devono abbandonarla . Non intendiamo qui di reagire alle scempiaggini che il Passerini, nel seguito dell’articolo, per un diversivo troppo evidente, va stampando sul conto dei popolari. Stiamo pure per ora ai termini religiosi e apolitici del problema. Il Passerini dunque scrive e il Popolo stampa: «Il Gran Consiglio Fascista ha tagliato il nodo di Gordo. Superato il dilemma, appare ben chiaro il dovere di ogni fascista, che sia stato, sia e voglia rimanere fascista. Ma per molti, per quelli che onestamente diedero l’opera loro sin dall’inizio, e sino al sacrificio per giungere alla rivoluzione, pur essendo massoni, il dilemma del dovere non può essere risolto con un colpo di spada od un ordine ricevuto. La coscienza si placa solo con la convinzione. Occorre quindi superare lo stato d’animo, occorre che essi sappiano e pensino veramente che al di sopra delle piccole logge locali, la grande massoneria facente capo ai due punti cardinali di Palazzo Giustiniani e Piazza del Gesù, gettata da tempo immemore la veste puramente filosofica religiosa si era invescata di politica demagogica, che raramente dall’uno e dall’altro scisma (l’una accusa l’altra di eresia) uomini fieramente avversi ad ogni forma di dittatura avevano combattuto prima e poi il fascismo vedendo in esso una forza opprimente delle libertà civili. Era venuto meno nei dirigenti gli occulti organismi il senso della realtà. Sfuggiva la portata morale, l’altezza dell’ideale fascista. Di qui ondeggiamenti e lotte interne, ed accerchiamenti di adepti che, avendo compreso l’alta forza della nuova corrente, a questa si erano dati con tutta l’anima ardente, e questa in molti luoghi avevano guidata. A costoro che, pur ieri avevano combattuto fascisticamente con purezza di spirito sarà parso grave l’ordine del Gran Consiglio e si saranno posti la domanda, se l’opera loro sino ad oggi doveva essere abiurata, o se l’abiura dovesse essere pronunciata contro l’altro occulto giuramento. E certo l’interno travaglio non è di poco conto. La Patria è un amore religioso. Il fascismo è la forza dell’amore che ci avvince alla Patria. Non vi è quindi alcun dubbio sulla scelta. Ma la massoneria non è ciò che per vile paura o per somma ignoranza, anime povere e spiriti partigiani sbraitano lordando le pagine dei fogli quotidiani. Massoneria è religione. Rinvilita negli ultimi tempi, trascinata ad una concezione democratica e demagogica della politica nazionale, ha perduto le sue fondamenta aristocratiche gettate dai costruttori del Tempio, dai cercatori della verità, dai teologi, dai filosofi , dai dominatori e custodi di ogni ramo dello scibile; ma nella sua essenza lontana e purissima rimane ed è religione. Chi dimentica che Iddio, nell’episodio pietoso, permise a coloro che cercavano nelle tenebre la luce, di deporre Gesù dalla croce, non sa né capisce quanta parte nel mondo è dovuta a questa dottrina. Il concetto internazionale della massoneria è concetto aristocratico. Al di sopra di ogni rinuncia per ciò che riguarda la Patria, superati i problemi contingenti della vita nazionale, in un sogno purissimo, può l’uomo ancora dare all’umanità il suo soffio d’amore? Io credo che sì. Né ciò urta coi miei sentimenti fascisti. Da ciò alla concezione di una internazionale concreta fondata sulla soppressione delle razze e delle patrie troppo lungo è il cammino. Noi non possiamo né dobbiamo quindi vedere nell’ordine del Gran Consiglio la sconfessione della dottrina, ma la sferzata agli uomini; non l’anatema alla spiritualità dell’idea, ma la condanna alla decadenza dell’istinto. Il fascismo incarnazione della più alta spiritualità, dottrina di sacrificio, di dedizione, d’amore, guarda alle religioni come ad un ausilio, sente che solo attraverso la chiara sincerità, la semplicità dei costumi e dell’idea si prepara l’anima ad assorbire i principi fascisti. Non domanda a quale fonte, chi viene a lui, abbia bevuto i principi religiosi ed abbraccia il cattolicismo come quello che maggiormente risponde al sentimento italiano». Secondo il Passerini dunque la massoneria è religione nella sua essenza lontana e purissima, una dottrina alla quale il mondo deve gran parte del suo perfezionamento e allo svolgimento della quale hanno collaborato cercatori della verità, teologi, filosofi , dominatori e custodi d’ogni ramo dello scibile. Il fascismo, sempre secondo il suo ex capo trentino, vi è contrario per ragioni contingenti, che dipendono non dalle logge locali, ma dalla falsa direttiva del centro e, diremo, per ragioni disciplinari. Il fascismo cerca nelle religioni una forza ausiliare, ma non si preoccupa della dottrina. Se s’appoggia al cattolicismo è perché cattolica è la religione prevalente in Italia. Questi concetti permettono a noi, cattolici, le seguenti conclusioni. Non è vero, come credono i più, che la massoneria sia solo una società di mutuo soccorso. Essa è una religione, una fede, una dottrina. Il gran pubblico dei profani non può conoscere né gli articoli di questa fede, né i canoni di questa dottrina, perch’essa vien tenuta segreta. La Chiesa cattolica ne sa abbastanza però per condannarla ripetutamente ed esplicitamente. I cattolici credenti devono rifiutarla e combatterla. Il fascismo dal suo punto di vista politico la ripudia e, per qualunque ragione il ripudio avvenga, i cattolici non possono che approvare e applaudire. Ma la nostra concezione è più radicale. Noi non conosciamo che una sola religione ed in nome delle sue verità respingiamo ogni altra dottrina come falsa e come eretica. Anche dal punto di vista politico, in quanto la nostra politica s’inspira al cristianesimo, consideriamo gli atti di omaggio al Cristo nella scuola come omaggio alla verità positiva e difendiamo il cattolicismo non come fatto contingente nella storia italiana, ma la dottrina e la disciplina dei seguaci di Cristo come espressione e organizzazione dei rapporti fra Dio e gli uomini. Alcuni capi fascisti, e sovratutti Mussolini, hanno riconosciuto anche il valore nazionale del pontificato romano; ma questo riconoscimento già li divide dalla dottrina massonica la quale considera la dominazione spirituale del Papa e della Chiesa come la rovina d’Italia. Non sembra quindi possibile conciliare il pensiero fascista di Mussolini col concetto che informa la massoneria intorno alla società vivente del pensiero cristiano, ch’è la Chiesa cattolica. C’è quindi un conflitto di coscienza, non semplicemente un conflitto disciplinare. Senonché i profani non sono chiamati ad intervenire in tale conflitto; né abbiamo preso la parola a tale scopo. Ci premeva invece di stabilire nettamente e, in contraddittorio, il pensiero nostro, ch’è quello dei credenti nella religione di Cristo. Una questione di metodo Nell’articolo del Popolo più sopra citato si ripete per l’ennesima volta la ridicola fiaba che per aver noi sostenuto le autonomie comunali e provinciali, volevamo creare uno Stato nello Stato. «Gli eletti sognarono non di essere annessi all’Italia, ma formare uno Stato entro lo Stato; e i lungimiranti affermarono che la loro missione era di annettersi l’Italia». Non mette conto davvero di ritornare su quest’accusa che non può essere più elevata in buona fede. Noi abbiamo affermato e provato con larghissima documentazione che in Italia esiste una forte corrente per il cambiamento della legge comunale e provinciale, che tale riforma era, almeno in parte, già maturata in un progetto accolto dalla commissione parlamentare e dal comitato interministeriale e che quindi conveniva non estendere la legge vecchia, che si voleva riformare, ma applicare nelle vecchie e nelle nuove provincie una legge nuova, eguale per tutto il Regno, che accogliesse i criteri di decentramento e di maggiore libertà agli enti locali. Questa nostra tesi venne propugnata in seno alla Commissione consultiva da un deputato fascista e accolta dalla maggioranza della commissione in essa compresi i membri fascisti di Gorizia, dell’Istria e l’on. Piccinato. Nulla quindi di eretico, d’antinazionale, d’antistatale, d’antifascista. Gli avvenimenti dovevano poi ben presto darci ragione, perché, trattandosi di altre leggi importantissime, riguardanti il Codice civile ecc., il ministro fascista Oviglio propose e il Consiglio dei ministri accolse lo stesso metodo, di creare cioè una terza legge che, tenendo conto anche di quanto vi ha di buono nelle Nuove Provincie, venisse poi introdotta in tutto il Regno. Quasi quotidianamente abbiamo potuto riferire delle argomentazione in favore della nostra tesi, sia per quanto riguarda il regime scolastico, (riforma Gentile ), le istituzioni di previdenza sociale (progetti del ministero del Lavoro), o in genere l’organismo della regione (Mario Govi nel «Popolo d’Italia»). To! Prendete in mano i giornali di ieri. Nel «Corriere della sera», il prof. Vivante , autore del progetto per la riforma del codice – sul quale fra parentesi, sarebbe opportuno che i nostri giuristi prendessero la parola, scrive: «L’opera nostra è pur sorretta da una ragione politica incalzante e cioè dalla necessità di affrettare l’unificazione legislativa colle nuove provincie. Esse sono regolate da un codice di commercio e da leggi speciali che al loro tempo riassunsero il frutto della grande coltura tedesca. Nell’annessione non devono perdere il beneficio di quel sistema, che ebbe certamente il merito di riconoscere nuove forme di società, di regolare completamente le assicurazioni, e di aver affidato l’osservanza della legislazione commerciale al giudice del Registro. Un’altra differenza di suprema importanza divide quelle provincie dal nostro ordinamento. Ivi ogni debitore insolvente è soggetto ad una procedura concorsuale, analoga al fallimento. Mentre da noi i soli commercianti sono costretti a subirla, ed è il sistema francese. Dobbiamo ritornare all’antico sistema italico della procedura concorsuale, diffuso per virtù nostra in quasi tutto il mondo civile, o attenerci al sistema francese?». Anche in Francia, del resto, paese classico del centralismo, l’annessione dell’Alsazia-Lorena ha dato la spinta a riforme amministrative in senso decentrato. Nella seduta della Camera francese del 25 ottobre 1922 venne presentato un disegno di legge «per la riorganizzazione amministrativa», il quale si propone fra altro: a) la diminuzione delle funzioni di vigilanza e di tutela (dunque maggiore autonomia degli enti locali); b) istituzione della regione, nel senso che i Consigli provinciali sono chiamati ad eleggere una commissione regionale, la quale ha le seguenti attribuzioni: a) erezione e sistemazione di canali; b) sistemazione dei corsi d’acqua e dei porti fluviali; c) parere sulle domande di concessione di forze idrauliche ed idroelettriche e su quelle di trasporto e di distribuzione di energia elettrica; d) concessione a compagnie od a particolari dei lavori di interesse regionale, di strade ferrate di interesse locale, di tramvie, di trasporti automobilistici oltre il territorio del dipartimento; e) organizzazione ed amministrazione degli stabilimenti di assistenza; f) organizzazione dell’insegnamento tecnico, agricolo, commerciale, industriale ed agricolo; g) opere di insegnamento superiore, creazione di corsi nelle facoltà, istituti tecnici, laboratori, biblioteche e musei; h) strade regionali; i) creazione di casse regionali di credito agricolo, industriale e commerciale, di assicurazione contro i danni delle inondazioni, grandine, ecc.; l) sviluppo delle società cooperative di produzione e di consumo; m) concorsi alle esposizioni agricole, industriali e commerciali. Dunque su per giù la regione di Marco Minghetti! Queste riforme verranno o non verranno accolte: saranno discutibili; ma il rivelarsi quasi parallelo di tali tendenze in analoghe situazioni in condivisione di coloro che tutto vogliono ridurre ad un misoneistico attaccamento al passato o a un gretto e retrogrado campanilismo. |
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| 41921-1925
| C’è chi scrive che la collaborazione col fascismo deve «esaurire in primo luogo la posizione e la natura partitale del partito popolare italiano». La questione è grossa e merita un maggiore rilievo che ci riserviamo di fare a miglior agio. Per oggi uno spunto solo. Se il partito popolare fosse solo l’organizzazione politica, nata nella primavera del 1919 o fosse solo o prevalentemente la formazione parlamentare che nelle tavole di Montecitorio è inscritta come «gruppo parlamentare popolare», potremmo ammettere che l’organizzazione, com’è sorta, scompaia o si trasformi sostanzialmente e che il gruppo popolare si fondi o si esaurisca in altro organismo similare. Ma sulla natura del partito popolare sembra che in Italia regni un qualche grosso equivoco: diciamo in Italia, perché in altri paesi, nei quali il movimento cattolico-sociale ebbe subito veste politica, tale equivoco non si presenta né alla speranza né alla fantasia di alcuno. Eppure anche in Italia, come negli altri paesi cattolici, il partito popolare non è che la forma e lo strumento politico del movimento cristiano sociale. Questo movimento ha la sua storia, la sua scuola, la sua dottrina. Esso è nato dalla questione sociale verso la metà del secolo XIX. Fino a tanto che la questione sociale rimane il problema più grave della vita pubblica, il movimento sociale cristiano rappresenta la dottrina e lo sforzo per risolverla; e il partito che è la forma politica di tale movimento rappresenta l’organismo che ha la funzione di agire nello stesso senso sui pubblici poteri. Forse che il problema del lavoro in Italia si può dire oggi risolto? Forse che la questione agraria ha avuta una soluzione qualsiasi? La legislazione sociale ha forse esaurito in Italia – ove siamo appena agli inizi – i suoi compiti? Se ciò non è – e chi oserebbe affermare il contrario? – rimane vero che un partito il quale su tali problemi abbia una dottrina e una prassi da far prevalere, risponde più che mai alle esigenze dei tempi. Esaurito? Ma chi dice così, dimentica che prima di Sturzo, Meda o Mauri eravamo Toniolo, De Mun, Vogelsang, Pottier , Hitze , Decurtins , che prima di essere confederazione bianca dei lavoratori eravamo unione di Friburgo e che le tavole del partito popolare italiano e i suoi congressi sono impensabili senza i libri di Ketteler, di Manning e senza la Rerum Novarum. Superficiali osservatori dei fenomeni postbellici possono in verità ritenere che i problemi di riorganizzazione statale abbiano scacciato definitivamente dalla attualità politica i problemi sociali. Ma noi che non sfuggiamo ai primi, nello studio dei quali apportiamo anzi un disegno di ricostruzione che s’inspira allo Stato cristiano, non ignoriamo però che appena liberati dalle angustie finanziarie e amministrative prodotte dalla guerra, ci troveremo di nuovo innanzi alla gravità inesorabile della questione sociale. Quando Napoleone III comparve sulla scena politica, quasi tutte le classi sociali francesi, stanche e sfiduciate degli esperimenti e delle convulsioni sociali, credettero che, recando egli la pace nelle pieghe del suo manto imperiale, avesse tolta per sempre la necessità dello sforzo di riforma sociale. Tutti sanno ora come e quanto s’ingannasse. I cattolici italiani non devono oggi seguire l’esempio dell’«Avenir» . Non si serve ad un’idea, scomparendo e disperando, quando la sua maturanza sembra lenta e contrastata. Ma all’idea si serve e alla patria, dandovi sopra tutto un contributo di fede e di tenacia e una collaborazione che, non esaurendosi nei problemi contingenti dell’ora, conserva la funzionalità di una dottrina e d’un movimento che vale per tutta un’epoca storica. |
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| La dottrina dell’impero assoluto dello Stato sull’individuo non è una formula inventata dall’on. Devecchi per dare una motivazione filosofica alle direttive della sua riforma: ma è un presupposto tacito o espresso di tutta una tendenza che si rivela oggidì in molti discorsi e in quotidiane manifestazioni politiche. Ora che i tempi richiedano dai singoli uno sforzo straordinario di sacrificio e disciplina per risanare moralmente e finanziariamente lo Stato, nessuno può negare o porre in dubbio; ma bisogna mettere in guardia contro principii, i quali vennero invocati da Luigi XIV in poi come quelli che costituivano l’inflessibile raison d’état e che oggi ancora possono derivare o dal panteismo statale hegeliano, caro ai Croce e ai Gentile, o dalla concezione marxista che inspira Lenin nella sua dittatura. Chi segue l’ispirazione cristiana della politica deve ricordare il precetto di Cristo: «Date a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio». Questo precetto ha portato nella vita politica il germe della più grande rivoluzione che sia mai stata compiuta nella storia della civiltà. Nello Stato antico potere civile e potere religioso si confondevano in un’unica fonte e si personificavano nella stessa autorità. I re, i consoli, gli arconti e basileis erano anche sommi sacerdoti; lo Stato era concresciuto colla sua religione e ciascuna religione si confondeva col suo Stato. Ogni popolo aveva un suo dio e ogni dio governava il suo popolo. Tutta la costituzione sociale (le curie di Roma, le fratrie in Grecia), il diritto (il padre di famiglia era il pontefice della sua stirpe), la proprietà erano regolate e irrigidite da formule religiose fissate nella tradizione o nei libri sacri, e lo Stato era una società religiosa che in forza delle sue origini imperava sul cittadino collo stesso impero del suo dio. Di qui la dominazione assoluta che aveva il pater familias sui figliuoli e o l’impero senza limiti che aveva lo Stato sull’individuo. Di qui l’odio e il disprezzo per lo straniero che aveva altri dii e altri culti, odio che si tramandò costantemente nella civiltà greca e romana di generazione in generazione. Ora questa concezione antica che fu rigida specialmente nella repubblica romana, essendovi attenuata appena negli ultimi secoli dagli stoici, venne rovesciata dal Cristianesimo. Il Cristianesimo ponendo Dio al di fuori della vita materiale e al di sopra di essa, proclamando un Dio unico e universale, creando una legge morale indipendente dagli Stati ed eguale per tutti, donò agli uomini il concetto della fratellanza umana, e sovratutto, distinguendo fra legge dello Stato e legge morale, fra Cesare e Dio, sottrasse al dominio dei poteri pubblici la parte più nobile di lui, creò la libertà di coscienza e produsse e favorì la libertà individuale. È da questo momento che il pater familias troverà limitati i suoi poteri dalle leggi della natura, sanzionate dalla nuova religione, è da questo momento che la dignità della donna sarà riconosciuta, che il diritto di proprietà verrà derivato non dalla religione, ma dal lavoro; è da questo momento sovratutto che il potere dello Stato sarà limitato dai diritti del cittadino, il quale avrà bensì il dovere di obbedire e di servirlo, ma compatibilmente coi suoi doveri verso Dio, la famiglia, il suo prossimo. Siamo quindi Cristiani… e non pecore matte, come ammoniva il poeta. Ogni appello alla disciplina e all’ossequio alle leggi ci trovi consenzienti e pronti ad ogni civile virtù: ma in una epoca nella quale (con una fraseologia che fa supporre negli oratori che la usano una conoscenza del mondo antico fondata appena su Plutarco e forse su Cornelio Nepote) s’inneggia ad una supposta rinascita d’una supposta concezione romana della vita pubblica, non dimentichiamo che Cristo l’ha rovesciata, tale qual’era, per sostituirvi un concetto più divino e più umano, più morale e più libero. |
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| 41921-1925
| Quando Mussolini o i suoi generali richiamano alla disciplina e condannano con gradita precisione le violenze degli eroi della sesta giornata, nella stampa fascista e nelle riunioni di partito si risponde con un atto di sottomissione: qui e là però gli avvenimenti ed il linguaggio che riprende poco dopo ci dicono che la sottomissione è formale, ma non nello spirito. Tuttavia che ciò accada nelle provincie per le quali la marcia di Roma fu o doveva essere la fine di tutto un lungo periodo di conflitti sanguinosi, è ancora spiegabile, perché l’uso ripetuto e prolungato della violenza produce una perturbazione delle coscienze così profonda che gli stessi esaltatori d’un metodo di eccezione da loro ritenuto necessario ma transitorio, né dianzi prevedevano né oggi sanno dominare. Ma tale spiegazione e il compatimento che ne deriva non si confanno a regioni che del fascismo hanno ignorata la epoca cruenta. Nella Venezia Tridentina, se si eccettuano le due imprese di Bolzano e di Trento , le quali ebbero stile e sviluppo militare e carattere antistatale, ma non furono rivolte contro l’incolumità delle persone, o di un gruppo di persone, nessun episodio grave si ebbe a deplorare, né per difesa né per offesa. Le risse domenicali non insanguinarono né i centri né i villaggi della provincia, cosicché la tradizione d’ordine, di quieta tolleranza, di rispetto alla legge, non subì interruzioni notevoli. Lo spirito di violenza non è quindi nel Trentino né endemico né epidemico. Se tuttavia qui e là fa capolino anche fra noi, vuol dire che vi viene importato di proposito e forzando il naturale sviluppo delle cose. Vestigia terrent e, per conto nostro, ci preoccupiamo che anche le faville più leggere non suscitino qualche incendio. Onde ci chiediamo se sia lecito che un giornale locale che fa professione di fascismo pubblichi minacce e intimidazioni che (in una corrispondenza da Tione) polemizzando con un o.d.g. di una assemblea di capifamiglia stampi bravate consimili: «Illustri capi di famiglia, fate il piacere di tacere anche e soprattutto perché oltre al Partito fascista che vostro malgrado oggi governa energicamente e sagacemente potrebbe svegliarsi quel santo manganello che vi farebbe ingoiare, ecc.». Come? Oltre il Governo, del quale vantate l’energia e la sagacia, invocate ancora il manganello? Oltre la forza della legge minacciate la violenza del vostro bastone? Sentite questa, che viene a proposito. Nella «Cremona Nuova» (che è pur l’organo di quell’agnellino di Farinacci ) si è svolto un dibattito a proposito delle recenti sentenze dei tribunali contro i somministratori di olio di ricino. Nella discussione intervenne anche l’avv. Bartoletti che, messo in rilievo la severità dell’art. 154 del Cp., secondo il quale, infatti, chiunque usa violenza o minaccia per costringere qualcuno a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino ad un anno e con la multa fino a lire mille, ecc.; così conclude (e le sue parole scritte sul Cremona Nuova, dell’on. Farinacci hanno un valore anche maggiore) commentando le osservazioni di un fascista che trovava meno punite le manganellate dell’olio di ricino: «Io, tuttavia, ho osservato a quel giovine che non si possono misurare le conseguenze dei colpi di manganello e quindi si possono produrre anche lesioni che sono punite con un minimo di cinque anni di reclusione, o la morte, e che, ad ogni modo, non ha più ragione d’essere né manganello né olio di ricino, oggi consule Mussolini. Ed è giusto per questo, a mio credere, che i magistrati hanno messo da banda la benignità, con la quale interpretavano la legge per l’addietro». Noi non condividiamo naturalmente il criterio soggettivo del collaboratore della Cremona Nuova, il quale, se Mussolini, non fosse al Governo, troverebbe forse inapplicabile per simili casi l’art. 154; ma il criterio soggettivo o quello oggettivo, dato che al Governo c’è proprio Mussolini, conduce alla stessa conclusione. Invece i signori di Tione – e, pare, gli altri che raccolgono la voce loro – pensano che consule Mussolini si debba tuttavia far ricorso al manganello il quale dovrebbe fornire una sanzione suppletoria a quella delle leggi, pur applicate con energia e con sagacia! E magari fra chi statuisce così ossequienti principii si distingue qualche impiegato governativo! La verità è che anche nelle valli più alpestri una strana emulazione sembra rivelarsi. Se Mussolini ha fatto la marcia su Roma, perché non vorremo noi intraprendere la marcia di … Sfruz? Sfruz è un paesello di 500 abitanti circa con 108 ettari di agro comunale. Ora che cosa può essere accaduto su codesti 108 ettari di china montana e che razza di delinquenti alberga codesto pacifico nido, se lo stesso giornale, ultimo numero, stampa da colà una corrispondenza che termina così: «Lottiamo per una causa giusta ed umana, e se nella legge non troveremo, una pronta giustizia – i fascisti italiani la faranno da loro. Roma fulcro di civiltà e progresso fu conquistata dal fascismo come lo furono tutti i comuni d’Italia. Sfruz è un granellino di sabbia in mezzo al mare che potrebbe essere travolta dalla bufera fascista che epurerà l’atmosfera satura di miasmi, d’ingiustizia e malvagità». Non sappiamo proprio di che si tratti, né c’interessa di saperlo, poiché pensiamo che gli organi del governo Mussolini – carabinieri, sindaco, sottoprefetto, pretore – siano sufficienti a salvaguardare la causa della giustizia e del patriottismo, quando fossero in pericolo. Ma quei giovanotti di lassù pensano diversamente e proclamano che se la legge non fa giustizia essi faranno giustizia fuori della legge, minacciando di travolgere nella bufera fascista quel miserabile «granellino di sabbia» che risponde al dolce nome di Sfruz. Come Roma…, tanto che dire: come Mussolini… Ehi, signori! Siete in arretrato. Mussolini ha detto e ripetuto che siamo già entrati nel secondo tempo, nel tempo cioè in cui, valendosi delle forze sociali e politiche dello Stato, si assimila, si rinvigorisce, si ricostruisce. Non si scatenano bufere, ma si lavora nell’ordine e nella disciplina, non si fa dello «stupido antieroico illegalismo» (parole sue), ma si dà forza e obbedienza alle leggi. Senonché non intendiamo ricordare questa paternale proprio per voi e solo a voi. Voi siete un caso fra tanti che abbiamo colto fra gli ultimi, ad illustrazione degli altri. Il monito vale per tutti. Il Trentino non è ancora guarito dalle piaghe della guerra e dei martiri che, durante la guerra sovratutto, gli fece soffrire lo straniero; deve oltre a ciò fare opera di adattamento alle nuove condizioni economiche – l’adattamento anche se per il meglio comporta sempre uno sforzo –, deve assuefarsi ad un nuovo tipo di finanza e di amministrazione; è tutto un lavoro questo che esige spirito di solidarietà e di fattivo patriottismo fin nell’ultimo paesello di montagna, e a questo lavoro sono chiamati quei pochi che, superando l’attuale crisi economica nonché emigrare, possono dedicare qualche attività alla pubblica cosa. Ebbene questa è opera urgente di italianità ch’esige concordia, equità, tolleranza e presuppone un ambiente di pace. A tale opera noi diamo il nostro concorso e nessun altro ammonimento abbiamo ripetuto ai nostri, se non questo. Perché e a che pro devono risuonare ancora parole di odio e di minaccia? Oggi non si marcia, si lavora e si ricostruisce, per l’Italia, e per questa terra finalmente sua. |
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| 41921-1925
| A Bologna Il 1° congresso nazionale di Bologna aveva tre compiti principali: 1. precisare la natura del partito, sorto con l’appello del 18 gennaio 1919 e definire e ratificarne programma e statuto; 2. precisare la posizione nel campo della politica del dopo guerra, estera, interna, economica e sociale; 3. attuare la propria autonomia ed esperimentare le proprie forze nel campo elettorale politico di immediata realizzazione. Sul primo punto la discussione fu impegnata attorno all’ispirazione cristiana del partito, alla sua caratteristica aconfessionale autonoma e alla sua natura democratica. L’ordine del giorno Sturzo, approvato alla quasi unanimità, servì a chiarire la situazione, e resta come base fondamentale del partito. Il secondo punto è precisato per il campo di politica interna, estera ed economica dall’ordine del giorno Bertini : nel campo internazionale è il primo atto del nostro orientamento, che diede luogo in seguito alle dichiarazioni Longinotti sul trattato di Versaglia . A parte un’esuberanza di forma, l’idea pacifista e l’idea nazionale sono insieme riunite, come aspirazione cristiana e come tendenza politica. Le affermazioni di politica interna ed economica rilevano la più chiara opposizione all’indirizzo del governo democratico, e la prima efficace nota per la rivendicazione della libertà, della quale il P.P.I. fu vario difensore. Questo concetto è affermato nell’ordine del giorno Grandi sugl’indirizzi sociali del partito, specialmente contro il monopolio socialista, prima forte affermazione fatta a Bologna, nelle ore del maggiore successo della tendenza bolscevica. Il terzo punto della tattica elettorale diede luogo a un vivace dibattito; e trionfò la tendenza centrale nell’ordine del giorno Milani -Cavazzoni; la proporzionale politica fu decisa quel giorno, insieme all’autonomia del nostro partito e alla sua natura interclassista, contro il tentativo di un partito del proletariato cristiano. Quel giorno furono pure approvati i voti per il Mezzogiorno, per le Terre Redente e per la ricostruzione delle Terre Liberate. A Napoli Il II congresso nazionale tenuto a Napoli, nell’aprile 1920, si apriva in un ambiente di battaglia per il tentativo di costituire gruppi di estremisti di destra e di sinistra, che il Consiglio nazionale prima e la Direzione del partito poi, avevano dichiarato non tollerabili con l’unità del partito e al di fuori di ogni disciplina; e per l’acuirsi della situazione agraria nel paese. La prima questione fu esaurita con l’ordine del giorno Sturzo, riaffermante l’unità del partito, la sua organicità e la sua personalità, e con le modifiche allo statuto per una più diretta rappresentanza nel consiglio nazionale e una partecipazione delle sezioni a mezzo del referendum. La seconda diede luogo a un vivace dibattito, e servì a precisare gl’indirizzi teorici e pratici nel campo della economia sociale e della politica agraria, come risultò dagli ordini del giorno Martini, Marino e Pecoraro ; in base a questi, il Consiglio nazionale precisò la linea pratica di azione in un importante ordine del giorno. Questo atteggiamento agrario ebbe un notevole sviluppo alla Camera dei deputati con i progetti sui patti agrari, sul latifondo e sulle Camere regionali di agricoltura, e nell’azione dei tre ministri popolari Micheli, Mauri e Bertini, che tennero il ministero di Agricoltura dal giugno 1920 all’ottobre 1922. Ma l’affermazione più importante di quel congresso fu quella scolastica. La battaglia per la riforma e per la libertà della scuola è stata la più forte e la più dura battaglia popolare. Il suo inizio ufficiale è a Napoli, la sua attuazione è legata ai nomi dei progetti Croce, Corbino, Anile; alle lotte in seno alla commissione parlamentare e nei gabinetti Giolitti, Bonomi, Facta; e nelle varie affermazioni alla Camera dei deputati e al Senato. Oggi è matura, e si attua con i provvedimenti Gentile. L’ordine del giorno che in altro campo ha la medesima importanza fondamentale, è quello del riconoscimento giuridico delle classi; la battaglia popolare per la riforma del Consiglio del lavoro, per la registrazione delle associazioni sindacali, ha una storia. La battaglia per la proporzionale amministrativa iniziata al congresso di Napoli, vinta alla Camera dei deputati, non ebbe il suo sviluppo al Senato. Non fu ripresa nella XXVI legislatura, perché in questa si iniziò la lotta contro la proporzionale politica che occorre difendere. Più pratico effetto ebbe la preparazione della lotta elettorale amministrativa e la base programmatica data, per l’autonomia e le libertà comunali e per la riforma dei tributi locali, che ebbe più largo seguito al congresso di Venezia . Il problema meridionale ebbe più vasta e solenne affermazione e più completa esplicazione con l’ordine del giorno del marchese D’Agostino e fu in seguito portato al Consiglio nazionale e alla Camera dei deputati. Una più solenne e completa manifestazione si è avuta coi discorso di d. Sturzo a Napoli il 18 gennaio di quest’anno. A Venezia Il III congresso di Venezia, viene dopo le due lotte elettorali: – l’amministrativa del 1920 e la politica del maggio 1921, che segnavano due successi notevoli del Partito popolare italiano; – dopo la caduta di Giolitti e la formazione del ministero Bonomi, che dava al gruppo parlamentare un posto di più delicata e maggiore responsabilità e al momento che si formava nel paese la corrente collaborazionista, che orientava le varie sinistre dei diversi partiti. Mentre a Venezia il congresso riafferma la sua unità, dopo il travaglio della corrente avanguardista ed estremista da Napoli in poi (ordine del giorno Sturzo); nella sua azione politica, riafferma i limiti della sua collaborazione (ordine del giorno Cingolani) e procede alla migliore elaborazione dei problemi tecnici e politici sui quali ebbe il posto più importante l’affermazione regionalista nella relazione e ordine del giorno Sturzo. A Venezia si iniziò il sistema delle sezioni particolari, che diedero un esito favorevolissimo, approvando interessanti ordini del giorno sui problemi speciali. Un buon inizio si ebbe in materia di politica estera sulla Società delle Nazioni e l’Ufficio internazionale del lavoro. L’affermazione per l’insegnamento religioso fatta a Venezia, ebbe il suo inizio giuridico con la circolare Anile; il ritorno delle scuole ai comuni con il disegno di legge Piva , Rosa , Cappa e La Rosa ; la regione scolastica con il decreto Gentile. Iniziò gli studi della riforma del patrimonio ecclesiastico, l’on. Rodinò , guardasigilli; vi ha dato largo contributo l’on. Fino . L’azione parlamentare per un avviamento alla unione doganale e ad una economia antiprotezionista è stata norma costante del gruppo popolare, sulla base dell’ordine del giorno Mauri. Gli avvenimenti politici ultimi hanno impedito l’attuazione dell’autonomia delle Terre Redente, ma il programma autonomistico generale è sempre una viva e profonda aspirazione popolare. Oggi Rileggendo i deliberati dei congressi e mettendoli in riferimento all’azione pratica del partito e alle battaglie combattute, si può desumere questo, che la realtà politica della vita italiana si è spostata verso la valutazione dei problemi come prospettati da noi, in un faticoso, insensibile e qualche volta inadeguato divenire, che sfugge ad una determinata e concreta valutazione di fatti, ma che è un processo elaborativo di idee, di istituti e di valori morali, politici ed economici. Oggi una realtà nuova si è inserita nel ritmo della politica democratica di ieri, ed è il nazionalfascismo, che in uno sforzo di vitalità istintiva e non elaborata, abbatte, rifà, modifica, ritorna a formare, con una celerità e improvvisazione, che non era possibile con gli strumenti lenti e complicati con i quali la democrazia costituzionale realizzava il suo programma. Per questo una parte, quella che non ha avuto precedente elaborazione, resta alla superficie e non arriva alla coscienza collettiva e quindi è difficile che abbia lunga vitalità; mentre quella che aveva avuto il suo processo di formazione, può vivere e sopravvivere e divenire realtà efficiente. Per questo, la parte da noi avuta in quattro anni nella preparazione morale, politica, tecnica delle riforme vivrà di più, perché trova gli animi nostri e quelli della gran maggioranza del paese preparati e convinti; e per questo, l’opera di ulteriore elaborazione – nei consensi, nei contrasti e nelle vigilie di lavoro, di studi e di lotte – per noi è un dovere, anche quando altri crede che sia arrivato il risolutivo, il definitivo, l’assoluto, il bene; cosa che nel divenire indefinito degli uomini, non è mai dato realizzarsi per intero e stabilmente, se non insieme alle conseguenze di dolori, di mali, di deficienze, di contrasti e di lotte. In questo crogiuolo di bene e di male, che è la vita individuale e collettiva, noi abbiamo scelto il nostro posto di lavoro e di combattimento; e lo manteniamo perché il nostro programma vada ogni giorno divenendo realtà e creando le nuove posizioni di lavoro e di conquiste. |
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| 41921-1925
| Chi ha seguito gli alti dibattiti di idee che hanno avuto svolgimento nelle sedute plenarie del congresso popolare di Torino e nei lavori non meno proficui delle singole sezioni ed ha compreso il profondo spirito di realizzazione a cui le discussioni sono state ispirate e la mirabile forza di coesione che tutti mantiene uniti, gregari e dirigenti, attorno ad un programma ancor vivo e vitale, non può non essere rimasto ammirato della maturità politica conseguita da questo giovane partito in soli quattro anni di esistenza. In politica tutto è relativo ed anche il successo del congresso di Torino deve essere valutato nei confronti della situazione agitata ed anormale in cui si svolge attualmente la nostra vita pubblica. Il Partito popolare è stato il primo dei partiti italiani che si è raccolto a congresso dopo la rivoluzione dell’Italia, il primo che abbia sentito il dovere ed abbia avuto il coraggio di assumersi la responsabilità di dire una sua parola al paese, ancora agitato dalle più ardenti passioni di parte, ancora smarrito nelle incertezze di una imprevedibile ed impreveduta situazione, ancora disorientato dal rovesciamento di abitudini e consuetudini che sembravano incarnare la essenza stessa della vita politica. È questo un grande merito che nessun uomo intelligente e preoccupato del bene del nostro paese dovrebbe leggermente misconoscere, anche se la parola detta all’Italia dal congresso del P.P.I. possa non essere a tutti egualmente gradita. L’affermazione solenne di uomini liberi e forti, che in un’ora storica disorientata e disorientatrice come questa, caratterizzata da umilianti dedizioni e da facili e comodi adattamenti servili, protestano di voler restare uniti nell’adesione ad una idea superiore e nella sincera ricerca del maggior bene della patria, dovrebbe ottenere se non la ammirazione almeno il rispetto degli avversari anche più inconciliabili . Nel premettere questo rilievo, ci corre l’obbligo di riconoscere che il congresso popolare, nonostante le previsioni contrarie, talune anche catastrofiche, ha potuto svolgersi in una atmosfera di libertà e di serenità; di ciò va dato lode non solo a questa nostra ospitalissima città maestra di alto civismo, ma anche al governo dell’on. Mussolini. Questa libertà i popolari convenuti alla loro assise nazionale hanno dimostrato di riconoscere e di apprezzare quando hanno saputo contenere il dibattito in limiti doverosi, che hanno rivelato un profondo senso di responsabilità, tanto più significativo quanto maggiori e più largamente diffusi erano i motivi passionali che potevano infirmare e deviare le deliberazioni. Il partito ha espresso a Torino liberamente e senza equivoci il suo pensiero e noi crediamo di poter sommare le risultanze positive del congresso in tre affermazioni che ci sembra siano balzate evidenti anche agli occhi del semplice spettatore. Innanzi tutto il partito, ignorando i viottoli e i sentieri tortuosi della secessione, ha dimostrato di essere ancora saldamente unito attorno a un centro ugualmente distante dagli estremi sia di destra che di sinistra. Questo non toglie che nel suo tronco vigoroso trovino posto e si alimentino le tendenze che ripetono la loro demarcazione in dettagli tattici per nulla intaccanti l’essenza programmatica. Tale suo programma organico e completo in nulla ha perduto anche oggi della sua praticità e della sua bontà e il partito, rivalutandolo agli effetti della odierna realtà storica, non ha potuto che riconfermarlo, marcando giustamente i punti unitari, contro la nuovissima tesi dell’ormai differenziazione, che, caratterizzandolo, lo dividono da qualsiasi altro programma. Di qui la necessità che il partito conservi e difenda la sua autonomia. Fatta questa riaffermazione, che nessuno può trovare fuori posto né contro tempo, il partito non ha negato, anzi ha formalmente riconosciuto, la portata storica degli ultimi avvenimenti che hanno condotto il fascismo al timone dello Stato. Il segretario politico ha parlato di un’era nuova che si inizia per il nostro paese, la quale non deve più consentire ritorni a un triste e vieto passato, a rivalorizzazioni di rottami che la marea impetuosa ha per sempre sommerso. Dal canto suo il partito popolare, come con la collaborazione dei suoi uomini al governo intese fin dall’ottobre di dare un valido contributo perché la rivoluzione fascista s’incanalasse nell’aperta via della costituzione, così si sforza oggi – e il congresso di Torino ha affermato e lumeggiato questo intimo travaglio – di inserire nella nuova realtà politica nazionale il concorso delle sue finalità programmatiche e della sua esperienza pratica. Questo il significato preciso e chiaro del congresso: tutto il resto è bizantinismo. Ma la stampa italiana, specialmente quella che vanta la sua ispirazione ufficiosa, ha preferito bizantineggiare, ripromettendosi di cacciare il partito e il suo congresso in un vicolo cieco. La maggioranza dei giornali al partito popolare adunato a Torino non ha voluto o saputo chiedere nulla di meglio all’infuori del pedestre quesito se esso si sentiva filofascista o antifascista, quasi che i congressisti adunati a Torino dovessero discutere e deliberare se o meno indossare la camicia nera. Allora, poiché il congresso era stato troppo chiaro in proposito, lo si è tacciato di equivoco. Che cosa si rimprovera difatti al congresso del Partito popolare? Di non essere stato sufficientemente chiaro ed esplicito nei voti che dovevano decidere della collaborazione coll’attuale governo, e si è affermato che le discussioni precedenti il voto ne infirmano gravemente la sincerità. Ma nessuno si domanda a chi risalgano le responsabilità di certe manifestazioni individuali o collettive e di alcune riserve contenute nei voti in discussione. È certo anzi tutto che gli ordini ed i desideri del capo del governo e del fascismo italiano nei riguardi dei partiti nazionali rappresentati nell’attuale ministero, non sono stati sempre seguiti dai gregari del fascismo, i quali troppe volte si sono abbandonati ad inutili e pericolose violenze nei confronti dei popolari. Né era possibile, in un congresso nel quale era a tutti garantita la maggiore libertà di parola, impedire a chi di quelle violenze era stato vittima o testimonio di far sentire le proprie lagnanze e di elevare la propria protesta. Gli organi quindi del fascismo dovrebbero irritarsi più che delle proteste popolari della indisciplina fascista. Per quanto si riferisce alla collaborazione col governo, l’equivoco, se pure di equivoco si deve parlare, non sta punto nelle deliberazioni del congresso, ma nell’atteggiamento del fascismo. Oggi ancora, dopo quasi sei mesi dalla costituzione dell’attuale ministero, non è ben chiaro se i fascisti desiderino sinceramente la collaborazione o la dedizione del partito popolare. L’on. Mussolini non si è mai pronunziato chiaramente in proposito, ed i suoi interpreti più autorevoli sembrano piuttosto avere escluso ogni collaborazione, che non fosse di soli uomini, eccetto che per collaborazione si intendesse dedizione completa e quasi fusione nel fascismo. In queste circostanze un partito che ha fede nella sua ragione di essere e sente fortemente la dignità della propria personalità politica, pur dichiarandosi pronto a collaborare nell’interesse superiore della nazione, non può non mettere alla sua collaborazione alcune condizioni che ne garantiscano l’esistenza autonoma e la libertà di atteggiamento nelle questioni che costituiscono l’essenza del suo programma. Tali condizioni nulla tolgono alla lealtà ed alla sincerità della collaborazione, anzi nulla tolgono alla cordialità che deve esistere fra due partiti che lavorano assieme pel bene del paese, ma sono necessario substrato a questa lealtà, sincerità e cordialità. Questa collaborazione leale, sincera e cordiale ha votato il congresso di Torino, resistendo vittoriosamente a quelle correnti di opposizione che sembravano volere una politica di risentimento nei confronti del governo fascista; e nessuno che voglia restare nella realtà potrebbe pretendere di più da un partito, che da sei mesi collabora efficacemente col fascismo senza che questa sua collaborazione sia stata riconosciuta e apprezzata. Il congresso di Torino ha dimostrato quanto sia grande la vitalità e la forza del Partito popolare italiano, ed ha affermato ancora una volta la sua ferma volontà di cooperare con tutte le forze alle fortune della patria, al di sopra di ogni interesse ed egoismo di parte, colla sola condizione di poter continuare a vivere per poter continuare ad operare. Se i dirigenti del fascismo non si lasceranno deviare dai clamori dei loro recenti e poco sinceri amici e gregari, ma sapranno comprendere quanta preziosa riserva di energie fattive militi sotto l’insegna dello scudo crociato, faranno quanto sta da loro per rendere possibile la dignitosa collaborazione dei popolari e assicureranno indubbiamente la rinascita spirituale e materiale della nazione. |
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| 41921-1925
| Anche entro il nostro partito si erano sollevare non lievi obiezioni contro la convocazione del congresso nazionale. Si diceva che il disagio provocato dal fascismo in molte situazioni locali avrebbe recato grave turbamento in un’assemblea politica di duemila persone, chiamate a discutere e a deliberare in pubblico contraddittorio su di una situazione politica complessa e delicatissima. Si obiettava che la sinistra anticollaborazionista avrebbe trascinato il congresso verso la sua tesi ovvero, aderendo per tattica contingente agli ordini del giorno della direzione, li avrebbe inficiati di equivoco e resi inaccettabili ai popolari membri del governo. L’on. Milani aveva anzi in un discorsetto conviviale a Roma parlato in tono assai patetico dell’autodafè che collaborazionisti e collaboratori potevano attendersi dall’incomprensione di un tale congresso. Si opponeva infine che, anche supposto un voto e un andamento favorevole del congresso, al di fuori, in occasione di esso, potessero scoppiare degl’incidenti imprevedibili e imprevisti coll’inevitabile effetto d’inasprire i rapporti tra fascisti e popolari. Tutte queste obiezioni e altre ancora furono sottoposte al Consiglio nazionale il quale però, tutto pesato e tutto sommato, concluse a grandissima maggioranza per la convocazione. Ora, a congresso finito, si può dire che nessuna delle obiezioni mosse prima del congresso trova nelle sue deliberazioni, nel suo andamento, negli avvenimenti che lo accompagnarono, una qualche ragione di sussistere. Il congresso accolse la tesi collaborazionista contro il voto dei sinistri; nel congresso la direzione poté esprimere a mezzo dell’on. Degasperi il suo ringraziamento ai membri popolari del governo, e né dentro né fuori accaddero incidenti di qualche importanza che potessero urtare il fascismo. Senonché la direzione non aveva previsto né poteva prevedere che le velleità secessionistiche di un esiguo manipolo giungessero al punto di calunniare il congresso né poteva supporre che tali esibizionistiche tendenze venissero prese sul serio e valorizzate da chi rappresentava il fascismo . Così inaspettatamente il secessionismo assunse un’importanza decisiva per la valutazione del congresso. Anzitutto nello spirito stesso della assemblea la affermazione unitaria prevalse su qualunque altra preoccupazione di tendenza; cosicché, mentre gli oratori conducevano bene o male il dibattito attorno alla collaborazione, l’anima dell’assemblea scoppiava nelle ovazioni più irrefrenabili per Sturzo; il che equivaleva a dire per la unità e l’autonomia del partito: e, al di fuori, nella valutazione degli spettatori, prevaleva l’uno o l’altro giudizio a seconda che si sperava, si attendeva, si vedeva perduta o si voleva scongiurata la scissione. È difficile oggi stabilire quanta parte di colpa spetti all’opera dei cosidetti secessionisti e quanta risalga a chi più o meno abilmente tentò sfruttare la loro tendenza. Noi non siamo chiamati a tale giudizio; ma, oggettivamente parlando, è chiaro che il secessionismo divenne una condeterminazione della situazione durante e dopo il congresso; e per secessionismo intendiamo non solo gli atti formali di secessione e d’indisciplina, ma quell’atteggiamento spirituale di ricatto verso il partito, per il quale, dopo aver sostenuta la propria tesi, si conclude col riservarsi, in caso di non accettazione, piena libertà di manovra, quasicché fosse lecito dimenticare che si tiene un mandato per proposta e voto di popolari e che se alla disciplina popolare non si vuole sottostare, altro non resta che rimettere in mano degli elettori il mandato stesso. Per fortuna gli aberranti furono pochissimi e qualcuno, sorpreso forse nella sua buona fede, torna all’ovile; ma non così piccolo fu il male che fecero né leggeri i guai che potevano produrre. Solo lo sforzo unitario del gruppo parlamentare valse a ristabilire rapidamente la situazione, ancorandola a questi due punti: indipendentemente dalla partecipazione al Gabinetto, congresso e gruppo intendono che, nell’interesse del paese, i popolari si mantengano nell’atteggiamento collaborazionista; e, indipendentemente da qualsiasi pressione esterna, gruppo e congresso vogliono salvaguardata l’unità e la speciale fisionomia del Partito popolare italiano. Il congresso diede maggiore rilievo al secondo punto, il gruppo più forte risalto al primo; ma entrambi prima o poi si fissarono in questi due punti capitali in cui durante la burrasca è ancorata sicura la nave del Partito popolare italiano. |
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| 41921-1925
| Appoggio senza limiti, senza distinzioni, senza riserve dovrebb’essere il contenuto della collaborazione, secondo un autorevole membro dei consiglio nazionale liberale di Milano. Questo si chiama atteggiamento leale, sincero. I popolari che al congresso hanno fatto una precisa distinzione fra la propria dottrina e quella del fascismo, che hanno rilevato in giusta misura le confluenze ma anche le divergenze, che per l’opera globale del governo hanno avuto un giudizio complessivo favorevole, ma hanno criticato alcuni particolari provvedimenti, i popolari sono nell’equivoco. I liberali invece di destra e i destri della sinistra, i democratici sociali, i massoni di tutti i settori, non sentono né esprimono riserve o condizioni; battono le mani e danno tutto l’appoggio più sincero. Fino ieri avevano governato l’Italia secondo i loro principii e secondo i loro metodi, che avevano proclamati immortali e insostituibili; e oggi che il fascismo rinnega la base politica del liberalismo e non ammette la «libertà liberale», codesti liberali sinceri e leali – leggere il Giornale d’Italia – non hanno la più sommessa obiezione da fare, la menoma eccezione da sollevare. Collaborano senza sottintesi. La socialdemocrazia volle essere e proclamarsi in ogni tempo il partito più democratico, il partito della borghesia di estrema che getta i ponti di passaggio verso il socialismo. Il fascismo proclama il proprio avvento come la rivoluzione vittoriosa contro il regime democratico e dichiara di sostituire alla democrazia la gerarchia, e al suffragio universale, quando e dove occorra, la dittatura! Ma tuttavia i democratici sociali collaborano senza riserve morali o distinzioni dottrinarie o pratiche. Collaborano con lealtà e sincerità. I massoni, gli anticlericali! Quante ne inghiottono al giorno, per tenere la gola sempre libera ad urlare gli applausi più incondizionati a Mussolini, ristauratore dei valori morali? Eppure è di ieri la loro professione più aperta d’incredulità, d’agnosticismo, di naturalismo sociale o di materialismo. Sono di ieri le pagine del più rancido anticlericalismo che hanno pubblicato nei loro giornali, e non è spenta ancora l’eco della loro feroce campagna contro Corbino, Anile, l’esame di stato. Eppure oggi sono tutti fra i collaboratori sinceri, leali, incondizionati; lodano Gentile, plaudono alle riforme scolastiche del governo fascista. Ricordate l’accoglienza che ebbe fra i saggi del Senato, il coraggioso discorso del ministro Anile? Ebbene, state a vedere, ora non si ripeterà niente di simile; anche là tutti, dal professore ateo al generale massone, sono diventati tutti collaboratori incondizionati e, si capisce bene, leali e sinceri. I popolari hanno avuto altro contegno. Hanno detto: noi rimaniamo popolari e non intendiamo rinnegare né le nostre dottrine né la nostra disciplina. Riconosciamo però che alcune tendenze del presente governo convergono colle nostre e, comunque, sappiamo che nell’interesse supremo dell’ordine e della ristaurazione del paese, bisogna dare il proprio concorso per la salvezza dello Stato. Perciò entro i limiti dei nostri principii politico-morali e ove e come lo consentano i collaboratori… dell’altra sponda, siamo disposti a fare il nostro dovere. Tale disposizione i popolari dimostrarono fino al punto da dichiarare relativo, cioè subordinato all’esigenze della situazione generale, non quindi assoluto, anche il postulato della proporzionale, che essi intendono tuttavia di sostenere per la onestà e sincerità della politica italiana. Una cosa però essi non hanno potuto né voluto fare: rinunziare ai propri connotati morali, contraddicendo alla manifestazione programmatica e disciplinata di Torino. E oggi, superato il primo turbamento recato dall’uscita dei nostri amici dal governo, l’opinione pubblica incomincia già a capire che il fatto prevalente che proietterà la sua luce anche più tardi entro la massa grigia dei partiti italiani, non sarà la partecipazione o la non partecipazione di uomini popolari al gabinetto, ma l’affermazione leale e onesta di un congresso il quale, pur nella legittima preoccupazione di contribuire alla ristaurazione del paese, tiene sovratutto al primo dovere di galantuomini, che è quello di non nascondere e non contraffare i propri connotati morali. |
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| 41921-1925
| Un deputato socialista che dal banco della stampa assistette al congresso di Torino diceva poi a qualche nostro amico che gli domandava le sue impressioni: «si può pensare favorevolmente o sfavorevolmente dei vostri atteggiamenti politici, ma indubbiamente voi avete dimostrato di essere un grande partito». Tale doveva essere l’impressione di ogni osservatore oggettivo. Un partito infatti che, nel disorientamento generale dei partiti che sono fuori del fascismo, affronta in pubblica discussione il problema politico che travaglia lo Stato italiano e lo affronta per riaffermare le proprie direttive e per precisare entro quali limiti la sua opera può convergere con chi oggi detiene il potere, un partito che pur dovendo e volendo tener conto delle attuali condizioni straordinarie, conseguenze ineluttabili d’una rivoluzione, rinnova la sua fede nella costituzione e nella organizzazione democratica dei pubblici poteri, non è un partito debole che vacilli per sostegno manco. C’è invero chi ritiene miglior accorgimento l’appartarsi nei momenti difficili in uno sdegnoso silenzio; c’è chi scopre la somma sapienza in una riservatezza che permetta poi, in tempi calmi, di spiegare la propria vela a qualunque vento; c’è infine chi vorrebbe ricoverare la propria inerzia dietro la trincea di verbali proteste. E può darsi che per gl’individui l’uno o l’altro di questi atteggiamenti negativi importi la soluzione migliore. Ma i partiti sono viventi organizzazioni di masse, enti collettivi con un’anima collettiva; se quest’anima non vibra, se rinunzia al travaglio che le impongono le situazioni più difficili, se non rielabora quello che avviene fuori di lei e non assimila, in quanto può assimilare, e non reagisce in quanto deve reagire, il partito si decompone e muore. Le masse hanno bisogno d’una risposta ai problemi politici, come vengono imposti dalle condizioni di fatto, e un partito, quando ha raccolto gli elementi più indispensabili, deve tentare di trovare la risposta e ardire di formularla. C’è anche fra noi un giornale socialista che, per la penna dell’on. Groff , schernisce al nostro «equivocabile equilibrismo», al nostro «smaccato esibizionismo di antibolscevismo e di un esagerato patriottismo» e irride alle «mezze vergini ripudiate del popolarismo». Ahi, ahi, egregi compagni dell’estrema, non parlate di corda in casa dell’impiccato. Non è figura più miserevole e più spregevole di quella fatta dal partito socialista in Italia in questo fortunoso dopoguerra. Suggestionare prima in modo pazzo le masse dei contadini e degli operai italiani, aizzandoli alla rivoluzione, sull’esempio dei massimalisti russi, spingerli a conflitti e a scioperi, disorganizzando la vita del paese nel momento in cui aveva più bisogno di rinvigorirsi, condurli ad occupare campi e officine, anticipare nei municipi e nelle campagne la dittatura bolscevica, colle taglie, colle rappresaglie e colla guardia rossa per poi finire collo squagliarsi, quando la reazione provocata diventò pericolosa, tale fu l’opera di gran parte – le eccezioni sono lodevoli e l’innocuità relativa dei nostrani viene ammessa – dei capipopolo socialisti. E quando la reazione, crescendo sempre, imperversò senza ritegno, allora si videro i più accesi «barricaderos» barricarsi dietro la legalità dello Stato borghese, rifugiarsi all’estero o trincerarsi dentro Montecitorio. Si vide allora che le masse socialiste perdevano la fede nei capi e che, educate all’egoismo materialista, riparavano, mutando bandiera, nei ranghi dei vincitori. Ove sono i vostri grandi gesti, i vostri sdegnosi rifiuti, se i più astuti tentarono ripetutamente d’esibirsi al duce? ov’è il vostro travaglio coraggioso di revisione o la vostra pertinace fedeltà ai metodi e ai fini della vostra rivoluzione? In verità se noi fossimo internazionalisti, nel senso che la solidarietà internazionale di classe vale più della solidarietà nazionale, e l’Italia viene dopo la Russia, se credessimo al dogma marxista che l’inevitabile dittatura proletaria deve essere preceduta dallo spodestamento della borghesia, raggiunto colla violenza, e se avessimo la responsabilità d’aver predicato tali dottrine e spinte le masse più o meno coscienti ad attuarle, inequivocabile dovrebb’essere l’alternativa che nella presente situazione ci s’imporrebbe: o dichiarare d’esserci sbagliati e ritirarci dall’agone con pubblica ammenda o combattere apertamente, coraggiosamente, per dare alla nostra dottrina la sanzione del nostro rischio e, ove occorra, il crisma del sacrifizio. I socialisti non fanno né quello né questo, ma se ne stanno ringhiando in qualche giornale o biascicando amaro in qualche commissione, trovando solo la forza di fare ancora qui e là dell’anticlericalismo, sempre fegatoso, ma meno pericoloso, e irridendo a chi, come i popolari, secondo le proprie convinzioni, secondo la propria disciplina, tengono il campo e si affermano. Certo, secondo le nostre convinzioni, secondo la nostra dottrina, della quale dobbiamo accettare i freni, come utilizziamo gl’impulsi. Noi non siamo internazionalisti, non crediamo nella lotta di classe, nel comunismo, nella dittatura della violenza proletaria: crediamo che il primo dovere civile degl’italiani sia di aiutare il proprio paese a rifarsi, a risorgere; ed ecco che questo credo ci obbliga ad uno sforzo continuo per superare obiezioni o difficoltà che ostacolino la nostra collaborazione. La nostra morale non ci permette la congiura, la rivolta, la violenza come arma politica: ed ecco che noi, non potendo ricorrere a ribellioni né auspicarle, sentiamo il dovere di fare ogni sforzo perché la rivoluzione fascista s’inserisca nella costituzione e si ritorni alla normalità senza provocare nuove scosse. Così tra questi due argini si muove la nostra corrente. Certo che, trattandosi di uomini colle loro passioni e di tempi agitati, è più difficile arginare e procedere con misura che trasbordare in un impeto spumeggiante ma condannato all’immancabile rigurgito; certo che questa fatica di uomini forti assume talvolta le apparenze di debolezza e questo dominarsi di uomini liberi può sembrare adattamento di uomini servili, e ciò può apparire talvolta sia perché si considera l’attimo staccato di un atteggiamento politico, senza scorgerne la linea, sia, più spesso, perché l’interpretazione interessata e rumorosa dei malevoli turba la giusta visione degli avvenimenti. Per questo appunto Torino fu provvidenziale, giacché in uno sforzo di formulazione teorica e di concezione pratica ricostruì la sintesi del Partito popolare italiano entro la situazione creata dal fascismo. La Voce del Popolo, crede invece che sia stato un funerale. Si scriva, dice l’organo socialista, invece di P.P.I. R.I.P. Strana coincidenza dei nostri avversari di sinistra e di destra. Anche il Giornale di Trento c’intona nella stessa occasione il deprofundis. «Il Partito popolare, esso scrive, non è più che un’artificiosa sopravvivenza destinata a morire … non ha più un fine né ideale né pratico da raggiungere … non può apparire oramai se non una lega di politicanti interessati ed avidi d’un’influenza perduta e d’un potere sfuggito…». È questa la conclusione di un articolo nel quale si dimostra che alla religione, alla morale, insomma alla scuola, alla concezione cristiana della vita pubblica ci pensano oramai loro, cioè i fascisti, e che quindi i popolari restano disoccupati. Ecco, se queste affermazioni si stampano a Roma, dai nostri ranghi si risponde coll’integrale affermazione del nostro programma politico e sociale della democrazia cristiana, colla sintesi programmatica meravigliosa fatta da Sturzo a Torino, e si oppone la irreducibile antitesi delle origini filosofiche di alcune dottrine fasciste più in voga. Ma a Trento, ove non si sa ancora fino a qual punto sia avvenuto il distacco tra fascismo e massoneria, ove, in ogni caso, sono recenti le manifestazioni della mentalità massonica e antireligiosa, ove si proclamò la lotta più fiera contro la scuola cristiana; che a Trento i cattolici vengano invitati a ritirarsi perché alla difesa del cattolicismo ci pensano loro, o, magari, i… metodisti, non vi pare un tantino esagerato? Non troppa furia, giovanotti! Se sarete bravi, ci arriverete, ma col tempo. Per «svuotare» il partito popolare bisogna attinger fondo col secchio. Non basta un affrettato ossequio agli altari che si maledicevano pur ieri, bisogna svuotare un patrimonio di indirizzi politici, di fatti sociali, di concezioni e istituti economici che risalgono ai primordi del movimento cristiano sociale. Ci arriverete? Tanto meglio, ché in fondo al pozzo dovrete assorbire la stessa fonte del nostro pensiero. Intanto consentite che attendiamo alla nostra opera per svilupparla e continuarla, orgogliosi del vostro handicap. In quanto al deprofundis, che morti dovrebbero esser mai questi, che morirebbero per dar nuova vita a voi? Se i nostri principii sono tanto vitali che volete strapparceli per innestarli nella vostra ragione d’essere, come mai potete pensare che in noi abbiano agito ed agiscano quali germi di decomposizione e di morte? |
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| 41921-1925
| Roma, 14 (I). La data che festeggiamo domani riporta il mio pensiero agl’inizi dell’azione cattolico-sociale nella nostra provincia . Gli uomini della mia generazione vi s’inserirono quando le difficoltà delle origini già erano superate, ma la battaglia tuttavia stava ancora alla sua prima giornata e allargava sempre più la sua linea. Imbevuti delle idee sociali dell’epoca e armati di un’intransigenza sostanziale e formale, che allora costituiva l’anima e la veste del movimento cattolico italiano, inquadrato nell’«Opera dei congressi», le persone più in vista che ci avevano preceduto, come mons. Inama , mons. Endrici , Flabbi , Cappelletti, Gentili, Panizza , Endrizzi , avevano ottenuto un primo e valido soccorso dagli universitari (ricordo, senza esaurire la schiera, Lanzerotti , De Carli , Barbacovi , Parolari Pizzini ), e coll’aiuto di un altro gruppo, venuto dalla classe operaia e dal ceto medio, avevano atteso contemporaneamente a fondare proprie istituzioni di carattere economico sociale con fisionomia nettamente – come s’usava dire allora – confessionale e a organizzare professionalmente e culturalmente le classi contadine e operaie. L’impulso più forte e più ordinato veniva dal Comitato diocesano per l’azione cattolica , del quale quest’anno potremo celebrare il venticinquesimo anniversario ma anche fuori meravigliose energie locali – ricordo, ad esempio, mons. Menapace in Cles – si esplicavano in opere di organizzazione e provvidenza sociale. La cooperazione, sviluppatasi rapidamente, si contrapponeva alla pratica e alla dottrina liberale e il movimento di cultura, specie fra gli studenti, mirava soprattutto a scolpirne il carattere in confronto alla figura imprecisa ed incolore dei giovani che uscivano dalla borghesia liberale. Senonché l’intervento del socialismo allargava a questo punto il fronte della battaglia e la rendeva più aspra. A Trento, a Rovereto, a Riva, a Merano e nei villaggi attorno alle città, conferenza doveva essere opposta a conferenza, organizzazione a organizzazione e fu allora che la funzione democratico-cristiana del movimento cattolico venne esercitata nella sua pienezza, e uomini, cresciuti poi in dignità e posizione sociale – accenno fra tutti i professori Endrici e Gentili – andarono al fuoco dei primi contraddittori. Fu allora che venne spiegata al vento la bianca bandiera della Rerum Novarum, per cui il movimento locale confluiva con quello generale, che la comparsa della famosa enciclica aveva o consacrato o promosso in tutto il mondo cristiano. Così in tutti i paesi della regione, sviluppandosi per lo più attorno ai nuclei formati dalla «Gioventù Cattolica» vecchio stile, nascevano le società operaie cattoliche. Presidente della federazione di queste società era don Emilio Chiocchetti , il quale un bel giorno delle mie prime vacanze universitarie, mi mise in tasca cento corone e sotto il braccio duecento avvisi di convocazione e mi mandò fra i nostri emigrati nel Vorarlberg a predicare il verbo della Rerum Novarum, ciò che eseguii tra difficoltà d’ogni specie, battendomi con socialisti e anarchici che allora dalla Svizzera passavano il Reno per la propaganda domenicale e mietendo degli applausi, dei fischi, dei sorrisi di compassione, delle busse e una bronchite di tre settimane. Ma non fu questo che un episodio iniziale, tanto per avviarmi alla carriera, né chi scrive fu ben s’intende né il primo né l’unico; e sarebbe utile forse che le memorie dei miei precursori e dei miei commilitoni rinverdissero nella coscienza dei più giovani, affinché apprendessero a prezzo di quali sacrifizi venne respinto il primo grande attacco frontale del socialismo e con quale fatica tenace, quotidiana, concorde venne eretto il vallo delle nostre istituzioni, centrali e locali. Certo, a mano a mano che queste crescevano, aumentavano e si complicavano i problemi tecnici ed amministrativi che ne derivavano: e un insuccesso economico segnò qui e là un arresto o un arretramento. Certo il periodo di rassodamento che doveva seguire a quello di espansione ebbe talvolta le sue crisi di aridezza e di empirismo; ma i continui richiami allo spirito che registra la raccolta del nostro giornale, i moniti e i lagni che si ripetono nelle annuali riunioni, specie dal Comitato diocesano, sono là ad attestare che la Rerum Novarum, cioè la dottrina non venne dimenticata, anche quando, per circostanze molteplici non sempre dipendenti dalla volontà degli uomini, parve attenuata la sua efficacia. Sopravvenne poi, coll’introduzione del suffragio universale, la campagna politica, la necessità d’organizzare il partito e, dopo la conquista, fu inevitabile assumere in parte notevole la rappresentanza degl’interessi trentini . Ed ecco nuovi combattimenti aspri e di nuovo un lavoro assorbente, multiforme che si rovesciò sulle spalle delle poche persone che stavano a disposizione. Non bisogna credere però che la politica abbia soppiantata la democrazia cristiana. Rileggete i discorsi dei convegni universitari, sfogliate nella raccolta del quotidiano e del settimanale , vedete i resoconti dei contraddittori coi propagandisti e cogli uomini politici – oltre che coi capi locali si discusse a volta a volta con Todeschini , Barni , Mussolini ecc. – e troverete che accanto all’attività parlamentare e ai postulati politici, si battaglia sempre per l’ispirazione cristiano-sociale della nostra azione pubblica. Onde è lecito concludere che la linea direttiva della democrazia cristiana fu segnata, nel corso della nostra azione, più o meno profondamente a seconda dei tempi e delle forze, ma interrotta, spezzata non fu mai. In verità, dopo la guerra, doverose preoccupazioni per le supreme ragioni dell’ordine sociale raccolsero tutti gli uomini di buona volontà sull’ultima trincea martellata dal bolscevismo, e gli stessi uomini che avevano fondato o promosso fin dalle origini il movimento cattolico, tenendo sospeso ogni desiderio di miglior demarcazione, dovettero rizzare in fretta le palizzate delle organizzazioni bianche (sindacati, leghe, cooperative di lavoro, casse di previdenza); anzi niente m’è parso allora più notevole del fatto che uomini dell’indirizzo classico cattolico, come il benemerito presidente del Comitato diocesano, abbiano confortato colla prontezza del loro consiglio e coll’energia del loro spirito vigoroso ma duttile e con larghezza di mezzi il lavoro faticoso che compirono alcuni ardimentosi nell’erigere questo secondo vallo contro il socialismo il quale, favorito dalla reazione antibellica, sembrava ormai irrompere definitivamente. Ma già dietro questa difesa vedo poi, superato il momento più pericoloso, sorgere un meraviglioso movimento dello spirito: sono migliaia e migliaia di giovani che si preparano alle battaglie della vita. Le associazioni giovanili mirano anzitutto all’educazione religiosa, e ricordano in ciò il periodo dall’80 al 90 della nostra «Gioventù Cattolica»; nella coltura dello spirito non si dimentica però di prospettare il principio religioso sulla realtà sociale, e rifiorisce così nella primavera di queste anime giovanili il bianco fiore della Rerum Novarum. Ed è giusta previdenza, giacché di questo fiore la generazione novella dovrà intrecciare nuove ghirlande e nuove corone. Al periodo politico succederà un nuovo periodo sociale; dopo la depressione economica seguirà la ripresa della produzione e della distribuzione della ricchezza che s’imporranno colle loro conseguenze morali e politiche agli uomini, assorbiti, per ora, da altro travaglio. In quel giorno la dottrina delle cose nuove ricomparirà più nuova, più efficace che mai. Coltiviamone intanto lo spirito e conserviamo e difendiamo le istituzioni che nacquero e si svilupparono a tal soffio divino, e ricordiamoci sovratutto (è alle parallele dell’enciclica che corre il pensiero), come oltre che alle aspirazioni della giustizia, esse sono dovute allo spirito della carità. Se conserveremo fra noi lo spirito di fraterna solidarietà che, nonostante gl’inevitabili urti delle umane passioni, accompagnò la grande opera dell’ultimo ventennio, se anche fra i dissensi, saremo giusti nell’estimazione di chi ha dato al nostro movimento preziose energie morali e fisiche, se non dimenticheremo che nessuna azione collettiva riesce senza i continui sacrifizi di una disciplina unitaria, trasmetteremo ai più giovani la base di un edificio che essi saranno chiamati ad elevare a più perfetti fastigi. M’auguro che a questo fraterno augurio rispondiamo tutti con quel senso di generosa carità che consuma ogni fiamma impura; e con quest’augurio chiudo proprio la commemorazione della Rerum Novarum, mentre dallo stanzino ove scrivo queste note ammiro il tramontare del sole dietro il Vaticano, dal quale tante volte, citando l’enciclica, abbiamo detto irradiare una luce che illumina il mondo. A questo fuoco io chiedo tanto calore che, se sarà necessario, io abbandoni per sempre la grande Roma, per riprendere il mio umile posto di propagandista democratico cristiano nei villaggi del nativo Trentino, colle speranze e coll’ardore dei miei vent’anni. A.D. I) Questo articolo, che ci fu spedito da Roma, per espresso, in tempo per essere stampato sul numero di martedì scorso – 15 maggio – ha subito un inesplicabile disguido postale, che gli ha fatto fare parecchi giri viziosi, e ci è giunto appena iersera. Lo pubblichiamo tuttavia ché, pur essendo trascorsa la ricorrenza per la quale era stato scritto, nulla perde del suo grande interesse e la sua alta importanza per la storia, che è passato ammonitore e incitatore, e per gli atteggiamenti, che sono lotta del presente, e speranza per l’avvenire della democrazia cristiana nel Trentino. |
