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41921-1925
A completamento della cronaca del congresso popolare di Roma da noi già pubblicata , diamo oggi un esteso riassunto delle tre importanti relazioni del principe Ruffo sulla politica estera, dell’on. Fino sulla politica ecclesiastica e dell’on. Anile sulla politica scolastica. La politica estera La relazione Ruffo si riallaccia a quella di Torino della quale riafferma le conclusioni. Essa incomincia con la contrapposizione delle due teorie di politica estera che si contrastano oggi in Europa, l’una vorrebbe la massima collaborazione fra le nazioni, la libertà degli scambi, la valorizzazione di tutte le forme di arbitrati per risolvere i conflitti sulla base della Società delle Nazioni, l’altra opposta che vuole accentuare le divergenze tra gli Stati, tende ad innalzare le barriere doganali, a riprendere la gara degli armamenti, a ricostruire un determinato sistema di equilibrio che condurrebbe inevitabilmente ad una nuova guerra disastrosa per tutti. Il P.P.I. parte naturalmente dalla prima teoria che sebbene condivisa da altri, ha per lui il valore di quella dottrina che si inspira ai concetti fondamentali del cristianesimo ed è meravigliosamente esposta nelle Encicliche e negli appelli alla pace di Benedetto XV che tracciò l’idea della Società delle Nazioni fin dal 1915 cioè ben prima di Wilson. E riconosce tale politica la più utile e la migliore per l’Italia. Espone quindi la teoria fascista in politica estera citando articoli e discorsi di Corradini, Coppola , Forges-Davanzati, Mussolini e lamenta che troppe volte l’azione del governo italiano si sia inspirata a queste teorie. Questo è necessario La relazione che entra in molti dettagli termina con queste parole: «Finché l’assetto giuridico della Società Internazionale non sarà stato raggiunto è assiomatico che ogni nazione disponga di quella forza che è necessaria per la difesa dei propri diritti, ma questa forza non deve essere perturbatrice, il fine supremo della politica deve essere: raggiungere l’ordine giuridico internazionale, il quale con le proprie sanzioni si sostituisca all’azione del singolo Stato. Questo noi consideriamo progresso della civiltà cristiana, a questo fine dobbiamo con tutte le nostre forze lavorare, poiché siamo oggi molto più vicini di quel che non possa sembrare alla realizzazione di questi principii. Se prevalessero le forze contrarie, se si tornasse alla gara degli armamenti, alla politica dell’equilibrio europeo o mondiale, una prossima guerra più catastrofica dell’ultima non tarderebbe a scatenarsi. Per evitarla nell’interesse di tutte le nazioni è necessario che non minoranze di interessi particolaristici detengano il potere ma che questo senta la libera volontà di tutti i cittadini armonicamente interessati nella vita nazionale. Per evitare le guerre, per ottenere una resurrezione economica, civile e morale dell’Europa, è necessario che in tutti gli Stati europei tornino in pieno vigore le forme rappresentative dei governi liberi e democratici». La relazione è sottolineata e coronata di applausi. Finita la relazione Ruffo il presidente Merlin volge un saluto all’on. Meda, di cui ricorda le benemerenze quale pionere della democrazia cristiana e quale ministro. L’assemblea applaude in piedi all’indirizzo di Meda. Un gravissimo errore Ha la parola sulla relazione Ruffo, Margotti . Richiama anzitutto il Congresso sulla grande importanza in questo momento dei problemi di politica estera italiana e internazionale. Mette in risalto la nuova concezione prevalente della politica fascista: quella imperialista, e mentre afferma che deve ripugnare la figura di una nuova Italia rinunciataria in tutto il mondo, nega che il fascismo possa dare potenza e impero all’Italia nello stesso tempo che distrugge la personalità del cittadino italiano. Dichiara perciò tale concezione antistorica e dimostra come l’acquisizione di potenza da parte di altri Stati procede di pari passo nella storia con lo sviluppo delle libertà politiche ed istituzionali. Dice intanto che la politica del governo fascista nella sua opera di liquidazione delle questioni in sospeso al suo avvento ha smentito tutti gli schemi nazionalisti. Comunque a lui va lasciata tutta la responsabilità della politica estera italiana di cui vanta l’onore, non senza però renderci pensosi per l’avvenire. Si preoccupa soprattutto delle ripercussioni all’estero delle nuove tendenze imperialistiche quando già all’estero si danno segni di una valutazione dei nuovi sistemi politici italiani per ciò che possono rappresentare per le forze reazionarie o rivoluzionarie degli altri paesi. Viene quindi ad esaminare la situazione attuale europea e quella che va maturando ad occidente e nel centro europeo dopo la rivelazione di Benes di un piano dissimulato di una federazione economica comprendente anche l’Austria, e intravede una forma di agnosticismo europeo dell’Italia. Riafferma quindi la necessità di una politica di pace da parte dell’Italia e la fiducia nella Società delle Nazioni e propone che il Congresso emetta un voto per la partecipazione di un rappresentante della S. Sede al Consesso ginevrino perché questo assuma una più alta significazione ideale e una maggiore capacità pacificatrice. Ha fede dopo il tormentoso travaglio del dopo guerra in una salutare reazione spirituale. (Molti applausi e congratulazioni). DEGASPERI rileva che la relazione Ruffo rispecchia le linee direttive della politica estera che risponde alla tradizione e ai principii popolari. Crede che il Congresso debba approvarla senza soffermarsi su questioni particolari. Dichiara che l’idea dell’intesa fra le forze cristiano-sociali per la pace nel mondo è sempre coltivata dal partito soprattutto per l’opera e l’iniziativa di Don Luigi Sturzo. Plaude all’attività del principe Ruffo e invita il Congresso ad approvare la sua relazione. Invita pure il Congresso ad accogliere il voto formulato dal dott. Margotti perché al Sommo Pontefice Romano sia concessa una rappresentanza nella Società delle Nazioni. (Applausi vivissimi). Il Congresso sorge in piedi plaudendo. (Si grida: Viva il Papa). Vengono approvate la relazione Ruffo e il voto del dott. Margotti. La politica ecclesiastica L’on. Fino rileva che in Italia si ebbero troppe leggi ecclesiastiche, non si ebbe una vera politica ecclesiastica come sistema dello sviluppo della Società di fronte al problema religioso. (Applausi). Per affrontarlo bisogna o credere o negare: il liberalismo fu solo indifferente, un poco ateo e svolse piccoli episodi con la politica del tornaconto. Il Partito popolare italiano prima presentò il problema nella sua interezza, traendo dalla dottrina religiosa la sostanza del programma con cui vuole riformare e governare la società. Il fascismo era all’inizio nettamente anticlericale come i socialisti e i massoni. Il nazionalismo gli impose una concezione religiosa che servisse a rafforzare l’idea del dovere verso la Patria: e abbiamo oggi in movimento il desiderio di fare una vera politica ecclesiastica, non fosse altro che concorrenza al P.P.I. che dovette sacrificarne l’attuazione integrale all’assoluta resistenza liberale. Però la politica ecclesiastica fascista non avendo basi nella coscienza, non può averne che nell’interesse e questo snatura ogni suo atto, perché il partito pretende di tesserare la Chiesa, e questa invece ha il diritto di giudicare secondo le sue leggi e i principii etici dei partiti. A quelli che vantano senza riserve il sistema protezionistico risponde che la Chiesa ha bisogno soprattutto di libertà. Per i popolari l’indipendenza della Chiesa dallo Stato ha fondamento nella necessità di avere ogni giorno il controllo morale della legge religiosa, la qual cosa deve fare paura a chi si muove in antitesi con essa. I veri termini del problema Il relatore accenna quindi alla legislazione fascista in riguardo all’istruzione religiosa e alle Opere Pie, mostrando come non ci sia stata rivoluzione ma continuazione della mentalità liberale. La relazione accenna ad una quantità di decreti e rivela la tendenza a ricattare le coscienze cattoliche. Più a lungo si diffonde poi sulle leggi riguardanti l’assegno ecclesiastico, e sui progetti che sono allo stadio di studio; richiama i punti precisi e concreti che il P. P. I. aveva formulato fin dal Congresso di Venezia e augura – per spirito di emulazione contro il Partito popolare – il governo fascista voglia riconoscere al Clero diritti maggiori di quelli richiesti dai popolari sia per la cosa in sé e sia perché sarebbe ancora un bene che verrebbe al Clero, sia pure indirettamente, per la presenza del P. P. I. Intanto mette davanti tre concetti fondamentali. Il Governo deve sapere 1) che il Clero non dà ma restituisce; 2) che la Chiesa ha una sua gerarchia anche amministrativa che deve avere il diritto di amministrare i suoi beni; 3) che se lo Stato vuol conservarsi organi di tutela come gli economati, li deve pagare con il suo bilancio e non col patrimonio ecclesiastico. Termina dicendo che i popolari non hanno paura di essere seppelliti perché credono nella resurrezione e ricorda che i seppellitori antichi romani formarono il primo sindacato cristiano. La relazione Fino è spesso interrotta da entusiastici applausi. Il Congresso tributa alla fine all’oratore una calorosa manifestazione di plauso. L’on. Fino riceve numerose congratulazioni. DEGASPERI dichiara: Il Congresso delibera come partito politico di italiani, i quali vogliono che lo Stato riconosca alla Chiesa la libertà. Come cattolici i popolari sanno che la Chiesa in qualunque eventuale trattativa è d’accordo, sa salvaguardare sempre l’indipendenza assoluta del suo magistero di dottrina e la supremazia del suo tribunale morale. (Applausi). L’ordine del giorno A conclusione della discussione sulla politica ecclesiastica il presidente mette in votazione il seguente ordine del giorno dell’on. Fino: «Il Partito popolare italiano nel suo 5° Congresso, udita la relazione sulle leggi ecclesiastiche: 1) rivendica l’onore di aver richiamati la Nazione e i governi all’esame di una politica ecclesiastica degna della civiltà italiana – che è essenzialmente religiosa, nella religione cattolica, apostolica, romana; 2) ritiene la libertà e l’indipendenza della Chiesa in tutte le sue esplicazioni come base indispensabile d’ogni legislazione ecclesiastica; 3) richiama per la concreta attuazione di tale politica i precedenti voti del Congresso di Venezia, e il piano di riforma dell’amministrazione dell’Asse ecclesiastico in essi enunciato; 4) rileva la contraddizione quotidiana fra le promesse di carattere legislativo a favore della religione e l’intimidazione praticata senza riguardo presso quelli che debbono curare – per ministero – il libero sviluppo della vita religiosa italiana; 5) rileva ancora la contraddizione flagrante fra la dottrina morale religiosa e le affermazioni in parole ed atti del partito dominante e di alcuni suoi uomini; 6) ricorda che non si può avere legislazione ecclesiastica frammentaria, ma solo quando si venga a un riconoscimento completo della Chiesa nella sua dottrina, nella sua funzione, nella sua struttura, sorpassando dinanzi a lei sinceramente ogni pensiero di dominio, per praticarne le leggi, offrendo alla sua libertà e indipendenza, sicure garanzie davanti alla coscienza di tutta la Nazione». L’ordine del giorno Fino viene approvato per acclamazione. La riforma scolastica L’onor. Anile rievoca l’ordine del giorno col quale si chiuse nel 1920 il primo congresso del partito, e nel quale erano indicate alcune conquiste della nuova riforma ed altre che dovrebbero attuarsi se si vuole che le prime abbiano efficacia. Mette in rilievo cosa voglia dire l’insegnamento religioso largito ora in parte, e dimostra come una scuola che non possa dare una fede e che non abbia una verità resta estranea al problema della educazione. La laicità istruisce, ma non educa; opera sull’intelligenza, non sull’animo; crea impiegati, non uomini. Si ritorna alla scuola religiosa per una necessità che supera le necessità dei vari e contrastanti partiti, per una necessità umana che è in questo momento avvertita da tutte le nazioni civili. Gli Stati Uniti d’America, di fronte al moltiplicarsi delle sette occulte che uccidono, riconoscono di avere nelle scuole parrocchiali i soli centri della loro resistenza nazionale; l’Olanda, la Norvegia, la stessa Germania protestante aiutano lo sviluppo della scuola cattolica. Contro la quale non si alza che la scuola della Russia comunista, che poggia esclusivamente sulla concezione marxista del materialismo storico ed è priva in tal modo di un reale contenuto educativo. Proclama come suo «Sillabo» la lotta di classe. Nel momento storico che viviamo tra un regime comunista ed un regime reazionario, entrambi dittatoriali, non resta nel mondo che il cattolicismo a difendere la libertà degli uomini. D’altra parte le condizioni in cui vive la nostra scuola ed i limiti ormai raggiunti dalla pubblica istruzione (un miliardo e duecento milioni) ci costringono a guardare sotto un altro aspetto il problema dell’educazione nazionale. Lo Stato deve rompere i vincoli monopolistici ed operare nella libertà: sorreggere le attività singole e degli Enti e raccogliersi in una funzione di controllo e di ausilio. Più lo Stato riduce la sua azione burocratica e più vive la scuola. Presentemente tutto il mezzogiorno d’Italia è privo di locali scolastici e i pochi asili infantili si chiudono ad uno ad uno. Per soddisfare queste esigenze occorrono al minimo due miliardi. Nella scuola media abbiamo parecchi tipi di scuola che restano distinti gli uni dagli altri ed i giovani debbono scegliere quando ancora non sono in grado di scegliere. Le scuole universitarie si sono moltiplicate. La disorganizzazione prodotta dalla riforma Gentile nel suo primo attuarsi si aggrava ogni giorno per nuove disposizioni e regolamenti: siamo in piena anarchia. Lo stesso esame di stato vacilla. La serie degli errori e quel che costano codesti errori porta oggi tutti i partiti a considerare con occhi sgombri e con anima più serena il programma scolastico del partito popolare. Il solo, conclude l’on. Anile, che possa elevare le nostre nuove generazioni alla dignità di uomini e sul deserto fatto dall’odio fa rifiorire in un profondo senso di fratellanza umana la vita civile. Applausi clamorosi salutano la commossa relazione.
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41921-1925
Il Momento di Torino pubblica la seguente lettera aperta diretta dal sen. Crispolti all’on. Degasperi: «Caro De Gasperi, Nel congresso popolare tu hai avuto parole amarissime verso quel manifesto di centocinquanta cattolici, che fu pubblicato in Roma alla vigilia delle elezioni politiche del 6 aprile 1924, e che, da me assente semplicemente firmato, fu a me da molti attribuito, perché i nomi dei senatori vennero stampati per primi, e con ordine alfabetico approssimativo il mio nome vi fu apposto innanzi a quello d’ogni altro. Ma io mi valgo di questa paternità putativa per difenderlo dalle tue accuse. Tu dicesti: “Ai polemisti del centro nazionale […] risponderemo coll’assicurazione che, in nessun tempo e in nessun luogo abbiamo mai accarezzato l’idea d’imitare in caso di elezioni quei cento e cinquanta loro amici, definiti dai giornali come ‘le maggiori personalità cattoliche d’Italia’ e nel comunicato ufficiale come ‘rappresentanti negli ambienti cattolici ed ex popolari la tendenza alla leale collaborazione dell’on. Mussolini’, i quali alla vigilia delle elezioni pubblicarono un manifesto in favore del blocco fascista. Questo manifesto, per noi, che eravamo pur stretti da tanti nemici, fu una pugnalata nella schiena, giacché non solo vi si biasimava chi ‘per intransigenza di programma, o per spirito di critica o di rimpianto del passato’ si opponeva al governo, ma, con riferimento speciale al nostro partito si asseriva che avevamo tentato invano di giustificare la nostra opposizione ‘con una pretesa antitesi di principii’. Ossia per strappare ai cattolici il voto in favore di un blocco elettorale, nel quale erano candidati di tutti i colori, non esclusi vecchi anticlericali, atei e massoni di Piazza del Gesù, e toglierlo ai candidati di un partito ad ispirazione cristiana, si negava perfino l’esistenza di un contrasto di principii. Parola d’onore, io impegno fin d’ora il partito. I popolari non v’imiteranno né per quello che riguarda la fraternità dell’atto, né per quanto riguarda la gelosa custodia dell’ortodossia dottrinale”. Una pugnalata nella schiena! Parrebbe anzitutto che il manifesto fosse giunto impensato e improvviso. Ma uomini come noi, che erano usciti dal P.P.I. o ne erano stati messi fuori per il loro favore al governo, non dovevano per logica sostenere la lista del governo, specialmente in comizi in cui non si trattava soltanto di eleggere deputati, ma di sapere se e con qual numero di voti il paese approvasse la politica governativa? So bene che autorevoli membri del P.P.I. scrivevano ad alcuno di noi dicendo che la nostra uscita dal partito avrebbe dovuto essere seguita da una nostra inazione, da un nostro rimaner sotto la tenda senza prendere atteggiamenti di cui il partito si avesse a dolere. Ma questa singolare pretensione era espressa a persone nostre che per uffici direttivi come pubblicisti, o per elevate cariche politiche non potevano senza apparenza di fuga metter su un Aventino loro proprio e gettarsi in un agnosticismo codardo. Sostenemmo dunque nel manifesto elettorale il governo, dolenti che il contegno d’opposizione assunto fin da allora, con una superfluità che avevamo pubblicamente deprecata da parte del P.P.I., ci mettesse di fatto contro gl’interessi elettorali di esso, ma costretti a ciò dalla morale necessità di mantenere anche in quel periodo la linea di condotta collaborazionista, ch’era stata la nostra sempre e quella del Partito popolare fino a pochi mesi prima. Respingevamo poi “una pretesa antitesi di principii” fra i cattolici ed il governo, non già, come tu dicesti al congresso, per voluttà d’individuare il P.P.I. che questa antitesi aveva affermata e quindi specificar bene che si volevano “toglier voti ai candidati di un partito ad ispirazione cristiana”, ma perché l’affermazione di quell’antitesi e la dedottane liceità d’appoggiare la lista del governo, venivano a screditare moralmente l’atteggiamento nostro, e noi dovevamo difenderci da questo discredito, tanto più indebito in quanto ci proveniva dai “popolari”, che con giusta coscienza avevano collaborato con governi retti da uomini, i cui principii erano spesso in ben altra antitesi coi nostri, che non quelli degli uomini nuovi. Certamente il listone governativo che noi appoggiavamo conteneva nomi a noi simpatici e nomi ostici, “oves et boves”, mentre la lista “popolare” da cui ci discostavamo era formata “da candidati d’un partito ad ispirazione cristiana”. Ma ci domandavamo se l’opposizione, a cui si era dato quest’ultimo, non importasse ritoglier valore a quelle che erano benemerenze innegabili del nuovo regime verso la patria e verso lo stesso cattolicismo. E quanto alle “censure e riserve, in parte giustificate, di fronte alla ritardata normalizzazione della vita nazionale” – dalle quali l’opposizione voleva trar la sua origine – il manifesto continuava: “ci domandiamo se sia proprio con l’opposizione che questa desiderata méta possa essere raggiunta; e non esitiamo a rispondere con piena sicurezza di no”. Questo nostro criterio morale e politico di scelta tra le due liste vale anche, a parità di circostanze, per l’avvenire. Sappiamo che, specialmente da parte di coloro che vogliono serbare nelle future elezioni una apparente apoliticità e intanto favorire la opposizione “popolare” senza compromettersi, si sta preparando la seguente formula da proporre alle coscienze degli elettori cattolici: “votare per quei candidati i cui principii e intendimenti siano fedeli agli interessi della Chiesa e del paese”. Ma è una formula che può contenere fallacia. Difatti la riuscita di quei candidati, o per insufficienza del loro numero, o per reazioni che suscitino, o per l’appoggio anche indiretto e involontario che procurino ad opposizioni d’altri principii ed intendimenti, magari sovversivi, è possibile che rechi effetti del tutto opposti a quelli che il retto e ingenuo sentire degli elettori si proporrebbe. La formula vera è la seguente: “votare per candidati, la cui riuscita collettiva renda di fatto probabile d’evitare il male e procurare il bene della Chiesa e del paese”. A questo criterio veramente coscienzioso e pratico ci ispirammo nel manifesto, e, tenendo conto delle pur variabili realtà, c’ispireremo nel futuro, colla speranza che i cattolici, ai quali apparteniamo, senza arrogarci, come non ci arroghiamo nel manifesto, di parlare in loro nome, seguano un criterio simile. Oggi intanto, se il manifesto si avesse da ripubblicare, tutti noi che lo firmammo, lo firmeremmo daccapo, e con ambedue le mani, soltanto, resi forti dell’esperienza di più d’un anno, che ci ha mostrato la sterilità e l’eterogeneità d’un’opposizione pure ingrossatasi per via, la quale diventò cieco furore d’abbattere il governo, e non solo contribuì a spingerlo verso l’estremismo fascista, ma non lo fece ripudiare la solidarietà coll’uso di mezzi che la commissione d’istruttoria dell’Alta Corte ha testé giudicato: mezzi che nessuno meglio di te – fatto a tua volta bersaglio d’indegne dicerie – è al caso di qualificare, noi, dico, correggeremmo quel manifesto, per dargli un tono più risoluto e meno blando d’allora. Cordialmente Filippo Crispolti». Replica «Caro Crispolti, poiché il mio silenzio non sembri scortesia, rompo per questa volta la mia abitudine di non intervenire in discussioni giornalistiche fra cattolici, e cercherò di farlo mantenendomi entro due limiti: l’uno, il rispetto spontaneo che nutro per il tuo passato di scrittore cattolico, l’altro, il rispetto obbligatorio che debbo a quella censura ch’è strumento non accessorio della vostra politica presente. 1. A proposito del manifesto delle “maggiori personalità cattoliche” in favore del blocco elettorale, tu, in fondo, ti stupisci del nostro stupore e ci spieghi essere stato logico che coloro i quali avevano abbandonato il partito in causa del loro collaborazionismo, a tale criterio rimanessero fedeli anche nel momento più decisivo, cioè nella campagna elettorale. Ebbene sì, una certa logica c’era. Era disgraziatamente la logica di coloro i quali avevano abbandonato il partito popolare, non per un dissenso tattico momentaneo, come poteva sembrare, ma perché avevano perduta la fede nel suo programma e nella sua missione come organismo politico autonomo; ma era, innegabilmente, una logica. E se voi aveste semplicemente detto che, dopo la marcia di Roma, bisognava adattarsi al meno peggio, anche a costo di scomparire come partito e vi foste limitati a vantare i benefici dei nuovi rapporti di servizio che intendevate consigliare ai cattolici, voi avreste assunto un atteggiamento politico che, moralmente, voleva essere giustificato col noto criterio del minor male. Ma voi siete andati molto più in là e, parlando a cattolici, avete biasimata l’intransigenza programmatica degli oppositori e avete proclamato che antitesi di principio col fascismo non esiste, giacché l’antitesi che noi avevamo denunziato da Torino in qua, era per voi, pretesa immaginaria. Cosicché gli agenti del blocco schiaffarono fin sulle chiese dei più remoti paeselli codesta giustificazione morale del fascismo e nello stesso tempo del vostro atteggiamento politico; e lo fecero non perché di tale ausilio moralizzatore avessero bisogno o lo tenessero in conto, ma perché poteva servire a contrastare ai popolari anche quei pochi seggi della minoranza a cui potevano competere e a svuotare definitivamente il programma popolare. Più dunque che la vostra manovra politica ci ha stupito la giustificazione morale colla quale avete tentato di coonestare il blocco degli oves et boves contro un partito di cattolici. È vero, l’efficacia del proclama fu così ridotta che forse ce ne saremmo scordati e tu forse a ragione avresti potuto rinfacciarmi eccessiva amarezza di linguaggio, se negli ultimi tempi a risvegliare la nostra memoria non avesse giovato l’insistenza colla quale alcuni vostri giornalisti hanno messo in dubbio la intransigenza dei nostri principii e l’integrità del nostro patrimonio dottrinale. 2. Senonché nella tua lettera odierna mi annunzi di già che il vostro criterio morale e politico di scelta fra le due liste, sarà identico anche per l’avvenire e che il manifesto tornereste a firmarlo, a due mani. In quanto al criterio morale, se ho ben capito, voi sconsigliereste di votare per quei candidati i quali, pur essendo cattolici, abbiano la sventura di essere pochi, cioè di appartenere ad un gruppo di minoranza, o comunque, possano urtare i padroni della maggioranza o, pel fatto stesso che sono all’opposizione, possano in qualche modo procurare un appoggio (anche indiretto ed involontario) ad opposizioni di altri principii. Ho capito: la formula è così circostanziata che, per un verso o per l’altro, per i popolari non c’è salvezza. Trattandosi di partiti d’opposizione vien buona perfino l’antitesi di principio! Prendo atto del preannunzio del rinnovato blocco di maggioranza e lo do per fatto, anche se non porta ancora il sigillo di Farinacci: ma, dopo ciò, è lecito chiedere ai vostri giornali del bloccardismo ufficiale, che rinunzino definitivamente alla posa di rigidi predicatori dell’intransigenza? In quanto al manifesto del quale prevederesti una nuova edizione, alzata di tono, permettimi di dubitare che, dopo quest’anno di esperienze, possa riuscire anche ad uno scrittore par tuo di trovare le concordanze fra il vangelo dell’Augusteo e quello del buon tempo antico. Le opposizioni sono, apparentemente, sempre sterili fino che non diventano maggioranza. Né a noi i nostri elettori faranno rimprovero, perché non abbiamo saputo salvare loro le spalle: ma voi come farete a dimostrare che, partecipando alla maggioranza, avete salvato le associazioni cattoliche? Non voglio chiudere questa già troppo lunga replica – sarà in cambio la prima e l’ultima – senza ringraziarti dell’amichevole accenno alla campagna contro di me; il raffronto tuttavia non mi pare ammissibile, giacché non si può confrontare una campagna denigratoria della stampa, continuata in evidente malafede, coll’atteggiamento morale di un cittadino che, valendosi dei suoi diritti, e assumendo in pieno la responsabilità dei propri atti, presenta una denuncia al tribunale competente. E con ciò ho finito. È rimasto invero qua e là qualche tuo lieve spunto, a cui non ho risposto esaurientemente ma – dati i tempi e i costumi – fammi la grazia di credere che non ho fatto apposta. Cordialmente Tuo Alcide Degasperi».
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1,925
0Beginning of political activity
41921-1925
Nel Belgio l’unità della cosiddetta «Destra» parlamentare cattolica (cosiddetta perché il nome di «Destra» non corrisponde più alle varie tendenze che, dai conservatori ai democratici cristiani, sono raggruppate sotto questo storico nome) è stata messa in serio pericolo dall’ultima ed esasperante crisi parlamentare, durante la quale parve ormai escluso che si arrivasse alla formazione di un governo. La proporzionale aveva tripartito la Camera in modo che nessun gruppo preso a sé aveva la maggioranza e che un governo di coalizione costituito da almeno due partiti s’imponeva come una necessità. Ma i due non trovavano modo d’accordarsi. Il gruppo liberale non voleva ripetere l’esperimento di collaborazione coi cattolici e nella Destra cattolica un forte gruppo di «destri» per davvero rifiutava come moralmente impossibile e come assolutamente illecita ogni collaborazione coi socialisti. Durante questa lunga crisi si risvegliò anche il vecchio spirito antiparlamentare dei conservatori e potemmo leggere in una nota rivista cattolica belga l’invocazione «dell’uomo forte», del «dittatore» che, passando sopra i partiti e le norme costituzionali, desse al Belgio colla sua impronta personale un governo restauratore. Ma re Alberto tenne fermo e ripeté con mirabile ostinazione i tentativi di comporre parlamentarmente la crisi, finché venne costituito il governo attuale composto di cattolici (democratici cristiani) e di socialisti, sotto la presidenza di un democratico cristiano e la vicepresidenza di Vandervelde. Le dispute tuttavia fra cattolici non cessarono ed un gruppo più conservativo continuò ad osteggiare la coalizione cattolico-socialista, opponendovi tutti gli argomenti che furono opposti in Germania alla nomina di Marx e sfruttando anche a modo loro le dichiarazioni che a proposito di collaborazione coi socialisti vennero fatte in Italia. A chiudere tali infecondi dibattiti è uscita ora una pastorale collettiva dell’episcopato, dovuta alla penna geniale del cardinale Mercier; e ci duole proprio che la solita angustia dello spazio c’impedisca di riferire integralmente questo documento, esaurientissimo, profondo e di una lucidità meravigliosa. Cercheremo di darne una pallida idea, riferendone il succo ed alcuni fra i passi più notevoli. La pastorale dimostra prima che il socialismo ha una natura anticristiana. Irreligiosi anzitutto i suoi capi, in ogni nazione, irreligiosa la dottrina. Il cristianesimo vede nella vita umana due parti, l’una, momentanea, di prova, l’altra definitiva dove la giustizia sovrana correggerà i disordini e gli abusi del mondo presente, dove il bene sarà adeguatamente rimunerato e il male eternamente castigato. Questa distinzione è essenziale all’ordine morale, alla religione degna di tal nome e quando il socialismo la batte in breccia, parlando ed agendo come non esistesse, esso colpisce alla base la moralità, l’organizzazione famigliare, la patria, la civiltà. Ciò è stato ricordato nella allocuzione del Natale 1924 dal regnante pontefice, e l’episcopato belga non può non rinnovare la condanna contro tali dottrine. Ma intendono con ciò i vescovi di condannare l’attuale collaborazione dei cattolici coi socialisti al governo? «No, dice a questo punto testualmente la pastorale, noi non condanniamo affatto questo compromesso. I due partiti che hanno ufficialmente accettato di farsi rappresentare nel ministero hanno dichiarato ch’essi intendevano mantenere integrali i rispettivi programmi e per conseguenza le dottrine che ispirano questi. Non sono poi le dottrine che si affrontano in un ministero, in un organo cioè di potere esecutivo; si tratta di interessi che si accostano e cercano di conciliarsi su un campo determinato per un periodo di tempo solitamente assai breve. Le elezioni del 5 aprile essendo state quelle che sono state, bisognava costituire un governo in conformità coi risultati che esse avevano dato. Non avendo alcun partito una maggioranza omogenea, o si doveva rinunciare a governare e così cadere nell’anarchia, o si doveva tentar di governare appoggiati su una coalizione temporanea di uomini appartenenti a partiti opposti. Si poteva fare una coalizione migliore? Noi non ci incarichiamo di rispondere a questa domanda oziosa. Sta il fatto che nessun uomo di Stato ne propose un’altra sulla quale si potesse realizzare un accordo. Riteniamo perciò opportuno, nell’interesse dell’ordine pubblico, di non rifiutare una prudente fiducia a coloro che hanno accettato il compito di governare, persuasi che nessun cattolico di buon senso confonderà i riguardi personali reciproci che comporta una collaborazione delimitata e temporanea, con le dottrine e i programmi che questo o quel collaboratore sostengono o simbolizzano». Ben segnate così le frontiere ideali e pratiche verso il socialismo, il documento si occupa anche delle dottrine liberali, fondate su due aberrazioni: l’individualismo e la credenza nella bontà innata dell’umanità. I vescovi ricordano che i liberali si trovarono sempre d’accordo nel respingere l’organizzazione professionale e l’intervento dello Stato, attendendo dall’esercizio della più assoluta libertà economica l’equilibrio di tutti gl’interessi; ma questo equilibrio si trasformò in realtà nel dominio del capitalismo. «Bene ha fatto il socialismo – continua la lettera – a reagire contro la disorganizzazione sociale operata dai liberali, ma esso non deve monopolizzare questa reazione. Sono quaranta anni ormai che Leone XIII ha chiamato a raccolta tutte le buone volontà per metterle al servigio di un’azione sociale cattolica. Invece di salutare questa come un’alleata, di rispettarla almeno, il socialismo si è mostrato ostile ai credenti generosi che andavano al popolo, e si è molte volte rivelato più violento ed empio che sinceramente preoccupato dei veri interessi del proletariato. Se esso fa oggi delle avances al gruppo democratico cristiano, è per aiutarlo nel suo sviluppo all’ombra del Vangelo e dei tradizionali principii? O non invece con il segreto proposito d’assorbirlo e di spezzare così la nostra unità cattolica? Vana speranza del resto, perché mai l’organizzazione cattolica dell’azione sociale è apparsa così necessaria come nell’ora attuale». Senza risponder più precisamente a questa domanda sul futuro atteggiamento dei socialisti, i vescovi insistono, a buon conto, sulla necessità dell’azione democratico-cristiana dei cattolici e implicitamente rispondendo a tutti gli evocatori dell’assolutismo e ai detrattori del suffragio universale concludono con queste sacrosante parole: «Ciò che è necessario è di rispettare ogni diritto, quello del lavoro e quello del capitale, armonizzarli nelle organizzazioni professionali, tutelate dalla legge, rappresentate e difese nelle assemblee deliberative; sostituire così la realtà della natura ai sogni individualisti e fare servire il suffragio universale all’affermazione dell’ordine e della pace, egualmente distanti dalle due branche del binomio di cui ci minacciano i partiti politici: anarchia o dittatura».
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Roma, 9 novembre. Abbiamo pubblicato domenica che il Consiglio nazionale del P.P.I. aveva deciso di riprendere la sua libertà d’azione, essendo l’Aventino finito. Ricordammo la protesta elevata dal presidente on. Rodinò contro il tentativo delittuoso ed insano diretto contro il capo del governo e fortunatamente sventato . L’on. Degasperi ha fatto un’ampia relazione sugli avvenimenti svoltisi dall’ultimo Consiglio nazionale ad oggi e ha illustrato l’opera svolta dal Partito popolare nel periodo della secessione parlamentare. Dopo la manifestazione dei massimalisti e dei repubblicani, l’Aventino può dichiararsi finito, quindi il gruppo potrà riprendere libertà di azione e mettere così in rilievo le linee della sua funzione nel Parlamento. «Spetterà al gruppo – ha soggiunto l’on. Degasperi – di deliberare sulla eventualità di una partecipazione ai lavori della Camera; al Consiglio nazionale spetta invece di fissare il pensiero del partito in ordine ai principali argomenti politici che sono in discussione». Riaperta la discussione, il primo oratore è l’avv. Ferrari di Modena che ha sostenuta la tesi delle dimissioni dei deputati. L’on. Achille Grandi ha difeso l’atteggiamento seguito dal gruppo nei riguardi dell’Aventino, ma ha altresì riconosciuto che l’opportunità consiglia ora il reingresso nell’aula. L’on. Mauri ha posto in rilievo i servizi resi al paese dal Partito popolare in momenti difficili. L’azione del partito si è esplicata in difesa dell’ordine costituzionale, e questa funzione potrà, crede, esplicare nel futuro, come partito costituzionale democratico che si ispira alla dottrina cristiano-sociale. L’on. Degasperi ha replicato riaffermando la fede del partito negli istituti democratici. L’oratore ha quindi rilevata la posizione antidemocratica del fascismo, che pone questo partito sulla maggior parte delle questioni agli antipodi della democrazia. Non di meno, il Partito popolare non potrà fare a meno di approvare quelle leggi che in materie speciali siano in armonia con i suoi principii, così per esempio la legislazione ecclesiastica. L’avv. Migliori si è dichiarato contro un reingresso degli oppositori nell’aula. L’on. Martini, salvo a rimettere al gruppo la decisione di partecipare ai lavori parlamentari, ritiene che oggi si debba dichiarare nettamente la separazione del gruppo parlamentare dagli altri gruppi che formano l’Aventino. L’avv. Piccioni di Torino, ha parlato in favore della discesa nell’aula, aggiungendo che il gruppo dovrà impegnarsi a rassegnare le dimissioni qualora non fosse possibile esplicare agevolmente il mandato parlamentare. Hanno parlato ancora e brevemente gli on. Baranzini e Jacini sulla organizzazione del partito e sulla opportunità di intensificare l’opera di propaganda. Ha preso poi la parola l’on. Gronchi il quale ha rilevato che tenendo presente la realtà della situazione, occorre senz’altro rientrare alla Camera, essendo la tribuna parlamentare l’unico mezzo che consenta al partito, nei limiti del possibile, di esplicare la sua attività in armonia al suo programma. È stata nominata una commissione per la formulazione di un ordine del giorno che sarà votato nella riunione di domani. La commissione è composta dagli on. Degasperi, Rodinò, Merlin, Gronchi e Cingolani. L’ordine del giorno, oltre a precisare il pensiero del partito sui disegni di legge oggi in discussione e riaffermare la fede del partito negli istituti democratici, riassumerà la discussione svoltasi. Domenica, poi, il Consiglio nazionale ha chiuso i suoi lavori. Attraverso le discussioni di questi giorni, il Consiglio si è dimostrato in grande maggioranza favorevole al distacco del gruppo parlamentare dall’Aventino e al ritorno nell’aula «allo scopo di difendere dalla tribuna parlamentare il programma e le idee del partito». A questo concetto si ispira l’ordine del giorno preparato dalla apposita commissione, ed approvato dal Consiglio all’unanimità. Nell’ordine del giorno sono anche illustrati i motivi di dissenso e di contrasto tra popolarismo e fascismo. Nella riunione di ieri il Consiglio si è anche occupato delle sorti del giornale del partito Il Popolo, decidendo di compiere ogni sforzo per mantenerlo in vita.
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Nel Nuovo Trentino, di venerdì riproducemmo, ritagliandolo dal Secolo che l’aveva ricevuto dal suo corrispondente viennese, il testo di un rapporto inviato ai primi di ottobre del 1914 dal barone Macchio, allora ambasciatore austriaco a Roma, al ministro degli Esteri conte Berchtold , circa un colloquio dallo stesso ambasciatore avuto con l’on. Degasperi. I lettori sanno che quel rapporto, sulle colonne del Secolo, era stato oggetto di commenti e di illazioni molto aspri per non dir altro contro l’attuale capo del Partito popolare italiano; sanno pure che su quei commenti e su quelle illazioni – come sul rapporto Macchio – esprimemmo serenamente subito il nostro parere, certi che anche l’on. Degasperi da parte sua, non avrebbe tardato a mettere le cose a posto. E ieri stesso, infatti, diversi giornali – il Secolo compreso – pubblicavano una lettera indirizzata dall’on. Degasperi al direttore del Giornale d’Italia. Della lettera fu data notizia al Nuovo Trentino durante la notte. Più tardi, ci perveniva telegraficamente il testo, che non potemmo pubblicare che in una seconda edizione rimessa agli spacci di Trento. Per portarla a migliore conoscenza di tutto il Trentino, e anche per rimediare a qualche eventuale piccola inesattezza di forma in cui possiamo essere incorsi ieri decifrando il testo del dispaccio, riproduciamo in questa edizione la lettera del nostro direttore, nel testo originale del Giornale d’Italia. Eccola: «Egregio signor Direttore, Leggo nel Secolo una corrispondenza da Vienna di Attilio Tamaro che vuol essere certo il segnale di nuovi attacchi contro il mio passato politico. Vi si riferisce, citandolo dal recente libro delle Memorie del Conrad, un telegramma del barone Macchio diretto al conte Berchtold su di un colloquio avuto con me, verso la fine di settembre o i primissimi di ottobre del 1914 e si conclude che Macchio e Degasperi dimostrano, di fronte all’eventualità della guerra, eguali angoscie austriache. Mi permetta anzitutto di rilevare che anche, prendendo il rapporto di Macchio come letterale riproduzione del colloquio, l’ambasciatore austriaco riferirebbe che io ero preoccupato dei preparativi che stava facendo Conrad per un attacco contro l’Italia, allora in piena neutralità e incline a non abbandonarla, e che egli, Macchio, mi avrebbe tranquillato, il che sta a significare che l’atteggiamento mentale e sentimentale dei due interlocutori era ben diverso, assai antitetico. Tutto il resto sono impressioni soggettive e ricostruzioni unilaterali di un colloquio, che dirò più sotto come di fatto avvenne, ma che il Macchio usò come strumento politico per la tesi della neutralità contro la tesi e l’azione interventista di Conrad. Da tutto il libro stesso dell’ex capo di Stato maggiore appare ch’egli nella previsione che l’Italia presto o tardi uscirebbe dalla neutralità, si preparava a prevenirla e insisteva ancora nell’autunno del 1914 perché l’Austria ci attaccasse. Di fronte a questa tendenza c’era invece quella pacifista di Macchio, che credeva nella neutralità e aveva interesse a far apparire che né in Italia né nel Trentino vi era alcuno che volesse metterla in pericolo, e ciò allo scopo di dissuadere Conrad dai suoi piani aggressivi. Ecco con quale intendimento è modellato il rapporto spedito da Macchio a Berchtold e da questi trasmesso a Conrad . Ma Conrad non ci presta fede. Ecco quanto il corrispondente del Secolo ha dimenticato di riferire dal citato volume delle Memorie. Nelle quali il Conrad, dopo aver riportato il rapporto di Macchio scrive, commentando: Che anche nei circoli militari si sapeva che la popolazione rurale del Trentino nutriva sentimenti di lealtà, ma che di fronte ai contadini stavano gli agitatori irredentisti che aizzavano la popolazione, sotto il patronato del governo italiano, e che avevano scritto sulla loro bandiera il motto dell’alto tradimento. Di fronte a queste manovre – conclude il Conrad, con diretto riferimento al colloquio Degasperi – le assicurazioni diplomatiche non riuscivano ad addormentare la vigilanza dei circoli militari. Il Conrad riproduce dunque il rapporto di Macchio come una nuova prova dell’ingenuità e incapacità della diplomazia austriaca, che si lasciava aggirare dagli italiani. Il colloquio stesso non rappresenta poi affatto una rivelazione. Alcuni mesi fa Ernesto Vercesi pubblicava nella Rassegna Nazionale – e molti giornali, tra cui il Giornale d’Italia riproducevano – una versione di esso sostanzialmente esatta che poggia su comunicazioni che gli feci la sera stessa. Dall’ambasciatore mi recai per le stesse ragioni che mi condussero parecchie volte a Roma a trattare col ministro delle Finanze, in appoggio delle pratiche del comitato di approvvigionamento di Trento, e ciò fu detto altra volta ed è facilmente dimostrabile. Nel colloquio stesso, quando il Macchio passò sul terreno politico, ricordo benissimo di essere stato riservatissimo e monosillabico. Non c’è da meravigliarsi che il Macchio abbia interpretato le mie reticenze come meglio gli conveniva, né io avrei servito gli interessi dell’Italia se mi fossi lasciato indurre ad oppugnare le affermazioni di Macchio circa il Trentino, in quel settembre 1914, vivente Di San Giuliano, in piena ed apparentemente assicurata neutralità. Ma a parte le deduzioni tendenziose del Tamaro, quello che importa non sono le impressioni di Macchio sul mio conto, ma decisiva è la realtà dei fatti e la realtà è ch’io non ho mai compiuta propaganda per la neutralità presso i giornali cattolici – l’on. Mattei Gentili può essermene testimonio –; che io, durante il periodo della neutralità, sono intervenuto in un momento decisivo presso l’on. Sonnino, al quale ho anche detto che non avevo rotto le relazioni di convenienza ufficiali colle autorità austriache e quindi raccomandavo il segreto più assoluto; circostanza questa che mi procurò l’epiteto di traditore da parte della stampa austriaca. La realtà è inoltre che durante la guerra feci alla Camera viennese opera di risoluta italianità, prima e dopo Caporetto, come dimostra il testo dei miei discorsi: atteggiamento che provocò una campagna del giornale dell’i.r polizia di Trento per indurmi a dare le mie dimissioni e durante questa campagna mi si rinfacciarono proprio anche certi viaggetti intrapresi per mettermi al corrente della situazione del Regno (vedi Risveglio austriaco, 5 maggio 1917) . Che se i miei accanitissimi avversari politici vogliono cancellata tutta questa realtà, facendo ricorso a “documenti austriaci”, ricorderò – e fu già stampato nella polemica dello scorso anno – che nell’istruttoria del governo austriaco contro il vescovo di Trento esiste un documento che designa come rovinoso e fatale per il pensiero austriaco la mia opera di giornalista nel Trentino, e se occorre, pubblicherò una lettera del capo della polizia e vicegovernatore di Trento Wildauer, il quale, avendo retto tale ufficio, quale persona di fiducia del luogotenente del Tirolo, durante tutto il periodo di neutralità, aveva modo di conoscere le cose del Trentino più e meglio del barone Macchio, ed ha ricordato in una corrispondenza ad un suo amico trentino in data 22 aprile 1925 la mia attività politica assai molesta alle autorità austriache, scrivendo fra altro queste testuali parole: “Degasperi mi venne, sempre e in ogni occasione, prima e durante la guerra, segnalato come irredentista, di fronte al quale mi si raccomandava di usare la massima vigilanza”. Documento per documento: ogni persona equanime può giudicare se abbia maggior valore il resoconto inevitabilmente unilaterale di un colloquio con un uomo che mi vedeva allora per un dieci minuti per la prima e l’ultima volta o le dichiarazioni che ho riferito sommariamente del primo funzionario politico austriaco del Trentino che aveva l’incarico di controllare davvicino e per parecchi anni la mia sospetta opera d’italianità. Ma sopra tutto quest’opera e la realtà del mio passato politico, inoppugnabilmente ricostruibile attraverso le testimonianze di amici ed onesti avversari che lo conobbero, mi esonerano dal difendermi più oltre. Grazie dell’ospitalità cortese e mi creda: dev.mo Alcide Degasperi».
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L’on. Degasperi nella sua lettera recente, a proposito del libro del Conrad , opponeva al «documento austriaco» un altro «documento austriaco» che per la sua precisione, per la sua valutazione riassuntiva e complessiva di un lungo periodo e per chi lo ha scritto merita particolare rilievo. Si tratta di una lettera scritta nella primavera scorsa dall’ex consigliere aulico Wildauer, ora in congedo ad Innsbruck e, come tutti i trentini ricordano, per parecchi anni fin dentro i primi mesi della guerra, dirigente la polizia austriaca a Trento e in tutto il Trentino. La lettera è diretta ad un trentino funzionario del cessato regime, buon conoscente del Wildauer, e oltre ad occuparsi di cose personali, contiene alcuni periodi che si riferiscono alla campagna contro l’on. Degasperi, campagna ch’era allora in pieno sviluppo e si nutriva fra altro di una presunta intervista, dimostratasi poi falsa, col D.r. Muck, successo al Wildauer stesso quando questi venne giudicato uomo dalla maniera troppo debole. Il destinatario della lettera ce la mise ancora in aprile a nostra disposizione; ma l’on. Degasperi fu del parere di non pubblicare, parendogli che quanto era stato raccolto nel noto opuscolo del Giordani («una campagna denigratrice») fosse più che sufficiente a dimostrare l’ingiustizia della campagna . Ora che gli attacchi più violenti si ripetono contro l’onorabilità dell’on. Degasperi, crediamo di pubblicarla, come elemento di giudizio anche per avversari onesti, i quali non conoscano, come li conosciamo noi, gli alti sentimenti d’italianità del nostro amico, così ferocemente attaccato. Ecco il testo della lettera in quella parte che interessa: «Innsbruck, 22 aprile 1925 Omissis. Molto sorpreso mi hanno le notizie dei giornali secondo le quali il D.r. Alcide Degasperi sarebbe il bersaglio di una persecuzione politica sotto il pretesto ch’egli non sarebbe un Italiano di sentimenti nazionali e avrebbe a suo tempo nutrite delle tendenze favorevoli all’Austria. In quanto gli attacchi si fondano su tali motivi, non vi può esser dubbio ch’essi sono senza base e senza ragione. Il D.r. Degasperi è sempre stato un uomo molto prudente e che nelle sue espressioni pesava ogni parola; nessuno però che lo conoscesse davvicino o tenesse d’occhio la sua attività dubitava ch’egli non nutrisse sentimenti italiani e meno che tutte le autorità austriache. Specie per il governo provinciale tirolese il Degasperi era persona molto incomoda che gli creava imbarazzi e sul quale politicamente non poteva mai contare. Dopo lo scoppio della guerra per consiglio di amici che temevano per lui, il Degasperi abbandonò ancora a tempo il Trentino per trasferirsi a Vienna e dedicarsi alla cura dei profughi italiani. Se fosse rimasto nel Trentino, anch’egli, come molti altri suoi connazionali ch’erano politicamente meno esposti di lui, ne sarebbe stato allontanato d’autorità e destinato al confino. Il D.r. Degasperi mi venne sempre e ripetutamente, prima e durante la guerra, designato come “Irredentista”, di fronte al quale mi si raccomandava d’usare la massima vigilanza. […] Omissis. Suo devoto D.r. Wildauer».
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Relazione del segretario politico Accolto da una imponente ovazione sorge a parlare il segretario politico on. Degasperi che riferisce sull’attività del partito dal congresso di Torino dell’aprile 1923. Questo congresso rappresentò il primo atto chiarificatore dopo la marcia di Roma, la prima riaffermazione d’indipendenza d’un partito, il quale non volle attenuare o rinnegare le sue linee programmatiche. La sua importanza fu tale nello sviluppo della vita nazionale, che il capo del fascismo e la sua stampa si sono ad esso rifatti ogni qual volta hanno dovuto determinare la propria posizione rispetto agli altri partiti. L’ordine del giorno Sturzo riaffermò allora la continuazione della battaglia per la libertà nell’esercizio dei diritti naturali della persona umana e della società contro ogni pervertimento centralizzatore compiuto in nome dello Stato panteista e della nazione deificata. La partecipazione al governo era ammessa come contributo alla pacificazione da attuarsi sulle basi della libertà e della giustizia. L’oratore dimostra, citando fatti e giudizi dell’on. Mussolini e dei capi del fascismo, come il governo si sia andato orientando invece sempre più intransigentemente verso una concezione statale antitetica a quella riaffermata a Torino: una concezione, cioè, basata moralmente sulla giustificazione e santificazione della violenza; politicamente sullo Stato accentratore, assoluto, sovrastante sui diritti inalienabili della persona, della famiglia, della società. Egli spiega come da questa antitesi dei principii sia scaturito l’accanimento con cui il fascismo avversò il P.P. sino a catalogarlo in primo rango, avanti allo stesso comunismo, tra i sovversivi. L’antitesi dottrinale L’antitesi dottrinale – prosegue l’onorevole Degasperi –, tra le affermazioni fasciste e i principii popolari è evidente. In quanto alla violenza mi pare superfluo opporre alla teoria di Sorel la dottrina dei nostri moralisti. Ricorderemo piuttosto, di fronte alle affermazioni di un uomo di stato, le dichiarazioni di un grande tribuno cattolico che fu tra i più rudi e inesorabili condottieri politici del secolo XIX. O’ Connel , annunciando di partire per la Scozia, diceva: «Voglio ingaggiare il popolo ad agire con sicurezza e a fuggire la violenza: perché la violenza oltre che rafforzare i nostri nemici è un male in sé stessa. Disfido a trovare negli annali del mondo un mutamento in bene portato dalla violenza. Abbiate in disistima l’uomo che vi opprime ma non toccatelo. Riguardatelo come un cane idrofobo, ma evitatene il dente per paura che non vi comunichi la sua rabbia. Noi vogliamo ottenere la pace e il progresso con dei mezzi che nessun uomo onesto possa riprovare e ai quali sorrida la benevolenza di Dio». Ma l’antitesi non è minore per quello che riguarda la concezione dello Stato e della libertà. Qualche cattolico collaborazionista ad oltranza ha tentato in questi giorni di far credere che queste linee teoriche e pratiche del fascismo rappresentino semplicemente un contrasto coi principii e colla pratica del liberalismo classico e che perciò non contraddicano sostanzialmente ai nostri concetti fondamentali. Ma è indiscutibile invece che esse contrastano fieramente col concetto di Stato cristiano. È bensì vero che i popolari come altri partiti a fondo cattolico in diversi paesi sono sorti a combattere il laicismo e l’atomismo dello Stato liberale e il panteismo dello Stato democratico, ma i cattolici combattono anche il concetto assoluto della nazione deificata. Per noi, prima dello Stato, esistono i diritti naturali della personalità umana, della famiglia, della società, della quale lo Stato non è che l’organizzazione politica. Per noi lo Stato non è la libertà, non è al di sopra della libertà, ma la riconosce e ne coordina l’uso. Così fu già affermato a Torino. Ma, a parte ogni contrasto di tendenze, sta il fatto che nelle condizioni attuali della società la pace sociale non è raggiungibile senza il rispetto di alcune libertà fondamentali che vennero garantite nelle costituzioni moderne e che i cattolici oramai, organizzandosi in partiti politici, difendono non solo perché con ciò difendono anche le libertà religiose, ma perché le considerano oramai nelle attuali condizioni norme indispensabili di tolleranza civile. Il contrasto quindi non è tra fascismo e liberalismo, come scuola e metodo transeunti, ma tra fascismo e alcune esigenze fondamentali della organizzazione politica moderna. È insomma il contrasto fra lo Stato di diritto quale si è sviluppato nelle costituzioni moderne e il vecchio Stato di polizia, che tenta ora di ricomparire sotto mutate spoglie. A sviluppare lo Stato di diritto hanno contribuito tutte le scuole e tutti i partiti e soprattutto la trasformazione dei rapporti sociali che portò a nuovi ordinamenti democratici. Ricordate che in molti paesi le leggi fondamentali sulle libertà civili, sulle libertà sindacali, sul suffragio universale debbono la loro nascita o il loro sviluppo all’opera di partiti a fondo cristiano e non dimenticate che gli statuti democratici dei nuovi Stati del dopoguerra, furono elaborati e votati a Weimar come a Vienna, a Praga come a Belgrado e a Varsavia, con la cooperazione anche decisiva dei cattolici. La secessione È in questa tradizione che si inserisce il Partito popolare italiano. Non è quindi un duello fra liberalismo e nazional fascismo, al quale noi dovremmo assistere come spettatori e neutrali e disinteressati, ma i colpi sono diretti contro comuni garanzie di politica libertà e ad una comune opera di tolleranza civile, la quale si dimostra più che mai indispensabile per la parte sociale. L’on. Degasperi ricorda quindi gli episodi più significativi della situazione politica che precedette la campagna elettorale ricordando come nella graduatoria fascista i popolari furono messi come i primi fra i nemici dichiarati . Nonostante tutto, prosegue l’on. Degasperi, i popolari si presentarono alle elezioni con una forza discreta: 137 candidati dei quali deputati uscenti 61, candidati nuovi 76, cinque ex ministri, 9 ex sottosegretari, 15 professori universitari, 40 ex combattenti, 20 decorati al valore, 9 organizzatori; e raggiunsero 40 seggi con 650.000 voti. Alla Camera i popolari entrarono come rappresentanti del gruppo più forte di opposizione. Per i popolari si trattava naturalmente non di opposizione semplicemente pregiudizialista, ma di opposizione sostanziale, di critica completa. L’oratore accenna quindi ad alcune conseguenze che ebbe la secessione parlamentare nell’organismo del partito e nella situazione politica del paese. La secessione, egli dice, accelerò anzitutto un movimento di disimpegno nelle nostre posizioni amministrative. Dopo il delitto Matteotti sorsero qua e là spontaneamente i comitati di opposizione. I comitati non sono che centri locali di collegamento rimanendo piena ed intatta l’autonomia del partito. In tutti questi comitati il Partito popolare accentuò e mantenne sempre la sua intransigenza dottrinale e la purezza della sua bandiera. La polemica sul collaborazionismo Tuttavia, prosegue l’on. Degasperi, né il nostro atteggiamento di rude lealtà in confronto di tutti i partiti di opposizione, né venti anni di lotte che noi, cristiano-sociali, combattemmo per sbarrare la via al socialismo, mentre i conservatori avevano già perduta la partita, valsero a preservarci dal sospetto di dover favorire il socialismo. In un primo tempo la polemica si aggirò sul mio discorso di un anno fa nel quale in termini ipotetici e assai prudenti rilevavo non essere incompatibile coi nostri principi la partecipazione ad un ministero nel quale fossero rappresentati anche i socialisti. Oggi, dopo il recente articolo dell’«Unità Cattolica» che fa il collaudo del gabinetto belga, credo che sia superfluo ritornare sull’argomento. Ma le polemiche si riaccesero con maggior vigore quando si sparse la voce che noi stessimo preparando un blocco elettorale. La cosa ha perduto oggi ogni attualità; tuttavia, di passaggio, mi limiterò a due osservazioni. Non li imiteremo! La prima è diretta a quei polemisti del centro nazionale i quali col quotidiano esercizio hanno acquistata oramai una certa abilità nel denunciarci all’autorità ecclesiastica e alla coscienza dei cattolici come corruttori dei principii cristiani e del costume politico. A costoro dunque risponderemo con l’assicurazione che in nessun tempo e in nessun luogo abbiamo mai accarezzata l’idea di imitare, in caso di elezioni, quei 150 loro amici definiti dai giornali come «le maggiori personalità cattoliche d’Italia» e, nel comunicato ufficiale, come «rappresentanti negli ambienti cattolici ed ex-popolari la tendenza alla leale collaborazione dell’on. Mussolini!», i quali alla vigilia delle elezioni pubblicarono un manifesto in favore del blocco fascista . Questo manifesto, che ebbe larghissima diffusione e fu affisso dagli agenti della maggioranza fin sulle chiese, mentre a noi era praticamente interdetta ogni libertà di parola e di affissione, rappresentava per i nostri ultrapotenti avversari destinati già dal sistema elettorale a ottenere una schiacciante maggioranza, un soccorso superfluo, ma per noi che eravamo pur stretti da tanti nemici fu una pugnalata nella schiena, giacché non solo vi si biasimava chi «per intransigenza di programma o per spirito di critica e di rimpianto del passato» si opponeva al governo, ma con riferimento speciale al nostro partito si asseriva che avevamo tentato invano di giustificare la nostra opposizione «con una pretesa antitesi di principii». Ossia per strappare ai cattolici il voto in favore di un blocco elettorale nel quale erano candidati di tutti i colori, non esclusi vecchi anticlericali, atei e massoni di piazza del Gesù, e toglierlo ai candidati di un partito ad ispirazione cristiana, si negava persino la esistenza di un contrasto di pricipii! Parola d’onore, io impegno fin da ora il partito: i popolari non li imiteranno né per quello che riguarda la fraternità dell’atto, né per quanto riguarda la gelosa custodia dell’ortodossia dottrinale. Dov’è la vera questione di coscienza Altra sarà la risposta a quegli scrittori che ci hanno ammonito con propositi benevoli e con parole di simpatia. A loro vogliamo ripetere quello che la direzione ha già detto nel comunicato del 9 giugno, che cioè non avremmo mai compiuto nessun atto di compromissione o confusione elettorale che potesse comunque turbare la coscienza del popolo, infondendovi l’opinione che le ragioni antitetiche fra popolarismo e socialismo siano attenuate o cadute. Tuttavia, poiché si insiste sulla questione di coscienza, ci si consenta di richiamare l’attenzione sul fatto che il pericolo più grave che minaccia di turbare le coscienze sta nella negazione delle libertà e nella pressione illegale e violenta sull’esercizio del diritto elettorale. L’anima popolare, spinta dal risentimento, è indotta a trascurare ogni differenza di principii per votare in senso estremo. E d’altro canto solo la libertà ci può offrire il modo di affrontare in pieno la battaglia su tutti i fronti con una affermazione intransigente. Codesti nostri autorevoli amici levino quindi la voce in favore delle libere elezioni. Il precetto essenziale del Cristianesimo Oggi, continua l’on. Degasperi, il Partito popolare riafferma l’anima democratica costituzionale dell’ispirazione cristiana per il ristabilimento della forza morale del comandamento d’amore e di giustizia. Che cosa gioverebbe tutto il resto se a chi soffre l’ingiustizia e la violenza e a chi si sente oppresso nei suoi diritti non sapessimo ripetere la parola che deriva dal precetto essenziale del cristianesimo? Tener fermo fino alla fine! Le difficoltà sono enormi; le condizioni eccezionalissime; e noi abbiamo la sventura di non essere dappertutto compresi nello stesso campo cattolico. Ma non importa. Uomini ben più illustri e più benemeriti di noi hanno incontrato la stessa sorte. Carlo di Montalembert dopo venti anni di meraviglioso apostolato politico, perché si oppose al dispotismo di Napoleone III, venne abbandonato da parte dei cattolici – non escluso il clero – del suo vecchio collegio. Alberto de Mun, che dal ’90 in qua era stato il capo del «ralliement» dei cattolici sul terreno costituzionale voluto da Leone XIII, negli ultimi anni dell’anteguerra vide non solo sostituita la formula di concentrazione costituzionale da un eclettismo politico che non ammetteva comunanza se non sul terreno religioso, ma poiché era vice-presidente dell’«Action libérale populaire» lo si tacciò addirittura di liberalismo; e di recente l’ex-cancelliere Marx, fondatore di quella meravigliosa fondazione che è la lega scolastica, non fu accusato da un cattolico nazionalista e conservatore di aver tradito la scuola cattolica per il socialismo? Non bisogna sconcertarsi per le divisioni politiche fra i cattolici. Esse sono in momenti gravi raramente evitabili. Noi non cercheremo di inasprirle e molto meno di trasferirle contro l’azione cattolica la cui caratteristica di apoliticità e di eccellenza ideale va rigorosamente rispettata. Amici, termina l’on. Degasperi, giunti a questo punto voi mi chiederete una conclusione che esprima delle speranze e che faccia delle previsioni. Ma io vi dico che non vi posso dare se non una sicurezza: che questo che ho indicato è proprio l’arduo compito dell’ora che volge e che questa è veramente la battaglia che dobbiamo combattere. Bisogna tener fermo fino alla fine. La relazione Degasperi è stata seguita con il più vivo interesse dall’assemblea e nei punti salienti sottolineata da entusiastici segni di consenso. Alla fine l’oratore è salutato da una imponente ovazione. Si grida: Viva Degasperi! Il congresso tributa al segretario politico del partito una vibrante manifestazione di consenso, di solidarietà e di simpatia. [Versione completa in Atti dei Congressi, 1969] Recentemente l’on. Mussolini per comprovare la tenacità e il logico sviluppo del suo estremismo vantava la risolutezza colla quale aveva soffocato il primo cenno d’indipendenza manifestatosi al congresso di Torino. Strano destino quello del nostro ultimo congresso. Si stampò allora ch’era stato un fiasco solennissimo, un episodio senza conseguenze e senza eco nella vita pubblica italiana; e tuttavia ogni volta che in questi due ultimi anni la spirale della politica mussoliniana si sposta d’un giro è al congresso popolare di Torino che viene pubblicamente ed esplicitamente fatto riferimento. Di Torino si ricordò Cesarò quando nove mesi dopo dovette abbandonare la coalizione governativa, Torino venne rievocato da Mussolini dopo il voto di Assisi, la fine fatta dai popolari a Torino venne minaccia dal Popolo d’Italia ai liberali, alla vigilia del congresso di Livorno e nelle stesse manifestazioni dell’opposizione i partiti aventiniani concordi hanno visto nel congresso di Torino una data evolutiva del sistema fascista. Ed infatti il nostro congresso al di là della stessa questione collaborazionista, fu soprattutto un congresso chiarificatore, il quale collocò entro la massa confusa ed eterogenea della politica italiana i fermenti che dovevano farle polarizzare attorno a due principi contrastanti. Nell’ordine del giorno Sturzo il partito popolare «riaffermava la volontà della sua fondamentale battaglia iniziata nel diciannove, per la libertà nell’esercizio dei diritti naturali della persona e della società contro ogni pervertimento centralizzatore, compiuto in nome dello Stato panteista e della nazione deificata». Così nell’ordine del giorno De Gasperi si approvava la partecipazione dei popolari al ministero ma per cooperare «alla pacificazione sociale e alla disciplina nazionale del paese, assicurata sulle basi indefettibili di ogni regime civile: la libertà e la giustizia». Si badi bene però. Questi concetti dei diritti naturali della persona e della società opposti al monopolismo di stato, e di libertà e giustizia proclamate «basi indefettibili di ogni regime civile» non vennero introdotti con propositi di ostilità contro il governo di Mussolini. Anche i più pessimisti credevano che l’esperimento collaborazionista dovesse venir condotto in fondo e molti speravano che Mussolini volesse mantenere e sviluppare sul serio quel governo di coalizione che egli stesso sotto tal nome aveva presentato alla camera e la cui caratteristica aveva poi esplicitamente e non una sola volta riconosciuto anche nei rapporti coi partiti collaborazionisti. Oggi Mussolini rivendica, a titolo di onore, di avere nella brusca rottura coi popolari dato prova fin dal 1923 dei suoi propositi nettamente e logicamente intransigenti. A dire il vero il modo con cui fu messo assieme il blocco elettorale, il rimpasto nel giugno, il discorso del Cova alla vigilia di Livorno, il trattamento della destra liberale sino al 3 gennaio, tutti questi fatti costituiscono obiezione formidabile alla rivendicazione della logica intransigente. Ma ciò non conta. Quello che conta è che, qualunque sia stato il disegno personale del Duce, l’iniziale impulso intransigente dell’estremismo squadrista del fascismo ha finito col prevalere in modo da impedire qualsiasi collaborazione che non significhi assorbimento o servaggio e fino al punto da proclamare nel congresso testè chiuso, una concezione prettamente dittatoriale ; per cui l’on. Maraviglia concluse che «la caratteristica del fascismo consiste nel negare agli altri partiti la legittimità di essere e di divenire fattori positivi al governo» e nell’affermare «al fascismo il diritto di governare permanentemente la nazione». E Forges nella sua relazione scrisse che «la nazione è la suprema e l’unica realtà e idealità nel mondo e nella storia, viva e concreta» e «la libertà umana solo nella nazione si celebra e si realizza» e «se non c’è identità (fra i partiti) di giudizio, nella concezione fondamentale dell’uomo e dello Stato, c’è la lotta, fino allo sterminio». Lo stesso Mussolini ha dato questa parola d’ordine: «intransigenza assoluta, ideale e pratica» e: «tutto il potere a tutto il fascismo». «Abbiamo portato la lotta sopra un terreno così netto che ormai bisogna essere o di qua o di là, non solo, ma quella che viene definita la nostra feroce volontà totalitaria, sarà perseguita con ancora maggiore ferocia: diventerà veramente l’assillo e la preoccupazione dominante della nostra attività». Ora si vede chiaro, commentava l’Idea Nazionale (24 giugno) che il fascista è il tipo dell’Italiano. Da una parte c’è la stirpe in sviluppo ed è quindi una umanità tutta italiana che si forma, e dall’altra ci sono soltanto categorie mentali e servitù politiche e «dogmi universalistici» in competizione. E i mezzi? S’era detto che le leggi fascistissime avrebbero reso superfluo l’illegalismo e la violenza. Ed eccovi invece il Duce a proclamarne la giustificazione. La violenza è santa «purché abbia in se stessa la giustificazione della sua alta moralità e sia cioè sempre guidata da un’idea e giammai da un basso calcolo e da un meschino interesse». L’antitesi dottrinale tra queste affermazioni e i principi proclamati a Torino è evidente. In quanto alla violenza mi pare superfluo opporre alla teoria di Sorel la dottrina dei nostri moralisti. Contrapporremo piuttosto alle affermazioni di un uomo di Stato le dichiarazioni di un altro uomo di Stato, di un grande tribuno cattolico che fu pur tra i più rudi e più inesorabili condottieri politici del secolo XIX. O’ Connel annunziando di partire per la Scozia diceva: «Voglio ingaggiare il Popolo ad agire con sicurezza e ad evitare la violenza; perché la violenza, oltre che rafforzare i nostri nemici, è un male in se stessa. Vi sfido a trovare negli annali del mondo un mutamento in bene portato dalla violenza. Abbiate in disistima l’uomo che vi opprima, ma non toccatelo. Riguardatelo come un cane idrofobo, ma evitatene il dente per paura che non vi comunichi la sua rabbia. Noi vogliamo ottenere la pace e il progresso con dei mezzi che nessun uomo onesto possa riprovare ed ai quali sorrida la benevolenza di Dio». Ma l’antitesi non è minore per quello che riguarda la concezione dello Stato e della libertà. Qualche cattolico collaborazionista a oltranza ha tentato in questi giorni di far credere che queste linee teoretiche e pratiche del fascismo rappresentino semplicemente un contrasto coi principi e colla pratica del liberalismo classico e che perciò stesso non contraddicono sostanzialmente i nostri concetti fondamentali. Ma è indiscutibile invece che esse contrastano fieramente col concetto di Stato cristiano. È bensì vero che i popolari come altri partiti a fondo cattolico in diversi paesi, sono sorti a combattere il laicismo e l’atomismo dello Stato liberale e il panteismo dello Stato democratico, ma i cattolici combattono anche il concetto assoluto della nazione deificata. Per noi, prima dello Stato esistono i diritti naturali della personalità umana, della famiglia, della società umana, della quale lo Stato non è che la organizzazione politica. Per noi lo Stato non è la libertà, non è al di sopra della libertà, ma la riconosce e ne coordina l’uso. Così fu già affermato a Torino. Ma, a parte ogni contrasto di tendenza, sta il fatto che nelle condizioni attuali della società la pace sociale non è raggiungibile senza il rispetto di alcune libertà civili fondamentali che vennero garantite nelle costituzioni moderne e che i cattolici oramai, oraganizzandosi in partiti politici, difendono non solo perché con ciò difendono anche le ibertà religiose, ma perché le considerano oramai, nelle attuali condizioni, norme indispensabili di tolleranza civile. Il contrasto quindi non è fra fascismo e liberalismo, come scuola e metodo transeunte, ma tra il fascismo ed alcune esigenze fondamentali della organizzazione politica moderna. È insomma il contrasto fra lo Stato di diritto, quale si è sviluppato nelle costituzioni moderne e il vecchio Stato di polizia, che tenta ora di ricomparire sotto mutate spoglie. A sviluppare lo Stato di diritto hanno contribuito tutte le scuole e tutti i partiti, e sovra tutto la trasformazione dei rapporti sociali che portò a nuovi ordinamenti democratici. Ricordate che in molti paesi le leggi fondamentali sulle libertà civili, sulla libertà sindacale, sul suffragio universale debbono la loro nascita e il loro sviluppo all’opera di partiti a fondo cristiano e non dimenticate che gli statuti democratici dei nuovi stati del dopoguerra furono elaborati e votati a Weimar come a Vienna, a Praga come a Belgrado e Varsavia con la cooperazione anche decisiva dei cattolici. È in questa tradizione che si inserisce il partito popolare italiano. Non è quindi un duello tra il liberalismo e il nazional fascismo, al quale noi dovremmo assistere come spettatori neutrali e disinteressati; ma i colpi sono diretti contro comuni garanzie di politica libertà ed una comune opera di tolleranza civile la quale si dimostra più che mai indispensabile per la pace sociale. Io penso che sia appunto questa nostra concezione integrale del contrasto, questo allargamento del fronte, per cui al fascismo è tolto l’aspetto relativamente innocuo del superamento di una classe politica, che ci rende ai suoi occhi particolarmente odiati. Sull’inizio della campagna elettorale gli attacchi più feroci furono diretti contro di noi. «Da questa lotta il gregge di don Sturzo deve uscire annientato, ridotto al silenzio», scriveva Farinacci e il Direttorio fascista annunziava «che avrebbe condotto la lotta elettorale col massimo rigore e con la più grande ampiezza contro tutti i Partiti sovversivi e in particolare contro il P.S.U. e il P.P.I». Alla graduatoria che ci metteva in seconda fila fra i partiti sovversivi il Popolo d’Italia dava il massimo rilievo, e in un altro numero il giornale del presidente del consiglio scriveva che «il popolarismo è già irritante di sua natura a causa di quella non mai chiarita confusione di politica e di religione che giuoca in tutti i suoi atteggiamenti»; che «il fascismo considera i popolari come dei nemici dichiarati e quando si sferrasse un’azione non potrebbe badare troppo al distinguo. Ciò vale per quel tanto o per quel poco di ecclesiastico che si compiace di far girare gli specchi del partito popolare». Questa minaccia di rivalersi contro le associazioni cattoliche ritorna spesso durante la campagna elettorale. Mentre da una parte si sfruttava la lettera del cardinal Gasparri sull’astensione del clero dalle lotte politiche per ricavarne una condanna contro il partito popolare e a dritto e a rovescio si diffondevano fin nei più remoti villaggi presunte parole di uomini di chiesa contro di noi (i nazionalisti germanici fecero altrettanto contro Marx) e si menava gran vanto delle 150 personalità cattoliche che avevano pubblicato un appello in favore del blocco elettorale, si manteneva però sempre minacciosamente levata sulle istituzioni cattoliche la spada di Damocle. A nulla valse che l’azione cattolica ripetutamente dichiarasse per la verità di essere al di fuori e al di sopra di tutti i partiti e che la separazione dal partito popolare fosse rigorosamente mantenuta tanto che i popolari, per qualsiasi riunione dovettero rinunciare anche all’ospitalità temporanea che ovunque società di cultura sogliono offrire a società politiche e viceversa uomini nostri, benemeriti dell’Azione cattolica, in occasione di riunioni cattoliche scegliessero l’ultimo banco, a nulla valse che noi stessi assumessimo sopra di noi e nel nostro organismo politico tutta la responsabilità che comporta la nostra autonomia. Argenta e Castro S. Giovanni ove perirono due sacerdoti, la Brianza, Faenza, Gubbio, Meldola, Trani, Brembate, Pisa, Padova, il Polesine, fino alle ultime devastazioni di Petriolo rappresentano solo alcuni fra i molteplici nomi che ricordano violenze contro le associazioni cattoliche. Sono questi solo dei fatti sporadici o rappresentano un elemento della strategia fascista per ottenere col metodo forte, quello che Cesare Rossi cercava di raggiungere con la campagna della stampa, quando in un’istruzione confidenziale pubblicata dal Popolo nella scorsa estate voleva si stabilisse alla propria stampa un atteggiamento di precisa denuncia affinché la Santa Sede non «parasse col manto della sua riconosciuta autorità universale la faziosa attività del partito popolare italiano». Nonostante tutto i popolari si presentarono alle elezioni con una forza discreta: 137 candidati, dei quali deputati uscenti 61, candidati nuovi 76, cinque ex ministri, 9 ex sottosegretari, 15 professori universitari, 40 ex combattenti, 20 decorati al valore, 19 organizzatori; e raggiunsero 40 seggi con 650 mila voti. Alla Camera i popolari entrarono come rappresentanti del gruppo più forte d’opposizione. Per i popolari si trattava naturalmente non di opposizione semplicemente pregiudizialista, ma di opposizione sostanziata, di critica concreta. Ricordiamo in proposito che il Consiglio nazionale, convocato il 20 maggio 1924, voleva che l’opposizione popolare alla Camera si concentrasse sui seguenti punti: 1) riesame della legislazione dei pieni poteri allo scopo di influire sulla pubblica opinione e orientare la propria attività in base ai principi informatori di un sano principio democratico; 2) difesa della libertà di associazione e urgenza di organizzare le rappresentanze sindacali; 3) difesa delle amministrazioni locali; 4) radicale riforma del decreto sulle Opere Pie; 5) riforma ecclesiastica; 6) riforma dei codici; 7) revisione dei provvedimenti finanziari sulla base di un orientamento democratico. Come quest’opera fosse dal gruppo parlamentare iniziata e venisse improvvisamente e tragicamente interrotta dirà poi l’on. Tupini nel sua relazione sull’attività parlamentare. È mio compito invece di dar rilievo ad alcune conseguenze ch’ebbe la secessione parlamentare nell’organismo del partito e nella situazione politica del paese. 1. La secessione accelerò anzitutto quel movimento di disimpegno dalle posizioni amministrative che però era già stato iniziato sotto l’urto preelettorale coi fascisti: basti ricordare l’amministrazione provinciale di Vicenza che aveva dovuto dimettersi benché il governo si fosse dichiarato soddisfatto dell’opera sua. Seguirono i casi di Milano comune e di Milano provincia e la uscita dei consiglieri popolari dalla Giunta bolognese. Abbiamo dato in seguito la istruzione generale che pur cercando di evitare scosse improvvise alle amministrazioni locali, i nostri amici cogliessero la prima occasione di un dissenso politico per disimpegnarsi dalle coalizioni amministrative colla maggioranza. Questa norma venne generalmente seguita. La situazione amministrativa è ora caratterizzata dalla manomissione dello Stato sulle autarchie locali che in quasi tutti i centri più importanti sono rette da Commissari governativi e dal quasi coattivo raggruppamento dei comuni nell’associazione fascista degli enti autarchici, la quale impone una tassa su tutti i cittadini dei comuni aderenti. Di elezioni generali amministrative differite coll’ultimo decreto all’estate 1925 non si parla. Si parla invece della ricostituzione dei Podestà medioevali e dei segretari comunali di Stato. 2. Dopo il delitto Matteotti sorsero qua e là spontaneamente i comitati di opposizione. La nostra prima istruzione fu di carattere prudenziale, consigliando le sezioni, ove non sorgessero difficoltà troppo gravi, a mandarvi di volta in volta dei delegati coll’incarico di mantenere i contatti e riferire. Più tardi, specie all’inizo di quest’anno, i comitati s’imposero in tutti i centri più importanti, come la necessaria conseguenza dell’inerzia parlamentare. Se si rinunziava ad agire a Montecitorio, bisognava per orientare l’opinione pubblica, agire nel Paese. Abbiamo allora invitato gli amici a non essere assenti e li abbiamo sollecitati a delegare un rappresentante in ciascun comitato. Anche in questa seconda fase però i comitati non sono che centri locali di collegamento, rimanendo piena ed intatta la autonomia dei partiti. In tutti questi contatti il partito popolare accentuò e mantenne sempre la sua intransigenza dottrinale e la purezza della sua bandiera. Nessuna concessione venne fatta al bloccardismo di vecchia maniera, nessun dubbio venne lasciato sul nostro proposito di riconquistare la libertà per usarne in difesa delle idee nostre e delle nostre direttive politiche. A Napoli in via dei Sette dolori ospitammo i rappresentanti delle opposizioni di tutto il Mezzogiorno, ma dall’alto della parete pendeva il Segno della redenzione. Un’onda di devastatori, penetrata nella nostra sede il 10 giugno, abbatteva anche l’immagine del Cristo. Noi preghiamo gli amici di Napoli di ricollocare la Venerata Immagine nel posto antico, perché sia conservata al partito popolare quell’augusta testimonianza. Tuttavia né il nostro atteggiamento di rude lealtà in confronto di tutti i partiti di opposizione, né venti anni di lotte che noi, cristiano-sociali combattemmo per sbarrare la via al socialismo, mentre i conservatori avevano già perduta la partita, valsero a preservarci dal sospetto di voler favorire il socialismo. Non giovò nemmeno il fatto che, nonostante l’alleanza aventiniana, avevamo tagliato corto ad ogni discussione sull’«unità» sindacale, per quanto non ignorassimo che era stato lecito di tentare un simile esperimento non solo a Gaspare Decurtins in Svizzera, ma anche agli amici dell’abate Desgranges in Francia i quali furono per dieci anni associati alla C.G.T. In un primo tempo la polemica si aggirò sul mio discorso di un anno fa nel quale in termini ipotetici e assai prudenti rilevavo non essere incompatibile coi nostri principi la partecipazione ad un Ministero nel quale fossero rappresentati anche i socialisti. Oggi dopo il recente articolo dell’Unità Cattolica che fa il collaudo del Gabinetto belga, credo sia superfluo di ritornare sull’argomento. Ma le polemiche si riaccesero con maggior vigore, quando si sparse la voce che noi stessimo preparando un blocco elettorale. La cosa ha perduto oggi ogni attualità; tuttavia, di passaggio, mi siano permesse due osservazioni. La prima è diretta a quei polemisti del centro nazionale i quali col quotidiano esercizio hanno acquistato oramai una certa abilità nel denunciarci all’autorità ecclesiastica e alla coscienza dei cattolici come corruttori dei princìpi cristiani e del costume politico. A costoro dunque risponderemo coll’assicurazione che in nessun tempo e in nessun luogo abbiamo mai accarezzata l’idea d’imitare, in caso di elezioni, quei cento e cinquanta loro amici definiti dai giornali come «le maggiori personalità cattoliche d’Italia» e nel comunicato ufficiale come «rappresentanti negli ambienti cattolici ed ex popolari, la tendenza alla leale collaborazione dell’on. Mussolini», i quali alla vigilia delle elezioni pubblicarono un manifesto in favore del blocco fascista. Questo manifesto che ebbe larghissima diffusione e fu affisso dagli agenti della maggioranza fin sulle chiese, mentre a noi era praticamente interdetta ogni libertà di parola e di affissione, rappresentava per i nostri ultrapotenti avversari destinati già dal sistema elettorale ad ottenere una schiacciante maggioranza, un soccorso superfluo, ma per noi che eravamo pur stretti da tanti nemici fu una pugnalata nella schiena, giacché non solo vi si biasimava chi «per intransigenza di programma, o per spirito di critica o di rimpianto del passato» si opponeva al governo, ma con riferimento speciale al nostro partito si asseriva che avevamo tentato invano di giustificare la nostra opposizione «con una pretesa antitesi di principi». Ossia per strappare ai cattolici il voto in favore di un blocco elettorale, nel quale erano candidati di tutti i colori, non esclusi vecchi anticlericali, atei e massoni di Piazza del Gesù, e toglierlo ai candidati di un partito ad ispirazione cristiana, si negava perfino la esistenza di un contrasto di princìpi! Parola d’onore, io impegno fin d’ora il partito: i popolari non vi imiteranno né per quello che riguarda la fraternità dell’atto, né per quanto riguarda la gelosa custodia dell’ortodossia dottrinale. Altra sarà la risposta a quegli scrittori che ci hanno ammonito con propositi benevoli e con parole di simpatia. A loro vogliamo ripetere quello che la Direzione ha già detto nel comunicato del 9 giugno, che cioè non avremmo mai compiuto nessun atto di compromissione o confusione elettorale che potesse comunque turbare la coscienza delle masse, infondendovi l’opinione che le ragioni antitetiche fra popolarismo e socialismo siano attenuate o cadute. Tuttavia, poiché si insiste sulla questione di coscienza ci si consenta di richiamare l’attenzione sul fatto che il pericolo più grave che minaccia di turbare le coscienze sta nella negazione della ibertà e nella pressione illegale e violenta sull’esercizio del diritto elettorale. L’anima popolare, spinta dal risentimento, è indotta a trascurare ogni differenza di princìpi per votare in senso estremo. E d’altro canto solo la libertà ci può offrire il modo di affrontare in pieno la battaglia, su tutti i fronti, con un’affermazione intransigente. Codesti nostri autorevoli amici levino quindi la voce in favore delle elezioni libere. È l’unico modo di far elezioni sincere, e non turbate da equivoci e da compromessi. Ma, come abbiamo avvertito precedentemente, l’ipotesi elettorale non presenta oggi caratteri d’urgenza né durante tutta la nostra azione aventiniana, ci preoccupammo di tale eventualità in modo eccessivo. Ben importava invece, indipendentemente da ogni considerazione elettorale, di preparare un’orientazione dell’opinione pubblica. A tale fine venne dedicato il manifesto che il consiglio nazionale pubblicò il 24 gennaio, nel sesto anniversario della fondazione del partito. Esso mirava ad orientare quante più forze fosse possibile verso una restaurazione democratica che si tenesse lontana da una parte dai pericoli dell’estremismo sociale, dall’altra dalle deviazioni anticlericali e antichiesastiche. Il manifesto concretava l’azione comune nelle seguenti rivendicazioni pregiudiziali: «ristabilire nello spirito e nella forma la costituzione che rappresenta il patto solenne fra Re e popolo abolendo ogni milizia di parte; ripristinando tutte le libertà politiche e sindacali, particolarmente quelle di stampa, di riunione e di associazione, delle quali tutte – secondo lo Statuto – è garante la Monarchia costituzionale; ridonare efficienza e valore al sistema rappresentativo, assicurando la piena funzionalità del Parlamento con l’abbandono dei pieni poteri formalmente richiesti, o effettivamente esercitati per mezzo dei decreti legge; la sincerità e la giustizia nella consultazione elettorale con un’assoluta garanzia di un’atmosfera di libertà affinché la astensione non diventi una espressione collettiva di protesta e di condanna con un pericoloso distacco del paese e delle sue istituzioni; rinvigorire la fiducia della coscienza pubblica nella magistratura, eliminando ogni illecita ingerenza nel corso della giustizia, la quale deve essere sottratta ad ogni influenza di governo e di parte con l’autonomia del suo ordinamento, e svolgere in piena lìbertà la sua alta funzione di tutela del diritto e di accertamento delle responsabilità in confronto di tutti i cittadini, qualunque sia il posto che occupino e il partito in cui militino; garantire la giustizia nell’amministrazione, al disopra dei partiti per tutti e verso tutti rendendo impossibili gli arbitrî commessi con mentito richiamo alla legge comunale od a quella di pubblica sicurezza, ed in genere nella nostra polizia preventiva; decentrando funzioni e poteri attraverso la autonomia degli enti locali, assicurando l’indipendenza dei funzionari». Il nostro proclama venne confiscato. Ognuno sente però che se ci fosse concesso di agitarlo liberamente, esso trascinerebbe con sé la maggioranza della nazione. Esso significa: sistema democratico di governo, ordine sociale, libertà civile e pace religiosa. Agitare questo programma, rimane uno dei principali compiti del nostro partito. Il nostro congresso intende contribuire a questo compito, riaffermando e precisando ancora una volta le nostre aspirazioni e i nostri postulati in confronto dell’attuale momento politico. Attraverso le varie relazioni e gli ordini del giorno esso riaffermerà che il partito popolare italiano dalle linee fondamentali della propria concezione della vita trae ancor oggi le ragioni della sua particolare fisionomia e riconfermerà di essere l’espressione politica della democrazia cristiana, un organismo politico per agire sul terreno politico con propria responsabilità, proprie funzioni e con un determinato programma politico, economico, sociale, adeguato all’esigenze e alle finalità della situazione politica nazionale. Il congresso riaffermerà i concetti basilari del partito sui poteri pubblici e sulle libertà attingendo da quella dottrina che prima di ogni rivoluzione e di ogni formula liberale garantisce la personalità umana, stabilendo la priorità dei diritti pubblici e formulerà il suo pensiero sulla situazione finanziaria, sulla questione operaia e sull’organizzazione delle classi, sulla scuola, sui rapporti fra Stato e Chiesa e sui rapporti internazionali. Ma questo congresso deve essere sovratutto un atto di fede nella verità e nell’irresistibile efficacia di quell’idea fondamentale, che gli viene dalla ispirazione cristiana, dall’idea cioè della fraternità e della giustizia sociale. Che cosa gioverebbe tutto il resto, se a chi soffre ingiustizia o violenza e a chi si sente torteggiato nei suoi diritti non sapessimo ripetere la parola che deriva dal precetto essenziale del cristianesimo? Così con qual diritto ci vanteremmo d’ispirarci anche nella vita pubblica ai comandamenti del Cristo, se nella presente situazione non sentissimo il dovere di levare la voce per l’amore, per la carità, per la giustizia? Il Partito popolare, se oggi tacesse e sfuggisse con formule equivoche al contrasto che è nella dottrina e nella pratica politica, avrebbe perduto per sempre i titoli della sua caratteristica. Noi vogliamo la pace e l’ordine, ma l’ordine che nasce dalla giustizia. Il timore non è ordine, dice san Tommaso, ma un puro fatto materiale. Il vero ordine si ha solo se esso deriva dall’amore. È questo il più profondo significato della parola pace in senso cristiano ed è questo il precetto fondamentale che deve ispirare la politica a sensi di fraternità e di giustizia. Ecco, amici, il nostro compito, la nostra dura battaglia. Non la si può evitare senza venir accusati dai contemporanei e dalla storia di diserzione. Le difficoltà sono enormi: le condizioni eccezionalissime; e noi abbiamo anche la sventura di non essere dappertutto compresi, nello stesso campo cattolico. Ma non importa. Uomini ben più illustri e più benemeriti di noi hanno incontrato la stessa sorte. Carlo di Montalembert dopo vent’anni di meraviglioso apostolato politico perché si oppose al dispotismo di Napoleone III venne abbandonato da parte dei cattolici – non escluso il clero – del suo vecchio collegio. Alberto de Mun, che dal ’90 in qua era stato il capo del ralliement dei cattolici sul terreno costituzionale, voluto da Leone XIII, negli ultimi anni dell’anteguerra vide non solo sostituita la formula di concentrazione costituzionale da un eclettismo politico che non ammetteva comunanza se non sul terreno religioso, ma perché era divenuto vicepresidente dell’Action libérale populaire lo si tacciò addirittura di liberalismo; e di recente l’ex cancelliere Marx, fondatore di quella meravigliosa associazione che è la Lega scolastica non fu accusato da un cattolico nazionalista e conservatore di aver tradito la scuola cattolica al socialismo? Non bisogna sconcertarsi per le divisioni politiche fra cattolici. Esse sono, in momenti gravi, raramente evitabili. Noi non cercheremo d’inasprirle e molto meno di trasferirle entro l’Azione cattolica la cui caratteristica di apoliticità e di eccellenza ideale va rigorosamente rispettata. Amici, giunti a questo punto, voi mi chiederete una conclusione che esprima delle speranze e che faccia delle previsioni. Ma io vi dico che non posso dare se non una sicurezza: che questo che ho indicato è proprio l’arduo compito dell’ora che volge, e che questa è veramente la battaglia che dobbiamo combattere. Bisogna tener fermo fino alla fine. Anche nel nostro caso, come in quello del celebre generale che pur vinse la battaglia, non c’è altro d’aggiungere! [Replica alla discussione] DE GASPERI rispondendo ai vari oratori, rileva che la questione aventiniana è da più mesi esaminata dai gruppi e dai partiti di opposizione. Tante discussioni si sono fatte pro o contro ma è sempre prevalsa la tesi della secessione. Riafferma che l’Aventino è un mezzo ma non un fine. C’è chi invece invoca un gesto dall’Aventino ma non riflette se un gesto possa rendere efficace risultato. Altri invece vogliono una sortita dall’Aventino per uscire in qualche modo dall’attuale periodo di stasi. Ma anche da questo aspetto la situazione è stata lungamente vagliata e si è finito col riconoscere che le possibilità di risultati concreti erano scarse mentre si correva il rischio di sciupare vanamente la protesta aventiniana. Ora – prosegue De Gasperi – io attingo dal congresso questa convinzione: noi non potremo modificare la nostra tattica sino a quando non avremo la certezza che un nuovo atteggiamento potrà dare concreti risultati alla causa della giustizia e della libertà. Oggi non c’è altro sbocco alla situazione che le elezioni, ma per questo bisogna avere almeno una certa libertà. Lasciamo ogni questione di tattica, tutti i deputati sentono la responsabilità e la gravità del momento. L’on, De Gasperi mette quindi in luce il significato di questo congresso che, convocato in un momento difficilissimo fra ostacoli e difficoltà d’ogni genere è riuscita una imponente rassegna delle forze popolari. Elogia il partito che ha saputo rispondere con slancio alla chiamata dei dirigenti. Bisogna resistere. Il partito ha dimostrato di non essere né morto né in catalessi. Questo congresso sta a dire che il partito è vivo e che si cerca nella politica italiana la sua via. E proprio per questo è necessario che vengano apprestati i mezzi per la vita del partito e per le sue opere di propaganda e di organizzazione. Il programma che si deve preparare è questo: la ricostruzione democratica del paese. Il compito è difficile ma molto si è ottenuto. Pensiamo a ciò che è oggi la formazione delle nostre masse e a quanto la stessa perdita e compressione delle libertà ha contribuito all’affermazione nei cuori di questo ideale. Oggi si discute sulle ragioni dell’esistenza e si dimostra che il partito aveva diritto di nascere, di vivere e di governare, che ha le forze per prepararsi a governare l’Italia. Pensiamo anche a quello che è stato il progresso di alcune idee nei rapporti con altri partiti. Si volevano fissare le condizioni per il riacquisto delle libertà civili e per la certezza che domani si possa avere la nostra libertà religiosa. È un fatto che oggi le masse si svuotano dell’anticlericalismo di ieri. D’altra parte molta borghesia riconosce finalmente la nostra essenza democratica. Si può dire che il partito è nel solco tracciato da Oznam il quale dopo la rivoluzione del ’48 tornava alla sua cattedra alla Sorbona dicendo di risalirvi a fronte alta perché da quella aveva sempre insegnato il diritto ed il rispetto della libertà . A questa fede bisogna sempre riattaccarsi. Imparino tutti, democratici, liberali e socialisti che il partito anche quando ha lottato contro di loro, ha lottato in difesa della libertà perché prima di ogni altra idea esiste la dottrina di Cristo, e se ognuna di queste idee dovesse cadere, rimarrà sempre il diritto cristiano della libertà della persona umana. Conclude chiedendo l’approvazione dell’opera compiuta. La discussione ha giovato come gioveranno le discussioni sugli altri temi. Il congresso non voglia impegnare il futuro, ma dia ai suoi dirigenti il compito di tenere alta la bandiera del partito e di agire secondo gli ideali del partito stesso. L’ordine del giorno di De Gasperi e Tupini è approvato per acclamazione . Il congresso applaude a lungo all’indirizzo del segretario politico. [Dichiarazione 30 giugno] Al termine della relazione Fino , A. De Gasperi fa la seguente dichiarazione: Il congresso delibera come partito politico di italiani i quali vogliono che lo Stato riconosca alla Chiesa la libertà. Come cattolici i popolari sanno che la Chiesa, in qualunque eventuale trattativa ed accordo, sa salvaguardare sempre l’indipendenza assoluta del suo magistero di dottrina e la supremazia del suo trionfo morale. [Saluto finale] De Gasperi abbraccia l’on. Brenci e con commozione ringrazia lui e i combattenti della significativa manifestazione. Essa è rivolta, dice l’on, De Gasperi, da eroici combattenti e quel popolo trentino che fu ben degno del sacrificio e preparò in tanti anni di resistenza il trionfo della stirpe sulla frontiera delle Alpi. L’oratore è vivamente acclamato. Proseguendo, l’on. De Gasperi rileva la magnifica riuscita del Congresso, la maturità politica delle sue discussioni nelle quali ognuno ha parlato con ponderazione e autonomia di pensiero dichiarando che il Congresso nelle proporzioni datesi di proposito ha dimostrato di valere più di un’assemblea rumorosa. Ringrazia quindi il Presidente on. Merlin, il suo compagno di lavoro, instancabile avvocato Spataro, i relatori tutti, il solerte Ufficio stampa e tutti gli intervenuti. Accenna infine alle adesioni pervenute da ogni parte di Italia.
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Le presenti circostanze mi determinano a lasciare prossimamente la direzione di questo giornale. Mando fin d’ora un cordiale saluto a tutti gli amici e collaboratori, nella certa fiducia che vorranno continuare il loro appoggio al «Nuovo Trentino» al quale ho dato la mia modesta opera per oltre un ventennio . Il cambiamento di direzione avverrà quando sarà dato il riconoscimento al nuovo direttore che, a norma di legge, dev’essere anche gerente responsabile . Alcide Degasperi .
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L’anno or ora decorso fu per il parlamento germanico un anno d’intenso lavoro. In questo periodo cade la discussione del patto di garanzia e di sicurezza, la votazione della riforma finanziaria, l’accettazione delle nuove tariffe doganali, la votazione del disegno di legge sulla rivalutazione. Quando si pensi che tali leggi di grande linea politica, ma anche di complesso carattere tecnico poterono venir discusse e licenziate, nonostante le scosse portate dalla lunga e dilacerante crisi ministeriale, per cui oggi ancora è al governo un gabinetto di minoranza, e malgrado il solco approfondito tra i partiti dalle elezioni presidenziali, e quando si aggiunga che in mezzo a tali dibattiti si trovò modo e tempo di riformare e adattare alle nuove condizioni economiche quasi tutta la legislazione di previdenza sociale, converrà ammettere che il metodo parlamentare colle sue commissioni permanenti ha dato ancora una prova luminosa della sua feconda vitalità . È certo però che il merito principale di questa attività ed in particolare dell’opera di riforma sociale va attribuito ai deputati del Centro germanico. Specialisti come Stegerwald, Andre , Gerig e la signora Teusch , affiancati da capi come Marx e Schreiber e Brauns, ispirandosi alle grandi tradizioni che vanno congiunte ai nomi di Ketteler, Windhorst, Gallen, Hertling, Hitze e Trimborn, continuarono anche nel dopo guerra la battaglia per la riforma sociale . Le difficoltà oggettive da superare, sono facilmente immaginabili, quando si pensi ai rivolgimenti economici del Reich e le obiezioni degl’industriali contro «gl’insopportabili pesi della legislazione sociale», se nel periodo postbellico si sono fatte sentire in tutti paesi, si comprende come in Germania, sottoposta al piano Dawes, si siano fatte valere con estrema insistenza. Il Centro, sostenuto dall’opera indefessa di Mons. Brauns, titolare da cinque anni del ministero del lavoro, tenne fermo tuttavia al principio che le provvidenze sociali sono una premessa indispensabile del risorgimento economico e che non vi è nessuna ripresa industriale sana e duratura, quando i finanziatori e i direttori delle imprese non siano disposti preventivamente ad assogettarsi ai pesi della legislazione sociale. Dal punta di vista economiconazionale il bilancio di un’impresa, apparentemente attiva, risulta sempre in deficit, quando i rappresentanti più diretti del lavoro non vi trovino la possibilità di mantenere decorosamente e sicuramente la propria famiglia. D’altro canto gl’industriali tedeschi bisogna che facciano bene i loro calcoli: o pagare 1650 milioni di marchi per le assicurazioni operaie (in confronto di 1250 milioni dell’ante guerra) o aumentare i salari e arrivare alla partecipazione degli operai nelle imprese. La prima forma di contribuzione è ancora quella che reca meno rischi e pesi minori. Non possiamo qui in poche pagine riferire sui particolari delle proposte presentate in argomento dai deputati del Centro o dei disegni di legge in materia sociale, votati quest’anno dal Parlamento germanico. Ci limiteremo a ricordare le linee principali. Il 26 giugno 1925 il Reichstag votava a grande maggioranza la novella sulla assicurazione contro gl’infortuni. Essa si fonda in buona parte su proposte o emendamenti del Centro. Si è anzitutto allargato il concetto d’infortunio sul lavoro «estendendolo anche agli accidenti avvenuti sull’andata o nel ritorno del luogo del lavoro e alle malattie professionali (malattie causate da prodotti chimici, avvelenamenti ecc.)»; si è stabilito che l’assicurato oltre alla cura per malattia e alla rendita abbia diritto anche all’«avviamento professionale», per poter riprendere la vecchia o una nuova professione; si sono introdotte oltre la pensione personale delle aggiunte per i figliuoli incapaci al guadagno; si sono migliorate le provvidenze per i superstiti in caso di morte e altre migliorie vennero deliberate per i gruppi speciali dei lavoratori della terra. Ma il lavoro più difficile fu quello della rivalutazione delle vecchie pensioni operaie dell’anteguerra e di quelle maturate durante il caotico periodo dell’inflazione monetaria. E sovratutto questa rivalutazione proporzionata alle varie fasi economiche della vita tedesca, che porta come conseguenza finanziaria complessiva della novella di legge un maggior aggravio di cento milioni di marchi oro. Lo stesso lavoro di rivalutazione venne fatto per l’assicurazione contro l’invalidità e la vecchiaia. A tale scopo il Centro nella sua proposta di legge 12 gennaio 1925 aveva proposto un aumento del contributo statale da 115 a 250 milioni. Dopo lunghe trattative, svoltesi nella commissione politico-sociale, l’aumento fu infine votato in 250 milioni. È interessante constatare come il Brauns, assistito dagl’istituti assicurativi sia riuscito a rimettere in pieno vigore il meccanismo assicurativo colle sue pensioni e i suoi sanatori, nonostante che la guerra e l’inflazione avessero distrutti i capitali e le riserve matematiche. Di due altri importantissimi progetti dovuti all’iniziativa del Centro, sta ora occupandosi la commissione parlamentare di politica sociale: l’una riguarda i tribunali di lavoro l’altra i sussidi per i disoccupati. I tribunali del lavoro, secondo il disegno del Governo, sono competenti per tutti i litigi riguardanti le condizioni di lavoro, sia degli operai privati che degli addetti pubblici, ma nei giurì sono rappresentati in misura paritetica tanto i datori del lavoro, quanto gli operai. Conviene però in argomento osservare che siamo ancora nello stadio di elaborazione. È noto che in base ad una legge antecedente i contratti collettivi si riguardano giuridicamente obbligatori solo quando il ministro del lavoro, di volta in volta e caso per caso, li dichiara ufficialmente tali. Il governo ha fatto finora di tale diritto scarsissimo uso, anche perché i sindacati non sono favorevoli a cadeste tariffe ufficiali. Il centro si è adattato a tale generica autorizzazione, raccomandando però la massima precauzione; sta anzi sui banchi della Camera una proposta dell’on. Becker che impone al ministro di concedere l’obbligatorietà solo a quei contratti che sono stati conclusi, dopo aver sentite tutte le organizzazioni interessate. La proposta mira ad escludere qualsiasi possibilità di monopolio socialista. In questo riguardo la fatica del Centro non è stata vana, giacchè gli è sempre riuscito, perfino nei tempi dei «consigli degli operai», di conservare la libertà di sviluppo e l’efficenza dei sindacati cristiani. Il perché è chiaro: accettato una volta e applicato sinceramente il metodo democratico e il principio della rappresentanza elettiva, è possibile anche alle minoranze cattoliche e alle forze sociali organizzate di difendere e mantenere la propria ragione d’essere. L’opera dello Stato diventa coordinatrice delle libere iniziative sociali; e anche là, ove l’intervento ufficiale autoritario sembri discutibile, esso può in via di fatto divenire accettabile, quando il ministro che interviene sia responsabile innanzi ad una Camera elettiva che rappresenta tutte le forze del paese. Ci rimarrebbe ancora da dire dell’opera del Centro nella riforma delle leggi minori di previdenza sociale, ma qui il nostro campo d’indagine diverrebbe troppo vario ed ampio, giacché tale legislazione dopo la riforma finanziaria del ’24, è stata trasferita dal Parlamento alle Diete regionali. A proposito ci basti segnalare questo particolare interessante: che in tale campo hanno fatto ottima prova le… deputatesse, e che fra le deputatesse si distinguono in prima linea quelle elette dai cattolici. Sono signore che hanno fatto la scuola della pubblica carità nelle associazioni di S. Vincenzo e considerano l’attività legislativa come il coronamento della loro opera caritativa: attestazione vivente della verità che la riforma sociale cristiana non è che il trasferimento in formule di diritto di quei precetti di carità che rappresentano per il cristiano un obbligo di coscienza. Onde la riforma sociale verrà pervasa da tale spirito di fraternità o sarà opera vana destinata all’insuccesso. Berlino, Gennaio 1926 (a. d.)
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Parlando della Svizzera non bisogna pensare a grandi masse e a forti cifre. La Federazione Centrale non sorpassa i cinquantamila soci; ma la costruzione organizzativa è interessante e degna di essere imitata. Essa si compone di tre grandi corpi centrali, coordinati però e subordinati ad una sola linea architettonica. Da una parte si hanno le Società Operaie Cattoliche confessionali, come vengono specificate dall’ufficiale Fuhrer durch die Christlich-Soziale Bewegung der Schweiz (S. Gallo, 1925), che sono di varia specie: maschili, femminili, per gli addetti al commercio, per gli impiegati, per gli addetti all’industria alberghiera ecc. e sotto il qual titolo si possono comprendere anche i Gesellenvereine, società create – come è noto – dal Kolping per gli apprendisti della piccola industria. La maggior parte di queste associazioni sono tedesche, come si può immaginare; vi è però anche una Union romande des organisations chrétiennes sociales e l’Unione Ticinese. Il secondo corpo dell’edificio è dato dalle organizzazioni economiche che sono: cooperative di consumo con un consorzio centrale, cooperative di credito con una banca centrale, società assicurative contro le malattie, l’invalidità e la vecchiaia, e una stamperia cooperativa. A questi due corpi sovrasta il Zentralverband, il quale – secondo lo statuto – tende all’attuazione delle idee cristiano-sociali sul terreno religioso, politico ed economico coi seguenti principi: religiosità dei singoli e delle collettività, solidarismo economico, democrazia cristiana nel regime politico. Parallela a questa organizzazione cristiano-sociale, svolgono la loro attività due altre specie di associazioni, cioè l’Unione popolare e la Gioventù cattolica da una parte e la Confederazione sindacale dall’altra. Le due prime create sul tipo germanico, sono organizzazioni di formazione e di coltura, dirette e controllate da vicino dal clero; la seconda è una lega «aconfessionale», nel senso cioè che accoglie operai cattolici e protestanti purchè vogliano combattere le battaglie della vita sindacale secondo i principi elementari del cristianesimo, al di fuori del socialismo. Si tratta di dodici Sindacati che diramano le loro sezioni in tutta la Svizzera (tessili, metallurgici, edili, alberghieri, operai del legno, delle comunicazioni, dei trasporti, del libro, decoratori, statali, macellai, fornai). Anche nella Svizzera quindi, come in tutti gli altri paesi dell’Europa centrale, si mantiene sempre la duplicità della organizzazione operaia: da una parte la società operaia cattolica – vecchio tipo – coll’assistente ecclesiastico e con scopi preminentemente di formazione spirituale e sociale; dall’altra il sindacato con scopi prevalentemente professionali ed economici. In genere è obbligatorio per i membri della società cattolica di essere soci del sindacato cristiano, come è naturale che gli operai cattolici formino pure il nerbo dei cooperatori cristiani. Occorre aggiungere che in via di fatto anche l’attività politica si svolge negli stessi nuclei. Può darsi che l’organizzazione cattolica «al di sopra e al di fuori dei partiti» sia una necessità a cui debba arrivare la prossima generazione: ma oggidì questa netta divisione non si riscontra in nessuna parte di Europa nella quale i Cattolici svolgano un’attività politica, se pur non vogliasi accettare come tale l’appartenenza al blocco nazionale francese; ed è già molto se, come avviene in Germania, si arriva ad una distinzione ben marcata di responsabilità e di funzione fra il movimento cattolico-sociale e quello politico. Né, quando si pensi che i militanti del cattolicismo sono in Europa una minoranza esposta sempre all’impeto e alle erosioni delle due opposte correnti – socialista e nazionalista – potrà sembrare strano che i volenterosi non siano in tal numero da potersi dedicare gli uni esclusivamente alla politica, gli altri all’azione cattolica propriamente detta. Vorremmo anche aggiungere in ogni caso che la formula «al di sopra e al di fuori dei partiti» è interpretata autorevolmente in Francia e in Germania come «al di fuori e al di sopra dei partiti cattolici» (vedere il programma della Fédération nationale catholique e Neudorfer politische oder kirchliche Einheitsfront der deutschen Katholiken, in «Germania» n. 179 del 1926), cosicché mai essa può venire gabellata per una formula agnostica e opportunistica rispetto a tutti in genere i partiti politici. a.d.
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Quando copiando il Sorel, si parla del mito del fascismo, come lo scrittore sindacalista parlava del mito dello sciopero generale, si usa un’espressione che risale allo scetticismo storico di Bergson e che sarebbe molto impropria se la si volesse applicare all’ideologia cristiana. Poiché tuttavia, bene o male, il concetto è divenuto oramai comune, mi si permetta di ricorrervi per affermare che Leone XIII non fu solo il maestro della democrazia cristiana, ma fu sovratutto il creatore del suo mito; giacché più che gl’insegnamenti, già contenuti nei libri dei sociologi, egli ci diede una bandiera, ci segnalò una battaglia da combattere, creò in noi lo stato d’animo del combattente e ci lanciò alla vittoria con la sicurezza di conquistare un nuovo mondo più bello e più cristiano. Leone fu un capo, come amano le masse nella loro psicologia sintetica ed istintiva. Oggi a tanti anni di distanza è difficile farsi un’idea dei frenetici entusiasmi che suscitò fra le folle e più difficile sarebbe ancora analizzare le ragioni di questo fatto psicologico. Alcune tuttavia possono venir precisate con sufficiente chiarezza. Egli ridonò anzitutto ai cattolici la fede nell’avvenire. Pio IX nell’ultimo periodo, dopo le scosse rivoluzionarie che portarono alla costituzione dei nuovi Stati o alla perdita di Roma fu pessimista; Leone XIII è invece un papa ottimista. In una celebre allocuzione ai cardinali Egli proclama il proposito di amicare agl’istituti della Chiesa il secolo «sospettoso e restio» e tale proposito resterà il proposito della sua vita. Per esso egli organizzerà i cattolici e li inciterà a valersi degli ordinamenti costituzionali, e delle libertà di stampa e di associazione, affronterà gli errori insegnando il vero, ma sovratutto invitando ad agire praticamente sul terreno dell’ipotesi; per esso farà fronte al liberalismo, pur profittando delle istituzioni liberali, e ingaggerà battaglia col socialismo cercando di batterlo sul suo proprio terreno, quello dell’organizzazione operaia. Le sue manifestazioni non sono mai soltanto negative: mentre segnala che una via è falsa, s’affretta a indicare quella giusta, e sul mondo, crollato sotto i colpi del Sillabo, egli tenacemente e ottimisticamente ricostruisce. Non recriminate sul passato, egli grida ai cattolici, ma costruite sul presente; e con un intuito meraviglioso, si serve della questione sociale, per superare in blocco le pregiudiziali legittimiste che in molti paesi sembravano sbarrare la via per sempre ai cattolici. Ed eccolo, già ottantenne, guardare coll’ottimismo d’un’eterna giovinezza. «A queste cose, egli esclama in una allocuzione ai cardinali, noi ripensando con accesissimo desiderio, scorgiamo da lungi il nuovo ordine di cose che regnerebbe per tutto, e sentiamo la più soave giocondità in contemplare i beni che ne verrebbero. Appena può immaginarsi qual felice avanzamento di ogni grandezza e prosperità si avrebbe subitamente per ogni dove ricomposte le cose a tranquillità e pace, promosse le nobil discipline, e inoltre costituite cristianamente o moltiplicate secondo i documenti Nostri, società di agricoltori, operai, industriali, per mezzo delle quali sia repressa l’usura vorace ed ampliato il campo alle utili fatiche!». Come non avrebbero potuto seguire i giovani questo ottuagenario che dall’alto del soglio di Pietro toccava così da vicino il mondo nuovo che si voleva creare? Un’altra ragione si è quella già accennata, che Leone fu un Capo ed ebbe tutti i caratteri di un Capo. Onnipresente: egli scrive, parla, comanda, seguendo immediatamente o prevedendo addirittura gli avvenimenti, cogli avversari è intransigente e severo, coi fedeli è paterno ed amichevole. Paganuzzi in Italia, De Mun in Francia, Decurtins in Svizzera, Windthorst o Ballestrem in Germania, Lueger in Austria, Mercier in Belgio, tutti i sottocapi che guidano i cattolici, anche al di fuori della Gerarchia, sanno di aver sopra di sé un capo supremo che li ammonisce ma più spesso li conforta e sovratutto li difende. Pensate al ’98. Le associazioni cattoliche venivano disciolte per decreto reale. La protesta non si fece attendere e fu quanto mai fiera e recisa. Il papa nella sua Enciclica «spesse volte» dichiara che lo scioglimento è illegale, perché lede i principi della giustizia e le stesse norme delle leggi vigenti. «In forza di questi principi e di queste norme è lecito ai cattolici, come a tutti gli altri cittadini, fruire della libertà di unire in comune i loro sforzi per promuovere il bene morale e materiale del loro prossimo, o per esercitarsi in pratiche di pietà o di religione. Fu dunque arbitrio lo scioglimento di tante benefiche istituzioni cattoliche…». E dopo aver detto che oltre che illegale, lo scioglimento risultava anche dannoso agl’interessi del popolo italiano, Leone termina rivolgendo parole di fermezza e di conforto ai cattolici italiani. Alla distanza di quarantanni voi sentite ancora risonare l’onda solenne di quelle parole alle porte del vostro cuore commosso: «Ed a voi cattolici italiani, oggetto precipuo delle Nostre sollecitudini e della Nostra affezione, a voi fatti segno a più aspre vessazioni, perché più vicini a Noi e più stretti a questa Sede apostolica, a voi serva di conforto e di incoraggiamento la Nostra parola e la Nostra ferma assicurazione che il Papato, come nei secoli trascorsi, in gravi e procellosi avvenimenti, fu guida, difesa e salvezza del popolo cattolico, specialmente d’Italia, così per l’avvenire non verrà meno alla sua grande e salutare missione, col difendere e rivendicare i vostri diritti, coll’assistervi nelle vostre difficoltà, coll’amarvi quanto più bersagliati ed oppressi» Qual meraviglia che con tale Capo e con tali parole i cattolici italiani resistessero in una posizione più difficile forse, più ingrata certo di quella dei loro epigoni? E simili conforti Leone aveva per i cattolici di tutto il mondo: ed era anche questo vivo, palpitante universalismo – che nell’epoca dell’internazionale, controbatteva negli spiriti l’attrazione dell’Internazionalismo rivoluzionario un eccezionale elemento di epicità. Quando stabilisce il binomio della pace e della libertà, proclamando che il potere religioso porterà la pace anche negli ordini pubblici e sociali, in ragione della libertà concedutagli di far sentire l’azione sua, quando rammenta gl’interventi «dei romani Pastori per far cessare oppressioni, ovviare a guerre, ottener tregue e trattati di pace». Egli parla al cuore di milioni e milioni che, dalle guerre e dagli armamenti, anelano alla pace e al disarmo. «Guai alla civiltà dei popoli – ricorda Leone dal suo trono in un discorso ai cardinali – se non fosse accorsa in certi frangenti l’autorità papale a infrenare gli istinti disumani del prepotere e della conquista, rivendicando di diritto e di fatto la supremazia naturale della ragione sulla forza. Parlino i nomi indissolubilmente congiunti di Alessandro III e Legnano, del santo Ghislieri e di Lepanto (Nap. 99)». Venne poi la Rerum Novarum e tutta la sua opera per i lavoratori. Non c’è bisogno di parlarne diffusamente, perché abbiamo diritto di supporre sia la parte più nota del ciclo leonino. Ma fu essa la più compresa e la più seguita…? Vedano i giovani di darsi un appuntamento al Laterano. Il monumento che ricorda le encicliche operaie è collocato fra la Cattedrale e il Battistero, ed è tanto discosto e remoto, che la maggior parte dei visitatori lo ignora. Non sarà difficile constatare che fra i marmi è cresciuto qualche fil d’erba e che la patina rende illeggibili le tavole di bronzo. E non sentiranno i giovani che è tempo di ripulirle, e ch’è venuta l’ora di portare quella statua fuori, verso la piazza e verso la vita?
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Monsignor Schreiber , professore all’università di Münster e deputato al Reichstag non è ancora molto noto in Italia; ma quando vorremo farci un’idea, al di fuori delle vicende parlamentari delle grandi direttive politiche seguite dal Centro nel dopo guerra, bisognerà risalire alla sua opera di pubblicista, scrittore e volgarizzatore. Già nel 1924 egli raccoglieva in un volumetto sintetico le discussioni che s’erano fatte tra cattolici e cogli avversari dando le conclusioni più pratiche e definitive (Grundfragen der Zentrumspolitik, Germania politica, Berlino ’24) e quest’anno pubblicherà un Annuario Politico (Politisches Jahrbuch 1925, Volksverein M. Gladbach) nel quale presero la parola sui più diversi temi della politica parlamentare gli specialisti del Centro e al quale egli stesso aggiunse una preziosa bibliografia del centro, dagl’inizi fino ai nostri giorni. Per il suo carattere generale merita tuttavia maggior attenzione la sua collezione «Scritti di Politica tedesca» (Schriften zur deutschen Politik), editi dall’Herder. In questa collezione oltre alcune opere che riguardano la politica germanica, ma che sono tuttavia assai interessanti, perchè più che teorico hanno un carattere sperimentale (vedere p. c. Mausbach la questione scolastica e la Chiesa nelle trattative per la compilazione della costituzione di Weimar) sono comparsi volumetti che gioverebbe assai se con qualche riduzione, venissero tradotti anche in italiano. Citiamo ad esempio la dottrina sociale cristiana dello Schilling (Christliche Gesellschaftslehre) in cui si parla con criteri pratici degli ultimi esperimenti sociali. La questione più preoccupante però anche in Germania è quella dello Stato. I cattolici tedeschi si sono trovati improvvisamente innanzi ai problemi della rivoluzione e alla necessità di varare in un compromesso coi socialisti temperati e coi liberali una nuova Costituzione. Nel comitato di Weimar compilatore delle nuove leggi fondamdentali, si trovarono anche due preti. Gli attacchi a sinistra e a destra non mancarono. Bisognava risalire ai princîpi e difendere il proprio operato nuovissimo colla vecchia dottrina. Ecco che il Mausbach, uno dei sacerdoti deputati che faceva parte del comitato, pubblica presso l’Unione popolare di München Gladbach (Volksverein M. Gladbach) il suo prezioso volumetto Questioni culturali nella Costituzione tedesca (Kulturfragen in der deutschen Verfassung), che raccomandiamo a quei cattolici che aspettano un particolare disprezzo per le soluzioni parlamentari. Sempre della questione dello Stato, dal punto di vista cattolico e con riguardo alle pratiche possibilità costituzionali si occupa il professore dell’università di Nimega Steffes (Collezione Schreiber, Die Staatsauffassung der Moderne, Herder 1925) . La teoria cattolica dello Stato è qui esposta con riferimenti alle condizioni del dopoguerra e allo sforzo del Centro di costruire entro la formale democrazia della repubblica lo Stato popolare, cioè la democrazia sostanziale ed organica. Un altro volumetto della stessa collezione che sarebbe di attualità anche in Italia è quello scritto in collaborazione dall’onorevole Baur e da mons. Rieder sull’Encicliche papaIi e il loro atteggiamento di fronte alla politica (Päpstliche Enzykliken und ihre Stellung zur Politik, Herder 1923). Il volume deve la sua nascita al convegno internazionale di Costanza del giugno 1922, nel quale convegno i due autori presentarono ciascuno uno studio sull’argomento. Il Baur parte dal dato di fatto che tanto il Centro quanto il partito popolare bavarese, quanto il partito cristiano-sociale austriaco nelle loro dichiarazioni programmatiche del 1918 confermarono di essere partiti politici e non confessionali, nel senso di non rappresentare direttamente (come aveva già scritto nel 1887 il card. Iacobini) gl’interessi della Chiesa. Tuttavia questi partiti si fondano sulla filosofia politica e sulla sociologia cattolica e con ciò nelle direttive supreme e generali seguono la dottrina della Chiesa. Ecco perché si risale alle encicliche. E citando sopratutto le encicliche di Leone XIII, l’A. si occupa in diversi capitoli della «dottrina dello Stato nelle encicliche», del «cambiamento della forma di governo (rivoluzione)», dei «rapporti colla Chiesa», della scuola, della «libertà politica», della «famiglia», dei «doveri del cittadino», della «questione operaia». Della politica estera si intrattiene il Rieder. Qui oltre Leone XIII, vengono citati i suoi successori Pio X, Benedetto XV, e l’enciclica Ubi arcano Dei, e i precursori Ketteler e Windhorst. Infine, benché non appartenga alla collezione di mons. Schreiber, ricorderò in questo nesso l’opera recente del Tischleder sulla Dottrina dello Stato di Leone XIII (Die Staatslehre Leos XIII, Volksverein, München-Gladbach 1925). È un volume di 540 pag. che merita una trattazione speciale. Ma vi accenno qui per completare questa rapida rassegna, la quale dimostra che cattolici Tedeschi i quali hanno contemporaneamente sviluppato la loro già abbondante letteratura sociale, affrontano nel dopoguerra anche il problema politico, dandoci un esempio che non dovrebbe andare perduto. D.
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La Germania, organo direttivo del Centro, ha pubblicato nei numeri del 6 e 7 luglio uno studio assai acuto sull’organizzazione corporativa fascista, riferendo anche i varii punti di vista dell’Azione Cattolica e dei popolari. Caratteristica è la conclusione dei due articoli: È quasi un tragico destino che proprio i cattolici, i quali, incominciando con Ketteler che già nel 1873 invocava la riorganizzazione corporativa della società «considerano una tale riforma come un caposaldo del loro programma, rimangano proprio esclusi dal primo esperimento pratico. E tuttavia tale esclusione non è da attribuirsi alle contingenze momentanee dei partiti in Italia, ma risale più su, all’essenza stessa delle cose. La costruzione delle corporazioni cattoliche e di quelle fasciste è simile; ma la meta è diversa: qui lo Stato, lì l’uomo. L’on. Grandi cita nella Cronaca Sociale l’insegnamento del noto sociologo Toniolo che ancora nella Settimana sociale del 1911 parlava delle corporazioni come un ente autonomo che di fronte allo Stato si presenta come una logica evoluzione della libertà naturale personale» e sempre i cattolici italiani hanno fatta propria l’antica parola d’ordine del Centro : «quello che si fa per gli operai dev’esser fatto per mezzo degli operai stessi». Lo Stato fascista invece che svuota burocraticamente le corporazioni e come supremo principio proclama il supremo interesse nazionale e fa valere come titolo di diritto il sentimento politico nazionale, questo Stato che «decide inappellabilmente coi suoi giudici sugl’interessi di classe e dal presente ordine economico che si basa sulla legge della domanda e dell’offerta taglia fuori solo gli operai, un tale Stato è altrettanto lontano dallo Stato popolare cristiano quanto lo Stato manchesteriano». a. d.
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Sconfitte politiche e tonalità religiosa – Probabili sorti di un partito clericale – L’integralismo cattolico dei popolari e la vecchia scuola intransigente – Religiosità e maturità politica – Il malvezzo degli odierni cattolici – La sorte di Thrasea – Il codice della vecchia intransigenza e lo stile dei cattolici della prima maniera. Rispettoso delle necessarie distinzioni e dei limiti imposti, ad ogni campo di azione, mi sarei ben guardato d’interloquire a proposito del Suo articolomanifesto per i corsi di Castelnuovo Fogliani e mi sarei limitato ad ammirare e plaudire a codest’altra sua meravigliosa iniziativa, se nel prelodato articolo si parlasse solo di Azione Cattolica; ma Ella vi fa anche, sia pure di passaggio, un diretto riferimento alla politica, quando scrive: «L’AC, per essere efficace, ha poi bisogno di una atmosfera intensamente religiosa. Quante volte ci siamo scostati da questo ideale, altrettante volte abbiamo sbagliato strada; e dolorose esperienze ce l’hanno dimostrato… Come si è convertito chi ha deriso me e l’Olgiati , quando, anni or sono, anche a proposito di azione politica, dicevamo (e fummo purtroppo profeti) che anche l’azione politica dai cattolici non può farsi senza una profonda tonalità religiosa, se vuol essere efficace e duratura». Caro P. Gemelli , io non intendo affatto di ridiscutere in tesi la polemica di Bologna sul cosiddetto «carattere confessionale» del Partito, tesi veramente ch’Ella, in un’epoca in cui quasi tutti i partiti similari d’Europa (in parte anche nel Belgio) hanno abbandonato tali insegne e in Italia trionfa il motto dell’al di sopra e al di fuori, avrebbe certo maggiori difficoltà a sostenersi che nel ’19; e molto meno mi sognerei di negare che anche per le pubbliche attività coltura, convinzione e pratica religiosa siano premesse indispensabili, quello che nego però è il fatto storico ch’Ella sembra, colle Sue parole, di voler affermare. Nego cioè che il PPI non abbia svolta un’attività efficace e duratura, perché, sbagliando strada, gli sia venuta a mancare la tonalità religiosa; nego cioè che l’attuale paralisi del partito sia dovuta ad una mancante o diminuita cattolicità. La cosa invero appena formulata in termini precisi, appare così ovvia che indovino già la Sua interruzione per dirmi che non intendeva arrivare a tale conclusione. E allora mi permetta che non per Lei, ma per taluno che potesse aver male interpretate le Sue parole, aggiunga alcune considerazioni. 1. Se la dolorosa esperienza del partito dovesse riferirsi alla sua mancata compattezza, al distacco cioè di alcuni capi e sottocapi, rispondiamo essere troppo chiaro che tale sfaldamento non è dovuto alla mancata cattolicità, perché oggi come ieri, tanto i popolari, rimasti fedeli alla bandiera, quanto coloro che preferirono seguirne un’altra, riaffermano le loro convinzioni religiose ed anzi i clerico-fascisti (il nome non vuol suonare offesa) vantano tra i propri uomini alcuni d’indiscussa cattolicità e taluno anzi che nell’apologetica giornalistica godeva buona fama. 2. Se poi lo sbagliar strada dovesse consistere nel non aver costituito un partito clericale vecchio tipo, un partito cioè, che avesse non messo in prima fila – perché ciò in quanto le particolari condizioni italiane consentivano, anche il PP sempre fece – ma concentrato ogni sua attività nelle questioni scolastiche e dei rapporti fra Chiesa e Stato, ci basti osservare che, in tal caso, il partito governativo a molto minor torto e più rapidamente, appena varata la riforma scolastica e compiuto il tentativo di risolvere la questione ecclesiastica, avrebbe trovato modo di proclamare esaurita la funzione del PPI – proprio come Bismark che, appena cessato il Kulturkampf ebbe a dire: Ed ora il Centro che ci sta più a fare in Germania? 3. Non è poi un mistero che taluno dei transfughi del PP, per coonestare il passaggio all’altra sponda, soleva tirar fuori dal portafoglio certe lettere, gelosamente custodite, di alti prelati, i quali consigliavano al destinatario che per il bonum commune e il bene della religione abbandonasse il programma e la direttiva integralista del PP per assumere un atteggiamento di maggior opportunità contingente. Oh, allora come si fa ad accusarci ad un tempo d’integralismo intransigente e di tiepidezza verso i principi cattolici? La verità è che le direttive popolari, per le quali ci siamo battuti fino ai limiti del possibile, sopportando non lievi sacrifici e pagando abbondantemente di persona, non erano e non sono altro che gli immortali principi cattolici, proiettati nelle condizioni concrete della società politica italiana del Dopoguerra; e l’unico rimprovero che ragionevolmente un uomo pratico avrebbe ragione di muoverci sarebbe quello di essere stati eccessivamente cattolici ed inflessibilmente intransigenti, giacché invece di nasconderci dietro il comodo paravento del bonum comune e della secolare adattabilità della Chiesa rispetto a tutti i regimi, abbiamo difeso il concetto cristiano legge per legge, provvedimento per provvedimento e lo abbiamo sovratutto difeso nel combattere un sistema, una dottrina e una pratica politica che a tale dottrina si ispira. Se abbiamo sbagliato strada, di chi la colpa? Io penso, caro P. Gemelli, che il PPI, nonostante le apparenze e benché non abbia voluto assumere carattere «confessionale» (uso la parola nel suo significato – improprio – che oramai è di voga) sia stato e sia più che non si sospetti, l’erede di quell’integralismo religioso e sociale che i nostri padri, quelli dell’azione cattolica di vecchia maniera, avevano predicato e praticato nei famosi tempi dell’intransigenza. Sarebbe agevole dimostrare che i popolari null’altro hanno difeso e sostenuto che i postulati degli antichi congressi cattolici italiani. Solo che, organizzandosi in partito politico, hanno dovuto svolgere e difendere un programma politico, un programma ispirato dal Cristianesimo, ma ingranato colle esigenze sociali presenti e che ha naturalmente il difetto di non poter essere cambiato da oggi a domani, come una camicia, tanto che sia buono ieri per le costituzioni democratiche e domani per le dittature. La Chiesa, è vero, come società religiosa, può trovare il fatto suo con ogni regime, ma il politico cattolico, buono a tutti gli usi e che sappia fare tutte le politiche non s’è trovato ancora; e quando si credesse di averlo scoperto, grattatelo e sotto, invece del cattolico trovereste l’immortale «Girella» di Beppe Giusti . Ond’è, caro P. Gemelli, che se mi fosse lecito condurre fino in fondo tale discussione, io la concluderei col dimostrare che quello che è necessario per i cattolici italiani – salva sempre la preminenza della coltura e pratica religiosa – è sovratutto un corso di politica cattolica, un corso nel quale si insegnino non solo i principi lontani, ma le direttive concrete, stabilendo nettamente fino a dove arrivi l’ispirazione cristiana e quindi fino dove debbasi legittimamente invocare l’autorità della Chiesa e ove invece incominci la libera e soggettiva applicazione, diversa secondo i luoghi e i tempi, e tale da implicare soltanto la responsabilità dei cattolici di un dato luogo e di una data epoca, organizzati in un partito politico. Un tale corso finirebbe certo col dimostrare che ai cattolici italiani in genere e forse anche a molti popolari, è mancata non la religiosità, ma la maturità politica. Ma qui Lei, a ragione, mi opporrebbe che al Castello Fogliani ci si raduna per cose eccelse che stanno al di fuori e al di sopra dei partiti, ed io in verità non ho nulla da opporre. Tuttavia, poiché ho la penna in mano e Lei, molto opportunamente, ospiterà anche un corso per i giornalisti cattolici, mi permetta di richiamare la Sua attenzione sopra una particolare esigenza che oggi si impone tanto a chi sta entro come sopra i partiti. Ella avrà notato che il male più grave che minaccia di guastare oggi il costume dei cattolici italiani è l’insincerità. In privato si critica a tutto spiano la direttiva della Presidenza dell’AC, in pubblico la si esalta. A quattr’occhi si bollano a dovere certi contorcimenti acrobatici della stampa, in pubblico si citano con sommessa venerazione gli stessi periodici, che sono sempre «gravi» ed «autorevoli». Il cosiddetto adattamento poi alle circostanze presenti si va compiendo senza dignità e talvolta fra ipocriti accorgimenti ed esibizioni servili. Viva la faccia di p. Pistelli e di mons. Faloci che hanno preso decisamente e per tempo la loro via: ma certi discorsi, certi brindisi, certi articoli di cattolici, i quali − preti, frati o laici che siano − pensano notoriamente in senso contrario, meritano di venir raccolti in un volume dal titolo: «La spirale dei cattolici italiani». E leggendo in qualche giornale di nostra parte quelle frasi contorte e quei periodi così equilibristicamente dosati d’imparzialità fra le ragioni della giustizia e quelle della paura, viene fatto di pensare a quello sventurato Thrasèa, il quale benché in Senato fosse, come ricorda Tacito, silentio vel brevi assensu priores adulationes transmittere solitus , non potè evitare di essere considerato fra gli oppositori, e come tale condannato. Ora chi scrive si fa lecito sperare che durante il corso ai giornalisti cattolici ci sarà anche una lezione sullo stile della stampa cattolica, il quale si compendi in codest’alternativa: o dire lealmente, dignitosamente quello che s’ha a dire, o tacere. Tacere liceat: nulla libertas minor a rege petitur, invocava già il pagano Seneca; e non si capisce perché i Cristiani debbano esigere di meno. Mi permetto inoltre di suggerire che nella biblioteca del Corso non manchi un certo libretto che, com’Ella ricorda, fece a suo tempo grande rumore e venne dai nostri padri considerato per lungo tempo il codice dell’intransigenza cattolica: voglio dire «Il Liberalismo è peccato», di mons. Sardà, tradotto e raccomandato in Italia da p. Zochi e ripetutamente pubblicato dalla Civiltà Cattolica. A dir vero, si tratta di roba della passata generazione, e dopo quello che è accaduto, dal Gentiloni in qua, potrà ritenersi superato. Ma ogni volta che a noi politici si fa rimprovero di aver abbandonato l’integralismo dei vecchi e di non prendere più ad esempio la loro rigidità di principio e di stile, ci viene la tentazione di riprendere in mano quel prontuario e di vedere capitolo per capitolo come pensavano e come scrivevano i cattolici intransigenti di fronte alla corrente politica allora dominante. Oh, allora di fronte al liberalismo, che lasciava la libertà di scrivere, si procedeva coll’inesorabile bisturi del vivisettore! Nessun tendine del corpo sociale rimaneva coperto, nessun cantuccio restava inesplorato; e si stanavano dalle più remote trincee non solo i liberali propriamente detti, ma anche i cosidetti liberali cattolici, e si scriveva un capitolo «sulle varie maniere con che senza essere liberale, può tuttavia un cattolico farsi complice del liberalismo» e si fiutavano «i segni e i sintomi» dell’infezione e si dettavano in un altro capitolo «le regole di prudenza cristiana che il cattolico dabbene deve osservare nel suo tratto coi liberali» e perfino, trattandosi di necessarie relazioni con famigliari e con superiori, si inculcava di «obbedire in tutto ciò che alla fede e alla morale cattolica non si opponga; ma ribadire ogni giorno il proposito fermo di negar obbedienza a chiunque si scosti comechesia dalla integrità del Cattolicesimo». C’è poi il capitolo XXX, il quale stabilisce «che si abbia a pensare delle relazioni che il Papa mantiene co’governi e con persone liberali», e, dimostrato che la Chiesa ha diritto «di giovarsi di tutte le industrie delle quali si vale una diplomazia onorata», si conclude così: «E che? Dà sanzione al Corano la Chiesa, quando tratta da potenza a potenza coi seguaci del Corano? Approva la poligamia, quando riceve doni e ambasciate dal gran Turco?». È notorio tuttavia che anche in quei tempi ai cattolici intransigenti si muoveva il rimprovero di mancare di carità cristiana verso i loro avversari. Una volta la Civiltà Cattolica perdette la pazienza e, attingendo largamente da un altro opuscolo polemico dell’epoca, citò in difesa del suo stile tutti i più antichi ed autorevoli scrittori cristiani, da S. Tommaso a S. Agostino, che per alcuni «traviati raccomandava un trattamento di caritatevole asprezza», da S. Girolamo, Basilio, Ilario, Atanasio, Ireneo, S. Clemente fino al dolce S. Francesco di Sales, il quale affermava «essere carità il gridare al lupo quando è tra le pecore, anzi in qualunque luogo egli sia». Ora noi siamo ben lontani dal ritenere che il prelodato tomo possa tale quale, venir risquadernato per combattere la corrente che domina oggi il pensiero e la politica degli italiani; e perciò è superfluo che i moralisti vengano avanti colle debite distinzioni che hanno in pronto. Diciamo anzi in genere che le nostre simpatie per tale metodo sono piuttosto limitate. Chiediamo tuttavia a chi sa più di noi se, in confronto dei metodi di allora, l’odierno equilibrismo possa venir comunque giustificato col richiamo al comma che la Chiesa non intende obbligare sub gravi incommodo. Ma che dite allora di quei popolari che per tener fede ai loro principi, hanno sacrificato danari, relazioni e posizione sociale? Che dite di quei poveri operai che hanno abbandonato il paese natio? Ecco, è in questo spirito di sacrificio, caro P. Gemelli, in questa fedeltà disinteressata, della quale risplenderanno un giorno gli esempi, che sta la forza presente e futura del PPI: e questa è corrente viva e purissima di Cristianesimo integrale. A quei cattolici che vogliono essere «superiori ai partiti», ma contemporaneamente fanno della politica, cantando misericordiosamente le esequie al PPI io oppongo la fede robusta e provata della nostra gente. Salivamo recentemente in piccola schiera a S. Pietro e sulla gradinata ci venne incontro un popolano: egli mi riconobbe e mi presentò rapidamente la moglie e i figli che stavano con lui; ma io non ricordavo il suo nome. Allora il bravo romano aperse sul petto la camicia e mi mostrò lo stemma del partito che portava sul cuore, e non disse altro. Noi gli stringemmo la mano in silenzio, con le lacrime agli occhi. C’era altro da dire? Lo stesso silenzio noi invochiamo da quegli scrittori cattolici che in un momento, in cui le nostre bandiere devono restare ammainate, s’aggirano, filosofando, sul campo di battaglia. È ben inteso che fra codesti sofisticati strateghi non va collocato quell’ammirevole uomo d’azione che è P. Gemelli, ma egli sta in troppa considerazione anche fra i cattolici di cui sopra, perché non cogliamo l’occasione di pregarlo, proprio lui, di volersi far interprete del nostro sommesso desiderio. Che le prefiche e i necrofori non abbiano fretta: a suo tempo seppelliremo i morti e faremo l’appello dei vivi e allora constateremo quanti popolari e quanti… cattolici si trovino fra i vivi e quanti e quali fra i morti. *.