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| Roma, 20. La stampa commenta larghissimamente il colloquio che il presidente del gruppo popolare ha avuto ieri sera col Capo del Governo. In verità circa il tenore del colloquio non si possono fare che induzioni, perché l’on. Degasperi, dopo il colloquio, ha abbandonato subito Montecitorio per recarsi alla stazione a prendere il treno, onde è a ritenersi ch’egli non abbia avuto occasione di comunicare ad alcuno le sue impressioni. Ma il notevole incontro, preceduto dal comunicato dell’agenzia «Volta», il quale era un chiaro invito del Governo diretto ai popolari per un avvicinamento, e il fatto ormai noto che la sera antecedente la commissione direttiva del Gruppo aveva discusso a lungo sulla riforma elettorale hanno dato ansa a molte induzioni e a svariati commenti. Ho voluto quindi assumere le più larghe informazioni possibili, che mi permettono di ricostruire, credo con sufficente approssimazione, non il colloquio Mussolini-Degasperi, ma le linee direttive sulle quali cammina il momento politico in rapporto alla riforma elettorale. 1. Il Governo intende risolvere questo problema parlamentarmente. L’idea del decreto è caduta: superfluo indagarne le ragioni. È necessario quindi assicurare al progetto una maggioranza parlamentare; ma tale maggioranza non si ha senza l’adesione dei popolari, o più esattamente, non è raggiungibile, se i popolari capeggiano l’opposizione. Di qui la tendenza a diminuire la distanza che fra popolari e governo ha creata la rottura dopo Torino. Alcuni minuti di conversazione avviata per caso in Piazza di Montecitorio, conversazione che non riguardò il nocciolo del problema elettorale, potè così dare origine ad un comunicato di un’agenzia ufficiosa, il quale, in fondo, invita i popolari a rivalutare la situazione non più in base al progetto Bianchi , contro il quale era insorto il congresso di Torino, ma in base all’o.d.g. votato dal Consiglio dei ministri il 15 novembre 1922, o.d.g. che suonava: «Il Consiglio dei ministri, deliberando la questione della riforma elettorale, ritiene che non sia possibile ritornare al collegio uninominale ed afferma che il vigente sistema elettorale a base rigidamente proporzionale debba essere riveduto per permettere la rappresentanza di tutti i partiti e nel contempo la formazione d’un Governo di maggioranza parlamentare». 2. Ora è bene ricordare che i popolari hanno difesa e difendono la proporzionale, ma non si sono mai impegnati a difendere in tutta la sua rigidezza il sistema presente. Per noi la proporzionale è il mezzo migliore per correggere e organizzare il suffragio universale, costringere i partiti ad assumere la responsabilità e la fisionomia che loro spetta ed evitare l’individualismo e il localismo della politica elettorale. Ora qualsiasi sistema a base proporzionalistica sopporta delle attenuazioni, purché non venga meno a queste sue caratteristiche funzionali. Alla Camera italiana ne abbiamo già avuto un esempio. Nel 1920 la Camera dei deputati, modificando la legge elettorale amministrativa, non accolse il sistema proporzionale puro, come vige nei municipi svizzeri, e com’era contenuto nello statuto della vostra città di Trento , ma previde alcuni casi, nei quali il partito più forte avrebbe ottenuto un cosidetto premio di maggioranza; e, precisamente, il disegno di legge prendeva in considerazione tre ipotesi: a) nessun partito aveva aderenze notevoli, in modo da poter assumere una parte prevalente nell’amministrazione, e allora funzionava la proporzionale pura. Per quest’ipotesi, la legge prevedeva che se nessuna lista avesse raggiunto i due quinti dei voti validi (40 per cento), tutti i seggi si sarebbero ripartiti colla proporzionale pura; b) esisteva invece un partito forte che già per la sua quota proporzionale di seggi avrebbe avuto in seno all’amministrazione la maggioranza relativa, e allora si applicava ancora la proporzionale pura. La legge precisava questo caso nel senso che se una lista avesse raggiunto i tre quinti dei voti validi (60 per cento), la proporzionale veniva applicata rigidamente; c) interveniva finalmente il caso che una lista raggiungesse i due quinti, ma non i tre quinti dei voti; allora subentrava una rettifica della proporzionale nel senso che se la lista di due quinti di voti otteneva tre quinti di seggi, un premio cioè di un quinto che le faceva superare la maggioranza assoluta. Ebbene se lo stesso sistema venisse applicato alle elezioni politiche, non saremmo ancora sulla base del citato ordine del giorno e non avremmo preservate le funzioni caratteristiche della proporzionale, sia riguardo ai partiti, sia riguardo all’organicità del suffragio? Certo che a tal uopo è indispensabile il collegio nazionale, cioè lo scrutinio globale di tutti i voti dati, per poter constatare la reale esistenza della minoranza dei due quinti o della maggioranza dei tre quinti entro la Nazione. È presumibile che siano queste le basi di transazione accettabili dai popolari, e che su esse l’on. Degasperi abbia richiamato l’attenzione del presidente del Consiglio. Il quale, raggiunta così la sicurezza di uno sbocco parlamentare per il fascismo, potrà sperabilmente arrestarsi per ora a tali conclusioni, rimettendo ad altra epoca e riforma ed elezioni e dedicandosi frattanto alla ricostituzione della normalità, della libertà e alla definitiva smobilitazione del mito rivoluzionario. Tale almeno è la speranza di quei partiti, che, pur difendendo la loro bandiera, si piegano a transazioni, le quali sono giustificabili non tanto in via assoluta, quanto in via relativa, in quanto tendono a persuadere il fascismo a chiudere definitivamente la era rivoluzionaria e a ripristinare la forza del potere rappresentativo. |
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| Come ci venne telefonato sabato sera, la commissione per la riforma elettorale chiuse la discussione generale sul progetto governativo accogliendo con 10 voti contro 8 la proposta Terzaghi-Salandra di approvare il concetto informatore del progetto governativo e, quindi, di passare alla discussione degli articoli. Votarono contro oltre i rappresentanti dell’opposizione sistematica, cioè i socialisti e i repubblicani, anche quattro deputati che finora avevano votato per il governo, cioè i due popolari e gli onor. Bonomi e Falcioni. Non è detto che la battaglia per la proporzionale sia perduta, giacchè la forza numerica della commissione non corrisponde alla costituzione numerica della Camera. I liberali stessi che avevano accolto il concetto informatore, la intendono in senso assai lato, e tenteranno nella discussione articolata di varare importanti modificazioni. Quasi tutti i grandi giornali pubblicano un largo sunto delle dichiarazioni dell’on. De Gasperi che noi per precisare l’atteggiamento dei popolari riteniamo utile riprodurre. Collegio uninominale e proporzionale. – Come parlavano gli oratori della destra nel 1919 «Il governo nel presentare la riforma parte dalla premessa che il sistema della rappresentanza proporzionale sia da abolirsi ed afferma nella introduzione al progetto che gli esperimenti del 1919 e del 1921 abbiano consacrato definitivamente nella storia politica italiana la condanna della proporzionale. I popolari furono ieri e rimangono ancora oggi proporzionalisti e non possono quindi accettare il criterio fondamentale della riforma governativa . Contesto anche che gli esperimenti del recente dopoguerra giustifichino una così recisa e definitiva condanna del sistema. Non mi riferirò in sede di commissione alle ragioni di principio e di dottrina, limitandomi a osservare che, se lo si vorrà fare, nelle pubbliche discussioni, basterà riportare le affermazioni molto eloquenti di quasi tutti gli oratori del luglio 1919, dall’on. Federzoni che combatté il collegio uninominale e volle la proporzionale per ragioni di educazione e ricostruzione nazionale, all’on. Riccio, che, deplorando l’agnostica politica delle assemblee causate dal lungo dominio del collegio uninominale, proclamava “la proporzionale una conseguenza diretta, logica inevitabile del suffragio universale”, all’on. Celesia che nella discussione con inconfutabili argomenti proponeva il seguente ordine del giorno nella seduta del 25 luglio: “La Camera, convinta che la sopravvivenza del collegio uninominale sarebbe di ostacolo a riforme amministrative e di indole sociale necessarie per il rinnovamento della vita nazionale italiana passa alla discussione degli articoli”. Basta leggere quella discussione per avere le prove che tutte le deficienze e gli errori parlamentari che ora si dovrebbero attribuire alla proporzionale si attribuivano allora al collegio uninominale. Noi neghiamo quindi che la debolezza e la disorganizzazione della Camera, cioè la difficoltà trovata di risolvere il problema del governo forte, si possa attribuire del tutto o in parte prevalente al sistema elettorale; comunque, se difficoltà nacquero fu perché il sistema non poté ancora venire applicato nello spirito e nella lettera con sincerità e con conseguenza. Già l’on. Riccio nella seduta del 2 luglio 1919, volendo la proporzionale, e avvertendo che logica e desiderata conseguenza dovesse essere la organizzazione delle forze costituzionali, diceva: “La vita italiana ha bisogno di disciplina, bisogna che ciascuno pigli il posto suo e sia legato alle sue idee, al suo partito. Bisogna che si contengano nei giusti limiti le tendenze eccessivamente individualistiche che sono principalmente nella borghesia italiana. Abbiamo il dovere di disciplinare i costumi politici; il collegio uninominale non li disciplina”. Ed altrove: “Discipliniamo i partiti e discipliniamo, specialmente il partito liberale italiano. Avremo così forse contribuito a far cessare il pullulare di gruppi e di tendenze che è un guaio della vita parlamentare nostra”. La formazione dei governi Se si vuole comunque riferire alla proporzionale una conseguenza sulla formazione dei vari partiti non è che essa abbia prodotto lo spezzettamento ma è che la tradizione uninominalista delle forze costituzionali non è riuscita ancora ad influire nella organizzazione di tutti i partiti, soprattutto del partito liberale. Ma ora il partito liberale sta creandosi quadri di organizzazione nazionale. Comunque non è la mancata organizzazione di un partito che può farci disperare degli inevitabili effetti della proporzionale. Io ricordo quello che disse l’on. Mussolini alla Camera il 23 luglio 1921 dopo cioè che i due esperimenti colla proporzionale avrebbero dovuto sancirne la condanna: “Esistono qui dei gruppi parlamentari numerosi. Ma io vi domando, se la democrazia sociale e liberale ha delle forze solidamente inquadrate nel paese, mentre tutti sappiamo che tali forze non esistono quando si astraggono dalla massa assai fluttuante che vota nel giorno delle elezioni. Ecco perché non accetto la tesi antiproporzionalista in quanto essa viene sostenuta col danno che ne ricavano i partiti deboli. Se i partiti sono deboli, o si rafforzano o muoiono”. Corrisponde del resto alla verità e alle primitive esigenze del senso storico attribuire, come fa Casertano, al sistema elettorale le difficoltà della formazione dei governi? In quattro anni del turbinoso dopoguerra, quando la Camera era trascinata a deliberare sotto l’enorme e tumultuaria pressione del paese sconvolto dalla occupazione delle fabbriche, preludio di una rivoluzione sociale, all’impresa di Fiume che generò il fascismo, dalla occupazione delle terre alle imprese militari dello squadrismo? Dopo l’esperimento fatto appunto in tali condizioni straordinarie l’Italia dovrebbe mutare di nuovo sistema, mentre altri paesi, in Germania e negli Stati dell’Europa centrale, mantengono e perfezionano il metodo proporzionalista, la Francia si appresta ad introdurlo e in Inghilterra un movimento fortissimo la condusse recentemente molto presso la vittoria? Proprio in questo momento a quattro anni di distanza dobbiamo capovolgere di nuovo il sistema elettorale rinnegando quello che allora parve un postulato di giustizia sociale e legittimando nella opinione pubblica il dubbio che il diritto civile poggi non sui principii ma sull’opportunismo del momento politico? L’oratore fa a questo punto un’altra considerazione sul clima storico, cioè del momento in cui si delibera. Oggi preoccupa soprattutto la questione della libertà elettorale. Vi sono degli uninominalisti i quali sosterrebbero ad oltranza il collegio uninominale se non temessero che in questo momento il collegio uninominale diventasse più facile strumento di pressioni e di intolleranze; altri che sosterrebbero con più forza la proporzionale se non temessero che le elezioni proporzionaliste fatte ora provocassero un urto asprissimo. Lo stesso dicasi per il congegno elettorale. Ora l’on. Mussolini ha ripetutamente dichiarato che non farebbe le elezioni fino a che non fosse ristabilita un’atmosfera di maggiore tolleranza. Non sarebbe logico anche di chiedergli che ci permettesse di valutare la riforma elettorale nel momento nel quale le preoccupazioni di tale carattere non influissero sul nostro giudizio oggettivo? Preoccupazioni costituzionali Passando all’esame del progetto stesso, l’oratore rileva l’inciso della relazione ministeriale a pagina due ove è detto: “una buona legge elettorale la quale si ispiri a sani concetti generati ed alle necessità contingenti deve insieme conglobare i due scopi, rispecchiare le condizioni dei partiti nel paese e garantire vita duratura al governo il quale ha bisogno di dedicare tutta la sua energia alla risoluzione dei gravi problemi dello Stato e non disperderla a fronteggiare le insidie di tutte le ore. Le grandi correnti del paese hanno diritto di determinare la composizione non le loro meschine competizioni di vane preminenze. Al primo scopo risponde la proporzionale, ma vi risponde troppo. Al secondo si ispira il metodo che vi propongo il quale senza trascurare i diritti delle minoranze assicura una consistenza di governo che è la tendenza istituzionale e pratica del tempo attuale. Non si affrontano e non si risolvono i colossali problemi di politica interna ed internazionale che si impongono per l’assestamento della grande guerra se non con una sicurezza, fermezza e continuità di programmi che soltanto sono consentiti a chi non deve guardarsi le spalle a ogni momento”. Ora è bene rilevare che questi periodi arieggiano ad una stabilità o immobilità parlamentare che, secondo i principii e le tradizioni della responsabilità ministeriale, non sono ammissibili. La riforma anche introducendo una compatta maggioranza non può escludere che sui problemi di organizzazione interna ed estera nasca il dissidio e quindi la crisi di governo. La proposta di mediazione popolare Ed ecco che fatalmente se tale scopo si vorrà assolutamente raggiungere, converrà passare alla riforma costituzionale che, lanciata già nella discussione giornalistica, ci ha resi perplessi. Ma qui sorge la questione politica sollevata ieri dall’on. Orano . Non vedete, egli dice, che il governo con questo progetto getta un ponte tra l’illegalismo fascista e il costituzionalismo? Volete sbarrargli la strada per il criterio programmatico di mantenere la proporzionale rigida? Rispondiamo che, a nostro parere, la proporzionale anche rigida non impedirebbe affatto al fascismo di conquistare tanti mandati quanti bastano per assicurarsi la direttiva del governo. Ma non ci siamo rifiutati nemmeno ad una attenuazione della proporzionale che possa permettere all’attuale governo di inquadrare, ancor prima dell’atto elettorale, le forze che in senso più stretto si dicono nazionali e farle sboccare in un partito di maggioranza parlamentare. E, nello spirito del collaborazionismo, cercammo un mezzo per lo sbocco parlamentare del governo fascista e abbiamo concluso, come è noto, col dichiarare che ci saremmo adattati al sistema proporzionalista con premio votato dalla Camera nel 1920 per le elezioni amministrative il quale, facendo funzionare in via di massima la proporzionale, a un dato punto, però, quando cioè una lista ha ottenuto 2/5 dei suffragi, le attribuisce 1/5 dei seggi di premio per assicurarle la maggioranza aritmetica. Trasferita alle elezioni politiche, ciò vuol significare: se gli elettori chiamati a votare col metodo proporzionale si pronunzieranno per una lista non solo più forte delle altre, ma tale che per il numero notevole dei suffragi, la diffusione dei suoi aderenti in tutto il paese, la concentrazione dei valori e delle energie possa venire qualificata come predominante nella nazione, noi le garantiremo un sussidio aritmetico perché tale carattere possa esplicare alla Camera. È un espediente consigliato dalla situazione politica, ma che, per essere conciliabile col sistema proposto, esige una proporzione tra il numero dei voti e il premio e che tale proporzione non sia molto al di sotto del 50%. Per questo nel 1920 s’è arrivati al limite dei 2/5, giacché quando si andasse al di sotto significherebbe che i voti così raggiunti in premio sarebbero maggiori di quelli guadagnati colla proporzionale. Non era del resto troppo esigere che una lista che deve avere in mano il governo raggiunga almeno il 40% dei suffragi quando si pensi che già nel 1921 le liste costituzionali raggiunsero su 6.347.903, 3.034.642 voti cioè il 47%. Se non si raggiunge il 40% vuol dire che manca la lista predominante e che gli elettori stessi si limitano al giuoco della proporzionale per formare il governo entro la Camera. Questo nostro espediente a cui siamo arrivati vincendo grandi difficoltà e superando fortissimi contrasti della nostra massa elettorale non trova grazia nel progetto governativo, il quale si impernia su questo principio, che la lista la quale abbia toccato la maggioranza relativa, qualsiasi il numero dei voti raggiunti, ottenga assegnati 356 posti cioè il dominio assoluto della Camera, del governo del paese. I pericoli del progetto Nel 1921 si ebbero in totale 6 milioni 347.903 voti; con questo criterio supponendo sei liste, la lista che avesse 1.100.000 voti otterrebbe 356 mandati e gli altri 5 milioni dovrebbero ripartirsi 179 mandati. Questo sistema, oltre ad essere quindi un sistema senza alcun criterio di proporzione e di giustizia, è un sistema pericolosissimo alle sorti politiche del paese. Per queste ragioni ed altre che riguardano il congegno e che vedremo poi, nonostante il desiderio che abbiamo sempre dimostrato coi fatti di facilitare lo svolgersi normale della situazione e nonostante le troppe evidenti ragioni di opportunità personale e di partito che ci consiglierebbero di agire diversamente, in considerazione degl’immanenti interessi del paese, non ci sentiamo di assumere la corresponsabilità di questo progetto e quindi daremo voto negativo». |
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| Con la seduta di sabato la Commissione ha fissato ormai definitivamente i caposaldi della riforma; e li ha fissati peggiorandone ancora la struttura e rifiutandosi di aderire a qualsiasi temperamento suggerito dai commissari della minoranza. Parecchi rappresentanti della maggioranza, tra i quali Giolitti e Orlando, avevano rilevato nella seduta antecedente che una maggioranza di 3/5 dei seggi (321) era più che sufficiente per garantire il così detto governo forte e stabile. La stessa maggioranza però, dal punto di vista egoistico di partito, aveva interesse ad escludere qualsiasi gioco di preferenze nella lista di maggioranza. Il «Giornale d’Italia», da molti giorni, aveva gettato l’allarme contro l’art. 84 ter e rispettivamente contro l’art 52, che prevedevano da parte della maggioranza la presentazione di una lista di 5/6 dei seggi (445) coll’effetto che 89 di essi, in forza dell’atto elettorale, sarebbero caduti. Il giornale temeva che questi 89 sarebbero stati i liberali «imbarcati» per ragioni di opportunità nel listino ministeriale, e che poi, col gioco delle preferenze, sarebbero rimasti a terra per la pressione fascista (Oh, la fiducia dei leali collaborazionisti!…). Quando perciò l’on. Acerbo a nome del Governo rispose dichiarando di non insistere sopra la presentazione dei 5/6, i liberali, compreso l’on. Giolitti, s’affrettarono ad accogliere anche la maggioranza dei 2/3 che pure avevano ritenuta eccessiva. E si fecero scrupolo dei risultati cui avrebbe condotto la «rigidità» della lista che porta proprio a quella conseguenza che, accennata giorni sono dal «Giornale d’Italia» sembrò una enormità: cioè che in ciascuna regione d’Italia qualunque sia la proporzione dei voti, e anche nel caso che i fascisti abbiano ottenuto una votazione minima, due terzi dei seggi sono previamente infeudati alla lista governativa. Anche i costituzionalisti, come l’on. Orlando il quale ebbe scrupolo di votare per la obbligatorietà della candidatura in due circoscrizioni dal punto di vista di una maggiore libertà d’iniziativa per gli elettori, trovano, sembra, compatibilissimo coi loro principii, che la maggior parte dei seggi di una data regione siano completamente sottratti alla libera decisione della massa elettorale. Le conseguenze politiche di questo predominio elettorale prestabilito in eguale misura per tutte le regioni riserveranno gravissime conseguenze in tutti i rapporti della vita locale. Siamo proprio molto lontani anche da quell’uninominalismo che i liberali esaltano come il rapporto migliore fra eletti ed elettori! Si sarebbe dovuto sperare che la maggioranza sistematasi così con una «legge di comodo» – come l’ebbe a definire un commissario della minoranza – avrebbe fatto delle concessioni almeno per quanto riguarda la ripartizione dei 178 mandati rimasti a disposizione degli elettori. Ma invece la maggioranza respinse la proposta di introdurre anche per le minoranze il quoziente nazionale che avrebbe permessa una ripartizione dei «resti» fra le liste di minoranza; e la stessa maggioranza impose anche al di là degli stessi desideri del Governo, le tre preferenze le quali, mentre non turbano affatto la lista rigida di maggioranza, riservano i loro effetti dannosi per la attribuzione dei seggi alle minoranze. Così la riforma risulta ancora più indigeribile e si allontana da qualsiasi criterio di razionalità. È bene rilevare ancora una volta che di fronte a tanta intransigenza parecchi commissari della minoranza, specie i popolari, non si irrigidirono nella difesa del sistema vigente, ma suggerirono ripetutamente diversi progetti, che pur salvando le basi fondamentali della giustizia rappresentativa – o almeno non discostandovisi di troppo – garantissero la formazione di una maggioranza parlamentare. Il sistema amministrativo del 1920 col progetto Ambrosini meritavano pure una migliore considerazione da una commissione che non fosse presa da panico o non fosse preoccupata di salvare certe situazioni locali o regionali. Ma tant’è; se la Camera seguirà i suoi rappresentanti nella commissione, è destino che l’Italia abbia un sistema elettorale – unico al mondo – che rappresenti una rivoluzione parlamentare costituzionale. La Camera aderirà davvero a tale riforma e delibererà, articolo per articolo, tale rivoluzione? Speriamo che non sia, ma se così fosse, rimaniamo dell’opinione che se le rivoluzioni si possono – e talvolta si debbono – subire, giammai, in quanto contraddicono ai propri principi, sia lecito autorizzarle col proprio voto e coprirle colla propria responsabilità. |
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| 41921-1925
| È noto come in questi giorni, specialmente per l’opposizione popolare al progetto Acerbo di riforma elettorale, la stampa fascista e filofascista abbia intensificati gli sforzi – non riusciti prima e dopo il congresso di Torino – per costringere i popolari a mettere in disparte Don Luigi Sturzo . È ugualmente noto come, alla precisa invocazione (stavamo per dire: intimazione) del «Giornale d’Italia» perché il Vaticano intervenisse a sconfessare l’opera di D. Sturzo, l’«Osservatore Romano» rispondeva con un breve comunicato che ribadiva l’estraneità e la superiorità della S. Sede ai partiti politici e alle loro questioni. A questo comunicato, son seguiti altri attacchi al nostro segretario politico e altre più esplicite intimazioni alla S. Sede, specie da parte dell’«Idea Nazionale», attacchi e intimazioni cui ha risposto sabato mons. Pucci in un articolo del «Corriere d’Italia». In sostanza, la stampa fascista e filofascista, che tante volte ha ingiustamente rimproverato al Partito popolare di essere confessionale e di attingere le ispirazioni della sua condotta politica direttamente al Vaticano, e ha falsamente e irrispettosamente tacciata la S. Sede di ingerenze politiche, è proprio quella che oggi vorrebbe l’intervento vaticano per la eliminazione di D. Luigi Sturzo e per costringere i popolari a una supina arrendevolezza verso il nuovo progetto elettorale. Su tali questioni, il «Corriere della Sera» ha intervistato l’altro giorno l’on. Degasperi. Riproduciamo l’intervista: L’on. Degasperi ha anzitutto smentito recisamente che i rappresentanti del Gruppo popolare e della Direzione si siano recati dal cardinale segretario di stato a chiedere consigli e direttive circa la politica del partito, sull’opportunità del Congresso di Torino, o sulla permanenza del prof. Sturzo al suo posto. Ha detto poi: «D’altro canto posso assicurare che di tal materia il Vaticano si è dimostrato sempre riservatissimo, né, da che faccio parte della Direzione del partito, ricordo un solo episodio il quale autorizzi a ritenere che la suprema autorità ecclesiastica abbia voluto menomare la nostra autonomia politica. La campagna, del resto, che si fa in questi giorni non è nuova. Ricorda la caduta del Ministero Nitti? I popolari avevano deliberato al Congresso di Napoli di passare all’opposizione. Immediatamente incominciò allora una campagna della stampa per dimostrare che il Vaticano voleva Nitti: ma i popolari non mutarono atteggiamento e votarono contro. Il clamore si ripetè al tempo del cosiddetto veto contro Giolitti ed ella ricorda che l’Osservatore Romano intervenne con una dichiarazione a tagliar corto a tutte le dicerie che si mettevano in circolazione. E come potrebbe essere altrimenti? Non si accorgono i nostri oppositori che sarebbe condannare i cattolici italiani ad uno stato di minorità in confronto di quelli delle altre nazioni? Ma, si dice, il vostro capo è un sacerdote! Ma forse che il capo dei cristiano-sociali austriaci non è mons. Seipel, attualmente presidente del Consiglio? Forse che i cattolici cechi non hanno un ministro nella persona di mons. Sramek? E Noulens in Olanda, Brauns in Germania, Wetterle, Lemire, Müller ed altri in Francia, Korosec, capo degli autonomisti sloveni, a Belgrado, non sono forse sacerdoti? Che dire poi dell’Irlanda, della Polonia, della Spagna e infine dell’America Latina, ove abbiamo persino un vescovo presidente di repubblica? È certo, in tesi generale, opinione discutibile che sia opportuno, o meno, che il segretario politico di un partito sia un sacerdote, ma è fuori discussione che oggi, allo stato delle cose, il ritiro di don Sturzo, se non fosse causato da ragioni interne ed organizzative del partito, avrebbe immediatamente due effetti nazionalmente dannosi: l’uno di far tornare i cattolici italiani ad uno stato di minorità politica in confronto di quelli delle altre nazioni; il secondo, di valorizzare l’opinione che la Santa Sede intervenga direttamente nella vita politica italiana, dimodoché qualsiasi Governo si crederebbe autorizzato a farsi valere attraverso gli interessi religiosi». Abbiamo allora chiesto all’on. Degasperi quali effetti potrebbe avere la polemica odierna sulla situazione parlamentare, ed egli ci ha risposto: «Nessuno. Il gruppo ha maturato il suo atteggiamento attraverso una lunga discussione. Sappiamo che la nostra responsabilità è grave e non ce la siamo assunta a cuor leggero, ma ce l’assumiamo intera. Abbiamo sostenuto il Governo di Mussolini fin dalla marcia su Roma. Crediamo anche oggi che sia l’unico Governo possibile, e non ci sogniamo nemmeno di volergli sbarrare la via con labili barricate parlamentari: abbiamo anche fatto ogni sforzo, nonostante la nostra fede proporzionalista, per avvicinarci alla tesi governativa. Sventuratamente, la riforma come uscirà oramai dalla Commissione è assolutamente indigeribile. Speriamo che la Camera voglia modificarla. Se ciò, nonostante ogni nostro sforzo, non avvenisse, poi voteremmo compatti secondo la nostra convinzione politica, persuasi di agire nell’interesse del Paese». |
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| 41921-1925
| Roma, 26. Si è riunito ieri il Consiglio nazionale del Partito popolare italiano, presenti l’on. Rodinò, l’on. Gronchi, l’on. Spataro, l’on. De Gasperi, l’on. Cingolani, l’on. Cappa, l’on. Longinotti, Gotelli, Ferrazza, Canaletti, Del Giudice, Matteini, Smuraglia, Novi Scanni, Castellucci, Piccioni, Bianco, Chiti, Candolini, Campilli, Ferrari, Cecconi, Maschio, Alberti, Sturzo, Canonici, De Rossi, Ruffo, Cappi, Colonnetti e Zoli. Assenti da Roma per varie ragioni i senatori Montresor e Soderini, l’on. Merlin, l’on. Grandi Achille, il prof. Segni, Galletto, Quarello, Marchi e l’avv. Migliori, quest’ultimo per ragioni di salute. Presiede il comm. Maschio il quale da lettura delle varie adesioni pervenute dagli assenti e dei pareri da essi espressi sugli argomenti posti all’ordine del giorno e manda un augurio all’avv. G.G. Migliori. Relazione Degasperi Esaurite le comunicazioni, l’on. Degasperi a nome del Gruppo parlamentare riferisce sulle varie fasi della battaglia per la riforma elettorale politica, a cominciare dal lavoro svolto nella Commissione dei diciotto, dando ragione dell’atteggiamento assunto sia dai commissari che dal gruppo stesso e dei vari voti dati alla Camera. La relazione esatta, chiara ed oggettiva, viene riassunta con le seguenti dichiarazioni: «I popolari hanno ritenuto che la legge elettorale, deliberata ora contro il loro voto dalla maggioranza della Camera, fosse una legge politicamente ingiusta, la quale urtava contro i criteri fondamentali della giustizia rappresentativa e inseriva nella nostra vita costituzionale nuovi elementi di fatali contraddizioni politiche e creava un ostacolo grave contro quella pacificazione degli animi, da tante parti invocata e che tutti proclamano premessa indispensabile di ogni restaurazione sociale ed economica del paese. Fu quindi per questa concezione politico-morale, fu per seguire la voce imperiosa della loro coscienza che i popolari si opposero alla legge contrastandone l’accettazione prima nella Commissione, alla Camera poi, mettendo in campo tutti gli argomenti che valevano a dimostrarne l’inaccettabilità, rifiutandosi sempre di acconsentire ai principi fondamentali della riforma, anche quando tale consenso si voleva strappare sotto la pressione di un voto politico, accompagnato da non equivoche minacce della stampa; e giungendo infine durante la discussione degli articoli, a non scansare la negazione di un voto di fiducia, quando questo per un abusato artificio della tattica parlamentare, venne posto al fine di contrastare la nostra giusta richiesta di rendere coll’introduzione del quorum meno intollerabile e meno pericolosa la riforma stessa. La nostra condotta in quest’ultima fase fu la prova inconfutabile che non interesse di parte, non impegni di partito determinarono la nostra resistenza, ma la chiara e sicura visione degli interessi del paese e il concetto di giustizia che ci era imposto dall’ispirazione cristiana del nostro programma. Con rammarico, ma con energia quindi l’implicita accusa di quei nostri amici, i quali per legittimare la loro diserzione, costruiscono nei loro giornali un’antitesi fra quello che essi chiamano il loro «caso di coscienza» e quello che per noi secondo la loro insinuazione non dovrebbe essere che ossequio servile ad una formale disciplina di partito. Uno dei doveri più imprescindibili dei cattolici quando agiscono politicamente, è di dimostrare coi fatti innanzi alla vigile coscienza degli umili che il loro programma li impegna alla difesa dei criteri di equità e giustizia, e noi siamo lieti di aver dato tale prova, nonostante le difficoltà dell’ora che volge. L’assurdità e gli effetti di questa riforma, non sono forse ancora apparsi in tutta la loro evidenza; ma risulteranno anche troppo evidenti quando la riforma troverà la sua prima applicazione. Sarà allora nostro legittimo orgoglio il poter ricordare al popolo italiano che il Partito popolare l’ha combattuta e che esso ha rifiutato energicamente in qualunque momento di assumerne la corresponsablità». La discussione La discussione che ne è seguita, ha dato luogo ai vari oratori di esaminare non solo il contegno del Gruppo ma anche la situazione generale politica. Interloquiscono Piccioni e Ferrari nel senso di critica alla linea del Gruppo e sulla necessità che il Partito rivedendo la posizione assunta dal Congresso di Torino, passi all’opposizione. Piccioni afferma che la politica centrista del Partito è fallita allo scopo. Difende il Gruppo parlamentare l’avv. Cappi il quale ne valorizza lo sforzo di difesa costituzionale anche nel primo voto di astensione al passaggio agli articoli. Egli però constatando che la collaborazione è stata superata dagli avvenimenti, dice che il Partito oramai si deve disimpegnare da ogni corresponsabilità col governo. Don Giulio De Rossi può testimoniare al Consiglio tutta la competenza, lo studio e la passione messa dalla presidenza e dai commissari Degasperi e Micheli per la migliore riuscita dell’azione parlamentare e ad essi manda un voto di ringraziamento. Egli aggiunge che il Partito non può oggi modificare la sua linea, che è quella della propria personalità, del proprio programma e deve tendere alla pacificazione degli animi. L’avv. Alberti è stato favorevole al contegno del Gruppo. L’on. Longinotti ha sottolineato come risultato del Gruppo l’introduzione del principio del quorum sia pure limitato al 25%, mentre la prima astensione ha evitato l’immediata agitazione elettorale per lo scioglimento della Camera. Castellucci e Candolini hanno richiamata l’attenzione sulle responsabilità dei dirigenti e la sensazione delle masse. L’on. Cingolani ha parlato della funzione del partito popolare come decisivo per l’entrata dei cattolici nella vita nazionale con un Partito avente proprie responsabilità e caratteristica, per cui egli valorizza la funzione centrista tenuta fin’oggi. L’istessa idea conferma Campilli , pur segnalando le ragioni sociali del partito. Parlano altri in vario senso. Quindi Don Sturzo crede opportuno dimostrare erronea l’opinione espressa da Piccioni che la politica centrista del partito possa dirsi fallita con l’ultima fase parlamentare. Egli rifà brevemente la storia del Partito popolare, come espressione politica dei cattolici sopra una base di libertà, di autonomia e di attività sociali, come espressione di un vero neoguelfismo in confronto all’accentramento statale della vecchia democrazia e del socialismo di Stato ed in confronto al nazionalismo e liberalismo che oggi hanno sostanziato il fascismo. Il partito si è formata una coscienza politica attraverso un periodo difficilissimo nel quale i nostri organizzati pretendevano sempre il passaggio all’opposizione mentre il Gruppo parlamentare doveva obbedire alla necessità di far funzionare il Parlamento e di sorreggere i doveri pur dissentendo da molti atteggiamenti teorici e pratici. Questo dualismo si è acutizzato durante il periodo dell’avvento di Mussolini al potere; pure il Congresso di Torino ha potuto segnare una pagina storica del partito per il richiamo alle libertà costituzionali insieme al concetto di collaborazione. Che se il processo dei fatti ha portato all’uscita dei nostri amici dal Governo ed al presente conflitto sulla riforma elettorale, questo indica che il partito mantiene le sue posizioni ideali con fermezza senza esagerazione di forma e cercando di attenuare le asperità della situazione. Egli conclude che la fiducia nel Partito popolare non può mancare né per mutare di dirigenti né pei risultati parlamentari poco favorevoli; perché adempie a reali aspirazioni del paese nel campo politico e nel campo sociale e perché mantiene fede al suo programma. Egli è ottimista né teme le secessioni, le quali non possono realizzare un’autonomia ed una personalità politica per se stante. Crede che il partito debba ancora seguire la linea centrista tenuta sin oggi. Il pensiero del Triumvirato Chiusa la discussione l’on. Rodinò espone il pensiero del Triumvirato nelle seguenti dichiarazioni: «ricorda come il Congresso di Torino atto magnifico di coraggio e di fede affermò il sincero proposito di collaborare col Governo, mantenendo l’indipendenza ed autonomia della propria personalità distinta ed insopprimibile. Ricorda come il Congresso espresse anche la decisa volontà di difendere il sistema proporzionale, attribuendo ad esso la più grande importanza perché intimamente connesso alla costituzione della rappresentanza nazionale e perché elemento fondamentale del nostro programma. Riportandosi a tutti i deliberati del Congresso, del Consiglio, della Direzione del partito, del Gruppo parlamentare, dimostra come non si sia mai inteso di attribuire alla discussione della riforma elettorale un significato politico tale da poter determinare un mutamento nei rapporti tra Partito e Governo. Osserva che la discussione svoltasi nell’assemblea nazionale assunse per i discorsi di deputati di opposizione e per quelli pronunziati dal capo del Governo carattere squisitamente politico, mettendo in non facile condizione i deputati popolari, i quali dovevano da un lato manifestare fiducia al Governo e dall’altro difendere il sistema proporzionale, nonostante che tale difesa il Governo dichiarasse voler ritenere come dimostrazione di sfiducia. Dichiara che in tale condizione, resa più difficile dal contenuto del discorso del presidente del Consiglio, i deputati compirono tutto il loro dovere votando favorevolmente alla prima parte dell’ordine del giorno La Russa , che affermava la fiducia al Governo, ed astenendosi dalla seconda parte che approvava il concetto informatore della legge e consentiva il passaggio agli articoli, non sembrando logico in due successive votazioni, sulle quali veniva posta la questione di fiducia, dare il voto prima favorevole e poi contrario. Aggiunge che la dimostrazione della tenace difesa proporzionale venne in particolar modo data dal voto contrario dall’emendamento Bonomi riguardante l’introduzione del quorum. Si augura quindi che il Consiglio nazionale vorrà prendere atto che il Gruppo parlamentare ha compiuto tutto il suo dovere. Esaminando poi la situazione politica del partito dichiara sicuro interprete della grande maggioranza degli organizzati che esso non piegherà né a destra né a sinistra, ma manterrà la sua linea in conformità delle sue origini, del suo stesso programma, dell’azione svolta nei suoi quattro anni di vita, dei deliberati dei suoi congressi. Nei rapporti col Governo il Partito dovrà mantenendo integra fede nel suo programma, in conseguenza dei suoi precedenti deliberati, attendere che il Governo prosegua nell’opera di normalizzazione e restaurazione della vita nazionale, ottenendo quella pacificazione degli animi alla quale per proprio intimo profondo convincimento il Partito intende contribuire con tutte le migliori sue forze. Accenna in ultimo all’abbandono di coloro che hanno più facilmente saputo godere delle vittorie e sopportare sia pure l’apparenza della sconfitta : alle insidie con le quali in nome di un cieco conservatorismo, si combatte il nostro programma, dimentichi che esso è diretto non a distruggere o sovvertire ma a conservare e riorganizzare, non alla lotta ma alla cooperazione delle diverse classi; accenna a quelli che vivendo fuori della realtà, vogliono a scopo politico fondersi con le nostre magnifiche organizzazioni cattoliche, dimenticando la impossibilità di imprimere norme e carattere cattolico a qualunque movimento ed organismo politico. Conclude invitando il Consiglio nazionale a dire la sua parola alta e serena suscitatrice di nuove energie, affinché un lavoro tranquillo e fecondo segua a questo recente periodo di turbamento e di agitazione». Replicano Piccioni e Ferrari il quale ultimo presenta un ordine del giorno come espressione della minoranza. Viene infine presentato il seguente Ordine del giorno Il Consiglio nazionale del Partito popolare italiano: «sentita la relazione Degasperi sulla condotta del Gruppo parlamentare durante la discussione della riforma elettorale politica; prende atto della opposizione spiegata dal Gruppo stesso al concetto informatore della legge e dei tentativi compiuti con costanza ed energia, per rettificarne la struttura e modificarne la portata con la introduzione del quorum in rapporto al premio di maggioranza: rileva che la battaglia del Gruppo ha efficacemente contribuito a rivalutare nella Camera e nel Paese l’istituto parlamentare e le sue esigenze costituzionali; e riaffermando, in confronto della legge elettorale votata dalla Camera, il principio proporzionalista, contenuto nel programma del partito contro ogni deviazione parlamentare che ferisce i sani principi della costituzione; nell’attesa che il Governo voglia realizzare i propositi di pacificazione testè annunziati impedendo le offese e le violenze contro le legittime attività dei partiti e contro le organizzazioni cattoliche: al quale scopo di pacificazione, oggi come ieri, i popolari, pur conservando la loro linea di azione per la difesa del loro programma e delle ragioni della vita civile, intendono contribuire con ogni sforzo in tutto il paese, passa all’ordine del giorno». Dopo varie osservazioni il presidente mette a votazione l’ordine del giorno che risulta approvato con voti 26 contro 4 (Piccioni, Ferrari, Lecconi e Canonici). Le espulsioni Il Consiglio nazionale del Partito popolare italiano ha continuato i suoi lavori sotto la presidenza del comm. Maschio, presente anche il prof. Segni. L’on. Degasperi e gli on. Rodinò e Gronchi hanno riferito sulla condotta disciplinare dei vari deputati precedentemente espulsi dal Gruppo e sugli altri provvedimenti presi dal Gruppo stesso. Zoli ha poi riferito sulla inchiesta intorno al caso Martire. Apertasi la discussione, vi hanno partecipato largamente quasi tutti gli intervenuti. L’avv. Ferraris ha proposto un ordine del giorno di espulsione in massa dal partito per i deputati già colpiti dalla espulsione dal Gruppo. L’on. Gronchi, De Rossi ed altri hanno invece sostenuto la tesi che si dovesse, pur tenendo conto dell’ultima più grave infrazione alla disciplina, valutare anche gli atteggiamenti politici e la particolare figura di ciascuno. Durante la discussione si è manifestato l’unanime consenso di tutti i presenti per i più gravi provvedimenti disciplinari, tal che la discussione stessa verteva soltanto sulla diversa graduatoria delle misure da prendersi. L’on. Gronchi a nome della segreteria politica ha presentato il seguente ordine del giorno che nella sua prima parte generale è stato votato alla unanimità, e nelle altre parti a maggioranza con alcune astensioni e dichiarazioni di voto. Ecco l’ordine del giorno: «Il Consiglio nazionale del Partito popolare italiano Deplora anzitutto che deputati appartenenti ad un partito ed eletti in nome di esso, non sentano l’incompatibilità politica e morale di mantenere il mandato, quando per ragioni di disciplina parlamentare e di orientamento programmatico e tattico non appartengono più al gruppo che è emanazione diretta e rappresentativa del partito, spezzando così quel rapporto sostanziale fra eletti ed elettori che non è una pura occasionalità personale, ma un obbligo reciproco di solidarietà e di convergenza nel programma e nell’azione di partito; Riconosce quindi che bene ha operato la presidenza del gruppo con la espulsione di coloro che sono venuti meno alla disciplina formale e sostanziale del gruppo stesso impegnato in piena solidarietà con tutto il partito nella battaglia per la proporzionale; E rilevando che solo i deputati Ferri e Merizzi hanno sentito la insostenibilità morale e parlamentare della loro posizione, afferma che gli altri deputati non più appartenenti al gruppo non possono conservare il loro mandato. Estendendo poi l’esame – oltre la questione disciplinare creata dalla votazione sulla riforma elettorale – alla condotta di ciascun deputato come indirizzo politico, in applicazione dell’art. 7 dello statuto; a) rileva che i deputati Mattei Gentili , Martire, Vassallo hanno dimostrato nell’ultimo periodo della loro pubblica attività una costante incomprensione del programma e della funzione politica del partito, ed esercitato una persistente opera di svalutazione e di disgregazione per cui si è resa incompatibile la loro permanenza nella organizzazione; e li dichiara perciò espulsi dal partito popolare italiano; b) constatando poi che i deputati Cavazzoni, Ferri, Marino, Mauro, Merizzi, Paduli, Roberti , Signorini, pur senza aver seguito in precedenza la stessa linea di condotta hanno però compiuto gravissimo atto di indisciplina (che ha compromesso la compagine unitaria del gruppo creando la situazione di incompatibilità già rilevata) li invita a dimettersi entro 10 giorni da deputati ed a mantenere irrevocabilmente tali dimissioni rinunziando in ogni caso all’effettivo esercizio del mandato e dichiarando con lettera diretta alla presidenza del gruppo. In caso negativo debbono considerarsi fino da ora esclusi dal Partito, senza alcuna ulteriore deliberazione; c) riconosce che le recenti pubbliche manifestazioni del deputato Rodolfo Grandi così come giustificano l’espulsione dal gruppo, lo escludono dalla stessa organizzazione di partito. Il Consiglio nazionale consente infine nelle ragioni di rettitudine e chiarezza politica che hanno indotto la Commissione direttiva del Gruppo a richiamare ad un più coerente e responsabile senso di disciplina quei deputati che volontariamente non parteciparono al voto di fiducia al Governo». La stampa Il direttore dell’Ufficio Stampa Don Giulio De Rossi fa quindi una breve relazione sull’atteggiamento della stampa dipendente e aderente al Partito. Nota che i giornali dipendenti, e cioè Il Corriere del Mattino, Il Friuli, Il Popolo Veneto, seguirono perfettamente e con grande sensibilità la linea politica del P.P.I. Segnala i migliori servigi resi al Partito in questa circostanza da numerosi giornali aderenti ed in modo particolare dal Popolo di Roma, dal Nuovo Trentino, dall’Ordine di Como, dal Cittadino di Brescia, e dal Corriere di Sardegna. Nota oggettivamente come l’unico scarto grave dalle direttive del Partito sia stato compiuto dal Corriere d’Italia e come le sue note ed i suoi articoli hanno variamente influito a disorientare dal punto di vista popolare altri giornali aderenti quali l’Avvenire d’Italia, l’Italia, Il Cittadino di Genova, il Nuovo Giornale di Piacenza . Lascia per dovere di delicatezza ai colleghi del Consiglio nazionale la valutazione di questo grave scarto dalla disciplina che è stato tanto più nocivo al Partito in quanto si è manifestato in uno dei più autorevoli giornali aderenti. Dopo una breve discussione è stato approvato alla unanimità il seguente ordine del giorno: «Il Consiglio nazionale del P.P.I., esaminato l’atteggiamento del Corriere d’Italia durante la preparazione e lo sviluppo della battaglia popolare sulla riforma elettorale; considerato che l’adesione all’indirizzo del Partito implicava dovere di adesione non ad una mera disciplina formale, ma ad una profonda disciplina del pensiero al programma stesso del Partito ed alle unanimi manifestazioni di tutti i suoi organi responsabili; approva il richiamo alla disciplina rivolto al detto giornale dal Triumvirato reggente la Segreteria politica; e constatando la persistenza del Corriere d’Italia nella giustificazione dei deputati secessionisti e nella svalutazione dell’opera del gruppo e del partito; dichiara che il Corriere d’Italia non è più organo aderente al Partito». Il Consiglio nazionale ha così finito i suoi lavori. |
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| 41921-1925
| Salorno appartiene a quella parte della Provincia che subito dopo la guerra fu detta zona mista; come Comune però è in realtà non bilingue, ma italiano. Quando il Governo d’allora manifestò il proposito di dividere, ai fini elettorali, il territorio della Venezia Tridentina in due circoscrizioni, i rappresentanti di tutti i partiti trentini si radunarono a comizio nella corte municipale per affermare che quella zona e la Ladinia dovevano essere recuperate al Trentino. Il Governo centrale ci diede torto; ma allora col plauso di tutti, e per iniziativa di alcuni volenterosi, nacque in Bolzano la Società degli asili per l’Alto Adige, la quale si rivolse non invano alla generosità di tutta la nazione. L’asilo di Salorno è il frutto di tale iniziativa e di tale generosità. Ora la politica scolastica del Governo è mutata; ma accanto agli ordinamenti per la scuola popolare, gli asili conservano la loro funzione d’avanguardia e rimangono gli organismi più agili e più adatti per l’assimilazione linguistica e la conquista degli animi. All’Asilo di Salorno seguiranno altri; e domani si celebra non la prima pietra di un solo edificio, ma la prima pietra di una costruzione che dev’essere il tempio dell’italianità di tutta la zona di ricupero. È chiaro quindi che la cerimonia assumerà un carattere più ampio e più complessivo. Essa ricorda anzitutto un’intera storia di lotte e di sforzi che, in tutt’altre condizioni, furono compiute dai trentini, quando le autorità dello Stato erano ostili e sospettosamente vigilanti, i soccorsi dal di fuori non adeguati, se non sempre scarsi, la possibilità della propaganda ridotta, se non soppressa. Insidiati entro la stessa massa compatta italiana su alcuni nuclei della quale agivano l’oro germanico e il prestigio che la Germania industriale esercitava sull’emigrazione temporanea, i Trentini dovevano difendersi spesso tra due fuochi. Fu nell’ultimo decennio prima della guerra che la pressione diventò più forte e più pericolosa. Ma fu allora che si risvegliò più vivo, assumendo anche forme democratiche, il sentimento nazionale, creando nelle diverse correnti politiche, una concordia di propositi e di sforzi che, a guerra dichiarata, doveva poi fruttare quella bella resistenza morale che distinse il popolo nostro. Di quest’unità morale conviene oggi far getto, perché la minaccia straniera è scomparsa? Sarebbe disconoscere la delicatezza del problema civile della frontiera, sarebbe dimenticare che il ricupero e l’assimilazione di vasti strati popolari non possono durevolmente essere raggiunti che a traverso la conquista e il dominio degli animi. Onde chi vive al contatto di queste zone ha da sentire doppiamente il proprio dovere di cittadino: in prima linea, come tutti, per i rapporti cogli altri cittadini associati nella stessa Nazione, ma poi anche, e in particolare, come «cives confinarii» i quali devono dare l’esempio di quella superiorità morale, che in confronto agli allogeni, giustifica e legittima le prerogative di governo. Ecco quindi che non ci par fuori luogo, in occasione della festa di Salorno, ravvivare in noi il senso dei nostri particolari doveri e ricordare a noi e agli altri che la situazione particolare di paese di frontiera impone riguardi, cautele, limiti che nell’agitata vita politica di altre regioni possono con minor danno venir trascurati. Per conto nostro ci proponiamo di non venir meno a tale regola di compostezza e misura, augurandoci che innanzi a tutti, al di sopra delle competizioni di parte, risplenda ai cuori e alle menti quell’Italia Madre giusta e benigna verso tutti i suoi figliuoli, che fu durante la guerra tanto invocata e dopo la guerra tanto glorificata. Il rappresentante del Governo nazionale, al quale inviamo nel momento in cui tocca la nostra provincia un deferente saluto, sappia che ogni distinzione politica scompare quando è l’ora di preoccuparsi della Nazione e dei giovani cuori che dovranno assicurarne l’avvenire. |
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| 41921-1925
| I firmatari di questo documento appartengono alcuni al Partito liberale, alcuni al Partito popolare. Per quanto la loro condiscendenza risulti motivata dalle più rette intenzioni, non c’è bisogno di dire che non possiamo approvare l’atto di debolezza, compiuto da questi ultimi i quali, in assenza anche di altri consenzienti, finirono col sottoscrivere il verbale di dimissioni. Tutti coloro che in questi momenti difficili esercitano un pubblico mandato, per candidatura delle organizzazioni stesse, hanno il dovere di attenersi alle direttive delle organizzazioni stesse, anche se ciò possa costare qualche sacrificio e qualche imbarazzo. Non bisogna in nessuna maniera coonestare con atti di non dignitosa sommissione delle pressioni che rimangono illegittime, anche se vengono esercitate a mezzo di organi dello Stato. Se il governo ritiene che una amministrazione debba andarsene prima della scadenza del suo mandato, sciolga legalmente il Consiglio comunale e indica nuove elezioni. Se la situazione è veramente mutata, se a Tione o altrove il partito fascista aspira ai poteri comunali, ebbene si rifacciano le elezioni e si costituisca un nuovo Consiglio comunale. Non c’è altra via. Il sostituire invece sistematicamente la rappresentanza comunale e l’amministrazione ordinaria coll’amministrazione di un singolo commissario (misura che la legge prevede del tutto eccezionale e transitoria) significa la pratica sospensione delle autonomie o autarchie comunali che le leggi fondamentali, di recente introdotte, solennemente garantiscono e alla cui tutela è proprio chiamata l’autorità governativa. Ed ora una sobria ma franca parola sul contegno dell’autorità politica. Secondo il verbale, il capo del governo principale, cioè il prefetto, cioè il presidente della Giunta provinciale amministrativa, chiamata a sorvegliare, ma anche a tutelare l’autarchia comunale, avrebbe inviato il comm. Larcher , il quale, salvo errore, è il reggente provinciale del Partito nazionale fascista, a dichiarare che il governo non poteva «più interessarsi per il progresso del paese e per tutte quelle sovvenzioni che si rendevano necessarie per imprese locali generali», che si rendeva difficile il riordinamento della congregazione di carità, l’introduzione dello stato civile ecc. perché al Consiglio comunale partecipava anche un partito «contrario all’attuale governo». Che per tali ragioni si potrebbe giungere allo scioglimento del consiglio e all’installazione di un commissario estraneo del paese per evitare il quale guaio meglio sarebbe che i consiglieri sgombrassero anticipatamente. Non si può leggere quest’intimazione, senza un senso di tristezza. Intendiamoci bene: non parliamo come popolari, parliamo come italiani. Come popolari abbiamo, nel senso strettamente politico, un interesse scarsissimo per la compagine amministrativa del comune di Tione e di altri comuni ancora. Ma come cittadini italiani ci chiediamo se vi possa essere dottrina politica peggiore di questa, da instillare nelle ingenue masse rurali che il governo s’interessa di un paese solo se viene amministrato da questo e non da un altro partito politico, che il progresso di un comune è negato o favorito, a seconda del colore politico dei suoi abitanti, che le sovvenzioni per opere pubbliche sono concesse o rifiutate, a seconda del colore politico di chi le domanda. Non ci sarebbe dunque un criterio d’obiettiva giustizia, non ci si regolerebbe secondo i bisogni reali e secondo le esigenze economiche, ma sarebbe decisivo il pensiero politico dei censiti comunali e dei loro rappresentanti. Anzi si arriva a questo che se tra i consiglieri c’è qualche popolare, si troveranno difficoltà perfino nel sistemare gli uffici, cioè a istituire la congregazione di carità e impiantare i nuovi registri per i nati, i morti e i matrimoni! Ebbene innanzi alla cruda enunciazione di codesta dottrina politica, noi ci leviamo a difendere non il Partito popolare che non la confessa e non la pratica, ma il sistema amministrativo italiano, le sue leggi, i suoi criteri direttivi, e ci sentiamo di difendere lo stesso attuale governo e perfino – difesa quanto mai disinteressata e insospettata – il prefetto medesimo, in nome del quale tale dottrina – se il verbale è esatto – sarebbe stata promulgata. Ma come? Si portano ad esempio alcune poche amministrazioni camorriste del Mezzogiorno, si deplorano certi interventi politici e governativi che avvengono colà per influsso indebito di deputati o di ministri, ma questi esempi si portano per bollarli come deplorevoli eccezioni, in confronto di tutto il resto d’Italia, ove le amministrazioni sono buone e le autorità oggettive! Chi oserebbe trasferire tali criteri, che il governo si propone di spazzar via, fino al più remoto settentrione? Come? Mussolini è venuto a raschiar via la lebbra dei favoritismi, delle parzialità, dei soprusi, e c’è qualcuno che non vorrebbe ascrivere al suo governo l’importazione di tali metodi anche in quelle regioni, ove erano meno conosciuti, se non totalmente ignorati. Bisogna che quanti amano con intelligenza la nazione e quanti credono nella dirittura del presente governo respingano con sdegno tali insinuazioni. Liberi da servo encomio ma anche da codardo oltraggio noi siamo qui ad attestare che i principi, enunciati a Tione, non sono i principi del governo Mussolini. Le sovvenzioni, o meglio i contributi che le leggi prevedono per opere pubbliche, alle quali concorrono anche i comuni, sono in base ad un criterio generale di economia, scarse bensì, ma vengono ripartite secondo i bisogni reali. Tutti pagano i tributi e tutti fruiscono dei pubblici servizi e dei vantaggi dell’amministrazione. Sarebbe assurdo pensare che anche le autorità della provincia procedono diversamente, e siamo anzi qui ad attestare che nella Giunta amministrativa il prefetto giudica secondo i meriti, senza guardare al colore politico dei comuni. Buon Dio, qualche caso eccezionale d’influsso politico a proposito di amministrazioni lo dobbiamo ammettere (Levico, p.e.), ma supporre, che s’instauri una norma, quale s’è formulata a Tione, è fare un tale sfregio allo spirito delle patrie istituzioni e lanciare tale sospetto a carico di governanti onesti e imparziali, che riteniamo impossibile che il prefetto possa quietanzare siffatte premesse, accettandole, come motivazione delle dimissioni. In verità se i consiglieri comunali di Tione avessero manifestato di proprio impulso un tale concetto dello spirito che anima e deve animare lo Stato costituzionale italiano, essi meriterebbero di venir cacciati, come cattivi cittadini e come consiglieri proclivi alla corruzione dei pubblici costumi. Ma poiché asseriscono (e lasciamo loro la responsabilità di sì grave asserzione) che codesti furono pensieri suggeriti dal reggente fascista agli ordini del prefetto, il prefetto non troverà modo migliore per smentirli in nome suo e del reggente e per affermare alta e solenne la purezza e la giustizia dei metodi del governo nazionale che rifiutando sdegnosamente di accettare le loro dimissioni. In questa situazione può essere un castigo, ma se lo sono meritato. Un’altra volta assumeranno più esatte informazioni. Impareranno allora che di 8 mila comuni italiani solo 1500 vengono retti da fascisti, per cui se il governo vi applicasse i criteri enunciati a Tione, 6500 comuni rimarrebbero «senza progresso» e «senza sovvenzioni per imprese locali generali». Cosa assurda ed enorme tanto che nessuno ci pensa. Sapranno ancora che vi sono amministrazioni numerose, nelle quali – vedi il consiglio provinciale e il comune di Milano – fascisti e popolari lavorano assieme anche dopo il voto sulla riforma elettorale e che il Partito popolare è stato dichiarato avverso al governo di Mussolini, non per ragioni generali di politica e di amministrazione, nel momento in cui dissentì dai fascisti sulla questione della riforma elettorale. Quindi nessuna incompatibilità da parte nostra per altri campi, nei quali sia utile e doveroso, nell’interesse delle popolazioni, il concorso di vari partiti, e nessuna giustificazione a creare contrasti permanenti ed insanabili con danno evidente della popolazione e del paese. |
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| 41921-1925
| Abbiamo pubblicato domenica nel resoconto del Consiglio dei ministri il testo del decreto sul contratto collettivo di lavoro. Finora esso era sprovvisto di regolamentazione giuridica. Il suo rispetto era in balia della forza delle parti e perciò il più spesso della pura volontà del più forte. I popolari, mirando ad una reale pacificazione sociale, fecero ogni sforzo, durante il periodo incandescente del dopo guerra per regolare questa forma importantissima di contratto, per sostituire all’urto delle classi le forme arbitrali, per prevenire gli scioperi e le lotte violente con interventi di carattere superiore alle parti. La legislazione Micheli-Mauri (che oggi in gran parte il decreto ristabilisce) ebbe questo scopo; ma allora solo i popolari le furono favorevoli con convinzione e tenacia . Organizzazioni padronali, senato, alta magistratura erano decisamente contrarie. Usciti dal ministero i popolari, quei provvedimenti furono depennati. Ma la realtà e la loro bontà furono più forti del contrasto politico. I fascisti, di fronte alle rudi esigenze della realtà, hanno compreso, specie là dove riuscirono a irreggimentare cospicue masse di lavoratori, che non vi erano che due vie per risolvere le controversie del lavoro: o la lotta sistematica (socialista) o la forma legalitaria arbitrale (popolari), e volendo attuare una vera pacificazione sociale scelsero la seconda. Nel Nuovo Trentino del 24 agosto, (articolo di fondo) abbiamo notato come «fatto di legislazione sociale il programma fascista è spesso convergente col programma popolare, tanto che un organizzatore operaio fascista, il Pighetti, poteva scrivere alcuni mesi fa che il fascismo aveva accolto i postulati fondamentali del programma della Confederazione italiana dei lavoratori. Una delle più notevoli convergenze è rappresentata dalle rivendicazioni popolari e fasciste circa l’obbligatorietà dei patti collettivi». E proseguiamo rammentando il tempo in cui l’onor. Longinotti patrocinava la causa della disciplina del contratto di lavoro agricolo e i provvedimenti degli on. Micheli e Mauri riguardo alle Commissioni provinciali di conciliazione mediante i decreti del 14 settembre 1919, 12 novembre 1921 e 2 febbraio 1922, alle rivendicazioni recentissime, odierne della Confederazione italiana dei lavoratori: è una linea ideale, programmatica ininterrotta. «Già – nota Il Popolo. Linea ideale programmatica ininterrotta di postulati faticosamente sostenuti contro tutte le miopie agrarie, social-democratiche e (perché no?) anche fasciste». E fu il gesto dell’on. De Capitani (che non esitiamo a ripetere con Sturzo esser stato «gesto che per la sua improvvisazione peccava purtroppo di demagogia al rovescio») nuovo ministro assurto a reggere l’Agricoltura con preconcetti «agrarii» sovratutto antipopolari, che soppresse le valide Commissioni provinciali e mandamentali, primo accenno di legislazione sociale-agraria per la disciplina dei concordati collettivi. La marcia su Roma, nonché sviluppare quei concetti legislativi, annullava d’un tratto il faticoso operato nostro tra i facili applausi del momento contro il «sinistrismo popolare» Luigi Sturzo, a Torino, nel discorso del 20 dicembre, doveva constatare che «le battaglie per le leggi agrarie oggi sembrano perdute, tutte, dallo spezzamento del latifondo alla costituzione degli arbitrati agricoli, dalla costituzione delle Camere regionali d’Agricoltura alla definizione degli usi civili e alla regolamentazione dei patti agrarii». Ma tosto aggiungeva: «Ma per noi la battaglia continua; le ragioni oggettive, reali, vere, profonde, del rinnovamento agrario lo impongono». Poteva sembrare che queste parole e quelle altre che la direzione del Partito esprimeva, in un vibrato ordine del giorno, rivendicante le benemerenze delle Commissioni arbitrali e della legislazione sociale propugnata dai popolari, dovessero tosto perdersi nel frastuono che la nuovissima politica dell’ora andava sollevando. Al Congresso di Torino il segretario politico ribadiva il chiodo del nuovo regime da darsi ai contratti agrarii «per il quale si tende dai popolari (d’intesa con la Confederazione bianca) a introdurre per legge tre disposizioni di massima: il principio del contratto agrario poliennale, l’arbitrato per le vertenze collettive con la giurisdizione speciale ecc.». Le citazioni sono numerose ma necessarie. Ed ecco sopravvenire il fatto nuovo. Le stesse corporazioni fasciste, improvvisamente a Roma, chiedono la «legalizzazione dei contratti» e l’«arbitrato immediato e inappellabile». I fasci bolognesi alla loro volta auspicano provvedimenti che sanzionino l’obbligo dell’applicazione dei «concordati collettivi». Siamo in piena revisione. Né il Governo è sordo a queste richieste, tantoché sabato scorso il Consiglio dei ministri esamina ed approva uno schema di decreto redatto dal ministro Guardasigilli, con quello dell’Economia nazionale «per la disciplina dei contratti di lavoro». Non possiamo che compiacercene. Può sembrare superfluo rilevare il beneficio che la validità giuridica del concordato collettivo di lavoro socialmente arreca in quanto si tolgono i due contraenti da quell’atmosfera di immanente lotta determinata dalla possibilità che l’una parte, prevalendo, abbia a disdire gli accordi. L’affidare il contratto alla applicazione giuridica, tende a mobilitare quella tensione irosa dei sindacati che, prolungata, influisce nocivamente sulla politica come già non vi fu estranea negli eccessi bolscevichi e nella sopravvenuta ondata reazionaria. Né qui sappiamo tacere un opportuno richiamo al pensiero dei socialisti (edizione millenovecentoventuno) rigettante la tesi del riconoscimento giuridico, e sostenente invece che la pressione continua dei sindacati operai per costringere i datori di lavoro all’applicazione dei concordati, era utile addestramento alla lotta di classe. Ma se l’arbitrato ci trova consenzienti, non possiamo tuttavia dichiararci totalmente soddisfatti dell’odierno decreto, circa il quale crediamo doverosi alcuni rilievi di carattere tecnico. Eccoli in breve. Strettamente connesso con la predetta validità affidata all’arbitrato obbligatorio era per noi anche il riconoscimento giuridico del Sindacato. L’uno ammette implicitamente l’altro. E questo si dice non solo per rilevare come le riforme presuppongono tutto un piano organico che ancora sembra difetti nel legislatore, ed anche nel voto di quelle tali organizzazioni che il ministro Guardasigilli ha voluto ascoltare. Ma anche per l’impossibilità di applicare esattamente il decreto stesso. Infatti, a tutt’oggi, ci sanno dire il Governo, o le Prefetture, o il presidente della nuova Commissione arbitrale, chi sono esattamente i soci delle organizzazioni sindacali contraenti? Chi conosce i sindacati, sa quale continuo flusso di aderenti e di «inadempienti» caratterizza l’attuale aspetto di associazioni «esistenti solo di fatto». È vero che le Prefetture dovrebbero ancora possedere un elenco delle sezioni componenti le varie organizzazioni sindacali, in base ad una specie di censimento fatto nel 1921. Ma trattasi di sezioni e non di soci, e poi nessuno s’illude che dal 1921 ad oggi il campo sindacale non abbia subito notevoli trasformazioni. Basterà un elenco di nomi da presentarsi allegato al testo del nuovo concordato collettivo? Il decreto non lo dice. Questo punto va chiarito e precisato poiché è evidente che tutti coloro pei quali l’applicazione dell’accordo costituisce un onere o un minor guadagno, tenderanno a sottrarsi dall’impegno assunto collettivamente dalle Associazioni. Non taceremo, infine, un altro rilievo. Dato che l’inscrizione nel sindacato di categoria non è obbligatoria, necessita che il decreto ponga in una condizione di inferiorità i non inscritti, coloro cioè che non si sottopongono volontariamente all’onere che in determinati casi il rispetto al concordato collettivo comporta. Altrimenti si determinerà in alcuni momenti fra i datori di lavoro una tendenza a togliersi dalle Associazioni agrarie, padronali ecc. per stipulare a condizioni migliori contratti individuali. Per l’identica ragione questa tendenza avrà sviluppi in altri momenti nell’elemento operaio. E saremo – quasi d’accapo. Comunque consideriamo il nuovo decreto come un primo passo che abbia convergenze sempre maggiori verso i nostri postulati in fatto di «legislazione sociale». |
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| 41921-1925
| Nel momento in cui fu in gioco il prestigio d’Italia nel mondo, l’opinione pubblica italiana diede di nuovo uno spettacolo consolante. La stampa greca, qualche giornale inglese e tutti i fogli dell’internazionale rossa avevano manifestata la speranza che il gesto di Mussolini fosse l’atto d’impulso d’un dittatore, dietro il quale stesse il popolo muto e l’opposizione antifascista s’appiattasse in agguato, per trar vantaggio da eventuali errori del partito dominante. Per giustificare tale speranza alla stampa estera non mancavano indizi, suggeriti dalle lotte della politica interna italiana. Quando organi autorevoli del partito che governa, cercano di identificare il proprio partito colla Nazione, tentando di relegare gli altri tutti nell’Antinazione, è naturale che all’estero qualche malevolo possa far credere che in Italia esistano milioni di uomini e correnti notevoli della vita pubblica le quali non sentono né coltivano l’amor di patria; tanto che nei rapporti internazionali più agevole riesca il trascurare il prestigio e lo svalutare la forza morale d’Italia. Non occorrono speciali cognizioni demografiche e statistiche, per concludere che, se coloro che in certa stampa vengono proclamati «nemici della patria» alla Patria fossero davvero ostili o anche solo tepidi ed incerti amici, l’Italia sarebbe uno Stato moralmente parlando indebolito, anche se potesse disporre di accresciute forze militari. Ma per fortuna la stampa estera, prendendo certe violenze verbali troppo alla lettera, si è ingannata; e ha dovuto disilludersi. I così detti «nemici», i popolari in testa, si sono affrettati a dichiararsi con tutta l’energia per l’azione del governo, non discutendo, non criticando, non sollevando obiezioni, ma proponendo in questo momento di dare all’estero la sensazione che l’on. Mussolini, nell’atto che difende i diritti e il prestigio della Nazione, interpreta il pensiero e il sentimento di tutto il popolo italiano al di sopra delle interne divisioni. Questa voce non riuscirà all’estero come sospetta d’ufficiosità: è la voce dei giornali di un partito che è tenuto lontano dalla più piccola briciola del banchetto ministeriale, di un partito che ebbe in molte provincie le sue organizzazioni vessate, le sedi devastate, i giornali incendiati, le sue amministrazioni comunali e provinciali defenestrate. Questa voce quindi è libera e sovrana e non esce fuori dallo stridore della chiassosa contesa d’ogni giorno, ma sorge su pacata, solenne, irresistibile, dalle profondità della coscienza nazionale, ed è la vox sanguinis, l’eterno canto della Patria. Il mondo non può aver dubbi che se domani il popolo italiano fosse chiamato a ulteriori sacrifizi, rinnoverebbe con la stessa unità morale il morale della resistenza dopo Caporetto. Molto meno sarebbero fondati dei dubbi riguardanti la nostra terra trentina riguadagnata da poco all’Italia. Che importa se qualche autorità, dimentica che non rappresenta il Governo di un periodo, ma la Patria secolare, infligge odiosi ostracismi e, se potesse, condannerebbe alla morte civile? Che importa se in qualche comune per l’arrembaggio dei posti, s’ingabbia la Patria entro le sbarre di un partito? Niente paura! Nessuna pusillanimità. Fare a fronte alta il proprio dovere con dignità, con coscienza. E guardare all’Italia! Superare coll’onestà e colla tenacia dei propositi le diffidenze irragionevoli, alimentate da certi sfruttatori. E guardare all’Italia! Resistere all’impulso di una reattività troppo spesso messa alla prova e fare opera di pace e di ordine e tener alta la legge. E guardare all’Italia! Non dubitate! Verrà giorno in cui questo popolo svalutato ora da una raffica ostile nella sua massa di contadini, d’impiegati e di piccolo borghesi, s’imporrà al giudizio di governatori e commissari; sentiranno allora che queste sono sempre le masse del 1918 che, lagrimando di gioia, accoglievano cogli osanna l’Esercito liberatore; che sotto la crosta mentale vibra un cuore saldissimo provato da dolori che altri non conobbe e che quando sopra l’anonima folla si leva il tricolore vi si ricostituisce immediatamente quell’unità morale che nei primi anni del dopo guerra attutì le lotte di parte e mortificò ogni asprezza della vita pubblica. E forse concluderanno che questo popolo si è conquistato il diritto di godere maggior fiducia. Intanto, consapevoli dei doveri e dei diritti in uno Stato libero e forte, guardiamo soprattutto all’Italia! |
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| 41921-1925