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1,928
4Internal exile
51926-1930
I. Origini del programma corporativo – Ragione politica e fine sociale – Esempi tedeschi Quando il colonnello René de la Tour du Pin , marchese de la Charce, il 4 dicembre 1924 moriva nell’età di 90 anni, a Losanna, il suo nome pareva quasi dimenticato e i pochi giornali che se ne occuparono dovettero ricordare alla presente generazione ch’era scomparso uno degl’iniziatori del movimento cattolico sociale ed uno dei maestri, un tempo più ascoltati, della sociologia cristiana. Infatti il du Pin ancora nei primissimi anni dopo il disastro del ’70 aveva fondato con Alberto de Mun , l’Opera dei circoli operai cattolici di Francia , e di tale movimento se il de Mun fu il propagandista eloquente, il du Pin specie dal ’78 in qua – nel qual anno venne costituita presso la direzione generale dei circoli la commissione di studio e si pubblicò la rivista l’Association catholique – diventò il pensatore e maestro profondo. Due idee fondamentali alimentavano il movimento: la controrivoluzione e la corporazione. Per la controrivoluzione, il De Mun e il du Pin erano discepoli di de Bonald e sovratutto di de Maistre , per il quale la rivoluzione francese era tutta e sostanzialmente satanica, onde bisognava rigettarla in blocco. Du Pin stesso racconta che quando entrambi stavano prigionieri in Germania, loro libro de chevet era «L’encyclique du 8 dec. 1864 et les principes de 1789» in cui Emilio Keller , futuro senatore monarchista, dava la massima applicazione politica pensabile alle condanne di principio del Sillabo. In quanto all’idea corporativa, non v’ha dubbio che i due amici vi erano condotti anche dalla loro ammirazione per gli statuti corporativi della Francia medioevale e monarchica. Lo stesso pretendente, il conte di Chambord , aveva già scritto nella Lettre publique aux ouvriers del 1865: «Chi non vede che la costituzione volontaria e regolata delle corporazioni libere diverrà uno degli elementi più potenti dell’ordine e dell’armonia sociale e che queste corporazioni potranno entrare nell’organizzazione del Comune e nelle basi dell’elettorato e del suffragio? Considerazione che tocca uno dei punti più gravi della politica dell’avvenire». Anche il nome di régime corporatif compare nel primo articolo di de Mun nell’Association catholique come contrapposto al regime della libertà di lavoro quale in Francia aveva introdotto la famosa legge Chapelier del 1793 che proibiva, sotto gravi pene, qualsiasi associazione professionale . Ma se è vero, come tengono ad affermare i discepoli del du Pin (I), che le loro idee corporazionistiche trovano alimento e ragione nella storia stessa della nazione francese e nelle esigenze realisticamente controllate della restaurazione sociale della Francia, è anche vero però che il ritorno alle corporazioni s’invoca durante la seconda metà del secolo XIX in tutti gli altri paesi dell’Europa latina e fra noi in particolare dai primi scrittori della Civiltà cattolica. Perché? Perché tutti coloro che dal punto di vista dell’ortodossia tradizionale rifiutano le libertà e le cosidette garanzie costituzionali moderne ci tengono a dimostrare che per evitare le costituzioni ammodernate, come le chiama il Taparelli , non occorre affatto ricadere nella monarchia assoluta tipo ancien régime, ma si può e si deve risalire alla monarchia medioevale in cui il potere sovrano viene limitato e frenato dalle franchigie o autonomie dei corpi locali, prima tra questi la Corporazione. Appena più tardi, a questa ragione eminentemente politica si aggiunge, col minaccioso affacciarsi della questione operaia, la ragione sociale. Mons. Ketteler nel 1867 invocherà nel suo libro fondamentale la ricostituzione della Corporazione, quale elemento di pacificazione sociale; e i due giovani ufficiali francesi , caduti in prigionia, e coll’animo teso verso la patria devastata dalla Comune, ascolteranno con sommo interesse la voce del vescovo riformatore. Piú tardi un’altra volta il du Pin, mandato attaché militare a Vienna, prenderà piú diretto contatto col mondo germanico e stringerà amicizia col cosidetto gruppo feudale dei cattolici austriaci, capitanato da De Blome, Belcredi , da Pauli , Liechtenstein , Vogelsang , il dottrinario quest’ultimo del movimento e colui che, più d’ogni altro sociologo cristiano dei suoi tempi, elaborò metodicamente il sistema della Organische Interessenvertretung (rappresentanza organica degl’interessi). Ma più che le dottrine dovevano influire sul du Pin gli esempi. L’Austria, nonostante l’istituzione del Parlamento, aveva in gran parte mantenuta la sua struttura politico-amministrativa prerivoluzionaria. I comuni venivano eletti da censiti, divisi in tre o quattro corpi e vi avevano voto anche i corpi morali, i municipi delle città poi avevano conservata una larga autonomia che andava fino al diritto di deliberare sul proprio sistema elettorale e sul proprio statuto, salva la sanzione sovrana. Le provincie, o meglio i paesi e i regni, costituivano delle formazioni storiche asimmetriche e venivano amministrate da una Dieta in cui le curie dei prelati e dei nobili, della borghesia mercantile e dei contadini apparivano una diretta derivazione degli stati provinciali. È il paese insomma, in cui la Rivoluzione ha meno intaccato il sistema feudale, rileverà più tardi il du Pin, e non si periterà d’invocarlo ad esempio per questo suo decentramento istituzionale; come molti anni dopo, il Barrès , dettando il programma nazionalista, invocherà per il federalismo l’esempio della Germania (II). Altro fatto eloquente doveva rappresentare per il du Pin la nuova legislazione sociale austriaca, dovuta all’iniziativa dei suoi amici feudali, colla ricostituzione della Gewerbegenossenschaft (che noi entrando a Trento e Trieste abbiamo trovato sotto il nome mal tradotto di consorzio industriale) e che altro non è se non una società d’arti e mestieri, una corporazione dunque, con proprio patrimonio e proprie scuole professionali, coll’apprendistato obbligatorio e con l’obbligo degli esami per la maestranza. Tutti questi precedenti di dottrina e di fatto non tolgono però al du Pin l’originalità di pensatore e di sociologo giacché egli, ritornato in Francia, ricaverà i suoi insegnamenti sovratutto dall’attenta osservazione delle esigenze sociali e delle tradizioni storiche del suo paese. Così mentre il suo camerata de Mun ingaggerà alla Camera la sua diuturna campagna contro il liberalismo economico, ottenendo nell’84 una prima vittoria colla legge che autorizza la fondazione di associazioni professionali o sindacati, il du Pin s’applicherà a fissare ed a svolgere in pareri affidati alla commissione di studio o in lucidi e sobri articoli dell’Association catholique quella ch’egli chiama la restaurazione di un ordine sociale cristiano. Tali documenti sono oggi quasi tutti raccolti in un volume pubblicato in quarta edizione nel dopoguerra (III) e del quale approfitteremo largamente per la nostra esposizione. II. La corporazione integrale – Il diritto individuale allo «stato professionale» – I poteri giurisdizionali della corporazione – Il patrimonio corporativo indivisibile ed inalienabile Una precisa affermazione di corporativismo si trova già nel parere che la Tour du Pin presentava nel 1882 alla commissione di studio dei circoli. Trattando della natura del contratto di lavoro ad un certo punto egli conclude: «La restaurazione del regime corporativo s’impone con tutte le riforme politiche e finanziarie ch’esso presume. E se tale restaurazione appare necessaria, sarebbe puerile di dire ch’essa debba essere tuttavia semplicemente spontanea e facoltativa… Senza dubbio la ricostruzione delle corporazioni non potrà essere solamente opera di decreti, perché non si decreta l’esistenza di ciò che non è più; ma se ne prepara la rinascita con appelli, la si riconosce in diritto appena è ricomparsa di fatto, la si irrobustisce di privilegi, la si dirige con delle norme verso il suo sviluppo politico, secondo un piano conforme alla natura delle cose e nello stesso tempo ai fini ultimi, ai quali esse devono condurre». Ma è nell’Association catholique dell’agosto 1883, ch’egli svolgerà ampiamente la sua dottrina sul regime corporativo. Quest’articolo è fondamentale. Dobbiamo quindi riassumerlo. Dopo una introduzione polemica con quei cattolici che difendono la libertà del lavoro come un diritto naturale (è la scuola del belga Périn sostenuta in Francia da Mons. Freppel , D’Haussonville , Claudio Jannet ), l’A. stabilisce che «il principio del regime corporativo consiste nel riconoscimento di un diritto proprio, tanto a ciascun membro dell’associazione, quanto all’associazione dentro lo stato quanto infine allo stato verso l’associazione» (pag. 22). Il diritto individuale del membro dell’associazione consiste «nel diritto di avere uno stato (possesion d’état) professionale cioè d’aver stabili e garantite condizioni di lavoro fissate negli statuti dell’associazione e salvaguardate dalla sua magistratura». Ove sono ora nel regime dell’individualismo liberale, le garanzie per l’oggi e per l’indomani dell’operaio, e ove si troveranno più tardi nel regime socialista, quelle del padrone? Il diritto proprio dell’associazione (corporazione) è di essere un’istituzione con particolari privilegi e con una giurisdizione propria riconosciuta dallo Stato. Essa è nel suo sorgere e nel suo sviluppo libera perché nasce organicamente dalla libera iniziativa e a colpi di decreto, ma tende per sua stessa natura a divenire obbligatoria, per poter esercitare anche una funzione politica. Con ciò il du Pin prende atteggiamento nella vessata questione delle corporazioni libere e obbligatorie; ma vedremo più tardi, com’egli faccia altri passi più decisivi verso le corporazioni libere. «La corporazione è, come il comune, uno stato nello stato, legata cioè a questo da attribuzioni e obbligazioni reciproche. Il potere pubblico non detta le sue regole, ma le omologa per mantenerle nella sfera d’un’utilità propria che non sia di detrimento all’utilità pubblica, nello stesso tempo che ne protegge l’applicazione contro le difficoltà materiali o le oppressioni esterne». Con ciò è definito anche il diritto dello Stato rispetto all’associazione. Come prendono corpo tali diritti? La corporazione deve avere anzitutto un patrimonio corporativo indivisibile e inalienabile, bastante per i sussidi di disoccupazione, per le pensioni operaie, per mantenere le scuole professionali. Esso verrà costituito con una quota sulla produzione, pagabile in parte dall’operaio in parte dall’imprenditore; e nelle società industriali sarà convertibile anche in azioni dell’impresa. Questa proprietà collettiva è un’esigenza della giustizia sociale, perché «la proprietà può essere riconosciuta come una delle basi della società solo a condizione che in una forma o nell’altra sia accessibile a tutte le classi sociali» (pag. 18). La corporazione deve inoltre avere il diritto di concedere un brevetto di capacità professionale (IV) a tutti i fattori della produzione, tanto all’ingegnere che all’operaio, e di grado in grado all’apprendista, all’operaio e al maestro, brevetto che nell’ordinamento corporativo comproverà il suo stato, con vantaggi riconosciuti anche al di fuori della sua attuale occupazione. La corporazione ha una propria giurisdizione, cioè pubblica i suoi regolamenti che hanno forza di legge, giudica le contestazioni fra i suoi membri e amministra il suo patrimonio a mezzo di delegati, scelti dal suo seno. Per giungere a tale pienezza di poteri si capisce, dice il du Pin, che le corporazioni dovranno divenire obbligatorie per tutti gli agenti della produzione, cioè nell’industria per il capitale, per la direzione e per la mano d’opera e nell’agricoltura per il proprietario, il fittavolo e il lavoratore; e che le deliberazioni entro la corporazione si prenderanno votando per ordine (categoria) non per testa. I vantaggi di tale regime saranno di arrestare la decadenza economica, perché le corporazioni fissando il giusto prezzo e vigilando sulla qualità della produzione come facevano in antico i capi d’arte (jurandes) lascieranno libera la concorrenza non per il prezzo ma per il miglior prodotto. Inoltre sul terreno morale la corporazione ricostituirà la famiglia operaia, a garantire la quale non sono oramai sufficienti le opere di patronato. L’A. chiude con un appello ai conservatori, osservando che bisogna trovare un programma in cui al centro sia non la carità della libera iniziativa d’altronde apprezzabilissima, ma la giustizia sociale. Se si vuole che il popolo diventi conservatore bisogna dargli qualche cosa da conservare. Bisogna unirsi al di fuori delle discussioni sulla forma dello Stato (pag. 43) per trovare ai mali sociali un rimedio sociale. La corporazione sarà base di tutto il rinnovamento: l’ordine naturale èl’ordine democratico alla base e aristocratico alla cima come lasciò scritto il Metternich. Rendere al popolo le giuste garanzie che gli sono dovute e ricostruire sulla base dei diritti restaurati l’edificio intiero del diritto sociale e politico: ecco il programma corporativo di restaurazione sociale. In quest’articolo è posta la base di quella che potremo chiamare corporazione integrale. Ne vedremo in seguito la sovrastruttura. III. Il regime corporativo a Friburgo: l’ordine professionale base dell’ordine politico; la rappresentanza della corporazione nel Comune, nella Provincia e nello Stato; le funzioni di polizia e di controllo del potere pubblico – Difficoltà pratiche Intanto il movimento corporativo si universalizza. Sotto la presidenza di Mons. Mermillod , e per principale iniziativa del du Pin e del suo amico de Blome membro della Camera austriaca dei Signori si radunano a Friburgo i sociologi cristiani di tutti i paesi e vi fondano (ottobre 1884) l’Union catholique d’études sociales et économiques detta poi più semplicemente l’Union de Fribourg. Già in questa riunione accanto alla questione del salario appare in prima linea l’organizzazione corporativa. Il du Pin vi riferisce sull’organizzazione corporativa agricola, il suo commilitone conte di Breda , sulla organizzazione corporativa industriale, il belga Helleputte su quella delle professioni liberali, il conte Medolago su quella del commercio. Ecco le conclusioni generali, come sono fissate in un ordine del giorno, certamente inspirato, se non formulato dallo stesso du Pin: 1) Il regime corporativo è la condizione legittima di un buon regime rappresentativo e l’ordine professionale è la base normale dell’ordine politico; 2) Essendo la corporazione un’istituzione pubblica, essa deve avere i suoi rappresentanti nei consigli del Comune, della Provincia e dello Stato. Regnerà d’altronde la più grande varietà a seconda dei paesi, delle tradizioni storiche e dei bisogni degl’interessi, circa il modo di elezione, la composizione delle corporazioni e la proporzione nella quale esse saranno rappresentate nei differenti consigli del paese; 3) Il potere pubblico dovrà mantenere la buona armonia fra i vari gruppi sociali ed esercitare, senza sostituirsi al loro governo interiore, i suoi diritti di polizia, controllo e direttiva generale nell’interesse superiore della società. A Friburgo dunque venne raggiunto l’accordo non solo sulla corporazione, come base della riforma economica, ma anche sul regime corporativo come base e premessa indispensabile del rinnovamento sociale e politico. Ma a Friburgo si sedeva al tavolo verde in piccolo e ben scelto cenacolo; fuori, nell’agitata vita sociale dell’epoca, l’intesa e l’attuazione trovarono difficoltà quasi insuperabili. D’una parte i parlamenti, quasi tutti in mano dei liberali, erano completamente refrattari all’idea corporativa che negavano sul terreno economico, perché contraria al dogma della libertà di lavoro e nella quale politicamente parlando fiutavano la reazione, cioè il ritorno all’esercito ancien régime. Fu per questa istintiva avversione, alimentata dalla fama di monarchico reazionario che accompagnava il prepotente, che il de Mun non riusciva nell’84 ad ottenere nella nuova legge sindacale il più piccolo privilegio per il sindacato misto (corporazione) ch’egli avrebbe voluto eretto in ente morale, con capacità di possedere ed amministrare un patrimonio proprio. La maggior parte dei padroni poi che avrebbero potuto essere i collaboratori degli operai nelle corporazioni, non ne volevano assolutamente sapere, poiché per loro la libertà di lavoro corrispondeva alla libertà di dominio del capitale. Magnifiche le eccezioni di Leone Harmel e dell’Officina cristiana nella regione di Lilla, ma lo stesso pronunciato carattere religioso di queste corporazioni-confraternita ne rendeva più difficile l’imitazione in paesi meno cattolici (V). IV. Un programma minimo di organizzazione corporativa – Tre elementi della corporazione: l’iniziativa privata, l’azione del potere pubblico e l’azione moralizzatrice della Chiesa D’altro canto il socialismo dilagava. Il sindacalismo rivoluzionario conquistava le principali piazze forti dell’industria opponendo all’egoismo di classe dei padroni la lotta di classe dei proletari e anche là ove non prendeva terreno organizzativamente, per la minaccia che rappresentava e per la propaganda che diffondeva diveniva quello che rimase poi in tutto il secolo XIX, il propulsore più decisivo dei movimenti sociali, da qualunque punto ideale fossero partiti. I cattolici si dovettero lanciare nell’organizzazione dei sindacati semplici; i loro rappresentanti nei Parlamenti, per disarmare la propaganda rivoluzionaria, inclinarono sempre più a chiedere allo Stato il soddisfacimento dei postulati che si dimostravano giusti; e in quest’ora di difesa sociale non sempre l’unità fra i cattolici venne mantenuta. In Germania, è vero, il Centro seguì compatto Lieber e Hitze nella loro mirabile opera di legislazione sociale; ma che dire della Francia ove ancora nel ’91 il vescovo di Angers tenace avversario della regolamentazione di Stato voterà contro la legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, propugnata con tanto calore da de Mun? Quasi non bastasse, si aggiunse infine la questione del cosidetto confessionalismo. Qui lo stesso Pascal , un promotore dell’Association catholique incominciò a vacillare. Se tutte le associazione dovevano essere cattoliche nello spirito, nelle manifestazioni e perfino nel titolo, come accettare la corporazione di diritto pubblico invocata da La Tour du Pin? Così in mezzo ad una società, piena di conflitti sociali e già gravida di rivoluzioni politiche, la povera arca dell’alleanza corporativa seguita da un corteo d’idealisti e di uomini d’azione, non tutti chiaramente orientati, procedeva traballando e minacciando ad ogni istante di rovesciarsi per gli scossoni che la urtavano da destra e da sinistra. Ma La Tour du Pin, uno degli animosi portatori, non venne meno: la portò, la difese, le fece largo finché nel ’91 venne in soccorso un braccio più forte e più autorevole del suo. Urgeva prima di tutto tener conto della modificata situazione sociale in seguito al rapido sviluppo dei sindacati e venir incontro alle obiezioni degli organizzatori cristiani. Ed eccolo nel suo studio de l’Essence des droits et l’organisation des interêts économiques adattato alle nuove esigenze il suo programma ricostruttivo (pag. 129). Tre fattori, così egli s’introduce, devono produrre in pieno accordo la corporazione: l’iniziativa privata per generarla e conservarle la vita, l’azione dei pubblici poteri per proteggerla e introdurla nella costituzione legale del paese; l’azione della Chiesa per penetrarla della sua morale e inclinarvi i cuori. Poiché non si è riusciti ad ottenere nella legge dell’84 i necessari privilegi per la corporazione (unione professionale mista) e quindi lo sviluppo fu massimo per i sindacati operai e minimo per i misti, il regime corporativo non potrà fondarsi sulle poche corporazioni esistenti, ma alla base converrà creare dei consigli corporativi, composti di delegati dei sindacati liberi, degli operai e dei padroni. La giurisdizione di tali consigli corporativi sarà naturalmente limitata ai membri delle associazioni professionali che li hanno costituiti. La legge però potrà estenderla a tutta la professione quando la maggioranza dei suoi membri sarà entrata nelle associazioni costitutive. Ma c’è anche una procedura più liberale che è da preferirsi. Poniamo p. es. che in una città esistano 200 carpentieri, 90 dei quali costituiscano tre sindacati, l’uno di 40, l’altro di 30, il terzo di 20 membri. Essi manderanno al consiglio corporativo o camera corporativa (entro la quale anche i padroni avranno una rappresentanza proporzionale al loro sindacato o alla loro azienda) 4 + 3 + 2 = 9 delegati. Il consiglio elabora il provvedimento in questione e poi lo sottopone al suffragio diretto di tutti gli appartenenti alla professione. La deliberazione così ottenuta viene omologata dallo Stato e diventa infine legge per tutta la professione. Siffatto organismo ha naturalmente carattere transitorio e dura fino a tanto che la libera iniziativa ci avrà dato alla base l’organizzazione corporativa di tutti o quasi tutti i fattori della produzione. Ma comunque, supposto che nella prima o nella seconda maniera sia stato costituito il consiglio o la camera corporativa, ecco quale sarà la sua competenza: a. elaborare e conchiudere i contratti collettivi; b. rendere giustizia e amministrare la polizia entro la categoria professionale specialmente a mezzo di un consiglio di disciplina o tribunale di lavoro incaricato di far applicare i contratti collettivi e gli altri regolamenti, di vigilarne l’attuazione, e di risolvere i conflitti; c. creare e amministrare tutte le istituzioni di comune interesse; casse di soccorso, di malattia, di disoccupazione, di pensioni, assicurazioni contro gl’infortuni ecc.; d. studiare e proclamare gl’interessi professionali, rappresentare insomma la professione (o corps d’etat, ovunque essa sia chiamata a farsi intendere). Ecco, dice l’A., la gran parte che può avere nel regime cooperativo la corporazione libera cristiana o i sindacati cattolici ed ecco l’unica maniera di risolvere i conflitti del lavoro, senza l’intervento o col minimo intervento dello Stato, onde non si capisce come tale sistema non sia sopratutto caldeggiato da coloro che rifuggono dall’ingerenza statale. Tolte così le preoccupazioni degli organizzatori sindacali, La Tour du Pin affronta in pieno la polemica coi conservatori sul problema della politica sociale (Politique sociale, 1887 ) nei riguardi della Chiesa, dello Stato, delle associazioni e delle libertà personali. V. Linee di politica sociale; La Chiesa, lo Stato, i diritti della persona e delle associazioni – Il mito dello Stato medioevale «Per carità, aveva scritto d’Haussonville, già troppo abbiamo mescolato la Chiesa alle nostre lotte politiche; vorremmo comprometterla anche in questioni economiche ove non ha da conoscere. Non sollecitiamola a pronunziarsi pro o contro la libertà di lavoro o della concorrenza… tutte queste querele passano, ed ella rimane». Sempre così, ribatteva il nostro autore: la maggioranza dei conservatori si è abituata a vedere nella Chiesa soltanto il suo ministero: amministrare i sacramenti e predicare la morale nei templi, nessuno glielo contesta. Insegnare cioè tener delle scuole e impartirvi l’istruzione e contemporaneamente l’educazione è ciò che si chiama per la Chiesa godere della libertà d’insegnamento e Dio sa a prezzo di quali lotte si acquisti e si mantenga questo minimo di tale libertà. Ma il diritto della Chiesa non si limita a ciò: è d’essa che in una società cristiana deve avere la direzione dell’insegnamento; e più ancora è suo imprescrittibile diritto di fondare, mantenere e impartire la dottrina sociale (pag. 167). La Chiesa ha anche il diritto di giudicare ed applicare le sue sanzioni penali, non solamente ai chierici ma ai fedeli in genere. Delictum iudicare meum est, scriveva Innocenzo III a Filippo Augusto a proposito di una contestazione di diritto feudale col re d’Inghilterra , e l’A. ricorda i molti concili da quello di Toledo fino a quello di Trento, che emanarono sentenze in materia economica. La supremazia del potere religioso su quello civile è secondo l’espressione di Le Play un elemento della costituzione essenziale dell’umanità. Lo Stato? Ma potete credere che i sociologi cristiani corrano il pericolo di cadere nella statolatria, quando tutti i loro sforzi di ricostruzione mirano a restaurare l’antico stato cristiano medioevale superando il cesarismo moderno che è a sua volta una continuazione dell’ancien régime durante il quale il potere regio, esorbitando dai suoi compiti, assorbì ogni forza sociale e soppresse ogni libertà? I lettori avranno già avvertito come il du Pin, eguale in ciò a molti altri sociologi dell’epoca, non esclusi, benché in più circospetta maniera, i nostri italiani, credette al mito della repubblica cristiana. Uso la parola mito nel significato soreliano , senza naturalmente voler mettere in discussione i lati certo mirabili di quella civiltà feudale che fiorì nei primi secoli del nostro millennio. Ma il mito è la ricostruzione ideale, tutto luce e niente ombra: un quadro, dipinto a posta per la propaganda, com’era lo stato di natura del filosofo ginevrino per i liberali e come sarà lo stato collettivista per i socialisti. Per il nostro domina nel quadro Luigi IX , seduto patriarcalmente sotto la quercia a giudicare e mettere pace tra i suoi sudditi; e dall’altro lato sventolano i gonfaloni delle arti e mestieri ch’entrano in corteo nella magnifica cattedrale, sorta per la loro fede e per il loro concorde volere e nello sfondo campeggia il Laterano donde il rappresentante del potere universale vigila sul diritto dei deboli. E fra l’uno e l’altro gruppo e tutto all’intorno svolge lussuriosamente i suoi rami l’albero ideale dello Stato organico; nel cui midollo scorre il succo vitale di cento libere iniziative e si propaga la linfa rigeneratrice dello spirito gerarchico. Come appare brutta e repellente in suo confronto la macchina grigia dello stato moderno, tenuta in movimento dalla sola forza del numero! Se non fosse vero come diceva il Lovell che al postutto le teste è meglio contarle (suffragio universale) che spaccarle (fazioni medioevali) o se per completare tale quadro noi italiani non potessimo ricavarne ben altre scene dall’inferno dantesco! Senonchè, detto questo per una riserva di critica storica che non sapemmo sopprimere, aggiungiamo subito che non intendiamo affatto di mettere in discussione le linee dello stato ideale da ricostruirsi e, nemmeno storicamente parlando, la verità delle affermazioni fondamentali del du Pin. Ne citeremo alcune letteralmente, altre riassumeremo. «Lo stato pagano greco-latino pratica la schiavitú come regime di lavoro, l’usura come regime di credito, l’ius utendi ed abutendi come regime della proprietà. Nell’impero romano, da cui ci si compiace a prendere il tipo delle leggi e delle istituzioni pubbliche moderne, l’assolutismo è il carattere inseparabile del potere sugli uomini e sulle cose tanto presso il principe quanto presso il padre di famiglia, il capomastro, il proprietario» (pag. 171). Lo stato cristiano nasce nel medioevo, incarnandosi nel sistema feudale, che non ebbe origine dalla conquista violenta, ma nella maggior parte dei casi dalla recommandation, cioèdal libero affidamento del debole che pattuiva la protezione e il lavoro col più forte. La società rurale si fonda sul feudo, quella urbana sulla corporazione e cemento per entrambe è il vincolo religioso, contenuto per l’uno nella fede del giuramento, per l’altra nello statuto della confraternita. In questo stato la legislazione non è che la raccolta e codificazione dei costumi maturati nel popolo e sanzionati dal principe: Lex fit consensu populi ac constitutione regis . Appena più tardi con Filippo il Bello (attorno al 1300) i legisti regi, risalendo al diritto romano, rimetteranno in vigore il principio dell’assolutismo che imperverserà per tutto l’ancien régime: quid-quid Principi placuit legis habet vigorem . «Nel medioevo ogni iniziativa era privata, ogni corporazione autonoma. E dappertutto, sopratutto colla civiltà cristiana si vedono fiorire non solamente i diritti personali, ma ancora quelli del comune e della corporazione comprendente sotto questi termini gli organismi più diversi del corpo sociale» (pag. 306). Le Carte dei comuni non si ottennero in genere colla violenza, ma per accordo fra il signore e gli abitanti: e queste franchigie sono le libertà locali. Ma ben presto la monarchia oltrepassa le sue funzioni, governa a furia di decreti e falsa anche lo spirito con fracasso per aver minato le basi storiche su cui si assideva. Così la Francia ch’era un composto di provincie diventa un tutto diviso in dipartimenti, e le s’impone il meccanismo della conquista romana. Ora l’uomo, argomenta il nostro A., è un essere storico; egli nasce in una determinata società politica formatasi in seguito ad una successione di avvenimenti storici, ma questi stessi furono causati più che da circostanze esteriori, dalle elementari correnti d’idee che hanno presidiato la formazione dello stato. La via quindi della restaurazione non può essere che storica e deve rappresentare il ritorno alle idee madri delle origini. Dalla loro essenza e dai costumi e dalle leggi posteriori le quali, secondo Montesquieu, non sono che «les rapports nécessaires qui derivent de la nature des choses» e possono modellare la costituzione, ma non modificarne l’essenza, nascono diritti diversi, alcuni costanti e intangibili come il loro principio, altri variabili, ma nella loro specie, non meno sicuri. «A seconda che gli uni e gli altri sono più o meno riconosciuti e rispettati, lo Stato è pacifico e prospero o incerto e perturbato» (pag. 306). Quali sono questi diritti? La Tour du Pin accenna in primo luogo ai diritti della coscienza. Non si dirà che tali diritti emanino dallo Stato (pag. 307); poi ai diritti della famiglia: non s’è mai visto che questi nascessero da quelli dello Stato; quindi ai diritti del lavoro che generano quelli della proprietà, infine ai diritti dell’associazione. Altrove (pag. 179) egli aveva detto: «l’associazione è una necessità, dunque è un diritto naturale». E ancora: «un uomo o un gruppo che non derivano il loro diritto che da quello dello Stato, sarebbero assolutamente senza diritto, poiché lo Stato sarebbe sempre padrone, in virtù del suo stesso principio, di revocare il diritto che avesse concesso, sarebbe la condizione dello schiavo» (pag. 307). Lo Stato non ha altra funzione che quella d’essere l’espressione suprema dell’accordo di tutti i diritti. Egli possiede a tal’effetto un organo, il governo, il quale definisce, non crea, tutti questi diritti a mezzo della legge, li mantiene colla giustizia e li protegge colla forza. Ecco la sua triplice e costante missione» (pag. 307). «Lo spirito delle leggi è altrettanto benefico quando non fa che consacrare i buoni costumi e incoraggiare le iniziative feconde, quanto è nocivo, quando si spinge più avanti e vuole innovare invece di sviluppare, sopprimere invece di riformare» (pag. 308). Lo so, egli aveva già scritto antecedentemente (p. 138): «La formazione di stati nello Stato è in uguale abominazione al liberalismo che al socialismo per la tema che l’onnipotenza del potere ne sia contenuta e sia più difficile alla maggioranza dei cittadini d’imporsi alla minoranza. I conservatori però che non hanno perso il senso storico devono aver presente allo spirito che gli Stati cristiani non si sono formati che per l’associazione politica di questi elementi locali o professionali, i quali rimontano, la più parte, più indietro nel tempo ch’essi stessi e posseggono dei diritti altrettanto e più sacri che la maggioranza dei poteri politici attuali». Stabilita così la missione della Chiesa anche nella restaurazione sociale e rivelato in termini non equivoci che lo scopo della riforma sociale cristiana non è di rafforzare il cesarismo dello stato moderno, ma anzi di limitarlo e distruggerlo colla rinascita delle libertà locali e corporative, il nostro A. constata però anche che se l’iniziativa privata è da valutarsi come per il passato, non si può tuttavia attendere da essa sola la ricostruzione corporativa, giacché il sentimento della fraternità cristiana che ne fu la molla principale si è affievolito fino, in certe classi, a scomparire del tutto. È per questo che i rinnovatori si rivolgono alle due autorità che, in mezzo alla disgregazione generale stanno ancora in piedi, la Chiesa e lo Stato, affinché sorreggano l’iniziativa privata, la prima rianimando lo spirito di fraternità, l’altro ristabilendo di fatto la solidarietà. VI. La Rerum Novarum e il programma corporativo – La Tour du Pin e il ralliement – Tentativi di superare la pregiudiziale politica Quando nel maggio del ’91 Leone XIII pubblicava la Rerum Novarum, La Tour du Pin dovette credere d’aver in pugno la vittoria. A dir vero, il Pontefice non parlava del regime corporativo né si occupava dell’edificio politico sociale che i cristiano-sociali ritenevano necessario per la ristaurazione. Ma l’enciclica approvava tuttavia gli elementi essenziali che s’intendevano usare in tale opera di rinnovamento. La corporazione medioevale infatti vi viene ricordata con ammirazione. «Però i progressi della cultura, le nuove costumanze e i cresciuti bisogni della vita esigono che queste corporazioni si adattino alle condizioni presenti». «Vediamo con piacere – aggiunge il Papa – formarsi ovunque associazioni siffatte, sia di soli operai sia miste di operai o padroni». La formula è piuttosto lata e non ha di mira la corporazione integrale; ma Leone, XIII non fa qui della teoria e deve dare, di fronte all’incalzare dei socialisti, dei suggerimenti pratici che permettano di lavorare a tutti i cattolici di buona volontà. La funzione di queste associazioni professionali è designata in confronto allo Stato, con sufficiente precisione. Lo Stato può e deve intervenire a proteggere il buon costume, a far cessare gli abusi di qualunque specie, ma entro i debiti confini : «i quali confini sono determinati dalla causa medesima che esige l’intervento dello Stato: che val quanto a dire non dover le leggi andar al di là di ciò che richieda o il riparo dei mali o la rimozione del pericolo». «Del resto, in questo (salario) ed altre simili cose, quali sono la giornata di lavoro, le cautele da prendere per garantire nelle officine la vita dell’operaio, affinché l’autorità non s’ingerisca indebitamente, massime in tanta varietà di cose e di tempi e di luoghi, sarà più opportuno riservarne la decisione ai collegi di cui parleremo più innanzi (sono le corporazioni) o tenere altra via che salvi, secondo giustizia, le ragioni degli operai restringendosi lo Stato ad aggiungervi, quando il caso lo richieda, tutela ed appoggio». In questi periodi della Rerum Novarum il du Pin trovava una conferma della sua linea. La magistratura ordinaria del lavoro è riservata alle associazioni; lo Stato interviene come supremo tutore e più in là, solo eccezionalmente, ritraendosi subito, appena messe le cose a posto. E come il nostro autore, anche Leone XIII accentuerà la precedenza dei diritti personali e famigliari. «Che se l’uomo, dice l’enciclica, se la famiglia, entrando a far parte della società civile trovassero nello Stato non aiuto, ma offesa, non tutela, ma diminuzione dei propri diritti, la civil convivenza sarebbe piuttosto da fuggire che da desiderare». E altrove, a proposito delle associazioni cattoliche: «Lo Stato difenda queste associazioni legittime dei cittadini, non s’intrometta però nell’intimo della loro organizzazione e disciplina: perchè il movimento vitale nasce da intrinseco principio e gl’impulsi esterni lo soffocano… Se hanno pertanto i cittadini come l’hanno di fatto, libero diritto di legarsi in società, debbono avere altresì ugual diritto di scegliere pei loro consorzi quell’ordinamento che giudicano più confacente al loro fine». Benché dunque l’enciclica nella sua parte teorica sia opera del più saggio e prudente equilibrio e nelle sue conclusioni pratiche miri a ristabilire la concordia fra le diverse scuole è indubbio che l’indirizzo dell’Association catholique vi trovava la sua più solenne consacrazione. La scuola classica di Mons. Freppel , la Destra, era battuta. Senonché il pericolo per il programma del du Pin doveva addensarsi di qui innanzi sulla sinistra. La Tour du Pin era un monarchico attaccatissimo alla vecchia dinastia. Nell’84 era accorso con de Mun a Gorizia a seppellire il conte di Chambord ed a proclamare il nuovo re, il conte di Parigi : la sua stessa dottrina di restaurazione storica – benché all’epoca di cui scriviamo avesse cura di non dirlo esplicitamente per non turbare l’unità dei cristiani sociali, – puntava istintivamente verso il ristabilimento della dinastia ereditaria. Ma ecco Leone XIII, il papa che gli aveva dato ragione sul terreno sociale, emanare a pochi mesi di distanza l’enciclica Au milieu , nella quale si fa urgente appello ai cattolici francesi di accettare la repubblica. Il conte de Mun, col cuore sanguinante, accoglie l’invito e il du Pin, suo inseperabile commilitone, in sulle prime tace. Ma il 9 giugno 1892 venti deputati della destra realista pubblicano la seguente dichiarazione: «Les royalistes s’inclinent avec respect devant l’autorité infaillible du Saint Père en matière de foi. Comme citoyens ils revendiquent le droit qu’ont tous les peuples de se prononcer en liberté sur toutes les questions qui interessent l’avenir et la grandeur de leur pays. La forme de gouvernement est par excellence une de ces questions. C’est en France et entre Français qu’elle doit etre résolue. Telle est la tradition nationale». Allora il gentiluomo realista sente il dovere di rompere il silenzio e pubblica nei giornali quanto segue: «Comme dernier représentant après mon père de M. le comte de Chambord dans le departement de l’Aisne, je crois devoir donner en principe et publiquement, mon adhésion à la déclaration des députés». Questa dichiarazione stupisce profondamente. E come? Lo stesso La Tour du Pin che invocava la pienezza dell’autorità medioevale dei papi in misura non minore di un Egidio Romano può aderire oggi ad una dichiarazione gallicana? Egli che ha visto nell’insulto di Anagni la fine del mito dello stato cristiano, si troverà oggi, di fronte a Leone XIII dalla stessa parte ove furoreggia il Drumont il quale nella sua insania arrivò a chiedere se non esistesse alcun cavaliere francese capace di vestire il guanto con cui il Nogaret schiaffeggiò Bonifazio VIII ? Ma se ancora si può comprendere il lealismo sentimentale del gentiluomo, meno facile è di ammettere la motivazione del sociologo. Aggiungo subito però ch’egli stesso nelle pubblicazioni sociali che fece seguire nei primi anni dopo questa infelice dichiarazione, non v’insistette più oltre. Conviene anzi attribuire a suo merito che, fino che scrisse sull’Association catholique indipendente, ora, dall’opera dei circoli, ma rimasta in mani amiche, La Tour du Pin si sforzò di concentrare attorno al programma corporativo tutte le correnti sociali rinnovatrici: cosa a dir vero per lui assai malagevole perché intanto al congresso di Reims nel 1893 era entrata in lizza rumorosamente la «democrazia cristiana» la quale poneva bensì al primo piano l’organizzazione professionale, ma metteva anche in programma alcune riforme politiche come la rappresentanza proporzionale e il decentramento ch’erano e venivano considerate quali correzioni e modificazioni dell’edificio democratico e repubblicano che in massima era accolto. Per tranquillare quest’ala sinistra scriveva nel 1894 «essere il regime corporativo una forma temperata di democrazia per il rispetto al diritto dei deboli e l’aristocrazia per la facoltà d’ascensione sociale aperta a tutti. All’organismo repubblicano fornisce le sottostrutture che gli mancano, al regime monarchico il contrappeso delle pubbliche libertà» (pag. 230). Ed è sovratutto per i democratici, fra i quali ha moltissimi amici ed ammiratori, che il sociologo cattolico svolge nell’Association catholique del 1896 il suo piano di riforme politiche che devono elevarsi sopra la base corporativa. Esso va sunteggiato largamente. VII. Le istituzioni rappresentative – Tre grandi categorie da rappresentare: i contribuenti, i corpi costituiti, le società professionali Vi sono due tipi di sistemi parlamentari: quello che storicamente si è sviluppato senza intermezzi dal regime feudale, come quello inglese, ove il Parlamento fu la continuazione della Corte dei Pari, rafforzata poi dal nuovo elemento rappresentativo non meno antico dei comuni o, sul continente, quello che inserendosi sulla struttura rappresentativa antica riuscì un tipo composto di democrazia ed aristocrazia, quale si trova p. e. in Austria e in Prussia. Vi è poi un secondo tipo ed è quello della Francia, ove il sistema parlamentare fu applicato ad uno stato ormai polverizzato e centralizzato dall’ancien regime. Senonché gl’individui e le folle non sono rappresentabili: si possono rappresentare solo delle collettività che abbiano una vita propria e siano capaci di formulare un mandato. Inutili furono quindi i tentativi della Restaurazione, di Luigi Filippo , del suffragio universale. Il male fu aggravato quando si applicò il principio della responsabilità ministeriale in maniera che a governare fu chiamato non il capo dello Stato, ma il Parlamento a mezzo d’un ministero posto a sua discrezione. Per trovare i criteri ricostruttivi d’un vero sistema rappresentativo bisogna considerare nello Stato tre grandi categorie: a) i contribuenti; b) i corpi costituiti; c) le società professionali. I contribuenti sono alla base dello Stato e poiché è principio storico tradizionale di libertà che non paghino se non quelle imposte a cui hanno consentito, devono poter raggrupparsi in collegi elettorali che potranno essere regionali e magari anche censitari, i quali eleggeranno i loro delegati. I sistemi elettorali saranno diversi; i contribuenti devono però venir contati, non per testa, ma per fuoco e il diritto di voto dev’essere vincolato al domicilio (voto dei pater familias). I corpi costituiti, le chiese, le università, i corpi giuridici saranno rappresentati dai loro presidenti, essendo essi costituiti secondo il principio gerarchico, le corporazioni invece designeranno i loro delegati col libero suffragio dei loro soci. I fiduciari (deputati) eletti dai contribuenti costituiranno gli organi amministrativi autonomi dei comuni e della regione e controlleranno la gestione dei danari pubblici nello Stato. I corpi costituiti e le associazioni professionali saranno chiamati invece a formare una Camera alta, alla quale parteciperanno anche membri designati dal capo dello Stato. La prima, la Camera dei deputati, eletta a suffragio diretto voterà il bilancio (che converrebbe però secondo il suggerimento del Le Play nettamente distinguere in ordinario che si vota per parecchi anni e in straordinario che si vota ogni anno), e le imposte ed avrà anche l’antico diritto des doléances et des remontrances. La Camera alta invece composta come sopra per voto indiretto o per nomina in base allo storico principio che lex fit consensu populi ac constitutione regis, accetterà o respingerà le leggi generali, osservando che la preparazione dei progetti e la codificazione degli emendamenti presentati durante il dibattito, vanno affidate ad un consiglio di Stato composto di competenti. In altro articolo del 1898 du Pin si sforza ancora di dimostrare come si possa e si debba adagio adagio ricostituire il regime corporativo accanto a quello del suffragio universale. Egli suggerisce di costituire accanto al Consiglio comunale, eletto a suffragio universale dai contribuenti, dei consigli locali (consiglio di fabbriceria per gli affari religiosi, scolastico per gli affari della istruzione, delle opere pie, per la beneficenza) nominati dai capifamiglia e che dovranno venire consultati dal Comune per gli affari di loro competenza. Verrà frenata così l’onnipotence des Césars villageois. Accanto al Consiglio comunale cittadino invece si costituirà con carattere consultivo un consiglio corporativo. Ma anche nella campagna, presso il dipartimento si potranno costituire consigli consultivi corporativi cantonali. Nella stessa maniera si procederà per la regione. VIII. Il corporativismo presso i cattolici dei vari Stati – Suffragio necessario del regime corporativo E qui potremmo chiudere il nostro studio, perché è fino qui che parla il maestro del regime corporativo cristiano. A questo punto l’ordine del giorno di Friburgo è completamente svolto: essenza e funzione della corporazione sono definite e l’inquadramento dei sindacati nel regime corporativo è delineato, e sull’organismo economico è innestato il sistema rappresentativo, che pur mirando ad una radicale e profonda trasformazione dello stato moderno meccanico in stato organico mediante lo sviluppo delle libertà locali e professionali e il decentramento regionale, prevede la conservazione d’una camera a suffragio dei contribuenti. Sarà questa, più o meno fedelmente, la linea che seguiranno nei loro programmi e nelle proposte di attuazione gli uomini politici cattolico-sociali di tutti i paesi: correggere, organizzare, limitare nella sfera della sua competenza il suffragio universale e stabilire un equilibrio fra il governo d’opinione e la rappresentanza degli interessi. Nascono così le proposte del Senato corporativo (in Italia pubblicava un progetto Boggiano Pico , vent’anni fa), delle camere professionali regionali, del supremo consiglio del lavoro e come indispensabile premessa quella che con un termine malauguratamente troppo tecnico, venne detta la organizzazione giuridica delle classi. Avviene però che nello stesso tempo la minaccia rivoluzionaria costringe sempre più lo Stato ad abbandonare l’agnosticismo del liberalismo classico. In ogni paese si costituiscono i ministeri del lavoro che intervengono nei conflitti sociali. Il tipo dello Stato interventista o laburista, se mi è lecito chiamarlo così, incomincia a prevalere nel mondo anglosassone e germanico e contende oramai il terreno allo Stato liberale anche nel mondo latino. Da quando, per esprimermi colle massime distanze, Richard Seddon (1891) creò nella Nuova Zelanda una legislazione che diede carattere giuridico alle Trade Unions , impose l’arbitrato obbligatorio, punì lo sciopero fatto in onta alla sentenza arbitrale e per alcune industrie di necessità pubblica lo punì in ogni caso (legislazione imitata poi in altre colonie inglesi) fino all’attuale legge germanica per cui un ministro prete è dal dopoguerra in qua il magistrato supremo nei conflitti di lavoro (VI), l’ingerenza dello Stato ha fatto passi così giganteschi, che muovere oggi in battaglia contro lo Stato agnostico liberale come poteva fare l’Association catholique fra l’80 e il ’90, dovrebbe sembrare anacronistico. Anche internazionalmente parlando, il trattato di Versaglia che istituisce l’Ufficio internazionale del lavoro segna la fine di un’epoca sociale, durante la quale i cattolici sono all’avanguardia del rinnovamento. Di più per la protezione del lavoro o meglio, secondo il du Pin per la giustizia sociale, molto del programma cristiano sociale fu attuato. Basta pensare alle assicurazioni e pensioni operaie. Tuttavia, contro l’idea del nostro A., esse verranno organizzate centralisticamente in istituti statali e parastatali, così come burocraticamente si accentrano i sindacati. L’organicità, fondata sull’autonomia dei corpi elementari, rimane un ideale lontano (VII). Molto minori o quasi nulli sembrerebbero i risultati sul terreno politico costituzionale. Se facciamo astrazione dai due grandi esperimenti totalitari in corso, l’italiano e il russo, i quali non possono venir considerati in questo scorcio perché si protendono piuttosto verso un periodo nuovo, i sindacati conquistano bensì un grande potere di fatto, perché i loro capi partecipano ai governi o addirittura li compongono, ma ciò avviene per designazione del suffragio universale. Nessuna delle cento assemblee legislative ch’esistono nel dopo guerra ha carattere fondamentalmente corporativo. Prendono manifesto sviluppo invece i consigli centrali corporativi di carattere tecnico e consultivo. Ma qui per valutarne l’opera e l’importanza organica e l’influsso che vi esercita il pensiero cristiano sociale ci occorrerebbe prolungare troppo questa già lunga digressione. Ci permetteremo di rilevare soltanto che i sociologi cattolici raccolti a Malines nel dopoguerra per riprendere l’opera di Friburgo pubblicano ora un Codice sociale di cui è detto che «senza misconoscere il valore dell’iniziativa personale e riconoscendo allo Stato la parte legittima vi appare la cura di disciplinare individui e nazioni per mezzo dei corpi di cui fanno parte, Associazione libera, famiglia, professione, Società delle Nazioni, Chiesa piuttosto che per mezzo dell’unione diretta e coercitiva del potere politico» (VII). La linea è dunque ancora quella di La Tour du Pin. IX. La rappresentanza organica degli interessi e delle professioni – De Maistre e Leone XIII Dopo il 1896 (congresso realista di Reims ) nel du Pin accanto al sociologo prende la parola senza ambagi anche il monarchico. L’antico camerata, il de Mun, s’avvicina sempre più alla repubblica. Si faceva l’emulo di Montalembert, scriverà poi non senza una punta d’ironia La Tour du Pin. Il Naudet nella Justice sociale dichiarava che la dinastia degenerando nell’ancien régime aveva rotto essa stessa il patto secolare stretto col popolo. Più a sinistra di lui ancora ecco apparire il Sillon ! A che giovava oramai il sacrificio di un atteggiamento riservato? Gli articoli di questa serie compaiono in un primo periodo nel Réveil français, organo realista fondato a Reims. Di fronte al nazionalismo che nasce è piuttosto diffidente, perché teme non sbocchi nel cesarismo (marzo 1900) ma più tardi il du Pin accetterà di collaborare anche nell’Action française. E nell’ultimo scritto, polemizzando con Henri Lorin , promotore delle settimane sociali farà suo il motto di Maurras : la Monarchia rappresenta la federazione delle repubbliche francesi e concluderà: «Finché l’unità politica sarà l’uomo asociale, l’ordine politico sarà unicamente democratico. Ma quando l’insegnamento sociale impartito nella settimana sociale di Digione si sarà tradotto nell’ordine politico, una dinastia nazionale, incarnando la famiglia e la professione darà naturalmente all’ordine politico il coronamento storico d’una monarchia veramente sociale» (pag. 10). Ed ecco come immagina il sistema rappresentativo organico (Répresentation organique, pag. 475) nella monarchia ristaurata. I gruppi professionali primordiali sono quello delle professioni liberali, quello delle professioni industriali e commerciali e quello delle professioni agricole o rurali. Questi tre gruppi costituiranno ciascuno una camera sindacale territoriale, la cui circoscrizione varierà secondo il loro carattere (il dipartimento per le professioni liberali, l’arrondissement per le industriali, il cantone per le rurali). Le camere sindacali verranno elette col sistema proporzionale dalle libere associazioni di categoria. Alla lor volta le camere sindacali nomineranno le camere regionali, le quali fungeranno separatamente per gli affari della propria categoria e, riunite, costituiranno gli stati della regione. Le rappresenanze regionali (la Francia risulterebbe divisa in 16 regioni) sarebbero presiedute dal governatore, che è anche il capo supremo dei pubblici servizi, ed avrebbero carattere deliberativo in materia amministrativa, salvo la sanzione sovrana. Qui bisogna avvertire che l’A., alla cui memoria è presente la divisione delle attribuzioni fra le diete e il parlamento in Austria, considera oggetto della legislazione centrale solo provvedimenti di carattere generale e permanente, affidando tutto il resto al potere regolamentare delle rappresentanze regionali. Infine le camere regionali nomineranno le camere nazionali le quali, riunite, formeranno gli stati generali, riservando rappresentanza eguale a quella delle tre altre categorie ai corpi di Stato costituiti (chiesa, università, tribunali). Eccovi un Senato trasformato in Grand Conseil des corporations (pag. 476). Il governo è «le roi en ses conseils» il quale delegherà alcune attribuzioni della sovranità a dei corpi costituiti, come al Consiglio di Stato le attribuzioni legislative, alla Corte dei Conti le amministrative, alla Cassazione le giudiziarie. Il Consiglio di Stato è incaricato non solamente dei regolamenti per l’applicazione delle leggi e dei casi contenziosi che ne derivano, ma anche della preparazione delle leggi stesse. La Corte dei Conti deve conoscere non solo dell’impiego dei pubblici danari, ma anche della fissazione del bilancio ordinario e la Cassazione funzionerà anche da alta Corte di giustizia per vegliare sull’osservanza delle leggi fondamentali. Questi Consigli circondati di alto prestigio, verranno nominati dal re su proposta dei Consigli stessi e formeranno così delle potenti oligarchie che saranno le colonne della monarchia ma anche i baluardi delle pubbliche libertà (pag. 478). In quest’organismo necessita però anche il volante per essere ad un tempo il magazzino e il regolatore dell’energia e questo sarà il Grand Conseil che riunirà i più eminenti personaggi, nominati dal re o formerà la Camera Alta, la prima consultata sulle leggi, prima ch’esse siano portate nelle Camere corporative o negli Stati generali. Sono questi gli organi essenziali. «C’è però, continua il du Pin, (pag. 480), della brava gente che vorrebbe anche mantenere gli attuali Consigli provinciali e una Camera dei deputati, eletta dai contribuenti». Niente in contrario, esclama il nostro A., purché il suo mandato sia limitato a quanto riguarda l’imposizione dei tributi e il loro impiego. In sì tenue maniera è liquidato ora da un istituto a cui il du Pin aveva pur dianzi riconosciuto carattere storico e nazionale! Accentuata viene invece l’impossibilità di conciliare regime corporativo e repubblica. «Vi ha una tale antinomia, egli scrive, (pag. 394), tra l’organizzazione sociale delle professioni e il regime politico regnante che è impossibile riunire i prodotti dell’una e dell’altra origine in un organismo unico». E allora come arrivare alla restaurazione? Il partigiano del diritto storico e del legittimismo ereditario assoluto non si sente affatto in imbarazzo. «Le pouvoir peut être ressaisi en un jour par qui de droit». E la Tour du Pin che pur elenca tutti i provvedimenti che dovrebbero esser presi dal re, compresa l’amnistia «per tutti i fatti relativi alla sostituzione del suo potere al precedente» (pag. 486) non aggiunge altro. Ma il suo discepolo Jean Rivain può ben pubblicare en marge de la justice sociale come corollario dell’opera del maestro, un suo studio nel quale proclamerà il diritto della rivoluzione monarchica di rovesciare la repubblica. «Bisogna rovesciare la repubblica. Se è necessaria, la rivoluzione per l’ordine è legittima» (IX). Così quei sostenitori della legittimità storica, per i quali nessun orrore dell’ancien régime avrebbe giustificata la ribellione, trovano che la repubblica è la source même du mal e predicano senza scrupoli la guerra civile. Quanto sapienti ricompaiono alla luce di tali conclusioni rivoluzionarie di destra, i moniti di Leone XIII nell’enciclica del ’92! No, non era una quaestio facti,come vorrebbero pur oggi certi irrriducibili monarchici bavaresi ma una quaestio iuris. Non si trattava di un atteggiamento politico consigliato dall’opportunità del momento ma, proclamando che se l’autonomia viene da Dio, le costituzioni sono opera mutevole degli uomini, Leone XIII rompeva colla teoria del diritto divino, come l’aveva formulata il de Maistre e invitando i cattolici ad accettare con lealtà cristiana la repubblica negava che tutta intiera l’opera della rivoluzione, principi e istituti, fosse condannevole. Eppure era da questa premessa ch’erano partiti i fondatori dell’Association catholique. De Mun si ritrasse a tempo, ed era logico che diventasse il leader dell’Action libérale populaire , com’era fatale che il romanticismo politico di La Tour du Pin trovasse i discepoli più entusiasti nel campo dell’Action française (X). I JEAN RIVAIN, Un programme de restauration sociale: La Tour du Pin précurseur, Paris, 1927 . II BARRÈS, La dottrina nazionalista, Lib. VIII. III MARQUIS DE LA TOUR DU PIN, Vers un ordre sociale chrétien. Jalons de route 1882-1907, Paris, Nouvelle librairie nationale. IV È il Befähigungsnachweis della legislazione austriaca. V Per farsi un’idea delle difficoltà pratiche che il programma di La Tour du Pin incontrava anche in ambienti cattolici, tutt’altro che refrattari al movimento sociale, si consulti BAUNARD, Les deux frères; cinquante années de l’Action catholique dans le Nord; ove d’altro lato è descritta anche la lotta opposta dal governo all’associazione degl’industriali cristiani. VI Sui risultati della magistratura del lavoro nei Dominions vedere la nota opera del BRYCE, Modern democracies. VII Anche in Germania i cattolici non si limitano alla difesa della costituzione di Weimar, ma insistono sulla necessità della democrazia organica; ciò che il nostro A., specie nell’ultimo periodo, avrebbe certo dichiarata contraddizione in termini. VIII Codice Sociale, Rovigo 1927, Introduzione. Il capo VII di questo Codice tratta della organizzazione professionale e dei Sindacati ma è riuscito piuttosto vago: le risoluzioni di Friburgo vi sono attenuate. IX JEAN RIVAIN, Un programme, etc., pag. 141. x Chi voglia constatare come il nazionalismo francese abbia impastato il suo programma corporativista, fondendo alcune idee di La Tour du Pin con alcune altre del sindacalismo rivoluzionario di G. Sorel, veda oltre il Rivain, anche GEORGES VALOIS, Economie nouvelle e le altre pubblicazioni in argomento dello stesso autore. In Germania si rinnova ora la controversia scoppiata a suo tempo in Francia dopo l’enciclica Au milieu. Si veda in proposito: TISCHLEDER, Staatsgewalt und Katholisches Gewissen, Francoforte, 1927. XI JEAN RIVAIN, Un programme de restauration sociale. La Tour du Pin précurseur, Paris, Le livre, 1927.
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1,928
4Internal exile
51926-1930
I. La situazione politica alla costituente di Weimar – Si risale alle assemblee nazionali del ’48 – I cattolici nelle assemblee di Francoforte e di Berlino avevano collaborato con i liberali – La libertà della Chiesa entro il quadro delle libertà generali Quando nel febbraio 1919 venne convocata a Weimar l’assemblea nazionale costituente per dare un nuovo statuto fondamentale allo stato germanico, quale era uscito dal disastro della guerra e dalla rivoluzione dell’autunno 1918, i rappresentanti socialisti (unitari o ufficiali) erano 165, i democratici (borghesi) 75, i centristi 90, i tedesco-popolari 22, i tedesco-nazionali 42, i socialisti indipendenti (estremisti) 22. Il socialista Scheidemann che aveva afferrate le redini del governo durante la rivoluzione e aveva appena repressa la rivolta spartachista (comunista) s’era rivolto ai democratici e ai centristi per allargare le basi del governo, costituendo così il primo ministero di coalizione, nel quale David (soc.), Erzberger (centr.) e Gothein (dem.) erano i ministri politici senza portafoglio che avrebbero anche dovuto presiedere all’opera costituzionale dell’assemblea. Non c’è bisogno di ricordare le difficoltà esteriori che accompagnarono tale attività legislatrice; l’esercito infranto, il paese mutilato e affamato, la vecchia impalcatura imperiale e dei principi federati crollata e l’organismo sociale mantenuto appena a prezzo di repressioni sanguinose, a cui provvedeva il ministro socialista Noske , non senza però che tratto tratto i bagliori degl’incendi rivoluzionari mandassero ancora i loro lontani riflessi fino all’idilliaca città di Wolfango Goethe ; e intanto l’ordine giuridico in alcuni stati federali era intaccato, manomesso o sovvertito da governi locali più o meno socialisti e sempre giacobini, come quelli di Amburgo, di Sassonia e del Braunschweig, che già provvedevano per conto loro a trasformar leggi ed istituti in senso anticlericale. La campagna elettorale aveva inoltre segnalato che la rivoluzione era avvenuta anche entro le coscienze. I socialisti, è vero, non avevano raggiunta la maggioranza dell’assemblea, ma i loro 13 milioni di voti parlavano un linguaggio anche troppo significativo e se si teneva conto dei voti democratici, bisognava ammettere che l’enorme maggioranza degli elettori s’era dichiarata per la repubblica libertaria e democratica, per la scuola statale comune, per la separazione della chiesa dallo stato; né erano mancate alcune note di giacobinismo confiscatore e livellatore. Lo stato di fatto stesso del resto che s’era venuto creando nelle chiese protestanti con la caduta dei principi summi episcopi rendeva enormemente difficile la manovra di accantonare le questioni religiose, scansando i contrasti più acuti come avrebbero desiderato in parte per ovvie ragioni i gruppi della coalizione governativa. Ciò forse sarebbe riuscito, evitando assieme quasi tutte le questioni delicate di principio, se l’assemblea di Weimar si fosse limitata a votare due o tre leggi organiche fondamentali, come fecero i fondatori della terza repubblica nella cosidetta costituzione Vallon del 1875 o come di poi farà la nuova repubblichetta austriaca, rinverniciando e riconfermando due leggi fondamentali absburgiche del ’62 e del ’67 . Ma nelle ore del destino, ogni popolo sente il richiamo della sua storia; e i tedeschi nel momento che crollava la Germania di Bismarck, si ricordarono dell’altra Grangermania (Grossdeutschland) che avevano sognato e costruito sulla carta nel ’48 durante l’interminabile e verbosa assemblea di Francoforte, e ne tirarono fuori lo statuto, rimasto allora un abbozzo e lo posero a base delle discussioni di Weimar. Era da attendersi che a tale punto di partenza il Centro non avrebbe opposta alcuna pregiudiziale, giacché anche i cattolici avevano avuto il loro ’48. Alla dieta di Francoforte s’era allora costituito un gruppo chiamato «Katholischer Klub», tra gli oratori principali del quale figuravano uomini, poi divenuti celebri come il Döllinger , il Ketteler, allora parroco di Hopsten in Vestfalia e Augusto Reichensperger . A questi deputati, appoggiati dai voti del congresso cattolico di Magonza e da una petizione, con centinaia di migliaia di sottoscrittori, era riuscito d’inserire nel capitolo dei diritti fondamentali del popolo tedesco, all’articolo ove si parla della libertà di coscienza, le disposizioni riguardanti la libertà della chiesa, di cui discorreremo in seguito. A Berlino, poi, nell’assemblea nazionale prussiana, sotto l’ispirazione dello stesso arcivescovo di Colonia, Geissel , Augusto Reichensperger e suo fratello Pietro avevano così attivamente collaborato nel comitato costituzionale alla formulazione dei diritti fondamentali, appunto per inserire nel quadro delle libertà generali la libertà della religione e della scuola, che lo statuto che ne venne fuori, veniva detto scherzosamente nei circoli parlamentari «Magna charta Reichensperger». In entrambe le assemblee dunque vi era stata una collaborazione dei cattolici con i liberali e con i democratici: nessuna meraviglia quando si consideri che il liberalismo non aveva ancora mostrato i suoi artigli anticlericali, e i cattolici, soffocati in Prussia e in Austria dallo stato poliziesco assoluto e negli stati meridionali da regimi giurisdizionali che incatenavano la Chiesa, avevano compreso che specie là ov’erano minoranza non potevano sperare che nel sistema costituzionale rappresentativo e nella libertà di parlare, di stampare e di riunirsi. Premesso dunque anche per il Centro lo statuto di Francoforte come punto di riattacco alla storia del movimento politico-popolare , quale fu a settant’anni di distanza la parte del Centro nell’ulteriore elaborazione dello statuto politico del popolo germanico? Ci eravamo appena accinti a rispondere a tale quesito, quando dovemmo avvertire che qualunque risposta sarebbe stata monca o confusa se non avessimo studiato contemporaneamente il nascere, il sorgere e l’evolversi del Centro nelle sue direttive politico-religiose. Ecco la necessità di rifarsi alla storia di quello che in Germania si chiama: il «centrismo» o anche con una denominazione che a nostro avviso i cattolici tedeschi non dovrebbero autorizzare: «il cattolicismo politico». II. Il carattere costituzionalista del Centro – Significato del suo costituzionalismo in confronto dei protestanti e dei liberali – Le idee e la tattica di Windthorst – Le leggi eccezionali, il militarismo, il suffragio universale Allorché nel ’70 e rispettivamente nel ’71 si costituirono i gruppi parlamentari del Zentrum alla dieta prussiana e al parlamento federale del nuovo impero, il titolo prescelto fu «Centro, partito costituzionale» . Ciò significava che per la dieta il Centro intendeva difendere la costituzione prussiana del 1850, la quale, sulla falsariga del progetto di Francoforte, assicurava libertà e autonomia alle società religiose (chiese) (I), e per l’impero che avrebbe mirato a crearvi delle garanzie costituzionali analoghe. L’accentuazione del costituzionalismo voleva dire, rivolto ai partiti di destra, d’ispirazione protestante, che il Centro domandava per i cattolici nient’altro che la parità, assicurata ed esperimentata già dalla legislazione prussiana; e rivolto ai partiti liberali, che il nuovo partito mirava a conservare la libertà religiosa entro il quadro delle libertà civili generali ed assieme ad esse, come le aveva formulate il parlamento del ’48. Infatti nell’ordine del giorno per la fondazione del Centro alla Dieta (13 dicembre 1870) è detto ch’esso vuole il «mantenimento e l’organico sviluppo dei diritti costituzionali in genere e in ispecie la libertà e l’autonomia della Chiesa e delle sue istituzioni» e al parlamento, discutendosi lo statuto federale, un veterano del movimento cattolico, Pietro Reichensperger, proporrà (1° aprile 1871) di dar vigore anche per l’impero agli articoli 12, 15 e 27-30 della costituzione prussiana, di garantire cioè anche per l’impero i «diritti dei Prussiani», ch’erano una derivazione immediata dei «diritti fondamentali del popolo tedesco», proclamati a Francoforte, e questi alla lor volta un’edizione corretta ed ampliata e nel loro spirito assai migliorata dei famosi «droits de l’homme et du citoyen»: libertà di parola, di stampa, di riunione, della confessione religiosa e della società religiosa (chiesa). La proposta venne respinta, ma formerà per il Centro l’ordre de bataille per lunghi anni. Essa è la piattaforma di una minoranza cattolica che, dalla pace di Westfalia in qua, ha combattuto invano per l’equiparazione con le chiese protestanti, assurte a chiese statali, e che di fronte alla minaccia dell’impero evangelico non trova altri alleati che le garanzie dei diritti popolari. Nessuno era più atto a comprendere tale situazione di Lodovico Windthorst , che nel regno di Hannover (assorbito poi dalla politica egemonica di Bismarck dopo la guerra del 1866), essendo ministro della giustizia, aveva invano difeso la costituzione di tipo inglese contro la reazione abilmente suscitata dalla Prussia e che, eletto poi nel 1867 a far parte dell’assemblea costituente della federazione tedesca settentrionale (Norddeutscher Bund), aveva dato il suo nome al «gruppo federalista» il quale aveva per programma «lo sviluppo della costituzione in senso liberale costituzionale, responsabilità dei ministri, corte suprema, libertà di stampa, diritto di coalizione ecc. ecc.». Così nel Windthorst, divenuto nel nuovo Reichstag il leader del Centro, a rinsaldare il costituzionalismo più geloso e più tenace, la tendenza federalista, il che voleva dire l’avversione all’egemonia prussiana incarnata dal cancelliere di ferro, si fondeva con le preoccupazioni del cattolico innanzi alla minaccia dell’«impero evangelico» che dopo il trionfo di Versailles e contro il concilio vaticano (dogma dell’infallibilità) si andava già allora addensando sull’orizzonte. Se le parole non avessero già allora perduto il loro vero significato, si sarebbe potuto affermare che il Centro faceva una politica liberale contro la maggioranza che era reazionaria: ma già allora questa maggioranza si chiamava «nazionale-liberale» e i centristi venivano detti «clericali». Tutta la storia del Centro è là però a dimostrare la verità di quanto afferma l’Hüsgen , il maggior biografo del Windthorst (e Windthorst vuol dire Centro) quando scrive: «Già dagli inizi della sua carriera politica Windthorst si era fatta la chiara convinzione che un’azione politica efficace era possibile solo sul terreno del moderno Stato costituzionale, come l’aveva creato l’agitato e tormentato secolo XIX. Su questo terreno egli si sentiva sicuro, e ne difendeva con ostinata energia ogni palmo usando tutte le armi offerte dal diritto costituzionale. Perciò qualsiasi eventuale tentativo di conferire pratico valore nei nostri tempi a principi politico-giuridici del medioevo, e a sorpassati istituti giuridici, lo metteva subito in allarme». Siamo scrupolosi nel rispettare la costituzione, raccomandava ai suoi, affinché la si rispetti anche in nostro confronto. Nel ’74 quando Bebel era ancora solo alla Camera federale, è Windthorst che si alza a difenderlo da un sopruso presidenziale; e nel ’78 è il Centro intiero che vota contro le leggi eccezionali proposte da Bismarck in odio ai socialisti: «Codesti signori, dice Windshorst rivolto alla maggioranza, che hanno decretato la legge contro i Gesuiti… non possono esitare ad approvare queste leggi d’eccezione contro i socialisti… Ma noi, come abbiamo combattuto perch’erano leggi d’eccezione e per altre ragioni più decisive ancora quelle che furono presentate contro di noi, nello stesso modo combatteremo quelle che si propongono oggidì». «Coloro, aggiunse nello stesso discorso, che credono di reprimere il movimento con misure esterne, sono in grande errore e non conoscono gli uomini. Solo colle forze morali si può convertire un popolo quando sbaglia; col bastone poliziesco giammai». Si può ben concedere che non tutti gli elettori né tutti gli eletti del Centro avessero in un primo tempo la piena consapevolezza di tale politica liberale e che solo le lotte religiose del Kultur Kampf l’abbiano resa per molti comprensibile e accettevole; ma negli effetti fu determinante l’iniziale e costante visione dei capi. Windthorst fiuta la reazione già subito dopo la guerra franco-prussiana e dà l’allarme ancora durante le discussioni del ’70, appena giunge la notizia che i principi tedeschi si sono accordati a Versailles per l’impero con l’egemonia prussiana: «Versailles – dice alla Camera – è il luogo di nascita dell’assolutismo militare come lo mise in auge Luigi XIV. Non dico che esso ci sia di già, ma so che il luogo di nascita e i padrini, i cannoni di S. Denis, hanno fatto sul nascituro qualche impressione». Perciò egli è logico quando batte in breccia le leggi militari di Bismarck, quando il 5 dicembre 1870 dichiara «l’attuale Gran visirato insostenibile» e che «fino a tanto che non avremo una Corte suprema per la difesa dei diritti costituzionali, non abbiamo una costituzione» e rimane logico fino all’ultimo anno della sua carriera politica, quando dichiara in un comizio a Colonia (1890) che il Centro sarebbe insorto compatto contro l’annunciato tentativo di Bismarck di abolire il suffragio universale (II). III. La questione del confessionalismo – Esperienze del «Gruppo cattolico» in Prussia – Perché nel ’71 si voleva un raggruppamento interconfessionale – Le idee di Ketteler Ma è tempo che ritornando alla costituzione del Centro, parliamo di un’altra nota caratteristica della sua fisionomia. Il Centro, che noi descriviamo, aveva avuto in Prussia un precursore nel «Gruppo cattolico» (Katholische Fraktion), fondato alla Dieta prussiana nel 1852, al quale avevano aderito 62 rappresentanti, e precisamente 33 della Renania, 15 della Westfalia, 9 della Slesia, 5 della Prussia occidentale. Noto questa distribuzione per far rilevare che quasi tutti questi «deputati cattolici» venivano dalla nuova Prussia (Renania, Vestfalia, Slesia) che nel 1815 era stata annessa alla Prussia vecchia e protestante. Ed ecco che questo gruppo «cattolico» parve significare quasi uno scisma territoriale, uno Stato nello Stato. Che vuol dire «cattolico» per un raggruppamento politico?, si obiettava da tutte le parti. Siamo uniti in uno Stato paritetico interconfessionale e voi venite in un’assemblea di questo Stato neutro ad innalzare l’insegna di lotte confessionali. Vi chiamate deputati cattolici, ma il vostro mandato non è né cattolico né protestante, come non è tale il parlamento, che è politico. Lo statuto concede indipendenza alle chiese; ed ora la Chiesa cattolica esce dalla sua sfera per dominare nello Stato? Le avversioni furono tante, che il «Gruppo cattolico», dopo aver tentato invano di difendersi rilevando che in via di fatto esso aveva sempre votato per l’equiparazione delle confessioni e per la libertà per tutti, finì nella nuova legislazione del ’59 col modificare il proprio nome in «Zentrum (Katholische Fraktion)»:una mezza misura che giovò poco, tanto che dal ’62 al ’67 il gruppo va sempre diminuendo, fino a sciogliersi del tutto. Ora nelle riunioni preparatorie per la costituzione del nuovo Centro al Reichstag e alla dieta prussiana queste esperienze, rappresentate dai Reichensperger e dal Mallinckrodt ebbero grande influsso. Ad unanimità si decise che l’epiteto cattolico non dovesse comparire né nel titolo né nello statuto e si votò anzi una formale proposta di accettare anche protestanti; e infatti un piccolo gruppetto di protestanti entrò a far parte del Centro, mentre un manipolo di cattolici, tra i quali il canonico Künzer , rimase nel gruppo dei libero-conservatori (freikonservativ) (III). Si credeva così di dimostrare ad oculos che il Centro non intendeva assumere la rappresentanza politica della «confessione» come tale, in opposizione agli evangelici e sopratutto che non era una delegazione politica della chiesa cattolica né prendeva gli ordini dalla gerarchia ecclesiastica. Tale netta distinzione sembrava necessaria, dopo che nella campagna elettorale, mancando ancora un’organizzazione politica che si distinguesse da quella cattolica in genere ed essendo intervenuti in favore della costituzione di qualche comitato centrista anche alti prelati – l’arcivescovo di Colonia aveva mandato da Roma, ove si trovava per il concilio, la sua adesione – la stampa aveva già parlato della mobilitazione dell’ultramontanismo e lo stesso Bismarck diceva essere «una delle più mostruose manifestazioni del tempo la costituzione di un gruppo nettamente confessionale sul terreno politico». Già s’addensavano nell’aria i nembi temporaleschi del Kultur Kampf, onde si capisce come i capi centristi accentuassero, ad ogni occasione, il carattere aconfessionale del loro partito. Nel parlamento Mallinckrodt proclama trattarsi di un partito politico, che propugna il diritto e la morale nella vita pubblica, non di un partito confessionale, Augusto Reichensperger nel fascicolo del gennaio 1871 della Revue générale di Bruxelles, si fa premura di spiegarlo anche all’estero e, in Germania, lo stesso mons. Ketteler in un suo opuscolo del ’72 scrive: «Se questo rimprovero significa che il Centro è esclusivamente cattolico, perché nel suo programma ha accolto anche gl’interessi della religione, ciò è davvero incomprensibile. Tutte le costituzioni del mondo parlano anche della religione e creano una situazione giuridica alle confessioni autorizzate. Come dunque potrebbe chiamarsi esclusivamente cattolico un gruppo che richiede l’assunzione nello statuto del Reich di quei principi di libertà e di autonomia della religione che si trovano nella costituzione prussiana»? Accenna poi alla partecipazione di alcuni protestanti ed esprime la speranza che tale partecipazione crescerà, formando del Centro un forte baluardo per la difesa del Cristianesimo. Si è insistito qui sulla questione del confessionalismo perché, come si vedrà poi, se essa si sviluppa e si precisa, a mano a mano che si evolve la politica del Centro, nasce però già alle sue origini, onde la cosidetta «décléricalisation du Centre», rimproverata ai cattolici tedeschi dai francesi, sull’inizio della guerra, come una deviazione programmatica e tattica posteriore non è storicamente sostenibile (IV). Se ne è qui parlato e se ne parlerà diffusamente, perché la questione ha assunto un aspetto generale, dopo che il carattere di aconfessionale venne, più o meno propriamente, attribuito anche ad altri partiti similari di paesi diversi (V). IV. La manovra politica del Kultur Kampf – Intrighi diplomatici a Roma – Leggi di combattimento – Windthorst contrattacca sul terreno delle libertà e della politica estera (Alsazia-Lorena) – Affermazioni di autonomia politica, come partito – Ostinato e vano tentativo di Bismarck di ottenere dal papa una pressione politica sul Centro – «Accetteremo quanto in materia ecclesiastica concorderete con Roma, ma in materia politica difenderemo le istituzioni liberali» – Il riconoscimento di Leone XIII per i «deputati cattolici» e l’elogio a Windthorst Senonché il realismo di Bismarck badava al sodo. Egli vedeva dinanzi a sé un partito che tentava sbarrargli la via verso quell’«impero evangelico» che, ad intermittenze, accarezzava i suoi sogni di fedele luterano; un partito che richiamandosi alla costituzione si opponeva alla sua dittatura, un partito che per le sue proclamate tendenze federaliste diveniva il centro naturale dell’opposizione antiprussiana, attirando a sé le simpatie dei guelfi (annoveriani) alsaziani e polacchi slesiani, e questo partito – confessionale o no – era appoggiato dal clero cattolico. Questo era il punto. E ciò avveniva nel momento in cui d’altra parte in seguito allo scisma vecchio-cattolico rinasceva la speranza di scindere e spezzare gli «ultramontani» che dipendevano dal «pontefice romano» testé proclamato infallibile. Ed ecco il Kultur Kampf, nel quale Bismarck tiene sempre due ferri al fuoco: o gli riuscirà di spezzare il Centro, sottoponendo il clero all’arbitrio dello Stato, oppure premendo su Roma con tutta la forza diplomatica del nuovo impero, renderà impossibile un partito politico che, documentariamente, avesse dimostrato di servire un potere «straniero». In questa lotta, considerata politicamente (l’essenza religiosa del conflitto non ci sfugge, ma in questo nesso più che rivelarla, la supponiamo) Windthorst ha all’incontro due compiti: difendere la libertà della Chiesa, con quella forza e quella misura che stabilirà l’autorità della Chiesa stessa e d’altro canto conservare e non contrattare la sua libertà costituzionale di partito politico. È su questa linea di manovra che i due caratteri fondamentali assunti fin dall’origine dal Centro – costituzionale e aconfessionale – benché partito di difesa religiosa, dimostreranno la loro efficacia funzionale. Bismarck incomincia a Roma tentando di strappare al card. Antonelli un biasimo per il Centro – «alleato dei rossi» – e già fa spargere la voce di essere riuscito, quando l’intervento di mons. Ketteler chiarisce il piccolo intrigo diplomatico e sventa il colpo (VI). Ritenta allora la stessa via con la nomina ad ambasciatore del cardinal Hohenlohe , ma Pio IX non si piega. Ecco quindi la lotta aperta e la serie delle leggi repressive (espulsione dei gesuiti, leggi del maggio 1873 ), le quali, oltre la protezione dei vecchi cattolici, importano l’abolizione dell’autonomia della Chiesa nella nomina agli uffici ecclesiastici, la sottomissione dei seminari all’ingerenza educativa e amministrativa statale, l’istituzione di una suprema corte per gli affari ecclesiastici, con la conseguente esclusione della somma gerarchia cattolica. Le leggi vengono votate alla Dieta così rapidamente che il Centro può mandare in lizza appena uno o due oratori per ciascuna; ma Windthorst segue costantemente questa tattica: mettere in imbarazzo i liberali, opponendo loro gli articoli dello statuto e il diritto comune e passare all’attacco battendoli in breccia sul loro terreno. Il metodo è così efficace che il governo – oh pudori giuridici del Rechtstaat! – deve proporre l’abolizione degli articoli fondamentali della Costituzione prussiana (15, 16 e 18) smascherando così la sua artiglieria reazionaria . E quando Windthorst insiste sulle sue proposte per la libertà di stampa e per l’abolizione del suffragio censitario in Prussia, già si manifesta qualche crepa nella maggioranza. Sono però anni terribili. Il cancelliere di ferro, all’apogeo della sua fortuna, percuote come un maglio. Poiché il Papa ha dichiarate nulle tali leggi, il clero cattolico inizia la resistenza legale, ed allora seguono altre leggi repressive che comminano il bando, il confino, la sospensione delle congrue. Le leggi sono applicate, alcuni vescovi vanno in carcere e poi in esilio, un numero discreto di preti e redattori va in prigione. Certo quelle pene inflitte dai tribunali ordinari, non ci sembrano ora enormenente gravi; ma allora per il Rechtsstaat l’impressione fu disastrosa in tutto il mondo. Il Centro si difende come può alla Dieta prussiana e passa all’attacco nel Reichstag ove la situazione è meno sfavorevole. È qui che Windthorst lancia le sue frecce, facendo perdere sangue al gigante. Un giorno nel ’74, un deputato del Centro, Jörg , critica la politica estera di Bismarck e il suo regime personale, chiedendo quando mai si costituisse il comitato di politica estera in seno al Consiglio federale, com’era previsto dal patto fondamentale. Bismarck va su tutte le furie, e fa un controattacco violento contro il Centro accusandolo di aver armato l’attentatore che, nel luglio dello stesso anno a Kissingen, aveva tentato di sparare contro di lui . Ma Windthorst, in mezzo ad una seduta burrascosissima, dopo aver risposto freddamente all’insulsa calunnia controattacca ancora: «Il peggiore ministro coloniale inglese, dice a proposito dell’Alsazia Lorena, non tratterebbe certo in tal modo una nuova provincia. In quanto alla politica estera il Centro non crede che sia suo compito di portare lo strascico del signor cancelliere. Il parlamento ha il diritto e il dovere di esprimere il biasimo qualora gli affari esteri vengano condotti in modo, che ne debba risultare una guerra. Io non mi lascerò mai togliere il diritto di dir sempre e ovunque: questa politica ci conduce alla guerra e perciò la voglio apertamente condannare». Bismarck fa appello allo spirito antipapista luterano, Windthorst allo spirito moderno di tolleranza. «Il papa infallibile, dice il primo nella discussione sulla proposta di abolire le garanzie costituzionali degli art. 15, 16 e 18, il papa infallibile è quello che minaccia lo Stato… La Chiesa è lo Stato nello Stato alla cui testa sta il papa con diritti autocratici e un partito compatto a sua disposizione, che elegge e vota secondo i suoi voleri. Il governo non avrà pace fino a tanto che la legislazione non sarà purgata da alcuni punti sbagliati concessi nel 1848 per malfondata fiducia nel senso di equità dell’altra parte». Nonostante tali accenti ad un certo punto Bismarck lascia capire che fa la guerra per aver la pace, ma piuttosto che col Centro tratterà col Papa. Abilissima è la risposta di Windthorst. Ricorda la pace confessionale conclusa a Vestfalia e il diritto alla libertà religiosa, proclamato a Francoforte e fissato nella costituzione prussiana, spiega il dogma dell’infallibilità; nega che il Centro dipenda da Roma: «in tutta la mia carriera parlamentare, non ho mai ricevuta la più piccola istruzione dal Papa su ciò che in affari politici avessi a fare… Agiamo secondo la nostra coscienza e gli stessi vescovi della Germania non esercitano il minino influsso sulle nostre azioni e sulle nostre deliberazioni». Ricorda in proposito il fallito intervento di Bismarck presso Pio IX nel ’71, per dimostrare che la Curia non esercita nessun influsso sul Centro e conclude: «Se il Bismarck lascia capire che quando vorrà, farà la pace col Papa, ma non con noi, io rispondo: Benissimo, perché il Centro non è la Chiesa. La pace si fa trattando con Roma, e la base di un tale accordo sarebbe la revisione delle leggi del maggio oppure l’attuazione fino in fondo della separazione della Chiesa dallo Stato». Si sa come incominciò la détente. Gli attentati contro Guglielmo nel ’78 annunziavano che il terzo, cioè il socialismo, si apprestava a fruire delle conseguenze della lotta fra Chiesa e Stato. Gli approcci diplomatici di Leone XIII, le sue dichiarazioni (nell’enciclica Quod apostolici muneris e nella lettera all’arcivescovo di Colonia) (dicembre 1878) sulla funzione conservatrice che, di fronte alla minaccia rivoluzionaria, avrebbe potuto esercitare la chiesa se lasciata libera, incominciano a far breccia. Bismarck ai bagni di Kissingen, parla col nunzio di Monaco Masella e più tardi col cardinal Jacobini che, nunzio a Vienna, tratta poi con l’ambasciatore germanico, principe Reuss. Dalla corrispondenza diplomatica posteriormente pubblicata, risulta che Bismarck pensava sempre a soggiogare il Centro. In una lettera a Reuss scrive: «La smentita di ogni influsso sul C. (per parte della S. Sede) ci viene opposta da quasi dieci anni» e in altra: «Che cosa ci giova il teoretico atteggiamento della Sede Romana contro i socialisti, quando il gruppo cattolico, pur professando clamorosamente la propria devozione ai voleri del papa in tutte le sue votazioni, presta apertamente aiuto ai socialisti?… Fino a tanto che il governo si vede combattuto nella sua esistenza dal gruppo romano cattolico (sic) una cedevolezza da parte sua è esclusa». Ma Windthorst sembra ottimamente informato sulla manovra di Bismarck perchè in un discorso alla Dieta prussiana (dicembre ’78) mette le mani avanti, quando dice: «Saluteremo con un Te Deum l’accordo con Roma e ci sottometteremo incondizionatamente alle relative convenzioni anche nel caso in cui credessimo che per amor della pace si siano fatte allo Stato troppe concessioni. Su ciò non è lecito alcun dubbio. Ma per quel che riguarda la nostra condotta nelle questioni politiche, agiremo secondo la nostra intima convinzione». È naturale tuttavia che, cessata la lotta religiosa, i cattolici sarebbero meglio disposti verso il governo. «Senonché, o signori, nelle questioni direttive, nelle questioni cioè dello sviluppo liberale (freiheitlich) (VII) dello Stato, ci vedrete dalla parte di coloro che tali direttive rappresentano o meglio (poiché di tali rappresentanti non vedo più nessuno) continueremo a far garrire al vento la bandiera della civile libertà». Riconferma infine di non aver mai avuto in sette anni di lotta ordini da Roma circa il suo atteggiamento alla Camera. «Vi è forse incomprensibile – conclude – perché la Curia respinga costantemente d’ingerirsi nelle lotte politiche interne di uno Stato? Se ciò facesse, autorizzerebbe l’accusa ch’essa tende a condividere il governo delle cose statali. Ma un tale condominio, non lo cerca in nessuna maniera». Intanto il Bismarck preparava la ritirata, ma per non operarla sotto il fuoco del Centro che alla Dieta presentava e ripresentava le sue proposte di revisione, iniziò la sua lunga manovra nella Camera dei Signori, ove il vescovo di Fulda che fu poi il cardinale Kopp , agiva quale fiduciario della S. Sede. Ne risultò, come si ricorderà, un modus vivendi verso l’obbligo intanto temporaneo dei vescovi di denunciare al governo i nomi dei candidati agli uffici ecclesiastici, prima dell’istituzione canonica (Anzeigepflicht). Bismarck nella Camera alta ghignava: «Considero il papa più filotedesco del Centro… Il papa è libero e rappresenta la libera Chiesa cattolica, il Centro rappresenta la Chiesa cattolica al servizio del parlamentarismo e delle brighe elettorali». Ma Windthorst non si lasciò scomporre. Si sa ch’egli personalmente era amareggiato di questo compromesso che gli pareva così lontano dalla libertà una volta garantita dalla costituzione – alcune lettere sue pubblicate dopo la sua morte dal Pfülf ne sono eloquente testimonio – ma alla Camera si limitò a dichiarare che il suo gruppo, lasciando da parte le sue preoccupazioni, avrebbe votato in favore; e resistette questa volta anche alla tentazione di rispondere al sarcasmo del cancelliere col ricordargli che aveva fatto la pace proprio col papa a cui dieci anni prima (maggio ’75) aveva rinfacciato alla Camera alta di essere «il nemico del Vangelo e in ultima conseguenza dello Stato prussiano». Finalmente nel 1887 si ebbe quella che Bismarck qualificava pace definitiva e Windthorst «preliminari di pace». Il governo presentò il progetto alla Camera alta. Windthorst a mezzo della stampa e l’arcivescovo di Colonia in un memoriale al papa sollevarono obiezioni notevoli. Mons. Kopp raggiunse qualche miglioramento. In fondo rimaneva l’Anzeigepflicht e implicitamente la possibilità di veto governativo alle nomine ecclesiastiche. Ma Leone XIII nella risposta all’arcivescovo di Colonia insistette per l’accettazione, pensando di ottenere in pratica delle guarentigie sufficienti per quello che dovesse accadere nei casi in cui il vescovo e il prefetto (Oberpresident) non fossero andati d’accordo sulla nomina. E il Centro votò con riferimento alla volontà del S. Padre, «trattandosi di politica ecclesiastica». La mentalità diplomatica di Leone XIII prevalse, nella formale conclusione del conflitto, sulla mentalità giuridica del Windthorst, e la storia dice che ebbe ragione Leone XIII; ma non per questo si può mettere in dubbio che il Centro non fosse il coefficiente decisivo della vittoria e lo stesso Leone, che durante le trattative aveva dovuto lasciar dire, nell’allocuzione del 23 magggio 1887 ricorderà «il leale e poderoso appoggio dei deputati cattolici, uomini d’incrollabile costanza nella buona causa e dal cui zelo e dalla cui concordia ebbe già la Chiesa non lievi frutti a raccogliere, né minori se ne ripromette per l’avvenire» (VIII). I V. Statuto 31 gennaio 1850: art. 15, «La Chiesa evangelica, la Chiesa cattolica come ogni altra società religiosa ordina o amministra i suoi affari indipendentemente e rimane in possesso e in godimento delle sue istituzioni per il culto, l’istruzione e la beneficenza, dei suoi legati e dei suoi fondi». Inoltre l’art. 16 garantiva piena libertà di comunicazione fra il clero e la suprema autorità ecclesiastica (S. Sede) e l’art. 18 aboliva per quanto spettava allo Stato e in quanto non riguardasse diritti di patronato o speciali titoli, il diritto di proposta, nomina o conferma nel coprimento di uffici ecclesiastici. II Con ciò non si vuole affermare che il Windthorst si sia mantenuto sempre nella traiettoria di una dottrina politica; v’è anzi una contraddizione palese poco simpatica fra i suoi frequenti richiami all’esempio costituzionale inglese ch’egli nei dibattiti parlamentari oppone al personalismo di Bismarck e la sua adesione al principio monarchico-cristiano, che, contrapponendolo al governo della maggioranza parlamentare, egli aveva proclamato nel ’72 sugl’inizi del Kultur Kampf. Ma in quanto quel discorso volesse significare più che un’avversione al principio del «re che regna e non governa» esso va interpretato, per il fine e il modo con cui fu detto, come un argomento ad hominem per mettere in imbarazzo l’autore dell’egemonia prussiana e come una riserva federalista. Del resto anche Windthorst, come Ketteler, accetta il suffragio universale per ragioni pratiche. In teoria preferirebbero entrambi un suffragio delle classi organizzate (Ständische Verfassung). III In realtà i protestanti membri regolari del Centro furono due. Mons. Ketteler, quando depose il mandato, raccomandò agli elettori come suo successore un protestante, che fu anche eletto. Gli altri protestanti annoveriani aderirono al Centro, quali amici personali di Windthorst, ma furono considerati come ospiti perché si mantenevano fedeli alla linea guelfa dell’Annover e non volevano, come aveva fatto Windthorst, accettare i fatti compiuti. Presentemente uno dei protestanti centristi che è molto in vista, e che è fra i collaboratori della «Germania» è l’on. Adam Roeder. V Per esempio nel Belgio, nella seduta parlamentare del 20 aprile 1904 il Presidente del Consiglio Smet de Nayer dichiarava: «Io affermo che il partito che tiene il potere non è un partito confessionale… Si può infatti essere cattolici praticanti e non appartenere al partito cattolico: io immagino, per esempio, un cattolico il quale fosse repubblicano militante: ebbene, questo cittadino sarà dei nostri sul terreno della religione, ma non apparterrà al nostro partito politico, perché il nostro partito è monarchico». (Vedi in MEDA, Statisti cattolici, p. 79). VI Lo stesso Mons. Ketteler, nell’opuscolo succitato, narra dell’intrigo e conclude: Roma custodisce la rivelazione e non tollera presso i suoi fedeli alcuna deviazione in tale materia. In tutte le altre cose ogni cattolico ha pieno diritto di prendere da sé le proprie decisioni, e una tale ingerenza è ignota ed inaudita nella vita della Chiesa. VII Presso i cattolici tedeschi è invalso l’uso di usare la parola liberal per riferirsi alla dottrina del liberalismo e la parola freiheitlich per dire liberale nel senso del principato costituzionale. In italiano non saprei tradurre la distinzione; noi usiamo liberale in ambedue i casi.
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1,928
4Internal exile
51926-1930
Il settennato e l’intervento diplomatico di Leone XIII – La prima nota del card. Jacobini al presidente del Centro – La risposta ad una domanda del Centro – Leone XIII spiega il suo punto di vista e le ragioni che gli consigliarono l’intervento; riconosce la libertà politica del Centro e invita i centristi a continuare la loro opera in difesa della Chiesa – Nel discorso del Gürzenich Windthorst espone il punto di vista del Centro: profonda venerazione per il papa, ma necessità, in confronto alle accuse di Bismarck, di dimostrare anche coi fatti che la libertà politica, riconosciuta al Centro anche da Leone, esiste e vige realmente – Come Leone, trattando e concludendo direttamente con Bismarck, abbia salvaguardata l’autonomia del Centro – Le sue cautele nel caso simile del Belgio – La questione risorge nella polemica integralista (1914) – Precisazioni del Centro È noto che prima d’essere nominato nunzio a Vienna, Mons. Galimberti era stato a Berlino come inviato straordinario per il giubileo imperiale, nella quale occasione aveva avuto anche l’incarico di agevolare le ultime trattative per la pace religiosa. Ora, al secondo punto delle istruzioni che la S. Sede gli dava come viatico si legge: «Dovrà in secondo luogo procurarsi qualche abboccamento con alcuni capi del Centro… per rassicurarli sulle vere viste della S. Sede sul Centro medesimo, le quali sono sempre della maggior stima e benevolenza, malgrado gli ultimi incidenti» (I). «Gl’incidenti» erano il noto disparere circa la questione del settennato militare. Bismarck fin da prima del ’70 era solito chiedere ed ottenere dalla Dieta rispettivamente dal Reichstag un bilancio militare preventivo per una serie d’anni. Prima furono tre, poi sette. Il Centro si oppose sempre, e chiese invano il bilancio annuale. «Qui si tratta, dichiarava Windthorst nel 1877, dello Stato costituzionale o dello Stato militarista assoluto». La lotta si riferisce al 1880 in cui il Centro guadagnò al suo punto di vista anche una frazione liberale; ma tuttavia Bismarck si ebbe un nuovo settennato, che spirava nell’87. Il 25 nov. 1886 il governo presentò un progetto di legge per un bilancio settennale con la forza bilanciata di 468 mila uomini (prima 427) e fece le più vive insistenze per la votazione, richiamandosi alla minaccia di guerra che rappresentava allora in Francia il boulangismo . Windthorst si dichiarò alla fine disposto a votare tutto quanto si chiedeva – uomini e danari – ma per soli tre anni invece di sette, volendo riservare al parlamento il diritto di rivedere dopo tre anni la situazione. Tale proposta ottenne anche la maggioranza, perché in quell’anno il cosidetto cartello di Bismarck era in dissoluzione. Il voto avvenne il 14 gennaio; e immediatamente Bismarck lesse il decreto di scioglimento del Reichstag. Si seppe poi che in occasione della visita natalizia l’ambasciatore germanico presso il Vaticano von Schlözer aveva pregato Leone XIII di voler influire sul Centro in favore del settennato. E infatti il 3 gennaio 1887 il segretario di stato, card. Jacobini, aveva diretto al nunzio di Pietro a Monaco la seguente nota «confidenziale» e, affidandosi al suo tatto per l’uso prudente che convenisse farne (II): «Avrà visto dal mio telegramma del I gennaio che prossimamente verrà presentato il progetto di legge per la revisione definitiva delle leggi politico-ecclesiastiche della Prussia. In riguardo si sono avute di recente delle assicurazioni formali che confermano le notizie giunte precedentemente alla S. Sede. Ella può con ciò tranquillare in questo argomento anche il signor Windthorst e dissipare i dubbi che gli ha manifestato nella lettera allegata al suo ultimo apprezzato rapporto. In vista dell’imminente revisione delle leggi ecclesiastiche, la quale, come c’è fondato argomento di credere, riuscirà soddisfacente, il S. Padre desidera che il Centro favorisca in ogni possibile maniera il progetto del settennato militare. È d’altro canto ben noto che il governo dà il massimo peso all’accettazione di tal legge. Ora se si riuscisse con ciò a scansare il pericolo di una guerra vicina, il Centro si renderebbe molto benemerito della patria, dell’umanità, dell’Europa. Nel caso contrario non si mancherebbe di considerare l’atteggiamento ostile del Centro come antipatriottico e lo scioglimento del Reichstag porterebbe anche al Centro imbarazzi e scosse considerevoli. Col consenso invece del Centro alla proposta del settennato il governo diventerebbe sempre più favorevole ai cattolici e anche alla S. Sede. Che le pacifiche e reciprocamente fiduciose relazioni col governo di Berlino possano continuare è per la S. S. cosa del massimo conto. Ella vorrà perciò interessare vivamente i capi del Centro affinché interpongano tutto il loro influsso presso i loro colleghi, dando loro l’assicurazione che con l’approvare la proposta del settennato recherebbero una grande gioia al S. Padre e che ciò riuscirebbe di grande vantaggio per la causa dei cattolici…». Il nunzio non credette opportuno di trasmettere l’intiera nota al Centro, ma si limitò a inviare al bar. Franckenstein , presidente del Centro, un biglietto, in cui era espresso il desiderio che il Centro votasse per il settennato, perché si era data assicurazione che si sarebbe fatta un’integrale revisione delle leggi del maggio e il relativo progetto sarebbe stato presentato alla Dieta prussiana di lì a non molto. Windthorst e Franckenstein si limitarono a comunicare il biglietto ai soli deputati centristi ch’erano membri del comitato militare e tutti furono d’accordo nel ritenere che un cambiamento di rotta del Centro in quel momento, oltre che una sconfitta morale, avrebbe significato anche il disastro elettorale, tanto atteso dai socialisti. In data 16 gennaio ’87 il Franckenstein rispondeva poi al nunzio di Pietro che il Centro era stato sempre felice di eseguire gli ordini della S. Sede, allorché si trattava di leggi ecclesiastiche; che però, secondo lui, sarebbe stata una disgrazia per il Centro e una sorgente di ben gravi dispiaceri per la S. Sede, se il Centro avesse domandato delle istruzioni al S. P. per leggi che niente hanno a fare coi diritti della nostra santa Chiesa. Infine la lettera chiedeva se presso la S. S. regnasse l’opinione che l’esistenza del Centro non fosse più necessaria, nel qual caso egli e il più dei suoi amici non avrebbero più accettato il mandato. Quest’ultima domanda, fatta a campagna elettorale già aperta, provocò a Roma una immediata risposta, contenuta nella seconda nota del cardinale Jacobini al nunzio di Monaco, in data 21 gennaio ’87, e del seguente tenore: «Ho ricevuto il suo pregiato scritto del 19 c. M. col quale V. S. mi accompagna copia d’una lettera inviatale dal bar. Franckenstein. Mentre mi astengo dall’esaminare i motivi coi quali il signor barone si premura di giustificare il procedimento seguito dal Centro nella votazione del disegno di legge sul settennato militare, ritengo di grande urgenza e attualità di rivolgere l’attenzione all’altra parte della lettera. Egli desidera di sapere se la S. Sede creda che l’esistenza del Centro nel Reichstag non sia più necessaria; in questo caso egli e la maggioranza di suoi colleghi non accetterebbe più un nuovo mandato. Egli aggiunge che, come venne da lui dichiarato già nell’anno 1880, il Centro non può prestare obbedienza in riguardo a leggi che non toccano cose ecclesiastiche e i diritti della Chiesa. Ella avrà anzitutto cura di tranquillizzare il signor barone che la S. S. riconosce sempre i meriti che il Centro e i suoi capi si sono acquistati nella difesa della causa cattolica. Di poi Ella vorrà partecipare in nome del S. Padre le seguenti considerazioni che si riferiscono alle sue domande: «Il compito dei cattolici di proteggere gl’interessi religiosi non può assolutamente considerarsi come esaurito giacché in esso bisogna distinguere un lato relativo e temporaneo e un lato assoluto e permanente. Influire per la totale abolizione delle leggi del Kultur Kampf, difendere la giusta interpretazione delle leggi nuove e vigilare sulla loro applicazione, tutto questo esige in ogni tempo l’opera dei cattolici al Reichstag. Inoltre devesi considerare che in una nazione, religiosamente mista e nella quale il protestantesimo è considerato religione di Stato, si dà l’occasione di contrasti religiosi, nei quali i cattolici sono chiamati a difendere le loro ragioni per via legale oppure anche a far valere il loro riflusso, per migliorare la propria situazione. Non si deve oltre ciò tralasciare di rilevare che una rappresentanza parlamentare dei cattolici in quanto s’interessi per la insopportabile situazione che è stata fatta al Capo della Chiesa, potrebbe cogliere occasioni favorevoli per esprimere e far valere i desideri dei suoi concittadini cattolici in favore del S. P. «Al di là di ciò, al Centro, considerato come partito politico fu sempre lasciata piena libertà d’azione: né come tale esso poté direttamente rappresentare gl’interessi della S. Sede. Se nella vertenza del settennato si è creduto di comunicare al Centro in tal riguardo un desiderio, ciò è da attribuirsi alla circostanza che con quell’affare andavano congiunte attinenze d’ordine religioso e morale. Anzitutto v’erano fondate ragioni di ritenere che la finale revisione delle leggi di maggio avrebbe subito per parte del governo forte impulso e ampia attuazione se lo stesso fosse stato accontentato con l’atteggiamento del Centro nella votazione del settennato. In secondo luogo la cooperazione della S. Sede per la conservazione della pace a mezzo del Centro avrebbe necessariamente obbligato il governo di Berlino e perciò lo avrebbe reso benevolo verso il Centro e più arrendevole verso i cattolici. «Del resto anche dal punto di vista dei propri interessi, che s’identificano con quelli cattolici, la S. Sede non può lasciarsi sfuggire occasione alcuna con la quale ella possa rendere il potente impero tedesco favorevole ad un miglioramento della sua situazione per l’avvenire. «Le presenti riflessioni, le quali compendiano le attinenze religiose e morali del settennato dal punto di vista della S. S. avevano determinato il S. P. a manifestare al Centro il suo desiderio. V. S. nel partecipare il presente scritto che, come il mio ultimo riproduce l’alto pensiero di S. S., al bar. Franckenstein, lo vorrà invitare a volerlo mettere a conoscenza dei deputati del Centro (III)». Intanto la campagna elettorale si svolgeva con una violenza mai esperimentata. Il governo era riuscito anche a mettere assieme un gruppo di notabili cattolici che come già i cosidetti «cattolici di Stato» al tempo del Kultur Kampf, si proponevano di combattere il Centro sullo stesso terreno cattolico. Di tutto quanto era passato con la S. Sede il gran pubblico non seppe nulla fino al 5 febbraio nel qual giorno Bismarck solo a mezzo di un’agenzia viennese fece brillare la mina. Tutti i maggiori giornali pubblicavano quella sera a caratteri di scatola il testo della seconda nota del card. Jacobini sotto il titolo: Il papa per il settennato e contro il Centro. Windthorst vi poté meditar sopra quella sera stessa, in treno mentre da Hannover viaggiava verso Colonia ov’era convocato il più grande comizio centrista della campagna elettorale. Fu cosí che quasi immediatamente, alla lotta di Bismarck, senza dubbio assai forte e abilmente condotta, Windthorst poté reagire col famoso discorso di Colonia , del quale conviene dare un largo riassunto perché ancor oggi i cattolici tedeschi quando s’occupano dei rapporti fra l’azione politica e l’autorità ecclesiastica, vi si richiamano, come ad un documento fondamentale (IV). Windthorst s’introduce dicendo che parlerà della nota Jacobini e poi risponderà alla questione se si possa credere o meno all’avvento della guerra. «La nota del signor cardinale segretario di stato Jacobini contiene l’espressione dei desideri del nostro amato S. Padre Leone XIII. Noi saluteremo sempre e specie in questi tempi ogni parola che viene a noi dal S. P. con pieno rispetto e con un palpito di gioia. Sarebbero figli degenerati coloro a cui riuscisse sgradito di sentire la voce del loro padre. I nostri avversari sembrano credere che per noi ci sia in ciò poco di consolante. Da ogni parte s’ode il grido trionfante che l’indirizzo da noi seguito fino ad oggi è stato sconfessato. Coloro, i quali giubilano in tal modo, hanno capito la situazione molto male. Se c’è qualcuno che ha ragione di giubilare, siamo proprio noi. Il S. P. riconosce in questa nota che il Centro si è reso grandemente benemerito per i diritti della Chiesa. Penso che tale testimonianza ci può riuscire di grandissimo conforto e portare nuovo coraggio. Il S. P. esprime poi anche la sua convinzione che il Centro debba continuare a sussistere oggi e sempre per l’avvenire. Possiamo noi chiedere di più? Possiamo noi compilare un migliore appello elettorale di quello che ci ha fatto scrivere il S. Padre? E qui potrei concludere il mio discorso e dirvi: Votate, come vuole il S. Padre, votate per uomini che sanno quello che bisogna e bisognerà fare, eleggete i vecchi, perché essi hanno fatto bene! «Di poi il S. P., enuncia un principio molto importante, il principio cioè che in questioni di natura secolare il Centro, come ogni cattolico, può in piena libertà giudicare e votare secondo la propria convinzione e che il S. P. in queste cose secolari non s’ingerisce. A questo principio noi dobbiamo irremovibilmente tener fermo, perché se non vi ci attenessimo, accadrebbe ciò che gli amici del Kultur Kampf ad ogni piè sospinto ci oppongono, cioè che noi agiamo solo secondo la volontà del capo spirituale della nostra Chiesa. Allora non avremmo alcuna autonomia. Noi perciò dobbiamo rallegrarci di tale riconoscimento del S. Padre. Noi ci atterremo a quel principio irremovibilmente di fronte a chicchessia e in ogni tempo, perché esso è la base della nostra esistenza politica. Ma qui i nostri avversari obiettano: Il S. Padre ha però detto che riguardo alla legge sulla forza bilanciata dell’esercito non si è corrisposto ai suoi desideri… Non si può disconoscere che il S. Padre aveva desiderato che la legge venisse accolta. Ma nella nota egli fa risalire questo suo desiderio non al contenuto materiale del progetto di legge ma soltanto a ragioni di opportunità dal punto di vista di considerazioni e relazioni diplomatiche; ed egli dice ben chiaro che queste considerazioni sono pensate e fatte dal suo punto di vista. È certo che il S. Padre avrà i suoi buoni motivi, di veder realizzato questo desiderio. Su ciò non metto dubbio e credo che se fosse stato possibile, noi senza sforzo e spontaneamente avremmo dovuto pronunciare quell’approvazione. Ma soltanto, se fosse stato possibile; perché l’impossibile non può farlo nessuno». A questo punto l’oratore dichiara che sarebbe stato possibile solo a prezzo dell’esistenza del partito, del quale ricorda la costante tendenza a combattere gli aggravi militari, l’impegno preso di fronte agli elettori per farli diminuire, la necessità assoluta di non perdere la fiducia del popolo, unico appoggio del Centro… E continua: «Io sono persuaso che se noi esponessimo al S. Padre le nostre ragioni, egli non si adirerebbe coi suoi figliuoli fedeli. È così tradizionale in una famiglia bene e fortemente ordinata, che padre e figli in comune fra loro discutano e in comune agiscano. Se gli avversari credono che il S. Padre abbia sconfessato il Centro e con noi non voglia aver più nulla di comune, vuol dire che non hanno letto o non hanno capita la nota; poiché essa aveva lo scopo principale di affermare che il Centro secondo i voleri del S. Padre debba continuare a sussistere. È naturale che la nota per riguardo alla autorità donde promana, e che per noi è la più sacra sulla terra, appena convocato il Reichstag, dal gruppo allora costituito, – ora non esiste – verrà sottoposta alla più accurata considerazione e che nel gruppo si esaminerà con cura che cosa in riguardo ad essa o in seguito ad essa debba avvenire. Di ciò siate però sicuri: il gruppo in tale considerazione si lascierà guidare dalla più profonda venerazione e dall’irremovibile fiducia in S. Santità il Papa Leone XIII; contemporaneamente però farà valere e riaffermerà in ogni maniera la nostra autonomia, come del resto con nostro piacere ha espresso debba essere anche il Santo Padre. E se mai in un singolo caso dovesse esistere un dubbio se questo o quel campo è di natura ecclesiastica o meramente secolare o sulla misura in cui le due sfere s’incrociano la questione sarà da risolvere nel singolo caso: ma potete essere convinti e star sicuri: i cattolici tedeschi saranno sempre verso il S. P. dei figli fedeli, come conviene a buoni cattolici; e questo potete anche ritenere: il S. P. conosce la virtù del popolo tedesco e degli uomini tedeschi e non se ne avrebbe in nessun caso a male, se uomini tedeschi all’occorrenza parlassero con lui con franchezza tedesca». Rallegrandosi poi con riferimento all’arbitrato per le Filippine, che il papa, al quale un giorno si voleva negare ogni ingerenza, perfino in cose ecclesiastiche, fosse assurto a tanta grandezza, Windthorst suggerisce a Bismarck di affidare all’arbitrato di Leone XIII anche la questione militare. I centristi ne sarebbero lietissimi, ma in tale caso, dopo la Schlözer, farebbero arrivare anch’essi la lor parola, e non dubiterebbero a chi il papa, sentite tutte le parti, darebbe ragione». Nella seconda parte del discorso Windthorst porta molti argomenti per dimostrare che il pericolo di guerra da parte della Francia non esisteva e che se fosse esistito, non sarebbe stato indispensabile il settennato, perché il Centro aveva pur votato per tre anni tutto quello che si chiedeva. L’oratore crede che il governo abbia inscenata tutta la manovra per rendere il Centro mancipio alla sua politica. Ma il partito, assicura il Windthorst, uscirà incolume da questa lotta infernale. «Se contro ogni attesa, ciò non avvenisse, ponete sulla tomba del Centro una lapide con questa scritta: Dai nemici mai vinto: ma dagli amici abbandonato!» Infine con riferimento alla nota Jacobini si votò un ordine del giorno per la questione romana. Come risulta da questa documentazione necessariamente troppo lunga (V), non è esatto il dire che nel discorso di Colonia si fossero riconosciute come decisive le «attinenze d’ordine religioso e morale del settennato», attinenze del resto che non erano affatto intrinseche al progetto di legge e alla materia sulla quale conveniva deliberare; per quanto sia vero che il gruppo centrista, ricostituito dopo le elezioni con 99 mandati, pur approvando ad unanimità le dichiarazioni del suo condottiero a Colonia, dinanzi al fatto che il progetto governativo aveva una maggioranza assicurata (fu accolto con 247 voti contro 20) preferisse dare al proprio punto di vista negativo l’espressione più tenue che è quella dell’astensione, invece che di fare una nuova dimostrazione ostile, la quale avrebbe inutilmente irritato il governo e sarebbe forse anche apparsa, dopo quello ch’era diventato di pubblica ragione, un atto d’irriverenza (VI). In argomento Giulio Bachem scriveva già nella seconda edizione dello Staatslexicon :«Forse il Windthorst non ha mai reso al cattolicismo del Reich, un maggior servigio. Momentaneamente un influsso, della Curia sul Centro, che avesse ottenuto la soluzione di una questione politica o militare corrispondentemente ai desideri del regime del tempo avrebbe potuto promuovere un interesse specifico della Chiesa: ciò però non avrebbe controbilanciato in nessun modo i gravi danni che ne sarebbero derivati alla situazione complessiva dei cattolici tedeschi nella vita pubblica, qualora si fosse potuto affermare che il Centro faccia dipendere il suo atteggiamento su importanti problemi di carattere non ecclesiastico dai desideri dell’autorità religiosa». È certamente vero però anche – e di ciò non ebbero la netta sensazione i centristi d’allora, né forse potevano averla – che il servizio più grande alla libertà politica del Centro venne reso dalla diplomazia antiveggente di Leone XIII. Poiché se il grande pontefice non avesse avocato a sé il componimento del conflitto, come si sarebbe potuta ottenere la fine del Kultur Kampf – una resa a discrezione di Bismarck era fuori di ogni calcolo di probabilità – se non con patteggiamenti politico-parlamentari che sarebbero costati al Centro chi sa quali sacrifici, chi sa quali adattamenti alla politica del cancelliere di ferro? «Il Centro non può rappresentare la Chiesa» è detto nella seconda nota Jacobini, ma il dirlo sarebbe stata poca cosa se non fosse intervenuta l’eloquenza del fatto. Si ricordi che in quei tempi, nonostante le caute distinzioni dei capi, distinguere era assai difficile. Gli estranei vedevano i preti in prima fila, quando si trattava di elezioni, e alcuni d’essi in prima fila anche sui banchi delle diete o del parlamento, e vedevano lo stesso Windthorst interrompere la battaglia alla Camera, per diventare l’oratore più ascoltato dei «congressi cattolici». Ci volle del tempo prima che nella pratica attività e nelle pubbliche manifestazioni si sviluppasse la netta distinzione e autonomia delle funzioni: il lavoro di coltura, l’organizzazione sindacale, l’azione cattolica, il movimento politico. E se in Germania ci si arrivò prima e senza gli attriti penosi che s’ebbero per esempio a Vienna fra il cardinal Gruscha e il Lueger o se data l’esperienza e l’antiveggenza dei capi centristi (VII) non fu necessario che il papa sconsigliasse il partito cattolico come al conte De Mun (VIII), è certo che il modo con cui Leone XIII compose il conflitto religioso ha il merito principale; di fronte al qual merito il consiglio del settennato, che nell’urgenza forse non tenne abbastanza conto della sospetta parzialità di certe informazioni, acquista nella storia un posto ben secondario (IX). Con ciò non si vuol negare che la faccenda del settennato abbia servito di ottima difesa per i centristi ogni volta che venne risollevata l’accusa di ultra montanismo; ed è certo che nell’interno del partito, il discorso di Grüzenich diventò parte delle sacre tavole, se è lecito dir così. Ci voleva «l’integralismo» del 1910-1914 a rimestare un pochino la questione, quando il gruppo Roeren di Colonia proclamò di volere il Centro confessionale e una politica su «base cattolica». Secondo il Roeren, «la Katholische Weltanschauung doveva essere normativa non solo per i singoli, ma anche per il gruppo parlamentare come tale, abbandonando invece la comune concezione cristiana», la quale veniva spesso invocata per guadagnare i protestanti credenti alla difesa religiosa contro l’anticlericalismo e il socialismo. Nella polemica degli integralisti faceva capolino inoltre la tendenza a considerare il rapporto fra autorità ecclesiastica e fedeli nel senso che a questa spettasse la diretta direzione su tutti i campi, al di là dunque della potestas indirecta nelle cose temporali. Ma l’episodio per quanto riguarda il movimento politico fu presto troncato da una dichiarazione del partito, e dal richiamo, oltreché a Leone XIII, alla più recente lettera di Pio X all’arcivescovo di Colonia card. Fischer (30 ottobre 1906) (X), nella quale si loda «la efficace saggezza dei cattolici tedeschi, che in tutte le questioni religiose vogliono obbedire all’autorità della S. Sede», e si conferma che «tale obbedienza, come lo prova una continuata esperienza, lascia ad ognuno completa e illimitata libertà in quelle cose che non riguardano la religione» «cuique relinquit libertatem quoad ea, quae religionem non attingunt». La dichiarazione poi del consiglio nazionale del partito dell’8 febbraio 1914 diceva: «Il partito si fonda, per le sue origini e per la sua storia sul terreno delle costituzioni tedesche. La cooperazione di uomini cattolici e non cattolici entro il Centro serve al mantenimento della pace confessionale e a promuovere gl’interessi comuni» . La dichiarazione affermava poi che la collaborazione dei cattolici e protestanti nel movimento sindacale «cristiano-nazionale» aveva un grande valore politico, al quale non si doveva rinunziare. VI. Alcuni cenni sulla tendenza sociale del Centro. L’iniziale antistatismo di Windthorst – La minaccia del socialismo favorisce la crescente ingerenza dello Stato – Come dopo la guerra il Centro si sforzi di derivare una sua caratteristica democratica dalla sua tendenza sociale. La politica sociale dello stato deve diventare politica dello Stato sociale Questo accenno al movimento sindacale (christliche Gewerkschaft) ci ricorda che per definire completamente la fisionomia del Centro dovremmo occuparci a questo punto delle sue tendenze e attività sociali. L’approfondire lo studio di questo capitolo è però al di fuori del nostro compito: da un lato perché esigerebbe da solo un’elaborazione assai diffusa, dall’altro perché la nota sociale del Centro è quella che per la sua concretezza ed oggettività soffre meno discussioni. Sarebbe tuttavia antistorico affermare che la linea sociale faccia parte della fisionomia originale del Centro con lo stesso rilievo delle altre che già abbiamo descritte. Il partito socialista è nato dalla questione economico-sociale, il partito del Centro da quella della libertà religiosa. È ben vero che il movimento cattolico dei vari stati tedeschi, che politicamente sboccherà poi nel Centro, rappresentava già prima del Settanta un indirizzo di attività sociale ed è vero che le dottrine di un fondatore del Centro, Mons. Ketteler, gli avevano già elaborato un programma; ma di azione pratica parlamentare in tale senso Windthorst nei primi anni non ne volle sapere. Facciamo prima libera la Chiesa, soleva dire, e poi penseremo alle riforme sociali. Gli è che il capo centrista, come del resto anche i capi della vecchia destra belga, nutriva un’istintiva ripugnanza contro lo statismo e temeva che una volta invocato l’intervento dello Stato, questo andasse troppo innanzi fino a soffocare la libertà individuale. Fu la minaccia rivoluzionaria del marxismo che anche in Germania, come nel Belgio, spinse i cattolici a promuovere l’interventismo statale, in misura sempre maggiore. Appena nel 1877, dopo che le elezioni avevano rivelato un mezzo milione di voti socialisti, il Centro presenta la sua prima proposta di legislazione sociale; la prima sua, e la prima in genere del parlamento tedesco. Ma quando il Bismarck convertito dal prof. Wagner a quello che fu detto «socialismo di stato», tenta fare del «monopolio del tabacco il patrimonio dei diseredati», creare cioè col ricavato di tale monopolio le pensioni statali per gli operai, Windthorst si oppone. «Ho sempre creduto, dice in una seduta del maggio 1882, che l’essenziale contenuto dello stato sia che esso ci difenda in confronto dell’estero e che, per l’interno amministri la giustizia e del resto alla libertà privata non imponga altri limiti che quelli necessari per difendere il prossimo dalle inframmettenze altrui». Ancora nell’89 si dichiarò perfino contrario al contributo statale per le pensioni operaie contro l’invalidità e vecchiaia, dichiarando: «Accanto a questo Stato onnipotente, con la sua beneficenza laica, con la scuola unicamente statale, con le ferrovie nazionalizzate (attendete un po’; presto verranno anche le miniere) che cosa rimarrà all’individuo?». Ma in tale occasione i dissensi del Centro in materia si fecero palesi. Un gruppo, capitanato da due veterani, come il Franckenstein e P. Reichensperger votarono in favore; anzi il Reichensperger, nella discussione aveva definito lo Stato come «l’unione organizzata dal popolo per provvedere al suo bene morale e materiale» e nonostante le pubbliche proteste di Windthorst aveva nella replica attenuata ben poco tale definizione. Il quale episodio conferma l’opinione che se Windthorst avesse prolungata la sua attività anche entro il periodo politico seguente, la nota sociale del Centro non sarebbe stata così marcata, benché il senso pratico dello statista tedesco avesse probabilmente evitata comunque la dispersione a cui, in seguito anche al dissenso sociale, soggiacquero i cattolici francesi. Ma, ritiratosi Bismarck, morto il suo temibile avversario, proclamata da Guglielmo II l’era della riforma sociale, pubblicata la Rerum Novarum, il Centro sotto la direzione del Lieber e poi di Mons. Hitze, si mette alla testa della riforma cristiano-sociale. Già nel ’93, quando il Reichstag è sciolto per la riforma militare, il Centro si vanta nel suo manifesto di aver avuto influsso direttivo sulla legislazione sociale e sottolinea, come direttiva dell’avvenire, lo sviluppo e il promovimento della collaborazione fra le classi. Tra uno scioglimento e l’altro del Reichstag, non mai incline abbastanza a votare crediti militari, nascono e si perfezionano le «assicurazioni sociali», la magistratura del lavoro, l’organizzazione corporativa dell’artigianato. In questo periodo sorge e si fa robusta anche l’organizzazione sindacale, che nata dalle società operaie cattoliche, si unisce con le organizzazioni nazionali per creare di fronte alla maggioranza socialista un blocco «cristiano» che non può più venir trascurato. È della sua giustificazione che, in confronto alle obiezioni integraliste, si occupa la dichiarazione del 1914 che abbiamo citato. Dopo è la guerra. La ripresa non avviene che nell’ultima estate di guerra, quando il Centro rinnova il suo programma, il 30 giugno 1918. Nella parte sociale di questo manifesto, si chiede il riconoscimento giuridico delle associazioni professionali e lo sviluppo dei loro diritti, la lotta contro l’abuso della proprietà privata, lo sviluppo dei diritti della classe operaia per farne un membro equiparato della «comunità popolare» (Volksgemeinschaft). Il 30 dicembre 1918 nuovo manifesto: sostanzialmente la rotta è identica, ma nel linguaggio vibrano risonanze della scossa rivoluzionaria: ricostruzione dell’economia pubblica al servizio della giustizia sociale e del bene comune sulla base del lavoro produttivo. Mantenimento in via di principio della proprietà privata, subordinata però al principio solidarista del bene comune… È il solidarismo del P. Pesch che fornisce l’ideologia del momento. Così a Weimar Trimborn e Hitze parteciperanno in prima fila alla formulazione degli articoli economico-sociali dello statuto e a proclamare il principio fonda-mentale della costituzione: la proprietà obbliga. Poi verrà Brauns , ministro del lavoro dopo la guerra, a impersonare nel governo la caratteristica sociale del Centro. Nel primo congresso centrista della nuova era (1922) si parla ancora di «Wohlfahrtsstaat», lo Stato cioè benefattore e patrono, che accanto alla beneficenza della Chiesa e dei privati, provvede alla protezione dei più deboli; ma già, anche per l’impulso della propaganda di Wirth , s’invoca più frequentemente lo «Stato sociale». E qui la vecchia tendenza sociale viene alimentata dal nuovo spirito politico. Nel famoso «manifesto nazionale» del 21 gennaio 1927 si dice: «La nostra politica sociale deve crescere fino a diventare la politica dello “Stato sociale”. Non bastano le leggi sociali, ci vuole un vero rinnovamento dello spirito e delle volontà, se vogliamo che le masse oppresse e disperate riguadagnino la speranza e la fiducia». Si sa che nonostante questo manifesto si dovette accedere infine alla coalizione di destra. Ebbene tale maggioranza può vantare di aver fatta la nuova legge sulla magistratura del lavoro, d’aver istituita l’assicurazione contro la disoccupazione e quella per i lavoratori del mare; ma… le leggi non bastano, ripete l’o.d.g. del Consiglio nazionale del Centro radunato il 18 gennaio 1928, per ristabilire l’accordo con l’ala operaia e riguadagnare Wirth. Il Consiglio nazionale richiama l’attenzione dell’intero partito sull’attuazione della sua idea sociale fondamentale, «che fu sempre la base del partito del Centro». «Il Centro per la sua intima essenza non può essere che un partito cristiano, sociale e popolare. Per esso l’evoluzione sociale andò sempre di conserva con quella politica. Per decine d’anni il Centro ha influenzato e diretto la politica sociale tedesca… Bisogna elevare i salari e migliorare le condizioni dei lavoratori, affinché possano partecipare al processo di risanamento della economia tedesca… Leggi non bastano; ci vuole un’amministrazione che capisca i bisogni del popolo. Ciò è possibile solo con la cooperazione e coalizione di tutte le classi del popolo. L’unione di tutte le classi sotto l’edificante pensiero della cultura cristiana, della giustizia sociale e della solidarietà popolare nello stato popolare tedesco, rimane l’irremovibile meta del Centro…». Eccovi dimostrato così, documentando, il tentativo di derivare il carattere politico-democratico di un partito dalla sua azione legislativa sociale, svolta in collaborazione con… Guglielmo II! Oggettivamente, non è storia, ma considerato soggettivamente, quest’adattamento retrospettivo contribuisce a caratterizzare l’adattamento alla nuova realtà politica e a fissare i connotati sociali del Centro del dopoguerra. Ma è d’uopo ritornare sui nostri passi. Del periodo guglielmino la collaborazione sociale del Centro col governo è l’unica specie di collaborazione che abbia attinenza con la sintesi che stiamo scrivendo, la quale non s’occupa del Centro per quello che vi è di specificatamente tedesco, ma per quello che vi è di cattolico ed universale. È lecito però affermare anche qui, che i francesi (XI), quando nelle loro pubblicazioni di guerra hanno descritto il Centro come un propulsore del militarismo germanico, hanno esagerato; e sopratutto hanno trascurato i dati storici, quando, volendo dimostrare la «décléricalisation du Centre» si sono dimenticati che nel primo decennio del secolo ventesimo il Centro combatté di nuovo parecchie battaglie per la libertà religiosa. È infatti del 23 novembre 1900 la sua proposta di tolleranza (Tolleranzantrag) che domandava che in tutti gli stati federati dovessero valere questi due principi: 1) la libertà di religione per tutti i cittadini germanici; 2) la libertà delle società religiose di ordinare indipendentemente i loro affari interni. Il Reichstag accolse la prima, ma la respinse il Consiglio federale; la seconda dopo ripetuti rinvii si arenò in un comitato della Camera stessa. Ed è ancora nel 1910 che il Centro ripresenta la stessa proposta, in una forma che scansava ogni obiezione di competenza. «Voglia il Reichstag deliberare d’invitare il cancelliere a trattare con gli stati federati per ottenere che le limitazioni della libertà religiosa in quanto ancora sussistono, vengano in via legislativa eliminate». Questa proposta, pur così attenuata, venne respinta con 160 voti contro 150. Bisognava che venisse la guerra perché nel 1917, incalzando l’avversa fortuna, si abolisse la legge contro i gesuiti, e ci voleva il crollo e la rivoluzione perché finalmente, insieme alle altre libertà, ritornasse anche la libertà religiosa. Durante la guerra, il Centro scompare, come scompaiono nel grigio-verde anche i socialisti. La molto discussa attività dell’Erzberger è opera solo della sua esuberante personalità. Lo stesso Hertling , promosso da presidente del consiglio bavarese a cancelliere in un’epoca, nella quale tutto oramai era compromesso, non fu voluto dal Centro né dal Centro venne in modo particolare appoggiato. Di azione collettiva si può riparlare solo nell’estate 1917 quando il Centro insieme ai socialisti e ai progressisti (democratici) vota la risoluzione per la pace senza conquiste e, in misura assai limitata, nell’occasione del noto tentativo di pace di Benedetto XV . Ma anche a proposito di questo è risultato ora fuori di dubbio, che la maggioranza del Reichstag aderì alla risposta del cancelliere al pontefice nell’opinione che vi fosse implicitamente inclusa la rinunzia al Belgio, e ignorò che il card. Gasparri aveva fatto sapere in una lettera al cancelliere che l’abbozzata risposta, non contenendo una esplicita garanzia per il Belgio non sarebbe stata adatta a servire di base per le trattative. L’Hertling fu favorevole all’abolizione del sistema censitario in Prussia, e ad introdurvi il suffragio universale, ma si dichiarò contrario alla parlamentarizzazione totale del ministero. Poi venne Max von Baden ; figure e attori secondari in confronto del comando supremo il quale con Hindenburg e Ludendorf aveva tirato a sé anche la direzione politica dello Stato (XII). VII. Il Centro, la rivoluzione e il mutamento del regime – Diventano preziosi gl’insegnamenti di Leone ai cattolici francesi. Una controversia sulla sovranità popolare Ed eccoci al crollo della resistenza militare ad alla rivoluzione dei «consigli dei soldati e degli operai» la quale proclama la decadenza dei poteri costituiti. È noto che l’ondata rivoluzionaria s’infranse presto negli anfratti del federalesimo. La macchina governativa germanica era troppo complicata per venir smontata d’un colpo. Le paratie stagne degli Stati federali e delle autonomie regionali, come in Austria, così in Germania resistono all’invasione rivoluzionaria. Molti cattolici, passato il primo momento, corrono a bordo per salvare la nave. Si legge ancora con interesse il discorso tenuto dall’on. Wirth al congresso dei soldati e degli operai di Friburgo in favore dell’ordine e della ricostruzione democratica il 13 dicembre 1918, dopoché, durante il viaggio di ritorno da Berlino, aveva saputo d’essere stato proclamato ministro delle finanze nel governo provvisorio del Baden. In questo momento il socialista Scheidemann, incalzato all’estrema sinistra dai comunisti si rivolge al centro e ai progressisti (democratici), ai gruppi cioè che coi socialisti unitari o maggioritari avevano costituita la cosidetta «maggioranza di pace» del Reichstag e forma così il governo che convoca la costituente a Weimar e pone le basi della nuova costituzione tedesca . Il punto di vista del Centro è fissato nel primo discorso che il suo presidente Gröber tenne all’assemblea il 13 febbraio 1919. Dopo aver ricordato che il Centro aveva sotto l’ultimo cancelliere, Max von Baden, cooperato alla «democratizzazione e parlamentarizzazione» dello Stato e s’era dichiarato disposto a mutare in senso liberale la costituzione, dice: «Tanto più abbiamo disapprovato gli avvenimenti del 7-9 novembre ; l’interruzione violenta dell’ordine, la rivoluzione. Noi non potremmo trovare nella rivoluzione né la necessità intrinseca né un felice avvenimento per lo sviluppo delle condizioni politiche della Germania… Ora gli avvenimenti ci hanno portato anche la forma di Stato repubblicana. Di per sé ciò non era necessario. Si può ben pensare uno Stato democratico con all’apice una dinastia come prova l’esempio dell’Inghilterra e di altri stati. Ma non intendo addentrarmi in tali questioni. I miei amici politici ed io, dopo quello che è accaduto, ci poniamo sul terreno delle condizioni di fatto e ne tiriamo le conseguenze. Facciamo questo perché nella repubblica democratica vediamo l’unica possibilità di uscire una buona volta dal caos della rivoluzione… noi vogliamo evitare che si sviluppi un movimento che ci porti alla repubblica socialista». Per evitare poi il rimprovero di aver accettato il principio della sovranità popolare nel senso di Rousseau… il Gröber continua: «Secondo la nostra convinzione ogni potere pubblico, sia monarchico che repubblicano, deriva in ultima causa dalla sapienza e dalla volontà divina che ha posto nella natura degli uomini e dei popoli la necessità di costituirsi in Stati e negli Stati di costituire un potere pubblico». Queste dichiarazioni preliminari, ripetute poi da altri oratori del Centro durante la discussione dello statuto spiegano l’accettazione della repubblica; non come richiamo ai «diritti della rivoluzione» ma come conseguenza della suprema legge dell’ordine. Salus publica suprema lex . A questo principio supremo venne sacrificato quello subordinato della legittimità; e qui è interessante vedere come le istruzioni di Leone XIII nell’enciclica Au milieu e in altri documenti dell’epoca, diretti ai francesi, e purtroppo da questi non accolte, abbiano servito d’orientamento ai tedeschi, che nelle polemiche nate in seguito, se ne varranno largamente per difendere il loro punto di vista contro postume riserve del legittimismo (XIII). Nuova documentazione del privilegio che, in confronto dei protestanti, hanno i cattolici nel magistero della Chiesa e nuova prova della necessità e dell’utilità ch’essa, senza ingerirsi negli atteggiamenti politici dei partiti, parli dal punto di vista della morale alla coscienza cattolica anche sui doveri sociali e politici. I lettori che ci hanno seguito finora però comprendono bene che, contrapponendo i tedeschi ai francesi, non abbiamo voluto fare semplicemente una questione di ossequio o meno alla dottrina. Tutte le pagine che precedono invece sono state scritte per dimostrare che i centristi tedeschi, agendo come hanno agito, si trovarono sulla traiettoria delle loro tendenze e manifestazioni semisecolari. Nel momento delle grandi convulsioni politico-sociali anche i partiti perdono le scorie che sulla loro figura originale vi accumula il tempo, in forza di adattamenti di necessità, di opportunità o di calcolo; e cadute le squame il Centro ha dovuto apparire, ai socialisti e ai democratici che ne cercarono la cooperazione, come un partito i cui connotati lo dicevano disposto e capace di ricostruire l’edificio politico sulle basi della libertà, della tolleranza, della giustizia sociale. E tale cooperazione dovette sembrare logica ai centristi stessi perché richiamati dalla brusca scossa alle linee fondamentali della loro fisionomia, sentirono che quello che crollava era l’impero bismarckiano che Windthorst aveva combattuto e gli epigoni avevano subito, e che nelle nuove forme politiche il Centro avrebbe potuto e quindi dovuto riprendere e conservare la sua rotta, secondo le sue direttive immanenti. Il Centro dunque non ebbe difficoltà a votare a Weimar la prima proposizione dell’art. 1 dello statuto che dice: Il Reich tedesco è una repubblica . Si votò poi anche senza difficoltà la seconda proposizione dello stesso articolo: Il potere dello Stato emana dal popolo. Ma, riguardo a questa seconda proposizione, ad opera compiuta, e, passata la bufera, non mancarono le critiche più o meno benevole. Ecco come Mons. Mausbach (XIV), che fu uno dei membri centristi del comitato costituzionale, spiega e difende la formula. Essa è una proposizione declarativa dell’antecedente. Non ha significato filosofico, ma valore giuridico, in quanto fissa il diritto positivo della repubblica. «Dal fatto che il nuovo Reich è una repubblica, un libero stato popolare, risulta senz’altro che il popolo tedesco non è più governato da principi sovrani, ma è a se stesso sovrano», si governa cioè da sé e con ciò «porta anche in sé il potere necessario da trasferirsi ai suoi organi» (per la legislazione il Reichstag, per l’esecutivo il presidente ecc.). «Come dal corpo vivo l’energia e il movimento trascorrono nelle membra, così nella costituzione repubblicana il potere statale va dal popolo agli organi dello Stato. Se la repubblica è come tale una forma dello Stato lecita, anche il corollario del suo diritto statale non può scandalizzare nessuno». Del resto il Mausbach ricorda che la formula venne tolta di peso dalla costituzione del Belgio, votata, com’è noto, anche dai cattolici. In essa suona così: Tous les pouvoirs émanent de la nation (art. 25). La differenza dai «diritti dell’uomo», ispirata direttamente a Rousseau, è palese perché là (art. 3) è detto: «Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione». Infine la formula va interpretata nello spirito di tutta la costituzione e questo è ben diverso da quello della rivoluzione francese. Si legga il preambolo, il quale dice: «Il popolo tedesco, uno nelle sue stirpi e animato dalla volontà di rinnovare in libertà e giustizia il suo Reich, di servire alla pace interna ed esterna e di promuovere il progresso sociale, si è dato il seguente statuto». Qui, conclude il Mausbach, è indicato il fine: a ciascuno il suo, non a tutti egualmente; questo fine, fine morale della ricostituzione dell’ordine, non è inventato dal popolo, ma stabilito da Dio nella legge di natura, e così anche l’autorizzazione della volontà popolare risale a Dio, quale ultimo detentore e originatore dell’autorità. Esprimere tale principio nello statuto sarebbe stato desiderabile, ma non necessario (XV). VIII. I diritti e i doveri fondamentali nello statuto di Weimar – Il matrimonio e la famiglia – Il diritto dei genitori all’educazione dei figli – Libertà di coscienza e protezione del culto – Il riposo festivo, l’assistenza religiosa nell’esercito e il mantenimento delle facoltà teologiche – La chiesa di fronte allo Stato – Autonomia delle società religiose – Abolizione dell’Anzeigepflicht – La misura e il modo della separazione – Prevista liquidazione dei contributi statali – Libertà integrale agli ordini religiosi – La lotta per la scuola – Come si arrivò all’accordo coi socialisti: l’ultima parola ai genitori – La reazione liberale – Gli equivoci del compromesso definitivo Dopo l’art. I la parte più discussa e più delicata dello statuto fu quella «dei diritti e i doveri fondamentali dei cittadini tedeschi» ordinata in 64 articoli e suddivisa in cinque parti che trattano della persona, della vita comune, della religione e delle società religiose (chiese), dell’educazione e della scuola ed infine della vita economica. Si noterà subito l’aggiunta fatta nel titolo, in confronto delle costituzioni del ’48 e delle rivoluzioni americana e francese. Qui si parla anche dei doveri. Inoltre mentre nei «diritti dell’uomo» e nelle formule d’origine anglosassone per la loro stessa origine storica o ispirazione filosofica viene considerato l’individuo in confronto di una eventuale oppressione del potere pubblico, qui la considerazione si allarga all’individuo come membro della comunità spirituale ed economica della nazione. In tale ampiezza e profondità di materia salta subito alla mente come deve essere stato difficile trovare, senza voler essere superficiali né troppo generici, una linea media accettabile da cattolici e da socialisti, dalla sinistra e dalla destra. L’abbozzo preliminare era stato preparato dal noto scrittore e leader democratico Federico Naumann , ma il progetto presentato al comitato costituzionale era stato elaborato definito dal giurista cattolico prof. Beyerle che era anche membro del comitato. Il comitato lavorò parecchi mesi, emendando, completando, rettificando, cosicché ne venne fuori uno statuto assai diverso; ma in complesso per i cattolici – ben si capisce non dal punto di vista della tesi, ma dell’ipotesi – esso era riuscito soddisfacente. Senonché nelle due letture che seguirono nell’assemblea plenaria alcuni emendamenti furono aggiunti, quasi sempre contro i voti del Centro, che peggiorarono la legge; non così però da diminuire i pregi fondamentali che la costituzione di Weimar conserva: la protezione della famiglia e del sentimento religioso, le società religiose restituite alla libertà, l’educazione, in via di massima, fatta dipendere dalla volontà dei genitori, e promosso in senso di solidarietà sociale. Il Centro vi poté dare così assieme ai democratici e ai socialisti unitari una sommaria adesione come ad un’accettabile legge di compromesso, mentre l’episcopato, dal punto di vista della dottrina e dei diritti della Chiesa cattolica, faceva poi sentire le sue riserve di principio e contro qualche articolo in particolare le sue proteste. Vediamone ora i punti principali. L’art. 119, com’era uscito dal comitato costituzionale suonava così: Il matrimonio, base della vita famigliare della conservazione e dell’accrescimento della nazione, sta sotto la speciale protezione dello statuto. Compito dello Stato e dei comuni è di mantenere pura e sana la famiglia e di promuovere il sociale progresso. Le famiglie numerose hanno diritto a provvidenze compensatrici. Questi due capoversi, i quali come fu ammesso espressamente anche da parte socialista, mettono sotto la speciale protezione dello statuto – ciò implica anche la necessità della maggioranza di due terzi per future modificazioni – il matrimonio monogamico, quale è considerato nel codice civile, hanno un grande valore etico. Con ciò la maggioranza del popolo tedesco – socialisti compresi – respinge le tendenze dissolvitrici della famiglia. Tuttavia nell’assemblea vennero votate due aggiunte, contro il parere del Centro. La prima dice: «Esso (cioè il matrimonio) si fonda sull’equiparazione dei sessi». La seconda: «La maternità ha diritto alla protezione e alle provvidenze dello Stato». La prima proposta venne dai democratici e fu sostenuta specialmente dalla deputatessa Braun, con lo scopo di combattere certe disparità del codice civile e di affermare l’eguale diritto della donna nel consenso al matrimonio; non ha quindi a che vedere con principi filosofici e teologici. Nella seconda i proponenti intendevano la protezione dei figli illegittimi, e il Centro, pur non opponendosi a tali provvidenze, avrebbe preferito che ciò fosse affermato in altro articolo. Importantissimo, perché vi viene proclamata norma giuridica una verità basilare del diritto naturale, sempre finora contrastata dalla scienza ufficiale di tutto il sec. XIX è l’art. 120 il quale afferma: L’educazione dei figliuoli a capacità fisica, spirituale e sociale, è supremo dovere e naturale diritto dei genitori, sulla cui opera vigila lo Stato. Vedremo poi i corollari di tale principio fondamentale, quando si tratterà della scuola. Anche qui nell’assemblea passò un’aggiunta senza i voti del Centro e per le insistenze delle rappresentanze femminili socialiste e democratiche, per la quale «ai figli illegittimi lo Stato deve offrire eguali possibilità di svilupparsi fisicamente, spiritualmente e socialmente». Ed ora veniamo alle questioni religiose e scolastiche. Furono naturalmente le più laboriose, presentando difficoltà specialissime per il conflitto ideale, che era proprio più acuto fra i partiti di maggioranza, e anche per la diversità e complessità delle condizioni di fatto e per le interferenze fra la legislazione dell’impero e quella dei singoli stati. Si finì con l’accordarsi che nella costituzione verrebbero fissate alcune linee di massima, rimettendo il resto, alla legislazione speciale o locale. Nelle questioni religiose il Centro si trovò di contro i partiti, generati dal liberalismo – i democratici specialmente ed ebbe spesso l’appoggio della destra (conservatori protestanti), mentre il socialismo con la sua classica formula «la religione è cosa privata» non oppose grandi ostacoli. Per la scuola invece anche i socialisti avevano in programma la scuola statale laica. La libertà individuale di religione ha ottenuto a Weimar la seguente formula: Tutti gli abitanti del Reich godono piena libertà di fede e di coscienza. Lo statuto garantisce e lo Stato protegge l’indisturbato esercizio della religione. Le leggi generali dello Stato rimangono da ciò impregiudicate (art. 135). Il godimento dei diritti civili e politici come pure l’accesso agli uffici pubblici non dipendono dalla confessione religiosa (capov. 2 dell’art. 136). Non abbiamo bisogno di rilevare che in questi articoli il Centro ha raggiunto finalmente a Weimar quello che invano aveva chiesto per tanti anni nella sua proposta di tolleranza, l’equiparazioni cioè dei cattolici nei pubblici uffici. L’articolo non è rimasto lettera morta, e benché i protestanti intransigenti, che dopo Weimar elevarono alti lai sull’«invadenza» dei cattolici, esagerino grandemente, è certo però che l’equiparazione negli uffici ha fatto dei notevoli progressi in Prussia, nell’Assia, nel Baden e nel Württemberg. Ma oltre a ciò non deve sfuggire il valore ideale e pratico dell’art. 135. Si fissa a questo punto il criterio della libertà di coscienza, il quale nel suo significato oggettivo è inteso come una norma giuridica, un freno che s’impone lo stato in confronto della libera sfera individuale, benché naturalmente non si possa negare che la tradizione liberale vi dia anche un’interpretazione filosofica. Ma la seconda proposizione rappresenta un vero progresso in confronto allo statuto del ’48. Lo Stato, è vero, concede la libertà anche all’irreligione, ma protegge la religione, la libertà cioè del suo culto, ne riconosce quindi il valore. La riserva circa le leggi dello Stato non significa altro, per dichiarazione unanime dei proponenti e dei commentatori, che la libertà concessa non immunizza dalle responsabilità penali a cui nell’esercizio del culto, si andasse incontro per reati comuni che vi si commettessero (XVI). Come conseguenze di quest’atteggiamento dello Stato verso la religione, atteggiamento che non è il «laicismo» in senso anticlericale e nemmeno «ostile indifferentismo», possono venir considerati gli articoli che riconoscono il riposo festivo, e quelli che facilitano il soddisfacimento dei doveri religiosi ai soldati e l’accesso alle società religiose negli ospedali, nei penitenziari o in altri istituti pubblici (art. 139-141); e quello infine che mantiene le facoltà teologiche alle università dello Stato. La formula «neutra», con la quale l’on. Gröber fece passare il riposo domenicale suona così: La domenica e le feste riconosciute dallo Stato saranno protette dalla legge come giornate di riposo dal lavoro e di elevazione dello spirito (art. 139). In quanto alle facoltà teologiche, non è certo se al loro mantenimento contribuisse maggiormente la tradizione religiosa o il culto quasi superstizioso che i tedeschi tributano alle loro istituzioni universitarie. Molti increduli ch’erano disposti a trascurare la religione, arretrarono innanzi alla scienza professorale ufficiale, incarnata nelle trattative dall’Harnack : i socialisti maggioritari stessi lasciarono cadere l’opposizione, benché da parte degl’«indipendenti» si gridasse non a torto: Ma codesta è una ben strana separazione della Chiesa dallo Stato! E veniamo ora alla separazione. Si ricorderà che la costituzione del ’48 aveva abolito, nell’intento di equiparare le confessioni, la «Chiesa di Stato» e che la costituzione della Prussia aveva concesso l’autonomia alle chiese evangeliche e a quella cattolica . In via di fatto la stessa condizione era riconosciuta alle comunità israelitiche e ad altre sette minori. Il Kultur Kampf però abolì i relativi articoli della legge fondamentale, lasciandosi dietro, anche dopo la pace, la scia viscosa dell’Anzeigepflicht . In altri stati federali la condizione di Chiesa di Stato assunta de facto dalle chiese evangeliche metteva in condizione d’inferiorità i cattolici. Ora lo statuto di Weimar stabilisce all’art. 137 1. Non vi è una religione di Stato. 2. La libertà di unirsi in società religiose è garantita. L’unione di società religiose fra loro nel territorio del Reich non è sottoposta ad alcuna limitazione. 3. Ogni società religiosa ordina e amministra i suoi affari indipendentemente, entro i limiti delle leggi che vigono per tutti. Essa assegna i propri uffici senza la cooperazione dello stato o del comune. 4. Le società religiose ottengono la capacità giuridica secondo le norme generali del diritto civile. 5. Quelle società religiose che erano considerate finora enti di diritto pubblico, rimangono tali anche in seguito. Altre società religiose otterranno a loro richiesta la stessa condizione giuridica, quando per la loro costituzione e il numero dei loro membri offrano garanzia di durata. 6. Le società religiose che sono enti di diritto pubblico sono autorizzate a levare tasse secondo i ruoli delle imposte civili e a norma delle disposizioni vigenti nei singoli stati. 7. Associazioni che abbiano per scopo la cura in comune di una Weltanschauung (concezione della vita) vengono trattate come le società religiose. 8. In quanto l’attuazione di queste norme richieda un’ulteriore regolamentazione, questa spetta alla legislazione degli stati. Art. 138. Le prestazioni dello Stato alle società religiose che si fondano su di una legge, un contratto, o speciali titoli giuridici, vengono liquidate con legge dei singoli stati. Il Reich stabilirà la norma, per commisurare tale indennità. È garantita la proprietà e ogni altro diritto delle società e delle associazioni religiose sui loro beni e sugli averi dei loro istituti a scopo di culto, l’istruzione e beneficenza, sulle loro fondazioni e su ogni altra sostanza. A completamento riporteremo qui anche l’art. 124, per quanto appartenga solo in parte a questo capitolo. Tutti i tedeschi hanno diritto, per scopi che non contrastano con le leggi penali, di costituire associazioni o società. Questo diritto non può venir limitato da misure preventive. Per società e associazioni religiose valgono le stesse disposizioni. L’acquisto della capacità giuridica è concesso ad ogni associazione, a seconda delle prescrizioni del codice civile. Esso non può venir negato ad un’associazione, per il motivo ch’essa persegue uno scopo politico, politico-sociale o religioso. Chi legga gli articoli che abbiamo tradotti con la massima fedeltà, vede subito che siamo di fronte alla separazione dello Stato dalla Chiesa, o – dopo la triste realtà dello scisma – dalle «chiese». Alcuni commentatori cattolici tedeschi, per la legittima preoccupazione di non dar corso all’ignominiosa parola della separazione, autorizzando così nell’ulteriore opera legislativa una regolamentazione pericolosa, hanno voluto contestare che si tratti di vera e propria separazione (XVII). Ma la cosa, per quanto riguarda le linee direttive dello statuto, è troppo evidente, giacché vi si prevede perfino una legge speciale per liquidare i rapporti economici, derivanti dalla cooperazione finora esistita fra lo Stato e alcune società religiose. Senonchè è doveroso ammettere che il modo con cui la separazione fu proclamata, non crea lo stato ostile o indifferentista, giacché, secondo lo statuto, il Reich protegge la libertà del culto, mantiene il riposo festivo e le facoltà teologiche, considera – come vedremo – la religione come oggetto normale d’insegnamento nelle scuole. È qui anche il luogo di ricordare che lo statuto di Weimar, benché non senza contestazioni, non ha impedito che la Baviera rinnovasse il suo concordato e che il governo di Luter dichiarasse non esservi fra lo statuto e il concordato bavarese alcuna incompatibilità, tanto che dopo d’allora poté rinascere la speranza della possibilità di un concordato anche col Reich. Ma non v’ha dubbio che, per quello che riguarda lo statuto, siamo in regime di separazione. Si tratta però di un tipo di separazione ben diverso da quello francese, portoghese o messicano. Qui lo Stato, messo di fronte alla pluralità delle confessioni, ha cura di proclamare la sua neutralità, la sua incompetenza nell’ingerirsi in cose di religione. La Chiesa cattolica (come la protestante nelle sue forme più antiche) è considerata come un ente di diritto pubblico (tali sono in Germania il comune, la provincia, l’università) col suo carattere tradizionale che implica la solennità del pubblico culto, i rapporti riconosciuti fra Chiesa e scuola, l’esazione delle tasse ecclesiastiche da parte del comune, la qualifica di pubblici (non statali) funzionari ai suoi ufficiali. La differenza fra tale situazione e quella di associazione privata qualunque che in base al principio «la religione è cosa privata» volevano inizialmente attribuire alla Chiesa i socialisti, non è poca. Va anche rilevato che tale situazione privilegiata è oggi consentita solo alle confessioni storiche. Soltanto in seguito altre nuove società religiose vi potranno accedere, adempiendo a certe condizioni. Dunque nella parificazione di diritto è tuttavia concessa una precedenza di fatto alla tradizione storica. Senonché, (ed ecco il rovescio della medaglia), l’accesso al carattere di diritto pubblico viene molto agevolato e alle società religiose sono equiparate perfino le società di Weltanschauung! Si può concludere quindi che al presente la Chiesa cattolica può conservare ancora una posizione di privilegio, accanto al protestantesimo ufficiale, ma, a mano a mano, lo statuto può aprire la via al diritto comune. Con ciò non s’intende muovere alcun rimprovero ai rappresentanti cattolici, i quali hanno subìto la pressione non solo dei socialisti e liberali, ma anche dei protestanti in genere i quali intendevano lasciare ogni libertà alla formazione delle loro sette; e hanno dovuto tener conto dei vantaggi che, guardata nel suo complesso, la nuova sistemazione comporta. A Weimar infatti è stata finalmente garantita la libertà della chiesa cattolica quale l’avevano invano tentato di riconquistare Windthorst e Reichensperger, e subito dopo Weimar il governo prussiano aboliva il famoso Anzeigepflicht; a Weimar, in doppio modo e con esplicite dichiarazioni degli autori dello statuto, venivano negli art. 137, punto 3, e nell’art. 124 esclusi nuovi tentativi di Kultur Kampf e assicurata la libertà e l’esistenza agli ordini religiosi, ancorata questa, per volontà stessa del Centro oltre che alla generica garanzia di autonomia alle chiese e loro istituti, anche al diritto comune associativo, garantito dall’art. 124. Quest’ultimo contemplando esplicitamente gli ordini religiosi ha dato loro una libertà di azione, mai goduta in Germania. Nella discussione ricomparvero le antiche avversioni contro i gesuiti e nuove obiezioni, dal punto di vista economico, vennero formulate specie contro le officine professionali di certe congregazioni. Ma infine il principio democratico dell’equiparazione e la ripugnanza contro disposizioni eccezionali indussero i socialisti a votare in favore della proposta del Centro. Due incisi però hanno sollevato anche qui dei dubbi e turbata la gioia dei cattolici. All’art. 138 si dice che il Reich stabilirà l’indennità di liquidazione alle società religiose. A ragione i vescovi tedeschi hanno protestato contro questo unilaterale scioglimento d’impegni concordatari. Le condizioni finanziarie dello stato non hanno ancora permesso che si pensasse a tale liquidazione che a Weimar s’immaginava potesse avvenire con titoli di rendita, e forse la questione non è ancora di attualità; ma essa rinascerà, quando si vorrà eseguire la legge. Questa obiezione di diritto della quale il Centro, come narra il Mausbach, non è riuscito ad evitare la ragione, non sminuisce però l’importanza dell’impegno che lo Stato ha assunto. E se perfino i principi spodestati sono riusciti a farsi indennizzare copiosamente, è ragionevole sperare che i cattolici non saranno da meno di loro. Intanto non si dimentichi che in base ad una disposizione transitoria (art. 173) gli attuali contributi dello Stato decorrono fino a liquidazione compiuta. Un altro inciso è stato oggetto di protesta da parte dei vescovi. All’art. 137, punto 3, è garantita l’indipendenza della vita interna e amministrativa della chiesa, ma si aggiunge: «entro i limiti delle leggi vigenti per tutti». Questa restrizione può avere un valore ovvio e accettabile nel senso che l’economia della chiesa ha i suoi limiti nei diritti dello stato, in quanto sono diritti della sua competenza meramente politica, che l’autonomia della chiesa è cioè limitata dall’autonomia dello stato, in quanto è sovrano nella propria sfera («Immortale Dei»);con tale significato la vuole interpretata il Mausbach, il quale ricorda che nella trattazione di Weimar il Naumann appunto in tale senso, contrariamente al protestante statalista Kahl aveva proposto: «entro i limiti delle leggi generali» e che l’on. Gröber volle aggiunto il «vigente per tutti», onde escludere ad ogni modo qualsiasi legge di carattere eccezionale, come quelle del Kultur Kampf. Nonostante queste spiegazioni che giustificano il contegno dei centristi, che nessuno del resto a tale proposito aveva criticato, la protesta dei vescovi è a posto, perché vestigia terrent, e non si può dimenticare che il Bismarck con un’aggiunta più forte, ma simile, s’era procurata dal Reichstag l’autorizzazione di metter le mani sulla libertà della Chiesa. Detto ciò, si può concludere che, salva sempre la questione di principio, e una volta riconosciuta la fatalità della separazione per le condizioni religiose e politiche particolari allo Stato germanico, questo tipo di separazione che abbiamo descritto è ancora il meglio che si potesse attendere e rappresenta, non v’ha dubbio, un merito storico del partito centrista. Com’era prevedibile, la più lunga e la più difficile battaglia fu combattuta a Weimar intorno alla scuola popolare e media. Per quanto riguarda la scuola popolare pubblica, bisogna ricordare che in Germania esistono due tipi di scuola, la scuola comune interconfessionale, che viene chiamata «simultanea» e la scuola confessionale. Quest’ultima si distingue dalla prima, perché gli insegnanti sono della stessa confessione, i libri di testo sono compilati nello spirito della confessione ed in genere sussiste un intimo rapporto fra scuola e autorità ecclesiastica confessionale. Poiché la legislazione scolastica spettava ai singoli stati, i quali ebbero, per quanto riguarda il loro rapporto con la religione, sviluppo assai diverso, la differenza delle scuole si manifesta anche territorialmente. In generale si può dire che la scuola confessionale domina in Baviera, nel Württemberg e nella maggior parte della Prussia, mentre la scuola comune (così chiameremo la «simultanea») prevale di fatto e di diritto nel Baden, nell’Assia, nella Nassovia e nella Prussia occidentale. Ovvio sarebbe stato quindi che l’assemblea del Reich a Weimar si fosse limitata a stabilire alcune linee del tutto generiche, rimettendosi per il resto alla legislazione degli stati; e in tal senso aveva cercato inizialmente anche il Centro di evitare lo scontro che si presentava in condizioni assai difficili. Infatti nelle sue proposte iniziali del marzo il Centro s’era limitato ad aggiungere alle poche linee schematiche del progetto governativo la richiesta dell’insegnamento della religione, come «oggetto ordinario» e la possibilità d’istituire accanto alle pubbliche anche scuole popolari private (libere), alle quali lo stato sotto certe condizioni avrebbe assegnato un contributo proporzionale. Ma già nella prima lettura del comitato costituzionale i democratici passarono all’attacco proponendo e facendo votare assieme ai socialisti «una scuola-base, comune a tutte le classi e confessioni», cosicché il Centro si vide costretto a cercar di stabilire già subito, nello stesso statuto di Weimar, delle garanzie per la scuola confessionale. Senonché, e malgrado tutte le insistenze e le trattative più laboriose, le proposte centriste per la scuola confessionale e per la scuola privata vennero ridotte in comitato a così poca cosa, che le richieste garanzie non esistevano nemmeno sulla carta. Inoltre nel giugno, per ragioni di politica estera, i democratici abbandonavano la coalizione, cosicché responsabili del governo e dell’opera di Weimar rimanevano solo i socialisti unitari e il Centro. Fu allora che sotto la pressione degli avvenimenti per la moderazione dei socialisti più intelligenti e per l’abilità dei capi centristi e dei membri cattolici del comitato Mons. Mausbach e l’on. Rheinländer si addivenne al compromesso scolastico cattolico-socialista del 15 luglio, che in seno ai gruppi venne accolto ad unanimità dal Centro e a scarsa maggioranza dai socialisti. Il compromesso faceva leva sull’art. 120 già votato che riconosceva i diritti dei genitori circa l’educazione dei figli e stabiliva che la volontà dei genitori avrebbe deciso, comune per comune, se vi si dovesse istituire una scuola popolare unica, o divisa secondo le confessioni, o completamente laica. I particolari venivano rimessi ad una legge scolastica del Reich, da presentarsi prossimamente e intanto si fissava che fino all’emanazione di tale legge, sarebbero rimaste in vigore le prescrizioni attuali. In quanto alle scuole popolari private, esse dovevano venir concesse solo a quelle frazioni di scolari che non raggiungessero il numero necessario per ottenere una scuola della loro confessione. Le scuole private in genere, in quanto mirassero a sostituire scuole pubbliche, medie o superiori, avevano diritto alla concessione, quando tecnicamente non fossero state inferiori alle pubbliche che volevano sostituire. I cattolici trionfavano, giacché avevano ottenuto non solo la possibilità di conservare la scuola confessionale ove c’era, ma anche d’istituirla ovunque i genitori in numero sufficiente la desiderassero; inoltre, ove la confessionale non fosse stata possibile, nella diaspora specialmente, c’era il ripiego della scuola popolare privata ed infine la scuola privata (media e superiore) doveva bensì aver l’approvazione dello stato, ma tale approvazione, a differenza del passato, non poteva venir negata per ragioni confessionali e politiche. Sventuratamente gli avversari soffiarono in tutte le trombe. I democratici, interpreti di numerose società magistrali e, assieme ai tedeschi popolari, del vecchio liberalismo, spaventarono i socialisti, accusandoli di mettere la scuola in mano alla Chiesa, perché all’atto pratico di 100 comuni, 90 avrebbero chiesta la scuola confessionale; e contro il compromesso si levarono anche i destri, accusando il Centro di aver dato accesso ad un terzo tipo di scuola, la scuola cioè completamente laica; come se la libertà già riconosciuta ai genitori di ritirare i figli dalla scuola comune nelle ore di religione non avesse dato l’identico risultato. Infine tutti i «tecnici» si dichiararono contrari, rivelando che con tale sistema si sarebbe portata la guerra scolastica in ogni comune, anche là ove nessuno chiede un mutamento. Bisogna ammettere però che, nonostante questo fuoco di fila, i capi socialisti e buona parte di loro tenevano fermo e non è privo di valore il ricordare le parole del loro ministro David che sosteneva nell’assemblea il progetto. Egli diceva il 18 luglio: «Ci siamo accordati in questo che coloro i quali alla questione sono intimamente interessati col cuore, cioè i genitori degli scolari, diano il tracollo decisivo alla bilancia. Con ciò questa lotta è in qualche misura trasferita dalla legislazione centrale nei singoli comuni… Ma questa materia, di cui si tratta è tale che non si può regolarla con la forza senza che le minoranze violentate in una causa che è radicata intimamente nei loro cuori facciano una disperata resistenza. Minoranze in tal modo violentate, non cessano dalla lotta, ma la conducono innanzi con tutti i mezzi di cui possono disporre. Ciò ha comprovato abbastanza il passato». «Nelle questioni religiose imporsi con la forza di una maggioranza è impossibile e non può condurre alla pace. Poiché qui si tratta di lotte per la concezione della vita. Certo esse devono venire e saranno combattute, ma la lotta sarà tanto meno odiosa, quanto meno intervengano coattivamente le ingerenze statali. Questo è il pensiero fondamentale su cui si fonda il compromesso: libertà nell’evoluzione attraverso una lotta puramente spirituale». Il compromesso venne anche votato, ma sui banchi dei socialisti erano tali vuoti, che solo l’accidentale assenza dei democratici gli assicurò la maggioranza. Si dovette temere allora che in terza lettura l’assemblea lo respingesse, e perciò i capi socialisti s’indussero a rinnovare le trattative coi democratici. Ne venne fuori il secondo compromesso del 30 luglio, votato poi dalla costituente, con l’adesione anche di gran parte dei destri. Così la legge, se rappresenta un notevole miglioramento in confronto del primo progetto, importa però un peggioramento in confronto del compromesso del 18 luglio e include delle ambiguità che, per la legislazione regolamentatrice posteriore, riusciranno come vedremo fatali. L’art. 146 come fu dunque deliberato dice che vi sarà una scuola base, a tutti comune, sulla quale si elevano poi le scuole medie e superiori. Nel secondo capoverso però si aggiunge: Tuttavia nei comuni, su proposta dei genitori e in quanto ciò non ostacoli una conveniente frequentazione della scuola, saranno da erigersi scuole popolari della loro confessione o Weltanschauung. Della volontà dei genitori sarà da tener conto nella massima misura possibile. I particolari saranno fissati dalla legislazione degli stati seguendo le linee fondamentali di una apposita legge del Reich. Nelle disposizioni transitorie poi (art. 174) è detto che, fino all’emanazione della legge e dei regolamenti, rimane lo statu quo e si stabilisce che «i paesi nei quali la scuola comune (simultanea) ha oramai base legale, verranno considerati separatamente». Per quanto riguarda la scuola privata (libera) fu, in sostanza, mantenuto il compromesso cattolico-socialista, che con i voti anche di molti conservatori, prevalse sull’ostinata opposizione dei democratici. Così secondo l’art. 147 scuole private in quanto sostituiscano scuole pubbliche (altre forme di corsi liberi ecc. non sono qui considerate) devono ottenere l’approvazione dello Stato quando tecnicamente e per il trattamento dei docenti, non siano inferiori alle analoghe scuole statali. E ciò riguarda le scuole medie e superiori. In quanto alle scuole private popolari, esse saranno concesse solo in quei comuni, nei quali non esista una scuola confessionale. Aggiungiamo, prima di conchiudere su questo importante capitolo scolastico, che all’art. 149 venne anche accolta la proposta del Centro che in tutte le scuole, fatta eccezione delle laiche, l’insegnamento della religione viene considerato come oggetto normale o ordinario, come si dice in Germania; il che importa che in tutte le scuole tedesche, popolari, medie e superiori, la religione deve avere i suoi insegnanti e far parte del programma scolastico, come oggetto di esame e di profitto. Però un docente è libero di assumere tale insegnamento o, per suo conto, di rifiutarvisi, come per la frequenza dell’insegnamento religioso da parte degli scolari è determinante la volontà dei genitori. Concludendo dunque, i cattolici avevano ottenuta l’insegnamento religioso nelle scuole per i genitori che lo vogliano e fatta eccezione delle scuole «laiche» – sotto qual nome, si badi bene, non si designano le scuole comuni interconfessionali (simultanee), nelle quali naturalmente la religione viene insegnata separatamente, a seconda della confessione, o non viene insegnata affatto a chi non la voglia, ma le cosidette scuole di Weltanschauung che vengono erette solo là ove un numero conveniente di genitori lo richiedano. Avevano inoltre garantita la scuola professionale nei paesi, nei quali finora esisteva, mentre per gli altri paesi (Baden, Württemberg ecc.) pur ammettendola, si sarebbe mantenuta una posizione di preferenza alla scuola comune. Infine veniva aperto il varco alla scuola libera (privata), disposizione che quanto più nello sviluppo dei tempi peggiorassero le condizioni religiose delle scuole pubbliche, tanto più acquisterebbe di pratico valore. Notevole che l’insegnamento religioso venne votato da tutti i partiti non socialisti; mentre i socialisti sarebbero arrivati al massimo a concedere a tale scopo le aule scolastiche. Ma quando nel secondo capoverso si aggiunse che tale insegnamento religioso dovesse «venir impartito in armonia coi principi delle rispettive società religiose» i borghesi liberali s’impennarono in nome della supremazia dello Stato, mentre i socialisti dichiararono che una volta ammessa nella scuola la religione, era ovvio ch’essa non potesse venir separata dalla chiesa che la insegna e la pratica. I Doc. 11 in: C. CRISPOLTI ED AURELI, Opera citata. II Il Windthorst era stato in relazione epistolare e personale col card. Jacobini, quando questi era nunzio a Vienna, per informarlo sulle fasi del Kultur Kampf, come del resto soleva consigliarsi in materia con l’arcivescovo di Colonia e con altri vescovi. III Le due note sono ritradotte dal tedesco, non avendo potuto l’A. avere sott’occhio i testi originali. IV Il discorso, che si chiama del Gürzenich dalla sala in cui fu detto, venne stenografato (Windthorst parlava solo su appunti) dalla Kölnische Volkszeitung, ed è riprodotto nella biografia dell’Hüsgen, (p. 289 e segg.) V Non sarà superfluo d’aver riferito il testo dei documenti, poiché essi dimostrano, contro le affermazioni dei monarchici francesi, che l’intervento diplomatico nella questione tedesca ebbe tutt’altro carattere dell’intervento direttivo e dottrinale dell’enciclica Au milieu. VI Vedi in: F. MEDA, Statisti cattolici, la monografia del Windthorst. principalmente di questioni politiche era naturale, perché tale era il suo mandato, mentre l’incarico di Mons. Galimberti non poteva essere che religioso. VIII Si accenna al tentativo di De Mun nel 1885. Il card. Ferrara nelle sue «Memorie» vol. II, p. 17; scrive in proposito: «Forse la S. S. pensava che un partito che avrebbe preso il titolo di cattolico non era una creazione felice, forse anche rilevò che il conte de Mun continuava a dirsi monarchico più o meno militante e offriva il suo partito cattolico come un alleato ai partiti conservatori e dinastici». IX Che Leone XIII fosse, se l’urgenza non lo costringeva a trascurare certe cautele, molto lento e prudente in interventi consimili, lo dimostra il caso del Belgio, raccontato dal card. Ferrata, allora nunzio a Bruxelles. Re Leopoldo voleva l’introduzione del servizio militare personale e pregò il nunzio d’intervenire presso i cattolici, ma il nunzio nicchiò. Allora Leopoldo scrisse al papa (25 feb. 87) mettendo la cosa in connessione coi privilegi del clero. Leone XIII fece un’inchiesta tra i vescovi e tre mesi dopo rispose: «un intervento diretto, allo stato attuale degli spiriti, non sarebbe né opportuno né efficace». FERRATA, Memorie, III, 315. Tutta la famosa raccolta di documenti pubblicati da Frère-Orban nel 1881 è del resto la documentazione storica più irrefutabile che si conosca dell’estrema riserva che usava la diplomazia leoniana, anche quando veniva invocato il suo intervento in affari di carattere politico-religioso. Cfr.: La Belgique et le Vatican, documents et travaux legislatifs, voll. 3, Bruxelles 1880-81. X Più chiari ancora in proposito i documenti sul Sillon e sull’Action française. XI Vedi la monografia su Hertling in: F. MEDA, Statisti cattolici. XII Sull’Hertling vedi il profilo assai chiaro e completo di F. MEDA in: Statisti cattolici, ove sono copiose anche le notizie bibliografiche. L’inazione e l’impotenza del Reichstag durante la guerra è documentata nel volume Der deutsche Reichstag im Weltkrieg, pubblicato dalla commissione parlamentare d’inchiesta. Cfr. sotto il medesimo titolo, conriguardo particolare al Centro, l’on. Beli in Pol. Jahrbuch 1927-28. giustifica la creazione e l’esistenza dei nuovi governi, qualunque forma assumano; poiché nell’ipotesi, di cui discorriamo, questi nuovi governi sono necessariamente richiesti dall’ordine pubblico, ogni ordine pubblico essendo impossibile senza un governo. Da ciò consegue che, in siffatte circostanze, tutta la novità si riduce alla forma politica dei poteri civili, o al loro modo di trasmissione, essa non tocca per nulla il potere considerato in se stesso. Questo continua ad essere immutabile e degno di rispetto; perocché riguardato nella sua natura, è costituito e s’impone per provvedere al bene comune, scopo supremo, onde ha origine la società umana. In altri termini per qualunque ipotesi, il potere civile, considerato come tale, è da Dio e sempre da Dio, giacché non vi ha potere se non da Dio. Per conseguenza, quando i nuovi governi che rappresentano questo immutabile potere sono costituiti, l’accettarli non solamente è permesso, ma è richiesto, anzi imposto dalla necessità del bene sociale che li ha fatti e li mantiene». Lettera Notre consolation ai cardinali francesi 3 maggio 1892: «Si rifletta bene su questo punto: se il potere politico è sempre da Dio, non ne conseguita che la designazione divina si riferisca sempre e immediatamente ai modi di trasmissione del detto potere, né alle forme contingenti, ch’esso riveste, né alle persone che ne sono il soggetto. L’istessa varietà di questi modi presso le diverse nazioni mostra ad evidenza il carattere umano della loro origine. In politica più che altrove sopravvengono inattesi mutamenti… Codesti mutamenti sono lungi dall’essere sempre legittimi nella loro origine; anzi è difficile che lo sieno. Con tutto ciò il criterio supremo del bene comune e della tranquillità pubblica impone l’accettazione di questi nuovi governi stabiliti di fatto, in luogo dei precedenti che in fatto più non esistono». XIV MAUSBACH, Kulturfragen der d. Verfassung, 1920, p. 23 e segg. Suarez il nostro Taparelli e i tedeschi Hertling (del quale il canonico bavarese si dice scolaro) e i gesuiti Theodor Meyer, V. Cathrein, mentre il Tischleder cita in suo favore il Billot (Tractatus de ecclesia), Berton, Castelein, Sortais, ecc. Dal punto di vista politico è interessante rilevare che il Kieflha colto l’occasione per difendere a spada tratta il principio legittimista e per sostenere una dottrina, la quale dimostri lecito, anzi doveroso, l’immutato attaccamento di non pochi cattolici bavaresi alla causa di Wittelsbach. Tutta la portata delle dottrine dell’enciclica Au milieu è rimessa in discussione, con riferimenti, insolitamente inesatti, trattandosi di un libro tedesco, alla situazione francese. Chi s’interessa alla controversia veda anche: ROMMEN, Die Staatslehre des Franz Suarez, M. Gladbach 1927. Strano è che l’incriminata formola di Weimar è stata proposta nel comitato costituzionale da un cattolico e che non si sarebbe dato pretesto al sorgere della controversia se si fosse votata la formola, proposta dal socialista Quark, il quale suggeriva di dire: «Il potere dello stato è esercitato dal popolo». XVI Si rilevi anche qui la diversità di spirito che emana dalla rivoluzione francese. L’art. 10 dei «diritti dell’uomo» suona : Nessuno deve essere disturbato nelle sue opinioni, anche religiose, purché la loro manifestazione non turbi l’ordine pubblico.
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1,929
4Internal exile
51926-1930
Gianicolo, monte sacro alla malinconia, come il Pineta è quello della mondana letizia e il Campidoglio quello della gloria! Per avere l’esatta impressione del suo carattere storico, non bisogna giungervi col tram che conduce fino alla cima tra le recenti memorie dell’epopea garibaldina , ma occorre salirvi a piedi, per l’erta che si stacca dalla Lungara o da porta S. Spirito. Qui la pendice è coperta di case buie o scolorite, di conventi colle persiane eternamente chiuse o di spedali colle tendine calate e, salendo per certe viuzze secondarie, non è difficile immaginare come dev’essere stato il sentiero che menava lassù, quando Fra Nicola da Forca-Palena , compagno del beato Pietro da Pisa , intraprese, verso il 1440, a fabbricare sullo sprone del colle che guarda il Vaticano l’oratorio e il romitaggio di S. Onofrio. Durante la salita non è infrequente che s’incontri qualcuno colle braccia o colle mani bendate o qualche altro cogli occhi rossi: clienti entrambi, più o meno diretti, dell’ospedale del Bambino Gesù, che dopo la soppressione, ha assorbito parte del convento; e, giunti al ripiano, pochi saranno, cui non paia venir loro incontro col volto macero e il corpo incurvato dagli affanni, l’ombra del poeta che nel romitaggio e sotto la quercia poco discosta «vicino ai sospirati allori e alla morte, ripensò silenzioso le miserie sue tutte». La figura malinconica del Tasso è l’immagine più forte che ci accompagna nella visita di S. Onofrio; ed è giusto, perchè quella di Torquato è certo la tragedia personale più illustre che ricordino queste mura, ma è ingiusto invece ch’essa campeggi talmente nella fantasia da cancellare ogni interesse per le altre memorie, di cui sono ricche la chiesa e il convento. Qui infatti trovarono rifugio o sepoltura uomini illustri di ogni secolo, e ne fanno fede i numerosi monumenti funebri e le iscrizioni che dall’atrio della chiesetta ci accompagnano, via via, per le cappelle laterali fino all’abside. La serie incomincia con i famigliari di Alessandro VI, tra cui quel Giovanni Sacco vescovo anconitano che sedò con terribile energia i tumulti sorti in Roma alla morte del Borgia, e comprende parecchi cardinali, abati, cavalieri d’ogni secolo e scrittori come il Guidi , e scienziati come il Mezzofanti , che fu cardinale proprio del titolo di S. Onofrio ed è sepolto nella cappella che segue quella ove il Tasso, per la munificenza di Pio IX, ebbe finalmente un ricordo marmoreo meno indegno. S. Onofrio però merita ogni attenzione anche per le opere d’arte che lo fregiano. Nel portico frescò le lunette il Domenichino , che dipinse in una il battesimo di S. Girolamo, nella seconda la visione ch’ebbe lo stesso santo, quando il Signore gli disse: Tu non sei cristiano, ma ciceroniano e nella terza le sue tentazioni quando il santo eremita pur sotto le più aspre penitenze «si figurava, come egli scrisse, di assistere alle danze di vispe fanciulle»: opere ordinate all’artista, perchè i frati della congregazione del beato Pietro Da Pisa si chiamano anche Geronimini o Gerolimitani e in Girolamo venerano il loro grande maestro. Nell’interno poi i freschi dell’abside, ove l’oro sparso a piene mani ricorda subito il Pinturicchio , sembrano contrastare efficacemente all’eccessiva tristezza che sarebbe regnata in questa chiesa, altrimenti così funeraria. La parte dipinta dell’abside è divisa in due fasce; nell’inferiore il Peruzzi dipinse l’adorazione dei Magi e la fuga in Egitto con una vergine bellissima e con paesaggi ridenti, nella superiore il Pinturicchio disegnò con grazia e gaiezza la Madonna e vari aggruppamenti di apostoli. Altre preclare opere d’arte si ammirano nelle varie cappelle laterali; ma quella tra queste che più deve interessare noi, trentini, è la cappella cosidetta della Madonna di Loreto, nella quale riposano i Madruzzo . Le guide in genere non ne parlano, così che può avvenire, com’è avvenuto a me altre volte di passare via senza farvi attenzione. Dedico perciò queste alcune notizie a quei nostri pellegrini che visitando prossimamente Roma, non vorranno essere immemori della nostra storia. S. Onofrio venne eletto a titolo dei cardinali diaconi da Leone X nel 1517 e il terzo titolare di questo titolo fu appunto Ludovico Madruzzo, che venne eletto cardinal diacono da Pio IV ed ebbe precisamente il 5 maggio del 1562 – se pur è esatto il Saianelli (I) – il titolo di S. Onofrio. Fu appunto il cardinal Ludovico Madruzzo che trasformò la seconda cappella del lato destro, eretta, secondo il cronista, nel 1500 e dedicata allora alle anime del Purgatorio, in cappella gentilizia dei Madruzzo. Ci deve però aver pensato già prima anche lo zio cardinal Cristoforo, perchè il suo biografo racconta che la cappella «principiata da lui coll’assistenza del nepote Ludovico e del fratello Giovanni Federico , il quale ultimo si trovava in quel tempo a Roma quale ambasciatore dell’imperatore Rodolfo II presso la la S. Sede (II). L’opera venne continuata e compiuta fino alle decorazioni dall’ultimo cardinale della famiglia, Carlo Gaudenzio , come attesta una piccola iscrizione sul pavimento della cappella che dice: CAROLUS MADRUTIUS EPISCOPUS INCOHAVIT, CARDINALIS PERFECIT ANNO MDCV. In quest’occasione i Madruzzo compirono anche altri lavori entro la chiesa e sotto il portico dell’entrata del convento, cosicché un’altra scritta sopra la porta di questo dice: EREMITIS S. HIERONY- MI CONGREGATIONIS B. PETRI GAMBACURTAE DE PISIS FAMILIA DE MADRUCIIS F. F. ANNO DOMINI 1602. Comunque, quando il cardinale Cristoforo morì nel 1578 a Tivoli, ove si era ricoverato presso il cardinal d’Este nella speranza di trovar ristoro alla già scossa salute, i lavori di trasformazione della cappella non erano molto inoltrati, se la sua salma dovette essere inumata provvisoriamente in Tivoli, donde venne trasportata in S. Onofrio, appena tre anni dopo. Cinque anni più tardi ancora, è la volta di Gian Federico che venne sepolto presso lo zio card. Cristoforo. Seguiva nel 1600 il cardinal Ludovico e finalmente, nel 1629 trovava l’eterno riposo nella cappella di S. Onofrio l’ultimo dei cardinali della famiglia, Carlo Gaudenzio, il quale stava a Roma come ambasciatore cesareo, ma non era del titolo di S. Onofrio, titolo che in quel torno di tempo spettava ai Barberini, al card. Maffeo prima, che fu Urbano VIII , e poi a suo nipote, Francesco . La cappella, come abbiamo ricordato, venne dedicata dai Madruzzo alla Madonna di Loreto, per la quale il cardinal Cristoforo, quando fu legato nelle Marche, aveva dimostrata una particolare devozione. Annibale Carracci perciò, il pittore che, scomparsi i sommi, andava allora in Roma per la maggiore, ebbe incarico di dipingere nella pala dell’altare la Vergine lauretana, tenendo però conto della dedica primitiva della cappella. Ed ecco come il Carracci eseguì l’incarico. Nel mezzo del dipinto si vede la s. Casa di Loreto sostenuta da tre Angeli e sul tetto della casa è seduta la Vergine col Bambino, il quale da una brocca versa dell’acqua che scorrendo giù per le pareti della Casa va a refrigerare alcune anime che bruciano nelle fiamme del Purgatorio. La Madonna appare, a dir vero, troppo gaia e non molto compresa dell’azione consolatrice del figliuolo e i puttini, che sono altrimenti assai graziosi, non sembrano tanto nerboruti da poter sostenere il peso che portano. Per il resto il quadro, per quanto se ne può giudicare colla scarsa luce che lo illumina, presenta tutti i pregi e i difetti del celebre pittore bolognese, del quale questa Madonna fu una delle ultime opere, poiché egli morì, com’ è noto, nel 1609. Ad un compagno di Annibale Carracci, al novarese G.B. Ricci affidarono i Madruzzo la decorazione delle pareti della cappella. Il Ricci apparteneva oramai a quella scuola di decadenza che fu detta del manierismo, tuttavia le caratteristiche di tale scuola si fecero valere nel suo modo di dipingere, meno assai che in altri suoi contemporanei e negli epigoni, tanto che egli ebbe onorevolissimi incarichi da Sisto V per la decorazione della biblioteca vaticana e del laterano. Anche qui l’opera del Ricci, benché non sempre alla stessa altezza in tutti i quadri, si può dire degna di encomio. Conforme alla dedica della cappella, tutta la decorazione, freschi cioè e fregi, sono consacrati alla storia di Maria. Già al di fuori, nello specchio del soffitto della chiesa che si estende fino all’arco della cappella, il Ricci dipinse, come simbolo ed introduzione, la creazione di Eva dalla costola di Adamo. Nella lunetta poi della parete a destra dipinse la natività di Maria, con una grande vivacità e con grande colorito veristico nella scena delle donne che si affaccendano attorno al letto di S. Anna. Di fronte, nella lunetta a sinistra, si vede invece la scena tradizionale dell’Annunciazione, la quale non si può certo mettere al confronto con quella di Melozzo da Forlì o, secondo altri, Antoniazzo Romano , che si ammira nella stessa chiesa di S. Onofrio, e precisamente nella cappella del S. Sacramento. Al di sopra, nei pennacchi della cupola, sono effigiati i quattro evangelisti e nell’interno della cupola stessa stanno altri quattro quadri della storia di Maria: la discesa dello Spirito Santo nel Cenacolo, il transito di Maria, l’Assunzione in cielo e l’incoronazione: dipinti ancora di grande vivacità, benché in parte guasti dal tempo. Fra un quadro e l’altro, su fondo messo ad oro, il Ricci ha sparso ogni genere di simboli mariani: la palma, la torre eburnea, il cedro del Libano, la torre davidica, ecc. Ma veniamo alle figure secondarie. Nell’interno dell’arco che apre la cappella si vedono i quattro dottori della Chiesa: S. Ambrogio, S. Gregorio, S. Agostino e S. Gerolamo e nei pilastri che sostengono l’arco, a sinistra si vede un S. Cristoforo nell’atteggiamento tradizionale, mentre porta il Bambino e sta per guadare il fiume, a destra S. Lodovico re di Francia e a sinistra di S. Lodovico, nella parte esterna del pilastro, è dipinto un vescovo in abiti pontificali, che fu ritenuto da vari autori, con riguardo al terzo cardinale, un S. Gaudenzio, ma che, tenuto conto dello zoccolo che porta in mano e nonostante dimostri maggior età che non gli accordi la storia, si riconosce facilmente per il nostro S. Vigilio , patrono della diocesi Tridentina. Poco è da dire dei due monumenti sepolcrali a muro, elevati l’uno di fronte all’altro, sulle due pareti laterali della cappella. Non ne conosciamo l’autore, ma sono nel solito stile che caratterizza questo periodo di transizione fra la rinascenza e il barocco schietto: in basso sporge un sarcofago in marmo, in mezzo una grande tavola di marmo nero per l’iscrizione e sopra questa un busto, a destra quella del card. Cristoforo, a sinistra quella del cardinal Ludovico; il tutto incorniciato in una ricca decorazione di marmi colorati. Nel mezzo della cappella una larga pietra tombale porta incisi gli stemmi gentilizi e cardinalizi dei Madruzzo. Ma tanto i sepolcri murali come la pietra che copre la cripta sono rimasti completamente senza alcuna iscrizione di sorta. Perchè? Il Saianelli nelle cronache citate dice che almeno per Cristoforo la scritta inizialmente c’era, ma che andò perduta nel settecento, in seguito ad altri restauri, ed altri sulla fede di lui, hanno ripetuta tale affermazione; ma se ci si prende il disturbo di consultare il Ciacconio , al quale il Saianelli si richiama, si trova che la notizia si fonda sulla rena, perchè il Ciacconio dice proprio che il cardinal Cristoforo fu sepolto in S. Onofrio senza iscrizione, e l’epigrafe ch’egli riporta è quella provvisoria di Tivoli (III). Strana laconicità, o meglio strano silenzio, specie se lo si confronta coll’eloquenza o colla loquacità di cert’altre epigrafidell’epoca che leggiamo per l’appunto in S. Onofrio. Tra le quali torna a proposito di citare quella dettata da un patrizio trentino, al seguito dei Madruzzo, per la tomba di sua moglie. La scritta si legge sul pavimento della chiesa, a destra, appena si entra, dalla parte della prima cappella. È assai logora, anzi in parte irreparabilmente perduta, ma la troviamo ricostruita nella raccolta del Forcella (IV) D. O. M. FLOS VELUTI QUEM RIVUS AQUAE QUUM SYRIUS ARDET – DESERIT ET PRONO VERTICE LANGUET HUMI – SIC CARLOTTA LIGUR PRIMUS IN FLORIBUS AEVI – SIC CECIDIT ROSEO GRATUS IN ORE COLOR – HANC TRIOLAE PATER TULIT HANC URBIS ABSTULITALMA – EXTULITEXCLARAHANCILLAFERALDADOMUS. – ATCLAUDITNUNC OBSCURUM ILLIUS OSSA SEPULCHRUM: – SUFFICIET CINERI PARVULA TERRA TUO – AE- TATIS SUAE ANN. XXVII VI. NON. – JUN. MDLXXIII. DIEM SUUM OBIIT – IO. ANTONIUS MALCOTTUS PATRITIUS SETAURENSIS TRIDENTINUS ILLUSTRISSIMI ET REVERENDISSIMI D. CARD. MADRUCIJ SUBDITUS UXORI SUAE CARISSIMAE AC BENEMERITAE CARLOTTAE CUM LACRIMIS SUIS SIBIQUE IPSI SUPERSTITI TERTIUM ET TRIGESIMUM ANNUM AGENTI TUMULUM HUNC FIERI FECIT KAL. APRILIS ANNO D. MDLXXXII Perchè manca dunque ogni epitaffio? Forse ricercando nell’archivio di S. Onofrio, trasportato alla Vittorio Emanuele , si potrebbe trovare la prova di qualche ragione banale, come di commissione fatta e non eseguita o di un ritardo impreveduto; ma lascio tale ricerca a chi abbia più tempo, tanto più che il rischio di non trovar nulla si può ritenere assai grande, dopoché avvenne anche negli ultimi tempi che si potessero comprare tra i rifiuti dei librai a campo de’ Fiori dei pacchi di fatture e ricevute con firme autografe dei Madruzzo sui lavori eseguiti a S. Onofrio! Comunque, i Madruzzo hanno fatta troppa fidanza sulla memoria dei posteri. Anche nel mondo dei ricordi la concorrenza è grande e la lotta per l’esistenza sempre più incalzante. Onde coloro che vogliono essere ricordati dalla fama, provvedano a tempo a legare codesta femmina volubile e mercenaria a qualche lapide, a qualche monumento o a qualche obelisco con tanto di scritta ben chiara, altrimenti la mercenaria passerà ai servizi di chi segue. Non per nulla il Consiglio dei Dieci, commettendo al Bembo l’incarico di scrivere la storia di Venezia osservava che il nome e la grandezza dei Romani oltre che alle virtù de’ capitani è dovuta all’eccellenza dei loro scrittori. Che giova al «gran cardinale di Trento» la parte cospicua fatta al Concilio, l’opera diplomatica di Siena e di Augusta , l’abile maneggio fra Cesare e Pietro, la celebrata arte di governo nel ducato di Milano o nelle Marche? Quando il Cardella (V) scriveva le sue biografie de’ cardinali vedevansi ancora sul Pincio, all’ingresso di villa Medici, due frammenti di cannone nel fondo dei quali era impresso: Christophorus Madrutius Card. Trid. Anno 1568. Ma ora anche questa scritta è scomparsa, e nella città più epigrafaia del mondo, là ove il Tasso ha tre diversi epitaffi , quante furono le sue sepolture – «hoc ne nescius esses hospes», s’affrettarono a scrivere già sulla prima i padri ospitali – i pellegrini passano ignari e indifferenti innanzi a quella cappella che le guide presentano semplicemente come cappella della Madonna di Loreto! O fu invece proprio umiltà, come suppone il buon frate che mi accompagna? È dovuto quel silenzio alla stessa considerazione per cui un signore di Imola, contemporaneo degli ultimi Madruzzo, fece incidere sulla sua tomba in S. Onofrio le semplici parole: «Ossa Hippoliti peccatoris»? Con questo dubbio nella mente esco sul piazzaletto e all’ombra dei lecci che rendono questo ripiano così triste, guardo a Roma che si stende dinnanzi. Siamo troppo bassi per vedere i grandi monumenti delle glorie umane; qui sotto non c’è che la Roma della poveraglia; unico edificio ch’emerga Regina coeli, dietro gli scuretti del quale migliaia sospirano le colpe proprie o le altrui . A destra, in alto, ecco la quercia del Tasso, colle braccia scarnite ed aride, tese verso il cielo, e, giù, giù, verso la Lungara, scorgo a tratti fra muri grigiastri di case muffite, il viottolo tortuoso che un giorno calcò il figlio del Gambarotta , capo della repubblica pisana, quando venendo quassù con Fra Nicola cercava la solitudine, ultima trincea, allora, degli uomini liberi. I Saianelli: Historica monumenta ordinis S. Hyeronimi congregationis B. Petri de Pisis. II Vedi Pastor, Storia dei Papi, sec. ed. ted. Vol. IX. ove cita la vita in cod. Mazz. 60 della bibl. com. di Trento. III Il Ciacconus, Historia pontif. rom. riferisce così la epigrafe di Tivoli: CHRI- STO RESUSCITATORI CHRISTOPHORUS MADRUCCIUS EPISC. PORTUENS. CARDINALIS TRIDENTINI OSSA REQUIESCUNT. MDLXXVIII. IV Forcella Vincenzo: Iscrizioni delle chiese di Roma, Vol. V, S. Onofrio V Cardella: Cardinales, 1793.
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1,929
4Internal exile
51926-1930
Nel regime parlamentare del dopo guerra il Centro diventa il partito di governo per eccellenza. La parola d’ordine è: «Hinein in den Staat» (Dentro nello Stato!). Non ripetiamo l’errore dei conservatori francesi. Bisogna riempire del nostro spirito la forma democratica dello Stato. Fin qui tutti sono d’accordo. L’insegnamento di Ketteler, il quale, caduto a Sadova l’ideale dell’unione con l’Austria così caro ai cattolici , li aveva ammoniti ad adattarsi all’impero dell’egemonia prussiana e a partecipare all’edificazione del nuovo Stato; i ripetuti appelli di Windthorst contro ogni forma di astensione, hanno creato nel movimento centrista una tradizione attivista che non si smentisce nemmeno dopo la rivoluzione. Ma c’è il problema della collaborazione coi socialisti, dai quali lo separa un abisso. In sul principio si trova naturale che il Centro governi con quanti vogliono rinsaldare il nuovo regime costituzionale – sono ministeri di salute pubblica; non c’è altra possibilità di mantenere l’ordine e di tener lontana la repubblica socialista, dice il Trimborn al congresso centrista del 1920. È una «dura necessitas». Cosí pensano i vecchi condottieri come Gröber, Trimborn, Spahn , rappresentanti di una generazione che oramai scompare. Le critiche però non vogliono tacere e oltre che nella stampa cattolica austriaca trovano appoggio anche in qualche organo ecclesiastico della Germania (I). Allora la direzione del partito il 31 marzo 1921 presenta all’episcopato un lungo e documentato memoriale che spiega e giustifica la collaborazione coi socialisti maggioritari, non solo dal punto di vista delle necessità del regime parlamentare, ma anche dal punto di vista cattolico dimostrando che specialmente nella Prussia era stato possibile ottenere dai socialisti un regime scolastico soddisfacente (II). Da allora in poi il pensiero collaborazionista si evolve ed assume un carattere positivo. Non è più una dura necessitas, ma uno strumento cercato e voluto per la ricostituzione della nuova Germania. Al congresso del 1922 Mons. Brauns, ministro del lavoro, è applauditissimo quando dichiara: «Noi siamo convinti che senza la partecipazione della classe lavoratrice al governo e all’amministrazione, lo scopo che ci proponiamo della restaurazione statale è irraggiungibile. E poiché la maggior parte di questi lavoratori è inquadrata nella socialdemocrazia, riteniamo imprescindibile la partecipazione di questo partito al governo». È una tendenza, come si capisce, imposta dal concetto della rappresentanza proporzionale. Nello sfondo però la preoccupazione fondamentale è che la massa socialista non ritorni all’atteggiamento negativo e rivoluzionario dell’ante guerra, ma diventi entro la nuova repubblica un partito possibilista e laburista. Siamo ai tempi di Wirth e di Rathenau , quando è ritornata al governo la coalizione di Weimar. Senonché questa volta, in seguito alla riunione dei maggioritari con gli indipendenti, sono i socialisti che forzano la situazione ed escono dal governo. Vi ritornano poi nell’estate del ’23 col ministero Streseman , al quale riesce per poco a tener assieme la «grande coalizione» che comprende socialisti, Centro, popolari, democratici: ma già sulla fine dello stesso anno Marx deve formare un ministero dei partiti mediani, un ministero di minoranza che vive dell’appoggio dei socialisti. Non abbiamo bisogno di ricordare che questi mutamenti di governo dipendono quasi sempre da contraccolpi di politica estera (Slesia, Rhur, riparazioni) e che di fronte ai socialisti, disposti ad appoggiare una politica di conciliazione e di applicazione dei trattati, sono i tedesco-nazionali che non accettano né Versailles, né la repubblica. Nel 1924 si rinnova due volte l’appello ai comizi elettorali, ma la situazione n’esce peggiorata. Ora anche se i socialisti vorranno, i tre partiti della coalizione di Weimar non bastano più a costituire la maggioranza, perché dal 1919 in qua hanno perduto complessivamente 118 mandati, specie perché la borghesia, anche per ragioni economiche, ha disertato i ranghi dei democratici per rinforzare quelli della destra. Da questo momento il gruppo Streseman, incalzato dalla propaganda tedesco-nazionale, mira a costituire il blocco borghese. Non vi riesce per l’opposizione del Centro il quale però alla fine deve adattarsi a dei ministeri-ripiego, che poggiano su una maggioranza che si fa e disfà di volta in volta. «Siamo stati costretti a cedere, dice nella sua dichiarazione il pres. Fehrenbach alla Camera, ma almeno abbiamo impedito la formazione di un blocco antisocialista». Nel maggio 1926 torna per la terza volta Marx, il quale governa con l’appoggio dei socialisti e si dispone a preparare la grande coalizione. Infatti i socialisti si dichiarano finalmente, a Natale, disposti ad assumere la responsabilità di governo, ma vogliono prima le sue dimissioni. Nella lunga crisi che seguì, Streseman che lavorava sempre per attrarre nel governo i tedesco-nazionali trovò un appoggio dichiarato nel presidente Hindenburg. Alla fine il Centro dovette cedere. Siamo alla coalizione di destra con Marx di nuovo al cancellierato (gennaio 1927). Tutte queste manovre parlamentari qui naturalmente non interessano, come non ci riguardano le fatiche, vane finora, dei partiti per costituire, dopo le elezioni del maggio 1928, la grande coalizione. Ad estranei è solo lecito aggiungere che durante quest’ultima crisi il Centro apparve come disorientato e deluso e che la sua presente condotta politica manifesta l’incertezza di un periodo di transizione fra i vecchi e provati condottieri, appena scomparsi, e i nuovi che si devono ancora affermare. Il congresso del dicembre 1928 tentò di superare le interne gelosie e i contrasti fra il gruppo sindacale (Stegervald ) e la maggioranza col nominare alla testa del partito un sacerdote, prof. Kaas , noto finora come specialista in politica estera; ma non appare tuttavia certo ancora se questo sacrificio del colorito «interconfessionale» basterà a chiudere rapidamente il periodo delle incertezze. Ma torniamo ad occuparci delle direttive programmatiche. Il Centro del programma del 1922 ha cercato una nuova definizione col sottotitolo partito popolare cristiano (christliche Volkspartei). La sua posizione nella politica interna è data dalla sua «concezione cristiana dello Stato e dalla sua tradizione di partito costituzionale». È contrario ad ogni trasformazione violenta della forma dello Stato. Il Centro si dichiara per «lo Stato popolare tedesco» (deutscher Volksstaat), la cui forma viene determinata in via costituzionale dalla volontà del popolo. Nel popolo, che è detentore del potere politico, bisogna infondere la coscienza della propria responsabilità per le sorti dello Stato. Perciò al governo devono partecipare i cittadini di tutte le classi popolari. Il predominio di una classe (marxismo) o di una casta (conservatorismo-agrario prussiano) sono del pari inconciliabili con l’essenza dello Stato popolare». Seguono in questa cornice i postulati della libertà delle «società religiose» e della scuola confessionale. In due documenti dello stesso anno (giugno e ottobre 1922) la direzione del partito s’affretta anche a rilevare di nuovo il carattere interconfessionale del partito, affermando che nelle difficili condizioni del momento bisogna fare una politica di raccoglimento e costituire un Centro di tutti coloro che vogliono difesa la religione e la patria. Per ciò nelle candidature, si terrà conto anche dei protestanti che accettassero il programma del partito. Come si vede, in questa definizione si evitano ancora i termini d’importazione «democrazia e repubblica» che possono portare a discussioni pericolose e a divisioni. Ma il Wirth, che è l’ispiratore principale del programma, nelle sue personali manifestazioni, parla schiettamente di linea democratico-cristiana. Nella prefazione alla prima raccolta dei suoi discorsi (III) egli insiste sull’unione di tutte le forze popolari, attuata da un governo su larghissima base, che deve compiere l’opera di salvamento all’interno e alimentare lo spirito di conciliazione in Germania e in Europa. «Una deviazione, scrive nel ’24, anche temporanea dalla via oggi riconosciuta giusta dalla maggioranza del popolo tedesco ci può precipitare di nuovo in un disastro incommensurabile». Alla vigilia delle elezioni del ’24 (gennaio) il Wirth dirige una lettera all’on. Joos , che è presidente del movimento giovanile centrista (IV) – studenti e giovani accademici in maggioranza, riuniti nelle leghe di Windthorst (Windthorstbund) – per sostenere la sua tesi del collaborazionismo con la sinistra. «Noi eravamo, egli dice, sempre conservatori nel miglior senso del pensiero cristiano, ma reazionari mai. Conservatori come pensava il grande Görres. Ciò che esiste va rispettato, ma esso deve strappare alla vita la sua forza creatrice e non arrestare il progresso». Joos risponde, associandosi in via di massima, ma aggiungendo: «il Centro non deve scivolare verso destra, ma nemmeno verso sinistra. Esso ha il carattere del conciliatore. Non bisogna accettare come criterio assoluto, che la destra sia inconvertibile per sempre. D’altro canto la difesa delle istituzioni repubblicane non ci deve far perdere di vista che il vero solidarismo delle classi non ha trovata ancora la sua norma definitiva». Senza riserve è invece l’adesione di altri due capi giovanili, Dr. Krone e prof. Müller che fra l’altro domandano al Centro un intervento più energico e più palese in favore della tendenza pacifista degli ultimi papi. Recisa e vivace è l’affermazione di Wirth, posta come a conclusione del libro: «L’essenziale della costituzione è lo stato popolare. Ma esso, “Volksstaat”, è impossibile se da una parte si costituisce il blocco borghese e dall’altra il blocco proletario». Le condizioni parlamentari però furono più forti dei programmi. Abbiamo visto che il Centro venne costretto dopo il ’24 ad essere il perno dei governi «mediani». Ed ecco che la teoria politica si adatta alla situazione. Joos elabora ed approfondisce il concetto centrista, per dir così, del Centro (V). Il Centro, dice, non è, un conglomerato di interessi ed idee diverse, ma l’adeguata espressione dell’universalità cattolica del suo programma. È un partito sintetico. Wirth allora frondeggia, allarga il campo della sua propaganda, tenta di preparare negli spiriti la coalizione, fondandosi sul repubblicanesimo come cemento fra uomini di diversi partiti. Una rivista «Die deutsche Republik» diventa l’organo di questa concentrazione che si chiama l’unione repubblicana. Ma perfino il Centro sembra esitare a fondare la sua caratteristica sulla «forma dello Stato». Nel suo congresso di Soest (1926) si fanno largo dei pensieri come questi: «il sistema democratico è di per sé buono, moralmente lecito e giovevole», ma noi in Germania abbiamo una democrazia non organicamente cresciuta, ma improvvisata, per la quale il vecchio regime non aveva offerto alcun elemento di preparazione, avendo trascurato lo sviluppo del senso della responsabilità e della personalità. Bisogna trovar modo di conciliare il principio parlamentare con la necessità di avere un governo forte e stabile. Il repubblicano non deve aver paura di siffatte riforme, pur che non dimentichi che «la costituzione non è un pezzo di carta». Intanto la politica della coalizione verso sinistra aveva subìto una amara delusione. Nelle elezioni presidenziali, data la iniziale resistenza del Centro ad aderire ad un equivoco candidato «borghese», si era arrivati, nella seconda votazione, a costituire il Volksblock (blocco popolare) contro il blocco borghese. Socialisti, Centro e democratici – la vecchia coalizione di Weimar – si era ricostituita. Il manifesto del Centro proclamava lo stato popolare sociale – fraseologia virthiana – e la fede assoluta nella costituzione. Il candidato di sinistra era un cattolico – Marx – quello della destra nient’altro che Hindenburg. Ed ecco risorgere l’antico spettro ultramontano. «Nessun maggior trionfo per Roma – scrive la Tägliche Rundschau – che la caduta dell’impero evangelico. Ora Roma ne vuol impedire la resurrezione». Anche la «lega evangelica» lancia l’antico grido: No popery! I conservatori protestanti e il gruppo dei cattolici, capitanata da Martino Spahn, che si sono aggregati ai tedesco-nazionali, attaccano il Centro per la sua alleanza coi socialisti, la quale vorrebbe impedire la vittoria di un credente come Hindenburg. Risponde la «Germania» (21 aprile 1925) che le coalizioni vanno considerate come necessità contingenti ed estrinseche «che mutano secondo gli scopi del momento e gli sviluppi dei partiti. Il Centro è un partito di Weltanschauung perché le sue idee fondamentali germinano dall’humus cattolico; ma queste idee deve tentare di realizzarle in un paese, lacerato da contrasti confessionali. I tedesco-nazionali sono tenuti assieme dallo spirito di reazione monarchica. Chi oserà sostenere che tutto quello che nella nostra vita politica è antisocialista sia per ciò stesso cristiano? Poiché noi siamo oramai un popolo lacerato da contrasti religioso-culturali, possiamo procedere in tali cose solo sulla base della tendenza verso tutti, rinunziando, nel regno dello spirito, ad ogni coalizione. Ebbene è un fatto che negli ultimi anni il socialismo maggioritario (ufficiale) ha dimostrato per tale principio liberale maggior comprensione che gli altri partiti». Il risultato è noto. Marx ebbe 13 milioni e 751 mila voti contro 14 milioni e 655 mila dati a Hindenburg. Le sconfitte raffreddano subito gli entusiasmi. I cattolici bavaresi che al primo scrutinio avevano raccolto sul loro candidato Held più di un milione di voti, avevano poi in grande maggioranza votato contro Marx, pure tanto favorevolmente noto come presidente della «organizzazione scolastica cattolica». L’aconfessionalismo non aveva giovato, quando si trattava di protestanti ed aveva danneggiato, quando si trattava di cattolici. I dirigenti centristi dovettero ora aver l’impressione che bisognava fare una politica di raccoglimento. Di tale politica fu di nuovo rappresentante il Marx il quale per la sua grande rettitudine e saggezza pare indicato per situazioni in cui bisogna superare contrasti e trovare accordi. Quando la coalizione di destra parve inevitabile, Wirth ritornò sulla scena per sbarrarle il cammino. Si deve al suo influsso la compilazione del manifesto nazionale del Centro del 21 gennaio 1927. Ne abbiamo già anticipata la citazione per quanto riguarda la politica sociale. Ma il punto dirimente era quello che affermava la repubblica. Qui si fa un passo avanti, in confronto del ’22. «Non c’è per noi nessun’altra realtà politica che quella della repubblica tedesca coi suoi simboli. Essa ha dato al popolo tedesco la sua unità in tempi di disperazione. Anche per il lontano avvenire essa rappresenta l’unica via della speranza. Il Centro ha contribuito a creare tale costituzione. Noi vi ci manteniamo fedeli, custodendone, sviluppandone e curandone l’intimo senso, e sforzandoci incessantemente di mantenere questa costituzione in organico contatto col popolo e colle sue forze vive». Accadde ora che i punti programmatici ricavati da tale manifesto e presentati ai partiti da Marx, venissero, con sorpresa di molti repubblicani, accettati anche dai tedesco-nazionali sia pure sotto le pressioni di Hindenburg, che la destra giungesse anche al punto d’impegnarsi a votare per le leggi in difesa della repubblica e ad agire contro le società combattentistiche. Il Centro dovette quindi adattarsi; e tutti appoggiarono Marx. Solo Wirth si spinse tant’oltre da votare in pubblica Camera contro il gabinetto. Marx però era stato attratto nella coalizione anche da una grande speranza, quella di risolvere finalmente la questione scolastica. Fin dai primi anni dopo la guerra il Centro nei suoi proclami aveva insistito perché si votasse una nuova legge scolastica qual’è prevista dallo statuto fondamentale. La «Katholische Schulorganisation» aveva rilevato in due grandi inchieste estese a tutta la Germania, che l’ottanta per cento dei cattolici, aventi diritto a voto, desideravano la scuola confessionale. Un primo progetto era stato già presentato nel ’21, dal sottosegretario all’istruzione, il socialista Schulz , quegli stesso che rappresentava il dicastero scolastico a Weimar. Ma il Centro l’aveva trovato insufficiente e s’era proposto di ottenere la modificazione: venne poi la crisi monetaria e, poiché la nuova legge implicava nuove spese, non ci si pensò più. Un ulteriore tentativo del 1925, sotto un ministero mediano, non ebbe esito migliore. Finalmente, avvenuta la costituzione del ministero di destra, Marx poté sperare nella soluzione. I lettori ricorderanno i due capoversi dell’art. 146 dello statuto, che costituirono il cosidetto secondo compromesso scolastico di Weimar. Nel primo capoverso si parla di «una scuola popolare a tutti comune» ecc.; nel secondo si stabilisce però che nei comuni, ove i genitori lo vogliano, si erigeranno scuole confessionali. Nelle disposizioni transitorie si aggiunge poi che nei paesi, nei quali sussiste per legge la scuola comune, si dovrà fare un trattamento speciale. Ora i partiti liberali interpretano il compromesso nel senso che la scuola comune debba considerarsi come la scuola normale e quella confessionale, come eccezione; e la Suprema Corte in parecchi casi diede ragione a questa interpretazione; il Centro invece afferma che per lo statuto i due tipi di scuola sono equiparati e che decisiva sempre ed ovunque, è la volontà dei genitori. Da ciò naturalmente un diverso modo di trattare le scuole esistenti e di regolare l’impianto di quelle nuove. I più radicali dei liberali sostengono che la regola dev’essere di mantenere comuni tutte le scuole che ora sono tali e che comuni debbono essere anche le scuole ex novo che si fondano d’ufficio. Solo che, trattandosi di nuove scuole, ad un certo punto della procedura, se una data percentuale dei genitori farà la proposta della scuola confessionale, la proposta dovrà essere esaminata; ma qui in questo esame, nella fissazione della percentuale necessaria per la proposta e nell’interpretazione della clausola dell’art. 146 che dice: «purché non ne soffra la frequenza della scuola», quante disposizioni possono venir introdotte che, in via pratica favoriranno o, addirittura, saboteranno la scuola confessionale! Ecco l’infido terreno, sul quale si svolge la lotta dei partiti. Marx nelle sue linee programmatiche aveva incluso il principio, che parve accolto da tutti i compaciscenti: «equiparazione in via di massima delle scuole confessionali e comuni» e nel suo discorso di presentazione al Reichstag il 3 febbraio 1927 poteva dichiarare a nome di tutti: «Se diamo uno sguardo retrospettivo alla nostra storia vediamo che la nostra coltura è nata e cresciuta su terreno cristiano. Da questa terramadre lo spirito del popolo tedesco deve suggere la linfa del suo rinnovamento. Tale pensiero troverà applicazione nella legge scolastica, progettata dal governo». Nella pratica lo «spirito cristiano» della nuova coalizione si dimostrò poco fecondo. S’incominciò a discutere intorno al progetto scolastico il 18 ottobre 1927 e lo si dichiarò interamente fallito il 15 febbraio 1928. Fra i due termini le trattative, le discussioni, le proposte furono infinite. Nel Consiglio federale, tentò prima la Prussia di stabilire un accordo fra i rappresentanti dei vari stati e la Prussia governata sempre dalla coalizione del Centro con la sinistra, era certo la più indicata per fare la mediatrice. Ma il progetto prussiano fu respinto per opposte ragioni, tanto dai paesi a scuola comune, quanto dalla Baviera. Nei parlamenti poi degli stati a scuola comune, come il Baden, l’Assia, la Sassonia, perfino i tedesco-nazionali che al Reichstag si pronunciavano per la scuola confessionale, presero atteggiamento contrario al progetto governativo. Ma nel comitato scolastico del Reichstag il partito che mandò a picco la legge fu dei popolari del gruppo Streseman presso i quali si rivelano di recente sintomi di ricaduta in quel liberalismo di tendenza anticlericale di cui erano stati durante il Kulturkampf gli antesignani. La questione della scuola non è quindi ancora sistemata; ma la soluzione favorevole dovrà venire, perché nello statuto di Weimar i cattolici hanno conquistato oramai una trincea, che permette loro di attendere la migliore occasione. Alla costituzione del quarto gabinetto Marx, s’era fatto anche un gran parlare del Concordato col Reich. La grande stampa liberale aveva dato l’allarme e s’era affermato, nonostante le smentite più recise, che il Centro s’era piegato finalmente alla collaborazione coi tedesco-nazionali sotto le pressioni del nunzio Pacelli , che avrebbe avuta in cambio la promessa del Concordato. La notizia, lanciata, si diceva, dal ministero degli esteri chiamò in causa anche Stresemann, il quale interpellato alla Camera rispose che dopo che la Baviera aveva conchiuso un Concordato e si apprestava a fare altrettanto anche la Prussia, riteneva desiderabile che si addivenisse anche al Concordato del Reich. E in verità già nel 1920 Ebert , il presidente socialista, rispondendo al discorso di presentazione del Nunzio aveva dichiarato d’essere disposto a regolare con lui i rapporti fra Reich e Chiesa cattolica sulla base della «piena libertà di coscienza garantita dalla Costituzione» e nel ’24 e ’25 sotto i gabinetti «mediani» di Marx e Luther s’erano iniziati i lavori preliminari. Ma la cosa rimase lì, parte per le difficoltà intrinseche, parte per il timore di nuove agitazioni confessionali. Bisogna ricordare che anche cent’anni fa, il Concordato bavarese era rimasto il solo conchiuso su territorio germanico. Per gli altri stati si era ricorsi al metodo delle Bolle (VI) emanate a Roma e pubblicate poi con decreto reale nella raccolta delle leggi. Ma tanto in Baviera come negli altri stati il Concordato e le Bolle non vennero poi rispettati che per quella parte che rappresentava concessioni della Chiesa allo Stato; in via di fatto tutte le ordinanze dei vescovi, anche l’emanazione delle Bolle, erano sottoposte al placet regio, tanto che Pio VIII dovette protestare contro codesta «probrosa, miserrima servitus!». Anche qui fu il ’48 che recò una parziale libertà e al soffio delle nuove idee i vescovi trovarono l’ardimento di raccogliersi a conferenza a Würzburgo , senza chiedere il nulla osta governativo e per l’impulso venuto da Francoforte, come abbiamo visto, la Chiesa cattolica ebbe poi piena autonomia in Prussia. Non l’ebbe invece negli Stati meridionali, fino allo statuto di Weimar! Ben si capisce del resto, dopo le esperienze del secolo XIX, che anche la diplomazia pontificia proceda con tutte le cautele e attenda con pazienza il tempo opportuno. A che giova infatti il più bel Concordato se manca la lealtà dell’applicazione? A che giovano i trattati se nessuna forza monta la guardia per vigilarne l’esecuzione? E qui la forza non può essere che la forza morale e giuridica che si fa valere nelle coscienze e, nella sua espressione politica, attraverso la scheda elettorale. Vorremmo chiudere questa nostra rassegna con un sintomo favorevole, col riavvicinamento cioè dei bavaresi al Centro. Staccatisi nel 1920, per ragioni federaliste e sotto l’influsso predominante del Dottor Heim di Ratisbona, il noto «re dei contadini» della Baviera, i 19 deputati del «partito popolare bavarese» – oggi 16 – si trovarono accanto al Centro sulla linea dei governi mediani prima e dopo il ’24, e nella maggioranza del ’27. Ora, dopo ripetute conferenze, presiedute da Marx, oltre che dividere la sfera di competenza nella Baviera e nel Palatinato, gli accordi stabilirono che al Reichstag Centro e popolari costituirebbero una comunanza di lavoro (Arbeitsgemeinschaft). Se ciò porterà poi alla fusione è difficile prevedere, benché nel congresso di Colonia (dicembre 1928) essa fu invocata d’ambe le parti. Lo sfondo politico-psicologico del dissenso è probabilmente più ampio di quello che appaia per l’attaccamento alla casa cattolica dei Wittelsbach e per la loro origine politica agrario-conservatrice. La reazione contro l’esperimento di dittatura proletaria subita da Monaco li ha spinti all’alleanza coi tedesco-nazionali, coi quali condividono il governo locale. Nel ’25, quando si trattò di eleggere il presidente del Reich, Hindenburg venne preferito a Marx, perché attorno al maresciallo si erano suscitate delle speranze revisioniste. Ad ogni modo, la pattuita Arbeitsgemeinschaft va considerata come la chiusura di un periodo assai critico, nel quale gl’interessi politici divergenti avrebbero potuto creare un contrasto di scuole e dottrine politiche, e portare infine ad uno spirito di reazione monarchico-conservatrice che il Centro, movendosi sulla linea di mezzo, aveva saputo superare. I cattolici germanici non ebbero né un Lacordaire né un Montalembert, ma nemmeno un De Maistre o un de Bonald. La «controrivoluzione» che doveva a varie riprese conquistare in Francia gli animi dei cattolici fino a sboccare nell’Action française, non ebbe in Germania, et pour cause, molti aderenti. Il sistematico della controrivoluzione, è vero, l’Haller (VII), era un tedesco, ma egli ebbe più discepoli in Francia e in Italia che in Germania. Federico Gents era nato, è vero, a Breslavia, ma la sua attività politica di legista reazionario, la svolse a Vienna, accanto al Metternich. I cattolici più occidentali invece, in mezzo ai quali doveva sorgere il Centro, ascoltavano la voce del Reno. Dal Reno, da Coblenza giunge prima la voce di Görres , il grande scrittore romantico che fondeva nel sua spirito profetico un sano liberalismo cosmopolita col conservatorismo nazionale che diverrà poi in lui, come in quasi tutta la scuola romantica, cattolicismo. Egli è gran tedesco, sogna cioè la risurrezione del sacro impero, ma è contro Metternich, e ai principi raccolti a Verona ricorda le loro promesse costituzionali. È contro il cesaropapismo, per la libertà della Chiesa, ma ricorda ai cattolici le esigenze della tolleranza civile. Più tardi risuona la voce da Magonza. Anche Ketteler, allora semplice parroco, ha avuto il suo quarto d’ora quarantottesco, tanto che all’assemblea di Francoforte, nei primi giorni siederà all’estrema sinistra, ma poi il suo senso pratico, la penetrazione del suo spirito nei problemi sociali e sovratutto le esigenze della difesa religiosa nelle condizioni di fatto che la storia ha imposto al suo paese gli fanno superare rapidamente le discussioni del cosidetto «cattolicismo liberale» che furono invece il tormento di tanti francesi, ad esempio del Dupanloup . La situazione di una minoranza cattolica di fronte ad una maggioranza eterodossa porta naturalmente a pericoli gravissimi; ma ha almeno il vantaggio d’essere chiara e di permettere l’esatta visione dei limiti fra le tesi e l’ipotesi, fra l’ideale e il raggiungibile. Inoltre in Ketteler è lo spirito democratico che giova a fargli superare il legittimismo. Agli albori del nuovo impero, nel quale i cattolici vedevano una vittoria del prussianismo contro l’Austria cattolica egli, che già in uno scritto precedente aveva parlato del trucco della sovranità dellassolutismo monarchico, scriveva (VIII): «Molti si sono abituati in simili questioni a porre in cima a tutto il riguardo per la dinastia regnante, a cui sono attaccati per sentimento d’affetto e di lealtà, e di misurare tutto con tale metro… Ma accanto ai diritti degli Absburgo, degli Hohenzollern, dei Wittelsbach ecc. anche il popolo tedesco ha dei diritti sulla costituzione dell’impero e in base a tali diritti, noi dobbiamo unirci». Tale terreno esige che il Centro agisca in base alla norma che l’Action libérale populaire formulerà, appena trent’anni dopo, nel motto: «Liberté pour tous, égalité devant la loi». Ma ancora trent’anni dopo, il de Mun e Piou dovranno difendersi per questo atteggiamento dall’accusa di liberalismo, mentre tale è l’evidenza delle condizioni di fatto in Germania, che nessuno oserà mai mettere in dubbio che per i centristi ciò sia «une question de conduite et non pas de doctrine» (IX). Per la stessa ragione, cioè per la concezione realistica delle condizioni giuridiche e politiche di fatto, particolari alla Germania, il centrismo si sentì indotto al tentativo sempre rinnovato e mai riuscito di creare un forte partito, di carattere non confessionale. Ma istintivamente e quasi dapprincipio inconsapevolmente, la questione che ai cattolici d’altri paesi può esser parsa talvolta d’un’inopportunità quasi offensiva, assunse poi un carattere ed una funzione più generale. Il Centro era nato in mezzo alla tempesta suscitata dal liberalismo anticlericale contro il Sillabo e il Concilio vaticano. Uomini venuti da tutte le parti, dall’assolutismo monarchico fino al più acceso radicalismo, si erano trovati concordi nel gridare che i dogmi e i principi della Chiesa cattolica erano inconciliabili con lo sviluppo dello Stato costituzionale e rendevano quindi impossibile un partito, il quale avesse in programma la difesa religiosa e volesse contemporaneamente agire sul terreno politico, in perfetta lealtà verso le leggi fondamentali del paese. Se un partito sorgeva con tale programma, esso non poteva in pratica che tradirlo: o tradire cioè la Chiesa e la religione e questo si chiamava clericalismo, abuso cioè ed asservimento della religione a scopi politici, o tradire lo Stato questo si chiamava confessionalismo, ossia l’ingerenza della Chiesa nella sfera politica della sovranità dello Stato. È dunque tutta la questione del rapporto fra Chiesa e Stato che si cela sotto la parola confessionalismo. Ebbene il Centro in verità non è riuscito a levarsi di dosso l’epiteto di confessionale, nonostante tutte le proteste, perché il Kulturkampf l’ha cacciato, forse per sempre, entro le barriere confessionali, ed esso è rimasto così – con poche eccezioni – la rappresentanza politica della maggioranza dei cattolici tedeschi (X). Ma la sua linea di condotta sempre seguita in confronto delle libertà civili dei diritti popolari, il contributo cospicuo dato alla legislazione e, dopo la guerra, al governo dello Stato rappresentano ormai un esperimento pratico, che supera gli epiteti e rende innocue, se anche non fa tacere, le antiche accuse… È quello che riconosce anche Georges Blin in un suo libro «L’Allemagne mise à nu» , ove si esalta la politica liberale ed equilibratrice del Centro nel dopoguerra. E questo è il valore politico generale del Centro germanico, valore più largamente esemplificativo di quello della destra belga, perché la sua sfera d’influenza si estende a tutta l’Europa centrale. ANNOTAZIONE BIBLIOGRAFICA Carlo Bachem ha pubblicato, in un’edizione di lusso della sua casa editrice, la preistoria e la storia del movimento centrista, che alla fine del terzo volume, giunge solamente fino al 1880, non esaurisce cioè nemmeno il Kulturkampf. Da ciò si può immaginare quale ampiezza sia data alla preistoria, che in realtà comprende tutto il movimento cattolico e la narrazione dei rapporti fra Stato e Chiesa in Germania dal 1815 in qua. Ecco il titolo esatto dell’opera: K. BACHEM, Vorgeschichte, Geschichte und Politik der deutschen Zentrumspartei, presso Bachem, Colonia, 1927. Per questo periodo è utilissimo leggere le biografie dei fondatori del Centro. August Reichensperger, 2 v., di LUDOVICO PASTOR, Herder, 1899, Herm. v. Mallinckrodt del PFULF, Herder, 1901 e sovratutto la grande biografia del Windthorst di HUSGEN, dalla quale abbiamo tolto anche la maggior parte di citazioni dei discorsi di Windthorst, che compaiono in questo nostro lavoro: L. Windthorst del DR. E. HUSGEN, Bachem, Colonia 1927 (ora il piccolo volume di MARTINO SPAHN, Das deutsche Zentrum, Kirchleim, Monaco, 1926). I dati statistici sullo sviluppo del Centro, dal 1871 in qua, Si trovano in SCHAUFF, Die deutschen Katholiken u. die Zentrumspartei, Colonia, Bachem, 1928. Uno studio completo sull’attività sociale del Centro, che noi abbiamo dovuto trascurare, è dato da LORENZO ZACH, 50 Jahre Zentrum 1871-1921, Berlino, 1921. Altre pubblicazioni in argomento per il dopo guerra, nell’Annuario, 1925. Dal 1925 in poi il prof. SCHREIBER pubblica presso il Volksverein di München- Gladbach un annuario politico, che riferisce su tutta l’azione politico-parlamentare dell’anno. È un manuale ricchissimo che contiene fra l’altro anche notizie bibliografiche su tutti i partiti. In quello del 1925 Si trova l’elenco di parecchie centinaia di pubblicazioni sul Centro, per il periodo 1914-1925. L’ultimo annuario pubblicato è: Politisches Jahrbuch 1927-1928, München-Gladbach. Per le questioni speciali accennate in questo lavoro si veda la storia del Kulturkampf del KISSLING (I. KISSLING, Geschichte des Kulturkampf, 3 v., Herder 19111916 e il libro sempre attuale del GOYAU, Bismarck et l’église, Paris, 1911. Le questioni politico-ecclesiastiche nello statuto di Weimar sono trattate con grande competenza e chiarezza dal I. MAUSBACH, Kulturfragen in der deutschen Verfassung, M. Gladbach,. 1920. Ora bisogna completare con RHEINLANDER (il relatore della legge), Das Reichsschutzgesetz, in Pol. Jahrbuch, 1927-1928 e MAX BIERBAUM, Das Konkordat ecc. Herder, 1928. Il libro di IOOS, Die politische Ideenwelt des Zentrums, Karlsruhe, 1928, dà un’idea delle tendenze del «giovane Centro»; i discorsi di Wirth (Berlino,’24 e 1926) definiscono la linea «democratico-cristiana», com’egli la chiama. Alcune opere di dottrina politica abbiamo citato durante questo lavoro. Una formulazione dottrinale del pensiero politico dei cattolici tedeschi si trova in: Staatsgedanke der deutschen Nation di Mons. PIEPER, M. Gladbach, 1928. I Nell’Annuario ecclesiastico 1920, edito dall’Herder. II Un largo riassunto di questo memoriale è stato pubblicato, evidentemente da persona ben informata in: Civitas, dicembre 1924. III Unsere politische Linie im deutschen Volkenstaat, Berlino 1924. IV Op. cit., p. 46. V Die politische Ideenwelt des Zentrums von Josef Joos, Karlsruhe. VII Karl Haller n. 1763 a Berna, autore della Restauration der Staats-Wissenschaft, morto a Sölothurn nel 1854. VIII Die Katholiken im deutschen Reich, 1871-73. Per gli opuscoli politici del vescovo di Magonza vedi: C. BACHEM, op. cit., vol. II. IX PIOU nella sua biografia del de Mun (p. 226) racconta d’aver difeso il programma dell’Action libérale in un colloquio con Pio X e che il card. Merry del Val, presente, disse assentendo: «C’est pour vous une question de conduite et non pas de doctrine». X Ancora dopo la guerra Guglielmo II nelle sue memorie scrive che «il Centro è l’unico in Europa che si presenti come partito confessionale in una assemblea politica e che dipenda spiritualmente da una potenza estera»: parola d’oltretomba, che fanno comprendere perché i centristi non intendano per loro conto di sollevare la pietra dal sepolcro di tale dinastia.
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Un romanziere tedesco, ormai celebre, Enrico Mann , scriveva ancora nel dicembre del 1925 in un grande foglio liberale di Berlino: «In Berlino i teatri stanno vuoti, mentre un oratore ecclesiastico riempie sempre, pur che lo voglia, le sue sale. L’oratore in talare domina il suo pubblico più di qualsiasi attore drammatico. Egli rappresenta delle idee. Le sue mani costruiscono le idee sotto gli occhi del pubblico e le sue pupille sembrano proiettarle nello spazio. Il suo corpo sotto l’impulso del pensiero che lo domina, è come si movesse attorno agli uditori e li circuisse e li spingesse d’ogni parte verso l’uscita, che è la fede. Non l’hanno ancora raggiunta. Ma essi trattengono il respiro, e può essere che in questo raccoglimento che li soggioga, arrivino fino a lei». Si potrebbero citare a centinaia i giornali, per lo più protestanti o acattolici che prima o dopo il ’25 scrissero in un senso altrettanto ammirativo intorno a questo prete cattolico . E siccome la sua fama non è spenta, ma ingrandisce ogni giorno e il conferenziere s’avvia colle sue ultime pubblicazioni a diventare uno scrittore di un genere assai diverso dal tipo usuale dell’erudito tedesco, non sarà fuor di luogo di farlo conosce anche in Italia. Il «cappellano» – egli ama adornarsi di quest’epiteto modesto insieme e battagliero – Helmut Fahsel nacque a Kiel nel 1891 da genitori protestanti. Suo padre, pubblicista di grande talento e di chiara fama, gli venne a mancare già nel sesto anno di età, cosicché il piccolo Helmut venne allevato a Berlino – in casa di uno zio – assai ricco. Helmut non fu quello che si dice uno scolaro diligente; preso anzi dalla mania dei libri e dello sport, troncò a mezzo il ginnasio per entrare come volontario in una grande libreria. Fu qui che nacque e si sviluppò in lui una vera passione per le letterature antiche, per la greca soprattutto, tanto da indurlo ad apprendere il greco a perfezione. Accanto ad Epiteto e Marc’Aurelio incominciò a interessarsi anche del buddismo e, attraverso questo, di Schopenhauer. Un giorno gli capita in mano «la via più breve della perfezione» del gesuita spagnolo P. Nieremberg e d’allora in poi incomincia ad interessarsi della mistica cattolica, specie dei mistici tedeschi, come il Taulero e il Susone . In queste letture rimane colpito dal contrasto fra il pessimismo schopenhaueriano e l’attivismo ascetico dei mistici cattolici, contrasto che descriverà poi in un ciclo delle sue conferenze. È attraverso le citazioni dello stesso Nieremberg che impara a conoscere Tommaso d’Aquino, del quale lo attrae sovrattutto la fusione dell’ellenismo aristotelico colla mistica e coll’ascetica cristiana. Ed eccolo a studiare e far transeunti dalla Somma. A questo punto la sua conversione intellettuale è compiuta, ma la conversione del cuore s’era già iniziata colla sua prima conoscenza delle suore cattoliche, avuta durante un’operazione alla clinica. Quando scoppia la guerra europea, Helmut Fahsel ha già ripreso e compiuto il liceo e prima di partire per il campo, ha attuata anche formalmente la sua conversione al cattolicismo. Ma al fronte non rimane a lungo; in Ypres cade ammalato e quindi rimpatria. Ora può soddisfare a quello che frattanto è divenuto il suo voto: farsi prete cattolico. Ed eccolo inscritto alla Facoltà teologica d’Innsbruck e poi a quella di Breslavia, donde nel 1920 esce ordinato sacerdote. Dal 1920 al 1924 è cappellano in Neukölln, sobborgo di Berlino. È qui che comincia la sua carriera di conferenziere. Sono dapprima conferenze di carattere religioso e filosofico in piccoli ambienti cattolici, poi un ben riuscito contraddittorio con un comunista lo spinge sul proscenio dei grandi saloni. Il cappellano Fahsel parla nella «Filarmonica» di Berlino , e in ambienti consimili, ove spesso gli uditori sono in maggioranza acattolici. Una volta, per iniziativa di una società semita affronta il tema «religione e tolleranza»; un’altra volta fa una celebre discussione con un dotto miscredente: dalla quale nasce il suo libro «colloqui con un ateo». Oggetto delle conferenze alla Filarmonica sono la verità, la bellezza e la bontà del mondo delle idee. Ecco, per esempio, il ciclo dell’inverno 1926-27: «L’influsso dell’idea sugli uomini», «Platone e l’origine delle idee», «Kant e la critica della conoscenza», «Goethe e l’uomo faustico», «Matrimonio e amore», «Idea di Stato e concezione della vita», «Budda e Nirwana», «Legge naturale e moralità», «Arte e morale», «Genio e carattere». Il Fahsel parla liberamente su appunti in una forma scelta e con grande chiarezza ed eleganza di termini. Del suo metodo e dei suoi successi possiamo darci ragione leggendo le sue pubblicazioni, edite dall’Herder. Ai «colloqui con un ateo» abbiamo accennato più sopra. Un altro ciclo di conferenze è sintetizzato nel «superamento del pessimismo» (Herder 1925) , libro con evidenti riflessi autobiografici, che contrappone al sistema di Schopenhauer il pensiero della mistica e dell’ascetica cristiana, l’affermazione cioè della speranza e della vita attraverso la sofferenza e l’abnegazione. In modo mirabile, delicato e tuttavia esauriente, si occupa il Fahsel dell’amore e del problema sessuale in «Ehe, Liebe und Sexualproblem», pubblicato dall’Herder nel 1928 e giunto oramai a 14 mila copie . Nella prima parte si parla dell’eros dal punto di vista platonico, lumeggiando il famoso «Convito» del filosofo greco e passando da questo alla filosofia cristiana; la seconda tratta dell’eros nel matrimonio, nella generazione nella famiglia; la terza s’occupa del problema sessuale in genere, com’esso si presenta nella vita moderna, risalendo infine all’eros che aspira nell’unione mistica a Dio stesso. Negli ultimi tempi il Fahsel, alleggerito per consenso dei superiori obblighi fissi e giurisdizionali della cura d’anime, ha costituito a Berlino un «ufficio tomistico» col proposito di dedicare tutto al suo talento di conferenziere e di scrittore alla volgarizzazione del pensiero dell’Aquinate. Di questa serie di lavori è già uscita per cura del Fahsel la traduzione del commento di S. Tommaso alla lettera paolina ai Romani, ed altri volgarizzamenti sono in preparazione.
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Il trattato sottoscritto recentemente dal nunzio Mons. Pacelli e dal ministro prussiano riguarda i seguenti punti fondamentali: 1. Una nuova ripartizione delle diocesi, per cui si creano ex novo i vescovadi di Aquisgrana e di Berlino e si elevano ad arcivescovadi quelli di Paderbon e Breslavia. 2. Una nuova procedura per la nomina dei vescovi che rimane regolata così: in caso di vacanza i capitoli ed i vescovi mandano le loro proposte alla S. Sede. Il Papa sottopone una terna al capitolo competente il quale elegge da questa terna il vescovo, a scrutinio segreto. A nomina fatta, il capitolo s’informa presso il governo se non sussistano contro il designato obiezioni di carattere politico. Il Papa infine dà all’eletto l’investitura, ma (art. 6) «la S.S. non investirà del vescovado nessuno, di cui il Capitolo, dopo la nomina, non abbia constatato con domanda al governo che non esistono contro di lui obiezioni d’indole politica». Finora i vescovi venivano eletti dai capitoli i quali, per metà, erano nominati dal governo. La nuova procedura rappresenta dunque una via di mezzo fra la procedura vecchia e quanto stabilisce il diritto canonico, che riserva la nomina dei vescovi al Papa. Il trattato prevede però anche 3. un nuovo modo di nominare i membri dei capitoli, i quali verranno nominati, alternativamente, dai vescovi e dai capitoli stessi, mentre finora erano nominati alternativamente dai vescovi e dallo Stato. La nomina alle dignità (decano, prevosto) è riservata al Papa. 4. Per la nomina alle «cariche ecclesiastiche» (vescovo suffraganeo, vicario, canonico), e ai posti d’insegnanti nei seminari diocesani sono necessari i seguenti requisiti a) la cittadinanza germanica, b) l’attestato di maturità, c) l’assolvimento di un corso teologico-filosofico di almeno tre anni nelle università dello Stato, nei seminari vescovili od in un scuola superiore pontificia di Roma. Almeno due settimane prima della nomina di un sacerdote a membro di un capitolo od a professore di seminario l’autorità ecclesiastica, a cui compete la nomina, ne darà preavviso all’autorità governativa fornendo i dati che comprovano l’avverarsi di tali premesse. In caso invece di nomina a vescovo suffraganeo, amministratore vescovile o vicario, tale annunzio verrà fatto subito dopo la nomina. Un articolo aggiuntivo dichiara però esplicitamente che tanto nel primo come nel secondo caso è escluso ogni diritto di ingerenza da parte dello Stato, e nell’introduzione a tutto l’articolo si rileva che i requisiti di sopra precisati si richiedono «con riguardo alla dotazione (statale) assicurata con questo trattato alle diocesi e ai seminari diocesani». Per la nomina ad un posto di parroco infine si stabilisce che il vescovo ne debba dare notizia all’autorità statale, subito dopo avvenuta la nomina. Fanno eccezione le nomine di «patronato regio» che fino all’applicazione integrale della Costituzione (art. 138) verranno fatte dallo Stato, previo accordo col vescovo. A questo punto è confermata dunque anche per forza di trattato la clausola della Costituzione di Weimar, che esclude ogni ingerenza dello Stato nella nomina ai benefici e alle cariche ecclesiastiche ed è definitivamente abolito il famoso «Anzeigepflicht» (obbligo di denuncia preventiva) nato nel Kulturkampf e rimasto anche dopo l’accordo concluso fra Leone XIII e Bismarck. 5) Per l’educazione del clero vengono conservate le facoltà teologiche nelle università di Breslavia, Bonn, Monastero e Braunsberg e vengono riconosciuti i diplomi delle facoltà universitarie austriache; inoltre l’arcivescovo di Paderbonn , i vescovi di Treviri, Fulda, Limburgo, Hildesheim e Osnabrück sono autorizzati a mantenere i loro seminari. Prima di nominare i professori delle facoltà teologiche statali verrà interpellato il vescovo competente se contro il candidato sussistano obiezioni dottrinali o morali e la nomina avverrà soltanto dopo che il vescovo avrà dato il nulla osta. Qualora un professore col suo insegnamento o coi suoi scritti urtasse contro la dottrina della Chiesa o provocasse scandalo per la sua condotta, il vescovo ne farà denuncia al ministro dell’istruzione, il quale – salvi i diritti contrattuali del colpito – provvederà alla sostituzione. 6) La dotazione alle diocesi e ai seminari è aumentata, con riguardo al deprezzamento del danaro e all’aumento del personale, da milioni 1,8, a 2,8. È superfluo avvertire che qui non si tratta delle congrue ai parroci, le quali vengono regolate con apposita legge e superano i 20,1 milioni, mentre per i pastori protestanti si spendono più di 50 milioni. In questi sei punti ci pare di aver riassunto chiaramente quello che di concreto contengono i 14 articoli del trattato. Gli elaboratori di questo documento, che per non ledere le suscettibilità dei protestanti non si chiama ufficialmente nemmeno «concordato» hanno lavorato di scalpello e di lima per renderlo nella forma più magro e più scarnito che fosse possibile, evitando qualsiasi affermazione di principio o di indole generica. I due unici capoversi che potrebbero meritare questo titolo sono tolti quasi di peso dallo statuto di Weimar. Dice infatti l’art. 1: «Lo Stato prussiano concederà la protezione della legge alla libertà del culto e all’esercizio della religione della Chiesa cattolica»: corollario questo nella sostanza e nella forma dell’articolo che nella costituzione di Weimar garantisce e mette sotto la protezione della legge la libertà religiosa . Dice inoltre l’art. 5: La proprietà e gli altri diritti degli enti di diritto pubblico, degl’istituti e delle fondazioni della Chiesa cattolica restano garantiti sulla base della costituzione del Reich. Salterà poi subito all’occhio che manca qualsiasi disposizione riguardante il matrimonio e la scuola. Si potrebbe dunque forse dire che questo tipo di convenzione sta al Concordato, come il moderno trattato d’amicizia e d’arbitrato sta al patto d’alleanza. È chiaro però che anche una tale convenzione limitata è possibile solo quando anche negli altri campi non contemplati, ma affini sussista in via di fatto un modus vivendi accettabile o almeno tollerabile. È il caso della Prussia. La Costituzione di Weimar, pur affermando all’art. 137, capv. 1 che «non vi è religione di Stato» e proclamando con ciò la separazione dello Stato dalla Chiesa o, più esattamente, dalle «società religiose», come lo statuto qualifica la Chiesa cattolica e le sette protestanti o le comunità ebraiche, e arrivando a stabilire in via di massima che tale separazione verrà attuata liquidando i contributi dello Stato per il culto, capitalizzando cioè tali dotazioni in un importo che verrebbe assegnato una volta tanto alle «società religiose» (art. 138), non può dirsi intenzionalmente ostile al cattolicismo o alla religione in genere e nemmeno del tutto indifferente. L’art. 135 infatti stabilisce che «lo Stato garantisce e protegge l’indisturbato esercizio della religione». All’art. 137 è detto che «la libertà di unirsi in società religiose è garantita», che «ogni società religiosa ordina ed amministra i suoi affari indipendentemente», senza ingerenza dello Stato, che «le società religiose ch’erano considerate finora enti di diritto pubblico rimangono tali anche in seguito», che «la proprietà delle società religiose, dei loro istituti, delle loro fondazioni ecc. è assicurata». In breve la Costituzione di Weimar ha portato la Chiesa cattolica ad una situazione di libertà, sia pure nel diritto comune, che mai ebbe nel passato regime e che appunto si riflette nel Concordato, nel quale, tolta la cosidetta «clausola politica» della nomina dei vescovi, è scomparsa ogni possibilità d’ingerenza statale. Si aggiunga che lo statuto di Weimar mantiene il riposo domenicale , conserva le facoltà teologiche alle università dello Stato , riconosce le «società religiose» come enti di diritto pubblico , concede piena libertà agli ordini religiosi. In un articolo transitorio poi si stabilisce che fino alla liquidazione prevista dall’art. 138 (né sembra che la situazione finanziaria possa, in un termine prevedibile permettere una siffatta operazione), lo Stato continuerà a pagare i contributi al clero e le dotazioni alle diocesi. È su questo provvisorio che poggia il concordato, fissando un aumento della dotazione, e sia pure stabilendo che nell’eventuale liquidazione si dovrà prendere per base la cifra attuale. Sicché da questa situazione risulta che la Chiesa profitta della libertà, senza perdere il contributo finanziario statale, circa il quale si è riconosciuto a Weimar, trattarsi di impegni doverosi, assunti all’epoca dell’incameramento. In quanto alla scuola è noto che i vari disegni di legge elaborati da parecchi gabinetti e specialmente dall’ultimo ministero Marx non sono mai giunti in porto. Vige anche qui il provvisorio, il quale però in base agli articoli transitori dello statuto, vuol dire continuazione dello stato presente, ossia per la Prussia, la scuola confessionale. Del resto le norme generali dello statuto non sono ostili. In uno studio notevole pubblicato dalla Rivista Internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie (I) si è dimostrato che in base all’art. 149 in tutte le scuole tanto interconfessionali (simultanee) che confessionali l’insegnamento della religione «viene considerato come materia normale e ordinaria» (obbligatoria, salvo dichiarazione dei genitori). Da ciò rimangono escluse solo le cosidette scuole laiche, quelle cioè che su apposita dimanda di un certo numero di genitori, dovessero erigersi; poiché è da segnalare che lo statuto proclama all’art. 120: «L’educazione dei figlioli a capacità fisica, spirituale e sociale, è supremo dovere e naturale diritto dei genitori, sulla cui opera vigila lo Stato». Per quanto infine riguarda il matrimonio, lo statuto del 1919 non ha toccato il codice civile limitandosi a dichiarare all’art 114: «Il matrimonio, base della vita famigliare, della conservazione e dell’accrescimento della nazione, sta sotto la speciale protezione dello statuto. Compito dello Stato e dei comuni è di mantenere pura e sana la famiglia e di promuovere il sociale progresso. Le famiglie numerose hanno diritto a provvidenze compensatrici». È rimasto in vigore così il matrimonio civile obbligatorio introdotto in Prussia nel 1875. Né lo statuto di Weimar né il trattato modificano minimamente le condizioni giuridiche create dal codice civile del Reich del 1890, il quale si limita ad accennare al matrimonio religioso nella seguente clausola: «Gli obblighi religiosi circa il matrimonio non vengono toccati». Lo Stato ha invaso qui il campo legislativo della Chiesa e la fatale scissione in sette innumerevoli rende più difficile che altrove la riconquista. Sarà lecito tuttavia di concludere che il presente trattato pur fondandosi sulla Costituzione, aggiunge alle garanzie che la Chiesa cattolica vi aveva ottenute in base al diritto comune e alla sua posizione storica anche la sicurezza di un patto bilaterale, il quale mette di fronte allo Stato non semplicemente una «società religiosa», quale ente di diritto pubblico riconosciuto, ma la Chiesa universale rappresentata dalla S. Sede e dal Papato. A questo risultato hanno certamente concorso la forza politica dei cattolici tedeschi, l’abilità della diplomazia pontificia e il crescente prestigio della S. Sede; ch’esso sia stato tuttavia possibile dopo una rivoluzione antimonarchica, in regime di sinistra e trattando con un presidente del Consiglio socialista, significa che le vie della Provvidenza sono davvero imperscrutabili.
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Vi sono certamente degli specialisti che conoscono e seguono da vicino il cammino delle idee nella vita intellettuale russa, ma questi specialisti sono rari e non tolgono che la Russia rimanga per noi occidentali una zona grigia, quale fu per gli Europei dei secoli passati la storia bizantina. È per questo che qualunque cosa accada in Russia, ha sempre per noi il bagliore di un incendio o il rombo di una catastrofe. Tuttavia anche dietro la vampa dei roghi, accesi per bruciare le icone, si disegna tra il fumo e la nebbia il sentiero tortuoso, percorso prima dalle generazioni che oggi portano legna alla fiamma sacrilega. In un recente libro che descrive il «dramma del dittatore bolscevico» e che del resto, studiando psicologicamente Lenin, non ha da occuparsi spesso di cose religiose, s’incontra un capitolo, nel quale Ulianow è alle prese col «pericolo mistico». Siamo a Ginevra nel 1907, dopo cioè il fallimento dell’insurrezione di Mosca, quando Lenin tenta di riprendere la propaganda rivoluzionaria per mezzo di un giornaletto che fa arrivare clandestinamente in Russia . Il pericolo più grave – pensa Lenin – che incombe sui rivoluzionari sconfitti è il ritorno al misticismo. La storia dei social-rivoluzionari aveva sempre oscillato come un pendolo fra l’atto terrorista e il misticismo. Dopo la repressione e la sconfitta i terroristi si abbandonavano alle cose dello spirito e perdevano lo slancio e l’ardimento combattivo. Non poteva ora ripetersi, anche per i socialisti, una tale iattura? Lenin era un bigotto del materialismo storico: per lui quindi il misticismo comprendeva non solo ogni tendenza trascendentale, ma qualunque moto dello spirito, qualunque ideologia che oltrepassasse i limiti del più gretto positivismo scientista. Ora a Ginevra il «pericolo mistico» era penetrato perfino nella minuscola redazione del giornale clandestino. Lunaciarski , il futuro ministro dell’istruzione, vi faceva passare degli articoli che insistevano su frasi pericolose, come queste: «Non pensare che là ove tu non vedi niente, incominci la notte». Perfino il Gorki scriveva in quel tempo il suo racconto dello scalzo vagabondo che cerca la verità e rivelava nella descrizione di una «confessione» una tal quale aspirazione a mirare il volto di Dio. Da Vienna poi era penetrata nei circoli dell’emigrazione russa la teoria del Mach , che era una specie di soggettivismo delle sensazioni, invece che delle idee. Lenin ne è allarmato e scrive un libro per confutare tutte queste tendenze e teorie: «Marxismo e empirio-criticismo, osservazioni critiche su una filosofia reazionaria» . Reazionaria? Sicuro. «Perchè – esclama inorridito Lenin – se la verità è soltanto soggettiva e solo una conclusione di quello che è sentito o visto o vissuto, allora può aver ragione perfino la Chiesa cattolica, perché anche il Cattolicismo è una forma dell’esperienza umana». Perfino la Chiesa cattolica? Sentite la forza di quest’argomento rivolto da un ateo dell’«ortodossia» russa ad uomini che hanno percorso lo stesso cammino spirituale? Codesti ex-credenti non sono mai atei abbastanza per lasciare sulla porta, assieme alle spoglie della loro fede, anche il pregiudizio, l’avversione contro la Chiesa cattolica, che fu loro instillata col latte materno. Lenin guarda al Cattolicismo cogli occhiali dell’«ortodossia», anche quando di questa ortodossia crede aver scalfitto dall’anima ogni più leggera impronta, e attraverso gli stessi vetri appannati dalla nebbia russa egli vede anche il «pericolo mistico»! Nella sua patria, in verità, accadono o accadranno tra poco delle cose molto strane. I mistagoghi e gli occultisti dominano i salotti di Pietroburgo. Gli «jurodiwi», cioè i «santi idioti» non sono venerati soltanto dai contadini, che nella loro glossolallia farneticante sentono i responsi dell’oracolo divino, ma essi compaiono anche nella capitale e vengono ospitati perfino a Corte. L’Imperatore convoca la Duma, solo dopo aver consultato, attraverso il medium, lo spirito di Alessandro III. E poi basterà ricordare solo un nome: Rasputin . Il libro del Fülöp Miller , ristampato in questi giorni in una seconda edizione, fu letto anche in Italia da troppi, perché occorra addentrarsi in molti particolari. Anche per i pochi che dalla letteratura russa avevano previamente attinta una cognizione sufficiente intorno ai «clysti», sul conto degli staretz più o meno taumaturghi e dei monaci girovaghi, la carriera spettacolosa di questo Gregori Jefimovic rimane inesplicabile. Questo muschik dalla capigliatura incolta, dalle mani sporche e dal linguaggio sconcio, il quale viene corteggiato dai più alti funzionari statali, e adorato dalle dame dell’aristocrazia che vedono brillare nei suoi occhi la luce dello Spirito Santo… non c’è forza di fantasia che valga a trasferirlo in un ambiente occidentale. Per quanto lo si studi e lo si scruti, egli rimane un mistero. Perché? Perché lo consideriamo attraverso le lenti del Cattolicismo. Ecco che anche nel caso nostro come in quello di Lenin c’è di mezzo una zona grigia e spessa, attraverso la quale la luce penetra a fatica: lo scisma. Come facciamo noi a capire quell’archimandrita Theophan , rettore del seminario di Pietroburgo, che ci vien descritto quale uomo pio, per quanto ambizioso? Egli ha pur ascoltato il Rasputin quando predicava ai suoi seminaristi: «Peccate pure, una volta che il peccato è in voi; solo così potete superare il peccato. Peccate, poi vi pentirete e vi libererete dal peccato». Nel sentire tali eresie l’archimandrita ha risposto subito che ciò contraddiceva al Vangelo, ma per qual ragione ha poi presentato il Rasputin al vescovo Ermogeno e al celebre predicatore Eliodoro ? E come mai questi tre uomini che in quel momento dominano la Chiesa russa, introducono il Rasputin nei circoli ultra conservativi e clericali della Russia, presentandolo come il vero muschik russo, come il rappresentante del popolo teoforo? Vero che più tardi, quando il Rasputin sfrutterà l’irresistibile influenza ch’esercitava sullo Zar per far elevare all’episcopato figure equivoche e s’allargherà la macchia d’olio della sua vita scandalosa, gli alti dignitari ecclesiastici eviteranno di compromettersi pubblicamente con lui. Ma per quanto tempo il monaco Eliodoro non lo accompagnerà ancora fino al confini del suo distretto con una processione, quale nei paesi cattolici si muove non dietro un Santo, ma appena dietro le reliquie Sue? E il metropolita di Pietroburgo non manterrà fino alla fine per quanto a controvoglia, i rapporti con Rasputin, mandando periodicamente da lui il suo segretario? Colpe senza dubbio anche del sistema cesaropapista. Il cadetto Miliukov , ministro di poi con Kerenski , mette il dito nella piaga quando alla Duma grida che la Chiesa è in mano dello Stato e lo Stato in mano di Rasputin. La sua protesta sarà la diana della rivoluzione. L’esule Lenin la sente e trasalisce di gioia e già vede la dittatura proletaria che strozzerà la Chiesa, per salvare così lo Stato dal «pericolo mistico». Poiché un ateo dell’«ortodossia» può immaginare una fede, un movimento religioso che non sia anche e sovrattutto politico? Il povero Rasputin ha parlato una volta anche del Cattolicismo. In un suo diario scritto durante un pellegrinaggio in Terra Santa, scrive: «Ho assistito a Gerusalemme anche alla Pasqua dei Cattolici che si celebra una settimana prima della nostra. Ma questa festa non è nemmeno da confrontarsi con quella della Chiesa ortodossa. I Cattolici non hanno affatto l’aspetto lieto, mentre da noi tutti, perfino gli animali, sono pieni di gioia in quel giorno! Noi altri ortodossi siamo felici e la nostra fede è la più bella di tutte». Come si vede questa citazione impressionistica non è interessante. Si tratta di una concezione tutta infantile o contadinesca, che viene qui ricordata solo per rilevare quanta parte essa abbia potuto costituire della religiosità russa nella forma che era sentita e praticata dalle masse incolte e rurali e quale effetto su tali masse debbano avere ora gli attentati iconoclasti e roghi sacrileghi che si vanno attizzando nella Russia. Ma il mondo intellettuale, venuto dall’«ortodossia», crede proprio d’essere felice e nutre per il Cattolicismo quel dispregio che affetta o forse sente, nella sua rustica ignoranza, lo staretz? Affermano che il cervello più potente della Russia prerivoluzionaria sia stato Fedoro Dostojewski . Recentemente, si è pubblicata in Germania la sua eredità letteraria, costituita di molti frammenti, abbozzi e note . In una di queste note si parla del Cattolicismo gesuitico – che per l’autore equivale al Cattolicismo romano – come di quello spirito che corrompe il Cristianesimo per metterlo in armonia coi fini di questo mondo. Questa definizione del Cattolicismo non è sostanzialmente diversa da quella che opponeva già Ivan il Terribile al Possevino nel suo celebre contraddittorio con quest’ambasciatore del Pontefice Romano: entrambe s’ispirano pur sempre al concetto fondamentale dello scisma. Ma il Dostojewski non doveva arrestarsi a questa definizione semplicistica. Egli non era «felice» come Rasputin, ma soffriva nel suo spirito tutta la crisi dell’«ortodossia» e ne prediceva la catastrofe rivoluzionaria. Di fronte ad essa il Cattolicismo si ergeva come un esercito di conquista bene ordinato, diretto da generali di genio e servito dal sacrificio di migliaia di vittime operose e volontarie. Di questa vitalità disciplinata e meravigliosa il Dostojewski ci dà un quadro di una potenza estrema nell’episodio nel «Grande Inquisitore» inserito nel romanzo dei Fratelli Karamazoff . Quando la descrizione di questa secolare potenza romana è finita, i due fratelli si scambiano le loro impressioni. Qual’è il segreto che stringe la solidarietà di tutti questi uomini, qual’è la molla misteriosa dei loro sforzi e dei loro progressi, qual’è l’arcano che presiede ad una vitalità così piena di nobili azioni e di sacrifici? Alioscia, il più giovane, rappresenta la concezione tradizionale ortodossa, quando afferma che nel cattolicismo romano non si tratta d’altro che di cupidigia di dominio terreno: si tratta «semplicemente dell’esercito romano del futuro regno universale terrestre coll’imperatore, il Romano Pontefice, sul trono…, nessun segreto, nessuna nostalgia verso il sublime… Il più semplice desiderio di potere, di volgari beni terrestri, di predominio». Ma Ivan gli ha descritto la figura ascetica del Grande Inquisitore ch’è legato da un grande segreto, da un patto misterioso che hanno stretto fra loro i capi del Cattolicismo nell’intento di condurre l’umanità nel porto tranquillo della sua sufficienza, facendola rinunciare alla volontà libera, pur di renderla felice. «È possibile – egli grida al fratello – che tu creda sul serio che tutto il movimento cattolico degli ultimi secoli non sia altro che la tendenza verso il potere e verso i beni materiali?» . Il Dostojewski sentiva dunque che il Cattolicismo non era spiegabile senza un principio ideale animatore? Non staremo qui ad indagare come il poeta russo tenti di risolvere l’enigma. Ci basti rilevare che egli ammette questa forza intima ed occulta, rivolta al bene della società umana. Forse se non fosse venuto troppo di lontano, avrebbe potuto penetrare colla sua intuizione divinatrice nell’interno del meccanismo che gli appare così mirabile ed avrebbe potuto scoprire che il segreto della forza e della vitalità del Cattolicismo è il magistero divino della Chiesa, illuminata, secondo la promessa di Cristo, dalla luce eterna dello Spirito!
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Fu costume universale una volta quello di attaccare i preti, e più particolarmente i Gesuiti, come maestri di doppiezza, di amoralità, se non sempre d’immoralità politica, intendendo per politica l’arte e il metodo di agire e di comportarsi in confronto del prossimo. Dal Giansenismo in qua la polemica sul «fine giustifica i mezzi» ha imperversato fin dentro la seconda metà del secolo XIX. Ora però che la critica storica ha ripreso i suoi diritti, prevalendo sulle deformazioni anticlericali, si fa strada un altro modo di concepire la morale e la storia, che per sembrare più equanime, non è meno pericoloso. È ingiusto, si dice, attribuire ai Gesuiti o ai preti le dottrine che sono proprie del Machiavelli , è ingiusto rinfacciare ai Gesuiti la teoria della restrizione mentale o della anfibologia, mentre lo stesso Lutero ha insegnato che una buona bugia detta a tempo e luogo è opera altamente meritoria; però è vero che il cosiddetto machiavellismo è una caratteristica universale del Rinascimento italiano, il quale in tale materia fa ancora da maestro anche all’età presente. Tutti, preti e anticlericali, Cattolici e Protestanti peccarono dello stesso male e oggi ancora sono impeciati delle stesse massime che applicano ciascuno nella propria sfera. Questa concezione relativistica è oramai comune a molti pensatori e scrittori moderni i quali se ne servono comodamente per giustificare uomini, metodi e cose dei nostri tempi. Non abbiamo visto anche recentemente in un libro , del resto assai ben fatto, appaiato il gesuita Baldassare Gracian al Machiavelli, per quanto il primo nel suo Politico abbia scritte le precise e non equivoche parole: «Volgare offesa alla politica è confonderla con l’astuzia; non considerano alcuni saggio se non l’ingannatore, e più saggio sempre chi più fingere seppe, dissimulare, ingannare, non pensando che il castigo di costoro fu sempre di perire per il proprio inganno»? Il moderno relativismo storico ripete su per giù il giudizio di quell’«acutissimo ma scelleratissimo» Machiavelli, come scriveva Cesare Balbo , il quale affermando che gli uomini non sanno essere né tutto buoni né tutto cattivi, voleva insinuare che per essere uomo politico fosse giuocoforza diventare un po’ scellerato. I Cattolici hanno l’obbligo di reagire a queste ricostruzioni che si vorrebbero imporre come dogmi di verità storiche ed hanno il dovere ed il diritto di applicare alla considerazione dei fatti privati e pubblici e a quella dei rapporti col prossimo e colla collettività le stesse regole di moralità immutabile che valgono per gl’individui e i fatti particolari. Bisogna tornare francamente al metodo storico di Alessandro Manzoni, il quale, nella Colonna infame, non si accontenta di spiegare colle caratteristiche dell’epoca, ma indaga se i giudici, condannando i presunti untori, abbiano obbedito «a passioni pervertitori della volontà» . E sovrattutto bisogna cogliere ogni occasione per documentare la realtà storica d’una tradizione etica sia negli uomini di Chiesa, come in quelli più sinceramente e più efficacemente rappresentativi e nei nostri maestri di morale privata e pubblica. Pensavo a tutto ciò leggendo in questi giorni due documenti che riguardano e rispecchiano su per giù la stessa epoca e la stessa Corte di Roma. Filiberto Gerardo Scaglia, conte di Vertua , ambasciatore del Duca di Savoia a Roma, scrisse verso il 1600 o forse più tardi, degli «avvertimenti politici» , i quali contengono alcune massime machiavelliche esecrabili, come per esempio quella addotta al cap. X e che suona: «Osserva diligentemente l’inclinazione del Padrone e trasformati in quella quanto puoi e se qualcuna è viziosa, cerca di coonestarla con qualche vocabolo, perché tutti i vizi hanno vicine le virtù; e questo piacerà sommamente al Padrone». Seguono altre massime dello stesso linguaggio; ma quel che più impressiona nel Vertua è quel suo continuo richiamarsi ai costumi di Roma e della sua Corte e, per quanto velatamente, alla politica dei Papi, quasi a motivare e a giustificare con tali esempi la sua discutibile morale. Nessuna meraviglia che storici parziali o affrettati si siano impadroniti di simili documenti, per cavarne la conclusione che le cose fossero veramente così, che i capi della Chiesa cattolica non tenessero altra condotta che gli altri principi dell’epoca e che seguissero anch’essi la confessata dottrina di un amoralismo politico sconcertante e poco cristiano. E siccome i fatti risibili della politica – politica in senso lato, ut supra – papale, a tanta distanza di tempo, sono facilmente passibili di varia e contraddittoria interpretazione, la disputa storica potrebbe continuare all’infinito, se per fortuna tratto tratto non saltassero fuori dagli archivi cert’altri documenti, nei quali è deposto il segreto dei cuori; memorie, appunti, moniti, non destinati né al pubblico né alla posterità, e che appunto per questo debbono considerarsi come scevri da ogni alterazione ed artificio. Uno di tali documenti è quello contenuto nel codice Barb. 6908 della Biblioteca Vaticana, che viene citato e sfruttato largamente anche dal Pastor nel 13° volume della sua storia (ed. ted.) e che s’intitola «Avvertimenti dati da P. Gregorio XV in voce al sig. card. Ludovisi, dal quale poi in questa forma sono stati scritti et notati questo dì I° aprile 1623» . Correva in quel tempo la voce che il Papa fosse gravemente ammalato e si parlava già della sua prossima fine. In realtà Gregorio XV era assai sofferente, ma la sua vita non era punto in pericolo. Tuttavia prendendo il monito contenuto in questa voce popolare come punto di partenza il Papa ebbe un lungo colloquio col cardinal nepote Ludovico Ludovisi, durante il quale gli diede una serie di avvertimenti che il Cardinale si appuntò poi subito appena ritornato nel suo studio. Da questi appunti è risultato un documento che si potrebbe chiamare testamento politico, poiché contiene in gran parte delle norme per il buon governo della Chiesa. Il Papa comincia con lo scongiurare il segretario di Stato a non perder di vista nella ressa degli affari le leggi d’Iddio e la salvezza dell’anima. «Ti ricordiamo, anzi ti ammoniamo e ti scongiuriamo in primo luogo e avanti ogni cosa che il timore e l’amore di Dio ti siano la suprema saggezza politica, le norme assolute di governo e i più fidati consiglieri…». Il timore e l’amore di Dio siano le due stelle polari, alle quali il nepote deve tendere costantemente lo sguardo in mezzo al mare procelloso di questa miserabile vita, onde giungere al porto della salute. Ecco già all’inizio una formale disdetta alla cosiddetta politica della rinascenza. Continuando, il Pontefice gli ricorda che, stando così in alto nella gerarchia, gl’incombe il dovere di servire di guida, di modello e di edificazione per tutti. «Le virtù del prelato eminente, quale voi siete, devono essere indirizzate non a beneficio suo solo, o dei suoi cari o dei compatrioti, o de’ diocesani solamente, ma di tutto il mondo». Gregorio XV volge poi lo sguardo a quello che dovrà fare il nepote, quand’egli sarà morto e si radunerà il conclave. «Quando dunque sarà il tempo che dovrete applicar necessariamente l’animo all’elezione et ai negozi del Conclave, subito rassegnato in tutto e per tutto alla volontà di Dio benedetto, spogliatevi di tutti gl’interessi, quietate tutti i vostri desideri, rinunziate a tutte le amicizie, smorzate tutti i rancori, serrate le orecchie a tutti i consigli non sani né abbiate altr’oggetto che la gloria di Dio, il servizio di tanta Chiesa con il benefizio universale del mondo»… «Somma stoltezza invece sarebbe di voler erigersi nel conclave contro Dio, innalzando contro di Lui come una torre di Babele e tentare di asservire lo Spirito Santo alla propria ambizione». A questo punto Gregorio XV gli mette a cuore la scrupolosa osservanza della sua bolla circa l’elezione del Papa e spera che il nepote «sacrificherà ogni suo interesse alla gloria di Sua divina Maestà ed al bene di questa S. Sede». Lo zio fa seguire infine una serie di avvertimenti sul modo di comportarsi cogli altri cardinali, coi membri del casato e del parentado e coi servitori: consigli tutti ispirati alla prudenza e alla cristiana morale. Non sia facile a concedere il titolo d’amico, ma a chi se l’è meritato per la sua fedeltà non venga mai meno, qualunque cosa accada. In quanto alle maldicenze non se ne curi. «Questa città, dice letteralmente il Papa, fu sempre avida di cose nuove e quando non ve ne sia, le trova e partorisce martirii e sinistri rapporti». «Una vita illibata e una condotta morale, quali si convengono ad un principe della Chiesa sono testimoni che parlano da sé in favore del calunniato». Gli «avvertimenti» si chiudono con un monito circa i beni ecclesiastici. «Li beni ecclesiastici riescono d’intollerabil peso a chi mai se ne serve, perché aggravano oltremodo la coscienza, dovendotene rendere strettissimo conto… sono però patrimonio dei poveri…; i beni ecclesiastici sono qua per essere distribuiti e non per essere accumulati depredandone il tesoro di Cristo o forse col pretesto eufemistico di volere testare in morte a favore delle chiese: scusa questa di cui suole ammantarsi l’avarizia. L’oro – ricorda Gregorio XV – s’indugia malvolentieri nella mano dell’uomo, che non sia la mano del bisognoso o del donatore generoso». Per i templi di pietra non dimentichi il Cardinale coloro che sono i veri templi dello Spirito Santo, i poveri cioè degli Ordini e del laicato, che, generalmente parlando, sopportano le miserie di questa vita e meritano d’essere sostenuti colle limosine, affinché per umana debolezza non vadano in rovina. Non è tutta questa serie di consigli, che riguardano il governo di se stessi e degli altri, un programma integralmente cristiano di vita privata e pubblica? Il Ludovisi fu grande mecenate delle arti e delle scienze e circondò la porpora di tutto lo splendore del Rinascimento. Questo manoscritto dei suoi appunti prova però quanto affrettato sarebbe stato il giudizio di coloro, i quali commisurando forte su se stessi, o lavorando di maligne induzioni su certe apparenze, avessero concluso che del Rinascimento oltre il mecenatismo avesse abbracciato anche i principii della cosiddetta politica machiavellica e realista.