| A proposito di crisi amministrativa, altra volta abbiamo richiamata l’attenzione dei lettori sul caso della provincia e del comune di Milano . Ora che il caso, almeno per quanto riguarda le linee generali, è definito, sarà opportuno trarne le legittime conclusioni. Nella provincia di Milano, come in parecchie altre, era scoppiata durante l’agosto l’offensiva fascista contro le amministrazioni popolari, la quale mirava a interrompere quella collaborazione dei partiti del blocco nazionale che nelle passate elezioni s’era attuata, sia col costituire amministrazioni di blocco, sia col dividere la sfera d’influenza di ciascun partito, tanto che anche per la provincia s’erano avute elezioni tranquille. Ora, i direttori di questa offensiva fascista erano arrivati al punto da mettere i popolari innanzi a questo dilemma: o i popolari ci concedono una rappresentanza anche nelle loro cooperative e leghe e inoltre dichiarano di essere contro la «tendenza sturziana e migliolina» del partito popolare (tale la curiosa dizione), ovvero noi renderemo impossibile qualsiasi collaborazione con loro in tutte le amministrazioni pubbliche della provincia. Come abbiamo riferito a suo tempo, i popolari, radunati a Monza , respinsero subito la prima richiesta, rilevando che le cooperative sono società economiche con propri statuti e di diritto privato, onde non è possibile confonderle colle amministrazioni pubbliche. I fascisti compresero anch’essi l’assurdità della proposta e non v’insistettero. Con tanto maggior accanimento si gettarono invece sulla seconda, ch’essi dissero indispensabile per la necessaria chiarificazione. Ma i popolari non pronunciarono né scrissero una parola che ledesse la loro dignità e la lealtà verso il partito popolare. Risposero d’essere collaborazionisti convinti in tutto l’ambito delle amministrazioni della provincia e, politicamente, d’apprezzare l’opera ricostruttrice del governo, ma di considerare le tendenze del partito popolare come questione interna sulla quale persone appartenenti ad altri partiti non avevano diritto di sindacare e molto meno d’esigere dichiarazioni. Dinanzi a questa fermezza, i capi fascisti che dirigevano la battaglia provocarono, com’è noto, la crisi della Deputazione provinciale, imponendo le dimissioni dei deputati prov. fascisti, liberali e democratici. Ma la crisi provinciale metteva in pericolo anche la compagine del comune di Milano, dalla cui Giunta i popolari minacciavano di ritirarsi, quando i fascisti li avessero spinti all’opposizione in provincia. Ciò non era gradito al sindaco e agli stessi consiglieri fascisti, tanto che lo stesso Popolo d’Italia esprimeva il dispiacere per la eventuale uscita dei popolari. In questo momento i consiglieri e deputati popolari, di fronte ad una tendenziosa narrazione della crisi, pubblicata dai fascisti, presentavano un memoriale allo stesso presidente del Consiglio, chiedendogli di voler intervenire con un suo imparziale giudizio. L’on. Mussolini incaricò il prefetto di farsi mediatore di nuove trattative e, dopo che le due parti si erano rimesse alla sua decisione, il prefetto stabiliva che 1) nessuna ulteriore dichiarazione dovesse venir chiesta o data dai popolari, 2) che la crisi non dovesse allargarsi dalla provincia al comune, ove i popolari rimangono quindi a collaborare coi fascisti, 3) che i popolari nella provincia avessero in ogni commissione i rappresentanti che spettano al loro numero di consiglieri, 4) che le elezioni alla Deputazione provinciale, per sostituire i tre popolari dimissionari si facessero non più per accordi di blocco, ma per libere intese fra i singoli consiglieri. Tali elezioni non sono ancora avvenute e non si sa quindi se verranno rieletti tutti o parte dei popolari a far parte della deputazione: ma ciò diventa, per le conclusioni generali che dal caso si possono ricavare, irrilevante. La caratteristica invece di questa crisi è che fu voluta da fiduciari locali dei fascisti per bandire i popolari dalle amministrazioni, a meno che non rinnegassero la disciplina formale e sostanziale che li lega al partito popolare; e più caratteristico ancora è che il prefetto (ed è un prefetto fascista), seguendo precise istruzioni di Mussolini, pronunciò un lodo che argina la crisi, tende a rinsaldare la collaborazione amministrativa dei popolari cogli altri partiti nazionali, rinunziando ad esigere umilianti o insincere dichiarazioni di carattere politico. E, badate bene, i popolari furono prudenti, saggi, ma fermi, rimettendosi coloro che tenevano i mandati alle decisioni del comitato provinciale del partito e facendosi accompagnare nelle trattative dai deputati popolari. Ebbene, come si concilia la direttiva di Milano con quella di certe altre provincie, nelle quali, cedendo ai «ras» locali, le autorità politiche congiurano coi gruppi più anticlericali del fascismo per demolire le amministrazioni popolari, tentando di dar loro dovunque l’ostracismo, sotto il pretesto che i popolari furono proclamati nemici della patria? E qui la risposta alla domanda è già una conclusione. La seconda riguarda più direttamente i nostri amici. La politica più utile e – ci si passi la parola – più redditizia è la politica dell’onestà, della dignità, della lealtà, in confronto dei propri pubblici impegni e del proprio partito. Siffatta condotta finisce coll’imporsi anche agli avversari. I girella, gli opportunisti, i vili finiranno col cadere in dispetto di coloro stessi che oggi ne sfruttano le debolezze. |
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| 41921-1925
| Il comitato provinciale (direzione regionale) del partito popolare ha tenuto sabato la sua prima riunione dopo le vacanze estive. Il segretario onor. Degasperi ha riferito sulla situazione politica della Provincia, ricordando in primo luogo lo scioglimento della Giunta provinciale straordinaria. Questo consesso provvisorio era stato nominato dal Governo coi poteri della vecchia Giunta e della vecchia Dieta provinciale nell’attesa che il nuovo assetto amministrativo, il quale in base alla legge sull’annessione e in armonia ai voti di tutti i partiti politici delle Nuove Provincie, consultati allora a Roma, doveva contemperare le prerogative locali colla legge generale amministrativa del Regno, permettesse di costituire colle elezioni l’amministrazione normale. Nelle nomine il governo tenne conto dei risultati delle elezioni politiche del 21, scegliendo gli assessori tra i vari partiti in proporzione delle loro forze: così gli assessori, in tal modo nominati, erano anche i fiduciari della regione. Il modo brusco e urtante col quale si procedette allo scioglimento, diretto contro uomini altamente benemeriti, modo che destò sorpresa anche tra le alte sfere di Roma, si doveva sentire come un’offesa da quanti conoscono uomini e cose della regione e mantengono vivo il senso della propria dignità. Noi rinnoviamo a nome del partito, al senatore Conci ed ai suoi egregi collaboratori, l’attestazione del nostro immutato attaccamento, assicurandoli della solidarietà di tutti coloro che per anni ed anni ne hanno accompagnata ed ammirata l’opera in favore del paese. L’offensiva contro i Comuni Lo scioglimento dell’amministrazione provinciale provvisoria fa parte dell’offensiva contro gli enti locali in genere. Con pressioni, minacce, intimidazioni si è tentata e in qualche caso si è raggiunta la scalata dei comuni, annullando il voto degli elettori. Quanto avviene su questo terreno è completamente contraddittorio al programma di ricostruzione nazionale del Governo. Tale programma vuole infatti che si cessi dall’abuso d’intromissioni politiche nelle amministrazioni e si concentrino tutte le forze nel riassetto delle finanze locali dissestate dalla guerra. Siffatta azione è improrogabile specialmente nelle N. Provincie, nelle quali, oltre il sanamento delle finanze, è urgente il loro riordinamento secondo le nuove leggi e dev’essere in genere applicata una nuova legislazione complessa che modifica in moltissimi casi le norme e costumanze vigenti. Ebbene il Trentino dava e dà tuttora l’esempio di un’azione amministrativa apolitica, giacché non solo a Trento e a Rovereto, ove collaboravano, in forza della proporzionale, tutti i partiti, ma anche nella campagna sono frequenti i casi di collaborazioni interpartitali e sono normali le amministrazioni apolitiche. Quale doveva essere il compito dell’autorità, secondo il programma fascista, se non quello di vigilare, aiutare col consiglio e colla funzione ispettiva tali amministrazioni di buona volontà, affinché superassero senza scosse il periodo non facile dell’assimilazione alle nuove leggi? In parecchi casi invece si è fatta non politica fascista, ma azione «rassista». Favorendo tumultuarie e non disinteressate iniziative locali o in ossequio alle faziose imposizioni dei «ras» regionali, si è imposta, usando ed abusando delle norme di legge, la cessazione della amministrazione ordinaria, eletta dal popolo, per sostituirvi delle investiture, che con criterio partigiano, dovrebbero essere largite quale premio a questo e a quel partito e inflitte come rappresaglia politica all’altro partito. Il caso più tipico è forse quello di Levico, ove un’amministrazione di modesti galantuomini che a garanzia dei loro propositi apolitici avevano sollecitata la collaborazione di persone d’altro partito, si videro sostituiti improvvisamente da un commissario regio senza che fosse avvenuto lo scioglimento del Comune e senza una motivazione o comunicazione qualsiasi, se pur non devono valere per tali i comunicati del fascio locale. Contro tali sistemi noi leviamo la nostra protesta. La meta dell’offensiva Comprendiamo benissimo la meta di quest’azione: si tenta di capovolgere la situazione politica del Trentino, impadronendosi dei Comuni, per usarne poi a scopo politico elettorale, come allo stesso scopo tendono cert’altre fatiche, che sono rimaste finora vane e rimarranno inutili, compiute per disgregare la nostra compagine. E a questa lotta politica, che dovendosi fondare, specie nella campagna, sui soliti elementi anticlericali (socialisti, riformisti, bolscevichi, massoni quando il vento soffiava per quel verso ed ora pseudofascisti) noi apprestiamo gli spiriti col proposito tenace di difendere non un seggio municipale né un mandato politico, ma un patrimonio d’idee e d’istituzioni, alle quali abbiamo consacrato tanti anni di lavoro, e colla certezza assoluta che la maggioranza del nostro popolo non muterà né convinzioni né bandiera. Ma intanto, a parte ogni considerazione di partito, bisogna resistere a codesta sfiducia nella forza delle leggi, nell’imparzialità degli organi statali, nell’oggettività dell’amministrazione. Bisogna affermare che l’attuale governo vuole il più completo ritorno alla legalità e che anche nelle amministrazioni è venuto non a peggiorare quello che si era usi chiamare giolittismo, ma a distruggerlo. Al cinismo di codesta pratica malsana bisogna opporre la fede nella rinascente vitalità dello Stato, che saprà infine imporsi a tutti i faziosi. Bisogna credere e, avendo fede, bisogna resistere. L’essenziale non è di perdere o di guadagnare un seggio, l’essenziale è di dar prova di resistenza morale non facendoci complici né per debolezza né per interesse di sistemi che, una volta introdotti, corromperebbero permanentemente i pubblici costumi. Il relatore è lieto di rilevare che anche molti liberali hanno rifiutata tale complicità, dando esempio di una dignitosa fierezza che altri crede più opportuno riporre in soffitta, per cavarsela forse in quel periodo immancabile in cui sarà di nuovo decisivo il libero voto dell’opinione pubblica La proibizione d’un congresso cattolico L’on. Degasperi ricorda infine la proibizione del congresso cattolico universitario, atto che non risponde a nessuna direttiva politica di Governo, perché il Governo ha dichiarato di voler proteggere le legali manifestazioni dell’Azione cattolica. Il partito popolare che nell’Associazione universitaria cattolica riconosce una delle forze più benemerite per l’elevazione morale e culturale del popolo, unisce la sua protesta al fiero monito della Suprema Autorità religiosa della provincia. La relazione dell’on. Degasperi che qui riferiamo in breve riassunto, promosse fra i membri del Comitato un largo dibattito il quale concluse colla unanime adesione ai pensieri fondamentali esposti dal segretario e portò a parecchie deliberazioni di carattere interno circa l’intervento della segreteria, dei deputati, e circa norme dell’attività da svolgersi. L’opera legislativa del Governo Venne infine riferito e discusso sullo stato attuale della legislazione per gl’invalidi di guerra e per i congiunti dei caduti e data comunicazione di un telegramma tranquillante da Roma dell’on. Tamanini circa l’insegnamento religioso nelle scuole. Mentre il comitato provinciale riconferma l’integrale programma dei popolari per quanto riguarda l’organizzazione scolastica, riconosce tuttavia che l’attuale Governo ha tenuto conto in parte notevole dei desideri della popolazione anche delle Nuove Provincie. Le sezioni trentine del partito vanno ricostituendo la loro efficienza numerica. Tranquilla fiducia L’attività pubblica è naturalmente ridotta, ma la coscienza è salda e sicura. Gli attacchi degli avversari antichi e nuovi, non la smuovono. Il comitato provinciale attende dagli amici che dirigono le organizzazioni popolari, vigilanza, fermezza, saggezza e sovratutto fede nell’avvenire del partito e nelle sorti della Nazione alla quale il partito deve servire. Nessun sopruso nessun travaglio di quest’ora può attenuare la nostra certezza che la legge, la normalità, la costituzionalità, la libertà nell’ordine e nella disciplina, celebreranno un prossimo ed un integrale ritorno e che la massa popolare trentina, che oggi gli sfruttatori d’un conflitto politico vorrebbero bandire dalle competizioni civili, sarà richiamata a dare al risanamento della vita pubblica il modesto ma onesto contributo della sua rettitudine politica e del suo equilibrio sociale. |
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| 41921-1925
| I principii del sindacalismo fascista – Un’affermazione errata – La storia della nostra dottrina sociale – La lotta semisecolare contro il socialismo – Principii nuovi fissati in vecchi programmi – L’atteggiamento dei cristiano-sociali e dei popolari – La nostra opera nel Trentino – I pionieri della legislazione sociale – Valutazione del sindacalismo fascista – Una formula vecchia in veste nuova. Il capo delle corporazioni fasciste si è indugiato per tre quarti del suo discorso di Trento e di Rovereto in una critica del movimento socialista e del partito che lo ha rappresentato in Italia, opponendo ai noti concetti del socialismo i principii programmatici del sindacalismo fascista. Essi sono: solidarietà nazionale e collaborazione di classe contro l’internazionalismo e la lotta di classe; «il lavoro ha dei doveri, ma anche dei diritti in confronto della patria», principio affermato contro la tendenza socialista di esasperare negli operai l’unilaterale consapevolezza dei propri diritti; e infine, di contro al concetto rivoluzionario, ha ricordato che le sue corporazioni tendono alla rappresentanza del lavoro e a far intervenire lo Stato – com’è già intervenuto colla legislazione sul contratto collettivo e sulla giornata di 8 ore – a proteggere le forze lavoratrici. Queste linee direttive hanno subito qua e là nei discorsi una preoccupante deviazione, come quando disse: «se le forze industriali non vogliono collaborare noi entreremo in lotta perché il lavoro riconciliato con la patria va assolutamente rispettato», e i principii sociali e sindacali sono comparsi qua e là permeati e confusi coi criteri e coi metodi del fascismo politico; ma delle deviazioni e delle interferenze preferiamo, in questo nesso, non occuparci. Teniamoci alle linee direttive sindacali. Ora, a proposito di queste, il Rossoni ha affermato che vi sono contenuti dei «veri principii economici “nuovi”, almeno nel metodo e nella fissazione dei rapporti fra le classi». In secondo luogo egli ha accomunato i popolari coi socialisti, affermando che i «popolari hanno assunto le stesse posizioni dei socialisti» e che hanno la stessa mentalità. Intendiamo ribattere e provare infondate contemporaneamente queste due affermazioni, ricordando che cosa è e che cosa fu da cinquanta anni in qua il nostro movimento sociale cristiano. Questo movimento ebbe origine, come il socialismo, in Germania, ove Ketteler oppose propaganda e organizzazione alla predicazione socialista di Lassalle. Se si leggono i discorsi e gli scritti polemici del vescovo di Magonza – e siamo al 1867-1870 – si trova già precisata l’antitesi fra socialismo e cristianesimo sociale, oltre che nei riguardi religiosi, anche sui rapporti fra capitale e lavoro, sulla lotta di classe, sul compito delle corporazioni o dei sindacati, sui doveri dello Stato. La lotta ingaggiata allora fra cattolici o meglio cristiani (giacché vi parteciparono coi cattolici in qualche misura anche i protestanti) e i socialisti riempie coi suoi episodi formidabili tutto il resto del secolo decimonono. I cattolici si batterono nel campo della dottrina, sviluppando la critica scientifica del marxismo in volumi e trattati che poi venivano tradotti o sfruttati letterariamente dai propri consenzienti in Francia, in Belgio, in Italia, in Spagna, a mano a mano che in quei paesi faceva breccia la dottrina socialista. In un tempo nel quale la gioventù universitaria era quasi tutta abbagliata dall’ideale socialista, la sola filosofia, la sola sociologia, la sola economia politica che si batteva efficacemente contro il marxismo fu la cattolica; ed ebbe, accanto ai tedeschi, tra i francesi e gli italiani, dei cultori validissimi. Fu questa dottrina che venne poi fissata da Leone XIII nelle sue encicliche e formulata nelle conferenze per gli studi sociali di Friburgo e volgarizzata nei congressi cattolici di tutti i paesi. Leggano i novatori, per sceglierne un esempio più vicino, il programma «dei cattolici di fronte al socialismo» deliberato nell’assemblea dell’«Unione per gli studi sociali» in Italia, tenuta in Milano nel gennaio del 1894 e poi affermino, se possono, d’aver scoperto dei principii nuovi e che i popolari, i quali socialmente parlando non sono che dei cristiano-sociali, hanno assunto le stesse posizioni dei socialisti. In essi, dopo fissati i concetti cristiani del lavoro, del capitale, della proprietà privata e richiesto, in debita misura, l’intervento dello Stato, il manifesto rileva che «la guarentigia più solida del ristauro è riposta nella ricostituzione di Unioni professionali (o corporazioni) nelle popolazioni civiche come nelle campagnole, dove in distinti grembi trovino solidarietà d’interessi e di affezioni i grandi e i piccoli per tutto ciò che tocca i fini comuni del viver civile, e dove in particolare rinvengano tutela e decoro le classi lavoratrici. Unioni professionali che pertanto non hanno uno scopo economico solamente, ma mirano nel solo risultato alla composizione organica della società, oggi polverizzata a un diffuso e guasto individualismo… Bisogna tener alto e fulgido innanzi a noi lo scopo supremo e finale cui miriamo, che è quello della ricostituzione dell’ordine sociale cristiano cattolico e di esso soltanto… Nulla noi dimandiamo al socialismo dottrinale … perché il socialismo è la negazione intrinseca del cristianesimo e il suo programma è l’antitesi del nostro. Il socialismo è ateo, e noi siamo religiosi; esso atterra la proprietà particolare, e noi vogliamo rinfrancarla e diffonderla; esso è distruttore, e noi vogliamo ricostruire l’ordine gerarchico, e per esso la libertà legittima, l’eguaglianza proporzionale, la solidarietà negli intenti finali del viver civile …». Pensieri che nel 1901 saranno riassunti dal congresso democraticocristiano di Milano, affermando che la lotta degl’interessi e delle classi nella produzione e nella vita pubblica è un fatto anormale e doloroso, accettando lo sciopero solo come mezzo anormale e transitorio e dichiarando di voler tender «a rimuovere la presente anarchia dei rapporti economici, mediante la costituzione e il riconoscimento legale della rappresentanza degl’interessi, l’organizzazione corporativa e la determinazione per legge dei mezzi di intesa e accordo fra le varie classi». E a siffatte direttive rimase fedele anche il partito popolare, sorto nel dopoguerra; e basta leggere le relazioni dei suoi congressi, i quali pur in mezzo ai fermenti rivoluzionari del ’19 e del ’20 riaffermano il diritto di proprietà contro il comunismo e lo spirito di solidarietà nazionale contro l’internazionalismo di Mosca. A controllare la continuità della direttiva cristiano sociale basterebbe l’appello del Consiglio nazionale del partito popolare pubblicato all’indomani dell’occupazione delle fabbriche, nel quale si parla ai lavoratori ben diverso linguaggio che quello dei bolscevichi. Né si vorrà dire che altra fosse la dottrina e altra la pratica. In tutte le nazioni cattoliche, specie dopo la Rerum Novarum, fu un rifiorire di sindacati, di cooperative, di leghe professionali. Se la Germania e con essa l’Europa non furono sommerse dal comunismo moscovita, lo si deve in gran parte ai sindacati cristiani che formarono contro la fiumana russa una diga insormontabile. Anche in Italia i cattolici furono per lungo tempo i soli a salvaguardare le popolazioni – specie nella campagna – dal socialismo, come nel famoso sciopero del luglio 1920 i ferrovieri furono i soli a resistere agli ordini di Mosca. Ma per lungo tempo essi trovarono nei governi e nella borghesia un’ostilità ostinata, mentre stampa, burocrazia e plutocrazia accarezzavano i socialisti, i quali, forti di questo consenso, attaccavano i cristiano sociali villaggio per villaggio, boicottavano i bianchi negli opifici e li bandivano dalle organizzazioni, gridando ai crumiri con un accanimento che i capi fascisti di oggi, venuti in gran parte dal socialismo, devono ancora ricordare. Né vale contro la storia di mezzo secolo e l’atteggiamento di milioni citare un episodio, più o meno esagerato, di Cremona. Cremona, non è l’Italia, si è detto a proposito di Farinacci e lo si può ripetere per Miglioli, il quale del resto chiuse la sua agitazione col famoso lodo Bianchi , che si fonda sulla collaborazione di classe ed ebbe approvazioni, fra l’altro, da S.E. Serpieri ora viceministro nel gabinetto Mussolini. Sovratutto è ridicolo liquidare la partita coi cattolico-sociali del Trentino citando Miglioli. Qui sono sorte centinaia d’istituzioni di credito, di consumo, di produzione sotto l’impulso dell’Azione Cattolica; qui queste associazioni furono quelle che impedirono ai socialisti di fare del Trentino una «gran macchia rossa», come avevano progettato; qui queste organizzazioni si devono allo spirito di solidarietà, all’onestà cristiana, all’amore del natio loco del nostro popolo; e l’Austria non c’entra, o c’entra, se mai, perché fu impedita per esse di tedeschizzare le masse rurali. Il Rossoni ha ricordato però, quasi fosse invenzione e merito solo del fascismo, che l’attuale gabinetto fissò la giornata di 8 ore e regolò il contratto di lavoro. Egli si è dimenticato però di aggiungere che Mussolini scelse per suo ministro del Lavoro un popolare, non ignorando che i pionieri della legislazione sociale, da Hitze in Germania a Gessmann in Austria e De Mun in Francia a Rutten in Belgio furono i cristiano-sociali e che i popolari in Italia, fra gli attacchi rivoluzionari dei rossi e l’indifferenza ostile dei liberali, furono il solo partito che insistette alla Camera per risolvere i problemi della distribuzione della ricchezza agraria e industriale. Detto questo per nostra legittima difesa e per avvertire che invano si vuole ridurre i nostri principii che discendono da sì esperimentata dottrina e la nostra opera che è legata all’elevazione morale e materiale del nostro popolo (da trenta anni in qua) da un miserabile episodio di sfruttamento politico-elettorale, sul quale basti lanciare le ire degli ex socialisti, convertiti al fascismo, o lo sfavore delle autorità governative, per decretarne la fine, noi non imiteremo gli avversari nel negare un’equa valutazione al loro movimento. Sarebbe facile ricordare come e perché certi sindacati sorsero, come e perché le masse socialiste, che si vorrebbero convertite, se ne stiano mute in disparte e sarebbe agevole porre quesiti imbarazzanti intorno alla soluzione che il sindacalismo fascista propone alla questione sociale. Preferiamo invece ammettere al fascismo il diritto di dare la prova delle sue capacità sociali e l’obbligo per i non fascisti di attendere per un certo periodo come l’esperimento in atto si svolga: come cioè in un periodo di libere competizioni e di normali rapporti, quando saremo usciti dalla depressione economica che paralizza ogni forza sociale, il problema della organizzazione del lavoro e del capitale verrà risolto. Riconosciamo frattanto che la predicazione della solidarietà nazionale, del lavoro disciplinato, della costituzione ordinata della società, rappresentano, in confronto della passata anarchia, un progresso notevole. Ma le frasi che il Rossoni (come, peggio di lui, tanti altri propagandisti in altre provincie) ha dedicato ai rapporti fra religione, gli affari e la politica ci risuonano come un’eco del passato. La religione e gli affari sono due cose diverse: banale verità! Cristo si onora in chiesa, ma non si conia sulle palanche: è ciò che accade. Ma se si vuol dire che i problemi sociali ed economici si debbano e si possano risolvere senza far ricorso ai valori dello spirito e sovratutto all’ispirazione del cristianesimo, eccoci tornati al medesimo errore che i socialisti diffondevano, predicando che la «religione è cosa privata», eccoci tornati ai tempi, in cui i capoccia socialisti, con una citazione di s. Paolo e con esplicita professione di rispetto ai sentimenti religiosi, inauguravano anche nel nostro Trentino la divulgazione del marxismo. Gli applausi che Rossoni riscosse, a questo punto, a Rovereto e a Trento ci ricordano gli applausi, largiti al Vilpian, a Piscel o Costanzi . Noi siamo oggi come allora del parere che il problema non si risolve considerando il lavoratore come una macchina (ed era il pensiero degli economisti liberali) o come cittadino semplicemente (ed era il pensiero dei socialisti) né come figlio della stessa nazione (e sembra il pensiero dei fascisti), ma come persona umana e cristiana nella pienezza della sua dignità di libero figlio di Dio. |
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| La coscienza cristiana e lo stimolo nazionale – Internazionalismo e tendenze internazionali – I fatti del movimento cristiano-sociale – L’organizzazione padronale – Colpe imperdonabili dei bianchi e candore battesimale dei commendatori Una «risposta al Nuovo Trentino» pubblicata dal Giornale di Trento riguarda il nostro commento al discorso Rossoni. La risposta, stesa in tono pacato, indurrebbe a continuare la discussione, se le troppe affermazioni ch’essa contiene non fossero gratuite o i pochi argomenti addotti in loro appoggio non fossero già anticipatamente ribattuti nel citato commento. Ma in fondo, senza poter seguire la lunga risposta «per li rami», ci pare che il nostro contraddittore voglia dir questo: 1. Le vostre saranno belle dottrine, ma rimangono parole. I sindacati fascisti invece attuano e realizzano quello che c’è di buono nelle vostre e nelle altrui teorie. 2. Voi, sorvolando la nazione, vi basate sulla coscienza cristiana, ma essa non basta; «occorre invece lo stimolo vicino e reale dell’interesse nazionale». Al posto dell’internazionale rossa, scrive il Giornale di Trento, ad un altro capoverso, il sindacalismo bianco pone la propria internazionale improntata alla fratellanza di tutti i popoli nella fede di Cristo. «Indubbiamente l’aspirazione è bella e credo sarebbe accolta da tutti se non rasentasse l’utopia. Il preconizzare l’avvento di una federazione internazionale di Stati, significa fare astrazione dalla vita ed essere dimentichi della realtà che oggi e domani e per molto tempo ancora è fatta di nazionalismi. La guerra dovrebbe insegnare. Noi riteniamo necessario porci i problemi quali sono e risolverli all’infuori delle utopie e delle possibilità umane. Né può valere il concetto del sindacalismo bianco di mantenere le frontiere e stabilire quei vincoli di fraternità materiale di cristianesimo fra le diverse classi sociali. Per noi, il valore di una dottrina si misura soprattutto dai risultati che essa dà in pratica. Noi non crediamo ad effetti tanto prodigiosi da parte del cristianesimo, poiché se ciò fosse, in venti secoli di prediche cristiane il mondo si sarebbe dovuto trasformare nel modello di ogni perfezione». 3. Voi proclamate la collaborazione delle classi, ma in via di fatto avete organizzato solo gli operai, non i padroni, e avete combattuto il socialismo, facendogli la concorrenza, non distruggendolo, come hanno fatto i fascisti. 4. Infine il Giornale di Trento ripete le solite accuse di migliolismo nel 1919 e 1920, che avrebbe dominato specialmente nel Veneto, Bresciano, Bergamasco ecc. Facciamo alcune controosservazioni, senza la pretesa naturalmente di esaurire l’argomento. Ad 1. – I fatti del movimento cristiano-sociale sono segnati nella storia. Se Rossoni si vanta del «contratto di lavoro obbligatorio», non abbiamo ragione noi di vantare che quasi tutta la legislazione operaia in Europa è stata ispirata o promossa dai cristiano-sociali, o attuata col loro concorso? La vasta rete di associazioni di previdenza e di mutualità non rappresenta un fatto sociale di primo ordine? La nostra cooperazione di credito, di consumo, di produzione non è la migliore collaborazione di classe in atto? Dei sindacati fascisti abbiamo detto che hanno diritto si attenda lo svolgersi del loro esperimento. Ma parlare oggi di attuazione è pretesa arrischiata. Le corporazioni saranno riuscite, quando in un periodo normale economico e in condizioni di libertà, sarà dimostrato che in Italia organizzazioni operaie e padronali collaborano praticamente alla soluzione della questione sociale, avendo di mira l’interesse della nazione. Ideale altissimo che ogni persona dabbene deve invocare, ma che per la sola costituzione delle corporazioni fasciste, sorte in condizioni anormali, non si può dire affatto vicino. Ad 2. – Qui, non del tutto incidentalmente, tocchiamo il contenuto filosofico-giuridico del contrasto. Noi distinguiamo fra Società e Stato. I doveri verso lo Stato derivano per noi da quelli verso la Società; perciò il patriottismo è una parte integrante della coscienza sociale cristiana. Noi poniamo l’amore verso la famiglia nazionale sulla base granitica dell’amore verso la famiglia e questo sentimento, se talvolta può sembrare tepido nei periodi di esaltazione, è però sempre sicuro anche nei momenti di depressione. Specie per le masse questo concetto etico del nazionalismo e del patriottismo è più durevolmente operativo di quello che non sia la passione idealizzatrice delle tradizioni che in genere afferra solo lo spirito degl’intellettuali. Non è con ciò che la tradizione e la storia siano trascurate; ché anzi per l’Italia in modo speciale abbiamo la fortuna di richiamare tutto un progresso sociale indissolubilmente legato alle attività della coscienza religiosa. Né è da rifiutare lo stimolo dell’interesse nazionale: ma qui già siamo nel campo del contingente e relativo, giacché non è sempre possibile, anche quando sussiste di fatto, rendere alle masse intuitivo l’interesse nazionale che dovrebbe sovrapporsi all’interesse individuale. Ma voi siete internazionalisti, accusa ancora il Giornale di Trento! Non è vero: se la parola va intesa nel suo significato storico, cioè come solidarismo delle classi operaie di tutte le nazioni, al di fuori e contro le borghesie, identificate colle patrie, noi non siamo internazionalisti. Certo che la concezione cristiana presuppone un interessamento alle sorti del genere umano e la situazione economica lo rende utile o necessario: onde la nostra azione, pur essendo dedicata alla grandezza morale e materiale della patria e inquadrata entro le sue esigenze, le sue finalità, le sue leggi, cerca contatti di pensiero, di studio, d’esperienza, d’energia coi cittadini di altre nazioni. L’Ufficio internazionale del lavoro e la Società delle Nazioni sono organismi che dovrebbero venire sviluppati, perché rientrano in quella sfera di possibilità internazionali che non negano, ma presuppongono nazioni autonome e sorelle. E qui resistiamo alla tentazione di rispondere alla sciocca obiezione della insufficienza sociale del cristianesimo: vecchia obiezione che ci meravigliamo di veder ripetuta da fascisti, tanto essa venne cantata e ricantata, come in un monotono ritornello, da cinquant’anni di propaganda socialista. Se il cristianesimo non ci ha dato la costituzione ideale della società, voi vorreste raggiungerla col ritorno all’ideale antico della societá-stato, che dominò in Atene e Roma? Ad 3. – È vero, non siamo riusciti ad organizzare i padroni nella stessa misura che abbiamo organizzati gli operai. Ma è vero che l’abbiamo tentato, è vero che le prime nostre unioni professionali erano miste, è vero che i bianchi in ogni paese possono offrire degli esempi di partecipazionismo. Se Leone Harmel, tanto lodato da Leone XIII, e portato ad esempio in tutte le nostre adunanze, ebbe così pochi seguaci, non è certo colpa del nostro principio, ma dell’egoismo razionalista che dominava, nel periodo dell’ascesa industriale, la classe dei datori di lavoro. Forse del resto che i fascisti, pur sotto l’enorme pressione ch’esercitano, hanno ottenuto un contegno diverso dalle grandi associazioni agrarie, industriali, bancarie? Ma, rincalza a questo punto il contraddittore, voi non avete distrutto il socialismo! Gli è che coi mezzi leciti, cioè colla propaganda e col voto politico non si ottengono gli stessi risultati che col fuoco e col manganello. E del resto è troppo presto per voler concludere che tali mezzi siano risolutivi. Ad 4. – E veniamo al razzo finale che si spara in tutti i comizi fascisti, ottenendo qualche successo presso i borghesucci interessati e superficiali. Il migliolismo! Poiché dilatate la accusa di aver esasperate le agitazioni del ’19 e del ’20 da Miglioli a tutti i propagandisti bianchi dell’Alta Italia, vorremmo anzitutto rispondervi, che per essere quest’accusa oramai un luogo comune, non è meno falsa. Ma questa volta vi risponderemo invece con una ritorsione «ad hominem». Come vi arrogate il diritto di levare tale accusa voi, proprio voi, che avete nei vostri quadri centinaia e centinaia di ex capi e sottocapi socialisti, i quali nel ’19 e nel ’20, preparavano la rivoluzione bolscevica e disorganizzavano l’Italia? Noi per ipotetiche deviazioni o esagerazioni di alcuni dei nostri travolti dalla bufera postbellica, dovremmo portare permanentemente in fronte il marchio di demagoghi e sabotatori della patria? I vostri, invece, venuti dalle organizzazioni rosse, ridiventano candidi come tortore, appena ricevuto il battesimo del sindacalismo fascista? Lo sapete bene: non si tratta solo di masse incoscienti; si tratta di propagandisti, giornalisti, condottieri. Ci sono dei commendatori – non parliamo dei cavalieri – che ora primeggiano nei vostri quadri e ancora nel 1919 o nel 1920 – dopo la guerra rinnovatrice dunque – facevano i bolscevichi sul serio. Che dire, per esempio, di quel comm. Racheli di Parma, capo ora del sindacalismo fascista, del quale il Piccolo di quella città riesumava di questi giorni il seguente articolo pubblicato dopo la rivolta d’Ancona nel 1920 : «I vostri compagni di Ancona e di Piombino, usciti or ora dal fuoco e dal sangue della rivolta vi gridano questa angosciosa domanda: – Perché non ci avete aiutati? Perché la scintilla che doveva divampare in incendio non è stata nutrita dalla solidarietà di tutte le forze operaie d’Italia? Ancora una volta la santa ribellione è stata domata e sopraffatta dai mercenari armati della borghesia. È necessaria oggi più che mai una intesa tra le varie forze organizzate sul terreno della lotta di classe. Sarete degni dei ribelli di Ancona e di Piombino se farete in modo che le Rivolte (l’erre maiuscola è del testo) non si esauriscano in sé stesse, ma aprano il solco alla auspicata rivoluzione sociale. Viva il sindacalismo rivoluzionario!». E, badate, questo è un esempio. Ce ne sono degli altri. Ora noi non ricordiamo questo per discutere la conversione. Supponiamo anzi che sia sincera. Ma allora il peccatore pentito ha da essere più modesto e non ha diritto di cercare la pagliuzza nell’occhio dell’avversario. E costoro sono i peccatori del dopoguerra, per i quali questo grande avvenimento sociale e nazionale non fu lo spartiacque del corso agitato della loro vita. Ma gli altri? Chi sa dire quanto fermento d’odio, quant’acido corrosivo, quanto spirito di dissoluzione venne iniettato nell’organismo italiano da chi predicò sulla stampa o nei comizi per anni ed anni la rivoluzione sociale? Si tenta ora d’immunizzare l’organismo coll’infondervi lo spirito del bene e l’energia di un rinnovamento nazionale; e tra gli operatori sono anche gli avvelenatori di un tempo? Noi plaudiamo a piene mani e, seguendo lo sforzo del presente, che riabilita il passato, il passato vogliamo e dobbiamo dimenticare. Con qual ragione però e con qual diritto si accuserebbero d’inefficacia la dottrina e l’opera dei cattolici, quando nel periodo del loro più promettente sviluppo furono proprio gli accusatori che contribuirono a render impossibile o a limitare la conquista delle masse al pensiero cristiano? |
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| Sotto e Sopraprefetti. – Scacciati per la porta di servizio. – Preferiamo una legge marziale amministrativa. – Stato e Partito. – Un Sindaco non invitato. – La nostalgia del manganello e dell’olio di ricino. – Iniziativa del repulisti. – Il tricolore e le beghe comunali. Lo scioglimento delle rappresentanze comunali di Pergine e Roncegno è un frutto, maturato in ritardo, della stagione anticomunalista, inauguratasi nell’agosto passato. Evidentemente le proposte vennero fatte allora ed ora appena hanno passata la trafila burocratica. La procedura è identica come quella seguita per altri due comuni della Valsugana e alcuni di altri paesi. Il ras locale o, per chiamarlo col nome affibbiatogli dai revisionisti del fascismo, il «sopraprefetto» lancia l’intimidazione, la minaccia o pronuncia addirittura la condanna in un ordine del giorno o in un comunicato del giornale fascista: il sottoprefetto capisce e fa la proposta d’inchiesta amministrativa la quale offra il pretesto formale dello scioglimento e il prefetto, suprema autorità dello Stato, prontamente eseguisce. Si ordina l’inchiesta, la quale viene fatta senza contestare qualsiasi reale o immaginario addebito agli accusati, cioè ai rappresentanti eletti dalla popolazione e – passa un mese, ne passano due – un bel giorno capita un telegramma il quale annunzia che l’invocato scioglimento è decretato e che il commissario è in viaggio, se non già capitato in paese. I congedati hanno appena il tempo di prendere il cappello ed escono per la porta di servizio, come il servitore-ladro colto in flagrante, mentre il successore ascende le scale, accompagnato dal ras del luogo colla sua truppa esigua, ma trionfante. Gli addebiti? Nessuno li conosce. Appena alcune settimane più tardi la Gazzetta Ufficiale pubblicherà un decreto con una relazione fonografata che è su per giù uguale per Castelvetrano, per Tolmezzo o per Levico. La legge ammette il ricorso al Consiglio di Stato, ma come ricorrere se non si conoscono i motivi? La legge prevede anche che gli addebiti vengano contestati all’amministrazione comunale, ma chi si cura della legge? Il sopruso è evidente, il cinismo burocratico si copre di veli così scarsi che non è salvo nemmeno il pudore. Eppure si afferma di voler ristaurare sovratutto la forza della legge. Noi siamo partigiani dell’autonomia comunale; e, se non lo fossimo da un pezzo, ci converrebbe diventarlo oggi che sentiamo più che mai l’urgenza di limitare l’enorme pressione che lo Stato esercita sulla Società: sentimento questo che promana dalle più limpide tradizioni italiche, mentre la statolatria hegeliana che ci si vorrebbe imporre è di marca prettamente, crudamente prussiana. Ma, pur essendo comunalisti e autonomisti, potremmo concedere che per un periodo transitorio di assestamento le autonomie o, se così si vuol chiamarle, le autarchie comunali vengano limitate, magari soppresse. Sarebbe una legge durissima, ma sarebbe una legge eguale per tutti. Sarebbe una legge antistorica, perché se i comuni vanno male, lo Stato va peggio e l’esempio della cattiva amministrazione è venuto dall’alto; ma sarebbe una legge! Sarebbe una ingiustizia distributiva, perché prima di prendere in mano i comuni, i sottoprefetti e i prefetti dovrebbero dimostrare d’avere il proprio ufficio in ordine, di non tenere sui tavoli montagne d’arretrati, di aver fatto regola insomma in casa propria; ma sarebbe una legge. E dinanzi a questa legge, che chiameremmo la legge marziale amministrativa, potremmo chinare il capo e non protestare. L’autorità dello Stato sarebbe salva; la coscienza civica delle masse non verrebbe turbata, la fede nella giustizia non sarebbe scossa. Ognuno ricorda invece quello che è avvenuto, e anche per i comuni ai quali non venne applicata la procedura sommaria di incaricare il rappresentante del fascismo a fare l’intima – come diceva lui – a nome del prefetto – ricordate Tione! – e anche là ove l’inchiesta non apparve come un chiesto ed ottenuto surrogato all’esercizio collettivo della violenza, impedito a tempo da una circolare di Mussolini – ricordare il caso Pergine – si potrebbe dimostrare coi documenti cronologici alla mano che l’autorità governativa sentì il bisogno, l’opportunità, lo stimolo di esercitare la sua funzione ispettiva di tutela, allora e solo quando il ras locale diede il segnale dell’attacco. Ora tutto questo dovrebbe una volta cessare. Le autorità politiche dispongano e comandino a nome del governo di Mussolini, e noi obbediremo; lo Stato eserciti la tutela sui comuni in forza dei larghi poteri che gli riserva la legge, e noi c’inchineremo, anche se la tutela sarà severa, anche se l’intervento legittimo dello Stato limiterà le nostre libertà locali. Ma noi non chiederemo di meno di quello che ha chiesto l’ultimo Gran Consiglio fascista, cioè che il partito non si sovrapponga alla Nazione, che il ras non diventi sopraprefetto e che il prefetto fascista o non fascista, rappresenti lo Stato, la maestà della legge e la forza dell’ordine. Staremo a vedere ora che cosa accada nella capitale dell’Anaunia . Il sindaco ha commesso il delitto di non intervenire al corteo commemorativo del 28. In senso stretto non vi era obbligato, perché non era cerimonia nazionale, cioè ufficiale dello Stato. Gli stessi combattenti e mutilati, non fascisti, avevano scelto una forma di partecipazione alla cerimonia che li distinguesse dai commemoratori della rivoluzione fascista, in quanto che è giusto che a menar vanto dell’impresa compiuta fosse chiamato solo chi veramente l’aveva voluta o attuata. È vero che a parte della cerimonia si diede nelle grandi città carattere più generale, e a questa intervennero le autorità in veste ufficiale, ma parte fu riservata logicamente ai soli fascisti. Non sappiamo se a Cles si sia fatta tale distinzione e, comunque, il sindaco si sarebbe potuto chiedere se, intervenendo di persona, non avrebbe corso il rischio di sentirsi dire quello ch’ebbe a commemorare il Bucci a Borgo: «il fascismo ha anche preso per la gola la vecchia ed incapace classe dirigente, ecc. ecc.», complimenti a cui non tutti sono così rinoceronti da voler esporre la pelle. Ma probabilmente il sindaco di Cles non s’è domandato nulla di tutto ciò, ma ha semplicemente ragionato così: Quei signori non m’invitano, segno che non mi vogliono. Se ci andassi, non invitato, dopo quella razza di cortesie che mi mandarono a dire sui giornali, non corro il rischio di patire uno sfregio che, posto che mi ci sarei messo di mia testa, potrebbe essere giudicato come frutto di una mia provocazione? E il non invitato, si astenne. Espose però le bandiere, provvide all’illuminazione decorativa. Non l’avesse mai fatto! I fascisti, che da un pezzo cercano il pretesto per creare imbarazzi all’amministrazione, inscenarono subito una dimostrazione a base di fischi, salirono in Municipio a intimare le dimissioni del sindaco e del Consiglio entro 24 ore, levarono la bandiera nazionale e asportarono la «Stella d’Italia» di lampadine colorate. La bandiera fu più volte levata e rimessa e infine ci rimase, solo in forza della protezione dei carabinieri. E ancora il sindaco può dire d’averla scampata bella, perché il corrispondente del Giornale di Trento, esprime certo il pensiero dei più violenti quando esclama: «Oh, santo manganello di nostalgica memoria, oh, olio purissimo e purificatore dell’intestino ribelle e delle coscienze avariate… come rimpiangiamo la vostra scomparsa». I più saggi tra loro però, avvertita l’impressione che le loro gesta avevano fatto sulla cittadinanza, tentarono ieri di giustificare la dimostrazione col seguente manifesto: «Partito Nazionale Fascista Sezione di Cles Era dovere di buon italiano di partecipare ieri al corteo della commemorazione dell’anniversario della Marcia su Roma. Chi meno di tutti doveva mancare era il Sindaco rappresentante della nostra Borgata, che invece ha creduto bene di astenersi. Segnaliamo quest’atto come una volontaria protesta, malvolere e mancanza di sentimento di Patria, che non intendiamo più soffrire e permettere. Per questo solo motivo abbiamo pensato ieri di inscenare una dimostrazione di protesta, che si limitò a far levare il tricolore, per dimostrare a Voi, cittadini, che non dovrà sventolare più sul vostro Municipio, fintantoché non sarà retto da persona degna di tale onore. Il direttorio del Fascio di Cles». «Tacon, peso del buso», dicono i veneti. È troppo chiaro che si vuol forzare l’incidente per dare la scalata al Municipio. «Ed al fascio di Cles – continua il citato corrispondente – che ieri sera ha preso l’iniziativa del repulisti generale, vada il plauso di tutti gli onesti, e l’augurio di una netta, sollecita vittoria». Ora stiamo a vedere come sarà la procedura della… vittoria. A Cles s’indicano oramai a dito gli aspiranti al potere, coloro che «studiano commissario», come dice ironicamente il popolino. Ma sarà interessante il constatare se l’autorità difenderà o non difenderà il tricolore e se il chiederne l’allontanamento, anche se a queste e a simili gesta partecipino persone vicine alla stessa autorità, sia un’opera che frutti un’inchiesta… contro chi lo difende. Peccato! A Cles s’ebbero anche recentemente solenni feste patriottiche, col concorso del Comune e di tutto il popolo, sia per i volontari del Risorgimento, sia per la medaglia d’oro ad un fascista. A Cles, custode non indegna della famosa tavola clesiana, l’Esercito liberatore ebbe accoglienze superbe. Chi in questa magnifica unità morale di popolo vuol cacciare a forza il cuneo della discordia, chi trascina la bandiera della Patria italiana, alla quale il popolo anaune ha sempre tenuto fede, chi la trascina in mezzo a beghe miserabili, suscitate per conquistare uno scanno consigliare?! |
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| Venerdì sera, innanzi a gran numero di soci della sezione di Trento del «partito popolare italiano», l’on. Degasperi ha fatta la consueta rassegna annuale degli avvenimenti politici dell’anno che sta per finire, diffondendosi sovratutto sui fatti che interessano direttamente la nostra provincia; ma nell’ultima parte egli si occupò anche dell’atteggiamento politico del partito popolare in genere. Rimettendo ad altra volta un riassunto della sua relazione sulla politica locale, ci pare frattanto utile ed interessante di riferire schematicamente e con l’approssimazione che ci sarà possibile le applaudite dichiarazioni che riguardano l’atteggiamento generale del partito. La situazione generale del partito Ci si accusa, disse l’onor. Degasperi, di essere troppo localisti e di apparire talvolta refrattari alle discussioni e alle agitazioni di carattere nazionale. In realtà però nessuna deputazione di provincia diede tanto contributo come la nostra alla azione generale del partito e mostrò tanto interessamento ai problemi nazionali, sia nelle commissioni come negli organismi centrali politici, e ciò fin dal 1919, nonostante che gli interessi locali di una regione, appena ricongiunta allo Stato, dovessero necessariamente assorbire una parte notevole della nostra attività. Vero è tuttavia che, quando agiamo in funzione di giornalisti o propagandisti locali, non partecipiamo di proposito a discussioni o polemiche sull’orientamento generale del partito, perché siamo convinti che, nonostante le migliori intenzioni di chi le promuove o le alimenta, esse finiscano col disorientare invece di orientare e collo sconcertare in luogo di animare lo nostre masse, le quali, in tempi critici come questi, esigono dai loro dirigenti una formula definitiva che chiuda il travaglio del dubbio e della elaborazione; o, se questa formula non può venir data, alle titubanze di un esame incompiuto e alle dissonanze di una manifestazione di tendenza, preferiscono, a ragione, il riserbo ed il raccoglimento. L’oratore non dirà perciò parola sul cosidetto revisionismo di destra o di sinistra, accontentandosi di rilevare, a tranquillità degli amici e per l’esatta cognizione che gli viene dalle funzioni ch’esercita negli organismi del partito, che le forze popolari in tutta l’Italia sono intatte e che le nostre masse elettorali sono più che mai fedeli alle nostre idee direttive. Non anticiperà nemmeno dichiarazioni sul voto che la Camera si dispone a dare per la proroga della delegazione legislativa. I criteri della nostra tattica Ma a proposito degli atteggiamenti tattici in genere che ha assunto o assumerà il gruppo popolare egli prega gli amici di considerare che i deputati devono tener conto di due cose: del contenuto intrinseco della proposta sulla quale si vota e degli effetti politici che il voto può avere sulla situazione generale. Talvolta il contenuto di merito è determinativo, come fu il caso della riforma elettorale, talvolta può essere secondario in confronto alle conseguenze politiche del voto. Riguardo a queste, è chiaro che tendiamo ad evitare il formarsi di una situazione favorevole all’avvento di forze anticlericali, materialiste e dissolvitrici e che dall’altra tendiamo a favorire (talvolta con esplicita adesione, quando la materia lo consenta, e tal altra dando al nostro dissenso l’espressione meno antitetica possibile) lo sviluppo del fascismo verso la (è parola d’uso) normalità costituzionale. Questa normalità (la parola non è esatta, perché già prima del fascismo la situazione era anormale) significa sovratutto la «rinascita del sistema rappresentativo», al quale, nella nostra era, è legata la sorte delle libertà politiche. Certi cattolici trovano strano che noi ci preoccupiamo tanto del problema costituzionale e mostrano di adagiarsi volentieri ad un potere, comunque costituito, purché dia la garanzia dell’ordine. L’oratore si compiace qui di rievocare una situazione storica, alla quale sarebbe errore il ragguagliare la nostra, così diversa per il teatro su cui si svolge e gli uomini che vi agiscono, ma che per l’analogia di qualche lato e, salve le proporzioni, può dare qualche insegnamento. Ricordi storici Il colpo di stato di Luigi Bonaparte venne dopo un lungo periodo di sfrenata demagogia, di lotte cruente tra le fazioni e vani tentativi di frenare gli eccessi del parlamentarismo. Dopo tanto abuso della parola e tanta infecondità dei partiti, la Francia accolse senza protesta la nuova costituzione col suo «senato silenzioso», il quale poteva votare le leggi, ma non discuterle. «Napoleone – scrive un nostro storiografo – accettava la responsabilità personale; agenti del suo pensiero i ministri, scelti a suo talento, non espressione di una politica emanata dalla Camera; egli può essere rischiarato, ma non vuole impacci nei movimenti. Garantiva dalle violenze e dalla demagogia mediante un potere senza limiti, perché senza responsabilità». Allora, pochi mesi dopo l’avvento di Napoleone III, il conte di Montalembert, nome caro a tutti i cattolici, scriveva un piccolo libro che divenne meritatamente famoso e che oggi ancora si può rileggere con molto profitto. Il lamento di Montalembert «Uomini che hanno invocato tutta la loro vita la libertà – scriveva a pag. 84 –; che hanno conquistata la fiducia e la giusta ammirazione dei cattolici, mostrando loro come la libertà poteva servire al bene ed al vero, questi medesimi uomini sono arrivati oggidì a dichiararla inutile e pericolosa. Le costituzioni, le discussioni, i parlamenti, il controllo dei legislatori e delle assemblee non provocano presso di loro che un sorriso o lo scherno. Essi hanno trovato un padrone che vuol loro bene e sembrano fidarsi ciecamente al favore di questo padrone e alla durata di questo favore. Chiudono gli occhi, si tappano gli orecchi su azioni che hanno fatto rivoltare tutta la gente onesta, su violazioni manifeste del Decalogo, sotto il pretesto che si tratta di questioni indifferenti alla religione o di rappresaglie scusabili. Essi si fanno un pretesto del silenzio imposto all’opposizione, per applaudire al bene e sottacere il male, dimenticando che là ove è proibito il biasimo, anche l’elogio perde il suo valore e la sua dignità…». Il sistema rappresentativo Dopo questo lamento, il Montalembert tratta ex professo della questione costituzionale. Ecco due brani che riassumono il suo pensiero: «Mi si voglia comprendere bene: se non si trattasse che di una sospensione temporanea delle abitudini e delle garanzie, di cui si è fatto finora uso ed abuso, non solleverei eccezioni. A titolo di prova utile, a titolo di castigo meritato, concepisco ed accetto la dittatura e perfino il dispotismo… Riconosco volentieri che la democrazia francese, codesta grande sgualdrina che non ha avuto né rispetto né riguardi per nessuno, non merita guari di venir trattata con riguardo e che si è in diritto di trattarla come le sgualdrine, mettendola all’ospitale… Ma mi permetto di credere che non ci conviene di scambiare l’ospitale per la terra promessa, né la dieta d’un ammalato per il nutrimento della salute e della natura. Per mio conto non dispero ancora dell’avvenire del sistema parlamentare o rappresentativo. Ho come garante della sua vitalità il furore ch’esso inspira ai suoi nemici. Non si parla tanto male dei morti; non li si teme sovratutto… Esso sarà più o meno contenuto, corretto, castigato per il suo meglio: ma rinascerà, perché in una società ridotta in polvere, come la nostra, esso rimane la sola forma possibile per governi moderati e ragionevoli, il che vuol dire durevoli…». Interessante è poi constatare sui documenti dell’epoca come anche allora i cattolici dovevano porsi il problema di coscienza, e quanto vecchio nella storia politica sia il travaglio della «via di mezzo» che, a torto, ad alcuni amici sembra oggidì una linea artificiale risultante da combinazioni tattiche, mentre di fatto è il faticoso cammino di quanti in ogni epoca vollero tendere alla libertà senza la licenza e al progresso senza la rivoluzione. Il Montalembert conclude una magnifica esposizione di questo travaglio coi periodi che seguono: Un’alternativa da respingere «Sappiamo dunque respingere la alternativa in cui si tenta di cacciarci, condannandoci a scegliere fra il dispotismo e il socialismo… Senza dubbio il socialismo che è ancora lontano d’esser vinto, potrà chiedere forse a lungo per contrappeso il dispotismo; ma fra questi due estremi sappiamo mantenere il nostro posto. Liceat inter abruptam contumaciam et deforme obsequium pergere iter, periculis vacuum. Sappiamo attendere: “il tempo – ha detto un gran maestro della politica – ha per modificare tutto, dei segreti che lo stesso genio non sa trovare”. Non versiamo lagrime sul nostro passato per farci veder belli, sia pure nell’interesse della buona causa, dai potenti di oggi. La libertà ci ha valso inapprezzabili conquiste e magnifiche riparazioni: in luogo di rinnegarla, sappiamo onorarla colla nostra riconoscenza, la nostra pazienza, la nostra speranza». La via centrale Questo monito, conclude l’oratore, può venir ascoltato anche nei nostri giorni. La situazione non è eguale né abbiamo alcun diritto di attribuire ai propositi del fascismo minacce napoleoniche. Dobbiamo anzi credere – nonostante le fantasie di alcuni riformatori – che si tenda, a traverso una cura del digiuno, al risanamento del sistema rappresentativo; ed ogni sforzo è doveroso per affrettarlo. Ma tra coloro che vorrebbero condurre al dissolvimento e coloro che inneggiano alla dittatura, si riproduce ancora una volta il travaglio, di chi sfuggendo ai due estremi, vuol tenere aperta la giusta via di mezzo, e chi soffre questa fatica ha diritto anche oggi di richiamarsi al detto tacitiano: Liceat inter abruptam contumaciam et deforme obsequium pergere iter, periculis vacuum. |
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| 41921-1925
| Chateaubriand ha dimostrato che Gesù Cristo può essere chiamato, nel senso materiale, il Salvatore del mondo, come lo fu nel senso spirituale. Il Suo passaggio sulla terra è, umanamente parlando, il più grande avvenimento che si sia compiuto tra gli uomini, giacché è a partire dalla predicazione dell’Evangelo che la faccia del mondo si è rinnovata. Il cristianesimo è arrivato proprio nel momento più critico della storia del genere umano: un po’ prima le leggi umane rappresentavano ancora un qualche freno che ritardava la catastrofe generale; un po’ più tardi il divino Messia non sarebbe comparso che dopo il naufragio della società. I lettori ricorderanno quelle pagine mirabili del Génie du Christianisme nelle quali si fanno le due ipotesi: che cosa sarebbe accaduto senza il cristianesimo, se i barbari fossero rimasti nelle loro foreste, e il mondo romano avesse continuato irrimediabilmente il suo processo di corruzione e decomposizione; ovvero – seconda ipotesi – che cosa sarebbe avvenuto, se i barbari avessero sorpreso il mondo civile nel politicismo e avessero frammista la sanguinosa religione d’Odino colla mitologia dissoluta della Grecia? Oggidì che si vanta come supremo progresso un rinato romanesimo è lecito sovratutto chiedersi: che cosa sarebbe avvenuto delle istituzioni civili, dei governi, dei pubblici poteri, se nel momento più critico della storia umana non fosse comparso il Cristo a predicare l’eguaglianza morale dell’uomo, a inculcare la legge della fraternità universale, a condannare la violenza e a comandare l’amore fra tutti gli uomini? Il paganesimo, non avendo la forza morale di rendere virtuoso il povero, era obbligato a lasciarlo trattare come un malfattore; il culto evangelico invece è il culto di un popolo libero perché la sua religione si fonda sulla coscienza morale. Quale sarebbe la sorte degli umili in una società, in uno Stato che non tenesse le sue basi dal cristianesimo? Quale sarebbe la convivenza dei popoli tra loro? I fautori del neopaganesimo politico non dovrebbero dimenticare quello che dimostrò già un uomo non sospetto, come il Montesquieu , che i moderni diritti politici e il moderno diritto delle genti sono dovuti allo spirito rinnovatore del cristianesimo. Durante tutta la storia delle costituzioni, due linee s’intersecano, si sovrappongono o corrono, talvolta parallele, l’Europa e il mondo: l’una è quella del despotismo, della dittatura, della centralizzazione, dello Stato panteista; l’altra è quella dei concili, delle cortes, degli Stati generali, dei parlamenti, dei comuni, delle libertà provinciali. La prima si diparte da un concetto pagano e impresse la sua orma più profonda nell’impero romano; la seconda si svolge nell’epoca cristiana e risale al concetto della personalità cristiana, dei diritti naturali e fondamentali dell’uomo, come individuo, come capo della famiglia, come membro del comune – per focos – come membro della nazione. Non si può invero negare che il despotismo ebbe talvolta apologisti e sostenitori che cercarono i loro argomenti nella Bibbia e nella dottrina patristica; né, d’altro canto, va dimenticato che, fra i difensori delle libertà civili, molti credettero di dover assommare in una sola condanna l’autocrazia e la Chiesa; ma codesti sono aspetti transitori e superficiali. Al di fuori di questi episodi contingenti, la storia e la tradizione ci danno una risposta incontestabile: il sentimento cristiano, sinceramente professato ed applicato, genera, sotto le varie forme dello sviluppo storico, la libertà civile e politica, mentre ogni forma di despotismo, quando crea la sua dottrina, ricorre ai principii statolatrici che dominarono la civiltà antica. I lettori comprendono che non ci siamo permessi queste rapide e frammentarie considerazioni per il gusto di tener cattedra. Le facciamo oggi innanzi alla capanna di Betlemme, perché, come uomini politici, siamo indotti a trarre da questo grandioso fatto storico degli ammaestramenti che giovino per l’esatta comprensione del momento che attraversiamo. Non è della politica effimera o polemica di parte che ci può inspirare la celebrazione della nascita del Redentore del genere umano, né ripeteremo il sacrilegio di quegli ebrei che si ostinarono a vedere nel Cristo un governatore delle cose umane e politiche; ma ricordando oggi il principio della Nuova Era e considerando il lievito che fu posto due mila anni fa a fermentare nella storia del mondo civile, noi, che di ogni nostra dottrina politica cerchiamo l’ispirazione cristiana, sentiamo il dovere e l’orgoglio di affermare delle verità che in varie epoche risplendettero di eterna chiarezza, ma che oggi sembrano talvolta velate dai vapori delle odierne passioni. Esse sono il viatico di chi combatte e di chi soffre, e noi le vogliamo dare come augurio natalizio a quanti seguono, con simpatia e con adesione, l’opera nostra di pubblicisti e di combattenti nel campo del pensiero e delle pubbliche attività. Eccole, nella loro semplicità: Il cristianesimo predica l’amore e condanna la violenza. Il cristianesimo abolisce la servitù e solleva gli umili. Il cristianesimo consacra i diritti naturali dell’individuo dentro la società civile. Il cristianesimo fa gli uomini liberi e forti. Che nessuno quindi bestemmi la dottrina, se molti che si dicono cristiani la rinnegano e la dimenticano. Che nessuno disperi se può sembrare che a tali principii venga negato il riconoscimento o il trionfo. Sono eclissi momentanee della storia. Ma la luce di Betlemme riapparisce più splendida a recare conforto agli umili e soddisfacimento a coloro che non avranno dubitato del trionfo dell’amore e della giustizia! |
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| 41921-1925
| La crisi Facta, per quel che riguarda il gruppo popolare fu il travaglio poderoso ed esasperante di chi cercava nella costituzione di governo di porre fine alla guerriglia civile che insanguinava l’Italia. Immediatamente prima che scoppiassero gli ultimi incidenti un uomo del governo Facta ci mostrava una tabella statistica sulla quale apparivano tre scale di cifre, l’una del numero mensile dei morti in tali conflitti dal gennaio in qua, l’altra del numero dei morti socialcomunisti e la terza quella dei morti fascisti. La tabella, secondo quell’uomo di stato, permetteva una conclusione che, politicamente parlando, poteva dirsi tranquillante: se il numero dei morti non diminuiva in via assoluta, diminuiva però la sproporzione fra il numero dei morti sovversivi e quello dei morti fascisti, giacché negli ultimi mesi le vittime di questa parte crescevano. In siffatta valutazione di due macabre scale, fino al ragguaglio delle vittime, stava un metodo di governo e il concetto della funzione equilibratrice e neutrale dello Stato liberale. Ebbene, durante la crisi abbiamo rinnovato i più disperati tentativi per costituire un governo che avesse una linea e una volontà; ma, agli effetti politici non ci pare istruttivo di esaminare oggi le ragioni del loro insuccesso. Ad un ultimo episodio però, meno discusso ed anche meno noto perché soffocato dal clamore dello sciopero generale che seguì, è utile dare rilievo. Nella seconda fase delle trattative Orlando era sorta l’idea, che ci si propose come non esageratamente osteggiata dai partiti più direttamente interessati, che fu detta dell’altare democratico coi due candelieri, per la quale ad un ministero di centro-sinistra liberale partecipassero come garanti della pacificazione due rappresentanti sindacali, l’uno del fascismo l’altro della confederazione del lavoro. Noi nelle rapide conversazioni degli ultimi giorni raccogliemmo subito questa idea non perché la ritenessimo sufficiente, ma perché era un germe che conveniva sviluppare. Dichiarammo infatti subito a Orlando che eravamo disposti ad appoggiare il suo tentativo, ma che bisognava svolgerlo su più larga base. Era in verità un tenue filo di speranza, al quale noi vagolanti sulle molteplici rovine della crisi parlamentare, ci eravamo attaccati, ma era un filo che aveva una logica. Noi pensavamo che nonostante le più furiose tempeste susseguitesi poi sul teatro politico e organizzativo del nostro paese, questo filo non fosse ancora stato strappato ma potesse ancora, sia pure con trama diversa di qualità e di misura, ritessere un ponte di passaggio tra il vecchio e il nuovo regime. «Penso – aveva detto Mussolini alla Camera un anno prima – che si va presto o tardi ad una nuova grande coalizione e sarà quella delle tre forze efficienti in questo momento nella vita del paese… Ecco perché non accetto la tesi antiproporzionalista, in quanto essa viene sostenuta col danno che ne ricavano i partiti deboli. Se i partiti sono deboli o si rafforzano o muoiono; ma le grandi forze espresse dal paese in quest’ora sono tre: un socialismo che dovrà correggersi e già comincia: notevole il voto confederale contro i comunisti soprattutto notevole il nuovo punto di vista della confederazione generale del lavoro per ciò che riguarda lo sciopero dei servizi pubblici; la forza dei popolari che esiste, che è potente, anche perché si appoggia non so con quanto profitto per la religione, alla forza immensa del cattolicismo; e finalmente non si può negare l’esistenza di un terzo movimento complesso, formidabile, eminentemente idealistico che raccoglie la parte migliore della gioventù italiana. Credo che a queste tre forze coalizzate sopra un programma che deve costituire il minimo comune denominatore spetterà domani il compito di condurre la patria a più prospere fortune». Tali dichiarazioni ricordavamo in quell’ora crepuscolare del parlamento, non perché esse potessero venire riportate tali e quali e in pieno al momento politico di allora ma perché erano testimoni di una visione realistica e superiore alle distrette del puro calcolo parlamentare, in mezzo alle quali ci divincolavamo. Il documento del resto non è rimasto solo, ma aveva avuto seguito in altre dichiarazioni sulla confederazione del lavoro, rivelandovisi la stessa tendenza che aveva voluto il patto di pacificazione, nel quale, si noti bene, si diceva che «soprattutto le organizzazioni economiche, siano bianche siano rosse, devono essere rispettate per conservare la loro funzione storica di lievito e di propulsione della civiltà nuova». In verità l’interminabile serie di risse domenicali e l’immancabile eco parlamentare di dispute violente e spesso ingiuriose ci aveva messi tutti in uno stato di inquietudine, nel quale i contatti diretti indispensabili per conoscere i volti degli uomini quando non sono coperti dalla polvere della mischia, erano difficili e il rumore assordante del conflitto cancellava il ricordo delle parole ragionevoli . Noi, raccogliendo allora l’idea di Orlando, ma volendo allargarla e svilupparla esprimevamo, pur nei giorni torbidi della crisi durante la quale eravamo fatti segno ad attacchi furiosi, un atto di fede nei propositi di Mussolini il quale aveva già detto alla Camera: «Il fascismo non è più un fenomeno passeggero ma è un fenomeno che durerà, si trasformerà. Io lotto per trasformarlo». Si comprende come lo stato d’animo dei socialisti non potesse essere il nostro, primo perché la loro concezione materialistica li portava a giudicare il fascismo solo come un fenomeno economico e di classe, che si sarebbe esaurito con la fase di reazione economica che lo aveva favorito; secondo, perché più direttamente e personalmente presi di mira nel quotidiani conflitti. Ma fu errore irreparabile che in un tempo di tregua relativa e di fronte ad un governo di buona volontà, quando Bonomi condannava gli scioperi dei pubblici servizi pur assecondato in questo dalla confederazione del lavoro, i socialisti alla Camera proclamassero di ricorrere al sabotaggio; né si può perdonare a Turati d’aver irriso al «madalenismo» e Modigliani all’incoerenza di Mussolini quando le sue dichiarazioni meritavano una valutazione, se non più serena, almeno più circospetta. Né, in quei pochi mesi che seguirono, a Bonomi mancarono gli scioperi politici e i richiami, anche dai settori della Camera, allo sciopero generale, come supremo atto rivoluzionario di difesa proletaria. Ciò malgrado, non si poteva forse interpretare la dichiarazione socialista di destra del 28 luglio come un netto distacco da questa concezione e la scelta definitiva del metodo evolutivo e parlamentare? Cercammo di persuadercene nelle ultime giornate della crisi tentando di indurli a valutare senza sospetti le proposte di Orlando e lo sviluppo che potevano avere. Ma una prima volta l’illusione puerile che l’eloquenza di Turati avrebbe indotto il Re a intervenire per la sinistra troncò ogni conversazione; di poi lo sciopero generale scoppiò come un fulmine rovesciando ogni speranza e sostituendo alla combinazione di una tregua alla Camera, la guerra ripresa e condotta fino in fondo nel paese. Non a torto quindi Mussolini il 17 novembre 1922, non più dai banchi di destra, ma dal banco dei ministri, dirà rivolto all’estrema sinistra: «Se gli eventi hanno avuto questo ritmo precipitoso grande parte della responsabilità spetta a voi. Perché quindici o sedici mesi fa io lanciai in questa aula un’idea che poteva parere allora paradossale, ma alla quale, se voi foste stati intelligenti dovevate afferrarvi come il naufrago si afferra alla tavola di salvezza. Non lo avete fatto: gli avvenimenti vi hanno dato torto». In quanto a noi sentimmo bene allora che dalla crisi rimasta insoluta, usciva sconfitto non il gruppo popolare, come pappagalleggiava allora la stampa ma l’istituto parlamentare, come la medesima stampa doveva ammettere troppo tardi tre mesi di poi. Nel bollettino funebre che passammo ai giornali era anche troppo visibile lo stato di rassegnazione passiva a cui eravamo ridotti quando dicevamo dopo aver accennato allo sciopero e alla mobilitazione fascista e alle conseguenti preoccupazioni per l’ordine pubblico, che in tale situazione «la commissione direttiva non poteva assumersi la responsabilità di rendere impossibile la costituzione di un governo, quando altra soluzione rapida e sicura della crisi non era ormai più sperabile. E perciò ritenne dover consentire ai propri amici di rimanere nel ministero lasciando la sua formazione alla responsabilità del presidente del consiglio». In realtà la logica e la dignità avrebbero richiesto che fossimo rimasti in disparte ma nel momento nel quale il Re ridava l’incarico a Facta, soprattutto per ragioni d’ordine pubblico, e Facta poneva come condizione la partecipazione dei popolari, bisognava piegarsi a inghiottire amaro, ciò che del resto accade spesso ad un partito al quale un alto senso di responsabilità ed una profonda concezione di civica morale impongono delle situazioni che gli avversari riferiscono a gretto utilitarismo e gli amici lontani non possono comprendere. Avevamo tuttavia ben netta la sensazione che nel gioco delle forze parlamentari ogni via di soluzione politica fosse intanto preclusa e che convenisse, fin che fatti nuovi non si presentassero, rassegnarsi al ministero di affari. Rileggete oggi il messaggio del gruppo al consiglio nazionale e l’appello del consiglio nazionale al partito, l’uno del 13 agosto l’altro del 20 ottobre. Sono due documenti testimonianti l’onesta visione di uomini i quali sentono tutto il tormento di chi vedendo con chiarezza la giusta via di mezzo da percorrere perché sia salva la nazione ma non si uccida la libertà, si faccia largo all’ondata nuova, ma siano difesi gli argini della legge, comprende la insufficienza dei propri mezzi a dominare gli avvenimenti che incalzano. Dopo il colpo di stato fascista un dubbio si affacciò subito alla mente. Avrebbe Mussolini instaurata la dittatura militare, tenendo chiusa o sciogliendo la Camera, ovvero avrebbe formato un governo parlamentare? Ricordo che contro l’ipotesi della dittatura si accampavano due ragioni: l’intuito politico dell’uomo il quale sapeva che il popolo italiano non avrebbe sopportato a lungo una forma di governo assolutistica (non bendate la vittoria, ammoniva d’Annunzio); e Mussolini stesso aveva detto alla Camera pochi mesi avanti su di una eventuale crisi Bonomi: «Ci potrebbe essere una soluzione extraparlamentare, il gabinetto di funzionari e di tecnici, l’aggiornamento della Camera, la dittatura militare. Io non mi sono mai lasciato convincere da queste sirene; non ho mai creduto a queste suggestioni anche se venivano da generali a spasso che credono di avere la ricetta specifica con cui si salva il mondo; ed anche perché la carta della dittatura è una carta grossa che si gioca una volta sola, che impone dei rischi terribili e, giocata una volta, non si gioca più». Una seconda ragione si ricercava nei riguardi dei paesi esteri, nei confronti dei quali il nuovo governo doveva sentire l’urgenza di agire per regolare il problema delle riparazioni, per aprire nuovi sbocchi alla emigrazione, per riattivare il capitale straniero in Italia. Ora all’estero, in America specialmente, si amano i governi forti e magari personalistici, i quali garantiscono l’ordine e la sicurezza dei commerci e delle industrie, ma si ha orrore delle avventure assolutistiche e dei regimi militari che non conoscono il suffragio universale e mettono in pericolo oltreché la libertà anche i capitali. Così Mussolini si rivolse al parlamento e compose un governo di coalizione nel quale alcuni gruppi dell’antica maggioranza erano rappresentati, altri no. Ho detto «governo di coalizione» ed ho usato il termine ufficiale col quale il presidente del consiglio presentò il suo ministero alla Camera. Si è voluto poi sminuire questo concetto, e non solo in provincia per dedurne un assoluto disimpegno da ogni riguardo verso i popolari e la libertà di trattarli, ove occorra, come partito di opposizione; ma anche in dichiarazioni di uomini elevati nella gerarchia fascista; ricordiamo, ad esempio, l’ultimo discorso del Bianchi, per il quale i ministri popolari sarebbero solo degli elementi non tesserati fascisti, chiamati al governo come singoli elementi da utilizzare e porre al servizio della nazione. Dichiaro subito che dal punto di vista dell’egoismo di partito, non avrei alcuna difficoltà ad accettare questa interpretazione, perché oggi, dopo quello che il ministero ha dovuto fare e sarà costretto a fare nessun partito può ambire, per trarne profitto elettorale, rapporti di corresponsabilità con l’attuale governo. Ma prima di tutto tale interpretazione sarebbe, almeno per quello che riguarda il nostro gruppo, storicamente falsa; in secondo luogo ci dovremmo chiedere se simile situazione equivoca che noi avevamo cercato di bandire sotto altri ministeri poteva proprio essere voluta dal fascismo, che si è vantato di portare nella vita politica italiana la chiarezza, fino alla inesorabilità. Storicamente accadde questo: che il 30 ottobre il segretario del gruppo parlamentare on. Cavazzoni, venne invitato a partecipare con altri colleghi al governo; che all’accettazione precorse un rapido esame da parte dell’on. Cavazzoni assieme agli organi direttivi del gruppo parlamentare allora presenti a Roma e che con loro assenso e dopo che egli ebbe assunte informazioni circa i propositi del Presidente su alcuni problemi, Cavazzoni e gli altri colleghi accolsero l’invito . Avvenne quindi sostanzialmente quello che accadeva per la costituzione di altri ministeri di coalizione, sia pure in forme e misura diverse. Certo che quelli erano i casi normali: questo il caso della costituzione di un governo dopo una insurrezione armata, caso