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Volumetto pubblicato sotto lo pseudonimo Mario Zanatta nella collana «I Quaderni del Cattolicesimo contemporaneo», Milano, Vita e Pensiero, 1931; a partire dalla seconda edizione (1945) con il nome dell’Autore; la terza edizione è del 1984; pubblicato inoltre in De Gasperi 1955; trad. spagnola El tiempo y los hombres que prepararon la Rerum Novarum, Buenos Aires, Editorial Difusión, 1948. La traduzione francese alla prima edizione approntata dall’amico Stefano Jacini non fu mai pubblicata. INDICE Capitolo I. LAQUESTIONESOCIALEELALIBERTÀDELLA CHIESA I tre vescovi precursori Le proporzioni della loro opera sociale L’atteggiamento sociale di Ketteler prima del ’70 Larghezza d’idee Mermillod a Parigi, alla vigilia e dopo la Comune La proposta al Concilio vaticano Il lavoro, capitale vivente Uscire dall’arca Capitolo II. LAREAZIONEVIENNESEELAPOLITICASOCIALEDEL CENTRO Il clima nel quale nacque la reazione L’emigrato Vogelsang Il convegno di Haid Le leggi sociali austriache Restaurazione sociale Federalismo rinnovato Contro l’economia capitalista «Usura vorax» I cattolici tedeschi e lo Stato moderno La svolta del 1880 Triplice schieramento in Germania La polemica sullo Stato e sul medioevo corporativo Gli effetti della «Rerum Novarum» La forma e lo spirito del capitalismo Capitolo III. CORPORAZIONEEREGIMECORPORATIVO La prima battaglia alla Camera La corporazione cristiana Regime corporativo Le conclusioni di Liegi Capitolo IV. LO STATOELALIBERTÀ La pregiudiziale dell’abbé Balau La marcia del socialismo Il salario giusto Diversa motivazione dell’interventismo Intervento temperato Il pensiero di Leone XIII Capitolo V. EQUILIBRIOEBUONSENSOITALIANO Il medioevo toscano Il movimento sociale in Italia Il giusto mezzo del giovane Toniolo Capitolo VI. VIGILIA Gli studi di Roma I pellegrinaggi francesi La maturità dei tempi Il discorso della vigilia Capitolo I LA QUESTIONE SOCIALE E LA LIBERTÀ DELLA CHIESA I tre vescovi precursori Ketteler , vescovo di Magonza dal 1850, Mermillod vescovo o, più esattamente, vicario apostolico di Ginevra dal 1864, Manning , dopo il 1865 arcivescovo di Westminster, non appartengono propriamente a quella che si potrebbe chiamare «epoca sociale» e che incomincia appena verso il 1880. Tutti e tre, anche i due ultimi, i quali pur vissero ed agirono fino alla pubblicazione della Rerum Novarum, vanno attribuiti piuttosto all’epoca del Kulturkampf . Il vescovo di Magonza dedicò vent’anni della sua infaticabile attività pastorale alla ricostruzione della sua diocesi, la quale in seguito al giuseppinismo del governo granducale dell’Assia e all’eccessiva adattabilità dei due vescovi antecedenti, era ridotta ad uno stato miserevole: tutta l’amministrazione dei beni ecclesiastici e le nomine del clero in mano del governo, gli ordini religiosi soppressi, le comunicazioni con Roma sottoposte al placet, il seminario magontino ridotto ad un corso annuale. Ketteler, il quale nel 1848 era stato eletto al parlamento di Francoforte, aveva già dimostrato, sia colla sua attività di deputato entro il «Katholischer Klub» , sia come oratore nel congresso cattolico di Magonza , riunito nello stesso anno, che il compito dei cattolici non doveva essere quello della reazione, ma quello di utilizzare il movimento libertario per riconquistare anche alla Chiesa cattolica in Germania la sua libertà. Divenuto due anni dopo vescovo nella sede di S. Bonifacio, Ketteler dedicò tutte l’energie del suo carattere combattivo e tutte le risorse della sua abilità organizzativa a riconquistare alla Chiesa la sua autonomia, nel ricostituire il seminario e gli ordini religiosi, nel fondare ed accrescere le opere di carità e di beneficenza. Le convenzioni col governo d’Assia e i relativi negoziati con Roma, più tardi le discussioni sull’infallibilità dottrinale del Papa e la partecipazione al Concilio ed infine gli inizi del Kulturkampf germanico, riempiono gran parte della sua vita episcopale, come la questione della Chiesa di fronte allo Stato giuseppinista preoccupa gran parte della sua attività di scrittore. Anche il vescovo di Hebron, vicario apostolico a Ginevra, ebbe da lottare sovrattutto per la libertà della Chiesa. Nel Concilio vaticano era stato col Manning uno dei più attivi ed efficaci propugnatori dell’infallibilità. Ora si volle sul lago Lemano imitare la legislazione tedesca del maggio e Carteret , capo del governo radicale, si mise a scimmiottare Bismarck. Le leggi ginevrine del ’73 si proponevano di disgregare la Chiesa cattolica, prendendo a pretesto il nuovo dogma proclamato nel Conciliovaticano, il quale avrebbe autorizzato il potere civile a riorganizzare i fedeli al di fuori e contro la tirannia romana: perciò i curati dovevano venir eletti direttamente dal popolo, le parrocchie sottostare a un comitato laico, gli Ordini proibiti. Lo stesso Pressensé , protestante, dalle colonne della «Revue des deux Mondes» qualificava i partigiani del Carteret come «fanatiques vulgaires, singes grotesques et malfaisantes de la persécution allemande». Il vescovo resistette, ma un bel giorno, nel 1873, Mermillod venne arrestato e condotto in carrozza al vicino confine. Risiedette esule a Ferney fino al 1880 e dopo d’allora, per altri tre anni, a Monthoux, sempre vicino alla sua piccola diocesi, per la quale organizzava soccorsi e dalla quale i fedeli accorrevano a lui, per avere direttive e conforti. In questi dieci anni d’esilio Mermillod, che già prima d’esser fatto vescovo s’era acquistata fama di grande predicatore, tanto da essere paragonato in Francia al P. Ventura , fu chiamato spesso a tener delle conferenze nelle più diverse città d’Europa e alcune volte venne utilizzato anche dalla Santa Sede per missioni speciali. Visitando nel 1881, per incarico di Leone XIII, le chiese cattoliche scandinave, tenne una conferenza a Stoccolma, ascoltato deferentemente anche dai protestanti, e nello stesso anno, incaricato di consacrare il vescovo di Strasburgo, vi ebbe cordiali accoglienze dal governatore, parente di Bismarck. «Indicate queste idee in poche e sobrie linee: saranno utili per il nostro Consiglio federale che guarda Berlino». Così scrive il vescovo esule a mons. Jantet redattore del «Courrier de Genève» , giornale che aveva fondato egli stesso nel 1868. Finalmente nel 1883 Leone crede di chiudere il Kulturkampf ginevrino, abolendo il vicariato di Ginevra e nominando Mermillod vescovo di Losanna e Ginevra con sede a Friburgo. È un accomodamento diplomatico, che fa parte del gran piano di pacificazione di Leone XIII e che viene accolto dall’esule colle lagrime agli occhi, ma con grande sentimento di conciliazione. Nel 1884 dichiara a Jantet in Friburgo: «Dite sovrattutto che non ho mai chiesto a Ginevra che la libertà; ho creduto al liberalismo dei ginevrini, miei compatrioti, e spero che avrò un giorno questa gioia di veder la libertà religiosa compresa a Ginevra!…». Nell’estate del 1870, chiuso il Concilio e scoppiata la guerra francoprussiana, durante il viaggio di ritorno aveva sostato a Ginevra in casa di Mermillod anche Henry Edward Manning, un altro grande propugnatore al Concilio del dogma dell’infallibilità. Aveva allora già 62 anni, s’era convertito nel 1851, dopo quasi vent’anni di sacerdozio anglicano, risalendo poi i gradini della carriera ecclesiastica fino a diventare il capo della Chiesa cattolica inglese. Questa era stata ricostruita nella sua normale gerarchia, appena nel 1851. Ma bisognava ricostituirne anche la dignità, il prestigio, la posizione ufficiale di fronte alla società inglese, ostile o indifferente, accrescere ed erigere istituti educativi, che potessero stare alla pari coi progrediti centri di cultura protestante, provvedere con grandi molteplici opere alle classi povere, specie agl’irlandesi: tutto questo fu l’opera ricostruttiva del Manning. Nello stesso tempo conveniva svolgere un’assidua attività apostolica di fronte alla nazione, piena di pregiudizi, ed, in parte, anche di odio; e a tal fine sono dedicate numerose opere d’indole religiosa ed ecclesiastica. Di carattere più generico erano stati il suo volume intitolato L’Inghilterra e il cristianesimo (1865) ed alcuni altri numerosi saggi e studi che troviamo ora raccolti nelle miscellanee. Ora, tornando a Londra, l’arcivescovo dovrà subito riprendere la penna per difendere l’opera del Concilio e scriverà una polemica contro il «cesarismo», attaccando Bismarck . Nel 1874 Gladstone profitterà del suo ritiro dalla politica attiva per attaccare i decreti vaticani, quasi che rendessero impossibile la lealtà civile. E Manning risponde al vecchio amico con un libro dello stesso titolo: The Vatican Decrees in Their Bearing on Civil Allegiance (London 1875) . Fino all’anno 1880 contiamo altre tre opere polemiche sullo stesso argomento. Poi lo afferrano i problemi dell’educazione, intorno ai quali la sua trattazione più importante è quella del 1888: National Education . Le proporzioni della loro opera sociale Nessuno dunque di questi grandi vescovi fu, per i suoi studi o per la sua inclinazione, sociologo o economista, nessuno dei tre fu in gioventù organizzatore operaio, e nel periodo più fervido della loro attività la preoccupazione maggiore, la cura più assillante dovette essere la libertà della Chiesa, menomata o minacciata dal liberalismo anticlericale. Le loro pubblicazioni sociali, messe in confronto colla immensa letteratura economica-sociale del secolo XIX, scompaiono addirittura. L’Arbeiterfrage und das Christentum (La questione operaia ed il cristianesimo) pubblicata dal Ketteler nel 1864 è di 130 pagine in-8 piccolo ; il suo discorso agli operai del 1869 è di 71 pagine dello stesso formato. Del Mermillod, non rimasero celebri, come manifestazioni sociali, che le due conferenze, in S. Clotilde, tenute a Parigi l’una nel 1868, l’altra nel 1872. La prima (L’église et les ouvriers au XIX siècle ) riempie 53 pagine in-8, la seconda (La question ouvrière ) appena 39 pagine. Vero che per l’arcivescovo di Westminster, se si volesse tener conto di tutte le sue pubblicazioni, sparse nei giornali e nelle riviste, il calcolo sarebbe più complicato, ma anche per lui vale che le sue pubblicazioni sociali, in confronto alle sue opere ascetiche e apologetiche, sono in proporzione minima. La conferenza di Leeds del 1874, che è celebrata a ragione come l’enunciazione più sostanziosa e più ardita dei suoi principi circa la questione operaia, si può leggere in poche pagine del volume II delle Miscellanies (London 1877) . Queste precisazioni bibliografiche, che potrebbero sembrare pedanti, hanno non soltanto lo scopo di rettificare la falsa prospettiva di certi compendi di sociologia cristiana, ma vogliono sovrattutto dar occasione a due rilievi apologetici. E anzitutto, quale importanza caratteristica non ha il poter dimostrare che tre vescovi accorsi sulla breccia a difendere i diritti e l’esistenza stessa della Chiesa, impegnati a ricostruire sulle rovine del Kulturkampf, in posizione ove più vengono a sbattere le ondate della vita moderna – la regione industriale del Reno, le sponde del lago Lemano, le rive del Tamigi –, non si chiudono dentro le trincee, ma escono incontro alle masse popolari che si avanzano alla conquista dell’avvenire? E quale valore apologetico appunto non assume questo atteggiamento tipico, ma non isolato, quando si possa affermare per tutti, come François de Pressensé rileva per il Manning (I), che la via regia per la quale questi precursori d’un grande movimento andarono incontro all’umanità moderna, offrendole il solo rimedio efficace, cioè l’evangelo eterno, fu appunto il loro «ultramontanismo» , il loro cattolicismo cioè vigoroso e assoluto? Non è questo, dice l’illustre scrittore, il cattolicismo mitigato, sdolcinato, rivisto e corretto ad usum Delphini, ridotto alle sonore inanità del Genio del cristianesimo , pronto a tutte le transazioni collo Stato e colla ragione; è il cattolicismo dei grandi papi e dei grandi monaci, il cattolicismo dell’unità, dell’autorità, dell’infallibilità!… Il secondo rilievo s’impone da sé. Di fronte all’aggravarsi della questione operaia e al montare della marea rivoluzionaria, i rappresentanti del pensiero cattolico si orientarono a tempo verso un attivismo generoso ed illuminato, che avrebbe potuto dare un’altra piega alla storia sociale del secolo decimonono. Perché nel momento decisivo la conversione a destra non avvenne? Perché tutti gli sforzi fatti poi valsero appena a mitigare, ma non a risolvere la crisi? Lo stesso Ketteler s’incarica di darci una risposta. «Il perfido Kulturkampf – dichiarò il grande vescovo ad una deputazione di cristianosociali nel 1876 – il perfido Kulturkampf, ruba il mio tempo e la mia attività, così che con grande rammarico non posso più prestare tutta la mia attenzione alla importante questione sociale cui mi dedicavo con tanto interesse» (II). Lo stesso lamento ripeteranno poi deputati del Centro, e ogni volta che si parlerà di questione sociale nei congressi tedeschi, francesi o italiani, ogni volta che ne tratterà Leone XIII, dalla pastorale sociale di Perugia alla Rerum Novarum, la rivendicazione della libertà della Chiesa risuonerà a buon diritto come naturale e logica espressione di un’indispensabile premessa. L’atteggiamento sociale di Ketteler prima del ’70 Il Ketteler, già come deputato nel ’48, aveva abbandonato le inconcludenti discussioni di Francoforte per tenere nel duomo di Magonza sei discorsi sulle «grandi questioni sociali contemporanee» . Una di queste conferenze, quella sul «concetto cristiano della proprietà», prova come il parroco vestfaliano sapesse utilizzare già allora, di fronte all’industrialismo nascente, le concezioni tomiste della proprietà e dell’uso dei beni . La sua pubblicazione però che fece più rumore e che rappresentò un fatto nuovo nel movimento sociale è l’opuscolo di 130 pagine, che abbiamo ricordato più sopra. Ludwig Windthorst, presentandone nel 1890 la quarta ristampa, rileva com’essa venga a proposito, ora che le tendenze di Ketteler «hanno trovato per l’energica iniziativa del nostro giovane imperatore un solenne riconoscimento». A proposito, 26 anni dopo! C’è di mezzo la guerra del ’70, il Kulturkampf, Bismarck! Allora, nel 1864, il Ketteler si trovava di fronte a Lassalle , che aveva fondato un partito operaio radicale, e proclamava di voler risolvere la questione operaia mediante le cooperative di produzione (Produktionsgenossenschaften), il cui capitale sarebbe stato anticipato dallo Stato. Per ottenere tale concorso statale bisognava conquistare il parlamento: perciò il partito operaio chiedeva il suffragio universale uguale e diretto. Accanto a questo movimento essenzialmente politico esisteva un movimento economico sociale a sfondo politico promosso dal progressista Schulze-Delitsch . Kettelerassume atteggiamento concreto di fronte a questi due movimenti. La questione operaia, egli dice, è, in fondo, una questione di pane. Sente tuttavia il diritto di parlarne, come vescovo, «perché ministro di quel Cristo al quale la classe operaia, diseredata nel paganesimo, deve tutto. Come può parlare l’architetto d’una chiesa da lui costruita così può parlare il cristianesimo quando si tratta degli interessi della classe operaia». Non intende tuttavia esaurire l’argomento. Siamo appena all’inizio di un lungo periodo e la soluzione non si presenta in tutti i punti come matura. Intanto, esaminato il sistema economico moderno, conclude: «Non v’ha dubbio che tutta l’esistenza materiale della quasi totalità della classe operaia, dunque della stragrande maggioranza delle persone negli Stati moderni, l’esistenza delle loro famiglie, la quotidiana ricerca del pane è esposta a tutte le oscillazioni del mercato e dipende dal prezzo che le merci hanno raggiunto nella libera contrattazione… È questo il mercato di schiavi della nostra Europa liberale» . Le cause? La prima è, secondo il Magontino, l’incondizionata e universale libertà dell’industria, la quale porta alla concorrenza spietata fra gli stessi lavoratori: il più alto sviluppo della concorrenza corrisponde al massimo abbassamento del salario. Con ciò non vuole difendere in tutto e per tutto l’antica regolamentazione corporativa (Zunftzwang). Autorità e libertà si fondano entrambe su eterni concetti divini, dal cui sviluppo dipende la salvezza degli uomini; sennonché, essendo maneggiati da uomini, non si presentano mai nella loro purezza, ma sempre congiunti a miserie umane ed abusi egoistici, così anche la coazione corporativa ha servito all’egoismo e rincarita la merce. «Ma il suo principio era giusto e si sarebbe dovuto conservare» . La seconda causa sta nel predominio del capitale, che ha proletarizzata la mano d’opera, aiutato in ciò dalla macchina. Quali i rimedi? I liberali che parlano di «circoli di cultura operaia», sfiorano appena la questione. Anche il movimento cooperativo di Schulze- Delitsch è un puro aggregato meccanico, senza anima, messo al servizio delle contingenze politiche. La borghesia liberale si perde in vaniloqui e demolisce negli operai anche la fede, la quale è l’unica loro molla ideale. Il partito radicale propone le cooperative di produzione, mettendo alla base un contributo dello Stato, come capitale iniziale. Non nega che la logica dei principi liberali porti a tali tendenze statolatre. Se lo Stato è la fonte del diritto, perché gli operai, conquistandolo, non metteranno la mano sulle sue casse? Secondo i cattolici però, lo Stato non può, per ragioni di giustizia, usare i denari pubblici per tali scopi. Che fare dunque? In prima linea la Chiesa influisce collo spirito, poi cogl’istituti. E qui Ketteler cita l’opera del Périn (III) uscita pochi anni prima, facendo suo l’elogio che l’economista belga dedica allo spirito di abnegazione e di rinunzia, insito nella dottrina evangelica. In secondo luogo, però, gloria imperitura della Chiesa furono gli istituti caritativi. Il liberalismo ne ha demoliti una gran parte. Si ricordi lo Stato liberale che ha almeno il dovere di restituire ai poveri quello che ha confiscato alla Chiesa. In terzo luogo ricorriamo pure alle associazioni. Ammette anche le cooperative di produzione, fondate però su forze proprie e non su quelle dello Stato. Se è vero che gli operai non sono capaci di pagare la quota di fondazione, vi supplisca la carità cristiana. Un tempo i generosi fecero sorgere colla loro carità chiese e conventi. Perché mai ora non sarà possibile indurre le classi possidenti a costituire il capitale di fondazione di una cooperativa di produzione operaia? «Voglia Iddio suscitare gli uomini che attuino sul terreno cristiano questa feconda idea delle cooperative di produzione!» . L’opuscolo è tutto qui. L’effetto pratico delle sue proposte non fu grande, poiché le cooperative di produzione non ebbero in Germania alcuno sviluppo, né con Lassalle, né coi cattolici. Ma la sua importanza sta nella presa di posizione. Larghezza d’idee Lo si vedrà più chiaramente ancora nel discorso, pronunciato dal vescovo di Magonza cinque anni dopo, ad un santuario presso Offenbach . Eravamo in luglio e un’immensa folla di operai colle loro famiglie si accalcava sui prati di Liebfrauen. Si trattava per lo più di operai della fiorente industria dei tabacchi, la quale andava trasformando la regione. In quest’epoca l’organizzazione operaia in Germania è già progredita, ma non è ancora dominata dal marxismo. Il vescovo dunque si rivolge agli operai con un affetto così vivo, con un interessamento così caldo per la loro sorte, con tale comprensione delle loro rivendicazioni, che, a tanti anni di distanza, questo discorso si rilegge ancora con commozione. Ketteler passa in rassegna i postulati operai e li accetta tutti: riduzione della giornata, aumento di salario, proibizione del lavoro dei fanciulli e delle madri; e ricorda, commosso, che un organizzatore dei tabaccai di Berlino aveva motivato quest’ultima richiesta non solo con ragioni economiche, ma anche con ragioni morali. «Questo è un linguaggio – esclama il vescovo – che dieci anni fa, quando il movimento operaio non era ancora diffuso in Germania, non si sentiva che dai pulpiti!» . Egli è largo anche nel concetto dello sciopero: dice letteralmente: «Il mezzo principale delle Trade Unions contro il capitale e i grandi industriali furono gli scioperi. Si è spesso affermato che questi scioperi, turbando la azienda e sottraendo i salari, abbiano più danneggiato che giovato. In complesso ciò non si verifica. Gli scioperi, come ha dimostrato Thornton , hanno aumentato notevolmente il salario». Venga pure dunque il movimento operaio anche in Germania, come in Inghilterra. Ma s’imitino gli inglesi anche nel rispetto alla religione e alla morale. Formulare delle rivendicazioni non basta: bisogna aggiungervi il culto delle virtù personali, domestiche e civili: raccomanda specialmente la parsimonia, la sobrietà. Nei postulati non bisogna passare la giusta misura. Lo scopo finale non dev’essere la lotta, ma la pacificazione. La presa di posizione è dunque nel ’69 ancora più chiara. Accanto alle associazioni cattoliche che egli raccomanda o nello stesso anno, nel congresso di Düsseldorf, promuove, Ketteler vede costituirsi un movimento professionale o di categoria, che, per le sue stesse finalità, dovrà abbracciare tutta la Germania, cattolica e protestante. Ebbene egli lo accetta, e non mette altra condizione che il rispetto alla coscienza religiosa. Di fronte alla minaccia del marxismo, il vescovo cattolico auspica il laburismo, dichiarandosi anche d’accordo col Lassalle, per quanto riguarda il suffragio universale e diretto. Come non ammirare oggi, a 76 anni di distanza, questa visione aperta alla realtà e alle aspirazioni della classe operaia? Se il suo appello apostolico fosse stato ascoltato, la classe operaia germanica avrebbe risparmiato a sé e all’Europa continentale le delusioni e i disastri, portati dal marxismo ateo e materialista. È vero che le proposte concrete di Ketteler, come furono da lui formulate prima del ’70, appariranno poi insufficienti, com’erano illusorie quelle del Lassalle; ma quando, dopo la guerra, egli si troverà per breve tempo al Reichstag , come uno dei fondatori del Centro, egli avrà già pronto un programma di legislazione sociale, in cui anche lo Stato è chiamato a intervenire, programma che sarà poi il punto di partenza della Sozialpolitik del Centro germanico. Mermillod a Parigi, alla vigilia e dopo la Comune Quando Ketteler moriva nel 1877, a 65 anni, Mermillod era ancora in esilio, ma per le larghe conoscenze fatte in tutta l’Europa durante i suoi viaggi, per la sua fama di grande oratore, per la risonanza maggiore che aveva nel mondo ogni manifestazione della cultura francese, egli era celebre come vescovo sociale quanto e più del prelato tedesco. «Ogni vescovo ha la sua particolare missione – scriveva Léon Gautier nel “Monde” l’anno 1872 –, quello di Ginevra sembra essere chiamato dalla Provvidenza a diventare il vescovo delle questioni sociali». C’era della esagerazione. Mermillod non aveva potuto sviluppare alcuna azione particolare a Ginevra, dato l’ambiente illiberale in cui viveva, e, quando nel 1868 vi era scoppiato uno sciopero di orologiai, aveva dovuto limitarsi a tenere in un circolo assai ristretto un discorso in cui affermò che solo lo spirito cristiano avrebbe potuto condurre alla pacificazione fra capitale e lavoro, servendosi dell’associazione, a «condizione però che questa non uccidesse la libertà individuale». Nemmeno più tardi, quando rientrò a Friburgo, trovò, in quella diocesi pacifica di contadini prosperosi, particolari incentivi per un’azione sociale pratica. Né i suoi discorsi né le sue lettere (IV) dimostrano che egli si sia approfondito nelle questioni economiche. Mermillod piuttosto fu un animatore e, nella misura conciliabile colla sua dignità, un agitatore. Tenne il suo primo discorso sociale a Parigi, nel 1868, per invito di alcuni cattolici – tra i quali Auguste Cochin – e a favore del «Circolo di giovani operai». I promotori avevano l’impressione che l’apparente prosperità del terzo impero celasse una rivoluzione profonda che si stava preparando nel sottosuolo, e si proponevano perciò di creare delle opere di assistenza in favore degli operai, «come avviene in Inghilterra e in Germania». L’eloquente oratore di Ginevra doveva chiamare a raccolta e scuotere i cattolici parigini. Mermillod assolse in modo brillante il suo compito, ma, limitandosi a pochi accenni di riforma sociale, fece sovrattutto appello alla forza interiore del cristianesimo. Ecco la sua conclusione: «Nessuno oserà fare appello alla forza; essa fa il silenzio, ma non crea la pace. Solo l’amore cristiano riavvicina questi elementi disaggregati e renderà alla società l’unità e la vita. La Chiesa possiede questa forza di riconciliazione, poiché essa dà all’operaio tre cose di cui abbisogna: la scienza della vita, il coraggio della vita e l’onore della vita». «Che nessuna barriera impedisca alla Chiesa di accostarsi a loro, di spandere a piene mani il coraggio e le speranze e di dar loro il rimedio balsamico dell’amore e ad un tempo della dignità». In quanto ai doveri delle classi elevate, essi si compendiano nella parola: servizio sociale. L’oratore pensa qui a tutte le forme delle opere caritative e di assistenza. Se la generazione attuale operaia è inaccostabile, bisogna almeno salvare la prossima. Perciò raccomanda vivamente i circoli giovanili operai, che dovranno raccogliere ed educare gli apprendisti. Un ultimo spunto lirico annuncia il Concilio vaticano. La proposta al Concilio vaticano «L’augusto vegliardo del Vaticano vedrà presto intorno alla sua sacra cattedra l’episcopato del mondo, a studiare con lui le vostre attuali agitazioni, le vostre crisi sociali, le vostre lotte moderne… La verità evangelica nelle nostre mani, la tenerezza di Gesù Cristo nei nostri cuori, noi andremo al popolo, ai piccoli, agli umili…». Quest’accenno al Concilio non era evidentemente casuale. Mermillod comprendeva che i mezzi di carità da lui proposti erano insufficienti, che bisognava risolvere la questione di giustizia. I padri del Concilio dovevano affrontare in pieno il problema e dare le direttive della soluzione. È noto perché il Concilio vaticano non poté soddisfare questa ed altre aspettazioni. Si attribuisce però anche al concorso del Mermillod la presentazione al Concilio di una petizione, la quale dopo aver accennato agli errori del socialismo, continua: «Perciò ci sembra necessario che questo Sacro Concilio ecumenico opponga a questi esecrandi errori la verità cattolica e chiarisca i principi della giustizia sociale, quali vengono insegnati dalla morale cristiana; che esponga i doveri dei ricchi verso i poveri, sieno operai o servi, nonché i doveri che a questi incombono verso i padroni. Non si può negare che l’avidità di arricchire, l’abuso che si fa delle ricchezze, la trascuranza verso gli operai e la durezza inumana a loro riguardo, con cui in modo latente si violano il V e il VII comandamento, fomentino assai gli errori e gli sforzi del socialismo. Tutti i cittadini di buona volontà aspettano e desiderano che il Sacro Concilio chiarisca e difenda i giusti e sacri principi su cui poggia l’ordine sociale; gli operai stessi alzano le mani e gli occhi verso la S. Madre Chiesa, affinché essa faccia rivivere nelle coscienze ed applichi alla società le leggi della carità e della giustizia cristiana». L’oratore, come ricordava più tardi lo stesso Mermillod al congresso di Liegi nel 1886, venne accusato di socialismo. Il giornale cattolico «Monde» dovette intervenire a calmare gli allarmi. Ben diverso effetto invece ebbe la seconda conferenza tenuta dallo stesso oratore nella stessa chiesa di S. Clotilde, quattro anni dopo. C’erano state di mezzo la guerra e la Comune. La conferenza sulla questione operaia del 1872 ripete sostanzialmente i concetti di quella del ’68. Ma questa volta l’impressione fu grande. «C’è una grande differenza – scriveva il Gautier nel «Monde» – fra un discorso avanti e un discorso dopo il petrolio» . Ora de Mun aveva già lanciato l’appello per l’«Opera dei circoli operai» e Mermillod aveva quindi sotto gli occhi un programma ed una forma associativa concreta da raccomandare. Anche la minaccia socialista si presentava sotto forma più distinta. L’Internazionale è «une doctrine qui s’affirme, une armée qui s’avance et une église qui s’organise». Il rimedio rimane ancora: andare al popolo, sperare in lui, amarlo…! Andare al popolo per emanciparlo dai falsi profeti, pacificarlo, elevarlo. «Il dovere dei cristiani è di non disertare il posto moderno dell’attività sociale: che abbiano la loro parte in questi studi pubblici, in questi sforzi che cercano di dare al lavoro maggior successo e maggior dignità. Indubbiamente i progetti, le statistiche e le utopie della scienza economica non rappresentano la soluzione definitiva delle nostre crisi ardenti; ma questi palliativi non possono venir disprezzati, pur dando il primo posto, che legittimamente le compete, all’anima del popolo». Ritroveremo più tardi il cardinal Mermillod a Roma e a Friburgo, quale organizzatore e animatore degli studi sociali che prepararono la Rerum Novarum; ma la sua importanza, la sua caratteristica è già fissata dal suo atteggiamento prima e subito dopo il ’70. Nemmeno lui è sociologo o economista. Il suo ingegno è più vivido, ma meno profondo di quello di Ketteler e meno acuto del Manning. Ma anche l’atteggiamento suo rappresenta il cuore fervido ed apostolico della Chiesa cattolica verso le masse operaie. Il lavoro, capitale vivente Pure il Manning fa la sua entrata nell’azione sociale poco dopo il ’70, quando è chiamato a far parte d’un comitato londinese che raccoglie soccorsi per Parigi. Dopo d’allora parteciperà a tutte le grandi commissioni reali d’inchiesta e di studio, alle quali i governi inglesi sogliono sottoporre i problemi più gravi e più complessi. D’allora in poi i fatti sociali si presenteranno alla sua mente, concretati di statistiche e di elementi sperimentali. L’amore al popolo irlandese, che in gran maggioranza appartiene al suo ovile, lo porta a sostenere l’home rule e a studiare la questione del latifondo ; la considerazione dei danni dell’ubriachezza fra le classi più miserabili, a fondare quella meravigliosa società della temperanza che sotto l’emblema della croce arruola centinaia di migliaia di cattolici . In questa società, organizzata sul tipo militare, il cardinale aveva la sua guardia, ma non erano i moschettieri di Richelieu, era la guardia di una dittatura morale e pacifica. Le sue idee sulla questione operaia si trovano già quasi tutte formulate nella citata conferenza tenuta a Leeds nel 1874 e che porta il titolo: The dignity and rights of labour (La dignità e diritti del lavoro) . Si noti che la conferenza è tenuta nell’«istituto meccanico» d’una grande città manifatturiera, sotto la presidenza del sindacato, con un uditorio di industriali, artigiani e capi operai, per la maggior parte non cattolici. Leeds aveva ai tempi di Carlo II un settemila abitanti ed ora ne ha parecchie centinaia di migliaia. Teneva un piccolo mercato di tessuti presso il ponte, ora invade delle sue stoffe tutto il mondo. Tale fu lo sviluppo di tutto l’impero, che ora possiede più navi mercantili di tutti gli altri paesi del mondo. Anche il reddito della terra è aumentato immensamente. A che si deve tale risultato? Al lavoro. Il lavoro è lo sforzo onesto delle braccia e della mente. I nostri antenati sassoni chiamavano «denaro vivo» il bestiame ed i servi. Noi possiamo chiamare denaro o capitale vivo il lavoro. L’altro è il capitale morto che riceve la sua vita solo dal potere vitale e dall’intelligenza del lavoratore. Il lavoro ha quindi almeno altrettanti diritti del capitale. Il lavoro ha diritto alla propria libertà, ad accettare cioè o respingere i patti, ad accettare o respingere un dato padrone. Il lavoro ha anche diritto a proteggere se stesso. So, dice a questo punto il Manning, di accostarmi ad un fondale pericoloso. «Nella storia inglese trovate da un canto la famiglia colle sue leggi d’ordine domestico, dall’altra lo Stato colle sue leggi d’ordine pubblico. Fra l’uno e l’altra si stende il vasto campo della libera azione umana ed in esso sorsero le gilde che, accanto a finalità religiose, avevano anche lo scopo di rivendicare la libertà di fronte alla giurisdizione oppressiva di coloro che detenevano l’autorità locale». Tutte le città mercantili, al di qua e al di là del canale, sono un aggregato di queste gilde. Londra nacque da 70 di esse, e dai loro statuti derivarono le costituzioni delle città. Queste unioni professionali, composte di padroni e operai, avevano un potere giurisdizionale. «Ora temo di dire un’eresia politico-economica. Ho molto rispetto per l’economia politica. Credo pienamente nella legge dell’offerta e della domanda, nel libero scambio e nella salvezza del capitale, che sono le prime condizioni dell’industria. Ma mi rifiuto di credere che il parlamento debba astenersi da ogni e qualsiasi intervento, in qualunque caso. L’avvenire dell’Inghilterra non si fonda essenzialmente sull’aumento della produzione, ma sulla salute morale e fisica della famiglia. Lo Stato, quando occorra, è chiamato a proteggere i diritti scritti nella legge naturale, che devono prevalere su tutti gli altri». Lo Stato in Inghilterra è del resto già intervenuto. Si tratta piuttosto di fissare i limiti di tale intervento. Preferibile è che le associazioni libere provvedano con liberi accordi a fissare i minimi di salario e il massimo della giornata di lavoro; ma il Manning accenna già qui a ciò che più tardi esprimerà in termini più espliciti. «Se altro rimedio non esiste, potrà intervenire anche il parlamento a stabilire queste estreme frontiere economiche». Egli ha visto a Londra le case dei poveri: «Talvolta parecchie famiglie albergano in un solo locale, un canto per ciascuna. Questa situazione non può, non deve continuare… Questo accumular ricchezze, come montagne!… Nessuna repubblica può resistere a lungo su tali fondamenta!». Uscire dall’arca Era ovvio che con una visione del problema sociale quale si manifesta già in questa conferenza egli si sentisse indotto a patrocinare di fronte al suo clero un attivismo intraprendente e militante. Nel 1876, creato già cardinale, scrive: «Bisogna sapere, se dobbiamo rinchiuderci in una nuova arca di Noè, o se piuttosto non dobbiamo, come tutti i pontefici dopo Leone Magno , agire sul mondo». E risponde subito: «la parabola della pecorella smarrita basta a dirimere la questione». E a mano a mano che procede negli anni, sembra che il grande vescovo diventi sempre più deciso e più radicale. Un radicale «mosaico», soleva dire riferendosi alla legislazione sociale di Mosè. In una pastorale del 1880 descrive gli orrori del pauperismo, raffrontandolo coll’enorme concentramento della ricchezza, nel 1885 scrive nella «Dublin Review» un articolo per patrocinare la riforma agraria contro il latifondo, nel 1887, ricevendo una deputazione di cooperatori, esorta alla cooperazione, l’anno 1888 deve scrivere alla «American Catholic Quarterly Review» per difendersi contro l’accusa di poca ortodossia, avendo egli affermato che «ogni uomo ha diritto al lavoro e al pane». Nello stesso anno, divenuto vicepresidente della «Società per la pace», dichiara nel suo V congresso a Londra che ovunque prevale un sistema barbaro di terrorismo armato e invoca l’arbitrato per sopprimere il militarismo. E che dire del 1889? Il famoso «riformatore della terra», l’americano Henry George , e i capi delle Trade Unions vengono in episcopio a fargli atto di omaggio e a sentire il suo consiglio. Ma è di quell’anno sovrattutto il suo fortunato intervento per la composizione dello sciopero dei docks. Lo spettacolo di questo cardinale cattolico romano che, falliti tutti i tentativi dei capi laburisti e le mediazioni più illustri, riesce, nonostante i suoi ottant’anni, a strappare in un comizio di cinque ore quella soluzione pacifica, per la quale s’erano spesi invano tanti sforzi, fece allora un’impressione enorme quant’era stato grave il pericolo rivoluzionario che aveva allora minacciato la metropoli inglese. D’allora il cardinal Manning è riguardato come il capo di coloro che si chiamano già i democratici cristiani e che, specie dalla Francia, attraversano il canale per chiedergli appoggio e direttive. Dice a Lemire : «L’avenir est à la démocratie. C’est elle qu’il faut sauver, qu’il faut rendre chrétienne. C’est elle qu’il faut rapprocher». E l’8 gennaio 1891 scrive nel «Times»: «I politici e gli economisti della scuola classica hanno fatto il loro tempo; il secolo ventesimo sarà per il popolo e per le leggi della comune prosperità, sotto un regime cristiano». Quando uscì la Rerum Novarum, il vegliardo la tradusse e la commentò nella «Dublin Review» in termini entusiastici. «Da quando le parole divine – misereor super turbam – furono pronunciate nel deserto, nessuna voce si udì mai attraverso il mondo che perorasse con così profonda e amorevole simpatia la causa del popolo e di coloro che faticano e soffrono, come la voce di Leone XIII». Il commentario fu, come disse egli stesso, il suo testamento sociale. Vi si leggono infatti i pensieri fondamentali di Leeds, ma in forma più esplicita e in termini più decisi. La battaglia era già vinta e l’epoca sociale si era ormai affermata irresistibilmente. Edward Manning moriva il 13 gennaio 1892 ed un mese dopo esattamente cessava di vivere a Roma anche il cardinal Mermillod. Entrambi col Ketteler avevano compiuto una grande opera apostolica. Dopo di loro, solo la più insigne malafede anticlericale potrà sostenere dinanzi agli operai che la Chiesa cattolica, alla comparsa del movimento operaio, s’era mostrata ostile alle sue rivendicazioni. Capitolo II LA REAZIONE VIENNESE E LA POLITICA SOCIALE DEL CENTRO Le idee della riforma sociale cristiana nascono quasi contemporaneamente in Austria e in Francia e quasi negli stessi anni vi producono un movimento organizzativo, tanto che riesce difficile dire quale dei due centri propulsori, Parigi e Vienna, iniziasse l’opera. Jean Rivain, scrivendo in clima nazionalista la biografia di La Tour du Pin (V) respinge come un’accusa gratuita l’affermazione, comparsa più volte nella stampa francese, che i circoli dell’«Association Catholique» abbiano introdotto in Francia le idee esotiche dei feudali austriaci: ma egli stesso deve poi ricordare che de Mun, La Tour du Pin, prigionieri in Germania dopo Metz, vi avevano conosciute le idee di Ketteler e che La Tour du Pin, attaché militare a Vienna verso l’80, vi aveva frequentato appunto il gruppo aristocratico dei de Blome , Belcredi, Liechtenstein e Vogelsang. Di quest’ultimo esiste una lettera del 1890, la quale afferma che «le idee della riforma cristiano-sociale erano nate a Vienna, e di lì erano poi passate in Francia nell’“Association Catholique”». Se ci fosse prezzo dell’opera di risolvere tale questione di priorità, l’imbarazzo a decidere non sarebbe piccolo, perché i due gruppi, nati su per giù nello stesso periodo, nel quale si era resa acuta in tutta l’Europa la questione operaia, cooperano l’uno con l’altro, scambiandosi talvolta anche i collaboratori delle due riviste e arrivando poi, mediante l’«Unione di Friburgo» a delle conclusioni comuni. Anche volendo però lasciare impregiudicata la questione della precedenza, rimane certo che il clima politico-sociale più favorevole per la nascita e il culto di quelle idee di riforma, che più particolarmente furono dette «cristiano-sociali», era l’Austria, e che il maestro più logico, più radicale e più sistematico fu Karl Vogelsang. Incominciamo dunque dal gruppo austriaco. Il clima nel quale nacque la reazione Bisogna ricordare anzitutto – e lo ricordiamo, perché in parte le idee nascono anche dalle cose – che in Austria dal 1871 al 1878 governarono i cosiddetti costituzionali, quei gruppi cioè dell’aristocrazia, dell’alta borghesia e della finanza che si mantenevano fedeli alla Costituzione del 1867, la quale, per quanto riguardava la Cisleitania , era centralista e tedescofila. All’opposizione stavano invece i federalisti, quei gruppi cioè i quali, contro il parlamento centrale, sostenevano i diritti storici delle diete regionali e diventavano per ciò stesso alleati naturali delle nazionalità minori: polacchi, cecoslovacchi, sloveni. L’opposizione federalista fu così netta che il gruppo della Boemia, capitanato dal conte Leo Thun , si astenne dal partecipare al parlamento fino al 1879. Con tale schieramento in centralisti e federalisti combaciavano in quel periodo anche le divisioni di carattere più generale e specialmente religioso. I centralisti erano liberali, in senso anche anticlericale, tanto da abolire il Concordato e creare tutta una legislazione interconfessionale e laica. Comprendevano inoltre nella loro sfera gli interessi dell’alta banca, in mano per lo più d’ebrei, e l’industria che veniva rapidamente sviluppandosi. I federalisti erano conservatori, ed in grande maggioranza agricoltori: i boemi specialmente amministravano le loro grandi proprietà terriere, e, se non più nelle leggi, certo nel costume, godevano ancora l’autorità degli antichi signori feudali. A quest’epoca le diete regionali si suddividono in curie, che erano una riduzione moderna degli antichi stati (Stände): curia dell’aristocrazia terriera, curia delle città, delle camere di commercio e d’industria, curia dei comuni rurali e, in qualche provincia, anche la curia dell’alto clero. I rappresentanti dietali di ogni curia designano fino al 1873 i loro rappresentanti al Consiglio dell’Impero: dopo questa data s’introduce l’elezione diretta, ma gli elettori votano sempre tanto per il comune che per la dieta e il parlamento, ripartiti in curie, poiché il principio direttivo è quello di rappresentare le classi sociali e i grandi interessi storici. Non importa qui rilevare come questo sistema, assegnando alle diverse curie un diverso numero di mandati, creasse sproporzioni stridenti e come per qualunque curia la base del diritto elettorale fosse sempre il censo. Questa struttura rappresentativa spiega anche perché in Austria non esistesse in quest’epoca alcun partito cattolico unitario, com’era il Centro germanico. I singoli club regionali che portavano il nome generico di federalisti o conservatori, ospitavano anche molti deputati cattolici, ma le loro tendenze di fronte alla questione sociale si differenziavano assai. Si citavano fra i più studiosi e più progrediti i principi Alfred e Aloys von Liechtenstein , il conte Gustav de Blome, il conte Egbert Belcredi, il conte Franz von Küfstein , un conte Dipauli di Caldaro e il conte Falkenhayn , ministro poi dell’agricoltura. I federalisti, particolarmente il gruppo boemo, e col concorso finanziario anche di qualche prelato e sotto l’alta direzione del conte Leo Thun, pubblicavano a Vienna come loro organo il «Vaterland». Si può dire che la propaganda per le idee della riforma cristiano-sociale incomincia, quando nel 1875 inaugura la sua collaborazione al «Vaterland» il barone Karl Vogelsang. Era costui un convertito dal protestantesimo e un fuoruscito della Germania moderna. L’emigrato Vogelsang Discendente da una famiglia militare prussiana del Mecklemburgo, Vogelsang, entrato a trent’anni nel servizio amministrativo a Berlino, aveva troncato bruscamente la sua carriera nel 1848, in protesta contro le concessioni di carattere costituzionale che Federico Guglielmo IV aveva fatto al «suo caro popolo berlinese», il quale, secondo la moda, aveva rizzato qualche barricata. Ritirandosi nella sua proprietà di Alt-Gutendorf nel Mecklemburgo, Vogelsang inizia la sua carriera giornalistica collaborando al «Norddeutscher Korrespondent» in Rostock, giornale che uscì listato in nero, fino a che nel 1850 non venne ristabilita l’antica Costituzione degli stati. Ma allora cominciò anche nei rapporti economici una vigorosa reazione: invano il Vogelsang con alcuni altri tentò di attenuare, con qualche concessione ai contadini, lo spirito di rappresaglia dei signori, i quali volevano ristabilita senz’altro la servitù della gleba, abolita appena due anni prima. Sul terreno religioso gli avvenimenti politici ebbero effetti contraddittori. Alcuni signori si volsero verso la Chiesa cattolica, che appariva loro come l’unico istituto tetragono a tutte le bufere. «Allora compresi – scrisse il Vogelsang pochi anni dopo – che quella potenza spirituale, la quale ha costruito gli Stati del mondo civile, è anche la sola in grado di conservarli e che questa forza spirituale è innegabilmente il cristianesimo cattolico». Si recò a Berlino ove trovò in Ketteler, allora parroco di Sant’Edvige, un consigliere validissimo che lo indirizzò al circolo degli intellettuali di Monaco che facevano capo a Guido Görres, e di qui venne mandato ad Innsbruck dai padri gesuiti presso i quali, nella Pasqua del 1850, compié l’abiura solenne ed entrò nella Chiesa cattolica. Il suo esempio fu seguito da un piccolo gruppo di amici e parenti, tanto che l’aristocrazia reazionaria di Mecklemburgo si allarmò, la Dieta – era quella Dieta degli stati che il Vogelsang aveva così validamente patrocinata! – votò alcuni provvedimenti repressivi e, fra l’altro, dichiarò il Vogelsang decaduto dal mandato di rappresentante, perché era passato al cattolicismo. Allora il nostro, come parecchi altri, emigrò verso il Reno, a Colonia, e di qui passò a Fusseberg presso Monaco, ove, facendo l’agricoltore e vivendo in stretto contatto con il circolo dei Görres, Döllinger e Phillips , dimorò fino al ’59. Dopo un viaggio di studio in Europa, compiuto in qualità di precettore del principe Johann von Liechtenstein , lo ritroviamo nel 1865 a Vienna, ove nelle immediate vicinanze della città aveva comperato una tenuta agricola, che comprendeva anche una fabbrica di cemento. Ma gli affari andarono male e perciò nel 1872 trasmigrò di nuovo con la numerosa famiglia a Pressburgo, ove sotto il patrocinio di Georg Apponyi , padre del noto uomo di Stato ungherese Albert, collaborò al giornale «Der Katholik», e strinse amicizia con P. Costa Rossetti, celebrato autore degli Elementi di economia politica , e, mediante l’appoggio dei gesuiti, iniziò la sua collaborazione al «Vaterland», diventandone poi contrattualmente il redattore capo. Nel primo periodo della sua attività giornalistica cadde una sua polemica con i giornali del Centro germanico, ai quali il Vogelsang, odiatore incontenibile del prussianesimo, rimproverava di voler indurre i cattolici a quello che oggi si chiamerebbe l’Anschluss alla Germania. Ne fo cenno perché le polemiche provocarono l’intervento confidenziale di Windthorst, il quale accorse a Vienna per soffocare il piccolo incendio. Dopo l’incontro, Vogelsang scrisse nel suo diario accanto al nome di Windthorst: «uno dei soliti legulei parlamentari»; giudizio che combina quasi alla lettera con quello, altrettanto errato, di mons. Galimberti . Tali polemiche contribuirono a mantenere tra il Vogelsang e il movimento centrista quel certo distacco che durò fino alla fine. Il dissenso doveva trapiantarsi nel terreno sociale, in occasione del convegno di Haid. Il convegno di Haid Haid è un castello della Baviera, nel quale il principe Löwenstein, presidente dei congressi cattolici germanici, radunò nel 1883 alcuni esperti di cose sociali per elaborare delle conclusioni, da presentarsi all’annuo congresso generale. Fra questi consultori troviamo il conte de Blome, il conte Franz von Küfstein, P. Weiss , il dr. Ratzinger , Hitze e Vogelsang. In Haid si discusse e si concluse a proposito dell’artigianato e della questione operaia, ma si tolse dall’ordine del giorno la questione dell’usura, ch’era la partita del Vogelsang, dichiarando che non era ancora matura. Seguì poi nello stesso anno un’altra riunione a Salisburgo ov’era presente anche il conte Galen , lo specialista del Centro per le questioni operaie, e che si occupò in particolare del problema agricolo. Ma queste tesi sociali non vennero presentate al congresso generale di Düsseldorf, bensì appena a quello di Amberg dell’anno dopo (1884) e senza che su esse venisse aperta la discussione. Una lettera del conte de Blome, allora in Germania, e diretta al Vogelsang, spiega le ragioni di questa sepoltura. Windthorst temeva che le questioni sociali portassero la discordia nel Centro cattolico ch’egli voleva mantenere compatto per il Kulturkampf esospettava che Bismarck si valesse appunto di tali problemi, per spezzare l’unità dei cattolici. D’altro canto egli nutriva un’estrema diffidenza contro ogni proposta che tendesse ad aumentare i poteri dello Stato. La stampa del Centro obbediva a questa ispirazione e, in occasione di Haid, attaccò il Vogelsang come «socialista di Stato». L’accusato rispose che egli non intendeva punto di affidare allo Stato dei compiti permanenti in tale materia, ma che si trattava solo di compiti che la società doveva provvisoriamente delegare allo Stato, essendosi questo impadronito, contro il diritto, di tutte le funzioni sociali. La polemica però non continuò, perché il Blome aveva chiuso il suo viaggio d’informazioni con il consiglio che gli austriaci dovessero provvedere ai casi loro, lasciando che il Centro provvedesse, come gli pareva meglio, alla sua tattica. Le leggi sociali austriache In Austria, infatti, nell’83 e nell’85 si hanno le due prime leggi di riforma cristiano-sociale , elaborate e sostenute dai circoli del «Vaterland», i quali, dopo che nel 1879 era andato al governo il conte Taaffe con un ministero semifederalista, esercitavano in materia un notevole influsso. La prima legge prevedeva la costituzione obbligatoria delle società di mestiere (Gewerbegenossenschaften), la riunione cioè in un’unica società dei maestri e dei lavoranti appartenenti alla medesima arte. A tale obbligo però andavano soggette solo le officine che comprendevano meno di venti lavoranti: rimaneva esclusa cioè la grande industria. Sono queste le corporazioni artigiane che dopo la guerra abbiamo trovato a Trento e a Trieste, sotto il nome di consorzi industriali . I consorzi, con l’aiuto del governo, fondarono scuole d’arte e mestieri, con l’obbligo per gli apprendisti di frequentarle per tre anni, e costituirono un «consiglio» che doveva venir consultato per qualsiasi disposizione regolamentare che l’autorità politica volesse prendere in materia di piccola industria. Questo potere consultivo, quando, come nelle principali città tedesche, venne fiancheggiato dai partiti politici, ebbe in pratica un carattere determinativo. Per la grande industria invece il relatore conte de Blome propose e spuntò alla Camera alta, nel 1885, la giornata massima di dieci ore; ma è caratteristico che la Camera dei deputati, ove il liberalismo industriale aveva i suoi rappresentanti, invece di dieci, votò undici ore. La legge conteneva anche altre disposizioni protettive circa il lavoro delle donne, dei fanciulli e l’igiene delle fabbriche, prevedendo quegli ispettorati industriali, che ebbero più tardi grande sviluppo. Ben presto però l’attività legislativa, che il Blome si augurava nella lettera al Vogelsang di continuare, si trovò paralizzata per l’opposizione di parte dei feudali e dello stesso Taaffe, influenzato dalla grande industria. Ed ecco che gli aristocratici sociali, specialmente il Vogelsang e Aloys von Liechtenstein, si rifanno delle delusioni che incontrano in alto con il patrocinare e convogliare verso la riforma cristiano-sociale le forze della piccola borghesia, che allora appunto venivano riorganizzandosi sotto la spinta antisemita. Sorge così quella concentrazione di tutte le forze nuove che si chiamerà «Vereinigte Christen» (Cristiani uniti); e dalla quale più tardi nel 1894, cioè dopo la morte del Vogelsang, nascerà il Partito cristiano-sociale . Un altro centro di collegamento e d’irradiazione trovò il Vogelsang nel congresso cattolico di Vienna del 1889 . La sottocommissione economicosociale del congresso si trasformò in un cenacolo permanente di studio, nel quale comparivano i più noti cultori di cose sociali e che, sotto la presidenza del prof. Schindler , visse fino al 1897 ; nel qual anno, avendo il Lueger conquistato il municipio, il lavoro pratico politico e amministrativo non lasciò più il tempo di occuparsi delle dottrine. Karl Vogelsang morì nel 1890, a 72 anni di età, assistito dal generale austriaco dei domenicani, P. Andreas Frühwirth , ora cardinale, che gli era stato sempre grande amico e consigliere. Negli ultimi tempi aveva avuto il conforto di rilevare la congruenza delle sue idee con quelle dell’«Association Catholique» e di visitare in Disentis Caspar Decurtins , che l’anno prima (1889) gli aveva fatto inviare il seguente telegramma: «Gli operai svizzeri radunatisi a Zurigo esprimono al benemerito campione della riforma sociale cattolica la loro profonda gratitudine e devozione». Restaurazione sociale Le idee fondamentali, esposte dal Vogelsang (VI) in molti articoli del «Vaterland», raccolti in parte in un volume del 1887 e nei dodici volumi della sua rivista «Monatsschrift für Gesellschafts-Wissenschaft» , riguardano la riforma della società e la riforma del sistema economico. Dobbiamo parlarne con una certa larghezza, perché queste idee hanno influito e fermentano ancora in tutti gli Stati dell’Europa centrale. . In quanto alla società, egli intende riorganizzarla, sotto forma corporativa. Nessuno, secondo il Vogelsang stesso, ha descritto il suo schema di riorganizzazione meglio della socialista «Arbeiter Zeitung», quando in occasione di un discorso del barone Falkenhayn alla Camera dei Signori, scrisse nel 1890: «Il conte Falkenhayn svolse le note utopie di Vogelsang e della sua scuola intorno all’organizzazione professionale della società, le quali, in poche parole, tendono a mettere in luogo dell’odierna divisione orizzontale delle classi, la divisione verticale della società in professioni, cosicché ogni professione unisca datori di lavoro e operai in corpi solidali chiamati corporazioni, i cui interessi comuni vengono espressi all’esterno in comune, ma i cui interessi contrastanti devono venir risolti nell’interno della corporazione. In tal modo si aboliranno le classi e la lotta di classe». Praticamente, il Vogelsang pensava che si dovesse dare una particolare organizzazione corporativa alle grandi classi che in Austria vedeva ancora ritte innanzi a sé,come la continuazione vivente degli antichi Stände (stati): nobiltà, agricoltura, artigianato (o piccola industria); e ad esse aggiungeva la classe moderna della grande industria. Queste quattro classi costituiscono l’ossatura della società civile, la quale non si fonde nello Stato e non esiste per causa dello Stato; ma, al contrario, è lo Stato ch’esiste per cagione della società. Lo Stato, secondo il Vogelsang, è una istituzione della società, per la difesa della sua vita sociale. La società vive la sua vita economica indipendentemente, al di fuori della sfera politica, e crea lo Stato allo scopo fondamentale di mantenere l’ordine e di amministrare la giustizia. Lo Stato perciò deve modellarsi sulla costituzione economica della società. Federalismo rinnovato La gerarchia politica deve adattarsi alla gerarchia sociale. Bisogna quindi sostituire all’attuale sistema parlamentare il sistema rappresentativo delle classi e degl’interessi. È a questo punto che la stampa centrista e specialmente l’on. Jörg degli «Historisch-politische Blätter» di Monaco saltò su con l’accusa, allora assai temuta, di socialismo di Stato. Voi, dice Jörg, definite ottimamente lo Stato come secondario in confronto della società; ma in pratica, affidandogli, nel corso della vostra riforma, il compito di riorganizzare la società e di trasformare le basi dell’economia, aumentate smisuratamente il suo potere e ne fate uno Stato socializzatore e onnipotente. Non è così, ribatte il Vogelsang. Io sono un avversario dichiarato di questa onnipotenza dello Stato, di questo affogamento bizantino di ogni libertà e di ogni vita intellettuale, che sarebbe la conseguenza necessaria della nazionalizzazione. Gli organi regolativi della vita economica nel futuro ordine sociale cristiano saranno le classi corporative organizzate, e non lo Stato; ma poiché oggi, in via di fatto, lo Stato liberale si è arrogato tutti i diritti ed ha assorbito tutte le funzioni, è lo Stato stesso che, in via suppletoria, e provvisoria, interverrà nel regime economico, fino a tanto che la nuova società sarà ricostituita. In fondo, l’ideale di Vogelsang era di ricostruire un sistema analogo al feudalismo, adatto alle condizioni moderne. Nel feudalismo il principio fondamentale della vita economica era che «ogni proprietà è una parte della fortuna nazionale comune, concessa in usufrutto a dei privati, in cambio di servizi resi alla comunità». «L’ordine sociale cristiano germanico, la fioritura più nobile dello spirito umano, prodotta in lungo e difficile lavoro dalla Chiesa sul nostro fertile suolo, non conosceva la proprietà, ma solo l’usufrutto di un bene comune nazionale… Chi avesse voluto vivere come privato, cioè senza obblighi e diritti sociali, ben circoscritti, sarebbe stato dichiarato fuori legge: tanto il re che il contadino». Ebbene come allora il suolo veniva assegnato per compensare diversi uffici sociali, ai quali rimaneva legato (esempio, il servizio militare), come più tardi l’artigianato, raccolto nelle sue corporazioni, ebbe quasi in feudo dignità, obblighi e diritti ufficiali, così ora, benché sotto altre forme, il possesso del suolo e dei mezzi di produzione deve venir gravato di cariche e di funzioni disimpegnate gratuitamente per il bene pubblico. Il Vogelsang pensava che tutte le autonomie locali e professionali, da crearsi entro le corporazioni, avrebbero richiesto un grande numero di uffici e di cariche, da coprirsi gratuitamente da parte dei proprietari, e che così si sarebbe giunti alla soppressione o quanto meno alla diminuzione della burocrazia statale e comunale. «Non si tratta dunque – egli conclude – di abolire la proprietà privata, né di statizzare il lavoro, né di affidare allo Stato la distribuzione dei prodotti, bensì di liberare la proprietà produttiva dalla sua privatizzazione, cioè dall’egoismo del singolo». Contro l’economia capitalista Qui incide la sua lotta contro il sistema capitalista. «Alle migliaia che vivono dei loro titoli di rendita sembra che il capitalismo e l’economia fondata sul prestito ad interesse sia un’istituzione intangibile. Ma questa legge del capitalismo è un’istituzione di valori in metallo o in carta, però infruttiferi, scompagnati da ogni lavoro del proprietario; un’istituzione che produce valori all’infinito. Si è fatto il calcolo che un pfenning, emesso ad interesse al tempo della creazione del mondo, ora con l’interesse composto sarebbe diventato una palla d’oro grande cinque volte il nostro globo. Basta questo esempio per dimostrare la insostenibilità dell’economia a interesse. La somma dei beni della terra, secondo le leggi naturali, non aumenta, né diminuisce. Ma l’interesse degl’interessi vuole creare dei beni che crescono tanto, da superare il nostro globo terracqueo. La legge naturale e la legge del capitalismo stanno l’una di contro all’altra in risoluto contrasto, e siccome sono costrette a toccarsi e lottare, la catastrofe e lo scoppio finale sono inevitabili. La natura, come forza più potente, vincerà. La decisione estrema farà scoppiare un incendio mondiale e creerà rovine fumanti, dalle quali, come ai tempi della trasmigrazione dei popoli, usciranno i ministri dell’Evangelo con la croce in mano a rialzare di nuovo le sorti della società». Questa visione apocalittica ci porta a riassumere in poche parole la teoria del Vogelsang sul prestito di moneta a interesse. Nella conferenza di Haid del 1883 egli era rimasto in minoranza ed aveva pubblicato perciò l’anno dopo nella sua rivista una trattazione molto ampia «sull’interesse e sull’usura» . In questo lavoro gli era servito di guida teologica preziosa il P. Frühwirth. Nella polemica che ne seguì la maggior parte dei teologi con in testa il gesuita P. Lehmkuhl gli si dichiararono contrari. Trovò invece un potente alleato nel domenicano P. Albert Maria Weiss, che tratta diffusamente di tale materia nel quarto volume della sua apologia. L’essenza del contrasto è nota. Vogelsang appartiene a coloro che vogliono ristabilita nella sua purezza la dottrina dei Padri, formulata anche dal V Concilio lateranense del 1515 e richiamata dalla costituzione di Benedetto XIV Vix pervenit: cioè la proibizione assoluta del prestito di moneta a interesse, proibizione che si richiama a questi principi: 1. il denaro è di sua natura improduttivo; 2. in un prestito di moneta la proprietà passa al mutuatario; 3. l’uguaglianza è la regola della giustizia commutativa negli scambi come nei contratti. Ora se il mutuante riavrà il suo capitale, che vuole di più? Il Vogelsang insiste specialmente sul fatto che il prestatore, esigendo dal debitore il pagamento d’un prezzo per l’uso del denaro che non è più suo, commette una grave ingiustizia. Lehmkuhl e con lui la maggioranza dei teologi rispondono che l’antica condanna dell’usura era condizionata alla situazione economica d’allora, per la quale del danaro mutuato non si usava che per consumo personale e improduttivo. Ora invece nella società moderna il denaro ha carattere produttivo e perciò i prestatori possono esigere un interesse, a titolo di lucro cessante, danno emergente, o rischio. Nell’antichità si trattava di difendere il povero mutuatario di fronte all’esosità del ricco prestatore. Ma ora la situazione si è capovolta: il prestatore generalmente è il piccolo risparmiatore che presta al finanziere, allo Stato, alle grandi società per azioni. Bisogna quindi salvaguardare l’interesse del prestatore. La Chiesa, perciò, tollera e, secondo alcuni, anzi riconosce lecito il prestito a interesse. Ma Vogelsang si appassionava in questo argomento perché credeva di trovarvi la mina per far saltare tutto il sistema capitalista. Sul prestito di moneta ad interesse si fondano i debiti pubblici, i depositi bancari, la maggior parte dei titoli di borsa. Si trattava di detronizzare il capitale scompagnato dal lavoro. Stabilito il principio, però egli non intendeva che la legislazione intervenisse ex abrupto con una proibizione, ma voleva che si provvedesse con disposizioni graduali a limitare la libertà dell’usura, e restringere l’economia del denaro, sostituendola in parte con l’economia naturale, permettendo ad esempio che i proprietari agricoli pagassero le tasse in natura. L’economista tedesco sostenne queste idee con un accanimento straordinario ed ebbe la consolazione di trovare consenzienti anche tra i cattolici francesi. La sua gioia fu al colmo, quando l’«Unione di Friburgo», per iniziativa del più giovane dei suoi membri, Henry Lorin , votò nel 1887 un ordine del giorno, che il Vogelsang riproduce nella sua rivista (1888) sotto il titolo «cattolicismo e capitalismo», menandone gran vanto in confronto dei socialisti. Vediamola questa risoluzione di Friburgo: «1. Il regime attuale del credito costituisce quello che si chiama “sistema capitalista” o “capitalismo”. Questo sistema suppone a torto che il valore delle cose separate dalla loro sostanza, abbia in se stesso un’utilità economica e che, per conseguenza, si possa ricavare da questo valore separato dalle cose un interesse fisso; mentre invece, considerato in se stesso, questo procedimento ha le note caratteristiche dell’usura tale quale è definita nel V Concilio del Laterano, da Benedetto XIV e dai Padri della Chiesa. 2. Questo sistema s’appoggia sulla libertà assoluta del lavoro, della proprietà e dello scambio; sul riconoscimento dottrinale dell’interesse individuale (egoismo), come unico motore del lavoro economico e sociale; sull’individualismo; sull’idea della produttività del capitale e del denaro; sulla considerazione del danaro, come produttore generale e supremo che frutta sempre. In conseguenza di questo sistema, si separano i mezzi materiali del lavoro umano; la loro riunione economica si opera per mezzo del credito e si arriva alla capitalizzazione universale». Segue un elenco degli effetti di questo sistema capitalista, tra i quali noto quello che riguarda l’indebitamento ipotecario dei terreni, uno degli argomenti più trattati dal Vogelsang, e quello della fluttuazione e dello sfruttamento dei titoli in borsa che sarà poi il bersaglio preferito dei cristiano-sociali viennesi. «Usura vorax» Né la questione oggi è spenta. Leone XIII nella Rerum Novarum si limita ad un accenno descrittivo quando dice: «Accrebbe il male un’usura divoratrice che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa, continua lo stesso sotto altro colore, per fatto d’ingordi speculatori. Si aggiunge il monopolio della produzione e del commercio tantoché un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un giogo poco men che servile» . Parole certamente gravi dirette contro il moderno sistema economico, ma esse si riferiscono in genere agli abusi e agli eccessi del capitalismo; vi si colpisce l’usura degli speculatori, degli sfruttatori, degli accaparratori; ma non si rinnovano condanne contro l’usura in senso medioevale, cioè contro il prestito di moneta a interesse. Vedremo come quest’omissione lasciasse perplessi anche gli studiosi di Friburgo, specie gli austriaci. Oggi, dopo la guerra, a Vienna ancora, e per opera della risorta scuola del Vogelsang che trova il suo portavoce nella rivista «Neue Ordnung» (nuovo ordine) si sostiene sempre che bisogna arrivare alla condanna dell’usura, nel senso del Concilio lateranense, anzi il biografo del Vogelsang vuole dimostrare ch’essa è già implicita nell’art. 1543 del nuovo codice di diritto canonico. Questa nuova scuola crede di dover attingere dagli insegnamenti per il periodo postbellico nuove conferme per due altri capisaldi fondamentali del sistema Vogelsang. Il primo è che all’economia della produzione disorganizzata debba sostituirsi un’economia del fabbisogno (Bedarfswirtschaft). Secondo il Vogelsang dunque e i suoi recenti epigoni (VII), le corporazioni devono avere il diritto di regolare la produzione, sollecitandola o limitandola, a seconda del fabbisogno. Conseguentemente esse sono anche chiamate a fissare i minimi del salario e i massimi della giornata lavorativa. Infine la regolamentazione corporativa dovrà tendere a trasformare il salariato in partecipazione. Ecco la conclusione assai radicale del Vogelsang: «La soluzione della questione operaia, la giustizia verso la classe operaia non può essere altro che la cessazione della classe operaia, il suo assorbimento cioè nella classe dei proprietari. Chi indica la via che a ciò conduce, si rende benemerito della soluzione della questione sociale, ogni altro consigliere non porta che confusione». Nell’ultimo anno della sua vita, alla vigilia del congresso di Liegi, il sociologo viennese riassumeva il cammino fatto in un articolo della sua rivista intitolato: «Dallo sciopero di Bruna al congresso di Liegi». Lo sciopero degli operai tessili di Bruna, scoppiato nel 1875, era finito con una repressione sanguinosa. Il «Vaterland» non aveva applaudito ai gendarmi. Quest’atteggiamento aveva messo in subbuglio tutto il campo clericale conservativo. Qual differenza ora, alla vigilia di Liegi! I cattolici tedeschi e lo Stato moderno Non v’ha dubbio che la scuola viennese esercitò un notevole influsso anche sui cattolici della Germania, tanto è vero che lo Hitze, inaugurando nel 1893 i corsi sociali di Mönchen-Gladbach, si proclamò scolaro del Vogelsang; in generale però non si può dire ch’essi tennero la stessa via. Né bisogna ritenere che le cause di questa diversa via siano state solo d’indole tattica, come riferiva al Vogelsang il conte de Blome, nella lettera succitata. Il proposito di concentrare ogni sforzo nella lotta per il Kulturkampf senza diversioni spiega in parte il relativo ritardo, con il quale il Centro entrò nell’azione sociale, ma non il suo differente indirizzo. La causa è più profonda ed è essenzialmente politica. Il Centro non si trovava in così radicale opposizione contro lo Stato moderno, come il profugo del Mecklemburgo e i suoi patroni del «Vaterland». Mentre Vogelsang si ritirava imbronciato nel suo castello, perché il re aveva concessa la Costituzione, Ketteler veniva eletto deputato a Francoforte con un programma democratico nel quale leggiamo questo passo caratteristico: «Fino a tanto che la famiglia, il comune, possono bastare a se stessi per raggiungere il loro scopo naturale, bisognerà lasciare loro libera autonomia. Così tutti e non solo i sapienti, ma il popolo intero, prendono parte al governo. Il popolo regge da sé i suoi affari: fa una scuola pratica di politica nell’amministrazione comunale… È così che il popolo acquista la formazione politica e la capacità che dà all’uomo il senso della sua indipendenza». A Berlino stesso, i fratelli Reichensperger , due fondatori poi del Centro, avevano così attivamente collaborato nel comitato costituzionale alla formulazione dei diritti fondamentali, appunto per inserire nel quadro delle libertà generali la libertà della religione e della scuola, che lo statuto che ne venne fuori, veniva detto scherzosamente nei circoli parlamentari «Magna charta Reichensperger». In entrambe le Costituenti, insomma, a Francoforte e a Berlino vi era stata collaborazione dei cattolici con i liberali e con i democratici; nessuna meraviglia, quando si consideri che il liberalismo non aveva ancora mostrato i suoi artigli anticlericali, e i cattolici, soffocati in Prussia e in Austria dallo Stato poliziesco assoluto e negli Stati meridionali da regimi giurisdizionalisti che incatenavano la Chiesa, avevano compreso, che specie là ove erano minoranza non potevano sperare che nel sistema costituzionale rappresentativo e nella libertà di parlare, di stampare e di riunirsi. Del Windthorst poi che prima del ’70 aveva fatto parte in parlamento di «un gruppo federalista» il quale aveva per programma lo sviluppo della Costituzione in senso «liberale costituzionale», il suo maggior biografo rileva: «Già dagli inizi della sua carriera politica Windthorst si era fatta chiara convinzione che un’azione politica efficace era possibile solo sul terreno del moderno Stato costituzionale, come l’aveva creato l’agitato e tormentato secolo XIX. Su questo terreno egli si sentiva sicuro, e ne difendeva con ostinata energia ogni palmo usando tutte le armi offerte dal diritto costituzionale. Perciò qualsiasi eventuale tentativo di conferire pratico valore nei nostri tempi a principi politico-giuridici del medioevo, e a sorpassati istituti giuridici, lo metteva subito in allarme». Siamo scrupolosi nel rispettare la Costituzione, raccomandava ai suoi, affinché la si rispetti anche in nostro confronto. Ancora nel 1878, quando Bismarck accenna a voler trattare con Roma, il capo del Centro lo incoraggia a farlo, ma tiene a disingannarlo nel caso che sperasse di condurre per tale via il Centro nel campo della reazione. «Nelle questioni direttive, nelle questioni cioè dello sviluppo liberale (freiheitlich) dello Stato, ci vedrete dalla parte di coloro che tali direttive rappresentano o meglio (poiché di tali rappresentanti non vedo più nessuno) continueremo a far garrire al vento la bandiera della civile libertà». La traiettoria politica sulla quale si muovono gli austriaci e i germanici è dunque diversa. Il Vogelsang aspirava a poggiare la grandiosa struttura della sua riforma sociale sulle spalle della nobiltà e della monarchia sociale. È la stessa monarchia che sorrideva a La Tour du Pin, ed ora a Maurras. Ma per i cattolici del Centro la nobiltà terriera nella sua grande maggioranza voleva dire gli Junker prussiani intolleranti e retrogradi e la «monarchia sociale…» il cancelliere dal pugno di ferro. La narrazione dei fatti del resto costituirà il miglior chiarimento della situazione. Un primo movimento di organizzazione operaia, dovuto in gran parte a Ketteler e ai suoi collaboratori e sorto quasi tutto in Renania, venne stroncato dalla guerra del ’70. Dopo la guerra il nuovo movimento cattolico che parte ancora da Magonza verso il 1872, ha carattere difensivo e viene soffocato dal governo durante il Kulturkampf nel 1875. La svolta del 1880 La svolta è all’anno 1880, quando l’industriale Brandts fonda a Mönchen- Gladbach, sul Basso Reno, l’«Arbeiterwohl», «federazione degl’industriali e degli amici degli operai», della cui direzione oltre il Brandts fanno parte Hertling, allora professore a Bonn, Moufang , il braccio destro e l’erede di Ketteler, e il giovane sacerdote Franz Hitze, che ne divenne l’anima e il segretario. Questa società, che pubblicava una rivista dello stesso nome, si proponeva il compito di promuovere l’organizzazione professionale e di studiare ed elaborare una legislazione protettiva per gli operai della grande industria. Nel 1889 le società operaie cattoliche sono ormai così numerose da poter costituire una federazione nazionale, e nel 1890 si fonda il «Volksverein» , che «mettendosi realisticamente sul terreno della società moderna» si propone di educare le classi dirigenti cattoliche al lavoro sociale e dell’organizzazione delle masse. L’opera sociale della rappresentanza politica dei cattolici era cominciata nel 1877 colla presentazione della proposta del conte Galen, nipote del Ketteler. Si chiedeva che il governo elaborasse proposte di legge: 1. circa il riposo festivo; 2. una riorganizzazione dell’artigianato, per introdurvi l’apprendisaggio obbligatorio e l’attestato di abilitazione obbligatorio; 3. una legislazione per le fabbriche che proibisse il lavoro dei fanciulli, limitasse quello delle donne, introducesse l’arbitrato paritetico. Non era gran cosa; e pur tuttavia Windthorst s’era lasciato indurre a lasciar passare siffatta iniziativa, solo perché il mezzo milione di voti che i socialisti avevano raggiunto nelle recenti elezioni parlava un linguaggio troppo minaccioso! Non era gran cosa, e pur bastò per far esclamare, inorridito, al capo dei liberali Lasker : «Questa è la via del ritorno. Per carità, non voltiamoci indietro, ma continuiamo nelle vie della libertà!» Il governo, per bocca del ministro Hofmann, dichiarò che simili pretese avrebbero danneggiata la grande industria e quindi il benessere nazionale. «Con idee filosofiche – concluse il ministro – c’è poco da fare in tale materia». Ma nel 1878 gli attentati contro Guglielmo I scuotono il governo e l’opinione pubblica . Bismarck comprende che la sua legge repressiva contro i socialisti – alla quale il Centro aveva negato il suo voto – non bastava, che conveniva provvedere positivamente e, sotto l’influsso di quel gruppo di economisti che volevano una politica sociale e venivano chiamati ironicamente «socialisti cattedratici» perch’erano tutti professori, pensò di istituire per gli operai le assicurazioni sociali. Contemporaneamente la Destra conservatrice (protestante) fece varie proposte intente a ricostruire le antiche Innungen (corporazioni) dell’artigianato. Ora la situazione si capovolge. «Uno dei fenomeni più stupefacenti dell’epoca – scriveva il barone von Hertling nel 1884 – è l’improvviso mutamento delle opinioni circa i rapporti dello Stato colla vita economica e sociale. La causa del mutamento non è profonda poiché sta nel cambiamento di manovra dell’onnipotente cancelliere. Egli è passato sul terreno sociale, su cui il Centro stava da tempo. Ma ecco che il Centro dovette pensare già parecchie volte a proteggere la giusta libertà contro minacciate intromissioni dell’autorità statale: compito non facile perché sta crescendo una nuova generazione, la quale conosce il liberalismo soltanto per i danni che ha recato e, nell’ira che la prende, è troppo facilmente propensa a dare in braccio allo Stato, la cui sfera d’azione si è allargata smisuratamente, anche le libertà necessarie, per le quali i nostri padri hanno combattuto con tutte le loro forze. Come il Centro aveva prima fatto fronte contro l’illimitato individualismo, ora deve opporsi a tendenze di socialismo di Stato…». Triplice schieramento in Germania Dal 1870 al 1890 assistiamo dunque, in Germania, a questo triplice schieramento. I destri propongono delle soluzioni coercitive; tale, per esempio, è il contenuto del progetto del conservatore von Seydewitz per la ricostituzione generale ed obbligatoria delle Innungen (corporazioni) della piccola industria: su tali progetti il Centro esercita un influsso moderatore, cosicché dalle commissioni parlamentari le proposte escono modificate nel senso di una minore ingerenza dello Stato. Ad alcune altre è assolutamente contrario, come per esempio alla proposta di un conservatore, presentata già nel 1878, di vincolare per tre anni l’apprendista a rimanere in servizio, presso il suo maestro, salvo la decisione dell’autorità politica. Quando l’Hertling prese atteggiamento contrario, sui banchi della Destra ci furono segni di stupore e meraviglia. Ma Hertling dichiara: «Se non si riconosce alcun diritto che nello Stato e per mezzo dello Stato, diventerà sempre più difficile di mantenere la linea di demarcazione, al di là della quale non è lecita l’ingerenza dello Stato, al di là della quale un tale intervento assume il carattere di arbitrarie misure di polizia… Noi vediamo il compito dello Stato in ciò che esso protegga ovunque i diritti esistenti. Non ci si troverà mai disposti ad un’alleanza sul terreno della reazione poliziesca» (VIII). Per suo conto invece il Centro insiste sulla legislazione protettrice dell’operaio industriale, o, come si chiamava allora, per la legislazione di fabbrica. I capisaldi della proposta Galen vengono ripresentati quasi ad ogni legislatura e, dal 1881, vi si aggiunge anche la fissazione di un massimo delle ore di lavoro. Ma qui il governo resiste in nome dell’interesse nazionale, ossia della concorrenza dell’industria tedesca con quella inglese. «Ov’è il limite – esclama Bismarck – fino al quale si possa gravare l’industria, senza ammazzare all’operaio la gallina che gli fa le uova?… la differenza fra 14 e 10 ore di lavoro porta il 40 per cento di meno nei profitti!». Hertling ribatte, mettendo in rilievo i diritti dell’operaio alla domenica cristiana, alle ore di riposo, alla sua vita familiare, alla sua libertà, e il dovere dello Stato di proteggere tali primordiali diritti. La polemica si rifà nel 1884 e questa volta parla per il Centro il giovane Hitze il quale, sfidato da Bismarck, presenta anche, entro pochi giorni, un progetto concreto. Esso passa trionfalmente la trafila parlamentare – i liberali manchesteriani non si fanno più vivi – e il cattolico Lieber che ne parla in terza lettura, rileva che la persona dell’operaio deve stare al centro di tutte le preoccupazioni, al disopra di ogni riguardo economico. E cita in proposito quanto diceva Macaulay già nell’ottobre 1853. «L’uomo, l’uomo è il grande strumento che crea la ricchezza! La differenza naturale fra la Campania e lo Spitzberg è un nulla a confronto della differenza che regna fra un paese abitato da uomini moralmente e fisicamente sani e un paese ove l’uomo è moralmente e fisicamente indebolito. Perciò, l’avere da tante generazioni in qua riposato un giorno la settimana, ci ha fatti più ricchi, non più poveri». Ma questi ed altri dibattiti parlamentari urtano sempre in una resistenza irremovibile, tanto che nel 1889 il Consiglio federale dichiarò che non avrebbe mai accettato simili proposte anche se venissero votate dalla Camera ad unanimità. Bismarck, come si disse, aveva invece voluto affrontare la questione sociale in altro modo, creando col concorso dello Stato un sistema di assicurazioni operaie che garantissero dalle malattie, dalla vecchiaia, dalla disoccupazione. Di fronte a queste iniziative di governo il Centro prende un atteggiamento di massima favorevole, ma monta la guardia contro ogni ingerenza eccessiva centrale, insiste perché le assicurazioni siano costituite su base federativa, legandole alle corporazioni e alle mutue esistenti. «Si ricordi – dice l’Hertling (IX) –, come, secondo la descrizione di Tocqueville , l’assolutismo regio francese abbia distrutto a poco a poco tutti i suoi sostegni, comprese le corporazioni, fino che precipitò, dopo aver esso stesso strappate le radici che lo univano al popolo. Non il rafforzamento del potere centrale protegge contro la rivoluzione, ma l’irrobustimento della vita che pervade tutto il corpo popolare, il rafforzamento di tutte le singole membra dell’organismo popolare. Il Centro trova legittimo che lo Stato intervenga ad imporre ai padroni la quota assicurativa, poiché si tratta di sostituire quelle opere sussidiarie in favore dell’operaio, che altrimenti oggi ricadono sui comuni, e perché l’assicurazione rappresenta una parte della giusta e piena rimunerazione del lavoro». Queste linee fondamentali della politica sociale del Centro, il quale al di fuori appare come un blocco unitario, anche perché ogni discorso termina sempre col ceterum censeo della libertà della Chiesa – la pace di Bismarck con Leone XIII è del 1887 –, erano però il risultato di un compromesso tra varie tendenze. Le due principali s’incarnavano in Hertling e in Hitze. La polemica sullo Stato e sul medioevo corporativo Hitze appena tornato da Roma, ove dal 1878 all’80 era stato cappellano del Camposanto teutonico, pubblicò nel 1881 il suo libro sul «capitale e lavoro e la riorganizzazione della società» , ed Hertling vi fece presto seguire una critica serrata e luminosa . Non possiamo qui ricostruire la dotta polemica, ma si troverà interessante che accenniamo ad alcuni punti particolari. Hitze, influenzato evidentemente dal Vogelsang, insiste per la ricostruzione delle Zünfte ossia delle corporazioni e assicura che esse nel medioevo hanno risolto la questione sociale, cioè hanno stabilita la concordia fra il capitale e il lavoro. Hertling apprezza le corporazioni, ma mette in guardia contro le esagerazioni. Esse non durarono, in questa loro funzione conciliatrice, che circa due secoli. Nel XIII secolo a Brema i calzolai, visto l’incremento dell’esportazione, avevano già stabilito che l’appartenenza alla corporazione fosse ristretta in forma ereditaria ad alcune famiglie. La degenerazione venne dunque assai presto. Non conviene esagerare nemmeno nel medioevalismo. La storia dello sviluppo economico è la storia del problema come si possa mettere in armonia l’uso dei beni terrestri col vero fine dell’umanità. «Nessun periodo della storia ci offre una forma generale della vita economica e pubblica che di per sé abbia bastato alla soluzione di questo problema». «È vero che nel Medio Evo sorse l’ideale d’un ordine sociale cristiano e venne compiuto un grande sforzo per riempire di spirito cristiano la famiglia, lo Stato, il commercio, l’industria, l’arte e la scienza! Ma a questo ideale ci si poté accostare non con un sistema di per sé, ma per mezzo del sentimento e dell’opera del singolo: almeno le classi dirigenti dovettero vivere in pieno e personalmente il cristianesimo; e questo fu l’essenziale». In realtà però l’uomo è debole e l’ideale è stato raggiunto solo raramente o quasi in via transitoria. I trattati dei mistici e dei predicatori medioevali non sono pieni di lamentele sulla corruzione dei tempi? Vero è che al sistema economico sociale e politico si deve sempre chiedere almeno ch’esso non assuma mai tal forma da difficoltare o impedire il raggiungimento dello scopo, sopra indicato; e in tal riguardo è vero che nel medioevo la questione sociale non esistette, perché le forme della vita economica concedevano anche ai più poveri la possibilità di svolgere una vita umana. Anche oggi il problema rimane negli stessi termini. «Ogni uomo – dice l’Hertling – ha una certa misura di diritti concessigli da Dio, in corrispondenza ai doveri impostigli. Essi sono, per accennare ai più importanti, il diritto dell’esistenza e dell’incolumità del corpo, il diritto alla pratica religiosa e morale, il diritto dei genitori all’educazione dei loro figli, il diritto dei figli alle benedizioni della vita familiare, ecc.». Si tratta di creare un sistema di collegati provvedimenti che, efficacemente e durevolmente, garantiscano la conservazione e il rispetto di tali diritti e con ciò rendano possibile l’adempimento di questi doveri. Una seconda serie di compiti sociali dello Stato riguarda il componimento degl’interessi contrastanti e la loro conciliazione cogl’interessi della collettività, mantenendo l’ordine e la giusta libertà. Egli non può essere quindi d’accordo con Hitze, il quale vuole il pubblico controllo della produzione e della distribuzione. L’egoismo umano è troppo grande, aveva concluso a questo riguardo l’Hitze, «solo una legislazione integrale, solo l’onnipotente mano dello Stato può metter ordine». Al che l’Hertling oppone il solito concetto: «Lo Stato deve rendere possibile la vita della società, regolarla, sorvegliarla e promuoverla: ma non mettersi al suo posto. Il lavoro materiale e spirituale nelle sue molteplici gradazioni, la vita industriale produttiva nelle sue diverse forme spetta alla libera attività del singolo e delle corporazioni». E non si meraviglino gli audaci riformatori di questa sua riluttanza. «La tendenza a rizzare delle barriere contro gli abusi del potere statale è quasi altrettanto vecchia, quanto la storia dei popoli europei. Gl’immensi mezzi che possiede lo Stato moderno, la centralizzazione portata naturalmente dallo sviluppo della burocrazia gerarchicamente organizzata, non ha in verità diminuiti i pericoli degli abusi. Ogni nuovo rafforzamento dello Stato avrà per effetto che si tenderà ad aumentare ancora la sua competenza. Non è certo un caso, e potrà servire di monito alle generazioni che verranno, il fatto che la fondazione dell’unito e potente impero tedesco ci ha portato il Kulturkampf e il tentativo di sottomettere la Chiesa all’autorità statale. Chi ha sempre sulle labbra la parola astratta di Stato, dimentica troppo facilmente che esso non è un essere impersonale, legato a leggi fisse, ma che in fondo si tratta sempre di uomini (X). Il secondo caposaldo dell’Hitze è, come per il Vogelsang, la rappresentanza degli interessi. Egli propone di dividere la società germanica in sette classi o stati (Stände): agricoltura, piccola industria, grande industria, commercio, ecc., e che le loro organizzazioni circolari eleggano, votando per professione, delle camere distrettuali, le quali alla lor volta designerebbero i deputati per il senato, o «consiglio economico», che farebbero le veci del parlamento. Hertling crede che tale proposta debba venir sottoposta ancora ad un vaglio rigoroso. Un simile parlamento, come tratterebbe le materie riguardanti la scuola, la famiglia, la Chiesa? Non ci sarebbe il pericolo che un simile corpo legislativo diventasse uno strumento in mano del potere centrale? E Hertling, a cui evidentemente l’ombra del cancelliere di ferro non dà pace, scrive: «Nella mano di un detentore energico e risoluto del potere centrale i singoli gruppi professionali diventeranno solo puntelli della sua forza, egli si servirà ora degli uni, ora degli altri e il pericolo che tutti minaccia di essere eventualmente sacrificati ‘al tutto’, secondo la volontà del potere statale solo competente, li terrà tutti in iscacco allo stesso modo». Egli è d’accordo piuttosto che si costituisca accanto al parlamento un simile corpo professionale e consultivo, non per sostituire, ma per correggere e completare il suffragio universale. Rilevando infine con piacere che anche l’Hitze vuole gli stati e le corporazioni come organismi autonomi, l’Hertling conclude: «Non il ritorno alle vecchie istituzioni dell’ancien régime è ciò che necessita, non l’aumento dell’autorità dello Stato, ma di promuovere le associazioni corporative, affinché i singoli abbiano la protezione di cui hanno bisogno. Ma queste formazioni crescono solo nel clima della libertà». «Nell’associazione, anche se la cementano solo interessi economici, la personalità del singolo si allarga, la sua vita si riempie di contenuto più intenso, egli gode il bene e il male di un tutto più grande. Ma l’associazione deve allora essere essa stessa come una nuova e più alta personalità, che ha proprie basi e partecipa ad una vita autonoma e nel perseguire i suoi giusti scopi non è ristretta da burocratica saggezza». Gli effetti della «Rerum Novarum» Abbiamo documentato a lungo questa divergenza d’idee, perch’essa offre parecchi elementi per comprendere e meglio valutare la Rerum Novarum. L’unità di comando e la disciplina imposta dalla particolare situazione della minoranza cattolica in Germania fecero nella pratica superare tali discordanze, cosicché Hitze e Hertling collaborarono fraternamente nella politica sociale del Centro: la quale però seguì appunto per questo una linea mediana fra l’intervento dello Stato e la libertà, tra il ritorno da altri auspicato del regime corporativo e il regime democratico. Nessun dubbio che la comparsa dell’enciclica del lavoro abbia notevolmente contribuito a mantenere e a rafforzare in Germania questa concordia d’intenti e di opere. Il direttore del «Volksverein», Pieper , rilevava nel 1922, in occasione del trentennio della Rerum Novarum, che se era vero che il Ketteler cinquant’anni prima aveva già detto tutto quello d’essenziale che si contiene nell’enciclica e che i cattolici tedeschi già da un decennio promuovevano la riforma sociale, l’intervento di Leone XIII era stato tuttavia di grande importanza anche per la Germania. «Noi veterani che abbiamo vissuto in quell’epoca importante, sappiamo quanto ci abbia aiutato l’intervento del papa sociale. Ora potevamo presentarci ai datori di lavoro e agli operai, colla bandiera della Chiesa in mano. L’importanza dell’enciclica consiste in questo che, fondandosi sui doveri dell’amore cristiano, dichiara che l’attività sociale è non solo un diritto, ma più ancora un dovere della Chiesa, non solo dei suoi vescovi e dei suoi parroci, ma anche d’ogni credente. Oggi ancora l’enciclica ci ricorda che non basta riformare il sentimento, introducendo nel mondo più solidarietà, più giustizia, più amore… La soluzione è un problema psicologico. La ricostruzione di una nuova solidarietà di vita può venire solo dal basso delle masse; ed è per questo che il Papa si rivolge direttamente agli operai e al popolo. Leone voleva un forte movimento operaio cristiano che acquistasse influsso sulla legislazione e sull’amministrazione, che costruisse dal basso in alto una vita solidale sulla base professionale e che non avesse semplicemente di mira gl’interessi economici operai, ma si proponesse di raggiungere l’autonomia della classe operaia, ricostruita colle sue stesse forze» (XI). Questa linea mediana però del Centro porterà anche l’Hitze, che poi sarà l’ispiratore di tutta la politica sociale dei cattolici fino all’immediato dopoguerra, ad abbandonare quella che il Pieper chiama «ideologia corporativareazionaria» (ständisch-zünftlerische Ideologie) dell’indirizzo cristiano-sociale e a fargli accettare invece l’ordine economico attuale e la tendenza dell’operaio alla maggiorità sociale. «Dalla fase cristiana-sociale egli non porterà con sé nel periodo moderno che il concetto fondamentale della società organica, idea destinata a superare internamente il capitalismo». E qui siamo oramai immensamente lontani dal punto di partenza, cioè dalle idee del Vogelsang. Questi voleva combattere il capitalismo nella sua essenza e nella sua struttura economica, colpendolo, coll’abolizione del prestito a interesse, nella sua base, costituita dal credito. La forma e lo spirito del capitalismo I cattolici invece del Centro e di Mönchen-Gladbach distinguono tra la forma economica del capitalismo e il suo spirito (XII). Il sistema economico capitalista che si fonda sulla progrediente razionalizzazione della tecnica e sulla razionalizzata economia del danaro è da loro riguardato come un progresso poiché, mediante il credito, si riesce ad anticipare il profitto e a metterlo al servizio della produzione, ottenendo così un aumento colossale della produzione stessa, un facilitato scambio dei beni e con ciò una maggiore possibilità di soddisfare alle cresciute esigenze della vita. Oramai, dice il Pieper, l’aumento della rendibilità che è inerente al sistema capitalista, è il nostro destino, e su esso si basa la moderna civiltà. Non possiamo tornare indietro. Non possiamo rinunziare allo spirito d’intraprendenza, per tornare alla quiete antica. Anche i popoli hanno le loro età. Ora siamo nell’età virile e «dal paradiso della fanciullezza siamo stati scacciati per sempre». La libertà dell’individuo e la tendenza a maggior responsabilità personale sono condizioni imprescindibili della rendibilità economica. Non dunque l’economia capitalista dobbiamo combattere, ma lo spirito del capitalismo moderno, cioè il mammonismo, quello che spinge innanzi disordinatamente la produzione, e getta sul mercato merci e manufatti, senza tener conto del fabbisogno. È questo lo spirito ch’emancipa la produzione da tutti i riguardi morali e sociali dell’era precapitalista, riducendo il profitto ch’è mezzo, a fine e contenuto della vita. Ebbene questo cavallo imbizzarrito del capitalismo moderno bisogna domarlo. A ciò serve in primo luogo il lavoro interiore della morale cristiana: ed ecco il compito specifico della Chiesa. Ma a ciò può ovviare anche l’organizzazione professionale corporativa del lavoro. Questa non ha nulla a che fare coll’antica organizzazione degli stati o delle classi (Stände), che erano istituzioni soprattutto politiche dello Stato assoluto, ma serve a creare lo spirito e la dignità della professione, la coscienza professionale,subordinata al concetto generale dell’interesse collettivo, a creare insomma dei gangli organici dentro la società democratica. E questo è quanto sopravvive in Germania della teoria anticapitalista del Vogelsang. Capitolo III CORPORAZIONE E REGIME CORPORATIVO Il marchese de La Tour du Pin, morto a novant’anni nel 1924 a Losanna, raccontava nell’ultimo anno della sua vita al biografo di Léon Harmel che la sua vocazione sociale datava dalle visite che aveva fatto in gioventù a Frédéric Le Play. Nel prezioso volume infatti che raccoglie gli scritti del La Tour du Pin (XIII) incontriamo spesso tracce della dottrina del maestro, già allora famoso; ma sbaglierebbe chi, come ha fatto uno scrittore italiano, avesse a collocare il Le Play e il La Tour du Pin coi suoi compagni dell’«Association Catholique» nello stesso capitolo intitolato: «Reazione alla rivoluzione francese». Vero che nel 1878, parlando a Chartres, Albert de Mun fissava la posizione del suo gruppo con queste parole: «Il socialismo è la Rivoluzione logica e noi siamo la Controrivoluzione irreconciliabile. Non v’è nulla di comune tra noi. Ma fra questi due termini non v’è posto per il liberalismo». Ma se questo di de Mun può dirsi atteggiamento di estrema destra, Le Play invece era proprio uomo di centro. Sta in mezzo tra la rivoluzione e l’ancien régime, proprio come la seconda monarchia napoleonica, nella quale era consigliere di stato. Nel 1864, lanciando la sua Réforme sociale s’introduce colle seguenti parole : «Il momento è venuto per la Francia di sostituire alle lotte sterili, suscitate dai vizi dell’ancien régime e dagli errori della rivoluzione un’intesa feconda, fondata sull’osservazione metodica dei fatti». Combatte, è vero, «i falsi dogmi della rivoluzione», citando Barthélemy Saint-Hilaire , per il quale essi sono: il dogma della perfezione originale, quello dell’uguaglianza provvidenziale, e il diritto alla rivolta; ma aggiunge che nella dichiarazione dei diritti dell’uomo si contengono accanto a quattordici errori e verità alterate, centun verità tradizionali. Il distacco maggiore però tra Le Play e l’«Association Catholique» riguarda l’intervento dello Stato. Del Le Play basterà citare questo passo della sua Réforme sociale: «Si governano i popoli più coi costumi che colle leggi scritte… La riforma si troverà non in nuove leggi scritte, ma nell’abolizione di quelle che impediscono il libero ritorno al costume». E una delle conclusioni delle sue inchieste svolte fra numerosi popoli dell’Europa e dell’Asia sarà che «l’estensione della vita privata è sintomo di prosperità, e i popoli liberi e superiori estendono sempre più la vita privata a spese della vita pubblica». Infine nel 1881, un anno prima ch’egli morisse, sotto i suoi auspici e colla sua approvazione, i suoi discepoli pubblicheranno un programma di governo e d’organizzazione sociale, nel quale si legge: «Noi non aspetteremo più che il governo lavori per la nostra salvezza; noi gli chiederemo solo di abrogare le leggi emanate dal terrore contro la religione, la proprietà e la famiglia; poi, rientrati così nella tradizione dei popoli civilizzati, noi pregheremo Dio di rendere feconda la nostra libertà e tenteremo di salvarci da noi stessi» (XIV). Due altri grandi insegnamenti attingevano però i cattolici sociali dal celebre sociologo. Il primo era che, al di sopra e al di fuori di ogni regime economico e politico, esiste una «costituzione essenziale dell’umanità» che non bisogna offendere, se pur si vuole che i popoli arrivino ad un certo benessere. Si tratta di alcuni principi ed elementi essenziali, come sono il Decalogo e la legge naturale, l’autorità paterna, la religione, la proprietà, i costumi familiari… Il secondo era quello che il Le Play nella sua prefazione al citato libro dei suoi discepoli esprime con queste parole: «Le opere della violenza sono per loro stessa natura effimere e provocano sempre delle reazioni inevitabili. Solo la pratica della pace fonda delle istituzioni durevoli». «Nel 1830 alla vista del sangue versato dalla rivoluzione del luglio, io dedicai la mia vita al ristabilimento della pace nel mio paese», aveva scritto altrove il Le Play e, dopo aver assistito anche ai rivolgimenti del 1848, del 1851 e alla catastrofe del 1870, ripeterà incessantemente il suo monito di pace ai suoi discepoli raccolti in tutta l’Europa nelle «Unioni della pace sociale». Pace e libertà, «libertà dei tolleranti, non dei miscredenti», dice con una bellissima distinzione; non violenza e coazione. È con questi sentimenti di pace operosa e sottraendosi ad ogni psicosi di guerra che si dedicarono al movimento dei «Circoli» operai due valorosi ufficiali dell’aristocrazia, legatisi durante la disgraziata campagna in fraterna amicizia. È celebre il racconto che fa Albert de Mun della sua «vocation sociale». Come ufficiale di ordinanza del governatore militare di Parigi, de Mun abitava al Louvre, dalle cui finestre si vedevano le mura calcinate delle Tuileries. A metà novembre del 1871 venne da lui Maurice Maignen , fondatore di quel circolo operaio di via Montparnasse, in favore del quale aveva pronunciato il suo discorso in S. Clotilde mons. Mermillod, e, mostrandogli dalla finestra quelle lugubri tracce delle devastazioni comunarde, esclamò: «Sì, tutto ciò è orribile… ma chi sono i responsabili se non voi, i ricchi, i grandi, i felici della vita, che passano innanzi al popolo, senza guardarlo e impararlo a conoscere: Andate a lui col cuore aperto e la mano tesa, ed egli vi comprenderà». Il marchese de La Tour du Pin accorse subito ad offrire i suoi servigi al camerata entusiasta ed eloquente. Ma fino al 1873 il movimento dei «Circoli» operai si limita all’artigianato, alla piccola industria, all’agricoltura. Nell’agosto di questo stesso anno, però, i due promotori s’imbattono in un autentico grosso industriale della regione di Reims, Léon Harmel. La Tour du Pin accorre subito a Val-des-Bois e, stupito di trovarvi già bell’e fatta la «corporazione cristiana», scrive un opuscolo per annunziare al mondo: «un fatto nuovo nella questione operaia». Fra l’elegante gentiluomo di Arrancy e Léon Harmel, tutto ardore ed ingegno pratico, ma un po’ scarpa grossa, nasce così e si sviluppa una profonda amicizia. Harmel a sua volta mette in relazione i promotori dei «Circoli» colla Federazione degl’industriali cristiani di Lilla, diretta da Camille Féron-Vrau . Tutta questa brava gente prende sul serio la propria vocazione sociale che antepone sinceramente ad ogni tendenza politica, ma per la maggioranza repubblicana ha il torto di appartenere alla minoranza monarchica e già nel 1875 il radicale «Rappel» accusa i «circoli cattolici di prendere la parola d’ordine a Chislehurst e a Frohsdorf» . In fondo nessuno ne faceva mistero. La seconda edizione del Manuale della corporazione cristiana (1879) di Léon Harmel porta una lettera prefazione scritta a Frohsdorf dal pretendente conte di Chambord . Nel 1880 il conte de Mun si fa eleggere deputato su di un programma cattolicorealista e le relazioni di La Tour con colui che i monarchici chiamano Enrico V sono così intime che un giorno, per spuntare una proposta in seno al comitato di studio dei «Circoli», egli confida agli amici che… Enrico V ne era già informato e aveva approvato in anticipo la sua formola. La presunzione reale avrebbe dovuto togliere ogni scrupolo a chi non voleva le corporazioni istituite dallo Stato (XV). Intanto La Tour du Pin dal 1879 al 1881 era stato attaché militare a Vienna ed aveva stretto grande amicizia coi circoli feudali del «Vaterland». Il suo programma per la controrivoluzione, la sua concezione sociale medioevalista, le sue tradizioni di gentiluomo campagnolo, i suoi sentimenti monarchici, tutto questo si conciliava a meraviglia colla riforma cristiano-sociale dei viennesi. Poco dopo il suo ritorno in Francia, in seno alla federazione dei «Circoli» inaugurò la sua attività un «Comitato di studio» (Conseil des études), del quale i membri più attivi oltre La Tour du Pin furono il conte Félix de Roquefeuil , consigliere alla Corte dei conti, il conte de Bréda ex-diplomatico, due ex-magistrati, un colonnello, il conte Ségur Lamoignon e più tardi il P. Pascal . Léon Harmel è poco entusiasta di un tal «Comitato di studio». Che vuole fare questo gruppo di nobili e di magistrati in riposo, senza la collaborazione degli uomini pratici? D’altro canto non era evidente il pericolo che tutte le forze dirigenti dei «Circoli» e della loro rivista l’«Association Catholique» si lasciassero assorbire dallo studio delle questioni dottrinali, dal «bizantinismo», come scriveva lo stesso Harmel? Perché correre il rischio di scindersi in scuole, quando c’era urgenza sovrattutto di fare e di organizzare? Gli è che Harmel diffidava assai dei suoi amici cattolico-sociali, perché a suo avviso, preconizzando la riforma cristiano-sociale, facevano intervenire troppo lo Stato, e si mettevano così in contrasto cogli altri amici di Angers e sovrattutto con Charles Périn, che era pur sempre un grande maestro. Nonostante queste divergenze, alle quali l’Harmel dà continuo sfogo nel suo epistolario col La Tour du Pin, egli porta in tutti i convegni del Circolo la sua esperienza, come industriale e come patrono della corporazione cristiana. Ma l’Harmel non vuole assolutamente saperne di corporazioni istituite dallo Stato e costringe La Tour du Pin a tener conto del suo avviso. Così egli prende una posizione intermedia tra il puro patronato, voluto dai discepoli di Le Play e la corporazione di diritto pubblico invocata dall’«Association Catholique». Intanto de Mun ha dato la sua prima battaglia alla Camera francese. La prima battaglia alla Camera Siamo sotto il gabinetto Ferry e al posto del ministro dell’interno siede Waldeck-Rousseau . La Destra conservatrice è ridotta ad un’ottantina di deputati contro 450 repubblicani. La morte del conte di Chambord – de Mun e La Tour non sono mancati ai funerali di Gorizia – ha portato la desolazione e lo sconforto nelle file dei monarchici, mentre dall’altra parte guadagnano terreno il radicalismo e l’anticlericalismo. Ancora dal 1882 si trascina alla Camera un progetto di legge che, abolendo le proibizioni anteriori le quali risalivano fino alla famosa legge Le Chapelier della grande rivoluzione , autorizza la costituzione di sindacati operai. Non si tratta in fondo che di legittimare uno stato di fatto già esistente, perché le organizzazioni operaie si sono già sviluppate per conto loro, senza statuto legale. Ora nella discussione del progetto governativo la Destra presenta il seguente emendamento: «I sindacati professionali misti che riuniscono i padroni e gli operai d’uno stesso mestiere o di mestieri affini, potranno ricevere doni, legati, anche mobiliari e acquistare gl’immobili che loro servissero per la creazione di alloggi operai, d’asili, d’ospedali, ricoveri, ecc.». Gli amici di de Mun, dunque, di fronte al progetto governativo che non contempla per i sindacati il diritto di ricevere doni o di acquistare se non a titolo oneroso, propongono di concedere lo speciale privilegio di possedere al sindacato misto o alla corporazione, allo scopo di favorirne, con questa maggiore attrattiva, lo sviluppo. Waldeck-Rousseau dal banco dei ministri si esprime con frasi banali e generiche. La difesa della scuola classica liberale è fatta dalla veneranda figura di Frédéric Passy , il quale, nonostante le delusioni recenti, tiene fermo con eroico ottimismo al principio della libertà economica ed attacca a fondo l’antico regime della regolamentazione coattiva. La Destra, come sempre divisa, manda in lizza anche l’on. La Bassetière , il quale, aborrendo da ogni socialismo di Stato, esprime la sua fede irremovibile nelle associazioni libere e nelle iniziative del patronato industriale, come aveva insegnato Le Play. Negli ultimi tempi dell’impero romano non avevano alcune famiglie opulente emancipato a migliaia gli schiavi e coperta l’Italia di ospedali e di ricoveri per accogliere i liberti invalidi? Così faranno i nostri grandi industriali della Francia. Ma il relatore Floquet respinge l’emendamento per ragioni pratiche elettorali, e non si fa riguardo a dirlo. Perché concedere dei privilegi legali a queste corporazioni delle quali si vuol fare «l’armée de la foi et de la contre-révolution»? Egli conosce il movimento dell’ «Association Catholique», «che è in fondo un’opera politico-elettorale». Ma il popolo francese «se détournera des couvents d’ouvriers, comme il s’est détourné des casermes d’ouvriers». La democrazia francese non ha bisogno dell’aiuto dei re, né di quello dei vescovi. Non si possono rileggere oggi i verbali di questa discussione, senza rilevare daccapo come l’avversione alla Chiesa e la lotta contro il prete abbiano arrestato nel momento decisivo la riforma, che tentavano di attuare i cristianosociali. D’altro canto come non ammettere che la pregiudiziale monarchica della Destra conservatrice creava alla riforma degli ostacoli politici evidenti? In tali circostanze non ci meraviglieremmo se il risultato organizzativo dell’«Association Catholique» fu assai modesto. La corporazione cristiana Nel 1887 in occasione del giubileo episcopale di Leone XIII l’associazione dedicava e presentava al papa un ricchissimo album intitolato, come le antiche compilazioni del medioevo, Registre des statuts des corporations, associations professionnelles, confréries, syndicats catholiques, ecc. La dedica ricordava che nell’udienza concessa all’«Opera dei circoli» nel 1885 Leone li aveva esortati «a risuscitare le sagge istituzioni operaie che in tempi migliori erano nate ed avevano fiorito sotto l’ispirazione della Chiesa…». Ossequenti alle direttive pontificie presentavano ora un ragguaglio e gli statuti delle associazioni create. Sono un centinaio: una ventina dell’industria, una ventina dell’artigianato e il resto dell’agricoltura. In testa al registro compare la «Corporation chrétienne de Val-des-Bois», della quale all’articolo 1 si legge la seguente definizione: «È creato un sindacato professionale nell’officina di Val-des-Bois tra i padroni e le loro famiglie da una parte e gli operai e le loro famiglie dall’altra parte, secondo la denominazione di ‘Corporation chrétienne du Val-des-Bois’». La Società è diretta da un consiglio, composto metà dalla famiglia padronale coi suoi funzionari direttivi e metà dagli eletti dell’assemblea operaia. La corporazione è il centro di numerose altre istituzioni cooperative, d’assistenza, di mutualità e di risparmio, le quali però hanno anche il loro particolare consiglio direttivo, presieduto sempre come la corporazione da un membro della famiglia padronale. Lo statuto non prevede il concorso della corporazione né per stabilire il contratto di lavoro collettivo né per regolare la produzione. Si tratta dunque piuttosto d’una società che attraverso organi diversi esercita la funzione di cooperativa di consumo e di cassa mutua e pensioni, congiunta ad altri scopi di pietà e, come si direbbe oggi, di dopolavoro. L’appartenenza alla corporazione è volontaria, tanto che nel momento di cui scriviamo dei 300 operai un certo numero ne è rimasto fuori. Essa si fonda sovrattutto sull’eccezionale spirito di apostolato cristiano degli Harmel, e sul carattere religioso degli operai, ottenuto con l’opera tenace e mirabile del Bon père. Val-des-Bois è nella storia industriale un esempio luminoso, un’oasi di pace, e nel 1887 la sua fama aveva già varcati i limiti dell’Europa. Un giorno di quell’anno era venuto in visita, accompagnato da Albert de Mun, anche il cardinale Gibbons , che ritornava allora da Roma, ove aveva difesa la causa dei «cavalieri del lavoro». Bisogna però ammettere che questo complesso di associazioni concentriche conteneva bensì i germi, ma non esercitava affatto le funzioni di quella corporazione sulla quale i riformatori cristiano-sociali avrebbero voluto fondare il nuovo regime economico-sociale e politico. È ciò che vedremo subito. In occasione del giubileo del 1887 Leone XIII ebbe in dono anche altri quattro volumetti, i quali contengono le conclusioni del «Conseil des études», ossia le tavole dottrinali del cattolicismo sociale francese. Chi sfoglia ora nella Biblioteca Vaticana queste pagine, le quali trattano della proprietà, del contratto di lavoro, della corporazione, della riforma agraria, del capitalismo e contengono l’intiera raccolta degli «Avis», o pareri del comitato, con qualche nota a penna, non può fare a meno d’invidiare tanta fede ricostruttiva, tanto ardore di volontà e tanta chiarezza di visione. Non accenneremo qui che a quello che dell’elaborazione francese ci pare più specifico, al pensiero cioè dell’«Association Catholique» sulla corporazione. Abbiamo già ricordato che codesti gentiluomini realisti amavano richiamarsi in proposito anche alle direttive del conte di Chambord il quale già nella Lettre publique aux ouvriers del 1865, aveva scritto: «Chi non vede che la costituzione volontaria e regolata delle corporazioni libere diverrà uno degli elementi più potenti dell’ordine e dell’armonia sociale e che queste corporazioni potranno entrare nell’organizzazione del Comune e nelle basi dell’elettorato e del suffragio? Considerazione che tocca uno dei punti più gravi della politica avvenire». Nella citata lettera-prefazione al Manuale di Léon Harmel lo stesso pretendente aveva scritto nel 1879 «che un gran numero di spiriti elevati avevano da tempo intravisto nella corporazione cristiana la soluzione del grave problema che s’imponeva alle loro indagini». Questa presunzione del re, invocato quale restauratore, spiega anche come il La Tour du Pin inclinasse personalmente per la corporazione obbligatoria, base necessaria della piramide sulla cui cima, come voleva anche il Vogelsang, avrebbe dovuto troneggiare il «re sociale», protettore dei diritti e delle libertà delle classi. Siccome però parecchi dei suoi amici e primo fra tutti l’Harmel tengono fermo alle corporazioni libere, la formola del La Tour du Pin è assai cauta. In un «avviso» del 1882 egli si esprime così: «La restaurazione del regime corporativo s’impone con tutte le riforme politiche e finanziarie ch’esso presume. E se tale restaurazione appare necessaria, sarebbe puerile dire ch’essa debba essere tuttavia semplicemente spontanea e facoltativa… Senza dubbio la ricostruzione delle corporazioni non potrà essere solamente opera di decreti, perché non si decreta l’esistenza di ciò che non è più; ma se ne prepara la rinascita con appelli, la si riconosce in diritto appena è ricomparsa di fatto, la si irrobustisce con privilegi, la si dirige con delle norme verso il suo sviluppo politico, secondo un piano conforme alla natura delle cose e nello stesso tempo ai fini ultimi, ai quali esse devono condurre». Regime corporativo Ma è nell’«Association Catholique» dell’agosto 1883 che il La Tour svolge ampiamente la sua dottrina sul regime corporativo. Vi si legge: «La corporazione è come il comune uno Stato nello Stato, è svincolata cioè da attribuzioni e obbligazioni reciproche. Il potere pubblico non le detta le sue regole, ma le omologa per mantenerle nella sfera d’un’utilità propria che non sia a detrimento dell’utilità pubblica, nello stesso tempo che ne protegge le applicazioni contro le difficoltà materiali e le oppressioni esterne». «Essa ha una propria giurisdizione, cioè pubblica i suoi regolamenti che hanno forza di legge, giudica le contestazioni fra i suoi membri e amministra il suo patrimonio a mezzo di delegati, scelti dal suo seno». Per giungere a tale pienezza di poteri, si capisce, dice il du Pin, che le corporazioni dovranno divenire obbligatorie per tutti i fattori della produzione, cioè nell’industria per il capitale, per la direzione e per la mano d’opera e nell’agricoltura per il proprietario, il fittavolo e il lavoratore; e che le deliberazioni dentro la corporazione si prenderanno votando per ordine (categoria), non per testa. I vantaggi di tale regime saranno di arrestare la decadenza economica, perché le corporazioni fissando il giusto prezzo e vigilando sulla qualità della produzione come facevano in antico i capi d’arte (Jurandes) lasceranno libera la concorrenza non per il prezzo ma solo per il miglior prodotto. In altri articoli il La Tour du Pin farà un passo più innanzi e disegnerà il regime corporativo dalla base fino alla punta, facendovi aderire un completo sistema rappresentativo politico, che, passando per rappresentanze corporative locali e provinciali, culminerà in un «grand conseil des corporations», specie di senato consultivo della monarchia sociale. È sempre la «restaurazione dello Stato cristiano» che splende come meta luminosa innanzi agli occhi del La Tour du Pin: ed anche per lui come per i viennesi lo Stato cristiano è lo Stato feudale, che nelle sue linee fondamentali diverge tanto dall’assolutismo dello Stato greco-latino come dal cesarismo dello Stato moderno. «Lo Stato cristiano – egli scrive – nasce nel medioevo, incarnandosi nel sistema feudale, che non ebbe origine dalla conquista violenta, ma nella maggior parte dei casi dalla commenda, cioè dal libero affidamento del debole che pattuiva la protezione e il lavoro col più forte. La società rurale si fonda sul feudo, quell’urbana sulla corporazione e cemento per entrambe è il vincolo religioso, espresso per l’uno nella formula del giuramento, per l’altra nello statuto della confraternita». Ed egli rimane estatico innanzi a questo mito (XVI) medioevale ove Luigi IX , seduto patriarcalmente sotto la quercia, mette pace tra i suoi sudditi; e dall’altro lato sventolano i gonfaloni delle arti e mestieri ch’entrano in corteo nella magnifica cattedrale, sorta per la loro fede e per il loro concorde valore e nello sfondo domina il Laterano donde il rappresentante del potere universale vigila sul diritto dei deboli. E fra l’uno e l’altro gruppo e tutto all’intorno svolge lussuriosamente i suoi rami l’albero ideale dello Stato organico; nel cui midollo scorre il succo vitale di cento libere iniziative e si propaga la linfa rigeneratrice dello spirito gerarchico. Come appare brutta e repellente in suo confronto la macchina grigia dello Stato moderno, tenuta in movimento dalla sola forza del numero! Così il regime corporativo è diventato un vero sistema politico. Non bisogna credere però che questo «Stato corporativo» rappresenti il programma di tutti i cattolici sociali francesi: nel gruppo stesso dell’«Association Catholique» si è d’accordo circa la corporazione-base o, più tardi, sul modo di costituire colle rappresentanze dei sindacati dei Consigli corporativi, ma, in quanto alla sovrastruttura ed ai rapporti della corporazione collo Stato, le idee divergono assai. Il conte de Bréda stesso che è il correlatore di La Tour du Pin in seno al «Conseil des études» inclina piuttosto per le corporazioni libere. «È inutile illudersi – scrive il Bréda («Association Catholique», V, I, p. 356) –, lo Stato deve limitarsi a riconoscere le corporazioni. Se gli chiedete di più, vi esporrete a creare delle corporazioni di Stato, le quali diventeranno strumento di governo. D’altro canto bisogna prevedere che non si potranno istituire delle corporazioni libere, indipendenti, padrone del loro destino, che dopo una lotta accanita contro tutto quello che costituisce i nostri governi moderni». Ma fuori dell’«Association Catholique» il contrasto naturalmente è ancora più netto e più profondo. Quando nel congresso cattolico di Chartres (1878) de Mun aveva dichiarato che tra la rivoluzione e la controrivoluzione non c’era nulla di comune, l’economista cattolico allora più celebrato, Charles Périn, professore all’università di Lovanio, s’era alzato a protestare contro questa condanna assoluta dell’età moderna: «Respingiamo – egli dice – lo spirito della rivoluzione ma non tutte le sue istituzioni, né ripudiamo forme di vita e di lavoro che di per se stesse non sono condannevoli. Non possiamo ripudiare le condizioni di libertà e di uguaglianza civile, che sono anch’esse il frutto d’un progresso di secoli, compiuto col concorso del cristianesimo. Se i cattolici sociali intendessero proporci una regolamentazione delle antiche corporazioni d’arti e mestieri coll’intervento dello Stato, per ripristinare vincoli e limiti che arresterebbero il moderno sviluppo industriale, noi ci terremo in disparte, perché convinti che tali idee ostacolerebbero grandemente la nostra azione sociale». D’allora in poi il contrasto s’era ancora allargato. Il gruppo della «Réforme sociale» con alla testa Claude Jannet, professore di economia politica all’Institut Catholique di Parigi, la «Revue catholique des institutions et du droit» dei giureconsulti cattolici , i gesuiti degli «Etudes» , l’«Association Catholique des patrons du Nord» (Lilla), ispirata dall’abbé Fichaux , tutti avevano preso un atteggiamento ostile al regime corporativo, inteso come regolamentazione del lavoro e dell’economia, deliberata e applicata colla forza dello Stato. La maggioranza delle forze cattoliche francesi dunque non era favorevole al programma massimo dei cattolici sociali, benché ne accettasse il programma minimo, ammettesse cioè l’organizzazione degli operai e dei datori di lavoro in sindacati misti (corporazioni) e accettasse anche l’intervento della legge per sopprimere gli abusi gravi dell’industrialismo, come il lavoro dei fanciulli e delle madri, il lavoro festivo ecc. Ben lo sapeva Albert de Mun, quando incaricato nel 1887 di riferire nel congresso cattolico di Parigi sui postulati sociali, comuni a tutti i cattolici francesi, rilevava onestamente che il congresso accettava bensì la corporazione libera, ma non il regime corporativo e citava a titolo di riconoscenza Claude Jannet che nel «Correspondant» aveva lodato il movimento professionale dell’«Opera dei circoli». Del resto il discorso programmatico di quella stessa assemblea (XVII) era stato affidato al senatore Chesnelong , presidente, il quale parlando sulla «proprietà e sul lavoro» aveva messo in guardia sovrattutto contro il socialismo di Stato. Ma quale ampiezza egli attribuisca a tale concetto, risulta da un punto del suo discorso, in cui esclama: «Il socialismo di Stato non è morto… ieri si chiamava laicità obbligatoria, oggi si chiama in aggiunta la riforma fiscale. L’imposta sul reddito bussa alla porta e l’imposta progressiva si mostra all’orizzonte. Noi siamo su questa china. Si dirà che quella che s’invoca ad intervenire è la società, non lo Stato? Ma in via di fatto la società si personifica nello Stato ed è lo Stato che la mette in azione; e lo Stato sono quegli uomini che hanno l’incarico di presiedere al governo e di amministrare la società… Ci ho vent’anni di esperienza et quelle expérience! et vis à vis de quel Etat (risate e applausi)». Le conclusioni di Liegi Quando tre anni dopo il prof. Helleputte dell’università di Lovanio, incaricato di riferire sull’organizzazione corporativa al congresso di Liegi, volle presentare delle proposte, sulle quali potesse concentrare i suoi voti, quell’assemblea dovette limitarsi a raccomandare la corporazione, come associazione tipo, come la forma cioè organizzativa ideale, senza escludere però anche il sindacato semplice. Egli propone tre forme diverse di corporazione, una per i contadini, l’altra per la piccola industria, la terza per la grande industria. Alla prima servono di modello i «Bauernvereine» tedeschi e il «Boerenbond» belga, la seconda dovrebbe corrispondere alla «Genossenschaft» austriaca, la terza è un’associazione professionale mista, limitata all’azienda, con un proprio patrimonio corporativo, parte del quale sarà investito eventualmente in azioni dell’azienda industriale stessa, onde interessarvi così anche gli operai. Si badi bene, però, si tratta qui sempre di associazioni sorte per libera iniziativa e non per forza di legge, nel che tutti sono d’accordo, compreso Charles Périn. Vero è che il relatore nel suo discorso esprime la speranza che queste corporazioni, una volta create, possano assumere un carattere politico entro lo Stato, costituendo un sistema di suffragio universale organizzato, ma l’assemblea di questi auspicati futuri sviluppi non è investita. Nel 1890 dunque non si arriva al regime corporativo, propugnato dal Vogelsang e dal La Tour du Pin. Ciò risultò ancora più manifesto quando si discusse nella seconda sezione un ordine del giorno presentato dal conte Waldbott de Bassenheim, il quale proponeva che «il congresso riconoscesse la necessità di studiare senza indugio l’organizzazione corporativa della società, e ne desse incarico ad un’apposita commissione». Questo voto innocente sollevò subito delle obiezioni, perché, si disse, la parola corporativa suscita l’idea di coazione e di monopolio. Cosicché il congresso per calmare tali apprensioni, alla sospettata parola corporativa sostituiva quella di «organizzazione professionale».Si trattava allora naturalmente d’intuizioni e d’istinto più che di chiara visione, la quale non poteva essere che di pochi. Ma si aveva la sensazione che il regime corporativo, quale era rappresentato a Liegi dal marchese de La Tour du Pin, che sedeva taciturno sul banco della presidenza, conducesse, economicamente, all’economia chiusa: colle corporazioni arbitre dei prezzi, dei salari, della quantità dei prodotti e della loro vendita. Politicamente poi si nutriva un vago sospetto che questo regime si fondasse su presupposti, sui quali il congresso non era chiamato a decidere. In tal riguardo si vide più chiaro due anni dopo, quando di fronte all’enciclica Au milieu che invitava i cattolici francesi a porsi sul terreno repubblicano, il marchese de La Tour du Pin rinnovò la sua professione di fede monarchica con questa dichiarazione: «Je ne saurais attendre d’un gouvernement sans prestige et sans esprit de suite un concours suffisant à la réalisation de profondes réformes sociales et politiques dont j’ai été comme catholique, l’un des promoteurs». In poche parole, se cadeva il regime monarchico, crollava il centro motore e direttivo di tutto il sistema, sul quale egli aveva fondato il regime corporativo. Questo dunque presupponeva una particolare concezione dello Stato e delle sue funzioni. Rebus sic stantibus, nessuno stupirà che la Rerum Novarum parli di corporazioni e di associazioni professionali in genere, ma non di regime corporativo. Leone XIII si preoccupa di affermare il loro diritto di esistenza, derivato dal diritto naturale, diritto che lo Stato deve riconoscere e proteggere e affida loro il compito di conciliare gli interessi del lavoro e del capitale. Dai fini che il Papa loro attribuisce, dallo sviluppo ch’egli auspica a tali associazioni, bisogna dedurre ch’egli pensi ad un complesso coordinato ed organico, allo svilupparsi quindi di un sistema organizzativo; egli si preoccupa anzi che questo sviluppo organico si svolga liberamente, «perché il movimento vitale nasce da intrinseco principio e gl’impulsi esterni lo soffocano». Tutto il resto è lasciato alle disputazioni dei cattolici, le quali invero nei quarant’anni che seguirono furono molte, come fu vario e molteplice lo sfondo politico dentro il quale si presentò il problema organizzativo. Capitolo IV LO STATO E LA LIBERTÀ Nel Belgio si ebbero due serie di congressi cattolici che assunsero entrambe importanza internazionale: quelli di Malines dal 1863 al 1867, istituiti sull’esempio delle grandi assemblee cattoliche della Germania e della Svizzera (XVIII) e quelli di Liegi, inaugurati nel 1886. I primi facevano fronte contro il partito liberale al governo e miravano soprattutto a difendere le libertà religiose, scolastiche, comunali contro i tentativi di centralizzazione, i secondi s’occupano essenzialmente della questione sociale e dell’organizzazione operaia. A Malines, oltre i rappresentanti del cattolicismo belga, compaiono dall’Inghilterra Wiseman , Manning e Vaughan , dalla Germania August Reichensperger, dalla Svizzera Mermillod, dall’America il P. Hecker e dalla Francia accorrono a questa libera tribuna i più bei nomi del cattolicismo francese, costretti in patria al silenzio: Dupanloup , Albert de Broglie , Auguste Cochin, Falloux e, primo fra tutti, Charles de Montalembert. La seconda serie non accoglie ospiti o adesioni meno illustri. Ma si tratta oramai di celebrità, per dir così, più specializzate. Fra le adesioni ai congressi si ripetono quelle dei vescovi sociali, come Manning, Mermillod, Gibbons e sono presenti in persona i vescovi dei grossi centri industriali, come Bagshawe , vescovo di Nottingham e Vaughan, vescovo di Salford, sobborgo di Manchester, Fischer di Colonia , Korum di Treviri , Kopp di Lussemburgo. Fra i relatori o interlocutori s’incontrano i nomi dei più noti cultori di cose sociali: gli austriaci Gustav de Blome e Franz von Küfstein, i tedeschi Bachem, Hitze e Trimborn, Winterer, il parroco deputato di Mulhouse , il gesuita P. Lehmkuhl e Brandts di Mönchen-Gladbach e tutti i gruppi delle varie scuole francesi: de Mun, La Tour du Pin, Pascal dell’«Association Catholique», i gesuiti Forbes e Caudron degli «Etudes», Gustave Théry dell’università di Lilla , le varie sfumature del cattolicismo belga da Woeste a Pottier , Schaepman dell’Olanda , De la Rive della Svizzera , Cepeda della Spagna . Per l’Italia assiste Medolago-Albani e fra gli atti del congresso del 1890 si trovano due comunicazioni, l’una firmata Volpe-Landi , sull’opera di mons. Scalabrini per gli emigranti e l’altra del prof. Toniolo ; la quale annunzia la costituzione dell’«Unione degli studi sociali cattolici» dell’Italia, e propone che ogni cinque anni tutte le società similari pubblichino il risultato dei loro studi, da comunicarsi il sunto anche al S. Padre. Tra la prima serie dei congressi e quella di Liegi la situazione però è radicalmente mutata. Anche in Belgio dal 1878 al 1884 il governo «liberale» di Frère-Orban ha tentato il Kulturkampf, fra il plauso della massoneria francese e di Bismarck. Ma i cattolici si sono difesi sul terreno scolastico col massimo vigore, si sono riorganizzati politicamente e nell’84 hanno rovesciato il ministero. Durante i congressi di Liegi essi stanno al governo, un governo però prudente, tollerante, moderatore e così circospetto che non vi manda nemmeno la sua adesione. Ma già la questione operaia incomincia a preoccupare più di quella politica . Nel marzo 1886, in seguito ad una lunga crisi industriale, gravi disordini scoppiarono nei bacini di Liegi e dell’Hainaut, durante i quali fu dato fuoco alle fabbriche, s’incendiarono botteghe, si saccheggiarono castelli. I belgi, infervorati finora nella lotta politico-costituzionale, incominciarono a dare maggior importanza alle questioni dell’economia e dell’organizzazione sociale. Per loro però la questione politica, la questione cioè dello Stato e dei suoi rapporti coll’individuo rimase istintivamente la questione suprema. La pregiudiziale dell’abbé Balau Nel congresso di Liegi del 1890 durante la discussione sulla durata legale della giornata lavorativa, ad un certo punto chiese la parola un certo curato di campagna, l’abbé Balau (XIX) , il quale fece un discorsetto così caratteristico che serve magnificamente ad illuminare la situazione. «Per riformare gli abusi della società, ci si presenta come potente ausiliare lo Stato e si vuole che gli apriamo la porta. È dunque giusto che prima domandiamo allo Stato i suoi precedenti e i suoi connotati. Possiamo noi aver fiducia in lui? O quando gli avremo aperta la porta di casa, non dovremo fare le spese? La questione non è di sapere se lo Stato cristiano, com’esso esisteva quando le nostre istituzioni erano cristiane, abbia o meno il potere d’intervenire nelle questioni sociali. Noi dobbiamo ricercare se lo Stato concreto, rappresentato da queste o quelle persone che detengono il potere sia competente, per condurre la società alle vere idee che devono presieder la riforma sociale…». A questo punto il povero curato è interrotto dai banchi della presidenza, donde gli si grida che si tratta dello Stato in genere, non del Belgio. «Prendo il Belgio, come esempio», ribatte l’abbé Balau, e continua: «I compilatori della nostra costituzione del 1830 hanno avuto una sola mira, quella di proteggerci dagli abusi di potere, di cui eravamo stati vittima nei regimi precedenti e tutte le manifestazioni che sono alla base delle nostre leggi si riassumono in questo principio belga: non intervento dello Stato. Più tardi i nostri avversari hanno fatto entrare lo Stato nelle nostre leggi e nelle nostre istituzioni… A quale scopo? Per impadronirsi dell’insegnamento… per misconoscere la libertà cristiana della carità, per impadronirsi dei nostri cimiteri… Si è ingerito persino nelle nostre sagrestie per contare e pesare le candele. Ecco l’ingerenza dello Stato. Possiamo noi aver fiducia in questo Stato? Daremo noi un nuovo sviluppo alla sua ingerenza coll’invocare il suo concorso nelle questioni sociali? (applausi)». Questo parroco di campagna non era isolato. Egli rappresentava anzi l’opinione della maggioranza dell’assemblea, in quanto era costituita da belgi e da francesi. Gli organizzatori sapevano che sul terreno dell’intervento dello Stato bisognava dar battaglia, e vi si erano preparati con diligenza tutti i pezzi grossi del cattolicismo sociale d’Europa. Già nella solenne adunanza di apertura lo stato d’animo dell’assemblea trovò modo di manifestarsi. Quando venne comunicata la lettera d’adesione del cardinale Manning, si sarebbe sentita volare una mosca. Ad un certo punto la lettera dice testualmente: «La mia ultima parola potrà sembrare violenta ed ardita. Non credo che sarà mai possibile di stabilire in maniera efficace e durevole rapporti pacifici tra padroni e operai, fino che non si sarà riconosciuta, fissata e stabilita pubblicamente una misura giusta e conveniente che regoli i profitti e i salari; misura in base alla quale saranno governati tutti i contratti liberi fra capitale e lavoro». Questa proposizione fu accolta da un mormorio indefinibile che il verbale stenografico registra come «sensazione». Quando invece Mermillod nella sua adesione scrive: «La Chiesa marcia fra due errori: la violenza del socialismo rivoluzionario e il comunismo legale; essa non deve accettare né la rivolta né la statolatria», l’assemblea scoppia in applausi. Gli applausi si cambiano in ovazione quando Woeste, uno dei capi più influenti della Destra parlamentare belga esclama: «Per quello che mi riguarda, sono assai poco incline a far appello in questo campo alla legge e soprattutto allo Stato. Ho paura dello Stato, odio il cesarismo». La marcia del socialismo Fin da principio gl’interventisti cercano d’influire indirettamente sull’assemblea, richiamando la sua attenzione sulla gravità del pericolo socialista. «Non illudiamoci – dice l’austriaco Blome –. Si prepara una trasformazione completa del regime economico. Spetta alla Chiesa di tracciare le grandi linee, alla Chiesa guardiana delle verità eterne, affinché questo nuovo regime non devii né dalla legge naturale né dalla verità rivelata». E Winterer, l’alsaziano che ha l’animo più aperto alla mentalità latina, pur sedendo al Reichstag, ove ha votato per la giornata massima, cerca di superare il conflitto, che regna un po’ anche nel suo cuore, col descrivere gl’impressionanti progressi del socialismo. L’anno prima, nel 1889, si era radunata a Parigi, in occasione dell’esposizione, l’Internazionale operaia, la quale aveva ripetuto al mondo il manifesto di Marx: «Proletari di tutto il mondo unitevi». In quell’adunanza gli operai americani, che dal 1886 celebravano la manifestazione del 1° maggio per la giornata delle 8 ore, avevano proposto questo giorno come festa del lavoro per tutto il mondo. E quell’anno tutto il mondo aveva obbedito con una compattezza impressionante! Alla vigilia i ricchi e i governi se ne preoccuparono temendo moti rivoluzionari. «Alla vista dei battaglioni di lavoratori messisi in moto nei due mondi, non ci si domandò che una cosa: Vi sono dei vetri rotti? Delle casseforti scassinate? Ma siccome non ci furono né vetri rotti, né casseforti scassinate, si disse gaiamente ai battaglioni operai: Passate! Non si pensò a chieder loro: In nome di chi marciate? Dove andate? (acclamazioni)». Ma i cattolici devono pensarci. L’altro sintomo del pericolo socialista ci è dato dai progressi della rappresentanza socialista al Reichstag. Nel 1887 i deputati socialisti erano 12, ora nelle elezioni del febbraio 1890 erano diventati 35 e dietro loro contavano 1.042.700 voti! Così nell’assemblea solenne di apertura si preannunzia e si prepara la battaglia che si svolgerà nella seconda sezione, la quale tratta delle «convenzioni internazionali sul regime del lavoro». Essa è presieduta da Blome, bel tipo d’«europeo», nato protestante nell’Hannover, convertitosi al cattolicismo in Parigi nel 1865, ove era in servizio diplomatico dell’Austria e divenuto poi durante il Concilio vaticano e, più tardi, a Ginevra amico e collaboratore del Mermillod, in favore della causa papale. Il prudente vescovo di Liegi, alquanto preoccupato e dovendo assistere ad altra riunione, fa, prima di ritirarsi, alcune paterne raccomandazioni. L’intervento dello Stato nella legislazione del lavoro è stato già ammesso dal Papa, sia nel rispondere all’indirizzo degli operai francesi, sia nella lettera, scritta a suo nome dal cardinale Jacobini a Caspar Decurtins, per lodarlo della sua iniziativa in favore di una legislazione internazionale del lavoro, e in questo documento oltre che di leggi protettive per le donne e per i fanciulli, si parla anche di provvedimenti, «affinché la giornata lavorativa degli adulti non si estenda al di là delle ore ragionevoli». Il principio della limitazione legale della giornata di lavoro è dunque ormai autorevolmente ammesso. Il vescovo raccomanda infine la concordia. E infatti nella mattinata, trattandosi del riposo domenicale e del lavoro delle donne e dei fanciulli, cioè dei deboli, o dei diritti primordiali della famiglia, che lo Stato deve proteggere, le proposte dei relatori passano senza grandi contrasti. Il salario giusto Ma quando nel pomeriggio sale alla tribuna il conte Franz von Küfstein a riferire sulla «regolamentazione della durata del lavoro», il gruppo francobelga si prepara all’attacco. Il relatore legge una memoria piena zeppa di considerazioni dottrinali, materassata di citazioni, fra le quali primeggiano gl’italiani, dal Taparelli al Liberatore , dall’avv. Antonio Burri , autore d’un volume sul lavoro (1888) al P. Steccanella , dalle Nozioni di diritto pubblico di mons. Cavagnis al «socialismo» di don Nicotra . Egli ha cura anche di accampare in favore della sua tesi qualche ammissione di autori contrari all’intervento dello Stato, come Charles Périn e Claude Jannet. Ma sventuratamente per lui, benché quasi come in margine alla sua tesi principale riguardante la giornata lavorativa, egli afferma anche la nuova teoria del salario, che doveva poi essere un caposaldo della scuola di Liegi, con alla testa il Pottier. Il giusto salario, per essere giusto deve essere proporzionato ai bisogni dell’operaio, ai bisogni della sua vita domestica e sociale come ai bisogni di riposo e di svago richiesti dalla vita psicologica e fisiologica. Se il salario non corrisponde a tali bisogni, esso è ingiusto, perché viene lesa la giustizia commutativa. È chiaro che a questo «salario giusto» deve corrispondere anche una giornata di lavoro limitata. Siccome l’operaio, per la sua debolezza sociale, non è in grado di ottenere dall’industria un siffatto maximum di giornata lavorativa, lo Stato ha diritto d’imporlo mediante la legge… Ed ecco il primo contraddittore, A. Roncelet, il quale attacca con giovanile energia. La tesi del relatore è del «socialismo puro, del socialismo di Stato in tutta la forza del termine, è l’organizzazione di un regime di lavoro, di uno Stato sociale in cui tutto sarà regolato tanto per il debole come per l’adulto». Essa si basa su di un falso concetto del contratto di locazione d’opera. Il salario è la rimunerazione convenuta del lavoro; questa convenzione ha per guida la legge dell’offerta e della domanda da una parte e dall’altra la somma d’utilità prodotta; perché lo scopo del contratto è la produzione di cose utili. Non bisogna confondere il puro obbligo di giustizia coi doveri della carità. Questi ultimi sono essenzialmente volontari. A qual titolo dunque lo Stato potrà costringere il padrone ad esercitare i doveri di paternità sociale, ch’egli deve secondo la carità, ma non secondo la giustizia? Queste teorie sono anche pericolose. Lo Stato… sono i governi che passano. Se esso avrà diritto di regolare tutti i rapporti del lavoro, reclamerà anche quello di creare operai forti, istruiti, laboriosi, e a tale scopo sopprimerà i diritti del padre di famiglia: «Sarà il cesarismo coi suoi orrori e colla sua tirannia, l’annichilazione della libertà umana (applausi e contrasti)». A questo punto il canonico Winterer prende la parola per ricondurre la discussione al suo scopo pratico. «L’ora è grave. Lasciamo stare le discussioni teoriche e sterili. Anch’io sono contrario ad una generale regolamentazione da parte dello Stato; ma ammetto che lo Stato può imporre che s’inseriscano nei contratti certe clausole, allo scopo d’impedire che vengano lesi i diritti primordiali dei contraenti. Come per difendere il diritto di adempiere agli obblighi religiosi, lo Stato può imporre il riposo domenicale, così, entro certi limiti, quando l’industriale esige dall’operaio un lavoro eccessivo che lo sottragga totalmente ai suoi doveri di famiglia, lo Stato ha diritto di dire: Fino qui, e non più oltre! Del resto, se non ammettete l’intervento della legge, cosa direte agli operai invitati dal socialismo alle dimostrazioni del 1 maggio?». Ma il dibattito continua. Il presidente cerca di limitarlo escludendo la questione del salario. Quando dà la parola al P. Pascal, esclama: «Je vous en prie, mon Révérend Père, pas de salaire (ilarità)». Poco dopo allo stesso titolo, domanda la parola il vescovo di Treviri mons. Korum, il quale dice quasi imperiosamente: «Bisogna che la questione del salario non sia più gettata fra noi. Essa ci dividerà; è della dinamite» . Théry, professore a Lilla, si sforza di obbedire, ma le argomentazioni stesse del relatore lo portano ancora a parlare del salario. Dice: «L’errore è di confondere il salario desiderabile col salario giusto. Il salario desiderabile è quello che lo Stato deve sforzarsi di far ottenere, non solamente ad ogni operaio, ma anche ad ogni abitante del paese; è il famoso pollo nella pentola di Enrico IV . Ma lo Stato deve arrivare a tale metodo con misure di politica generale (libero scambio o protezione doganale, ad esempio), ma non coll’imporre l’obbligo all’imprenditore di pagare un dato salario. Ho l’obbligo di fare la carità e tale obbligo è altrettanto stretto che quello di rispettare la giustizia». L’oratore contesta infine che la situazione dell’operaio sia così oscura come la fa il relatore. A Roubaix un operaio è detto economo, quando spende all’osteria solo la quarta parte del suo salario. Non è vero che non sia libero, o almeno egli è tanto libero quanto il padrone. Non tutti i padroni fanno fortuna; la maggior parte sono legati alla catena del lavoro peggio degli operai. Certo che talvolta i padroni hanno mancato di carità, ma è anche vero che il povero ha perduto la nozione della vita futura. Qui deve intervenire la Chiesa, e lo Stato ha il dovere di lasciarla agire liberamente. Così finisce la prima giornata. Diversa motivazione dell’interventismo Per l’indomani la presidenza prende le sue misure. Intanto il relatore viene invitato a lasciar cadere ogni polemica sul salario e limitarsi a sostenere «che lo Stato ha diritto in certi casi di combattere gli abusi che avvengono in seguito a certi contratti di lavoro». Ma il povero Küfstein deve raccorciare la sua linea di combattimento, sotto il fuoco degli avversari. Poi entrano in lizza a sostenere la tesi principale due vescovi. Mons. Korum insiste anzitutto perché sia esclusa la questione del giusto salario. «Sono stato lunghi anni professore di teologia – egli dice –. Se dovessi formulare alcune conclusioni ben nette sulla soluzione della questione del salario, tenendo conto delle condizioni e delle esigenze del nostro tempo, domanderei un concilio. Noi non abbiamo un concilio. Abbiamo dei teologi, per i quali nutro un profondo rispetto. Ma oso dire che un concilio impiegherebbe molto tempo a studiare e a risolvere la questione». La presidenza teme anche che l’eco di simili dibattiti possa riuscire nociva. I socialisti che ascoltano fuori e commentano, non sanno né vogliono distinguere tra l’obbligo di giustizia e di carità. I termini nel significato comune hanno un senso diverso da quello teologico e giuridico. Per questa stessa ragione Pottier, allora alle prime armi, e che più tardi diventerà famoso per il suo trattato De iure et iustitia , sarà invitato a ritirare la sua relazione sulle rivendicazioni operaie, la quale armonizzava con quella del Küfstein e la completava (XX). Poi la questione è affrontata in pieno dal vescovo di Nottingham. Ecco levarsi mons. Edward Gilpin Bagshawe, vescovo d’uno dei centri più industriosi dell’Inghilterra. La sua fama di apostolo operaio ha passato il canale da un pezzo, da quando cioè l’«Association Catholique» e la rivista di Vogelsang hanno tradotte e riassunte le sue pastorali del 1883 e 1884 e dato notizia del suo libretto Mercy and justice to the poor: the true political economy (1885) . La sua pastorale anzi per la quaresima del 1884 tratta proprio dei doveri dello Stato e dei diritti del lavoro (XXI). È prevedibile che egli svolgerà a Liegi lo stesso pensiero. Infatti egli dice: «Per mio conto, detesto il cesarismo e l’intervento troppo grande dello Stato negli affari privati… Ma la circostanza che lo Stato sorpassi talvolta i limiti legittimi del suo potere, non gli toglie i diritti che Dio gli ha dati». Secondo i teologi lo Stato ha quello ch’essi chiamano l’alto dominio, il potere cioè di fare il bene per i suoi soggetti, nell’interesse pubblico. Lo Stato impone, ad esempio, il servizio militare, requisisce per servizio pubblico la proprietà privata, interviene con ciò in certi contratti, anche se legittimi. Tutto dunque quello che è necessario per il bene pubblico e che i privati non possono fare, ha diritto di farlo lo Stato. La giustizia generale vuole che ognuno faccia quello che giova al bene comune ed eviti quello che nuoce. Se questo vale per il particolare, tanto più per lo Stato. Ora è contro l’interesse comune che gli operai per eccessivo lavoro trascurino i loro doveri morali ed è contro l’interesse comune che si rovinino la salute. Lo Stato deve intervenire per impedire gli abusi enormi che avvengono, per esempio a Londra, ove migliaia e migliaia di persone non guadagnano la vita che lavorando fin 17 ore al giorno per sei giorni la settimana. Ma il vescovo di Nottingham, alla cui eloquenza fa torto la scarsa conoscenza del francese, non riesce a smontare l’opposizione. Altri parlano ancora pro e contro. Il gesuita Caudron accenna anzi a toccare ancora la questione del salario, tanto che il solito disciplinatore del dibattito mons. Korum interviene di nuovo con una mozione d’ordine. Si dice, insiste il padre polemizzando col vescovo, che lo Stato deve intervenire per il bene comune. Ma il bene comune consiste nella protezione dei diritti di tutti. Lo Stato non provvede quindi al bene comune… se viola i diritti di certuni. Lo Stato non ha l’incarico di procurare il benessere della famiglia, ma di salvaguardare il diritto. Allora sale alla tribuna un altro vescovo, mons. de Cabrières di Montpellier , che si associa al suo collega di Nottingham, ma vi aggiunge delle osservazioni di gran buon senso. Non amo il cesarismo, egli dice, e in Francia delle sue violenze portiamo ancora le cicatrici. Penso anche che lo Stato debba intervenire solo dopo che avranno dato il loro parere le corporazioni. Ma vivendo in tempi di democrazia e di pubblica discussione, è possibile pensare che lo Stato non venga investito, un momento o l’altro, delle rivendicazioni legittime degli operai? I cattolici non fanno quindi che tener conto dell’evoluzione naturale politica. Intervento temperato Gli applausi che accolgono queste parole dimostrano che la maggioranza dell’assemblea si trova su questa linea mediana. Ma il povero Küfstein è disorientato dagli attacchi dell’opposizione e non sa più trovare la via del compromesso. Nell’ultima replica legge ancora alcune citazioni di Taparelli e Liberatore, per farsene usbergo contro i gesuiti francesi e poi abbandona la tribuna con un gesto di scoramento. «Ho lavorato credendo di rendere un servizio. Mi si è attaccato con asprezza. Mi si rifiuta perfino la facoltà di rispondere a certi punti. Mi sottometto». Ma per fortuna è presente l’on. Winterer, il quale secondo la parola del Defourny , si dimostra il vero Ulisse di questo congresso e lo guida e conduce in porto attraverso gli scogli. «Siamo pratici – ripete il parroco di Mulhouse –. Vivo in una città che su settantamila abitanti ne ha ventimila occupati nella grande industria. Mi è avvenuto molte volte di constatare delle giornate di 14 ore. I padroni si scusano colla concorrenza straniera. Per questo bisogna provvedere alla limitazione e stabilire un maximum. Non intendiamo affermare in linea generale che lo Stato abbia diritto di regolare le condizioni del lavoro, le condizioni della libera attività umana. Ma qui si tratta solo della durata massima del lavoro. Non potendo accettare le proposte del relatore, vi sostituisco quest’ordine del giorno: Considerando che se non appartiene allo Stato di regolare direttamente le condizioni della libera attività dell’uomo, gli appartiene però di reprimere gli abusi che ledono tanto la salute pubblica che quella della famiglia, il congresso dichiara desiderabile che si fissi, con una convenzione internazionale, un limite della durata del lavoro nell’officina; limite che non dovrà essere superato». L’assemblea scoppia in applausi. Il conte von Küfstein si leva per una dichiarazione. L’assemblea gli tributa l’omaggio d’un applauso prolungato. Le lagrime soffocano la sua voce. Non riesce a ringraziare e ritira le sue proposte, in vista di quelle del canonico Winterer. Sennonché questa semivittoria pare infonda nuovo vigore nell’animo degli antinterventisti i quali anche sugli altri punti dell’ordine del giorno, discussi nella seconda sezione, sono sempre in allarme e corrono subito ai ripari, appena spunta in qualche proposta la tendenza interventista. Così discutendosi le proposte del P. Lehmkuhl sugli scioperi, si accetta naturalmente senza difficoltà il 1° capoverso il quale dice: «Benché sia desiderabile che gli scioperi, deplorevoli sempre, siano troncati fin dapprincipio, non sta tuttavia nella competenza dei pubblici poteri di reprimerli colla forza, fino a tanto ch’essi non turbano l’ordine pubblico e non violano i diritti altrui». Ma appena lo stesso relatore in un altro capoverso, per ovviare agli scioperi, proporrà che la legge ordini l’inserzione nel contratto di lavoro dell’arbitrato obbligatorio, affidato ad un comitato misto, il gruppo Théry fiuta il pericolo statalista e vuole che si parli invece di conciliazione, non di sentenza arbitrale. Anche il vescovo di Nottingham trova che la questione dell’arbitrato e del suo organo non è matura, e il relatore che, parlando tedesco, non riesce a guadagnare l’assemblea, finisce col ritirare questa parte della mozione. Se l’indole di questo lavoro lo permettesse, potremmo anche citare largamente dai verbali della terza sezione per dimostrarne lo stesso contrasto di tendenze a proposito delle assicurazioni sociali. Il gesuita P. Forbes, sostenuto dalla maggioranza del gruppo francese, attacca in un lungo discorso ilsistema delle assicurazioni obbligatorie negando allo Stato il diritto d’imporre ai padroni e agli operai le quote di assicurazione; i belgi sono divisi, ma i tedeschi che hanno ormai introdotto il sistema per legge del Reichsrat, lo sostengono a spada tratta. Tutti però sono d’accordo nel dichiarare preferibile il sistema assicurativo privato, quale vige in America ed in Inghilterra e, comunque, di escludere il concorso pecuniario dello Stato. La preoccupazione dominante rimane sempre in tutto il congresso quella di evitare un’eccessiva ingerenza dei poteri pubblici, di salvaguardare i diritti individuali, di ricorrere meno ch’è possibile all’obbligatorietà e alla costrizione legale. Tale fu il congresso di Liegi, alla vigilia, cioè otto mesi prima che uscisse la Rerum Novarum. Un mese dopo, cioè nell’ottobre del 1890, all’annuale congresso dei giureconsulti cattolici, convocato dalla «Revue catholique des institutions et du droit», mons. Freppel, vescovo e deputato, teneva un discorso sul «socialismo di Stato» ch’ebbe larga risonanza. In seguito al congresso si costituiva il 20 gennaio 1891 la «Société catholique d’économie politique et sociale», presidente il Freppel, vicepresidenti mons. d’Hulst , i senatori Brun e Keller e Claude Jannet, il quale fungeva così da organo di collegamento col gruppo della «Réforme sociale», fondato dal Le Play. La società sintetizzava il suo programma in queste parole: «Libertà individuale, libertà d’associazione con tutte le sue conseguenze legittime, intervento dello Stato limitato alla protezione dei diritti e alla repressione degli abusi». A questo programma aderirono ben presto un centinaio di nomi illustri nel campo del sapere. D’ogni parte si suonava l’allarme contro la statolatria «e il cesarismo» dal «Correspondant» agli «Etudes», alla «Revue des deux Mondes», nella quale il 15 giugno 1890 aveva la parola anche il visconte d’Haussonville per combattere il socialismo di Stato e per esclamare: «Per carità, già troppo abbiamo mescolata la Chiesa alle nostre lotte politiche; vorremmo comprometterla anche in questioni economiche ove non ha da conoscere? Non sollecitiamola a pronunciarsi pro o contro la libertà del lavoro e della concorrenza… Tutte queste querele passano, ed ella rimane». Il pensiero di Leone XIII Invece il 15 maggio 1891 la Chiesa parlò, ma non per mescolarsi alle querele dei partiti, bensì per riaffermare dei principi e delle direttive che sovrastano a tutti i contrasti e a tutte le contraddizioni. Nella questione dell’intervento dello Stato, Leone tiene fra i due estremi una linea mediana, la quale corrisponde su per giù alla direttiva della risoluzione Winterer, votata dal congresso di Liegi. Il compito principale dello Stato è la tutela giuridica, la protezione cioè dei diritti naturali, personali e acquisiti degl’individui e dei gruppi sociali: famiglie, associazioni, comuni, province. In questo campo della tutela giuridica il potere dello Stato è assoluto e diretto. Questo è il Rechtsstaat (Stato protettore del diritto) quale opponeva il Windthorst a Bismarck nel 1882, quando questi accarezzava l’idea del Wagner d’introdurre per gli operai la pensione di Stato. Ma lo Stato per la Rerum Novarum ha inoltre il potere di stimolare e aiutare la iniziativa privata dei cittadini e dei gruppi sociali, e ciò nell’interesse della pubblica prosperità. Questo è il Wohlfahrtsstaat (Stato del pubblico interesse) della politica sociale germanica, lo Stato quale voleva il Winterer al congresso di Liegi. È in tale senso che Leone XIII invita lo Stato «a farsi la provvidenza dei lavoratori». In questo campo però lo Stato ha solo un potere indiretto. Così, a mo’ d’esempio, in virtù del potere diretto le leggi civili confermano il diritto «di proprietà e lo proteggono colla forza»; il potere indiretto invece interviene per «temperare l’uso della proprietà e conciliarlo col bene comune». Tuttavia si avverta ancora: mentre nel campo direttamente proprio dello Stato, cioè in quello della giustizia, il suo potere è assoluto, qui invece il suo potere è soltanto suppletivo, si esercita cioè solo in quanto i privati e i gruppi sociali non possano sopperire colle proprie forze. Leone XIII che aveva presente il dibattito fra le due tendenze cattoliche è sollecito a premunirsi contro ogni abusiva ingerenza. «Per chi vorrà leggere attentamente l’enciclica – scriveva la «Réforme sociale» del 1° giugno 1891 –, non vi è per così dire pagina, ove non sia imposto qualche limite all’intervento della legge, ove non si riservi qualche campo, precludendone l’entrata allo Stato, ove non si mettano i cattolici in guardia contro i pericoli o le difficoltà o la poca efficacia della sua ingerenza». Infatti dice la Rerum Novarum: «Non è giusto che il cittadino, che la famiglia, siano assorbiti dallo Stato; giusto è invece che si lasci e all’uno e all’altra tanta indipendenza di operare, quanta se ne può, salvo il bene comune e gli altrui diritti» . E altrove si afferma «che non a beneficio dei governanti, bensì dei governati è da natura istituito il governo». «L’uomo – proclama sempre la Rerum Novarum – ha i suoi diritti inviolabili prima di entrare a far parte della società. Est homo quam respublica senior!». «Se i cittadini, se le famiglie, messe a far parte della società, invece di aiuti ricevessero offese, invece di tutela ai propri diritti trovassero violazione, la società non sarebbe più un bene da desiderarsi, ma qualcosa di detestabile» . Ma il fatto più notevole è che il centro motore di tutta la riforma sociale per Leone XIII, come per tutte due le scuole dei cattolici sociali, non è lo Stato, bensì le libere associazioni: i datori di lavoro e gli operai stessi in quanto agiscono attraverso organismi intermedi fra l’individuo e lo Stato. Di questi organismi quelli che si presentano come i più adatti a risolvere i conflitti sociali sono le corporazioni. Gli organismi intermedi però non vivono per grazia dello Stato, né esercitano una funzione da questo delegata. Sono delle forze autonome che derivano la loro origine e la loro funzione dal diritto naturale, anteriore al diritto positivo, quale è formulato nelle leggi. «Imperocché il diritto di unirsi in società l’uomo l’ha da natura; e i diritti naturali lo Stato deve tutelarli, non distruggerli. Vietando tali associazioni, egli contraddirebbe a se stesso, perché l’origine del consorzio civile, come degli altri consorzi, sta appunto nella naturale socialità dell’uomo» . Si danno, è vero, dei casi che rendono legittimo e doveroso il divieto, quando cioè si tratti di associazioni «che si prefiggano un fine apertamente contrario all’onestà, alla giustizia, alla sicurezza del consorzio civile…». «È necessario però procedere in questo con somma cautela per non invadere i diritti dei cittadini e non fare il male sotto il pretesto del pubblico bene» (XXII) . Infine, dopo aver parlato più particolarmente delle società cattoliche d’ogni genere, come si erano sviluppate sul terreno sociale, Leone XIII aggiunge: «Lo Stato difenda queste associazioni legittime dei cittadini, non s’intrometta però nell’intimo della loro organizzazione e disciplina: perché il movimento vitale nasce da intrinseco principio e gli impulsi esterni lo soffocano» . Insomma trattandosi dello Stato, al «lasciar fare, lasciar passare» dell’economia classica Leone XIII non oppone il fare, ma l’aiutare a fare. Si noti ancora che per suprema cautela e per tener conto anche delle apprensioni, manifestatesi nei recenti dibattiti, Leone XIII, prima di entrare in argomento sui compiti dello Stato, fa nella Rerum Novarum la seguente dichiarazione: «Noi parliamo dello Stato, non come è costituito o come funziona in questa o quella nazione, ma dello Stato nel suo vero concetto, quale si desume dai principi della retta ragione in perfetta armonia colle dottrine cattoliche, come noi medesimi esponemmo nell’Enciclica Sulla costituzione cristiana degli Stati» . Non sembra che questa sia solo una clausola di salvaguardia per il caso di un intervento oppressivo dello Stato anticlericale contro le congregazioni religiose. Essa ha evidentemente un significato più ampio, riguardante in genere l’intervento dello Stato nella questione sociale. Non a torto la «Réforme sociale» commentando questo passo dell’enciclica ricordava una pastorale del card. Capecelatro dell’anno prima, ove si dice che: «Là ove lo Stato si lascia governare dai principi morali del cristianesimo, un’ingerenza moderata dello Stato nella questione sociale è giusta ed utile, perché in tal caso lo Stato trova nel concetto stesso della morale, della libertà e dell’autorità cristiana, la luce e la guida della ingerenza. Allora le leggi sociali, lungi da diminuire la libertà dei privati, come potrebbe sembrare dapprima, accrescono la libertà di tutti, facendola convergere verso il bene. Per contro l’ingerenza nella questione sociale da parte di Stati non credenti è di grande detrimento, visto che non attenendosi al fondamento certo della legge morale, essa diviene completamente arbitraria. Essa non può allora che diminuire la libertà individuale e accrescere quest’onnipotenza degli Stati moderni fatti sul modello francese, che oggidì è forse il maggior pericolo della società civile in Europa» (XXIII). In ogni congresso, di fronte ad ogni proposta di legislazione sociale, s’era da qualcuno lanciato il grido angoscioso: Ci darete dunque in braccio all’assolutismo di uno Stato nemico? Leone XIII col richiamarsi all’enciclica Sulla costituzione cristiana degli Stati, pubblicata sei anni prima , pare risponda: Rassicuratevi, si tratta in ogni caso dello Stato che opera in perfetta armonia colla Chiesa. «E non è un fatto consegnato alla storia, che tutte le istituzioni più efficaci a procacciare la pubblica incolumità, le più atte ad allontanare dai popoli il malgoverno e la tirannia, ad impedire la indebita ingerenza dello Stato nell’azione propria del municipio e delle famiglie: le disposizioni meglio valevoli a garantire nei singoli cittadini la dignità, la personalità umana e l’uguaglianza dei diritti, o ebbero origine dalla Chiesa o furono da lei benedette e protette?» (XXIV). La costituzione cristiana degli Stati è una costituzione organica: quella cioè «in cui le parti o membri ritengono, come nell’organismo fisico la loro propria operazione, vitalità e finalità propria, sebbene retta o ordinata da una forza superiore ad un bene comune a tutto l’organismo. Poiché le persone, famiglie, associazioni minori, quando si aggregano a formare od accrescere uno Stato, non perdono, ma perfezionano i loro diritti, e a questo debbono essere anzi aiutati dallo Stato, non intralciati o asserviti ad un centralismo che ne soffocherebbe l’operosità» (XXV). Di fronte allo Stato hegeliano, nel quale la personalità umana e i gruppi sociali dovrebbero sommergersi inesorabilmente, Leone XIII riafferma ancora altrove (XXVI): «La natura non produsse la convivenza civile perché in quella l’uomo trovasse il suo fine, ma perché attraverso la società e nella società potesse avere quegli aiuti che sono necessari al suo perfezionamento». Né si trattava qui naturalmente di dottrine nuove, elaborate per determinate situazioni, bensì dell’insegnamento tradizionale della Chiesa. In tutti gli autori scolastici, che i congressi cattolici sociali amavano citare come i classici della filosofia sociale, ritorna sempre lo stesso pensiero. Accontentiamoci qui di aprire il celebre saggio di diritto naturale del Taparelli d’Azeglio, scritto attorno al ’48 , e leggeremo al N. 726: «Quando si dice che il bene dell’individuo dee subordinarsi al bene sociale, si parla di un individuo contrapposto agli altri. E sarebbe opportunissimo il soggiungere tosto: e il bene sociale dee numerarsi dal bene che ridonda nel tutto degli individui, affine di evitare le platoniche utopie di certi politici che del loro Stato fanno un idolo…». Capitolo V EQUILIBRIO E BUON SENSO ITALIANO Il libretto del Ketteler sulla «questione operaia» era stato tradotto e pubblicato a Venezia, già nel 1870, per cura di due sacerdoti vicentini ; ma il fracasso dell’epoca, tutta rimbombante di avvenimenti storici interni ed esterni, lo aveva fatto presto dimenticare. Ne parlò tuttavia Fedele Lampertico , ma per combatterne le direttive, in nome dell’economia classica. Il vescovo di Magonza aveva auspicato il ritorno delle corporazioni. Ed ecco l’economista vicentino ricordare gli errori del lavoro forzato e le degenerazioni delle corporazioni «serrate», quando era un delitto «se l’operaio senza licenza del maestro si fosse battuto un ago o cucito una veste: se il calzolaio avesse rattacconato le scarpe del suo figliolo invece di mandarle al ciabattino» (XXVII). Il credere che le corporazioni abbiano mantenuta una pace permanente tra il capitale e il lavoro è premessa antistorica, dice il Lampertico: «Non ebbe Firenze nel più bel tempo delle corporazioni d’arti il tumulto de’ Ciompi? Non ebbe Lucca, la congiura degli Straccioni? Chi non conosce i civili dissidi, le proscrizioni ed arsioni del medio evo?». «A Lucca nel secolo XVI sorgeva nel senato a difendere i poveri mons. Giovanni Guidiccioni , come oggi sorge mons. Ketteler, e notisi come adesso il Ketteler deplora questa condizione dell’operaio perché mancano le benefiche e protettrici discipline di altri tempi, allora lamentavansi tutte queste tirannie come effetti delle discipline medesime» (XXVIII). Le corporazioni caddero non per cieco fanatismo di demolitori rivoluzionari ma per un insopprimibile bisogno di libertà a cui non poterono sottrarsi nemmeno gli elementi più conservativi. «Dall’accademia di Verona postosi nel 1789 a concorso il quesito se devesi o no tenere le arti riunite in corporazioni con discipline, privilegi e contribuzioni al corpo, su ciascuno di questi tre punti il piemontese abbate G.B. Vasco si pronunciò fittamente contro la conservazione delle università delle arti… e non dissimili sensi espose il vicentino abbate Agostino Vivorio» (XXIX) . Come si vede, a questo modo la polemica avrebbe potuto continuare all’infinito, poiché il Ketteler parlava delle corporazioni nel loro fiorire e il senatore vicentino del loro scadimento; e il Ketteler stesso aveva avuto cura di accennare all’eterna alternativa della storia fra il principio dell’autorità e quello della libertà. Il medioevo toscano Il Lampertico, quando così scriveva, aveva già all’università di Padova uno scolaro che fu anche suo collega, e che più tardi dedicherà alla venerata memoria di lui il trattato, nel quale l’equilibrio fra i due principi sarà raggiunto e sarà dimostrata la possibilità di conciliare le corporazioni colla società moderna. Ma Giuseppe Toniolo, passato da Padova e Venezia all’università di Pisa, troverà nella storia dell’economia toscana, non soltanto le meravigliose opere artistiche della fratellanza corporativa (Orsammichele!), ma s’incontrerà anche, stupito, negli economisti scolastici da S. Antonino di Firenze a Bernardino da Siena . Economisti, si capisce, incidentali, perché la loro preoccupazione è d’insegnare la morale, ma «svolgendo i loro volumi “in folio” agli argomenti de Justitia, de contractibus, de charitate e simili… ti colpisce il discorso frequente particolareggiato, quasi casistico, di traffici, di speculazioni, di monopoli, di moneta, di prezzi, di cambi reali e nominali, di banchi, di monti, di usure, di tributi, ecc.; e l’analisi positiva e spesso i sicuri e corretti giudizi economici ti recano meraviglia» (XXX). Questo addentrarsi del Toniolo nella storia dell’economia toscana gli renderà familiare il pensiero filosofico, politico ed economico del medioevo, e lo farà giungere alla conclusione fondamentale che ispira tutta la sua opera: il mondo toscano ossia l’organismo cristiano medioevale è di gran lunga superiore al mondo romano, perché questo si fonda sull’onnipotenza dello Stato e sulla servitù, mentre l’altro è radicato nella libertà personale civile e fa leva sulla libertà degli organismi intermedi: è in questi organismi che si contemperano per il Toniolo i principi di libertà e di autorità, che al suo maestro erano apparsi in antitesi… Nel tempo di cui scriviamo Toniolo è uno studioso, tutto dedito all’insegnamento, né l’ora della sua attività militante è ancora scoccata. L’«Opera dei congressi cattolici» , fondata nel 1874, ha una sezione che si chiama della carità, la quale si trasforma in «carità ed economia cattolica» al congresso di Modena del 1879 e diventa «economia sociale cristiana» appena a Lucca nel 1887 , quando compare per la prima volta come segretario generale il prof. Nicolò Rezzara di Bergamo . A Bergamo però si erano fissati alcuni elementi fondamentali della ricostruzione cattolicasociale, già nel 1877. Il relatore di quel congresso aveva inneggiato a Léon Harmel e fatto votare un ordine del giorno che si distingue per il suo equilibrato buon senso. Si voleva infatti «l’organizzazione dei sindacati operai liberi e cristiani (sindacati-corporazioni) per ristabilire, armonizzandolo colla più corretta libertà, il regno della solidarietà nel mondo del lavoro». Si chiedeva che a tali sindacati venisse riconosciuta la personalità giuridica e, in principio, il diritto di essere rappresentati nelle assemblee deliberative degli Stati. S’invocava infine una legge che regolasse il lavoro delle donne e dei fanciulli nelle officine, poiché anche in Italia si cominciava a dover deplorare gli eccessi e gli abusi delle altre nazioni. Il movimento sociale in Italia Questo congresso precursore non ebbe grande risonanza, sia perché i cattolici, in seguito alla Questione romana, vivevano come ai margini della nazione, sia perché allora la classe dirigente, occupata a costituire lo Stato unitario e impegnata nelle competizioni politico-parlamentari fra la Destra che se ne andava e la Sinistra che arrivava al potere, non credeva ai pericoli del socialismo. Bisogna ricordare che fino al congresso di Bologna del 1880, nel quale nacque il partito operaio a carattere marxista , il movimento socialista in Italia, ispirandosi al Bakunin , che aveva dimorato a Napoli tra il ’65 e il ’67, mal si distingueva dal rivoluzionarismo democratico in genere, e s’era sfogato, ma apparentemente anche esaurito, in alcuni moti insurrezionali che il governo aveva facilmente represso. In realtà in questo primo periodo mancava ancora in Italia il movimento della grande industria, che andava irrobustendosi appena dopo l’Ottanta – gli operai metallurgici sono nel 1881 seimila, nel 1889 quindicimila –, cosicché Crispi aveva ragione, quando diceva che non «c’era la materia combustibile a tanto incendio». Ma gli uomini pensosi dell’avvenire non si acquietavano a simili constatazioni momentanee. Gioacchino Pecci , arcivescovo di Perugia, nella sua pastorale per la quaresima del 1877, intitolata Civiltà e religione , considerando la crisi mondiale che non poteva tardare a manifestarsi anche in Italia, stigmatizzava con parole fortissime lo sfruttamento del proletariato industriale. «Quali doglianze e quanto solenni non ci toccò di sentire anche in paesi che sono stimati tenere la cima della civiltà, per le soverchianti ore di lavoro, imposte a chi deve guadagnare il pane col sudor della fronte! Ed i poveri fanciulli condotti negli opifici ad intisichire in mezzo a precoci fatiche, non contristano forse l’osservatore cristiano, non traggono parole di fuoco da ogni anima generosa, e non obbligano governi e parlamenti a studiare leggi per mettere ostacoli a quel traffico disumano?!!!…». Bisogna chiedersi, conclude il cardinale, «se questi fautori della civiltà fuori della Chiesa e senza Dio, invece di farci progredire non ci sospingano molti secoli indietro, quando la schiavitù schiacciava tanta parte degli uomini, e il poeta Giovenale esclamava, che a trastullo di pochi viveva il genere umano». Anche alcuni uomini della Destra e del Centro gettavano l’allarme, primo fra tutti il Minghetti , già citato onorevolmente dall’«Association Catholique» per il suo libro sulle «attinenze della economia politica con la morale e il diritto» , il quale voleva si «prendesse coraggiosamente l’iniziativa di tutte le riforme, senza spaventarsi di certe idee, per non essere travolti dalla marea demagogica» e con lui il Villari , il Franchetti , il Sonnino ed altri collaboratori della «Rassegna settimanale», fondata nel 1878 (XXXI). A questo gruppo naturalmente serviva di esempio e di edificazione, benché con notevoli temperamenti, la scuola dei cosiddetti socialisti cattedratici tedeschi , colla grave differenza che agl’italiani mancava il Bismarck per attuare le riforme che caldeggiavano. Crispi, il quale come il Gambetta poco credeva nella questione sociale, fu tutto investito da altri problemi: Triplice e politica coloniale all’estero, e, all’interno, dopo il sogno, rapidamente tramontato, del 1887, anticlericalismo attivo che si manifestava in parecchie leggi contro la Chiesa – Opere pie! – e per il gran pubblico riceveva il suo simbolo nel monumento a Giordano Bruno, inaugurato a Campo di Fiori nel 1889. Intanto il partito socialista si organizzava, assorbendo a poco a poco gran parte delle società operaie di mutuo soccorso, fondate dai mazziniani e dai liberali. Nel 1890 alla festa del 1° maggio risuonò per la prima volta l’inno dei lavoratori di Filippo Turati , il quale, l’anno dopo, fondò la «Critica sociale» . Il movimento organizzativo cattolico era meno diffuso, ma più antico. Era sorta a Roma già nel 1871, sotto gli auspici di Pio IX, la «Primaria associazione artistica ed operaia di carità reciproca» , la quale aggiungendo al mutuo soccorso, alla cassa di risparmio, all’istituto per case economiche le sue magnifiche scuole di arti e mestieri, ancor oggi fiorenti, e organizzando i soci secondo le professioni, costituiva e costituisce tutt’oggi il primo esempio delle rinnovate corporazioni cristiane. Nel 1901, celebrandosi il trentennio della fondazione, il relatore magnificava l’opera di quei primi pionieri, i quali «vollero e seppero organizzare numerose falangi di lavoratori, raggruppandoli in quelle divisioni di arti e mestieri, le quali rispecchiando e rinnovando le antiche corporazioni preparano la via a quel regime corporativo, che è uno dei capisaldi del programma popolare cattolico». Ricordava egli ancora che nelle scuole di mestieri dell’associazione erano stati istruiti 6.000 allievi, che si erano distribuite 484.899 lire a sollievo di 21.184 infermi; soccorsi 479 vedove e orfanelli, affigliate e raccolte sotto l’egida della «Primaria» altre 66 associazioni consimili dell’Italia e degl’italiani all’estero. «La società pubblica dal 1875 un “bollettino mensile” sfogliando il quale si possono ricostruire le cronache del movimento operaio cattolico. Siamo, naturalmente, nell’ambito dell’artigianato e del popolo minuto, dedito alla piccola industria e al piccolo commercio». Nello stesso anno 1875 l’associazione prese contatto col movimento dei «Circoli» francesi, delegando il conte Ivert ad assistere al congresso di Reims. «Tutti rimasero sorpresi – riferiva poi il conte Ivert – nel sapere che a Roma si è realizzato in parte il progetto che si propongono le opere francesi: la restaurazione delle associazioni cattoliche e dei cari corpi di stato e la riunione di tutte queste associazioni in un sol tutto». «Deputato» o assistente ecclesiastico era allora mons. Domenico Jacobini , segretario di Propaganda e poi cardinale. I suoi discorsi sono un commentario cronologico degli avvenimenti del giorno. Dopo l’avvento di Leone XIII e, a mano a mano che si procede verso la fine del secolo, vi si sente crescere ed irrobustire il senso orgoglioso d’una graduale ripresa della Chiesa cattolica. Gli attentati e i regicidi dell’epoca – s’incomincia coll’attentato di Passanante a re Umberto nel 1878 e si finisce coll’assassinio dello zar –, il sorgere del nichilismo, le tragiche gesta dell’anarchismo comunista, dal quale mal si distingue ancora il socialismo legalitario, infondono ovunque un senso di smarrimento, un presagio oscuro di catastrofi imminenti. Ma la Chiesa, sicura del suo destino, continua serena la sua conquista del mondo. «Il principio spirituale della Chiesa – annunzia Jacobini nell’adunanza generale dell’83 – in tutta la pienezza della sua autorità si impossessa letteralmente degli ultimi confini della terra. E quando tutti i governi sono in pericolo di precipitare negli abissi del socialismo, quando traballano i troni, quando ogni proprietà è incerta, in una parola quando sono scosse le basi dell’umana società e maturano i frutti amari della ribellione alla Chiesa, essa sta tranquillamente distendendo dappertutto le sue tende, sta scuotendo da sé la polvere di questo secolo e va rinnovando la sua giovinezza per apparire tra poco in mezzo alle genti scintillante nei raggi di una luce immortale!». Quelli non erano però tempi favorevoli alla corporazione cristiana. All’esposizione di Torino dell’84 aveva partecipato con le sue scuole e con le sue istituzioni di assistenza anche l’«Artistica operaia», ma la giuria della sezione «Previdenza e assistenza pubblica» l’aveva esclusa da ogni premio, per il suo carattere confessionale. Questo atto settario provocò un’esplosione di protesta e di solidarietà da parte delle associazioni similari. «Discacciandoci dal partecipare ai benefici dell’epoca presente come fautori del passato delle nostre artistiche associazioni – diceva mons. Jacobini nell’adunanza del dicembre 1884 – sono anche ingiusti verso la patria… essi che ci condannano perché suscitiamo in Italia le società antiche, perché evochiamo la memoria del loro spirito… E non sono state quelle antiche maestranze le glorie dell’Italia? … Chi non ricorda l’altezza a cui giunsero i corpi d’arte in Roma stessa, quando, elevati i tribunali delle stesse arti, i loro consoli giudicavano in Campidoglio? Essi esaminavano le questioni che le riguardavano vicino alla torre del mercato e per moltissimo tempo ebbero grande potenza nel Comune…». L’anno dopo, nel 1885, sono le società operaie cattoliche liguri che in occasione d’un corteo di undici mila operai con 31 associazioni aderenti vengono attaccate a colpi di bastone e di sassi per le vie di Genova e lasciano sul terreno un morto . Dall’86 compaiono nel «bollettino» degli articoli di carattere scientifico e sociologico, scritti dall’avv. Burri, autore del Lavoro tanto citato dal Küfstein a Liegi, e dal conte Edoardo Soderini . Il giusto mezzo del giovane Toniolo Un vero movimento scientifico cattolico nel campo degli studi sociali nacque però in Italia solo alla fine del 1889, quando sotto la presidenza onoraria di mons. Callegari , vescovo di Padova, e quella effettiva del prof. Toniolo venne fondata l’«Unione cattolica per gli studi sociali» , la quale, dopo l’enciclica Rerum Novarum, dié mano alla pubblicazione della «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», diretta da mons. Talamo . I cattolici italiani arrivavano ultimi nell’agone, ma vi portavano un equilibrio, un senso di misura, una comprensione dei tempi, che faceva loro superare, magnificamente, certe discussioni teoretiche, altrove così imbarazzanti. Ciò fu merito particolare di Giuseppe Toniolo, il quale aveva già nel 1886 tracciato luminosamente le direttive di questo lavoro intellettuale (XXXII). Anzitutto non si tratta di distruggere l’ordinamento economico moderno, ma solo di trasformarlo «e non tanto nel congegno esteriore quanto nello spirito interiore» (XXXIII). «La parte maggiore delle istituzioni sociali moderne può rimanere pressoché intatta nella sua struttura ed anzi continuare a rendersi più proficua nell’avvenire, a condizione soltanto di mutarvi lo spirito animatore». In secondo luogo la ricostruzione cristiano-sociale riuscirà solo se i cattolici baderanno a «combattere da una parte l’economia individualista e liberista e dall’altra l’economia panteista o il socialismo di Stato». Per riuscire a tenere questa linea centrale «occorre accettare tutti interi i principi cattolici intorno all’uomo, la società e lo Stato, con tutti gl’istituti che sono da questi derivati». «Solo per virtù di tali principi riusciranno a salvare ad un tempo le ragioni della libertà individuale privata e quelle del progresso del corpo sociale: ragioni, oggidì alternamente compromesse da un liberalismo che dissolve e da una statocrazia che soffoca ed uccide». «Badisi di non incoraggiare soverchiamente quello che si direbbe il regolamentarismo sociale-economico. Il danno pel moto spontaneo di ricostituzione sociale da parte dei cattolici in taluna nazione sarebbe irreparabile: ma per tutte in generale sempre notevole». «La ricostruzione appunto dell’ordine sociale è di sua natura principalmente un prodotto storico, dell’energia, della moralità, dell’operosità degli individui e delle famiglie; ciò che genera le classi sociali, la loro sovrapposizione gerarchica, la loro costituzione in corpi morali, civili, economici (come le corporazioni), quasi estensione e prodotto delle famiglie medesime: e riesce a comporre quegli organismi intermedi fra l’individuo disgregato e lo Stato, i quali impediscono il dissolvimento da un canto e l’assorbimento dall’altro della società stessa» (XXXIV). Capitolo VI VIGILIA Anche sulla preparazione della Rerum Novarum va formandosi la sua leggenda. Si afferma ad esempio, in diverse pubblicazioni, francesi e tedesche, che Leone XIII avrebbe costituito verso il principio del 1882 un comitato segreto – «un comité intime» – il quale avrebbe avuto il compito di elaborare alcuni capisaldi, da fissarsi poi nella futura enciclica. Abbiamo cercato invano le tracce di questo comitato misterioso. Edoardo Soderini, intimo del segretario di Leone XIII, mons. Volpini , dal quale, come egli stesso assicura, ebbe a suo tempo le più ampie informazioni sulla preparazione dell’enciclica, ignora completamente l’esistenza di un tale comitato (XXXV); né lo ricorda mons. Talamo, il venerando nonagenario che prese tanta parte alle discussioni di quel periodo e diresse poi con tanto lustro la «Rivista di scienze sociali e discipline ausiliarie». Lo stesso Küfstein, che nel 1916 pubblicò come manoscritto una sua memoria sulla preparazione della Rerum Novarum, polemizzando col citato articolo del Soderini (XXXVI), non parla di un comitato costituito per incarico del Papa, ma scrive così: «Quando a Roma nel 1881 tentai assieme all’abate Villeneuve – un profondo tomista del Canada – di fondare un comitato per lo studio delle questioni sociali, non trovai alcuna comprensione là ove facemmo il tentativo. Allora ci decidemmo di bussare direttamente in Vaticano. Qui trovammo più che semplice comprensione…». «Avrò ancora occasione di dimostrare quanto lavoro preliminare noi dovemmo fare per altri; affinché ciò che nella sua essenza era già presente nello spirito gigantesco di Leone XIII, potesse venire portato alla luce». Anche il conte von Küfstein (il quale passava gl’inverni a Roma, perché sposato con un’Odescalchi) è morto, e quindi questo accenno assai vago rimane senza spiegazione. Non bisogna però vederci gran cosa. Si deve trattare di poche riunioni in un cerchio assai ristretto, tenute durante gli anni 1882 e 1883, quasi sicuramente nella sede dell’«Artistica operaia» in via Testa spaccata, distrutta poi coll’erezione del monumento a Vittorio Emanuele. È a queste riunioni che si riferisce mons. Mermillod, quando riassumendo gli studi dell’«Unione di Friburgo» in una riunione del 1890 dice: «Quando iniziammo i nostri studi economico-sociali, eravamo ben pochi, il conte de Blome, il conte von Küfstein, il segretario della Propaganda mons. Jacobini e P. Denifle ». Ed è da questo circolo che devono essere riuscite quelle che passano sotto il nome di «tesi di Roma» e furono stampate poi contemporaneamente a Parigi e a Vienna nel 1893 assieme alle tesi di Friburgo e si trovano oggi riprodotte nelle Basi della nuova società, pubblicate a Vienna dal Lugmayer e che abbiamo già citato altrove (XXXVII). Queste conclusioni di Roma, messe probabilmente in carta dall’assiduo Küfstein, tenace raccoglitore di formole e registratore meticoloso di definizioni – ne darà una prova solenne nella sua relazione per il congresso di Liegi – trattano del valore, della proprietà, del diritto successorio, del lavoro, del prestito ad interesse, tutte questioni su cui dissertava allora a Vienna il Vogelsang, ma che non possono avere, come non l’avevano, la pretesa di novità né per la forma, né per la sostanza. Gli studi di Roma Comunque, esse non possono venire riguardate come conclusioni di un «Circolo di studi sociali ed economici», stabilitosi in Roma poco dopo l’81 e del quale avrebbe fatto parte anche mons. Talamo, che, come asserisce il Küfstein, avrebbe anzi compilato la maggior parte delle tesi. Abbiamo fatto appello alla mirabile memoria del venerando nonagenario, e mons. Talamo ci ha assicurato d’aver bensì assistito a delle riunioni nella sede della società «Artistica», per discutere di cose sociali – specie sul concetto del salario – ma che, almeno in sua presenza, non vennero mai né presentate né formulate conclusioni scritte. Fra i cattolici della città eterna non v’erano allora né economisti celebri da consultare né capitani d’industria e organizzatori operai che avessero potuto fornire informazioni speciali e tecniche. C’erano invece molti teologi e filosofiche, in quanto si trattava di economia e di sociologia, avevano bisogno di studiare essi stessi, alcuni giuristi che avevano bisogno di consultare i teologi e alcuni gentiluomini che, avendo visto e viaggiato molto, sentivano la necessità di farsi un programma sociale con una base dottrinale cattolica. Secondo il Soderini (XXXVIII) mons. Jacobini, stimolato dal Papa, promosse verso l’84, dunque dopo quel primo e fugace cenacolo dell’82, delle discussioni sociali periodiche in casa del principe Paolo Borghese, riunioni alle quali parteciparono parecchi membri della nobiltà romana e uomini ch’ebbero poi parte nella vita pubblica, come il Benucci , il Santucci , il Soderini stesso. «Era un vivaio – scrive il Soderini – donde il Papa attendeva uscissero uomini esperti nelle discipline sociali, politiche e amministrative da poter utilizzare, quando che fosse, nelle amministrazioni pubbliche, nei municipi, nei circoli scientifici, nella stampa e in tutti quei vari istituti che avrebbero di mano in mano promosso a favorire l’opera di ricostruzione sociale». Tali libere riunioni si tennero qualche volta anche nella sede dell’«Artistica operaia» in via Testa spaccata, e cambiavano spesso i partecipanti, ma non mutava il tema di discussione. Così, trattandosi di un circolo senza organizzazione permanente, non è meraviglia che chi ne scrisse sia molto incerto sui nomi delle persone che vi parteciparono. Il Küfstein cita fra gli altri il Talamo, il P. Pawlicki , il P. Denifle, il P. Querini S.J., sostituito poi dal P. Liberatore, il Soderini, il Vespignani . Il conte Soderini non ricorda di questi che il Talamo, il Denifle e il Liberatore. Non è purtroppo nemmeno esatta la sonante descrizione del Goyau , ripetuta poi fino a oggi e senza controllo da molti altri, che il circolo romano cioè stampasse delle conclusioni benché «piuttosto a titolo di documento che a titolo di manifesto. Gli scritti di questo gruppo non avevano ufficiale importanza; esso lavorava nell’ombra; esso non ha storia, ma occupa un posto nella storia» (XXXIX). Di stampato non abbiamo trovato nulla, ammenoché non si pensi ad alcuni articoletti del Burri e del Soderini, pubblicati nel «Bollettino» dell’«Artistica operaia». La stessa «Rassegna Italiana», che doveva essere l’organo scientifico di questo gruppo , fino al ’90 non porta che due soli articoli di carattere sociale; uno di mons. Boncompagni di economia agraria e un altro di Soderini su Frédéric Le Play. Vero è invece che, prima ancora della comparsa della Rerum Novarum, dal seno di questo gruppo di studiosi nacquero due libri: l’uno, quello già ricordato del Burri sul lavoro, che si diffonde sul concetto del giusto salario, e l’altro, più noto, del P. Liberatore, pubblicato nel 1889 sotto il titolo Elementi di economia politica, nel quale il dotto gesuita cerca di fare il suo corso, evitando Scilla e Cariddi, come egli dice nella conclusione: tra il liberalismo cioè e il socialismo, il che, economicamente, vorrebbe dire: fra il troppo lasciar andare e il troppo regolamentare. In quanto a Leone XIII occorre ricordare che il grande Papa stava allora agli inizi del suo laboriosissimo pontificato, con i conflitti del Kulturkampf da comporre, colla Questione romana ai fianchi e con in testa un vasto disegno di restaurazione dottrinale rispetto alla civiltà moderna, ch’egli andrà svolgendo dall’80 al ’90. Cadono in questo periodo 27 encicliche, tra le quali quelle importantissime sulla filosofia tomistica , sul matrimonio cristiano , sul principato civile (1881), sulla massoneria , sulla costituzione cristiana degli Stati (1885) , sulla libertà (1888) , 7 lettere apostoliche, una quarantina d’altre lettere, una ventina d’allocuzioni concistoriali e un 25 altri discorsi. È lecito credere che, condannato nell’enciclica del ’78 il socialismo, egli non s’occupasse in un primo tempo della questione operaia che incidentalmente e quando si presentava l’occasione. Ma verso il 1885 il suo interessamento va aumentando. Il card. Langénieux , arcivescovo di Reims, che assieme a Léon Harmel presiedette ai pellegrinaggi della «Francia del lavoro», ci ha descritto in pagine commoventi l’impressione ch’essi fecero su Leone XIII. Con sguardo d’aquila il Pontefice vedeva prepararsi una nuova epoca per l’influsso sociale della Chiesa. I pellegrinaggi francesi Volle che padroni e operai venissero ricevuti nelle sale del Vaticano con cerimoniale solennissimo. Nel 1885 veramente non vi si trovarono che un centinaio d’industriali e gli organizzatori dei «Circoli» e in quell’occasione il suo discorso fu breve. Ma invece s’informò molto. «Un’altra volta portatemi anche gli operai», disse a Léon Harmel. E questi, due anni dopo, organizzò il grande pellegrinaggio operaio di 21 gruppi. Quasi duemila operai, centinaia di bandiere, oratori come Langénieux e de Mun da una parte, e Leone XIII attorniato da 16 cardinali e da tutta la pompa della sua Corte dall’altra: ecco lo spettacolo di quel pellegrinaggio. «Siamo – dice de Mun – i rappresentanti delle prime corporazioni operaie, rinate all’appello di Vostra Santità per proteggere sotto la tutela della religione gl’interessi del lavoro e i costumi dei lavoratori». Ed ecco Leone XIII levarsi a rispondere colla sua voce solenne: «Allorquando la sua parola era meglio ascoltata ed obbedita dai popoli… la Chiesa veniva in aiuto ai poveri ed agli operai, non solamente colle elargizioni delle sue carità, ma col creare ed incoraggiare quelle grandi associazioni corporative, che hanno tanto potentemente contribuito ai progressi delle arti e dei mestieri, e procurato agli operai stessi un maggiore utile e un migliore benessere. E questo sentimento di materna sollecitudine la Chiesa l’aveva ispirato nei costumi dei popoli, negli statuti e regolamenti delle città, nelle ordinanze e nelle leggi delle pubbliche autorità. Senza dubbio, intervento e azione di questa autorità non sono di una necessità assoluta, quando nelle condizioni che regolano il lavoro e l’esercizio dell’industria, non si trova niente che offenda la moralità, la giustizia, la dignità umana, la vita domestica dell’operaio: ma quando l’uno o l’altro di questi beni si trova minacciato e compromesso, le autorità pubbliche, nell’intervenire come si conviene ed in modo equo, faranno opera sociale; perché ad esse spetta di proteggere e tutelare i veri interessi dei cittadini loro subordinati». C’è in queste parole oramai disegnata con chiarezza la direttiva del Papa circa l’ingerenza dello Stato nelle questioni del lavoro: interventismo temperato, in difesa dei diritti e a tutela dei più deboli. Più imponente e più clamoroso ancora fu il pellegrinaggio organizzato dall’Harmel nell’89: diecimila operai, di tutte le province francesi, arrivarono a Roma in vari scaglioni, ricevuti fraternamente dall’«Artistica operaia», ed in parte ospitati dal Papa stesso in Santa Marta. Chi assistette alla messa celebrata da Leone XIII in mezzo agli operai, assicura che in certi momenti il grande Pontefice, come mosso da una carità irrefrenabile, aveva gli occhi pieni di lagrime. Della sua allocuzione alcuni periodi ebbero una risonanza mondiale. «Alle classi dirigenti noi diciamo, bisogna che esse abbiano un cuore, e viscere di padre per coloro che guadagnano il pane col sudore della fronte… A chi tiene il potere spetta soprattutto di persuadersi di questa verità che per rimuovere il pericolo che minaccia, né le repressioni, né le armi dei soldati saranno sufficienti…». Siamo ai tempi della conferenza internazionale di Berlino per la protezione del lavoro. L’idea d’una convenzione internazionale s’era presentata subito all’ «Unione di Friburgo», appena costituita. Bisogna creare, disse il conte de Blome ancora nell’84, una specie di Croce Rossa internazionale, anche per il lavoro. Poco dopo de Mun aveva presentato una mozione in tal senso alla Camera francese. Nel 1886, l’«Unione di Friburgo» espresse al Papa il desiderio che una tale conferenza venisse convocata dallo stesso Pontefice e nel 1887 Caspar Decurtins, il campione cattolico svizzero, aveva fatto passare una proposta analoga nel Consiglio federale elvetico. Leone XIII gli fece trasmettere subito dal card. Jacobini le sue felicitazioni. Ma a questo punto la diplomazia tedesca si mise in moto per impadronirsi dell’iniziativa. La conferenza venne convocata a Berlino da Guglielmo II e il Papa mandò all’imperatore una lettera di adesione e di plauso. La maturità dei tempi I tempi erano quindi maturi. Se voleva parlare, gli avvenimenti gli preparavano l’uditorio più attento e più interessato che si potesse desiderare e i congressi di Liegi, di Angers e di Lilla, di Germania, d’Austria ed Italia coi loro contrasti dottrinali e colla loro affannosa ricerca di una pratica direttiva chiamavano in causa la suprema autorità dottrinale e disciplinare della Chiesa. Bisogna dire ancora che anche l’elaborazione dottrinale o meglio l’applicazione delle antiche dottrine alla nuova situazione sembrava ormai sufficiente; anche l’ufficio internazionale di smistamento che raccolse, vagliò, coordinò e formulò i risultati della sociologia cristiana, com’erano maturati a quell’epoca. Guardiamoci però anche qui dalle esagerazioni e dal ripensare ora l’«Unione di Friburgo» come uno strumento di studio, preordinato per l’enciclica. Secondo le intenzioni dei promotori, Mermillod, La Tour du Pin e Küfstein, a Friburgo si sarebbe dovuto creare una specie d’internazionale delle organizzazioni cristiane. Per mancanza di… materiale, ci si ridusse ad un circolo di studio, nel quale avrebbero dovuto confluire le correnti francesi, italiane, tedesche, austriache e svizzere. «Anzitutto – dice il piano di studio, scritto dal La Tour du Pin il 18 ottobre 1884 – bisognerebbe comunicarsi le tesi di Salisburgo, di Haid e di Amberg, in quanto non furono ancora pubblicate nell’“Association Catholique” e nella “Monatschrift” del Vogelsang. Anche i lavori del gruppo romano, che non sono stati ancora pubblicati, dovrebbero comparire nelle suddette riviste o nella “Rassegna Italiana” e venirci comunicati almeno in sunto». Noi sappiamo oramai perché i lavori del gruppo romano non vennero mai pubblicati né sunteggiati. L’informatore di La Tour du Pin aveva venduto fumo. Anche la partecipazione degli italiani in genere ai lavori e alle riunioni di Friburgo fu assai ridotta. Franz von Küfstein che, confutando alcuni ricordi del Soderini, consulta ad ogni nome i verbali e le liste di presenza, dice che la direzione dell’«Unione» era così costituita: presidente mons. Mermillod, presidente onorario principe Löwenstein , vice-presidente Gustav de Blome, segretario degli studi Küfstein, aggiunto Soderini, che però non intervenne e fu poi sostituito da Henry Lorin; segretario del consiglio, La Tour du Pin. Al consiglio appartenevano per la Germania: Wambott e Lehmkuhl; per l’Austria- Ungheria: Pergen e Esterhazy; per la Francia: de Mun, barone d’Avril e Louis Milcent ; per l’Italia: conte Medolago e conte Manna , morto poco dopo; per la Svizzera: D’Amann, Decurtins, De la Rive. Le liste di presenza alle varie riunioni annuali che si tenevano in autunno registrano ancora degli italiani il comm. Acquaderni , «che cessò tuttavia presto d’intervenire». Il Medolago ebbe da presentare una volta una relazione sul commercio. Giuseppe Toniolo, dunque, che appare fra i corrispondenti e avrebbe potuto offrire un contributo notevolissimo e forse determinante, non partecipò mai ai lavori e alle discussioni di Friburgo. Il 14 gennaio 1886 l’«Unione» aveva già pronti alcuni studi e fissate alcune tesi in modo da poter presentare al S. Padre una prima relazione generale accompagnata da una lettera, la quale conteneva anche l’invito al Papa di voler esortare i governi ad accordarsi per la legislazione internazionale del lavoro. Leone XIII rispose il 12 aprile, lodando lo zelo dell’«Unione», incitandola a continuare i lavori, ma non entrando nel merito né delle conclusioni né della proposta. Più importante fu l’udienza concessa dal Papa all’«Unione di Friburgo» il 30 gennaio 1888. Mons. Mermillod si trovava a Roma e d’accordo con mons. Domenico Jacobini chiese al Papa di ricevere quei membri dell’«Unione di Friburgo» che si trattenevano in quel momento nell’Urbe. Si trattava dei signori principe Löwenstein, conti Pergen, von Küfstein, Medolago, Soderini, barone Reding, De la Rive, Henry Lorin. Leone XIII li accolse nella sua biblioteca, li fece sedere in circolo attorno a lui e s’informò dei loro lavori, chiedendo che gli si presentasse entro breve tempo una relazione completa delle loro conclusioni. Ad un certo momento Mermillod ricordò la risoluzione ch’era stata preparata col suo concorso al Concilio vaticano e il Papa incaricò mons. Jacobini ch’era presente a farne ricerca. Fece poi l’importante dichiarazione, che appena uscita l’enciclica sulla libertà (comparsa poi nel giugno dello stesso anno) egli intendeva mettersi all’opera per scrivere un’enciclica sulle questioni sociali. Allora Mermillod, cogliendo la palla al balzo, aggiunse che lo scopo principale dell’«Unione» era quello di promuovere un’organizzazione internazionale per la protezione del lavoro. Ora che il Papa aveva fatta la pace tra i popoli (accenno all’arbitrato per le Filippine), non poteva egli prendere in mano la causa della pacificazione delle classi? Leone XIII sorrise, e, congedandoli, sollecitò ancora la presentazione del memoriale. Questo venne presentato infatti il 2 febbraio, a firma Mermillod, Küfstein e Lorin, assieme ai verbali dei due ultimi anni, alla relazione Lorin sul prestito ad interesse, alle conclusioni del P. Lehmkuhl sul salario, e alla risoluzione intorno all’organizzazione corporativa della società, opera precipua del La Tour du Pin. Il memoriale concludeva col dire «che tutti gli occhi erano rivolti al Vaticano… Se la parola della vostra beata Paternità si farà sentire nel mondo… se essa metterà in rilievo la dignità del lavoro e l’estimazione dei suoi diritti; se essa raccoglierà i lavoratori nelle società cristiane, essi non diverranno preda dei nemici di Cristo, ma saranno i campioni più fedeli della libertà della Chiesa». Abbiamo tolto queste notizie dalle copie dei verbali e dei documenti che possedeva il Blome, grande registratore e annotatore anche lui, morto nel 1906, e che ora pubblica il Lugmayer (XL) . Questa raccolta non contiene altro fino al 5 ottobre 1890. Il discorso della vigilia In questo giorno, l’«Unione» inizia la sua sessione annuale, a poca distanza dal congresso di Liegi e otto mesi prima della pubblicazione dell’enciclica. C’è nei verbali un discorso augurale del Mermillod, che caratterizza ottimamente lo stato d’animo della vigilia. Dopo aver ricordato le umili origini di questo cenacolo di studi, nato nelle camere semioscure di un palazzo romano, il vescovo ne rileva i successi ottenuti. «La Svizzera ha accettato la proposta d’uno dei membri dell’Unione per un congresso internazionale del lavoro. Vero è che noi siamo piccoli e abbiamo poi dovuto tollerare che Berlino bollasse col suo timbro la nostra iniziativa. Il Papa inoltre s’è presa a cuore la nostra associazione. In un’udienza lo pregammo di prendere in mano la gran causa dell’arbitrato fra datori di lavoro e lavoratori. Dopo l’arbitrato delle Filippine, non era lecito pensare anche a questo? Ma il S. Padre sentiva il suo piede camminare sulle onde di un mare in tempesta: e così Berlino strappò a sé l’iniziativa. Il S. Padre ha poi preparata un’enciclica, ma non sappiamo quando riterrà venuto il momento di pubblicarla. Certo è che a queste grandi questioni sociali partecipa col più vivo interesse. Dopo Roma e Berlino anche Ginevra si è messa in movimento. In Ginevra, città che fu spesso il punto focale del pensiero europeo, si è tentato di organizzare una conferenza sulle questioni economiche. Vi vennero convocati quattro uomini, che rappresentano ciascuno una diversa scuola: Claude Jannet per la scuola di Le Play, Steigler per la scuola collettivista, Charles Gide , professore a Montpellier, per la scuola nuova e finalmente il signor Passy per la scuola liberale, quella vecchia scuola, di cui si fu sorpresi che vivesse ancora lo spirito, creduto già morto. Perciò del signor Passy si disse che aveva l’aspetto d’un uomo che avessero dimenticato di seppellire (ilarità ed applausi). In questa situazione, quale corso prenderanno i nostri lavori per ricostruire l’ordine sociale cristiano? Ci si rimprovera di essere troppo teoretici. Ma i fatti sono figli della dottrina. Non ci fu mai un fatto che non fosse prima un pensiero». Il vescovo, a questo punto, sottopone alla riunione alcuni pensieri direttivi, che gli sembrano anche le linee della Chiesa. «La questione sociale appartiene naturalmente al potere civile, perché questo potere rappresenta la società. Ma appartiene anzitutto alla Chiesa, perché la buona soluzione della questione sociale dipende dai buoni costumi, e dall’influsso della religione. Vi sono inoltre dei diritti primordiali preesistenti. Il diritto naturale in causa delle dottrine razionalistiche è talmente dimenticato, che molti rimangono sorpresi quando ne parlate. Eppure ci sono dei diritti degl’individui e delle famiglie che precedono i diritti della società e dello Stato. Dovrete perciò, sulla scorta di S. Tommaso, esaminare fino a quali limiti possa arrivare l’ingerenza dello Stato e ove debba arrestarsi. C’è ancora una questione che in questa conferenza non potrete riprendere in esame, ma che è importantissima, la questione del credito. Essa è il baluardo principale, le altre sono in confronto casematte d’avamposti. Chi porterà qui la soluzione? Nonostante la sua tarda età il S. Padre pensa sempre alla ripresa del Concilio vaticano. Nel 1870 avevamo fatto uno schema de conditione operariorum. Il S. Padre l’ha fatta cercare e mettere nell’ampio dossier che ha raccolto sulla questione sociale…». Quando l’enciclica venne, i partigiani delle direttive di Friburgo trionfarono. Il Blome tuttavia nella successiva riunione autunnale del ’91 rilevò perplesso che era rimasta insoluta la questione del credito. Qui evidentemente l’aspettativa era esagerata. Si poteva chiedere alla S. Sede di costruire tutto un nuovo sistema economico? Del resto le encicliche, come ben scrisse il Meda a proposito della Casti Connubii , non sono per loro natura degli elaborati, in cui debbasi cercare un insegnamento nuovo; al contrario le encicliche nella sostanza si presentano come esposizioni della comune dottrina, quale è ricevuta e custodita in seno alla Chiesa (XLI). Ma quale profondità, quale freschezza, quale lucidità non vi si trova, rileggendola ora dopo quarant’anni. Si sente ch’essa poggia su delle verità perenni ed è parte di quella che Le Play chiamava la costituzione essenziale dell’umanità, al disopra delle contingenze politiche e del tempo. Filippo Turati, a differenza del vecchio Bonghi , il quale commentò l’enciclica con ammirazione nella «Nuova Antologia», a differenza dello stesso «Vorwärts» di Berlino , non ebbe, scrivendone nella «Critica sociale», che parole di disprezzo e d’incomprensione. Si era allora nel periodo dello scientismo più pretenzioso. Chi scriveva latinamente chiaro, senza la fraseologia nebulosa della scienza tedesca, passava per insignificante e volgare. Ma non trascorreranno molti anni e la presunta armatura scientifica del socialismo cadrà pezzo a pezzo, come una casa in rovina. Eduard Bernstein , utilizzando anche elementi crociani e soreliani, le darà l’ultima scossa. Di codesto superbo incendio intellettuale non rimarrà viva che la brace dell’interesse e non resterà che la cenere dell’odio. I capisaldi dottrinali invece della Rerum Novarum sull’essenza e sulle cause della questione sociale, sulla proprietà e sul collettivismo, sul lavoro e sulla sua organizzazione, sullo Stato e sui diritti naturali degli individui e dei gruppi sociali vivono sempre e portano la loro luce perenne, ovunque si stenda l’influsso della Chiesa cattolica: è in nome della Rerum Novarum che i Vicari e Prefetti apostolici del Congo Belga protestano contro il reclutamento coattivo della mano d’opera indigena, è fondandosi sulla Rerum Novarum che l’Arnou perorerà contro il lavoro forzato delle colonie (XLII), è nella Rerum Novarum che in Cina si cercano i lumi per sceverare il vero dal falso nel triplice demismo di Suen Wen, dottrina imposta già ufficialmente in tutte le scuole dal governo della repubblica di mezzo (XLIII). Ma anche fuori della Chiesa, infinite saranno le tracce dell’enciclica. La legislazione operaia europea d’anteguerra porta la sua impronta, e chi vorrà negare l’evidenza del suo influsso sui principali documenti sociali della ricostruzione postbellica, quali il cap. XIII del patto della Lega delle Nazioni, la Costituzione di Weimar, la Carta del lavoro fascista? Sennonché più ancora che i punti dottrinali vive ed agisce della Rerum Novarum l’impulso d’azione, perché alimentato e ravvivato da Leone stesso e dai suoi successori. La Rerum Novarum fu ed è sovrattutto un immenso slancio di carità, un grande insegnamento d’amore, un soffio ideale di fraternità umana. Qui tocchiamo all’intima essenza del cristianesimo, qui sentiamo alitare lo spirito di carità del divino Fondatore, qui domina sovrana la suprema legge evangelica dell’amore del prossimo, legge, come disse S. Agostino, che è etica, fisica e salute della società. Se questo spirito di amore non verrà trasfuso negli ordinamenti, le riforme saranno sterili e la soluzione apparente o poco duratura. I F. de Pressensé, Le card. Manning, Paris 1896, pp. 245 ss. II F. Vigener, Ketteler, ein deutsches Bischofsleben des 19. Jahrhunderts, München 1924. III Si tratta dell’opera giovanile di Ch. Périn, Les économistes, les socialistes et le Christianisme, uscita a Parigi nel 1849 per confutare i celebri Principi di economia politica di John Stuart Mill, comparsi l’anno prima. IV Ch. Compte, Le card. Mermillod d’après sa correspondance, Paris, Bloud, 1924. V Un programme de restauration sociale, Paris 1926. VI W. Klopp, Leben und Wirken des Sozialpolitikers K. Frh. v. Vogelsang, Wien 1930. VII K. Lugmayer, Grundrisse zur neuen Gesellschaft, Wien 1927; Uhde, Das Wirtschaftsideal des Volks- und Staatshaltes, Graz 1924; A. Orel, Oeconomia perennis, Mainz 1930. VIII Queste ed altre citazioni sono tradotte da G. F. von Hertling, Aufsätze und Reden sozialpolitisches Inhalts, Freiburg im Breslau, 1884. IX Ibi, p. 207. X Ibi, p. 59. XI A. Pieper nello Staatslexikon, 1928, all’art. Hitze. XII A. Pieper, Kapitalismus und Sozialismus als seelisches Problem, München-Gladbach 1925. XIII R. de La Tour du Pin, Vers un ordre social chrétien, Paris 1921. XIV Programme de gouvernement et d’organisation sociale… par un groupe d’Economistes avec une lettre préface di M. Le Play, Paris 1881. XV G. Guitton, L. Harmel, vol I, Paris 1925, p. 150. XVI La parola è usata nel senso di Sorel. XVII Assemblée des catholiques, Seizième année (1887), Paris, Bureau du comité catholique. XVIII M. Defourny, Les congrès catholiques en Belgique, Louvain 1908, p. 33. XIX Verbale stenografico del congresso, Liegi 1890, III ser., pp. 115 ss. XX Per la questione del salario che qui non possiamo seguire più oltre vedi anche A. Pottier, La morale cattolica e le odierne questioni sociali, Vita e Pensiero, Milano 1921. XXI Georgiana Putnam McEntee, The social catholic movement in Great Britain, Mac Millan, New York 1927. Mons. Bagshawe è morto nel 1921. fare a meno di difendere e reclamare, essendo essa per dottrina e per costituzione tanto aliena dall’anarchia, alla quale liberalismo e socialismo da essa condannati indeprecabilmente conducono e travolgono, quanto da ogni concezione politica che, facendo la Società e lo Stato fine a se stessi, è facilmente, per non dire fatalmente, portata a sacrificare od assorbire i diritti individuali e particolari, con esito come facilmente s’intende, non meno disastroso». XXIII «Réforme sociale», 1 giugno 1891. XXIV Atti di Leone XIII, Mondovì 1910, p. 196. XXV E. Rosa, S.J., Le basi della costituzione cristiana degli Stati, in Conferenze sociali, tenute nel X Congresso di studi sociali, aprile 1922, Torino-Roma 1923, p. 8. XXVI Enciclica Sui principali doveri dei cittadini cristiani, 1890, in Atti…, p. 312. XXVII F. Lampertico, Il lavoro, Milano, Treves, 1875, p. 768. XXVIII F. Lampertico, Economia dei popoli e degli Stati, Milano, Treves, 1884, p. 88. XXIX Lampertico, Il lavoro, p. 70. Più trionfalmente il Lampertico avrebbe potuto ricordare il motu-proprio 2 settembre 1800 di Pio VII col quale si scioglieva il premio dei panettieri e quello dell’anno seguente che aboliva in Roma il premio della grascia. Pio IX permise nel 1852 la ricostituzione delle corporazioni, ma senza la coazione corporativa. XXX G. Toniolo, Scolastica e umanesimo nell’economia toscana del rinascimento, in Scritti di G. Toniolo, a cura di F. Meda, Vita e Pensiero, Milano 1921. XXXI B. Croce, Storia d’Italia, Bari 1928, pp. 80 ss. e «Annotazioni». XXXII I principi cristiani di fronte agl’indirizzi dell’economia sociale, in Scritti, cit. XXXIII Ibi, p. 147. XXXIV Ibi, p. 149. XXXV E. Soderini, Per la genesi della Rerum Novarum, «Nuova Antologia», 16 maggio 1916, fasc. 1064, pp. 205-226. XXXVI K. Lugmayer, Urkunden zum Arbeiterrundschreiben Leos XIII, Wien 1927. XXXVIII Per la genesi della Rerum Novarum. XXXIX Léon Grégoire (pseud. di G. Goyau), Le pape, les catholiques et la question sociale, 1895, pp. 27 ss. XL Urkunden… XLI Vedi A proposito dell’Enciclica intorno al matrimonio, «Vita e Pensiero», febbraio 1931, 67-70. XLII A. Arnou, Capitalisme et prolétariat dans les pays coloniaux, Settimana sociale di Marsiglia, 1930. XLIII P. D’Elia, S.J., Le triple demisme, Shanghai 1929.
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Nell’ottava dei Santi si suole commemorare in Roma nella basilica di S. Maria della Vittoria, che sorge sull’angolo di via S. Susanna con via XX Settembre, una data memoranda, quella della battaglia del Monte Bianco , nella quale l’esercito dell’Imperatore Ferdinando II e della lega cattolica distrusse l’effimera potenza di Federico V del Palatinato , noto nella storia col nomignolo di re d’inverno. La chiesa deve infatti il suo nome a questo grande avvenimento storico, perché l’8 maggio 1622 vi veniva trasportata solennemente in processione e alla presenza di papa Gregorio XV l’immagine miracolosa di Maria, alla cui intercessione si attribuiva il trionfo delle armi imperiali. Si tratta dunque di un culto alla Vergine per la preservazione della fede cattolica in numerosi paesi dell’Europa centrale. Non sarà perciò fuori di luogo ricordare qui la situazione storica nella quale tali avvenimenti si svolsero. Quando Paolo V salì al soglio pontificio, i fini immediati che s’imponevano alla sua politica in Germania erano: appoggiare gli Absburgo nella guerra contro i turchi, coi quali negli ultimi tempi avevano fatto causa comune anche gl’insorti ungheresi e impedire nello stesso tempo che l’imperatore, incalzato dalla minaccia orientale, facesse troppe concessioni religiose ai principi protestanti tedeschi, dei quali doveva cercare l’appoggio. Senonché alla Dieta di Ratisbona del 1607, convocata da Rodolfo II per ottenere l’appoggio dei principi contro i turchi, quasi tutti i protestanti posero come condizione che la «pace religiosa di Augusta» (1555) venisse completata nel senso che i cattolici rinunciassero esplicitamente ad esigere la restituzione dei beni ecclesiastici che erano stati loro strappati dopo tale pace e in onta di essa e che nello stesso riguardo si assicurasse ai protestanti mano libera anche per l’avvenire. Queste condizioni, che equivalevano a sancire le spogliazioni dei cattolici avvenute nel passato e a privarli in anticipo di ogni diritto di difesa anche per l’avvenire, erano naturalmente inaccettabili. Invano da parte dell’arciduca Ferdinando, rappresentante dell’imperatore, e dei principi elettori ecclesiastici vennero presentate varie proposte di transazione, ché i protestanti, decisi a sfruttare la situazione pericolosa in cui si trovavano gli Absburgo, si mantennero fino all’ultimo intransigenti e finirono col revocare lo scioglimento della Dieta, abbandonando Ratisbona. Crollava così l’ultimo organismo unitario dell’Impero e i principi protestanti passarono subito alla costituzione di una federazione che aveva lo scopo di difendere il possesso illegittimo dei beni ecclesiastici. La parola d’ordine era veramente «libertà religiosa», ma non si trattava affatto di tolleranza o libertà religiosa nel senso moderno, poiché, come osserva giustamente anche il Gindely , lo storico liberale della guerra dei Trent’anni, «una vera libertà di coscienza presuppone uno stato della società che nel secolo XVII non esisteva affatto». Si trattava invece di strappare i sudditi all’influsso della Chiesa cattolica per consegnarli all’arbitrio dei nobili feudali, i quali, dopo il ben riuscito esperimento dell’alta e media Germania, volevano introdurre anche nei paesi tedeschi meridionali, in Ungheria e in Boemia il principio del cuius regio, eius religio, che dava loro il pretesto di impadronirsi delle ricchezze ecclesiastiche. Come interpretassero la pace religiosa i protestanti, si vide dal fatto di Donauwörth, città della diocesi di Augusta. Secondo la pace religiosa cattolici e luterani vi avrebbero dovuto mantenere i loro diritti e le loro posizioni, rispettando reciprocamente la loro religione e il loro culto. La pace invece fu di breve durata, poiché appena i protestanti riuscirono ad ottenere la maggioranza del consiglio cittadino, i cattolici non solo vennero esclusi da ogni ufficio pubblico, ma si videro interdetto anche il pubblico esercizio della loro religione. Avvenne perfino che si negassero gli ultimi conforti della religione cattolica ad una povera donna che moriva all’ospedale. Per fortuna dei cattolici, vicino alla città sorgeva un monastero dei Benedettini ai quali potevano ricorrere; ma quando questi religiosi vollero rimettere in uso le processioni pubbliche, queste furono assalite e disperse a colpi di bastone dalla plebaglia istigata dai predicanti. Vano fu l’appello al consiglio cittadino, cosicché infine l’imperatore nel dicembre 1607, richiamandosi alla pace religiosa, diede ordine a Massimiliano di Baviera di occupare militarmente la città. Ora il duca bavarese restituì nuovamente ai cattolici la chiesa parrocchiale abbandonata dai predicanti, ma del resto si astenne da qualunque misura severa e da qualsiasi rappresaglia. È caratteristico che ciononostante i fatti di Donauwörth esercitarono sugl’intervenuti alla Dieta di Ratisbona un effetto del tutto negativo, perché i protestanti ne trassero motivo per irrigidirsi ancora più e per chiedere nuove garanzie. Frattanto, a render più precaria la situazione dei cattolici, era scoppiata la discordia fra i membri stessi della casa d’Austria, e Mattia , appoggiandosi in parte anche sui protestanti dell’Ungheria, si era formalmente sollevato contro Rodolfo II. Questi, pur di non cedere dinanzi al fratello, tentò di accordarsi col partito anticattolico della Boemia che si componeva di luterani, utraquisti e calvinisti ed era guidato da Venceslao Budovec , capo dei «fratelli boemi» . È di fronte a costoro che Rodolfo II nel 1609 concedette piena libertà per la «confessione boema», che era un misto di Ussitismo, Luteranesimo e Calvinismo ed era stata formulata già nel 1575. Il documento di concessione, noto nella storia come «lettera maestatica di Rodolfo II», era in parecchi punti di equivoca interpretazione, e fu più tardi quello che doveva, come si disse, dar fuoco a tutta l’Europa. Di fronte a questi avvenimenti i principi cattolici della Germania meridionale, capitanati dal duca Massimiliano di Baviera, decisero di costituire una lega cattolica che doveva «proteggere la pace religiosa» contro l’unione protestante. La lega si rivolse oltre che alla Spagna anche al papa per avere appoggi materiali e morali. È notevole che Paolo V procedesse in tale materia con molta esitazione e circospezione e ancora nel 1611 dichiarasse «che non avrebbe dato neppure un soldo ove dai cattolici s’intraprendesse contro i protestanti qualche cosa che fosse in contrasto con la pace religiosa». Intanto gli avvenimenti precipitano. Nel 1612 muore Rodolfo e viene eletto imperatore Mattia, il quale fa coronare re di Boemia l’arciduca Ferdinando. Ferdinando che ha la fama di uomo rigidamente cattolico incontra nella nobiltà boema grande diffidenza e avversione. Elementi nazionalisti, religiosi e sociali si fondono per creargli contro una corrente d’opposizione vigorosissima. Alcuni casi di contrastata interpretazione della «lettera maestatica» dànno pretesto allo scoppio dell’insurrezione aperta. Il 23 maggio 1638 avviene la famosa defenestrazione dei luogotenenti del re. Il conte Thurn , capo degli insorti, s’impadronisce di gran parte della Boemia e della Moravia e muove verso Vienna. In questo momento muore Mattia e il 6 aprile 1619 viene eletto imperatore nella Dieta di Francoforte Ferdinando. Egli si trovava ancora colà, quando gli giunse la notizia che gli Stati boemi l’avevano deposto come «allievo dei gesuiti e nemico della religione evangelica» e in sua vece avevano nominato re di Boemia Enrico V del Palatinato , che aveva sposato una figlia di Giacomo I d’Inghilterra. La situazione è grave e se ne ha perfetta coscienza in tutto il mondo. A Roma in modo particolare si comprende che è in gioco tutta la restaurazione cattolica da poco iniziata, e il papa indice al principio del 1620 il giubileo, allo scopo di intercedere l’aiuto di Dio per la preservazione della fede cattolica in Germania. Paolo V si sottopone a grandi sacrifici finanziari per sovvenire l’imperatore e la lega cattolica e impone, rispettivamente concede, una decima sulle prebende del clero italiano e tedesco. Più importante però ancora fu l’intervento diplomatico del papa in Francia ove grazie all’opera del nunzio Bentivoglio e del confessore di Luigi XIII , Arnaud, riuscì non solo ad impedire che la Francia, come avrebbe fatto più tardi Richelieu, appoggiasse i protestanti, ma anche ad ottenere che Luigi XIII spedisse in Germania un’ambasciata la quale influì sull’unione protestante in modo, da indurla ad abbandonare la causa di Federico V e concludere un trattato di pace colla lega cattolica. Allora Massimiliano, sicuro alle spalle, entrò col suo esercito nell’Austria superiore, ove operò il congiungimento con le forze imperiali, e di là mosse verso la Boemia, mentre un altro esercito fiammingo-spagnuolo invadeva, sotto lo Spinola , il Palatinato e Giorgio di Sassonia dalla Lusazia penetrava dal nord in Boemia. L’8 novembre 1620, ad ovest di Praga, sulla collina chiamata «Monte Bianco», si venne alla battaglia decisiva. Il consiglio di guerra che sotto la presidenza di Massimiliano di Baviera doveva decidere dell’attacco fu per lungo tempo esitante, finché si alzò il carmelitano scalzo Domenico di Gesù e Maria , che aveva accompagnato Massimiliano durante tutta la spedizione, e presentando una piccola immagine di Maria, che era stata raccolta, sfregiata dai calvinisti, fra le immondezze del castello di Pilsen, parlò con tanto calore e con parole così infiammate che i generali, fidenti nella promessa del carmelitano che assicurava loro la protezione di tutti i santi dei quali si celebrava appunto l’ottava, levarono il campo e ordinarono l’assalto. La rotta dei ribelli boemi fu completa e la vittoria fu decisa nello spazio di un’ora. Storici posteriori hanno voluto escludere l’influenza esercitata nel consiglio di guerra dal P. Domenico di Gesù e Maria, ma le recenti indagini l’hanno messa fuori dubbio, recando la testimonianza di Massimiliano stesso. Il Pastor cita del resto dall’Archivio di Stato di Firenze il rapporto dell’inviato fiorentino Altoviti, il quale il 28 novembre 1620 annuncia da Vienna: «È stata una segnalata vittoria qual s’attribuisce a Dio et alla giustizia della causa come è dovereet multa parte ve si hanno l’esortazione d’un padre degli scalzi di vita esemplarissima che assiste a Baviera, il quale confortò mentre si stava in ambiguità la battaglia e assicurò la vittoria». Il giubilo per la vittoria del Monte Bianco fu straordinario in tutto il mondo cattolico. Massimiliano annunciò il successo a Paolo V con corriere speciale che giunse alla città eterna il 1° dicembre 1620. Il duca scriveva: «Io stesso venni e vidi, ma chi vinse fu Dio». Paolo V che aveva seguito con grande ansia la spedizione dell’esercito leghista e aveva già scritto allo stesso P. Domenico di Gesù e Maria, alla notizia delle prime vittorie ottenute nell’Austria superiore, comprese ora tutta l’importanza del successo e, come racconta un Avviso della Biblioteca vaticana, si recò in S. Maria Maggiore dinanzi all’immagine miracolosa della cappella Paolina, «ringraziando per la vittoria così segnalata e per tante buone conseguenze per la religione cattolica». II 3 dicembre fu indetta la pubblica festa di ringraziamento e il papa partecipò in persona alla processione che si svolse dalla Minerva alla chiesa nazionale tedesca dell’Anima. La sera furono sparate le salve di gioia da Castel S. Angelo. Nuove invocazioni e nuove feste religiose commemorative della battaglia del Monte Bianco si ebbero due anni dopo, quando il Padre di Gesù e Maria ritornò a Roma, recando la famosa immagine del Monte Bianco. Da una relazione dell’ambasciatore Savelli a Ferdinando II dell’8 gennaio 1622 risulta che P. Domenico si consultò col papa sulle feste che dovevano indirsi per la solenne collazione dell’immagine e che già allora si decise di conservarla «nella chiesa dei Carmelitani presso Monte Cavallo». La processione solenne ebbe luogo l’8 maggio 1622 e nel corteo comparvero anche 45 bandiere catturate a Praga dall’esercito cattolico. Nel coro della chiesa che di qui innanzi si chiamerà «S. Maria della Vittoria» Gregorio XV attendeva la preziosa reliquia che venne posta sull’altare maggiore in una cornice ornata di gemme preziose. Il quadro di Maria, dinanzi al quale Gregorio XV disse messa il 12 maggio, divenne presto oggetto di grande devozione da parte dei romani e dei pellegrini stranieri. Purtroppo un incendio del 1833 distrusse l’immagine e danneggiò le bandiere, alcune delle quali vennero anche trasportate, per opera di Luigi I di Wittelsbach , a Monaco. Solo parte della dozzina di bandiere conservate nella chiesa, proviene dalla battaglia del Monte Bianco; alcune altre sono bandiere catturate ai turchi. L’immagine venne sostituita da un’altra, pure portata da P. Domenico di Gesù e Maria dalla Germania e che si custodiva nell’oratorio del convento. Dopo l’incendio la cappella maggiore venne riccamente restaurata dal principe Alessandro Torlonia , e un nuovo affresco di Luigi Serra (1885) nell’abside del coro rappresenta l’entrata trionfale in Praga della Madonna della Vittoria con gli eserciti cattolici.
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«Senonchè, contro tutte queste insanie sta immobile, Venerabili Fratelli, la legge di Dio, da Cristo amplissimamente confermata, e che non può venire smossa da nessun decreto degli uomini, opinione di popoli o volontà di legislatori: “Quello che Dio ha congiunto, l’uomo non separi”. E se l’uomo ingiuriosamente si attenta a separarlo, il suo atto è del tutto nullo, e resta immutabile quanto Cristo apertamente conferma: “Chiunque rimanda la moglie e ne sposa un’altra, è adultero, e chi sposa la rimandata dal suo marito, è adultero”. E queste parole di Cristo riguardano qualsiasi matrimonio, anche quello soltanto naturale e legittimo; giacché ad ogni vero matrimonio spetta quella indissolubilità, per la quale esso è sottratto, quanto alla soluzione del vincolo, e all’arbitrio delle parti e ad ogni potestà laicale». (Dalla Enciclica Casti connubii ) Dopo tre secoli d’indagini storiche il ricostruire con evidenza l’enigmatica figura di Giacomo I d’Inghilterra rimane ancora impresa difficile. Qual meraviglia che i suoi contemporanei siano rimasti spesso disorientati dinnanzi a codesto «Salomone del nord», che si vantava «maestro nell’arte di regnare», intendendo per quest’arte quella soprattutto dell’equivoco, dell’inganno, della doppiezza? E Giacomo fu doppio particolarmente nelle questioni religiose e nel suo atteggiamento verso i cattolici. Figlio di Maria Stuarda, era salito al trono inglese, promettendo ai cattolici libertà di culto ed intrattenendo sottomano relazioni colla Santa Sede. Ma giunto al potere, s’era fatto persecutore, onde accontentare i puritani. La congiura delle polveri , scoperta nel terz’anno del suo regno, gli aveva messa in corpo una paura fantastica. Dormiva barricato dietro quattro letti e, nelle pubbliche manifestazioni, per nascondere la sua vigliaccheria, vomitava ingiurie contro i papisti. Le nuove leggi di persecuzione del 1607 portavano il suo nome: dure pene erano comminate a chi non facesse battezzare, sposare e seppellire secondo il rito protestante, ed erano banditi, pena la morte, tutti i sacerdoti. Ogni cattolico era obbligato, pena l’ergastolo, a prestare un giuramento, che Paolo V dovette esplicitamente condannare come eretico. E tuttavia a Roma giungevano dall’Inghilterra, tratto tratto e con insistenza, anche delle voci di speranza. Il nunzio a Parigi, Maffeo Vincenzo Barberini, che fu poi Urbano VIII, teneva apposta un corrispondente segreto in Inghilterra, allo scopo di registrare e controllare tali notizie, corrispondente che, come scrisse egli stesso, si trovava spesso sconcertato, «vedendosi tanta variatione in un momento, che non più presto si prende speranza, ch’egli (Giacomo) voglia tornare al grembo della Chiesa, che immantinente si perde…» (I). La questione d’indovinare i propositi di codesta sfinge diventa per Roma incalzante e di grande valore pratico, da quando Giacomo I inizia presso quasi tutte le corti europee i suoi assaggi, per entrare in parentado con qualche famiglia regnante cattolica. Quali sono le ragioni che lo muovono? È vero, come ora afferma uno storico di grande valore, il Gardiner , che Giacomo nutriva l’ambizione di farsi conciliatore fra i cattolici e i protestanti? O non era precipuamente la minaccia che s’ingrossava sulla sua sinistra (i puritani parlamentari), che lo induceva a cercare appoggio fra i cattolici? Ovvero era proprio una miserabile questione di denaro che lo spingeva a cercare una ricca dote presso i duchi di Savoia e di Firenze o addirittura presso il re di Spagna? Comunque, non era il caso di profittare di questa tendenza di Giacomo I, per tentare il salvataggio della Chiesa cattolica inglese, ridotta ora a 150.000 fedeli su tre milioni di abitanti? Il primo tentativo fu fatto per Margherita, figlia di Giacomo I, che avrebbe dovuto sposare un nipote di Filippo III di Spagna e figlio del duca di Savoia. Filippo chiese il parere del papa Paolo V, che si dimostrò assolutamente contrario. Cinque anni dopo, cioè nel 1613, Margherita andava sposa a Federico del Palatinato, il futuro «re d’inverno». Frattanto Giacomo faceva nuovi tentativi per dare una sposa cattolica a suo figlio maggiore, Enrico: ed anche qui fu bussato alla porta dei Medici, dei Savoia e di Maria de’ Medici, reggente di Francia, la quale si dimostrò ben disposta e già stava per portare i negoziati a conclusione, quando il principe Enrico morì improvvisamente. Allora Giacomo trasferì i suoi piani sul suo secondo figliuolo Carlo , erede al trono. In questo punto però intervengono le gelosie della diplomazia spagnola. Un matrimonio anglo-francese avrebbe spinta la Francia – e già v’inclinava – nell’orbita della coalizione anticattolica ed antiasburgica. Uno dei più abili diplomatici spagnoli, il conte di Gondomar , arriva quindi a Londra col compito di stornare il matrimonio francese, a rischio anche di dovervi sostituire un maritaggio spagnolo. Gondomar riesce ad ottenere un grande influsso sull’animo del re. Si vuole ora sposare Carlo coll’infanta Maria, figlia di Filippo III . Nei negoziati s’alternano delusioni e speranze, s’intrecciano intrighi politici, si rivelano loschi maneggi di avidità, di gelosia. Due volte si fa ricorso al parere del papa, e tutte due le volte Paolo V si dichiara nettamente contrario. Il Bellesheim nella sua storia della chiesa in Scozia riproduce il testo di una minuta autografa, scritta da Paolo V, per rispondere a Filippo III. Il Papa vi loda il re per aver posta come condizione assoluta la conversione del principe inglese. «Senza la quale – continua la minuta – non potria Sua Santità se non improvare et detestare grandemente questo accasamento; siccome ha procurato con matura delibarazione, et fatto ogni offitio con lettere, a mezzo de’ Nuntii et diverse persone mandate a posta per divertire molti principi da questo proposito, come per gratia di Dio è riuscito». Il Papa enumera poi i motivi del suo rifiuto: richiamo ai sacri canoni, incoraggiamento che ne potrebbero ritrarre gli eretici, ma sovratutto la convinzione che da Giacomo I non ci fosse niente da sperare in favore dei cattolici. «Nel stato in che si trovano oggi le cose d’Inghilterra, et delle male qualità di quel Re non se ne può sperar niente di bene…» conclude, desolatamente, Paolo V (II). Il re di Spagna però volle sentire anche il parere di una giunta di teologi spagnoli i quali, senza conoscere la lettera di Paolo V, tutti presi dalla speranza di poter ottenere la libertà di coscienza per i cattolici inglesi e, salvo sempre il consenso pontificio, si dichiararono favorevoli alla continuazione delle trattative. Dopo una lunga interruzione nell’anno 1618, i negoziati vengono ripresi con maggior vigore nel 1621. Siamo già all’inizio della guerra dei trent’anni. Federico del Palatinato, genero di Giacomo I, proclamato nel 1619 re di Boemia dalla rivoluzione protestante, era stato battuto e messo in fuga dall’esercito della lega cattolica e dell’imperatore nella battaglia del Monte Bianco ed ora era in procinto di perdere anche il Palatinato e la dignità elettorale. È facile supporre, benché nessun documento dei negoziati di questo periodo lo dimostri chiaramente, che Giacomo ritentasse ora il matrimonio spagnolo, anche per poter giovare al genero e alla figlia, a traverso la mediazione del ramo spagnolo degli Absburgo. Comunque, a questo punto spagnoli ed inglesi si mettono d’accordo per fare pressioni su Roma, ove da Madrid giunge P. Diego de la Fuente e da Londra il cattolico Giorgio Gage. Ma la morte di Paolo V e di Filippo III impose alle trattative un nuovo arresto. Il nuovo papa, Gregorio XV , incaricò l’11 agosto 1621 una commissione di quattro cardinali di studiare l’abbozzo del contratto matrimoniale, com’era stato trasmesso da Madrid. La congregazione arrivò ad un risultato negativo. II cardinal Bandini , che la presiedeva, comunicò al Gage il 4 luglio 1622 che oltre alcune modificazioni di vari articoli (i figli, affidati alla madre fino a 12 anni e, se maschi, a 14 anni) si esigeva che il re garantisse ai cattolici inglesi la libertà di coscienza. Giacomo I replicò, a traverso la Spagna, affermando l’impossibilità di concedere il pubblico e libero esercizio del culto cattolico. Il «Consiglio di Stato» spagnolo trovò anch’esso che tale domanda era eccessiva e, continuando le trattative sulle due fronti, si propose, sotto l’influsso del Gondomar, di elaborare altre formole intermedie che accontentassero Roma e Londra. Si propose sul serio o finse semplicemente di cercare una via che preferiva di non trovare? Certo è che gli spagnoli in questi eterni negoziati vollero e disvollero parecchie volte. L’onnipotente Olivares desiderava in cuor suo che la principessa Maria sposasse un Absburgo del ramo tedesco; e fingeva di favorire le intenzioni di Giacomo, tanto per non farsene un nemico. Ma non tutti comprendevano il suo doppio giuoco, il quale andò tanto avanti, da costringere alla fine lo stesso volpone che lo giuocava, a subirlo. Ma ecco ad un tratto che il matrimonio passa dalle cancellerie del raggiro e dell’intrigo nelle zone fiorite del romanzo. Chi era stato finora il protagonista muto dell’azione, il giovane Carlo, compare rumorosamente sulla scena, deciso a conquistare la sposa, alla guisa degli antichi cavalieri. Carlo Stuart e il marchese di Buckingham partono segretamente dall’Inghilterra il 27 febbraio 1623 e, sotto nomi falsi e barbe finte, attraversano a cavallo la Francia e la Spagna, e bussano il giorno 17 marzo alla porta di Bristol, ambasciatore inglese a Madrid. Lo stupore è generale. Olivares trova il fatto così straordinario, che dice a Filippo IV : Evidentemente Carlo vuol saltare tutti gli ostacoli, facendosi cattolico. Anche il Gondomar crede d’esser riuscito a questo. Alcuni giorni dopo Carlo viene ospitato nel palazzo reale. È un giovane simpatico, con occhi di sognatore, di ottimi costumi, che quando gli si parla d’amore, arrossisce come una fanciulla. Esteriormente si comporta come un cattolico, si mette in ginocchio, quando passa il Santissimo, visita in convento una suora di alto lignaggio e le assicura che proteggerà i cattolici. I madrileni ne sono entusiasti. Quando Carlo si mostra per le vie, si sente qua e là ripetere la canzone di Lope de Vega : Carlos Estuardo soy Que, siendo amor mi guia, Al cielo d’Espana voy Por ver mi estrella Maria. Anche a Roma la notizia dell’arrivo di Carlo a Madrid suscita un mondo di speranze. Il Card. Ludovisi , segretario di Stato, manda al nunzio de’ Massimi in Madrid un’istruzione per annunziare che il papa, in via di massima, e, salve le garanzie più sotto specificate, era disposto a concedere la dispensa. Ecco come s’introduce l’istruzione del cardinale, datata il 12 aprile: «Al primo avviso della venuta costà del Principe d’Inghilterra che con gran celerità ci pervenne, ci corse all’animo una speranza non debole, che egli fosse per disporsi per divina mercè o ad abbracciare la religione cattolica o, almeno, a favorire i cattolici nell’avvenire, massimamente se costì con tanta destrezza e dolce modo si trattasse seco, che se n’avesse a partir soddisfatto. Ha questa Santa Sede condannati sempre i matrimoni de’ cattolici con gli eretici, e se ben dove i popoli son mescolati di varie religioni, non si può tenere lontani i cattolici, là dove nondimeno la necessità del commercio, e la strettezza de’ luoghi non costringe, non debbono in maniera niuna comportarsi. Dunque la speranza sola del beneficio della religione cattolica, che dal matrimonio del principe sopradetto con l’Infanta D. Maria dee ragionevolmente tenersi, ha inclinato l’animo di S. S. a concedere la dispensa…» (III). La nuova congregazione dei cardinali infatti, composta di Bandini, Barberini , Mulini, Ubaldini, Cobelluzio e Ludovisi aveva concluso per dare parere favorevole, nella convinzione che il giovane Carlo desse maggior affidamento del padre, sia d’accostarsi al cattolicismo, sia di alleggerire notevolmente la situazione dei cattolici inglesi. Per somma cautela però, il nunzio de’ Massimi veniva incaricato d’influire affinché, a matrimonio celebrato, l’infanta Maria non venisse lasciata partire per l’Inghilterra, prima che colà non si fossero attuate le condizioni della dispensa, le quali implicavano la cessazione della persecuzione contro i cattolici. Con ciò tuttavia i negoziati erano tutt’altro che definiti. La dispensa esigeva che il re di Spagna assumesse di fronte alla Chiesa con formale giuramento la garanzia che Giacomo I e Carlo avrebbero mantenuto gli impegni presi. Ora fu perciò la volta di Filippo IV. Una commissione di quaranta teologi ebbe l’incarico di fissare, a quali condizioni il re di Spagna, per parte sua, potesse prestare il giuramento richiestogli. Olivares che, in cuor suo, sperava sempre di mandare a picco il matrimonio, rincarava ogni giorno la dose. Ma Carlo oramai giuocava una partita d’onore. L’ambizione e l’amore lo inducevano a promettere anche l’impossibile. D’altro canto il vecchio ed imbelle Giacomo temeva che gli spagnoli, in caso di rottura, trattenessero l’erede al trono inglese, quale ostaggio. Così giurò e fece giurare al consiglio segreto le condizioni di matrimonio che importavano l’abolizione delle leggi anticattoliche e il libero esercizio del culto. Tutto ciò era avvenuto nel più profondo mistero, nella penombra del castello reale, in mezzo a fidati servitori: ma quando le voci trapelarono in pubblico, parlamentari e predicatori cominciarono ad agitarsi. Tutti i malanni, si diceva, vengono dalla Spagna: l’armada, la peste e la rogna delle pecore. E di là dovrà venirci anche la regina? Per contraccolpo le speranze dei cattolici inglesi rinverdivano, e il loro stato d’animo influiva sulle decisioni di Roma, ove nel frattempo a Gregorio XV era successo il cardinal Maffeo Barberini, col nome di Urbano VIII . Quando finalmente i verbali di Londra giunsero a Madrid, Filippo IV prestò il giuramento di garanzia e il 28 agosto il re Carlo firmò il contratto di matrimonio. Esso stabiliva che la principessa partirebbe solo in primavera. Carlo non poteva attendere in Spagna fino a quel termine: troppa era l’umiliazione per lui e troppo grande l’indignazione del nascente nazionalismo inglese. Così il 2 settembre il promesso sposo prese congedo, lasciando all’ambasciatore una procura per Filippo IV, quale suo rappresentante nel matrimonio, che si sarebbe celebrato, appena giunta la definitiva approvazione del Papa. A Roma si era ottimisti. Quando Carlo aveva preso congedo dall’infanta, la giovinetta gli aveva raccomandato i cattolici e Carlo aveva risposto assicurando «che li prenderebbe sotto la sua protezione in modo che essi non avrebbero più a soffrire persecuzione d’indole religiosa». Ora in una lettera del 25 ottobre 1623 il card. Francesco Barberini, segretario di Stato, narra al nunzio de’ Massimi che «S. S. pianse di tenerezza udendo le parole veramente degne d’una principessa cristiana che disse la Ser.ma Infanta al suo Serenissimo sposo nell’atto di licenziarsi e quelle che replicò egli a lei, in servizio de’ cattolici». La dispensa – era stata sentita un’altra volta la Congregazione dei cardinali – arrivò nelle mani di Filippo IV il 19 novembre. Ma ecco che nel momento di stringere, Giacomo sviluppa una nuova manovra. «Non posso celebrare le nozze, lasciando in lacrime la figlia», dice all’ambasciatore spagnolo, e mette come nuova condizione, che Filippo IV s’impegni a premere sull’imperatore con tutti i mezzi, anche con le armi, per far restituire il Palatinato al genero Federico. L’Absburgo spagnolo non vuole naturalmente rischiare una guerra col cugino austriaco; e così dopo 9 anni di negoziati laboriossimi, il matrimonio anglo-spagnolo naufraga definitivamente. Carlo si vide arrivare a Londra le 36 lettere che aveva indirizzate alla fidanzata, tutte ancora sigillate. Il contraccolpo sui poveri cattolici inglesi non poteva mancare. Il parlamento, riconvocato il 24 febbraio 1924, chiese ed ottenne un nuovo inasprimento della persecuzione. Senonché nella primavera seguente ecco Giacomo I, in cerca sovratutto di una buona dote, ritornare all’idea di un parentado colla dinastia francese. La Francia era il nuovo astro che sorgeva sull’orizzonte, ove tramontava quello della Spagna. Le trattative furono avviate con La Vieuville, ministro di Luigi XIII, e continuate dall’abilità consumata di Richelieu. A metà dicembre dello stesso anno si poteva già firmare a Londra il contratto, salva sempre la dispensa dal Papa. A Roma vennero spediti per sollecitare la pratica il superiore dell’oratorio e futuro cardinale P. Bérulle e l’abile diplomatico Béthune . Papa Urbano nel primo incontro con Bérulle gli fece un cumulo di obiezioni. Il Card. segretario di Stato Fr. Barberini, riferendone al nunzio a Parigi Mons. Spada , scrive il 2 ottobre 1624: «Il Papa disse che queste erano le difficoltà maggiori, ma che altre medesimamente ne scuopriva il parallelo tra gli articoli spagnoli e quei venuti di Francia: però che andasse apparecchiandosi per superarle in Congregatione» (IV). Il 21 novembre la Congregazione si dichiarò per la dispensa, insistendo però perché la libertà di coscienza dei cattolici inglesi venisse garantita con qualche formale documento. Urbano VIII che, dati gli umori dell’opinione pubblica anglicana e del parlamento puritano, dovette ritenere per il momento inattuabile tale richiesta, finì coll’accontentarsi di un giuramento di garanzia da parte di Luigi XIII. Ma Giacomo non doveva vedere l’adempimento del suo desiderio, perché morì nel marzo 1625. Le nozze furono differite al 1° maggio; nozze memorabili, dice il Roskovany , per le cautele che le accompagnarono: celebrate alla porta di Notre-Dame, in presenza del cardinale, il quale però non impartì la benedizione; e alla Messa che poi fu celebrata nella cattedrale, alla presenza di tutta la corte, non poté assistere il procuratore di Carlo, il quale attese frattanto in episcopio… Il contratto matrimoniale, ricalcato su quello spagnolo, stabiliva che i figli sarebbero rimasti sotto l’educazione materna fino a 13 anni, che la regina avrebbe a sua disposizione un vescovo e 28 sacerdoti, per il servizio della sua chiesa. Tutto il personale, addetto alla regina, sarebbe cattolico. Infine due articoli segreti stabilivano la messa in libertà dei detenuti per motivo della religione cattolica, promettevano che i cattolici non sarebbero più molestati e che si restituirebbero loro i beni confiscati. Non è qui il luogo di indagare come e in quanto tale contratto venisse mantenuto, ricordando la guerra derivatane tra Francia e Inghilterra, e più tardi, le tragiche vicende di Carlo Stuart e di Maria Enrichetta di Francia. Il nostro scopo era di dimostrare con un celebre esempio della storia, con quanto rigore nei principi e con quanta longanimità nei modi abbia sempre proceduto la Chiesa cattolica nella questione dei matrimonii misti. A torto l’Arezio accusa il papato d’aver favorito la politica d’intrigo della Spagna. I documenti che qui solo in parte abbiamo potuto utilizzare, ci dimostrano che il Papa, si chiami Borghese, Ludovisi o Barberini, non si lascia guidare che dai supremi interessi della religione: soli, di fronte agli Olivares e Richelieu, agli Stuardi, ai Borboni e agli Absburgo spagnoli, i Capi della Chiesa, a costo di apparire ingenui, difendono con romana costanza le ragioni dello spirito e sopra il frastuono degli interessi del giorno prestano orecchio solo alle voci della coscienza e salvano il retaggio delle generazioni venture (V). I V. PASTOR, XII, 462, Nota. II Cito dal BELLESHEIM, II, 474, con qualche adattamento grafico. III Questo ed altri documenti sono riprodotti in appendice dall’Arezio, 1. c. IV BELLESHEIM, 1, 479. V Per la redazione di questo scritto furono consultati: ROSKOVANY, De matrimonis mixtis inter catholicos et protestantes, T.I. e II; BELLESHEIM, Geschichte der Kath. Kirche in Schottland; GARDINER, History of England, IV e V; AREZIO LUIGI, L’azione diplom. del Vaticano nella questione del matrimonio spagnuolo di Carlo Stuart; PASTOR, Papi, v. XII (ediz. italiana) v. XIII, 1 e 2 (ediz. tedesca). V. anche Arch. Stor. Ital., LXXI, 1 (1913).
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Già nel 1871 sotto gli auspici di Pio IX, era sorta a Roma la «Primaria Associazione Artistica ed Operaia di Carità reciproca» . Il quale aggiungendo al mutuo soccorso, alla cassa di risparmio, all’istituto per case economiche (I) le sue magnifiche scuole di arti e mestieri ancor oggi fiorenti, organizzando i soci secondo le professioni costituiva e costituisce tuttora il primo esempio delle rinate corporazioni cristiane. Nel 1901, celebrandosi il trentennio della fondazione, il relatore magnificava l’opera di quei primi pionieri, i quali «vollero e seppero organizzare numerose falangi di lavoratori, raggruppandoli in quelle divisioni di arti e mestieri, le quali rispecchiando e rinnovando le antiche corporazioni prepararono la via a quel regime corporativo, che è uno dei capisaldi del programma popolare cattolico». Ricordava egli ancora che nelle scuole di mestieri dell’associazione erano stati istruiti 6000 allievi, che si erano distribuite 484.899 lire a sollievo di 21.184 infermi; soccorsi 479 vedove e orfanelli, affigliate e raccolte sotto l’egida della «Primaria» altre 66 associazioni consimili dell’Italia e degl’italiani all’estero. Queste società portavano generalmente l’epiteto di «carità reciproca», per distinguerle cristianamente da quelle di «mutuo soccorso» promosse queste per la maggior parte dai mazziniani e dai liberali. Su questa particolare distinzione del titolo s’insistette anzi anche molto più tardi, e c’è in argomento una conferenza tenuta nella seconda metà del decennio dal Toniolo innanzi ai suoi concittadini di Treviso. Poco dopo il ’70 si menava in Francia gran vanto della corporazione cristiana fondata da Leone Harmel a Val-du-Bois presso Beins ; nella qual città nell’anno 1875 venne convenuto anche un congresso dei circoli cattolici, per deliberare intorno alle corporazioni da diffondersi in tutta la Francia. Quale non fu la meraviglia dei Francesi, quando sentirono raccontare dal conte Ivert venuto allora fresco fresco dalla città eterna che la corporazione cristiana a Roma già esisteva e che la «artistica operaia» era la primaria d’una serie d’altre società similari. Questo fu il primo dei numerosi contatti ch’ebbe poi la società romana col movimento operaio cattolico francese, capitanato dal conte De Mun e Leone Harmel. Quando quest’ultimo venne in pellegrinaggio a Roma nel 1885 con un centinaio d’industriali, l’Artistica operaia fece gli onori di casa e gli ospiti si partirono ammirati specialmente della scuola d’arte. Grandi accoglienze vennero fatte ai Francesi anche durante i famosi pellegrinaggi del lavoro del 1887 e 1880 e le sale della società romana echeggiarono della calda ed eloquente parola di Alberto de Mun . Ma i tempi non correvano prosperi per le società cattoliche. Lo si vede in occasione dell’esposizione nazionale di Torino del 1884. L’artistica operaia vi aveva partecipato con un complesso notevole comprendente le scuole d’arti e le varie provvidenze per l’operaio. Il successo fu così evidente che la società romana venne proposta per un premio, ma la giuria composta in maggioranza di anticlericali, scongiurò il pericolo, facendo votare una pregiudiziale ch’escludeva da ogni premio qualsiasi società di carattere confessionale. Il settario verdetto provocò un’esplosione di proteste, alle quali aderirono anche molti fogli liberali. La direzione della società presentò una vibrata rimostranza al principe Amedeo duca d’Aosta , protettore dell’Esposizione e molte altre società cattoliche d’Italia vi apposero la loro adesione. Si distinse in tale occasione la società consorella di Torino, la quale mandò a quella romana un’artistica pergamena commemorativa. Assistente ecclesiastico della società era mons. Domenico Jacobini, segretario della Propaganda e morto nel 1901 come cardinale; uomo che godeva la particolare estimazione di Leone XIII. Egli tenne nell’adunanza di protesta contro l’ingiustizia di Torino nel dicembre 1884 un vibrato discorso nel quale fra l’altro diceva: «Discacciandoci dal partecipare ai benefici dell’epoca presente come fautori del passato delle nostre artistiche associazioni, essi sono ingiusti verso la patria… essi che ci condannano perché suscitiamo in Italia le società antiche, perché evochiamo la memoria del loro spirito… E non sono state quelle antiche maestranze le glorie dell’Italia?… Chi non ricorda l’altezza a cui giunsero i corpi d’arte in Roma stessa, quando, elevati i tribunali delle stesse arti, i loro consoli giudicavano in Campidoglio? Essi esaminavano le questioni che le riguardavano vicino alla torre del Mercato e per moltissimo tempo ebbero potenza nel Comune…» L’Artistica operaia, che nei primi tempi ebbe la sede in via Testa Spaccata nel palazzo Grazioli, demolito poi per far largo al monumento di Piazza Venezia, acquistò importanza anche come centro di ritrovo per i cattolici sociali stranieri. Fu nei suoi locali che nel 1882 si radunò attorno a Mon. Iacobini un primo gruppo di studiosi, composto di mons. Mermillod vescovo esiliato di Ginevra e poi cardinale, del conte Francesco Kuefstein, senatore austriaco, che passava la stagione invernale a Roma ove aveva sposato una Odescalchi, del conte Blome senatore ed ex diplomatico austriaco e del P. Denifle , il celebre storico domenicano. Questo primo cenacolo andò allargandosi negli anni seguenti e assorbì in parte le forze di un altro circolo di studiosi e di gentiluomini che si trovavano in casa del principe Paolo Borghese . Sopravvivono ancora di questi primi cattolici-sociali, l’avv. Burri, che pubblicò nel 1888 un libro sul «lavoro» , il sen. Soderini che assieme al Burri pubblicava nel Bollettino dell’Artistica operaia – dal 1876 veniva stampato un bollettino mensile – delle note di sociologia cristiana e più tardi compilò un’opera a suo tempo assai letta, sul Cattolicismo e Socialismo , il senatore Santucci e, il più autorevole di tutti, mons. Talamo, uomo di grande intelligenza, conosciutissimo come filosofo tomista e che, dopo la comparsa della Rerum novarum, fondò e diresse fino al dopoguerra la Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliari, trasferita ora a Milano, presso l’Università cattolica . Fra i frequentatori di queste riunioni va ricordato anche il P. Liberatore, gesuita della Civiltà cattolica, che nel 1889 pubblicò gli Elementi di economia politica . Di questo primo periodo di cattolicismo sociale l’anima fu il cardinal Domenico Iacobini e il centro di collegamento l’Artistica operaia, albero questo che ha oramai profonde radici nel mondo cattolico romano e allarga ancor oggi le sue fronde benefiche. La festa per la Rerum novarum è anche un po’ la sua festa, perché la «Primaria» romana merita d’essere inscritta fra quelle forze che la prepararono. I A proposito di case economiche trovo nella tariffa per le pigioni stabilita dalla società nel 1890 che una casetta con 5 vani, 2 cucine e 3 ingressi costava L. 50, 3 vani da L. 22 a 25, 1 vano con cucina L. 12 al mese. Che tempi!
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Alessandro VII deve aver pensato con profonda ripugnanza alla pace di Vestfalia . Per quattro lunghissimi anni egli aveva partecipato ai negoziati, dividendo con un altro italiano, Alvise Contarini , ambasciatore veneto, le fatiche e le pene di una difficilissima mediazione fra il blocco franco-svedese e il blocco absburgico. Già nel 1644 scriveva in Roma ad un amico che la sera egli tornava spesso a casa sfinito e colla testa infiammata per le discussioni e per il calore delle teutoniche stufe. Ma le sofferenze fisiche furono un’inezia a confronto della tragedia che Flavio Chigi dovette attraversare alla vigilia della conclusione, quando, tirando le somme, risultò che la pace, pur tanto auspicata, significava per la Chiesa la perdita in Germania di due arcivescovadi e 13 vescovadi, senza parlare dell’assurdo principio ivi sanzionato del cuius regio eius religio, che voleva dire la cessazione definitiva, e col riconoscimento oramai anche dei cattolici tedeschi, dell’unità religiosa nell’Europa centrale. Contro questa pace non rimaneva che lanciare una protesta, la quale, dato lo sconvolgimento politico oramai avvenuto, non poteva essere che una riserva presentata dalla Chiesa cattolica, di fronte ai secoli del suo immancabile avvenire. Quante volte nelle ore tristi di quei negoziati non si pronunciò con esecrazione ed ancora con timore un nome, il nome di quell’uomo geniale e fatale ch’era stato la causa della sconfitta cattolica. Gustavo Adolfo, re di Svezia , era già caduto sui campi di battaglia ma la sua grande ombra dominava ancora trionfante sui plenipotenziari, curvi sopra il tavolo verde di Münster. Eppure la Provvidenza riservava ancora, al nunzio Flavio Chigi, divenuto prima segretario di Stato di Innocenzo X e poi papa col nome di Alessandro VII, una grande soddisfazione personale. Già nell’autunno del 1651 il card. Chigi, segretario di Stato, aveva saputo in grande segreto dai gesuiti che Cristina , regina di Svezia, figlia di Gustavo Adolfo, meditava di convertirsi al Cattolicesimo. Dapprima non ci credette, tanto gli parve insperato che la figlia di colui ch’era stato il capo vittorioso dei protestanti, trovasse la via della vecchia Chiesa. S’aggiunga che Cristina non era una regina qualunque. Dotata di qualità straordinarie, coltissima, tanto che la si chiamava la «Minerva del settentrione», Cristina era celebre in tutto il mondo, come mecenate dei filosofi e degli eruditi più famosi. In quasi tutte le capitali d’Europa teneva corrispondenti che compravano per lei manoscritti, libri, quadri e statue. Come regina sapeva imporsi con grande dignità ed energia: generali che durante la guerra dei Trent’anni erano stati il terrore della Germania, tremavano innanzi a lei come fanciulli e gli ambasciatori stranieri trovavano in lei una scolara del celebre Oxenstjerna , la quale aveva superato il maestro. Alla prima notizia il cardinale Chigi si limitò a raccomandare il segreto: ed egli stesso lo mantenne così gelosamente che non lo comunicò nemmeno al Papa. Temeva la mobilità dello spirito femminile, e d’altra parte, gli effetti di un’eventuale reazione protestante. Ma circa la mobilità dello spirito, egli, fortunatamente, s’ingannava. Cristina era una cerebrale, un temperamento mascolino che, conosciuta una volta la verità, andava diritta alla mèta, a qualunque costo. Come rivelano le sue «memorie» e confermano altre testimonianze, dai dubbi contro la religione protestante, che le era stata inoculala fin da piccina – le aveva fatto cattiva impressione specialmente il duro concetto di un Dio inesorabile, quale glielo rappresentavano i pastori di Corte – la Regina ancor da giovinetta era passata ad un vago deismo razionalista, dal quale però, non avendo potuto trovare appagamento, passò presto all’inquieta ricerca della verità religiosa, frugando negli antichi padri, che studiò tutti. In quel tempo il suo cuore assetato cercava Iddio anche colla preghiera. «Tu sai, ella esclama nella sua autobiografia, quante volte in una lingua ignota agli spiriti comuni, Ti pregai di questa grazia e giurai di obbedirti, mi dovesse ciò costare anche la vita e la felicità». Nel 1650 poté entrare in frequenti rapporti col gesuita Antonio Macedo, che era cappellano dell’ambasciatore portoghese a Stoccolma e per mezzo suo si fece inviare da Roma due gesuiti, Paolo Casati e Francesco de Malines , che arrivarono in Stoccolma nel marzo 1652, travestiti da gentiluomini italiani. Infinite furono le cautele che dovettero osservare la regina ed i gesuiti per sfuggire al geloso controllo della Corte luterana. Finalmente nell’estate del 1654 Cristina aveva maturati i suoi disegni, che naturalmente dovevano includere anche l’abdicazione, perché gli Stati generali non avrebbero tollerata una regina cattolica. Il 6 giugno 1654 Cristina depose nel castello di Upsala la corona a favore di suo cugino Carlo Gustavo , riservandosi però la dignità regia, la sua proprietà privata ed un appannaggio di 300.000 talleri all’anno. Quest’atto commosse il paese che a malincuore vedeva scomparire con lei la gloriosa dinastia dei Vasa. Le pressioni perché rimanesse furono tante, che, per liberarsene, Cristina fuggì in abiti maschili e riparò ad Anversa, ove nel Natale dello stesso amo fece la professione di fede rinnovata poi pubblicamente e solennemente ad Innsbruck, in presenza di Luca Holstenio , bibliotecario pontificio, anch’egli un convertito, il quale portò poi a Roma l’atto d’abiura firmato dalla regina e l’originale dell’abdicazione di Upsala, documenti che si conservano ancora nell’archivio vaticano. Solenni furono le accoglienze ch’ebbe Cristina nelle città pontificie e celebre e solennissimo fu il suo ricevimento in Roma. A Porta del Popolo si legge ancora l’incisione dettata da Alessandro VII: Felici faustoque ornata ingressui anno 1655. Qui le diede il benvenuto l’intiero Collegio de’ cardinali ed essa passò trionfante per Roma cavalcando un bianco destriero, fra il suono delle campane e il tuono dei cannoni di Castel S. Angelo. Cristina che già durante il viaggio aveva sostato a Loreto, per consacrare alla Vergine scettro e corona, si recò prima a venerare la tomba degli Apostoli in S. Pietro e poi fu ricevuta in concistoro dal Papa. Ed eccola ora in ginocchio la figlia di Gustavo Adolfo, la firmataria della pace di Vestfalia, eccola in ginocchio innanzi ad Alessandro VII. La figlia veniva a riparare la ferita inferta dal padre e l’esempio di una Regina così illustre avrebbe certo influito sul movimento di ritorno verso la vecchia Chiesa, che già si era iniziato in Germania! Quali pensieri, quali speranze, quali ringraziamenti per i disegni adorabili della Provvidenza! La nobiltà romana fece di tutto per rifare la Regina dei perduti splendori della sua Corte. Un quadro di Salvatore Rosa , che si ammira ancor oggi nella galleria Barberini, rappresenta il torneo di cavalieri e di amazzoni che i Barberini diedero in suo onore nel loro palazzo delle Quattro Fontane. Coi Barberini gareggiarono i Pamfili, le ambasciate e i collegi pontifici. Tutte le preziosità della retorica secentesca, tutte le risorse dell’arte barocca e dello stile berniniano vennero impiegate da quest’alma madre Roma, per celebrare il ritorno di una grande figlia! Vero è che molte speranze allora nutrite non si avverarono. Cristina stessa anzitutto, col suo temperamento mascolino e bizzarro, assomigliava più ad una virago della rinascenza che a quell’ideale di rigido ascetismo, al quale aspirava la controriforma cattolica e che era stato così degnamente incarnato dalla principessa Maria , figlia di Carlo Emanuele I di Savoia, morta proprio in quel torno di tempo a Roma. Ci vollero degli anni prima che quella orgogliosa natura di amazzone si adattasse ai costumi e alle pratiche della vita religiosa e sociale latina. L’irrequietudine del suo spirito la coinvolse anche in avventure politiche, e la rese vittima di sfruttatori. Ma superata questa agitata parentesi, nella quale, come dimostra inconfutabilmente il Pastor, la sua integrità e la sua onestà di costumi non patirono il minimo oltraggio, essa ridivenne, nel palazzo Corsini alla Lungara, la celebrata mecenate delle scienze e delle arti, la devota e fedele serva della Chiesa. Essendosi dovuta recare due volte in Svezia, in seguito alla morte di Carlo Gustavo, poté saggiare in tutta la sua amarezza l’intolleranza luterana che le impedì perfino di farsi celebrare la messa privatamente nel suo castello; ed invano cercò di ottenere per le minoranze cattoliche delle città anseatiche una, sia pur limitata, tolleranza religiosa. Nella sua autobiografia e nei suoi pensieri, scritti questi per i suoi intimi e pubblicati solo nel 1907 per cura del Bildt , si rivela la sua profonda e irrefragabile romanità e papalità. Così quando scrive: «Iddio esprime la sua volontà solo per mezzo del suo unico oracolo, che è la Chiesa romana cattolica, al di fuori della quale non si può dare salute. Bisogna sottomettersi ciecamente e senza riluttanza alle sue decisioni. Dio ha voluto dare autorità al Papa e alla Chiesa in modo così meraviglioso, mediante così numerosi miracoli, tanti concili ed altri fatti straordinari, che nessun uomo ragionevole può dubitare dell’adempimento della sua magnifica promessa, che cioè le darà potestà sopra l’inferno fino alla fine del tempi… Come si può essere cristiani senza essere cattolici e come si può essere cattolici, senza dimostrare al Papa la sottomissione che gli è dovuta?». Bisogna anche ammettere che nemmeno tutte le speranze che i Romani associarono a quella rumorosa conversione per la ricostituzione dell’unità della Chiesa si adempirono: si ebbero bensì alcune conversioni di principi le quali risalgono direttamente all’esempio di Cristina, come il conte palatino Carlo Augusto di Sulzbach e Gustavo Adolfo del Baden ; ma il movimento si arenò per l’insuperabile intolleranza religiosa dei luterani, i quali, contro ogni diritto e contro la pace stessa di Vestfalia, bandivano addirittura dal loro paese i principi convertiti, spogliandoli di ogni autorità e di ogni avere. Ma la conversione di Cristina contribuì certo a risollevare gli animi, se non depressi certo afflitti per la triste conclusione della guerra dei Trent’anni. Pare in questo tempo che il Papato, risospinto quasi da una forza interiore a sfidare l’inclemenza degli eventi, senta il bisogno di riaffermare vigorosamente il suo impero spirituale sul mondo: più i suoi figli degeneri si allontanano, più la Chiesa allarga le braccia, sicura che un giorno – fra decenni, fra secoli – il figliuol prodigo ricercherà il suo amplesso materno. È a simboleggiare queste braccia che sorgono, proprio negli anni in cui Cristina viene a Roma, le colonnate di S. Pietro. Il genio del Bernini dopo aver messo a guardia della tomba del Pescatore Costantino e Carlo Magno , cominciò nell’agosto del 1657 a gettare le fondamenta di quello che si diceva «il teatro sopra S. Pietro». Duecento ottantaquattro colonne e 88 pilastri dovevano allinearsi sulla piazza in forma d’elisse, perché, come disse il Bernini al Papa, costituissero quasi due braccia del tronco, ch’era la basilica. «Essendo la chiesa di S. Pietro quasi matrice di tutte le altre, doveva haver un portico che per l’appunto dimostrasse di ricevere a braccia aperte maternamente i cattolici per confermarli nella credenza, l’eretici per riunirli alla Chiesa, e gl’infedeli per illuminarli alla vera fede». Così sta scritto in un manoscritto chigiano dell’epoca, ricordato in nota dallo storico surriferito. E fu proprio questo il pensiero inspiratore di chi volle il colonnato, perché infatti Alessandro VII vi fece incidere le parole dei salmi e dei profeti: Venite, procedamus ante Dominum in tempio sancto eius et nomen Domini invocemus. E sull’altro braccio: Venite, ascendamus in montem Domini, adoremus in templo sancto eius. Venite: la Chiesa romana, con fede che supera i secoli, attende sempre, a braccia aperte!