che ai fautori dell’ordine e della libertà si presentava nel seguente modo: quali sacrifici sono necessari e leciti onde il fatto rivoluzionario venga convogliato sul binario della Costituzione? Quale atteggiamento dovevano assumere uomini e partiti per contribuire – sono parole del nostro comunicato del 30 ottobre – con ogni sforzo al rapido ritorno della legalità? Ammetto che i pochi uomini che si poterono allora raccogliere per deliberare dovettero anzitutto rispondere a questi quesiti e che la risposta ad essi fu pregiudizialmente decisiva. Il ministero rivestiva quindi in un primo momento o meglio, visto così, il carattere di un comitato di salute pubblica che, avendo alla testa il capo dell’insurrezione e come membri rappresentanti di vari settori della Camera, stava a significare la fine del conflitto e simboleggiava la ritrovata concordia per un nuovo periodo costituzionale. Tanto grave parve allora a noi la condizione del paese, dopo la rivolta, e tanto urgente il sanare la larga ferita aperta nell’organismo statale, che avremmo creduto doveroso per l’effetto immediato che auspicavamo, correre anche il rischio di futuri dissensi e perciò di non lontane delusioni. Certo che mentre per le vie di Roma marciavano ancora le legioni di un esercito irregolare e illegale e si ripetevano parole di violenze o minaccie di rappresaglia e in ogni capo squadra pareva innestarsi la tentazione di ripetere in ogni provincia e in ogni paese l’impresa che già veniva decantata come leggendaria della marcia su Roma, la nostra partecipazione al governo non era senza rischi e poteva essere fraintesa. Non la si poteva credere una viltà, un atto di affrettato servilismo? I dubbi erano molti, ma anche nelle situazioni più amletiche conviene scuoterli di dosso, con la argomentazione che spinse lo stesso Amleto a risolversi: thinking too precisely on the event… a thougth, which quartered, hath but one part wisdom and ever three parts coward (il pensare troppo precisamente di quello che avverrà, è un pensiero che, diviso in quattro parti, ne ha una di saggezza e tre di viltà). Con ciò non voglio escludere tutte le precauzioni possibili, e in riguardo anche oggi ripensandoci, non mi pare si potesse fare di più. Il comunicato del 30 ottobre già citato diceva: consta pure che il nuovo governo intende mantenere il sistema elettorale proporzionale, salvi miglioramenti di forma suggeriti dall’esperienza, e si propone por fine a tutte le manifestazioni della vita nazionale non conciliabili con la legalità e la Costituzione. Questo risulta dalle precise e leali dichiarazioni che l’on. Mussolini ha avuto occasione di fare aggiungendo, per quanto riguarda la proporzionale, che il partito fascista «non ha presa alcuna decisione contro di essa». Ad un tempo sapevamo che Gentile portava nel nuovo governo l’esame di stato, che Mussolini, richiamandosi a sue dichiarazioni anteriori, riconfermava la sua deferenza per la Chiesa cattolica, che il nostro amico Tangorra apportava al gabinetto i suoi piani di riforma burocratica decentrata e il proposito di severe economie e che Cavazzoni al lavoro non poteva significare reazione o monopolio sul terreno della legislazione e dell’organizzazione operaia e che nei rapporti con l’estero si smentiva ogni politica di avventure. Appare subito che questo gabinetto, oltre che significare la pacificazione in atto, aveva la base di una collaborazione legislativa e riformatrice per l’avvenire. In questa base i punti di coincidenza col programma del partito popolare italiano erano moltissimi, tanto che tale coincidenza ritenemmo opportuno valorizzare in una lettera della presidenza del gruppo ai nostri ministri e sottosegretari; più diffusamente nel discorso alla Camera sulle dichiarazioni del governo, spiegammo le origini di tale confluenza, l’una derivata dalla rivalutazione che il fascismo faceva delle forze spirituali e l’altra dal nostro anteriore atteggiamento contrario all’accentramento e al monopolismo dello Stato, come s’era sviluppato durante il regime democratico liberale. Perciò ancora il voto dato al ministero Mussolini e quello per i pieni poteri straordinari, hanno avuto primo significato di direttiva politica, in quanto rappresentano il corrispettivo dell’impegno del governo di «non vulnerare le libertà statutarie, di far rispettare la legge a qualunque costo anche contro l’illegalismo fascista» ma hanno avuto anche carattere di collaborazione quando, affidando i pieni poteri in materia di riforma burocratica e finanziaria, dopo aver sentita l’esposizione di Tangorra e di altri ministri, era lecito ritenere che per l’opera di riforma si sarebbe in parte fatto ricorso a linee e materiali tolti dalle nostre elaborazioni programmatiche e dai nostri progetti legislativi. Crediamo quindi si possa concludere trattarsi di un vero governo di coalizione, ciò che non toglie la possibilità di chiamarlo anche governo fascista in quanto il fascismo vi tiene una posizione dominante. Ecco qua, del resto, dei documenti ufficiali fascisti. Il gran consiglio nazionale fascista il giorno 14 gennaio si occupava anche dei rapporti con gli altri partiti e pubblicava in argomento il seguente comunicato: «il gran consiglio nazionale del fascismo, discutendo in merito all’atteggiamento da tenersi di fronte ai vari partiti, invita i fasci e le federazioni provinciali a tener conto nell’orientare la loro condotta del fatto di quei partiti che lealmente collaborano col governo fascista». Due giorni dopo l’on. Mussolini annunziava al consiglio dei ministri che nel gran consiglio «sono stati stabiliti i rapporti del partito fascista con gli altri partiti» e tre giorni dopo ancora, in occasione di un colloquio Mussolini-Gaj- Mattei Gentili, il presidente del consiglio dettava un comunicato che di tali rapporti fissava l’interpretazione riguardante il P.P.I scrivendo così: «Poiché il P.P.I. ha dato parecchi dei suoi nomi al governo per una collaborazione che è stata sino ad oggi assolutamente leale, il P.P.I. rientra nel numero di quei partiti di cui è stato fatto cenno in uno degli ordini del giorno approvati nell’ultimo gran consiglio fascista; partiti cioè coi quali anche il fascismo nel paese deve realizzare una sincera collaborazione». Precisati così i termini del rapporto di collaborazione, come esisteva in germe nel primo atto di partecipazione al governo e come è stato formulato poi nel naturale sviluppo della situazione, poiché questo problema sembra aver interessato vivacemente le sezioni, vediamone più dappresso i termini e il contenuto. Distinguiamo anzitutto fra collaborazionismo e collaborazione: collaborazionismo è una tendenza, collaborazione uno stato di fatto. Siamo noi dei collaborazionisti coll’attuale governo? Rispondo nettamente di sì, e precisamente in questo senso che desideriamo che il governo – sono parole del suo presidente – riesca ad inserire intimamente la «rivoluzione delle camicie nere», come forza di sviluppo, di progresso e di equilibrio nella storia della nazione. Nessuno fraintenda questa affermazione che potrebbe sembrare paradossale. Penso che sia stato un grave delitto quello dei governi deboli e flaccidi permettere che si preparasse un’insurrezione armata e renderla quasi, con la loro debolezza, spiegabile anche per chi non la possa giustificare; e comunque condivido l’opinione degli inglesi che avendo fatto una volta una rivoluzione che pure recò dei progressi notevoli, ritengono che a tale atto di insurrezione contro la legge va aggiunto un sì profondo turbamento degli animi e intorpidimento delle coscienze, che esso si debba a qualunque costo evitare. Ma una volta compiuto, una seconda sciagura risulterebbe se le forze idealistiche e le energie di rinnovamento che accompagnarono tali movimenti specie se, come in parte è del caso nostro, avessero conseguito sotto altra veste e in altre occasioni alte benemerenze per la difesa della patria, non venissero messe al servizio del pubblico bene. Come italiano considero globalmente il problema come problema italiano, e mi chiedo se tante vittime dell’una e dell’altra parte durante una guerriglia civile di quasi tre anni debbano essere cadute invano, se tanti rischi affrontati e tanti sacrifici imposti e compiuti, tanta sopportazione e tanta audacia debbano svanire entro le nebbie infeconde dei cicli di azione e reazione della storia senza che la mano di Dio ne tragga per questa travagliata generazione un soffio pacificatore di vita nuova. Il collasso delle forze idealistiche – ed è beninteso che parliamo solo di questo – che venisse dopo uno sforzo attuato anche calpestando vittime innocenti, significherebbe un’ondata irresistibile nel senso opposto; il pendolo verrebbe lanciato all’altro estremo. Ecco perché siamo collaborazionisti rispetto al governo di Mussolini affinché esso arrivi a spostare il pendolo verso il centro equilibratore temperando e regolando il moto iniziale. In verità osservatori lontani, stupiti da certe esercitazioni verbali di tono dittatoriale e da certe pose gladiatorie, che i minori proconsoli imitano in ogni villaggio riuscendo ad apparire buffi , ma non sempre innocui, possono trovare ragione per dubitare che tale veramente sia il proposito e la meta del fascismo. Ma osservatori più vicini attenti credono di sapere che Mussolini, pur facendo al periodo rivoluzionario delle concessioni, non dimentica né può trascurare il monito di Giuseppe Mazzini, il quale scriveva che «prima legge di ogni rivoluzione è quella di non creare la necessità di una seconda rivoluzione». Si proclama anzi di voler dare una disciplina alla nazione. E noi non dovremmo approvare e incoraggiare tale sforzo? Bisogna essere vissuti lungo tempo all’estero e aver valutato il popolo italiano per l’estimazione che ne hanno gli altri popoli, per capire in quale diversa luce comparirebbe innanzi al mondo l’Italia, se le sue meravigliose energie s’inquadrassero in una disciplina interiore e collettiva. O possiamo noi come cattolici e come italiani, augurare e favorire il ritorno delle forze negative che il fascismo ha contribuito a bandire, cioè lo spirito di scetticismo e di disgregazione, il senso di sfiducia nelle proprie fortune e lo svalutamento di ogni forza morale? Ecco quindi, o amici, perché non ha fondamento l’accusa che il nostro collaborazionismo sia inquinato da una riserva mentale che si riferisca ad uno stato d’animo incerto ed equivoco, il quale attenda per rivelarsi un momento favorevole. No, nessun equivoco nello stato d’animo, nessuna riserva nel nostro pensiero che possa trovare domani un’espressione contraddittoria alle affermazioni di oggi. Il nostro collaborazionismo non ha riserve equivoche, ma incontra dei limiti chiari e precisi e nelle nostre dottrine e nelle condizioni di fatto in cui la collaborazione si svolge. Nessuno intanto, o egregi amici, dopo quello che Sturzo ha esposto stamane sulle dottrine nostre in confronto a quelle del fascismo penserà che il nostro collaborazionismo comporti fusione o confusione delle idee direttive. Ma io comprendo come alcuni nostri amici giustamente gelosi della purezza dell’ispirazione cristiana, si siano allarmati quando hanno visto certi cristiani scambiare l’ideologismo di Hegel, la morale politica di Fichte e il volontarismo bergsoniano, che accompagnarono il trionfo del fascismo, come un’aureola di dottrine per la rinascita dello spiritualismo cristiano. Avviene a costoro quello che accadde a certi cristiani dei primi secoli i quali rileggendo con mente di cristiani alcuni brani di Platone o Virgilio davano alle parole loro il significato che avevano acquistato appena dopo la loro morte, col cristianesimo. Ricordo che De Stefani disse una volta alla Camera: «Il fascismo è il rovesciamento del vecchio materialismo storico: nella realtà della storia si confondono gli elementi più vari, l’elemento materiale e l’elemento spirituale. Noi pensiamo che nella nostra azione e nel nostro sentimento il sistema economico sia una superstruttura dell’intelligenza e dello spirito». E Mussolini stesso un’altra volta aveva detto più chiaramente ancora: «Non solo per noi non esiste un dualismo tra materia e spirito ma noi abbiamo annullato questa antitesi nella sintesi dello spirito. Lo spirito solo esiste, nient’altro esiste». Ora io non intendo menomamente giudicare della personalità di questi uomini che sono anzitutto uomini di azione, alla stregua delle loro… distrazioni filosofiche, ma è significativo che, quando tentano in un consesso politico di dare una spiegazione filosofica al loro movimento, ricadono in una dottrina che è antitetica alla nostra: come è caratteristico che l’eticismo liberale di Gentile e della sua scuola fornisca oggi al movimento fascista i suoi professori e i suoi dottrinari. Nessuna confusione quindi di dottrina, nessuna possibilità di svuotamento e di sostituzione. Ma d’altro canto diciamo ai nostri amici che giustamente si preoccupano delle dottrine: tale divergenza non infirma il nostro collaborazionismo. Forse che i discorsi alla nazione tedesca di Giorgio Fichte o i libri del nostro Gioberti non diventarono le diane del risorgimento nazionale, al quale contribuirono tutte le fedi per quanto discusse e contrastate fossero le loro concezioni filosofiche; forse che – per riferirmi all’altro contrapposto del nostro pensiero dottrinale che è il materialismo storico – non poterono i cattolici d’altri paesi collaborare coi socialisti sul terreno di rivendicazioni sociali che per gli uni erano preordinate alla lotta di classe, per gli altri derivate dalla giustizia cristiana? Ma più addietro ho distinto fra collaborazionismo che è tendenza ed atteggiamento di spirito e collaborazione che è stato di fatto. Il problema della collaborazione non è quindi un problema della statica, ma è un problema della dinamica; un problema del divenire politico i cui termini si spostano non solo secondo la maggiore o minore convergenza di volontà nei collaboratori, ma anche per modificazioni che subiscono le condizioni di fatto, nelle quali la collaborazione è tentata o attuata. Ora su quale terreno, in quale misura, entro quali limiti si compie la collaborazione fra popolari e fascisti? Nell’attività amministrativa e legislativa essa è data dalla partecipazione dei nostri amici al governo. Nel consiglio dei ministri abbiamo un rappresentate su 13; nell’amministrazione 3 sottosegretari su 18. Chi ha seguito da vicino l’attività dei nostri amici al governo sa quanto il loro operare meriti lode e riconoscenza. Penso anzitutto a chi, come l’amico Cavazzoni, ha la grave responsabilità di partecipare all’opera di legislazione, ora quasi tutta delegata al consiglio dei ministri, e gli sappiamo essere grati del contributo popolare che egli ha inserito nell’opera del governo, specie per quanto riguarda il ministero a lui affidato, della vigile cura con la quale in confronto delle varie tendenze egli dà costante rilievo alla nostra linea e alle nostre finalità e dello zelo spiegato per la difesa degli amici, colpiti dalla persecuzione. Dare un giudizio complessivo e definitivo sull’opera legislativa e parlamentare del consiglio dei ministri e giudicare quindi dei risultati della nostra collaborazione per mezzo della partecipazione al governo sarebbe oggi intempestivo. Vi sono dei provvedimenti buoni come quelli scolastici e la riforma giudiziaria, abolizione degli enti autonomi e parassitari, alcune sagge economie di bilancio, alcuni provvedimenti tributari; vi sono delle misure discutibili e dei provvedimenti errati e tra questi pongo, ad esempio, il modo come vennero sistemate amministrativamente le nuove province e l’abolizione delle commissioni agrarie e di beneficenza, ma non si può ignorare che le riforme principali entro cui si inquadrano tutte le altre, dalle quali anzi dipende la relativa bontà e tollerabilità di provvedimenti già presi, sono quella amministrativa e quella tributaria. Ora la riforma dell’amministrazione e la sistemazione del bilancio sono in studio o in corso, il che vuol dire che l’esperimento di governo per quanto riguarda la fase ricostruttiva è in atto. Ci pare quindi giusto che il governo possa ottenere un giudizio sospensivo per quei provvedimenti che, non accettabili in sé, non rappresentano però per un governo di velocità il definitivo e l’inesorabile. Voi consentirete che accenni all’esempio che riguarda la mia regione; la soppressione di ogni autonomia locale e regionale decretata precipitosamente senza tener conto né degli studi fatti, né degli impegni solennemente presi dal Re e dalla Camera, né del parere dei rappresentanti di quelle terre, fu un atto decisamente contrastante col programma del partito popolare. Il contrasto sarebbe definitivo se giudicassimo il provvedimento come irreparabile, nel senso che esso rappresenti un elemento tendenziale della riforma amministrativa del governo. Abbiamo invece fondata ragione di credere che ciò non sia, che la riforma si muova su diverso binario, e quindi continuiamo la nostra collaborazione per aiutare tale orientamento. L’innegabile coraggio d’affrontare le responsabilità più dure, l’idealismo patriottico con cui il capo del governo ed alcuni suoi uomini si sono accinti alla difficile opera, la gravità della situazione, che rende prezioso ogni tentativo per salvarla, ci permette, nonostante le obiezioni ai singoli provvedimenti presi o annunziati, di accompagnare tale sacra fatica non solo coll’augurio sincero degli italiani, ma anche, nella corresponsabilità che è sentita dalla misura della nostra partecipazione, con la nostra collaborazione di popolari. E veniamo ora alla collaborazione alla Camera. L’unica soluzione logica, dopo il colpo di stato presente, era la convocazione dei comizi. Ma le elezioni si sarebbero fatte in una atmosfera pregna di violenza, e sotto compressione terribile; cosicché amici ed avversari convennero nell’opportunità di una via di mezzo che riservasse alla Camera un’attività assai ridotta e facesse lavorare per delega il consiglio dei ministri. È ben chiaro che il carattere straordinario ed eccezionale di tale periodo deve trovare il suo termine nella cessazione delle cause che lo hanno provocato. Questo abbiamo espresso senza sottintesi prima di delegare i poteri legislativi, quando nelle mie dichiarazioni alla Camera affermavo che i nostri amici entrati al governo, al di là di ogni valutazione della sua opera e funzionalità passata, intendevano che «quest’istituto parlamentare che i nostri padri ci hanno conquistato attraverso il martirio delle lotte per la libertà e che rappresenta il patto d’alleanza tra la maestà del Re e il suo popolo, debba rimanere per rinvigorirsi a presidio della libertà dei cittadini e per la grandezza d’Italia» e questo va riaffermato oggi di fronte ad un’efflorescenza morbosa di piani fantastici che vorrebbero ridurre il popolo italiano, fra tutti i popoli del mondo, ad uno stato permanente di minorità. Noi confidiamo invece che il governo si proponga, e crediamo debba proporsi, di riabilitare l’istituto parlamentare. L’amico Boggiano vi dirà come; io accenno solo alla riforma elettorale. Il fascismo né come dottrina, né come movimento è di per sé antiproporzionalista. Nel suo primo programma del ’19 – l’ho scritto io – interruppe Mussolini alla Camera – si chiede anzi esplicitamente la proporzionale, per la quale più tardi il Popolo d’Italia proporrà il collegio unico. L’ostilità contro la proporzionale venne invece inoculata in alcuni fascisti dirigenti dalla stampa liberale democratica che durante l’ultima crisi condusse una vivacissima campagna. Gli argomenti sono noti. Li riassumerò applicando una frase del senatore Tittoni e dicendo che il lupo uninominale accusava l’agnello proporzionalista d’aver intorbidato le acque del ruscello parlamentare. Durante questa campagna nacque l’idea di Michele Bianchi per la introduzione di un peggiorato sistema francese . In Francia tale riforma, perché mescola il sistema maggioritario con la rappresentanza proporzionale, venne definito il tentativo di «marier le Grand Turc à la république de Venise». Ebbene, in Francia il tentativo non è riuscito e si ha per certo il divorzio. In Italia deve proprio essere il fascismo a fare il paraninfo in un tale ibrido connubio? No! Speriamo ancora di no; perché il fascismo che è forte individualità (sono le individualità che fanno i governi stabili) dominando anche le coalizioni, il fascismo dovrebbe essere l’ultimo a sentire il bisogno di barricarsi dietro un privilegio di congegni algebrici e geometrici. Comunque, è dovere di sincerità ripetere ancora una volta che, su questo terreno, non lo potremmo seguire. Si dirà che è per egoismo di partito. Certo ogni partito che rappresenta un’idea ha diritto di difenderla per attuarla; ma dimostreremo coi fatti che per noi è il numero dei mandati il fattore decisivo. In Francia si muta sistema, perché il pendolo non si lanci dall’altra parte: è un esempio troppo grande perché convenga ripeterlo, anche a spese nostre. Comunque, pochi o molti, i popolari saranno quelli che sono o non saranno. Per gli uomini che vengono dall’azione cattolica o dalle organizzazioni operaie non vi può essere scelta alcuna fra il pericolo di perdere il mandato o quello di smarrire nella massa grigia di un blocco, reso permanente dello stesso sistema elettorale, il carattere che prima di licenziarli ha impresso sulla loro fronte la democrazia cristiana. Ed ora, amici miei, veniamo alla collaborazione come si presenta nel paese. Parlando della collaborazione ministeriale, Mussolini aveva dichiarato alla Camera di aver voluto anche la collaborazione dei popolari. Ebbene in quante province, in quanti comuni i minori capi del fascismo hanno manifestato tale intento e rivelato tale atteggiamento di spirito? Non si è ripetuto piuttosto che «del partito popolare non conveniva fidarsi, che bisognava svuotarlo del suo contenuto, scinderlo ed assorbirlo» perché era «un equivoco dannoso alla nostra vita nazionale»? Ma che citiamo parole, quando in troppi luoghi il rigurgito dei partiti anticlericali, penetrato nel fascismo, lo mantenne rispetto a noi e ai cattolici in genere in uno stato di ostilità che ha causato spesso in molti nobili amici lacrime e sangue e a molte istituzioni locali nostre la rovina? Non insisto su questo argomento sentimentale e non vi accenno che per doveroso omaggio e un saluto di solidarietà a quei nostri che avendo patito ingiustizia, sono venuti qui non a reclamare vendetta, ma ad invocare, finalmente, la pace per tutti gli uomini di buona volontà. Prendiamo atto che il fascismo tende a temperare il clima storico, nel quale la violenza si accese e che, qui e là la giustizia che s’era squagliata, torna a far capolino. Ma non basta ancora. È lo spirito che deve dire l’ultima parola. Anche oggi, o signori, le misure di pubblica sicurezza, le leggi, non bastano: è necessaria la purificazione degli spiriti, la propiziazione. Mussolini nel periodo delle spedizioni cruente disse una volta alla Camera: «Se non si finisce, si va a picco». Era il richiamo della patria e già valse l’immagine dolorosa della madre comune a moderare e ridurre l’impiego della violenza, a organizzarla per scopi ideali. Ma bisogna guardare più su di quello che potessero guardare, all’immagine di Cristo, il quale ci diede la legge nuova della fratellanza umana, la sola che possa afferrare tutto lo spirito di tutto un popolo e purificarlo. Non si creda o signori, ch’io introduca a forza un criterio pastorale nei criteri della politica: questo richiamo alla legge divina vuol dire che siamo giunti ai limiti estremi delle formule umane e che noi intendiamo di giovare alla collaborazione nel paese, impegnando soprattutto i nostri amici politici a predicare e a osservare e a chiedere l’osservanza de’ sublimi precetti della carità. Senonché, parlando di collaborazione nel paese, c’è un campo soprattutto nel quale conviene intendersi con tutta chiarezza. Siamo grati al presidente del consiglio il quale recentemente ha dichiarato al collega Achille Grandi che «per ciò che riguarda l’assorbimento coatto in una sola organizzazione di organizzazioni affini e antitetiche»… egli era contrario a qualsiasi forma di monopolio sia sindacale sia padronale, perché «questa tendenza monopolista contrasta fondamentalmente con tutte le dottrine da cui prende espressione il movimento fascista ed anche contro la politica di governo instaurata dopo la marcia su Roma». Bisognerebbe decretare l’affissione di questo comunicato in tutte le officine e in tutti gli uffici d’Italia, dappertutto ove si tenta invece di costruire, in un’atmosfera di compressione, una specie di sindacalismo di stato, il quale è ben altra cosa dell’organizzazione giuridica delle classi come è prospettata dal nostro vecchio programma. Nel campo sindacale desideriamo la collaborazione, ma la collaborazione non è possibile se non in regime di libertà. Abbiamo tutta la comprensione per un sindacalismo nazionale che liberi i sindacati dallo sfruttamento dei partiti politici e li affranchi dai dogmi dell’internazionalismo rivoluzionario e sarebbe una fortuna per l’Italia se, come accadde in Germania, nei sindacati nazionali e nei sindacati cristiani si offrisse agli operai la libera scelta di una difesa che li tuteli tanto contro lo sfruttamento economico quanto contro lo sfruttamento rivoluzionario. Non ci trova nemmeno ostili – per quanto gli esperimenti compiuti ci rendano scettici – la tendenza che ha profonde radici nella storica tradizione delle nostre corporazioni e che ora ripassa le Alpi nella veste dell’«Économie nouvelle» propugnata dai nazionalisti francesi: quella di raggruppare sotto l’egida di un solo pensiero animatore tutti gli elementi della produzione; tendenza del resto che trovò una nostra solenne espressione finalistica nell’appello del consiglio nazionale al tempo dell’occupazione delle fabbriche. Ma questa nuova economia che deve rappresentare il massimo sforzo della collaborazione sociale non germina, non si sviluppa, non si crea senza il soffio della libertà. Magica parola che torna spontaneamente alla fine di ogni capoverso del mio discorso e che per me, liberato appena dal dominio straniero, sente ancora del classico sapore, ma che oggi, estendendone e approvandone il contenuto, uso a significare lo stato delle istituzioni e degli spiriti che permetta e raggiunga il massimo di solidarietà per la ricostruzione della patria. […] [13 aprile, seduta antimeridiana] L’on. De Gasperi, replicando ai vari oratori, osserva innanzitutto che il primo problema di collaborazione è quello interno del partito per cui gli organi direttivi e cioè Consiglio nazionale, Direzione del partito e Gruppo parlamentare agirono anche in questo campo in pieno accordo, pur con responsabilità diverse. Conseguentemente riafferma la integrazione e la solidarietà delle due relazioni e dei due ordini del giorno presentati dal segretario politico e da lui. Agli amici di destra osserva che egli non può accettare il loro ordine del giorno non per quello che in esso è detto, ma per quello che in esso è sottinteso. Essi furono infatti vittime di una campagna di denigrazione del P.P.I. per cui venne messa in dubbio la lealtà di esso nella collaborazione, ma sfida chiunque a citare un caso solo in cui questa lealtà venne meno. Ora il chiedere oggi la «leale» collaborazione significa squalificare la «lealtà» precedente. E per tale ragione non può accettare l’ordine del giorno dei destri. Ringrazia poi gli amici di sinistra di essersi schierati contro il suo ordine del giorno: esso infatti implica approvazione dell’atteggiamento assunto dal Partito di fronte al Governo e quindi l’approvazione da parte della sinistra anticollaborazionista non avrebbe fatto che ingenerare un equivoco. Il loro distacco però non è un distacco dal partito, essi seguiteranno ad essere fedeli alla disciplina; il loro voto contrario avrà solo divisione di responsabilità, ma essi, fedeli alla disciplina, non sminuiranno né attueranno l’esperimento collaborazionista. Si è parlato molto da parte degli amici di sinistra delle sorti del partito popolare; ma fino a che è così grave la situazione della patria, le sorti di ogni partito sono legate ai massimi sforzi che esso saprà compiere per il bene generale del paese. E la situazione dell’Italia è ancor oggi assai grave, le condizioni finanziarie disastrose, la riforma amministrativa tante volte promessa non ancora iniziata, ed è realtà dire che la nazione è boccheggiante, come egli disse al Capo del Governo. Il P.P.I. a questa svolta della storia deve dunque dimostrare d’essere il partito delle speranze e del rinnovamento d’Italia. Del resto nell’ordine del giorno, che ha proposto, la collaborazione ha una tendenza, una figura, una personalità propria che cerca di far valere, mentre nella seconda parte egli ha introdotto un mandato al Consiglio nazionale. Il Congresso stabilisce la linea, i postulati le trincee. Non è possibile senza indebolire la possibilità di manovra parlare di piani, ecco perché il Consiglio nazionale che rappresenta l’anima del partito potrà meglio interpretare quello che il Congresso ha voluto o alle cui deliberazioni si ispirerà. Dichiara poi di non rispondere all’on. Tovini perché non presente. |
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| DE GASPERI. Onorevole Presidente, io intendo proporre la votazione per divisione sull’ordine del giorno Larussa , nel senso che si voti prima sopra la parte: «La Camera, confermando la fiducia al Governo» e che si voti poi sopra la parte: «approva i principî della riforma elettorale e passa alla discussione degli articoli». (Commenti -– Rumori a sinistra). Intendo motivare e spiegare il nostro atteggiamento (Rumori prolungati a sinistra)… brevemente e onestamente… (Interruzioni dei deputati D’Alessio e Persico). PRESIDENTE. Onorevoli D’Alessio e Persico, facciano silenzio! DE GASPERI. Gli egregi colleghi di quella parte credono che noi da questi banchi si sia voluto fare un qualsiasi ostruzionismo contro il discorso dell’egregio amico onorevole Innocenzo Cappa. Neanche per idea! Questo è un malinteso. (Interruzioni). PRESIDENTE. Facciano silenzio! Onorevole De Gasperi, prosegua. DE GASPERI. Il presidente del Consiglio ha avuto delle espressioni, riferendosi al partito popolare, che non si possono dire benevole (commenti), specialmente quando ha parlato della nostra cooperazione e del nostro collaborazionismo, illustrato dall’amico Gronchi, e che egli ha classificato come matrimonio di convenienza… Voci. Malthusiano! (Ilarità). DE GASPERI. Ora a me pare che nei circoli del partito del Governo si sia avuta, in riguardo, una opinione sempre inesatta, quando si è ritenuto che il nostro sforzo del passato, di collaborazione o cooperazione col Governo, potesse convenire agli effetti dei rapporti con le nostre masse elettorali. In questo senso il matrimonio era tutt’altro che di convenienza, perché la verità è che, date le situazioni locali, noi dovevamo fare forza sopra il sentimento spontaneo, istintivo delle nostre masse, perché comprendessero che il nostro sforzo era diretto e si fondava sopra la fiducia che veramente gli uomini del Governo e l’onorevole Mussolini in particolare volessero mettere a disciplina il proprio partito e incanalare la rivoluzione fascista nella costituzione, nell’ordine, nella libertà. E non si può dire davvero che in questo riguardo il nostro collaborazionismo sia stato per noi di convenienza. Tutt’altro; non ci conveniva, ma conveniva, secondo la nostra coscienza, all’interesse del paese, all’interesse generale della nazione e per questo abbiamo votato in senso favorevole, quando si trattò di dare il voto dei pieni poteri, abbiamo votato in senso favorevole anche quando si trattò di votare un bilancio a lunga scadenza, quale mai un Governo ha avuto. Coerentemente a questo e per tali ragioni daremo anche il nostro voto favorevole sulla prima parte dell’ordine del giorno Larussa. Il presidente del Consiglio ci ha anche rimproverato dei sottintesi. A noi pare che la discussione sopra la riforma elettorale sia l’occasione meno propizia per poterci accusare di sottintesi. Abbiamo fatto conoscere con tutta chiarezza e coerenza, in assemblee e nella pubblica stampa, il nostro punto di vista da quattro mesi in qua, vedendo avvicinarsi la riforma elettorale. Non abbiamo lasciato nessun equivoco su questo, che cioè noi volevamo tener fermo il nostro punto di vista… (Commenti – Rumori). Il presidente del Consiglio si è riferito a delle nostre proposte di transazione, e fissando la sua attenzione ad uno solo dei punti, e non al capitale, ha detto che si tratterebbe di un piccolo commercio immorale, di una transazione per 30 o 40 mandati che onestamente il Governo non vuol fare e che sarebbe una immoralità il fare, avvilendo così il nostro punto di vista transattivo a questo: che tutta la differenza tra il progetto del Governo e della Commissione e le nostre proposte consisterebbe, o consisterebbe soprattutto, nella differenza del premio che viene dato alla maggioranza. Ora è ben noto a tutti coloro che hanno studiato la legge e che hanno seguito le nostre proposte ed è stato reso manifesto soprattutto durante la discussione della Commissione stessa, ed è stato rilevato da altro canto dall’onorevole Casertano nella sua relazione di maggioranza, che il punto di differenza sostanziale fra il progetto governativo e della Commissione e le nostre proposte sta nello stabilire che fino ad un certo limite debba valere il criterio proporzionale puro, e al di là debba subentrare un premio proporzionato al numero di voti che la lista prevalente abbia ottenuto. (Commenti – Rumori). Ora è ben chiaro che qui non si può trattate di contratto o di commercio di mandati da regalare o non regalare al partito popolare o a chicchessia. In realtà si tratta di un principio moralizzatore della legge perché stabilisce che solo quando una lista è veramente una lista predominante nella nazione, solo in questo caso, le si possa assicurare una maggioranza parlamentare, non in ogni caso e a qualsiasi condizione. (Commenti). Questa nostra proposta è tolta, come è noto, dal progetto di legge del 1920 ed è un elemento di stabilizzazione del processo politico e con lo stesso significato noi popolari lo abbiamo fatto valere. (Commenti – Rumori). Ora, confrontando con ciò i princìpi che dominano il progetto governativo, noi sentiamo che non possiamo approvarli. Sono così in contrasto con l’atteggiamento nostro, non soltanto programmatico, ma anche con quello di transazione, che non possiamo votare la seconda parte dell’ordine del giorno Larussa, dove è detto che si approvano i princìpi della riforma. Logicamente avremmo anche deciso di votare contro il passaggio alla discussione degli articoli se il presidente, alla fine del suo discorso, non avesse fatto la formale dichiarazione di rimettersi alla Camera per quello che riguarda la struttura della legge, purché venisse rispettato il principio fondamentale voluto dal Governo, cioè di facilitare la formazione della maggioranza parlamentare. Preso atto di queste dichiarazioni, volendo rendere possibile a noi e alla Camera di esprimersi in concreto sulle nostre proposte e ritenendo, dopo le odierne dichiarazioni, che il Governo non difficolterà la soluzione che venisse trovata in conciliazione con i nostri princìpi, dichiariamo di astenerci dal voto sul passaggio alla discussione degli articoli, ma aggiungiamo onestamente e francamente che ci riserviamo libertà d’azione, votando in scrutinio segreto anche contro tutta la legge, qualora i nostri emendamenti non trovassero una adeguata considerazione. (Approvazioni al centro – Commenti). |
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| DE GASPERI. Chiedo di parlare. PRESIDENTE. Ne ha facoltà. DE GASPERI. L’onorevole Micheli ed io abbiamo votato per il testo della Commissione. È una questione eminentemente tecnica e, quindi, non posso fare dichiarazioni a nome dei miei amici. … PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole De Gasperi. DE GASPERI. Volevo chiedere se non si potesse sostituire: «durante l’esercizio delle loro funzioni». Perché anche nel pomeriggio del sabato vi è l’esercizio di questa funzione… |
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| Il sottoscritto chiede d’interrogare il ministro delle finanze, per conoscere quali criteri ha seguito nell’interpretare l’articolo 14 del Regio decreto n. 440. In base alle norme legislative del cessato regime gli impiegati acquistarono il diritto alla pensione al compimento del 40° anno di servizio; la pensione stessa importava per questi 10 anni il 40 per cento e per ogni anno successivo il 2,4 per cento dell’ultimo stipendio e di una parte dell’aggiunta di attività per modo che al compimento di 35 anni di servizio all’impiegato spettava come pensione l’intero stipendio ultimamente percepito più la corrispondente parte di aggiunta di attività. Quando il tempo di servizio utile per la liquidazione dell’intera pensione fu ridotto da 40 a 35 anni, fu corrispondentemente aumentato il contributo a carico dell’impiegato, per la pensione. La Commissione interministeriale incaricata di predisporre l’assimilazione riconobbe il carattere di «diritto acquisito» al diritto della pensione per quegli impiegati che alla data del 1° luglio avessero compiuto 10 anni di servizio e riconobbe pure, che avendo gli impiegati versato il loro contributo per la pensione in ragione di 35 anni anziché di 40, come è possibile dalle norme del Regno, gli anni di servizio fino alla data sopradetta dovevano computarsi in ragione di 35:40 (per gli insegnanti in ragione di 30:40) per modo che un anno corrispondeva ad un settimo (rispettivamente 1=1: 1/3, per gli insegnanti). In base a tale riconoscimento di diritti la Commissione aveva formulato l’articolo 16 dello schema di decreto dell’assimilazione giuridica come segue: Art. 16. agli effetti della liquidazione della pensione il tempo utile di servizio prestato fino al 1° luglio 1920 va computato in base alle disposizioni del cessato regime; quello compiuto dopo la data anzidetta secondo le norme vigenti nel Regno. In tutti i casi in cui, secondo le norme vigenti nelle vecchie province è prescritto un tempo complessivo di servizio di 40 anni, gli anni di servizio effettivo di 30 o 35 ani sono da calcolarsi nel rapporto di 30:40 o 35:40, così che adogni anno compiuto fino alla predetta data va aggiunto un terzo o un settimo di anno. L’esistenza delle altre condizioni per l’acquisto del diritto alla pensione diretta o indiretta, sarà valutata a norma delle leggi ed ordinanze del cessato regime, in quanto le condizioni stesse si siano verificate prima del 1° luglio 1920. Al corrispondente articolo 14 del Regio decreto degli 8 febbraio 1923, n. 440 (Gazzetta Ufficiale 12 marzo 1923, n. 59), sull’assimilazione giuridica fu nella relazione finale data la seguente dizione: «Per la determinazione del servizio utile agli effetti della liquidazione della pensione saranno applicate fino al 1° luglio 1920 le disposizioni del cessato regime». Dovrebbe essere inteso che questo articolo contenga in una dizione più concisa, come si conviene allo stile delle leggi, le disposizioni espresse nei tre comma dell’articolo 16 del succitato schema di decreto, altrimenti tutto l’articolo non avrebbe senso. Il Ministero delle finanze invece con suo recente decreto diede al predetto articolo 14 una propria interpretazione – dal proprio punto di vista, dice il decreto – nel senso cioè che le disposizioni del cessato regime valgano soltanto per determinare o giudicare, se una determinata specie o qualità di servizio sia o meno comprovabile agli effetti della pensione e dispone che il diritto alla pensione non possa essere acquistato che al compimento del 20° anno di servizio, viene quindi anche escluso il computo del tempo passato al 1° luglio 1920 nella proporzione di un anno=1:1/7. Con ciò viene negato agli impiegati un diritto la cui esistenza non era messa in dubbio da nessuno. Difatti l’impiegato che sotto l’impero delle leggi del cessato regime ha compiuto 10 anni di servizio, ha acquistato il diritto alla pensione diritto il cui esercizio era subordinato all’avverarsi della condizione risolutiva della incapacità a prestare servizio; in ogni momento che questa capacità fosse subentrata l’impiegato poteva far valere il suo diritto. Una legge posteriore, la quale modifica le norme sulle pensioni non può distruggere diritti già acquisiti in base alle norme precedenti, ma avrà vigore soltanto ex nunc cioè sui rapporti futuri; potrà cioè questa legge cambiare la base di commisurazione della pensione, modificare il tempo richiesto per ottenere la piena pensione, stabilire altre condizioni per la pensione, ma non può togliere all’impiegato quello che in forza di leggi esistenti e del suo contratto di servizio gli spetta al momento dell’entrata in vigore della legge nuova. Ciò vale naturalmente anche per il computo del tempo di servizio fino al 1° luglio 1920 nella proporzione di 1:1/7 parchè questo computo più favorevole fu «comperato o pagato» dall’impiegato, che per questo scopo dovette versare un contributo maggiore. Anche questo è quindi un diritto naturale o contrattuale, che unilateralmente non può essere violato. Del resto ritenendo valida la interpretazione del ministero delle finanze, arriviamo a queste incongruenze. Esempio: Due impiegati A. e B. avevano al 1° gennaio 1923 ciascuno 15 anni di servizio. A. divenne incapace al servizio o aveva a suo carico circostanze sfavorevoli per cui fu esonerato dal servizio cioè pensionato, in base alle norme in regime allora vigenti, liquidò la pensione nella misura del 52 per cento (40 più 2 – 5) del suo stipendio: B. invece era sano o aveva un contegno irreprensibile, ma in settembre 1923 (dopo la pubblicazione dell’assimilazione economica della sua amministrazione) divenne per malattia incapace al servizio, egli è esonerato dal servizio senza alcun diritto a pensione perché non ha compiuto 20 anni di servizio. (L’interrogante chiede la risposta scritta). De Gasperi |
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| È una collezione di decreti prefettizi, scelti, come dice il chiaro A. «tra i mille decreti e ordinanze che ha firmato entro l’ambito dell’una o dell’altra delle due legislazioni che nella Venezia Tridentina trovansi tuttora in contatto». «Sono come lampade che indicano a distanza il tracciato di una via; sono quelli che meglio portano l’impronta mia personale, perché da me direttamente voluti e compilati. Essi eccedono l’ordinaria amministrazione e, per la maggior parte, poggiano sui poteri discrezionali attribuiti ai Prefetti dall’articolo 3 della legge comunale e provinciale: l’editto pretorio, di fianco alle leggi solenni delle XII tavole» . Le leggi La raccolta è preceduta dal manifesto pubblicato dal prefetto, quando «assunse il governo della Venezia Tridentina», manifesto il quale ricorda che «il diritto italico, seconda la tradizione della nostra gente è garanzia e presidio per tutti, e perciò tutti devono leale rispetto alle nostre leggi, improntate a sicura equità». Seguono i decreti. I decreti I primi sei trasformano le scuole comunali tedesche della zona mista in scuole italiane e sopprimono gli asili tedeschi di Laives e di Egna, tanto comunali che privati. Il settimo «ritenuta la necessità e l’urgenza di sistemare definitivamente l’uso della lingua negli uffici», introduce la lingua d’ufficio italiana negli uffici statali, provinciali «nonché per tutti i comuni e per gli istituti, stabilimenti, uffici, servizi ecc. da essi dipendenti». Entrata in vigore per i comuni e per i loro istituti: 1. marzo 1924. Un altro decreto reca il titolo «uso della lingua italiana nelle funzioni religiose» e riguarda l’uso esclusivo della lingua italiana nella chiesa di Bronzollo. Più vasto è il n. 21083 Gab. che stabilisce «l’uso della lingua italiana in tutte le scritte e leggende rivolte al pubblico». Questo decreto vuole la bilinguità delle tabelle, dei cartelli, delle scritte in tutte le località, nelle quali finora si usava la lingua tedesca. Ma esso è datato 26 novembre 1922. Circa un anno dopo – 28 ottobre 1923 – il prefetto emana, a modificazione del vecchio, un nuovo decreto nel quale «considerato che l’utile e l’interesse dei privati cittadini hanno già spontaneamente allargata la applicazione del decreto stesso oltre i limiti dal medesimo segnati», «ritenuta la necessità e l’urgenza di regolare ulteriormente l’uso pubblico della lingua tedesca», si ordina che tutti i cartelli, avvisi, indicazioni, insegne, etichette, tariffe ed in genere tutte le scritte e legende rivolte o destinate al pubblico anche se concernono interessi privati, siano esse redatte esclusivamente in tedesco. Però nei territori tedeschi il testo italiano può essere per ora seguito da una traduzione tedesca, fatte eccezione per le cartoline illustrate e per le scritte e legende esterne nelle stazioni climatiche, turistiche e di villeggiatura, ove si potranno leggere solo scritte italiane. Entrata in vigore del decreto per alcune disposizioni il 1. febbraio 1924, per altre il 1. maggio. A questi decreti linguistici s’aggiungono quello «sulla revisione delle iscrizioni» sui monumenti ai caduti in guerra, quello per la proibizione del nome Tirolo e derivati, quello dello scioglimento delle associazioni invalidi di guerra tedeschi e delle associazioni alpinistiche, la fissazione di una percentuale per la mano d’opera straniera negli esercizi pubblici, e infine la revoca di un’opzione con questa motivazione giuridica: «visto il decreto ecc. del Commissariato generale col quale veniva riconosciuta la cittadinanza italiana al signor N. N. considerato ch’egli per il suo comportamento politico è indegno della cittadinanza italiana, considerato che il decreto sopraindicato poggia pertanto su un errore di fatto nei riguardi della condotta politica dell’interessato, errore che inficia di manifesta ingiustizia il provvedimento stesso», decreta la revoca del succitato decreto. Infine la raccolta contiene un decreto che ha importanza per tutta la regione, ed è quello dei «provvedimenti per il concorso forestieri». Digressione Riferito così esattamente il contenuto del libro, i lettori non si attenderanno di trovare in una recensione bibliografica una valutazione politica sugli scopi e sul contenuto dei provvedimenti. Si tratta di un esperimento in corso, che in gran parte non è ancora iniziato, perché i termini dell’applicazione non sono ancora scaduti. Onde in tale delicata materia, il riserbo è giudizioso e doveroso. Piuttosto, giacché l’A. qualifica questi decreti come «lampade che indicano a distanza il tracciato d’una via», saremmo tentati di dire il nostro pensiero su questo tracciato e su questa via. Ma i lettori comprendono che un nostro giudizio espresso in un momento nel quale la stampa tedesca è in preda alla più nera esasperazione – vedere gli articoli di capo d’anno – e cerca un qualsiasi pretesto per alimentare la resistenza a ogni modificazione dello «status quo ante», non potrebbe venir accolto in un’atmosfera di serenità e di oggettività. Tanto più che, qualunque sia il nostro giudizio sull’opportunità e sulla fortuna di questo o di quel decreto, non intendiamo per nessun conto d’incoraggiare gl’interessati a una tattica di opposizione né di accarezzare le loro speranze di una revoca da parte del governo centrale. In vero, il prefetto parla di decreti «direttamente voluti e compilati» da lui, ma, come abbiamo altra volta accennato, non c’è dubbio che la sua iniziativa non sia stata previamente approvata dal Governo centrale, il quale notoriamente aveva sanzionato anche il programma del Tolomei . Onde l’avocazione che il presidente del Consiglio ha fatto a sé della regolazione di tali questioni va intesa nel senso della legislazione ulteriore o della pratica applicazione dei decreti già emanati: cosicché se potessimo dare un consiglio ai tedeschi sarebbe quello di rinunziare all’opposizione di principio ai decreti e al ridicolo tentativo di mettere un contrasto fra Roma e Trento, e di sottoporre invece al Governo – prefetto e ministri – tutte le questioni di carattere esecutorio che nascono nella graduale applicazione della maniera cosiddetta forte, mentre a Roma si andrebbe più cauti. A smentire definitivamente tale leggenda s’incarica oggi il prefetto stesso che reclama, a ragione, la sua impronta personale e la sua diretta volontà e compilazione; e d’altro canto i tedeschi non dovrebbero ignorare che i politici trentini, in quanto con questa designazione si intenda indicare gli uomini che hanno fatto a suo tempo una politica trentina ed hanno quindi una lunga esperienza di lotte linguistiche, per questa stessa loro esperienza, che si riferiva ad una situazione capovolta, non vengono ritenuti idonei a illuminare il tracciato della via odierna. Dopo ciò, abbandoniamo la politica e torniamo alla bibliografia. L’editto pretorio Prima osservazione: l’editto pretorio. Ci sembra che l’egregio A., al quale riconosciamo senza dubbio una maggior competenza giuridica della nostra, sia caduto in un lieve errore, quando confronta i poteri discrezionali attribuiti ai prefetti dall’art. 3 coll’edictum pretoris del diritto romano. Il diritto pretorio, se ci soccorre la memoria rappresentava il diritto consuetudinario fondato sopra l’equità e contrapposto al severo diritto civile. Il pretore lo sviluppava anno per anno nel suo manifesto legislativo ch’era appunto l’album praetoris. L’articolo 3 della legge comunale invece dice che il prefetto «veglia sull’andamento di tutte le pubbliche amministrazioni, ed in caso d’urgenza, fa i provvedimenti che crede indispensabili nei diversi rami di servizio». È difficile trovare in quest’articolo i poteri legislativi del pretore romano; e se è vero che coll’articolo 3 (non senza resistenze della magistratura del resto) in tempi torbidi si sono fatti anche dei decreti sociali circa i contratti agrari, rimane fisso che il legislatore, deliberando l’art. 3, non fantasticò nemmeno in sogno ch’esso ritenesse una delega legislativa. Come mai del resto il Parlamento avrebbe creduta necessaria una delega legislativa al Governo per modificare, coordinare ecc., le leggi delle Nuove Provincie, delega contenuta nell’articolo 4 della legge sull’annessione, se avesse potuto immaginare una siffatta interpretazione dell’articolo 3 della legge comunale? E come mai il praetor urbanus et maior, cioè l’on. Mussolini avrebbe chiesti alla Camera i pieni poteri, se essi fossero stati, eo ipso già concessi al pretore provinciale? Riteniamo quindi che il comm. Guadagnini, nella sua prefazione usi una dizione impropria e alquanto anacronistica. Un’altra menda troviamo nel titolo: un anno nella Venezia Tridentina. Ampiezza del titolo La provincia si chiama ufficialmente «provincia di Trento», salvo a dire che nel Consiglio dei ministri, nel quale si deliberò la sua costituzione, per espressa volontà dell’on. Mussolini, si disse Trentino e Trentino si pubblicò anche nel comunicato. È vero, storicamente, il nome Trentino non era esatto ma politicamente aveva un significato, che Mussolini ha voluto accentuare e che noi faremo male a lasciar degradare a denominazione subregionale da porsi accanto a quella di Alto Adige. Ora il nome di Venezia Tridentina più sonante e più ampio reca dei vantaggi, ma anche dei danni; quello cioè di immergere il trentino col suo carattere glorioso in una unità, confusa di monolingui e bilingui, di italiani, cittadini del Regno e di tedeschi; dimodochè guardando da Roma, quando si emanano decreti e provvedimenti – lo sanno i funzionari – non si distingue bene fra chi viene dal di qua e chi viene dal di là. Il nome insomma non sopperisce alla confusione purtroppo quasi generale che si fa tra l’Alto Adige e il Trentino. Ora Dio ci guardi dal discutere il problema dell’unità provinciale. No, parliamo solo dell’uso del nome per un libro che riguarda per cinque sesti l’Alto Adige. Non c’è pericolo che il lettore lontano prendendo in mano questa collezione di decreti, esprima le sue meraviglie che nella terra redenta si sia dovuto ricorrere a provvedimenti così eccezionali per farla italiana? – Avremo dunque preferito un titolo più ristretto. Certo che se si fosse riferito il titolo della collezione all’Alto Adige, non ci avrebbe trovato posto il decreto sul concorso forestieri. C’era però il rimedio: bastava farne un’edizione a parte con raffronti alla ex legge provinciale, e sarebbe stata una pubblicazione utile per tanti altri prefetti. Ovvero (perdoni l’A. se gli diamo ancora dei suggerimenti bibliografici) posto che il titolo dovesse rimanere, bastava completare il contenuto. Un anno nella Venezia Tridentina: quanti documenti editi ed inediti sul governo di questo anno, tra i quali qualcuno poteva stare nella categoria dei pretoriani! Poiché faremo torto all’acume dell’A. se supponessimo ch’egli avrebbe collocato nelle XII tavole i decreti per lo scioglimento dei comuni, per il licenziamento dell’amministrazione provinciale, per il sequestro dei giornali ecc. tutta roba, come ognun vede, che appartiene al più legittimo e più moderno ius honorarium et praetorium. Senonchè quello che non s’è fatto questa volta, si potrà fare un altr’anno. E noi – siamo ancora nel periodo augurale – ci permetteremo di fare al comm. Guadagnini e alla regione l’augurio che alla fine del 1924 possa venir pubblicato un secondo fascicolo col titolo: Un secondo anno, ecc. il quale contenga decreti e provvedimenti per il risanamento finanziario dei nostri comuni, per l’integrazione del loro bilancio data la cessazione dell’introito per la tassa sul pane, per l’esecuzione di lavori pubblici, per la riduzione della tassa sul vino, per il contributo alla costruzione delle ferrovie locali, per la pubblica istruzione ed altri simili. Se questo avverrà, garantiamo fin d’ora che il libro avrà un notevole successo e che nessun pedante oserà esaminarlo dal punto di visto del diritto romano o del codice italiano e perdere, come purtroppo abbiamo fatto questa volta, due colonne a scrivere delle saccenterie bibliografiche. |
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| L’oratore esordisce affermando che ha accettato come un dovere di sostituire all’ultimo momento il capo del partito on. Rodinò e dichiara di sentirsi a disagio nel pronunciare un discorso in mezzo ad amici che meglio forse avrebbero affidato tale compito a un giovane sul cui animo non sia ancora passato il soffio gelido dell’esperienza, che oggi potrebbe meglio trovare le parole d’incitamento perché vergine di vittorie e di sconfitte. Non può sfuggire al pensiero che qualcuno possa ricordare al presidente del gruppo parlamentare popolare e a chi da tre anni oramai è membro della direzione del partito come le sue parole possano risentire delle apparenti o reali sconfitte che il gruppo parlamentare ha in questi ultimi anni sofferto. E infatti considerando la sua attività ricorrono alla sua memoria tre quadri che paiono riassuntivi. Ai tempi di «bandiera rossa» Il primo è una grigia giornata del settembre 1920 quando i consiglieri nazionali, dopo aver percorso l’Italia vedendo ovunque le bandiere rosse issate sulle fabbriche e i magazzini ferroviari, si raccolsero a Roma per stabilire che cosa avessero da dire al popolo italiano. Bisognava allora non soltanto ripetere la parola della «salda resistenza agli elementi di disgregazione anarchica della compagine nazionale» come era fissata già nei nove punti popolari per la formazione del ministero Nitti, ma bisognava aggiungere una direttiva risoluta che corrispondesse alla nostra scuola cristiano-sociale e alle esigenze del momento economico. Come un’eco molto lontana risuona ora quell’appello del Partito popolare italiano: «Il popolo italiano è ancora in tempo a scegliere fra la rivoluzione che ci porti la dittatura di classe e la legale trasformazione dei rapporti sociali, la quale crei le basi della nuova economia, e per essa della nuova organizzazione sociale e della nuova politica». L’appello continuava dichiarandosi contro il comunismo anche perché ci renderebbe schiavi dell’estero, ma contemporaneamente proclamava che l’«assoluta economia individualista del salariato non avrebbe più dovuto dominare incontrastata e segnava nella cooperazione, nella rappresentanza sindacale di tutti i fattori della produzione, nel partecipazionismo e nell’azionariato operaio, agevolati da norme giuridiche, la soluzione democratica cristiana del problema e conchiudeva: «facciamo appello alla coscienza nazionale perché, riscosso da sé il fatalismo suicida che pare l’abbia invasa, reagisca con tutta la forza della verità contro le suggestioni della propaganda rivoluzionaria. Il nostro paese non uscirà dalla presente stretta se abbandonata ogni violenza ed ogni pervertimento materialista, non verrà restaurato il senso morale e cristiano della vita e l’autorità della legge, espressione superiore delle esigenze collettive di tutte le classi sociali». L’idea di riforma economica sociale che dominava allora i nostri propositi venne però sviata dalla manovra dell’on. Giolitti il quale, pur accettando il principio antisociale del controllo nelle aziende industriali, meditava già di sfruttare la situazione per spingere verso la collaborazione ministeriale, giovandosi anche della tolleranza che egli lasciava alla già forte pressione fascista. Fisso in questo scopo, egli scioglieva nell’aprile 1921 la Camera e nella relazione al Re faceva appello ai lavoratori perché «invitassero i loro rappresentanti tutti a prendere nella vita politica una parte attiva anziché limitarsi alla funzione della sola critica»; e, tra amici, diceva: «bisognerà che si decidano a calar giù dall’albero». Cosicché il calcolo parlamentare soffocò il tentativo sociale e i popolari non hanno la fortuna di un periodo relativamente tranquillo come fu quello dell’ultimo decennio del secolo XIX nel quale il Centro germanico elaborò e fece votare la legislazione sociale più progredita del mondo. Non è però che i nostri sforzi si allentassero e che sia mancato ogni risultato. Basti accennare alla regolazione dei contratti agrari (legge Micheli e Mauri), al latifondo, alle proposte per le camere dell’agricoltura, ai progetti per la registrazione delle associazioni sindacali e per il Consiglio superiore del lavoro. Ma è certo che la bufera politica sopravvenuta troncò o rese nulla gran parte dell’opera legislativa che un partito come il nostro, venuto dalla scuola cattolica sociale, avrebbe voluto e potuto svolgere in favore del paese. Un altro punto sul quale si concentrarono in questi ultimi anni gli sforzi del partito, fu quello dell’organizzazione del Parlamento che è anche il problema della formazione parlamentare del governo. Ma si ricordi come scoppiò la crisi Bonomi. Labriola, che era allora nella grande compagine della democrazia, proclamò che bisognava «liberare il governo dalla triennale schiavitù dei popolari». Di Cesarò rimproverò ai ministri popolari di essere stati in Vaticano in occasione d’un grande lutto . Di fronte alla crisi, la direzione del partito confermava che la collaborazione del gruppo popolare non è possibile senza garanzie di carattere programmatico ed organico che diano maggiore stabilità alla vita parlamentare. Il quadro sintetico e conclusivo di questa situazione è dato da quella seduta dei direttori dei gruppi democratici e popolari che si raccolsero nel febbraio del ’22 nella sede della democrazia . Fu là che, frustrato ogni tentativo di corridoio e di manovra subacquea, i democratici addivennero con noi ad una discussione che portò ad una intesa programmatica sulla libertà d’insegnamento (esame di Stato), e alla proclamazione del principio del comitato di maggioranza che doveva organizzate il governo. Ben si ricorda però che ogni soluzione logica della formazione della maggioranza venne frustrata dalla spregiudicata manovra di Mussolini che, smentendo Federzoni, dichiarò di votare per l’ordine del giorno Celli. E si venne così a Facta, ministero che doveva cadere per la contraddizione interna e perché vano si dimostrò ogni sforzo di raggiungere una tregua fra i due estremi. Mussolini aveva parlato della possibilità dell’insurrezione contro lo Stato e i socialisti proclamarono lo sciopero generale politico. La situazione si svolse così, che il Consiglio nazionale popolare, raccolto il 20 ottobre 1922, a due anni dalla riunione che abbiamo citato nel principio, si credette in presenza di una minaccia della rivoluzione di destra, onde l’appello diceva: «Non è vano il timore che siano in pericolo le istituzioni dello Stato italiano», ma continuava «non si può tornare indietro e credere di poter governare senza mantenere saldo il regime democratico non nella forma inorganica e accentratrice di ieri, ma nella forma organizzata e decentrata di domani», e concludeva facendo appello alle nuove forze della nazione di voler decidersi a vivere entro le istituzioni costituzionali rinunciando alle organizzazioni armate. La collaborazione che venne data poi, a rivoluzione compiuta, non rinnega queste tendenze perché, come verrà proclamato a Torino, essa mira alla normalizzazione costituzionale. C’è bisogno di dire, conclude l’oratore, che anche su questo terreno, a giudicare dai risultati immediati, noi siamo dei vinti? La riforma dello Stato Il terzo postulato fondamentale che cercammo di realizzare fu la riforma dello Stato. L’oratore accenna in argomento alle note direttive del partito e ricorda come sotto il ministero Bonomi in una seduta della Camera l’insistenza colla quale i popolari richiedevano che, a proposito del progetto di riforma burocratica, il ministero elaborasse anche delle proposte per il decentramento istituzionale degli enti locali incontrasse il disinteresse o la diffidenza anche dei partiti di maggioranza. Non c’è bisogno di dire come le direttive di governo si siano svolte poi in un senso antitetico. La riforma amministrativa Acerbo reca un decentramento amministrativo entro gli organi dello Stato ma nega ogni maggiore autonomia alle provincie e non conosce le regioni. Avviene così nelle nuove provincie che, mentre col nuovo ordinamento si va approssimandosi all’organizzazione statale propria allo Stato austriaco (sottoprefetture eguali a capitanati distrettuali), vi si demoliscono quelle autonomie locali che di tale organismo burocratico erano l’indispensabile contrappeso, fornito dalle forze elettive. L’oratore accenna ancora all’insuccesso ottenuto nella lotta per la rappresentanza proporzionale e finisce: «A giudicare dagli effetti immediati noi dovremmo concludere come quell’imperatore romano che, accorso dall’estremo lembo dell’Asia, per difendere l’ultima frontiera della Gran Bretagna, essendovi sorpreso dalla morte, diceva sconsolato al suo centurione: Omnia fui; nihil expedit». L’idea e il partito Ma, esclama l’oratore, queste non sono che apparenze. Intanto noi potremmo dire che parecchie riforme buone attuate anche da questo governo sono dovute alla nostra propaganda; cosicché sedendo nel settore di minoranza, potremmo spesso ripetere come Thiers: «al banco dei ministri siedono le idee ch’io rappresento», ma sovratutto, qualunque siano stati i nostri insuccessi, gli amici sentono che non è sconfitta l’idea e che attorno ad essa abbiamo salvato il partito, sia da compromissioni programmatiche durante la collaborazione liberale, sia dall’isolamento una volta tentato dai giolittiani, sia dalla disgregazione che voleva provocare la pressione fascista. Forse più tardi, anche chi non lo vede oggi, vedrà che in mezzo a tutte le ristrettezze abbiamo risolto positivamente il quesito che ha tormentato i cattolici di tutti i paesi nell’ultimo cinquantennio, cioè se dovesse esistere un partito clericale o, come si diceva in Francia, «parti religieux», nel senso di una organizzazione politica al servizio di un’altra forza politica dominante che faccia concessioni religiose, o un partito politico autonomo, ad ispirazione cristiana, con propria idea politica fondamentale. Fu il travaglio del Centro dopo la prima fase della lotta sua confessionale, fu il principio che distinse Lueger dai cattolici conservatori, fu la lotta che si svolse in Francia al principio del secondo impero fra due uomini, degni entrambi di grande ammirazione. Allora Veuillot celebrava clamorosamente la politica trionfante e lanciava i suoi sarcasmi contro quelli che chiamava pettegolezzi dei parlamentari e molti furono allora i discorsi sacerdotali che, proclamando la propria incondizionata adesione alla nuova politica, esaltavano il Principe «que la Providence avait suscité pour arreter sur le bord de l’abîme la France et l’Église». Montalembert scrisse allora un libro per biasimare i giornalisti e i politici che tripudiavano sulla «tomba provvisoria della libertà»; e non si rileggono senza emozioni le seguenti parole scritte più di 72 anni fa: «Uomini che hanno invocato per tutta la loro vita la libertà, che hanno conquistata la fiducia e la giusta ammirazione dei cattolici mostrando loro come la libertà poteva servire al bene della verità, questi medesimi uomini sono arrivati oggidì a dichiararla inutile e pericolosa. Le costituzioni, le discussioni, i parlamenti, il controllo dei legislatori, delle assemblee non provocano presso di loro che un sorriso o lo scherno. Essi hanno trovato un padrone che vuol loro bene, e sembrano affidarsi ciecamente al favore di questo padrone e alla durata di questo favore. Chiudono gli occhi, si tappano gli orecchi su azioni che hanno fatto rivoltare tutta la gente onesta, su violazioni manifeste del decalogo, sotto il pretesto che si tratta di questioni indifferenti alla religione e di rappresaglie scusabili». Lo stesso Montalembert si levò dai banchi della minoranza a difendere il sistema rappresentativo, dichiarando che les couloirs di una assemblea valgono bene le anticamere dei palazzi. Non so, dice l’oratore a questo punto, se le riforme Bianchi verranno accolte dal capo del governo. Le previsioni non sono mai caute abbastanza quando si pensi al dinamismo dell’on. Mussolini e al fatto che questa estate pareva possibile una collaborazione colla Confederazione del lavoro. Ma se il concetto imperialista prevalesse, non è dubbio che i popolari alla Camera, pochi o molti che saranno, fra Veuillot e Montalembert, sceglieranno l’atteggiamento di Montalembert. La nostra idea politica fondamentale La nostra idea politica fondamentale, dice l’oratore, è la libertà. Non la libertà dell’89 che si fonda sui falsi principii della bontà originale dell’uomo, dell’eguaglianza naturale, della sovranità del numero; e nemmeno solo le libertà del ’48, quelle di stampa e di riunione, associazioni ecc. le quali libertà non possono essere che mezzi per arrivare alla libertà integrale e organica che deriva dai diritti naturali della persona umana, della famiglia, del comune, libertà delle franchigie reali in contrapposto all’onnipotenza dello Stato. «Battezzare la democrazia e sposarla colla libertà e questa mettere dappertutto»: ecco la conclusione che già nell’87 Cesare Cantù scriveva nell’epilogo della sua Storia universale. Questa è la nostra battaglia. Guardino però gli amici, specialmente i giovani che più facilmente soggiacciono alle suggestioni del momento, che sotto la stessa parola non accettino da una parte l’individualismo liberale e dall’altra il socialismo col quale abbiamo lottato da 50 anni e che oggi, invocando la libertà, non ha rinunziato alla riserva mentale del colpo di forza e della dittatura del proletariato. «Quando il potere è in piazza, dice un proverbio, finisce alla caserma». Guardando molti che oggi militano nel partito dominante, si capisce che erano pronti a salire tanto alla caserma rossa come a quella nera. È solo la circostanza politica che ha deciso, allo svolto di una via. Fra i due estremi sappiamo mantenere il nostro posto. Il tempo, disse un gran maestro della politica, sa per tutti trovare dei segreti che il genio stesso non trova. Siamo, conclude l’oratore, tutti d’accordo su questa linea strategica fondamentale? Ebbene, lasciamo da parte altre distinzioni tattiche che hanno un valore temporaneo. Non crede che tra le così dette tendenze di sinistra, centro e destra il divario sia essenziale. I Whigs, ha detto una volta O’ Connel , sono dei Tory non ancora entrati in maggioranza, e i destri sono spesso i sinistri vent’anni dopo. L’oratore preferirebbe che alla tradizionale topografia inglese si preferisse piuttosto la terminologia delle assemblee ateniesi. Colà esisteva una montagna, una pianura e… una «costa». Alla costa appartenevano in genere i negozianti, coloro che trasportavano dal mondo degli affari nella politica i loro metodi opportunisti e mercantili. Così nei partiti moderni vi sono i costeggiatori, i quali seguono ogni insenatura, girano attenti ogni scoglio e si tengono pronti ad approfittare del flusso e del deflusso. Ebbene, se ve ne sono anche nel nostro partito, noi dobbiamo trascinarli tutti verso il largo, proclamando che oramai la pessima legge elettorale ha almeno il vantaggio di disimpegnarci dalle preoccupazioni della manovra. Si va al largo, battendo bandiera propria, conquistandoci la libertà di predicare al popolo italiano che la sua salvezza sta nella democrazia cristiana. È questa libertà che i futuri deputati popolari chiederanno al potere nella Camera nuova, colla speranza di poter infondere, anche in parte di coloro che oggi ci sono nemici, la persuasione che tali principii saranno anche la fortuna della patria. |
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| Il Brennero di ieri 2 febbraio ritorna su un nostro articolo del 17 gennaio intitolato «demagogia in livrea» per avere pretesto di scrivere due colonne di roba che si potrebbero intitolare: «una cattiva azione». Infatti, quindici giorni dopo la comparsa del nostro articolo, il quotidiano fascista sente il bisogno di «additare allo sprezzo del paese e degli stessi popolari onesti la prosa vile del Nuovo Trentino» e fingendo di riassumere le nostre parole pubblica che noi abbiamo affermato che i fascisti sono dei servi e dei demagoghi, che la camicia nera è una livrea anziché un’insegna di nobiltà, che i fascisti sono intriganti e accaparratori, che v’è un’Italia retta da un governo inetto e contrario agl’interessi della regione, in balia di un partito di accaparratori servili ed ignobili. Queste premesse, false, inventate, esagerate, autorizzano lo scrittore del Brennero, facilmente individuabile alla seguente relazione: «La denigrazione sistematica, in mala fede del fascismo e del governo fascista, il pergamo abusato per la rèclame a tutte le istituzioni politiche ed economiche del partito, la religione mischiata nelle persone dei sacerdoti e dei credenti a tutta la più bassa politica comunale e provinciale, i passati amplessi col social-comunismo, le sarabande nel paradiso di Miglioli, tutto ciò per il Nuovo Trentino non è demagogia! Come non è demagogia per esso certamente l’essenza dell’età dell’oro del popolarismo quando i Ministeri salivano e scendevano ad un batter di ciglio del prete di Caltagirone!». Inoltre le stesse premesse gli fanno concludere che il nostro scrivere è un «invelenire acre contro tutto ciò che è fascista», e che gridiamo dalle nostre dieci mila copie la nostra menzogna al paese ignaro ed irretito dalla nostra formidabile ragnatela economica. Così noi siamo «soliti osare tali sputi velenosi solo se sicuri dell’impunità, oppure per uno scopo preciso, quello provocatorio per potersi poi atteggiare a vittime». Quando abbiamo finito di prendere notizia di tutta codesta roba, ci siamo dati premura di rileggere il nostro vecchio articolo per ricercare almeno l’appiglio al quale il quotidiano fascista si fosse potuto attaccare; e leggi e rileggi, abbiamo constatato, e ogni galantuomo deve constatare, che il nostro articolo provocato da demagogiche conferenze sui danni di guerra e da un trafiletto che le approvava, era scritto per dimostrare, citando date e parole precise, che coloro i quali ci accusavano di demagogia non più tardi dell’estate 1922 avevano minacciato in una pubblica protesta il turbamento della tranquillità e dell’ordine pubblico, qualora il Governo non porgesse orecchie alle proteste circa la valutazione dei danni di guerra; e a costoro si riferirà evidentemente il titolo di demagogia in livrea, perché costoro hanno fatto e fanno demagogia, ieri in giacca di oppositori, oggi in livrea di servitori del partito dominante. Più avanti il nostro articolo, ribattendo l’accusa d’ingratitudine verso lo Stato ch’era stata lanciata contro la nostra regione, il Nuovo Trentino dimostrava, citando il pubblico riconoscimento dei ministri per le Terre liberate, che il Trentino, di fronte all’amministrazione militare prima e a quella civile poi, non ha mai mancato di rilevare i sacrifici fatti dalla Nazione. Più sotto ancora, contestando le verità di quanto il Brennero aveva asserito, cioè che «se si parla con uno dei nostri contadini dell’Italia, questo non è che il paese delle tasse, degl’intrighi, degli accaparramenti ecc.», scrivevamo i seguenti periodi: «È probabile che facendo uso dell’jus murmurandi, tollerato anche da Mussolini, si mormori sulle tasse, ma in quale paese del mondo, in qual provincia d’Italia, le tasse vengono accolte con entusiasmo? Ma ad ogni buon conto, ov’è la propaganda, ov’è la discussione orale o scritta? Sotto tutti i governi si levarono proteste, ma mai furono così rare e così sommesse come nell’era fascista. Si pensi solo alla tassa sul vino. Che tempeste, che comizi avremmo visti in altre epoche, se il ministro delle finanze si fosse rifiutato di ridurla, di fronte a condizioni economiche pari a quelle dell’anno in corso! Intrighi, accaparramenti? Noi a buon conto ne abbiamo parlato, è vero, e con noi ne hanno parlato quanti avevano il coraggio di farlo. Ma abbiamo sempre ben distinto fra l’Italia e certi ras locali, fra certi esecutori subordinati e i propositi del Governo». E così chiudevamo l’articolo, accennando chiaramente a quanto è avvenuto nelle nostre amministrazioni locali, ove si manifestarono gli intrighi e gli accaparramenti. È ben a tale situazione che va riportata la nostra finale che suonava: «Vorreste dalla maggioranza della popolazione, alla quale avete dato l’ostracismo, ottenere anche l’adesione incondizionata, il plauso entusiasta? Non pensateci! Vedrete molte schiene ricurve, molte casacche rivoltate, ma le labbra dei più saranno mute. Se parlassero, sarebbe per dire: Abbiamo l’Italia nella mente e nel cuore e attendiamo che ci si lasci servirla liberamente, e secondo giustizia». Ora si potrebbe sfidare qualunque lettore di buon senso a trovare nel nostro articolo insulti contro il fascismo in genere, dileggio delle camice nere, svalutazione dell’Italia in confronto del Trentino, designazione del partito fascista come partito di servi ignobili ecc. Tutto ciò vi ha messo invece la malevole fantasia del nostro contraddittore. Perché? Lo scopo ci par troppo chiaro. È la provocazione, la istigazione che – favola del lupo e dell’agnello – si vorrebbe invece attribuire a noi. E per questo l’articolo del Brennero, dati i tempi va definito una cattiva azione. Quest’insofferenza di ogni critica, anche misurata e cauta, porta logicamente all’intimidazione. Al qual proposito abbiamo da dire quanto segue. Il momento politico comporta un minimo di critica e di contraddittorio: lo sappiamo ed abbiamo dimostrato di esserne consapevoli in tal misura, che qualche nostro amico poté dubitare della nostra fermezza e della nostra reattività a certe deplorevoli manifestazioni della politica. Oltre a ciò il nostro concetto dinamico del fenomeno fascista, il nostro riconoscimento delle forze ideali che l’hanno spinto a certe imprese, l’ammissione della bontà di certe riforme, la cura doverosa, specie in una provincia nuova, di tener alto, sovra il fluttuare dei regimi politici, l’idea dell’Italia liberatrice hanno frenata, diminuita e quasi spuntata ogni nostra attitudine critica e combattiva. Ma al di sopra di quelle considerazioni ambientali e di queste ragioni obiettive sta, per un giornalista che si rispetti e per un politico di convinzione, l’imprescindibile dovere di difendere tre cose; un minimo di libertà per le opinioni oneste, un minimo di difesa per i pubblici interessi legittimi, un minimo di dignità per una linea politica indipendente e per un concetto morale superiore che ci ha guidati in tutta la vita. A questo dovere non intendiamo, non possiamo rinunziare, né di fronte ad intimidazioni, né di fronte ad insidie. Meglio sarebbe spezzare la penna e arrestare per sempre le macchine a cui affidiamo ogni notte l’incarico di trasmettere agli amici il nostro vigile pensiero. |