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Il cardinale Fabrizio Ruffo ebbe fino a ieri fama nerissima di uomo feroce e sanguinario e le sue bande irregolari di Calabresi, risalite dallo stretto fino a Napoli per riconquistare il regno a Ferdinando IV , e dal Ruffo chiamate l’armata della Santa Fede, passarono alla storia come orde assetate di sangue, animate solo dagli istinti più brutali del saccheggio e della rapina. Ancora ai nostri tempi nelle scuole elementari e medie chi faceva testo, trattandosi della storia napoletana, – era il Colletta . «Fabrizio Ruffo – leggevamo allora nelle antologie scolastiche – nato di nobile, ma tristo seme, scaltro per natura, ignorante di scienze o lettere, scostumato in gioventù, lascivo in vecchiezza, povero di casa, dissipatore, prese nei suoi verd’anni il ricco e facile cammino delle prelature. Piacque al Pontefice Pio VI , dal quale ebbe impiego nella camera pontificia, ma per troppi, e subiti guadagni, perduto ufficio e favore tornò dovizioso in patria, lasciando a Roma potenti amici, acquistati, come in città corrotta, coi doni e blandimenti della fortuna» (I). Da questa tacitiana prolusione si può immaginare che cosa poi venisse a dire il Colletta dell’opera del Ruffo durante la guerra civile che imperversò sull’Italia meridionale e finì, per merito anzitutto del cardinale, col crollo della Repubblica partenopea, avvenuto il 13 giugno 1799 e colla presa di Napoli da parte dell’armata sanfedista. Il Colletta è tra i vinti e tra i fuorusciti, come fuoruscito è pure Vincenzo Cuoco che scrive in particolare la Storia della rivoluzione napoletana; e Carlo Botta , a Torino, non fa che copiare i due. D’altro canto la travolgente vicenda storica che seguì la meteora napoleonica, le rinate speranze del risorgimento italiano posero in luce nuova i fatti napoletani del ’99, dando loro il segno fatidico di tempi precursori del movimento rivoluzionario ed unitario nazionale. Così la tradizione storica dei fuorusciti venne incorporata senza beneficio d’inventario all’epopea del risorgimento italiano e diventò cosa sacra ed intangibile, come elemento psicologico ed educativo delle nuove generazioni. E sopra la fama del cardinale sanfedista vennero a pesare tutti i detriti dell’impalcatura politica italiana, crollata pezzo a pezzo sotto i colpi del Risorgimento! Quest’enorme ed ingiusta mora cominciò a sollevarsi alquanto, appena quando un austriaco, il bar. d’Helfert , storico insigne, pubblicò verso l’80 una biografia del Ruffo, la quale dando alla luce il carteggio del cardinale col re dimostra che il Ruffo aveva sempre consigliata la clemenza e la moderazione. Ma Fabrizio Ruffo, nominato Tesoriere pontificio nel 1785, autore delle Memorie economiche , pubblicate a Cesena nel 1789, richiamato nel 1800 da Pio VII a riordinare le finanze romane in un momento assai critico, aveva lasciato troppa impronta personale nei provvedimenti, nelle leggi e nelle istituzioni economiche dello Stato pontificio, perché la storia potesse accontentarsi delle reminiscenze tacitiane del Colletta. E così si studiò la sua opera di amministratore e finanziere a Roma e si trovò che, per i suoi tempi, fu riformatore ardito e saggio, trasformatore dei vincoli feudali in enfiteusi, bonificatore, abolitore della corporazione del pane, per introdurre i benefizi della libertà commerciale; insomma un antigiacobino sì, ma tutt’altro che un retrogrado. Si trovò anche, quando proprio per le cresciute avversioni dei reazionari dovette abbandonare l’ufficio, e Pio VI lo creò cardinale, che dovette ipotecare i beni della prelatura per provvedere al suo corredo cardinalizio. Fu anzi la ristrettezza dei suoi mezzi che lo indusse, consigliato dallo stesso pontefice, a chiedere al re di Napoli, ch’era poi il suo sovrano, il conferimento di una badia di patronato regio (II). Altro che troppi e subiti guadagni e il «ritorno dovizioso in patria». L’aver colto il Colletta in tanto mendacio, per quanto riguardava i precedenti del Ruffo, fu naturalmente nuovo eccitamento agli storici per rivedere tutta l’attività del cardinale calabrese specie quella che fu l’opera epica della sua vita, la riconquista cioè di Napoli alla monarchia borbonica. I risultati di tale revisione, dovuta a parecchi scrittori nostri e stranieri, sono sintetizzati ora da Antonio Manes nel suo libro Un cardinale condottiero (III) . Il Manes non è, si capisce, un legittimista come poteva essere l’Helfert, ma, per di più, non si rivela nemmeno amico della causa religiosa, che ai tempi del Ruffo si poteva credere davvero messa in pericolo dall’impeto rivoluzionario giacobino. Anzi nel capitolo che tratta del regno di Carlo III l’A. si rivela ammiratore del Tannucci e di tutto l’illuminismo anticlericale ed antiromano dei giurisdizionalisti napoletani. Ciò va premesso, onde il suo giudizio non appaia influenzato da pregiudiziali filocattoliche. Ciò malgrado e nonostante le più vive espressioni di ammirazione e di pietà per le vittime della reazione monarchica in Napoli, Antonio Manes così conclude il suo studio storico: «A proposito della rivoluzione partenopea del 1799 le conclusioni oggi non possono più fallire. Le ragioni del movimento reazionario spiegate e giustificate, la figura del Ruffo, – quale che sia il giudizio che si voglia dare delle idee che rappresentava e per le quali agiva – assume un carattere e una linea di poderosa individualità, volta con maturità di giudizio ai reali interessi del suo paese». «… Egli assume un carattere tutt’affatto nazionale – perché resta ugualmente distante dagli errori degli uni e da quelli degli altri, e apparisce come l’unica figura in piedi in tutto quel periodo di sfiducie, di esaltazioni, di follie». Detto ciò, potremmo anche dispensarci dal rivedere coll’autore i caposaldi dell’atto d’accusa che la storia nazionale aveva finora elevato contro il cardinale sanfedista. Ma, per accennarne alcuni, diremo che il Manes dimostra coi documenti alla mano che il cardinale eccitò sempre la corte ad usare moderazione e sconsigliò la repressione; ch’egli stesso durante il periodo del suo vicariato in Calabria patrocinò sempre misure di clemenza e di conciliazione, resistendo alle pressioni in senso contrario che gli venivano da Palermo, ove s’erano rifugiati i reali col ministro Acton . «E perché – così egli replica al re – non si deve adoperare una somma clemenza con pochissima eccezione? – È forse un difetto la clemenza? No, si dirà, ma è pericolosa. Io non lo credo, e con qualche precauzione la credo preferibile alla punizione che non può eseguirsi con giustizia». Circa il sacco di Crotone e di Altamura nefandamente compiuto dall’armata cristiana il Manes ricorda le provocazioni sanguinose che lo precedettero, la partecipazione della plebaglia locale che fece peggio della truppa e, quel che più importa, dimostra che il cardinale né favorì né lasciò impuniti i misfatti, accorrendo ove poteva a metter regola, a frenare e disciplinare quell’accozzaglia di truppe, alle quali s’era aggiunta gentaglia di ogni genere. Del resto, alle pagine luttuose di Crotone ed Altamura, non si debbono e possono opporre anche le storie spaventose degli eccidi, incendi e dei saccheggi, avvenuti nelle Puglie, ad Andria, a S. Severo, a Trani, e altrove, durante la spedizione francese mandata colà a sostenere armata manu la «democratizzazione» di quelle provincie? Ma quelle che gettarono più sinistra luce sulla fama di Fabrizio Ruffo furono le giornate di Napoli. Il Colletta afferma che «le torme vennero sciolte al promesso spoglio delle case». Vero è invece che in quelle tragiche giornate, nelle quali il furore popolare era insorto contro i francesi e i repubblicani, da loro così malamente sostenuti, il cardinale fece ogni sforzo per domare la belva scatenata: sforzi resi in parte vani dal fatto ch’egli doveva tenere ingaggiate le sue truppe più disciplinate nell’azione contro i castelli, che ancora resistevano. Una lettera scritta al ministro Acton il 21 giugno 1799 è prova eloquente dei nobili sentimenti del cardinale «… Il dover governare, o per dir meglio comprimere un popolo immenso avvezzo all’anarchia più decisiva; il dover governare una ventina di Capi ineducati ed insubordinati di truppe leggere, tutte applicate a seguitare i saccheggi, le stragi e la violenza, è così terribile cosa e complicata, che trapassa le mie forze assolutamente. Mi hanno portato ormai 1300 giacobini, che non so dove tenere sicuri… A forza di cure, di editti, di pattuglie, di prediche si è considerabilmente diminuita la violenza del popolo, per la Dio grazia. Se la resa de’ due castelli si ottiene, spero di rimetterci intieramente la calma, perché potrò a tale oggetto impiegare la truppa. È certo che il caso di far guerra, e temere detta rovina del nemico è la più crudele situazione, ed è la nostra… I nostri soldati migliori guardano dai saccheggi le case, ma non vi riescono. Spesso il pretesto è il giacobinismo, è l’affare che si nomina ma veramente è la rapina, che spesso produce de’ proprietari giacobini…». Questa lettera accenna infine anche al proposito d’imporre in caso di capitolazione ai castelli che oltre la guarnigione francese inchiudevano i capi repubblicani condizioni «molto clementi». Il 19 giugno infatti il Ruffo firmava coi comandanti dei forti una capitolazione la quale concedeva libero passaggio in Francia agli assediati. Con ciò il cardinale salvava la vita ai capi dell’ex governo repubblicano e faceva nello stesso tempo la migliore politica monarchica, impedendo che si rizzassero le forche della reazione. Ma doveva avvenire il contrario. Il 24 giugno arriva a Napoli Nelson colla flotta inglese. Il rigido e crudo britanno sostiene che i monarchi non debbono venir a patti coi loro sudditi ribelli e si rifiuta di eseguire la capitolazione. Il cardinale insiste e gli scrive che «nessun suddito del Re resterà accanto all’ammiraglio per violare i patti». Di fronte all’ostinazione del Ruffo, Nelson ricorre all’intrigo, riuscendo così ad avere in sua mano, sotto la vigilanza delle sue navi, i prigionieri. Ma il cardinale spera ancora nel Re, approdato a Napoli il 10 luglio. Invano; perché Ferdinando, si decide per il parere dell’ammiraglio. La guarnigione francese rimasta ancora a S. Elmo conclude colle forze inglesi e colla corte una nuova capitolazione, e abbandona alla loro sorte una cinquantina di repubblicani. Da quel giorno entra in funzione una giunta speciale, che manderà al patibolo il fior fiore dell’intelligenza e dell’aristocrazia napoletana. Dietro queste forche gli storici fuorusciti fecero allora librare crudele l’ombra del cardinale. Ancora il Croce, pur assolvendolo dell’accusa principale, d’aver cioè egli stesso voluta la vendetta, gli rimprovera tuttavia di non aver fatto un più risoluto gesto di protesta . Ma il Manes, il quale esamina spassionatamente, parte a parte, la condotta del cardinale, conclude: «Per certo egli stipulò la capitolazione in piena buona fede e – diciamo di più – con il sentimento della propria convenienza. Dimostrò di rispettarla e farla rispettare ad ogni costo, e perciò – quando il Nelson dimostrò di recedere – accettò la soluzione anche se non era convinto della buona fede del britanno; nel dissenso tra lui e l’altro si rimise al Re nel cui onore ebbe anche lui il torto di fidare. Non crediamo dopo ciò che in realtà al Ruffo possa risalire alcuna – sia pure indiretta – responsabilità, di quell’oscura pagina della storia napoletana». E fermiamoci qui. Il cardinale partirà presto per Venezia, per il conclave di Pio VII, ed altre vicende seguiranno che non siamo chiamati a descrivere. Importava però frattanto di registrare in questa rivista apologetica un’altra riabilitazione storica d’un uomo di Chiesa, il quale spinto da tumultuosi avvenimenti a farsi condottiero, non mancò in quel rude mestiere, di quelle virtù di umanità e di carità che sempre devono adornare sovra ogni altra il sacerdote di Cristo. I COLLETTA, Storia del Reame di Napoli, Capolago, Tip. Elvetica, t. II, p. 89. II SACCHINELLI, Memorie storiche sulla vita di Ruffo, Roma, 1895; CANALETTI, Studi sulla costituzione economica di Roma nel sec. XVIII, Giornale degli Economisti. III Aquila, casa ed. Vecchioni, 1930.
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Chi s’occupa di letteratura missionaria, specie di quella che riguarda l’Estremo Oriente e l’Africa, rimane colpito da un fenomeno che si ripete tanto sul continente giallo che su quello nero: ovunque il razionalismo protestante cagiona nelle menti che si aprono alla civiltà europea e ai rivolgimenti politico-sociali un disorientamento, una nebulosità, uno stravolgimento di concetti essenziali che reca fatali conseguenze nella vita pratica e sociale. Basta leggere, ad esempio, il Triplice demismo di Suen Wen nella celebrata edizione del P. D’Elia o gli studi sull’induismo moderno del P. Zacharias. I rivoluzionari cinesi – scolari quasi tutti del Protestantesimo anglo-sassone – interpretano alcuni capitoli della Bibbia come se questa fosse un codice della rivoluzione e il generale Feng, venuto anch’egli dalle scuole protestanti, dopo aver propagandato con grande zelo il Cristianesimo, muta di colpo, appena avverte che le nazioni europee intervengono contro la Cina e dichiara che la sua fede in Cristo è venuta meno. Ora il P. Brou , nella Revue d’histoire des missions, ha richiamato la nostra attenzione su di un libro uscito già nel 1928 (The native problem in Africa, di Raymond Leslie Buell, New York, Macmillan), il quale offre in argomento delle prove, anche per quanto riguarda il continente africano. Israeliti, filistei e amaleciti Sfogliando infatti questi due volumi di mille pagine ciascuno, scritti da un protestante per illustrare sovratutto la questione sociale ed operaia in Africa, c’imbattiamo in alcuni fatti politico-religiosi, i quali, benché descritti appena come in margine all’esposizione principale, sono più che sufficienti per confermare la nostra tesi. Facciamone rapidamente la rassegna. Nell’Unione sud-africana su 4.700.000 neri, 1.600.000 sono cristiani, e di questi solo 40.000 cattolici. Qui hanno lavorato a gara i missionari anglicani e i calvinisti boeri. Ma gl’indigeni hanno ben presto preso la mano ai maestri europei e così, specie nel dopoguerra, sono sorte una quantità di chiese autonome «con pastori negri», che si contano a centinaia. Ma il fenomeno più caratteristico fu il movimento israelita. Un negro, educato alla catechesi presbiteriana, di nome Enoch Mgijma, pretese di aver visto in visione due governi bianchi combattersi tra loro (eravamo nel 1918!) e comparire sul più bello a cogliere i frutti della vittoria una scimmia, onorevole simbolo della razza negra. Scomunicato dalla sua comunità religiosa, egli fondò presso Queenstown un santuario che chiamò «tabernacolo» e presso il quale migliaia di aderenti, in tonaca bianca, venivano a celebrare la Pasqua. Ben presto parecchi villaggi credettero in questo profeta e si chiamarono israeliti: contro di essi naturalmente stavano i bianchi ch’erano detti filistei. Quando il Governo, allarmato dal fatto che nei «tabernacoli» si facevano anche esercizi militari, volle intervenire, era già troppo tardi per reprimere il movimento e dovette accontentarsi di frenarlo: il che una volta avvenne a prezzo di 200 morti. Nella Rhodesia settentrionale sorse nel 1925 tra gli scolari dei predicanti puritani un pastore indigeno che si proclamava figlio di Dio, battezzava per immersione nello Zambesi, che chiamava fiume Giordano, e finì col predicare che per guadagnare la vita eterna bisognava darsi la morte. Il governo intervenne e lo condannò al patibolo, quando la sua predicazione aveva già spinto 170 negri a buttarsi nel fiume. Ma il caso più grazioso si ebbe nell’Uganda. Qui nell’ottobre 1914 un certo Malachia, diacono della Church missionary Society, proclamò l’emancipazione dai pastori europei e si presentò presso la tribù dei Baganda come inviato del Signore. Egli aveva idee particolari sul battesimo e sugli altri sacramenti, ma si distingueva dalla vecchia dottrina sovratutto perché accettava la poligamia proclamandola autorizzata dal Vecchio Testamento. Argomentava così: «I nostri antenati si sono sposati tante volte quante Dio donava loro una donna». Il Libro dice: «Se voi ricevete una donna, converrà contentarvi di una, se ve ne daranno due, vi accontenterete di due». Nessuna meraviglia che questa morale accomodante attirasse migliaia di aderenti al profeta Malachia il quale – dal nostro volume non risulta perché – li chiamò Amaleciti. I ministri europei protestarono e chiamarono a raccolta tutti i fedeli. Senonché Malachia in un pubblico contradditorio lanciò loro questa freccia: «Voi ci avete insegnato che i protestanti hanno rinnegato il papismo a causa dei suoi errori. Con qual diritto impedite ora a noi di rinnegare voi, se troviamo i vostri errori ancora peggiori?» Ma il signor Malachia fece di peggio. Un giorno, spiegando la Bibbia e profittando d’un errore di traduzione per cui il termine inglese medicine man (stregone) era tradotto in dialetto indigeno collo stesso termine che significa medico, cominciò a predicare – citando il passo ove la Bibbia maledice gli stregoni – che la Bibbia è contro i medici. I mali di questo mondo sono mandati da Dio: agirvi contro con medicine od operazioni chirurgiche equivale a contrastare la sua santissima volontà. Quindi abbasso i medici! D’allora in poi tutte le misure profilattiche del governo contro la malattia del sonno e contro la peste, anzi perfino le disposizioni veterinarie a preservazione del bestiame, trovarono negli amaleciti la più ostinata opposizione. Malachia invitò anche i suoi seguaci a non pagare la land-tax, perché serviva a pagare i medici. Si arrivò a degli scontri colla forza pubblica e si ebbero dei morti. Allora Malachia fu arrestato, fece in prigione lo sciopero della fame; ne uscì, ma morì poco dopo. Nel Kenia un profeta consimile si chiamava Harry Thuku. Veramente qui si trattava piuttosto di una questione di salari. In Europa la si sarebbe considerata uno sciopero più o meno rivoluzionario. Qui invece gl’indigeni, piena la testa d’immagini bibliche e di versetti mal digeriti e peggio interpretati, fecero della rivolta una guerra religiosa e nei templi protestanti indigeni si pregava pubblicamente perché Mosè vincesse contro Faraone e Davide trionfasse di Golia. Un «Birth control» a rovescio Passiamo sopra alla storia del negro Kausapala nel Congo portoghese, a quella di Kibangu nel Congo belga, ad altre del Camerun, per fermarci alla Nigeria inglese del sud. Qui le chiese indigene libere, cioè indipendenti da ogni gerarchia europea, pullulano come i funghi. Ragione dello scisma è per lo più la poligamia. L’United African Church, una setta di circa 15.000 negri dichiara nel suo statuto: «Quest’organizzazione non predica la poligamia, ma la tollera, quando è in uso se è richiesta dal paese e da altre circostanze. Essa respinge l’obbligatorietà della monogamia e i matrimoni stranieri, credendo fermamente che né la poligamia né la monogamia impediscano di salvarsi nel Cristianesimo. Siccome non è affatto dimostrato che la Scrittura consideri la poligamia un peccato, così non la considera come tale nemmeno l’U.A.F.». Nell’anno in cui scoppiò la guerra europea presso la foce del Niger sorse un certo Braid a predicare contro il feticismo, l’alcolismo, la stregoneria. Egli ebbe veramente dei grandi successi, strappando migliaia di pagani al vizio e all’ignoranza più nera. Ma ben presto il razzismo e il libero esame lo spinsero a prendersela cogli europei. Costoro non erano il «popolo d’Iddio» e non rappresentavano la vera religione. «Se fossero stati il popolo eletto – egli predicava – il Niger si sarebbe arrestato per lasciarli passare, come aveva fatto il Giordano o il Mar Rosso. Invece, per passare, vi avevano dovuto costruir sopra un miserabile ponte…». I suoi discepoli lo tenevano per un essere divino e l’acqua, in cui s’era bagnato, veniva venduta a due scellini e sei pence la bottiglia. Il governo temette una sedizione e lo fece arrestare. Ma il suo movimento continua tuttora sotto il nome di Christarmy, la quale ha alla testa un patriarca. Fu costui che nel 1920, a proposito d’una controversia finita in tribunale, scrisse nel periodico African hope una «pastorale» in difesa della poligamia. «Ricordatevi, egli scriveva, che la religione è la base di ogni civiltà e che la famosa civiltà dei bianchi odierni deriva loro da una razza poligamica. Il Cristianesimo viene dagli Ebrei, il mussulmanesimo dagli Arabi, l’induismo dai Giapponesi (sic), il buddismo dai Cinesi (sic). Tutte queste nazioni sono poligamiche ed hanno dato al mondo le religioni, sulle quali è fondata la civiltà… Voi dovete difendervi contro coloro che cercano d’indurvi… ad accettare delle leggi e dei costumi che Dio non ha mai né sanzionato né imposto». Anarchismo biblico Se quest’articolo non fosse già troppo lungo vorremmo accennare anche al misticismo negro sulla Costa d’avorio, a quelle povere chiesette di bitume e di legno, in mezzo alle quali troneggia la Bibbia, con intorno una folla ignorante, piena di un misticismo vago e confusionario… Qui i Profeti, l’Apocalisse e gli stessi Vangeli diventano dei libri anarchici. Il profetismo vi fa strage e sotto vesti mutate, risorge la stregoneria, eterna compagna dell’ignoranza e della superstizione. A ragione il P. Brou conclude rilevando che il Cristianesimo bastardo che si è predicato ai negri mancando di ogni vita sacramentale, non ha alcuna efficacia per distruggere i germi pagani che i negri ereditano per così dire nel sangue. Ma che dire del loro cervello chiamato improvvisamente dal feticismo al libero esame dei libri sacri? Le aberrazioni, delle quali abbiamo fatto cenno non sono che una piccola parte di quelle segnalate dai nostri missionari; i quali rilevano anche con grande conforto che i casi nei quali i cattolici cadono vittime del profetismo protestante sono sporadici e assai rari. Nella maggior parte di essi basta l’amorevole e tempestivo intervento della gerarchia cattolica per tener lontano ogni contagio.
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Due anni or sono uno scrittore missionario anglicano, l’«hon. canon of Leicester» David Jenks, scriveva per le persone colte una storia delle missioni dei sec. XVI e XVII . Interessante è di rilevare già all’introduzione del libro stesso, quale lacuna della coltura anglicana l’autore si proponga di colmare. Fra i nostri scrittori popolari, dice dunque Jenks, è data ormai per inconfutabilmente certa l’esistenza nella storia dell’evangelizzazione di un lungo periodo tenebroso il quale va press’a poco dalla morte degli apostoli fino all’inizio del secolo decimottavo, cioè fino all’attività missionaria anglicana che accompagnò l’espansione coloniale della Gran Bretagna. A questo lunghissimo evo di oscurità si fa talvolta la concessione di qualche nome luminoso, come quello di san Francesco d’Assisi o di san Francesco Saverio o anche dell’apostolo del nord, san Bonifacio. «Ma gli sforzi tenaci dei francescani e dei domenicani vengono passati generalmente sotto silenzio, e del pari l’attività missionaria dei gesuiti e le imprese francesi dei secoli XVI e XVII». Ovvero, continua lo Jenks, se vi si deve fare qualche rapido riferimento, lo si accompagna con critiche così severe che equivalgono ad una condanna. «Tale condanna passa da scrittore a scrittore senza che alcuno sospetti l’esistenza di motivi, che spingano a raddrizzare le tradizionali storture». È dunque per combattere pregiudizi così inveterati fra il pubblico inglese che lo Jenks pubblica il libro (I). I suoi connazionali devono apprendere da esso che prima di John Eliot , William Carey e del dott. Livingstone vi furono altri moltissimi uomini che operarono egregiamente per la diffusione del vangelo e che per esso morirono. Ora per lettori cattolici non occorre riassumere qui il contenuto di questa storia anglicana delle missioni cattoliche: Bartolomeo de las Casas , Juan Fernandes , Matteo Ricci, Roberto de Nobili , Jean de Brébeuf , François Pallu campeggiano come figure centrali in meravigliosi quadri storici, nei quali papi e religiosi, laici e suore si avvicendano nell’opera secolare della propagazione della fede. In questo profilo storico l’autore non appare del tutto indipendente dagli stessi pregiudizi che egli si propone di combattere nei suoi correligionari: i suoi spunti polemici tuttavia e le sue spiegazioni gettano una tal luce sulla mentalità anglicana che meritano utilmente di venir posti in rilievo anche da una rivista cattolica. Già nel primo capitolo ai lettori anglicani i quali credono che la conquista spagnuola in America sia stata soltanto una serie di predonerie e di atrocità, tollerate dai missionari o commesse addirittura colla benedizione dei sacerdoti cattolici e colla complicità del silenzio da parte di Roma, lo Jenks oppone la figura luminosa di mon. Bartolomeo de la Casas, intrepido difensore degl’indigeni, apostolo vero ed universale delle dottrine di Cristo, al di sopra di ogni interesse temporale e nazionale. In questo atteggiamento comprensivo e di umanità verso gl’indiani las Casas venne imitato dalla maggior parte degli altri missionari; ma che dire dell’atteggiamento dei Pontefici romani? «Bisognerà che passino ancora tre secoli, esclama lo Jenks, prima che la Chiesa anglicana trovi simili espressioni di cristiana persuasione, quali usava Paolo III già nel 1537, nella Bolla Sublimis Deus!» . «Cristo, vi proclama il Papa, che è la stessa verità che non ha mai errato né può errare, disse ai predicatori della fede ch’egli scelse per tale officio: “Andate e predicate a tutte le nazioni”. – Egli disse tutte, senza eccezione perché tutte sono capaci di accogliere le dottrine della fede. Il nemico dell’uman genere… inspirò i suoi satelliti i quali, per fargli piacere, non esitarono a diffondere l’idea che gl’Indiani dell’occidente e del mezzogiorno dovessero venir trattati come stupidi bruti creati per il nostro servizio, pretendendo ch’essi siano incapaci di ricevere la fede cattolica. Noi, che benché indegnamente esercitiamo in terra i poteri di nostro Signore e cerchiamo con tutte le forze di portare all’ovile a noi affidato le pecore staccate dal nostro gregge, consideriamo invece gl’Indiani come veri uomini, capaci non solo di comprendere la fede cattolica, ma a quanto ci s’informa, ardentemente desiderosi di riceverla. Volendo dunque rimediare quanto più possibile a questi mali, noi definiamo e dichiariamo che i detti Indiani e tutti gli altri popoli che venissero scoperti dai cristiani, non possano in alcun modo venir privati della loro libertà e del possesso della loro proprietà anche se essi siano fuori della fede in Gesù Cristo…». Tre altri capitoli che trattano delle missioni dell’Estremo Oriente e dell’India inducono lo scrittore anglicano a fare le seguenti ammissioni: «Il Portogallo, la Spagna e la Francia prendevano la loro religione molto sul serio. I loro risapevano d’essere sovrani cattolici e si riconoscevano in obbligo di propagare la fede cristiana. Al Portogallo e alla Spagna erano state assegnate le terre delle loro scoperte a condizione che insegnassero al popolo le vie di Dio; la Francia soddisfece alla sua missione religiosa in America e i suoi re appoggiarono ovunque l’opera missionaria. Non bisogna commettere l’errore di credere che perché qualche re non era un modello di buon costume, il patronato ch’egli teneva sull’opera missionaria fosse stato un atto di disgustosa ipocrisia. Pensare così equivarrebbe a non comprendere i tempi di cui si tratta!» «Ma disgraziatamente l’Olanda e l’Inghilterra, che erano le rivali commerciali delle potenze cattoliche, non ebbero lo stesso senso di responsabilità religiosa». Vero è che taluni paesi cattolici commisero spesso l’errore di considerare i loro missionari come agenti dei loro sovrani ma tale errore non è per i suoi effetti neppur paragonabile coll’indifferentismo di quelli altri paesi i quali nelle loro imprese commerciali dimenticarono che «ove può andare un mercante per far guadagni, c’è posto anche per il missionario che cerca la mercanzia delle anime»! «Non si può del resto negare che la storia delle missioni moderne viene, in Inghilterra, datata generalmente dalla fine del secolo XVII o perfino dalla fine del XVIII e non dalla scoperta del Nuovo Mondo, per la ragione che queste prime missioni erano cattoliche-romane… Queste missioni cattoliche hanno sofferto d’immeritate censure in causa di alcune gravi colpe che dalla mentalità popolare vennero affibbiate a torto al Cattolicismo romano». «…La schiavitù che gli Spagnoli e Portoghesi appresero dai mori e che introdussero nelle nuove terre non ha nulla da fare col Cattolicismo. Ogni nazione peccò qui d’ingordigia e l’Inghilterra fu la peccatrice più grande». Si crede anche, continua l’A., che le missioni cattoliche alla fine del sec. XVIII siano state troncate «da una specie di giudizio di Dio». Ma in realtà l’avvenimento che limitò o quasi interruppe l’attività missionaria cattolica dopo l’espulsione dei Gesuiti, fu una causa politico-sociale fin troppo evidente, fu cioè la grande bufera della Rivoluzione francese. In quanto ai Gesuiti il glorioso e cruento esempio ch’essi diedero nel Canadà è anche per l’autore la miglior prova che anche là ove s’inclina ad ammettere non del tutto infondate le critiche contro una loro eccessiva tattica di adattamento (Cina ed India) essi agirono sempre in perfetta buona fede (p. 236). Ammissioni e riconoscimenti che meritano di venir segnalati e che bisogna augurare servano a correggere i pregiudizi storici del pubblico anglicano. I Jenks David, Six great missionaries. London and Oxford, 1930, 251, p. ottavo.
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L’opera pontificia per la costruzione delle case parrocchiali in Italia non è ben conosciuta dal pubblico, è anzi da molti ignorata o la si confonde con altre grandiose opere edilizie del pontificato di Pio XI. È bene dunque farne cenno non tanto perchè sia dato unicuique suum, o per riguardo alle persone, quanto per illustrare una delle opere papali più importanti e grandiose. Monsignor Ing. S. M. Chiapetta , che dirige l’«Ufficio Pontificio per le Case Parrocchiali in Italia», presentando al S. Padre quasi duecento dei suoi «costruttori», il giorno 7 di Maggio, dichiarava, nell’indirizzo che ebbe la ventura di leggere ai piedi del trono papale, grande l’impresa a cui era stato indegnamente chiamato così che avrebbe osato fors’anche qualificarla come massima ma, senza dubbio, la riteneva non inferiore all’opera per le Missioni o per l’Azione Cattolica o per gli Studi Universitari. Affermazione che potrà sorprendere chi non conosce l’opera, ma è ben rispondente alla realtà dei fatti. Il Pontefice stesso, nel rispondere con paterna benevolenza all’indirizzo or ora ricordato, narrava la storia di questa Sua opera. Egli aveva considerato lo stato delle diocesi meridionali ed insulari d’Italia dove le popolazioni sono tutte buone ma mancano spesso di direzione spirituale perché, mancando la casa del sacerdote, attigua alla Casa di Dio, non si possono avere ovunque o nella maniera conveniente i pastori del gregge. Non è qui il caso di accennare alle ragioni di questo stato di cose né pare conveniente un lungo discorso per mettere in evidenza la gravità e la portata del problema. Basti far presente al lettore che il problema implica la disciplina ed il progresso stesso del Rev. Clero, l’istruzione religiosa e la pietà del popolo a cui s’annettono quistioni d’ordine religioso, morale e sociale. Si tratta dunque della salvezza delle anime, dell’educazione, la sola vera educazione dell’uomo, si tratta del bene massimo del popolo! Per ciò a ragione si deve dire grande veramente l’opera delle case parrocchiali e tale apparirà anche a coloro che, sulle prime, dall’idea della modesta abitazione del sacerdote, sono indotti a considerar modesta l’impresa. Ma non è piccola anche considerata come impresa edilizia. Lo stesso Monsignor Chiapetta, nel breve indirizzo che già abbiamo ricordato, designava le zone in cui ferve il lavoro immaginando un cerchio vastissimo che da Ancona e Senigallia, toccando molte delle diocesi intermedie, raggiunge l’ardente Sicilia e la fiera Sardegna! È qui che nel 1926 si sono incominciate le costruzioni, per passare alla Sicilia, in cui si dovette rallentare l’attività per far convergere ogni sforzo nelle zone delle Marche e del Vulture colpite dal terremoto . Ma non si è dimenticato di portar qualche beneficio anche a parecchie diocesi centrali, come si è detto, perchè l’attesa del turno non riuscisse troppo gravosa e per rispondere a particolari opportunità che si offrivano casualmente. A 352 ammontano le case costruite in Sardegna; a 238 quelle fino ad oggi erette in Sicilia; a 120 quelle delle Marche; a più che 100 quelle del Vulture. A 260 infine, complessivamente, quelle di altre località e diocesi del continente, non avendo dimenticate le 14 isole abitate, delle 28 che costituiscono l’arcipelago delle Eolie: Vulcano, Alicudi, Filicudi, Stromboli dove la terra trema! Un complesso di 1107 costruzioni a cui si devono aggiungere conventi e case religiose, episcopi, e diversi Seminari Diocesani ripristinati e chiese riparate o costruite ex-novo nelle zone colpite dal terremoto. Sebbene Monsignor Chiapetta sia un artista specializzato che può contare a centinaia le cappelle e le chiese riparate o nuovamente ideate nello stile che gli è caratteristico, prima di assumere la direzione dell’Ufficio Pontificio, non attende abitualmente alla erezione delle case di Dio là dove fa sorgere le case parrocchiali, perché le chiese, per grazia di Dio, non mancano. Ma nelle zone colpite dal terremoto il Santo Padre gli ha ordinato di costruire anche le chiese e molte sotto la sua direttiva sorsero infatti, come, ad esempio, quella del S. Cuore in Melfi , o furono ripristinate come, ad esempio, quella di S. Nicola che ricordiamo perché benedetta dal Vescovo, presente lo stesso Mons. Chiapetta che ebbe la dolce soddisfazione di celebrarvi devotamente la S. Messa. Altre chiese tuttavia, per ordini speciali del Santo Padre e per speciali necessità, furono anche in altri paesi costruite dall’Ufficio Pontificio. Citeremo le chiese di quelle Eolie che si specchiano nell’azzurro del Mediterraneo, contrasto ed armonia di acque e di fuoco, quelle Eolie, poc’anzi menzionate, là dove mancava l’altare del Signore. E meritano un particolar cenno gli «stazi», o stazioni che dir si voglia, della Sardegna e della Sicilia. Sono località sperdute, in zone talora impervie, a diecine di chilometri dai rispettivi comuni o centri abitati. I costruttori di Monsignor Chiapetta fanno sorgere colà delle minuscole e talor graziose costruzioni, colla cappella e l’abitazione del sacerdote, onde possano avere e la parola di Dio ed i Sacramenti e la Santa Messa anche quei pastori e quei lavoratori che vivono isolati e quasi lontani dal mondo! Altrove poi, l’Ufficio delle Case Parrocchiali, dove si presentano determinate circostanze, costruisce la casa parrocchiale e con essa il presbitero ed il coro così che il parroco possa celebrare nell’attesa che venga col tempo completata la costruzione della chiesa. Ed a proposito di chiese non vogliamo tacere che Monsignor Chiapetta regala volentieri il progetto delle chiese, anche dove non gli è permesso di costruirle, né vogliamo tacere che per ripristinar le chiese dirute si ricorse spesso ad opere degne di particolar menzione, come, ad esempio, la ricostruzione di un pilastro sfasciato dei quattro che reggevan la volta d’una chiesa, pur mantenendo in piedi la volta e compiendo poi le riparazioni necessarie. Un lavoro simile si sta per iniziare alla parrocchia di S. Marco in Rionero del Vulture. E per associazione d’idee vien qui fatto di mettere in evidenza le difficoltà che in talune sperdute contrade contribuiscono a rendere veramente cospicua l’opera delle case parrocchiali. Alludiamo ai villaggi isolati dove, talvolta, la popolazione stessa contribuisce a recare, a spalla, in lunga teoria, i materiali di costruzione o dove, come in certa località in quel di Melfi , occorrono due giorni di marcia per portare la sabbia dall’Ofanto! Brevi e fugaci cenni questi che permetteranno al lettore di comprendere quali difficoltà e fatiche richieggano le modeste costruzioni destinate a portare il soffio della spiritualità in tanti paesi della nostra Italia, a tante anime di quelle popolazioni che il Papa – come dicevamo – ben conosce e di cui ha voluto notare e premiare la bontà! Del resto a mettere in evidenza e giustificare il valore dell’opera varrà ancora il considerare come costi una cospicua somma di milioni, come sia di valido contributo a lenir la crisi così che si chiegga in molti paesi la costruzione della casa parrocchiale come carità temporale. E tale è infatti e tale apparirà a chi consideri le migliaia di lavoratori che guadagnano il loro pane col lavoro che loro fornisce l’Ufficio pontificio. I poco men che duecento costruttori infatti, convenuti in Vaticano e di cui diamo la fotografia, non sono che i dirigenti di sette od otto mila lavoratori di cui Monsignor Chiapetta si propone di recar le rappresentanze, in gruppi successivi, ai piedi del trono papale, ma che non possono, come è ovvio, essere adunati ad un tempo in massa imponente da cento e cento lontani paesi. Ed è pur degno di nota il generoso concorso dato dal Papa alla saggia opera del Governo Italiano per la ricostruzione dei paesi colpiti dal terremoto. Concorso che richiede copia ingente di danaro e di lavoro, pur studiandosi Monsignor Chiapetta, con singolare abilità, di raggiungere il massimo rendimento col minor dispendio. Circostanza questa che è resa manifesta anche dal numero esiguo di collaboratori – tre sino ad oggi – che costituiscono «l’ufficio» di Monsignore in Vaticano (ingg. Galbiati, Bonetti e sig. Paino) mentre numerosi, per ragioni ovvie, sono i costruttori sparsi nelle diverse plaghe d’Italia. Di questi non è possibile dar qui l’elenco, né vogliamo attardarci in cenni statistici esponendo le cifre, grossissime cifre, con cui si potrebbero misurare in metri cubi i materiali impiegati e gli edifici costruiti. Ma per non tacere di tutti vogliamo qui nominare i Signori Abbondanza, Guidali, Isola e Villa che iniziarono i lavori e vogliamo chiudere con una notizia, forse un po’ indiscreta, ma che recherà letizia al Santo Padre ed a molti di quegli eroici parroci che vivono spesso nella più squallida povertà, e che il mondo dimentica mentre ostacola spesso lo svolgimento del lor difficile ministero. Ecco la notizia. Il Santo Padre nel discorso che rivolse, come ripetemmo già, ai costruttori delle case parrocchiali, manifestò il desiderio di veder «compiuti» almeno i lavori in Sicilia, manifestando il dubbio che la volonterosa promessa di Mons. Chiapetta potesse tradursi prestamente in atto, conscio com’Egli è, delle difficoltà che si frappongono e della somma di lavoro che si richiede per un’opera di tal fatta. Ma Mons. Chiapetta sta organizzando «la campagna» e noi confidiamo ch’egli riesca in tempo relativamente brevissimo a compiere l’opera sua in tutte le diocesi sicule. Gli è che Mons. Chiapetta, a maggior gloria di Dio e per amore del Papa e per la diffusione del Regno di Cristo, vuole che il Sommo Gerarca possa ripetere, fra poco, ciò che già diceva a chi gli parlava di imprese americane, assicurando che anche in Italia come in America si sanno edificare in condizioni difficili e con economia di mezzi, ma con perfetta rispondenza allo scopo e con completa aderenza ai più diversi bisogni, molte centinaia di case in un tempo minimo! E crediamo, infine, che sarebbe grave manchevolezza, pur essendo sommarie queste notizie, se dopo aver ricordato il Direttore, dopo aver nominati gli abituali e più anziani suoi collaboratori, dopo aver accennato ai molti costruttori di cui sarebbe lungo l’elenco ed alle migliaia di operai, non si facesse menzione delle schiere ignorate che Mons. Chiapetta giudica come particolarmente benemerite! Alludiamo ai sacerdoti, alle suore, ai bambini, alle bambine, alle persone ricoverate nelle pie case delle più diverse regioni d’Italia, che pregano ed offrono sacrifici e comunioni per la buona riuscita dell’Opera, perchè molti fra i poveri parroci che ancora una volta vogliam qualificare come eroici, abbiano una casa, perchè il Signore benedica l’iniziativa saggia e santa del Padre Comune!
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state approntate le bozze. Vide la luce, con alcune modifiche, solo in De Gasperi 1955, pp. 184-191. La presente versione è ricavata dalle bozze di stampa con correzioni autografe conservate presso l’AADG, IV, 2 . Si è ricordata altrove (I) la polemica intorno allo Stato, al medioevo e all’organizzazione corporativa, svoltasi tra il giovane Francesco Hitze, il quale aveva appena pubblicato il suo libro Capitale e lavoro e la riorganizzazione della società (1881) e il bar. Hertling, professore allora oramai noto di filosofia e di storia, ma anche già deputato; uomo cioè incline a giudicare dal punto di vista politico. Hertling aveva gettata una doccia fredda sull’entusiasmo corporativista del giovane abate, appena giunto da Roma, e, pur compiacendosi che anche Hitze concepisse gli «stati» e le «corporazioni» come organismi autonomi, respingeva tuttavia il suo progetto d’un parlamento corporativo, preoccupandosi sovratutto del pericolo che gl’interessi di categoria prevalessero sull’interesse generale dello Stato o che «un detentore energico e risoluto del potere centrale» (e tale era Bismarck) potesse far giocare una categoria contro l’altra, per imporre i suoi voleri. Hertling concludeva allora: «Non il ritorno alle vecchie istituzioni dell’ancien régime è ciò che necessita, non l’aumento dell’autorità dello Stato; ma occorre promuovere le associazioni corporative, affinché i singoli abbiano la protezione di cui hanno bisogno. Ora queste formazioni allignano soltanto nel clima della libertà…». Questo punto di vista che, per intenderci, diremo libertario, era certo allora condiviso da tutti i cattolici tedeschi che si occupavano di politica: ma a mano a mano che il Centro da partito di opposizione andò trasformandosi in partito di Stato, a mano a mano che la minaccia socialista spinse tutti i partiti antirivoluzionari sulla via della politica sociale, lo Stato germanico, perdendo la faccia feroce del bismarckismo, divenne il Wohlfahrtsstaat (lo Stato provvidenza) che doveva intervenire ovunque, a regolare e a proteggere. Tuttavia la diffidenza verso il corporativismo, inteso come base di una nuova organizzazione statale, rimase sempre viva e operante. Lo si vide anche nel 1894 quando un numero notevole di cattolici di Colonia, con alla testa il parroco dott. Oberdorffer, pubblicò un manifesto, il cui nocciolo si trova nel seguente periodo: «La mèta finale di ogni riforma cattolica è la riorganizzazione della società sulla base delle professioni, dotate di una propria autonomia amministrativa e autorizzate a rappresentare i propri interessi nei corpi legislativi». Nel commento poi l’Oberdorffer spiegava ancora più chiaramente: «Tutto l’edificio statale dovrà fondarsi sulle classi professionali. La costituzione dello Stato, deve avere per base i corpi professionali… il che avverrà o modificando il nostro parlamento, o almeno creando accanto ad esso una rappresentanza corrispondente». La prudenza di quest’impostazione, volutamente generica, non valse a preservarla dalle opposizioni politiche, che si annunciarono da ogni parte. Si tratta di romanticismo sociale, obiettavano i «Realpolitiker». Perché impegnarci in un programma, la cui attuazione sconvolgerebbe tutta l’attuale struttura politica della Germania? Che interesse abbiamo noi, minoranza cattolica, costretta sempre a stare sull’attenti contro la minaccia protestante e contro il pericolo socialista, a promuovere un simile rivolgimento? Le polemiche ebbero fine colle cosiddette conclusioni di Colonia dell’agosto 1894, accolte ad unanimità in quel congresso generale dei cattolici tedeschi. La formula di compromesso suonava così: «Uno dei compiti principali dello Stato è quello di garantire colla forza delle leggi e di promuovere lo sviluppo delle organizzazioni professionali». Siamo dunque su per giù alla rappresentanza giuridica delle «classi», propugnata in quel torno di tempo anche in Italia dalla scuola di Toniolo, sotto l’impulso della Rerum Novarum. Ma ecco venire la guerra a rendere vane tutte le cautele dei politici realisti. Ogni rivoluzione è romanticismo in atto. Il romanticismo sociale della rivoluzione tedesca del 1918 fu il «consiglio di fabbrica». Si trattava veramente di un postulato della rivoluzione mondiale: ma il soviet, trasferito in Germania e denicotinizzato dai partiti antibolscevichi, apparve subito come una forma accettabile della vecchia idea della rappresentanza professionale. Il Centro nell’ultimo decennio prebellico aveva spinto avanti parecchie volte, senza arrivare mai alla méta, un suo progetto di camere di lavoro, ossia di rappresentanze paritetiche degl’interessi professionali. In fondo bastava ora adattare quel progetto alle esigenze dell’ora. Per questo, i deputati cattolici non trovarono difficoltà a votare l’art. 165 della costituzione di Weimar, il quale prevedeva «consigli di operai locali, distrettuali e centrali, che, assieme a parallele rappresentanze dei datori di lavoro costituiranno il consiglio economico del luogo, del distretto e dello Stato». Non staremo qui a descrivere i vari tentativi fatti nel dopoguerra per applicare quella che fu la «legge dei consigli», votata nel 1920 . Le vicende politiche ed internazionali e sovratutto la sopravvenuta catastrofe economica spiegano a sufficienza perché la nuova organizzazione economico-sociale, preconizzata dalla costituzione di Weimar, rimanesse lettera morta. Ci fu anche una ragione pratica, di carattere interno. I sindacati, superato il pericolo spartachista, avevano riprese le redini del movimento operaio e non volevano ora abbandonarle, per tentare nuove forme di rappresentanza. I sindacati cristiani, anzitutto, con Stegerwald alla testa, si applicarono a salvare dalla catastrofe la legislazione sociale ossia, principalmente, le assicurazioni e le pensioni operaie. D’altro canto, la legge sugli scioperi che in ultima istanza dava al ministro del Lavoro la possibilità d’imporre il suo lodo pareva bastante ad evitare le crisi più gravi. Quando uscì l’enciclica Quadragesimo Anno quei cattolici tedeschi, che si preoccupavano sovrattutto di non finire nello statalismo universale, verso il quale già le contingenze della crisi economica spingono ed incalzano, citarono volentieri a loro sostegno i passi dell’enciclica, nei quali Pio XI raccomanda che l’autorità suprema dello Stato rimetta ad associazioni minori ed inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento… ed allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei sola spettano, perché essa sola può compierle; di direzione cioè, di vigilanza, di incitamento, di repressione a seconda dei casi e delle necessità! D’altro canto però l’enciclica rilevava anche i vantaggi d’un ordinamento corporativo di diritto pubblico; onde trassero argomento d’insistere quei cattolici che patrocinavano un corporativismo integrale. La discussione non potè rimanere semplicemente teorica, perché i progressi del partito nazionalsocialista e l’esempio italiano imposero di nuovo il problema all’attenzione di tutti. Pensiamo qui in prima linea alle conclusioni in materia corporativa votate nel congresso dei dirigenti delle associazioni Kolping in Fulda (febbraio 1932), al congresso del Volksverein in Essen (maggio 1932), alla settimana sociale di München-Gladbach ed al congresso cattolico in Essen della scorsa estate. Nei verbali di quelle riunioni testè pubblicati, il problema corporativo appare in prima linea . Ma a noi basterà qui ricordare la relazione del prof. Gundlach , tenuta nel congresso generale di Essen da questo illustre gesuita che è considerato, uno dei primi Maestri della scuola sociale cattolica. Essa comincia col respingere il socialismo di Stato, invocato in Germania non soltanto «da partiti che si dicono socialisti, ma anche da circoli orientati militarmente, la cui caratteristica fu sempre di pensare secondo il socialismo di Stato (staatssozialistisch), tanto in questioni economiche che sociali». «Il socialismo di Stato significa che le autorità centrali governino tutto centralisticamente e, sul terreno economico, significa l’economia razionale e sistematica secondo un piano prestabilito». Di fronte a tali tendenze il Gundlach si richiama alle riaffermazioni della Quadragesimo Anno per le quali il significato politico della direttiva corporativista del S. Padre è – di contro al liberalismo – che conviene sempre regolare lo sviluppo della vita sociale ed economica con sociali istituzioni; ma anche – contro il socialismo di Stato – che questa funzione regolativa spetta in prima linea ai corpi autonomi della società e non alla punta della piramide (zentralistische Spitze), che è lo Stato. E qui il relatore spiega che questi corpi o «unità sociali» sono precisamente le corporazioni ossia le associazioni della professione, le quali, sulla scorta dell’enciclica, egli paragona per la loro origine e natura alle comunità municipali. Si tratterebbe secondo il Gundlach di camere economiche regionali e centrali, costruite secondo le professioni e sulla base di esse, le quali sarebbero di diritto pubblico ma lascerebbero completamente impregiudicate le associazioni di carattere privato. Questi organi dell’autonomia sociale (Organe der gesellschaftlichen Selbstverwaltung) dovrebbero regolare i contratti collettivi ed assumere le assicurazioni sociali e le provvidenze delle singole professioni. Inoltre, specie le camere regionali dovrebbero occuparsi anche di promuovere e regolare la produzione, salvo sempre il diritto d’iniziativa e di gestione del singolo. I consigli corporativi centrali dovrebbero intervenire anche per premunire di norme e previdenze il finanziamento e la raccolta del capitale. Il Gundlach nota che per la Germania il decentramento delle assicurazioni, affidandolo a camere corporative regionali, potrebb’essere una soluzione dei presenti guai. È questo del resto un ritornare al vecchio punto di vista sostenuto dal Centro, al tempo della creazione delle assicurazioni stesse. Qui il Gundlach combatte l’opinione che la nuova costruzione corporativa possa danneggiare il sindacato. «Anche se certe tendenze fuori del campo cattolico hanno un carattere social-reazionario, ciò non è il caso della Rerum Novarum, la quale nella sua prima parte accentua con tanta forza l’idea del sindacato e della maggiore unità della classe operaia». Le funzioni di diritto pubblico circa, ad esempio, i contratti collettivi, verranno riservate alle corporazioni, ma i liberi sindacati avranno sempre possibilità d’influire sull’elezione dei delegati corporativi. «Nella nostra odierna burocrazia, afferma il Gundlach, s’incontra una diffidenza evidente contro l’autonomia dei gruppi sociali e non si può negare che gli esperimenti avuti finora hanno alimentata tale sfiducia. Ma da ciò non si può mai trarre la conclusione di considerare la società alla stregua di Hegel, come una massa informe, che avrà il suo ordine e la sua forma solo dallo Stato. Al contrario: secondo il concetto del cattolicismo e del diritto naturale la società possiede da per sé le sue unità ordinative naturali e dev’essere compito di una politica cattolica di renderle capaci di una vitalità efficace. Questo è quello che dal punto di vista della Quadragesimo Anno consideriamo come sana democrazia…». Tali concetti direttivi, esposti dal Gundlach al congresso di Essen, vennero di questi giorni riaffermati dall’Akademiker Verband nel congresso sociologico tenuto a Monaco, durante il quale Mons. Schiela, parlando sulla «teoria e pratica del movimento corporativo», sostenne che questo debba svilupparsi organicamente dal basso verso l’alto, usufruendo degli elementi costitutivi che esistono già nel «consiglio di esercizio», «nel consiglio economico dell’impero» e nei «consorzi professionali» . Più importante fu l’affermazione dei sindacati cristiani nella conferenza tenuta ad Essen il 17 marzo. Qui una commissione, a ciò designata nel 1931, con alla testa il professor Brauer , proclamò le «direttive dei sindacati cristiani sull’ordinamento corporativo». Esse dicono letteralmente: «La corporazione presuppone la libera comunanza di libere personalità, per cui ad essa si può e si deve creare, con l’autorità dello Stato, la possibilità di esistere e di svilupparsi; ma per il resto dev’essere formazione libera di persone libere». Di fronte alle corporazioni, dunque, rappresentanze autonome di ogni ramo di produzione, lo Stato si riserverebbe soltanto la suprema decisione come ultima ed inappellabile istanza. Resterebbe ora da precisare come in questo momento sia considerato il problema del corporativismo dal punto di vista politico. Ma la recente campagna elettorale, imperniatasi tutta sulla questione costituzionale, non ebbe che scarsi accenni sull’argomento che qui c’interessa. Nel discorso programmatico di Mons. Kaas si afferma che «alla società e perciò anche alla società economica deve conservarsi la sua vita propria» e s’invocano perciò istituzioni corporative «responsabili innanzi alla classe e a tutto il popolo». Altre affermazioni simili nei discorsi di Stegerwald e Brüning ci permettono di concludere che anche gli uomini del Centro pensano le corporazioni come enti di carattere autonomo o per lo meno autarchico, rimanendo riservata all’autorità statale l’alta sorveglianza ed ingerenza, come di fronte ai comuni ed agli enti similari. Questa, allo stato degli atti, è la direttiva: quale sarà l’azione pratica, cioè il contributo che la minoranza cattolica potrà dare o darà a quella riorganizzazione corporativa o a quella «Ständeverfassung» che è nel programma dei partiti di governo? Si troverà nella realtà dell’esperimento economico-sociale il punto d’inserzione che permette alla scuola cattolico-sociale tedesca, maestra fin da Guglielmo Ketteler a tutte le scuole sociali del mondo cristiano, d’influire colle proprie direttive sull’opera di palingenesi sociale che si annunzia dalla Germania? È ciò ch’è lecito augurare, ma difficile a prevedere. I I tempi e gli uomini che prepararono la Rerum Novarum, Milano, Soc. Ed. «Vita e Pensiero», 1931, L. 4.50.
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La religione tedesca Nell’aula magna dell’università di Berlino tenne in novembre una conferenza il professore Bergmann di Lipsia sul tema Fede nordico-germanica o Cristianesimo. La conferenza era indetta dal «Movimento della fede tedesca» (Deutsche Glaubensbewegung) , al quale in questi ultimi tempi hanno aderito: la «Federazione della fede tedesca», la «Comunità nordico-religiosa», la lega «Aquila e Falco» e infine la «Federazione delle comunità libero-religiose». Secondo «l’Agenzia evangelica» si può calcolare che gli attuali aderenti del movimento arrivino a 100.000. Ne sta a capo il prof. Hauer di Tubinga, venuto dal Protestantesimo ufficiale, con un consiglio consultivo composto del conte Reventlow , noto politico nazionalista, dei professori Günther , Von Leers , Wirth , tutti docenti di etnologia, teoria della razza e preistoria germanica. Nella conferenza il prof. Bergmann annunciò di aver ottenuta l’assicurazione che il movimento della «religione tedesca» verrebbe riconosciuto come «corporazione di diritto pubblico» ossia, come si direbbe in Italia, come ente morale, ottenendo così, in base alla legge fondamentale di Weimar , gli stessi diritti delle due confessioni storiche, la cattolica e l’evangelica, per quanto riguarda l’organizzazione, la scuola, ecc. Il «Foglio diocesano cattolico» di Berlino (Katholisches Kirchenblatt) crede che il numero degli aderenti sia molto maggiore di quello che comunemente si ritenga e il Reichsbote protestante, che manifesta la sua netta opposizione a questa nuova dottrina, è anch’esso del parere che il movimento abbia serie radici. Siccome il prof. Bergmann in questa ed in altre manifestazioni simili si crede autorizzato a parlare in nome dei nazional-socialisti e d’altro canto è noto che gli attuali governanti si sono dichiarati in senso positivo per il Cristianesimo, è d’attendersi fra breve una chiarificazione da parte dei circoli ufficiali. Vediamo intanto, seguendo il riassunto della conferenza del prof. Bergmann, che cosa sia la «Fede nordico-germanica». Il punto fondamentale di questa religione – è il conferenziere che parla – consiste nel fatto che il concetto d’Iddio si è sviluppato dall’idea dell’umanità. Egli ha una fisionomia antropomorfa, e questa tendenza si ritrova già nella religione di Odino e torna nella mistica medioevale tedesca. L’ultima fase storica dell’evoluzione di questa idea di Dio attraverso i tempi è l’idealismo tedesco, la concezione cioè di Kant, Goethe, Fichte, Schiller. È insomma la più alta fede umanitaria. Con ciò la fede nordico-germanica possiede la cosa più bella che possa avere una religione, cioè la tradizione. Oggi col terzo regno , col rinascimento nordico risorge anche l’antichità nordico-germanica religiosa. Confrontata col Cristianesimo, la nuova religione si distingue anzitutto da esso perché ripudia il «dogmatismo», che è la caratteristica del Cristianesimo. Il dogmatismo (secondo il Bergmann) consiste nell’esigere una fede la quale non può venire provata con la logica umana. Il concetto della rivelazione cristiana non è sostenibile. Per un’anima nordica la rivelazione dell’aldilà che colpisce l’uomo passivamente, è intollerabile. Il Cristianesimo, assicura sempre il conferenziere, vecchio ormai di due millenni, non corrisponde più al pensiero moderno. L’uomo di oggi ha bisogno di una religione naturale, di una religione fattiva, di una religione di cultura e di lavoro, in poche parole di una religione realizzatrice. A questo punto il professore Bergmann accusa il Cristianesimo di essere per principio pacifista e internazionale ed afferma che nell’epoca del nazionalismo non c’è più posto per una religione universale. Prossimamente verrà creata una «teologia tedesca» (Deutschtheologie), la quale avrà i suoi maestri nelle università tedesche. Questa teologia non ammette un Dio nell’aldilà. Iddio è nel mondo e nell’uomo. Iddio e il mondo sono una stessa cosa. È sovratutto il concetto di un Dio, più perfetto del mondo e dell’uomo, che è insopportabile all’anima nordica. La sede del divino nel mondo è l’uomo. Il concetto della decadenza in seguito al peccato originale, della necessità della redenzione e della malvagità del mondo appartiene alla categoria dei sotto-valori. Il mondo nordico, l’uomo nordico sono puri e nobili; le loro debolezze morali risalgono sovra tutto alla falsa educazione. La psicologia scientifica ha dimostrato che nell’uomo lo spirito e il corpo sono legati l’uno all’altro, anzi sono la stessa cosa. Anche la scienza etnologica col suo concetto di razza, venuto in onore nel terzo Reich, accentua l’unità del corpo e dell’anima. Con ciò il concetto cristiano dell’anima non corrisponde ai tempi e non è mai stato così anacronistico come nel terzo regno. Respingere bisogna anche il concetto cristiano del peccato. Il più grave peccato che si possa commettere è di credere nel peccato. Insopportabile per l’uomo nordico è anche il pensiero del perdono del peccato. L’etica del tedesco eroico non sopporta il peccato. L’uomo combatte nel senso kantiano la lotta gigantesca del dovere. Il prof. Bergmann si rivolse in modo particolare contro il concetto della salvezza. Secondo lui il concetto cristiano della salvezza, la volontà di salvare la propria anima, non è concetto altruista ma individualista. «Noi nazional-socialisti – così egli disse – che condanniamo l’individualismo, abbiamo molto da obiettare alla dottrina della salvezza. Tu non sei nulla, il tuo popolo è tutto. Di fronte a ciò il concetto di una salute personale dell’anima non può sussistere. Perciò l’etica nazionalsocialista e l’etica cristiana sono inconciliabili!» Del pari il prof. Bergmann respinse l’idea della grazia. L’uomo deve essere signore del divino in se stesso e non servo. Concludendo Bergmann ritornò al pensiero fondamentale: «Un popolo, un Reich, una chiesa. La croce uncinata non è semplicemente un simbolo politico ma sovratutto un simbolo di fede». Contro questo movimento sono già in armi i «cristiani tedeschi» e il vescovo di Berlino Hossenfelder lo ha condannato, definendolo «rinato paganesimo». Ma anche i «cristiani tedeschi», per conto loro, creano alla Chiesa evangelica dei seri imbarazzi. Eccone una prova. Neo-marcionismo luterano Il 13 novembre i «cristiani tedeschi», i quali sono, come è noto, l’organizzazione ecclesiastica hitleriana, tennero un’adunanza assai numerosa nel palazzo dello sporta Berlino . Parlarono in essa diversi oratori: primi fra tutti il pastore e assessore agli studi dottore Krause , presidente dell’organizzazione locale dei «Deutsche Christen». Ufficialmente si pubblicò soltanto l’ordine del giorno votato alla fine dell’adunanza fra grandi applausi. Esso dice: I. Come combattenti nazional-socialisti non siamo abituati ad interrompere con una pace marcia la lotta ingaggiata per una grande idea. La campagna politico ecclesiastica può dirsi per noi terminata, soltanto quando cesserà ovunque la sfiducia che in molti luoghi sussiste ancora tra il clero e le comunità, sfiducia nata per la resistenza dichiarata o subdola della maggior parte dei parroci che non ci comprendono o sono ostili. Pace duratura si può qui ristabilire soltanto col trasferire o col sospendere tutti i parroci che non vogliono o non sanno collaborare al rinnovamento religioso del nostro popolo e al compimento della riforma tedesca secondo lo spirito del nazionalsocialismo. II. Noi non ci lasciamo imporre dei capi che internamente dobbiamo respingere, perché non ci fidiamo né del loro socialismo nazionale né della loro fede tedesca. Sul terreno ecclesiastico possiamo accettare il principio autoritario (Fuehrerprinzip) solo riguardo all’ordine esterno. III. Noi attendiamo dalla nostra Chiesa regionale che essa applichi al più presto e integralmente il paragrafo ariano, in base alla legge ecclesiastica deliberata dal sinodo generale e che essa tolga dai posti di fiducia tutti i cristiani evangelici di sangue straniero… Quale fosse poi il tenore dei discorsi si rileva dal seguente comunicato inviato alla stampa dal «Reichsbischof Müller»: «Nell’assemblea della sezione berlinese dei “cristiani tedeschi” il capo di tale sezione tenne un discorso e fece passare una risoluzione la quale ha provocato a buon diritto in moltissimi aderenti della nostra Chiesa la più profonda inquietudine ed agitazione… Io parlo qui come il capo della Chiesa , responsabile, innanzi a Dio, di mantenere la purezza della confessione e reagisco agli attacchi diretti contro l’essenza della nostra Chiesa evangelica. Nel discorso in un modo estremamente demagogico si è parlato contro l’Antico Testamento e si è persino sottoposto ad una critica ecclesiasticamente inammissibile il Testamento Nuovo. Ciò non significa altro che l’abolizione della Bibbia, quale unica e irremovibile base della Chiesa. Si sono inoltre propugnate delle idee che equivalgono a respingere la dottrina della riforma circa la giustificazione colla sola fede e mediante le quali viene risuscitata dai giorni già remoti del liberalismo la figura di un Gesù razionalista. Si assicura anche, ed io lo posso appena credere possibile, che si sia rifiutato il Crocifisso. A tal proposito io dichiaro: queste idee e questi postulati non rappresentano nient’altro che un attacco intollerabile contro il Credo della Chiesa. La direzione della Chiesa tedesca respinge colla massima energia uno spirito siffatto e sono convinto che tutti i membri vivi delle nostre comunità non vorranno aver nulla di comune con un simile spirito. Io non permetterò mai che tali eresie si diffondano nella Chiesa evangelica. Invito le autorità supreme delle Chiese provinciali tedesche a comunicare ai loro ecclesiastici e presidenti delle comunità questa mia manifestazione e a ricordarsi sovratutto in occasione delle feste imminenti per l’annuale luterano del giuramento che hanno fatto nella loro ordinazione e che li obbliga a intervenire con tutta l’energia per la purezza della dottrina. Soltanto una Chiesa che predica il vero e non falsificato evangelo può servire, come a Dio piace, alla comunità nazionale del terzo regno». Questo manifesto del 14 novembre venne seguito il 18 da un’altra comunicazione di tutto il ministero ecclesiastico, organo consultivo del vescovo dell’impero, nella quale s’impegnano tutte le società ed organizzazioni ecclesiastiche a richiedere espressamente dai loro membri la professione di fede nella Sacra Scrittura. Il dottor Krause è stato sospeso dalle funzioni ecclesiastiche; e del paragrafo ariano (antisemita) si è sospesa l’esecuzione. Peraltro il dottor Krause ha dalla sua Lutero: perché egli non fa che applicare il principio di libera interpretazione della Bibbia agl’insegnamenti rabbiosamente antigiudaici del Riformatore.
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Dal 1870 al termine del secolo XIX – Il rifiorire delle associazioni cristiane in Italia e all’estero. Tre nomi: Vogelsang, Hitze, La Tour du Pin Il periodo romantico del corporativismo moderno comincia dopo il 1870 e si svolge fino all’ultimo decennio del secolo XIX . Già prima negli scrittori più illustri della Ristaurazione non manca il rimpianto dei vecchi organismi economici, distrutti dalla rivoluzione francese. Ma quello che prima era potuto sembrare inutile nostalgia reazionaria diventa problema di attualità, quando, sotto l’incalzare dell’organizzazione operaia socialista, si affaccia all’Europa industrializzata la questione sociale. Allora gli elementi conservatori che non accettano la situazione liberale, ma respingono del pari il collettivismo, pensano subito alla corporazione. Nella Lettre publique aux ouvriers del 1865 il pretendente di Francia, conte di Chambord , dichiara che la «costituzione volontaria e regolata delle corporazioni libere diverrà uno degli elementi più potenti dell’ordine e dell’armonia sociale; e che le corporazioni potranno diventare parte costitutiva dei comuni e base del suffragio politico». Ketteler nel 1864 di fronte al dominio liberale e al movimento socialista di Lassalle propugna la terza soluzione: il corporativismo. Il libro del celebre vescovo di Magonza venne tradotto in italiano già nel 1870 ; e nel 1871 era sorta a Roma sotto gli auspici di Pio IX, che nel 1852 aveva già ricostituite le «Università d’arti e mestieri», preservando intatta però la libertà di commercio e d’industria, la «Primaria associazione artistica ed operaia di carità reciproca» , la quale aggiungendo al mutuo soccorso, alla cassa di risparmio, all’istituto per le case economiche e le sue magnifiche scuole di arti e mestieri, costituiva e costituisce tutt’oggi il primo esempio delle rinnovate corporazioni cristiane. La «Primaria» figliò altre società consimili in Italia e fra gl’italiani all’estero (verso il 1880 se ne contano una sessantina) e prese contatto nel 1875 coll’«Opera dei circoli cattolici» francesi, sorta anch’essa poco dopo il 1870, per iniziativa specialmente di due ufficiali francesi, già prigionieri in Germania, ove si erano nutriti delle idee sociali di Ketteler: il conte Alberto De Mun e il marchese La Tour du Pin. Ecco come il conte Ivert, delegato dalla corporazione romana al congresso dei circoli operai cattolici di Reims (1875), riferisce in seno al consiglio della Primaria: «Tutti rimasero sorpresi nel sentire che a Roma si è realizzato in parte il progetto che si propongono i cattolici francesi: la restaurazione delle associazioni cattoliche e dei vari corpi di stato e la riunione di tutte queste associazioni in un sol tutto». Il corps d’état, la corporazione, era dunque già pensata come elemento costitutivo di un nuovo regime sociale e politico. Ma non anticipiamo. Fino al 1873 il movimento cattolico operaio francese, iniziato dalla «opera dei circoli» si limita all’artigianato e a qualche piccola industria agricola. È appena nell’agosto di quell’anno che De Mun e La Tour du Pin stringono amicizia con un autentico grosso industriale della regione di Reims, Leone Harmel, il quale, a poco a poco, perfezionando l’opera iniziata da suo padre vent’anni prima, aveva costituito nel suo stabilimento di filatura a Val-du-Bois, una «Corporation chrétienne». Eccone la definizione, come si legge nel «Manuel d’une Corporation chrétienne» pubblicato nel 1876 dallo stesso Harmel: «La corporation est une société religieuse et économique formée par les chefs de familles industrielles (patrons et ouvriers d’un même corps d’état ou de professions analogues)». Si trattava in fondo di un consiglio corporativo che aveva l’alta direzione di numerose altre istituzioni cooperative, mutue, educative e religiose, ma non conosceva ancora il contratto collettivo, né presumeva di regolare la produzione: si fondava sovratutto sull’eccezionale spirito di apostolato della famiglia Harmel. E tuttavia Val-du-Bois splende come un faro di nuova luce nel mondo operaio cristiano. Esso irradia l’ideale della pace sociale, si eleva come un monito ed una speranza, solleva entusiasmi e rievoca, abbellendo colla fantasia, le arti medioevali, le gilde, le Imungen, le Zünfte. Questi organismi risorti a nuova vita, adattati al nuovo ambiente supereranno la lotta di classe e costituiranno la soluzione media fra la libertà economica illimitata e il socialismo. Il tempo ci manca per descrivere la fervida corrente d’idee, o slancio fattivo prodotto da questo corporativismo romantico e ricostruttore. Il 6 giugno 1883 esce a Parigi il primo numero de La Corporation, organe des associations professionnelles , che celebra lo sviluppo del movimento diffusosi per tutta la Francia. De Mun tenta alla Camera di ottenere una legge, che assicuri lo speciale privilegio di possedere al sindacato misto, ossia alla Corporazione. La proposta viene respinta (1884), ma i corporativisti francesi non si scoraggiano, come non si scoraggia a Roma il cardinal Jacobini , quando la giuria dell’esposizione di Torino (1884) nega il premio alla società Primaria, per il suo carattere confessionale… «Essi ci condannano, esclamava Jacobini, allora assistente ecclesiastico della società, perchè suscitiamo in Italia le società antiche, perché evochiamo la memoria del loro spirito… E non sono state quelle antiche maestranze le gloria d’Italia? Chi non ricorda l’altezza a cui giunsero i corpi d’arte in Roma stessa, quando, elevati i tribunali delle stesse arti, i loro consoli giudicavano in Campidoglio?». Da quest’anno Leone Harmel è sempre in movimento per mettere d’accordo i «circoli operai» di Parigi (De Mun) e le società cattoliche di patronato della Francia settentrionale, dirette da Féron Vrau , e per convogliare tutte le forze e tutti gli sforzi verso Roma, dalla quale egli attende ed invoca incoraggiamenti e direttive. Si organizzano così i celebri pellegrinaggi della France du Travail che dall’85 all’89 crescono di numero, d’importanza, di splendore. In uno di questi pellegrinaggi, nel 1887 De Mun presenta al Pontefice in nome dei circoli cattolici operai un ricco e grosso volume, stampato in rosso ed oro e che porta il titolo, riesumato dalle antiche corporazioni: Registre des statuts des corporations… La prefazione ricorda che nell’udienza concessa all’opera dei circoli nel 1885 Leone XIII li aveva esortati a risuscitare «le sagge istituzioni operaie che in tempi migliori erano nate ed avevano fiorito sotto l’ispirazione della Chiesa…». La parola del Pontefice era stata ascoltata ed ora si presentavano gli statuti di un centinaio di corporazioni, sorte negli ultimi anni. Ma non si creda che queste poche associazioni fossero lanciate a sommergersi nel mondo economico liberale né ad infrangersi contro l’irruente offensiva del socialismo, come cavalieri erranti del buon tempo antico, senza un piano strategico e senza un disegno organico. C’è in quest’epoca un gruppo di cattolici che elabora tutto un piano di ricostruzione corporativa. Mentre gli organizzatori e i propagandisti costituiscono le corporazioni, gli stati maggiori dei movimenti cattolici preparano i progetti d’un regime corporativo. Tre nomi bisogna qui ricordare avanti tutti gli altri: nel mondo germanico Carlo Vogelsang e Francesco Hitze, in Francia il marchese La Tour du Pin. È difficile stabilire il contributo particolare del genio latino e del genio tedesco nell’elaborazione della dottrina corporativa. Fu una vera collaborazione europea. Il barone Vogelsang era un protestante del Mecklenburgo, convertitosi al cattolicismo nel 1850 e trasferitosi prima a Monaco e poi a Vienna, ove assunse nel 1875 la direzione del Vaterland, organo dei cattolici federalisti e di quel gruppo di aristocratici che vennero battezzati i «feudali sociali». In questo giornale ed in una sua rivista mensile comparvero fino al 1890, anno della sua morte, una serie copiosa di articoli, saggi e studi, nei quali egli svolse le sue dottrine contro il sistema capitalista e per la ricostruzione corporativa. «L’utopia del Vogelsang, scriveva nel 1890 la socialista Arbeiterzeitung, tende a mettere in luogo dell’odierna divisione orizzontale delle classi, la divisione verticale della società in professioni, cosicché ogni professione unisca datori di lavoro e operai in corpi solidali chiamati corporazioni, i cui interessi comuni vengano espressi all’esterno in comune, ma i cui interessi contrastanti devono venir risolti nell’interno della corporazione. In tal modo si aboliranno le classi e la lotta di classe». In Austria la sottostruttura feudale non era ancora scomparsa e poteva sembrare facile di raschiar via la vernice liberale-costituzionale per ritornare alla «rappresentanza degl’interessi» negli antichi stati o Stände. Dobbiamo rinunciare a citare qui squarci del Vogelsang, giornalista e pensatore geniale: basti dire che le sue pubblicazioni, benché frammentarie, furono una miniera inesauribile sfruttata poi da numerosi epigoni. Oggi stesso nella terminologia corporativa degli hitleriani si sente l’eco inconsapevole delle dottrine del Vogelsang. Scolaro diretto di lui è il sacerdote Francesco Hitze, che doveva divenire più tardi l’ispiratore della legislazione sociale in Germania, ma che nel 1881, dopo essere stato cappellano del Camposanto teutonico a Roma, pubblicò in Germania un libro, allora molto notato, sul «capitale e lavoro e la riorganizzazione della società» . Hitze invoca in questo libro il pubblico controllo della produzione e della distribuzione della ricchezza, attuato mediante le corporazioni (Zünfte), adattate ai tempi nuovi. Propone di dividere la società germanica in sette categorie o stati (Stände), le quali eleggerebbero delle camere distrettuali e queste alla volta loro un senato o «consiglio economico», che sostituirebbe in tutto e per tutto il parlamento. Ma la più completa elaborazione del corporativismo va ricercata negli scritti che il marchese La Tour du Pin venne pubblicando nei vari organi dell’«opera dei circoli operai cattolici» di Parigi e più particolarmente nella rivista Association Catholique, a partire dal 1882 . Il gentiluomo francese dal 1879 al 1881 aveva dimorato a Vienna come attaché militare, stringendo qui amicizia col Vogelsang, e coi «feudali sociali». Uno di costoro, il conte Blome e un altro del gruppo di Parigi, il conte Breda, faranno poi la spola da Vienna a Parigi e viceversa, organizzando spesso dei convegni ristretti a Ferney, ove dimorava allora in esilio Mons. Mermillod e preparano così l’Unione di Friburgo, cenacolo internazionale di studio, che dal 1884 in qua passerà al vaglio di un esame comune le dottrine e le proposte sorte e svolte a Vienna, a Parigi e a Roma. La Tour du Pin comincia l’elaborazione del programma corporativo nel 1882 in seno all’«opera dei circoli cattolici operai», la continua nell’Association catholique dal 1883 al 1906, e quindi per ragioni politiche che momentaneamente non c’interessano, la conclude nell’organo monarchico Réveil français e nell’Action française di Maurras. Seguire l’interessante sviluppo dell’idea non può essere compito di quest’articolo. Accontentiamoci di darne i risultati finali. Per il nostro autore la corporazione deve possedere anzitutto un patrimonio indivisibile ed inalienabile, costituito dai contributi padronali ed operai, onde assicurare le pensioni d’invalidità e mantenere le scuole professionali. Essa avrà poi una propria giurisdizione, pubblicherà i suoi regolamenti con forza di legge e giudicherà dei rapporti economici fra i suoi membri; concluderà i contratti collettivi e comporrà i conflitti. La corporazione avrà inoltre il compito di regolare la produzione, aumentandola o diminuendola a seconda del bisogno e sarà autorizzata a fissare il giusto prezzo, come facevano in antico i capi d’arte, permettendo in avvenire la libera concorrenza non per quanto riguarda il prezzo, ma solo per quanto si attiene alla qualità dei prodotti. Le corporazioni-base eleggeranno delle Camere corporative distrettuali e queste alla loro volta nomineranno un «Grand Conseil des corporations», un Senato cioè corporativo, il quale sostituirà il presente parlamento. Lo sostituirà del tutto o in parte? Personalmente La Tour du Pin invoca il ritorno di una forte dinastia nazionale che regni e governi col concorso del Gran Consiglio corporativo, del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti e dell’Alta Corte di giustizia. Egli inclina per questa soluzione radicale perchè suppone che al centro dello Stato stia una forte dinastia, la quale da un lato proteggerà e regolerà l’autonomia amministrativa, mentre a loro volta il Consiglio di Stato, la Corte dei Conti, l’Alta Corte di giustizia formeranno possenti oligarchie atte a frenare il potere monarchico: le autonomie delle corporazioni basilari, quelle municipali e provinciali gli paiono sufficienti «baluardi delle pubbliche libertà». Volendo però tener conto de’ suoi amici che pur essendo corporativisti, non erano tutti monarchici come lui, nell’Association catholique del 1906 egli svolge anche la proposta d’un sistema bicamerale: una Camera Bassa eletta dai contribuenti, che vota le leggi finanziarie, ed un Senato corporativo. Vedremo un’altra volta come la scuola cattolica nel suo ulteriore sviluppo abbia preferita quest’ultima soluzione, come quella che evitava di metterla in conflitto col suffragio universale: né diverso dovrebb’essere l’esperimento che preparano i cristiano-sociali viennesi.
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Quando penso alla politica internazionale degli ultimi cinquant’anni prima della guerra e la confronto con quella dei nostri giorni mi trovo ottimista di fronte all’avvenire del genere umano e sento il dovere di giudicare con indulgenza la generazione che dirige ora le sorti politiche del mondo. Oggi la fatica è immensamente cresciuta, la zona di operazione dei diplomatici e degli statisti si è approfondita all’interno e dilatata all’esterno, in misura appena prevedibile. Che erano mai i periodici convegni fra i ministri della «triplice» o della «duplice» in confronto del rude ed estenuante lavoro che, tratto tratto, deve ora compiersi a Losanna, a Ginevra, a Roma, o a Londra? Che cosa fu il congresso di Berlino in confronto della conferenza del disarmo ? Ai tempi della mia gioventù non era difficile imbattersi in uomini di stato che erano eccellenti manovratori parlamentari, abili conquistatori di masse o esperti burocratici di carriera, ma che conoscevano assai superficialmente i problemi sociali o che nelle questioni finanziarie dovevano affidarsi del tutto ai loro colleghi del Tesoro! Allora un politico o un diplomatico era grandissimo, se riusciva ad orientarsi e a filar dritto nelle acque europee. Oggi bisogna attraversare gli oceani! La guerra e il dinamismo della nostra epoca hanno moltiplicato, complicato e universalizzato i problemi. Oggi, inoltre, almeno in buona parte, si manovra in campo aperto. Tutto viene immediatamente discusso nei parlamenti o nella stampa o nelle conferenze internazionali. Qual meraviglia che il lettore di giornali stenti ad orientarsi e perda talvolta ogni fiducia nelle causa della collaborazione fra i popoli? L’Illustrazione Vaticana ha pensato quindi che una brevissima rassegna quindicinale, in cui si tenti di tracciare alcune linee semplici e oggettivamente esatte, non possa riuscire sgradita a lettori che, al di sopra di ogni tattica quotidiana, di uomini e di partiti, rivolgano il loro interesse alle grandi linee strategiche, sulle quali si muove l’attività politicasociale delle nazioni. Abbiamo assistito ad una lunga polemica ufficiale tra l’Europa e l’America: ma chi oserebbe affermare d’aver afferrato, dietro i cortinaggi delle note diplomatiche, la realtà psicologica, il vero stato d’animo dei paesi debitori da una parte e dei creditori dall’altra? Per semplificare, parliamo soltanto dei due antagonisti principali. Ai lettori europei che dall’epoca wilsoniana si fossero fatta un’idea sbagliata della costituzione americana, bisognerà anzitutto ricordare che negli Stati Uniti chi decide in tali questioni è il suffragio popolare, ossia il Congresso e, in misura speciale, il Senato elettivo. I danari vennero prestati all’Europa da Wilson , quando in causa della guerra il presidente aveva ottenuto poteri quasi dittatoriali, ma ora in tempo di pace chi decide è l’uomo della strada. E l’uomo della strada in America ricorda che il «prestito della libertà» venne lanciato sul mercato americano in cartelle da 100 dollari l’una e venne sottoscritto dalle masse e precisamente da 61 milioni d’americani. Il prestito è garantito dallo Stato, ma si comprende troppo bene che se i creditori europei non pagano, dovrà pagare la repubblica, riversando poi l’onere sulle spalle dei cittadini, mediante nuove tasse o nuovi prestiti interni. Si è calcolato che ciascun americano abbia prestato all’Europa – attraverso il suo governo – 1800 franchi. Come persuadere oggi l’agricoltore del Kansas che gli europei non possano rifondere i 7200 franchi che devono a lui, a sua moglie, e ai suoi tre figlioli? Non ha sentito dire, se pur non l’ha visto coi propri occhi, che nel dopoguerra l’Europa ha fatto un gran balzo in avanti in tutti i campi, ingrossando le sue metropoli, allargando i suoi impianti industriali, solcando le isole e il continente di lussuose autostrade, elevando i suoi palazzi e le sue torri fino a far concorrenza ai patri grattacieli, creando stadi e piazze continentali, impiegando in tutto ciò, oltre i propri, anche i danari degli speculatori americani che credevano di fare un ottimo investimento? Ma c’è di più: come tutti gli oratori, compreso Hoover , non hanno tralasciato di ricordargli anche durante la campagna elettorale, non stanno gli europei montando una nuova macchina di guerra, buttando i loro risparmi o le speranze di farne in nuovi e più gravosi armamenti? Ed ora si passi all’altra sponda. Anche in Francia chi decide è l’uomo della strada; lo si è visto nelle discussioni e nella decisione della Camera francese. Come dice l’uomo della strada in Francia, noi abbiamo finito tre anni fa coll’accettare un piano di pagamenti, escogitato dal vostro Young , piano che ci doveva dare annualmente – detratti i pagamenti agli ex-alleati – un saldo netto annuo di 20 milioni di sterline (all’Inghilterra e all’Italia spettava circa la quarta parte di tale importo per ciascuna), e voi l’anno scorso promovendo la moratoria alla Germania e poi quest’anno spingendoci alla liquidazione di Losanna, ci avete fatto perdere non solo il saldo netto, ma anche il titolo di credito verso la Germania? Rimarremo dunque noi soli a rifondere agli Stati Uniti il nostro debito di 100 miliardi di franchi; senza dire che un mancato accordo generale ci lascerà in groppa anche gli 80 miliardi che dobbiamo all’Inghilterra? Il vostro presidente, conclude il paysan rivolto al farmer, è intervenuto in favore della Germania; sta bene, ma se non paga la Germania, neanche la Francia deve pagare! Sappiamo bene che voi americani replicate rinfacciandoci i nostri armamenti! Ma chi ci ha costretto a provvedere alla nostra sicurezza, chi ha disertato la causa dell’organizzazione della pace, se non gli Stati Uniti, quando rinnegando Wilson, si rifiutarono di approvare il trattato di Versailles e di partecipare alla Società delle nazioni? Si era allora – sotto l’impulso wilsoniano – elaborato il «patto della Società delle nazioni» «allo scopo di promuovere la cooperazione internazionale, realizzare la pace e la sicurezza degli Stati»: e questo patto all’art. 16 fissava l’impegno che prendeva ogni Stato societario, qualora un membro della società commettesse un atto di guerra. L’impegno era d’interrompere immediatamente ogni rapporto commerciale e finanziario coll’aggressore e al capoverso 2 si parlava anche, per quanto in forma meno precisa, di stabilire un contributo alle forze armate destinate «a proteggere i patti sociali». Ebbene, quando venne al potere il partito repubblicano , gli Stati Uniti si rifiutarono di aderire al patto e con ciò di contribuire per parte loro alla sicurezza degli stati. Le conseguenze di questo ritiro furono gravi, perché, senza l’America, anche l’Inghilterra, che pure firmò il patto, tentò poi di svincolarsi dagli obblighi dell’articolo 16. Temeva infatti il Regno Unito che un’eventuale sua partecipazione ad un blocco del paese aggressore, com’è previsto dal patto, potesse metterlo in conflitto cogli Stati Uniti, i quali, esenti com’erano da ogni atto di solidarietà, potevano sempre richiamarsi al loro famoso principio della «libertà dei mari». Ed ecco che Balfour con una sua risoluzione del 1921 cercò di togliere all’art. 16 il suo carattere automatico e nel 1924 e ’25 due altri governi inglesi seguiti da altri Stati – respinsero i progetti francesi i quali cercavano d’inchiodare i membri della società ad una immediata e fattiva esecuzione dell’articolo 16. Più tardi è venuto poi il caso del Giappone a confermare che il meccanismo della sicurezza manca ancora di parecchi ingranaggi . Ed eccoci negli ultimi anni alla ricerca di una nuova formulazione di quest’impegno internazionale contro l’aggressore, impegno obbligatorio ed immediatamente esecutivo, nel quale la Francia potesse trovare sicurezza. È questo il succo del progetto che la Francia oppose in estate alla proposta Hoover per ridurre di un terzo gli armamenti. Nel piano Boncour anzi la Francia è venuta incontro all’assenteismo dell’America, proponendo che un impegno sul tipo dell’art. 16, il quale arrivasse fino al concorso delle forze armate, venisse richiesto solo agl’interessati più vicini, all’Europa, ad esempio, e accontentandosi, invece, per quanto riguarda gli Stati Uniti, di una collaborazione più limitata. Ma qui la questione si complica ancora. Quest’impegno di solidarietà fattiva ed armata contro l’aggressore dovrà dunque servire per rendere eterna l’attuale sistemazione politica d’Europa e delle colonie, impedendo una revisione dei trattati? I Francesi rispondono che il patto all’art. 19 prevede già la possibilità di rivedere trattati divenuti inapplicabili. È vero, ma un altro articolo dello stesso patto dichiara che «nessun emendamento vincolerà un membro della società che dichiari di non accettarlo». Nessuna riforma quindi senza l’unanimità, cioè senza il consenso di chi deve perdere o cedere dei vantaggi. È chiaro – scriveva recentemente lo stesso Bertrand de Jouvenel – che la formula della sicurezza non verrà accolta da chi aspiri alla revisione dei trattati e nemmeno da chi semplicemente creda assurdo questo tentativo di pietrificazione, prima che non si trovi modo di garantire entro la Società delle nazioni la possibilità di modificare anche i trattati per mezzo dell’arbitrato. Ecco quindi le linee fondamentali su cui vedremo muoversi anche nel 1933 la diplomazia mondiale: accordo sui debiti, riduzione degli armamenti, impegno di solidarietà effettiva (sicurezza) e nello stesso tempo, possibilità pratica di rivedere pacificamente quei trattati che venissero riconosciuti meritevoli di modificazione. È infine oramai acquisito che uno degli scopi da raggiungersi in questo sospirato accordo di sicura pace, è la parificazione di diritto e di fatto fra stati vinti e vincitori.
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Nelle settimane prossime si riaffaccia, colla riconvocazione del Reichstag, la crisi politica tedesca. Poiché essa ha tante relazioni colla situazione internazionale e suscita particolare interesse nel mondo cattolico, non dispiacerà ai lettori di trovar qui alcune linee di orientamento per comprendere la fase che si svolgerà nei prossimi mesi. A guardar da lontano, la tensione che si rivelò subito tra il Centro contro il Papen , quando questi fu elevato d’improvviso al cancellierato, poté sembrare dovuta al risentimento per il brusco modo con cui era stato licenziato Brüning o alla preoccupazione che il nuovo capo del governo, ex membro del partito ed ancora presidente della società editoriale della Germania , si proponesse di scindere la vecchia e provata organizzazione politica dei cattolici tedeschi. Ben presto però il contrasto apparve più essenziale. Il picchetto armato che a Berlino il 20 luglio 1930 si recò di ministero in ministero a licenziare colla forza i membri del gabinetto prussiano destò anche nel Centro le più gravi apprensioni e suscitò gli allarmi più giustificati . Von Papen annunziava ovunque il ritorno dello «Stato cristiano», ma i cattolici che ricordavano la tradizione politica centrista temevano piuttosto che si trattasse di un tentativo – condannato al fallimento, ma pur sempre fatale – di ricostituire un regime reazionario. Non basta la lodevole proclamazione di alcuni principi – replicava il segretario generale del Centro mons. Kaas nel suo discorso del 17 ottobre – né la buona volontà di alcuni atti di governo né il suo intervento punitivo contro gli eccessi, per rendere cristiano uno Stato o un regime. La caratteristica essenziale dello «Stato cristiano» è la giustizia, la quale deve apparire nella pratica, specie innanzi agli occhi dei più poveri, e deve muoversi lungo una linea media d’imparzialità che renda il suo a ciascuna classe e a ciascun gruppo. Il clamoroso intervento di Papen nell’arena politica tedesca ebbe però il merito di attirare su di sé tutte le opposizioni. Da parecchie elezioni oramai il popolo tedesco sembrava battersi solo intorno ad un nome: Hitler. La dittatura nazionalsocialista polarizzava tutti gli amori e tutti gli odi. Papen, impadronendosi di alcune parole d’ordine hitleriane e gettandole sopra la mischia colla voce grossa di un capo di governo risoluto a far tavola pulita della democrazia, del parlamentarismo, della costituzione di Weimar e col colpo di mano di Berlino al suo attivo, ebbe l’effetto di decomporre l’atmosfera carica di elettricità in campi diversi; tanto che alla fine della campagna elettorale egli era riuscito a farsi bersaglio di tutti gli attacchi. La sinistra tuonava contro il «governo dei baroni», il Centro nei discorsi di Brüning e di mons. Kaas e nelle pubblicazioni di mons. Schreiber , difendeva la libertà non soltanto contro lo Stato di partito, ma anche contro il cosiddetto «Stato superpartitale» di Papen, accentuando di fronte allo statalismo «i diritti della personalità, il diritto naturale della famiglia, il sacro e primordiale diritto della Chiesa, la sfera autonoma delle libere associazioni e comunità che hanno il senso e la responsabilità del bene comune». Gli stessi nazionalsocialisti, per togliersi di dosso il sospetto di corresponsabilità impopolari e, risentiti contro questo nuovo concorrente, il quale appunto perché voleva la «concentrazione nazionale» sbarrava la via alla dittatura di partito, gli si buttarono tutti addosso, urlando al reazionario. Ed ecco un altro merito involontario del Papen, d’aver portato un chiarimento sulla posizione delle destre, mettendo in luce il contrasto fra i tedesco-nazionali, partigiani dello Stato forte alla Bismarck, e magari con il Kronprinz e il cesarismo plebiscitario dei socialnazionalisti. Si è tentati quasi di pensare alla differenza tra legittimismo e bonapartismo nella Francia del settennato di Mac Mahon . Vero è che il risultato elettorale fu per il Papen poco consolante. Egli riuscì a formare una sola maggioranza, quella che lo voleva abbattere e a ristabilire l’accordo di tutti solo sulla necessità di cambiar metodo. Il curioso è che a furia di voler distanziarsi da lui, Göring , presidente hitleriano, sorse a difendere le prerogative del parlamento e i suoi partigiani al Reichstag e al Landtag prussiano si fecero paladini della costituzione di Weimar. «Il governo non può reggere sulle baionette», proclamò il Göring. «Non potete governare senza il popolo», gridò nell’aula prussiana il presidente hitleriano della Dieta. Attendete alcuni giorni ancora, e sentirete risuonare frasi simili anche nel programma del nuovo gabinetto Schleicher . Come? Schleicher non era accusato di essere l’ispiratore vero e potente del nuovo indirizzo reazionario e militarista? Non è lo stesso che fece licenziare il Brüning per arrivare ad Hitler? Difficile il giudizio a chi gli sta lontano e più difficile quasi di trovare il filo della logica nei giudizi di coloro stessi che gli stanno vicino. Fatto è che il generale Schleicher si presenta ora come uno che passata la burrasca, abbia l’aria di dire: mettiamoci un po’ tranquilli e ragioniamo. Quello che è rotto è rotto, ma molte cose si potranno ancora accomodare. L’eredità del Papen non è tutta cattiva. Intanto Hitler, nella seconda elezione del 6 novembre, ha subito grosse perdite. Il mito della marcia trionfale è alquanto impallidito: e quest’arresto, per un capo di governo, va segnato in attivo. Un passivo invece è l’aumento dei comunisti; ma questo stesso aumento è d’altro canto un monito per i conservatori, che non bisogna tirar troppo la corda. Rimane l’imbroglio del governo prussiano. Nella fattispecie il Tribunale supremo di Lipsia ha cercato di dividere il torto per metà; ha riconosciuto che in base all’art. 48 della Costituzione il presidente del Reich può avocare a sé le funzioni di alcuni o di tutti i dicasteri prussiani, ma ha negato che egli possa deporre il governo di Prussia . Il ministero Braun quindi sussiste di pieno diritto e solo esso può rappresentare la Prussia nel Parlamento, alla Dieta e nel Consiglio federale. In pratica non si è ancora raggiunto l’accordo sul modo di far funzionare contemporaneamente i due governi, quello normale e quello commissariale. Ma se l’attuabilità di questo compromesso rimane un problema per il futuro, dal governo passato Schleicher ha ereditato però anche su questo terreno dei limiti, delle barriere. Il picchetto armato può licenziare, ma il tribunale creato a Weimar, sull’esempio degli Stati Uniti, per difendere la Costituzione è là per affermare, di fronte al proclamato diritto della forza, la forza del diritto. Onde se il Papen, celebrato dal suo successore come «cavaliere senza macchia e senza paura», ebbe il compito esplorativo della «cavalleria», oggi, in grazia di questo suo obbiettivo, lo Schleicher può avere un’idea più chiara delle forze che gli conviene dominare. Di qui la sua tattica semplificatrice, temporeggiatrice; la tattica di Brüning insomma. Bisogna augurarsi che ne abbia anche le doti strategiche. All’estero l’atteggiamento più remissivo nella questione della parità giuridica e l’accettazione del piano Herriot-Boncour per la trasformazione dell’esercito mercenario in milizia nazionale sono gli effetti internazionali dell’attuale fase interna e potranno costituire un’ottima base per migliori sviluppi nell’avvenire. Nella prossima quindicina potremo anche registrare a Ginevra il progresso di qualche decisione sul conflitto in estremo oriente. Sarà giunto allora il momento di riassumere i termini della questione. Non è vero che si tratti di cosa remota, indifferente a noi, abitanti di questa vecchia Europa, che, in fondo è una penisola asiatica. Sovrattutto chi sente la solidarietà del cristiano incivilimento, guarda pensoso a codesto cozzare di popoli e d’idee, mentre altri popoli ed altre idee stanno in agguato. Ma c’è anche una solidarietà più urgente e più interessata, qual è quella di colui che tiene casa presso il vicino che brucia. A ragione quel capolavoro della mentalità politica inglese che è il rapporto Lytton afferma nella conclusione: «La causa della pace è unica. Ogni indebolimento della fiducia nell’applicazione dei principi della Società delle nazioni e del patto di Parigi in una parte del mondo qualsiasi diminuisce dappertutto, in qualunque altra parte, il valore di questi principi». Si tratta dunque della pace in genere e della possibilità di organizzarla. Certo che il primo esperimento non poteva capitar peggio. Tanto nella Cina che nel Giappone la Società delle nazioni cercherebbe invano un’opinione pubblica efficacemente organizzata che la sostenesse presso i governi. E, fuori dei contendenti, accade proprio che gli Stati i quali avrebbero possibilità e interesse di farsi valere, non siano membri della Società delle nazioni. In fondo si comprendono le esitanze inglesi. Se si dovesse intervenire sul serio, toccherebbe proprio a loro o specialmente a loro di far l’ingrata parte dell’usciere. E tuttavia bisognerà agire, anche perché il cattivo esempio non faccia scuola. Una specie di commissione Lytton si recherà ora, per decisione di Ginevra, anche nel Chaco, cioè nel territorio contestato fra la Bolivia e il Paraguay . Gli spagnuoli che in quel consesso internazionale sembravano i più informati sulle ragioni delle due parti, assicuravano a Ginevra che una commissione imparziale troverebbe facilmente modo di mettere d’accordo i contendenti, salvaguardando gl’interessi di entrambi. Auguriamoci che sia così, ma perché la Società delle nazioni abbia il credito necessario bisognerà appunto che cominci col non perderlo nell’estremo oriente. È difficile orientarsi sulle cose di Spagna, ma la nostra deficienza è ben scusabile, quando il governo stesso non è in grado di affermare se gli autori dei moti rivoluzionari appartengano al sindacalismo, all’anarchia o al comunismo organizzato. Il gabinetto Azaña coi suoi tre ministri socialisti si è appoggiato finora oltre che sui radico-socialisti anche sugli operai della confederazione generale del lavoro (Union General de Trabajadores) . Ma verso la fine dell’anno testé decorso anche questi operai, incalzati dai compagni più estremisti, hanno invitato, in una conferenza, i loro tre ministri ad abbandonare la coalizione governativa. Si devono ricercare fra gli aderenti alla «Confederacion Nacional del Trabajo» gli autori dei presenti disordini? Un comunicato della «Confederacion» di Barcellona lo nega. Ad ogni modo il problema diventa serio, specialmente per i due governi: Azaña durerà fatica a trascinare a misure di rigore i suoi colleghi socialisti, senza aumentare pericolosamente la sua distanza dalle organizzazioni operaie; e Lluis , capo del governo catalano, troverà forse un compito più urgente da risolvere che non sia quello di varare la sua «Costituzione», di marca laica e anticlericale.
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Otto liste competono in Germania per le elezioni al Reichstag : le più importanti sono quelle dei nazionalsocialisti, quella del blocco nero-bianco-rosso (tedeschi nazionali di Hugenberg , elmi di acciaio di Seldte , pattuglia di von Papen), il Centro colla frazione bavarese, i socialdemocratici, i comunisti. Tre partiti minori come i tedesco-popolari , i cristiano-sociali , l’unione dei contadini, senza stringere tra loro un patto politico, hanno vincolato insieme le loro liste, ai soli fini del calcolo elettorale. Lo stesso fece il «partito di stato» colla lista socialdemocratica. Supponendo che gli «elmi d’acciaio» abbiano nelle due ultime elezioni votato parte per i nazionalsocialisti e parte per i tedesco-nazionali, i due raggruppamenti che formano oggi il governo, per ottenere il giorno 5 marzo la maggioranza assoluta del Reichstag, dovranno aumentare i loro voti di circa il 10 per cento. Infatti i social-nazionalisti hanno avuto il 31 luglio 13,7 milioni di voti, cioè il 37,3% dei votanti; nell’elezione del 6 novembre ne ottennero 11,7 milioni, cioè il 33,1% dei votanti. I tedesco-nazionali invece da 2,1 milioni passarono nel luglio a 3 milioni. Il totale dei due gruppi passò allora dal 43 al 41%; e dovrebbe questa volta toccare quindi almeno il 51 per cento . La campagna si svolge oltremodo violenta. I comunisti, nonostante la sospensione della loro stampa e la proibizione dei loro comizi all’aperto, moltiplicano le riunioni, dando occasione a scontri spesso cruenti colle squadre nazional-socialiste. I socialdemocratici hanno dichiarato per bocca dell’on. Loebe «di voler riprendere la lotta per la conquista integrale dello Stato, rifiutando di qui innanzi qualsiasi compromesso. I grandi latifondi agrari e l’industria pesante dovranno ritornare alla collettività». I nazionalsocialisti attribuiscono al voto un carattere plebiscitario, chiedono cioè un mandato di fiducia per un cancellierato di Hitler, il quale, senza precisare più oltre, inaugurerebbe dopo le elezioni un primo piano quadriennale, per distruggere marxismo e avviare alla rinascita il popolo tedesco. La polemica si svolge però sovrattutto intorno all’accusa lanciata dai nazional-socialisti che i passati governi abbiano condotto la Germania al disastro. Il Centro, che ancora alla vigilia dello scioglimento aveva presentato a Hitler un questionario-programma di 11 punti, i quali riguardavano in modo particolare le garanzie costituzionali, i problemi doganali e le questioni economiche, anche nella campagna elettorale, dopo aver accentuato il proprio carattere di partito medio, i suoi principi cattolici, tende a far discutere i problemi concreti di governo. Esso insiste per il rispetto alla Costituzione vigente, dichiarandosi però disposto, come ha fatto recentemente lo Stegerwald , ad accettare una riforma del sistema rappresentativo, la quale dia vita ad un senato del Reich e modifichi il regolamento attuale della Camera. Prova eloquente della gravità del momento è il manifesto delle confederazioni centrali cattoliche, le quali non si occupano, ben s’intende, dello svolgimento della campagna elettorale, ma riaffermano alcuni principi generali, richiamandosi alle «grandi encicliche dei pontefici». Il manifesto è firmato dalla «Federazione delle società operaie cattoliche», dalla «Lega femminile», dalla «Gioventù cattolica maschile e femminile», dalle «Associazioni cattoliche magistrali» e dalle «Società Kolping degli artigiani». In questi ultimi giorni sono entrati in campagna anche i due ex presidenti dei ministri, Brüning e Stegerwald. Il primo in un discorso a Würzburg, ha dichiarato di essere disposto ad una futura collaborazione «con ogni governo che desideri la Cooperazione delle varie classi sociali e rispetti i principi fondamentali della Costituzione». L’adunanza di Stegerwald venne turbata da gruppi recanti i distintivi socialnazionali che malmenarono anche l’oratore : Hitler con una circolare telegrafica ha deplorato i perturbatori ed ha invitato i suoi a concentrare la lotta contro i marxisti e a non turbare le adunanze degli avversari. È sperabile che quest’appello assieme ai moniti dell’autorità ecclesiastica, dei quali è luminoso documento una pastorale del vescovo di Friburgo , contribuisca a rendere meno turbolenta l’ultima fase della lotta. Alla Conferenza del disarmo si è avuta nella prima fase una discussione generale sul piano francese, il quale, come i lettori ricordano, comporta: 1) impegno di effettiva ed immediata cooperazione militare contro lo Stato aggressore; 2) deferimento, in caso di guerra, alla Società delle nazioni di determinati reparti militari di ciascuno Stato; 3) riduzioni, analogamente alle proposte Hoover, su eserciti, che, in Europa, debbano avere lo stesso tipo, quello cioè di milizia a ferma assai breve. Questa prima discussione ha dimostrato che il piano francese, nella sua integrità, e com’è formulato, non ha prospettiva di venir accolto. Tutti gli Stati che aspirano ad una revisione dei trattati si dichiarano contrari al punto 1, in quanto rappresenti una «cristallizzazione» (si passi oramai la parola) della presente situazione territoriale. Si è dichiarata contraria inoltre la Polonia, proprio per la ragione opposta, perché teme cioè che le insistenze della Francia finiscano appunto per mettere in discussione i trattati, ossia, nel caso concreto, il corridoio di Danzica . Tuttavia, come conclusione del dibattito, l’Inghilterra coll’aiuto dell’America e colla finale adesione della Francia, ha fatto passare una sua proposta per l’ordine dei lavori, combinata in modo che il progetto francese, decomposto nei suoi elementi essenziali, e combinato con quello Hoover, ritorni di nuovo in discussione. Solo il punto 2, quello che riguarda l’esercito internazionale, sembra per ora messo in soffitta. In armonia a tale ordine dei lavori, la commissione generale del disarmo si convoca da quindici giorni, ora come commissione politica ed ora come commissione tecnica. In sede politica si discute dell’impegno nuovo che, integrando il patto della Società delle nazioni e il patto Kellog, dovrebbe garantire reciprocamente la sicurezza. L’Inghilterra ha presentata la seguente formula che, salvo poi a vedere come verrà estesa agli altri paesi, dovrebbe per intanto venir applicata agli stati europei: «I governi firmatari, animati dal desiderio di promuovere la causa del disarmo sviluppando lo spirito di mutua fiducia fra le nazioni europee, decisi a rispettare non solamente la lettera, ma anche lo spirito degli obblighi che hanno assunto col patto di Parigi del 27 agosto 1928, prendono, colla presente dichiarazione, l’impegno solenne di non ricorrere in nessun caso alla forza per regolare qualsiasi differenza attuale o futura tra di loro». Questa formula esclude il ricorso alla forza e non solo la guerra, com’è detto nel patto di Parigi: il caso del Giappone ha consigliato questa maggiore determinatezza. Nella discussione generale su questa formula parve che l’accordo sarebbe stato facile. Tuttavia, avendo Litvinof presentato un emendamento per estenderne subito l’applicazione a tutti gli stati, e Bourquin (Belgio) un altro emendamento, per riallacciare la nuova formula ai vecchi patti di sicurezza e a quello della Società delle nazioni, si dovette nominare un comitato di redazione per combinare un testo concordato. Ora, in sede di comitato, la solita divisione fra stati revisionisti e antirevisionisti torna a fare capolino. La Germania specialmente, si oppone all’emendamento belga, in quanto esso si richiama all’«inviolabilità delle frontiere» e vuole riaffermati gli esistenti patti di sicurezza, come quello di Locarno . Così anche la formula inglese del «non ricorso alla forza» è venuta per ora ad arenarsi nello scoglio della sicurezza. In sede tecnica la questione più grossa è quella, derivata dal progetto francese, dell’unificazione dei tipi di esercito. I francesi sostengono avere gli studi, fatti fin qui, dimostrata l’impossibilità di ridurre i vari eserciti europei ad un potenziale comune: impossibile quindi o difficilissimo trovare un metodo che porti ad un’eguale riduzione degli effettivi. Bisogna partire da condizioni di fatto eguali. Essi propongono quindi che in tutti gli stati europei venga introdotto lo stesso tipo di milizia, abolendo gli eserciti di mestiere a lunga durata, imposti dopo l’ultima guerra, e tenendo conto di tutte le forze, comunque organizzate. Quando la proposta venne lanciata per la prima volta, il governo Schleicher vi fece buon viso; ma ora il rappresentante tedesco nella commissione assume un atteggiamento, se non nettamente contrario, molto diverso. Per riassumere il dibattito, i francesi proposero che la commissione dichiarasse che «il regime di sicurezza è compatibile soltanto con uno statuto militare difensivo il quale comporti effettivi ridotti, un servizio a ferma breve e una mobilitazione lenta». Nadolny insistette perché nella risoluzione fosse affermata anche la riduzione del materiale; Cavallero fece una proposta di transazione. Si finì coll’accettare, a maggioranza, la risoluzione francese. In sede tecnica la commissione ha pure affrontato il problema dell’aeronautica. La discussione si svolse sulla proposta inglese, così concepita: «Esame della possibilità di abolire totalmente l’aeronautica militare e navale e il bombardamento aereo, combinato col controllo internazionale effettivo dell’aviazione civile». Il dibattito generale non fu conclusivo. Ora lo studio delle pregiudiziali è deferito ad un apposito sottocomitato presieduto da Madriaga . A proposito del disarmo sono da registrarsi alcune dichiarazioni fatte in seno alla Commissione degli esteri del Parlamento francese. Il deputato Bergery dichiarò, secondo il Temps , che per evitare un fallimento della conferenza era consigliabile di limitarsi per ora ad una riduzione, come quella proposta da Hoover, purché abbia per contrappeso la creazione di un organismo internazionale di controllo. Appena in una seconda tappa si dovrà procedere più oltre. Quest’accordo ad obiettivi più ridotti ed alla possibilità di revisioni ha valore d’indicazione e di sintomo. Mentre scriviamo, a Ginevra si accettano definitivamente le proposte dei 19 sul conflitto cino-giapponese. Coopereranno gli Stati Uniti e la Russia? In qual misura si vorrà e si potrà applicare almeno una sanzione di carattere economico? Di queste misure esecutive avremo – purtroppo! – altra occasione di parlare. Ma intanto è lecito rallegrarsi del significato morale che acquista il gesto unanime della Società delle nazioni. Nonostante le difficoltà oggettive del problema, e tutti i riguardi che la posizione del Giappone esigeva, nonostante le paurose incognite delle «sanzioni» future, il consesso internazionale, spinto dalla ridesta coscienza del diritto dei popoli, ha finito col dar ragione alla nazione più debole. Dopo gli sforzi tenaci per indurre le parti ad un’intesa, dopo trattative e inchieste di 17 mesi, il verdetto universale del mondo civile acquista un valore di sentenza in appello. È già un grande vantaggio di fronte allo scetticismo di giudizio che, senza Ginevra, avrebbe pesato sul mondo. Il Giappone stesso lo sente e, ritirandosi dalla Società, protesta di non voler abbandonare la solidarietà dei popoli né rinnegare l’opera di pace iniziata colla sua stessa cooperazione nel 1919. Meno pericolosa al prestigio societario potrà riuscire l’altra vertenza, ora deferita a Ginevra. Sulle origini del conflitto di Leticia abbiamo già detto altra volta. Ora, per iniziativa della Colombia si è iniziata a Ginevra la cosiddetta procedura di conciliazione in base alla linea 3 dell’art. 15: quella procedura cioè che si dichiara proprio nello stesso momento fallita per il Giappone. Ma c’è ben poca speranza che il Perù, iniziatore delle ostilità, ceda di fronte a nuovi appelli e a reiterate esortazioni. Si può invece sperare che gli stati latino-americani più interessati nel conflitto, in seguito ad un appello di Ginevra, si accordino per impedire che i belligeranti – oramai questo è il loro nome – si riforniscano di armi e munizioni. Si pensi che la Colombia non può raggiungere il porto fluviale di Leticia che risalendo dalla foce il fiume delle Amazzoni, con un percorso di tremila km., dopo averne fatti altri tremila per mare! Il fiume delle Amazzoni è internazionalizzato, ma attraversa per gran parte del suo corso il Brasile. Toh! ma proprio il Brasile non è più rappresentato a Ginevra!
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La nuova fase della politica internazionale comincia il 17 marzo con la presentazione del progetto Mac Donald alla conferenza del disarmo. Si tratta di un programma minimo iniziale che deferisce ad un comitato permanente l’incarico di elaborare entro il termine di 5 anni un programma massimo. Esso contiene alcuni elementi costitutivi del piano francese, quali l’introduzione di un controllo internazionale sugli armamenti, l’impegno d’una reciproca consultazione in caso di rottura della pace, l’eguaglianza della ferma breve, imposta a tutti gli stati continentali, colla trasformazione quindi della Reichswehr germanica , la proibizione del bombardamento aereo; riassume inoltre gli accordi già intervenuti per l’abolizione della guerra chimica e batteriologica. Ma la novità assoluta della proposta inglese è ch’essa, almeno per gli stati continentali, indica anche delle cifre concrete. Così, premesso che la durata di servizio non dovrebbe superare i 12 mesi, la Francia, la Germania, l’Italia e la Polonia avrebbero ciascuna un esercito di 200.000 uomini: alla Francia però e all’Italia si concederebbero rispettivamente altri 200 e altri 50 mila uomini per le loro colonie, la Romania avrebbe 150, la Cecoslovacchia 100, la Jugoslavia 100 mila uomini, il Belgio e la Spagna (con le colonie) 75 e 170 mila, l’Olanda 75, l’Ungheria 60 mila ecc. Per il futuro non si potranno fabbricare cannoni al di sopra di 105 mm né carri d’assalto al di sopra di 16 tonnellate. Delle artiglierie pesanti attuali si potranno conservare quelle fino a 155 mm le altre verranno gradualmente distrutte. Il disarmo navale si limiterebbe per ora ad assicurare l’adesione della Francia e dell’Italia al trattato di Londra che scade nel 1935. Gli aeroplani verrebbero ridotti a 500 per le potenze principali, a 200, 150, 100 per le minori, e nessuno dovrà pesare più di 3 tonnellate. Il piano Mac Donald fu argomento di una prima discussione generale a Ginevra, terminata con un voto di accettazione di massima e coll’impegno di riconvocarsi dopo Pasqua per iniziare senz’altro la discussione articolata. Si annunziano già molte aggiunte ed emendamenti sul modo di organizzare il controllo, d’individuare l’aggressore e procedere contro di esso, sugli effettivi, sul riarmamento della Germania, ecc., e i commenti della stampa fanno prevedere una trattazione laboriosa. Nel suo discorso a Ginevra Mac Donald aveva dichiarato anche che il suo piano presupponeva un’azione politica per disintossicare l’atmosfera internazionale. L’azione venne avviata col viaggio a Roma . Qui, dopo le conversazioni di Mac Donald e Simon con Mussolini, il pubblico venne sorpreso da un comunicato, il quale annunciava che il capo del governo italiano aveva preparato «un progetto d’intesa sulle principali questioni politiche destinato a realizzare la collaborazione delle quattro grandi potenze occidentali, allo scopo di assicurare, nello spirito del patto Kellog e della dichiarazione del “non ricorso alla forza” un lungo periodo di pace all’Europa e al mondo». Mentre parte dei giornali parlò subito della costituzione di una specie di direttorio europeo, per dirimere le grosse pregiudiziali della politica, i ministri inglesi si mostrarono molto premurosi nel rassicurare che nessuno intendeva d’imporre alcunché alle nazioni minori, e Mac Donald, rispondendo ai giornalisti, aggiunse che il duce aveva sottoposto alla discussione, un breve documento per indicare come le nazioni dovrebbero abbordare i grandi problemi generali. Dopo Roma, Parigi. Qui si manifestò subito la preoccupazione d’ingranare il progetto Mussolini nel meccanismo della Società delle nazioni, e nel comunicato sui colloqui franco-inglesi si rileva che i ministri francesi «hanno confermato il loro desiderio di una cooperazione costante tra le quattro grandi potenze europee, membri permanenti del consiglio della Società delle nazioni dans le cadre et dans l’esprit de la Société des Nations». Inglesi e francesi si separano promettendo di comunicarsi tra breve e reciprocamente gli emendamenti che intendono sottoporre a Mussolini. Ma già il 23 il premier inglese dà delle spiegazioni molto importanti alla Camera dei Comuni. Parlando anzitutto del suo piano, presentato a Ginevra, egli rileva l’importanza innovatrice dell’aver sottoposto all’assemblea cifre concrete, elaborate dai tecnici inglesi in base a calcoli attentissimi; nota che il piano non reca alla Germania la parità di trattamento, in principio già riconosciuta, ma un avviamento a tale parità; gli odierni avvenimenti, aggiunge Mac Donald con riferimento alla Germania, confermano la necessità di un tale periodo di transizione. Passando quindi alla proposta Mussolini, dichiara che il duce si è ispirato all’art. 19 del patto della Società delle nazioni il quale prevede che i trattati si possono rivedere. La cooperazione delle quattro potenze dovrà effettuarsi nel quadro della Società delle nazioni e avere una prima durata di dieci anni. «Il governo britannico riconosce di questo progetto i vantaggi per la pace e per l’amicizia internazionale ed è pronto ad elaborarne i particolari». «Particolari di che?» interrompe a questo punto Lloyd George . «Particolari del progetto, risponde Mac Donald, in maniera ch’esso non abbia solamente per oggetto generale la pace e per grande e quasi unico particolare la revisione dei trattati (and its big and almost only detail the revision of treaties»). Il maggior pericolo che possa correre la pace europea sta nella unilaterale disdetta dei trattati lanciata da uno dei firmatari, sotto l’impulso dell’inevitabile resurrezione del nazionalismo: Mussolini mira a prevenire tale pericolo. Senza un accomodamento, non si disarmerà, e chi respingesse d’emblée le proposte di Roma o chi ne abusasse a scopi egoistici assumerebbe una responsabilità immensa. Le dichiarazioni revisionistiche di Mac Donald suscitarono grande allarme negli stati della Piccola Intesa e della Polonia. La dichiarazione della piccola triplice respinge nettamente qualsiasi revisione e afferma che soltanto il porre il problema significa aggravare la situazione e difficoltare il disarmo. Nessun metro quadrato di territorio slovacco tornerà mai sotto i magiari, grida la stampa ceca. Non accetteremo mai nemmeno di discutere la revisione in altro foro che non sia l’assemblea della Società delle nazioni, dichiara l’organo ufficioso del governo polacco. Il trattato di Versailles restituì alla Polonia quell’accesso al mare che le fu tolto nel 1772 dalla Prussia. Il corridoio è abitato da polacchi, il porto è necessario ad una nazione di 30 milioni, con un aumento annuale di mezzo milione e un territorio più grande dell’Italia. Si vorrà rinnovare l’iniqua spartizione del 1772, 1792 e 1795 ? Con tali appassionati argomenti si reagisce sulla Vistola alle aspirazioni della Germania, della quale è noto che fa della riunione territoriale colla provincia di Koenigsberg , separata ora dal corridoio, una questione d’onore e di vita! Intanto a Parigi si pubblica il testo del patto Mussolini, quale uscì dalle conversazioni di Roma . La pubblicazione dovrebbe servire a calmare le preoccupazioni degli stati minori. L’art. II infatti, quello che riguarda la revisione, suona così: «Le quattro potenze confermano il principio della revisione dei trattati di pace, secondo le clausole del patto della Società delle Nazioni, nei casi ove si verificassero situazioni suscettibili di condurre ad un conflitto fra gli stati. Esse dichiarano nello stesso tempo che questo principio di revisione non può venir applicato che nel quadro della Società delle Nazioni, in uno spirito di mutua comprensione e di solidarietà degl’interessi reciproci». Di maggiore immediatezza appare piuttosto l’art. III, il quale – sempre secondo la pubblicazione non ufficiale di cui sopra – suona come segue: «La Francia, l’Inghilterra e l’Italia dichiarano che nel caso in cui la conferenza del disarmo non raggiungerà che risultati parziali, la eguaglianza di diritto riconosciuta alla Germania dovrà avere una portata effettiva e la Germania s’impegna a realizzare quest’eguaglianza per gradi che saranno fissati per accordi successivi da concludersi fra le quattro potenze per via diplomatica ordinaria. Le quattro potenze s’impegnano ad accordarsi nello stesso senso anche in riguardo dell’Austria, l’Ungheria e la Bulgaria». È qui contemplata la possibilità di un riarmamento graduale delle potenze vinte (riarmamento vuol dire sovrattutto artiglierie, tanks, aeroplani) che il piano Mac Donald non prevede e la Francia, a quanto pare, nettamente rifiuta? Intorno a quest’ossatura principale l’Inghilterra ha elaborato degli emendamenti e delle aggiunte, nel senso di allargare il campo dell’intesa: ma non si conoscono questi nuovi détails, come li chiamò Mac Donald, cosicché non si può dire se e in quanto l’allargamento importi diluizione. Appena ricevute le proposte inglesi, il gabinetto francese facendo un ulteriore passo avanti sulla via degli ampliamenti e delle modificazioni, fissò il suo atteggiamento. Non si conosce il testo del memorandum, ora spedito a Roma, ma le dichiarazioni di Daladier e Boncour alla Camera francese lasciano supporre che si tratti di un controprogetto, il quale, accettando in via di massima la collaborazione dei quattro, proposta da Mussolini, ne allarga il campo in modo che l’intesa riguardi non soltanto l’art. 19 del covenant (possibilità di revisione), ma in prima linea l’art. 10 (reciproco impegno di rispettare l’integrità territoriale) e l’art. 16 (sanzioni contro uno Stato che rompa il patto). È dunque sempre la sicurezza francese che fa capolino. I quattro dovrebbero in prima linea collaborare a difendere lo statu quo, fissato nei trattati, e solo nei casi estremi, i quali soltanto, secondo l’interpretazione francese, vengono contemplati dall’art. 19, parlare di revisione. D’altro canto ogni eventuale risoluzione dei quattro dovrebb’essere subordinata al meccanismo della Società delle nazioni, la cui assemblea (art. 3) «conosce di tutte le questioni che riguardano la pace del mondo»; e ne decide ad unanimità di voti. Il Gran Consiglio fascista ha ammonito che se si voleva servire la pace, bisognava che i punti essenziali della proposta Mussolini non venissero toccati. È impossibile ora ai non iniziati di sapere se il memorandum francese corrisponda in qualche modo all’esigenze affermate dal Gran Consiglio e sovrattutto se il controprogetto di Parigi sia in qualche misura conciliabile con quello iniziale di Mussolini. Le visite dei ministri germanici a Roma significano che il lavoro diplomatico continua. È probabile che ora debba precisare la posizione anche la Germania, la quale finora si è accontentata di appoggiare la proposta Mussolini. Ad ogni modo bisogna concludere col Times che quello che importa non è tanto il testo della convenzione e nemmeno che si arrivi o non si arrivi ad una convenzione scritta, quanto piuttosto che esista la seria volontà nelle quattro maggiori potenze di accordarsi per uno sforzo comune e che tale accordo in via di fatto, sia pure con fini limitati, venga anche raggiunto. L’iniziativa italo-inglese avrebbe già ottenuto un primo effetto apprezzabile, quando riuscisse ad impedire in Europa la costituzione di due blocchi, l’un contro l’altro armati. La parola d’ordine che domina ora in Germania è «gleichschalten», termine tecnico che vuol dire «adeguare», «ragguagliare». In base alla Gleichschaltungsgesetz , le rappresentanze dei vari partiti nelle diete regionali e nei comuni vengono adeguate ai risultati elettorali per il parlamento. Seguendo la stessa norma e sotto la duplice spinta del governo e del partito si trasformano anche le società economiche, i corpi sociali, gli enti morali, le società editrici: esempio caratteristico per quest’ultime il Berliner Tageblatt che, assieme a due altri giornali, viene abbandonato dalla ditta Mosse, per 100.000 marchi all’anno. La «Gleichschaltung» dovrebbe applicarsi perfino nell’organizzazione ecclesiastica protestante. In tale senso un congresso dei «cristiani tedeschi», – movimento religioso ad ispirazione nazionalsocialista – tenuto a Berlino pochi giorni fa, chiedeva il rinnovamento delle cariche ecclesiastiche e la fusione delle 29 «chiese», ora federate nella «lega evangelica», in un’unica Chiesa di stato . Vivaci critiche vennero mosse in questo congresso al superintendente generale del Brandemburgo dr. Dibelius, perché in una circolare ai suoi pastori dell’8 marzo aveva fatto rilevare che «il vangelo predica non l’odio, ma l’amore e riconosce non il prepotente, ma il peccatore giustificato». Per ora gli attuali superiori ecclesiastici, rilevata la necessità che la Chiesa sia autonoma, hanno risposto negativamente e hanno fatto appello al cancelliere, come colui che nel suo programma ha garantito la libertà delle «chiese». Il voto del Centro per i pieni poteri è stato biasimato dal D’Harcourt nella Croix , lodato invece dal Debate. L’organo del Centro renano risponde che, votando così, i centristi «intendevano esprimere il loro desiderio che venisse legalizzata la situazione, prodotta dalla frana rivoluzionaria». Faranno valere di caso in caso le loro obiezioni – aggiunge il giornale – ma non possono combattere pregiudizialmente un governo, voluto da 20 milioni di elettori. D’altro canto si è fondata di questi giorni, sotto l’egida di von Papen la «lega dei tedeschi cattolici Croce e aquila» che, al di fuori dei partiti, vuole promuovere l’idea conservativa cristiana. L’opera legislativa procede con un dinamismo travolgente. Una apposita legge trasforma il Reich da federale in uno Stato unitario, con decentramento amministrativo. Il presidente nomina 10 luogotenenti, i quali, alla loro volta, nominano i governi locali. Una prossima riforma sposterà verso il centro anche le sfere di competenza. La legge sulla burocrazia esclude dagl’impieghi funzionari d’origine semitica e autorizza il governo a dimettere impiegati «politicamente malfidi» e quanti «senza sufficiente preparazione» vennero assunti in ruolo dopo il 9 nov. 1918. I vescovi metropoliti di Colonia e Paderborn e il presule di Osnabrück in un pubblico manifesto e in considerazione dei tempi invitano i fedeli a speciali preghiere e, dopo aver dichiarato il loro leale patriottismo, invocano moderazione e carità specie verso i funzionari. «Essi pregano quel Dio, che nel suo immenso amore concesse il suo Figliuolo per la redenzione di tutti gli uomini, a tener lontano dal nostro popolo travagliato l’odio e la discordia, a restituirgli pace e unità, benessere e libertà, e il posto che gli compete tra le nazioni della terra».
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Puntualmente, come si era deliberato, la commissione del disarmo ha ripreso il 25 aprile i suoi lavori colla discussione articolata del progetto inglese, già accettato «in via di massima», prima della Pasqua. Nonostante questa relativa celerità procedurale, bisogna temere tuttavia che i vecchi contrasti si ripresentino sotto la veste di emendamenti o proposte aggiuntive; e già alle prime battute la questione della sicurezza, la questione cioè degl’impegni reciproci per il caso di guerra, farà ricomparire le differenze già note. Le ultime settimane infatti non hanno migliorato la situazione politica, né lo «stato d’animo». Il breve, ma significativo dibattito nel parlamento inglese, durante il quale non soltanto gli estremi di destra e sinistra, ma il centro stesso della maggioranza conservatrice per bocca dell’ex ministro degli esteri Austen Chamberlain si espressero in termini nettamente ostili alla Germania, provocarono da parte di questa perfino delle proteste diplomatiche. «Gli avvenimenti della Germania – aveva affermato il Chamberlain – rendono il momento ben inopportuno per discutere sulla revisione dei trattati». E a queste erano seguite parole ancora più gravi, tanto che il ministro degli esteri Simon, nella sua replica, sembrò nutrire anzitutto la preoccupazione di negare che l’Inghilterra avesse assunto impegni decisivi. Fu appunto con riferimento agli avvenimenti tedeschi che il ministro aveva concluso affermando che «dalle libertà civili dipende non soltanto lo sviluppo delle grandi nazioni all’interno ma anche dei buoni rapporti tra loro». Più tardi sono intervenute invero delle dichiarazioni hitleriane, atte a rassicurare gli ambienti inglesi; e si può augurare che le parole di pace calmino le onde agitate e aiutino a superare quegli elementi di inquietudine che malauguratamente ancora persistono. Il discorso di Benes alla Camera di Praga, benché si dichiari contrario al «patto a quattro», e annunzi una particolare intesa colla Polonia, rivela tuttavia la preoccupazione di mantenere buoni rapporti coll’Italia e colla Germania, dichiarando possibili anche leggere rettifiche di frontiera, a condizione però che ciò avvenga senza pressioni esteriori e dopo una serie d’anni di mutua comprensione e collaborazione. Qualche speranza si può ricavare per il disarmo dalle conversazioni americane, poiché Roosevelt appare disposto ad assumere per la sicurezza impegni più concreti che non volesse il suo antecessore; ad accettare cioè una formula d’intervento che renda più efficace e più rassicurante il patto consultivo, proposto dall’Inghilterra, contro un eventuale aggressore. Ma, parlando in generale, è forza ammettere che dall’America ora più che gli attesi aiuti, vengono all’Europa nuove complicazioni. Mercoledì scorso, 19 aprile, Roosevelt, a conclusione d’una conferenza coi dirigenti le banche federali di riserva, pubblicava un decreto che ristabiliva in pieno l’embargo sull’oro. Veramente – come abbiamo ricordato nella rassegna del 16 marzo – l’embargo, cioè la proibizione di esportare oro, era stato emanato già ai primi di marzo: ma poi, in via di fatto, l’eccezioni alla regola, autorizzate dal governo americano, erano state molte; e sovrattutto il complesso delle disposizioni finanziarie, prese da Roosevelt, aveva dato l’impressione che l’embargo fosse una misura provvisoria, com’era provvisoria la moratoria delle banche; e che fra i due metodi della deflazione col conseguente fallimento delle banche non solide o dell’inflazione colla conseguente caduta del dollaro, il presidente si fosse deciso per il primo. Ne era derivato anche per gl’interessati europei una rinnovata fiducia nella stabilità del dollaro. Ora invece da mercoledì 19 ci troviamo di fronte ad una politica finanziaria che potremmo dire «inflazionista», se i rapidi contraccolpi del passato non ci ammonissero ad andar cauti nel classificare le fasi contraddittorie di quest’economia manovrata. L’embargo viene decretato, mentre nelle commissioni parlamentari si elabora, d’accordo col presidente, un disegno di legge che gli attribuisce poteri straordinari per aumentare la circolazione bancaria e per ridurre all’occorrenza il contenuto aureo del dollaro da 23,22 a 11,61 grammi. Il metodo di combattere la crisi è dunque cambiato e si tende di proposito a svalutare la moneta, allo scopo di aumentare all’interno i prezzi dei prodotti e delle merci, di facilitare il pagamento dei debiti e di agevolare le esportazioni verso l’estero. Non è qui il caso di discutere gli effetti interni di quest’artificiosa misura; ma per quanto riguarda la situazione economica mondiale, essa ha l’effetto di rendere ancora più urgente e più necessaria la conferenza economica, della quale Roosevelt tenta di fissare le direttive nelle conversazioni di Washington. Quale influsso vi raggiungeranno i progetti di apparenza fantastica, lanciati dagli esperti americani, per una nuova stabilizzazione delle monete, che sarebbe la stabilizzazione «vera» in confronto di quella «politica», attuata e mantenuta dai singoli stati? Roosevelt e Mac Donald, secondo i comunicati ufficiali, si dichiarano contro l’autarchia, per il libero incremento degli scambi internazionali e per una politica degli alti prezzi. Aderiranno le altre nazioni europee a queste direttive anglosassoni? e quale posto avrà alla conferenza la questione dei debiti di guerra? Interrogativi formidabili, che accavallandosi sui problemi del disarmo, rendono ancora più grave e difficile la situazione internazionale. L’Austria si trova in uno stadio costituzionale di transizione tra il vecchio e il nuovo. Il governo di Dollfuss nega di essere fuori della Costituzione vigente, giacché, in assenza della Camera dei deputati, paralizzata da una crisi presidenziale, esso governa con decreti che si basano sulle leggi dei pieni poteri, emanate durante la guerra . Siamo piuttosto in regime di sospensione parlamentare, durante la quale il governo decreta ed attua alcune riforme economiche urgenti e prepara una riforma costituzionale, risalendo ai progetti di mons. Seipel , che voleva introdurre accanto alla Camera dei comuni una seconda camera, eletta dalle classi professionali. I socialisti, in forte minoranza alla Camera, ma padroni ancora della città di Vienna e della dieta dell’Austria inferiore, hanno svolto dapprima una campagna rumorosa contro il governo «dittatoriale»; ma ultimamente hanno abbassato il tono, dichiarandosi disposti a collaborare alla riforma, purché rimanga salvo il principio democratico e rassegnandosi perfino, senza reazioni troppo violente, anche allo scioglimento delle loro formazioni militari . Gli è che questa «dittatura» provvisoria dei cristiano-sociali rappresenta per i socialisti il male minore. L’attuale governo si appoggia oltre che sui cristianosociali, sulla federazione agraria e sulle Heimwehren o milizie patriottiche, guidate dal principe Starhemberg . Queste forze accentuano il loro attaccamento ad un’Austria indipendente, anche di fronte alla Germania; mentre di contro a loro, vanno prendendo piede le formazioni hitleriane che trovano appoggio anche nei reparti stiriani delle Heimwehren, staccatesi dal grosso delle forze dello Starhemberg, dopo il fallito colpo di mano di due anni fa . L’attuale capo del governo austriaco si dimostra uomo avveduto ed energico che si mette in prima fila, quando si tratta di battaglie elettorali, come si è visto di recente ad Innsbruck; ma il partito hitleriano, come risulta appunto anche dalle citate elezioni municipali, guadagna terreno. Dollfuss intanto è molto festeggiato per i risultati del suo viaggio in Italia . Egli ne ha riferito in una grande riunione di cristiano-sociali e heimwehristi, ripetendo di aver trovato nell’Italia un amico sicuro e confermando di aver sviluppato nelle trattative con Mussolini, quei buoni rapporti ch’erano stati avviati in Roma colla visita di Schober . La politica di «adeguamento» continua a celebrare in Germania i suoi rapidi trionfi. I giornali annunziano che anche le loggie massoniche prussiane hanno deciso di ricostituirsi coll’esclusione degli ebrei e col ritorno ai principi di Federico il Grande. Movimento serio e di grande importanza è quello che si svolge entro le «chiese» protestanti. Il primo ministro di Meclemburgo-Schwerin aveva nominato un commissario «per la chiesa evangelico-luterana» del paese, allo «scopo di adeguare il regime ecclesiastico al regime dello Stato e del Reich»; ma il provvedimento è stato sospeso, su ricorso delle autorità ecclesiastiche. La pressione degli avvenimenti tuttavia è tale che lo stesso presidente dell’«Evangelischer Bund», di quell’organo federativo cioè che rappresenta le 29 chiese regionali, ha preso ora l’iniziativa di nominare una commissione per studiare una riforma. La federazione finora non è che un ufficio di raccordo che non tocca la «confessione» e la «costituzione» delle singole comunità. Ma adesso dovrebbe trasformarsi in un vero organo direttivo del protestantesimo tedesco. Non si vede però ancora se a quest’unità organizzativa potrà corrispondere un riavvicinamento delle tre correnti principali del protestantesimo tedesco: i luterani, gli uniti e i riformati. Fino a questo momento oppongono ancora una certa resistenza alla «Gleichschaltung» le organizzazioni politiche, cioè i partiti. I populisti (gruppo Stresemann) e i tedesco-nazionali (Hugenberg) hanno deciso di non sciogliersi. Il Centro è naturalmente dello stesso parere. Guardando al lontano Oriente osserviamo che si va profilando una tensione tra il Manchu-ko e la Russia. La questione verte sull’esercizio della ferrovia orientale. Da qualche tempo, mano mano che il materiale rotabile varcava i confini sovietici, il governo di Mosca si faceva cura di trattenerlo sul proprio territorio. Ora il Manchu-ko minaccia di impossessarsi della ferrovia, la qual cosa darebbe luogo a qualche nuova complicazione.