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| 41921-1925
| L’onor. Degasperi ha ricevuto da S. E. Oviglio ministro della Giustizia la seguente lettera: «Onorevole Collega, Con riferimento alla Sua cortese lettera del 28 corrente, spiacemi doverle comunicare che il Collega delle Finanze, dal quale dipendono le Avvocature Erariali, ha testè dichiarato che non è possibile modificare il provvedimento concernente la soppressione dell’Avvocatura Erariale di Trento. All’uopo ha rilevato che avendo le recenti disposizioni sul foro erariale lo scopo essenziale di attrarre ed accentrare nelle sedi di Corte di Appello il contenzioso di maggiore rilievo riguardante lo Stato, e non essendosi mantenuta in Trento la sede di corte d’Appello, la difesa degli interessi dello Stato relativi alla Venezia Tridentina ha dovuto essere necessariamente affidata alla Corte di Appello di Venezia. Con cordiali saluti. OVIGLIO». La risposta del Guardasigilli si richiama al R.D. 30 dicembre 1923 N. 2828 col quale fu disposto che la difesa dell’Erario, nelle cause civili di competenza del Tribunale, si svolga presso le autorità giudiziarie esistenti alla sede della Corte d’Appello. Ma il legislatore non ha certo pensato alla strana situazione giuridica che per questa via veniva creata alla Venezia Tridentina: i diritti sorti nel nostro paese e disciplinati dalla vigente legge civile, che ereditammo dal cessato regime, dovrebbero d’ora in avanti venir giudicati da persone che non hanno mai studiato la legge che esse devono portare ad attuazione. S’aggiunga che nelle cause dell’Erario e contro l’Erario il mutamento di Foro da Trento a Venezia ha anche per conseguenza il mutamento delle forme processuali, per cui tutti coloro che hanno rapporti giuridici coll’Erario dovrebbero tener conto anche del codice processuale italiano che qui nessun avvocato conosce, trattandosi di legge che nella nostra provincia non avrà mai applicazione perché ne è imminente la riforma. Non crediamo che il legislatore abbia proprio voluto arrivare a queste conseguenze; e in questa idea ci conferma il fatto che a Trieste le cause dell’Erario e contro l’Erario si tratteranno anche in avvenire nel solito modo da giudici cresciuti nel tradizionale ambiente giuridico e abituati alle nostre forme processuali. Sono valori immensi che il legislatore non può togliere alla sicurezza dei diritti privati di una regione, lasciandoli invece perdurare in un’altra. Deve poi essere sfuggita ai compilatori del decreto in parola la circostanza che le avvocature erariali di Trento e di Trieste hanno anche – per una legge austriaca espressamente riconosciuta dal legislatore italiano – la difesa gratuita delle chiese. Nelle vecchie provincie questa non figura tra le attribuzioni dell’avvocatura erariale; dopo il primo marzo a. c. l’avvocatura di Trieste potrà dunque prestare il suo gratuito patrocinio alle chiese della Venezia Giulia, ma quella di Venezia non potrà fare altrettanto con le chiese della Venezia Tridentina. È nostro fermo convincimento che sino ad avvenuta completa unificazione delle leggi l’Erario deva tollerare, «anche nel suo interesse», che le questioni nate sotto l’impero del diritto ex austriaco vengano decise da giudici che conoscono tale diritto: il che non è possibile se non a Trento, a meno che il Governo non voglia correggere i mali effetti della soppressione della nostra avvocatura erariale col trasportare dalle nuove provincie a Venezia anche giudici di tribunale e consiglieri d’appello esclusivamente destinati alle cause erariali della Venezia Tridentina. Ma con questa ultima soluzione non si raggiungerebbero certo quelle finalità di economia che stanno sì a cuore al presente Governo; mentre l’allontanamento di alcuni giudici, operato semplicemente per rendere innocuo l’allontanamento di alcuni funzionari di avvocatura erariale, aggraverebbe paurosamente la crisi della magistratura trentina e atesina che è già nota alle autorità centrali. Tutte queste ragioni ed altre, che furono già rilevate dalla stampa di tutti i partiti, ci fanno sperare ed augurare che il rifiuto dell’onor. De Stefani non sia definitivo e che le rimostranze che da varie parti si stanno facendo anche presso di lui, otterranno sodisfacimento. |
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| 41921-1925
| Il «Partito socialista italiano» (frazione massimalista), dopo lunghe titubanze, ha deliberato di partecipare alle elezioni con lista propria. Avremo dunque oramai tre liste socialiste; massimalisti (tipo Groff), unitari (tipo Flor), e comunisti (tipo… Pilati della prima maniera, perché ora è fascista) . Domenica il «Partito socialista italiano» ha già pubblicato nell’Avanti! il suo manifesto. Leggendolo, vien fatto di esclamare: O vecchi impenitenti e peccatori inconvertibili! Il manifesto infatti promette fedeltà «ai principi tradizionali del socialismo marxista» e proclama una illusione il credere «che vi siano interessi superiori alle classi, alla cui difesa siano interessati egualmente i proletari ed i borghesi e che la trasformazione sociale si possa compiere senza urti violenti, con la partecipazione di quegli stessi partiti borghesi contro i quali è rivolta la minaccia dell’espropriazione». Che più? Proprio in questi momenti il manifesto conferma che il «concetto di democrazia operaia non elimina la fase della dittatura del proletariato, momento storico di passaggio dall’antico al nuovo regime». Dopo aver pronunciata questa parola dittatura, i compilatori del manifesto devono aver presentito l’effetto che farebbe, perché si affrettano ad aggiungere: «Ma, contro le deviazioni che il termine di dittatura può ingenerare, e la speculazione che possono tentare gli apologisti della dittatura fascista, va ripetuto che, in ogni caso, non può trattarsi d’una dittatura di partito, ma della classe che la esercita attraverso il complesso delle sue organizzazioni sindacali e politiche, cioè attraverso la legittima rappresentanza della effettiva maggioranza». Bravi, come se anche i teoretici dell’ultrafascismo à l’Impero non dicessero la stessa cosa, cioè che la dittatura è il ponte di passaggio allo Stato fascista e che il fascismo rappresenta non un partito, ma la nazione nella sua maggioranza! Più sotto il manifesto trova modo d’inneggiare alla rivoluzione russa e al regime di Lenin, «che cede a temperamenti economici che la situazione impone, ma non abbandona il potere». Il quadro è così completato: marxismo, urto violento per spodestare la borghesia, dittatura del proletariato che, se gli giova, può anche non realizzare il socialismo economico, ma non cede il potere. Ecco le belle prospettive per le quali il popolo italiano, per sfuggire alla dittatura fascista, dovrebbe incorrere in quella del proletariato! E dopo ciò il manifesto ha il coraggio di lanciare la parola d’ordine: rivendicazione della libertà! Ma quale? Quella di sottoporsi ad una dittatura di classe? In un manifesto socialista infine non poteva mancare lo spunto antireligioso. Ed ecco che fra le cose orribili del presente regime il manifesto nota questo: «La scuola è diventata completamente strumento di classe ed elemento di clericalizzazione delle coscienze e dello spirito delle nuove generazioni». Oh cecità infinita! Hanno perduto le loro basi organizzative sotto i colpi di bastone, si sono viste incendiare camere del lavoro e cooperative ed hanno dovuto constatare che questa violenza era reazione alla violenza predicata ed attuata dai propri. E tuttavia sentono ancora questa grave preoccupazione, che nelle scuole s’insegni il Vangelo e si apprendano alle nuove generazioni i precetti del Cristianesimo, il quale condanna la violenza e comanda l’amore e la fraternità sociale! Dopo ciò era inutile aggiungere che il contrassegno della loro lista sarà ancora la falce ed il martello col libro! Il simbolo è lo stesso, le idee sono identiche. Nulla è mutato in loro. Speriamo però che sia mutato il popolo italiano! |
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| 41921-1925
| Nel quotidiano fascista di martedì si legge il seguente trafiletto in corsivo: «Il Popolo Trentino avrebbe una tiratura di 12.000 copie. Esso è la vendita all’ingrosso del veleno sovversivo, antiitaliano e antifascista di quel Partito popolare che nelle dosature quotidiane della sua farmacia di “stupefacenti” (Nuovo Trentino) affermava non esistente la insinuazione minuta, vischiosa, subdola, vile contro il governo nazionale. Sono invece le stesse macchine del quotidiano che sputano settimanalmente il concentrato del livore popolare contro l’Italia fascista. E in mezzo al nostro popolo che, risorto alla vita da tanta oscurità e da tanta angoscia avrebbe bisogno più che del pane e della luce, di salute spirituale e di larghezza d’orizzonti, scende settimanalmente per opera del Popolo trentino l’iniezione che lo umilia, lo rode e lo rende inferiore al suo passato doloroso. Il numero del 14 febbraio contiene nella lepida malizia di un falso dialetto nostrano le insinuazioni e le offese più triviali e più provocatorie contro tutto ciò che è fascismo e governo. Il Popolo trentino deve cessare la sua campagna diffamatoria ignobile e turpe. Basta veleno! Fascisti, vigiliamo!». PAROLE CHIARE. Sotto questo titolo il Brennero di ieri rincalzava lo stesso pensiero colle seguenti parole: «Da parecchio tempo quell’ambiguo settimanale, che s’arroga il titolo di Popolo trentino, esce semi clandestinamente ed è distribuito quasi sempre gratis ai contadini e operai della regione, ha alzato il tono della sua acida vocetta idrofoba per scagliarsi con rinnovata violenza contro tutto che sappia di fascismo. Basta leggere le pretenziose spiritosaggini antifasciste che si stampano in quel giornale per farsene convinti. La provocazione (che del resto, come diciamo sopra, risale ancora a parecchi mesi addietro) è evidente e bisognerebbe essere degli ingenui o dei menni per non rilevarla e prendere posizione. Con codesto noi non vogliamo fare nessuna minaccia, ma dichiarare senz’altro che, visto che si cerca da parte dei popolari ogni mezzo per gettare al fascismo una sfida che vorrebbe essere insolente, noi non ci sentiamo in grado di assumere alcuna responsabilità nei riguardi di eventuali non illegittime azioni di difesa o di ribellione, che dovessero avvenire da parte di singoli i quali intendessero reagire contro codesta provocazione continuata e sistematica». Crediamo anzitutto che i lettori non s’illuderanno sul significato di codesti due trafiletti intimidatori. La gravità dell’accusa: «veleno sovversivo», «antiitaliano e antifascista», «campagna diffamatoria, ignobile e turpe», «provocazione continuata e sistematica». L’accenno alle «macchine del quotidiano che sputano settimanalmente il livore popolare» e infine la dichiarazione «di non assumere alcuna responsabilità di eventuali non illegittime azioni di difesa o di ribellione, che dovessero avvenire da parte di singoli i quali intendessero reagire», sono riferimenti di un nesso impeccabile che mirano tutti allo stesso scopo. Se avessimo scritto noi qualche cosa di simile, ci sarebbe certo capitata addosso una diffida della Questura, se pure non vi si sarebbe aggiunta una denuncia al procuratore del re per istigazione a delinquere. Cominciamo intanto a rilevare la stupida frottola che il settimanale esca semiclandestinamente e sia distribuito gratis ai contadini e agli operai della regione; esso è da parecchi anni l’organo riconosciuto ed ufficiale di numerose associazioni cattoliche ed è tenuto in abbonamento da migliaia e migliaia di lettori della campagna. Abbiamo poi voluto vedere come suoni il trafiletto che viene qualificato così aspramente e dovrebbe giustificare ogni legittima e illegittima rappresaglia fascista. In verità abbiamo penato fatica a trovare tra le 24 colonne dell’ultimo numero l’articolo che dovrebbe contenere «nella lepida malizia di un falso dialetto… le offese più triviali ecc.». Ecco qui: una mezza colonna di roba, scritta in forma semidialettale da un emigrato il quale si lagna delle tasse e delle economie che si fanno fuori di posto; uno sfogo d’un uomo del popolo che crede lecito dire quello che pensa e lo dice da par suo, cioè non misurando le parole e non tenendo conto dell’atmosfera irritante e irascibile in cui viviamo. Perciò, avuto riguardo all’eccitabilità dell’ambiente, noi avremmo preferito far opera di pacificazione e di prudenza, e avremmo cestinato lo sfogo, come dobbiamo cestinare tante corrispondenze di altri amici che ci rimproverano poi il nostro pompierismo. Ma, detto questo, nessuno che rilegga il trafiletto serenamente vi può trovare il «veleno sovversivo, antiitaliano, antifascista», nessuno vi potrebbe leggere una sfida o una provocazione. Il trafiletto è ben lontano dalla perfidia della campagna che si è fatta e si fa contro i popolari, il loro partito e le loro istituzioni; e, comunque, esso non è tale né per il contenuto né per il posto che tiene da divenire segnacolo e bandiera di un settimanale, il quale è riempito per cinque sesti del suo contenuto da relazioni di manifestazioni cattoliche, religiose e cronache sociali e tecniche. Dobbiamo quindi concludere che si vuole cercare a forza il pretesto di far tacere in una forma o nell’altra il periodico più diffuso della provincia. E a ciò si mira sovratutto ora che ci avviciniamo alle elezioni. Posto in chiaro questo, non comprendiamo come il Brennero abbia bisogno di ricorrere alle minaccie di «lavarsi le mani circa l’eventuale illegalismo di qualche singolo», come se l’autorità non avesse mezzi per intervenire o si addimostrasse lenta a farlo. Proprio di questi giorni il redattore del settimanale veniva diffidato dalla Questura e il gerente responsabile riceveva mandati di comparizione come imputato del delitto di cui l’art. 24, editto sulla stampa 26-3-1848, per avere offeso il rispetto dovuto alle leggi mediante un articoletto intitolato «matrimonio civile». L’art. 24 dell’editto del 1848, per chi non sapesse, suona così: «Qualunque offesa contro la inviolabilità del diritto di proprietà, la santità del giuramento, il rispetto dovuto alle leggi, ogni apologia di fatti qualificati crimini o delitti dalla legge penale, ogni provocazione all’odio fra le varie condizioni sociali e contro l’ordinamento della famiglia, sarà punita ecc.». Voi comprendete subito che, trattandosi del Popolo trentino, non si può credere che vi sia stata fatta l’apologia di qualche violenza, di qualche illegalismo, o di fatti qualificati crimini o delitti dalla legge, fosse pur la più innocente somministrazione di legnate o di olio di ricino. No, il settimanale incriminato avrebbe mancato per poco rispetto all’istituzione del matrimonio civile e all’ordinamento della famiglia. Infatti in un trafiletto di 29 righe un corrispondente, riferendosi a certe relazioni esagerate dei giornali locali e a certi discorsetti altrettanto esagerati di qualche commissario, ci teneva a rilevare che il matrimonio vero, nel senso cioè del sacramento e, infine nel senso cristiano, è il matrimonio religioso. Non entriamo nel merito della imputazione e ci guarderemo bene dal discuterla. Ne riparleremo a suo tempo. Ma ci chiediamo se noi non abbiamo data prova della massima buona volontà quando abbiamo lasciato passare senza commento discorsetti come questi: «In nome ecc., … inauguro un’altra provvida istituzione del codice civile italiano: il matrimonio». Ovvero: «Questo atto è uno dei più cospicui suggelli che riafferma … i simboli del pensiero civile della nazione». Che dire poi del commissario civile di Mezzolombardo il quale, stando anche alla relazione ufficiosa del Brennero (a noi fu riferito dell’altro), proclama che «solo il potere dello Stato e la legge civile devono e posson far rispettare ai coniugi obblighi sacri di fedeltà ecc.», e del matrimonio religioso aggiunge che «alla Chiesa è riservata la celebrazione del sacramento poiché è nel pensiero rivolto a Dio che tutto governa che gli sposi devono giurarsi fedeltà»? Questi signori sindaci e commissari parleranno colle migliori intenzioni del mondo, ma finiscono col dire degli spropositi che urtano contro la nostra dottrina e il diritto canonico. Onde sarebbe stato prudente che la cerimonia avesse avuto carattere sobrio, non avesse assunto carattere polemico, non avesse urtato nessuno. Non si può certo affermare che la stampa cattolica abbia in questo riguardo presa l’iniziativa per svalutare le patrie leggi, quantunque per i cattolici ad esse fossero congiunti ricordi di contrasti fortissimi. Quando comparve il decreto legge, pur avvertendo che per i cattolici il matrimonio è nel sacramento, abbiamo ricordato che, agli effetti civili, la Chiesa stessa, raccomanda di compiere la prescritta cerimonia civile. Ma da questo a pretendere da noi ch’esaltiamo l’istituzione del matrimonio civile come il simbolo o il suggello – diceva quel sindaco – di una nuova civiltà che ci toglie finalmente dalla barbarie, ci corre davvero. Pertanto gli amici vedono come sia divenuto difficile codesto nostro… mestieraccio, ch’è accompagnato da tante noie anche in tempi meno leggiadri. Onde ne traggono queste conclusioni: se scrivono, non pretendano da noi quella libertà di linguaggio che non concediamo né alla nostra esperienza né alla nostra responsabilità. Se ci leggono, mantengano al giornale quell’appoggio, quella simpatia, quell’adesione che lo ha confortato nelle più aspre vicende. E nessuno si lascierà ingannare dal vecchio giuoco del lupo e dell’agnello. Gli attaccati, gl’ingiuriati, gli angariati siamo noi… Ma il lupo ha bisogno d’intorbidare le acque! Opponiamogli la serenità della nostra forza e la fede sicurissima nel trionfo della nostra idea! |
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| 41921-1925
| La direzione del Partito popolare italiano ha approvata per la circoscrizione del Veneto la seguente lista di candidati: 1. Brenci ing. Alessandro, decorato di medaglia d’oro, mutilato di guerra, ingegnere delle Ferrovie dello Stato. 2. Degasperi D.r Alcide, presidente del gruppo parlamentare popolare, deputato uscente. 3. Merlin avv. Umberto, già sottosegretario di stato alle Terre liberate, deputato uscente. 4. Capra Conte D.r Luigi, vicepresidente del Consiglio provinciale di Vicenza. 5. Carbonari D.r Luigi, presidente della Federazione trentina Leghe dei contadini, deputato uscente. 6. Corazzin rag. Luigi, già presidente dell’Unione comuni popolari della Marca Trevigiana, deputato uscente 7. Galla avv. Tito, già presidente della Deputazione provinciale di Vicenza, deputato uscente. 8. Guarienti conte Ugo, questore della Camera dei deputati, deputato uscente, già presidente della Deputazione provinciale di Verona. 9. Piva D.r Edoardo, già R. Provveditore agli studi, deputato uscente. 10. Ponti D.r Prof. Giovanni, ex combattente, già assessore comunale di Venezia. 11. Rosa prof. Italo, pioniere dell’azione cattolico-sociale, deputato uscente. 12. Slongo D.r Ferdinando, ex combattente, avvocato in Feltre. 13. Uberti dott. Giovanni, deputato uscente, direttore del «Corriere del Mattino», Verona 14. Zava Gr. Uff. D.r Gerolamo, già vicepresidente del Consiglio provinciale di Treviso e Sindaco di Conegliano. La lista contiene nove deputati popolari uscenti, dei 21 che furono eletti l’ultima volta sullo stesso territorio che ora appartiene alla circoscrizione veneto-trentina. Di questi quattro erano stati eletti nella circoscrizione costituita dalle province di Padova e Rovigo, con circa 32 mila voti, Trento aveva mandato 5 deputati con 35 mila voti, Belluno che allora era però fuso con Udine aveva mandato un deputato, con approssimativamente 15 mila voti, Venezia-Treviso ne avevano eletto 5 con 61 mila voti e Verona-Vicenza con circa 81 mila voti, totale 21 deputati con circa 244 mila voti. Come si vede il Trentino era privilegiato, perché aveva a disposizione un numero di seggi superiore a quello che gli sarebbe dovuto per il numero degli abitanti; e ciò con riguardo al suo antecedente stato di possesso. Ora la nuova legge ha agguagliato tutte le differenze e i seggi a disposizione del Veneto – compreso il collegio di Bolzano che prima faceva parte a sé – sono 53. Ma giacché è stabilito che la lista che raccoglie la maggioranza relativa della nazione debba aver assicurati due terzi dei mandati in tutte le circoscrizioni, così dei 53 seggi 35 sono riservati alla lista nazionalmente più forte e solo 18 rimangono a disposizione degli altri partiti. Allo stato delle cose il partito governativo è il solo che competa in tutta l’Italia per la maggioranza con 356 candidati: il risultato non può essere quindi dubbio. Anche i candidati del listone veneto-trentini sono eletti, sia che nel Veneto raccolgono pochi o molti voti, giacché le province dell’Italia settentrionale e media, completamente fascistizzate, e le province del Mezzogiorno, ove il governo ha messo in lista i rappresentanti delle influenze locali, da qualunque partito provenga, assicurano già che – anche per il caso di completa libertà di propaganda e di voto – il listone sorpassa il minimo richiesto (25% dei voti validi) per essere qualificato maggioranza relativa con diritto al premio dei 2/3 dei mandati. È quindi per lo meno… esagerato, per non usare un termine più allegro, che da parte fascista si parli di «dare battaglia» e di sfondare… porte aperte. La ingiustizia invece di questa legge porta a questo che debbano farsi la concorrenza e la lotta proprio quelle liste, che dal Governo vengono considerate en bloc come sue nemiche. Avremo anche nella nostra circoscrizione la lista dei socialisti massimalisti, dei socialisti unitari e dei comunisti; inoltre c’è una lista di repubblicani ed infine una lista della democrazia antigovernativa. Queste cinque liste, alle quali si aggiunge la lista tedesca, contrasteranno ai popolari l’osso dei 18 mandati, residuati dal banchetto epulonico del partito governativo che s’è già mangiata la polpa dei 35. Di questo artificioso congegno elettorale dovette tener conto il comitato circoscrizionale nel compilare la lista dei candidati per il partito popolare. Furono prima sentiti i comitati provinciali. Il nostro comitato volle a sua volta sentire anche i rappresentanti dei comitati di ogni mandamento giudiziario. La riunione di questi e dei membri del comitato si trovò anzitutto innanzi all’esplicita rinunzia dell’on. Pietro Romani, il quale dichiarò di voler mantenere tutta la sua opera e la sua fedeltà al partito, ma di voler facilitare la designazione d’un numero ristretto di candidati, col ritirarsi senz’altro dalla competizione. La dichiarazione venne accolta con rincrescimento e, apprezzando il nobile atto, l’adunanza votò al giovane deputato uno speciale ringraziamento per la sua opera valida e proficua, rilevando com’essa per le particolari cognizioni tecniche e per il suo perfetto orientamento anche nelle questioni economiche generali, era grandemente valutata non solo in seno al gruppo popolare e alla direzione del partito, ma anche in vasti circoli parlamentari e commerciali. La riunione poi deliberò di designare tre candidati, tenendo conto che il Trentino pativa già anche con ciò una forte diminuzione della sua rappresentanza; e, assieme ai due candidati che compaiono nella lista, ripropose l’on. Tamanini. Ma questi già in questa fase dichiarò di rinunziare ad una ripresentazione, cosicché la direzione regionale, prendendone atto con rammarico e ricordandone tutta la preziosa attività, sia nel propugnare gl’interessi della parte meridionale, sia nel promuovere la soluzione dei problemi scolastici e burocratici, secondo il nostro programma, espresse il voto che la sua opera venisse sottratta solo temporaneamente alla rappresentanza del partito. A questo punto si radunò il comitato dell’intera circoscrizione e in esso vennero deliberati a maggioranza questi due criteri: che ogni provincia dovesse portare almeno un candidato e che nessuna provincia ne portasse più di due. Di fronte al fatto che Vicenza, Padova, Treviso, che nelle ultime elezioni diedero al partito parecchie migliaia di voti di più di Trento, accolsero tale criterio, non rimase ai nostri delegati che di adattarvisi, cosicché anche il desiderio espresso da alcuni amici di mettere in lista un altro candidato, (s’era fatto anche il nome d’un volontario di guerra che anche di recente aveva dimostrato il suo attaccamento al partito), già per questo non avrebbe potuto essere soddisfatto, posto che da tutti si volle metter fuori di discussione la ripresentazione dei due deputati uscenti. Per loro non spendiamo parole, perché sono già conosciuti e l’opera fin qui compiuta ci esonera da ogni raccomandazione. Anche i candidati delle altre province sono già favorevolmente noti ai nostri lettori. L’ing. Bronci, valoroso mutilato, è l’unica medaglia d’oro che compaia nelle liste del Veneto, è fedelissimo al partito, al quale riconfermò anche recentemente la sua fedeltà quando, sparsasi la falsa voce della sua entrata nel listone, la smentì con una lettera ai giornali, nella quale scriveva: Non sono abituato a tradire. È membro attivo dell’Associazione sindacale dei ferrovieri. Dell’on. Merlin si conserva memoria gratissima per la sua opera al ministero delle Terre Liberate, Corazzin è un organizzatore di cooperative di lavoro e d’emigranti, dei quali si occupò in particolare anche alla Camera, Galla e Guarienti si distinsero specialmente per la loro opera nelle pubbliche amministrazioni, Uberti si fece notare alla Camera per il suo contributo allo studio delle leggi finanziarie, Piva fu sempre in prima linea nei problemi della coltura, Italo Rosa lo si ricorda fin dai giorni dell’«Ateneo» e della democrazia cristiana. Dei nuovi Ponti è l’organizzatore dello scoutismo cattolico, che quest’anno piantò le sue tende sulle nostre Dolomiti, l’avv. Slongo, ex capitano di artiglieria, rappresenta Belluno, Zava fu già altra volta candidato del nostro partito e non riuscì per pochi voti, il D.r Capra è uno stimato avvocato che viene dal movimento cattolico vicentino. Rimandando ad altro giornale nuovi particolari, crediamo di poter concludere fin d’ora che la lista veneta si presenta bene e che essa ci è caparra della solidarietà regionale che oramai ci stringe ai fratelli e consenzienti delle altre province anche nelle fortune politico-elettorali. |
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| 41921-1925
| Difendendo e propugnando le libertà politiche e civili, abbiamo sempre ammonito i nostri più giovani amici di non voler confondere il nostro punto di vista con quello dell’estrema sinistra, né d’intrupparsi sotto uno stesso bandierone colla scritta: «Libertà». Le parole sono eguali, ma il senso che vi si attribuisce è diverso. Abbiamo portato altra volta dei documenti per provare il contrasto. Ecco qui, a conferma, un altro articolo di Maturino De Sanctis nell’«Avanti!» di martedì. Vi si leggono i seguenti periodi: «La libertà che vogliono i socialisti non è la libertà astratta, la così detta libertà di fronte alla legge del ricco e del povero, dello sfruttatore e dello sfruttato. Questa libertà si risolve in una grande turlupinatura. La vera libertà non può sussistere che in una società in cui siano abolite le classi e quindi i privilegi economici, in cui la legge sia veramente eguale per tutti, in cui tutti abbiano modo lavorando di vivere e di svilupparsi. La libertà puramente formale che si può godere in un Governo borghese, se mai, non serve che al pacifico sviluppo del socialismo e al trapasso senza gravi e brusche scosse al regime socialista». E più sotto: «La libertà senza una contemporanea eguaglianza, almeno relativa, di condizioni, si risolve nel diritto del più forte, nella prepotenza delle classi privilegiate contro le classi sprovviste dei mezzi di sussistenza, e vale quanto la fraternità del ricco e del povero, dell’oppressore e dell’oppresso, dello sfruttatore e dello sfruttato. La libertà implica la possibilità, e quando un uomo non ha possibilità di fare ciò che in una certa società dovrebbe poter fare, come fanno gli altri più fortunati, vuol dire che la libertà è una vuota astrazione senza contenuto concreto». E conclude: «Negazione della libertà è la politica attuale del fascismo e vera libertà non sarebbe nemmeno quella che potrebbe essere concessa dal più democratico dei Governi borghesi e che certo rappresenterebbe sempre un vantaggio sull’autoritarismo fascista. La vera libertà è quella propugnata dal socialismo coll’abolizione delle classi, dei privilegi e quindi dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo». Ora si osservi bene: l’obiezione che la libertà non può essere che un mezzo per raggiungere un ordinamento politico-sociale, nel quale una libertà reale sia garantita dalle condizioni economiche e sociali è sostanzialmente giusta e per questo anche noi parliamo di «libertà organiche», ma i socialisti come ordinamento dei liberi invocano la socializzazione e l’eguaglianza economicosociale che noi invece, anche per le esperienze della storia, dobbiamo ritenere lo «stato meno libero», in cui possano vivere gli uomini. La «libertà», intesa come fine della lotta socialista, vuol dire dunque la rivoluzione socialista colla più o meno temporanea dittatura di classe. Che Dio ce ne scampi e liberi! |
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| Ci hanno proclamati dunque «nemici della nazione» e ci mettono al bando come «sovversivi» . Noi abbiamo detto altra volta ai nostri amici di non prendere sul serio queste scomuniche e di non preoccuparsene d’avvantaggio. Certa smania di giustificarsi non si confà a chi ha compiuto serenamente e dignitosamente il proprio dovere. Si ricordi del resto che questa è la sorte di tutti quegli uomini e quei partiti i quali, posti in mezzo fra la demagogia da una parte e la reazione dall’altra, difendono contro l’urto che viene dal basso, o la pressione che si esercita dall’alto, la causa della giustizia sociale e della libertà politica. Ludendorff che accusa gli «ultramontani» di tradire la patria, perché si impongono al suo rinnovato prussianesimo, non parla diverso linguaggio. Tuttavia a proposito del comunicato del direttorio fascista, che ha dato l’intonazione allo stile dei sottocomitati e dei sottocapi – «avversari lividi e biechi, senza grandezza intellettuale e morale», scrive, ad esempio, l’organo nostrano –, non sarà male ricordare agli smemorati che Mussolini stesso, presentandosi all’Italia col nuovo ministero, dopo la marcia di Roma, dichiarava: «Il nuovo governo, mentre consacra il nostro trionfo nel nome di coloro che ne furono gli artefici per terra e per mare, accoglie, a scopo di pacificazione nazionale, nomi anche di altri partiti, perché devoti alla causa della nazione». E tra questi nomi vi erano quelli dei ministri popolari Vincenzo Tangorra e Stefano Cavazzoni e dei sottosegretari popolari Umberto Merlin, Fulvio Milani, Giovanni Gronchi, ed Ernesto Vassallo. Quindi fra i «partiti devoti alla causa della nazione» vi era anche il Partito popolare italiano. Il Gran Consiglio fascista del 14 gennaio 1923 poi, come fu ricordato nella relazione Degasperi al congresso di Torino, riconosceva la leale collaborazione dei popolari al governo fascista e due giorni dopo lo stesso on. Mussolini faceva questa comunicazione ufficiale: «Poiché il Partito popolare ha dato parecchi dei suoi nomi al Governo per una collaborazione leale, il P.P. rientra nel numero di quei partiti di cui è stato fatto cenno in uno degli ordini del giorno approvati nell’ultimo Gran Consiglio fascista; partiti cioè coi quali anche il fascismo nel paese deve realizzare una sincera collaborazione». Fissiamo bene dunque questo: che tutte le svalutazioni e le diffamazioni che ora, retrospettivamente, si vanno facendo del Partito popolare, descrivendolo come un parto mostruoso fin dalle sue origini, o come un ascesso maligno entro le carni della nazione rappresentano non la concezione fascista o mussoliniana del 1923, ma una riviviscenza di quel rancido spirito anticlericale che i fascisti sembravano aver ripudiato per sempre. Quale sia l’occasione immediata di un così triste ritorno è storicamente stabilito: i popolari non hanno dato voto favorevole alla riforma elettorale, perché la ritennero un congegno artificioso che lede la giustizia distributiva e mette in pericolo le basi fondamentali della costituzione. Il pubblico che ora incomincia a capire quale mostruosità sia codesto sistema, giudicherà se l’averlo combattuto possa meritare ad un partito l’attributo di antinazionale e di sovversivo. Ma, al di là di questa considerazione, ce n’è un’altra da fare. Il veder rinascer dalle prime contraddizioni sul terreno politico il vecchio spirito anticlericale non fa dubitare che la vantata conversione degli spiriti non sia così profonda e così generale, come i buoni vorrebbero credere? Come il liberalismo L’Italia torna sull’argomento del «sovversivismo» popolare proclamato dal fascismo, e scrive: «Il governo ha commesso un grave errore autorizzando i suoi amici a questa mossa, della quale manca qualsiasi giustificazione storica e obbiettiva, perché non possono certo essere tenute in conto certe pretese spiegazioni che si son lette sopra alcuni ufficiosi…». Bandire all’Italia che il Partito popolare (del quale non si ignora che la grandissima maggioranza, per non dire la totalità, è costituita da cattolici), è un partito sovversivo, significa accendere contro di esso odio e passioni che non potranno a meno di ostacolarlo nella sua legittima attività elettorale: questo però, se potrà momentaneamente far piacere al governo, diminuendo forse la votazione delle liste popolari, in effetto si risolverà in un suo danno; sia perché i posti che perdessero i popolari saranno, dato il sistema della legge, occupati dalle opposizioni costituzionali, dagli unitari, dai socialisti, ecc.; sia perché, come già avvertimmo, la qualifica con cui i popolari sono stati colpiti, e che ciascuno di essi ha piena coscienza di non meritare, lungi dall’avviare ad una politica di pacificazione e magari di collaborazione, farà sentire prevalente ai reietti il bisogno spirituale di raccogliersi in una posizione di riserbo e di dignità, che li apparti da coloro, i quali male usando di una eccezionale autorità, non si sono peritati di sorpassare ad ogni rispetto dovuto alla verità storica. Lo Stato italiano quand’era nelle mani dei liberali, commise un tempo l’errore di respingere da sé i cattolici, accusandoli di essere nemici della patria; e si privò così del loro prezioso ausilio nella difesa dell’ordine sociale; ma dovette un giorno riconoscere il suo errore e invocare proprio dai cattolici la mano salvatrice contro le minacce del sovversivismo. Lo Stato fascista, mal consigliato dalle sue incontrastate fortune attuali, ricade di fronte ai popolari nell’errore del liberalismo di fronte ai cattolici non ancora politicamente organizzati. |
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| Credevamo davvero di essere stati modesti, sobri e contenuti, fino all’estremo grado del più assoluto disinteresse elettorale. Il Brennero non è di questo parere, e si lagna aspramente della nostra relazione sulla recente adunanza fascista per i danni di guerra, affermando «ch’essa tradisce troppo evidentemente la bile dei signori di via Alfieri che non seppero mai raccogliere i desideri della zona nera attraverso un’esposizione complessiva di tutti problemi dei danni di guerra». Ebbene, poiché il Brennero lo vuole gli diremo francamente tutto il nostro pensiero. Venerdì a caratteri di scatola e sotto l’egida del «contrassegno della lista nazionale» il segretario pro tempore della federazione fascista, pubblicava un manifesto, nel quale convocava a Trento per lo stesso giorno della manifestazione elettorale fascista un convegno di segretari politici e sindaci della zona devastata «per trattare l’ordine del giorno: Soluzione definitiva del problema danni di guerra». A questo convegno il segretario federale, in stile perentorio, invitava il prefetto, il viceprefetto Chiaromonte, l’intendente di Finanza, i capi e i candidati locali del fascismo. Confessiamo al Brennero, d’aver provato in sulle prime un senso di profondo stupore. Come?, abbiamo detto, il fascismo proclama la sua invincibile repulsione contro i sistemi demagogici dei vecchi partiti, dichiara di rinunziare a qualsiasi allettamento che si fondi su interessi economici, richiede ed esige sovratutto sacrifizio, in nome e a vantaggio dello Stato; e a Trento convoca, in appendice ai suoi «ludi elettorali», un convegno nel quale si dà appuntamento alle anime travagliate della zona nera per quietarle come d’incanto, con la «soluzione definitiva»! Quando mai uno di quei pregevolissimi partiti sui quali il fascismo sputa quotidianamente il suo dileggio, ha tentata una simile speculazione, o, se l’ha tentata, quali sdegnose parole non si sarà meritato dai rappresentanti dell’idealismo più puro e del più assoluto disinteresse elettoralistico? Questo fu il nostro primo sentimento e, assicuriamo il Brennero, non è la nostra un’eccessiva reattività politica personale, ma un senso istintivo comune a quella «mentalità trentina» che si ha tanto in spregio. Abbiamo tuttavia contenuto il nostro stupore, in una silenziosa e rispettosa attesa degli avvenimenti, Chi sa mai, abbiamo pensato, che anche dalla pressura elettorale la regione non tragga un reale vantaggio? Se il prefetto che, assorbito finora dalle gravi cure della legislazione pretoria, non ha potuto occuparsene, viene adesso evocato al proscenio per «una soluzione definitiva del problema danni di guerra», se l’intendente di Finanza, incalzato finora dalle circolari restrittive e ritardatarie del suo Ministero, sarà chiamato «ad una decisa azione, che porteremo innanzi con la più grande energia» (sono parole del manifesto), se il comm. Rosboch, il quale è, dalla marcia di Roma in qua, segretario particolare di quel ministro De Stefani che coll’aver disposto il pagamento in titoli, e rifiutato di considerare le cosidette requisizioni dell’esercito nemico come danni di guerra, credette di aver risolto il problema e chiusa definitivamente la pratica, verrà a parlare ai suoi futuri elettori «di uno dei più assillanti problemi del nostro paese, di cui urge la soluzione», se insomma tutti codesti illustri signori, che pure sono al potere da 16 mesi si radunano a Trento, il 2 marzo 1924, per discutere e deliberare faccia a faccia coi danneggiati, vorrà pur dire ch’essi avranno da annunciare loro qualche cosa di nuovo, di preciso, di definitivo. Cosa sarà, cosa non sarà? Ebbene, alcuni danneggiati, presenti al convegno, sono venuti, a lumi spenti, per esprimerci la loro delusione e, sulle loro informazioni, venne fatta la nostra cronaca, coronata da una critica lieve, che a noi, bersagliati quotidianamente dalla pesante artiglieria fascista invece di grandine, sembrerebbe pioggerella benefica. Al Brennero no, ché pare un acido sfogo di bile. Bile, perché? Per invidia, per gelosia. Perché noi non avremmo «mai saputo accogliere i desideri della zona nera attraverso una esposizione completa…». Oh, santi numi! I desideri dei danneggiati? Ma se dal ’18 in qua vennero esposti in centinai di riunioni, politiche e non politiche, parziali e regionali, in presenza di governatori, di ministri, di sottosegretari e deputati! Che cosa c’è di nuovo nella relazione Povinelli? Le requisizioni? Ma è la questione più vessata da tre anni in qua, se dovette occuparsene l’ufficio centrale delle Nuove Provincie, il Ministero delle Terre Liberate, la I.a e la XII.a commissione parlamentare, le commissioni consultive, locali e centrale, il Consorzio dei comuni nei suoi consigli e nei suoi congressi, i Consorzi dei danneggiati, una dozzina di deputazioni a Roma fino a che una decisione negativa del Ministero delle finanze attutì per forza queste insistenze! Il versamento degli anticipi al Consorzio dei comuni, stanziati con 81 milioni per il bilancio del 1923, e trattenuti ostinatamente a Roma, nonostante la buona volontà degli on. Rocco e Giuriati? Ma se la Presidenza del Consorzio dei comuni da parecchi mesi era assillata da questa somma cura e per essa moltiplicò viaggi, deputazioni, interventi! La valutazione dei danni ai terreni? Se dopo numerose polemiche e interventi, si ottenne che una commissione con periti locali affrontasse sistematicamente il problema! Non nuove, ma meno ripetute forse furono le proposte formulate dal prof. Suster e da altri circa provvedimenti fiscali transitori, cioè sospensione di ogni tassa sui redditi agrari fino alla ricostituzione delle colture e nessun pagamento dell’imposta arretrata sui fabbricati della zona devastata. In ogni caso, egregi signori, il radunare i danneggiati per una sistematica esposizione dei loro lagni non può essere cosa che ci faccia crepare dalla bile. Sapete invece che cosa potrebbe suscitare la nostra invidia. Non il sentire i lagni dei danneggiati, ma il sentire delle esaurienti e definitive risposte dei rappresentanti del governo e dei candidati! Ah, se il comm. Rosboch avesse potuto rispondere: a) il mio illustre collega di lista e ministro delle Finanze ha finalmente deciso di aderire al noto parere del ministero delle Terre Liberate e di pagare le cosiddette requisizioni, come danni di guerra; b) ovvero: invece dei titoli, si pagherà in contanti, evitando la perdita del 20 per cento; c) ovvero: daremo ordini perché vengano mutati i criteri nella commisurazione dei danni alle campagne; d) ovvero… Ma no, fermiamoci qui, ce n’è abbastanza per far crepare di bile tutti gli antifascisti del mondo. Invece il comm. Rosboch, in quanto alle requisizioni, si è trincerato dietro un parere giuridico dell’avvocatura erariale che sarebbe interessante vedere come sia formulato e il tenore del quesito che lo ha provocato; in quanto ai titoli, ha polemizzato col prof. Suster sull’ammontare della perdita; e per le campagne si è richiamato al principio di giustizia che guida il Governo. Per gli anticipi, sì per gli anticipi, il segretario del ministro delle Finanze ha ammesso che sono danari stanziati già da 8 mesi e che ora verrà immediatamente provveduto. Per il resto ha promesso di presentare, assieme ai colleghi, un progetto di legge nella Camera futura. Un progetto di legge? Il Governo fascista che ha fatto 1500 decreti-legge, che ha stanziato, anche recentemente, per decreto, in variazioni del bilancio preventivo, centinaia di milioni? Le proposte di legge sono strumenti del deprecato vecchio regime. I candidati del listone dovrebbero lasciare ai loro miserabili colleghi di minoranza tali espedienti dilatori! Dopo ciò, ai signori del Brennero, che hanno voluto proprio tirarci in polemica per i capelli, siamo qua a chiedere se questo risultato dell’adunanza possa onestamente venir proclamato: la soluzione definitiva del problema danni di guerra, e se, dopo questo tentativo e questo successo, sia lecito diffamare il quinquennale lavoro dei partiti e degli enti trentini, descrivendolo come infeconda demagogia. C’è in fondo a codeste manovre una immeritata svalutazione della nostra psicologia pubblica. Si crede che l’impostazione improvvisa di un problema economico, alla vigilia delle elezioni, produca un rivolgimento degli animi. Noi abbiamo più fede nella maturità politica della nostra gente; e quindi siamo completamente tranquilli. Non noi abbiamo intavolata la questione dei danni di guerra, né vi cerchiamo una leva elettorale. Ma ci siamo permessi altra volta di dare un consiglio simile anche ai fascisti: primo, perché essendo partito di governo, è più facile mietano critiche che allori, secondo perché la sciagura piombata sui paesi distrutti e la legge nazionale che garantisce loro la rifusione dei danni sono due cose troppo sacre, troppo al di sopra delle contingenze politiche, perché sia lecito occuparsene sub specie electionis. |
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| (Brennero, 11 marzo) «Dichiariamo subito che questa “Diffida” è per noi motivo di legittimo orgoglio. Saremmo anzi felici di apprendere che il maresciallo che stilò e intimò la diffida è un trentino perché l’atto da lui compiuto sarebbe un segno altamente significativo di quell’opera che i migliori trentini sempre hanno svolto e svolgono per inserire vieppiù intimamente la vita della regione nella grande vita nazionale. Mentre noi ci compiacciamo di questo documento di saggia energia, il N. Trentino mostra di esserne scandalizzato ed inorridito. Questa disparità di vedute rivela in pieno l’abisso esistente fra le due mentalità, fascista e popolare, e le due diverse concezioni dello Stato da cui muoviamo. E dimostra ancora una volta che l’abisso è incolmabile e le due concezioni inconciliabili. La qual cosa non ci dispiace affatto. Viene da loro parafrasato colla formula “torchio della pressione amministrativa” un atto di saggezza che mira a tutelare i supremi diritti dello Stato, la tranquillità degli onesti cittadini e soprattutto la dignità del culto e delle persone ad esso preposte. Evidentemente i popolari dimenticano che i sacerdoti hanno “solamente” ed “unicamente” cura di anime; che dopo aver studiato teologia e morale hanno fatto voto solenne di servire Iddio e la Religione ed hanno più volte ricevute istruzioni categoriche di non ingerirsi di politica da parte delle superiori autorità ecclesiastiche. Solo perché essi dimenticano questi fatti indiscutibili, strillano, protestano ed imprecano se un onesto funzionario ricorda loro il sacrosanto dovere di non occuparsi di cose troppo terrene e di lasciar stare “la terra in terra e il cielo in cielo”». (Osservatore Romano, 16 marzo) «Invece di una raccomandazione, di una intesa verbale, che avrebbe dissipato ogni ombra di sospetto, si preferì una solenne diffida, che investe per di più ben altre e più complesse questioni. Si intimò infatti al Sacerdote di “esercitare soltanto le funzioni inerenti al culto”, di “astenersi da incitare ad atti di offesa contro le istituzioni”; a cooperare a creare “la giusta sensazione” della buona amministrazione del governo; a “non indurre a disobbedienza e a disprezzo” del così detto matrimonio civile; a non far “propaganda contraria al governo nazionale”; tutte cose nel loro complesso e nei particolari assolutamente ingiustificate, tant’è vero che l’ampia lode data al maresciallo, da qualche giornale locale, non fu corredata certo da un sol fatto concreto che valesse a giustificare la diffida…. … Appare, infatti, ben chiaro l’abuso di potere e l’errore politico di quel maresciallo dei carabinieri che si sostituisce ai superiori ecclesiastici di un curato, e mentre ne vuole infrenare le eventuali o pretese inframmettenze politiche, ne vorrebbe fare addirittura un agente e propagandista politico, per tenerlo infine, come dichiara la Diffida, già pubblicata dai giornali, in ostaggio per le possibili colpe della popolazione, con procedimento rivoluzionario, addirittura contraddittorio per un rappresentante e custode dell’ordine pubblico in un Paese costituzionale, e dell’autorità di una legge che si fonda sull’eguaglianza per tutti e sulle responsabilità concrete ed accertate. … Non è dunque attraverso diffide, nulle in se stesse e imprudenti, ed atti arbitrari e impolitici, che si può affrettare l’amalgamarsi delle nuove popolazioni, non nel sentimento nazionale, ch’è in tutte altissimo, ma in quei nuovi costumi politici, che a parte i loro eventuali pregi o difetti, non si impongono di autorità mai, ma si introducono soprattutto con la persuasione. Né a tanto si può giungere turbando quell’armonia fra i poteri, ch’è tanto più necessaria quanto più è pure nel campo religioso e morale che verte in parte la legislazione del Paese». La stampa italiana come abbiamo altra volta riferito, si è largamente occupata della diffida del maresciallo al curato di montagna. Nessun giornale ha osato difendere simili metodi, qualcheduno li ha aspramente biasimati. Il Brennero solo ha dichiarato che il maresciallo va citato all’ordine del giorno come modello ed ha magnificato il sistema delle diffide come opera meritoria «per inserire vieppiù intimamente la vita della regione nella grande vita nazionale», come «atto di saggezza che mira a tutelare i supremi diritti dello Stato e la… dignità del culto e delle persone ad esso preposte». A codesti elogi e a codesta significativa adesione opponiamo il biasimo sereno e le critiche severe pubblicate da un collaboratore nell’autorevole «Osservatore Romano», per il quale è chiaro l’abuso di potere e l’errore politico del maresciallo e che parla (riferendosi evidentemente alla chiusa della diffida: «Di qualsiasi fatto che si verificherà nella frazione ecc. sarà chiamato responsabile il nominato curato di…») di procedimento rivoluzionario addirittura contraddittorio per un rappresentante e custode dell’ordine pubblico in un Paese costituzionale. E non abbiamo nulla da aggiungere. Constateremo solo che il maresciallo ha agito, com’egli stesso scrive nella diffida, a nome dell’autorità politica del circondario, e che, secondo nostre più recenti ed esatte informazioni, il pretesto venne fornito dal seguente episodio: negli atti preliminari l’ufficio comunale aveva classificato il prestinaio del paese, che doveva sposare, come contadino. Il fornaio se ne adontò e in protesta si recò alla cerimonia civile in veste di contadino: ecco tutto. E il curato non c’entrò affatto, né ad istigare né ad approvare. Ci associamo infine alla conclusione del Brennero che fra le due mentalità fascista e popolare e le due diverse concezioni dello Stato corre l’abisso. Infatti, secondo il Brennero e i fascisti che accettano la concezione sua, lo Stato è tutto e il carabiniere, suo organo, per garantirne i supremi diritti, può trascurare i diritti che la natura e la costituzione garantiscono al cittadino, sacerdote o borghese che sia. Noi invece siamo del parere che esista una certa somma di diritti individuali, anteriori a quelli dello Stato, diritti che lo Stato stesso ha codificati e dinanzi ai quali il carabiniere deve arrestarsi, come in ogni regime libero e ordinato devono arrestarsi innanzi alla Legge le voglie sopraffattrici dei potenti e le tendenze vendicative dei deboli. |
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| La propaganda fascista si svolge nel Trentino con grandi mezzi e con un numero spettacoloso di oratori. Ogni giorno automobili di varia provenienza riversano nelle nostre vallate un numero indefinito di agitatori. Sembra quasi di essere tornati ai malaugurati tempi dei deprecati governi, inabissati dalla marcia di Roma nell’oblio della storia, quando sulle piazze del Trentino si decideva sul serio se i sette deputati che la regione doveva mandare a Roma fossero dell’uno o dell’altro colore politico. In prima linea si presentano naturalmente i candidati, ed è ovvio che la maggior parte di loro non conoscendo, prima della loro nomina, e socialmente parlando, il nostro paese, cerchino in quest’occasione di far la conoscenza colle nostre popolazioni. Ma ad essi si aggiungono molti altri conferenzieri, dal prof. Degasperi fascista cristiano della prima ora, al rag. Pavanato che in Valsugana, non a guari, era un sostegno della repubblica, al cav. Giardini , fascista dell’ora nona. Essi seguono tutti la parola d’ordine di dire tutto il bene immaginabile del fascismo e tutto il male possibile del Partito popolare. Si direbbe che il Partito popolare che venne cacciato a furia di decreti dalla provincia e dai comuni, che viene pestato in tutti i sensi dalle autorità governative, che già dalla legge elettorale stessa viene spogliato della maggior parte dei mandati, perché per conquistare un posto dovrà raccogliere 12, 15 e forse 20 mila voti; si direbbe che questo partito, del quale si è proclamata tante volte la fine definitiva, abbia dato ancora qualche segno di vitalità e di forza. Come spiegare altrimenti tale accanimento, mentre si lasciano in pace i socialisti che nel 1921 ebbero venti mila voti? Leggendo tuttavia le nutrite relazioni che il Brennero pubblica sulla attivissima propaganda fascista, ci è nato il dubbio ch’essa più che a distruggere il Partito popolare sia diretta a… salvare la religione. Leggiamo infatti che il prof. Degasperi mentre a Cles si dichiarò onorato di esordire al suono delle campane (suonavano a festa per l’annessione di Fiume), a Malè «discusse ampiamente della religione e del partito nazionale fascista»; a Stenico l’onorevole Lunelli fece le seguenti dichiarazioni: «La religione è un sentimento superiore a qualsiasi lotta politica, è un fenomeno di carattere divino e immortale, cui nessun partito ha diritto di attingere giustificazione delle proprie lotte di parte. La religione deve rimanere nel suo alto posto al di sopra delle lotte politiche, e chi se ne vale per esse non fa che staccarla dal cielo e avvilirla in mezzo alla piazza. Il P.N.F. riconosce nella religione una cosa superiore, immortale, altamente morale. La difende, la protegge, ma non se ne varrà mai come arma di partito. Rispetta e stima i sacerdoti che fanno il loro dovere di sacerdoti non immischiandosi in questioni politiche. Combatte quei sacerdoti che trascinano la religione e la loro missione nelle lotte di parte». A Cavedine fu assicurato che «nella religione i fascisti vedono e riconoscono qualche cosa di più alto e più sublime che la propaganda di questo o di quel partito, specie poi del Partito popolare, che dovette assistere alla introduzione dell’insegnamento religioso nelle scuole proprio ad opera del governo fascista». A Vigo Cavedine l’oratore fascista si disse certo che «i nostri buoni agricoltori nei fascisti scorgono i lavoratori non solo del pensiero ma anche del braccio, e i credenti nella religione al di sopra di qualsiasi partito». A Godenzo venne proclamato: «L’introduzione dell’insegnamento religioso nelle scuole e il ritorno nelle aule scolastiche del Crocifisso, sono vanto e merito del governo fascista e di nessun altro governo o partito, compreso quello che della religione si ritiene il solo difensore e sostenitore». A Lavis l’oratore fascista «con indovinate parole, chiedendo di venir smentito, se fosse stato possibile, cercò di convincere i presenti del fatto che il fascismo non combatte la religione, ma combatte la camorra che della religione fa strumento di bottega politica». In Avio e a Dasindo venne predicata la stessa verità e combattuta la stessa eresia, e a Marco «l’oratore passa a esaminare provvidenze prese dal fascismo a favore della religione». In Lavarone poi il rag. Pavanato, impiegato dell’ufficio edile di Borgo, difendendo la religione, inveì contro il verme don Sturzo, indegno sacerdote … E la campagna porta anche i suoi frutti, perché in Borgo Valsugana al reggente Ciarlantini venne offerto un banchetto, al quale intervennero uomini d’ogni parte «tra i quali, nota il Brennero, qualche sacerdote». (Ed è giusto, perché se vanno con loro non trascinano mai, come diceva Lunelli, «la loro missione nelle lotte di partito»). Orbene, innanzi a questa crociata noi rimaniamo perplessi sulle sorti del nostro paese. Che cosa è mai accaduto, perché sia necessario un tale sforzo per salvare la religione? Sappiamo in verità che quest’anno nelle scuole invece delle quattro ore settimanali per la quaresima, per l’insegnamento religioso se ne permettono soltanto due, sappiamo che in qualche luogo invece del parroco, a fare il catechista, si manda il maestro, sappiamo che per parte delle scuole medie i cattolici devono provvedere colla carità pubblica; tuttavia, nonostante questi peggioramenti, tranquillizza il fatto che il Crocifisso è rimasto, come sempre, nelle aule scolastiche, che il sacerdote, quasi dappertutto, può insegnarvi il catechismo, e sappiamo anche, che nonostante il tentativo fatto da qualcuno di magnificare il matrimonio civile come contratto perfetto e sufficiente, la popolazione ci tiene quasi sempre al matrimonio religioso. Un allarme esagerato ci è parso quindi senza ragione, onde non è davvero sulla questione dell’insegnamento religioso nella scuola o sul terreno degl’istituti religiosi che i popolari hanno insistito comecchessia durante la campagna elettorale. Che cosa spinge quindi gli oratori fascisti a battere la campagna, con un quaresimale sotto il braccio? Ecco, leggendo l’articolo di ieri del Brennero , siamo tentati di credere di aver trovata una spiegazione. Vi scrive il reggente fascista che la prova data dai fascisti di religiosità «in mille circostanze e senz’ombra di speculazione» li autorizza «a giudicare con estrema severità quei popolari che adulterano le cose di Dio». La crociata dovrebbe quindi servire a questo: a dimostrare che i veri adoratori del Dio vivente sono i fascisti e che i popolari sono «traditori, nemici di Dio e della pacifica convivenza sociale». Un momento! Non vi pare che codesto sia del clericalismo della marca peggiore; abuso cioè della religione per combattere un partito politico? Noi non spenderemo una parola per respingere le ingiurie che l’articolista ci manda a dire, quando ci classifica «sobillatori dei bassi istinti delle plebi, artefici d’ogni intrigo, avidi di lucro e di potenza, nemici della prosperità nazionale». Evidentemente il signor reggente che ha assunto la reggenza da un paio di settimane e l’ha assunta da un altro suo collega di lista che quindici giorni prima l’aveva assunta da un altro collega di lista ancora, nel rapido trapasso dei poteri non ha trovato il tempo di fare quello che da trent’anni fa il popolo trentino, di rendere cioè giustizia alla nostra opera e alle nostre persone. Ma il tempo è galantuomo; e ci fidiamo quindi tranquillamente di lui. Intanto, poiché abbiamo la disgrazia d’aver già una lunga esperienza politica, ascoltino un consiglio che vien dato di buon animo. Quando i primi socialisti iniziarono la propaganda nel Trentino, sapete come incominciarono: colle lettere di s. Paolo e coll’Evangelo di s. Luca. Ma la predicazione attaccò poco, perché i fatti non vi corrispondevano. Vedano di non cadere nello stesso errore: procurino che i loro tesserati siano nei nostri paesi fermi e rigidi praticanti dei principi del cristianesimo, compresi i principi della carità e della giustizia, e il popolo giudicherà secondo i fatti. Il quaresimale elettoralista sarà allora superfluo. |
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| Il Brennero non è contento della descrizione che abbiamo pubblicata sulla spedizione di Lodrone, e ci accusa di montare l’incidente a scopi elettorali. «Superior stabat lupus, inferior agnus!». Basta rifare la genuina cronistoria dei fatti ch’è la seguente: il Brennero pubblica a caratteri di scatola la notizia che dei popolari, durante un ballo in un’osteria di Lodrone, avrebbero aggredito e malmenato un fascista. Noi mandiamo subito a Lodrone un inviato speciale il quale ci partecipa che si tratta d’una comune rissa di osteria, alla quale non hanno partecipato affatto i popolari. Il Brennero non prende nota della rettifica e pubblica invece la relazione di una impresa notturna nel paese che ha condotto alle dimissioni della rappresentanza comunale. Noi riproduciamo tale e quale la relazione del Brennero e vi aggiungiamo la descrizione di un testimonio oculare, osservando che vi avevamo tolto i particolari più drastici. Il corrispondente infatti ci aveva riferito di minacce di bruciare il paese ripetute in piazza, ecc., ecc. L’altro ieri poi pubblichiamo un verbale assunto nella cancelleria comunale di Lodrone, presente tutta la rappresentanza, il quale conferma che la rissa nell’osteria ebbe il carattere che la nostra versione le attribuiva. Aggiungiamo che nel frattempo un nostro inviato assodava le circostanze riferite dal nostro corrispondente, confermandole in tutta la loro drasticità. Si chiama questo montare l’incidente? O non abbiamo noi fondato sulla stessa descrizione del Brennero il nostro commento quando rilevavamo l’illegalismo dell’impresa notturna e della richiesta fatta in quel modo delle dimissioni? Vorrebbe il Brennero si ammettesse che codesti sono sistemi di gentiluomini, in perfetta armonia non diciamo colle leggi, ma anche colle buone usanze? Ecco, per conto nostro siamo anche disposti a ritenere che tutti quei signori laureati di politecnico non avessero in animo di far nulla di grave; ma ebbero certo il proposito d’intimidire, tanto che riuscirono nel loro intento e che quella povera gente chiamata di notte al suono delle campane ne rimase terrorizzata. Che c’entra qui la speculazione elettorale? L’impresa la abbiamo compiuta noi o i vostri? E ne avete riferito prima voi o noi? «Superior stabat lupus…». Il quale dopo ciò vuol concludere che siamo noi ad intorbidare le acque; e rincalza con codest’altre prove: «Ci risulta in modo indubbio che in un punto centrale delle Giudicarie da parte popolare ci si è espressi in questi termini: “prima del sei aprile un fascista deve andare al cimitero”. Altrove, più vicino a Trento, alla pacifica e leale propaganda fascista si minaccia di opporsi colla violenza armata. Siamo molto curiosi di sapere come i sornioni del Nuovo Trentino spiegheranno queste provocazioni». Come le spieghiamo? Noi, fino a prova in contrario, le crediamo affatto inesistenti. Il Trentino è un paese tranquillo e la popolazione ha sempre dimostrato un sangue freddo e una prudenza estrema. Ci rifiutiamo di credere che ci sia qualcuno, popolare o meno, che esprima minacce di morte. Non potrebb’essere che un epilettico o un degenerato. Metta fuori il nome della «parte popolare» il Brennero e vedremo la consistenza della sua denuncia. Che vi sia poi una località, più vicina a Trento, in cui si minacci di «opporsi colla violenza alla pacifica e leale propaganda fascista» nessuno lo crede, nessuno lo sa. I fascisti hanno girato in lungo e in largo la regione, con grande copia di mezzi, sono stati ascoltati con rispetto e, stando alle relazioni del Brennero, anche con molta efficacia. Lavora inoltre per loro tutto l’apparato governativo. Chi mai può sognarsi di ricorrere a violenze contro di loro? I popolari? «Inferior stabat agnus». Voi concludete che noi speculiamo su di un panico inesistente e che la «libertà che manca» è una panzana buona per gli elettori. Come ci capite male! Ma non sapete che da due settimane non predichiamo altro che questo, che non c’è nessuna ragione di panico, che gli elettori sono completamente garantiti dalla legge elettorale la quale commina contro i violenti pene gravissime, e che sono completamente sicuri nella segretezza della cabina, di poter votare secondo la loro libera coscienza. Aiutateci a diffonderla questa sensazione di sicurezza, proclamate ovunque che la mancanza di libertà è una panzana. Ve ne saremo grati e vi sarà grata tutta la provincia oggi e poi, quando dopo un lungo esercizio del potere, farete talento anche della gratitudine degli elettori. |
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| 41921-1925
| […] L’on. Degasperi Ultimo oratore fu l’on. Degasperi, il quale dopo aver provocata una grande ovazione, coll’inviare un saluto al Maestro, oggi fatto oggetto di dileggio su tutte le piazze d’Italia, d. Luigi Sturzo, rileva che uno dei fenomeni più curiosi che caratterizzano questa campagna elettorale è l’avere il partito dominante sollevato l’accusa di «sovversivismo» contro i cattolici, i quali militano nel Partito popolare italiano. Nessuno può ritenere sul serio che i cattolici, i quali predicarono sempre e difesero l’ordine sociale e le istituzioni e che perciò appunto venivano finora designati come reazionari, preparino e favoriscano comunque propositi di sedizione. Da quali banchi e da quali uomini verrebbe del resto una tale accusa? Gracchi de seditione querentes! L’oratore ritiene piuttosto che la taccia di sovversivismo sia balzata fuori spontanea dall’istintiva sensazione che fra la dottrina nazional-fascista, com’è formulata nel presente momento politico e il pensiero cristiano che inspira la nostra concezione della vita pubblica, esiste una profonda antitesi tendenziale. In tale senso l’accusa bisogna accettarla, perché significa il nostro contrasto colle due tendenze caratteristiche del dopoguerra, cioè il culto della forza, la pratica della violenza e la svalutazione della personalità umana. In tale senso furono detti sovversivi anche i cristiani dei primi tre secoli: né giovò loro di obbedire alle leggi e al Sovrano, né di rilevare, come faceva Tertulliano, che fra i partecipanti alle frequenti congiure non s’era mai trovato un cristiano, né ad Ireneo di assicurare che i cristiani non meno dei pagani, vantavano la civiltà romana che dava pace e sicurezza, sicché in tutto il mondo si poteva viaggiare per terra e per mare. Non giovava, perché istintivamente i magistrati romani sentivano che lo spirito cristiano era sovvertitore del loro mondo in quanto predicava la fraternità degli uomini e dopo i milioni di gladiatori, di bestiari e di servi che erano morti per il cruento spettacolo del popolo romano esso proclamava la persona umana sacra e inviolabile perché creata e redenta da Dio. Il vero significato d’un motto L’oratore non osa avvicinare questa nostra età alla gloriosa età precostantiniana, ma vi corre col pensiero per rilevare che le lotte politiche si riducono sempre in fondo a lotte di principio e per trarne l’auspicio che anche alla moderna Italia il nostro sovversivismo porti il trionfo d’una fratellanza e d’una giustizia profondamente cristiana. Questo il significato e il nostro motto crociato: «Libertas». Come politici non ci affidiamo tuttavia solo all’azione lenta e sicura dell’idea. Libertas è per noi anche un programma di azione entro lo Stato. Questa parola oltrepassa la rivendicazione immediata delle libertà politiche, per significare la liberazione dei cittadini, delle associazioni, dei comuni, degli enti locali dall’eccessivo accentramento dello Stato. Quando al congresso del partito in questa Venezia Sturzo riferì sul decentramento parve ai più che si trattasse d’un problema tecnico amministrativo che non riguardasse la vitalità dello Stato e della Nazione. Ma oggi l’uso e l’abuso che fa dello Stato il partito al potere, persuaderà anche gl’indifferenti di ieri che il problema deve riguardarsi come il problema centrale italiano. Nell’80, gli uomini di destra si accorsero delle gravità del problema quando la Sinistra, assunta al potere, incomincerà ad abusare dell’amministrazione per i suoi scopi politici. Allora Silvio Spaventa si pose il quesito: come conciliare il principio parlamentare che dà il governo ad un partito colle garanzie di libertà e giustizia e d’imparzialità che deve avere il cittadino? E rispose proponendo la giunta amministrativa e il tribunale amministrativo. Ma queste riforme non bastarono. L’abuso dell’articolo 3 della legge comunale e provinciale ha finito col concedere ai prefetti tali poteri discrezionali che equivalgono in realtà ad una sospensione della costituzione. Il partito attuale poi abusa dell’organismo dello Stato in una misura che gli antichi partiti non conoscevano. I comuni sono scheletri, le provincie cadaveri, le associazioni sindacali vivono o muoiono ad arbitrio di sua eccellenza. La funzione avvenire del Partito popolare L’enorme pressione degli organi statali, in mano d’un partito, rendono acuto il problema. Il parlamento prossimo verrà indotto ad occuparsene. Ecco la funzione del Partito popolare italiano, ecco il programma nel suo motto delle grandi tradizioni italiche: «Libertas». L’oratore, che è stato più volte applaudito fervidamente dalla vivace assemblea, termina augurando che a tale opera di rinnovamento partecipi Venezia colle sue tradizioni e coll’opera del giovane e valoroso candidato prof. Ponti. |
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| Non ci siamo mai occupati del contegno di certi liberali dirigenti e specialmente del loro giornale, quantunque le goffe evoluzioni che hanno compiuto durante la campagna e le stridenti manifestazioni contradittorie, che sono registrate nella raccolta della Libertà, fossero argomento attraentissimo per la satira più esilarante. Ci siamo accontentati di pensare, come pensavano e, a quattr’occhi, confessavano molti liberali, che piuttosto che precipitare da un atteggiamento di dignità e di carattere alla funzione di «personale di servizio» del fascismo era preferibile scomparire dalla scena politica. Non l’abbiamo tuttavia né scritto, né stampato, perché non ci si accusasse di mettere il naso in casa altrui o di voler speculare su di un evidente infortunio politico. E abbiamo mantenuto il silenzio anche quando il contegno dell’organo liberale nell’ultima vigilia si trasformò in evidente omertà cogli atti di sopraffazione compiuti contro di noi . Pensate: un giornale subisce l’occupazione e i suoi uffici vengono messi a soqquadro, tanto che sfuggono solo per l’intervento della forza pubblica all’incendio, che già era appiccato. Esso tenta tuttavia di uscire, ma di fronte a ripetuti e vani tentativi, dopo che la P. S. ebbe dichiarato di non essere in grado di proteggere il trasporto delle copie fino alla stazione, deve rinunziare alla spedizione; e poiché tra il personale si è propagato il panico, deve rinunziare del tutto alla pubblicazione per tre giorni. È in via di fatto la soppressione della libertà di stampa. In simili occasioni, i giornali del Regno hanno sempre avuta una parola di protesta o almeno di disapprovazione. La Libertà ha taciuto. Pure nemmeno questo è valso a strapparci una parola di commento. Ma ieri abbiamo letto un articolo così indegno che non possiamo più trattenere la nausea. La Libertà arriva al punto di scrivere che noi abbiamo inventata perfidamente la favoletta della violenza, per creare ad arte un ambiente di panico che ci potesse giovare a scopo elettorale. Ora, di fronte a quanto si è svolto innanzi agli occhi del paese, la mistificazione della Libertà non ha prospettiva di ottener credito; e potremmo passarcene, come del resto. Senonché questa volta non vogliamo perder l’occasione di documentare come sia stato creato – contro ogni nostro sforzo e ogni nostro interesse – lo stato d’animo della vigilia elettorale. Non ricorderemo gli atti personali di diffida, dei quali abbiamo riportata qualche prova, non la scenata notturna di Lodrone ; ma ci basti riferire ora – perché prima noi «creatori del panico» ci siamo ben guardati dal registrarle – alcune manifestazioni verbali e organizzative del fascismo locale. Il Brennero nel numero di domenica 30 marzo , annunziava l’organizzazione delle squadre d’azione per la bisogna elettorale. I compiti di queste squadre erano segnati in un appello dello stesso giornale che diceva: «Camicie nere! Squadristi! Come una volta, così oggi il Duce vi chiama… Adunata! Camicia nera, calzoni grigio-verdi, e il manganello. Così. Poiché la vostra fede, ch’è la patria, è contaminata da un ammasso brulicante di luridi vermi, schifosissimi, che appestano l’aria, che inciampano il cammino al Duce. Adunata! In questa settimana di passione sublime, le legioni s’inquadrano. Come i rivi formano i torrenti, e i torrenti i fiumi, così i manipoli formano le centurie e le centurie le legioni. E la grande fiumana di giovani vite batte tutte le strade, percorre tutte le valli, scorazza per tutti i piani, sale in vedetta su tutti i monti. Riecheggia il formidabile urlo di un giorno: A noi! A noi! Camicie nere, vecchi squadristi! È necessario imporsi ed affermarsi fascisticamente come è necessario il pane per vivere. È necessario ripulire la patria dal luridume dei politicanti d’ogni opposizione, dal vecchiume d’ogni passatismo, come è necessario creare per migliorarsi. Camicie nere, vecchi squadristi! A chi la patria? A chi il governo? A chi il Trentino? A noi! A noi! A noi! A costo d’ogni sacrificio d’ogni rinunzia; a costo di tutto». E perché fosse ben chiaro per chi era destinato tale mansueto linguaggio, nello stesso Brennero in un altro articolo si scriveva dei popolari: «L’innominabile ignominia di questi massacratori del Trentino, deve essere stroncata senza remissione. Non li risparmino i nostri propagandisti; non lascino loro tregua tutte le camicie nere; li sorveglino i nostri fiduciari ed i nostri amici come dei vigilati speciali, come dei sovversivi della peggiore, della più raffinata specie, quali sono». L’organizzazione delle squadre era stata ordinata dalla reggenza fascista con circolare N. 80 (N. 734 di prot.) la quale ordinava la loro dislocazione da giovedì 3 aprile e assegnava loro anche il compito di «frustrare ogni tentativo di propaganda sovversiva». Ora quale meraviglia se questo conclamato risorgere dello squadrismo, aggiunto al minaccioso linguaggio del giornale fascista, aveva creato in molti uno stato d’animo pieno di apprensione? Quale meraviglia se le violenze avvenute in altre regioni davano alle cose e alle parole un significato che da alcuni era voluto e per altri era forse preterintenzionale? Noi però tanto ne volemmo fare una speculazione che durante la campagna non ne prendemmo nemmeno atto, studiandoci di infondere dappertutto la sicura persuasione che la giornata elettorale sarebbe stata tranquilla. E se si tolgono non poche intimidazioni e bastonature contro nostri propagandisti ed il gravissimo caso di Levico , inaudito per la nostra provincia, ammettiamo volentieri che la giornata fu calma e non vi fu alcun atto di esteriore coazione della libertà di voto. Ma il clima era stato creato così contro la nostra volontà, contro i nostri sforzi, contro il nostro interesse. Né sembra che il Brennero voglia mutar tattica se leggiamo nel peana di martedì che avendo i fascisti subito anche delle violenze (superior stabat lupus!) «la prossima prova useremo la maniera forte; occhio per occhio, dente per dente, e peggio». Ora trovi la Libertà un esempio solo di un linguaggio consimile da parte nostra; registri questi ed altri documenti di violenza verbale che può trovare, a scelta, nella raccolta del giornale suo alleato e poi ripeta che i popolari ebbero la perfidia di creare ad arte uno stato d’animo di panico elettorale. No, la serenità primaverile che voi sognate è una mistificazione o un pio desiderio. Se è la prima ci basta d’averlo dimostrato, se vuol essere invece un desiderio, i liberali, a cui i fascisti devono parte notevole dei risultati ottenuti , hanno ora il mezzo di esigere il compimento. Si torni a discutere e a battersi in perfetta libertà, senza mobilitazioni, senza squadre, senza manganelli; e se i liberali otterranno questo, noi non vorremo astenerci dal rilevare questa conseguenza buona del loro atteggiamento discutibile. |
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| 41921-1925
| In verità, non sembra essere la cosa più facile di questo mondo il dar adeguata espressione al sentimento di cui ha vibrato ieri Trento durante la breve visita di S.A.R. il Principe Umberto. Questa visita era attesa da tanto tempo e di quando in quando ne era anzi comparso l’annunzio come d’una cosa prossima. All’annunzio era sempre seguita la smentita o era seguito il silenzio, così che forse più di uno anche di fronte all’annunzio ufficiale di pochi giorni fa ha potuto rimaner scettico. La lunga aspettazione però, pare, non che aver attutito l’entusiasmo, averne accresciuta la possibilità d’espressione. Forse non si dice tutto quando si afferma che domenica abbiamo visto rinnovato per le nostre piazze e le nostre contrade lo spettacolo di tre anni fa, quando furon qui il Re e la Regina. Riavutasi dallo sgomento provocato dall’improvvisa tempesta che s’è scatenata sulla città proprio mentre il treno recante il Principe giungeva in stazione, la folla s’è lasciata andare da per tutto a dimostrazioni di entusiasmo che Trento non ricorda le eguali. Le cronache anche recenti delle visite fatte dal Principe nelle varie città della Penisola sono tutti risonanti dell’eco di simili entusiasmi che talora poterono apparire esagerati dalla prosa più o meno colorita e immaginosa dei giornali. Ma la conferma della verità di questi entusiasmi l’abbiamo avuta domenica entro le nostre mura cittadine. Ricordiamo, per non citare che alcuni episodi, l’esplosione di grida salutanti e inneggianti quando il Principe uscià dal Municipio per recarsi in Duomo; la pioggia floreale che ha salutato il giovine erede al trono in Piazza Venezia, dopo il ricevimento alle Caserme Madruzzo, il saluto squisitamente popolare che lo accompagnò mentre partiva per Rovereto. Indubbiamente anche per noi, trentini, come per i fratelli delle vecchie province, esiste il fascino della giovinezza, esiste il pensiero che, salutando e onorando il Principe, si saluta e si onora colui che domani sarà il Re, il capo dello Stato. Ma certo anche di un altro più vasto e più intenso sentimento dovette esser fatto il nostro entusiasmo di domenica, e cioè di quel sentimento per cui, al di là e al di sopra di ogni idealità contingente, vive nel nostro cuore e si alimenta nella nostra anima l’idealità non distruttibile della Patria, nata e cresciuta in noi col servaggio, ingigantita con le sofferenze che a questo servaggio furono congiunte. Quella di domenica è bene stata, nella nostra vita cittadina, una di quelle tappe, una di quelle soste in cui l’anima, effondendosi tutta, dà tregua al suo assillo cotidiano, in cui tutti, fatti tacere i dissidi e le querele, hanno bisogno di incontrarsi per risentirsi, almeno per un’ora, fratelli, nel sentimento che solo, dopo la fede in Dio, è capace di tutti i possibili eroismi, di tutte le possibili rinunzie: l’amor della Patria. |
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| 41921-1925
| Quello che si attendeva è avvenuto. I partiti estremi sono usciti vittoriosi dalle urne in Germania . I comunisti hanno vinto sui socialisti maggioritari come i tedeschi-nazionali hanno il sopravvento sui democratici e sugli altri partiti borghesi. In una sola cosa le previsioni non hanno risposto alla realtà delle cose. Si riteneva generalmente, in seguito alle elezioni per la Dieta in Baviera, che il partito ultranazionalista detto «Völkisch», al quale appartengono Ludendorff e Hitler, gli eroi famosi del «putsch» di Monaco, avrebbe avuto una vittoria travolgente anche a scapito dei tedesco-nazionali. Ora questo non è avvenuto. I tedesco-nazionali sono alla testa dei partiti borghesi nel futuro Reichstag. Indubbiamente i discorsi impolitici di Ludendorff co’ suoi fulmini al semitismo, al marxismo e all’ultramontanesimo hanno fatto vedere un movimento la cui vittoria, com’ebbe ad esprimersi il cancelliere Marx nel discorso di Düsseldorf, equivarrebbe ad un vero disastro per la Germania e per l’Europa. Vediamo intanto quali sono le differenze tra i tedesco-nazionali e il partito di Ludendorff. I primi sono dei conservatori nazionalisti, che continuano a rappresentare lo spirito prussiano, nettamente monarchico, protestante, agrario. Reclutano la loro clientela principalmente nelle popolazioni rurali della Germania del nord. Questo partito seppe mantenere la più parte dei privilegi di casta; reclama la restaurazione degli Hohenzollern e il ristabilimento del servizio militare. Il suo capo parlamentare era il dottor Helfferich di cui è recente la tragica fine nello scontro di Bellinzona. Il partito è diretto attualmente dal grande ammiraglio von Tirpitz , dai conti Westarp e Reventlow e dal dott. Schlange . Contava 67 seggi prima dello scioglimento del Reichstag. Ha guadagnato una trentina di seggi. I «Völkisch» ludendorffiani sono i difensori della pura razza dei biondi germanici. Essi sono monarchici per quanto non reclamino espressamente il ritorno degli Hohenzollern. Per essere veramente puri nel loro germanesimo ritornano al vecchio culto di Wotan. Così combattono tutto ciò che è estraneo al germanesimo com’essi lo concepiscono, il semitismo, l’ultramontanesimo – leggi cattolicismo –, la democrazia, il socialismo, l’internazionalismo, la repubblìca, la fede nei trattati e la teoria di Einstein sulla relatività. A dir il vero, per essere veramente coerenti con se stessi, poiché si ispirano a Wotan, dovrebbero considerare come estraneo al germanesimo anche il protestantesimo per quella parte di cristianesimo che ancora contiene: avviene invece generalmente che protestantesimo e germanesimo sono considerati in Germania come un’equazione perfetta, forse perché il protestantesimo politico non ha più alcun contenuto soprannaturale e non è che uno strumento politico del pangermanesimo. Checché sia di ciò, il fatto politico del giorno è costituito dal successo dei tedesco-nazionali che, essendo coi socialisti maggioritari il gruppo più forte al Reichstag, dovranno assumere la responsabilità del potere. Ci troviamo quindi subito di fronte a un problema d’immediata attuazione. È noto che il leader di ieri Helfferich era nettamente contrario all’accettazione del piano dei periti, che fu invece accolto dal governo di Marx-Stresemann. Il grande ammiraglio von Tirpitz, i conti Westarp e Reventlow sono dello stesso parere di Helfferich. Quale ripercussione internazionale immediata avrà dunque l’esito delle elezioni politiche di domenica in Germania? Certo Poincaré è nato sotto una buona stella. Le elezioni tedesche sono il cacio sui maccheroni per la politica poincariana. Il presidente della Camera francese Raul Peret ha affermato categoricamente in un suo discorso elettorale che non è il caso di abbandonare il pegno della Ruhr. «Sono risultati – ha continuato egli – dinanzi a cui gli avversari dell’occupazione della Ruhr dovrebbero inchinarsi. Nessuno più di me sente la necessità di una opposizione; e durante quattro anni ho sempre fatto rispettare alla Camera il diritto della minoranza. Ma, come diceva ieri stesso a Nantes l’onor. Briand, il quale non dà sempre il proprio voto a Poincaré, bisogna riconoscere che l’operazione della Ruhr era inevitabile. Perché non continuare ad attenersi alla politica dei pegni? È forse nel momento in cui siamo per raggiungere la meta che abbandoneremo i metodi che ci hanno avvicinato ad essa?». Come si vede, sulle rive della Senna si hanno predisposizioni ad approfittare del risultato delle elezioni politiche in Germania. Resta a domandarsi se potrà mantenersi al potere il governo attuale o se invece il governo Marx- Stresemann non sarà obbligato di cedere il posto a un’altra coalizione più conservatrice, massime se i socialisti maggioritari, come tutto porta a credere, rilutteranno di assumersi la responsabilità del potere, lasciandola invece ai nazionali tedeschi. Mentre scriviamo, non avendo sott’occhi tutti gli elementi che permettono uno sguardo d’insieme sui risultati definitivi delle elezioni, non possiamo specificare e dobbiamo necessariamente mantenerci sulle linee generali. Sembrerebbe, secondo le ultime informazioni, che il governo Marx- Stresemann possa ancora disporre di una maggioranza sufficiente per varare le proposte dei periti. In tal caso, la situazione politica dal punto di vista internazionale rimane immutata. Ci sarebbe solo il pericolo che il governo non riesca ad avere la maggioranza sulla questione delle ferrovie tedesche in rapporto alle proposte dei periti, poiché la costituzione di Weimar richiede in proposito i due terzi dei voti della Camera. Se poi si tiene conto dello spirito che anima i «völkisch» che spingono verso la dittatura, non possiamo esimerci da un senso di pessimismo. In tutti i casi la Francia e il Belgio che hanno una fiducia relativa nella forza attuale della Società delle Nazioni, non abbandoneranno il pegno sicuro della Ruhr per un pegno meno solido. Noi ci riserviamo di considerare a mente più riposata quello che hanno ottenuto il Centro di Germania e i popolari cattolici di Baviera. Essi possono essere ancora un elemento equilibratore al Reichstag avendo mantenuto quasi intatte le loro posizioni. Certo che abbiamo a che fare con qualche cosa di fragile. Basta un nonnulla per mandare a monte ogni cosa. Noi vogliamo peraltro sottolineare con vivo compiacimento il fatto che i supernazionalisti Völkisch, dei quali si riteneva da tutti una travolgente vittoria, sono usciti diminuiti dalle urne politiche di domenica. Se Ludendorff continua nelle sue «gaffes», come ha perduta la guerra coll’Intesa, finirà per rompere le coste anche al vecchio dio Wotan, che gli hitleriani hanno cercato di rimettere in circolazione. Nell’insieme procediamo «per ignes». |
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| 41921-1925
| Tutti i giornali danno la notizia della nomina del nostro direttore a segretario politico del Partito popolare italiano al posto del Prof. Sturzo, ma pochi, data l’ora tarda in cui la notizia ha potuto esser appresa, sono arrivati a commentarla. In genere, nelle relazioni che i giornali avversari danno della prima giornata dei lavori del Consiglio nazionale popolare , si avverte il senso di delusione suscitato in essi perché le loro previsioni di scoppio di dissidi, specie sulle dimissioni del Triumvirato provvisorio e sulla nomina del nuovo segretario politico, sono ancora una volta fallite. Dei giornali avversari il Popolo d’Italia accompagna la nomina dell’onor. Degasperi con qualche riga di commento scrivendo, tra le altre, queste parole che sono, implicitamente, un riconoscimento delle buone qualità del successore di Don Sturzo: «È difficile valutare sul momento le tendenze o meglio le sfumature di tendenze prevalenti in questo nuovo organo direttivo. L’on. Degasperi è sturziano, infatti, ma ha una personalità propria ed è soprattutto un parlamentare». La Stampa, dal canto suo, pure ritenendo una personalità come Don Sturzo insostituibile, definisce il nuovo segretario politico come un uomo «dotato delle maggiori qualità politiche». Dei giornali di parte nostra, scrive il Cittadino di Brescia: «L’amico on. Degasperi, assume un ben grave compito nel quale lo deve assistere la collaborazione cordiale di tutti i tesserati e di tutti gli organi locali del partito. Il momento è così delicato da esigere la maggior compattezza per mantenere il partito all’altezza che ha saputo conquistare e conservare tra le più grandi difficoltà e per spingerlo verso nuove civili conquiste. Alcide Degasperi, proveniente dalla Gioventù cattolica, dal movimento studentesco nostro, leader dei popolari trentini, esperimentatissimo nell’azione politica è certo atto a sostenere il grave pondo della direzione suprema del partito. Noi accompagnamo la sua opera coi più fraterni auguri». E il Corriere del mattino di Verona pur premessa la domanda se la continuazione del Triumvirato o il ritorno di Don Sturzo erano davvero possibili, scrive a sua volta: «Una volta decisa la scelta del nuovo segretario politico, essa era chiara ed univoca: De Gasperi, mente politica propria e robusta e insieme il più fedele continuatore della linea di Luigi Sturzo». |
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| 41921-1925
| Sabato sera, verso le 22, il paese di Sopramonte fu invaso da una trentina d’individui armati di rivoltella e manganello, che avevano lasciate le vetture automobili all’ingresso del villaggio. La maggior parte degli abitanti era già a letto o ritirata in casa. Con grida concitate e numerosi colpi di rivoltella in aria e contro le porte e le finestre la banda sparse subito il terrore in tutto il paese. Un giovanotto, certo Nardelli Giuseppe, che si trovava nella casa della fidanzata, uscito sul piazzale della chiesa, venne acciuffato da un manipolo di scalmanati, i quali gl’imposero d’indicar loro ove dimorasse il segretario comunale che, per essere socialista, è particolarmente inviso ai fascisti. Il giovanotto finse di accondiscendere alla loro pretesa e si accompagnò col manipolo, ma quando si trovò vicino alla casa di un suo zio certo Nardelli Faustino, si precipitò sulle scale, coll’intento di sfuggire ai suoi persecutori. Questi però lo raggiunsero e lo colpirono di bastonate, finché cadde a terra grondante sangue. Lo zio Faustino che era già coricato, alle urla del nipote accorse semivestito sul pianerottolo, ma la banda gli fu addosso e prima ancora che potesse pronunciare parola e comprendere di che si trattasse, lo colpirono ripetutamente con randelli e con una bottiglia trovata sul luogo, fratturandogli una costola e producendogli parecchie ferite al capo. Il povero vecchio, che ha 67 anni, cadde riverso sul terreno. Frattanto altri gruppi giravano per il paese, sparando all’impazzata, sparando contro le case e randellando quanti uomini e ragazzi non erano arrivati a scappare. I feriti a colpi di bastone sono circa una ventina. Abbiamo constatato coi nostri occhi che in qualche porta sono ancora conficcate le palle di rivoltella. Due colpi furono tirati contro la finestra di un stanza della casa Nardelli in piazza della chiesa. Le palle frantumarono i vetri e andarono a conficcarsi nel soffitto della stanza ove era coricata una giovane sposa che, in preda al più vivo terrore, si rifugiò nel cantuccio più riparato dell’alcova. Poco dopo un grosso manipolo della spedizione invadeva l’Albergo Vittoria. Nella saletta a pianterreno assieme ad alcuni di Sopramonte stava un gruppetto di forestieri, che erano venuti a pernottare a Sopramonte per far poi la salita del Bondone. Entrò prima uno della banda e poi, ad un suo segnale, si rovesciarono nella saletta alcuni randellatori che senz’altro si misero a menar le mani. Il primo colpito fu certo Agostini Giuseppe, detto Pasiel, maestro stradale, che ebbe gravi lacerazioni e contusioni alla testa e delle ammaccature alle braccia e alle mani; bastonate ebbe pure il sig. Ermanno Agostini che si trovava a Sopramonte a fare una revisione contabile del comune e ferite lacero-contuse alla testa un consigliere della Provincia che faceva parte del gruppo turista. Segata Silvio di Abramo venne colpito gravemente alla testa con una bottiglia. Gli invasori si sparsero poi nel piazzale sottostante ove si giocava a bocce. Rivoltella spianata, in alto le mani, perquisizioni personali e botte a tutto spiano. Finalmente, quando Dio volle, la banda se ne andò e il medico comunale Dott. Centi venne chiamato per i soccorsi d’urgenza. Egli si prestò con premuroso zelo a bendare e a fasciare. Senza contare le ammaccature e le lividure minori, egli dovette fare il seguente bilancio: Nardelli Giuseppe, lacerazioni alla testa, guaribili in 16 giorni. Nardelli Giusto, botte alla testa, guaribili in 10 giorni. Nardelli Faustino, d’anni 67, frattura alle costole, lacerazioni alla testa, guaribili in un periodo superiore ai 21 giorni. Segata Luigi di Agostino, lacerazioni alla testa, guaribili in 10 giorni. Agostini Ermanno, botte e lividure sotto i dieci giorni. Segata Cornelio di Bortolo, frattura dell’omero, 20 giorni. Mario Menestrina, Segata Federico, Girardi Augusto, Nardelli Valentino di Faustino che ebbero contusioni e lacerazioni meno gravi, guaribili sotto i dieci giorni. Bisogna notare che in questo elenco l’Agostini Giuseppe, il quale quando fu ridotto nel modo che abbiamo descritto, essendosi fatto riconoscere come inscritto ai sindacati fascisti, venne condotto da questi stessi a Trento e trasportato all’ospedale nella clinica del Dott. Gilli. Nel ritorno la spedizione compì un’altra bravura. Sul piano di Cadine, sulla strada di Sopramonte si imbatterono in certo Cainelli Riccardo, padre di tre figli, operaio nella fabbrica cementi di Trento, che rincasava dal lavoro. Vederlo ed essergli addosso fu tutt’uno. Egli porta ora sulla faccia, in diversi punti, larghe lividure e cicatrici di parecchie lacerazioni . |
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| 41921-1925
| Le dichiarazioni di S. E. Serpieri non hanno bisogno per la loro chiarezza di commenti . Ci interessa di rilevare come i nostri apprezzamenti e le nostre proteste contro il provvedimento prefettizio fossero consistenti e come l’arbitrio locale emerga luminosamente, dopo le dichiarazioni surriferite, in tutta la sua portata. Dunque, per ricapitolare, il ministero su rapporto del sig. Barone Francesco Biegeleben delegato governativo presso la Mutua, rapporto appoggiato dal prefetto, dispose che si compissero precise indagini metodiche per accertare le condizioni della gestione dell’assicurazione obbligatoria della Cassa Mutua e decise che si nominasse il commissario straordinario. Il quale doveva in breve periodo di amministrazione autonoma, limitato al solo ramo dell’assicurazione di malattia e disoccupazione, studiare le cause del dissesto e la sistemazione da conferire all’Istituto per l’ulteriore svolgimento dei suoi compiti. Invece tutti sanno quel che ha fatto il prefetto. Ha sciolto tutti i consessi amministrativi della Cassa. Il commissario è andato ancora più in là: ha addirittura intimato con comunicato sulla stampa locale, il passaggio in massa degli assicurati nei rami obbligatori, dalla Cassa Mutua alla Cassa Distrettuale della città. Adesso sappiamo che il prefetto dovrà emanare un nuovo decreto per chiarire o meglio per rimangiarsi quella parte di arbitrio arrogatasi contrariamente alle disposizioni ministeriali, il che vuol dire che dovrà innanzi tutto riconoscere indebitamente sciolti i consessi amministrativi della Cassa Mutua per quanto riguarda la gestione dei suoi rami secondari. Di conseguenza il sig.r Baron Biegeleben commissario straordinario, dovrà fare un altro comunicato alla stampa per annunciare che egli pure ha esorbitato, in quanto che suo compito è quello di applicare un provvedimento di vigilanza governativa per l’accertamento contabile e funzionale della Cassa la quale non è soppressa, ma deve continuare a funzionare liberamente per gli altri rami e soltanto per breve periodo di provvisoria amministrazione per un unico ramo, quello della malattia. Quindi niente trapasso degli assicurati. Questo è quanto si desume dalle dichiarazioni del Sottosegretariato di Stato al Ministero dell’Economia Nazionale, il quale ha dovuto ammettere semplicemente che l’articolo 3 della Legge comunale provinciale usato ed abusato, era fuori posto, che la Mutua è e rimane Società privata e che non è stata soppressa. Quindi sarebbe stata consigliabile, come del resto avemmo occasione di rilevare in proposito, una minore fretta e uno zelo meno eccessivo da parte dell’autorità e del sig.r Commissario straordinario i quali oggi saranno costretti a … chiarire o meglio a ritornare sui loro passi troppo precipitosi. |
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| 41921-1925
| Due parole ai nostri conservatori. Il nostro vice ha già ridotto alle sue esigue proporzioni l’importanza politica dell’intervista Turati . Nessuna compromissione del Partito popolare, in confronto degli altri gruppi d’opposizione, e in modo particolare dei socialisti, nessun impegno morale o formale che oltrepassi le immediate conseguenze del delitto Matteotti sul terreno della tattica parlamentare; e questo per quanto riguarda il contegno e i propositi del gruppo popolare. Ma al di fuori delle tendenze soggettive dei partiti, s’impone sovratutto la realtà oggettiva, la quale esclude qualsiasi possibilità prossima o vicina d’un governo delle opposizioni, e quindi una coalizione popolare, democratica, socialista. Supposto anche che l’attuale governo si ritirasse - e la stampa fascista ripete ogni giorno che tale ipotesi è assurda - il successore, secondo le buone norme costituzionali, verrebbe scelto dal seno della presente maggioranza fascista e libero-combattentista. Sarebbe ovvio che un tale esperimento venisse fatto, anche se esso rappresenterebbe soltanto una soluzione transitoria. Quando si avrebbe invece la soluzione definitiva della presente crisi? Evidentemente con una Camera nuova. Eletta come? Col presente sistema o con un sistema riformato? Ci vorrebbe di mezzo cioè un ministero il quale patrocinasse la riforma elettorale e poi sciogliesse la Camera. Questo ministero potrebb’essere di pura marca parlamentare – e allora sarebbe, come abbiamo detto sopra, un ministero espresso dal seno della maggioranza – ovvero un ministero d’eccezione con un senatore o un generale alla testa che avesse il compito di rifare l’ordine e trovasse l’appoggio di una parte cospicua della Camera. Tutte queste ipotesi che abbozziamo solo per condurre a fine il nostro ragionamento, escludono ogni probabilità di alleanza delle opposizioni per la conquista e l’esercizio del governo e quindi ogni pericolo di una compromissione popolare coi socialisti. Detto questo, per sgombrare il terreno da una prospettiva d’imminente attualità che potrebbe forse turbare la serenità della nostra risposta agli ultraconservatori, i quali vanno facendo gli scongiuri contro una immaginaria coalizione socialista-popolare, ci affrettiamo a fissare fin d’oggi i seguenti punti: Noi non accettiamo il criterio assoluto, ribadito anche recentemente in alcune enunciazioni conservative, per il quale ogni partecipazione di popolari ad un ministero nel quale fossero rappresentati anche i socialisti, sarebbe sotto qualsiasi condizione e in qualunque tempo da escludersi, per un’insuperabile incompatibilità di principio. Ciò equivarrebbe a dire che i cattolici belgi, il centro germanico, i cristiano-sociali austriaci, i cattolici-conservatori svizzeri, i cattolici polacchi, avrebbero mancato o mancherebbero ai loro principii, perché in date circostanze politiche e sotto certe condizioni appartennero o appartengono a coalizioni politiche o amministrative delle quali fecero o fanno parte in misura notevole anche i socialisti. Ci si oppone che i socialisti di quei paesi sono di diversa natura. Errore: sono socialisti della scuola marxista, imbevuti tutti almeno nella loro adolescenza o nella loro gioventù di materialismo storico e di pregiudizi contro la Chiesa cattolica. Ammettiamo tuttavia che i socialisti italiani nella pratica professione e propaganda dell’ateismo furono uguagliati appena dai loro correligionari francesi. Ma dobbiamo noi in via assoluta e senza ulteriore esame dar per concesso e dimostrato che gli avvenimenti del primo ventennio del nostro secolo, i quali modificarono notevolmente la mentalità dei socialisti d’altri paesi, non abbiano lasciata alcuna impronta nella coscienza dei socialisti italiani? Senza dubbio conviene essere estremamente prudenti e diffidenti e noi stessi durante la campagna elettorale abbiamo registrate nell’Avanti! e anche nella Giustizia delle biasimevolissime documentazioni dell’antico spirito anticattolico: ma sarebbe giusto il trascurare o irridere a qualsiasi dichiarazione più tranquillante in riguardo, venuta altrove o posteriormente? Sarebbe opportuno e giusto non tener conto dell’avvenuta scissione fra socialisti temperati e rivoluzionari? Perché mai codesti giudici inesorabili dei socialisti si sono mostrati subito così indulgenti, così pieni di fiducia verso quei socialisti o quei libertari anarchici i quali, come Mussolini, come Michele Bianchi, come Cesarino Rossi, e moltissimi altri, erano stati fino alla vigilia tra i più noti predicatori d’ateismo e tra i più violenti iconoclasti anticattolici? Per qual ragione il socialista Gonzales che parla a Milano e a Roma misticamente di s. Francesco d’Assisi deve essere respinto a limine, mentre si accettano senza beneficio d’inventario e «en bloc» tutti gli ex socialisti e i massoni ricoveratisi nel listone? E qui si badi bene ad una distinzione importante. In un ministero di coalizione si tratta della collaborazione circoscritta e precisata da un programma di governo di alcuni uomini che rappresentano diversi partiti, ma oggi nella maggioranza fascista vediamo fusi e compromessi da una stessa disciplina e da una stessa origine elettorale, cattolici-conservatori o, come furono detti, clerico-fascisti e aclericali e anticlericali di tutte le gradazioni, auspice quel Farinacci, vantatosi pubblicamente del suo ateismo! A nostro avviso quindi non è la preoccupazione degli interessi religiosi che ci divide, ma è invece la differente concezione politico-sociale che ci fa diversamente valutare gli elementi che costituiscono la nostra direttiva politica. I conservatori considerano il metodo democratico di governo e le libertà civili come elementi accessori e subordinati: i popolari invece li ritengono per la nostra epoca elementi necessari alla vita politica. Perciò i conservatori saranno facilmente disposti a farne a meno, mentre i popolari comprendono l’urgenza di difenderli. In fondo, quando è comparso Mussolini, i conservatori non hanno dovuto faticar molto per giustificare la dittatura, purch’essa fosse o sembrasse essere disposta a favorire gl’interessi religiosi. Si comprende ora che da un tal punto di vista, le indulgenze siano tutte per i fascisti e le diffidenze tutte per i partiti democratici. Ma v’ha di più. Mons. Endrici ha rilevato a ragione nella sua magnifica commemorazione della Rerum Novarum che in Italia anche fra i cattolici va riprendendo il suo fatale dominio quel conservatorismo sociale che sembrava oramai superato per sempre. Orbene a siffatta mentalità che ritorna, sfugge, sul terreno politico, l’importanza decisiva che hanno le masse popolari e specie le classi operaie. Si crede davvero in codesti circoli che il sindacalismo fascista, creato e mantenuto colla compressione dall’alto, abbia risolto il problema sindacale? Si crede davvero che la questione sociale di cui s’è scritto e discusso tanto e che ha costato tante battaglie sindacali e politiche, sia scomparsa sotto il tallone della milizia fascista? E sovratutto c’è tra i conservatori chi crede che le aspirazioni confuse ma istintive delle classi popolari, sulle quali ha influito una predicazione di tanti decenni, ora iniqua, ora umana e ora cristiana, siano soffocate o soffocabili? E se non lo sono, come camminate sul cratere di un vulcano, senza sentire il rombo dell’eruzione che si prepara? Quello che avvenne dopo l’eccidio di Matteotti dovrebbe disingannarvi. Fu uno scoppio dell’istinto popolare, dai politici contenuto, non alimentato. Immaginate voi che cosa sarà, quando quest’impulso irrefrenabìle condotto da mani esperte, verrà guidato verso una meta politica? Visitate le varie regioni d’Italia, scendete negli strati popolari, ascoltate una volta la voce della provincia. Ormai è questione di tempo. La reazione verrà. Preferite che sia quella convulsiva e rivoluzionaria degli estremi o ch’essa venga frenata, regolata dagli elementi moderati e costituzionali? Se i sistemi non mutano, come non accennano a mutare, se la comprensione perdura come non accenna a cessare, se lo Stato-partito colla suo milizia di parte rimarrà accampato in Italia contro tutti gli altri cittadini, messi al bando come nemici – oh, non preoccupatevi di un’ipotetica alleanza parlamentare popolare-socialista: ché invece, al di fuori del parlamento, indipendentemente dal volere dei capi, si formerà tra le masse tale alleanza istintiva che la sua espressione più ottimista e più costituzionale sarà fatalmente un blocco elettorale. Non c’è che un rimedio, signori conservatori, a tutto ciò, un solo rimedio che noi non possiamo offrire ma a cui voi forse potete contribuire: spezzare cioè fin d’ora le catene del presente regime, ritornare ad un sistema di libertà e di democrazia. Voi, accettando di far parte dell’attuale maggioranza e dell’attuale governo avete ingaggiato il vostro carattere di cattolici, a guarentigia delle finalità del regime. Sono trascorsi quasi due anni: l’ora dell’esperimento in buona fede è passato. Ora bisogna concludere. Se volete la pace e il disarmo dei partiti cominciate col prendere le armi al partito dominante, il quale all’eventuale altrui tentativo d’impadronirsene, è sempre in grado di opporre tutte le forze dello Stato di cui dispone. Non lasciate passare questo momento, perché esso, fatalmente, non torna più. Se non lo farete, sarete complici dello sbocco inevitabile: e si dovrà a questi sospettati popolari, se l’ondata della reazione, abbattendosi sul regime, non investirà anche quegl’interessi religiosi di cui voi, confondendovi coi dominanti, vi proclamate protettori. |
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| 41921-1925
| Il vile delitto di cui è rimasto vittima il deputato fascista Casalini è stato immediatamente circoscritto – dalle risultanze concordi ed obiettive dell’indagine giudiziaria e giornalistica – entro i limiti di un atto di brutale malvagità in cui la follia degenerativa ha avuto parte preponderante. L’assassino, benché abbia tentato col suo linguaggio sconnesso e turpe, di esibirsi come un esecutore di giustizia, è di quelli che portano, anche nell’aspetto, le stigmate ripugnanti di quella istintiva criminalità che ha – purtroppo – il delitto per fine, e non risponde, nei suoi atti, che agli impulsi di una psicologia viziata e sconvolta. Di simili soggetti è ricca, purtroppo, la storia della delinquenza comune, e non vi è pretesto di passionalità politica che possa mutarne la classifica. Del resto l’uccisore dell’on. Casalini non apparteneva ad alcun partito; era semplicemente un maniaco alcolizzato. Tale constatazione obbiettiva non attenua, di certo, in noi né l’orrore del delitto, né l’esecrazione dell’assassinio e né – tanto meno – l’umana solidarietà, che sentiamo profonda e fraterna, verso la Vittima e verso le creature infelici, che chiamavano il povero morto coi dolci nomi di padre, sposo, figlio, fratello, e che egli nutriva col suo amore e col suo lavoro. Solo ci dà diritto – la stessa constatazione obbiettiva sul movente brutale e folle del delitto – di esigere dai nostri avversari politici, nelle cui file l’onorevole Casalini militava, un maggior rispetto della verità e la rinuncia doverosa ad ogni tentativo d’inscenare dei confronti e dei ricatti assolutamente fuori luogo. Questo diciamo al riguardo specialmente di quei giornali che, con inopportuno lusso di titoli, si sono affrettati a scrivere: «L’omicida è un comunista che ha dichiarato di aver voluto vendicare Matteotti», o peggio ancora hanno esclamato: «I seminatori d’odio antifascista sono serviti: Casalini assassinato». Abbiamo avuto di recente casi di repressione della libertà di stampa sotto il pretesto di impedire la diffusione di notizie e di apprezzamenti capaci di sovraeccitare pericolosamente la opinione pubblica. Ora potremmo domandare ai custodi della legge se certe clamorose designazioni di assurde responsabilità a carico dei cosiddetti antifascisti, non costituiscano davvero un flagrante tentativo di eccitamento a turbare vieppiù i già difficili rapporti di convivenza. Il primo frutto di tale atteggiamento della stampa fascista si è avuto ieri sera nella devastazione degli uffici della Voce Repubblicana. Ma v’ha di più. L’organo della federazione fascista lombarda – e il caso, purtroppo, non è rimasto isolato – ha potuto pubblicare indisturbato che «ad esaltarlo (l’assassino – e significa: ad armarlo), sono stati i vari Amendola, Albertini, Sturzo e Turati… ». Non è meno esplicito, il ras dei ras Farinacci (il cui nome figurava tuttavia ieri sera sotto il proclama del direttorio fascista in atto di esigere disciplina «senza speculazioni, senza rappresaglie»), che si è spinto a gridare come un ossesso: «Prima che i fascisti si vedano costretti a reagire contro coloro che sono i responsabili del delitto (Amendola, don Sturzo, Vettori, Turati, Gonzales, Cianca e delinquenti minori), si provveda dai poteri dello Stato al loro arresto e si provveda inoltre non al semplice sequestro dei giornali avversari, ma alla loro soppressione, e sia finita la farsa sull’Aventino. Se non è sufficiente la scopa, si adoperi la mitragliatrice». È dunque, per noi legittimo e doveroso rintuzzare codesti insani tentativi di capovolgimento della verità, ricordando che mai e poi mai gli oppositori così designati e gli organi che li rappresentano non hanno pronunciato parole atte comunque né ad eccitare né a suggerire gesti di criminalità contro i propri avversari. Le nostre intenzioni sono monde di pensieri di sangue non meno delle nostre mani, e possiamo elevare quelle al giudizio di Dio che vede nei cuori, come eleviamo queste al giudizio degli uomini, che hanno il potere di sindacare tutta la nostra attività privata e pubblica. Tale sindacato noi non abbiamo mai né paventato né deprecato; non gli abbiamo mai prescritte le soglie oltre le quali la ragion politica impedirebbe al magistrato di andare. Dall’altro lato, invece, sono venute contro di noi, con uno stillicidio quotidiano le parole e i fatti che ormai non si possono contare più, minacce di nuove ondate e di notti di S. Bartolomeo, elenchi nominativi di persone da «inchiodare al muro» e da «ridurre a strame», provocazioni ingiuriose di «bravi» armati contro «servi» inermi, o «filistei» destinati «a mordere la polvere» come ci chiamava ancora ieri l’altro organo dell’on. Giunta. In tale condizione di cose, chi è il provocatore? chi è l’esaltatore? Siano giudici di questa sinistra contesa quei liberali fiancheggiatori che ieri hanno elevato l’appello alla pacificazione per pietà verso il sangue e la memoria dei morti. La pace è stata sempre ed è tuttora l’aspirazione più ardente e più alta dei nostri cuori. Piegati sotto il dolore delle violenze fisiche e sotto l’umiliazione di quelle morali, non abbiamo mai cessato di invocare che finisca la guerra civile, che la lotta politica ritorni entro i limiti dell’umana dignità, che i contrasti inevitabili dell’esistenza siano disciplinati in feconde gare di verità, di bellezza e di bene. Ma siamo stati ognora trattati come la plebe manzoniana: «ma più serva, più vil, più derisa – sotto l’orrida verga starà». Ebbene, questa condizione di iloti e di schiavi nella stessa patria di cui tutti siamo figli e che tutti abbiamo riscattata ed elevata a dignità di nazione, con sacrifici immensi, non la tollereremo? Pace vogliamo, sì; ma pace nella giustizia, come nella aspirazione profonda dei padri antichissimi che attendevano il frutto della divina redenzione: Justilia et pax osculatae sunt. Non era questo, in sostanza, il concetto fondamentale della nostra più pura e più bella tradizione di civiltà romana e cristiana: fondare la pace sulla giustizia? Ora, per tale insopprimibile volontà di giustizia, noi domandiamo che non si tenti neppure di stabilire una specie di odioso compenso tra Matteotti e Casalini. La morte ha reso pia ai nostri occhi la loro memoria, e il loro tragico decesso ci strappa dall’anima lo stesso grido di dolore. Ma l’assassinio di Matteotti, per il movente che lo determinò, per la qualità dei responsabili, per la freddezza bieca onde venne preparato, per la ferocia raffinata onde fu compiuto e poscia si occultò il corpo della vittima, rimane senza possibilità di confronto. Mille misteri impenetrabili contendono poi la giustizia piena alla sua memoria. Non confondiamo, dunque, moventi e fatti tanto diversi; e rispettiamo almeno intorno a queste povere bare la verità sul loro sacrificio. Anche la sincerità è mezzo e condizione di pacificazione: qualunque ipocrisia risospingerebbe così in basso il nostro senso di giustizia, da dovere sentire orrore prima di tutto innanzi a questi morti. Perché – questo è il nostro convincimento supremo e irremovibile – solo con una profonda, severa, completa restaurazione della giustizia può l’Italia dar pace a tutti i suoi figli. Così, come nella promessa di Dio ai nostri padri spettanti: Facite justitiam et dabo pacem finibus vestris. |
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| 41921-1925
| Roma, 2. L’on. Mussolini ricorda ora ai liberali, come già, dopo Assisi, ai combattenti, il congresso popolare di Torino . Vestigia terrent, e il duce – corrucciato – minaccia di ridurre il liberalismo a quella misera cosa che è divenuto il popolarismo dopo il licenziamento dei suoi collaboratori popolari. Per conto nostro siamo grati del ricordo e del rilievo, giacché si conferma così la nostra opinione che il congresso di Torino chiude della cosiddetta era fascista un primo periodo e ne apre un altro tanto che ogniqualvolta la situazione politica mussoliniana si sposta di un giro nella sua spirale discendente, per raffronti e ammonimenti, conviene risalire a Torino. Del ricordo siamo lieti anche perché allora, fra il chiasso della stampa servile, non da tutti si è saputo apprezzare lo sforzo conciliativo, e, per dirlo con una parola che allora non era ancora malfamata, normalizzatore dei popolari, né si è potuto e voluto misurare la profondità del conflitto; che non riguardava Mussolini da una parte e dall’altra il Partito popolare, ma si apriva fra due concezioni della politica completamente antagonistiche, quella cioè dell’imperialismo fascista e quella del costituzionalismo democratico italiano. Il congresso di Torino, a conclusione delle relazioni Sturzo e Degasperi, aveva votato due ordini del giorno; il primo richiamava i principii generali e programmatici del Partito popolare, il secondo rifletteva la situazione politica contingente e quindi la collaborazione col fascismo. Nel primo, il Congresso popolare «riaffermava la volontà della sua fondamentale battaglia iniziata all’atto costitutivo e bandita nell’appello del 18 gennaio 1919, per la libertà nell’esercizio dei diritti naturali: personali, familiari, organici, culturali, scolastici, religiosi della società, e contro ogni pervertimento centralizzatore in nome dello Stato panteista e della nazione deificata»; nell’ordine del giorno Degasperi invece si «approvava la partecipazione dei popolari all’attuale ministero come apprezzabile concorso perché la rivoluzione fascista s’inserisse nella costituzione; e intendendo che la loro presenza potesse e dovesse efficacemente cooperare alla restaurazione politica e finanziaria, alla rinascita dei valori morali e religiosi, alla pacificazione sociale e alla disciplina nazionale del paese, assicurata, sulle basi indefettibili di ogni regime civile, la libertà e la giustizia». Ora non c’è dubbio che nell’ordine del giorno Sturzo era riaffermato il principio di libertà in antitesi colle tendenze centralizzatrici e pantiste del nazionalismo; ma l’antitesi era formulata sul terreno teorico come era avvenuto in tutti gli altri congressi. Il relatore nella lunga e dotta motivazione aveva appunto inserito un capitolo sui criteri del collaborazionismo avvertendo che non bisognava «elevare un problema tattico quale è quello del collaborazionismo o meno col governo ad un problema ideologico e quindi ad un caso di coscienza». E dopo aver ricordato la collaborazione coi vari gruppi liberali e anticlericali in Italia, e citato esempi di collaborazione socialista all’estero, concludeva: «Nessuno (per questo) rinunzia ai suoi presupposti teorici, valuta solo quale in un determinato momento storico possa essere la coincidenza di postulati pratici, che può fare unire i partiti per una risultante di governo». Anche l’on. Degasperi, nella sua relazione aveva rilevato che tra il fascismo e il popolarismo non esisteva alcun equivoco, alcuna riserva collaborazionista, ma una aperta e lealmente professata diversità dottrinale, che però non avrebbe impedita in via di fatto una collaborazione circoscritta dal programma del governo di coalizione Mussolini. Questa confluenza pratica veniva segnata nell’ordine del giorno là ove si affermava che i popolari dovevano concorrere ad inserire la rivoluzione fascista nella costituzione (frase mussoliniana) e cooperare alla restaurazione politica e finanziaria, con quel che segue. Insomma Sturzo e Degasperi avevano voluto precisare su due fronti: verso sinistra, dalla quale venivano gli attacchi anticollaborazionisti, col rinnovare una chiara affermazione programmatica; verso destra, col fissare la tendenza e i limiti della collaborazione, che non si sarebbe mai potuta trasformare in compromissione programmatica o in servitù antidemocratica. Rileggendo oggidì, a tanta distanza e post tot discrimina rerum il resoconto del congresso, ogni galantuomo dovrà ammettere che esso rappresentò uno sforzo di leale, onesta, dignitosa chiarificazione. Quando si pensi che a Torino erano raccolti centinaia di delegati che venivano dalle provincie coll’animo esacerbato contro la tirannide dei ras e che anzi parecchi di loro portavano le stigmate della persecuzione, quando si ponga mente che Sturzo provocò la votazione in contrario del gruppo di sinistra anche perché non volle si affrontasse la questione della milizia, la cui soluzione si attendeva ancora dal buon volere di Mussolini, converrà pure ammettere, e oggi ammetteranno tutti, che il Partito popolare aveva dato una prova di abnegazione e di saggezza, che gli poteva venire solo da una grande forza morale. Ciò fu il 12 aprile 1923. Due giorni dopo, la Stefani, comunicava che in seguito agli ordini del giorno approvati dal congresso di Torino, il presidente del Consiglio «aveva ordinato all’on. Acerbo di convocare per martedì 17, alle ore 12 a palazzo Chigi, tutti i membri del governo iscritti al Partito popolare italiano». Contemporaneamente la stampa, fascista e filofascista sviluppò una violenta offensiva contro i popolari, accusati di voler predominare sul governo e d’insidiarne le sorti. Il colloquio avvenne. Mussolini si lagnò della accentuazione, secondo lui eccessiva, che si era fatta della libertà. Di quale libertà intendete parlare, di quella liberale, di quella cattolica o di quella fascista? Si mostrò stupito anche che si parlasse di nazione deificata. Meglio deificare la nazione, che deificare la proporzionale. Rilevò che nell’ordine del giorno Degasperi, mancava una esplicita manifestazione di fiducia per il capo di governo e trovò urtante che si riaffermasse l’autonomia del partito. Nessuno vi vuol togliere i connotati! In quanto alla riforma elettorale (e questo era l’unico punto concreto fissato nell’ordine del giorno Degasperi, perché vi si leggeva: impegna il gruppo parlamentare popolare alla difesa più intensa e più valida della proporzionale) affettò, come sempre, grande disinteressamento rilevando, come en passant, che qualche modificazione alla proporzionale rigida conveniva pur farla. Il comunicato ufficiale pubblicava: «Ne è seguita una cordiale discussione, durante la quale l’on. Cavazzoni e gli altri hanno inteso di dimostrare che gli elementi di responsabilità del P.P. comprendono tutta la necessità di collaborare col governo fascista per la ricostruzione morale e materiale del paese. Il presidente ha insistito sulla opportunità di un più esplicito chiarimento della situazione che potrebbe essere fornito da un voto inequivocabile del gruppo parlamentare popolare, già convocato per martedì 20 corrente». Nei tre giorni che seguirono si cercò l’accordo fra il direttorio e chi era ritenuto in grado di conoscere i propositi e i desideri del presidente; e all’ultimo momento l’ordine del giorno fu ancora modificato nel senso desiderato da tali interpreti; cosicché il gruppo parlamentare (70 su 81 deputati), si trovò ad accettare un testo interpretativo delle conclusioni di Torino, col quale si affermava che la approvata partecipazione dei popolari all’attuale ministero implica approvazione dell’azione svolta dal governo e che a questo si riconfermava la fiducia già espressagli col votare la legge sui pieni poteri, «così che la collaborazione dei popolari al ministero sarà come per il passato inspirata a piena lealtà verso il capo del governo, e a fedeltà verso il partito». Alla riforma elettorale si riferiva un inciso il quale diceva che il gruppo «avrebbe valutato tale problema coordinandolo alle supreme esigenze del paese». La sera stessa l’on. Cavazzoni, che nel dibattito si era impegnato a fondo in favore dell’ordine del giorno, lo portava a palazzo Chigi; e il duce si riservava di deliberare. La stampa parlò di ripiegamento popolare, qualche membro del governo espresse la sua soddisfazione per l’ordine del giorno, ma il duce, occupato nella grande rivista della milizia, differiva la risposta. Finalmente, il 23, essa venne, scusando il ritardo colle «cerimonie significative di questi giorni». «Ritengo – scriveva Mussolini – che non valga la pena di applicarmi ad un faticoso lavoro di interpretazione di un ordine del giorno che è stato votato dai più accesi elementi di sinistra. (Non era esatto). Avevo chiesto una chiarificazione, mi trovo dinanzi ad un documento piuttosto involuto che non modifica il fondo del congresso di Torino essenzialmente antifascista per testimonianza di deputati popolari che vi hanno partecipato». Così il distacco divenne definitivo. La tattica popolare aveva però servito a discoprire la manovra mussoliniana, che era quella di frantumare il Partito popolare, come ogni altro partito, ed aveva fissato in modo inequivocabile il suo criterio direttivo: assorbire nel crogiuolo di una maggioranza mussoliniana tutte le correnti autonome dei partiti italiani. O con noi o contro di noi! Il «fondo del congresso» era stato popolare, con leali e precise demarcazioni in confronto alle teorie e tendenze fasciste, ma non vi si era rivelata nessuna volontà antifascista; si erano invece cercate tutte le possibili ragioni di consenso e di collaborazione. Tuttavia l’evoluzione del fascismo ha poi dimostrato che Mussolini aveva ragione: il fondo del congresso di Torino era antifascista perché antifascista era l’invocazione della libertà, il richiamo alle basi democratiche della costituzione, la riaffermata funzione dei partiti; e benché si fossero usate le parole pronunciate da Mussolini stesso alla Camera, l’on. Degasperi aveva fatto anch’egli dell’antifascismo, quando aveva proposto di approvare la partecipazione dei popolari al ministero «perché la rivoluzione fascista s’inserisse nella costituzione». «Le cause che han portato al voto del gruppo parlamentare del 20 corr. mese, e alle dimissioni dei popolari dal governo non sono valutabili oggi, e sarà bene attendere con serenità e fiducia il corso degli avvenimenti», scriveva il segretario politico in una circolare alle sezioni, emanata ancora nello stesso mese di aprile. Ed era vero: il sistema di governo mussoliniano si è andato rivelando e consolidando a poco a poco, e solo col procedere del tempo si è definito nelle sue linee costruttive. Appena più tardi si poterono sceverare gli elementi della sua statica da quelli che sembravano i fenomeni passeggeri della dinamica rivoluzionaria. Appena più tardi doveva apparire lecita, anzi doverosa l’opposizione netta e recisa al sistema di governo consolidato nella fazione armata e nel travestimento delle forme costituzionali. La riforma elettorale fu, per questa via, il passo più decisivo. Mussolini, dunque, che era il migliore interprete delle finalità fasciste ebbe ragione: il «fondo» del congresso di Torino fu antifascista. Noi che in quel momento, pur riaffermando i nostri principii, credevamo che ci fosse una via da percorrere per qualche tratto almeno, assieme, nell’interesse del paese, non valutavamo a sufficienza il fatale contrasto pratico che derivava dall’antitesi teorica e abbiamo scambiato per scorie caduche nella evoluzione del tempo quelle che erano note essenziali e permanenti del sistema mussoliniano: le relazioni del congresso di Torino hanno raccolto abbastanza materiale per dimostrare che l’errore non era dovuto a noi. Parecchi mesi dopo l’on. Di Cesarò deve essersi ricordato del congresso di Torino, col proposito di evitare gli «errori di manovra». Nessuna discussione pubblica, nessuna psicologia collettiva, sottoposta all’occhio vigile del governo. Conveniva evitare che Mussolini potesse parlare, genericamente, del «fondo». Perciò i democratici sociali pubblicarono il 19 gennaio 1924, solo la conclusione dei loro dibattiti, fissata in un ordine del giorno «deliberando che la partecipazione della democrazia sociale e dei suoi uomini alle imminenti elezioni generali non debba prescindere dalla sua funzione politica e dalla positiva affermazione delle direttive di libertà e di democrazia nel regime dello Stato». Mancava il fondo, cioè la impressione generale. Tuttavia a produrre il guaio bastarono quelle poche righe dell’ordine del giorno. Direttive di libertà e di democrazia? Bisognava spiegarsi. L’on. Acerbo ebbe l’incarico di chiedere spiegazioni e l’on. Di Cesarò rispose pazientemente in una lettera piena di cordialità a Mussolini, smentendo qualsiasi significato antifascista. «Tale significato è assolutamente estraneo alle intenzioni del Consiglio nazionale della democrazia sociale e non trova alcun fondamento nella discussione svoltasi stamane. L’ordine del giorno altro non è che una inequivocabile riaffermazione, nella eventualità dei comizi elettorali, dei principii democratici del partito che ti sono noti e che tu giustamente non hai riconosciuti incompatibili con la collaborazione al governo da te presieduto». Di Cesarò aveva ragione? No, ebbe torto. Certo Mussolini gli aveva anteriormente ammessa la compatibilità dei principii democratici col fascismo; ma dopo l’esempio di Torino, i democratici avevano fatto male a non approfondire l’argomento. Avrebbero evitato nove mesi di illusione di più. Così avvenne la rottura, o meglio la chiarificazione. Ora il processo continua. La crisi del fiancheggiamento è inevitabile, sta nelle cose, è una fatalità, alla quale nessun partito può sfuggire. Non sappiamo davvero se essa investirà in pieno il partito liberale, proprio a Livorno o in occasione di Livorno. Può darsi che Mussolini faccia il sordo, chiuda un occhio o «si applichi a quel faticoso lavoro di interpretazione dell’ordine dei giorno» che sdegnò fare per Torino. I tempi sono alquanto mutati. Un presidente del Consiglio il quale si piglia per voto di fiducia una deliberazione del Senato che «approva i propositi manifestati di voler procedere con ogni energia alla integrale restaurazione dell’impero della legge, alla necessaria epurazione, alla pacificazione del paese ecc.», può essere indulgente anche verso un congresso che voti un ordine del giorno per la libertà, per la costituzione, per la normalizzazione. Sovratutto è da ritenere che egli sia disposto a disinteressarsi di quello che sarà il «fondo» del congresso di Livorno . Altrimenti l’on. Acerbo sarebbe già in moto col solito incarico di chiedere spiegazioni! |
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| 41921-1925
| Roma, 10. L’Osservatore Romano dà questa sera una chiara smentita a tutti coloro che avevano creduto di sfruttare in senso filofascista alcune norme dettate ultimamente dalla Santa Sede intorno alla partecipazione del clero alle lotte politiche. Si disse allora che il Vaticano aveva voluto colpire i popolari per il loro antifascismo e, di conseguenza, le opposizioni tutte per la campagna da loro avviata contro il governo. Menzogna, perché sono molteplici le manifestazioni orali e scritte del Vaticano contro il sistema fascista, fondato sulla violenza; sono di ieri le proteste dei vescovi e le lettere adesive del card. Gasparri e non si deve dimenticare che immediatamente dopo le elezioni, la protesta che ebbe maggior valore morale e più forte risonanza nel mondo civile, fu quella del Papa, quando, a proposito della devastazione della Brianza, levò la sua voce contro tutte le violenze. Menzogna ancora, perché va ricordato che le cautele imposte al clero riguardano tutti i partiti, senza distinzione, e quindi anche i centristi, e quindi anche il fascismo nelle cui panie s’è impigliato anche qualche sacerdote. A buon punto però a rincalzare la smentita viene l’articolo dell’Osservatore Romano il quale riferendosi specialmente ai casi di Molinella e di Piacenza , scrive alcune lucide e precise considerazioni le quali sulle labbra di un organo così misurato e così severo, che viene letto in tutto il mondo cattolico, hanno il sapore di una efficacissima condanna. Ve ne trasmetto alcuni brani, il cui nesso entro l’articolo è facilmente ricostruibile. «In una parola, la normalizzazione consiste oggi ancora nel promuovere e volere ad ogni costo la tranquillità della convivenza civile, il rispetto della vita umana, della incolumità dei cittadini, di tutte le loro libertà che le leggi consentono; nel dovere e diritto esclusivo dello Stato di provvedere esso, se occorre, a far valere le discipline sancite per il bene comune; nella persecuzione e punizione di ogni violenza e di ogni delitto e attuata con la imparzialità più rigida, con la costituzionale divisione dei poteri, con la più ossequiente rispondenza della polizia alla magistratura, fra gli organi centrali e quelli locali dello Stato: e ciò non solo è la remora più potente al dilagare della prepotenza criminosa, ma la via più sicura e rapida per ristabilire la virtù e il nome della legge e della verità di fronte a tutti, singoli e fazioni, partiti di opposizione e partiti di governo: è l’unico modo per applicare al fatto la parola che vuole: perisca la fazione, anche la propria, purché si salvi la patria». … «E la verità la quale è incontrovertibile si rileva tutta intera. Gli episodi di Molinella e di Piacenza si potrebbero – sfogliando le cronache dei giornali locali fra il grottesco e il drammatico – moltiplicarli dovunque il fascismo sia organizzato ed inteso con la predominante idea che “la forza” sia mezzo efficace e necessario anche oltre un ciclo di eccezione, a instaurare un pensiero, una disciplina, un programma, un metodo; che a una anormale conquista del potere, quando cioè la possibilità di applicare e di fare le leggi, di usare degli organi dello Stato, dei mezzi legittimi di giurisdizione e di autorità è ormai raggiunta, si leghi invece inesorabilmente la anormalità anche dell’esercizio ordinario di quel potere; contro il consenso basti, se occorra, la forza stessa; che finalmente il fine giustifichi i mezzi, non solo, ma la loro applicazione sia all’arbitrio di chiunque affermi di mirare a quel fine, insinuandovi talora ambizioni, interessi, rivalità personali. Di fronte a questo stato d’animo è di fatto l’episodio che passa e ritorna, che muta di luogo, di persona, di posizione, che resta isolato o ad altro si concatena, si confonde e si immerge pur sempre nella violenza eretta a sistema, fatta immanente, presente ovunque in potenza nella violenza di spirito, di pensiero e di parola, il cui tradursi o meno in atto dipende più che altro da occasioni e da circostanze accidentali ed è forse più a meravigliarsi logicamente delle sue pause che delle sue manifestazioni». Violenza eretta a sistema, fatta immanente, presente ovunque in potenza nella violenza di spirito, di pensiero, di parola: ecco la verità della situazione, constatata da un organo che sta al di fuori e al di sopra dei partiti e da scrittori abituati alla sobrietà più responsabile. Anormalità dell’esercizio ordinario del potere, abusi non solo a Molinella e a Piacenza, ma, sia pure in diversa misura, ovunque. Ovunque: anche il Trentino ha parecchi esempi da registrare. Verbigrazia: A qual «potere anormale» si deve che l’irruzione di Roncegno è ancora impunita? A quali influenze si deve che l’incendio delle urne di Levico non è ancora portato in tribunale? Per quali altre ragioni si tenta di soffocare in un complice silenzio i fatti di Sopramonte ? Quali malcelate inframmettenze o imposizioni colpiscono onesti funzionari? Esemplifichiamo, non elenchiamo. E si tratta d’una provincia ordinata e tranquilla, ove la gente soffre in silenzio. Soffre, ma guarda e nota! |
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| 41921-1925
| In risposta alla campagna inscenata dal Popolo d’Italia contro l’on. Degasperi, il Popolo (7 novembre) pubblica: Una lettera dell’on. Degasperi 1. la seguente lettera del nostro direttore: «Il Popolo d’Italia ed i suoi compari d’occasione perseverano nel tentativo di indurmi nella meschinità delle loro generiche insinuazioni. Il dott. Donati ha dichiarato come stanno per suo conto le cose. Io dichiaro che non conosco la presunta lettera Battisti né nel suo testo né nel contenuto. E poiché nulla ho da temere ed il mio passato mi permette di sdegnare la bassa cucina delle interessate calunnie, mi rifiuterò di intervenire nella polemica finché il Popolo d’Italia o i summentovati compari non avranno pubblicato la lettera dando le debite prove della sua autenticità. Alcide Degasperi». (Questa lettera è una risposta alla pretesa esistenza – proclamata dal Popolo d’Italia – di una lettera che Cesare Battisti dovrebbe aver scritta contro Degasperi nel periodo della neutralità italiana). La figura dell’on. Degasperi 2. Una corrispondenza da Trento del seguente tenore : L’indegna campagna avviata e condotta a base di menzogne dalla stampa fascista contro il nostro amato deputato e segretario politico on. Degasperi, ha suscitato fra gli onesti la maggiore indignazione. Si capisce che si tenta un diversivo proprio da parte di coloro che nell’estate del 1914 con Mussolini alla testa, minacciavano di «immobilizzare l’Italia con la forza, qualora i suoi governanti dovessero uscire dalla normalità». Qui vivono però troppi testimoni fra la gente onesta di tutti i partiti che possono attestare la schietta italianità dell’on. Degasperi e proprio ieri si celebrò in Trento la commemorazione dei fatti di Innsbruck ai quali l’on. Degasperi, allora studente, partecipò come oratore uomo d’azione, scontando, col carcere e processo, il contributo che egli aveva già dato negli anni antecedenti quale membro del Comitato centrale per l’agitazione universitaria. La sua attività posteriore come direttore del giornale Il Trentino può ben venire giudicata alla stregua dei capi d’accusa elevati contro il vescovo di Trento nell’istruttoria fattagli dal Governo austriaco, ai quali capi di accusa l’illustre presule e patriota ha voluto egli stesso riferirsi nella sua intervista all’Italia per testimoniare in favore del deputato ingiustamente attaccato. È noto ancora che il Degasperi negli ultimi mesi della neutralità quando era in discussione il parecchio, mise in guardia, se ce ne fosse stato bisogno, l’on. Sonnino contro le proposte del Governo austriaco. Appena scoppiata la guerra con l’Italia, sospese le pubblicazioni del giornale, perché la censura austriaca tentava ogni mezzo di violentare il pensiero della redazione e da allora in poi fino alla rinnovazione della Camera fu bandito dal Trentino e tenuto sotto sorveglianza a Vienna donde attraverso il Comitato profughi, tentò ogni mezzo per sostenere la resistenza morale degli irredenti concentrati nell’interno e soggetti ad ogni specie di persecuzione. Appena ripresa l’attività parlamentare, fu in prima fila nella protesta contro le persecuzioni delle autorità militari e civili austriache ed egli appare come primo firmatario dell’interpellanza presentata ai primi di giugno del 1917, interpellanza che esponendo diffusamente le sevizie agli italiani profughi, internati o costretti a servizio militare, fu il primo documento che rivelò al pubblico nell’interno della monarchia e all’estero dove venne largamente segnalato dalla stampa dell’Intesa, il trattamento che subivano gli italiani in Austria e la loro energica e coraggiosa resistenza. Ma poiché si è detto che Degasperi attese a confessare la sua italianità quando le armi vittoriose italiane avevano già decisa la guerra, basti ricordare il suo discorso alla Camera viennese il 28 settembre 1917 in un momento cioè in cui il successo dell’Intesa era tutt’altro che sicuro e a Vienna correvano già le allarmanti notizie dei concentramenti germanici e austriaci per la grande offensiva contro l’Italia e che doveva portare alla grave sciagura di Caporetto. Del discorso basterà citare la conclusione che è tutto un coraggioso atto di fede nella vittoria finale. Dopo aver descritte le sevizie perpetrate dall’Austria nelle Terre Redente e in particolare nel Trentino, il Degasperi concludeva letteralmente: «Il popolo guarda meravigliato e atterrito: e si domanda se la terra che si è creata con la fatica delle sue mani e sulla quale ora può appena strisciare, gli sia lecito ancora dirla sua. E questi tirannelli credono, perché tutto si tace, che sia un cimitero. Ma lasciate una volta che lo spirito della libertà soffi sopra queste ossa da morto ed esse, come già una volta davanti al Profeta, si ricomporranno e costituiranno di nuovo uomini vivi e liberi. Ben possiamo dire tranquillamente col grande poeta tedesco: “Lasciate che il conto dei tiranni aumenti finché una sola giornata pagherà d’un tratto la colpa generale e quella di ciascuno”. Questo giorno deve venire e verrà. Esso è il già sicuro risultato di questa guerra ed ha preceduto la decisione sui campi di battaglia: esso è la vittoria del principio nazionale e del principio democratico». Il verbale stenografico segna a questo punto: approvazioni. Chi approva, oltre il piccolo nucleo degli italiani, erano gli elementi più irredentisti delle nazioni slave e alcuni socialisti, tra cui Renner che alla fine della guerra doveva diventare il primo cancelliere della Repubblica austriaca e che in tale veste nel memoriale della delegazione austriaca presentato nelle trattative per la pace di San Germano, confermava per la storia dei popoli rappresentati alla Camera austriaca «solo i trentini avevano così chiaramente e tempestivamente affermata la lor volontà di respingere qualsiasi soluzione intermedia e di mirare allo smembramento dell’Austria e all’annessione all’Italia». In tale senso venne giudicata l’attività dell’on. Degasperi e dei suoi colleghi nell’interno dall’esiguo gruppo degli austriacanti che a Trento nel loro organo Il Risveglio Austriaco attaccavano i deputati e cercavano invano di promuovere contro di loro un menzognero plebiscito dei Comuni e nello stesso senso questa attività veniva valutata dall’organo dei fuoriusciti trentini La Libertà che si stampava a Milano, nella quale i discorsi tenuti dai nostri amici alla Camera austriaca venivano riprodotti per lodarli e per incoraggiare tutti a continuare nella lotta. In questo senso suonano molte attestazioni di scrittori non popolari, raccolte nel volume «Il martirio del Trentino» pubblicato dopo la guerra nel quale si dava un giudizio definitivo sopra l’opera di Degasperi e dei suoi amici. Nessuna meraviglia quindi se i deputati popolari Conci e Degasperi nelle memorabili giornate dell’armistizio furono accolti festosamente durante il loro viaggio attraverso la Svizzera dalle colonie italiane e in Italia a Milano, a Firenze e a Roma da uomini dei più diversi partiti e se in quell’occasione (novembre 1918) uomini che nel Trentino s’erano prima della guerra combattuti come avversari di partito, si trovarono a Roma in una grande riunione a celebrare la comune opera di fraternità nazionale. Se il Governo premiava l’on. Conci col chiamarlo in Senato per meriti patriottici, mostrava la sua fiducia nell’on. Degasperi affidandogli l’incarico di partecipare alla missione militare che doveva portare ai profughi e internati nell’Austria e Ungheria, il conforto della Patria liberatrice e organizzarne il ritorno nelle terre redente dal tricolore. Se ora dopo sei anni, da parte della stampa governativa, si procede all’attacco contro l’on. Degasperi, ciò non è perché si possa mutare la storia, ma perché il Degasperi si trova a capo d’un partito di opposizione. La perfida manovra è palese. Qui non attacca. Ché anzi l’onorevole Degasperi è fatto segno di questi giorni a manifestazioni di simpatia e parecchie sezioni mi hanno telegrafato contro la bugiarda campagna, tanto più che nel Trentino si conoscono i miserabili sguatteri della bassa cucina e gli interessi che li fanno muovere. |
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| 41921-1925
| Come diceva il nostro fonogramma di ieri, il Consiglio nazionale ha votati tre ordini del giorno; due di essi sono a conclusione della relazione fatta dal segretario politico del partito, e il loro tenore è il seguente: «Il Consiglio nazionale del Partito popolare italiano, riafferma che ragioni morali e programmatiche oggi più che mai impongono al Partito, nel supremo interesse del Paese, la più recisa opposizione contro l’attuale governo e il suo sistema politico e si affida agli organi centrali e locali del partito perché tale atteggiamento sia risolutamente mantenuto». «Il Consiglio nazionale, nella certezza di una non lontana restaurazione delle libertà civili, invita tutti gli aderenti al partito ad intensificare la propria attività nel campo politico ed amministrativo ed in quello sindacale, perché la ripresa delle libere e pacifiche competizioni trovi il partito pronto alla serena battaglia di difesa dei principi cristiani e democratici ai quali si ispira, e dai quali soprattutto può attendersi la fine dello spirito di violenza ed il ritorno della Patria sulle vie feconde del civile progresso in una rinnovata armonia delle classi e dei cittadini». Il terzo, approvato dopo una relazione dell’on. Uberti sull’organizzazione delle classi medie, dice: «Il Consiglio nazionale del Partito popolare italiano, udita la relazione dell’on. Uberti sulla rispondenza al programma cristiano-sociale di un’organizzazione dei ceti medi inspirata ad una maggiore valorizzazione di queste classi che associano in un tempo risparmi, impresa e lavoro; sull’importanza data all’organizzazione di queste classi medie dai partiti di ispirazione cristiana di altri paesi; nonché sulla situazione di fatto in Italia; approva gli sforzi di quei popolari che vanno promuovendo a fianco delle organizzazioni dei piccoli proprietari e affittuari agricoli, degli impiegati, organizzazioni di piccoli commercianti, industriali e professionisti; delibera, pur lasciando alle stesse piena autonomia, di appoggiarne lo sviluppo e l’opera, particolarmente in questo momento in cui le classi medie subiscono una sperequata pressione fiscale; ed invita i popolari a fiancheggiarle localmente e ove occorra a promuoverle». Il gruppo parlamentare poi ha votato quest’ordine del giorno: «L’assemblea del Gruppo parlamentare popolare, udita la relazione del segretario, la approva ed approva insieme l’azione svolta dai propri delegati nel Comitato delle opposizioni, confermando loro piena fiducia». |
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| 41921-1925
| Anche per espresso desiderio del nostro direttore ci siamo astenuti finora dall’entrare in pieno nella polemica che si svolge fra il Popolo e la stampa mussoliniana. Ma oggi s’impone di fare qualche osservazione conclusiva. Tutta la campagna contro l’on. Degasperi si è svolta in base ad una lettera di Cesare Battisti, della quale non è ancora dimostrata l’autenticità, ma che, in ogni caso, come fu documentato da una inequivocabile dichiarazione del console italiano d’Innsbruck, non riguarda né può riguardare l’on. Degasperi. Fallito così miseramente il colpo, preparato di lunga mano, con una formidabile attrezzatura reclamistica, il Popolo d’Italia e succursali, onde coprire la ritirata, si riducono a narrare circostanze, più o meno vere, e rifriggere accuse, più o meno fondate, che si riferiscono a terze persone, alcune già morte o comunque lontane da funzioni politiche e per poterne fare addebito all’on. Degasperi, lo si dipinge come il padrone assoluto e procuratore generale del Trentino, onde ogni errore, ogni colpa vera o presunta nonostante vi sia stato completamente estraneo, deve risalire a lui. Il metodo è troppo comodo, perché non sia trasparente e perché possa venir preso sul serio; ma è caratteristico per gl’istinti libellistici e diffamatori di coloro che dirigono la campagna. L’arnese più alla mano per tale basso servizio è quel tal Sottochiesa, transfuga del partito popolare e già agli onorati stipendi del Corriere Italiano: uno strumento degno del regime che serve. Se ci degnassimo di sferrare un contrattacco contro di lui, potremmo chiedergli notizia di certi suoi affari di Mantova e di Parma e domandargli come mai egli osa firmarsi un «cattolico trentino», dopo che ha lasciato senza risposta e senza querela gli attacchi assai gravi della filofascita Voce di Mantova e come mai osa oggi discoprire il suo animus antipopolare, che dovrebbe risalire al 1921, quando durante la guerra, nel ’17 e nel ’18, mandava articoli ai giornali per elogiare i deputati popolari trentini e ancora nel 1922 scriveva lettere di smaccata devozione a Don Sturzo. Ma quello che non si fa oggi, si potrà forse fare domani, per dimostrare a quali elementi si affida il fascismo, quando si tratta di combattere i galantuomini. In così onorata società è entrato di questi giorni anche il dott. Italo Lunelli che nell’Idea Nazionale scrive una serie di articoli di un subiettivismo storico scandaloso. Nulla di nuovo naturalmente. Prima di lui c’era il caos: nel Trentino imperava il clericalismo austriaco dei preti e dei contadini, Qualche rara fiammella brillava dentro la tenebra, e questa fiammella si è ora accresciuta nella fiaccola del fascismo, vibrata in alto da Lunelli e compagni. Affidiamo questa descrizione alla critica dei quattrocentomila trentini che hanno gli occhi aperti, i quali scambieranno difficilmente codesto crepuscolo di sgoverno e di corruzione fascista per l’alba di una giornata radiosa. Ma il signor deputato, eletto dalla pentarchia del Viminale, crede di far opera utile alla provincia che mal rappresenta, col descrivere a gente ignara delle nostre condizioni prebelliche e facilmente disposta a svalutare le nuove province, un Trentino in maggioranza antitaliano e refrattario ai suoi destini nazionali, crede di giovare alla sua terra col passare sopra come fosse una bagattella alla lunga, tenace e gloriosa lotta linguistica, combattuta e vinta dai trentini con scarsi aiuti dal Regno e mentre l’Italia ufficiale si preoccupava soprattutto dei rapporti diplomatici colla Triplice: lotta che ha dato al Trentino una anima e una volontà la quale, scoppiata la guerra, doveva avere i suoi logici effetti; crede di giovare al suo paese e alla verità coll’ignorare le battaglie politiche ed economiche che i trentini, anche i popolari, on. Lunelli, combatterono contro i tirolesi sia per le scuole che per l’amministrazione, vuoi per la conquista dei mezzi materiali perché il popolo vivesse, vuoi per la conquista dei mezzi morali perché fosse preservato dall’imbastardimento. In verità codesto sentenziare dall’alto della propria presunzione su tempi e uomini che agirono e faticarono, quando i critici frequentavano le elementari, è sistema estremamente e caratteristicamente fascista, al quale l’on. Lunelli si è oramai abituato per la funzione di comparsa nella maggioranza mussoliniana. Pur tuttavia ci sia lecito chiedere a codesto disossatore anatomico del nostro passato se per un certo criterio di giustizia distributiva non gli parrebbe equo affondare il bisturi anche nelle carni – basterà forse nella pelle – del proprio partito. Il signor Lunelli è fascista ed ha accettato la solidarietà del fascismo in pieno e si vanta soprattutto di obbedire agli ordini del Duce. Ora, per qual ragione dovrebbe essere lecito frugare col coltello anatomico fin dentro il passato remoto di un partito avversario e degli uomini che lo rappresentano, mentre lo stesso criterio non dovrebbe valere per il proprio partito e per i propri uomini? Per qual motivo citare i primi ad un giudizio generale e concedere ai secondi indulgenza plenaria? Si provi, on. Lunelli: ci dica se è vero che nel ’19 il fascismo aveva un programma anticlericale e bolscevico; ci dica se è vero che il Duce – lo citiamo perch’è l’esempio più illustre – durante quel periodo di anteguerra che ci è imputato a colpa nelle vecchie provincie insegnava alle folle che «la bandiera nazionale è uno straccio da piantare sul letamaio», scusava il regicidio, definendolo un «infortunio del mestiere di Re», dichiarava ancora nel 1915 che la Monarchia di Savoia «è straniera» all’Italia, scriveva ancora nel settembre 1914 che «non vogliamo la guerra, perché noi tendiamo a mete diametralmente opposte; a demolire cioè il prestigio della dinastia, dell’esercito, dello stato» e avvelenava così con siffatti insegnamenti quelle masse che la guerra doveva poi trovare bolscevizzate. Ci dica un po’ l’onorevole se non solo il Duce, ma perfino qualche ras di sua vicina conoscenza non abbia partecipato alla settimana rossa, per sabotare la Nazione, mentre era in guerra. E c’è dell’altro! Ma forse questo richiamo basterà a metterlo sulla buona via. L’Italia era internazionalizzata, bolscevizzata dai capi illustri suoi, onorevole, e il tossico di tanta feroce propaganda portò i suoi frutti: tutto questo lei dimentica, per rivestirsi di una candida toga e montare in bigoncia a tuonare contro i preti e i contadini trentini, occupati allora a vivere modestamente, ma da italiani onesti, impegnati a difendere le proprie ragioni d’esistenza nazionale. Infatti Lei ha forse ragione: i trentini hanno allora avuto il torto di non preparare il fascismo: torto congenito alla loro natura, perché non lo sanno sopportare nemmeno oggi. |