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Le conferenze di Washington hanno avuto un carattere informativo e preliminare. Si è stabilito di convocare a Londra per il 12 giugno la conferenza economica mondiale, coll’intervento di settanta nazioni. Un comitato prepara da lungo tempo il programma della conferenza, nella quale prevarranno le questioni monetarie e doganali. Il problema più urgente invece per gli stati europei, quello dei debiti di guerra, non verrà trattato alla conferenza, ma in trattative parallele, limitate naturalmente allo Stato creditore e agli Stati debitori. Così fu annunziato da Mac Donald alla Camera dei comuni; ma Roosevelt non deve aver preso ancora l’impegno formale di rivedere gli accordi sui debiti, altrimenti la Francia non dovrebbe tardare a pagare la quota del dicembre 1932, pagamento, come si ricorderà, differito a quando fosse stato preso dall’America l’impegno della revisione. Pare anzi che l’atteggiamento del Senato renda esitante il presidente anche rispetto alla moratoria della quota che scadrà il 15 giugno. Roosevelt vorrebbe che gli stati europei gli facilitassero il compito, garantendo intanto che fino alla conferenza non aumenterebbero le tariffe doganali. Risulta oramai certo d’altro canto che il presidente americano è disposto a partecipare più intensamente ad accordi internazionali, per garantire la pace e, in specie, ad aderire all’impegno reciproco, previsto dal piano inglese, di consultarsi in caso di guerra. Siamo ancora lontani dal «patto di sicurezza» che vorrebbe la Francia, ma siamo anche molto discosti oramai dal principio di neutralità rispetto ai conflitti europei, proclamato finora dagli Stati Uniti. Ma a precisare questo «patto consultivo» non si arriverà prima che non sia raggiunto a Ginevra un accordo sugli «effettivi», cioè sul numero degli armati e sul «materiale», cioè sui cannoni, carri d’assalto ecc. Si sta ora lavorando per indurre la Germania ad accettare il tipo uniforme d’esercito a breve ferma, previsto dal piano inglese per tutti i paesi del continente. La Germania parrebbe disposta a sciogliere la Reichswehr , ma per gradi e verso concessioni nel «materiale». Ma la tesi francese è che la conferenza debba concludere con riduzioni degli armamenti, senza però concedere agli stati «vinti» un riarmamento qualsiasi. Il piano inglese infatti propone la riduzione dei cannoni per chi ne ha, ma non la concessione di «materiale» a chi finora, in base ai trattati, non ne può avere. L’Italia che per suo conto accetta in via di massima il progetto inglese, assume una posizione mediatrice. Si attendono le dichiarazioni definitive di Hitler nell’imminente seduta del Reichstag. La conferenza è giunta ad un punto critico. La liberazione di Gandhi colla conseguente sospensione della «disobbedienza civile» conferisce nuova attualità alla questione indiana. Mentre l’Europa non trova la sua pace, e i paesi anglosassoni si dibattono nelle spire d’una crisi finanziaria mai conosciuta, un altro paese, grande come un terzo dell’Europa e abitato quanto l’Europa, esige disperatamente dagli uomini di stato inglesi il mantenimento delle promesse, fatte durante la guerra. Si era lanciata allora, contro gl’imperi centrali, l’idea incendiaria dell’autodeterminazione dei popoli. Uomini nuovi in Inghilterra, quali Lord Chelmsford , viceré delle Indie, e Montagu , sottosegretario alle Colonie, promisero anche ai nazionalisti indiani uno statuto costituzionale. Difatti già nel 1919 l’India otteneva una costituzione provvisoria colla promessa che entro dieci anni si sarebbe elaborato lo statuto definitivo; ed ora, proprio alcune settimane fa, si è arrivati appunto alla fase decisiva colla presentazione al parlamento inglese dello schema di statuto, elaborato dal governo in base ai risultati positivi e negativi, raggiunti nelle conferenze della «tavola rotonda», tenute a Londra, sotto la presidenza di Mac Donald nel 1930, ’31 e ’32. Durante l’impressionante dibattito, svoltosi ai Comuni nei primi giorni d’aprile, Winston Churchill ricordò che le prime riforme Chelmsford- Montagu avevano significato la fine del dominio britannico; ma Baldwin rispose pateticamente: Noi mietiamo quello che abbiamo seminato. Abbiamo seminato l’ideale dell’educazione inglese ed ora ne mietiamo il frutto, che è l’idea democratica. Lo statuto, dei cui particolari e della cui formulazione definitiva si occuperà ora un comitato parlamentare misto, prevede una federazione indiana entro l’impero britannico, che comprenderà da una parte le 11 provincie che dipendono ora dal sottosegretario inglese alle colonie e, dall’altra i principati indiani autonomi i quali riconoscono in varia misura a secondo dei trattati, la supremazia della Corona inglese. Il governo centrale sarà costituito dal governatore centrale, luogotenente del re, assistito da un consiglio di ministri responsabili innanzi al parlamento, composto di due Camere. La Camera bassa oAssemblea legislativa comprenderà 125 membri nominati dai principi federati e 250 eletti dalle provincie in base ad un suffragio ristretto e censitario che darà il voto a circa 7-8 milioni di elettori, cioè al 2 o 3% della popolazione, la quale, si noti bene, si compone per il 92% di analfabeti. Le 11 provincie saranno rette ciascuna da un governatore, assistito da un consiglio di ministri, responsabili verso un parlamento provinciale, il quale si occuperà delle questioni e degl’interessi locali. Lo statuto precisa naturalmente le competenze del governo centrale e quelle dei governi locali. Si noti subito che nel governo centrale gli affari riguardanti l’esercito, la rappresentanza all’estero, la valuta ecc., sono riservati immediatamente al governatore, che ne è responsabile verso la Corona. Si noti ancora che si tratta d’una «safeguarded Constitution», come la chiamano gl’inglesi, cioè di una costituzione con riserve, la quale stabilisce che in caso di paralisi parlamentare, i governatori possano assumere automaticamente i pieni poteri per quanto riguarda l’ordine, la protezione delle minoranze e la stabilità finanziaria. Si aggiunga infine che gli elettori non votano in massa, ma per curia, secondo la loro «comunità», termine che corrisponde secondo i casi o alla confessione, o alla stirpe o alla casta entro la stessa stirpe. Accettando i postulati del più forte gruppo degl’«intoccabili», rappresentati alle conferenze di Londra dal dotto Ambedkar , lo statuto prevede una curia elettorale a parte per questa casta depressa. È contro tale discriminazione che si eleva Gandhi, perché egli teme ne derivi un rafforzamento dei pregiudizi di casta. Le proposte inglesi del resto sono anche in genere fieramente osteggiate dagli intellettuali indù: anzi nessuna comunità se ne dichiara soddisfatta. Mac Donald tuttavia, che lavora dal 1929 a questa grande riforma con particolare tenacia, è fermamente deciso ad attuarla. L’incorporazione costituzionale dell’India nell’empire è la meta storicamente più importante, a cui tenda il governo nazionale . Turbata è un’altra volta la situazione spagnuola. Di nuovo si parla di un complotto militare, al quale i sindacalisti, lieti di un nuovo pretesto, reagiscono con uno sciopero generale. Anche questo viene represso, ma il fuoco cova sotto la cenere. Abbiamo ricordato altra volta l’antagonismo feroce ch’esiste fra l’«Unione dei lavoratori» a carattere socialdemocratico e quindi sostenitrice dell’attuale governo e la C.N.T. (Confederazione nazionale del lavoro) , diretta da sindacalisti rivoluzionari e antiparlamentari. Ancora più a sinistra di costoro stanno gli anarchici, raggruppati nella F.A.I. (Federazione Anarchica Iberica) e che furono i promotori dei disordini del gennaio. Vengono infine i comunisti, che sono divisi in stalinisti e trotzkisti, e non rappresentano organicamente una gran forza. Ma i sindacalisti, sorti ormai a terribile rinomanza nei torbidi del 1919 a Barcellona, quanto più fecero i morti durante la dittatura, tanto più si agitano ora che la repubblica concede loro una relativa libertà, spinti sovrattutto dalla bizza di far costare care ai socialisti le gioie del potere. In mezzo a tanti pericoli parrebbe ovvio che i repubblicani sentissero la necessità di abbandonare quella direttiva anticlericale che toglie loro la fiducia delle forze conservatrici. È proprio in questo momento invece che Azaña strozza l’opposizione ostruzionistica del gruppo Lerroux e della destra, facendo votare, con un atto d’imperio, l’iniqua legge contro le congregazioni religiose, le quali vengono così escluse dall’insegnamento. Le dimostrazioni del 1 maggio, proclamato festa nazionale, la conquista rivoluzionaria dei sindacati socialisti, l’assorbimento dei sindacati cristiani e di quelli gialli , la confisca dei beni del partito socialdemocratico e delle sue organizzazioni affigliate rappresentano altrettante tappe di quel movimento di riorganizzazione e trasformazione nel campo del lavoro che i nazional-socialisti hanno iniziato nella presente quindicina. Der Deutsche, giornale di sindacati cristiani , dice che l’organizzazione non rinunzia senza pena alla propria autonomia, ma che ha dovuto adattarsi alle conseguenze del fatto rivoluzionario. Si è avuta la promessa del resto che i migliori organizzatori verranno assunti nei nuovi quadri. Il Centro ha ottenuto un nuovo capo nell’ex-cancelliere Brüning , autorizzato anche a nominare i segretari regionali e circondariali. I giornali cattolici dicono che la scelta di Brüning significa per il Centro la volontà di vivere. I vescovi bavaresi pubblicano una lettera collettiva diretta ad affermare il loro spirito conciliativo verso la nuova situazione; nello stesso tempo richiamano i principi cristiani di giustizia e di amore verso tutti gli uomini, il diritto di vivere delle associazioni cattoliche e della stampa cattolica, il dovere ma anche il diritto di tutti i buoni a collaborare per la ricostruzione nazionale .
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Il discorso del cancelliere tedesco fu conciliante nella forma, quale avrebbe potuto uscire dalle labbra di uno Stresemann o di un Brüning . Fu conciliante anche nella sostanza, perché, di fronte alla Francia, accettò l’uniformità degli eserciti, annunziando inoltre che entro l’anno la polizia ausiliare verrebbe abolita; di fronte alla Polonia si proclamò contro la politica di germanizzazione; di fronte all’America accettò la proposta di Roosevelt; e rese omaggio a Mussolini, aderendo al patto a quattro. Ma il passo decisivo fu quando accettò di non riarmare, nemmeno di fronte ad una riduzione soltanto parziale degli armamenti altrui. Veramente a questo punto le sue dichiarazioni non sembrano limpide, ma Nadolny, ritirando a Ginevra i suoi emendamenti, tolse in proposito ogni dubbio. L’o.d.g. del parlamento tedesco, votato anche dai socialisti, si limita ad affermare l’eguaglianza dei diritti, in principio già riconosciuta dalle quattro potenze principali. Roosevelt nel suo messaggio aveva agito in due sensi: sulla Germania, proclamandosi contro ogni riarmamento, sulla Francia, prospettando la sua adesione al patto consultivo. Normann Davis ha ora a Ginevra precisato l’atteggiamento dell’America nel senso che essa parteciperebbe alle consultazioni che si facessero tra le potenze, in caso di rottura e che nulla farebbe che potesse ostacolare le misure societarie contro l’aggressore. Questa formula negativa significa in concreto che se la Società delle nazioni, in forza dell’art. 16, attuasse il blocco contro lo Stato aggressore, gli Stati Uniti, pur non associandovisi, rinunzierebbero però ai loro diritti di neutralità e al principio della libertà dei mari. La flotta inglese cioè potrebbe attuare il blocco, senza pericolo di conflitti con quella americana. La dichiarazione Davis ha quindi un’importanza riflessa, perché permette all’Inghilterra di aumentare il suo contributo alla sicurezza. Naturalmente la Francia ha subito colto la palla al balzo e Boncour ha proposto che si tornasse a discutere della sicurezza, ossia del Cap. I del piano inglese. Così, in via di compromesso, si è convenuto di trattare in sedute alternate della sicurezza e della riduzione del materiale, fino alla vigilia della Conferenza di Londra. Nuove trattative, condotte a Roma dall’on. Mussolini con Göring e con gli ambasciatori inglese e francese hanno riavvicinato le tesi contrarie intorno al «patto a quattro». Nella Camera italiana parecchi oratori hanno rilevato l’importanza del progetto mussoliniano e il sottosegretario agli esteri, on. Suvich , ha riaffermato ch’esso farebbe scomparire l’irrequietudine presente e assicurerebbe un periodo di pace, senza venir meno «al rispetto della volontà di tutti gli stati, nessuno escluso». Ma la Polonia e la Piccola Intesa, nonostante le modificazioni introdotte nel testo primiero, ripetono a Ginevra e altrove le loro manifestazioni contrarie, cosicché la Francia appare sempre esitante. Essa insiste inoltre perché la convenzione contempli anche gl’impegni di sicurezza previsti dall’art. 16. Continua in Germania il movimento per costituire le classi professionali o Stände (Stati), come si usa dire, rimettendo in uso un termine medioevale. Non è ancora chiaro se ogni categoria verrà organizzata in senso verticale, dal basso in alto, come le associazioni sindacali italiane, ovvero se vi saranno delle corporazioni di struttura e caratteristica diversa, a seconda delle regioni, e della speciale fisionomia delle classi. Mentre infatti nel campo industriale tutto concorre a far ritenere che collegando organicamente i sindacati esistenti alle associazioni padronali, si tenderà ad un sistema analogo a quello fascista, nel campo agrario e dell’artigianato le proposte in discussione sono ancora molteplici. Caratteristico è il progetto delle leghe renane dei contadini, perché vi compaiono gli elementi costitutivi di vecchie proposte cattoliche riesumate ora dal presidente del Bauernverein, baron Lüninck . Tutte le associazioni agrarie di carattere professionale (come le leghe), tecnico (come le camere agrarie o cattedre ambulanti), cooperativo (come i consorzi agrari per la compera e la vendita cumulativa) verrebbero inquadrate in un’unica organizzazione di classe, la quale diverrebbe un ente di diritto pubblico, si estenderebbe a tutti i paesi del Regno e si chiamerebbe corporazione della «classe renana». Un unico capo con tre assessori e una giunta consultiva costituirebbero la rappresentanza centrale della classe. Così l’antica rappresentanza ufficiale (camere agrarie) si fonderebbe colle associazioni private per costituire la rappresentanza della classe, che troverebbe la sua base economica nell’organizzazione cooperativa. Intanto per la classe rurale si annunzia una legge di grande portata. Si tratta di ritornare al diritto ereditario germanico, cioè al maggiorasco: il podere non viene spezzettato fra gli eredi, come prevede il codice romano, ma rimane al primogenito. Si vuol così formare una classe di contadini legata alla terra ed economicamente autonoma. Questo sistema ereditario vigeva già in molte regioni della Germania e dell’Austria (anche in alcune valli dell’Alto Adige ); ma ora esso verrà imposto in tutto il Reich per forza di legge. Il provvedimento però non vale per i latifondi, dei quali invece il nuovo Stato – divergendo in ciò dal sistema feudale – favorisce il parcellamento. Il movimento di unificazione tra le chiese protestanti germaniche ha fatto un passo avanti colla costituzione di un direttorio comune di tutte le chiese regionali luterane, le quali intendono unirsi per formare «un ramo luterano entro la Chiesa evangelica tedesca che si sta creando». Il direttorio, presieduto dal dott. Meiser di Monaco , avrà il compito di «rappresentare le chiese» e di «fissare le direttive fondamentali per regolare la vita ecclesiastica». Essendo imminente in Germania una generale riorganizzazione delle società sportive con tendenza unitaria, mons. Wolker , presidente ed assistente ecclesiastico della Deutsche Jugendkraft (Federazione sportiva cattolica) dopo aver trattato col commissario governativo per lo sport, annunzia che la società cattolica non verrà sciolta, ma inserita nel quadro generale, di maniera che all’organizzazione ufficiale saranno obbligate a partecipare solo le cariche della Jugendkraft. Anche le società magistrali cattoliche hanno aderito ad un compromesso analogo, di modo che i vescovi esprimono in un pubblico comunicato la loro soddisfazione che le associazioni cattoliche possano continuare a vivere ed invitano i maestri e le maestre a restar fedeli alla vecchia bandiera. Il comunicato è comparso, perché dall’altra parte si era dato al compromesso un’interpretazione diversa, quasi che fosse stata decisa la fusione. Si annuncia un piccolo successo della Società delle nazioni. Sotto la sua egida si sta componendo il conflitto tra il Perù e la Colombia per il famoso centro di Leticia sul fiume delle Amazzoni, centro che, come abbiamo visto altra volta, prima che un trattato del 1922 lo assegnasse alla Colombia, si componeva di 40 case col tetto di canna e di bitume. Il conflitto era scoppiato in seguito ad un’incursione di volontari peruviani che il 10 settembre 1932 avevano occupato, in nome del principio nazionale, Leticia. Questo porto verrà transitoriamente neutralizzato, sotto la salvaguardia della Società delle nazioni. Continuano invece le pratiche per soffocare l’incendio guerresco tra le altre due repubbliche americane, la Bolivia ed il Paraguay. Il conflitto, scoppiato nell’agosto 1928, quando truppe boliviane occuparono il porto fluviale di Pachecco (Bahia Negra) si è ora trasformato da guerriglia non dichiarata in guerra proclamata. La questione è più grossa, perché la Bolivia, la quale nella guerra del 1879 contro il Cile perdette il suo unico accesso al mare, vuole ora assolutamente avere un porto che la ricolleghi al commercio mondiale. Le trattative promosse da un’apposita commissione di Ginevra furono molte: ora, data la dichiarazione di guerra, è entrato in movimento anche l’apparato statutario della Società. Di un’ampiezza appena prevedibile sono invece le operazioni giapponesi. Arrivati fino alle porte di Pechino e di Tiens-Tsin proprio nei giorni in cui scade il periodo di tregua che lo statuto della Lega impone ai due belligeranti, prima che sia loro lecito di dichiarare la guerra, essi sono ora in grado di costringere i cinesi ad un componimento o ad una dichiarazione d’impotenza. Ma armistizio o non armistizio, qualunque sia la notizia vera fra le tante che arrivano in argomento, il fatto che rimane è l’espansione nipponica, il tentativo di creare nella Manciuria e nella Cina settentrionale un nuovo impero vassallo, tentativo che si attua mentre i soviet si accontentano di proteste formali, ben sapendo che una guerra in estremo oriente potrebbe costare la vita al presente regime e mentre l’Europa e l’America, assillati da una doppia crisi, non hanno né il tempo né la forza d’intervenire. La Lega di Ginevra, decidendo in favore della Cina, ha preso le parti dell’aggredito e del più debole; né il suo atteggiamento, pur essendo inefficace, rimane, moralmente parlando, meno significativo. Tuttavia bisogna pur ammettere che l’impotenza difensiva della Cina, dovuta alla sua anarchia interna, rende meno grave lo scacco societario. È ben probabile che i principii di equità, e le direttive illuminate che guidarono lord Lytton finiscano coll’aver ragione e che il Giappone, dopo la conquista, si trovi sulle braccia dei pesi che non saprà portare e dei problemi politico-nazionali che non saprà risolvere: cattivo affare dunque, oltre che impresa condannevole. Conviene tuttavia sperare che la marcia su Pechino rechi al popolo cinese quella rigenerazione che non sa più trovare da se stesso e che lo induca a liberarsi dal comunismo, devastatore delle sue più belle provincie .
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La storia del Patto a quattro si può ora ricostruire in base ai documenti ufficiali, pubblicati dai governi . Essa non risulta dissimile da quella che abbiamo delineata già il 16 aprile, fondandoci allora sulle comunicazioni ufficiose e sulle dichiarazioni fatte nei parlamenti o nel Gran consiglio fascista . Il 17 marzo Mac Donald, presentando a Ginevra il suo progetto per il disarmo aveva annunziata anche un’azione politica per disintossicare l’ambiente, avvelenato dalle discussioni intorno al contrabbando delle armi, al rafforzamento della Piccola Intesa e dagli allarmi per il successo e gli sviluppi del nazionalsocialismo. In questo momento interviene l’invito dell’on. Mussolini, e i ministri inglesi il 18 aprile sono a Roma, ove il capo del governo italiano presenta loro un abbozzo di convenzione per un Patto fra le quattro maggiori potenze europee, idea lanciata dal duce già in ottobre nel suo discorso di Torino . Lo schema iniziale del 18 aprile, comunicato immediatamente anche alla Francia e alla Germania, si compone di sei articoli. Nel primo si dice che le quattro potenze ispirandosi al patto Kellog e al «No force pact» s’impegnano ad agire perché questa politica di pace sia adottata, in caso di necessità, anche dagli altri Stati. L’art. 2 riafferma il principio della revisione dei trattati,secondo la clausola del patto societario, e nello stesso tempo dichiara che questo principio non potrà applicarsi che nel quadro della Società delle nazioni. L’art. 3 stabilisce che, qualora la conferenza del disarmo non riuscisse che a risultati parziali, il diritto della Germania ad eguali armamenti, già riconosciuto in teoria, dovrà essere attuato anche in pratica, ma a scaglioni, da determinarsi dalle quattro potenze. Nei giorni che seguono si svolge nella stampa francese e della Piccola Intesa una campagna diretta contro il revisionismo e il riarmamento della Germania. Si grida anche al pericolo che il patto a quattro crei un direttorio europeo, a scapito della Società delle nazioni. Una reazione psicologica anglosassone contro i moti antisemitici in Germania favorisce la campagna contro l’accordo. La Piccola Intesa e la Polonia pubblicano formali proteste. Il 26 marzo il governo italiano trasmette un secondo abbozzo, che viene incontro alle obbiezioni francesi. All’art. 2 infatti «la possibilità della revisione dei trattati» è preceduta dallo «scrupoloso rispetto di tutti gli obblighi dei trattati come mezzo di realizzare la pace internazionale e la sicurezza». Nell’art. 3 poi, prima di parlare del riarmamento per tappe della Germania, s’introduce l’impegno di collaborare cogli altri stati per far riuscire la conferenza del disarmo. Il 1 aprile è il governo inglese che trasmette i suoi emendamenti. Il più importante riguarda la procedura di revisione. Il governo inglese si sforza di dar soddisfazione alle potenze minori proponendo che quando un governo, richiamandosi all’art. 19 del patto societario, proponesse la revisione di un trattato, le quattro potenze maggiori dovrebbero concertarsi su di un piede di eguaglianza cogli stati minori interessati. All’art. 3 poi gl’inglesi vorrebbero affermato che il piano Mac Donald viene senz’altro riconosciuto come prima tappa del disarmo: il che vorrebbe dire ch’essendo tale piano previsto per cinque anni e non contenendo esso alcun riarmamento per la Germania, questa dovrebbe rinunciare, a Ginevra, alle sue insistenze in senso contrario. Il 10 aprile finalmente sono fissati i termini del progetto francese. Esso si compone di un preambolo e 6 articoli. Il preambolo mette in primo piano la Società delle nazioni e precisa che in nessun modo si vuole derogare alle prescrizioni e alla procedura del patto societario, conferma che non s’intende disporre di uno Stato senza il suo concorso e introduce un richiamo al patto di Locarno. L’art. 1 è letteralmente quello che comparirà poi nel testo parafato: si limita il campo d’azione del «patto a quattro» alle questioni proprie delle quattro potenze. L’art. 2 designa come oggetto di eventuale intesa gli articoli del Covenant 10 (reciproco impegno di rispettare l’integrità territoriale), 16 (sanzioni contro uno Stato che rompesse il patto societario) e 19 (possibilità di revisione); ma i quattro potranno soltanto esaminare le proposte di procedura e di metodo per applicare tali articoli, mentre le decisioni in merito restano espressamente riservate agli organi della Società delle nazioni (Consiglio, Assemblea). Anche quest’articolo è riportato quasi integralmente nel testo definitivo. All’art. 3 il progetto francese del 10 aprile propone che la Germania riconosca che «l’eguaglianza dei diritti in un regime che importi per tutte le nazioni la sicurezza» (è la formola dell’11 dicembre 1932) non può realizzarsi che per scaglioni, conforme all’art. 8 del patto e in virtù degli accordi che interverranno a tale effetto. Siamo a Pasqua. A Roma Mussolini riprende i colloqui coi ministri germanici. A Londra nelle Camere e nella stampa s’insiste nel rilevare che l’importanza del Patto non consiste tanto nel tenore della convenzione, quanto nell’atto di volontà pacifica e di cooperazione ch’esso rappresenta e in ciò, ch’esso scongiura il pericolo di blocchi antagonistici. Il governo tedesco presenta il 24 aprile i suoi emendamenti al progetto francese. Essi tendono, circa la revisione, a ricostituire il testo italiano e a ristabilirne il senso. All’art. 2 si propone che i quattro possano esaminare il merito di eventuali proposte territoriali e non soltanto la procedura e si omette il riferimento all’art. 16 del patto societario. L’emendamento più importante riguarda naturalmente l’articolo 3 della convenzione. In caso di parziale fallimento della conferenza del disarmo, la Germania s’impegnerebbe per soli cinque anni (cioè durante la tappa del piano Mac Donald) a non riarmare che per scaglioni da convenirsi. Ciò vorrebbe dire che per quanto riguarda il riarmamento, il Patto a quattro invece che per dieci anni, come aveva proposto Mussolini, avrebbe impegnato la Germania soltanto per cinque. È appunto su questo emendamento tedesco, come ricordò l’on. Mussolini al Senato, che si svolse l’ultima laboriosa fase delle trattative. Vista la difficoltà dell’accordo, sorse allora la proposta di lasciar cadere ogni accenno tanto al già riconosciuto principio dell’eguaglianza dei diritti, quanto all’eventuale e conseguente riarmamento a scaglioni. La questione pende alla conferenza del disarmo: che si continuino colà gli sforzi per un compromesso. Qui, nella convenzione a quattro, si dirà genericamente che se la conferenza di Ginevra lascerà in sospeso delle questioni, i quattro le riprenderanno in esame per cercarne la soluzione. La stampa germanica, di fronte a tale formula vaga, si manifestò dapprima assai riluttante, ma infine il cancelliere telegrafò la sua adesione all’art. 3, nella formula ridotta e generica che appare nel testo approvato. Per tutto il resto il progetto parafato coincide nella formulazione alle proposte francesi. È omesso naturalmente qualsiasi riferimento all’Austria, l’Ungheria e la Bulgaria, quale appariva negli altri abbozzi. Per contro, a proposito delle questioni economiche, non compare nel testo l’accenno all’Unione europea, come aveva dapprima proposto la Francia. Il modo con cui venne circoscritta l’opera delle quattro grandi potenze di fronte ad un’eventuale proposta revisionista, fece sì che la Piccola Intesa ritirasse la sua opposizione. A rinsaldare tale atteggiamento la Francia ha ora inviato alla Polonia e alla Piccola Intesa una garanzia scritta, nel senso che in una eventuale applicazione dell’art. 2 (discussione sulla procedura di revisione), essa non lascerà mai cadere la norma dell’unanimità che il patto societario esige per mettere all’ordine del giorno una proposta di revisione. Mentre però la Piccola Intesa ne prende atto con soddisfazione, la Polonia appare ancora dispiacente, perché essa fa anche questione del suo rango di potenza europea, rappresentata nel Consiglio societario. Di fronte a tutto ciò, se ricordiamo le dichiarazioni, pur così saggiamente temperate, dell’on. Mussolini in Senato in favore del revisionismo , converrebbe concludere che siamo sempre alle stesse posizioni antagoniste che il nuovo Patto non riesce ad eliminare. Ma a ragione egli aggiunge che il Patto a quattro è uno strumento, non una definizione, uno strumento che «per avere conseguenze feconde deve essere operante a volta a volta che la situazione lo impone». Il suo valore funzionale sarà in proporzione della buona volontà e dell’abilità dei quattro. Le vicende non tutte prevedibili di questo patto, dovuto all’iniziativa italiana, all’appoggio inglese, alla elaborazione francese ed all’adesione finale di un dittatore che molti accusavano di sabotare la pace, dimostrano come, al di sopra delle nazioni, dei partiti e dei regimi, si imponga il senso di conservazione sociale o, per dir meglio, operi la Provvidenza, la quale, esaudendo – secondo la parola del Santo Padre – le incessanti preghiere degli umili, guida ai suoi fini e determina le sorti umane. La conferenza di Fulda dei vescovi germanici ha emanato in data 12 giugno una pastorale collettiva per fissare l’atteggiamento dei cattolici nella nuova situazione. La pastorale esalta ed apprezza il principio di autorità e il dinamismo riorganizzativo dello Stato nazionale; esprime quindi la speranza «che l’autorità statale, imitando l’autorità della Chiesa, non decurti l’umana libertà più di quello che richiede il bene pubblico, ma si adorni della giustizia e perciò dia e lasci ad ogni suddito il suo, cioè proprietà, onore e libertà». La pastorale rivendica la scuola confessionale, le associazioni cattoliche, comprese le sportive, la stampa cattolica e conclude con un appello al lavoro per la rinascita della nazione, superando quelli che spera siano stati fenomeni di fermentazione dei primi rivolgimenti.
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Vienna, fucina un tempo di congegni e regimi politici, laboratorio storico di combinazioni, di formule, di compromessi, fra la reazione e il liberalismo, tra l’assolutismo e la democrazia, tra il federalismo slavofilo e il centralismo tedesco, dopo alcuni anni di oscurità, si presenta di nuovo alla considerazione del mondo come un interessante campo esperimentale di pratica governativa. Il piccolo Dollfuss – così piccolo che gli avevano affibbiato il nomignolo di «Millimetternich» – s’è dimostrato uomo energico, politico avveduto, carattere fermo. Voltosi dapprima contro la sinistra, a sopprimere il comunismo e fiaccare la socialdemocrazia, della quale sciolse le formazioni armate , affrontò poi l’estrema destra, disperdendo lo squadrismo e l’organizzazione politica dei nazionalsocialisti . Il suo governo di centro si fonda sulle forze parlamentari dei cristiano-sociali e degli agrari e sul concorso positivo delle milizie patriottiche , trasformate in forze ausiliari di polizia. È un governo dittatoriale, che ritrae i suoi poteri da una vecchia legge, emanata nell’antica monarchia durante la guerra . Ma il presidente della Repubblica , il capo del governo , il vice cancelliere e il generale Vaugoin ci tengono a dichiarare che si tratta di dittatura temporanea, di un periodo di transizione, durante il quale s’intende preparare una riforma costituzionale che verrà sottoposta alla sanzione degli elettori. La riforma s’ispirerà al testamento politico di mons. Seipel, il quale aveva in mente il senato corporativo e pensava ad altre clausole di salvaguardia contro eventuali degenerazioni parlamentari. È sempre lo spirito dell’eminente statista che aleggia ancora sui cristiano-sociali: di quel Seipel che a proposito del movimento hitleriano tedesco aveva suggerito di captarne gl’impulsi di sano rinnovamento per irrobustire e migliorare con essi lo Stato democratico. Così infatti si procedette in Austria assimilando parte delle forze heimwehriste, in quanto provenivano dalle classi rurali, devote all’idea austriaca e cristiana; così, quando l’ondata hitleriana si rovesciò anche sull’Austria, traendo alimento dalla reazione contro il marasma parlamentare, i cristianosociali stessi si misero in testa a questa giustificata reazione, concentrando i poteri nell’esecutivo e proponendosi la riforma dei metodi legislativi. L’esempio infine della Germania era fatto per riabilitare le misure di forza. Per tanti anni si era predicato che la politica repressiva del Metternich era stata inefficace, anzi dannosa perché dal suo Stato di polizia era nato lo Stato liberale, dal suo assolutismo accentratore si era passati per reazione al trionfo delle forze centrifughe. La marcia inesorabile del socialismo aveva superato tutti gli ostacoli rizzatigli contro, onde si era radicata negli animi una fondamentale sfiducia contro le misure di repressione. Ma quando in Germania si afferma che basta una notte per far scomparire nel nulla un partito di 7-8 milioni, quando le volontà più ribelli si accasciano come inebetite innanzi all’uso risoluto della forza, non era naturale la suggestione che anche in Austria l’ideale dell’indipendenza potesse venir difeso colla forza? L’esempio della Baviera, esclamò il Vaugoin al congresso di Salisburgo, ci è monito prezioso: o della forza usiamo noi del presente governo o ne userà il prossimo contro di noi. Si ebbe quindi la sensazione di un conflitto aperto che non si poteva altrimenti superare che con le misure di forza. A ciò inclinavano gli heimwehristi, mentre gli agrari erano riluttanti. Ma il ricorso fatto dall’altra parte alle bombe ed agli attentati convinse tutti della necessità e dell’urgenza di andare oramai fino in fondo. Giunti a questo punto, sarebbe azzardato fare dei pronostici. La causa dell’indipendenza austriaca è sostenuta dall’Italia – oh! strane inversioni della storia – e dalle principali potenze europee. L’Italia specialmente potrà svolgere opera preziosa per attenuare la tensione che divide attualmente Berlino e Vienna. Ma quanto all’esperimento della politica interna austriaca, dovremo assistere ad uno svolgimento più complesso. Fino a qual punto e in qual maniera l’impegno di reprimere il nazionalsocialismo è conciliabile col proposito delle forze centriste di conservare lo Stato giuridicamente egualitario? Il «fronte patriottico» che si sta ora organizzando, avrà la forza di dare una soluzione nuova al problema dello Stato? Nel Reich intanto la conquista hitleriana fa un nuovo balzo in avanti. Fino a ieri si parlava di Gleichschaltung (inserzione), ora si parla di totalitarismo . Hugenberg deve ritirarsi e mettere i suoi agli ordini di Hitler. I deputati cattolici bavaresi vengono arrestati, preludio – dicono i giornali – dello scioglimento dei partiti centristi. La Prussia nomina un commissario «per dirigere tutte le chiese evangeliche». Il nuovo «vescovo del Reich» si dimette e le vecchie autorità ecclesiastiche ricorrono al tribunale di Lipsia, perché protegga la libertà religiosa garantita dalla costituzione. I capi dei sindacati cristiani vengono messi alla porta e l’ufficiosa agenzia Conti annunzia imminente la lotta per le associazioni giovanili dipendenti dalle autorità ecclesiastiche (Kirchliche). In quanto alla gioventù cattolica, la conferenza episcopale di Fulda ha reclamato libertà e parità di trattamento anche riguardo ai distintivi, alle bandiere ed alle manifestazioni esteriori collettive. Il card. Bertram è intervenuto anche in favore delle società operaie cattoliche che un comunicato ufficioso collocava assieme alle protestanti tra le forze ostili allo Stato. Egli le prende sotto la vigilanza e la protezione della Chiesa e dichiara errato il classificarle nemiche del regime. La stampa cattolica, a proposito del trattamento che si minaccia in genere alle società cattoliche, confida che gli equivoci possano ancora venir chiariti e trae speranze dallo stesso comunicato dell’agenzia Conti, il quale annunzia che si tratta per giungere ad un «componimento» colla Chiesa cattolica. Comunque le associazioni di Azione Cattolica, in base alla Rerum Novarum e alla Quadragesimo anno vengono proclamate indispensabili alla cura d’anime dei nostri giorni. Per orientarsi sulla situazione spagnuola, bisogna richiamare alla memoria qualche cifra. La repubblica venne proclamata il 14 aprile 1931, in seguito al risultato delle elezioni comunali nelle maggiori città. Buona parte degli spagnuoli votarono allora in senso repubblicano, con l’idea che una repubblica onesta, liberale, aperta a tutti, significasse la fine dei disordini sociali che nel dopoguerra avevano tante volte insanguinata la Spagna. La Costituente riuscì di 470 deputati: 114 socialisti , 56 radicosocialisti , 43 liberali di sinistra (gruppo Azaña) , 36 catalani , 30 liberali di destra (gruppo Alcalà Zamora), 98 radicali (gruppo Leroux) , 39 agrari conservatori di destra . I pochi mandati restanti si dispersero tra i piccoli gruppi regionalisti. Il primo ministro Azaña si dimise in occasione della nomina di Alcalà Zamora a presidente e il secondo si ricostituì il 15 dicembre 1931, e si distinse dal primo per l’assenza dei radicali che si rifiutarono di collaborare più oltre coi socialisti, da loro accusati di fomentare il disordine sociale, specie nell’applicazione della legge agraria per la spartizione del latifondo. Il secondo gabinetto Azaña si fondava dunque su di una maggioranza così composta: 114 socialisti, 56 radico-socialisti, 43 azione repubblicana o liberali di sinistra, 36 catalani, in tutto 249 mandati su 470. È con una base parlamentare così ristretta che Azaña governò e governa tuttora, è con una combinazione così angusta che i socialisti, pur non possedendo nemmeno la quarta parte dei mandati, esercitano un influsso così preponderante. La paura dei complotti monarchico-militari da una parte, la preoccupazione dall’altra che i socialisti, cacciati all’opposizione, non vadano a rinforzare le schiere del sindacalismo rivoluzionario, ma sovrattutto, la volontà massonica di opprimere e possibilmente sopprimere le istituzioni cattoliche spiegano il perdurare di questa situazione. Essa è prevalsa anche nell’ultima crisi, provocata dal presidente Zamora, il quale dopo un vano tentativo di disincagliamento e trovandosi di contro l’alleanza inscindibile dei socialisti e dei radicosocialisti – pronuba la massoneria – dovette ridare l’investitura ad Azaña e alla vecchia maggioranza. Ritornato al banco del governo, Azaña dichiara ora che il suo ministero si propone di applicare la legge agraria, la legge sulle congregazioni , lo statuto catalano. Ma – presto o tardi e certo non molto tardi – deve pur venire il momento di eleggere un parlamento normale. I cattolici da un simile appello al paese hanno tutto da sperare. Se su 470 deputati solo 278 votarono per le leggi antireligiose, se, a detta di tutti, i 114 mandati socialisti rappresentano un massimo che nelle prossime elezioni non potranno più raggiungere, se buona parte dei radicali devono il mandato alle promesse fatte ai cattolici, è chiaro che basterà che questi ultimi si organizzino e seguano la tattica buona, perché la maggioranza alle prossime Cortes si sposti verso i moderati. Questa speranza non è infondata, quando si tenga conto dei grandi progressi fatti in questi ultimi anni dalla stampa cattolica, benché tratto tratto, in occasione dei complotti, se ne sia limitata o addirittura soppressa la libertà. Grandi comizi d’azione cattolica, sotto la presidenza di Herrera , già direttore del Debate, si sono convocati di questi giorni in tutta la Spagna. Se a questo risveglio, manifestatosi in forma solennissima in occasione della pubblica lettura dell’Enciclica pontificia, corrisponderà nel momento opportuno, uno sforzo – nel campo elettorale, fatto per salvare la Spagna e il suo popolo cristiano – la causa cattolica, di fronte alla quale, come ha rilevato il Pontefice, ogni questione di regime è secondaria, avrà presto la sua rivincita come ne assicura il preludio rappresentato dalle parziali elezioni comunali.
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Il Centro e il partito popolare bavarese si sono sciolti . Il comunicato del Centro dice che i deputati, consiglieri, ecc., provenienti dal partito collaboreranno col governo, mantenendo i propri connotati di origine ed entrando nel gruppo nazional-socialista come ospiti, nella stessa veste cioè, con cui prima della guerra erano ospiti del Centro i deputati cattolici alsaziani o polacchi. Si tratta in verità di un periodo transitorio che riguarda soltanto quelle alcune centinaia di persone che rivestono un mandato; per il resto il partito del Centro viene sciolto ed ogni sua attività è finita. Il Partito popolare bavarese non ha fatto sulla sua fine alcuna comunicazione. Il Centro germanico fu nel sec. XIX e nella prima metà del XX il padre di tutti quei movimenti politici che sorsero negli stati costituzionali moderni dopo il 1870, con un programma di difesa cattolica: diciamo il padre, perché il suo esempio fu il più fecondo benché esso stesso sia stato nel tempo preceduto dalla Destra belga . Le battaglie parlamentari di Windhorst durante il Kulturkampf ebbero una risonanza mondiale: e il duello politico tra il piccolo capo del Centro e il gigantesco cancelliere di ferro richiamò spesso nelle evocazioni retoriche, nelle illustrazioni e fin nelle caricature la singolare tenzone fra Davide e Golia. Giorgio Goyau, scrivendo la storia di quell’epopea parlamentare , parve ammonire i cattolici francesi alla riscossa; de Mun e du Pin, fondando l’Action libérale, richiamarono l’esempio tedesco e, prima ancora, cristiano-sociali viennesi, popolari sloveni e boemi imitarono in casa loro i belgi e i tedeschi. Seguirono nel dopoguerra gl’italiani, i quali però prima ancora di mettersi sul terreno politico, avevano imitato il Volksverein fur das Katholische Deutschland, la grande creazione culturale del Windhorst, nell’Unione popolare di Giuseppe Toniolo. E ultimamente ancora, Gil Robles , il giovane campione parlamentare dei cattolici spagnuoli, chiudendo un suo accorato discorso contro le leggi di persecuzione, aveva tratto ragione di speranza dalla vittoria finale del Centro germanico. Né erano mancati al Centro durante la sua gloriosa storia, augusti riconoscimenti. Già nell’allocuzione 23 maggio 1887 Leone XIII, a proposito del Kulturkampf aveva ricordato «il leale e poderoso appoggio dei deputati cattolici, uomini di incrollabile costanza nella buona causa e dal cui zelo e dalla cui concordia ebbe già la Chiesa non lievi frutti a raccogliere, né minori se ne ripromette per l’avvenire»; e lo stesso pensiero veniva ripetuto nella lettera del cardinal Jacobini – pur dopo l’incidente del settennato – rilevando che in un paese di mista religione, l’opera dei cattolici al Reichstag era indispensabile e aggiungendo che un tale partito poteva giovare anche per la questione romana. Quando il Windhorst morì (19 marzo 1891) il Santo Padre scrisse al presidente del Centro per esaltare i meriti dell’estinto: «Meritatamente voi vi gloriate di aver avuto capo del vostro partito colui che mai non si lasciò piegare d’un passo dalle forze degli avversari o dai flutti popolari…». Documenti simili potrebbero citarsi di vescovi e porporati, ogni volta che, negli anni che seguirono, il Centro intervenne a protezione della Chiesa e delle sue libertà. Ci basti accennare ai riconoscimenti recentissimi ed autorevoli espressi in occasione del concordato col Baden , definitivamente firmato poco prima che crollasse il governo centrista. Quando nel nuovo Reichstag germanico del 1871 i fratelli Reichensperger e il Mallinkrodt fondarono il Zentrum, preesistevano già tra i cattolici certe esperienze e certe direttive politiche, maturatesi nel parlamento di Francoforte nel 1848 e poi nella Camera prussiana: le principali erano che si dovesse evitare il nome di cattolico, per non dar ansa o pretesto a lotte confessionali – in questo senso pubblicò un opuscolo anche mons. Ketteler – e che convenisse mettersi decisamente e nettamente sul terreno costituzionale, giacché solo così era possibile di difendere il diritto all’equiparazione della minoranza cattolica. L’entrata di Windhorst nel partito rinforzò ancora questa tendenza, cosicché tutta la campagna di poi contro Bismarck, incarnazione dell’egemonia prussiana, si fondò sulla difesa della costituzione che garantiva libertà e autonomia alla Chiesa cattolica (e, s’intende, alla luterana) contro l’eccessiva e arbitraria ingerenza dello Stato. Ammaestrati dall’esperienza, i centristi rifiutarono a Bismarck perfino i poteri eccezionali che questi chiedeva allora al Parlamento per poter reprimere il movimento socialista; e lo fecero, dichiarando per bocca del Windhorst che «solo colle forze morali si arriva a convertire un popolo quando sbaglia e mai coi randelli della polizia». Nel periodo guglielmino la situazione si sposta. Il Centro divenuto partito di Stato, senz’essere ancora di governo, è il primo collaboratore della legislazione sociale germanica. Sotto l’influsso di mons. Hitze i cattolici modificarono alquanto il loro atteggiamento di fronte alla questione sociale e, incoraggiati dalla Rerum Novarum, diventano, socialmente parlando, interventisti. Se Windhorst nel 1882 aveva ancora reclamato che «alla libertà privata lo Stato non imponesse altri limiti che quelli necessari per difendere il prossimo dalle inframmettenze altrui», ora i suoi discepoli esalteranno il Wohlfahrtsstaat (lo stato benefattore e patrono). In questo periodo si rivalorizzano le idee corporativiste del Ketteler, si votano le assicurazioni sociali, si chiede l’arbitrato obbligatorio nelle vertenze del lavoro. Ma è specialmente dopo la guerra che la necessità dell’intervento statale s’impone per ricostruire e riordinare quello che lo Stato stesso ha scompaginato o abbattuto. Nel dopoguerra quindi il Centro parlerà di «Stato sociale», di «Stato popolare», di «solidarismo», secondo la sociologia del p. Pesch; e a Weimar i deputati Trimborn e Hitze collaboreranno in prima fila agli articoli economico-sociali e a fissare nella Costituzione il principio: La proprietà obbliga! Ma più forte è in questa svolta storica l’evoluzione politica. «Accettata la repubblica democratica per uscire dal caos della rivoluzione ed evitare la repubblica socialista» (Grober nella Costituente 13 febbraio 1919), i centristi collaborano attivamente alla Costituzione di Weimar. Uno di loro, il Mausbach, ha descritto lucidamente la parte notevole che vi ebbe il Centro. Il Begerle, professore di diritto costituzionale all’università di Monaco, venuto a mancare precocemente quest’anno, compilò allora in abbozzo i 64 articoli sui «diritti e i doveri fondamentali dei cittadini tedeschi», tra i quali naturalmente i diritti alla libertà delle società religiose (chiese). Non va nascosto però che a Weimar la maggioranza proclamò la separazione della Chiesa dallo Stato. I cattolici ottennero tuttavia che in caso di separazione, lo Stato restituisse alle chiese i loro beni e che nel frattempo continuasse a pagare i contributi per il culto. È questa la situazione giuridica provvisoria che ancora dura: ma ciò non impedì che in Baviera , in Prussia e nel Baden si concludessero dei concordati. L’aver indotto a ciò perfino l’ala moderata dei socialisti è merito della politica centrista, la quale ebbe nel dopo guerra due mire fondamentali: guadagnare alla collaborazione positiva per una politica di mezzo i socialisti di destra e nello stesso tempo conciliare i conservatori di destra (tedesco-nazionali) collo statuto di Weimar, riconoscendo pur esso la necessità di rettificarlo e migliorarlo. Questa politica di sintesi e di concentrazione ricostruttiva condusse il Centro a collaborare ora colla sinistra ed ora colla destra, finché lo sfaldamento dei partiti portò al governo presidenziale di Brüning, governo però che si proponeva di educare il Parlamento ad una collaborazione più feconda. Ora se spetta definitivamente alla storia il giudizio sugli uomini, i procedimenti tattici, gli atteggiamenti di opportunità e i criteri normativi rivelatisi o presi, attuati o seguiti in questi ultimi anni, basta, qui, una serena obbiettività per ricordare quelle conclusioni generiche che sono oramai acquisite alla storia e che sono queste: i cattolici del Centro difesero i diritti della propria Chiesa, senza attentare mai alla libertà delle coscienze altrui; cercarono di superare la lotta di classe predicando ed attuando il solidarismo cristiano; tentarono in uno sforzo logorante e tenace di temperare la libertà coll’autorità, di dare a ciascuno il suo, allo Stato e al cittadino, a Dio e a Cesare. Chi legge i nove volumi di Carlo Bachem , il quale narra la storia del Centro, non può sottrarsi a questa impressione sintetica, la quale al disopra dei successi e degl’insuccessi, giustifica una direttiva ed una tradizione. Il Centro lascia un patrimonio di esperienza e di pensiero che sopravviverà alla dissoluzione della sua forma organizzativa non solo nel ricordo ma nella coltura dei cattolici tedeschi. La Conferenza economica mondiale ha preso la decisione di non sciogliersi, per il momento; ha voluto cioè evitare di dovere, con lo scioglimento e aggiornamento, proclamare di aver mancato del tutto al proprio scopo. Discuterà intanto la questione dei debiti privati internazionali, sulla quale tutti i paesi hanno interesse di venire ad utili accordi, e contemporaneamente le innumerevoli commissioni e sottocommissioni discuteranno le materie di loro competenza allo scopo di elaborare per ogni grande questione che attende una soluzione dei suggerimenti, dei capisaldi da servire per le eventuali decisioni avvenire. È una battuta d’aspetto! La politica inflazionistica adottata dagli Stati Uniti secondo il programma del presidente Roosevelt, e il rifiuto di questi all’accordo per la stabilizzazione del dollaro sulla base aurea in concordanza con la contemporanea stabilizzazione della sterlina, ha scombussolato tutto il piano della Conferenza. La quale, con la decisione presa e con un periodo di vacanze in vista, potrà attendere gli effetti dell’esperimento americano. Dopo di che si spera che la saggezza abbia il sopravvento.5
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I rivolgimenti tedeschi sono così profondi ed hanno un’eco internazionale tanto vasta, che questa rubrica è costretta ad occuparsene quasi ogni quindicina. Lumeggeremo oggi le vicende del protestantesimo nel nuovo Reich. È noto che in ogni Stato germanico dalla riforma in qua il capo supremo della Chiesa del paese era il principe; né Bismarck, costituendo nel 1871 l’impero, era riuscito a creare la Reichskirche, invocata anche allora dai partigiani dell’unità. Crollato l’impero e scomparsi i principi, le 28 chiese degli stati si riorganizzarono democraticamente con un sistema parlamentare e con alla testa un sinodo elettivo. Nel 1922 tuttavia si riuscì anche a costituire una «federazione evangelica tedesca» , alla quale aderirono in un primo tempo tutte le «chiese» degli stati germanici, e più tardi anche le sette del protestantesimo tedesco estero (Austria, Brasile, ecc.). Le singole chiese rimangono libere e diverse non solo negli ordinamenti, ma anche nel contenuto dommatico del loro credo. Nel cuore di molti protestanti restava quindi conficcata come una spina la nostalgia verso un’unità della fede e degli spiriti. La questione continuava a venir dibattuta nelle varie riviste teologiche, ma la controversia rivelava l’esistenza di tre correnti principali: il nuovo luteranesimo che affermava la divinità della Chiesa, la teologia dialettica che la negava, ed infine la corrente storica, la quale proclamava che la «Chiesa visibile» nel senso del Vangelo vive nelle singole comunità cristiane . Ma ecco ora impadronirsi della questione il travolgente nazionalismo hitleriano. Nelle elezioni ecclesiastiche del passato autunno, i nazionalisti si presentarono come partito dei «cristiani tedeschi» e conquistarono la terza parte dei seggi, e a mano a mano che il loro movimento politico prevalse, più impetuosa si rivelò la loro volontà d’impadronirsi anche delle chiese per farne un blocco unitario. «Hitler chiama e la Chiesa deve rispondere all’appello», fu la parola d’ordine del loro ultimo Congresso a Berlino . In questo momento le vecchie direzioni delle chiese compresero che bisognava correre ai ripari e prevenire il pericolo d’una riforma imposta dallo Stato. L’allarme lanciato prima da una circolare dei pastori di Altona si fece generale . Il dottor Kapler , presidente in carica della «federazione evangelica tedesca» comunicava il 24 aprile d’aver preso l’iniziativa della riforma e d’aver nominato a suo fianco il «vescovo» luterano dello Hannover, Mahrerens , e il riformato dr. Hesse per preparare la costituzione di una nuova «chiesa federale germanica». Alcune settimane dopo (il 18 maggio) si annunzia che intanto si sono strette in una lega le chiese luterane – gradino secondo alcuni indispensabile, per passare poi ad unire le luterane colle riformate – e il 26 maggio finalmente il pubblico è sorpreso dalla pubblicazione di una nuova costituzione della «Chiesa evangelica tedesca unificata» . Il sinodo generale sarà parte cooptato, parte eletto dalle chiese. Alla testa starà un «vescovo del Reich» luterano coadiuvato da un ministero, nel quale saranno rappresentati anche i riformati. Il manifesto rileva quello che unisce le singole sette e tace su ciò che le divide. L’unione è formale, le differenze dommatiche rimangono, ma per affermare l’autonomia di fronte allo Stato si ricorre alla forma episcopale e dopo tanti anni, si torna a parlare di vescovi! Apparentemente nella riunione deliberativa il parroco militare Müller , capo dei «tedeschi cristiani», aveva aderito alla riforma; cosicché ancora la stessa notte dal 26 al 27, con una drammaticità che la stampa ignora ma che s’indovina, i dirigenti ecclesiastici passarono a designare il capo nel pastore Federico von Bodelschwing . I «cristiani tedeschi» avevano proposto il Müller, che ebbe solo 31 voti su 55 (11 chiese contro 13). Nello scrutinio finale votarono per Bodelschwing 91 delegati contro 8. Ma, ahimé, povero Reichsbischof! I cristiano-tedeschi gli dichiararono guerra, lo Stato prussiano si rifiuta – per quello che lo riguarda – di sanzionare la sua nomina, Hitler non lo riceve, il ministro dell’interno del Reich lo cita per affermare in suo confronto i diritti dello Stato e il 24 giugno finalmente si agisce e si decide. Il ministero prussiano scioglie giunte ecclesiastiche, sinodi e concistori e manda dappertutto commissari, in parte laici, in parte ecclesiastici. La decisione ebbe eco profonda. Lo si indovina dalle laconiche pubblicazioni di organi conservatori protestanti come la Kreuz-Zeitung. Alcuni corpi direttivi spodestati ricorrono al Tribunale di Lipsia, altri si rivolgono ad Hindenburg. Le autorità deposte ordinano preghiere; quelle commissariali impongono di pavesare le chiese. Non si sa quanti e quali pavesarono e quanti pregarono. Ma all’estero, si ha notizia della resistenza di un parroco di Rabenau in Schöneberg e di una vivace protesta della comunità del Getsemani in Berlino . Leggemmo anche nella Neue Zürcher Zeitung del 29 giugno la significativa lettera di «un protestante tedesco». «Migliaia di fedeli evangelici – dice la lettera – sono pieni di tristezza e stupore per quanto succede in Prussia. Involontariamente a molti protestanti s’impone oggidì il confronto colla Chiesa cattolica, la quale può andare avanti tranquilla ed indisturbata per la sua strada, e i cui vescovi nella loro recente pastorale hanno saputo dire una parola franca e severa, anche di fronte al nuovo Stato. Il paragone colla Chiesa evangelica è assai avvilente… L’attacco subìto in Prussia scuoterà dalle fondamenta la Chiesa evangelica; esso vi porta una scissura che col tempo può condurre alla dissoluzione…». Nel frattempo Hindenburg intervenne colla nota lettera al Cancelliere nella quale, dopo aver espresso le sue preoccupazioni per la libertà delle chiese, lo invitava a comporre il conflitto. Hitler ne diede incarico al parroco Müller, nominato sommo dignitario della Chiesa prussiana. È col suo consiglio che si pubblica ora come legge dello Stato la nuova «costituzione della Chiesa evangelica tedesca» . Se non c’inganniamo, questo testo rappresenta un compromesso. La Reichskirche – nome in realtà abbandonato – è una nuova facciata per lo stesso edificio formale e federativo che si chiamava prima Kirchenbund (Federazione). Le chiese degli stati rimangono indipendenti e quindi divise circa il credo e il culto. C’è in più il vescovo nominato dai corpi direttivi centrali e dai delegati delle chiese. Queste alla fine del mese dovranno eleggere le nuove cariche. I commissari quindi scompariranno, gli hitleriani arriveranno al comando per mezzo delle elezioni. Il nuovo capo verrà eletto il 10 novembre, nell’anniversario di Lutero, per il quale si spiega già una viva propaganda. Ma la questione rimane insoluta. L’unità spirituale dev’essere cercata nei cuori e nella fede: e qui il protestantesimo rimane avvinto nelle spire della sua contraddizione. Ci siamo abituati ad essere molto scettici di fronte alle notizie sulla Russia, perché i fatti hanno smentito le periodiche previsioni dei fuorusciti o perché ci siamo oramai convinti che 2 milioni e mezzo di comunisti, modernamente armati, hanno già fornita la prova di poter dominare comunque 160 milioni di uomini inermi. Ma questa volta le relazioni pubblicate nel Manchester Guardian da Garreth Jones , già segretario di Lloyd George, dopo aver visitate le regioni meridionali della Russia, le notizie fornite dal Times, le corrispondenze di Pierre Berland nel Temps; le pubblicazioni di Otto Schiller , esperto agronomo presso l’ambasciata tedesca in Mosca ed infine il manifesto testé comparso nei giornali di Evaldo Amende, segretario dei congressi delle nazionalità europee, che fu in Russia anche nel 1921, a capo della Croce Rossa estone, ci fanno ritenere che il sistema comunista si trovi lassù veramente in grossi guai. Com’era da supporre, si tratta di crisi agraria. Stalin aveva annunciato l’anno scorso di essere riuscito a «collettivizzare» già il 61% di tutte le terre coltivate, in 220.000 poderi collettivi e in 5.000 tenute granarie dello Stato. Il provvedimento che si estende a 100 milioni di uomini è veramente grandioso, scrive Otto Schiller, ma nell’attuazione quello che è mancato del tutto è stato il fattore uomo. Il governo ha incontrata la resistenza tenace del contadino, e deve ora ricorrere a misure draconiane. La raccolta del 1932 fu disastrosa anche per la ruggine e per le intemperie; mentre i mezzi di trasporto si trovavano decimati avendo i contadini macellato in massa le bestie da tiro, ridotte negli anni 1928-1932 da 70,5 milioni a 29,2. A stento si riuscì così a requisire la quantità necessaria ad alimentare le regioni settentrionali industrializzate e le città maggiori. Ma dove fa strage la fame è nei villaggi, spogliati per alimentare i centri industriali: qui, come riferiscono i corrispondenti dei giornali succitati e specialmente l’Amende, il quale ha raccolto una copiosa documentazione di testimonianze oculari, i contadini muoiono a centinaia di migliaia. Ma peggio si prevede per l’inverno. Il nuovo raccolto è scarso; la semina venne fatta male. Il Berland stesso dice di aver osservato «de blès clairsemés dans des terres labourées à la diable». Le previsioni dei tecnici sono fosche. Il governo ha perfezionato il suo sistema di requisizione, o, come si dice ufficialmente, di riscuotere il tributo in natura; un decreto del 10 giugno inasprisce la procedura. Si devono assolutamente rifornire le regioni industriali, poiché con esse sta e cade il regime bolscevico. Si prevede perciò che la fame flagellerà specialmente le regioni agrarie . Amende propone un’azione di soccorso internazionale, come quella di Nansen nel 1920 . Ma allora il governo bolscevico ammise la carestia: vorrà oggi confessare dopo tanti esperimenti un sì grave fallimento del sistema? Probabilmente no, perché la Izwiestia ha già smentito sdegnosamente l’esposizione dell’Amende. Vero, del resto, che si potrebbe parlare anche di fallimento mondiale, quando si pensi che mentre sul Volga si muore di fame, sulle rive del Tamigi si discute sul modo di ridurre del 20% la produzione granaria del Canada, dell’America settentrionale, dell’Argentina e dell’Australia.
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L’esperimento di Roosevelt trova in Europa più critici che ammiratori. Specialmente i giornali e le riviste che si pubblicano nei paesi del blocco aureo giudicano i suoi provvedimenti con riflesso sovrattutto all’inflazione monetaria e, citando l’esempio della Germania, prevedono disastri economici ed annunziano crisi sociali. Nelle argomentazioni di questa stampa fanno sempre capolino le «leggi naturali economiche», il «giuoco naturale dei valori» ed altre parole d’ordine della dottrina economica classica. Questa trova naturalmente dei sostenitori anche nei paesi inglesi; ma è notevole che in genere l’opinione inglese si mostri più cauta nel giudicare, e che vi esista anzi una minoranza assai decisa, la quale plaude all’esperimento americano: il che avviene su più larga scala nei paesi tedeschi, nei quali sorgono degli economisti per esaltare «il meraviglioso tentativo di Roosevelt di sostituire al dollaro-oro il dollaro-merce». Questi tedeschi credono che il presidente stia mettendo in pratica la teoria del tedesco-americano Irwin Fischer il quale non vuole legare il dollaro ad un contenuto aureo fisso, ma vincolarlo invece alla sua capacità d’acquisto. Non è qui il luogo di discutere questa teoria, tanto più ch’è dubbio assai se il Roosevelt si inspiri a tale dottrina. Come si può leggere nel suo libro «Guardando il futuro» , il presidente è tempista e pragmatista e dichiara francamente che in economia bisogna tentare un metodo e, se non va, provarne un altro. In genere, trattandosi di anglosassoni e specialmente di americani, le categorie europee e i vari -ismi del nostro continente, come rilevò già l’on. Mussolini a proposito del fascismo, non sono facilmente applicabili. Anzi se c’è qualche cosa di indiscutibile e che merita di venir messo in rilievo, prima ancora che si possa valutare nei suoi effetti il piano economico di Roosevelt, è proprio il carattere specificatamente americano e nettamente esperimentale di codesta sua grandiosa impresa. Il suo sistema rappresenta uno stadio dell’evoluzione americana ed egli stesso si propone di dimostrare nel suo libro più sopra citato che se Jefferson , uno dei padri della costituzione americana e fondatore del partito democratico, tornasse oggi al potere, governerebbe allo stesso modo, cercherebbe cioè di dare alla economia americana una costituzione a somiglianza di quella politica, basata cioè sugli stessi diritti fondamentali del cittadino. «È l’evoluzione economica, esclama Roosevelt, che ha alterato i metodi d’azione del governo, ma i principi sono quelli di Jefferson: adunate i dispersi agricoltori, gli operai, gli uomini di affari per farli partecipare alla vita pubblica» (p. 15). L’evoluzione è stata accelerata dalla guerra, ma la nostra fase deriva dal periodo antecedente e dal trionfo della macchina. «Wilson nel 1912 aveva visto chiaramente il problema, esclama a p. 31 il Roosevelt, e se vi avesse potuto dedicare i suoi otto anni di presidenza, oggi non saremmo a questo punto». Quest’affermazione così contraria al concetto del wilsonismo quale si usa deprecare in Europa, ci ha fatto riprendere in mano il libro in cui l’antico presidente democratico raccolse prima della guerra i suoi discorsi programmatici: The New Freedom . E veramente rileggendo il Wilson, si vede che Roosevelt non fa che marciare, sia pure allungando il passo, nella sua direzione. Nel 1912 Wilson annunziava l’avvento di un nuovo ordine di cose (the old order changeth) e proclamava la necessità di creare una nuova organizzazione sociale. Ogni epoca, egli dice, segue in tutto il suo pensiero dominante. Alla fine del secolo XVIII dominava la teoria di Newton e perciò anche lo Statuto americano cerca un equilibrio statico bilanciando pesi e contrappesi; più tardi s’impose la teoria di Darwin e da allora anche lo Stato è pensato e trattato come un organismo. Come tale, dice Wilson, esso deve obbedire alle leggi della vita e perciò svilupparsi. Ed ecco la direttrice di questo sviluppo. Jefferson voleva la libertà dell’individuo e per questo il migliore governo gli sembrava quello che meno governasse. Ma il trionfo della macchina e dell’Anonima hanno portato ad «un invisibile impero che si è sovrapposto alle forme della democrazia». Contro il monopolio dei trust deve quindi intervenire lo Stato per assicurare all’individuo la libertà e la possibilità (opportunità) di lavorare. «Qualunque cosa che deprime e rende l’organizzazione più forte dell’uomo… è contro i principi del progresso…». Il programma di libertà del governo dev’essere oggidì non semplicemente negativo, ma ricostruttivo. Come esempio di legislazione sociale Wilson si richiamava all’esperienze fatte da lui, quale governatore del New Jersey nell’imporre obblighi e limiti alle imprese di pubblica utilità. Infine Wilson riafferma la sua fede democratica, ma cita lo statuto fondamentale della Virginia per dimostrare che la forma della democrazia è elastica e che il popolo ha sempre il diritto di adattarla ai nuovi bisogni. Anche Roosevelt, come abbiamo visto, si richiama al modello di Jefferson, anch’egli opina essere «compito del governo di mai favorire i gruppi singoli a detrimento dei diritti individuali e della proprietà privata» (p. 28), anch’egli accetta il sistema di governo che si basa sui partiti politici «perché allena il popolo a ispirarsi a concetti comuni della nostra civiltà» (p. 12), anche Roosevelt oppone al monopoly delle società finanziarie l’opportunity, cioè il diritto di ogni cittadino americano al lavoro. Ma non basta. L’evoluzione ha progredito e se la generazione passata parve non aver altra cura che di vendere e di produrre, ora invece s’impone «di elaborare piani preventivi atti ad evitare la sovrapproduzione», e Roosevelt si dichiara «partigiano di un ordinamento preventivo, delle attività economiche da attuarsi non solo per superare il periodo in corso, ma anche per l’avvenire». Anche il nuovo presidente ha fatto le sue esperienze come governatore dello Stato di Nuova York , ove la sua parola d’ordine fu «Land Utilisation and State Planning»: intervento dello Stato per diminuire le colture intensive e ricondurle in parte a bosco e pascolo in base ad un piano graduale a cui devono cooperare i proprietari, gli enti locali e lo Stato. La crisi agraria è la sua preoccupazione principale. «Il prezzo dei prodotti che gli agricoltori acquistano, supera del nove per cento quello corrente prima del 1914. Invece il valore delle derrate agricole è diminuito del quarantatré per cento» (p. 133). Per combattere il deprezzamento dei prodotti agricoli egli lascia quindi cadere il dollaro; e perché la svalutazione della moneta porta ad un aumento dei prezzi, vuole che i consumatori, cioè gli addetti alle industrie, ottengano un aumento di salario per poter mantenere, anzi stimolare il consumo. Ciò avviene mediante «codici del lavoro», liberamente accettati dai padroni e proclamati dal governo. Questi codici o regolamenti portano anche una diminuzione di orario, perché possano riassorbirsi i disoccupati. Nello stesso tempo si dedicano alcuni miliardi ai lavori pubblici e si parla – lo annunzia già il Roosevelt nel suo libro – di assicurazione contro la disoccupazione. A buon diritto quindi Butler, presidente dell’Ufficio internazionale del lavoro, plaude all’opera del Roosevelt, perch’essa collide in buona parte colle proposte dell’Ufficio. E tutto ciò avviene facendo appello alla libera cooperazione dei cittadini ed esaltando, come avevano già fatto Woodrow Wilson e Teodoro Roosevelt, lo «spirito del pioniere americano». «Io non posso garantire il successo di questo piano nazionale, proclama nel suo ultimo manifesto il presidente, ma il popolo ed il paese lo possono garantire… Io non ho alcuna simpatia per gli economisti professionali che non vogliono lasciar andare le cose per il loro corso, ma nutro fede nella forza dell’interesse comune e nella forza dell’azione unificata del popolo americano». L’impresa di Roosevelt è molteplice, complessa ed appena agli inizi. La restaurazione economica è affidata ad un Consiglio del quale fanno parte oltre i ministri, i rappresentanti di dieci organismi creati ad hoc: quello della NIRA («National Industrial Recovery Act») che è il «general» Johnson , quello dei trasporti, quello della ricostruzione finanziaria, quello dei prestiti ipotecari, quello contro la disoccupazione, quello dell’agricoltura, regolatore della produzione agricola ecc. ecc. L’ampiezza del «fronte economico», ingaggiato nella lotta, è appena immaginabile! Non ci sembra tuttavia che si possa qualificare l’esperimento americano come una rivoluzione. Noi abbiamo dimostrato anzi, citando Roosevelt e Wilson, che si tratta di una evoluzione, incalzata, è vero, a grande rapidità dalla crisi economica. Il fenomeno dell’economia manovrata è oramai generale: in alcuni paesi esso è compagno d’un rivolgimento politico, ma in alcuni altri è semplicemente un portato della guerra, del dopoguerra, della crisi di sovrapproduzione, delle lotte doganali. Non si è sentito Neville Chamberlain , conservatore, proporre misure inflazionistiche che una volta si rimproveravano ai socialisti? La Camera francese con 530 voti contro 46 non ha fissato il prezzo minimo del grano? L’Olanda, paese classico del liberismo, non ha proibito l’allevamento di altri porci che non siano i porci «officiali», quelli muniti cioè del marchio governativo sulle orecchie? Il ministro francese dell’agricoltura per difendersi da un onorevole che lo accusava d’introdurre di contrabbando il socialismo «dans les fourgons de l’Economie dirigée», rispose alcune settimane fa che la crisi aveva messo in forse tutte le dottrine. Si potrebbe aggiungere anzi ch’essa ne ha creato o promosse di nuove. I fenomeni economici sono complessi e si prestano docilmente alle interpretazioni politiche. Una volta per quanto riguarda l’intervento dello Stato nell’economia tutti erano liberali, non esclusi molti ed illustri cattolici belgi, francesi e tedeschi. Ora invece s’incontrano in tutti i paesi dei cattolici che, stanchi e come spossati dalle lotte contro il socialismo tradizionale, accettano senza beneficio d’inventario il socialismo che viene da altre parti. La linea aurea sta nel mezzo, ed è tracciata dal diritto naturale e segnalata dalle encicliche pontificie.
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La quindicina feriale più che avvenimenti registra discussioni. All’ordine del giorno sopra ogni altra sta la questione dello Stato. La fatale necessità d’intervenire sempre più a fondo nella vita economica ha spinto anche gli stati più parlamentari, come, ad esempio, il Belgio, la Czecoslovachia e in qualche misura anche la Francia, a concedere ai governi, in tale materia, poteri più o meno discrezionali. Quest’investitura solleva naturalmente dei contrasti e mette in discussione anche il sistema di governo. Quando si tratta di provvedere rapidamente con disposizioni d’imperio, l’esempio dei governi autoritari attrae e seduce, perché la stabilità politica è compagna delle iniziative rapide e delle grandi imprese. Questo tuttavia non basterebbe. La Francia, nonostante il regime più parlamentare del mondo, mantiene una disciplina nazionale sufficiente per tener alte le sue tradizioni civili e militari, conservare la sua salda struttura finanziaria, alimentare la sua potenza d’irradiazione. E pure anche in Francia aumentano le voci di allarme che invocano riforme e cambiamenti. Non pensiamo qui naturalmente alle voci della Destra legittimista o nazionalista, perch’esse anche altrimenti si spiegano, ma ad uomini come Tardieu , Caillaux , Flandin , Pietri ed altri liberali democratici della vecchia scuola i quali, appunto per preservare democrazia e parlamento da interventi chirurgici più radicali, insistono sulla necessità di riformare regolamenti e costumi politici. Tardieu torna a chiedere dalle colonne dell’Illustration che sull’esempio di quella inglese si tolga alla Camera francese il diritto di proporre delle spese, sottraendo così i deputati all’assalto delle cupidità elettorali. Ma altri fa più questione di costume e dello spirito con cui le istituzioni democratiche vengono rette. Il Temps , in occasione del congresso nazionale degl’insegnanti, nel quale si è minacciato lo sciopero contro un’eventuale riduzione degli stipendi e si è votato un o.d.g. contro la difesa nazionale chiede che il governo punisca lo sciopero dei funzionari, del resto dalle leggi vigenti già vietato, e che trovi la maniera forte contro i maestri malfidi. Di più in un’altra serie di articoli lo stesso organo liberale denuncia «tutto questo eccesso di parlamentarismo che consiste nel fatto che le Camere tendono sempre più a trasformare la loro missione di controllo in un compito di governo», mediante «il regime delle grandi commissioni permanenti…, l’abuso del diritto d’interpellanza, la sostituzione del controllo a posteriori con controllo a priori…». Il Temps urge perché cessino queste degenerazioni parlamentari, sovrattutto perché teme le velleità dittatoriali dell’estrema sinistra. Non la Destra gli fa paura, che pure da tanti anni invoca la restaurazione monarchica, non il nazionalismo maurassiano, che si vanta d’essere il padre spirituale di tutti i nazionalismi europei; ma quel gruppo di socialisti che al seguito di Renaudel si dichiarano per l’attivismo e il collaborazionismo e che – per quanto essi protestino contro tale attributo – vengono denunciati come nazional-socialisti da Blum e dai vecchi seguaci dell’ortodossia marxista. Scopo più preciso hanno le discussioni dello stesso genere nella stampa viennese. La nomina dell’ex cancelliere Ender a ministro senza portafoglio coll’incarico di preparare la riforma costituzionale austriaca rende la discussione della massima attualità. Secondo un «professore universitario» della Reichspost la riforma austriaca dovrebbe evitare «gli errori del vecchio parlamentarismo senza essere una copia schematica degli organismi statali autoritari già esistenti… L’idea della partecipazione di tutti i cittadini maturi e responsabili allo sviluppo politico della loro patria dev’essere portata in salvo anche nella nuova epoca: poiché in ciò sta la sostanza etica della democrazia, del parlamentarismo». La Camera dovrebbe quindi essere eletta a suffragio universale, corretto tuttavia ed integrato dal voto plurimo concesso alle persone di coltura, di efficenza produttiva e ai padri di famiglia. Ma questa Camera delibererebbe soltanto su materie politiche (esteri, interni, difesa, scuola), mentre quanto riguarda l’economia e le provvidenze sociali verrebbe deferito ad una seconda Camera corporativa, eletta dalle classi professionali. Il presidente della repubblica otterrebbe maggiori poteri in modo da equilibrare l’attività delle due Camere. Ma la Camera corporativa suppone le corporazioni. In Austria i contadini sono ben organizzati, sia nelle forme cooperative del credito, della vendita e compera cumulativa, sia come rappresentanza d’interessi nei Consigli provinciali d’agricoltura o nelle camere agrarie locali. I latifondisti sono pochissimi, i braccianti non molti. Questa classe di piccoli proprietari è pronta dunque ad assumere le funzioni di corporazione. Anche l’artigianato, in virtù d’una antica legge, proposta dai cattolici verso il 1880 e che fu allora invocata ad esempio da tutti i corporazionisti d’Europa, è organizzato in eccellenti «consorzi» (Gewerbegenossenschaft) con un’esperienza regolamentare e pratica di cinquant’anni . Ma nella grande industria la maggioranza degli operai è organizzata nei sindacati socialisti, la minoranza in quelli cristiani. Solo le commissioni paritetiche possono qui servire di base. Si farà il sindacato unico di diritto pubblico? E potranno vivere accanto ad esso altre associazioni professionali di colore? Se sì, come assicurare la pace sociale, quando un forte gruppo coltivi la lotta di classe? Se no, come conciliare l’abolizione della libertà sindacale colla pratica del suffragio universale che si vuol conservare? Gli agrari, sotto il vice cancelliere Winkler, invocano lo Stato corporativo e si proclamano rappresentanti delle professioni medie; ma si tengono sulle generali. I socialisti sono fuoco e fiamme contro il «corporativismo fascista». Solo i cristiano-sociali affrontano il problema con idee proprie. L’ex ministro del lavoro Riccardo Schmitz e il noto scrittore di cose sociali Weichs-Glon , riallacciandosi alle direttive formulate l’anno scorso anche nel congresso di Essen da p. Gundlach , sostengono che le corporazioni o meglio gli «stati» devono essere autonomi e che lo Stato deve proporsi di prepararli ed educarli a tale autonomia, affidando loro compiti sociali ed economici che riguardano l’intiera classe. Questa educazione all’autonomia presuppone naturalmente che i conflitti entro la categoria vengano almeno in ultima istanza definiti dall’arbitrato obbligatorio. Fissato questo, «esaminate le circostanze e trovati gli uomini adatti, lo Stato prenda il coraggio a due mani e si fidi pure dell’autonomia», esclama lo Schmitz. Il Weichs-Glon ritiene anzi che l’organizzare operai e datori di lavoro divisi secondo la loro funzione sul mercato del lavoro (Arbeitsmarktparteien) sia errore fondamentale. Le corporazioni, secondo lui, non devono venir decretate dall’alto, ma promosse organicamente, molteplici e diverse secondo il genere e la potenzialità del lavoro. Tutte queste legate assieme formano lo «stato», la classe, lo Stand. Lo Stand deve alleggerire lo stato dei compiti sociali che non gli competono se non integrativamente. Queste dichiarazioni, le quali provengono dai circoli cristiano-sociali che elaborano la riforma, farebbero credere che in Austria non si pensi intanto che ad una legge-cornice, entro la quale, con decreti governativi o atti deliberativi della Camera corporativa, verrebbero riconosciute e dotate di carattere pubblico le corporazioni a mano a mano che organicamente si sviluppano. Ma poiché la riforma politica è urgente bisognerà ammettere che una prima Camera corporativa venga costituita in forma transitoria. Dietro quest’impalcatura verranno su lentamente i muri maestri del nuovo edificio. Ma basteranno agli attuali riformatori la forza e la tenacia per compiere l’opera? E in qual modo gli aizzatori della lotta di classe e i fautori della dittatura statale verranno indotti ad assistere passivamente, se non benevolmente? Pare che si pensi ad un tribunale di salvaguardia: ad una Suprema Corte elettorale che lascerà entrare in lizza soltanto quelle liste le quali ammettano per programma lo Stato austriaco indipendente. Cautela che può avere effetto contro comunisti e hitleriani, ma sarebbe difficilmente applicabile contro la socialdemocrazia. Ma in questa materia converrà attendere formule più precise. Salazar , il professore universitario, venuto al potere la prima volta in forza della dittatura militare e rimasto poi, per il suo talento di finanziere e ricostruttore, arbitro del nuovo regime portoghese, ha certo il compito più facile, almeno formalmente, perché trova il terreno già sgombro da società e da partiti . Un decreto, emanato dal sottosegretario delle corporazioni, crea per ogni dipartimento e per ogni distretto una associazione padronale del commercio, una seconda per l’industria e una terza per l’agricoltura. Un altro decreto ordina l’istituzione di associazioni parallele degli operai. Entrambe le categorie sono autorizzate a concludere contratti collettivi e a fondare istituti di previdenza per i lavoratori; le associazioni padronali dovranno subordinare i loro interessi all’interesse nazionale . Siamo dunque al corporativismo fascista, del quale Salazar si è dichiarato ammiratore: in una recente intervista egli ha aggiunto anche di riconoscere i meriti di Hitler nella repressione del comunismo, ma di temere che in materia sociale ed economica Hitler vada troppo avanti. Troppo avanti? Non è questo il pensiero di von Ley , capo del fronte germanico del lavoro il quale teme solo di rimanere indietro. In un grande discorso programmatico, tenuto a Brenau innanzi alla scuola dei dirigenti nazionalsocialisti, egli ha messo in risalto i compiti educativi del corporativismo, annunziando che agli operai va distribuito anche il pane della scienza. «L’Italia, ha detto, si è dedicata a tale opera, ma gl’italiani in nostro confronto sono in arretrato: noi in altri sei mesi saremo ancora più avanti». È chiaro invece che gli hitleriani – come non può essere altrimenti? – si trovano appena nello stadio di assestamento e finora nel campo corporativo non sono gran che più avanti dei loro predecessori.
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Riunioni crepuscolari si possono definire quelle convocate in agosto dall’Internazionale socialista . Chi ha superato la sessantina ricorda ancora gli entusiasmi e i timori che divisero l’Europa, quando nel 1889, sotto l’irresistibile impulso del partito socialista germanico, si costituì nella capitale francese l’«Internazionale operaia socialista» . I tedeschi fornirono allora la dottrina scientifica e la pratica organizzativa, i francesi l’enfasi giacobina, gli emigrati delle autocrazie la loro inestinguibile sete rivoluzionaria. Da una parte sembrò allora che la creazione parigina si piazzasse nella corrente realista, perché escluse gli anarchici, e dall’altra che autorizzasse le più ardite speranze rivoluzionarie, perché non volle accogliere nel suo seno i labouristi inglesi. Vane demarcazioni! L’Internazionale – come i partiti ad essa affigliati – d’allora in poi soffrirà sempre dell’interna contraddizione che ancor la consuma e i dibattiti fra ortodossia marxista e revisionismo, intransigenza rivoluzionaria e possibilismo parlamentare, aspirazione alla dittatura e metodo democratico si ripeteranno in ogni congresso, senza concludere mai. Anche le ultime assise attestano che il male persiste e fa cancrena . Leone Blum v’invocò la ricostituzione dell’unità operaia, del fronte unico cioè col comunismo russo, essenzialmente antidemocratico e dittatoriale, mentre Renaudel perorò la difesa delle democrazie. Pietro Nenni vide nella disfatta del socialismo germanico una dimostrazione definitiva dell’infecondità del metodo e del programma democratico, mentre il cosiddetto gruppo neosocialista, nella Conferenza ed ai suoi margini, dallo stesso fatto derivò la necessità di appoggiare i governi di sinistra e Modigliani si levò ad abbracciare Déat che con più vigore aveva sostenuta questa tesi. Da una parte il danese Branting mise in guardia contro chi volesse abbattere le dittature esistenti per istaurarne un’altra, sia pure quella del proletariato, dall’altra l’austriaco Federico Adler affermò la necessità della ricostruzione sociale contro la dittatura hitleriana. L’ordine del giorno, affidato non a caso all’abilità stilistica di Otto Bauer , il teoreta di quell’austromarxismo che fu nel dopoguerra una miscela equamente dosata di democrazia parlamentare e di bolscevismo comunista, è una tortuosa giustapposizione dei due principi e dei due metodi in modo d’accontentare i moderati, senza urtare le opinioni estreme. Da una parte si riafferma la meta della statizzazione o collettivizzazione e si dichiara che alcuni fra i sistemi oggi vigenti vanno considerati come «fasi intermedie» dell’inevitabile evoluzione sociale; dall’altra si proclama che tali sistemi possono tramutarsi in servitù, quando non siano frenati dalle libertà individuali e sindacali. Per tali paesi si proclama che la dittatura dev’essere abbattuta colla rivoluzione popolare, la quale «une fois victorieuse, ne se bornera pas à la briser», ma stabilirà un nuovo ordine sociale. «Per i paesi invece, ove continua la democrazia, la classe operaia deve difendere con tutte le forze le libertà individuali e collettive, il suffragio universale e la libertà sindacale»: ecco la tendenza Renaudel; ma «la democrazia non può essere efficacemente difesa che nella misura in cui essa passerà dalla democrazia politica alla democrazia sociale»: ed ecco accontentato anche Leone Blum. Quest’altalena di direttive, che si riproduce quasi in ogni capoverso, non merita di venir registrata, se non per comprovare l’impossibilità per i socialisti di svincolarsi dal pregiudizio marxista che è il loro peccato originale. Federico Adler ha detto a Parigi che la socialdemocrazia germanica soccombette schiacciata tra la dottrina comunista e la dottrina democratica. Ciò è vero solo nel senso che i socialisti tedeschi nei momenti decisivi del dopoguerra sbarrarono la via al comunismo, fecero tirare sugli spartachiani, e convocarono la costituente democratica ; ma non seppero liberarsi dai pregiudizi dottrinali del marxismo né sollevarsi al di sopra del materialismo storico, da cui erano venuti, in modo che fra la socialdemocrazia e i partiti borghesi i quali collaborarono con essa per salvare il sistema rappresentativo dalla minaccia comunista, rimase sempre spalancato l’abisso che divideva le loro idee e i loro ideali e che li costringeva, anzi, nel vasto e complesso arringo della vita individuale e sociale, a combattersi senza tregua e senza possibilità di accomodamenti. Non si può invero negare che una qualche evoluzione non esistesse nel socialismo anche verso lo spiritualismo, ma fu moto troppo lento, incapace di scuotere la grave mora del passato. La socialdemocrazia germanica cadde quindi fra due diffidenze contraddittorie, la diffidenza dei rivoluzionari e la diffidenza dei democratici. I suoi adepti perdettero la fede: gli uni si rivolsero verso Mosca, gli altri si volsero a quel partito che si chiama pur esso «socialista» e «operaio» e mostrava di aver la volontà di agire e di fare sul serio la sua rivoluzione. Dalla risoluzione di Parigi si dovrebbe dedurre che i socialisti non sanno né apprendere né agire. Ma è lecito credere alle eccezioni? Il nuovo socialismo di Francia potrebbe recarci delle sorprese. Marquet , Déat, Renaudel parlano di autorità, d’ordine, di nazione, di dinamismo giovanile. Questo è un linguaggio veramente nuovo che travalica il socialismo tradizionale. I promotori del nuovo movimento hanno naturalmente cura di non perdere il contatto colla storia del socialismo; ma in realtà, se agiranno sul serio e vitalmente, il loro movimento non potrà costituire che un distacco dal materialismo storico, un accostarsi allo spiritualismo, un ridare valore alla personalità umana e alle sue idee e un ridurre a proporzioni più reali l’influsso delle condizioni economiche. Non vogliamo illuderci, Renaudel si dichiara scolaro di Jaurès e Jaurès più che una dottrina ebbe un temperamento e cercò invano per tutta la vita una sintesi «synthèse – scrive lo stesso Renaudel – que Jaurès cherchait si passionnément jusq’à déclarer que la conciliation hégélienne des contraires était la vraie source de vie et de réalité». Il socialismo in Europa visse come fede e come pensiero fino che mantennero il loro dominio nel mondo la dottrina e la fede nel progresso infinito dell’umanità. Il socialismo era pensato come l’ultima tappa di quest’evoluzione, ed avrebbe dovuto indurre alla giustizia sociale ed all’eguaglianza economica. Era insomma una teoria della prosperità e della distribuzione della ricchezza, che presupponeva un successo senza limiti della produzione. La crisi del dopoguerra spezzò invece la continuità del progresso, scosse la fede nell’evoluzione tecnica ed economica e disegnò tra le possibilità imminenti un formidabile regresso. Che attrazione poteva ora esercitare una dottrina distributiva, quando veniva meno la produzione e l’operaio rimaneva senza pane? Se l’economia tornava indietro, l’ultima tappa, il socialismo, veniva respinto nel regno dei fantasmi. Tutta la dottrina del materialismo storico e della lotta di classe era campata in aria. Ma questa sconfitta intellettuale si accompagnava ad una sconfitta economica. Le organizzazioni socialiste si dimostrarono incapaci di difendere gli operai dalle conseguenze della crisi. Economicamente parlando dunque, la prima causa del crollo socialista fu la disoccupazione. Politicamente, la causa principale fu la guerra. L’Internazionale, il socialismo in genere aveva esercitato un fascino così grande sulle menti, perché si presentava come una forza solidale contro la guerra. L’internazionale invece non solo non impedì la guerra, ma vi prese parte attivamente, gli uni contro gli altri. Come ripetere ora al popolo francese: Affidati a noi! se i socialisti germanici, vestito il grigio verde, invasero, come tutti gli altri, il suolo della patria e poi, nella pace, non seppero impedire l’avvento di chi si propone la rivincita? E in Germania non dovettero i socialisti sopportare l’accusa di essere stati impotenti ad ottenere dai governi francesi di sinistra, appoggiati dai socialisti, l’eguaglianza dei diritti? Il fallimento dell’Internazionale quindi continua anche nel periodo presente e benché il manifesto di Parigi rinnovi appelli e minacce per il caso di guerra, la fede non vuol più tornare. Guardiamoci tuttavia dal credere che, venuta meno la forza interiore del socialismo (o del marxismo, come si preferisce dire in Germania per acquisire la parola «socialismo» al movimento hitleriano) e crollati o indeboliti i partiti socialisti sotto i colpi abilmente assestati dal fascismo e dai movimenti affini, tutta una tendenza, tutta una teoria e tutta una pratica siano ingoiati per sempre dal baratro dei secoli. Non guardiamo ai partiti, né agli uomini; ma alle idee e alle cose e, considerandole nella loro oggettività facciamo astrazione dai nomi e dagli schemi tradizionali. Giudichiamo al lume dei principi immutabili della filosofia e sociologia cristiana, e cerchiamo di misurare fatti e movimenti sociali rispondendo a questi criteri: come e in quanto armonizzino col fine supremo dell’uomo; se il fatto o la dottrina rispettino e favoriscano la libera e responsabile attività della personalità umana; se corrispondano alle supreme leggi evangeliche della carità e della giustizia; se i rapporti fra individuo, famiglia, associazioni e Stato si accostino a quelli reclamati dal diritto naturale e indicati nelle encicliche sociali. Da cattedra augusta già è caduta la sentenza sul socialismo storico , quale ha dominato nel sec. XIX e nel primo quarto del XX. La stessa Quadragesimo anno c’insegnerà a giudicare anche delle tendenze neosocialiste, sia che si presentino sotto il nome antico, sia che vengano assimilate da altre ideologie . Infine il diminuito vigore del socialismo marxista non esonera i cattolici dall’insistere sul proprio pensiero sociale. La linfa vivificatrice che alimentò la resistenza del corpo sociale alla penetrazione socialista fu la religione, la quale, operando nelle organizzazioni o nelle coscienze individuali, le immunizzò contro l’epidemia o ne diminuì la virulenza. Così sarà anche per l’avvenire. Il patrimonio d’idee che fu proprio dei cattolici nell’epoca leoniana è un’eredità, a cui i giovani non possono senza danno rinunziare.
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Quando scrivemmo che la piccola Austria era destinata a diventare sul terreno politico un interessante paese sperimentale, fummo facili profeti. Tale fu il Belgio nella seconda metà del secolo XIX, quando i cattolici vi crearono il metodo di governare liberamente senz’accettare il liberalismo o fecero, più tardi, una politica sociale e democratica, pur combattendo il socialismo. Chi non ricorda i congressi di Malines e di Liegi , nei quali Montalembert prima e i vescovi sociali belgi, francesi, tedeschi ed inglesi poi, cercarono o formularono le direttive della politica cattolica nei regimi democratici e nei nuovi ordinamenti sociali? Fu nel piccolo, ma progreditissimo Belgio che si esperimentò il voto plurimo e s’inventò la proporzionale, tentativi entrambi di correggere e rendere operante il suffragio universale; fu nel Belgio che si tentò l’azionariato operaio, si sviluppò in modo eminente la cooperazione, si promosse la corporazione privata. In tutti questi esperimenti si cercava allora la soluzione di centro, la sintesi mediana fra le tendenze dominanti, venissero esse da sinistra o da destra. Non è appunto quello che tentano di fare ora i cattolici austriaci, di fronte al socialismo marxista da una parte e al socialismo nazionale dall’altro? Impossibile prevedere se riusciranno, date le supreme difficoltà che li assediano, né qui intendiamo commentare le manovre e le singole fasi tattiche nelle quali si svolge ora la politica austriaca. Ma è interessante invece, per i cattolici di tutti i paesi, di seguire la linea strategica, di illustrarne l’ispirazione e il pensiero dominante. Nel resoconto del congresso cattolico ci ha colpito sovrattutto il discorso del noto scienziato p. Guglielmo Schmidt , professore all’università di Vienna e, com’è noto, preside anche del Museo missionario lateranense. Il discorso tratta della «libertà e dei vincoli del cristiano nella società» e tende a dimostrare che, mentre nell’epoca liberare e socialista il cristianesimo ha posto dei freni e dei limiti al movimento verso l’individualismo e la libertà, lo stesso cristianesimo impone limitazioni e freni anche alla reazione antiliberale e antibolscevica, scoppiata nei nostri tempi. «Che cosa significa – si chiede l’illustre oratore – questo violento flusso e riflusso? È forse l’antica dialettica hegeliana, che interpretata materialisticamente da Marx e da Engels venne accolta con tanta premura nel sistema socialista e bolscevico: tesi, antitesi, sintesi? È dunque proprio così, che tutta la civiltà umana debba sempre oscillare fra un estremo e l’altro, prima di arrivare ad un tranquillo equilibrio? Io credo perfino che ovunque non intervenga colla sua forza vitale il cristianesimo, non solo da un estremo si cada nell’altro, ma nemmeno in seguito si ritrovi la linea mediana e si ritorni invece al primo estremo! … Ove interviene invece colla sua forza vitale il cristianesimo, non è necessario che alla tesi di un estremo segua l’antitesi dell’altro estremo, ma esso può condurre immediatamente alla giusta linea della moderazione. Questo può fare la Chiesa, perché essa insegna e reca non soltanto forti obbligazioni e vincoli, bensì anche magnifiche libertà… Appunto perché la Chiesa più di chiunque conosce e riconosce tanto il valore della libertà quanto la necessità dei vincoli, essa può meglio che altri opporsi a che una salutare reazione contro la tesi di un male degeneri in una fatale antitesi di un altro male: stat Crux, dum volvitur orbis». L’oratore ha poi continuato occupandosi del concetto totalitario dello Stato, della libertà morale e della protezione della personalità umana ed ha rilevato che la concezione cristiana, quale è formulata da Pio XI nella Quadragesimo anno, e quella dell’antico germanesimo, com’è annunciata dallo storico Frick , s’incontrano nell’affermare che ogni comunità sociale, anche piccola, deve fare tutto quello che può, secondo le forze proprie, prima che lo Stato intervenga col suo potere supplettivo ed integrativo. Il discorso termina coll’affidare all’Austria, imbevuta di tradizioni cattoliche e guidata dal suo senso della misura, il compito di ristabilire nel popolo tedesco l’equilibrio fra libertà e autorità, tra libertà e vincoli. Lo stesso pensiero, così nobilmente espresso dall’illustre etnologo, si rivela in altre manifestazioni del medesimo congresso. Così il professore Hollensteiner nella grande assemblea universitaria dichiara: «Noi abbiamo bisogno d’uno Stato che senza riserve riconosca Iddio come suprema fonte di ogni autorità… Ma d’altro canto non possiamo vedere la salvezza in uno Stato autoritario che idolatri lo Stato stesso». Quando nella riunione delle associazioni artigiane Kolping , si proclama la costituzione autonoma di quelle austriache, per non sottostare a quelle già «gleichgeschaltet» della Germania, fa capolino lo stesso pensiero, che assumerà poi forma lapidare ed accento autorevole nel discorso allo stadio del cancelliere, il quale proclama di voler attenersi nella riforma costituzionale alle ultime encicliche del Santo Padre e, specie per il corporativismo, alla Quadragesimo anno. Né il suo grande discorso programmatico, tenuto ai margini del congresso, come ha già dimostrato G.G. nell’Osservatore Romano, deve interpretarsi diversamente. «Non posso ancora dire come sarà definitivamente il nostro progetto di riforma, spiegherà poi Dollfuss nell’intervista al New York Times, ma sarà uno Stato corporativo diverso dagli altri». Significa questo che non si varrà dell’esperienze fasciste e hitleriane? Crederlo sarebbe fargli torto. L’on. Kunschak , capo dei lavoratori cristiani, erede più diretto di quella democrazia cristiana che fiorì sotto Lueger, riferendo al congresso sulla questione operaia, dichiara che il socialismo ha fatto fallimento e che la questione sociale – con 30 milioni di disoccupati! – è ben lungi dall’essere risolta, ma ci tiene a rilevare che in questo periodo i progressi circa le condizioni di lavoro, la legislazione sociale, l’elevazione della classe operaia, sono stati notevoli. Di questi progressi furono promotori anche gli operai cattolici, i quali diedero alla Germania un cancelliere come Brüning, «cui i fratelli austriaci mandano un riconoscente saluto, augurando che egli ed i suoi possano presto dedicare nuovamente le loro forze ai progressi del loro popolo». La democrazia è venuta meno al suo compito, conclude in un altro discorso, tenuto a Linz domenica 17, lo stesso Kunschak. «La democrazia è fallita in Austria, perché nel sistema democratico fummo lanciati improvvisamente dopo la guerra, senza preparazione, senza conoscere l’essenza della democrazia e con un Parlamento che volle assorbire anche il potere esecutivo. Ma ciò nulla toglie alla giustezza del principio della democrazia, cioè al diritto del popolo di condeterminare tutti gli affari che riguardano la sua vita e i suoi interessi». Il Kunschak si dimostra qui dunque un discepolo del Seipel che, in armonia del resto colla scuola di München-Gladbach, distingueva la «Formaldemocratie» del dopoguerra nell’Europa centrale dalla democrazia in sé e credeva che si dovessero modificare gli ordinamenti, per salvare la sostanza del sistema rappresentativo. Democrazia! Questa parola è all’ordine del giorno, ma prende significati sempre meno precisi. L’ex cancelliere Winkler patrocina nel convegno di Graz una «democrazia corporativa» in opposizione a quello ch’egli, provocando la crisi, chiamò austrofascismo delle Heimwehren; il partito socialista austriaco, alimentatore dell’austromarxismo, colla riserva della dittatura proletaria, si proclama ora fiero paladino della democrazia, mentre i fuorusciti nazionalsocialisti reclamano da Monaco le elezioni a suffragio universale e il ministro tedesco degli esteri von Neurath dichiara ai rappresentanti della stampa che «il nazionalsocialismo in Austria niente richiede che non gli competa secondo i principii della vera democrazia»! Questo richiamo alla democrazia si capisce poco in Austria – ribatte la Reichspost –, quando ci viene dai nazionalsocialisti che, non avendo ottenuto nelle ultime elezioni libere più del 33,1 per cento dei voti, hanno pur ottenuto e tenuto il potere di fronte a tutti. Comunque, lo stesso giornale intende chiudere la polemica intorno alla «democrazia», invocata a Graz, e al «fascismo» patrocinato dagli heimwehristi, dichiarando che non bisogna baruffarsi per i nomi e per le forme. Ciò che vale è lo spirito. Il cancelliere disse di voler «la costruzione di una nuova Austria sulla base dei principii cristiani, degli insegnamenti della Chiesa, delle circostanze storiche». Sarà qualche cosa di autoctono, d’austriaco, conclude l’organo di Dollfuss. È ben ciò che, più pittorescamente, il ministro Schuschnigg – sempre in margine al congresso – spiegò alle sue milizie con queste parole: «Il cappello da bersagliere fa certo parte in Italia di una bella divisa; l’elmo chiodato prussiano è un simbolo di molti meriti; ma da noi in Austria se li copiassimo tali e quali, sarebbero senza stile. Noi preferiamo l’antico berretto dei cacciatori imperiali». Sono queste le «circostanze storiche», dalle quali dipendono la possibilità di applicare le direttive cristiane e anche il modo della loro applicazione. Nell’arsenale della storia politica austriaca non mancano dei pezzi che potranno servire anche all’odierno ricostruttore, ed ogni nuovo regime che si progetti vi potrà trovare analogie: i conservatori del Vaterland che non volevano il suffragio universale, caldeggiato invece da Lueger e dalla Reichspost; i cattolici feudali alla Francesco Thun e i democratici col principe Luigi Liechtenstein; ma sovrattutto quell’arsenale abbonda di progetti e programmi di riformatori cattolici, a cominciare da Carlo Vogelsang forse il primo in Europa e più profondo assertore della ricostruzione corporativa, fino a mons. Seipel che mediante le corporazioni voleva riequilibrare il sistema rappresentativo. Riformatori e progetti ai quali mancò il favore delle circostanze storiche o venne meno l’energia degli esecutori. Dollfuss alla fortuna seconda unisce la forza della volontà.
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In Francia uomini e partiti sono incalzati dall’urgenza della questione finanziaria, dalla necessità cioè di trovare sei miliardi per ricondurre il bilancio a pareggio. La opposizione moderata proclama che l’attuale maggioranza, per la presenza dei socialisti, è incapace di colmare il deficit e patrocina, col suo portatore più autorevole, il Temps,la concentrazione dei repubblicani, l’unione sacra che sotto Poincaré superò nel 1926 difficoltà ancora maggiori. «La mistica della dittatura, scrive il Temps, da noi non deriva dall’impotenza del Parlamento per se stesso, ma dalla formazione cartellista dell’attuale maggioranza». Che la sinistra radicale si metta d’accordo col centro repubblicano, e la Camera agirà. Ma la sinistra diffida e sospetta o finge di sospettare nei moderati tendenze antilibertarie, e benché Tardieu si protesti liberale e limiti le sue proposte riformatrici a ritocchi regolamentari e Louis Marin giuri e spergiuri di mantenersi fedele alle istituzioni democratiche, i radicali, anche per lo scopo evidente di ricattare i socialisti, gridano che la democrazia è in pericolo. D’altro canto è vero che la destra invoca apertamente la dittatura e che in circoli sempre più vasti si diffonde l’opinione che di fronte ad un Hitler, il quale tiene in pugno tutta la Germania di oggi e di domani, la salvezza non possa venire che da un potere centralizzato e libero dal controllo dei partiti. Il congresso radicale di Vichy riflette la precarietà di questa situazione e l’urgenza di uscirne. Già Jacques Kayser durante la discussione aveva affermato che «le democrazie minacciate devono mantenere o riprendere le posizioni di comando, dando l’esempio e imponendo colla loro autorità un regime di ordine democratico». Ma chi affrontò in pieno il problema del risanamento finanziario e quindi del governo forte fu il presidente del consiglio Daladier . Già nell’allocuzione augurale il ministro dichiarò che «il governo intendeva compiere tutto il suo dovere e permettere alla Francia di conservare il suo volto calmo ed armonioso; tutte le grandi riforme si possono attuare nella libertà e per la libertà». Ma nel suo grande discorso finale lo stesso pensiero ritorna in forma più drammatica. Dopo aver insistito nella necessità di votare i nuovi aggravi fiscali e le nuove riduzioni, Daladier continua: «Si tratta di sapere se i repubblicani avranno il coraggio di risolvere i gravi problemi del tempo presente nella libertà e per i metodi della libertà ovvero se altri, sopravvenendo nella crisi aggravata ritroveranno la loro autorità, grazie alla nostra deficienza… Se la libertà non provvede colla propria disciplina (a sanare le finanze) è fatale che s’imponga la via delle costrizioni: la vita dei popoli ha le sue leggi ineluttabili». Il proclama, votato come conclusione del congresso, è ispirato dalle stesse preoccupazioni: «Quello che vogliamo è che, nel rispetto del nostro giuoco parlamentare, lo Stato ritrovi una sovranità che vaste coalizioni d’interessi cercano di restringere». E dopo aver riaffermato il principio liberale, e rifiutato ogni altro sistema, il proclama tuttavia aggiunge: «Noi vogliamo l’autorità dello Stato, potenza collettiva, arbitro dei conflitti individuali… e che per varcare il passaggio difficile il capitano e i primi dell’equipaggio siano a bordo; i padroni e tutti i passeggeri inabili, irresponsabili o impauriti, si affidino alla loro energia…». Dovrebbe questo essere un evidente accenno a poteri straordinari, da concedersi al Ministero per sanare il bilancio. Ma quanti saranno disposti a riconoscersi inabili, irresponsabili o in preda alla paura, e sovrattutto che cosa faranno i socialisti con tutta la loro zavorra demagogica e colle pregiudiziali dottrinarie, nelle quali stanno impastoiati? Un trafiletto, assai tempestivo, del Popolo d’Italia ha invitato il governo germanico a richiamare al silenzio gli «Unterführer», cioè i sottocapi più o meno responsabili del nazionalsocialismo, e questo in seguito «a molte, a troppe manifestazioni non sempre indovinate», che hanno causato «un certo allarme nei Paesi confinanti con la Germania». A ragione il trafiletto, scritto con benevoli intendimenti, rileva che la cessazione di siffatta propaganda corrisponderebbe «allo stesso interesse del terzo Reich». Abbiamo avuto infatti parecchi incidenti in Svizzera, e le preoccupazioni suscitate dalla propaganda nazista misero in bocca al presidente della Confederazione, Schulthess , una fiera riaffermazione dei principi costituzionali, sui quali si fonda la piccola repubblica; l’Olanda, seguendo l’esempio del Belgio, proibì con un nuovo articolo del codice penale, approvato dalla Camera bassa, l’uso di uniformi di partito; la Czecoslovachia sciolse il partito nazionalsocialista, ed abolì i suoi mandati in tutti i corpi rappresentativi. Le misure repressive, decretate a Praga, hanno messo in un certo imbarazzo i socialisti viennesi, i quali da un lato non vogliono rinnegare i loro consenzienti che fanno parte del governo czeco, dall’altro devono ammettere che simili provvedimenti di rigore si assomigliano come fratelli gemelli a quelli che, presi in Austria dal governo cristiano sociale, vengono da essi qualificati come «fascisti» e anticostituzionali. L’Arbeiterzeitung cerca di cavarsi d’imbarazzo collo stabilire la massima che provvedimenti antidemocratici si possono prendere soltanto contro partiti che mettono in pericolo la democrazia! Ma la profondità della reazione provocata da certi atti e certe affermazioni del nazismo si poté misurare sovrattutto a Ginevra durante la discussione intorno alle minoranze. Il criterio accampato dal rappresentante germanico che il novo concetto del Volkstum nazista autorizzasse i germanici ad interessarsi di tutti i fratelli che vivono oltre i confini, provocò le ferme riserve del delegato italiano e le proteste di altri stati confinanti, prima la Svizzera, che negò alla Germania il diritto a questa specie di protettorato. Nello stesso tempo con un precedente significantissimo si decise di mettere sotto gli auspici della Società delle Nazioni l’opera di soccorso per i profughi politici tedeschi. C’è molto di vero nell’affermazione di Göring che in un primo tempo questa reazione dell’estero era effetto inevitabile della rivoluzione, fenomeno complesso e di non facile comprensione. Ma quando il ministro inglese Ormsby Gore , durante lo stesso dibattito e difendendo i diritti della minoranza ebraica, si richiamò ai principi fondamentali del regime inglese e proclamò che «la eguaglianza giuridica e il sistema rappresentativo sono gl’irremovibili pilastri fondamentali dell’edificio britannico», più che accennare a differenze passeggere, si mettevano qui in rilievo contrasti essenziali, connaturati al temperamento dei due popoli. In Austria ferve sempre la vigilia di preparativi e discussioni. Il partito cristiano-sociale ha deciso di continuare la sua esistenza. Le dichiarazioni programmatiche del cancelliere circa il futuro «Stato senza partiti» avevano fatto credere che il governo intendesse sciogliere, rispettivamente assorbire nel fronte patriottico tutti i vecchi partiti parlamentari. Ma sia che questa concentrazione non fosse veramente voluta, sia che gli avvenimenti posteriori, specie l’atteggiamento degli agrari, l’abbiano resa impossibile, oggi non si parla più di Stato «senza partiti», ma piuttosto di Stato «superiore ai partiti». Secondo un autorevole discorso del capo del partito cristiano-sociale viennese, Dollfuss colla parola «superamento dello Stato di partito» avrebbe inteso di dire superamento del «parteiismus» ossia dell’onnipotente dominio dei partiti. «Colla stessa fermezza però respingiamo anche lo Stato con un partito solo»; perché, secondo l’oratore (Reichspost, 3 ottobre) il principio totalitario non sarebbe conciliabile coll’ordine corporativo che i cristiano-sociali intendono introdurre. Ma come sarà dunque questo ordinamento corporativo austriaco? L’oratore non lo dice particolarmente, ma si limita ad affermare che si fonderà sul principio dell’autonomia delle corporazioni, alle quali i partiti politici dovranno cedere non piccola parte della funzioni, da loro esercitate finora. Si tratterebbe così di creare due corpi rappresentativi, una camera corporativa per gli affari amministrativi ed una camera politica per tutti gli altri. I partiti potranno ancora vivere «ma non ci sarà posto per partiti che minacciano l’esistenza dello Stato colla lotta di classe o colle lotte religiose». Si arriverà dunque all’interdizione del partito socialista? Nessuno l’ha mai detto con precisione, ma i socialisti, che di questi giorni hanno convocato a Vienna il consiglio internazionale dei sindacati, per ottenere la solidarietà del sindacalismo rosso e raduneranno fra breve un congresso straordinario del partito, sembra lo temano. Intanto si discute sempre sull’ordinamento corporativo. La Reichspost, per dimostrare che si tratta di un postulato autoctono cristiano-sociale, cita l’opera di monsignor Schindler «La questione sociale», pubblicata nel 1908, nella quale si espone tutto un programma di ordinamento corporativo. Anche i «sindacati cristiani» in un loro congresso del 3 e 4 ottobre hanno preso posizione. Sono naturalmente favorevoli all’ordinamento corporativo, ma rilevano che la Rerum Novarum riconosce esplicitamente agli operai il diritto di condeterminazione e la libertà di associazione. La riforma si va dunque elaborando nella mentalità pubblica fra postulati ancora imprecisi. Intanto in Italia si sta preparando il gran passaggio dal sistema sindacale al sistema corporativo integrale. Meritano in proposito speciale rilievo le dichiarazioni fatte dal capo del governo all’Echo de Paris: «Io voglio arrivare al regime corporativo e vi arriverò. Io voglio che il lavoro si organizzi in funzione degli interessi dei consumatori, dei produttori, degli operai, dei tecnici. Lo Stato non dovrà intervenire che come arbitro supremo, come difensore della collettività. Alla corporazione spetta di regolare tutti i problemi della produzione, voi mi intendete, poiché non si deve fabbricare qualunque cosa e in qualunque modo. Ciò è follia e genera delle catastrofi. Bisogna finire con le vecchie idee del capitalismo liberale. Io costituirò dunque le corporazioni, corporazioni di categoria per l’industria, corporazioni per prodotto per l’agricoltura. Il mio piano è definito».
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No, non è vero che «in principio fosseil fatto»! Quest’aforismo faustiano venne riesumato dalla rivoluzione hitleriana per giustificare l’azione rapida e risolutiva che, una volta compiuta, s’impone comunque al mondo. Ma è vero invece che in principio era il verbo, l’idea, il pensiero. Come mai gl’hitleriani che pur affermano di fronte al materialismo marxista il primato dello spirito, non hanno avvertito che bisognava tener conto della mentalità degli altri? Il problema psicologico prevale sulle questioni economiche e tecniche. Anche il disarmo è in prima linea un disarmo morale. Hitler l’ha oggi compreso quando nei discorsi e nelle interviste (vedi Daily Mail) afferma «di non aver ancora incontrato un solo ex-combattente che desideri il rinnovarsi degli orrori di quei quattro anni e mezzo» e aggiunge: «Credete che noi alleviamo la nostra gioventù, la nostra sola speranza avvenire, per farla mitragliare sui campi di battaglia?». Ci si domanda perché a pronunciare queste assennatissime parole si dovesse attendere proprio il fallimento della conferenza! Come mai dichiarazioni simili non sono venute a schiarire l’atmosfera prima che il Times avesse a scrivere, a conclusione di una lunga serie di osservazioni e rilievi, fatti durante l’ultimo periodo: «[…] Gli altri paesi non sono affatto convinti, perché nella Germania di oggi si fa troppa scuola di violenza, col pericolo di suscitare nella massa del popolo una specie di febbre pericolosa. Nessuno vuole offrire spontaneamente armi ad un paese che si trova in simili condizioni di spirito?». Anche oggi, dopo il gesto germanico, chi deciderà del prossimo avvenire sarà lo spirito, del quale i popoli si nutriranno. Se la Società delle nazioni verrà paralizzata e i singoli Stati ripiegheranno su se stessi, la cupa atmosfera, piena di sospetti incontrollabili, che gravò sopra l’Europa, alla vigilia della grande guerra, ci avvolgerà di nuovo, come una foschia, dalla quale ogni momento si potrà attendere lo scoppio del fulmine. Perciò noi cattolici, che pur sappiamo le origini umanitaristiche della Lega ginevrina e non siamo ciechi ai difetti del suo funzionamento, ripetiamo ancor oggi le parole pronunciate da mons. Seipel in Notre Dame di Ginevra il 14 settembre 1930 : Stiamo appena agl’inizi di qualche cosa di grande e necessario e desideriamo con tutto il cuore che esso diventi un organismo perfetto, atto ad assicurare al mondo la pace. Questo desiderio vogliamo alimentare e diffondere nei nostri paesi, perché da essi rifluisca di nuovo verso Ginevra in una volontà sempre più forte di costruire la pace e la federazione dei popoli. Si legge con vero sollievo nella Vie Intellectuelle di fine settembre un articolo che risponde trionfalmente alle obiezioni di quei «realisti» i quali vedono nei fatti recenti la conferma del loro diffidente pessimismo. Ecco le conclusioni della rivista cattolica francese: «1. Il disarmo morale, da noi preconizzato, resta la vera dottrina, con questa riserva che non conviene indebolire lo spirito pubblico riguardo ad eventualità che esigerebbero energie pronte. 2. Noi abbiamo desiderato una limitazione della sovranità statale in favore della società internazionale. Così facendo, abbiamo lavorato a provvedere delle sue conseguenze giuridiche e politiche l’unità essenziale degli uomini e sovrattutto la loro unità nel Cristo […] toccherebbe proprio a noi, cristiani, preti, religiosi di vedere di mal’occhio l’organizzazione del genere umano, sotto il fallace pretesto della sovranità nazionale, la cui relatività ci salta agli occhi, quando pensiamo alla fraternità essenziale, alla croce dominante tutta la terra, alla Chiesa e all’eucarestia?». Così un’autorevole voce cattolica al di qua del Reno. Auguriamoci che anche al di là i cattolici tornino in grado di far sentire la loro. Certo i telegrammi di adesione ch’essi mandano al cancelliere, oltre che alla pace interna vogliono servire anche ad incoraggiarlo nei propositi di pace e di collaborazione coll’estero. La repubblica spagnola nacque il 14 aprile 1931 fra grandi speranze . Si pensava infatti ad una repubblica liberale ed onesta, aperta a tutti, gelosa dell’ordine e della giustizia sociale. Perché si arrivò invece alla repubblica giacobina e socializzante? Alcalà Zamora dopo l’elezione della costituente, trovatosi a capo di una pattuglia invece che di un battaglione, come aveva sperato, deplorava nel Ahora (1 nov. 1931) che la gente d’ordine, contro il suo evidente interesse, avesse pugnalato i moderati nella schiena. Ma la «gente d’ordine», a parte i monarchici, i quali speravano e sperano in un ritorno del regime tradizionale, diffidava di quei moderati che, fin dal «patto di S. Sebastiano» , si erano compromessi troppo a fondo colla socialdemocrazia. Comunque, nelle Cortes costituenti, lo sfiancamento dei moderati, la discordia tra i liberali di sinistra (Azaña) e i radicali (Lerroux), la paralisi della destra agraria per la questione del regime diedero ai socialisti una prevalenza che non corrispondeva in nessuna misura al centinaio di voti che potevano offrire. Sotto questa costellazione, auspice la massoneria, rappresentata da Azaña, si maturò la repubblica giacobina. Il governo provvisorio di Zamora aveva messo assieme una commissione di giuristi e di avvocati per elaborare la costituzione. Ne era uscito un progetto che prevedeva, accanto alla Camera, un Senato e attuava la separazione fra la Chiesa e lo Stato, senza persecuzioni. I sinistri ne furono irritatissimi ed appoggiati da Macia che voleva assicurata nello statuto fondamentale l’autonomia della Catalogna, ottennero che dello statuto si occupasse un comitato parlamentare. E qui nacque la repubblica giacobina, con larghe striature rosse. La Camera cominciò col deliberare all’art. 1 che «la Spagna è una repubblica di lavoratori», e bisognò che il giorno dopo intervenisse Alcalà Zamora per farvi aggiungere: «di tutte le classi». Si votò poi che «la repubblica spagnola costituisce uno Stato di tendenza federativa che rende possibile l’autonomia delle regioni e dei comuni». I Catalani ne approfittarono per fissare un proprio statuto, il quale prevede che la generalità di Barcellona (composta di un presidente, un consiglio esecutivo e un parlamento regionale) governi e legiferi nelle provincie di Barcellona, Gerona, Lerida e Tarragona per tutto quello che non riguardi i trattati, le dogane, l’esercito, la moneta, le poste e telegrafi. Dopo alquante attenuazioni, sotto Azaña lo statuto catalano finì per diventar legge dello Stato, mentre quello presentato dalle provincie basche e dalla Navarra venne respinto a priori, col pretesto che regolava i rapporti colla Chiesa. Poi si aggiunse la lotta anticlericale. Si ricorderà il dibattito famoso inaugurato con un discorso perfido del socialista Fernando de los Rios , ministro della Giustizia e terminato colle dimissioni di Zamora in seguito al voto sull’art. 24 dello statuto, che abolisce ogni spesa di culto, scioglie la Compagnia di Gesù, sottopone al controllo gli altri ordini e fissa il principio: «I beni degli ordini religiosi potranno essere nazionalizzati» . Con Zamora lasciano il governo Maura , Sanchez Guerra , Ossorio y Gallardo . In questo momento i 51 deputati baschi ed agrari che sotto la guida di Gil Robles avevano finora sostenuta fieramente la lotta, abbandonano la Camera, per non essere comunque complici della Costituzione che si voterà. Ma ecco che le loro speranze vengono interpretate come una minaccia al regime; Zamora accetta la presidenza dello Stato, rinunzia alla campagna revisionista che aveva già preannunziato, onde non confondersi «coi nemici della repubblica» e la Camera, sotto il ministro Azaña, cade più che mai in dominio dei socialisti. Con soli 140 voti contro 93 si rifiuta il sistema bicamerale e con 136 contro 109 si respinge qualsiasi corpo consultivo che il progetto prevedeva. Niente Senato dunque, niente Consiglio di Stato: sovrana sola un’unica Camera, con un presidente della Repubblica, il quale non potrà sciogliere le Cortes che due volte nel suo sessennio: un sistema parlamentare quindi più spinto ancora di quello francese, senza i contrappesi consigliati dalla buona pratica costituzionale. Due tentativi insurrezionali tentarono di scuotere la mal rassodata compagine: uno anarchico-sindacalista, terminato col massacro di Casas Vièjas e un altro di destra, terminato colla condanna di alcuni generali ed alcuni aristocratici. Azaña represse ogni tentativo valendosi di una legge eccezionale «per la difesa della repubblica», la quale prevede il confino, la soppressione dei giornali, multe ed altre più severe sanzioni. I liberali puri alla Unamuno e Ortega y Gasset se ne scandalizzarono. E tuttavia la repressione fu così poco conseguente e radicale che i giornali, i circoli, i partiti avversi al regime sono ora più forti di prima. Ma intanto anche l’aureola libertaria che aveva dato gloria e fortuna ai nemici della dittatura, svaniva. Contrariamente alle speranze dei fuorusciti monarchici bisogna ammettere invece che le finanze, spagnole si trovano in condizioni migliori di quelle di molti altri stati europei. Non si può dire che il governo repubblicano abbia sperperato. Il bilancio del 1932 si chiuse in attivo. I capitali rifugiatisi all’estero nel momento della rivoluzione, ritrovarono la via del ritorno. Il notevole passivo della bilancia commerciale, che pesò con tanta gravezza sulla peseta, è ora ridotto a 75 milioni di peseta oro. Ma in economia ciò che viene più rimproverato al governo socializzante di Azaña è la «ley relativa a la riforma agraria» del 15 sett. 1932 e, più ancora, il modo della sua applicazione. La legge «si propone il collocamento delle famiglie di agricoltori che soffrono per l’ingiusta distribuzione della proprietà agraria e per le tradizionali deficenze nell’esercizio dell’agricoltura». Scopo sanissimo dunque, né si può dire che la legge sia nelle sue basi fondamentali collettivista. Si tratta di espropriare dei latifondi, ma di regola si prevede l’indennizzo e nella maggior parte dei casi si tende al parcellamento, cioè alla costituzione della piccola proprietà, non alla gestione collettiva. Senonché il testo di legge, come fu votato dalla Camera è un laborioso compromesso fra socialisti e … borghesi, i quali ultimi, salvato alla meglio il principio della proprietà, hanno poi permesso che i socialisti si assicurassero nell’esecuzione parecchie clausole di possibilità collettiviste. Ma la sventura maggiore per i promotori della legge è che la campagna elettorale sia chiamata a giudicarne, quando si è appena iniziata la sua applicazione. Il governo già nel 1931 aveva promesso che si sarebbero collocati 70 mila contadini all’anno. Realtà di oggi, scrive il Debate: «Ní un solo campesino asentado! Ní un solo pedazo de tierra catregado… a los campesinos. Los han engañado!». Ed ecco che la questione agraria si unisce a quella religiosa, a quella scolastica ed a quella unitaria per costituire un blocco formidabile contro i giacobini. Se fossimo in un regime consolidato, potremmo senz’altro prevedere che questo blocco costituirà il governo di domani. Senonché dietro tutte le discussioni torreggia nell’ombra la pregiudiziale del regime. Si parla per Madrid di una candidatura antimarxista. Benissimo; commenta la liberale moderata Ahora; ma «la lotta contro il predominio socialista diventerà efficace solo entro l’orbita del regime». Le destre, com’erano rappresentate nel gruppo parlamentare della minoranza agraria, hanno costituito un blocco unico che comprende le organizzazioni «tradizionaliste», la C.E.D.A., cioè la Confederazione spagnola delle destre autonome e la «Renovación Española» . Nel manifesto esse dichiarano, «senza pregiudizio dell’ideale particolare di ogni organizzazione», di voler unirsi per ottenere: a) la revisione della legislazione laica e socializzante; b) la rappresentanza degl’interessi agrari; c) l’amnistia. Il cattolico Gil Robles è il campione di questo blocco, il quale è appoggiato ovunque dalla cattolica «Acción popular». Evidentemente, rebus sic stantibus, non si poteva far meglio. Ma è ben difficile in una lotta elettorale vincere trionfalmente, come si dovrebbe vincere, quando non si può spiegare al vento la propria bandiera. Una lotta politica è dominata per forza dalle pregiudiziali politiche. Lo seppe de Mun, prima del ralliément , quando alle sue proposte di riforma sociale si rispose dalla maggioranza della Camera francese che dei monarchici non ci si poteva fidare. Ci fu infatti chi ritenne di poter ripetere ai cattolici spagnoli i consigli di Leone XIII e il monito di non lasciarsi ricacciare sui margini della repubblica: ma è d’uopo convenire che la situazione è diversa. Allora si trattava di evitare il giacobinismo ed in Spagna esso è già in atto; in Francia la repubblica era vecchia di vent’anni ed il conte di Chambord era già morto, mentre in Spagna l’esperimento repubblicano fa i primi passi, e il re, divenuto unico candidato della restaurazione monarchica, è pronto ad ogni richiamo. Come persuadere un seguace della gloriosa monarchia spagnola della vitalità della repubblica, dileguatasi anche nel 1873, come neve al sole? S’aggiunga che oggidì il contrasto è più profondo ed investe l’essenza stessa del regime parlamentare. Il manifesto della «gioventù spagnola» di destra (J.A.P.) ha cura di avvertire che non spera la risoluzione dei problemi spagnoli da un possibile trionfo parlamentare in un sistema «inorganico trasnochado»; la stessa «Acción popular de Asturias» trova discutibile se il parlamentarismo sia «el medico adecuado para la gobernación de los pueblos» e il Debate afferma autorevolmente che «il parlamento moderno ispirò quasi sempre al popolo spagnolo profonda indifferenza, salvo momenti di amena curiosità». Nessuna meraviglia che a tali riserve corrisponda dall’altra parte della barricata l’allarme dei repubblicani e il tentativo dei socialisti di approfondire ancora più le decisioni dei conservatori, facendo passare per «fascismo» tutto quello che non è conciliabile colla vecchia maggioranza. Tuttociò andava premesso per concludere che il verdetto del 19 novembre non sarà omogeneo e completo né per quanto riguarda le leggi antireligiose, né i problemi sociali, giacché dallo sfondo influisce, confessatamente o no, il problema del regime. I radicali di Lerroux (centro sinistro) confidano in un aumento notevole dei loro mandati e così sperano di crescere gli aderenti di Maura e Zamora (centro destro). Se anche la destra agraria farà, come si ritiene, dei progressi notevoli, la fase giacobina della Repubblica avrà finito i suoi giorni, e la revisione della costituzione verrà all’ordine del giorno. Ma le incognite sono molte. Questa volta vanno a votare anche le donne , più numerose degli uomini. El Liberal scrive che la donna non «voterà contro la repubblica» la quale la ha «liberado» col divorzio e coi diritti civili. Noi speriamo che la donna spagnola riaffermi che la sua libertà e la sua dignità sono garantite anzitutto e sovrattutto dai principi non perituri del matrimonio cristiano.
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«Approvi tu, uomo tedesco, e tu donna tedesca, questa politica del tuo governo e sei pronto a riconoscerla solennemente come espressione del tuo pensiero e della tua volontà?». Una maggioranza finora inaudita di elettori tedeschi, il 92%, ha già risposto in senso affermativo alla domanda che abbiamo qui riprodotta letteralmente dalla scheda elettorale . Un’attivissima propaganda, che ha dominato incontrastata e indiscussa tutte le vie percettive del popolo tedesco, martellando tutti i cervelli, rintronando tutti gli orecchi, impressionando tutte le retine, infiammando tutti i cuori ha dimostrato che la politica del governo voleva dire: dignità, onore, pace. Qual tedesco non avrebbe votato per la dignità della nazione e per la pace nel mondo? Di fronte al primo che è un sentimento primordiale ed irresistibile ed al secondo che è un’esigenza di vita, quella della Società delle Nazioni può sembrare una questione secondaria, di opportunità tattica, per la quale è ragionevole affidarsi al proprio governo. Comunque, a fatto compiuto, qual tedesco, anche se pensasse altrimenti, vorrebbe smentire, di fronte all’estero, i propri rappresentanti? Su ogni obiezione di direttiva, su ogni preoccupazione per l’avvenire prevale nell’animo dei tedeschi il senso di reazione e di protesta che suscita il Diktat di Versailles. Vero è che nel frattempo, più forse per merito della crisi internazionale che dell’accorgimento umano, gli astronomici miliardi delle «riparazioni» sono stati ridotti a tre, ipotetici pur essi; vero è che del Diktat non vigono in realtà se non gli articoli limitativi degli armamenti. Ma sono appunto questi articoli, i quali, negando alla Germania cannoni, carri d’assalto ed aeroplani le imprimono in fronte un marchio di differenziazione – Discriminierung, dice Hitler nei suoi discorsi – che il popolo più energico e militare del mondo sente come stigmate d’inferiorità e d’immeritata infamia. Immeritata, perché il tedesco odierno inclina ad assolvere anche la Germania guglielmina da ogni colpa per lo scoppio della guerra. E immeritata sovrattutto perché la propaganda hitleriana si è applicata con fortunato accanimento a dimostrare che non vi fu sconfitta militare, ma soltanto crollo del fronte interno, cioè tradimento socialista e democratico-parlamentare. L’uscita dalla Società delle Nazioni viene quindi concepita come il gesto di Sansone che fa crollare il tempio dei falsi e bugiardi. Poiché i loro altari, gli altari cioè della democrazia e del parlamentarismo, sono crollati all’interno, è naturale, scrive il deputato cattolico Hackelsberger nella Kölnische Volkszeitung, che questi dèi vengano abbattuti od abbandonati anche nel consorzio internazionale, giacché negando l’equiparazione, sono venuti meno alla loro stessa ragione d’esistere. Non bisogna quindi meravigliarsi se tra le 220 confederazioni nazionali che invitarono in un comune manifesto gli elettori a votare «sì», accanto a tutti i sindacati, già socialisti e retti ora da commissari, si trovino anche le società di Azione Cattolica – giovani e adulti – e perfino l’associazione delle giovanette cattoliche «rosa bianca»! L’appello plebiscitario, passando come un’ondata sopra i sommersi partiti politici, è venuto a sbattere i suoi flutti innanzi a ripari, che finora erano rimasti all’infuori d’ogni attività elettorale. Il manifesto, pubblicato in tutti i giornali già il 28 ottobre, esalta l’uscita della Germania dal consesso di Ginevra come una «liberazione» – befreiende Tat – e chiede: Equiparazione, pace e lavoro. Posta così la questione, chi non vede che anche in tempi normali il plebiscito sarebbe un trionfo? Ma è ben noto che in Germania i provvedimenti presi e la pratica di governo introdotta negli ultimi tempi mirano a garantire la sicurezza del regime; non l’equiparazione dei suoi avversari. I due cardinali Schulte e Bertram in una dichiarazione, pubblicata all’ultima ora, insistono di nuovo su questa equiparazione interna. Ma ecco che, agli effetti interni, il plebiscito viene presentato appunto come un pegno di conciliazione. «Coloro che sono di buona volontà – proclama il Cancelliere in un discorso – noi li accetteremo volentieri; gli altri, che non vogliono la pace, verranno eliminati». Come non rispondere ad un appello, così concepito? Gli ebrei stessi pubblicarono un manifesto in favore del governo. Ora si potrà assentire o dissentire circa gli effetti internazionali del gesto, se la via seguita cioè affretti o ritardi l’equiparazione della Germania di fronte all’estero, ma certo – anche ripensando alle accorate parole rivolte testé dal Pontefice ai giovani tedeschi – tutti saranno d’accordo nell’augurare che il plebiscito acceleri almeno la pacificazione all’interno. Tardieu conclude nell’Illustration la sua campagna per la riforma costituzionale . Torniamo ad accennarvi, perch’essa, data la situazione parlamentare della Francia, può assumere da un momento all’altro carattere di urgente attualità. Egli propone, com’è noto, che il presidente della Repubblica abbia in ogni momento il diritto di sciogliere il Parlamento, per indire nuove elezioni; che la Camera francese, a somiglianza della Camera dei Comuni, rinunzi al diritto di proporre spese; che il ministero possa in questioni importanti consultare per referendum il paese, ed infine, che sia interdetto ai funzionari pubblici di organizzarsi sindacalmente. Contro queste proposte Tardieu s’è visto elevare opposizioni da tutte le parti. Ma questa volta egli replica specialmente ai surenchérisseurs, che gli consigliano di fare «come Mussolini, ovvero – e ne domanda perdono a Mussolini – come Hitler». «Una riforma profonda della Francia è necessaria – continua Tardieu – ma essa deve essere nella direttiva francese e concepita ed attuata secondo lo spirito francese». Egli ritiene che la Francia, con i suoi dieci secoli di unità alle spalle, abbia delle tradizioni individualiste, alle quali non possa venir meno; e accusa i suoi oppositori di non conoscere la storia. La «storia», a dir vero, è poco probativa. Hervé nella sua recente Histoire de France dimostra proprio il contrario; e la Francia ha invocato o subìto, a volta a volta, i regimi più contraddittori. I postulati riformisti di Tardieu furono inseriti anche nella «déclaration du parti» dell’«Alliance démocratique» , in occasione del suo congresso. Vi si legge che «la sicurezza della nazione, l’autorità dello Stato, la libertà dei cittadini, la proprietà individuale costituiscono la base del regime repubblicano e la condizione di ogni progresso sociale» e s’invoca una riforma che rispetti questi principi. Di riforma si parla negli stati minori. In un messaggio alla Camera bassa il governo di destra olandese affronta la questione del regime, concludendo di voler anche per l’avvenire appoggiarsi sul parlamento. L’attuale governo intende favorire l’organizzazione corporativa della società ma respinge lo «Stato corporativo» come regime politico. Annunzia un progetto contro gli eccessi della propaganda e della stampa, ma anche misure contro la importazione di sistemi stranieri (nazionalsocialismo). Broqueville in un discorso recente ai cattolici belgi pone anch’egli sul tappeto la questione delle riforme, invitando intanto i consenzienti a pensarvi, colla meta di consolidare l’autorità dello Stato e nello stesso tempo di decentrarne i poteri amministrativi in senso autonomistico. Come la Germania i suoi «Nazi», il Belgio ha i suoi «Dinasos» o semplicemente «Dinaso» (Verbond van dietsche nationalsolidaristeln) . Si tratta di un gruppo fiammingo, che ha fondato una milizia, propugna il corporativismo, il «solidarismo cristiano» e, come programma locale, l’autonomia fiamminga. Il partito, nato nel 1932 , conta appena 3000 membri e costituisce una frazione del vecchio movimento frontista. La Destra cattolica crede di averne arrestato i progressi; ed è specie contro i Dinasos che si dirige particolarmente la proposta proibizione di portare uniformi. Su due fronti combattono pure i conservatori svedesi, il cui leader ed ex presidente del consiglio, Lindman , chiese di nuovo nel congresso del partito «la completa soppressione del bolscevismo in Svezia»; ma nello stesso tempo si dichiarò in termini energici contro il nazismo, ostile a molti beni indispensabili alla civiltà occidentale, quali «la libertà d’opinione, di scienza ecc.» e propugnatore di metodi, imparentati a quelli del bolscevismo. Si ritiene che anche in Norvegia il trionfo dei socialisti nelle elezioni per il Shorting del 16 ottobre sia dovuto all’entrata in azione dell’hitleriana «Unione nazionale» , la quale, essendo troppo contraria «alla mentalità democratica ed individualista del popolo norvegese», non avrebbe saputo concentrare in suo favore i voti borghesi. Il nazionalsocialismo in Germania conquista invece sempre più le posizioni, che teneva non ha guari, il Centro cattolico. Nella lista dei 686 candidati il vecchio partito non è rappresentato che da due nomi, l’industriale Hackelsberger del Baden e l’industriale Farny del Württemberg , due homines novi. Tutti gli antichi capi, Brüning compreso, sono scomparsi. Hackelsberger è però un apporto prezioso, perché editore-proprietario del grande giornale cattolico renano, Kölnische Volkszeitung, e persona di notevole coltura ed intelligenza tanto che venne chiamato recentemente nel congresso della «Görresgesellschaft» a discettare sul «corporativismo e la Quadragesimo anno». A proposito della società scientifica dei cattolici tedeschi «Görres» , niente denota in modo più caratteristico il capovolgimento della situazione quanto un incidente in suo riguardo. La Görres, è noto, va pubblicando da sett’anni una seconda edizione della sua enciclopedia politica Staatslexicon. Il terzo volume, uscito nel 1929, contiene anche la voce: Nationalsozialismus. Ora il presidente nell’annuale congresso dell’8 ottobre annunziò ai soci della Görres d’aver mandato al cancelliere una lettera nella quale si chiede scusa di quell’articolo e si promette ampia riparazione in un apposito volume della nuova edizione, affinché sia facilitata ai cattolici la comprensione del nazionalsocialismo.