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| 41921-1925
| Il principe Ruffo rivendica l’opera coraggiosa dell’on. Degasperi durante la guerra – La funzione del P.P.I. e la sua grande linea centrale – La lotta per la giustizia per preparare la pace. Roma, 7. Inaugurandosi oggi una nuova sottosezione del partito per i quartieri dei Borghi e dei Prati, ha avuto luogo stamane una solenne adunanza nella nuova sede che sta in via del Moscherino nei pressi di San Pietro. Alla riunione convennero numerose personalità del partito con alla testa il segretario politico on. Degasperi, al quale, in protesta contro la buffa campagna denigratrice del Popolo d’Italia venne fatta un’imponente manifestazione di simpatia. Parlò primo il presidente della sottosezione prof. Canaletti che, fra gli scroscianti applausi degl’intervenuti, fece al segretario politico l’omaggio di un magnifico mazzo di garofani bianchi; disse poi vibranti parole l’on. Cingolani, il quale ricordò d’aver salutato il Degasperi nel novembre del ’18, quando assieme a suoi due altri colleghi venne accolto trionfalmente a Roma, ove i cattolici romani, sotto la presidenza dell’on. Meda, gli avevano offerto un banchetto; e lo ricordò per confermargli anche oggi tutta l’ammirazione dei popolari per la sua opera di cattolico e d’italiano, esortandolo a trascurare una campagna di stupide denigrazioni, fatta da un mercenario addetto ai più bassi servizi del regime. Il discorso d’occasione venne tenuto dal principe Ruffo, presidente della sezione di Roma. Anche egli, dopo aver parlato di altre questioni di carattere generale, ricordò l’attività nobilmente patriottica dell’on. Degasperi durante la guerra e, dopo aver citato autorevolissime testimonianze, desume da una lettera dell’on. mons. Gentili, internato dall’Austria, perché non volle fare a nome dei popolari trentini una dichiarazione di lealismo, alcuni dati che caratterizzano l’atteggiamento politico dell’onor. Degasperi, durante la guerra. Al Parlamento viennese fu sempre all’opposizione e votò quattro volte contro i bilanci e contro le spese di guerra e contro le autorizzazioni dei prestiti, non concedendo né un soldo né un soldato, per quanto ad ogni tratto corresse la minaccia di chiudere la Camera e quindi di sospendere l’immunità dei deputati. Votò inoltre per l’abolizione dei tribunali militari e per la messa in stato d’accusa del ministero; tenne alla Camera dei discorsi così forti, prima e dopo Caporetto, che il Governo li fece sequestrare; né mai in qualsiasi forma, anche in tempi nei quali altri deputati d’opposizione, come i czechi, ritenevano di non potervisi sottrarre, acconsentì a dichiarazioni di lealismo che avessero potuto far dubitare dei suoi sentimenti italiani . «Come cancellare, come attenuare, come falsare un’opera così assidua, così ardita, così eminente, che fu del resto riconosciuta dal Governo nazionale coll’affidargli alla fine del 1918 delicati incarichi di fiducia? Come cancellarla, come attenuarla, come falsarla, se non facendo sfregio ed oltraggio alla verità?». Così conclude l’on. Gentili e così concludiamo noi, esclama il principe Ruffo, orgogliosi d’avere un capo così degno, esortandolo ad attenersi, di fronte ai bassi attacchi della stampa governativa, al dantesco «Non ti curar di lor, ma guarda e passa» (grandi applausi). I popolari hanno subito intuite le ragioni del diversivo: non si tratta di Degasperi che, quale presidente del gruppo parlamentare, rappresentò il partito di fronte allo stesso governo di Mussolini per tutto il periodo collaborazionista, senza che nessuno ne scoprisse la presunta indegnità politica; si tratta del capo di un partito d’opposizione, si tratta di colpire in lui il partito popolare, perché ha resistito e resiste alla dominazione fascista; a maggior ragione quindi noi circondiamo della nostra più completa solidarietà il nostro amato segretario politico. Parlarono ancora Rampolla che portò la adesione del dottor Donati (grandi ovazioni al Popolo) e il prof. Borromeo , ex-deputato di Roma, che in un efficace discorso esortò i popolari romani a riprendere vigorosamente l’opera di organizzazione. Infine, evocato insistentemente pronunciò brevi ma applauditissime parole il segretario politico. Accennato al suo fatto personale, solo per ringraziare gli amici della viva dimostrazione di simpatia, e dopo aver inviato un caldo saluto a don Luigi Sturzo, provocando gli scroscianti applausi dell’assemblea, disse di non voler pronunciare un discorso politico, ma solo rispondere ad un dubbio che gli si era affacciato, quando, venendo alla riunione, attraversò la piazza S. Pietro. Non è forse un sacrilegio il gettare in quest’area augusta la piccola parola della politica quotidiana, il sollevare querele politiche in faccia a questa imperturbabile serenità secolare, che sembrasse lo schiamazzo di una rissa volgare, venuta ad interrompere il ritmo sereno delle zampillanti fontane del Bernini? Fuori metafora, partecipando noi popolari alla rude campagna politica di quest’aspra stagione, ci siamo forse allontanati dalle tradizioni politiche dei cattolici di tutto il mondo e veniamo meno all’ispirazione cristiana del partito? Taluno ci ha mosso infatti questo rimprovero, quasi che mancassimo agli obblighi della fraternità cristiana e per accanimento di passione faziosa avessimo lasciato per via gl’insegnamenti del vangelo. Rispondo al dubbio e alla domanda: No, non lo credo, e questo affermo non solo per l’istintiva voce della coscienza, ma anche per il monito che ci viene dalla storia politica dei cattolici di tutti i paesi. Siamo un partito di centro, e qualcuno interpreta il centrismo come un adattamento ora alle forze di destra, ora a quelle di sinistra per servire di freno e di contrappeso e la nostra funzione dovrebbe esaurirsi nella ricerca del meno peggio fra le iniziative e le imprese altrui, e avrebbe per metodo costante il compromesso. Ma questa interpretazione equilibristica del nostro centrismo è falsa. Noi siamo centristi, non perché seguiamo una linea media, risultante dalle tendenze degli altri, ma nel senso che prendendo l’iniziativa e cercando per un nostro impulso e per una nostra via il progresso cristiano, seguiamo la grande linea «centrale» dei principii cristiani nella vita pubblica, linea che attraversa tutta la storia della civiltà moderna, linea che è troppo presso alla realtà della natura umana, per condurci agli eccessi dell’utopia rivoluzionaria, e segue troppo davvicino la morale divina, perché ci possa portare all’appoggio o alla tolleranza delle costruzioni sociali e politiche della moderna plutocrazia. Ecco il cammino dei cattolici di tutti i paesi nella politica della nostra epoca. Essi furono tanto più centristi quanto più la loro azione si svolgeva sotto l’impulso di una grande idea centrale cristiana: ed allora, allora solo lasciarono una vasta orma nella storia della civiltà europea. L’oratore rievoca a questo punto i cattolici della Polonia e quelli del Belgio, ricorda Görres a capo della rinascita nazionale della Renania e rileva che al di qua del Reno alle fortune politiche sorridevano le migliori speranze, quando Lacordaire si pose al servizio della Libertà o quando un giovane pari di Francia combatteva vittoriosamente la crociata della libertà d’insegnamento. L’opera più duratura del Centro germanico è la sua lunga battaglia ch’esso, lasciando alla sinistra il socialismo e a destra la reazione di Bismarck, combattè per la giustizia sociale. Noi sentiamo che anche oggi in Italia, i popolari combattono per una delle idee centrali cattoliche. Dissi altra volta ch’essa era la libertà; oggi potremmo dir meglio: la «giustizia». Voi sentite che siamo lontani dai tortuosi e talvolta inevitabili viottoli del compromesso, che combattiamo senza risparmio di persone e senza speranza di mercede: noi combattiamo per aprire un varco alla Giustizia! In mezzo ai rancori e agli agguati della rappresaglia, che s’annidano quasi in ogni comune, in mezzo a nuovi urti sociali che si preparano per gli abusi dei potenti e le reazioni dei deboli, fra la congiura dei complici silenzi e la connivenza dei corrotti profittatori… noi ci battiamo perché la Giustizia torni serena, imparziale, sicura a dominare su tutto e tutti. Chi desidera sinceramente affrettare la pacificazione, non s’illuda: solo la Giustizia porta in mano il ramoscello dell’ulivo, nessun’altra dea falsa e bugiarda che rappresenti la normalizzazione dell’ordine esteriore. La coscienza popolare è turbata per lo strazio della giustizia offesa. Chi lavora per la giustizia, prepara la pace; chi invece copre col manto della complicità o (se è ancor possibile) per ingenua buona fede l’offesa alle leggi morali, apre la via alla vendetta, cioè alla guerra civile. Questa è l’alta giustificazione morale della nostra lotta. Si potranno discutere metodi e atteggiamenti, che sono contingenti, ma la linea centrale corrisponde alle grandi tradizioni cattoliche della politica. L’oratore termina ricordando l’Anno Santo e facendo l’augurio ch’esso possa aprirsi in un’atmosfera pacata dal ritorno della Giustizia, sì che sia ristabilito l’ordine morale, nel disarmo degli spiriti e delle braccia. |
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| Roma, 21 sera. Mussolini tenta di evadere. La cinta d’assedio stava per chiudersi, poiché il voto recentissimo dei liberali salandrini per reclamare l’indipendenza della magistratura significa una loro disposizione cauta ancora ma evidente di prendere atteggiamento nella così detta questione morale. Allora Mussolini è ricorso ad una manovra che dovrebbe essere risolutiva: essa è una di quelle imprese disperate, a cui nei momenti gravi sogliono ricorrere gli eserciti assediati. La sortita è in pieno sviluppo, e quindi non intendiamo ingaggiarci in profezie, ma il suo significato morale e politico è ormai acquisito. La presentazione di un progetto per cambiare il sistema di eleggere i deputati e quindi per convocare un’altra Camera equivale ad ammettere che la presente situazione politica è esaurita e riconoscere che la rappresentanza del listone, la quale doveva assicurare, come ricorderete, il governo forte e stabile per almeno cinque anni, non ha più alcuna consistenza politica. Sono bastati dieci mesi di vita e cinquanta giorni di attività per ridurre codesto magnifico castello della nuova era ad un cumulo di rovine. Con ciò la presentazione del progetto significa anche un successo notevolissimo dell’Aventino: perché il governo ammette che la presente divisione della Camera in due tronconi non è più tollerabile e che a questo strazio sia preferibile il Karakiri. È il colpo di Sansone nel tempio dei Filistei. E i Filistei, dopo il primo sbigottimento di ieri sera, incominciano a capire, cosicché l’Impero di stamane ammonisce Mussolini a non pensare a nuove elezioni. «Una nuova convocazione dei comizi elettorali significherebbe una gigantesca vittoria delle opposizioni, perché si darebbe loro ragione quando affermano che questa è la Camera di Cesare Rossi, che questa è la Camera nata dal broglio e dalla violenza, perché si farebbe vedere che non ci “strainfischiamo” della minoranza aventiniana, ma la valutiamo tanto da ritenere non vitale una Camera che funziona senza di essa». Ora: che i pretoriani e le comparse in seno alla maggioranza avrebbero fatto atto (più o meno efficace) di ribellione, Mussolini doveva prevedere ed ha certo preveduto. Perché allora ha corso anche questo rischio? Non sembra difficile di rifare il calcolo del presidente del Consiglio. Egli si è accorto da tempo che la cerchia degli assedianti andava facendosi di giorno in giorno più stretta. La maggioranza minacciava di sbloccarsi, Salandra proclamava la politica della mano libera, ciò che equivaleva oramai ad un distacco. Allora Mussolini tenta una manovra verso la destra: egli sa che i liberali sono uninominalisti e che nel ritorno al collegio uninominale vedono il loro ritorno al potere. La presentazione della riforma equivale quindi a creare una futura situazione di destra, specialmente se il sistema uninominale è senza ballottaggio, giacché in buona parte dei duecento collegi meridionali la maggioranza relativa potrebbe toccare ai candidati delle clientele locali e delle consorterie personalistiche. Eccovi una promessa, una speranza che sorride ai meridionali di Salandra e di Orlando e ai piemontesi di Giolitti. Era dunque prevedibile che Salandra, Orlando e Giolitti si sarebbero trovati d’accordo nell’applaudirlo alla scomparsa di qualsiasi forma proporzionalista; e la cronaca della seduta di ieri vi annunzia che i tre ex-presidenti hanno applaudito. Momentaneamente il primo effetto voluto è raggiunto: la maggioranza si rafforza verso destra. Ma e la sinistra, e i fascisti riformatori che hanno tanto gridato contro le camorre del passato? Mussolini ha creduto di dover affrontare le loro ire e le loro delusioni, perché era costretto a tentare comunque di liberarsi della stretta presente e perché spera di calmarli, persuadendoli che non si tratta di fare sul serio le elezioni, ma di indurre le minoranze a discendere dall’Aventino. Eccovi l’altro scopo immediato della mossa: attirare le opposizioni alla Camera. Le opposizioni stanno facendomi il processo sulla stampa e vogliono trascinare il regime innanzi ai tribunali? Ebbene, dovette dirsi Mussolini, io le costringerò a discendere dal banco di accusa e a correre alla Camera per difendere le loro posizioni elettorali e le loro speranze di costituire il «blocco della libertà», ossessione questa che ha preso particolarmente l’Idea nazionale di questi giorni. Mussolini ricorda la tenacia con cui i popolari difesero il criterio proporzionalista, sa che i socialisti, come tutti i partiti di massa, aborrono il collegio uninominale. Come resisterebbero costoro all’impulso di difendersi alla Camera contro il ritorno al collegio uninominale? E se le opposizioni discendessero alla Camera, non è probabile che la loro compagine – poiché Amendola e Di Cesarò valgono per proporzionalisti piuttosto tiepidi – si decomponga? Comunque, quando le minoranze fossero rientrate per difendere un interesse elettorale, ove andrebbe a finire la loro famosa pregiudiziale morale? L’importante è che tolgano l’assedio e poi si vedrà: il progetto potrebbe magari venir sepolto col concorso della stessa maggioranza e colla tolleranza del ministero; ma intanto la manovra sarebbe riuscita. Questo dev’essere il calcolo di Mussolini. Ma il calcolo in qualche sua parte notevole si è già rivelato un errore. Si può oramai prevedere che l’Aventino non si muoverà. La pregiudiziale morale verrà mantenuta. Si è affermato che l’attuale ministero non è più in grado di dare alcuna garanzia per la tutela della giustizia, ché anzi nel delitto contro un membro dell’opposizione, esso stesso si trova in veste di imputato. Molte prove sono via via venute alla luce per avvalorare questa tesi, né è da ritenersi che tale azione sia esaurita. Il governo ha oramai un solo dovere, quello di ritrarsi in disparte, perché la giustizia possa agire serenamente e senza sospetto. Se sarà dimostrato che le accuse, venute dallo stesso campo fascista, non hanno fondamento, il governo potrà tra non molto chiedere al popolo italiano una nuova investitura: e allora non ci sarà più una questione morale, ma solo una questione politica. Questa è l’unica via diritta e onesta che conduca alla pacificazione dell’agitata vita pubblica italiana. |
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| Roma, 23 notte. Si è riunita oggi la Direzione del partito popolare presenti il segretario politico onorev. Degasperi, gli onorev. Gronchi e Rodinò, gli avv. Spataro e Campilli e il principe Ruffo, assente giustificato l’avv. Cappi. È stato approvato un comunicato in cui è detto che circa il progetto governativo di riforma elettorale – rispetto al quale il partito popolare mantiene intatta la sua fede proporzionalistica – la direzione riafferma la questione pregiudiziale per cui è incompatibile che l’attuale governo prepari e attui nuove elezioni, ed esprime la fiducia che gli organi parlamentari del partito non si lascino smuovere dalla linea di condotta fino qui seguita dalle opposizioni. La Direzione ha poi approvata la circolare del segretario politico sulla stampa del partito, ha prese alcune deliberazioni nei riguardi del prossimo Consiglio nazionale, quindi ha votato il seguente ordine del giorno: Un ordine del giorno di solidarietà coll’on. Degasperi «La Direzione del P. P. I. e la Commissione direttiva del gruppo parlamentare, consapevoli della tenace e feconda opera di italianità compiuta dall’on. Degasperi prima e durante la guerra con virtù di sacrificio e col più assoluto disinteresse personale; opera che lo fece degno di presiedere il Gruppo popolare durante l’intera legislatura passata e di ottenere oggi, di fronte alla falsità e alla malafede dei denigratori, l’alta spontanea testimonianza di uomini di varie parti politiche e d’insospettabile fede patriottica; levano le loro più fiere proteste contro l’iniqua campagna mossa e perseguita dall’organo del Presidente del Consiglio a base di menzogne dimostrate tali e con evidente intento di colpire attraverso la persona del suo Segretario politico, il partito; rilevano che l’acre odio fazioso raggiunge nel torbido articolo del 19 u. s. vera e propria portata di eccitamento a violenze e offese per cui la responsabilità di ogni eventuale avverarsi di queste rimane fin d’ora ben fissata a carico del giornale, dei suoi scrittori e inspiratori; attestano all’on. Degasperi, a nome dei popolari d’Italia dei quali si sentono sicuri interpreti, la loro piena fraterna solidarietà». Oggi si sono radunati anche i deputati del partito, presenti a Roma per esaminare la situazione e avere uno scambio di idee su quello che dovrà essere l’attività tattica del Gruppo parlamentare nei prossimi giorni. Hanno interloquito in merito Gilardoni, Degasperi, Micheli, Menizzi, Gronchi, Martini. |
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| A questa riunione di Segretari provinciali hanno voluto assistere con fraterno pensiero numerosi deputati, consiglieri nazionali e rappresentanti della stampa aderente, quasi a prova della solidarietà piena e fattiva che in questo momento di battaglia ci stringe tutti attorno alla bandiera del Partito popolare italiano. Permettete che a nome vostro li ringrazi e, facendomi interprete di quanti come organizzatori e propagandisti sentono più davvicino il polso del Partito nelle varie Provincie d’Italia confermi al Gruppo parlamentare, per l’atteggiamento preso, il nostro plauso incondizionato. Dopo il delitto di Roma Nel Paese, dopo il delitto di Roma, si ebbe la netta sensazione che il Gruppo, come avvenne, doveva mettersi in una stessa linea difensiva assieme alle altre minoranze; primo, perché apparve manifesto che l’on. Matteotti era caduto come vittima della tribuna parlamentare dalla quale aveva elevata fiera protesta contro l’enorme sopruso, compiuto a danno di tutte le minoranze, nelle elezioni; secondo, perché si comprese l’urgenza e il dovere di fare ogni sforzo per riguadagnare alla nostra vita civile le più elementari condizioni di libertà. Libertà cattolica, liberale o socialista? Ci chiese già allora, dopo il Congresso di Torino l’on. Mussolini, credendo di metterci in imbarazzo. Rispondemmo come rispondiamo oggi: vogliamo la libertà legale, la libertà com’è regolata dalle leggi e garantita dalla costituzione, quella libertà che oggidì è conculcata e soppressa dallo Stato-partito attraverso la compressione amministrativa e che è paralizzata dallo spirito totalitario di violenza e di sopraffazione e dalla minaccia sempre vigile e sempre attiva di una milizia di parte. I cattolici del Belgio e della Germania, da molti anni attivi nella vita politica dei loro paesi, dopo aver esaminata davvicino la nostra situazione ci hanno ammesso che la nostra lotta per la libertà ha ben più ampie e più profonde ragioni di quello che non avesse a suo tempo la campagna per la libertà dei cattolici belgi e la lotta del Centro contro la legislazione antisocialista di Bismarck. Tuttavia da qualcuno che sta ai margini del Partito o è incline a considerare con diffidenza ogni nostra mossa combattiva, si è voluta diffondere la preoccupazione che l’esserci noi collocati sulla stessa linea tattica parlamentare delle altre minoranze e quindi anche dei socialisti, ci possa portare alla compromissione delle nostre idee e all’alterazione del nostro programma. Nessuna compromissione programmatica Non c’è bisogno di affermare che questa preoccupazione non ha motivo di essere e che noi vigileremo perché nessun tesserato del Partito offra a chicchessia il pretesto di dubitarne, in buona fede. Noi riaffermiamo, oggi più che mai, il nostro attaccamento ai principii della democrazia cristiana e la fede nel suo finale trionfo. Anche oggi ripetiamo quello che diceva il nostro maestro D. Luigi Sturzo nel discorso all’Augusteo (2 maggio 1921). «Dal programma della democrazia cristiana traiamo i due saldi fondamenti dai quali mai può prescindere un qualsiasi movimento sociale, se non vuol cadere nel retorico vano e nel vacuo, un fondamento morale che ci pone in contrasto coi socialisti che lo negano per un materialismo fatale; e un fondamento economico, che contrasta con quello socialista, in quanto non sopprime ma rafforza i diritti personali dell’uomo al lavoro, al risparmio, alla proprietà; che solo limita e corregge in una legge morale e sociale di solidarietà, di armonia e di elevazione di classe». Diciamo anzi di più, che mai forse il nostro ideale di giustizia e di fraternità cristiana ci splende nell’animo così vivo e così puro, come nell’ora in cui l’ombra fosca di un delitto politico si addensa sopra tutto un ambiente di violenza e di intrigo, e che mai come ora, dopo tanto odio e tante delusioni, ci rinsalda il nostro proposito di riguadagnare a Cristo le masse popolari. Ma chi non vede che tale civile ripresa di battaglie ideali esige come premessa indispensabile la libertà, il ritorno cioè del pieno e libero esercizio del diritto comune per tutti i partiti? Alcuni dei nostri critici più malevoli e dei nostri avversari più accaniti si sono affrettati anche a denunziare alle anime timorose un presunto patto di governo concluso dalle opposizioni, ciò che porterebbe alla collaborazione popolare-socialista. Lo stesso proclama delle opposizioni il quale rileva che la presente situazione comporta per le minoranze parlamentari l’esclusione di qualsiasi successorio, si è affrettato a togliere attualità a questo allarme; tuttavia vi s’insiste da varie parti con finalità diverse tanto che l’on. Rigola , polemizzando nella Giustizia cogli estremisti di sinistra, trovò recentemente necessario di ribadire la dichiarazione che «le opposizioni sono riunite come un solo uomo a scopo puramente difensivo» e che «esse non hanno che lo scopo comune di rivendicare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alle leggi, dopo di che ciascun Partito, ciascuna classe riprenderà la propria libertà d’azione». Non abbiamo bisogno di aggiungere che questa dichiarazione corrisponde a verità e che noi, dal nostro punto di vista, ci associamo. L’ipotetica collaborazione con i socialisti e la reale compromissione coi fascisti In linea di massima però e per debito di chiarezza, poiché s’è risollevata la questione anche in tesi generale, vorrei cogliere l’occasione per fissare i seguenti punti: 1. I popolari non accettano il criterio, riaffermato anche in quest’occasione dalla stampa clerico-fascista, dell’incompatibilità assoluta di una collaborazione parlamentare coi socialisti. Non v’è nessuna ragione per ritenere che ai popolari italiani manchi la capacità e la volontà di conservare quella purezza del proprio pensiero e quella autonomia della propria azione che dimostrarono di avere e mantenere i cattolici del Belgio, dell’Austria, della Germania, della Polonia, della Czeco-Slovacchia, quando per scopi ben circoscritti di azione parlamentare e di governo, cercarono e accettarono di partecipare a Gabinetti, nel quali in maggiore o minore misura erano rappresentati anche i socialisti. 2. I popolari credono che il tentativo fatto anche in questa occasione da fascisti e clerico-fascisti di accomunare in un solo giudizio negativo tutte le frazioni provenienti dal socialismo, dai più temperati ai più estremi, per sottoporle alla stessa condanna e allo stesso ostracismo dalla vita politica nazionale, sia un tentativo che non corrisponde all’interesse del Paese, ma che si ispira all’egoismo della frazione dominante, la quale trae la sua forza dalla reazione antisocialista e dalle preoccupazioni di classe de’ suoi finanziatori. I popolari credono invece che il concetto democratico dei più temperati e quello dittatoriale degli estremi, debba incontrare ben diversa valutazione e che il graduale processo di chiarificazione contro il socialismo quale è avvenuto nel dopo guerra in tutti i paesi di Europa, debba esser cercato e favorito anche in Italia, come un importante elemento di normalizzazione politico-sociale. Con qual diritto, del resto, si scandalizzerebbero di una cooperazione popolare in un Governo, nel quale fossero rappresentati anche i socialisti, quelli stessi i quali applaudirono a Giolitti quando in un documento ufficiale invocava chiaramente la collaborazione socialista e trovarono geniale la visione di Mussolini, quando nel ’21 proclamava alla Camera che si andrebbe verso una grande coalizione delle tre forze efficienti nel Paese, i socialisti, i popolari e i fascisti? Ma sopra tutto neghiamo ogni capacità morale di ammonitori e di accusatori a coloro che, venuti dalla nostra sponda, finirono col confondersi nell’attuale maggioranza, facendo atto non di collaborazione, ma di subordinazione e assicurando perfino, nei rapporti di vassallaggio, di riservarsi almeno la possibilità organica di distinguere le proprie responsabilità morali e politiche da quelle dei dominatori! No, il tentativo di capovolgere il problema morale che inquieta ora il Paese è vano ed è supremamente ridicolo. Il problema morale non è la futura, la possibile, l’eventuale collaborazione coi socialisti; il problema è l’attuale collaborazione di fatto coi fascisti. La politica fiancheggiatrice è fallita Nessuno oggidì potrà negare che la politica di collaborazione col fascismo al fini della normalizzazione, ha fatto oramai fallimento. A Torino nell’aprile del ’23 i popolari furono i primi nel presentirlo. Quel Congresso rappresentò tuttavia il supremo sforzo per assicurare una collaborazione che non fosse dedizione. A Torino si credeva ancora che esistesse una volontà energica e decisiva che volesse risolvere gradatamente il problema della Milizia, che accettasse una riforma elettorale di equità e che garantisse la libertà sindacale. Si presero però le necessarie precauzioni e si precisarono le premesse che si ritenevano indispensabili per la collaborazione. La prova ebbe risultato negativo. Dopo i popolari, fu la volta dei democratici sociali; ora tocca ai liberali. Oggi, a sedici mesi di distanza il Giornale d’Italia parla il linguaggio di Torino. Senonché questo linguaggio in bocca dei liberali è un anacronismo e confonde i termini. Oggi per i membri del blocco elettorale governativo il discorso si aggira non sul fallimento della collaborazione, ma sul fallito fiancheggiamento, sul fallimento cioè di quella politica di sommissione che sperava di placare i colpi della rivoluzione fascista coll’opporvi il materasso di una infinita rassegnazione. La politica dei fiancheggiatori è fallita sul terreno delle riforme sociali, è fallita nel campo dei valori morali, è fallita sopra tutto nei suoi scopi di normalizzazione costituzionale. Quando alla Camera abbiamo assistito al pietoso sforzo di un nostro collega, uscito dalle nostre file, per ricostruire coi detriti di una legislazione sociale frammentaria e talvolta contraddittoria una linea di politica sociale fascista in senso democratico, più che la tesi già di per sé tanto inane, ci ha fatto pena il disagio morale dell’antico commilitone, il quale non può non sentire che alcuni decreti di carattere paternalistico e alcune provvidenze sociali, parte buone, parte discutibili, non attenuano una politica operaia di compressione che dal decreto sulla vigilanza statale e dall’abuso dell’art. 3 per comandare i patti di lavoro, arriva fino ad imporre il monopolio sindacale ed organizzativo del partito al governo. E che dire della laude cantata da un altro ex-popolare in onore del governo e del partito, ristauratori dei valori morali? Il nimbo di puritanesimo che si voleva per forza avvolgere attorno a un sistema, è stato squarciato dal fulmine di un delitto: e alla luce di quel baleno videro anche i lontani quello che ai vicini non poteva sfuggire. Non v’è religione senza morale; né morale senza leggi; né leggi senza sanzioni. Quando la morale è offesa nel modo più atroce e la legge è calpestata per sistema, la religione può riguardare ancora il metodo di governo ma non il culto dello spirito. Il fallimento è più definitivo ancora sul terreno della normalizzazione costituzionale. Quell’illustre fiancheggiatore del fascismo che servavit animam suam fissando nella lettera al sindaco di Palermo le sue riserve liberali e democratiche, ora che si compie l’attentato contro la libertà di stampa, preannunziato del resto prima e durante la campagna elettorale, si arma dei suoi immortali principi e salpa… per l’America. Eppure non bisogna illudersi: il decreto anticostituzionale contro la stampa, lo assicura Farinacci, non è che l’inizio, ma è un inizio grave. Quando l’on. Gronchi nel suo coraggioso discorso parlamentare volle ricordare a questo proposito il nome di Chateaubriand, la maggioranza urlò che si trattava di cose vecchie e Mussolini interruppe dicendo che ogni secolo ha la sua storia. È vero, ma le ragioni della logica sono e valgono per tutti i tempi e non era male ricordare ai conservatori che ci accusavano per la nostra difesa della libertà di stampa di esagerazioni modernizzanti come già nei primi decenni del secolo XIX l’autore del «Genio del Cristianesimo» che fu anche ministro legittimista, scriveva una delle sue più belle pagine per dimostrare «che senza la libertà della stampa non vi può essere governo rappresentativo» e «che la stampa nelle mani della polizia rompe la bilancia costituzionale». Il sistema di governo Così tutti gli sforzi dei collaboratori e tutti gli adattamenti dei fiancheggiatori si infrangono nello scoglio inesorabile di questa realtà: che esiste una fazione, la quale si è impadronita a mano armata del potere e a mano armata lo difende; che esiste una volontà la quale si riserva di usare alternativamente le armi del partito per dominare lo Stato e le forze dello Stato, per conservare la dittatura del partito, che ricatta le persone per bene con la minaccia del peggio per lo Stato e allarga le basi del partito con le clientele delle pubbliche amministrazioni. Questo gioco di compensazione alternata importa che talvolta parli il Duce, talvolta il Presidente del Consiglio, con diverso e spesso contraddittorio linguaggio, ma sempre col fine di rinsaldare le conquiste del fascismo, tollerando le leggi costituzionali e il sistema parlamentare solo in quanto possano dare l’investitura formale al potere di fatto, ma non come elemento costitutivo e risolutivo. Ora se questo gioco importasse solo una menomazione del sistema parlamentare e una umiliazione dei partiti politici, e sia pure, anche una restrizione delle libertà, ci si potrebbe forse chiedere in nome della pacificazione, che attendessimo inerti la fine del suo ciclo, come è finito il ciclo di Bismarck che in qualche suo periodo si era fondato su leggi di eccezione, come è finito quello di Poincaré che si fondava sulla psicologia della guerra, come finì quello di Wilson che era basato sulle ideologie della democrazia umanitaria. Ma questo sistema non esaurisce il suo giuoco entro i circoli più elevati della classe dirigente, né tocca solo alcuni istituti che stanno all’apice della piramide nazionale, ma ne mina direttamente le basi. Quando ostenta ovunque nel Paese le insegne e gli effetti del privilegio armato, quando coltiva la violenza e arma lo spirito fazioso in ogni regione, in ogni provincia, in ogni comune, quando, anche al di fuori delle vecchie zone di conflitto col bolscevismo, attraverso la pressione amministrativa o lo squadrismo e la milizia porta per il primo il contagio della violenza, quando non per degenerazione ma per filiazione diretta il sistema del centro crea il rassismo, come il rassismo di provincia alimenta il sistema centrale, allora bisogna ammettere che il problema non è semplicemente politico parlamentare, ma è sopra tutto morale e sociale. Problema morale e sociale Ed ecco quindi che già per questa sua prima qualità noi non possiamo rimanere agnostici ed inerti e la nostra coscienza morale ci impone di prendere il nostro posto di combattimento. Ma per i più avrà valore sovratutto l’aspetto sociale del problema. Si parla di una ripresa sovversiva. Il termine non è esatto e la affermazione è esagerata. Si può parlare di ripresa per le zone in cui il fascismo nacque come contrapposto al sovversivismo, ma bisogna parlare di reazione per quelle regioni, e sono le più numerose, nelle quali il fascismo prese l’iniziativa. Ora se con questa ripresa si intende l’inizio di una reazione armata, ciò non corrisponde alla realtà. Se però con questa parola si volesse indicare un acuirsi ed un allargarsi della rivolta morale contro il fascismo, la ripresa esiste e può innegabilmente diventare minacciosa per l’avvenire. Voi che siete al contatto col popolo mi siete buoni testimoni: la radicalizzazione delle masse procede, sotto la compressione fascista, in modo impressionante. Ebbene, se è così, bisogna pur preoccuparsi che perdurando tali condizioni, il Paese non venga una volta a trovarsi dinanzi all’atroce dilemma: o sopportare una fazione armata di estrema destra o andare incontro ad una reazione armata di estrema sinistra. Un dilemma a cui bisogna sfuggire Fu questa una alternativa per parecchi paesi, dopo la guerra. In qualcuno venne superata solo attraverso bagliori di guerra civile, in altri lo spargimento di sangue si evitò, ma in tutti il salvamento venne dalla riscossa della parte sana dei ceti medi e delle classi operaie. In Italia siamo ancora in tempo, perché la riscossa possa avvenire con forze morali e basandosi su forze morali. Bisogna intanto che sorga e prenda vigore una salda risoluta volontà centrista, la quale si proponga di sfuggire alla tenaglia dei due estremismi. Fino a ieri il collaborazionismo o il fiancheggiamento tentarono di agire come cuscinetto su di un braccio della tenaglia. Era il tentativo di agire dall’interno del fascismo e della compagine ministeriale. Ora bisogna che si attui il proposito di agire dal di fuori assumendo una posizione di autonomia e di iniziativa: ecco l’ora ed il contributo dei fiancheggiatori. Perché è ingaggiata la battaglia In verità perché si combatte oggi? Forse pro o contro il socialismo, pro o contro il popolarismo, in favore o contro lo stesso fascismo? No, la battaglia è ingaggiata oggidì pro o contro un sistema di governo. Questo sistema dello Stato-partito che poggia sul pilastro delle forze armate della fazione senza poter fare a meno della stampella costistuzionale, non potrebbe continuare né sussistere se i normalizzatori, dentro la compagine ministeriale, dentro e fuori lo stesso fascismo, si rifiutassero di mascherare con un’investitura costituzionale e parlamentare uno stato di fatto anticostituzionale. Perciò l’opposizione, al di sopra della questione personale, ha posto nettamente il problema del disarmo; perciò è suonata per tutti l’ora degli atteggiamenti risolutivi e di svincolarsi da una corresponsabilità che non riguarda le finalità più o meno idealistiche del fascismo, ma un sistema bifronte di governo, destinato a condurci per vie fatali. Il successo di questa pressione esterna sul fascismo potrebbe dirsi vicino, quando il fascismo estremista dovesse farsi la convinzione che il persistere nel sistema del partito armato lo porterebbe all’isolamento e all’impossibilità di mascherare più oltre tale sistema con la veste costituzionale parlamentare; ecco la grave responsabilità di quanti si dicono normalizzatori entro la maggioranza governativa e di tutti coloro che alla Camera o nel Paese, aderiscono al fascismo non come a sistema di governo, ma come ad una corrente di idee e di propositi, originata dalla valorizzazione della vittoria nazionale. Ed ecco il dilemma che si presenta: o il fascismo piega verso la normalizzazione (e ciò può avvenire solo col disarmo) e allora il presente sistema di governo è abbattuto, e gli succederà probabilmente un sistema parlamentare nel quale la presente maggioranza potrà far valere un suo programma, o prevale l’estremismo, e allora crollando, per il sostegno manco dei puntellatori, la sovrastruttura parlamentare e costituzionale, il sistema dittatoriale di partito, fondato sulle baionette della milizia, si rivelerà nella sua nuda brutalità, e urterà contro tutto il senso civile dei Paese. In entrambi i casi è alle forze morali del popolo italiano che viene fatto appello: e noi abbiamo fede in queste forze e in questo popolo. La vittoria sarà delle forze morali Un lungo periodo di rassegnazione e di infatuazione, poteva indurci a dubitare dell’efficienza di queste forze morali, ma chi, dopo il delitto Matteotti, potrà negar loro una funzione risolutiva? La situazione politica è rimasta esteriormente la stessa: pletorica la maggioranza governativa, agguerrita la milizia, intatti, anzi completati i registri dei fasci; e tuttavia, se non capovolta, essa è radicalmente cambiata. Chi ha compiuto il miracolo, se non la coscienza morale del popolo italiano, il cui fremito venendo su dalla folla anonima degli umili ha riscosse da tanti calcoli di opportunità o di viltà e da tanta atonia di presunta saggezza le così dette classi dirigenti? In verità non bisogna preoccuparsi eccessivamente se in un momento grave non è subito visibile il così detto «sbocco parlamentare» o se non spunti ancora sulle acque in procella il taumaturgo che imponga loro la calma. Nelle grandi crisi storiche fu sempre così e quando gli antichi sentono l’intervento del fato o i cristiani, proprio nell’ora più incerta, vedono comparire la destra dell’Altissimo, confessano nel contempo i limiti angusti del calcolo umano. «Fata viam invenient!». E intanto quello che dobbiamo cercare noi è di mantenere vigile ed attivo il senso morale del popolo italiano, completando la preparazione spirituale del Paese contro il perdurare dell’illegalismo, della violenza, della dittatura e di tutti i mali che sogliono accompagnarla. A tale preparazione noi popolari intendiamo recare il contributo della nostra coscienza cristiana la quale ci impone sentimenti di solidarietà, di disciplina, di amore alla Patria, ma ci dà anche il senso vivo della dignità e dei diritti naturali della persona umana dal quale senso – e non dai dogmi della Rivoluzione – deriva il nostro amore per la libertà: e per questa libertà, nelle grandi ore della storia civile, bisogna saper combattere e vincere. A tale preparazione noi ancora rechiamo il contributo del nostro programma che già nel ’19 proclamava, in nome della libertà, la lotta contro lo Stato accentratore e panteista, contro le dittature economiche e contro il monopolio sindacale; e a tale riscossa noi mettiamo sovratutto a disposizione l’altissima riserva morale dei nostri principii, ai quali non invano il nostro Paese farà ricorso in un momento in cui ad un problema politico s’impone per giudizio di popolo un’insuperabile pregiudiziale morale. La marcia è ormai segnata, e bisogna andare fino in fondo. Il Partito asseconderà con tutte le sue energie lo sforzo che il Gruppo parlamentare persegue, assieme alle altre opposizioni. Voglia Iddio che esso valga a ridonare agli italiani la pace civile e la libertà nella legge e nella giustizia sociale. |
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| 41921-1925
| Il sottoscritto chiede d’interrogare il ministro dell’Economia nazionale, per sapere se abbia autorizzato o giustifichi lo scioglimento della Cassa mutua di previdenza sociale in Trento e la presa di possesso del patrimonio di questa società privata, avvenuta per decreto prefettizio e con richiamo a lettera del Ministero dell’economia nazionale del 15 maggio. De Gasperi |
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| 41921-1925
| Il sottoscritto chiede d’interrogare il ministro dell’Interno, per sapere quali provvedimenti abbia preso l’autorità di pubblica sicurezza in Trento per impedire la spedizione punitiva di Sopramonte (31 maggio) e quali misure abbia poi attuato per sottoporre i colpevoli alla sanzioni di legge . De Gasperi |
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| 41921-1925
| DE GASPERI. Prendo atto che la interpretazione data dall’onorevole sottosegretario di Stato per l’economia nazionale in sostanza viene a modificare il testo del decreto emanato in base dell’articolo 3 della legge comunale e provinciale dal prefetto, perché questi non ha preso un provvedimento transitorio per migliorare l’amministrazione della cassa stessa, ma l’ha sciolta: ha sciolto tutti i consessi amministrativi, cioè il consiglio di amministrazione della cassa, l’adunanza dei delegati, e il commissario ha abolito di fatto la parte che riguarda le malattie facendola assorbire da altra cassa. In realtà la gestione del patrimonio rimane assorbita, se si applica il decreto del prefetto, da un’altra cassa. Quindi si tratta precisamente di una manomissione, di un’inqualificabile interpretazione abusiva dell’articolo 3 della legge comunale e provinciale. Se debbo giudicare dalla risposta data dall’onorevole sottosegretario di Stato, posso concludere che il prefetto è stato invitato a precisare meglio il testo del decreto, a ridurre quindi il provvedimento a quelle che erano le intenzioni del Ministero, cioè ad una revisione interinale dell’amministrazione per migliorare la gestione della cassa. Posso ammettere che se ciò avvenisse la gravità del provvedimento ne sarebbe attenuata, quantunque non ammetta che una cassa, la quale è sottoposta alla vigilanza e alla collaborazione di un commissario governativo da parecchi mesi, abbia bisogno di essere sottoposta ad un regime eccezionale. Ritengo che il decreto del prefetto sia assolutamente illegale e non corrisponda alle disposizioni del Ministero. Quindi l’ultima parte della difesa che ella ha letto, onorevole sottosegretario di Stato, non riguarda la sostanza del decreto del prefetto, ma le intenzioni del Ministero. Non entro a discutere della gestione che per quest’anno era passiva, ma era garantita da un valido fondo di riserva. Mi auguro che dopo tutto questa gestione transitoria si abbrevi, e che quanto prima sia ripristinata la regolare amministrazione. […] DE GASPERI. Prendo atto delle assicurazioni dell’onorevole sottosegretario di Stato. Rilevo però che le premesse non rispondono alla realtà. Io fui sul luogo e potei constatare che non si trattò di colluttazione, ma di invasione da parte di individui che non posso qualificare fascisti perché non li conosco, i quali di notte hanno cominciato a sparare revolverate all’impazzata e a bastonare senza che la popolazione abbia avuto nemmeno tempo di reagire. Ad ogni modo non entro nel merito. Auguro che le misure prese dall’autorità conducano a sanzioni di legge perché è necessario che le autorità nel Trentino riacquistino il loro prestigio. Noi abbiamo dei casi rimasti ancora impuniti, e a questo proposito ricordo i fatti di Roncegno e quelli avvenuti a Levico nella giornata delle elezioni in cui le urne furono di notte spezzate, le schede bruciate e coloro che hanno compiuto questi fatti sono arrivati in camion da comuni vicini; in tutta la Val Sugana si fanno almeno i nomi delle persone che hanno fornito i camion, ma finora non si è avuta ancora nessuna notizia di provvedimenti. |
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| 41921-1925
| Il parlamento germanico è stato sciolto dopo il naufragio delle trattative avviate da Marx per costituire un ministero di coalizione il quale oltre i gruppi che sono attualmente rappresentati nel suo gabinetto di minoranza , comprendesse i socialisti e i tedesco-nazionali o almeno uno di questi due partiti. «Il Governo attuale è Governo di minoranza – aveva dichiarato Marx in un’intervista colla Germania – ed esso dovette perciò chiedere continuamente, nelle decisioni prese in questi ultimi anni, l’appoggio di partiti non rappresentati nel Gabinetto. Questo appoggio fu sempre accordato, e perciò mi rivolgerò ai partiti con l’aiuto dei quali il Governo ha potuto realizzare il proprio programma interno ed estero. Non si può disconoscere che senza l’appoggio dei socialisti non sarebbe stato possibile preservare la Germania dal caos politico e sociale ed assicurare la politica seguita dal Governo nel problema del memoriale degli esperti e nella convenzione di Londra. Considero perciò mio dovere di rivolgermi ai socialisti per invitarli ad entrare nel Gabinetto. D’altra parte è nell’interesse del paese che le forze nazionali ed economiche di cui è ricco il partito tedesconazionale vengano utilizzate per un lavoro positivo». È noto che le trattative fallirono per l’intransigenza dei nazionalisti e che il ricorso ai comizi elettorali venne fatto contro di loro e contro la Destra conservatrice, che il governo spera esca dalle urne indebolita come è del resto prevedibile un regresso dell’altra ala estrema, rappresentata dai comunisti. Se queste previsioni si avvereranno è anche logico supporre che, ad elezioni compiute, il problema della collaborazione socialista al governo ridiventerà attuale. Non crediamo quindi inutili alcune note illustrative sulla costituzione dei governi tedeschi dopo la guerra, con particolare riguardo alla collaborazione del Centro e dei socialisti. Veramente il primo caso di contemporanea partecipazione ad un gabinetto dei cattolici e dei socialisti risale ancora agli ultimi mesi del periodo imperiale; è questo il ministero parlamentare del principe Massimiliano del Baden , il quale chiama nel suo Gabinetto tre socialisti, fra i quali Ebert e Scheidemann e tre centristi Trimborn , Groeber e Erzberger . Sopraggiunta la catastrofe, rimane ancora in piedi un governo Scheidemann il quale si appoggia sulle due frazioni socialiste (unitari e indipendenti) e deve difendersi dagli attacchi dei bolscevichi (spartachisti). È nel febbraio 1919 che lo stesso Scheidemann, temendo di non poter resistere da solo alla pressione estremista, si rivolse ai democratici e ai centristi per costituire un governo di coalizione democratica. Il Gabinetto si formò, con sette socialisti, tre democratici e tre centristi. La partecipazione del Centro fu assai discussa, ma il presidente del gruppo centrista, il Groeber la motivò così: «Un forte governo è indispensabile premessa di una buona pace. Quanto più forte esso è, tanto maggiori sono le speranze di ottenere più tollerabili condizioni». Quattro mesi dopo, succedeva il gabinetto del socialista Bauer (22 giugno 1919) con sette socialisti e quattro del Centro. L’assenza dei democratici parve rendere ancora meno plausibile la partecipazione del Centro. Ma il Groeber rincalzava dimostrando che senza il Centro non si sarebbe fatto il governo. «Che cosa avverrà del popolo tedesco – disse in un discorso – se noi veniamo meno e se la rappresentanza nazionale non è in grado di mettere insieme un governo? Noi abbiamo il dovere morale e la responsabilità dinanzi a Dio e al popolo tedesco, i cui destini ci sono confidati, di assisterlo nei giorni della più dolorosa sciagura e di salvare quello che ancora vi è da salvare. Perciò, se gli altri vengono meno, dobbiamo noi cercare di formare il governo coi socialdemocratici». Il 29 marzo 1920, il centro collaborò ancora col governo del soc. Müller (5 socialdem., 3 dem., 4 centro) e fu per dare ad esso la possibilità di reggersi, giacché tedesco-nazionali e partito populista erano all’opposizione. Le elezioni del giugno 1920 privarono la coalizione (social-dem. e centro) della maggioranza, cosicché i social-democratici avviarono delle trattative per attrarre nel governo i socialisti indipendenti (socialisti di sinistra). Di fronte al pericolo di un deciso spostamento dell’equilibrio a sinistra, il centro si ritirò. E si venne allora al ministero Fehrenbach (centro), costituito dal centro, dalla democrazia e dai populisti. Poiché, però, neppure esso disponeva di una maggioranza, ma era soggetto ora all’appoggio dei socialdemocratici ed ora a quello dei tedesconazionali, non poté reggersi a lungo. Il 10 giugno 1921 si formò il gabinetto Wirth (con 3 socialdem.). Anche stavolta il centro motivò la collaborazione coi socialisti soprattutto con ragioni di politica estera. Dopo la decisione per l’Alta Slesia, essendo usciti i democratici dal ministero, Wirth formò un secondo governo (con 2 socialdem.). Frattanto, nell’ottobre 1922, avveniva in Norimberga, la fusione dei due partiti socialisti (i socialdemocratici unitari e indipendenti). Il partito socialista risultante assunse, conseguentemente, un colore molto più radicale, e conscio della sua forza accresciuta rifiutò di collaborare coi populisti, essendo disposto, peraltro, ad entrare in un gabinetto della «gran coalizione» (populisti, centro, democratici e socialisti). La «gran coalizione» non giunse in porto, e Wirth si dimise. Seguì il gabinetto Cuno senza socialisti e con tre centristi. Nell’agosto 1923 riuscì a Stresemann di mettere insieme la «grande coalizione». Il 6 ottobre, però, i socialisti uscirono dal governo, che, poco dopo, fu battuto. Marx assunse allora la direzione della politica tedesca con un gabinetto dei partiti mediani (populisti, centro, democratici), che, fu ed è però, come si avvertì più sopra, gabinetto di minoranza. Da questa cronistoria risulta che in Germania, da sei anni in qua e con qualche interruzione, il governo si regge sulla collaborazione di una parte dei socialisti coi partiti della media borghesia e col gruppo cattolico. Se si considera inoltre che in Prussia dal ministero Stegerwald in qua, cioè dal 1921, domina la cosiddetta grande coalizione sotto la presidenza del socialista Braun e che questa situazione si ripete in molte grandi amministrazioni cittadine, come Colonia e Berlino bisogna convenire che la Germania è divenuta nel dopo guerra il campo esperimentale del collaborazionismo. L’esperimento è tanto più istruttivo in quanto non riguarda semplicemente l’ordinaria amministrazione, ma si estende all’opera basilare della Costituente di Weimar, durante il quale dal febbraio al giugno 1919 si gettarono le fondamenta della nuova repubblica tedesca. Si aggiunga che il collaborazionismo specie coi socialisti non fu accettato da tutti i cattolici senza obiezioni, ma che esso dovette passare il vaglio delle critiche e delle contraddizioni venute da parti diverse. Molteplici furono le critiche sollevate contro i delegati del Centro alla Costituente di Weimar e notevoli le difficoltà che il partito dovette superare in causa della sua collaborazione coi socialisti: il vecchio organismo subì anche qualche perdita, specie tra i rappresentanti della nobiltà e del possesso fondiario. Tuttavia il grosso del partito seguì i capi, che rispondono ai nomi di Groeber, Wirth, mons. Schreiber, mons. Mausbach , Marx, e nel recentissimo congresso di Berlino l’unità del partito venne riaffermata e consolidata. Sarà interessante ricordare – perché poco noto – che le discussioni svoltesi in Germania sull’atteggiamento del Centro nell’assemblea costituente di Weimar e sulla collaborazione del Centro coi socialisti nel governo centrale e nel governo prussiano indussero la Direzione del partito a presentare il 31 marzo 1921 all’Episcopato tedesco un copioso memoriale a stampa il quale contiene tre allegati: 1) una memoria che spiega l’atteggiamento del Centro durante la discussione e la votazione degli articoli fondamentali della costituzione che si riferiscono a principii o norme di carattere politico-religioso o morale; 2) una memoria sul modo in cui fu risolta nelle trattative coi socialisti la questione scolastica in Prussia; 3) un articolo dell’on. Marx, l’attuale Cancelliere, pubblicato nella rivista «Historisch-politische Blätter» contro le accuse comparse nel «Manuale ecclesiastico» edito dal P. Krose S.I. (Herder, Friburgo 1920). Chi volesse approfondire l’argomento veda il prezioso volume di Mons. Mausbach «Kulturfragen in der deutschen Verfassuag» (Münchengladbach 1920). L’autore, il quale com’è noto fu il più attivo delegato del Centro nella commissione che preparò la costituzione di Weimar espone le ragioni che indussero il Centro alla collaborazione coi socialisti e spiega, commentando i singoli articoli fondamentali della costituzione, (sovranità popolare, diritti e doveri dei cittadini, matrimonio e famiglia, religione e scuola, ordini e congregazioni, giuramento ecc.) quale fosse l’atteggiamento del Centro nella pratica soluzione o formulazione di questi problemi. Ci basti qui intanto esporre colle loro stesse parole ed oggettivamente le opinioni dei capi su questa delicata materia del collaborazionismo. Diceva, per esempio, il cancelliere Wirth, nel giugno 1922, a Stoccarda: «La questione della conservazione dello Stato, della sua unità economica, della sua ricostruzione sulla nuova base repubblicana non è compito, come in altri tempi, della nobiltà o della borghesia o di particolari gruppi di questa, la cui educazione o mezzi economici permettevano di assumere una posizione privilegiata, ma è cosa di tutte le classi della popolazione. Questa gran missione, che ci è toccata in sorte, dopo la immensurabile catastrofe del 1918, può soltanto essere portata a compimento con la cooperazione dei lavoratori tedeschi appartenenti a tutti gli indirizzi politici». E il sacerdote dott. Brauns , ancora oggi ministro del lavoro, esprimeva così, nel luglio 1919, all’assemblea nazionale, il suo punto di vista: «Noi ci siamo trovati improvvisamente di fronte alla necessità di formare un governo colla sola socialdemocrazia. Lo abbiamo fatto per il senso di dovere verso il nostro popolo – in quelle ore così duramente provato – e verso la Patria. Nessun altro motivo è stato per noi determinante». Il deputato Herold in un discorso del 20 gennaio 1920, diceva tra l’altro: «Per il Centro resta tuttavia un avvenimento della più alta significazione patriottica che esso, dopo una aspra lotta elettorale contro la socialdemocrazia, si sia deciso di formare un governo insieme con essa. Molti mali si sono in tal modo risparmiati alla Patria. Il non aver ricacciato la socialdemocrazia coi suoi numerosi seguaci in una sterile opposizione, ma averla indotta ad assumere la sua responsabilità nella collaborazione per la restaurazione della Patria è già di per sé stesso un eminente servigio reso alla conservazione dello Stato». Lo stesso Stegerwald (ala destra del Centro) era dell’opinione che: «fintanto che alla socialdemocrazia aderiscono così grandi masse di popolo, è necessario che le sia riservata una corrispondente partecipazione agli affari dello Stato». Il già citato ministro mons. Brauns, al congresso del Centro del 15 gennaio 1922, così riassumeva il suo pensiero sulla partecipazione della socialdemocrazia al governo: «Noi siamo convinti che, senza la partecipazione della classe lavoratrice al governo e alle amministrazioni, il proposto scopo della restaurazione statale è irraggiungibile. E poiché la maggior parte di questi lavoratori è inquadrata nella socialdemocrazia, riteniamo imprescindibile la partecipazione di questo partito al governo. Il Centro non pensa affatto a costituire un blocco borghese contro i socialdemocratici, come è parimenti lontano dal pensare che una restaurazione della Germania possa essere opera esclusiva della classe operaia». In questa polemica è curioso di constatare la fortuna ch’ebbe una parola straniera entrata appena ora dopo la guerra nel gergo politico tedesco, la parola cioè: Koalition. I tedeschi trovarono comodo di darle subito un significato del tutto particolare ben distinto da quello di Mitarbeit (collaborazione), Bund (alleanza), Gemeinschaft (comunanza). Subito fin dai primordi della collaborazione, socialisti e cattolici s’affrettarono a definire nettamente il significato pratico della parola, per riuscire così più facilmente a difendere la situazione politica di fatto che essa esprimeva. Fin dai tempi di Weimar, l’on. Scheidemann scriveva nel Vorwärts: «Per coalizione si intende un programma di lavoro e non di idee. Ogni partito conserva i suoi ideali, e noi pure». E il deputato del Centro, Joos , riaffermava lo stesso concetto nel Reichstag (7 ott. 1919) quando diceva: «Una pratica comunanza di lavoro, nessuna comunanza di idealità e di concezioni sociali; questa è la nostra coalizione». E Marx stesso, così si esprime: «Ha il Centro rinnegato il suo carattere di partito popolare cristiano nell’unirsi in coalizione coi socialdemocratici e coi democratici? Che cosa è una coalizione? Non è un’alleanza, non una fusione, non lo sbocco di un partito in un’altro; ma, semplicemente una comunanza di lavoro – non una comunanza di idee – stabilita per prestare allo Stato tedesco, all’interno, come all’esterno, la desiderabile forza di cui abbisognava onde assolvere al grave compito creatogli dalle insicure condizioni interne. Mai si è richiesto al Centro che rinunciasse ai suoi punti di vista o che li cangiasse, che modificasse le sue concezioni o le sue opinioni religiose. Siffatte pretese sarebbero state respinte con indignazione nel modo più risoluto, pur se si fosse fatto un lievissimo tentativo in questo senso». Il deputato Joos, uno dei più applauditi oratori dei congressi cattolici, va ancora più oltre, quando scrive nella Kölnische Volkszeitung (21 ott. 1923): «La socialdemocrazia sta davanti a noi come un movimento di masse. Numerosi strati della popolazione dipendono da essa. Essa rappresenta il più forte partito del Reichstag. La politica deve fare i conti con questa realtà, anche quella politica che vuol servire agli interessi dello Stato. La socialdemocrazia costituisce oggi, come per il passato, un problema politico-nazionale. Il compito che ci sta davanti è quello di utilizzare, per il lavoro ricostruttivo dell’edificio statale, le masse in essa irreggimentate e le loro forze». Giunti a questo punto converrebbe forse tentare di stabilire obiettivamente quali siano di fatto i risultati di questa politica collaborazionista del Centro: ma l’esame della complessa situazione germanica ci condurrebbe troppo in lungo, e forse l’esperimento non può dirsi conclusivo. Ci basti registrare l’opinione degli stessi uomini del Centro, i quali, quasi nella loro totalità, assicurano che i risultati sono favorevoli. Il Centro, dicono, non ha perduto la sua combattività né ha attenuata la sua ortodossia, i sindacati cristiani hanno mantenute le loro posizioni, mentre i socialisti si dividono sempre più in una corrente riformista e in una comunista. Nella scuola tranne che in Sassonia, il Centro, pur essendo alla direzione generale delle scuole il socialista Schulze, ha conservato l’insegnamento religioso per tutti i genitori che lo vogliono. Si narra fra l’altro quest’ultimo caratteristico episodio. Nella scorsa estate i socialisti di Monaco avevano organizzata una esposizione di «cattiva letteratura» (Schundlitteratur). Tra i libri esposti all’esecrazione dei visitatori era stato messo un catechismo cattolico. Il Centro si rivolse subito protestando alla direzione socialista, e questa fece subito chiudere l’esposizione. Registriamo: non intendiamo oggi che d’aver offerto un contributo oggettivo per facilitare quello che potrà essere il nostro conclusivo giudizio sopra il notevolissimo esperimento. G. Fortis |
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| 41921-1925
| Crediamo fermamente che l’Italia, dal giorno in cui ha conquistata la sua unità, abbia attraversato poche volte un periodo di miseria come il presente. Vogliamo dire miseria morale. I giornali non ligi al governo con la voce completamente strozzata; gli altri, i fascisti, i filofascisti a oltranza, pieni di un linguaggio che si fa tanto più oltracotante e schifoso quanto è più compressa la possibilità degli attaccati e dei vilipesi di reagire, sia pur nelle forme più ossequienti alla legge e dalla legge garantite. Esempio tipico di questa miseria morale in cui siamo piombati: la campagna fatta dai due «Popolo d’Italia» (di Milano e di Roma) contro l’on. Degasperi, colpevole soltanto di essere il capo del Partito popolare italiano, cioè del maggiore dei partiti che sono alla opposizione. Scaraventare del fango sugli avversari: ecco il comando a cui bisogna obbedire; attaccare gli avversari non soltanto in ciò che riguarda la loro attività pubblica, ma anche privata, frugando – col furore e il gusto degli sciacalli – per entro ogni cosa che li riguarda, non escluse (la campagna di questi giorni contro il senatore Albertini insegna) le tombe; accumulare accuse su accuse, non importa se anche false, tanto, delle smentite non si prende atto; ecco l’offensiva a cui il fascismo s’è abbandonato (nei giornali, auspice l’on. Ciarlantini, autore della famosa circolare, e fuori) col proposito di soffocare la voce di quanti si oppongono ai suoi metodi che hanno invase tutte, proprio tutte le branche della vita nazionale. Dopo Degasperi, abbiamo visto Albertini, dopo Albertini, Donati, reo di aver presentata la nota denuncia contro il generale De Bono . L’attacco a Donati – che parte anch’esso dal giornale del presidente – è fresco fresco di oggi. Sentite: «Il dott. Giuseppe Donati è persona in tutto degna dell’attenzione del pubblico italiano. Giornalista dalla irruente prosa, audace suscitatore di scandali e imperterrito accusatore, egli è una di quelle figure che, nella classificazione politica, si usano definire di “primo piano”. Egli ha messo l’Italia a rumore con una mirabolante e inesauribile girandola di accuse concluse con il tradizionale scoppio del mortaretto come nei villerecci fuochi artificiali estivi: la denunzia De Bono all’Alta Corte. Ordunque vogliamo guardarlo un po’ davvicino questa specie di Zola popolaresco. È giusto che il popolo italiano conosca chi tanto pensa e pena per la salvezza della moralità pubblica e dell’onore del paese. E poiché il dott. Donati si presenta all’Alta Corte austero e solenne come uno di quei grandi cittadini che Roma e Atene hanno consegnato alla storia come modelli di integerrime virtù e di perfetto equilibrio, non sarà inopportuno scorazzare nel suo passato e cogliere quegli episodi che meglio ne mettono in evidenza le doti preclare. Ahimè! la vita logora poiché la fralezza della carne e la dura esperienza di ogni giorno non può non essere senza peccato. Cristo cadde tre volte sul Golgota. Donati cadde molte volte anche lui sull’aspro cammino verso la perfezione che oggi lo fa il più puro campione della pubblica moralità. Dovere di cronisti di questo quarto d’ora veramente storico per la nostra diletta patria, ci costringe a segnare anche le cadute del dott. Donati. La storia, con l’S. maiuscola, ha le sue esigenze!…». Lo stesso Popolo d’Italia, nello stesso numero, scrive, nell’editoriale dovuto alla penna del suo direttore, fratello del presidente del Consiglio: «È necessario oggi, dopo che il fascismo ha ripreso la controffensiva, non avere attimi di sosta e di incertezza. C’è nel campo avverso, una tattica subdola che va dallo spionaggio per conto di strozzini e di borsaiuoli alla rassegnazione mussulmana, anzi indiana tipo Ghandy che aspetta, nella resistenza passiva, che il ciclone passi, si dilegui, senza lasciare tracce notevoli né strascichi che possano impedire, domani, la placida digestione dei grossi squali della politica e della finanza. È necessario non dare tregua all’avversario e batterlo sulla stessa questione morale, che ha voluto inscenare indegnamente, arrivando a delle turpitudini delle quali nessun periodo politico, più acceso, ricorda l’eguale. E non bisogna dimenticare i falsi, anzi falsissimi apostoli di una libertà di coscienza o di professione, che oggi si fanno paladini di presunte virtù (mentre ieri hanno tollerato ogni scempio) per dar mano alla gazzarra indegna, alla calunnia perfida, alla mania dello scandalo di cui sembrano pervasi la gente dell’Aventino ed i loro satelliti». Dal quale brano non è difficile ritrarre l’impressione della rabbia che rode il fascismo in vedere che tutti i mezzi polizieschi escogitati dal governo e tutti i mezzi vigliacchissimi adottati dal partito per stroncare gli oppositori, lasciano questi ultimi perfettamente tranquilli al loro posto, mentre, evidentemente, si sperava non forse tanto nel loro annichilimento quanto nella loro reazione che avrebbe dovuto provocare quella guerra civile che governo e fascismo amano tanto imputare all’Aventino e che, al contrario, sembra esser nei desideri e nei voti di qualcun altro. E non occorre ricordare di più. Non occorre ricordare gli appelli alla forca, le minacce della ghigliottina, gli ordini d’arresto che fanno cornice a tutta questa subdola campagna dove non c’entra più l’idea, ma solo il personalismo e dove la patria viene tirata in ballo con un coraggio che non potrebbe essere più osceno e con un ardimento che è davvero un insulto. È proprio l’ora di ripetere col poeta: «Ah non per questo…». |
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| 41921-1925
| Come abbiamo già riferito venerdì e sabato si è riunito il Consiglio nazionale del partito. Vi parteciparono quasi tutti i consiglieri e per la Direzione il segretario politico onorevole Degasperi, il vicesegretario avvocato Spataro, gli on. Rodinò e Achille Grandi, l’avv. Cappi, il sen. Soderini, il principe Ruffo; il gruppo parlamentare era rappresentato dal segretario on. Gronchi, dal vicesegretario on. Tupini e dagli onorevoli Boggiano-Pico, Mauri, Di Fausto, Jacini e Gilardoni. Scusato Martini, per ragioni di famiglia. Presiedeva l’on. Rodinò. La situazione politica generale Sulla situazione politica riferì l’on. Degasperi. Alla discussione che durò due lunghe sedute, parteciparono la maggioranza dei consiglieri e in particolare Tupini, Cappi, Ferrari, Martini, Alberti, Jacini, Candolini, Grandi, Boggiano, Boli, Mauri, Gronchi, Smuraglia. Sulla linea di politica popolare in confronto del governo e nei rapporti dei partiti aventiniani il Consiglio nazionale ha concluso con l’aderire in pieno all’atteggiamento fin qui seguito e col riaffermare la fiducia alla Direzione e al Gruppo parlamentare. Ecco l’ordine del giorno votato ad unanimità: «Il Consiglio Nazionale prende atto con sodisfazione che la Direzione ed il gruppo hanno mantenuto – in accordo coi partiti di opposizione – l’indirizzo politico fissato nell’ultima riunione e riconferma loro piena fiducia». Circa l’ulteriore sviluppo della situazione, a parte la tattica parlamentare contingente, affidata al gruppo parlamentare, il Consiglio è d’avviso che si debba mantenere l’intesa difensiva con tutte le minoranze che hanno abbandonato la Camera dopo il delitto Matteotti; si è però preoccupato anche della necessità di chiarire i rapporti tra i partiti da un punto di vista positivo indicando quali, secondo i popolari, siano le pregiudiziali di ricostruzione costituzionale e democratica che invocano lo sforzo comune di tutti quei gruppi che non hanno riserve da far valere contro lo Statuto o contro il metodo democratico. La distinzione si riferisce ai gruppi dell’Aventino; ma il programma d’azione interessa in genere le forze democratiche del Paese. Da questo punto di vista è redatto il manifesto ai popolari che, rilevando come l’attuale atteggiamento del Partito derivi logicamente dal programma iniziale del ’19, indica i termini entro i quali, al di là dell’urto odierno, debba e possa svilupparsi una direttiva di ricostruzione democratica. In tal senso il manifesto va considerato come un contributo di chiarificazione, per rispondere alle finalità positive del partito e agli interrogativi del paese. Ecco il tenore del manifesto: (Benché il Corriere della Sera ma soprattutto il Secolo nella edizione pomeridiana di ieri abbiano riferito un largo sunto, il Secolo anzi quasi l’intiero testo del manifesto, onde evitare eventuali sequestri, crediamo prudente di attendere fino a domani. Il nostro corrispondente da Roma ci telefona che stamattina il Mondo e il Popolo, essendo usciti col testo integrale del manifesto del Partito popolare, sono stati sequestrati. Saputa la cosa, si sono riuniti i rappresentanti dei vari partiti nel Comitato delle opposizioni e hanno votato un ordine del giorno di solidarietà coi popolari colpiti da questa misura governativa. Da Milano poi ci telefonano che l’Ambrosiano e la Sera sono usciti pubblicando un sunto del manifesto trasmesso dall’Agenzia Stefani). Stampa, associazioni e codici. Questione finanziaria Sul secondo punto dell’ordine del giorno: Situazione politica in rapporto all’attività della Camera ha riferito il segretario del gruppo on. Gronchi, il quale dopo aver ricordato che i deputati popolari sono stati unanimi nel ritenere impossibile che le elezioni vengano affidate all’attuale governo e nelle presenti circostanze, ha rilevato che il gruppo fu sempre concorde circa la tattica da seguirsi e che vanno smentite le false notizie pubblicate in riguardo. Dopo essersi occupato, per elevare una protesta, a cui il Consiglio si associa, contro il trattamento fatto alla stampa, il relatore si è intrattenuto dei principali disegni di legge che stanno dinanzi al Parlamento e che caratterizzano la maniera forte del Governo, e ha terminato presentando un sintetico ordine del giorno, che dopo animata discussione venne accolto ad unanimità. Il Consiglio nazionale ha proceduto poi all’esame del problema della finanza pubblica e delle riforme tributarie, sul quale argomento ha sentito una sintetica relazione dell’on. Gilardoni . (Per gli ordini del giorno Gronchi e Gilardoni, valgono le ragioni prudenziali, di cui sopra). Nella sua ultima riunione di sabato sera, il Consiglio nazionale si è occupato di varie situazioni locali del partito ed ha preso alcuni provvedimenti di carattere interno e amministrativo. Sul caso Miglioli ha riferito il segretario politico, premettendo parole di riconoscimento per il personale disinteresse e lo spirito di sacrificio con cui il Miglioli si è dedicato alla vita pubblica, ma rilevando come le sue recenti manifestazioni siano prova di una mentalità che devia dalla linea del partito. Il partito non esclude, in principio, la unità sindacale intesa come organizzazione unitaria della rappresentanza professionale, per quanto non la creda oggi nelle nostre circostanze realizzabile, ma la esclude in ogni caso, come unità classista colla finalità della conquista politica; trova incompatibile con la idea sociale cristiana la visione storica che del movimento operaio italiano ha rivelato l’on. Miglioli nella nota intervista, ed ingiusto ed offensivo il concetto che Miglioli espone a proposito del Partito popolare, messo tra le fazioni che si disporrebbero a calare sulle masse operaie per trarne una parte nella propria orbita. Le affermazioni revisionistiche che dovrebbero riferirsi a tutto, a dottrine, metodi, preconcetti, pregiudiziali, la stupefacente affermazione che vane sarebbero le pregiudiziali perfino di fronte all’«internazionale contadina», di Mosca, giustificano la impressione disastrosa che ha fatto la intervista nei circoli amici come la simpatia con la quale venne accolta e commentata dall’organo comunista. Poiché la intervista che è del 12 dicembre è stata confermata dallo stesso Miglioli e in altro documento che egli comunicò al Consiglio nazionale, ribadita né, dati i precedenti, si può considerare come una deviazione momentanea, è necessario che il Consiglio nazionale, tenendo conto anche del desiderio espresso da qualche organo provinciale, chiarisca la situazione. Al dibattito, durante il quale venne data lettura delle rispettive pubblicazioni, parteciparono parecchi consiglieri. Infine ad unanimità dei presenti, meno tre, venne votata la seguente deliberazione: «Il Consiglio nazionale ritenendo che la intervista dell’onorevole Miglioli sia incompatibile con l’appartenenza al Partito popolare, delibera di considerare l’on. Miglioli come non più appartenente al Partito». Prima di chiudere i lavori della laboriosa sessione, il presidente a nome dell’Assemblea invia un cordiale saluto al maestro Don Luigi Sturzo, riafferma la solidarietà affettuosa all’onorevole Degasperi, fatto segno ad una campagna sciocca e calunniosa e manda un ringraziamento alla stampa del Partito, specie alla redazione de Il Popolo ed al suo direttore. Intorno al manifesto e all’atteggiamento dei popolari la stampa governativa o quasi, si sbizzarrisce nei più vari commenti. I lettori comprendono, come la pubblicazione dei documenti, dei quali si tratta, ogni discussione appare campata in aria. Si può affermare tuttavia, senza pericolo di smentite, che il cosiddetto «…sbloccamento dell’Aventino», non è che un pio desiderio di chi lo annunzia. La tattica comune difensiva e l’intesa diremo, di carattere antifascista, rimane; ma i popolari nel manifesto hanno fissato i punti di programma positivo, per il quale potrebbero collaborare i gruppi dell’Aventino (tranne i massimalisti e i repubblicani, i quali hanno naturalmente delle pregiudiziali contro la costituzione) ed altri gruppi democratici, in un periodo posteriore. Di qui la importanza del manifesto, che, come riferiscono i giornali, a Roma e fuori nei circoli che lo poterono leggere, esso dovette suscitare. |
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| 41921-1925
| La pubblicazione integrale del manifesto del Partito popolare è stata, come i lettori sanno, proibita . Qualche giornale, che ignorando la proibizione, l’ha pubblicato, è incorso nel sequestro. Ci dobbiamo quindi limitare a riprodurre il sunto addomesticato, diramato dalla Stefani e impunemente comparso oramai nei maggiori giornali. Il manifesto del Partito popolare, dopo avere ricordato che di questi giorni, 6 anni or sono, il Partito popolare lanciando il suo primo appello al paese assumeva a sua insegna lo storico motto Libertas, rileva che le libertà nazionali, salvate e consacrate dal sacrificio della gioventù italiana nei sicuri confini della patria e presidiate dagli istituti costituzionali, dovevano essere integrate dalle autonomie locali, dal riconoscimento delle libertà sindacali e cooperativistiche e con la inserzione delle forze del lavoro nell’organamento dello Stato e con lo sviluppo di una previdente e ordinata legislazione sociale. La libertà che noi invocavamo sei anni or sono – continua il manifesto – come ragione di progresso per una più alta ascesa della vita nazionale, si affaccia oggi come ragione pregiudiziale di vita, come difesa di quelle stesse garanzie statutarie e di quegli stessi ordini naturali che sono il presupposto fondamentale necessario del sistema rappresentativo e di ogni convivenza civile. Il Partito popolare, che è un organismo politico ed ha caratteristiche democratiche, ed è sorto per agire sul terreno della costituzione e della libertà, non può disertare questa battaglia, né alcuna concessione parziale al suo programma potrebbe farlo deflettere quando sia elargita dalla dittatura e inquadrata in un sistema di violenze. Si illuda chi vuole: ma i popolari sanno che l’idea, lo spirito, le finalità della democrazia cristiana non si diffondono, non si realizzano che sul terreno del diritto comune e delle comuni libertà. Solo vincendo la battaglia odierna, che per necessità di vita unisce uomini e partiti di diverso pensiero etico e sociale, potranno essere vinte le battaglie del domani, per quei principii che sono patrimonio della nostra coscienza e costituiscono le rivendicazioni fondamentali per l’avvenire cristiano della patria nostra. E se è vero che il progredire del nostro paese è raccomandato alla salvezza e alla continuità delle sue tradizioni costituzionali e democratiche, le quali non possono essere stabilmente garantite se non da una più larga e concorde adesione di partiti che accettino la concezione e il metodo della democrazia, l’azione comune di difesa necessaria e urgente si concreta oggi nei confronti della politica dittatoriale del governo e del fascismo in queste rivendicazioni pregiudiziali: Ristabilire nello spirito e nella forma la costituzione, che rappresenta il patto solenne tra re e popolo, abolendo ogni milizia di parte, ripristinando tutte le libertà politiche e sindacali, particolarmente quelle di stampa, di riunione e di associazione, delle quali tutte – secondo lo Statuto – è garante la monarchia costituzionale. Ridonare efficienza e valore al sistema rappresentativo, assicurando la piena funzionalità del parlamento con l’abbandono dei pieni poteri formalmente richiesti e effettivamente esercitati per mezzo dei decreti-legge; la sincerità e la giustizia della consultazione elettorale, con l’assoluta garanzia di una atmosfera di libertà, affinché l’astensione non diventi una espressione collettiva di protesta e di condanna con un pericoloso distacco del paese dalle sue istituzioni. Rinvigorire la fiducia della coscienza pubblica nella magistratura, eliminando ogni illecita ingerenza nel corso della giustizia, la quale deve essere sottratta ad ogni influenza di governo e di parte con l’autonomia del suo ordinamento, e svolgere [azione] di tutela del diritto e di accertamento delle responsabilità in confronto di tutti i cittadini, qualunque sia il posto che occupino e il partito in cui militino. Garantire la giustizia nella amministrazione al di sopra dei partiti per tutti e verso tutti; rendendo impossibili gli arbitrii commessi con mentito richiamo alla legge comunale ed a quella di pubblica sicurezza e in genere della nostra polizia preventiva, decentrando il funzionamento dei poteri attraverso l’autonomia degli enti locali, assicurando la indipendenza dei funzionari. Invocando, per la difesa di questo programma immediato di rivendicazioni costituzionali e democratiche, il concorso degli amici e dei simpatizzanti, il Partito popolare sa di combattere ancora sotto la propria bandiera e per creare le condizioni nelle quali sia possibile propugnare e realizzare il suo programma integrale; ma sa però anche di potersi trovare sullo stesso terreno di quanti – uomini e partiti – cercano la libertà nel presidio della legge e degli ordinamenti democratici poiché intorno a questo programma si polarizzano le irresistibili speranze del popolo italiano verso l’orme più sicure di convivenza sociale. L’esperimento di questo tormentato periodo della vita nazionale non è certamente trascorso invano, né per le classi politiche dirigenti né per le masse operaie. Esso ha insegnato quale valore abbia la legge ed ha ammonito quale rispetto dagli uomini e dai partiti le sia sempre dovuto. Non si può chiedere libertà per abusarne; non si possono reclamare gli ordinamenti democratici per rinnegarli poi con le sopraffazioni di parte e con il ricorso a nuove illegalità e violenze. È matura ormai la convinzione che chi invocasse oggi la fine dell’attuale pressione, pensando che possano venir tollerati domani nuovi turbamenti della vita nazionale, con le sedizioni, con la esasperazione artificiosa delle lotte economiche, con gli scioperi nei pubblici servizi, tradirebbe la causa stessa della libertà e darebbe ragione di combattere a chi si ostina a contrastarla sotto il pretesto della produttività e dell’ordine sociale. Il Partito popolare è consapevole che alle rivendicazioni odierne rispondono non lievi responsabilità ricostruttive per l’avvenire e sicuramente ritiene che tale coscienza sia ormai chiara e salda in tutti i partiti democratici. Altri periodi vi furono nei quali il nostro proposito di collaborare a un arduo sforzo di ricostruzione finanziaria e sociale ebbe ad urtare contro diversivi di rivendicazioni particolaristiche che intaccavano l’integrità della famiglia e ostacolavano la libertà della scuola. Ma noi oggi abbiamo la convinzione, che senza pregiudizio di questi ed altri problemi, i quali non toccano le ragioni comuni della lotta attuale, l’auspicata unità di azione non verrà infranta nello sforzo anche più arduo che a tutte le correnti democratiche è richiesto per riconquistare la maggiorità politica al popolo italiano. Per questo noi siamo al nostro posto di lotta e di sacrificio. |
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| 41921-1925
| Travasando da un giornale all’altro, omettendo tutto quello che fu censurato, riferendo solo quello che ha passato il vaglio più rigoroso, attenendoci, ove riproduciamo parole precise, al testo diramato dall’ufficiosa Stefani e riprodotto in tutti i giornali, tenteremo di dare ai nostri lettori un’idea di quello che era il manifesto del partito popolare. In una prima parte il manifesto, diretto ai popolari, ricordava il nostro programma del ’19, per quanto si riferisce al criterio di libertà. Allora ci si preoccupava dello sviluppo delle libertà organiche, cioè della capacità di movimento e di vita dei comuni, delle provincie, dei sindacati operai, della scuola, della Chiesa, in confronto dello Stato accentratore e monopolista. Ora per le condizioni politiche sopravvenute bisogna preoccuparsi della libertà «come ragione pregiudiziale di vita e come difesa delle garanzie statutarie». Per questo il partito popolare non può né vuole disertare la presente battaglia. Esso ritiene quindi che i partiti i quali oltre combattere il fascismo, possono logicamente prendere impegni ricostruttivi per l’avvenire, debbano unirsi per rivendicare le seguenti pregiudiziali (Ag. Stefani): «Ristabilire nello spirito e nella forma la Costituzione che rappresenta il patto solenne fra Re e popolo, abolendo ogni milizia di parte, ripristinando tutte le libertà politiche e sindacali, particolarmente quelle di stampa, di riunione e di associazione; ridonare efficienza e valore al sistema rappresentativo, assicurando la piena funzionalità al Parlamento con l’abolire i pieni poteri formalmente richiesti ed effettivamente esercitati per mezzo dei decreti legge; sincerità e giustizia nelle consultazioni elettorali con assoluta garanzia di un’atmosfera di libertà; rinvigorire la fiducia della coscienza pubblica nella magistratura, la quale deve svolgere in piena libertà la sua alta funzione di tutela del diritto e dell’accertamento delle responsabilità in confronto di tutti i cittadini; garantire la giustizia dell’amministrazione al di sopra di tutti i partiti, per tutti e verso tutti, rendendo impossibile gli arbitrii, decentrando le funzioni e i poteri attraverso l’autonomia degli enti locali, assicurando l’indipendenza dei funzionari». A tali rivendicazioni corrispondono naturalmente per i partiti che le propugnano anche degli obblighi positivi che la Stefani sunteggia così: «invocando per questo programma immediato di rivendicazione costituzionale e democratica, il concorso degli amici e simpatizzanti, il partito popolare sa di combattere anche a difesa della propria bandiera, per crearle condizioni nelle quali sia possibile propugnare e realizzare il suo programma integrale. Sa però anche di trovarsi sullo stesso terreno di quanti uomini e partiti cercano la libertà nel presidio delle leggi e dell’ordinamento democratico. Le classi politiche dirigenti e le classi operaie, in questo periodo di vita nazionale, hanno imparato quale valore abbia la libertà e quale rispetto sia sempre dovuto agli uomini ed ai partiti, e maturata ormai la convinzione che chi invocasse oggi la fine dell’attuale pressione, pensando che possano venir tollerati domani nuovi turbamenti della vita nazionale con sedizioni, con esasperazioni artificiali della lotta economica, con scioperi dei pubblici servizi, tradirebbe la causa stessa della libertà». Il manifesto chiude infine rilevando che naturale premessa di una tale intesa dovrebbe essere la rinunzia a turbare l’accordo con iniziative di carattere anticlericale, quale fu sotto il Ministero Giolitti il tentativo di introdurre il divorzio o la manovra alla quale parteciparono anche i democratici di allora per far cadere nella commissione il progetto Croce sulla scuola. Così dice il comunicato Stefani: «Il partito popolare è consapevole che alle rivendicazioni odierne corrispondono non lievi responsabilità ricostruttive per l’avvenire e sicuramente ritiene che tale coscienza sia ormai salda in tutti i partiti di democrazia. Altri periodi vi furono nei quali il nostro proposito di collaborazione in ardue ricostruzioni finanziarie e sociali ebbe ad urtare contro diversivi di rivendicazioni particolaristiche che intaccavano l’integrità della famiglia, ostacolavano la libertà della scuola: ma noi siamo oggi convinti che, senza pregiudizio di questi e di altri problemi, i quali non toccano la ragione comune della lotta attuale, non verrà infranto lo sforzo ancora più arduo che da tutte le correnti democratiche è richiesto per conquistare la libertà politica al popolo italiano. Per questo noi siamo al nostro posto di lotta e di sacrificio». Il manifesto ha suscitato molti commenti, ma la discussione, come abbiamo già rilevato, diventa oscura ed incerta, non potendosi farla sul testo del documento popolare. Cerchiamo di riassumere le conclusioni, come balzano dalle dichiarazioni ufficiali. Non è vero che il manifesto significhi o preluda lo sbloccamento dell’Aventino. L’accordo difensivo contro il governo attuale rimane per le ragioni formulate nel manifesto del 27 giugno e del 13 novembre e vi partecipano tutte le minoranze aventiniane . Nessun fatto nuovo in riguardo. Ma bisogna pur dire al paese che esiste anche per alcuni partiti dell’Aventino una linea d’intesa positiva di azione legislativa e amministrativa che può valere anche per il dopo-fascismo: è questa la linea democratica, sulla quale massimalisti e repubblicani sollevano delle riserve, perché entrambi fanno valere delle pregiudiziali di carattere istituzionale; ad esempio quella monarchica. Anche in materia sociale, mentre gli unitari sono disposti a eliminare – salve formole di arbitrato da introdursi – lo sciopero nei pubblici servizi, i massimalisti non assumono impegni di sorta. Non si tratta quindi di sbloccare l’Aventino e di separare i gruppi che ne fanno parte; si tratta di distinguere entro la mantenuta solidarietà dei gruppi fra quelli che sono d’accordo solo in senso antifascista ed altri che oltre a ciò possono e vogliono appoggiare un governo di ricostruzione democratica. La cosa rappresenta una novità solo per le frazioni socialiste ed è fra loro che potrà condurre ad un chiarimento. In quanto all’opposizione dell’aula, nessun cenno particolare la riguarda. Non è però naturalmente nemmeno escluso che gruppi di sinistra liberali trovino in un tempo più o meno prossimo di poter aderire alla linea democratica, più sopra indicata. Ma la discesa dall’Aventino non c’entra. Con maggior logica si potrebbe chiedersi se non sarebbe coerente l’attendersi una nuova ascesa. Infine si è cercato di mettere in relazione coll’atteggiamento dei popolari l’uscita di Miglioli dal partito. Giuoco di fantasia! Miglioli venne deferito al Consiglio nazionale un mese fa per una sua intervista pubblicata dal giornale comunista il 12 dicembre 1924; e le ragioni del biasimo furono esplicitamente dette nel comunicato del Consiglio nazionale . Miglioli vi esprimeva idee che si approssimavano assai a quelle che i comunisti professano in materia, e ciò in aperta contraddizione colla confederazione del lavoro e col partito unitario. Oltre a ciò le idee ivi espresse urtavano talmente colla concezione cristiano-sociale del movimento operaio, che non rilevarle e non trarne le conseguenze, sarebbe stato deplorevole equivoco. Qui non c’entra né la sinistra, né la destra, né è questione di tattica o strategia politica; è questione d’idee cristiano-sociali o meno. Il significato contingente che Miglioli stesso cerca di dare alla sua questione personale è completamente arbitrario. |
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| 41921-1925
| Abbiamo letto nella Revue belge un magnifico articolo del card. Dubois , arcivescovo di Parigi. Vi si sente la preoccupazione per il momento attuale della politica francese; ma più forte è la speranza nell’avvenire. La speranza si fonda sul mirabile progresso religioso che dopo la guerra si va compiendo nelle classi intellettuali francesi. Grazie all’università di Lovanio, dice l’eminente prelato, la politica belga ha attuata la sua evoluzione verso le libertà religiose; grazie al nuovo spirito delle classi intellettuali francesi, continua il Dubois, la politica francese abbandonerà definitivamente l’anticlericalismo. È la verità; ma chi non vede che è solo una parte della verità? La efficacia del pensiero degli intellettuali sulla politica attiva dipende senza dubbio in prima linea dalla intensità e dalla sincerità con cui questo pensiero viene professato; e il fermento religioso rimane senza dubbio il lievito indispensabile di ogni progresso politico. Ma la idea per vincere sul terreno delle realizzazioni ha bisogno di strumenti adeguati. Ora nel campo politico di uno Stato moderno fondato sul sistema rappresentativo e il suffragio universale, lo strumento è il partito, l’organizzazione cioè delle masse elettorali. Partito! Quando si pronuncia questa parola, gli intellettuali arricciano il naso e di fronte a codesta immagine plebea del demos organizzato, convocato nei comizi, chiamato a deliberare colla forza del numero, sono tentati di rinchiudersi in una ritrosia aristocratica e rinunciataria. Avviene spesso così che l’idea rinunzi alla sua funzione, o si fermi a mezzo, in mancanza dello strumento di trasmissione. Bisogna inquadrare le masse, organizzarle socialmente e politicamente: è solo in tale organismo che la leva delle idee può funzionare con efficacia. Ma ecco che ammessa la necessità del partito, non si sfugge più alla logica di altre conseguenze. Un partito non si crea, non si regge, non funziona senza un programma politico ben definito. Il partito non può essere agnostico nelle questioni politiche. Non si può, per esempio, dire ch’esso non è né monarchico, né repubblicano e che accoglie, sotto la comune bandiera religiosa, tanto chi accetta la repubblica come chi tende alla restaurazione monarchica. Parliamo, s’intende, della Francia; ma vi sono delle facili analogie per altri paesi. In una data fase storica un partito, cementato dalla idea religiosa, potrà essere conservatore, in un’altra situazione dovrà essere democratico, ma certamente dovrà essere o l’uno o l’altro, se non vuol vedersi paralizzato in ogni sua pratica attività. Così, di fronte ad un dato governo, il partito dovrà decidersi a combatterlo o ad appoggiarlo a seconda del suo atteggiamento politico, e non può limitarsi a sfruttare qualche contingenza favorevole magari di carattere religioso, mantenendosi neutrale su tutto il resto. Una siffatta neutralità non esiste per un partito, giacché essa significa abdicazione dalle proprie funzioni e quindi la paralisi o equivale alla complicità e al favoreggiamento. Facciamo, ad esempio, un paragone. Un parroco, come parroco, può benissimo essere soddisfatto di un dato sindaco, il quale dà buon esempio nelle pratiche religiose ed aiuta la Chiesa; ma quando il parroco agisce come cittadino ed è chiamato a giudicare dell’amministrazione in genere, sia esponendo il proprio pensiero, sia votando, allora il suo giudizio deve investire tutto l’indirizzo amministrativo del sindaco. Se poi questo parroco, riunito con altri cittadini, deve deliberare sull’attività del sindaco ed è dimostrato che essa è dannosa al bene comune, allora il lato, diremmo così, religioso, non può più essere determinativo, ma determinativo è il giudizio complessivo della attività sindicale in rapporto al bene comune, affidato alle sue mansioni. Se ciò vale per un parroco, come non ha da valere per i cattolici in genere? Il parroco non calza appieno, obietterà qualcuno; e per la verità ce ne siamo accorti pur noi. Ma in questi tempi difficili, tanto basta per intenderci e per arrivare alla conclusione che segue. O i cattolici si astengono da ogni azione politica, e allora non formano partiti (non diciamo: un partito) e si riservano di giudicare i governi solo per quella centesima parte della loro multiforme attività che tocca il terreno ecclesiastico-religioso, e sta bene: in tal caso però non parliamo d’ispirazione cristiana della vita pubblica in genere. Ma se i cattolici devono promuovere quella che Leone XIII chiama costituzione cristiana degli Stati, se debbono influire perché i criteri morali del cristianesimo presiedano al governo e alla amministrazione della cosa pubblica, allora devono agire sul terreno politico, e per agire devono inquadrarsi in partiti, parlare, e votare! Ma se agiscono inquadrati in partiti, muovendosi sullo scacchiere dello Stato moderno, possono essi disinteressarsi delle condizioni ambientali in cui agiscono, possono disinteressarsi della libertà di riunione, di associazione, di stampa e, prima ancora che delle libertà politiche, delle libertà civili, dell’Habeas corpus? No, non lo possono, ma devono accettarle e difenderle, e sono democratici, o reprimerle o lasciarle reprimere, e sono reazionari. Parliamo, evidentemente della Francia. Che se dovessimo riferirci all’Italia, senza volerlo, finiremmo collo scivolare nella discussione intorno ad un certo manifesto , pubblicato con esclusione della pubblicità e riservato a quei popolari del dopofascismo che, in tempi più leggiadri, potranno dedicarsi alla paleontologia! Ma noi non scivoleremo, e quindi punto e daccapo! |
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| 41921-1925
| Il quotidiano fascista finge di polemizzare con noi. Ma la finta è troppo banale e trasparente. A polemizzare bisogna essere in due: noi non polemizziamo, non facciamo nemmeno il tentativo di polemizzare, perché sappiamo benissimo che se accennassimo a ribattere sul serio, invece del Brennero ci troveremmo di fronte la Questura. E a noi gli argomenti del «funzionario delegato dal prefetto», che domenica ci infliggeva il IX sequestro per aver riportato dal Sereno un trafiletto sulla riforma Di Giorgio , incutono grande rispetto. Questi «argomenti» infatti, ci hanno recato un danno di migliaia e migliaia di lire; e sono in ogni caso definitivi, perché a noi non è lecito valutarne la fondatezza e la equità, se non nel segreto della nostra coscienza e nella intimità degli amici, e non ci è possibile ripararne le tangibili conseguenze con un ricorso al fondo dei rettili. I giornalisti del governo possono andar lieti di questa situazione e ci può essere altra gente, in alto e in basso, che condivide tale letizia: noi invece sentiamo l’immenso orgoglio di non trovarci dalla loro parte e rimettiamo tranquillamente la resa dei conti a quando si dovranno tirare le somme. Detto questo, ci saranno forse permesse alcune domande: Voi che c’insultate chiamandoci «ingordi cani da pagliaio», «ostinati, egoisti, sfruttatori» del nostro paese, siete in grado di garantirci che non incorreremo negli estremi di cui all’art. 2 al R. D. legge 15 luglio 1923, n. 3288, se vi rispondessimo a tono, come sapete di meritare e come pensa meritiate la maggioranza di coloro che hanno occhi per vedere e cervello per ragionare? E potreste proteggerci voi con qualche salvacondotto di famiglia dal sullodato decreto-legge, quando ci mettessimo ad investigare su certe vostre affermazioni, come per es. questa: «Taluni annosi problemi che i padreterni fuoriusciti non avranno mai risolto, sono risolti?» oh, Dio! quali per esempio? La rettifica della Valsugana, per la quale nel bilancio del ’22, erano iscritti 60 milioni? Le bonifiche del Brenta o dell’Adige per cui erano preventivate le prime poste? Il risanamento dei bilanci comunali? Ricostruzione di una amministrazione normale alla provincia? Il pagamento delle cosiddette requisizioni? La definizione del cambio tardivo ecc. ecc.? E circa l’Alto Adige vi pare davvero di aver risolto il problema? Bisognerebbe riderne, se presto o tardi, non ci toccasse piangerne tutti! Quei due risultati però della vostra politica che non si prestano assolutamente a nessuna critica a scanso di incorrere negli estremi del decreto n. 3288 sono i seguenti: «L’autorità ha una linea ed una dignità». «E gli arnesi di dubbia posta son buttati fuori». Di fronte a queste due apodittiche affermazioni non c’è che inchinarsi o tacere. Qua bisogna resistere perfino alla tentazione di fare delle domande. Perché, come potremo noi domandare spiegazioni sugli arnesi di dubbia posta e sovratutto chiedere dilucidazioni su quella tal linea e quella tal dignità? Sarebbe come mettere in dubbio che la linea esista o che non sia chiara e visibile e che la dignità non sia al di fuori di ogni contestazione. Ma allora salterebbe fuori il 3288 a dimostrarci con argomenti ad personam che, almeno rispetto a noi che abbiamo il torto di rappresentare ancora la maggioranza del Trentino, una linea esiste e viene rigidamente mantenuta. – Grazie tante, non occorre, ce ne eravamo accorti, ed è per mantenere la nostra linea e la nostra dignità che preferiamo rinchiuderci nella torre della nostra resistenza morale, che per il continuo aumentare degli inquilini va diventando sempre più angusta, ma anche sempre più inespugnabile. |
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| 41921-1925
| Del governo e del fascismo non si può parlare che per dirne bene. È logico quindi che, per non mentire, non ne parliamo. In luogo di dirlo, limitiamoci a pensarlo. Ecco: cinque minuti di silenzio in muta comprensione fra noi e i lettori. Uno, due, tre, quattro, cinque: fatto? Ora che siamo intesi, possiamo passare ad altro. Discorriamo per esempio dell’Aventino. L’argomento è di grande attualità, perché ne parlano tutti: i fascisti per dirne male, gli oppositori per poter colmare i vuoti che l’interrotta tradizione di sparlare del governo ha lasciato nelle colonne dei giornali. Dicono dunque i governativi che la opposizione è sfiancata, immobilizzata, annientata, che l’Aventino è finito, morto e sepolto. Difatti, che faceva prima l’Aventino, quand’era vivo? Degli ordini del giorno e dei manifesti. Ebbene oggi non li fa più o, se li fa, diventano dei documenti riservati ad un circolo melanconico di amici silenziosi. La cosa sembrerebbe conclusiva. Invece come va che da quindici giorni non si parla che di questo morto, e continuamente si formulano dei pronostici su questo cadavere? Ma codesto è un morto che cammina! Peggio, è un morto che fa camminare! Innegabilmente anche l’Aventino, come tutte le cose di quaggiù, procede ogni giorno verso il suo termine mortale. Ogni giorno si fa un passo verso la tomba. Ma questo è un morto che vuole buona compagnia. L’Aventino muore, se non oggi, domani, ma con lui muore Montecitorio e l’opposizione trascina con sé nell’avello anche la maggioranza plebiscitaria di 4 milioni di voti, quella dama a cui gli aruspici fascisti avevano profetizzata una vita così brillante, così tranquilla, così lunga! In verità non sappiamo ancora quando scoccherà l’ora fatale; ma già i necrofori sono all’opera. I prefetti sono stati chiamati, alla spicciolata s’intende, «ad limina» per dare un esame in geometria elettorale. Il quesito era: come si debbono disegnare le circoscrizioni, perché superando ogni obiezione topografica, linguistica ed economica, si giunga al risultato di garantire il collegio al candidato del governo? Non siamo naturalmente esattissimamente informati sull’esito del concorso; ma un portiere del Viminale ci dava per certo che un premio distinto verrà decretato a quel prefetto delle N. Provincie che per tale bisogna saprà sfruttare convenientemente il materiale degli archivi del cessato regime. Onde, nel rischio che la notizia sia vera, ci permettiamo di ricordare al nostro illustre prefetto che la cosa potrebbe riguardarlo di persona, giacché sul modo di congiungere l’alta valle dell’Avisio, a traverso il Catinaccio, con Bolzano, la luogotenenza di Innsbruck aveva raccolto del prezioso materiale che, purtroppo, non poté venire utilizzato per l’opposizione ostinata dei trentini, i quali si richiamavano a non sappiamo quali regole di opportunità e di affinità che forse oggi non sono del tutto superate . Ma, non lasciamoci trascinare sul terreno accidentato, e torniamo a parlare dell’Aventino. Dicevamo dunque ch’esso è un morto che cammina e, camminando, trascina i presunti vivi in compagnia. Sovratutto è un morto che fa parlare in modo impressionante. Tutti se ne occupano, magari per dichiarare di trascurarlo, ma, in questo modo, lo si trascura tutti i giorni. Onde vien fatto di pensare: l’atto gravissimo della secessione parlamentare si è davvero esaurito senza effetti tangibili sulla vita politica italiana, o non bisogna attribuire a esso una serie di movimenti tattici del governo, per controbatterlo? È proprio vero che la riforma elettorale sarebbe dovuta alla «geniale temerità» dell’on. Mussolini, com’ebbe a dichiarare in Senato, molto senilmente, un cert’aulico marchese? Queste sono domande. Le risposte se le facciano i lettori, che non hanno bisogno di stamparle. La secessione parlamentare è una tattica eccezionale, alla quale può indurre una situazione del tutto eccezionale. Sarà opportuno continuarla domani? Allo stato degli atti, crediamo di sì: tuttavia ammettiamo che anche per gli oppositori questa è materia opinabile e contingente. Può darsi che circostanze nuove richiedano metodi nuovi, ed è ciò che si vedrà fra poco. Ma è voler cozzare contro la realtà storica l’affermare che l’Aventino non fu fino ad oggi un agente efficacissimo sul corso della nostra politica. E qui converrebbe dimostrare «quale» agente fosse e come agisse; ma per riuscire convincenti, ci toccherebbe dir male del governo e quindi turbare l’ordine pubblico: ciò che è decisamente contro i nostri propositi. I cosiddetti uomini d’ordine però che si trovano fra i nostri critici, si sono mai domandati che cosa sarebbe accaduto, se le opposizioni, dopo i fatti di giugno, avessero svolta una loro azione nell’aula? In che cosa sarebbe dovuta consistere la tattica risolutiva e non negativa, che i facili critici avrebbero voluta consigliare? Leggiamo nel Roma di Napoli un articolo che risponde a questa domanda e che riproduciamo per due ragioni: l’una che non è sequestrato, la seconda che in via di massima ci trova d’accordo. Risponde dunque il Roma: «Nel tramutare il Parlamento italiano in una assemblea messicana a base di rivoltelle in pugno? Nel gettare conseguentemente il paese nello scompiglio e nell’agitazione, tesa sino allo spasimo frenetico? Nel suscitare, alimentando il cozzo delle passioni e delle fazioni, dalla tribuna parlamentare la guerra e la guerriglia civile in ogni borgo della penisola? E le opposizioni, il cui atteggiamento è qualificato oggi negativo, non si sarebbero a loro volta assunta una ben grave responsabilità per la rovina che ne sarebbe derivata al paese vittorioso e laborioso? L’Italia deve molto all’Aventino. Quando un giorno potrà farsi la critica davvero serena del periodo che attraversiamo, si vedrà e si documenterà che molti guai sono stati risparmiati alla patria dal cosidetto atteggiamento negativo delle opposizioni. Si assoderà allora che tra siffatti atteggiamenti ed un intervento nell’aula parlamentare di ben dubbia efficienza pratica, non c’era modo di scelta, anche dal punto di vista di frapporre un baluardo ideale al prevalere di intemperanze le quali, in maniera diversa, non si sa quali proporzioni imprevedute avrebbero potuto prendere. Questo baluardo era ed è rappresentato dalla necessità spirituale e materiale di non frapporre violenza a violenza, urto a urto, illegalismo a illegalismo». |
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| Il congresso regionale del P. P. I. di domenica scorsa ha segnato una bella pagina di attività e di vita, sia per l’intervento numeroso dei delegati, sia per il lavoro compiuto. Esso si è svolto tra il vivo interesse dei partecipanti ed ha cementata quell’unione di spiriti che mai si era affievolita, ma che rafforzata nei silenzi di duro travaglio, ha espresso nell’imponente assemblea la sua pienezza. Sono intervenuti delegati e fiduciari da tutto il Trentino, anche dalle plaghe più lontane e disagiate, da Vermiglio a Condino, da Primiero alla Valle di Ledro, da Predazzo a Fondo. Il Congresso ha avuto scatti di entusiasmo all’apparire dell’on. Degasperi, che ha presieduto, e di commozione all’accenno fatto dal dott. Savorana, nella sua relazione alla indegna campagna di cui l’on. Degasperi stesso è stato oggetto da parte della stampa fascista. Non vi è stata nella discussione una vera e propria lotta di tendenze, quella per l’astensione in caso di elezioni politiche non ha avuto di voti favorevoli che quello del proponente. L’on. Degasperi ha tenuto un elevato e chiaro discorso sulla situazione generale nel quale ha dimostrato la logicità della tattica aventiniana. Le sue parole sono scese su terreno fecondo animando e incitando a proseguire per il trionfo della democrazia cristiana. La relazione Savorana sulla situazione politica locale è stata una diagnosi e al tempo stesso una documentazione dei sistemi instaurati dall’«Era Nuova», nonché una critica stringente degli stessi. Le relazioni Carbonari e Cassina hanno fatto il degno completamento economico del quadro politico della situazione. In tutti una impressione sola è rimasta, quella cioè che il partito è vivo e vitale e che l’idea che esso propugna è oggi più che mai sentita e praticata. In una parola il Congresso ha rivissuta l’anima trentina incompresa e calunniata e l’ha pervasa della idea democratico-cristiana, che da un trentennio coltivata e accresciuta ha saputo e sa resistere alla tempesta avversaria e batte, sia pure tra difficoltà e sacrificio, la sua via dritta e sicura. Gli intervenuti Alle ore 9, i delegati cominciano ad affluire. Il tempo non è stato propizio, ma non ha impedito il largo intervento. Calcoliamo circa duecento e più delegati ed amici. Sono presenti fra gli altri l’on. Degasperi in rappresentanza anche della Direzione centrale del partito e l’on. Carbonari. Avevano aderito l’on. Romani, il D.r Monti, il D.r Piccinini Luigi, ed altri numerosi amici. La Direzione regionale è quasi al completo. Diamo l’elenco delle Sezioni rappresentate: Ala, Avio, Arco, Albiano, Brione, Borgo, Castellano, Calliano, Condino, Cembra, Calceranica, Centa, Celedizzo, Cles, Canezza, Cavedine, Flavon, Fondo, Gardolo, Lavis, Levico, Mori, Mezocorona, Matarello, Mala, Meano, Mezzana, Mezolombardo, Nomi, Pederzano, Primiero, Pressano, Predazzo, Pinzolo, Pergine, Rovereto, Riva, Ravina, Revò, Roverè della Luna, Ronzo Chienis, Sopramonte, S. Michele, S. Giovanni di Fassa, Strigno, Spormaggiore, S. Orsola, S. Massenza, Terragnolo, Tassullo, Trento, Tione, Telve di Sotto, Verla, Vermiglio, Valsorda, Valle di Ledro, Vezzano. Il segretario provinciale f.f. dottor Savorana propone alla presidenza l’on. Degasperi. L’assemblea scoppia in un lungo applauso. L’on. Degasperi, pronuncia brevi parole di ringraziamento, porta il saluto della Direzione centrale, riservandosi più tardi di parlare sulla situazione generale politica e cede la parola al dott. Savorana. Relazione politica L’ultimo Congresso, dice il dott. Savorana, ebbe luogo due anni or sono, il 25 febbraio 1923. Ricordo che la relazione politica di quella assemblea si chiudeva facendo voti per il mantenimento della proporzionale politica e per la introduzione di quella amministrativa e per l’avviamento rapido e deciso verso il decentramento amministrativo. Questi nostri voti, che a Torino dovevano essere sostenuti ed affermati in quel memorabile congresso nazionale del nostro partito, andarono poi infranti dalla politica fascista, che ci ha portati oggi al collegio uninominale e all’accentramento burocratico della vita degli enti locali, come risultò in modo chiaro e lampante dall’adunanza tenuta a Trento il 22 febbraio scorso, per costituire una così detta Federazione provinciale fascista di enti autarchici. In questi due anni abbiamo assistito ad avvenimenti gravi, abbiamo fronteggiate situazioni difficili e alle volte violente, abbiamo patite amare e profonde ingiustizie, ma in piedi siamo rimasti e in piedi rimaniamo. La nostra battaglia continua, la nostra coscienza è più forte e più temprata. Pochi furono coloro che disertarono le nostre file, per ingrossare quelle degli innovatori, e questi pochi ebbero scarsa fortuna. Il Partito rimase pressoché intatto e i suoi uomini continuarono il loro arduo ed aspro cammino fidenti nella bontà della causa della libertà e della giustizia. Oggi ci ritroviamo e riandiamo insieme questi due anni di fatiche e di lotte, questi due anni che sono stati apparentemente d’inazione, ma che invece hanno servito a farci migliori, ad apprezzare meglio la nobiltà della causa abbracciata e a portare sempre più alta la bandiera della democrazia cristiana. (Applausi). L’offensiva contro i Comuni Quindi il relatore si sofferma sulla offensiva contro i Comuni trentini, determinatasi e svoltasi dopo il Congresso di Torino, che provvidenzialmente segnò l’uscita dei popolari dal Governo Mussolini. Dice che la tattica avversaria prese di mira i Comuni più grossi, quelli delle città e delle borgate. Il Partito però aveva date direttive in queste contingenze. Dimettersi no, a nessun costo. E queste direttive furono nella gran maggioranza di casi seguite. E qui il dott. Savorana si diffonde sui casi più specifici e salienti, rilevando specialmente come gli amici nostri che reggevano o partecipavano a pubblici consessi, avessero sempre tenuto il mandato conferito loro con correttezza e onestà e mai avessero fatta politica nelle amministrazioni. Rileva quindi la defenestrazione della Giunta prov. straordinaria e l’arbitrario scioglimento del Consiglio di Amministrazione del Consorzio della Provincia e dei Comuni trentini. La lotta dell’aprile 1924 Passa quindi il relatore ad esaminare il contegno del partito, durante la lotta elettorale che ebbe il suo epilogo il 6 aprile 1924. Egli delimita i termini in cui questa lotta si dovette sostenere con questa espressione: libertà di propaganda ridotta ai minimi termini, quotidiana minaccia di rappresaglia. Si può dire che il partito popolare fu la testa di turco della ultima lotta elettorale. E qui l’oratore si sofferma a descrivere l’ambiente e la tattica usata dagli avversari. Cita episodi in proposito ed esclama che ciò nonostante il filo della schiena non ci si ruppe. Rileva in proposito i brillanti successi conseguiti nelle città e nelle borgate, segno questo di maturità politica. La campagna contro il paese e contro l’on. Degasperi Parla quindi della campagna di denigrazione fatta al Trentino e delle sue deleterie conseguenze. Osserva che i frutti amarissimi di tale campagna sono stati quelli dell’incomprensione e della svalutazione nazionale di un paese che aveva sofferto con fede il martirio di una guerra che lo aveva ricongiunto poi alla Madre Patria, che aveva eroicamente difesa la sua lingua e la sua tradizione cattolica e nazionale, che aveva avuto il suo Vescovo deportato e che aveva avuto degli eroi nelle file dell’Esercito liberatore e deputati che a Vienna seppero tener alta la fiamma dell’italianità. Anche questi uomini sono degli austriacanti, e qui alludo, o amici, all’on. Degasperi, (l’assemblea scatta in un lungo applauso al nostro segretario politico, al degno successore del Maestro Don Luigi Sturzo). La campagna di volgare calunnia inscenata dalla stampa fascista ad opera di rinnegati, non lo ha scalfito. L’onor. Degasperi è uscito ancor più puro e più alto nella nostra ammirazione e nella nostra devozione. Egli sa quanto lo amiamo e quanto ci abbia commosso nella solidarietà e nello slancio spontaneo della simpatia per lui questa vile campagna. Tutto il Trentino si è stretto intorno a lui e da tutte le valli è echeggiato un solo grido di protesta e di indignazione. Sulle colonne del Popolo, sono apparsi lunghi elenchi di modesti oblatori esprimenti con segno tangibile e coraggioso un sentimento di protesta e un attestato di fede mirabile. Il lavoro organizzativo Il dott. Savorana parla quindi della organizzazione delle Sezioni, del numero di tesserati che sono in continuo aumento, nonostante il maggior costo delle tessere. Insiste sulla importanza del tesseramento e caldeggia questa disciplina di fedeltà che dimostra maturità politica e coscienza della idea abbracciata. Rileva poi il contributo dato dalla Segreteria alla stampa per tener vivi importanti problemi locali. Accenna alle polemiche sostenute per l’autonomia comunale e per la integrale conservazione anche dei nostri piccoli comuni. Quindi continua: Abbiamo di mira le classi lavoratrici, i contadini e gli operai e cerchiamo nel ceto medio di far sempe più penetrare le nostre idee. Continuiamo nella propaganda sia a mezzo di conferenze, sia coll’avvicinare i nostri consenzienti, sia col diffondere la nostra stampa. Questo lavoro è certo complesso, ma tutti dobbiamo concorrere nei limiti delle nostre forze e delle nostre capacità ad effettuarlo o a sforzarci, perché ciò venga effettuato. Non è questa l’epoca di parlare di problemi particolari; questi verranno più tardi, quando la libertà ci consentirà di lavorare per risolverli. Manda quindi un saluto a tutti gli amici provati in dure vicende e conclude: Il partito popolare dopo il Congresso di Torino, si avviava per l’erta più aspra del suo cammino. Don Luigi Sturzo lo accompagnava con l’augurio che se in queste lotte noi fossimo stati battuti la sconfitta sarebbe stata nostra e non dell’idea, mentre il trionfo sarebbe stato non nostro, ma dell’idea. Questa immagine ritorna viva ancor oggi e questa immagine portiamola tutti scolpita nel cuore a testimonianza che tutti dal più alto al più umile siamo pervasi dallo stesso convincimento, di essere cioè strumenti disinteressati di una grande causa, democratica e cristiana di libertà, e di pace per il domani migliore della Patria. (Molti applausi). La discussione Aperta la discussione prende la parola il prof. Valerio Costa che presenta un ordine del giorno per incoraggiare nella tattica aventiniana e per l’astensione in caso di elezioni. Molignoni e Samuelli si dichiarano contrari all’astensione. Messo in votazione l’ordine del giorno Costa viene approvato all’unanimità nella prima parte e respinto ad unanimità meno il proponente nella seconda parte riflettente l’astensione. Per l’autonomia comunale Molignoni presenta, fra molti applausi il seguente ordine del giorno: «Il Congresso regionale del P. P. I. di Trento, non ostante tutte le dichiarazioni e pressioni contrarie, esprime nuovamente la sua inalterabile fede nelle autonomie provinciali e comunali, caposaldo del nostro programma di ricostruzione amministrativa; incoraggia il partito alla continuazione della lotta, fino alla vittoria per l’affermazione di questo postulato; plaude alla nostra stampa che sempre sostenne vigorosamente tale principio e rivolge un particolare e grato pensiero alle amministrazioni comunali e ai sindaci defenestrati per la loro coerente linea di condotta». L’on. Degasperi Prendendo spunto dall’ordine del giorno Costa, circa l’astensione, dopo aver fatta una acuta analisi della situazione politica generale e tracciata mirabilmente la linea di condotta del P. P. I., non conviene con l’astensione che sarebbe pericolosa e inconcludente. Ringrazia, fra grandi applausi, gli amici e compatrioti trentini per la solidarietà dimostratagli e per la fedeltà sempre mantenuta alla idea popolare. Esorta al lavoro e alla costanza e al sacrificio. L’assemblea segue con viva e commossa attenzione il forte e profondo discorso dell’on. Degasperi e prorompe in fine in una prolungata ovazione. Viene quindi messo in votazione l’ordine del giorno accettato dal relatore e proposto da Samuelli di Arco: «L’assemblea plaudendo alla azione svolta dalla Direzione regionale approva la relazione del segretario avv. Savorana e passa all’o.d.g.». È approvato all’unanimità. L’elezione della Direzione regionale Si passa quindi alla elezione della Direzione regionale che risulta così composta: Bonomi Domenico (Vezzano), rag. Severino Cassina (Riva), prof. Valerio Costa (Strigno), Giuseppe Conci (Mezocorona), Gojo Giulio (Levico), Valentino Finotti (Mori), dott. Don Giuseppe Lona (Cembra), prof. Annibale Molignoni (Val di Sole), dott. Giulio Savorana (Trento), Luigi Springhetti (Cles), dott. Valentino Toffol (Primiero), Alessandro Zamboni (Tione). Resta inteso che di diritto fanno parte della Direzione i parlamentari e gli ex deputati . |
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| 41921-1925
| Il socialismo italiano è diviso in tre frazioni: l’unitario, il massimalista, il comunista. Cogli unitari sono rimasti gl’intellettuali e i fondatori del partito, da Turati a Prampolini , a Labriola e i capi della Confederazione del lavoro da Buozzi ad Aragona e Baldesi; essi vanno assumendo gradatamente la posizione riformista e possibilista, nella quale si trova la maggioranza dei socialisti tedeschi e francesi, e nella pratica, abbandonando i sogni della rivoluzione di classe e della dittatura proletaria, accettano il metodo democratico, il sistema rappresentativo e la collaborazione colla parte più democratica della borghesia. Sono insomma, nonostante qualche apparenza dottrinale, dei veri e propri «riformisti». Di fronte a loro sta il gruppo comunista, che conta pochi intellettuali, ma si appoggia su qualche gruppo notevole di operai e si nutre del soccorso morale e materiale dell’internazionale bolscevica. Sono dei rivoluzionari fino all’ultima conseguenza, che tendono al colpo di mano e alla dittatura rossa, tipo Lenin. Aborrono da ogni contatto coi gruppi borghesi di qualsiasi specie ed affettano un sovrano disprezzo per i metodi democratici e per i sistemi parlamentari. Gli estremi si toccano e quindi non hanno sorpreso certe conformità spirituali dei fascisti coi comunisti. In mezzo a questi due gruppi antagonistici, stanno i massimalisti o il «partito socialista italiano», come si chiamano ufficialmente. Il gruppo non conta parlamentari insigni, ma comprende un’assai forte minoranza della Confederazione del lavoro e, quel che più vale, ha saputo metter le mani sopra la vecchia stampa socialista, l’«Avanti!» sovratutto, il quale è pur sempre il giornale più letto tra le masse operaie. Dottrinalmente, se si chiedesse loro che cosa li distingua dagli altri due gruppi, si sentirebbero le risposte più diverse. Verso destra arrivano a distinguersi con una certa facilità, perché si dichiarano antiriformisti; ma verso l’estrema sinistra, cioè in confronto dei comunisti, non c’è dottrina che possa distinguerli, perché nelle loro enunciazioni di principio si affermano rivoluzionari e marxisti puri come i seguaci di Lenin. La distinzione dovrebb’essere piuttosto nella disciplina, in quanto i massimalisti italiani non accettano il comando dei massimalisti russi. La realtà però è più forte delle teorie. I socialisti dell’«Avanti!» costretti dalla loro posizione intermedia a giuocare di continuo equilibrio per evitare da una parte l’assorbimento dei riformisti e dall’altra il passaggio del gruppo più radicale ai comunisti, vanno sviluppando in ogni convegno ed in ogni ordine del giorno una certa teoria di adattamento rifo-rivoluzionaria che è un impasto di contraddizioni. La verità è che i massimalisti non hanno una teoria unitaria. Sono due gruppi uniti per ragioni pratiche o di sentimento, ma gli uni sono dei riformisti, gli altri dei rivoluzionari, e quindi il partito in tempi di libero sviluppo è fatalmente destinato a scindersi in due tronconi che si ricongiungeranno, l’uno ai riformisti di Turati e l’altro ai comunisti di Bombacci. Questa situazione complessa spiega anche le oscillazioni tattiche del «partito socialista italiano». Domenica e lunedì i massimalisti erano riuniti a Milano in Consiglio nazionale. Erano chiamati a deliberare se rimanere o non rimanere sull’Aventino e quale linea seguire in caso di elezioni. Notate che il Consiglio nazionale era stato convocato come in appello di fronte al fatto che la direzione, deliberando su tali questioni, si era trovata divisa in tre parti. Ma anche il Consiglio nazionale non diede un risultato diverso. Quattordici mila voti ottenne una risoluzione che ammetteva possibili degli accordi elettorali coi gruppi aventiniani «per evitare la dispersione delle forze di opposizione», ma un ordine del giorno che respingeva ogni accordo ne raccolse più di 12 mila e un altro che voleva addirittura la coalizione coi comunisti ne raggiunse circa tremila. La maggioranza quindi dei delegati respinse il blocco delle opposizioni proposto da Turati; e la direzione del partito, il giorno dopo, rese autentica quest’interpretazione del voto del Consiglio nazionale. Prendiamone dunque atto: i massimalisti non vogliono l’accordo in caso di elezioni. Che cosa faranno? Si batteranno proprio da soli, riuscendo in molti casi a far riuscire i fascisti? Il segretario Oro Nobili ha spiegato nella relazione com’egli intenda l’intransigenza. Faremo, disse, come si fece, intransigentemente, nel 1913, quando all’«Avanti» stava B. Mussolini. I massimalisti presenteranno cioè – senza accordi – le loro candidature in un numero determinato di collegi, ove hanno la prospettiva di riuscire. Negli altri voteranno per i gruppi affini. La formula è niente, la pratica è tutto, conforme l’appetito. Quanti sono i collegi, nei quali i massimalisti possono contare sul successo? Oggi sono 21. Domani si presenteranno in 150? Non addentriamoci più oltre in questo calcolo poco simpatico e forse alquanto ingenuo, perché i fascisti meditano di prendersi, ad un modo o nell’altro, tutto loro; e poi anche perché – se l’astensione generale delle opposizioni fosse attuabile – noi non ci opporremmo all’astensione. Ma abbiamo accennato alle conclusioni di Milano, perché interessa fissare alcune cose. Primo che i massimalisti si dichiarano contrari ad accordi elettorali, anche per la sola ripartizione delle candidature. La pregiudiziale del partito impedisce loro simili contatti colla «borghesia», o meglio il loro disaccordo interno impedisce che facciano qualche cosa di positivo e li unisce solo nell’atteggiamento negativo. Essi non hanno quindi diritto nei loro giornali di attaccare altri gruppi, come i popolari, i quali vengono accusati di rompere la compagine delle opposizioni per ragioni del proprio programma ricostruttivo. I fatti invece hanno dato ragione all’ultimo Consiglio nazionale del partito popolare che prospettando la possibilità di ricavare dalla coalizione aventiniana un blocco democratico con programma ricostruttivo, prevedeva che contro simili accordi i massimalisti avrebbero fatte valere le pregiudiziali della loro dottrina rivoluzionaria. |
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| Mikròs scrive nell’«Unità Cattolica» una serie di articoli nei quali si parla di futuri blocchi elettorali, della loro possibilità e della loro liceità morale. Crediamo che una discussione giornalistica su tale argomento sia per ora fuori di luogo perché il blocco che preoccupa il Mikrós non è in vista e, per quanto ne sappiamo, non è nemmeno in preparazione; e più ancora per quest’altro motivo: che sulla tesi, cioè sulla questione di principio, sia di fronte al liberalismo, come al socialismo (forse anche al nazionalismo?) fra i politici cattolici non v’ha dissenso, mentre il disparere potrebbe manifestarsi all’atto pratico, circa l’«ipotesi», come direbbero i moralisti. Ora, per giudicare di questa, bisognerebbe vedere sotto quali caratteristiche, in quali termini concreti e in quali condizioni precise si presenterà. Tutta l’argomentazione di Mikrós sarebbe, ad esempio, in pericolo, se ad un elettore popolare la situazione di fatto imponesse di scegliere fra il candidato unitario e quello comunista. Comunque, per le ragioni suddette e anche perché una discussione che riguardasse sul serio l’altro polo della politica, cioè il fascismo, verrebbe troncata dalla censura, crediamo non sia ancora giunto il momento di approfondire questo dibattito. Ma un altro articolo di Mikrós richiama oggi la nostra attenzione. È un commento alle recenti dichiarazioni programmatiche dell’on. Basso e ai cenni revisionisti di Treves e Turati, alla vigilia del convegno socialista, chiuso ieri. Il pensiero dell’egregio direttore dell’«Unità Cattolica» è fedelmente riassunto, quando si dice che, secondo lui, si tratta del «cavallo di Troia socialista nello stato borghese». Nulla è sostanzialmente mutato, dice Mikrós, il socialismo italiano rimane quello che era: quindi «cave canem!». Le formole, è vero, sono mutate, ma sono formole per «addormentare i pavidi borghesi» e introdurre intanto di contrabbando le idee socialiste. Meglio non crederci e tenersi rigidamente e intransigentemente sulle difese. Ed ecco, a nostro modesto avviso, l’errore di visuale che è comune all’esimio confratello e a quanti la pensano come lui. La prima domanda che bisogna farsi è questa: le masse operaie che nell’antifascismo erano politicamente e sindacalmente organizzate dai socialisti, sono ancora oggi socialiste o si sono convertite al fascismo o all’antisocialismo? Noi crediamo di poter rispondere, dopo aver fatta una sommaria inchiesta, che le masse operaie dell’industria in quanto erano prima socialiste ed oggi ancora conservano qualche attività politica e sindacale, sono rimaste a tutt’oggi socialiste. Una deflazione notevole ha invece subito il socialismo nelle masse contadine, in quanto in buona parte di esse il socialismo non si presentò che come un fenomeno della inflazione postbellica. Abbiamo del resto degl’indici significativi negli scioperi recenti, e prima negli ultimi risultati elettorali. Si farà bene a non dimenticare che il socialismo perfino nel 1924, dopo la devastazione di tutti i suoi fortilizi, e colla pressione inesorabile del fascismo, raccolse un milione e mezzo di voti. Quanti ne avrebbe avuto se il voto fosse stato libero? La realtà politica ci fa concludere che i partiti socialisti posseggono ancora una forza notevole, accresciuta dalla spinta di reazione al fascismo. Ebbene, di fronte a questa realtà, i popolari non hanno che due mezzi per agire: l’uno è il metodo di compressione proprio dell’attuale partito dominante colla distruzione delle Camere del lavoro, coll’incatenamento delle associazioni, colla proibizione dei comizi, col sostituire funzionari ad organi elettivi e con sistemi elettorali che non abbiamo bisogno d’illustrare; l’altro è il metodo democratico della libertà, ordinata e protetta dalle leggi, nella quale libertà i popolari potranno in primo luogo diffondere le loro idee in contrasto con quelle socialiste, ma nella quale libertà è evidente che rimane una larga sfera, non superabile per ora, d’influenza socialista. Noi non abbiamo il diritto e nemmeno ragione di fare a Mikrós il torto di crederlo fra quei cattolici che plaudono al primo metodo e ne sperano grandi vantaggi alla buona causa. Ma, allora, nel secondo caso e di fronte alla massa socialista che sussisterà di fatto anche dopo il nostro massimo sforzo di propaganda, quale dev’essere il nostro contegno? Possiamo noi proclamare che ci è affatto indifferente se gli operai che vengono dal socialismo e non ne vogliono uscire, s’incanalino nella corrente unitaria riformista, o seguano quella massimalista o si lascino irreggimentare dai comunisti? È prudente, con un’intransigente ripulsa in blocco – ripulsa, si badi bene, sul terreno delle realizzazioni politiche, non su quello dei principii, ove è doverosa – ricacciare tutte le specie di socialisti nella bolgia del socialismo rivoluzionario, sottoponendoli ad un comune ed eguale trattamento? No, illustre collega, non si tratta dell’abilità parlamentare di Turati o del funambolismo opportunista di qualche altro capoccia: sono fenomeni questi che hanno un valore del tutto accidentale. Il quesito grave è questo: se riesca di sottrarre all’influsso dei comunisti e di quella frazione di massimalisti che da questi si scostano solo per ragioni organizzative una parte notevole delle masse operaie, rendendole disposte, sia nel campo sindacale come in quello politico, ad agire entro la nazione secondo i metodi democratici, il che vuol dire ad abbandonare i metodi della violenza e della rivoluzione. Questo problema pratico si era presentato già prima del fascismo e diventerà capitale nel dopofascismo – quando che sia. Questo problema ha tormentato i cattolici di tutti i paesi europei, e quasi tutti hanno sentito il dovere di favorire il processo di differenziazione entro il socialismo, non di trascurarlo. Con quest’occhio, secondo noi, bisogna guardare alle manifestazioni del revisionismo unitario. Nessun’illusione esagerata, nessuna transigenza di principio, ma una valutazione serena e fiduciosa del fenomeno. I popolari non si affidano a delle illusioni socialistoidi, no, si armano anzi più che mai e montano la guardia per i loro principii sociali, politici e religiosi; ma non possono non augurarsi che almeno una parte della massa socialista abbandoni il visionarismo rivoluzionario e diventi elemento positivo e ricostruttivo entro lo Stato democratico. È vero, con ciò non è ancora detto che queste masse «democratizzate» ripudino il loro anticlericalismo; ma l’esempio di altri paesi, ove l’esperimento è in atto, ci assicura che una corresponsabilità amministrativa e politica delle masse socialiste frena inevitabilmente quella propaganda dottrinaria antireligiosa che fa presa piuttosto negli spiriti esaltati dalla visione rivoluzionaria che in quelli preoccupati della realtà quotidiana. Ecco come, secondo noi, si deve realisticamente vedere il problema. Non si tratta di favorire, facilitare, creare addirittura il socialismo; no: si tratta di cooperare perché almeno una parte del movimento socialista che c’è e, non ostante la nostra propaganda, sarà rimasto, si tratta diciamo di cooperare perché questo movimento (l’organizzazione quindi, non la scuola) sbocchi nel laburismo (termine inesatto, ma sufficiente per intenderci), invece che nel comunismo. Questo è un problema d’oggi, ma sarà più ancora problema di domani. È un problema di cifre, di statistiche, di organismi esistenti e di uomini viventi. È un problema pratico di metodi e di possibilità concrete. Discuterlo solo nelle sue tesi teoriche, equivale a sfuggirlo. Beati coloro che riparando nelle discussioni dottrinarie possono guardare dall’alto del loro pallone frenato ai modesti uomini politici che, camminando sulla terra, devono cercare faticosamente come aprirsi il passo! |
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| Il nuovo libro di Salvemini si occupa in prima linea della questione dalmatica e adriatica secondo la tesi bissolatiana e quella nazionalista ma la parte generale introduttiva contiene delle conclusioni sintetiche meno discusse e meno discutibili che riguardano quel periodo agitato ed ancora inesplorato dell’anteguerra, dal quale trae le sue caratteristiche tutta l’epoca postbellica, fino ai giorni nostri. Può convenire quindi al giornalismo quotidiano di segnalarlo e più che ad altri può convenire a noi delle nuove provincie, che essendo stati, salvo eccezioni e per forza di cose, in tutto quel periodo spettatori passivi più che attori, troppo spesso ci tocca comparire in qualità di accusati di fronte al tribunale di coloro che, dimenticando i propri errori e le proprie contraddizioni, si assidono volentieri a giudicare con catonica severità delle debolezze, degli errori, dei peccati politici dei fratelli redenti. Il Salvemini ricorda che di fronte alla crisi della guerra mondiale i socialisti italiani si dichiararono quasi tutti per la neutralità assoluta. «La guerra – affermava Benito Mussolini sull’«Avanti!» nell’agosto e settembre del 1914 e continuarono a ripetere i socialisti sempre – la guerra era una lotta fra governi capitalisti, tutti egualmente responsabili della strage, tutti egualmente imperialisti, invece di sviarsi dietro alla cosidetta “difesa della patria”, i socialisti dovevano inserirsi nella crisi della guerra per promuovere la rivoluzione sociale internazionale secondo la previsione e l’insegnamento di Marx». La neutralità assoluta aveva il consenso delle moltitudini operaie e contadine; ma esse erano del pari contro la guerra, come contro la rivoluzione sociale. Volevano esser lasciate tranquille nella loro vita quotidiana. Ma la neutralità assoluta contrastava con tutte le necessità reali dell’Italia e con la mentalità dei partiti pubblici italiani, avvezzati a considerarsi direttamente interessati nella guerra mondiale. Gli irredentisti volevano l’annessione delle terre irredente, i colonialisti volevano cogliere l’occasione per ipotecare nuovi territori in Asia minore e in Africa. Bisogna inoltre ricordare che per trentadue anni l’Italia era nella Triplice: per conseguenza la neutralità veniva considerata dagl’Imperi centrali come un tradimento, mentre, per questi precedenti triplicisti, essa doveva riuscire sospetta anche all’Intesa. Di qui le pressioni da entrambe le parti che, considerate – dice il Salvemini – le «nostre abitudini sediziose», se il periodo di neutralità avesse durato più a lungo, avrebbero finito per produrre «la fatale disorganizzazione spirituale della nazione italiana». «Difficilmente avremmo evitato le sedizioni militari, più difficilmente ancora la guerra civile. Alla fine la crisi si sarebbe decisa in un senso o nell’altro secondo le manovre degli agenti esteri… Quindi la partecipazione dell’Italia alla guerra era una ineluttabile fatalità. Sul modo e sul tempo d’intervenire, di fare la guerra o di fare la pace, non fra l’intervento e la neutralità, i Governanti italiani avevano libertà di scelta». Il Salvemini crede che di tale libertà essi fecero il peggior uso possibile: ma la colpa non è dei soli borghesi, è anche dei socialisti che non accettarono l’intervento a condizione che avvenisse col programma democratico di Bissolati, ma si disinteressarono della guerra e poi della pace, attendendo apocalitticamente la rivoluzione internazionale. Alla notizia dell’ultimatum austriaco alla Serbia – ricorda il prof. Salvemini – i nostri nazionalisti iniziarono immediatamente la propaganda dei comizi per l’intervento a fianco degl’Imperi centrali. «Se prima di lanciare l’ultimatum i governi di Vienna e Berlino si fossero accordati con quello di Roma, promettendo il Trentino e una congrua partecipazione ai profitti coloniali della vittoria, è certo che la grandissima maggioranza degli uomini politici italiani avrebbe accettato ed imposto al paese l’intervento nella guerra a fianco degl’Imperi centrali». Ma questo sogno scivolò su di un nulla: sulla questione del Trentino, Vienna e Berlino credevano di vincere senza l’Italia e perciò non vollero trattare, saltando a pié pari l’art. VII del Trattato, che ve li obbligava. Così i nazionalisti rimasero in vedetta per un mese fino alla battaglia sulla Marna, e poi iniziarono la campagna per l’intervento contro gl’imperi centrali. Questo triplicismo condizionato è quello che il Salvemini definisce triplicismo imperialista, per metterlo in contrasto col triplicismo giolittiano, che in fondo, fino all’ultimo momento, sperò in una resipiscenza degli antichi alleati. Fallite queste due specie di triplicismo, non rimaneva che l’interventismo accanto all’intesa. Ma c’era modo e modo d’intervenire. Quello di Bissolati era un interventismo democratico, secondo la tradizione mazziniana, per cui «il problema dei territori austriaci abitati da italiani era un caso locale del problema generale: quello delle indipendenze e delle giustizie nazionali che doveva essere risoluto per tutti se dopo la guerra si voleva assicurare la pace». Disgraziatamente questo interventismo trovò poca comprensione anche fra quei «socialisti scismatici, sindacalisti, anarchici, repubblicani, radicali, massoni che formarono l’interventismo democratico»: i più erano spiriti arruffati, romantici in ritardo, apologisti della violenza, della rivolta, del colpo di mano, per la ebbrezza del gesto pericoloso, non perché il gesto fosse ordinato a raggiungere uno scopo fissato con chiarezza… Inventarono essi il mito della guerra rivoluzionaria… Quando Benito Mussolini nell’ottobre 1911, saltò ad un tratto dal neutralismo assoluto all’interventismo antigermanico, gli elementi confusionari dell’interventismo non potevano non riconoscere in lui il loro condottiero naturale: lo seguirono nel dopoguerra: hanno dato al fascismo lo stato maggiore e i quadri. Nelle conclusioni pratiche l’interventismo bissolatiano si sarebbe trovato sulla strada del marchese di San Giuliano. Questi era triplicista convinto e in principio fu assai oscillante e si barcamenò fra i due campi opposti: tuttavia le sue idee – nella ipotesi d’una guerra contro gli stati centrali – si appressavano alla linea di Bissolati. Ostinatamente contrario fu invece Sonnino. Anche Sonnino, come risulta dal suo epistolario coll’onor. Bertolini , sul principio della guerra sarebbe stato per intervenire a fianco degl’imperi centrali verso compenso del «Trentino e qualche altra cosa», com’ebbe ad esprimersi in confronto del De Viti ; e per lungo tempo negoziò la neutralità verso un «forfait» che doveva essere il Trentino, Gorizia e Gradisca, sei isole e Trieste città libera. Salvemini crede che il negoziato fosse avviato sul serio, allo scopo di concludere, e ricorda ad esempio che non sarebbe altrimenti spiegabile quel telegramma segreto di Sonnino al duca D’Avarna , in cui gli domanda se non sarebbe possibile ottenere che la Schratt, amante di Francesco Giuseppe, influisse sull’imperatore nel senso di farlo aderire alle proposte italiane. Se l’offerta fosse stata accettata, la neutralità sarebbe stata assicurata agl’imperi centrali non all’«intesa» alla quale Sonnino si sarebbe presentato più tardi coi postulati coloniali. E qui l’A. s’addentra nella polemica contro Sonnino e la direzione della guerra. Non è nostro compito seguirlo su quel terreno e registreremo piuttosto, questa sua conclusione: «Se si confronta la situazione della Francia con quella dell’Italia dopo la guerra si deve conchiudere che l’Italia ha vinta la guerra, assai più che la Francia. Noi, infatti, non abbiamo più da temere l’Austria che è stata fata a pezzi, i quali pezzi si paralizzerebbero a vicenda in caso di guerra; la Francia invece si trova sempre a dover fronteggiare la massa compatta della Germania, ed ha perduto il contrappeso che le dava l’alleanza della Russia e non riesce a sostituirla con la costruzione, piuttosto gelatinosa, della Polonia. E via via che la Germania si riorganizzerà, e alle spalle della Polonia si riorganizzerà la Russia, crescerà per la Francia il pregio dell’amicizia italiana. Di questa posizione, conquistata attraverso la guerra, i nostri eredi, fra mezzo secolo, potranno profittare per fare nuove guerra, se saranno bestie; per lavorare serenamente alle opere della pace, se saranno uomini. La nostra generazione ha assicurato loro una libertà di scelta fra l’essere bestie e l’essere uomini, assai maggiore di quella che abbiamo avuta noi nel mezzo secolo scorso, nel quale la vicinanza austriaca ci ha obbligati ad essere più bestie che uomini». |
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| Roma, 11 notte. Alle ore 15.30 l’on. Degasperi è stato ricevuto, al Quirinale, dal Re. Uscendo dal palazzo reale dopo il colloquio col sovrano il nostro direttore è stato circondato da alcuni giornalisti che volevano aver notizia sul colloquio stesso, ma l’on. Degasperi al pari degli on. Amendola e Di Cesarò s’è trincerato nel più assoluto riserbo. Su questi colloqui del Re coi «leaders» costituzionali dell’Aventino la stampa ricama molte fantasie. Secondo la Tribuna, l’esposizione che ha fatta al sovrano l’on. Amendola sarebbe stata, più che altro, dottrinaria, mentre l’on. Di Cesarò sarebbe stato più preciso, più aderente a quello ch’egli crede sia la realtà politica. Annota peraltro giustamente il Mondo che, essendosi i tre «leaders» ricevuti dal Re trincerati nel più assoluto e del resto doveroso riserbo, manca addirittura la possibilità materiale di parlare con qualche fondamento di questi colloqui. In relazione ai quali stasera quasi tutta la stampa romana parla di prossima discesa dall’Aventino come se questa fosse stata ormai bell’e decisa. Sta il fatto che finora nessuna decisione è stata presa e che i vari gruppi aventiniani, per deliberazione presa oggi stesso dalla giunta esecutiva delle opposizioni, si raduneranno soltanto entro la settimana ventura. Intanto il Popolo d’Italia fa il gradasso, afferma cioè che, scendano o non scendano gli aventiniani, Governo e fascismo rimangono indifferenti, tanto più – soggiunge – che, se anche scenderanno, ogni ostruzionismo sarà impossibile. La Tribuna, dal canto suo, crede – e se ne compiace – che un ritorno dei secessionisti nell’aula non farà che affrettare la fine di questa stremata Legislatura. Secondo lo stesso giornale, in serata gli on. Amendola, Degasperi e Di Cesarò avrebbero avuto un abboccamento tra di loro. I lavori parlamentari I lavori parlamentari sono stati oggetto, tra ieri e oggi, di colloqui tra Mussolini e Farinacci e tra Mussolini, Federzoni e Rocco i quali ultimi hanno parlato col capo del Governo prevalentemente del noto progetto sulla burocrazia di cui oggi stesso s’è occupata nuovamente, presente il guardasigilli, l’apposita Commissione la quale poi tornerà ad occuparsene sabato, presente anche l’on. Mussolini. Intanto oggi a Montecitorio è stato affisso l’ordine del giorno per la seduta della Camera del giorno 18. Esso reca anzi tutto i progetti per il Mezzogiorno e poi subito i famosi progetti Rocco. Per martedì sono convocati gli Uffici del Senato per discutere i progetti circa la riforma dei codici e le associazioni segrete, già approvati dalla Camera. Intanto domani l’onor. Federzoni parte per Bologna dove accompagnerà il principe ereditario che vi si reca a inaugurare un monumento ai caduti. Domenica il ministro degli interni sarà a Ferrara. Domani lascerà Roma anche l’on. Farinacci. Per sabato è convocata la direzione del Partito popolare. L’«Epoca» assicura che essa delibererà la espulsione in massa dal partito di tutti i popolari di Lendinara i quali hanno concluso coi fascisti locali un patto che l’on. Merlin non ha esitato a definire una resa a discrezione senza neanche il minimo di dignità. Tra settembre e ottobre? La Tribuna reca la notizia che il processo Matteotti sarebbe fatto tra settembre e ottobre e che esso non durerebbe più di quaranta giorni. Quattro arresti per Matteotti Giunge notizia da Firenze che sono stati arrestati colà e tradotti al carcere delle Murate l’ex-deputato unitario Pieraccini , il prof. Levi e due studenti dell’Università per avere deposti fiori al monumento di Garibaldi nell’anniversario dell’assassinio di Matteotti. I commenti della stampa La stampa di tutti i colori commenta largamente il ricevimento da parte del Re dei leaders costituzionali dell’Aventino. La stampa fascista e filofascista tende, com’è naturale, a bagattelizzare l’avvenimento. Così, per esempio il Popolo d’Italia, arriva a scrivere: «Qualche giornale di opposizione crede di poter ottenere qualche effetto ai suoi fini, mettendo quest’episodio in grande rilievo di titoli e di impostazione. Ma, secondo si rileva dai giornali, l’episodio non esorbita dal carattere delle udienze particolari insistentemente richieste e concesse con ritardo. Il tutto si riduce ad una breve parentesi aperta, per convenienza nella solidarietà sovversiva dell’Aventino col permesso dei superiori repubblicani e socialisti». Il Secolo si spinge anche più in là e arriva grottescamente ad affermare che, prima di ricevere i leaders aventiniani il Re… ha chiesto il permesso a Mussolini. Anche la Tribuna parla a denti stretti. Ma, tra il voler dire e il non voler dire, finisce col riconoscere che questi ricevimenti hanno una importanza. «Da qualcuno, essa scrive, la visita dell’on. Amendola era posta in relazione con il voto espresso dal Re che si addivenisse alla pacificazione degli animi. Si sa che l’on. Amendola è tra i deputati costituzionali dell’Aventino, il più accanito nella tesi che uscite dalla Camera le Opposizioni non dovrebbero più rientrarvi. Senonchè è ormai notorio che la udienza fu sollecitata dalle Opposizioni, e non è stata di iniziativa del Re. Ciò non esclude che il Sovrano, nel corso della conversazione, possa aver espresso il suo desiderio di veder attenuati i troppo aspri contrasti di partito, interprete di nuovo del sentimento generale del Paese». Più sereno assai il Giornale d’Italia, il quale commenta: «Noi non ci permettiamo di strologare intorno a quello che è stato detto nei colloqui tra S.M. il Re e i capi dei gruppi costituzionali secessionisti della Camera. Reputiamo politicamente utile che il Sovrano si renda conto di tutta la situazione e troviamo perfettamente naturale che egli abbia ricevuto uomini politici i quali a lui si erano rivolti con un indirizzo di omaggio e di devozione e che militano nell’orbita costituzionale. Pure astenendoci per rigoroso rispetto alla Corona, dal volerla comunque immischiare nelle vicende politiche e parlamentari, dappoiché essa è al di sopra dei partiti e al di fuori della mischia, troviamo perfettamente naturale che S. M. il Re, nell’esercizio del suo supremo mandato…». Dal canto suo l’Avvenire d’Italia scrive: «Siamo ottimisti. Il Re ha ricevuto oggi in colloquio separatamente l’on. Amendola e l’on. Di Cesarò ed accorderà domani una udienza al rappresentante del partito popolare. Ebbene noi ravvisiamo in questi contatti l’auspicio di una nuova – prossima o lontana – chiarificazione politica. La Monarchia costituzionale resta l’istituto che conserva ancora la funzione destinata a realizzare nella grande crisi, al di sopra dei più profondi contrasti, le sintesi supreme per la salvezza della Nazione». |
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