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La difficoltà maggiore che incontra un giovane oggidì è quella di essere e rimanere sé stesso. La coscienza della propria dignità personale, la fierezza della proprie convinzioni, la logica d’un proprio stile, sono beni inestimabili che vi danno la gioia del vivere, l’orgoglio dell’operare. Per questo sovratutto i giovani, i quali sentono più acuto il bisogno della personalità, cercano le lotte e i cimenti, perché soltanto la lotta aperta e rischiosa permette alla persona di dilatarsi ed assumere connotati precisi. Augurarvi quindi le tempeste della vita? Le lotte esteriori, i conflitti clamorosi, le prove solenni e manifeste non sono di tutte le epoche; ma anche nella limitazione d’un ambiente ridotto il nostro dovere, rimane il medesimo: alimentare in noi e salvaguardare la coscienza della nostra personalità. Il cristianesimo è nato rivelando all’antichità che l’ignorava, la persona umana, la nuova creatura la quale è, ciascuna per suo conto, un intiero microcosmo, centro dell’amore divino. Noi esistiamo prima della professione, del comune, della società. La vita cristiana provvede anche quotidianamente ad alimentare questa nostra coscienza personale. Non diciamo nella Messa quella magnifica preghiera: «O Dio, che in modo mirabile creasti la nobile natura dell’uomo e più mirabilmente ancora la hai riformata, concedici di diventare, per il mistero di questa acqua e di questo vino, consorti della divinità di Colui che si fece partecipe della nostra umanità…»? Chi vi va ricostruendo quindi una semplicistica dialettica della storia, nella quale all’individualismo del secolo XIX viene opposto il solidarismo, per non dire il socialismo del secolo ventesimo, taglia troppo grosso. C’è qualche cosa di mezzo che si potrebbe chiamare personalismo cristiano : un principio che comporta nella vita sociale e pubblica una linea propria, che tira via per proprio conto, lasciando da una parte gli eccessi dell’individualismo e dall’altra quelli del suo contrario. L’argomento è difficile e delicato, ma ecco che a formularlo più conclusivamente mi viene in soccorso la recentissima dichiarazione collettiva dei cardinali e vescovi di Francia, la quale dice: «La morale cristiana pone in primo piano dipendentemente da Dio, il principio del rispetto della persona umana. Essa riconosce all’uomo una personalità naturale, anteriore e superiore alla personalità giuridica di cui godono le società. Essere intelligente e libero dotato di una coscienza che gli dà la piena responsabilità dei suoi atti, l’uomo deve raggiungere, con lo sviluppo delle sue forze fisiche e spirituali, secondo le leggi della propria natura, i suoi fini temporali e col progresso delle sue relazioni religiose con Dio, il suo fine soprannaturale ed ultimo che gli conferisce la più alta dignità». «La società deve rispettare e proteggere contro ogni inganno i diritti essenziali e inalienabili della persona umana; essa non potrebbe, senza abusi, confiscare l’uomo a esclusivo profitto dei suoi fini, che sono legittimi, ma molto più limitati». Prima e sopra ogni altra cosa badate dunque ad essere voi stessi. E poi siate ottimisti! Ho visto i giovani della «Neudeutschland» raccogliersi dopo l’udienza pontificia intorno all’obelisco di piazza San Pietro e li ho sentiti cantare con un senso di contenuta fermezza il loro «Grosser Gott wir loben Dich». Avevano le lagrime agli occhi e pure guardavano trionfanti all’avvenire. Cristo proteggerà la sua plebe «e Cristo vince, regna ed impera» stava inciso nel granito sopra le loro teste; ed essi sapevano di vincere con Lui. Certo i più accorti di loro avranno ben dovuto pensare che molti simboli, che molte insegne avrebbero forse dovuto scomparire; ma avranno sentito, dopo le parole del S. Padre, che la parola, il pensiero, lo spirito dovranno vincere e prevalere. Non è ch’io pensi che a lungo andare e secondo la natura delle cose un movimento cattolico possa impunemente rinunziare a quelle forme di vita esteriore che per il loro simbolismo e per la loro attrattiva sono le vie normali per le quali l’idea arriva ad accendere le menti e scaldare i cuori; ammetto però che nel tempo a periodi di dilatazione possano succedere dei periodi di contrazione. In questi sovratutto conviene munirsi di quel sano e verace ottimismo che conosce gli immancabili trionfidello spirito. Certo ogni azione collettiva è sempre una manifestazione e questa obbedisce alle leggi delle cose esteriori. Il «Lebensraum» come dicono i tedeschi, lo spazio cioè nel quale la vita deve svolgersi, l’idea svilupparsi e lo spirito farsi valere, rimane anche per l’azione cattolica e specie per i giovani, di capitale importanza. Per questo Ketteler, a modificare il Lebensraum, invocava il cambiamento delle istituzioni e ove poteva lavorava a trasformare gli organismi sociali. Ma non bisogna dimenticare che la Chiesa nel progresso dei secoli, per modificare l’ambiente, si è dedicata sopratutto alla silenziosa penetrazione delle anime. Lo spirito cristiano lavora nella società come un fermento. Esso ha creato la civiltà presente, ed in esso crediamo e confidiamo pur oggi affinché la civiltà presente non perisca, ma si purifichi e prevalga definitivamente su tutte le forze della dissoluzione. Anche noi dunque crediamo nel progresso indefinito della umanità. Certo, ma vi crediamo non per la bontà innata della natura umana, ma per l’opera sovrannaturale che svolge nel mondo Cristo per mezzo della sua Chiesa. Ecco perché fra le due grandi schiere che dividono il mondo, noi apparteniamo agli ottimisti, benché per ragioni diverse da quelle dei romantici degli umanitaristi e riformatori che stanno dalla stessa parte. Ecco invece l’oscura visione dei pessimisti, dipintaci in uno scritto recente dal prof. Giulio de Montemajor : «La civiltà moderna volge al tramonto, tutti gli spiriti avveduti lo presentono! Quando anche l’ultimo potere imperiale, l’inglese, sarà stato corroso dal parlamentarismo e nuove guerre aeree, sottomarine, di popoli e di trincea avranno asfissiata, sterminata, devastata ed impoverita l’Europa, recisi gli stami della sua intelligenza incivilizzatrice, distolti gli animi dalla coltura, troncate le tradizioni, il nostro meraviglioso mondo con le sue scoperte, le sue ricchezze, le sue eleganze, le sue arti, declinerà… Nuovi popoli più rudi e forti sorgeranno…». Perché tanto pessimismo, perché tanta catastrofe deve proprio apparire inevitabile? Si direbbe che essa è un postulato ideologico per giustificare il proposito di essere sovratutto forti e duri. Il sogno eroico di fungere da salvatori della civiltà, suppone naturalmente l’apocalissi. E poiché, secondo costoro, la civiltà si salva sui campi di battaglia, ecco il primato alle armi, ecco il permanente appello alla forza. In fondo è sempre il pessimismo di Nicolò Macchiavelli che ghigna sul… romanticismo di frate Savonarola . Noi al contrario rimaniamo ottimisti. Vedessimo anche il crollo della presente organizzazione sociale, ben sappiamo che la Chiesa sola, sopravvivendo, salverebbe la civiltà. «Plante divine, elle montre la vivacité et la ténacité du lierre humain à ambrasser l’obstacle, à s’accrocher à lui, à s’élever par lui». Ma noi non crediamo al cataclisma ed alle visioni apocalittiche; crediamo e confidiamo invece che anche nelle presenti convulsioni sociali, come il Balbo dimostrava per le rivoluzioni dall’89 al 1848 , il fermento cristiano lavori come lievito rigeneratore e che le nuove età conosceranno un nuovo progresso cristiano. Perciò ecco il viatico, che, se avessi autorità di farlo, lascerei ai giovani ed ai giovanissimi: Siate voi stessi e siate ottimisti!
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L’Unione cattolica di Friburgo. Il manifesto di Colonia – Il pensiero di Toniolo – Consensi e dissensi tra i cattolici sugli scopi e le funzioni della corporazione – Il problema politico – Contro l’individualismo liberista e il panteismo statale Nella fugace rassegna del capitolo precedente abbiamo visto che la soluzione corporativa si affacciò subito alla mente dei riformatori, appena sorto ed ingrossatosi il socialismo, dunque fra il 1860 e il 1870; e che fra l’Ottanta e il Novanta un piano completo di sistema corporativo venne a perfetta maturazione, per opera di alcuni sociologi cristiano-sociali di tutti i paesi. A Friburgo, nel 1884, l’Union catholique d’études sociales et économiques formulava sotto la presidenza di Mons. Mermillod, e dopo aver sentito La Tour du Pin per la corporazione agricola, il conte Breda per la corporazione industriale, il belga Helleputte per le professioni liberali e Medolago-Albani per il commercio, il seguente ordine del giorno: 1) «Il sistema corporativo è la condizione legittima di un buon regime rappresentativo e l’ordine professionale è la base normale dell’ordine pubblico; 2) Essendo la corporazione un’istituzione pubblica, essa dovrà avere i suoi rappresentanti nei consigli del Comune, della Provincia e dello Stato. Regnerà d’altronde la più grande varietà a seconda dei paesi, delle tradizioni storiche e dei bisogni degl’interessati, per quanto riguarda il modo di elezione, la composizione delle corporazioni e la proporzione nella quale esse saranno rappresentate nei differenti consigli del paese; 3) Il potere pubblico dovrà mantenere la buona armonia fra i vari gruppi sociali ed esercitare, senza sostituirsi al loro governo interiore, i suoi diritti di polizia, controllo e direttiva generale nell’interesse superiore della società». Vero è che Leone XIII nella Rerum Novarum non parlò poi né di sistema corporativo in senso economico-sociale, né di regime corporativo in senso politico e si limitò a raccomandare le corporazioni e le associazioni professionali in genere ai fini della pace sociale; ma poiché a queste corporazioni il venerando pontefice associava tante speranze di civile rinnovamento, i corporativisti si credettero autorizzati a dedurne che anche Leone pensasse allo svilupparsi di un complesso coordinato ed organico ed auspicasse un sistema, un regime corporativo, nel senso espresso ed invocato a Friburgo. Anche i giovani della scuola quindi si appassionarono all’argomento e vi consacrarono la penna e la parola. Eugenio Duthoit , l’attuale illustre presidente delle settimane sociali francesi, pubblicava nell’Associationcatholique del 1894 uno studio sul «modo di adattare il regime politico all’organizzazione corporativa della società». Egli proponeva che il Senato venisse eletto dai consigli corporativi regionali, consigli nominati alla lor volta dalle corporazioni libere e riconosciute, e che anche la nomina del Presidente della Repubblica fosse deferita alle Camere professionali dell’industria e della agricoltura. Nello stesso anno a Colonia un gruppo di notabili cattolici, con alla testa il parroco dottor Oberdorffer pubblicava un manifesto che si può riassumere nel seguente periodo: «La meta finale di ogni riforma cattolica è la riorganizzazione della società sulla base delle professioni, dotate di una propria autonomia amministrativa e autorizzate a rappresentare i propri interessi nei corpi legislativi». Nel commento poi l’Oberdorffer spiegava ancora più chiaramente: «Tutto l’edificio statale dovrà fondarsi sulle classi professionali. La costituzione dello Stato deve avere per base i corpi professionali;… il che avverrà o modificando il nostro Parlamento, o almeno creando accanto ad esso un corpo rappresentativo corrispondente». L’anno dopo ancora, a Vienna, Mons. Francesco Schindler , discepolo prediletto di Carlo Vogelsang e maestro di Mons. Seipel, nella sua «Questione sociale» proponeva quel disegno di restaurazione corporativa che la Reichspost ripubblicò ora, durante le recenti polemiche, per dimostrare che l’idea corporativa non è per i cristiano-sociali austriaci una merce d’importazione. Ma noi ricorderemo in modo particolare il nostro Toniolo, il quale riferendo al congresso cattolico di Bologna (1903) intorno all’organizzazione professionale, e pur ammettendo che i cattolici erano per intanto costretti ad occuparsi delle sole organizzazioni operaie, riaffermava fedeltà «all’antico ed immutato programma corporativo». «I cattolici suppongono – egli diceva – che le classi superiori si organizzino alla lor volta in sodalizi professionali distinti e con queste associazioni mirino a mettersi in rapporto costituendo per ogni centro o per ogni industria delle commissioni permanenti composte di eletti di ognuna delle due parti che si fronteggiano per mantenere sulla base della rispettiva autonomia un punto supremo di trattazione e definizione dei comuni interessi, attuando così al vertice pure attraverso Unioni professionali semplici le corporazioni miste». Già tre anni prima, alla svolta del secolo, Giuseppe Toniolo aveva pubblicato quel suo aureo libretto d’«Indirizzi e concetti sociali» che divenne poi il codice dei democratici cristiani e nel quale esponeva il suo piano di una democrazia organica. A pagina 168 leggiamo come in una visione profetica le parole seguenti: «… le quali classi verrebbero a costituire veri organi di carattere pubblico investiti di funzioni non solo economico-giuridiche (nella preparazione e stipulazione, ad esempio, del contratto di lavoro), civili e sociali (nell’opera di preparazione e di applicazione delle leggi sociali), ma anche politiche, poiché nulla è più naturale di questo che una volta ridata alle classi la forma di enti giuridici permanenti per gli ordinari scopi di tutelare e promuovere gl’interessi della classe rispettiva, questi stessi enti giuridici si rendano anche collegi elettorali per gli scopi politici». Sono queste le idee che ritorneranno in tutti i suoi libri e gl’insegnamenti che ripeteranno i suoi discepoli, fra i quali l’onorevole Boggiano-Pico, che in appendice ad un ampio studio sulla organizzazione professionale pubblicò anche un completo disegno di legge per la costituzione del Senato corporativo . Ma qui sorge spontanea la domanda: perchè tutti questi progetti non ebbero attuazione? Ove sono i frutti di questa innegabilmente ricca e svariata germinazione? I frutti furono le numerose organizzazioni professionali promosse dai cattolici di tutti i paesi, e che nel primo decennio del secolo ventesimo presero più comunemente il nome di sindacato, rispettivamente di Gewerkschaft. Non è qui il luogo di farne la storia . Aveva però ragione il Toniolo, quando nell’aprile 1915 scrivendo la prefazione ad un libro di G. B. Migliori sulle «organizzazioni professionali cattoliche» , dopo aver parlato del dilagante sindacalismo rivoluzionario e delle rovine che la guerra avrebbe portato oramai nel campo sociale si confortava, pensando al dopoguerra, in cui: «… non mancherà, io confido, chi rammenti, che in quella stessa trepida vigilia d’armi, stava di contro all’altra una dottrina ben altrimenti assodata, luminosa e confortatrice; la quale poteva additare come prova di sua efficace pratica, nei lunghi anni, quanti corsero da Ketteler a Leone XIII ed alla successiva propaganda fino a ieri, lo spettacolo di una genesi spontanea, vitale e diffusa, di ordinamenti operai cristiani in Germania, Austria, Belgio, Olanda, Francia…». Senonché anche in questo campo i cattolici rappresentavano una minoranza che seminava l’idea, ma non aveva la forza di farla maturare agli ordinamenti pubblici. Il potere era in mano della borghesia liberale, la piazza dominata dal socialismo rivoluzionario. In Italia la situazione era ancora peggiore, causa il non expedit ; ed alla vigilia della guerra le organizzazioni professionali cattoliche, pur numerose, col pretesto della confessionalità trovavano ancora precluso l’accesso al Consiglio superiore del lavoro ! Questa spiegazione tuttavia, fondata sulla sproporzione delle forze riformatrici in confronto di quelle reazionarie o rivoluzionarie, lasciata sola, risulterebbe parziale e reticente. La verità è che se tutti i cattolici erano d’accordo nel promuovere la corporazione per i suoi scopi sociali, cioè per comporre il conflitto d’interessi tra il lavoratore e il datore di lavoro, molti dissentivano dagli scopi economici che le volevano affidare La Tour du Pin, Vogelsang, Hitze ed i loro discepoli: la funzione cioè di regolare la produzione e di stabilire i prezzi. Quando al congresso di Liegi (1890) venne letta l’adesione del vecchio cardinal Manning, il quale dichiarava che non si giungerebbe mai alla pace sociale, prima che «non si fosse riconosciuta, fissata e stabilita pubblicamente una misura giusta e conveniente che regolasse i profitti e i salari», l’assemblea, nella quale erano rappresentati i cristiano-sociali di tutto il mondo, la coprì di mormorii; e quando il relatore Waldbott, ammaestrato dalle accoglienze avute in sezione, si limitò a proporre all’assemblea la nomina di una commissione per studiare la organizzazione corporativa, si volle che alla parola corporativa venisse sostituita la parola professionale, colla motivazione che il termine corporativo suscitava immagini di coazione e di monopolio. L’idea dell’economia chiusa agiva ancora come uno spettro terrificante. Così profonda era stata la ribellione alla corporazione degenerata dell’ancien régime, che ancora ne risuonava l’eco in tutte le menti. «Se i cattolici sociali – si levò a dire Carlo Perin al congresso di Chartres – intendessero proporci una regolamentazione delle antiche corporazioni d’arti e mestieri coll’intervento dello Stato, per ripristinare vincoli e limiti che arresterebbero il moderno sviluppo industriale noi ci terremo in disparte». E Carlo Perin, maestro riconosciuto di politica ed economia cristiana, era allora il portavoce di un’opposizione che andava dal gruppo d’Angers di Mons. Freppel ai discepoli di Le Play, diretti da Claudio Jannet, e ai gesuiti degli «Etudes». D’altro canto lo sviluppo industriale ed i benefici della libera iniziativa pareva non avessero limiti. Più si produceva e più miglioravano le condizioni del mercato. La macchina suscitava speranze sconfinate, i capitani dell’industria apparivano agli occhi stupefatti del volgo come nuovi geni dell’umanità. Chi avrebbe osato imporre loro «la camicia di forza» della corporazione? La divisione fra cattolici era però ancora più profonda nella questione politica, cioè per quanto riguardava il rapporto fra il corporativismo e lo Stato moderno, fra il regime corporativo e il regime costituzionale, uscito in parte dalla rivoluzione francese. Vogelsang e i suoi amici Feudalsozialen volevano abbattere lo Stato liberale e sostituirvi uno Stato feudale rimodernato; gli uomini dell’Association catholique si vantavano di rappresentare la «Controrivoluzione» e nel 1889 avevano organizzato una specie di «Stati generali» per affermare che, cent’anni dopo, intendevano rifarsi all’opera riformatrice che aveva iniziato Luigi XVI; Hitze nel suo giovanile entusiasmo aveva descritto il sistema economico e politico medioevale come l’ordine sociale cristiano per eccellenza. Ma contro Francesco Hitze si elevava il conte Hertling a contestare questo carattere del sistema medievale. È vero che nel medioevo ci si accostò più che in altra età all’ideale di una società impregnata dallo spirito cristiano; ma l’accostamento avvenne non tanto per il sistema in sé, quanto per mezzo del sentimento e dell’opera dell’individuo e sovratutto agendo sulla coscienza delle classi dirigenti. Apprezzo, aggiungeva lo Hertling, le corporazioni, ma la loro funzione conciliativa durò poco ed esse degenerarono presto in monopolio e costrizione dannosa. Respingeva infine come assolutamente inaccettabile il «Parlamento corporativo», Hertling, dichiarandosi piuttosto per un consiglio centrale corporativo, atto a correggere e completare il Parlamento del suffragio universale. Questa polemica, nella quale prendeva atteggiamento contro il medioevo economico-politico proprio uno studioso di S. Tommaso ed uno storico già celebre, fece impressione. A maggior ragione si trovarono dalla sua parte i Realpolitiker del Centro germanico, il quale era sorto non per prendere di petto lo Stato moderno, ma piuttosto per fiancheggiarlo, e utilizzare il sistema delle libertà costituzionali ed il suffragio universale in favore della minoranza cattolica. In un ambiente politico siffatto le proposte giovanili di Hitze non potevano attecchire; egli stesso anzi, divenuto deputato ed uno dei primi collaboratori della legislazione sociale germanica, modificherà lentamente le sue idee, tanto che il Pieper, nel dopoguerra, scrivendo il suo necrologio, potrà affermare che Francesco Hitze aveva finito coll’abbandonare l’«ideologia corporativareazionaria (ständisch-zunftlerische Ideologie)» non conservando delle sue prime idee che il concetto fondamentale della società organica destinata a superare interiormente il capitalismo. Certo fu questo l’atteggiamento dell’«Unione popolare» fondata a München-Gladbach nel 1890 e dei sindacati cristiani, cresciuti già prima della guerra a notevole potenza. Nemmeno in Francia l’atteggiamento di assoluta negazione dello Stato moderno proclamata da alcuni rappresentanti del corporativismo ebbe maggior fortuna. A De Mun, apostolo della «Controrivoluzione», Carlo Perin aveva opposto che bisognava «respingere lo spirito della rivoluzione, ma non tutte le sue istituzioni. Non possiamo ripudiare le condizioni di libertà e di uguaglianza civile, che sono anch’esse il frutto d’un progresso di secoli, compiuto con concorso del cristianesimo» – tesi, che molti anni prima era stata carissima al nostro Cesare Balbo. Ad una certa data della sua attività pubblica avviene anche al conte De Mun quello che accadde al prof. Hitze. Invitato dall’enciclica Au milieu a mettersi sul terreno repubblicano, De Mun nel suo atteggiamento parlamentare si accosta alla direttiva che aveva seguito Montalembert e diventa più tardi vicepresidente dell’Action libérale, presieduta da Piou, mentre il suo inseparabile amico La Tour du Pin compie l’evoluzione inversa e si avvicina a Maurras. Non abbiamo bisogno di ricordare che anche a Vienna lo sviluppo politico del partito cristiano-sociale compì sotto il Lueger una traiettoria simile, cosicché, tenendo anche conto del Belgio, ove la collaborazione dei cattolici entro lo Stato liberale datava già dalla rivoluzione, si può concludere che verso la fine del periodo prebellico la maggioranza dei cattolici militanti non concepiva la funzione politica dell’ordinamento corporativo che nel senso di correggere il sistema rappresentativo dominante ed il regime democratico, non nel surrogarlo con un regime totalmente nuovo; una soluzione di compromesso che poteva essere pratica, ma mancava naturalmente del prestigio e della forza di attrazione che quasi sempre accompagnano le soluzioni radicali. Ma il problema politico è ancora più grave. Cerchiamo di scrutarlo fino in fondo. Non fu soltanto per ragioni contingenti di politica realista di fronte allo Stato liberale che i cattolici-sociali di anteguerra non forzarono il passo verso la realizzazione corporativa – ma fu sovratutto in causa del loro stesso modo di concepire le relazioni fra il corporativismo e lo Stato in genere. I corporativisti cattolici, anche i più ostili allo Stato liberale, furono anzitutto e sovratutto avversari dello Stato accentratore. Lo stesso La Tour du Pin ch’era pur favorevole entro certi limiti all’intervento dello Stato per organizzare la corporazione, basa però tutto il suo sistema sul principio che la persona umana e la corporazione, intesa come dilatazione della persona, sono anteriori allo Stato. Ci si permetta di citare dal suo volume fondamentale «Vers un ordre social chrétien» alcuni passi . «Un uomo o un gruppo che derivasse i propri diritti da quelli dello Stato sarebbe assolutamente senza diritto, poiché lo Stato potrebbe sempre, in virtù del suo stesso principio, revocar il diritto che avesse concesso…» (pag. 307). «Lo Stato non ha altra funzione che quella d’essere l’espressione suprema dell’accordo di tutti i diritti. Egli possiede a tal effetto un organo, il governo, il quale definisce, non crea, tutti questi diritti a mezzo della legge, li mantiene colla giustizia e li protegge colla forza. Ecco la sua triplice e costante missione» (pag. 307). «Tanto è benefico lo spirito delle leggi se non fa che consacrare i buoni costumi e incoraggiare le iniziative feconde, quanto è nocivo, quando si spinge più avanti e vuole innovare invece di sviluppare, sopprimere invece di riformare» (pag. 308). «Lo so – egli aveva già scritto antecedentemente (pagina 138) – la formazione di stati nello Stato è in uguale abominazione al liberalismo che al socialismo per la tema che l’onnipotenza del potere ne sia sfrenata e sia più difficile alla maggioranza dei cittadini d’imporsi alla minoranza. I conservatori però che non hanno perso il senso storico devono aver presente allo spirito che gli Stati cristiani non si sono formati che per l’associazione politica di questi elementi locali o professionali, i quali rimontano, la più parte, più indietro nel tempo che gli stessi Stati e posseggono dei diritti altrettanto e più sacri che la maggioranza dei poteri politici attuali». Anche per il monarchico francese dunque lo Stato doveva bensì intervenire per promuovere e regolare giuridicamente le corporazioni, ma alla larga, e con tutto il rispetto per la loro autonomia. Perfino il Vogelsang, polemizzando con una rivista cattolica di Monaco, si difende dall’accusa di statalismo, affermando che «gli organi regolativi della vita economica nel futuro ordine sociale cristiano saranno le classi corporative organizzate e non lo Stato». In Germania Hitze ed i suoi epigoni parlano sempre delle corporazioni come di enti autonomi (Selbstverwaltungskörper) e il nostro Toniolo scrive in un suo libro che abbiamo già citato: «Questa autonomia deve essere riconosciuta e tutelata dalle leggi, perché è una conseguenza naturale della autonomia o libertà personale, del diritto, in altre parole, di ogni cittadino, a essere riconosciuto un ente a sé, con propri fini economici, civili ed etici, da conseguire mediante l’esercizio di qualunque libera attività, purché non contraria alla legge morale». E altrove formulando «i principi cristiani di fronte agl’indirizzi dell’economia sociale» nota che «la ricostruzione dell’ordine sociale è di sua natura principalmente un prodotto storico dell’energia, della moralità, dell’operosità degl’individui e delle famiglie; ciò che genera le classi sociali è la loro costituzione in corpi morali, civili, economici (come le corporazioni), quasi estensione e prodotto delle famiglie medesime: e riesce a comporre quegli organismi intermedi, fra l’individuo disgregato, e lo Stato, i quali impediscono il dissolvimento da un canto e l’assorbimento della società stessa». Ed ora possiamo concludere: non senza però ricordare ancora un’altra direttiva dell’economista italiano che fu tutto il programma della sua vita. «La via giusta della ricostruzione cristiano-sociale – egli scrive – ci porta a combattere da una parte l’economia individualista e liberista e dall’altra l’economia panteista o il socialismo di stato». Solo ad una condizione però si riuscirà a mantenersi su questa linea aurea ed è «che si accettino tutti interi i principi cattolici intorno all’uomo, alla società e allo stato». Ciò voleva dire che per i cattolici l’ordinamento corporativo non era che una parte architettonica di una ricostruzione più profonda e più essenziale; ciò spiegava il carattere confessionale delle loro istituzioni, il loro appello alle forze morali della Chiesa, l’invocazione delle direttive pontificie, direttive che vennero anche date nelle encicliche leoniane e quidem intorno all’uomo, alla società ed allo stato. Quest’integralismo cattolico, questo loro condizionare il corporativismo come ogni altra riforma degl’istituti sociali ad una totale adeguazione a principi spiega anche come nelle condizioni morali religiose e civili dell’Europa prebellica essi non potessero scorgere in un ordinamento corporativo quella meta di prossimo raggiungimento che impone la concentrazione di tutti gli sforzi e il balzo entusiastico sull’erta finale per superare la cima. Intanto negli ultimi anni prima della guerra mondiale sul campo agitato delle lotte sociali era comparso un nuovo formidabile competitore: il sindacalismo antidemocratico e antiparlamentare . L’Avenir socialiste des Syndicats di Giorgio Sorel fu pubblicato già nel 1897 . Non c’è nulla di più interessante che rileggere questo libro e la rivista Mouvement socialiste coll’occhio dello storico corporativista. Vi s’incontrano dei periodi stupefacenti, come questi: «I vecchi raggruppamenti erano sovratutto politici, i raggruppamenti nuovi sono professionali…». «Se l’operaio accetta il comando di gente estranea alla corporazione, egli resterà sempre incapace di governarsi da sé… Ai pubblici poteri non occorre chieder altro che delle agevolazioni per procedere a questa trasformazione del popolo per mezzo del popolo stesso». «Il nuovo principio politico del proletariato è il governo dei gruppi professionali selezionati». «Il governo di tutti non è mai stato che una finta; ma questa finzione fu l’ultima parola della democrazia». «I conventi antichi – scrive lo stesso Sorel nell’Introduzione all’economia moderna – hanno delle grandi analogie colle nostre moderne cooperative di produzione; queste riescono quando hanno alla loro testa un capo energico, capace d’imporre a tutti i cooperatori una disciplina severa e di sprangare la porta a chi non è disposto a seguire la regola». Fu da questi libri che vennero cavate le tavole della legge del nuovo movimento del sindacalismo integrale o rivoluzionario, il quale tendeva a sostituire allo Stato moderno il regime di una federazione di gruppi corporativi, basati sulla produzione. La meta finale è naturalmente il socialismo, e la dottrina da cui si parte è pur sempre il materialismo storico. Tuttavia quali rassomiglianze per via, tra questo sindacalismo rivoluzionario e il corporativismo antidemocratico ed antirepubblicano dell’Action française! Il corporativismo di destra ed il sindacalismo integrale si associano nella critica della Rivoluzione e della democrazia e si danno anche la mano nel propugnare lo Stato corporativo dei produttori. È vero: si duo faciunt idem, non est idem. Tuttavia il salto fra i due movimenti è breve. Nessuno lo dimostrò meglio di Giorgio Valois , venuto dall’anarchia e dal sindacalismo, ove era stato a scuola dal Sorel e passato dopo il 1905 all’Action française, della quale fu per un certo periodo l’economista più quotato. Maurras gli pubblicò nel 1906 l’opera che riassumeva tutta l’esperienza del suo vagabondaggio materiale e spirituale: L’homme qui vient ou la philosophie de l’autorité . Il titolo è un programma. Chi non ricorda il suo racconto simbolico dell’«Homme au fouet»? «I primi uomini in conseguenza del peccato d’origine, giacevano inerti e neghittosi, incapaci di qualunque sforzo, barricati dentro le caverne. Ma un bel giorno uno di loro si riscosse, uscì all’aperto, affrontò la tigre e l’uccise. Quando ritornò portava una novità di sua invenzione, un bastone al quale aveva legata la coda della tigre: la frusta. Ed allora la lasciò cadere sulla schiena degl’inerti, gridando: lavorate! E lavorarono, faticarono, produssero, progredirono. E invece di ribellarsi s’inchinavano al suo passaggio mormorando: Che il tuo nome sia lodato, o vittorioso, perché la frusta che tu tieni nella tua mano è come il desiderio che noi avevamo di elevarci al di sopra di noi stessi». Ed ecco scoperta e proclamata la necessità del capo, il Führerprinzip, come direbbero i tedeschi d’oggi. Ebbene nessuno si stupirà nel sentire che quest’uomo il quale rappresentava come il ponte fra il corporativismo monarchico e quello rivoluzionario era stato anche scolaro di La Tour du Pin. Lo vedremo nel dopoguerra sostenere più logicamente alcune idee fondamentali del suo maestro e ritentare anch’egli un movimento «vers les états généraux», come avevano tentato trent’anni prima i corporativisti dell’Association catholique.
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La convergenza del nazionalismo col sindacalismo – La Carta del Carnaro e il corporativismo fascista – Il regime monarchico-patriarcale del corporativismo nazista – La corporazione nel quadro dello Stato cristiano secondo la «Rerum Novarum» e la «Quadragesimo Anno» La convergenza del nazionalismo col sindacalismo che abbiamo segnalato in Georges Valois si riscontra prima della guerra anche in Italia. Nella Lupa , periodico fiorentino nel quale scrivevano sindacalisti e nazionalisti, Enrico Corradini pubblicò nel 1910 un articolo per dimostrare che il sindacalismo rivoluzionario e il nazionalismo eroico contenevano la stessa «sostanza virtuosa»… una volontà intima, una sostanza energetica attiva e costruttrice unica «la stessa origine morale, la stessa morale». Nessuna meraviglia che dopo la guerra ed in seguito alla esperienza e agli effetti della guerra sindacalismo e nazionalismo finissero col trovare «un punto di contatto nel sindacalismo nazionale, dal quale doveva necessariamente sorgere un’idea corporativa». (Relazione del min. Rocco alla Camera Ital., gen 1934). Giorgio Valois, nazionalista e sindacalista, discepolo di La Tour du Pin e di Sorel, organizzatore sindacale dell’Action Française e fondatore della filosofia dell’autorità, appena terminata la guerra lancia nel suo diffusissimo libro Economie Nouvelle (1919) l’idea del sindacalismo integrale, un sistema di organizzazione economico-sociale, in cui i produttori (non importa se padroni o operai) si organizzano in consigli locali, regionali o centrali, secondo la professione e regolano, sotto la vigilanza dello Stato, la produzione e la distribuzione. Il consiglio nazionale corporativo legifera in materia economica mentre una camera detta dei padri di famiglia – antica idea di G. Ventura, Taparelli e Le Play – provvede alle altre leggi. Il Valois fonda nel 1920 l’«Unione delle corporazioni francesi» e, riprendendo l’iniziativa dei corporativisti cattolici (1889), fa propaganda per la convocazione degli stati generali, corpo rappresentativo degli interessi e degli enti autonomi. In questa propaganda c’imbattiamo di nuovo in altri scolari di La Tour du Pin. Ma la situazione politica francese non è favorevole alle sue realizzazioni: Valois si staccherà più tardi dai monarchici e fonderà nel 1921 il «partito fascista francese» che dopo trasformerà in «partito repubblicano sindacalista», senza raggiungere però né in questa veste né nell’altra la possibilità di dare pratica attuazione alle sue idee corporativiste. L’idea invece sarà feconda in terra italiana. Anche qui nel ’19, per la necessità della ricostruzione, tutti, tranne gli oltranzisti della lotta di classe, parlano di sistema corporativo. Il programma dei fasci di combattimento (1919) chiede i «consigli di categoria dei produttori», i nazionalisti nel congresso di Roma propongono il «senato corporativo», il manifesto popolare (1919) vuole «il riconoscimento giuridico e la libertà dell’organizzazione di classe nell’unità sindacale» . Tutte le organizzazioni operaie non socialiste – l’Unione sindacalista, come la Confederazione bianca: vedi di quest’ultima il congresso di Pisa (1920) – convergono in tal necessità ricostruttiva. Ma la prima realizzazione geniale benché effimera, si deve al fiumanesimo colla sua Carta del Carnaro (1920) . Ai problemi pratici della realizzazione è già rivolto anche lo statutoprogramma del partito fascista del 1921, il quale si preoccupa sovratutto dei rapporti fra i sindacati e lo Stato. «Il fascismo non può contestare il fatto storico dello sviluppo delle corporazioni (i sindacati fascisti avevano già assunto tale nome), ma vuole coordinare tale sviluppo ai fini nazionali». È lo stesso problema che il capo del governo italiano sottoporrà nel 1925 ad una commissione dei 18, incaricata «di studiare i problemi attinenti ai rapporti fondamentali tra lo Stato e tutte le forze che esso deve contenere e garantire» e di «dettare norme per il riconoscimento giuridico dei sindacati» . Si ricorderà che la maggioranza della commissione – relatore G. Arias – propose: libertà di organizzazione a tutti i sindacati di diritto privato (purché in accordo coi fini della nazione), fondazione di «enti autarchici istituzionali risultanti dalla libera designazione di tutti i cittadini, iscritti nelle rispettive categorie». Questi enti autarchici sono le corporazioni istituzionali, come vennero chiamate, corporazioni elettive che, di collegio in collegio, avrebbero dovuto arrivare ad eleggere metà della Camera dei deputati. La minoranza, invece, con a capo il presidente dei sindacati fascisti on. Rossoni , proponeva: sindacato unico obbligatorio, e corporazione integrale, cioè collegamento dei sindacati paralleli degli operai e padroni con unica gerarchia superiore. Il Gran Consiglio fascista non accettò né la corporazione istituzionale, né quella integrale, ma fece sua invece la proposta del sindacato unico;il quale sta appunto alla base della legge 3 aprile 1926 . Secondo questa, ente di diritto pubblico è il sindacato unico, non la rappresentanza mista della professione, non dunque la corporazione. La quale nell’art. 3 non era altrimenti prevista che come un eventuale «organo centrale di collegamento» fra i sindacati: organo dello Stato; dichiarava già allora il ministro Rocco presentando la legge alla Camera, e volendo mettere con ciò in rilievo tutta la novità e l’originalità della soluzione fascista. Ma una prima riforma si ebbe nel 1930, per la quale vennero chiamate «corporazioni» le sezioni del Consiglio nazionale corporativo e finalmente nel gennaio 1934 una terza legge autorizzava il Capo del Governo a costituire la corporazione integrale per ogni grande ramo di produzione: e di questa legge, si sta ora preparando in concreto l’applicazione. Ma fermo rimane, ripete anche questa volta l’on. Rocco alla Camera, il carattere originale ed inconfondibile della corporazione fascista, originalità che consiste nell’aver eretta tutta la costruzione sui pilastri paralleli del sindacato unico, cioè del sindacato fascista, sopra i quali viene ora gettata come un ponte la corporazione integrale, che non è un ente a sé, ma rimane organo dello Stato. Con maggior precisione aveva definito le particolari caratteristiche del corporativismo fascista il capo del governo on. Mussolini nel suo programmatico discorso nel 14 novembre 1933 affermando che «per fare il corporativismo integrale e rivoluzionario occorrono tre condizioni: 1) Un partito unico, per cui accanto alla disciplina economica entri in azione anche la disciplina politica; 2) lo Stato totalitario; 3) Un periodo d’alta tensione morale». Dato questo concetto specifico del corporativismo, è naturale che in Italia verso altri esperimenti ed altre soluzioni corporative tentate in altri paesi, ci si mantenga piuttosto scettici e s’insista, come fece anche l’on. Rocco nella citata occasione alla Camera, sulle distinzioni. L’organizzazione spagnola, creata dal De Rivera , nello stesso anno di quella fascista, manteneva i sindacati liberi e attribuiva carattere e funzione corporativa ad un comitato paritetico elettivo . Ora di tale sistema, Anselmo Anselmi, segretario generale del Consiglio nazionale corporativo italiano, scriveva già nel 1930 essere desso «inficiato alla base dal non conciliato dissidio fra i dogmi del sindacalismo libero e la necessità del principio di autorità e di disciplina da parte dello Stato… nel che ogni compromesso e temperamento è impossibile per la contradizion che nol consente». Forti obiezioni incontra in Italia anche il sistema corporativo tedesco di recentissima formazione . In Germania, è vero, le tre premesse politiche, previste da Mussolini per la riuscita del corporativismo integrale, esistono largamente, ma l’aver distrutto i sindacati coi loro contratti collettivi, per sostituirvi in ogni azienda un regime monarchico-patriarcale, viene considerato come un regresso, mentre il deferimento di ogni funzione sindacale e corporativa ad un funzionario dello Stato, quale è il «Treuhändler der Arbeit» appare pericoloso. La Svizzera cattolica si vanta di aver elaborato nella proposta governativa nel Cantone di Friburgo (1933) uno schema che concilia la corporazione colla pluralità dei sindacati e col regime rappresentativo democratico; e l’Austria, condotta allo «Stato corporativo» dalle necessità politiche e incoraggiata dall’esempio italiano, cerca una soluzione sua propria la quale s’ispiri alle sue tradizioni autonomiste ed alla scuola cristiana sociale . È venuto ora il momento di chiederci quale linea dottrinale abbiano seguito e quale atteggiamento pratico abbiano assunto i cattolici in questo campo dopo la guerra. Nel Belgio, in Francia, in Spagna i teorici della scuola nei libri e nelle «settimane sociali» e i sindacati cristiani nei loro congressi invocano sempre, di fronte alla lotta di classe, la soluzione corporativa nei termini della tradizione cristiana che abbiamo altra volta descritta. In Italia fino a tanto che il nuovo ordinamento statale fu oggetto di discussione, l’Azione cattolica si espresse in favore del sindacato libero: così ancora nella settimana sociale di Napoli (settembre 1925) per bocca del relatore Balduzzi e del Card. Minoretti . Messa poi di fronte alla legge del 1926, in una manifestazione del maggio dello stesso anno, fatte alcune riserve programmatiche, l’Azione cattolica rilevava che il nuovo ordinamento italiano «segnava un notevole passo verso la collaborazione delle classi», e raccomandava quindi ai propri soci di aderirvi. Dell’Europa centrale converrebbe fare più lungo discorso. A Vienna rinasce nel dopo guerra la scuola del Vogelsang e, attingendo alle sue dottrine, un gruppo di pubblicisti cristiano-sociali propugna la Bedarfswirtschaft, l’economia del fabbisogno; l’economia regolata in modo che si produca solo per il fabbisogno ed a seconda del fabbisogno: organo regolatore la corporazione. A fianco di questo gruppo il professore dell’università viennese Othmar Spann , ispirandosi ad idee platoniche, esalta lo Stato corporativo come il vero Stato (Der Wahre Staat, 1921 ). In piena adesione invece al realismo aristotelico svolge il suo programma ricostruttivo il celebre sociologo germanico P. Enrico Pesch che nel secondo volume della sua National-ökonomie (1920) dedica ben 70 pagine ad un particolareggiato disegno di organizzazione corporativa ch’egli chiama sistema del solidarismo cristiano. Secondo il Pesch l’economia dovrebbe venir regolata dalle corporazioni autonome sotto l’alta vigilanza dello Stato. Un Parlamento corporativo affiancherebbe il Parlamento politico. Più tardi tuttavia quei cattolici che rimasero sul proscenio, anche a rivoluzione compiuta, quali fiancheggiatori del regime, trovarono che fra l’ordinamento corporativo tedesco in corso di attuazione e le direttive pontificie non esistesse poi un insuperabile distacco. Il deputato Hackelsberger nel suo interessante discorso alla società scientifica Görres (ottobre 1933) si applicò a dimostrare che l’ordinamento tedesco – il quale però era allora attuato solo per il ceto contadino e le arti liberali – si accordava colle direttive della Quadragesimo anno in 5 punti su 6 e che solo nel sesto, cioè nel rapporto fra corporazioni e Stato, tale accordo non esisteva. «L’Enciclica, diceva Hackelsberger, vede nelle corporazioni istituti della società, non crede giuste le corporazioni di Stato (noch halt die Staatsstände für richtig) e non parla di Stato corporativo. In Germania invece le corporazioni sono concresciute collo Stato nazionalsocialista, anzi nella motivazione al decreto sulle arti liberali sta scritto: L’organizzazione corporativa non è un’istituzione dentro o accanto allo Stato, ma è lo stesso Stato nella sua nuova forma». Esaminando più a dentro quest’antitesi, Hackelsberger crede che essa si possa ridurre a questo, e che l’enciclica, stabilendo il carattere autonomo delle corporazioni, vuole assicurata ad ogni costo la libertà di cooperare: al che si appone presentemente il Führerprinzip. Ma non è lecito sperare che in avvenire tale libertà venga a poco a poco concessa? Tale fiducia dà motivo all’oratore di concludere per il fiancheggiamento. Più deciso, più definitivo, fu il vice cancelliere von Papen nel discorso di Gleizrt, (gennaio 1934) affermando di vedere ovunque una felice armonia tra i postulati della Quadragesimo anno e la politica ricostruttiva nazionalsocialista. Questa concessione trovò forti obiezioni nella stampa cattolica tedesca dell’Austria e della Svizzera. Quando poivenne reso pubblico il nuovo ordinamento corporativo dell’industria tedesca, un «professore universitario» nella Reichspost del 23 gennaio intese dimostrare che esso è in netto contrasto colle direttive di Leone XIII e Pio XI, perchè non ammette la libera e corresponsabile cooperazione degli operai, nemmeno quando si tratta di fissare le condizioni di lavoro e, negando ogni autonomia corporativa, si avvia per il socialismo di Stato. Questa diversità di opinioni suggerisce la necessità di risalire alle fonti, di rileggere cioè le parole stesse del documento pontificio, affinché se ne possa ricavare norma ed orientamento. E noi a conclusione di questa rassegna storica mentre invitiamo i cattolici a rimeditare la Quadragesimo anno in tutti i suoi capitoli preziosi, vogliamo riassumere qui i cinque punti e con la massima fedeltà possibile quello che essa insegna sul nostro argomento. 1. I cattolici hanno la libertà di scegliere quella forma di sistema corporativo che più si confà al loro paese, purché sia salvo il principio che «la società deve intervenire ad aiutare in maniera superlativa le membra del corpo sociale, non già a distruggerle ed assorbirle». 2. Le corporazioni debbono comprender tutti coloro – padroni o operai – che esercitano una data arte, superando così la distinzione di classe che li divide sul mercato del lavoro. 3. Queste corporazioni sono società naturali, col diritto loro proprio, e in modo analogo ai Municipi. 4. Come gli abitanti di un Municipio sono liberi di appartenere ad altre associazioni di vario scopo, così i membri delle corporazioni potranno costituirsi in associazioni libere (come ad es. le società operaie o le associazioni generiche): al qual proposito sirichiama l’insegnamento della Rerum Novarum che l’uomo ha libertà non solo di formare queste associazioni di ordine e di diritto privato, ma anche di introdurvi quell’ordinamento che crede. 5. In quanto alle funzioni della corporazione oltre a quelle sociali (conciliazioni delle classi) Quadragesimo anno mette in rilievo quelle economiche, stabilendo che il retto ordine dell’economia non può essere abbandonato alla libera concorrenza, alla egemonia di una parte, ma ha da venire sottoposto ad un principio direttivo, proprio quello della giustizia e della carità sociale. È questo il compito supremo dello Stato che deve far compenetrare di tale principio tutte le sue istituzioni e oltre a ciò, sussidiariamente ai corpi autonomi, far sì che a tale principio si conformi anche l’economia. Su questo campo è necessario che tutti gli stati si aiutino a vicenda con convenzioni ed istituti internazionali. Come i lettori vedono, in questi caposaldi dell’enciclica, non si parla della funzione politica che viene attribuita alle corporazioni né della struttura politica dello Stato. Perciò quando si parla di «Stato corporativo secondo la Quadragesimo anno» si intende dire di ordinamenti sociali ed economici, non di sistema politico. Non che la questione politica sia secondaria, perchè del corporativismo si dovrà dare un giudizio diverso a seconda del sistema politico entro cui esso agisce o di cui fa parte. Per prendere un esempio da tempi remoti le corporazioni del basso impero erano organismi servili e coatti per fronteggiare la crisi; le corporazioni mercantili ed artigiane del medioevo l’anima dei liberi comuni. Ma per quanto riguarda lo Stato, se si tratta della forma, la Chiesa non se ne ingerisce; se si tratta dei principi direttivi ed organici, la Quadragesimo anno, come la Rerum Novarum in tanto preconizza le corporazioni in quanto siano innestate sul tronco sano e robusto dello Stato cristiano. Ogni sistema, ogni esperimento pratico va quindi giudicato a seconda che si avvicina più o meno a questo Stato ideale.
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Caro direttore, trent’anni ormai? – Non me n’ero accorto. Mi par ieri che conobbi per la prima volta il professor Endrici , o meglio com’egli preferiva lo si chiamasse, Don Celestino. Stava ritto in piedi, alto e quadrato, presso il tavolino presidenziale d’un convegno universitario e parlava duro e aspro, sottolineando ogni frase con un colpo sul tavolo. Quella prima lezione dell’assistente ecclesiastico mi rimase conficcata nel cervello, perch’era tutta dominata da un’idea sola, martellata e ribadita con una logica nuda ed inesorabile: il carattere. Avere carattere, mostrare carattere, difendere il proprio carattere. Era un appello che scuoteva la coscienza, richiamava la responsabilità personale, diceva al giovane: «Orsù, punta i piedi, concentra tutte le forze, nuota contro corrente. Dio ti ha fatto personalità libera e responsabile, non seguire pecorilmente il gregge dei più, sii tu, tutto d’un pezzo, e battiti come puoi e con tutte le forze per la causa del bene». Questo appello creò un gruppo di gioventù battagliera, disposta al sacrificio. Com’eravamo pochi allora, come ci disprezzavano! Ma eravamo dritti e sinceri come lame levate al cielo. Il fabbro aveva martellato e temprato senza riposo. Un’altra parola mi ricordo d’aver sentito pronunciare centinaia di volte già in quei convegni giovanili, la parola: sociale. Azione sociale, rinnovamento sociale, giustizia sociale. Se avessi qui il mio vecchio zibaldone, nel quale facevo, tra un pupazzetto e l’altro, degli appunti, potrei ricostruire ancora un certo discorso di Don Celestino sulla necessità delle associazioni cattoliche. Come sbaglia il Gide nella sua «Histoire des Doctrines économiques» , quando crede che il programma cattolico-sociale sia semplicemente un rifarsi al medioevo, una nostalgia verso la riuscita organizzazione corporativa medievale. Ma no! I cattolici si rifanno molto più indietro, attingono a delle fonti più alte e meno temporanee, risalgono alla filosofia naturale. Diritto naturale, filosofia perenne: ecco le basi sulle quali il prof. Endrici costruiva colla robusta armatura della scolastica l’edifizio delle nostre convinzioni sociali. L’istituzione, l’associazione ci veniva presentata come un mezzo indispensabile per attuare la giustizia sociale. La Chiesa proclama il primato della persona e l’esercizio morale della sua libertà e intende che i corpi intermedi fra l’individuo e lo Stato, cioè le associazioni suppliscano all’impotenza degli individui, senza comprimere la sfera dell’attività personale, anzi allargandola, dilatandola. Dilatazione del proprio io nelle opere sociali, era la meta che il prof. Endrici metteva alle nostre ambizioni giovanili, per stimolarle e dirigerle verso il bene pubblico. E qui gli sovveniva un metodo felice. Suscitava l’energie, le convogliava verso una direzione voluta ma poi lasciava libertà di movimento e di esperimento. Alla vigilia di una riunione giovanile estiva che nella nostra terminologia cantonale chiamavamo «congresso», gli feci leggere un mio discorso che dovevo pronunciare il giorno dopo: era un elaborato pretenzioso, uno stillato di parecchi trattatelli e riviste con una certa sicumera filosofica, ed aveva un duplice scopo, quello buono di suscitare una corrente d’idee e quello vano di crearmi la fama di giovane colto e saputo. L’assistente ecclesiastico prese in mano il discreto volume dei fogli manoscritti, lo scorse di pagina in pagina, alla lesta; poi me lo rese dicendo: l’inquadratura è buona; per i particolari farò attenzione quando parli, e se c’è qualche sproposito domanderò la parola. Ecco il modo di educare a fare da sé a correre il rischio delle proprie responsabilità. L’episodio mi rimase allora impresso ed ebbi subito la sensazione del suo significato educativo. Esso fu il primo di moltissimi altri. Una delle caratteristiche del governo di Mons. Endrici fu sempre quella di metter l’uomo in moto, far che cammini e poi lasciarlo andare senza le dande e senza le stampelle. Chi conosce il mondo, avrà anche imparato ad apprezzare un siffatto regime di responsabilità personale. Ai tempi in cui mi si rimproverava a ragione d’avere una lingua spregiudicatella, solevo dire che Mons. Vescovo era, fra i cattolici, il meno clericale della diocesi. Avrei potuto dire più giustamente ch’egli era riuscito a creare un tale rapporto fra il laicato militante e l’autorità ecclesiastica che, pur esercitando la suprema direttiva in quanto ai principi e tenendo in riserva, per i casi estremi, un’influenza personale sempre determinante, si manteneva esente da qualsiasi corresponsabilità per tutto ciò ch’era azione pratica, sia economica che politica. Gli avversari non l’hanno sempre creduto e tuttavia era così: economicamente e politicamente la responsabilità era nostra, perché nostra era la libertà. Onde giusto è stato il giudizio della storia, quando essendo crollate alcune forme contingenti della nostra attività pubblica, illesa rimase l’autorità, intatto il prestigio di chi doveva trasmettere alla nuova generazione la perennità dei principi e dell’ispirazione cristiana. E questa è grand’arte di governo! Lo so, si può forse giungere allo stesso risultato anche coi ripieghi dell’opportunismo sornione, coll’untume di chi nasconde la propria anima pupilla dietro il pretesto di dover lavorare per le anime altrui. Nessuno ha mai potuto rimproverare a Sua Altezza qualche cosa di simile. Egli è rimasto nel turbine dei tempi e fra l’agitarsi di opposte fazioni l’uomo della verità. Quando apparve necessario che una parola fosse detta, fu detta, senza tema di recriminazioni. Si de veritate scandalum sumitur, utilius nasci scandalum permittitur, quam veritas relinquatur: questa dev’essere la norma che anche Mons. Endrici ha attinto dalle omelie di S. Gregorio . Quand’ero giovane, dell’eccellenza di un simile metodo di governo nutrivo un’ammirazione istintiva, ma ora l’esperienza degli anni me l’ha resa più chiara e più consapevole. Essa è tanto più preziosa, quanto è più rara che non si creda, rara – sia lecito dirlo – anche nelle persone zelanti e per bene. Incontrare degli uomini che abbiano facile eloquio, che scrivano elegantemente, che posseggano molta erudizione, non è cosa difficile specie in questa nostra Italia, ove ogni barbiere argomenta come Cicerone; ma trovare chi abbia ben chiare in testa quelle quattro idee fondamentali che sono necessarie per dirigere se stessi e gli altri e chi, quando occorra, sappia far buon uso delle cognizioni altrui, non è cosa di tutti i giorni. Al qual proposito mi viene in mente una distinzione che fa papa Lambertini in una lettera al suo canonico Peggi circa gli ecclesiastici . «Alcuni – egli scrive – hanno una buona guardarobba (sic), lettura continua ed ottima memoria delle cose lette e questi non solo sono buoni per la conversazione; ma nelle occorrenze possono somministrare buone notizie. Ma se non passano più oltre, riescono in atto pratico il più delle volte non solo inutili, ma perniciosi… altri sono che non hanno guardarobba di questo genere… ma hanno però il capitale di una buona logica e d’una buona esperienza nel dar giudizio, e sanno fare buon uso delle notizie somministrate dai primi sopradetti…». Questa citazione sia fatta colla debita riserva che a Mons. Endrici, animatore dei nostri studi giovanili e dotto polemista prima ancora di trent’anni fa nel campo della cultura accademica contro l’allora dominante positivismo, non si può certo rimproverare una «guardaroba mancante»; ma per concludere che quello che più importa nell’uomo non è la guardaroba, ma il capitale d’una buona logica e d’una buona esperienza e la capacità di mettere al servizio della propria causa le cognizioni e le attitudini dei nostri simili. Questa virtù Mons. Endrici la possedette fin d’allora e la praticò poi in sommo grado. Fu suo merito e sua fortuna ad un tempo l’aver potuto contare sulla collaborazione di uomini di grande valore, uomini che fin d’allora, cioè da trenta-quarant’anni fa ci apparivano un completamento della sua figura di apostolo e di reggitore. Cristiani anche in questo, cioè nell’equità del giudizio storico, ricordiamoci di quello che sta scritto sulla tomba di Adriano VI : «Quantum refert in quae tempora vel optimi cuiusq. virtus incidat». Oh quanto importa in quali tempi s’incontri la virtù anche dei migliori! Quanto dipende dagli uomini che uno incontra e dall’opera loro! È vero tuttavia! Ci sono dei momenti nei quali si resta soli con Dio e colla propria coscienza. Allora tutto quello che si è e si è stati affiora alla superficie, vi prende alla gola, vi stampa in fronte uno stigma indelebile, vi afferra la volontà e ve la incammina per il sentiero, che è magari aspro o tortuoso, ma che è il vostro. Mons. Endrici conobbe questi momenti e innanzi a Dio e alla propria coscienza scelse da solo la propria via. Solo fu a S. Nicolò e circondato dall’insidia e dal terrore, mentre rombavano sul fronte le artiglierie ; solo nell’internamento di Heiligenkreuz ed assediato da cupe pressioni e da minacce oscure. Un giorno, dopo una camminata di due ore attraverso il bosco, sbucai sotto le mura dell’abbazia e per una postierla giunsi inosservato al suo appartamento. Lo trovai ritto innanzi ad un leggio, sul quale era spalancato un grosso infolio, prestatogli dal padre bibliotecario: era un’antica edizione della Città di Dio, aperta al capitolo I, là ove Agostino dimostra che la «Divina Provvidenza suole emendare e trasformare, colle guerre, i costumi corrotti degli uomini ed anche mettere a prova la vita giusta e lodevole dei mortali, e così, provata, tramutarla in una migliore o sostenerla ancor quaggiù sulla terra per utilità altrui». Questo testo ed altri del santo dottore servirono quel giorno di conversazione nella via del ritorno, per la quale l’esule Pastore soleva accompagnare per un buon tratto della selva amica i rari visitatori. Egli che aveva sperato sempre nella vittoria italiana, che credeva, nonostante le varie vicende della guerra, nel destino italiano della sua patria e teneva per fermo che la Provvidenza gli avrebbe restituita la cattedra di S. Vigilio in forza delle armi italiane, non guardava però alla guerra dal breve angolo delle sue aspirazioni nazionali, ma temperava il suo patriottismo col sentimento umanitario, colla concezione universalista della «Città di Dio». Agostino amava nel mondo latino la sua patria terrena e sperava che la Provvidenza le serbasse ancora la missione di portare il cristianesimo fino alle frontiere del mondo e di assicurare alla Chiesa vita e libertà contro le minacce barbariche: ma ben comprendeva, come dice al cap. III, che il desiderio sfrenato di dominare aveva fiaccato il genere umano e invocava ardentemente la fine delle guerre. Non aveva scritto in una lettera al legato imperiale Dario: «Maioris est gloriae ipsa bella verbo uccidere, quam homines ferro; et acquirere vel obtinere pacem pace, non bello?». Così, quando ritornò in trionfo, il nostro arcivescovo ebbe comprensione per i vincitori e per i vinti. Dietro il fronte, in mezzo a ridestati rancori e risentimenti non appagati egli assunse il compito misericordioso della croce rossa, intervenendo in centinaia, migliaia di casi per difendere o attenuare, comporre e pacificare, raccomandare vita e fratellanza nuova. Se tutti i beneficati di quei giorni levassero le mani, sarebbe come stare in mezzo ad una delle nostre grandi foreste. Poiché la carità fu sempre una virtù caratteristica del suo governo. Stagliata dalle patrie rocce del suo Roen quella sua fronte quadrata e pensosa parrebbe l’ossea armatura di un cerebrale, e protegge invece un’anima sensibile fino alla sentimentalità, un cuore aperto e generoso. Fino dai primi giorni volle essere padre di tutti e non capo di una parte. Ricordo – e sarà l’ultima reminiscenza tolta dal mazzo – che trent’anni fa il 18 marzo, dunque alla vigilia della sua entrata in diocesi passeggiando in una stanza dell’albergo di Verona egli tracciava ad alta voce come fosse solo – e così poteva credere perché chi l’aveva accompagnato da Vienna a Roma nell’ibrida veste di secretarius e camerarius altro non era che uno studentello – tracciava dico il suo piano di governo che consisteva nel superare le scissioni che allora dividevano il clero col far appello al cuore e al sentimento. Difatti il nuovo vescovo veniva dagl’intransigenti, e i primi atti dimostrarono invece che nella scelta degli uomini non aveva preconcetti. Era un capo dei «clericali», ma i liberali capirono subito il suo cuore italiano. Colle idee larghe, col cuore aperto egli si guadagnò immediatamente il posto centrale che gli spettava. Questo posto è collocato nel cuore di tutti i suoi diocesani. Ben saprete voi – caro direttore – esprimere i sentimenti di tutti i suoi figliuoli che sono ancora oggetto diretto delle Sue cure. A questo coro aggiungete tuttavia anche questa mia voce lontana che, da voi evocata, esce come d’oltretomba per recare testimonianza di un passato il quale nell’alta figura del nostro arcivescovo è più che mai vivo e presente. Non è un articolo; è invece una lettera di ricordi, buttata rapidamente sulla carta, ma scritta cogli stessi sentimenti e colla stessa penna che trent’anni or sono firmava G. Fortis.
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La creazione del Notbund Per orientare i lettori converrà di nuovo riassumere la situazione, al punto in cui l’abbiamo lasciata nell’ultima rassegna 56 Si ricorderà che l’attuale Reichsbischof Müller, capo fino allora dei «cristiani-tedeschi» e fiduciario di Hitler, venne eletto il 27 settembre 1933 nel sinodo nazionale di Wittemberga, in base ad una costituzione di compromesso promulgata ed imposta dallo Stato . Il compromesso era stato raggiunto in seguito alle pressioni di Hindenburg, il quale aveva chiesto al cancelliere di sanare il dissidio scoppiato per l’invadenza dei «cristiano-tedeschi» e per la manomissione delle «Chiese» da parte dello Stato. Ma già a Wittemberga, nonostante le invocazioni a Lutero, si avvertì che la pacificazione non era raggiunta. I «cristiano-tedeschi» spalleggiati dal governo, avevano potuto ottenere nelle elezioni sinodali una maggioranza di due terzi, ma il terzo rimasto all’opposizione era composto di pastori e di teologi, di seminaristi e di laici credenti, dei circoli che rappresentano insomma il nerbo del Protestantesimo. Rapidamente, benché senza pubblicità, si era costituito il Notbund , un’associazione «di necessità» dei pastori, a testa della quale comparve il Niemöller 59 a Scapa-flow 60 dell’eroismo combattente. Il Notbund tentò di protestare ancora durante le assise di Wittemberga, ed essendogli stata interdetta qualsiasi riunione, affisse una sua dichiarazione sui tronchi degli alberi. Il conflitto parve in un primo tempo circoscriversi attorno alla questione antisemita, che la nuova costituzione ecclesiastica del Reich aveva creduto di evitare coll’ignorarla. Ma a tenerla viva ben avevano pensato le «Chiese» federate. Già il 4 settembre il sinodo della «vecchia unione prussiana» aveva tagliato per suo conto il nodo gordiano, deliberando l’espulsione di tutti i pastori d’origine semita 61 o d’altri sinodi provinciali e parrocchiali; e in qualche parte si era giunti al punto di proscrivere dal seno della Chiesa tutti i fedeli di razza ebraica. Si ricorderà ancora che lo scoppio della reazione venne provocato da un discorso del Gauleiter (capo-distretto) dei cristiano-tedeschi Krause nel comizio dello Sportpalast a Berlino il giorno 13 novembre. Il discorso, in fondo, esprimeva idee famigliari ai «cristiano-tedeschi», ma in modo troppo reciso e brutalmente chiaro. Condannare in blocco l’Antico Testamento come un «libro di mercanti di bestie e lenoni»; reclamare la revisione del Nuovo Testamento, per cancellarne la teologia del peccato e dell’unità del «rabbino Paolo», era un po’ troppo anche per le orecchie cristiano-tedesche del Müller. Il Reichsbischof intervenne con una dichiarazione di biasimo. Ma già la domenica dopo, il 19 novembre, tremila pastori del Notbund leggevano dal pergamo una solenne protesta contro le tendenze rivelate dal Krause. Hossenfelder, «vescovo» di Berlino, e capo dei cristiano-tedeschi della capitale, ch’aveva assistito al discorso Krause senza interloquire, di fronte all’indignazione generale, fu costretto a deporre il suo imprudente correligionario. Senonché tale provvedimento giunse troppo tardi per calmare i circoli ortodossi del Notbund e d’altra parte esso fu ritenuto ingiustificato dall’ala radicale dei cristiano-tedeschi, con alla testa la «Chiesa» della Turingia. Così mentre i vescovi (protestanti) della Baviera, dell’Assia e del Württemberg facevano causa comune coi protestanti di destra, nel Nord si accentuava la rivolta dei sinistri. Müller, dopo aver conferito col cancelliere, si vide allora costretto ad aprire la crisi. Il ministero ecclesiastico, nominato dai cristiano-tedeschi, si dimise e venne sostituito da uomini che debbono la loro nomina soltanto al Reichsbischof stesso. Ad ogni ecclesiastico venne proibito di partecipare alle associazioni ecclesiastiche di parte, Müller stesso abbandonò i cristiano-tedeschi. Il nuovo ministero, entrato in azione il 3 dicembre, decise di risolvere la questione antisemita in via di fatto, stabilendo cioè che i pastori dovranno aver studiato nelle Facoltà teologiche dello Stato. Ora siccome lo Stato ha introdotto per le sue Università il numerus clausus, gli ebrei cioè vi possono studiare soltanto l’1,5 per cento, i pastori di razza spuria saranno pochissimi, o meglio di nuovi non se ne vedranno più. Un altro decreto dispose che le questioni teologiche, sorte durante il conflitto, venissero deferite all’arbitrato d’una commissione. Così Müller credette d’aver raggiunto la pacificazione, tanto più che un laico energico, il dott. Kinder 62 «cristiano-tedeschi». Infatti all’estero si ebbe l’impressione che la crisi fosse arginata, tanto da permettere al Müller di intraprendere una politica di concentrazione rispetto alle Chiese regionali finora autonome e di combinare con Hitler l’inquadramento della «gioventù evangelica» 63 Il nuovo verbo: sangue e razza Ma la calma era apparente e del ribollimento non si aveva sentore solo perchè la stampa era tenuta al bavaglio. Già il 22 dicembre trapelava la notizia che uno dei neonominati ministri, il Weber 64 65 minacciava di andarsene. Il 4 gennaio il Reichsbischof si lasciò trascinare ad un colpo di forza ed emanò un decreto col quale comminava la sospensione dall’ufficio ed altre sanzioni a quei pastori che comunque, verbalmente o per iscritto, avessero attaccato o criticato il governo ecclesiastico. Ma pochi giorni dopo si annunziava che i direttori ecclesiastici della Baviera e del Württemberg si rifiutavano assolutamente di eseguire il decreto del 4 gennaio e che i vescovi evangelici del mezzogiorno, convenuti ad Halle, avevano intimato al Reichsbischof di passare alla nomina di un ministero costituzionale, a scanso di provvedimenti che prenderebbero i vescovi stessi. Müller parve tergiversare alquanto, ma l’11 gennaio anche il secondo ministero ecclesiastico si dimise. Siamo così alla seconda crisi, che nonostante qualche nuova nomina fatta dal Müller, non si può dire ancora risolta. In questo periodo semidittatoriale il Reichsbischof si applicò ad un lavoro di concentramento. Con un decreto, pubblicato dai giornali il 27 gennaio, i poteri del senato ecclesiastico della Chiesa prussiana (Altpreussische Union) vennero attribuiti al vescovo del paese, che è lo stesso Müller e la costituzione di quest’importante federazione venne sospesa. Nello stesso tempo cominciarono le sospensioni in massa. Nella sola Slesia, ove il vescovo segue fedelmente il Müller, vennero sospesi dall’ufficio otto «soprintendenti», colpevoli d’aver autorizzata o non impedita la lettura dal pergamo della protesta del Notbund contro i cristiano-tedeschi. In Turingia i pastori sospesi furono quindici. Anche dei seminari vennero chiusi, come ad esempio, quello di Francoforte sull’Oder. Alla fine di febbraio una nuova assemblea dei cristiano-tedeschi nello Sportpalast di Berlino cercò di rimettere ordine nelle sconquassate fila e di togliere all’opposizione ogni motivo di dissenso. Il nuovo presidente dott. Kinder vi fece delle dichiarazioni ortodosse nel senso del conservativismo protestante, riaffermò la sua fede nella Chiesa evangelica e in Cristo Gesù, e la fedeltà dei «cristiano-tedeschi» alla dottrina dei padri. D’ora in avanti, egli disse, l’associazione non si occuperà più di questioni dottrinali, che devono appartenere soltanto alle autorità ecclesiastiche. Il Notbund, secondo il Kinder, maschera tendenze antitedesche e antipatriottiche. «Quando si combatte coll’accanimento più vivo l’applicazione dei principi fondamentali del terzo Reich e si negano gli obblighi che per volontà di Dio noi abbiamo di fronte al nostro sangue e alla nostra razza; quando si sabota con tutti i mezzi il passaggio della “gioventù evangelica” nella “gioventù hitleriana” e si sciolgono le società e si mandano a casa piuttosto che metterle a disposizione del Capo, allora non si può più parlare di “nazional-socialismo”». Così dichiarò nella stessa assemblea il parroco Fausch, succeduto al Krause nella presidenza locale di Berlino. Prese poi la parola il Reichsbischof in persona, per dichiararsi sempre fedele ai principi dei cristiano-tedeschi e confermare l’attaccamento della «Reichskirche» al terzo regno. Essa non ha bisogno di concordati, «perché mentre il Cattolicismo vive al di fuori dello Stato(!), la Chiesa evangelica fa tutto un corpo con esso». Müller attaccò poi i pastori reazionari, nemici del nazional-socialismo. «La Chiesa non è destinata a soddisfare la religiosità eccessiva di certi individui. È un luogo, ove deve raccogliersi il popolo di sentimenti religiosi. Vi è un legame indissolubile fra le basi eterne della Chiesa e quelle del popolo tedesco: il sangue e la razza». Il Cristianesimo di Müller e quello della Bibbia Queste polemiche dei circoli ufficiali lasciano capire che il movimento di opposizione è ancora formidabile. A noi riesce ben difficile di seguirne e registrarne gli sviluppi, perché si tratta di un movimento quasi sotterraneo e con rare manifestazioni pubbliche. Spesso gli oppositori ricorrono a dei foglietti stampati alla macchia o a manifestini dattilografati. La Reichspost recentemente ne riproduceva uno che circolava a Monaco e riferiva, uno messo di contro all’altro, alcuni detti «cristiano-tedeschi» e alcuni altri della Sacra Scrittura. Eccone un esempio: I cristiano-tedeschi dicono: La voce del popolo (tedesco) è la voce di Dio (il vescovo Müller). La S. Scrittura dice: Ognuno ode la mia voce. Poi tutti gridarono di nuovo: Non costui, ma Barabba vogliamo avere! e Barabba era un assassino (Giov., 18, 37-40). I cristiano-tedeschi dicono: La comparsa di Gesù Cristo nella storia mondiale è in fondo una vampata dell’essere nordico-germanico (il pastore Jäger 66 La Bibbia dice: Questo è il libro della stirpe di Gesù Cristo, figlio di David, figlio di Abraham (Matteo, 1, 1). I cristiano-tedeschi dicono: Un connazionale ateo ci è più prossimo che uno straniero, anche se questi canta lo stesso inno e recita la stessa preghiera (il vescovo Hossenfelder). La Bibbia dice: Poiché colui che fa la volontà di Dio, è mio fratello e mia sorella e mia madre (Marco, 3, 35)… E così avanti! Più informati siamo all’estero di ciò che avviene nei circoli universitari. Qui s’è già parlato altre volte della campagna vigorosa che mena Karl Barth, il noto professore della facoltà teologica di Bonn, e fondatore della cosidetta teologia dialettica 67 e viene oramai riconosciuto come un’autorità dai calvinisti svizzeri, francesi, ungheresi… Egli deve forse a queste particolari circostanze la sua immunità. In una recente lettera, pubblicata anche dal Temps, egli dichiara di non essere nazionalista ma di non far politica. La sua opposizione s’inspira ai principi del luteranesimo tradizionale, interpretato calvinisticamente, né manca nella sua polemica l’ironia anticattolica, versata a piene mani sui razzisti, che partiti colla lancia in resta della rivoluzione, hanno finito col trovarsi in pugno un pastorale. La serie di opuscoli battaglieri che dal giugno 1933 escono sotto lo strano titolo di Theologische Existenz heute 68 in Germania. Essi concentrano l’attacco sui rapporti fra Chiesa e Stato, fra nazionalismo e Cristianesimo, fra razzismo e Sacra Scrittura. Ma né Bonn, ove insegna il Barth, né Jena alla cui Università insegna Federico Gogarten 69 70 stesso atteggiamento di opposizione, raggiunsero in quest’ultimo periodo l’importanza dell’Università di Lipsia. Verso la fine dell’anno il neo eletto sinodo della Chiesa sassone, che è la Chiesa più importante del Reich, deliberava sotto l’influsso dei cristiano-tedeschi la solenne proclamazione di 28 tesi, le quali dovevano darci l’interpretazione nazista della dottrina luterana. Le tesi vennero affisse sulle cantonate e diffuse largamente in tutte le chiese. Un gruppo di pastori del Notbund si rivolse allora alla facoltà teologica di Lipsia, chiedendo il suo parere intorno alle tesi. Il parere fu recisamente negativo. In particolare la facoltà condanna la tesi che la Chiesa debba essere così incondizionatamente inserita nello Stato, da rendere superfluo ogni concordato, respinge il totalitarismo, rifiuta il così detto articolo ariano e rileva con indignazione che le tesi sassoni, pur di tener fede al principio razzista, finiscono col negare l’umanità di Gesù Cristo. «Chi mette in disparte l’umanità di Cristo, fugge innanzi allo scandalo che qui può sorgere per la coscienza razzista, invece di sopportarlo valorosamente venerando il segreto di Dio. Egli trasforma Gesù Cristo in un’ombra esanime, che fu già respinta dall’antica Chiesa». La facoltà dichiara inoltre che l’Antico Testamento, insufficientemente riconosciuto nelle tesi sinodali, è parte essenziale e irremovibile della rivelazione divina. Anarchia, eresie e scismi Lipsia non rimase isolata. Siccome le tesi sassoni vennero accettate non soltanto dal nuovo capo dei «cristiano-tedeschi», ma anche dai direttorii delle Chiese regionali del Braunschweig e di Holstein, la «Rheinische Pfarrerbruderschaft» (lega dei parroci di opposizione della regione renana) presentò al Reichsbischof formale invito a voler avvertire le succitate Chiese che, accettando le tesi sassoni, si erano poste «fuori delle basi fondamentali della Chiesa evangelica tedesca» e che «soltanto abiurando gli errori ivi formulati potevano rimanere ancora entro la Chiesa». Quest’eresie sono riassunte dalla «Rheinische Bruderschaft» in 11 punti e ad esse – cosa da notarsi – viene opposta la dottrina dei concili ecumenici. Il Reichsbischof fa il sordo e spera che il tempo sia suo alleato; ma molti indizi fanno credere che l’opposizione ingrossi in modo allarmante per i nuovi reggitori. Un giorno si legge che il Notbund abbraccia oramai il 70% di tutti i pastori protestanti; un altro si annunzia che 140 pastori dello Schleswig-Holstein hanno dichiarato formalmente al nuovo vescovo, di non avere fiducia in lui «per il suo atteggiamento e per le sue eresie», un’altra volta ancora si legge che 20 pastori della Sassonia hanno invitato a dimettersi il nuovo vescovo protestante di Magdeburg e Merseburg. Il sei marzo nella chiesa di Dahlem (Berlino) ebbe luogo una riunione di circa 800 persone, delle quali 250 pastori. L’assemblea si è costituita in libero sinodo, sotto la presidenza del pastore Jacoby 71 libero» vuole, entro la Chiesa, organizzare tutti i fedeli i quali dichiarino di professare il dogma cristiano, qual’è definito nella confessione augustana 72 pastori presenti s’impegnarono a costituire nelle loro parrocchie dei comitati per raggrupparvi i fedeli. Ma non si tratta di un fatto isolato. Il sinodo di Dahlem non è il primo: un altro sinodo libero si costituiva alcuni giorni prima in Westfalia. Contemporaneamente si annunziano le dimissioni del vescovo protestante di Amburgo Schoeffel , seguito dal soprintendente e da parecchi pastori. Ma la notizia più grave è quella che leggiamo nel Temps del 20 marzo, notizia che è ancora troppo presto per commentare, ma della quale i lettori rileveranno subito l’enorme importanza. Si annunzia dunque che il comitato direttivo del Notbund, presieduto dal pastore Niemoeller, in una riunione tenuta ad Hannover, avrebbe deciso di aderire al movimento del «libero sinodo», indirizzando ai sinodi liberi già formati un appello nel quale si legge: «Noi speriamo di arrivare alla costituzione organica di un grande sinodo evangelico libero, che abbracci tutta la Chiesa evangelica tedesca. Noi ringraziamo il Signore d’averci data la certezza d’essere uniti nella fede, di combattere in comune, di soffrire in comune e di poter superare in comune le difficoltà dell’ora presente». Sta dunque formandosi un grande scisma dalla Chiesa ufficiale, come reazione conservativa alle innovazioni cristiano-tedesche e contro le imposizioni hitleriane? Si avvererebbe così la predizione della Reichspost la quale in un articolo ben informato del 26 gennaio annunziava che fra pochi giorni diverrebbero pubblici dei fatti oltremodo sorprendenti . Sarà prudente attendere ancora notizie supplementari e sopratutto vedere quale atteggiamento prenderà lo Stato. Ma a parte tutte le questioni d’ordine organizzativo che naturalmente non ci riguardano, sarà tuttavia lecito anche ai cattolici di esprimere soddisfazione per l’ondata di fede che passa ancora attraverso il Protestantesimo tedesco. Di fronte al vergognoso fenomeno d’una nuova «fede tedesco-pagana» da una parte e al miserabile spettacolo dell’ibridismo razzista cristiano-tedesco dall’altra, il Notbund, come scrive il P. Bichelmejer, porta ad un vero rinnovamento delle coscienze. «La Bibbia come rivelazione divina e intangibile incontra di nuovo una fede viva e rispettosa. Cristo trionfa di nuovo in molti cuori, come figlio di Dio e Redentore. In numerose comunità, specie nella Germania meridionale, vengono tenute delle missioni popolari. Si è creato un movimento religioso che potremo designare come “Azione protestante” sul modello dell’Azione cattolica». Nel qual riguardo non va dimenticato il nome del protestante Federico von der Ropp che è un laico veramente apostolico. Egli svolge colla sua «Christliche Kampfschar» (Falange cristiana) un vero apostolato evangelico . Alla domanda intorno a quello che convenga fare egli risponde: «Dobbiamo obbedire a Cristo; far penitenza e credere nell’evangelo… Noi, Chiesa, dobbiamo far penitenza là ove abbiamo commesso il peccato, cioè innanzi a Dio e al popolo tedesco». A tali sentimenti, continua l’illustre gesuita, i frutti non saranno negati. Certo che noi cattolici, sappiamo per esperienza quali tesori possieda una comunità cristiana, quando possa riunirsi attorno all’altare del sacrificio, di quali impulsi esteriori e quale forza interiore fruisca un’«Azione», se sottoposta ad un apostolato gerarchico; e… di fronte al caos germanico, ringraziamo Dio d’averci dato nel Suo vicario in Roma un maestro paterno e sicuro. E forse in quest’ora qualche protestante di buona fede sentirà nostalgia verso i tesori della religione cattolica. Comunque, conclude il Bichelmejer, e questa sarà anche la nostra conclusione, noi cattolici salutiamo di cuore, tutto quello che di vero movimento religioso si sviluppa entro il Protestantesimo germanico, poiché ci è lecito credere che ogni vero movimento di fede al di fuori della Chiesa cattolica è oggettivamente e nella sua ispirazione un movimento verso l’unica Chiesa di Cristo.
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Ho conosciuto studenti universitari di tre generazioni. Il primo gruppo veniva dalla scuola dell’«Osservatore cattolico» di Milano . La parola d’ordine era allora: Scienza e fede. Bisognava dimostrare che si potevano coltivare le scienze e le lettere, pur frequentando la chiesa e mantenendosi ligi alla morale cattolica. La dimostrazione ad hominem era data quindi da giovani cattolici che si distinguessero come scrittori, professori, scienziati. Di quel tempo sono Meda , Molteni , Necchi , Arcari , Gemelli , Mauri , Micheli , per non parlare che del gruppo lombardo. Minoranza audace, essi insorgono contro il positivismo e l’anticlericalismo: si battono colla penna e colla parola, e anzitutto si fanno onore come giuristi, come letterati, come studiosi. Il loro esempio, talvolta la loro partecipazione diretta alle nostre riunioni, esercitarono un influsso notevole sul movimento cattolico trentino. Esempio di fede e di cattolicismo militante, ma anche d’italianità. Se questo contatto fosse venuto meno, si avrebbe forse avuto nel Trentino un movimento cristiano-sociale, di tipo viennese, tradotto in italiano; ma non quel tipo specificamente trentino, nato appunto dalla fusione di due elementi. La prova è data dal colore del movimento, goriziano. Ma opera d’italianità venne fatta più ancora in altro senso. Gli scarsi ospiti che capitavano nel Trentino dal Regno, nelle occasioni solenni di pubbliche manifestazioni, non arrivavano mai a toccare il cuore delle masse rurali, sia perché essendo emissari sospettati d’irredentismo, non potevano mescolarsi alle folle, senza provocare l’intervento della polizia, sia perché notoriamente massoni o anticlericali. Il popolo credente diffidava di quest’Italia ufficiale od ufficiosa che aveva applicate le leggi eversive, introdotto il matrimonio civile, creata la questione romana. I rappresentanti del movimento cattolico invece entravano per la porta spalancata della fede comune e così, in un solo entusiasmo il binomio «religione e patria» venne naturalmente e a poco a poco a significare «religione e Italia». I giovani, gl’intellettuali lo dicevano esplicitamente e nei convegni studenteschi sorse in quell’epoca il motto: Cattolici ed italiani! Le masse andavano più a rilento, ma lo stesso effetto non poteva mancare. L’Italia di quei magnifici giovani – diceva la gente – era dunque un’Italia, ove i cattolici potevano vivere, svilupparsi, combattere e vincere! Le leggi anticattoliche si sarebbero potute riformare, col Papa ci si sarebbe potuti riconciliare, l’accentramento si sarebbe potuto ridurre a proporzioni tollerabili colle autonomie locali. Insomma bastava lavorare, mettersi in linea anche noi cogli altri cattolici italiani, per creare un’Italia più bella, più sana, più corrispondente ai nostri ideali. Quest’influsso lombardo (e dico lombardo senza escludere altri amici del Veneto e della Toscana) ebbe la fortuna di convergere con una spinta nordica, colla reazione cioè provocata dal nazionalismo germanico. Non bisogna dimenticare che le «Unioni cattoliche universitarie» di Vienna e d’Innsbruck parteciparono ufficialmente e attivamente alla campagna per l’università italiana, che il rappresentante cattolico nel comitato centrale di agitazione s’impegnò pubblicamente a secondare l’azione «fino alle ultime logiche conseguenze», dichiarazione d’irredentismo militante che fu allora accettata e registrata dagli anticlericali più sospettosi; che nei «fatti d’Innsbruck» i cattolici si batterono a fianco dei loro colleghi liberali e socialisti, e condivisero con loro il carcere e le pene disciplinari. Ed ecco che l’atteggiamento combattivo dei trentini ebbe a sua volta un contraccolpo sugli universitari cattolici in genere e divenne argomento apologetico per dimostrare il proprio patriottismo. L’unico grande giornale italiano che pubblicò nel 1904 le «mie prigioni», degli studenti enipontani, fu il «Momento» di Torino, diretto allora da Angelo Mauri, il quale come amico e collega del Lorenzoni , professore ad Innsbuck, si era anche premurosamente interessato alla loro sorte . Le campagne universitarie ebbero inoltre il merito di destare in tutta l’Italia l’interessamento per la questione linguistica, ossia per la questione nazionale in senso lato. Sulla questione territoriale, cioè se fosse o meno di prossima attualità e solubilità il problema dell’«iniquo confine», le opinioni potevano divergere. Vi era chi, nel culto delle antiche tradizioni garibaldine e mazziniane, sperava di poter forzare la mano alla storia, affidando all’iniziativa ed alla propaganda degl’irredenti stessi il capovolgimento della situazione politica, che allora voleva dire la Triplice; e questi erano gli attivisti, i sempre pronti. Ma ve n’erano altri, i quali pensavano che la questione delle Terre irredente non si sarebbe potuta risolvere che assieme a quelle più vaste del generale squilibrio europeo, e costoro, senza essere nell’animo meno italiani degli altri, ritenevano che convenisse frattanto tenere unito il popolo intorno ad un programma di difesa etnica e linguistica contro l’avanzata del pangermanesimo. Come paiono lontane ora le lotte comunali e scolastiche, combattute perché Folgaria e Lavarone non cadessero in preda del Volksbund ! Ora che il tricolore sventola incontrastato su tutte le nostre cime, il pensiero che intieri villaggi fossero in pericolo di diventar tedeschi, sembra assurdo; eppure era allora una triste realtà. Lo schieramento dei cattolici fu in quei frangenti decisivo, l’atteggiamento del vescovo e del clero arrestò la pressione nordica. Il Trentino fu conservato compattamente italiano di lingua e di cuore. La manifestazione più clamorosa di questa campagna fu il noto telegramma di Mons. Endrici al convegno annuale di Levico (1912) , telegramma e congresso che misero in allarme tutta la tedescheria da Bolzano a Monaco. In quel congresso i fucini erano rappresentati dalla seconda generazione di mia conoscenza. La parlata toscana di Mario Augusto Martini , presidente federale, già allora brillante conferenziere, scrittore colto e profondo di questioni sociali, fu la nota squillante del nostro convegno. Martini era il rappresentante tipico di quella tendenza che si poteva chiamare sociale in senso più specifico, e risaliva al grande Toniolo. In quest’incontri i trentini portavano l’esperimento in atto, gli altri la dottrina sociale e la formulazione giuridica. Democrazia cristiana! Qual ansia di rinnovamento, che sete di giustizia, quanto fiorire di speranze, quali e quante energie fattive e ricostruttive! Non si dica che il dinamismo fu inventato dopo la guerra; esso è nuovo solo per l’irrequietudine spirituale che lascia negli animi, appunto perché talvolta rassomiglia ad un’elica che gira nel vuoto. Ma allora i piani più audaci sembravano realtà facilmente raggiungibili. Trasformare la società secondo giustizia, accompagnare l’inevitabile ascensione degli umili: amare, amare e soprattutto amare; amare i bisognosi e gli operosi, secondo il Vangelo, amare gli avversari per guadagnarli, e non aver sonno né pace, e prodigarsi fino all’esaurimento, purché l’opera fosse almeno iniziata, se non compiuta. L’opera pratica dei trentini, che gli ospiti fucini ammiravano, si concretava laboriosamente in cooperative, casse rurali, casse ammalati, sindacati e corporazioni e piccoli consorzi industriali. La nostra passione era di creare una cellula sociale autonoma, di educare i nostri contadini a reggersi da sé, a presieder un’amministrazione ed un comune, a dirigere un’impresa sociale. A mano a mano che l’egoismo individuale veniva superato, a mano a mano che il solidarismo otteneva una nuova vittoria, pareva che la personalità nostra si dilatasse. Si diceva già allora che l’attività sociale rappresentasse anche un pericolo di dissipazione e di svuotamento interiore: ed era vero. Parecchi che si lasciarono prendere dal turbine, senza essersi prima saldata intorno una armatura spirituale sufficiente, vennero meno, e molti altri riuscirono meno efficaci di quello che promettevano. Ma il pericolo si era scoperto subito, e già s’intendeva correre ai ripari. Alle settimane sociali s’intrecciarono gli esercizi di Mons. Pini : la direttiva, quando scoppiò la guerra, era appunto d’intensificare l’educazione individuale nelle opere dello spirito, della carità e dell’apostolato. Non vi è quindi soluzione di continuità fra la seconda e la terza generazione. Non ve ne dovrebb’essere! La morale professionale, l’attività in favore delle missioni sono integrazioni armoniche dello stesso programma. La formazione religiosa è essenziale, ma se non è accompagnata dalla dottrina delle applicazioni caritative, nei cimenti della vita si rivelerà insufficiente. Quando entrò in lizza la nostra generazione, gli uomini anziani venivano dall’antica «Gioventù cattolica», fondata sotto Pio IX . Con questi uomini bisognò fare un esperimento duplice e contraddittorio. Se arrivavano ad afferrare l’esigenza sociale del momento, ne potevate fare le colonne più forti e più sicure del nuovo edificio, perché la loro morale era integra, la loro coscienza illuminata; ma, tanto a tanto, non l’afferravano, essi praticanti di tre cotte, avversavano con insuperabile ostinazione le direttive del vescovo e del papa. Una delle ragioni per cui il movimento cattolico-sociale arrivò tardi, fu appunto la refrattarietà di questi elementi, individualmente però così preziosi e stimabili. Con ciò non presumo ricostruire situazioni bene o male superate. La civiltà umana progredisce a spirale, ma i giovani hanno bisogno di credere che marciano sempre in avanti, per vie non tentate mai. L’«Ordre nouveau» è un’esigenza dello spirito giovanile. Abbiatelo, cercatelo quindi quest’ordine che integra il vostro orizzonte e disegna nella fantasia la parabola ascendente della vostra giovane vita. Ma cercatelo e trovatelo applicando i principi della filosofia cattolica e ispirandovi alle Dottrine fondamentali del Vangelo. Nel vostro spirito non esistano compartimenti stagni, che funzionino alternativamente ma sia esso un’unica dimora, nella quale domini sovrano l’amore, la carità di Cristo.
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Al pubblico tedesco, Benedetto Croce è stato presentato da Rudolf Borchardt quale riscopritore della filosofia classica. La sua Estetica è stata tradotta in tedesco già nel 1905 , mentre i suoi scritti filosofici completi sono apparsi in tedesco a Tübingen (presso S.C.B. Mohr) e i suoi contributi di politica culturale e i saggi letterari a Vienna o Monaco . Nel 1927 Ernst Wilmerdörffer ha reso disponibile al pubblico tedesco la Storia d’Italia (I) . Non meraviglia che nessun altro scrittore italiano moderno abbia suscitato così a lungo e in modo così importante l’interesse del pubblico tedesco: infatti, dalla fondazione della sua rivista Critica , Croce stesso si è presentato come restauratore dell’idealismo tedesco ed è stato celebrato dalla piccola cerchia napoletana di cui è espressione quale esponente là di quella «filosofia dello spirito» che perfino in Germania è caduta in rovina. Ma nello stesso tempo egli voleva essere proprio un rinnovatore e non un semplice epigono. Sua opinione era che un movimento filosofico fecondo doveva certo collegarsi all’idealismo classico, ma mantenendone solo i germi produttivi, poiché l’epoca dei sistemi chiusi è ormai finita e la filosofia non dovrebbe esser altro che il tentativo di risolvere sempre di nuovo i sempre nuovamente insorgenti problemi teorici riproposti dall’esperienza storica. La filosofia dovrebbe perciò limitarsi ad una metodologia della storiografia. L’orientamento di pensiero di Croce chiarisce perché, fin dalla giovinezza, egli è sceso in campo contro ogni genere di irrazionalismo, come il pragmatismo, l’intuizionismo e il misticismo. Alla pari di Bernstein egli ha esercitato aspra critica contro la teoria del plusvalore, combattendo però soprattutto, dal suo punto di vista filosofico, il materialismo storico. Subito dopo, egli si è presentato come avversario aperto dell’imperialismo nazionalistico, di cui allora la gioventù italiana si entusiasmava con la tragedia, La Nave (1908) di D’Annunzio («Arma la nave e vai dentro al mondo»). Con critica bruciante attaccò egli anche la scuola dannunziana, col suo verso sciolto e lo stile immaginifico, con la sua morale leggera e le sue idee nietzschiane della forza. Quando più tardi i nazionalisti italiani si costituirono in partito sotto la guida del letterato Enrico Corradini e rinfrescarono la concezione hegeliana dello Stato in versione nazionalsocialista, Croce li contrastò con l’accusa di voler espungere lo Stato dal destino dell’uomo per venerarlo come essenza superiore. In tal modo egli non si sentì in imbarazzo quale ammiratore di Hegel, poiché se aveva tratto dal filosofo tedesco il fondamento del suo orientamento di pensiero idealistico, aveva però rigettato molte opinioni di Hegel, tra cui l’elevazione da parte di quest’ultimo dello Stato al di sopra della morale, recuperando al contrario, per citare le sue stesse parole, «la concezione cristiana di Kant dello Stato come una necessità seria e pratica». Un tale richiamo al pensiero cristiano non deve trarre in inganno. Croce è altrettanto lontano da un Cristianesimo positivo quanto dal monismo materialistico. Per lui, la verità non è, come per la Scolastica, una adaequatio rei intellectus, ma una adaequatio praxeos et intellectus. La res infatti per lui non esiste. Tutta la realtà è spirito: lo spirito è svolgimento, cioè eterno congiungimento e unitarietà di teoria e prassi (Critica, 29, p. 409 s.). «Ho cercato di uccidere questo dio indomabile e incomprensibile, risolvendolo nello spirito, il quale è relazione e sviluppo delle sue stesse distinzioni» (ibidem, 22, p. 52). «Certo, per assumere una simile concezione della realtà, è necessario che noi distruggiamo l’idea dell’individuo come essenza metafisica dentro di noi e contrapponiamo al concetto dell’immortalità monadologica, che io definirei come pagano, il concetto di un’altra immortalità, quella realmente cristiana, cioè l’immortalità in Dio» (ibidem, 13, p. 153). Con tali prese di posizione era determinato anche il suo atteggiamento verso il fascismo. È noto che Croce, che era stato ministro dell’Istruzione liberale , fu il capo dell’intelligenza d’opposizione e che la sua infiammata protesta in nome della libertà borghese venne condivisa, a quel tempo, da molti scrittori e uomini di scienza. Con anche qualche cattolico tra loro, poiché sembrava che Benedetto Croce, già levatosi contro marxismo e massoneria, contro dannunzianesimo e modernismo, anche questa volta fosse chiamato a rappresentare l’equilibrio del pensiero latino del giusto mezzo, al di fuori di ogni estremizzazione. La protesta portò Croce in contrasto acuto col fascismo, di cui è rimasto avversario manifesto anche dopo la fine della lotta a favore del partito dominante . Così Croce divenne sempre più alfiere e combattente per la causa del liberalismo e della libertà. Nel 1927 apparve la sua Storia d’Italia . Essa copre un periodo di 45 anni (1871-1915) e non è – come d’altra parte non era da attendersi – una descrizione oggettiva degli avvenimenti storici, bensì uno schizzo filosofico-politico che, secondo il leale proponimento dell’autore, doveva essere il suo scritto di tendenza, ma di fatto rappresenta, grazie a un’intelligente alternarsi di luci e ombre, un’apologia del liberalismo e una riabilitazione del partito liberale d’Italia. Nel silenzio più totale, il libro, che dimostra una padronanza rara della materia trattata, ottenne un successo immenso. Nell’opera sono evitati attacchi aperti e diretti alla Chiesa cattolica, ma certo non poteva stupire, visto l’orientamento spirituale di Croce, un’insuffciente o errata valutazione del dato cattolico. Cinque anni dopo però Croce porta, nella sua Storia d’Europa, un attacco aperto. La spiegazione di ciò sta chiaramente nell’evoluzione politica. Quando Croce scriveva la Storia d’Italia, poteva ancora sperare che la Curia avrebbe aperto e condotto una lotta distruttiva contro il fascismo e tendeva a scorgere nella Chiesa cattolica un alleato provvisorio. «All’inizio – così ragionava egli filosoficamente – la libertà credette di poter convivere con le altre religioni, anche se di fatto essa le superava e stravinceva. Più tardi divenne palese l’opposto» (Storia d’Europa, p. 24). Nell’anno 1929, in particolare, erano stati firmati i Patti lateranensi, i quali portarono, oltre alla soluzione della questione romana, una distensione tra il regime fascista e la Chiesa. Allora Croce manifestò in Senato la sua fiera protesta, da cui però non emerse con chiarezza se egli se la prendeva più con lo Stato o con la Chiesa. Alla battaglia del politico corrisponde anche la presa di posizione dello scrittore e filosofo nella Storia d’Europa, dove il narratore si riduce nello sfondo e il filosofo (e dietro il filosofo l’uomo di partito) passa in primo piano. Il XIX secolo viene considerato come una lotta in pieno svolgimento fra la «religione della libertà» e le «contrapposte religioni». Rifacendosi a Hegel, Croce definisce la libertà come lo spirito nel suo svolgimento. La storia sarebbe un valore della libertà. Postulati e istituzioni politiche, come ad esempio le costituzioni, sarebbero solo il «corpo storico» della libertà. Davanti al pensiero, la libertà sarebbe – come pure l’autorità – un’astrazione; ma, considerata in concreto, essa sarebbe la sintesi delle due, cioè lo spirito. Tuttavia, la libertà apparterrebbe anche alla prassi, poiché essa sarebbe contemporaneamente anche un atto dell’amore o dell’odio, la creazione cioè di ogni istante. In sintesi, Croce definisce la libertà come una visione della realtà con l’etica corrispondente (ibidem, p. 23), ma proprio in ciò risiederebbe l’essenza di ogni religione. Così per lui la libertà è una religione, la sola vera religione, poiché è la religione dello spirito. Il suo culto è il culto di tutti i grandi pensatori. Purtroppo la teoria e la prassi non vanno qui sempre d’accordo. È vero che Hegel ha identificato la libertà con lo spirito, ma a causa della sua disposizione politica ha poi meritato più l’epiteto di «servile» che quello di «liberale» (ibidem, p. 16). La negazione più diretta e più logica dell’idea liberale sarebbe la Chiesa cattolica. La religione della libertà riposerebbe infatti sulla concezione che lo scopo della vita vada ricercato nella vita stessa; cioè nel dovere di rendere questa vita più elevata e larga di spirito, mediante la libera iniziativa e lo spirito imprenditoriale individuale. Il cattolicesimo invece cercherebbe lo scopo della vita al di fuori della vita terrena: quest’ultima sarebbe solo una fase di passaggio ad una seconda vita a cui ci si prepara, appunto prestando obbedienza a un dio che sta in cielo e al suo rappresentante sulla terra e alla sua Chiesa (ibidem, p. 28). Croce ammette, in verità, che vi sono stati secoli in cui la Chiesa ha difeso i diritti della civiltà della libertà e della coscienza contro i popoli barbarici. Ma più tardi essa stessa è stata superata dalla civiltà ed ora, per lui, essa è la protettrice di ogni ignoranza, di ogni superstizione, di ogni repressione spirituale. Nelle righe precedenti abbiamo riassunto i due primi capitoli fondamentali dell’opera e ne abbiamo illustrato la tesi principale. Che cosa ci resta da fare se non prenderne conoscenza? Fra il concetto hegeliano di libertà e la concezione cristiana di realtà vi è un abisso, lo stesso che c’è fra immanenza e trascendenza e sembra esclusa ogni possibilità di colmarlo. Ci si potrebbe al più limitare a contrapporre alle osservazioni del tutto arbitrarie di Croce sulla Chiesa cattolica le affermazioni di un altro politico e storico liberale. Pensiamo a James Bryce, il quale nel suo Modern Democracies, dopo un’analisi attenta delle costituzioni e libertà moderne, descrive nel modo seguente il ruolo della Chiesa cattolica: «…Se noi non ci limitiamo a studiare il suo (della Chiesa) influsso diretto sugli avvenimenti moderni, ma piuttosto guardiamo alle idee-madre contenute in essi, giungiamo al risultato che essa ha infuso nella coscienza umana il concetto di una libertà spirituale che fa da contrappeso alla costrizione fisica e ha creato il sentimento dell’uguaglianza fra gli uomini. Né Voltaire né Rousseau seppero rendersi conto del fatto che la fede nell’immortalità proclamata dal Vangelo è in grado di risvegliare negli uomini i princìpi di comportamento più nobili e di dare nuova forza e nuovo valore ad ogni lavoro umano…». Né Voltaire, né Rousseau, né Croce… Ma l’opera di Croce alla fine s’intitola Storia d’Europa e ai due capitoli iniziali di base fanno seguito altri otto, relativi a situazioni ed eventi concreti. In essi si parla della libertà nel suo «corpo storico»: cioè di istituzioni politiche, di costituzioni e di leggi di garanzia della libertà. Si cerca in tal modo di dimostrare la tesi di fondo anche sulla base dello sviluppo storico del XIX secolo. Bisogna allora chiedersi se corrisponde ai fatti l’osservazione di Croce secondo cui i cattolici credenti e la guida dell’apparato ecclesiale si sono contrapposti al movimento costituzionale di libertà e possono perciò essere ascritti in blocco alla reazione politica. Apriamo allora il libro della nostra storia. Esso ci fornisce la prova che anche i cattolici, proprio come altri gruppi, di fronte alle questioni della libertà politica e civile si divisero in due campi. Forse nulla caratterizza le due principali tendenze politiche dei cattolici meglio della polemica per corrispondenza tra Donoso Cortés e Charles de Montalembert (1848) e della famosa discussione fra lo stesso Donoso Cortés e Albert de Broglie nella Revue des Deux Mondes (1852) . Il politico e diplomatico spagnolo è un pessimista e osserva nel suo famoso discorso sulla dittatura che il decadimento religioso porta con sé la dittatura come necessità politica. Il mondo si muove, secondo lui, nella direzione del più grande e gigantesco dispotismo che l’uomo abbia mai conosciuto; i governi costituzionali sarebbero ombre dietro le quali resta solo la scelta tra due dittature: quella della spada, dall’alto, e quella del pugnale, dal basso. Posizioni opposte hanno Montalembert e De Broglie in Francia, Buß in Germania, Cesare Balbo in Italia. Lo storico Cesare Balbo, capo del primo governo costituzionale in Piemonte, è il principale esponente della scuola neoguelfa, di cui Croce stesso riconosce che essa ha prodotto e pubblicato in questo periodo pressoché tutte le opere significative in campo filosofico, storico e letterario. Accanto agli storici Troya , Balbo e più tardi Cesare Cantù, si trovano in essa i filosofi Rosmini e Gioberti, i poeti Alessandro Manzoni, Grossi , Tommaseo. Tutti sono pieni di fiducia e di illimitata speranza nei riguardi del movimento di libertà. In una lettera a Rosmini, il grande Manzoni rifiuta di giudicare in blocco la rivoluzione francese e nella Morale cattolica egli osserva che «… certe idee di Voltaire sull’amministrazione, di Montesquieu sui fondamenti della politica e di Rousseau sull’educazione sono di tale evidenza che avrebbero meritato di venir adottate espressamente dai cattolici». Balbo osserva contro Cortes che il ritorno all’assolutismo è impossibile per ogni nazione che abbia assaporato la libertà politica; nella sua Monarchia rappresentativa, egli cerca di provare «che la forma di governo costituzionale non è una nuova scoperta, ma è sorta gradualmente dalle condizioni di vita delle civiltà progredite e quindi continuerà ad apparire necessaria a noi e ai nostri successori, finché durerà la nostra civiltà». Il movimento italiano riscosse grande considerazione in Francia. Ozanam, il fondatore delle associazioni di san Vincenzo, scrisse una volta dall’Italia, pieno di ammirazione, al suo amico Voisset: «passiamo ai barbari… passare da Bisanzio ai barbari significa distaccarsi dagli statisti e dai re che sono dominati solo dai loro interessi egoistici e dinastici, che hanno concluso i patti del 1815, cioè dai Talleyrand, dai Metternich, per passare agli interessi nazionali e popolari». È lo stesso Ozanam a indirizzare a uno dei difensori della Repubblica veneta, il poeta Nicolò Tommaseo, le seguenti parole: «I redattori dell’Ere Nouvelle hanno spesso lasciato a desiderare quanto a intelligenza umana, ma Dio non ha mai lasciato mancare loro giustizia e amore per il povero popolo, per la vostra bella Italia e per i suoi gloriosi difensori». È certo vero che la maggioranza dei cattolici francesi dopo il 1850 ha sostenuto il secondo Impero, nella speranza di aver trovato in esso un argine contro l’anarchia e l’Internazionale; ma dovrebbero bastare i nomi di Lacordaire e Montalembert per provare che l’intelligenza cattolica non si è persa sul sentiero della reazione. Se Croce spera di tener alta, con la sua azione di protesta, la bandiera del suo partito, nonostante il crollo dei liberali, perché sottovaluta il ruolo di un Montalembert, il cui piccolo libro censurato, Les intérêts catholiques au XIXe siècle (1854) resta il più brillante manifesto a favore della libertà del XIX secolo? Se quest’uomo, che ha redatto un’apologia molto ammirata della vita costituzionale inglese, che ha sostenuto dal suo seggio parlamentare a Parigi la causa di tutti i popoli oppressi, dagli Italiani agli Irlandesi ai Polacchi, e ha poi criticato per diciotto anni l’assolutismo napoleonico, se questo combattente per la libertà avesse superato la catastrofe del 1870, allora come Victor Hugo egli sarebbe rientrato a Parigi sotto un arco trionfale. Inoltre, egli non era solo. Volgiamo lo sguardo al piccolo Belgio. Nell’assemblea costituente del 1830, su 200 deputati 140 erano cattolici. E da questa assemblea esce quella costituzione sulle «Libertà e diritti dei Belgi» che più tardi venne imitata in tanti paesi. Molto dopo, vi fu anche tra i cattolici belgi un gruppo che voleva combattere e ricusare la «costituzione non cristiana». Le bien publique di Gand e L’univers attaccarono i diritti cattolici come troppo «liberali». Si leggano però le Memorie di Woeste e i ricordi del cardinal Ferrata, nunzio in Belgio, e si troverà che Leone XIII si rifiutò sempre, in ogni circostanza, di autorizzare in qualche modo o di approvare tale movimento anticostituzionale, dichiarando invece che la costituzione era un patto che anche i cattolici dovevano lealmente osservare. Questa è stata notoriamente anche la posizione stabile di Windthorst. Come fa Croce a classificare Görres tra i reazionari? Forse perché, nel suo Deutschland und die Revolution, egli si è scagliato contro i governi reazionari ricordando ai principi riuniti a Verona le loro promesse costituzionali? Oppure forse perché, nel suo Athanasius, egli ha combattuto il concetto hegeliano di onnipotenza statale? Ketteler, a Francoforte, sedette dapprima nelle file della sinistra (proprio come Lacordaire a Parigi) e August Reichensperger lavorò con tale impegno all’opera costituzionale, prima a Francoforte poi a Berlino, che si poté scherzosamente parlare di una Charte Reichensperger. La posizione del Centro, con Bismarck e dopo, la sua richiesta di tolleranza, la sua opzione per i diritti politici di tutti e contro ogni legge eccezionale sono dati affidati alla storia. Ma se il filosofo italiano vede come i cattolici tedeschi vengono malfamati, nella loro patria, come democratici e devoti allo spirito parlamentare, come può legittimare il loro inquadramento nella reazione politica? Sappiamo già come verrà controbattuta la nostra argomentazione. De Maistre, de Bonald, Haller e la Restaurazione, «le parti prêtre» in Francia, la reazione romana dopo il 1848, la Mirari vos e il Sillabo. Ma per ciò che riguarda la collocazione di quei cattolici di primo piano che abbiamo nominato, così come altri, nel campo della reazione va ribattuto che noi volevamo solo dimostrare che confessione cattolica e reazione politica non vanno necessariamente insieme e di fatto nel XIX secolo non sono dovunque andate insieme: ciò che appunto abbiamo riccamente provato col riferimento agli uomini citati e alle loro prese di posizione. Si può anche aggiungere che l’atteggiamento di molti cattolici, all’inizio ingenuamente positivo di fronte all’emergere dell’onda libertaria, si è poi rovesciato nell’opposto a causa dell’attività rivoluzionaria e del Kulturkampf dei liberi pensatori e progressisti. «Sapete – proclamava già Montalembert nell’assemblea legislativa del 1849 contro i radicali – sapete qual è il vostro crimine più grande? Non tanto il sangue incolpevole che avete fatto versare, non tanto le rovine di cui avete coperto l’Europa, quanto piuttosto il fatto che così derubate il mondo dell’incanto della libertà». L’incanto della libertà! Se si paragona la Roma degli anni 1847-48 con quella dell’epoca successiva al ritorno da Gaeta, appare con piena evidenza che il pugnale rivoluzionario aveva colpito non Pellegrino Rossi , ma la forma ingenua della libertà. Pio IX, che aveva difeso la costituzione scritta come «logico proseguimento di quei privilegi di cui le nostre comunità avevano goduto fin dai tempi antichi», era ora divenuto diffidente verso ogni novità. «Quando ci si è scottati una volta con l’acqua calda, si finisce per aver paura anche dell’acqua fredda», disse una volta lo stesso papa al conte Pasolini. Ciò spiega molto dell’atteggiamento della Curia. Certo, se si potesse ignorare l’esistenza della preoccupazione eccessiva per il destino del Patrimonium Petri, allora la posizione del Vaticano nei confronti della vita politica moderna apparirebbe molto più simpatica. In parte ciò dipende anche dalla differenza di temperamento e della formazione politico-diplomatica dei diversi papi. Alla vigilia della rivoluzione francese, Benedetto XIV corrispondeva ancora in maniera candida con Voltaire; dopo lo scoppio della rivoluzione Pio VII, al tempo ancora cardinal Chiaramonti, compose la sua famosa omelia natalizia su richiesta dei fondatori della Repubblica cisalpina (1797): «La forma del reggimento introdotto qui da noi – dichiara il principe della Chiesa – non è in contrasto con il Vangelo; essa esige piuttosto quelle alte virtù che possono venir apprese soltanto alla scuola di Cristo». Per Gregorio XVI invece – Croce si affretta a farlo notare – perfino la ferrovia è sospetta (fu lui però a introdurre le barche a vapore sul Tevere). Pio IX rompe, dopo la rivoluzione, col mondo intero divenendo sempre più apocalittico. Solo Leone XIII considera il XIX secolo con più ottimismo e con una serie di Encicliche cerca di riguadagnare il contatto con l’anima moderna. Il suo richiamo al ralliement non vale per la Francia; il suo appello alla democrazia cristiana, benché intesa solo in senso sociale, ebbe come effetto politico il più esteso coinvolgimento del popolo nella responsabilità politica. Forse non ha torto Tischleder a pensare che nel 1848 un papa come Leone, che sarebbe stato meno coinvolto nella storia locale e avrebbe guardato più all’insieme, avrebbe potuto dare un altro orientamento all’atteggiamento del papato. Naturalmente, vien qui del tutto trascurato il contenuto dogmatico formulato dalla Chiesa nel Sillabo e negli altri documenti papali. La distanza tra la libertà razionalistica di Croce e l’intolleranza dogmatica della fede trascendentale va certo sottolineata nel metodo pratico, ma non in via di principio. La solidità dei propri princìpi fondamentali non impedisce però che si costruisca all’uomo una casa borghese, in cui l’esplicazione della personalità – e in ciò sta la libertà – sia assicurata nel modo più ampio possibile. Il comportamento diplomatico della Curia nei confronti dei diversi Stati viene giudicato dalla storia in maniera diversa. Al filosofo italiano sia in ciò garantita quella libertà di opinione che ad esempio i realisti francesi pretesero per sé nei confronti del mondo napoleonico. Egli compie però, da storico, un errore fondamentale contrapponendo, a questo proposito, la Chiesa moderna a quella antica. Ancor oggi la Chiesa vive dell’antica linfa e si nutre delle eterne idee-madre del Vangelo. La «grande epoca» della Chiesa, che Benedetto Croce scorge solo nella nebbiosa lontananza del passato, può tornare, sia pure in forma spiritualizzata, poiché le forze ci sono. Egli potrebbe ad esempio leggere e riflettere sulle parole dedicate da Leone XIII ai tempi passati: che cioè «tutto ciò che si è fatto in difesa del popolo e contro i malefici principi, con l’introduzione di salutari istituzioni e di garanzie della dignità umana, municipale e individuale, e dell’eguaglianza giuridica fra i cittadini, è venuto dalla Chiesa, che ha dato vita a tutto ciò e lo ha gestito, tenendolo sotto la sua protezione». I Sulla posizione di Croce rispetto allo Stato moderno, alla teoria delle razze ecc., vedi il suo ultimo libro Orientamenti, Milano, Gilardi e Noto, 1934.
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Il sinodo della Reichskirche addomesticato delibera l’assorbimento delle Chiese regionali – Risposta del sinodo confessionale. La questione del giuramento – Il consiglio ecumenico di Fanoe interviene per l’opposizione. Replica della «conferenza episcopale» di Berlino – Sviluppo e metodi dell’accentramento. Le compromettenti dichiarazioni di Jäger a Stoccarda. Resistenza dei vescovi e del clero – Manifesto della Chiesa luterana bavarese. Confessione e unità – Pseudoluteranesimo – Movimento popolare – Ritorno alla scomunica – Il formale distacco – Un papato impossibile – Hitler ha mal di denti – Comitato episcopale e comitato sinodale – Termini giuridici del dissidio – Anarchia dottrinale – Müller e Jäger dichiarati «operai di Satana» Il 7 luglio 1934 compariva un decreto del Reichsbischof che lo autorizzava ad escludere dal sinodo nazionale quei membri che nel frattempo avessero perduto il posto o la dignità in considerazione della quale erano stati eletti o delegati nel sinodo. Si capì subito che questo decreto arbitrario era diretto contro l’opposizione, ma non si sospettò che fosse applicato così rapidamente, come di fatto avvenne; giacché appena un mese più tardi, il 9 agosto, quasi d’improvviso venne convocato il sinodo, dal quale si videro esclusi una ventina di membri che nel frattempo erano stati destituiti dalle loro funzioni: vescovi, professori, pastori che si erano pronunciati contro il nuovo sistema. In loro luogo vennero nominati dei rappresentanti favorevoli al nuovo regime ecclesiastico. Il sinodo, così illegalmente rimpastato, votò a maggioranza delle leggi importantissime. La prima sanziona tutti i decreti e le disposizioni amministrative, emanate in passato dal Reichsbischof; la seconda centralizza nella Chiesa del Reich, rispettivamente nel Reichsbischof, tutti i poteri legislativi ecclesiastici, ossia abolisce d’un colpo il potere legislativo delle Landeskirchen. Lo stesso scopo ha di mira una terza legge, formulata appositamente per giungere all’identico risultato in confronto della Chiesa riformata dello Hannover . Infine una quarta legge impone agli ecclesiastici e agl’impiegati un particolare giuramento «al duce del popolo e dello Stato tedesco Adolfo Hitler» e alla Chiesa del Reich. Del come si svolgesse questo sinodo i giornali diedero scarsa notizia. Si seppe tuttavia che dopo un ufficio divino boicottato dal pubblico – circostanza significativa fatta rilevare dall’opposizione – e dopo un’allocuzione piuttosto sibillina del Müller, il vero padrone, cioè il procuratore Jaeger rappresentante del Governo, presentò e motivò i progetti di legge. S’alzò allora il rappresentante della Chiesa bavarese Breit a dichiarare che non si sentiva di votare su due piedi leggi così importanti, ed a lui si aggiunse con dichiarazioni analoghe il vescovo della Slesia dr. Zanker . Altri tre sinodali ancora polemizzarono col relatore Jäger; ma ciò non impedì che si venisse rapidamente ai voti. Su 60 delegati (venti dei quali cooptati per legge dal Reichsbischof e altri venti arbitrariamente sostituiti) 11 votarono ancora contro i poteri al Reichsbischof e contro il nuovo giuramento. Si noti che fra i 20 sostituiti, alcuni erano stati l’anno scorso caldi fautori dell’elevazione del Müller. È chiaro che senza l’illegale mutilazione eseguita dal procuratore in favore del Reichsbischof, le leggi non avrebbero ottenuta nell’assemblea sinodale la maggioranza di due terzi, prevista dalla costituzione. Nei pochi organi dell’opposizione infatti, benché imbavagliati da un’ordinanza del ministro degl’interni che proibiva le polemiche religiose, comparve subito il parere di autorevoli canonisti protestanti che negavano al sinodo e alle sue leggi qualunque valor legale. Il movimento confessionale Il 15 agosto poi si radunava a Berlino il «Consiglio fraterno della comunità confessionale» ossia il sinodo confessionale della D.E.K. (Deutsche Evangelische Kirche). È questo un comitato centrale costituito di delegati regionali d’opposizione. Non si stupisce che finora aveva fatto poco parlare di sé. In questi ultimi tempi erano costituiti sotto l’antica forma di «consigli fraterni» (Bruderräte), dei comitati di opposizione, i quali lavorano entro la Reichskirche, dichiarano anzi in via di massima di accettarla, ma non nel senso organico esteriore imposto oggi dallo Stato, ma nel senso della volontaria cooperazione delle diverse Chiese alla ricerca e formulazione di un credo comune (Bekenntnis, confessione o professione di fede). Per questo, e anche perché l’opposizione conservatrice riafferma contro le audacie degl’innovatori la confessione (Bekenntnis) augustana e la tradizione luterana, il movimento di opposizione è venuto a chiamarsi anche movimento confessionale e al sinodo nazionale del Reichsbischof si vuol opporre un sinodo confessionale, il quale corrisponde in pratica al comitato centrale dei «consigli fraterni», di cui sopra, ed è derivato dalla fusione del Notbund (Lega dei pastori) coll’Evangelische Arbeitsgemeinschaft (Lega dei protestanti conservatori laici). Il consiglio direttivo del sinodo confessionale venne eletto durante l’estate nell’assemblea generale dell’opposizione tenuta a Barmen ed i suoi capi autorevoli e riconosciuti sono il sovrintendente dr. Koch , che fu nominato presidente e risiede a Bad Oenhausen in Vestfalia, il parroco di Altona Asmussen e l’avvocato di Lipsia dr. Fiedler . Il «sinodo confessionale» dunque protestava contro le decisioni del «sinodo nazionale», contestandone la legalità e, come si esprime il comunicato, «dava istruzioni ai parroci sull’atteggiamento da tenere di fronte all’imposto giuramento e deliberava d’introdurre delle regolari visite, per promuovere l’organizzazione entro la comunità confessionale e rincuorare nella lotta le comunità fedeli alla confessione…». Dibelius contro il giuramento Le istruzioni circa il giuramento s’indovinano, quando si conosca la campagna svolta contro di esso nei periodici ecclesiastici. Il Dibelius nella «Junge Kirche» dell’8 settembre espone le ragioni dell’opposizione. Cristo insegna nell’evangelo di dire semplicemente sì o no, senza giurare. Quest’atteggiamento morale dev’essere mantenuto almeno nei riguardi ecclesiastici. Nella vecchia Chiesa protestante, il giuramento dei pastori era sconosciuto. «Si lasciava ai cattolici il privilegio di prestare giuramento al papa o al vescovo». Fu solo nell’epoca del cesaropapismo razionalista che, dal 1815 in qua, venne introdotto anche in Prussia il giuramento al re. Sotto forme diverse esso si mantenne fino al 1918. Ora esso ritorna col ritorno del cesaropapismo. Così il giuramento è un altro sintomo della secolarizzazione della Chiesa ed è tanto più grave, in quanto viene prestato in favore di una persona. «Siffatto giuramento cade sotto la condanna che Lutero ha pronunciato contro i giuramenti al papa», conclude il Dibelius. È noto però che l’atto energico dell’opposizione ebbe per effetto di far ritirare il decreto sul giuramento o meglio di modificarlo nel senso che soltanto gl’impiegati ecclesiastici, non i pastori, saranno tenuti a prestarlo. Il soccorso di Fanoe Nel frattempo parve che dall’estero l’opposizione dovesse ricevere un soccorso insperato. Il «consiglio ecumenico» radunato a Fanoe di Danimarca tra il 24 e il 30 agosto, come suprema rappresentanza delle «Chiese cristiane», proclamava, a proposito del Protestantesimo germanico, che «un governo ecclesiastico autocratico (specie se imposto alle coscienze con un solenne giuramento), l’applicazione dei metodi della forza e la soppressione della libera discussione sono incompatibili colla vera essenza della Chiesa di Cristo». Invano, la delegazione tedesca, diretta dal vescovo sincronizzato di Berlino Heckel , tentava di difendere la Reichskirche. Gl’inglesi, gli americani e gli scandinavi sostenevano in vivace dibattito l’atteggiamento che il capo del sinodo Bell , vescovo anglicano di Chichester, aveva già preso antecedentemente in un suo carteggio col Müller ed infine approvavano ad unanimità la risoluzione di cui sopra. Per marcare poi ancor più il suo distacco dalla Reichskirche, il consiglio ecumenico cooptava fra i suoi membri tedeschi anche il dr. Koch, presidente del «sinodo confessionale», benché nessun rappresentante di quest’indirizzo fosse presente a Fanoe. A parare il colpo il Reichsbischof convocò in Berlino (13 settembre) una «conferenza dei vescovi protestanti» – istituzione nuovissima per il Protestantesimo! – la quale respinse l’o.d.g. di Fanoe come infondato: e per dare maggiore e più vistosa sanzione al regime ecclesiastico costituito stabilì di celebrare a Berlino la solenne intronizzazione del Reichsbischof. Le Chiese concentrate Ma, sovratutto, il procuratore Jäger continuò imperterrito la sua politica di concentramento . In seguito alla legge dei pieni poteri, deliberata nel famoso sinodo del 9 agosto, l’accentramento entrò subito in vigore in confronto di 17 Chiese. Vediamone una volta tanto i nomi precisi: Chiesa evangelica della vecchia unione prussiana (è questa, com’è noto, una federazione delle sètte prussiane), Chiesa evangelica luterana della Sassonia, Chiesa evangelica luterana di Hannover, Chiesa evangelica di Nassau-Hessen, Chiesa evangelica della Turingia, Chiesa evangelico-luterana dello Schleswig-Holstein, Chiesa evangelico-luterana dello Stato di Amburgo, Chiesa evangelica protestante unita del Baden, Chiesa evangelica di Kurhessen-Waldeck, Chiesa evangelico-luterana del Mecklemburgo, Chiesa protestante evangelica riunita del Palatinato, Chiesa evangelica luterana di Braunschweig, Chiesa evangelica luterana di Oldenburg, Chiesa evangelica di Brema, Chiesa evangelica luterana di Lubecca (città), Chiesa evangelica luterana di Schaumburg-Lippe, Chiesa evangelica luterana di Lubecca (campagna). La sottomissione delle Chiese fu estorta con tutti i mezzi. Il sistema delle «occupazioni» delle sedi, e delle deliberazioni di minoranze fatte passare nei verbali per maggioranze, fu applicato su larga scala. Si è annunziato, per esempio, che la Sassonia elettorale si era «inquadrata» solennemente e spontaneamente. In realtà la maggioranza del sinodo regionale in prima convocazione votò contro; allora il procuratore Jaeger si chiuse in una sala colla minoranza, la proclamò «sinodo della Sassonia elettorale» e fece deliberare l’adesione. Il sovrintendente resistette tuttavia ancora ed allora il procuratore fece occupare la sede del concistoro dalla polizia. Similmente venne proceduto in altri Stati. Ai primi di settembre l’opposizione era ancora in possesso dei posti ufficiali soltanto nella Chiesa riformata di Hannover (da non confondersi colla luterana della stessa regione) e nelle due Chiese regionali della Baviera e del Württemberg. Nella prima era alla testa il vescovo Mahrarens (fino all’anno scorso cristiano-tedesco), in Baviera il vescovo Meiser , nel Württemberg il dr. Wurm . Ora il 3 settembre un decreto del procuratore ordinava l’assorbimento anche di queste tre Chiese nella Reichskirche ed un altro decreto dello stesso giorno aboliva i poteri del vescovo di Hannover. L’ultima trincea Vediamo ora come si svolsero gli avvenimenti nelle due Chiese della Germania meridionale, incominciando dal Württemberg. Appena pubblicato il decreto di assorbimento, il vescovo Wurm emanò una dichiarazione colla quale respingeva il decreto perché incostituzionale. Il 7 settembre aderì a tale dichiarazione la maggioranza dei membri della dieta ecclesiastica regionale e in seguito ad una circolare del vescovo si associavano a lui 1174 parroci, ossia l’82% del clero protestante, mentre solo 92 rispondevano in senso negativo. Ma ecco l’8 settembre comparire a Stoccarda il procuratore Jäger in persona e nominare un commissario amministrativo per la Chiesa del Württemberg, sotto il pretesto che il vescovo aveva sottratto dei danari appartenenti alla Chiesa. La notizia sparsa e gonfiata dalla stampa nazionalsocialista fece una enorme sensazione. Senonchè da una dichiarazione del cassiere si seppe subito che si trattava del semplice fatto che il vescovo aveva deposto sul conto della missione di Basilea in una banca di Stoccarda 200.000 marchi e 30.000 aveva affidato al «sinodo confessionale» nelle mani del presidente Koch in Oehnhausen: danari che stavano sempre a disposizione sua e dei quali era pienamente autorizzato a fare l’uso più opportuno, perchè provenivano da un fondo creato a sua disposizione. Dichiarazioni compromettenti Il procuratore Jäger convocò poi il «consiglio ecclesiastico superiore», vi espose la ragione della sua presenza, dichiarò che la confessione non doveva essere messa al di sopra del Vangelo, perchè le professioni di fede sono soggette a mutamenti. Alla fine dell’evoluzione, egli disse, io vedo sorgere una Chiesa nazionale, che si svilupperà da sé. Ultima mèta dev’essere il superamento delle confessioni e delle divisioni religiose nel popolo tedesco. Al sentire questa grave dichiarazione, uno dei consiglieri ecclesiastici presenti s’alzò a dire che con tali parole «il procuratore aveva preconizzata una religione mista nordicocristiana, il che costituisce già una minaccia contro l’essenza dell’Evangelo. Nello stesso tempo tale autentica dichiarazione del procuratore costituiva la giustificazione del fronte confessionale e della sua lotta». Altri membri del consiglio si espressero in senso analogo ed anche il vescovo Wurm, interpellato dal procuratore se intendesse riconoscere l’ordinanza del 3 settembre rispose in senso negativo. Allora il procuratore si levò, proclamò decaduti i consiglieri ecclesiastici e annunziò che «il vescovo veniva limitato ai suoi diritti spirituali». Lunedì, 10 settembre, nella sede del «consiglio ecclesiastico superiore» si insediò il commissario di Berlino. In tale occasione il vescovo rinnovò le sue proteste, rilevando che la separazione della direzione spirituale da quella ecclesiastica amministrativa era incompatibile colla costituzione; e in una circolare al clero, subito emanata, impose di negare ogni obbedienza al commissario e di mantenersi fedeli al legittimo regime. In seguito alla circolare ancora il primo giorno 59 parroci di Stoccarda avvertivano il commissario di considerarlo come un illegittimo intruso. La sera del 14 in tutte le Chiese mentre i «cristiani tedeschi» erano radunati in una sala per festeggiare «la vittoria della Reichskirche», i fedeli protestanti si raccoglievano nelle chiese per rinnovare la professione di fede. In tutta la regione le funzioni furono assai frequentate e vi si lesse una lettera del vescovo che difendeva il suo contegno e chiedeva la solidarietà dei fedeli. Nei giorni che seguirono la direzione commissariale, usufruendo della radio e della stampa, ricorse ad una viva propaganda contro il vescovo Wurm e i suoi aderenti, che per difendersi erano ridotti alle circolari, alle sottoscrizioni e ai manifestini. Ciò nonostante le defezioni furono poche. Fatte pochissime eccezioni, i funzionari ecclesiastici del Württemberg si rifiutarono di prestare giuramento ai commissari, e la facoltà teologica di Tubinga, con l’eccezione di un solo docente straordinario, si dichiarò per il vescovo spodestato. Manifesto della Baviera Veniamo ora alla Baviera. Il Manifesto della «Chiesa luterana bavarese» contro l’incorporamento nella Reichskirche, pubblicato nel bollettino ufficiale ecclesiastico della Baviera il 17 settembre 1934, è molto importante, perché contiene la formulazione dei principii sostenuti durante tutta la campagna dall’opposizione. Ne daremo quindi un largo riassunto. Esso è composto di nove capitoli. Nel primo si dice «essere principio irremovibile della riforma che Chiesa e confessione debbano essere inseparabili. I confini esteriori del territorio ecclesiastico possono modificarsi, Chiese regionali possono associarsi per costituire un’unità maggiore, il diritto canonico dovrà adattarsi alle necessità dei tempi, ma se la Chiesa non vuol cessare di essere Chiesa, se non vuol perdere la sua caratteristica e la misura per tutto il suo lavoro, bisogna che in essa sia assicurata la comunanza della professione di fede». La vera unità della Chiesa viene garantita soltanto dall’unità della stessa confessione, non dall’unità dell’organizzazione esteriore e degli usi ecclesiastici (Confessione augustana, articolo 7). Gli articoli 2 e 3 constatano che nella Reichskirche venne lesa la costituzione del luglio 1933 che era stata sanzionata dalla firma del Führer e Cancelliere. Questa costituzione aveva fatto delle Chiese regionali membri della Reichskirche, è vero, ma membri con eguali diritti e di eguali poteri. Ora invece si concentravano nel vescovo dell’Impero tutti i poteri ecclesiastici, spogliandone i vescovi regionali. Dov’è la Chiesa? L’articolo 4 rileva che la presente Chiesa evangelica tedesca, essendo una federazione di Chiese eterogenee cioè luterane, riformate e unite, non ha essa stessa un proprio credo e non è quindi Chiesa nel senso dell’articolo 7 della confessione augustana. Chiesa in tale senso esisteva soltanto nelle Chiese regionali legate ad un credo preciso. «Una Chiesa regionale, che accettasse di trasmettere i suoi poteri ecclesiastici alla Reichskirche, cesserebbe di essere Chiesa nel senso della riforma luterana, perchè i suoi poteri ecclesiastici verrebbero esercitati da un governo ecclesiastico che non appartiene alla propria confessione». Il capitolo 5 conclude quindi che le Chiese regionali luterane potrebbero trasferire i propri poteri ecclesiastici soltanto ad una Reichskirche che professasse essa stessa senza equivoci la confessione augustana. «La creazione di una Chiesa unitaria con tendenze nazionali e nordicocristiane significa tradire la riforma e fare un passo all’indietro in confronto di questa… Anche nella Chiesa cattolica e in altre sètte cristiane si predica l’Evangelo, – prosegue il documento – ma con ciò non si ha ancora la garanzia che l’Evangelo venga anche predicato in giusto modo e nella sua purezza, proteggendolo contro vecchie e nuove eresie». Per questo scopo la Chiesa ha bisogno di una confessione precisa e chiara. – Perciò la nostra Chiesa regionale non può rinunciare al suo potere ecclesiastico; poiché soltanto così si può avere la garanzia che si predicherà e si agirà nello spiritò della confessione. Lutero, se ritornasse fra noi, ci accuserebbe di tradire la sua opera, quando agissimo diversamente (art. 6). Pseudoluteranesimo L’art. 7 torna a ribadire che potere ecclesiastico e confessione sono inseparabili. Noi respingiamo uno pseudoluteranesimo il quale afferma che la Chiesa visibile può venir separata da quella invisibile. È una fatale illusione il credere che confessione e culto rimarrebbero intatti, anche se si rinunciasse al potere ecclesiastico. Il confine fra la sfera dell’amministrazione ecclesiastica e la sfera della cura per la fede e per il culto è labile. La formazione dei sacerdoti, la nomina dei parroci, la forma dell’insegnamento della religione e della preparazione cresimale e l’esercizio della visita canonica sono compiti dell’amministrazione e anche della confessione. Gli articoli 8 e 9 ripudiano come eretici tutti coloro che, sull’esempio del procuratore Jaeger a Stoccarda, vedono nelle professioni di fede delle forme mutevoli e tendono a superarle per creare una Chiesa nazionale tedesca. Questa dichiarazione venne letta e spiegata in tutte le chiese protestanti bavaresi. La partecipazione del popolo Per volontà del vescovo Meiser il movimento di protesta assunse un carattere popolare. Se dobbiamo credere ai bollettini ecclesiastici protestanti, grandi folle frequentarono nella seconda metà di settembre le chiese luterane di Monaco, Augusta e Norimberga. Il giornale nazista Fränkische Tageszeitung di Norimberga nei giorni 15 e 16 settembre aveva attaccato violentemente il Meiser chiamandlo traditore del popolo tedesco e esigendo la sua rimozione. I fedli dimostrarono i loro sentimenti contrari a tali attac-chi, affollandosi nelle chiese ove il vescovo venne ad esporre le ragioni del suo atteggiamento e a chiedere la solidarietà dei fedeli. Le piazze innanzi alle chiese furono teatro d’imponenti dimostrazioni che si svolsero al canto degli inni ecclesiastici luterani specialmente del celebre «Una salda rocca è il nostro Iddio» , intrecciato spesso ad inni hitleriani, come la canzone di Horst-Vessel . Anche nello Hannover il vescovo deposto Marahrens tenne parecchie riunioni. Un’adunanza solenne venne convocata il 24 settembre nella Stadthalle di Amburgo (le chiese sono oramai precluse all’opposizione) nella quale parlò il presidente del sinodo confessionale Koch. Egli dichiarò che «la pace ecclesiastica si potrebbe ristabilire in sei settimane, qualora lo Stato inibisse la diffamazione politica del movimento confessionale e ritirasse la sua mano protettrice dal gruppo dei cristiano-tedeschi». La fede evangelica, egli disse, non sorge per comando, ma solo con la preghiera. Da altre regioni, pur tuttavia oramai sincronizzate , si ha notizia di manifesti del clero contro il governo ecclesiastico del Müller, quale quello assai importante dell’Arbeitsgemeinschaft della Prussia orientale. Tutte queste proteste però non impedirono al procuratore Jäger di procedere energicamente nell’opera di unificazione. A Stoccarda il vescovo Wurm e i principali ufficiali del concistoro ecclesiastico regionale del Württemberg vennero deposti o sospesi, e poco dopo il procuratore Jäger piombava a Monaco nella sede della direzione ecclesiastica bavarese e, in assenza del vescovo Meiser, lo dichiarava deposto e in suo luogo nominava come commissario il pastore Gollwitzer . Per rompere poi la resistenza bavarese si emanava nello stesso tempo un decreto del Reichsbischof, il quale divideva in due la regione ecclesiastica della Baviera creando un nuovo vescovado protestante a Norimberga e incaricando di amministrarlo come «commissario evangelico del Reich» il pastore Sommerer . Quest’ultime misure provocarono nuove manifestazioni dei fedeli e del clero, che nella sua enorme maggioranza, come abbiamo visto, ha seguito finora i vescovi deposti. A Monaco specialmente nella chiesa luterana di S. Matteo la folla fece nuove imponenti ovazioni al dr. Meiser, che per alcuni giorni venne confinato in casa. E fu uno spettacolo di coraggio. Si ritorna alla scomunica Sintomatico è che gli oppositori, in cerca di armi per difendersi, hanno tentato di riesumare la scomunica. La scomunica – dicono – esisteva dapprincipio anche nella Chiesa luterana. Nell’articolo 28 della «confessione augustana» è detto essere competenza dell’ufficio episcopale quella di escludere i miscredenti dalla comunità cristiana («die Gottlosen aus christlicher Gemeinde ausschliessen»). Lutero richiamandosi a S. Matt. 18, 17 e a S. Paolo (1 Cor.1, 20; 5, 5) ammetteva la scomunica, come a quei tempi la si usò, per esempio, assai largamente contro gli anabattisti. Fu solo più tardi, sotto il cesaropapismo dei principi e, più tardi ancora, sotto l’influsso del liberalismo, che la scomunica protestante andò in disuso. Perchè non rimetterla in vigore ora che la Chiesa è pressata da tanti nemici interni? Così si chiedeva, fra molti altri, il teologo Dollinger nella «Junge Kirche» (22 settembre). Il consiglio, se non formalmente, certo per l’essenza delle cose, è già stato seguito dalla opposizione. Si vegga il testo delle sue deliberazioni del 18 settembre: «Noi ripudiamo, dice il proclama del “sinodo confessionale”, gli eretici che al di sopra delle confessioni tendono ad una Chiesa nazionale… Ciò facendo, il Reichsbischof Lodovico Müller e il procuratore dottor Jäger, come tutti coloro i quali in ciò li seguono, si sono esclusi dalla comunità cristiana. Essi hanno abbandonato il terreno della Chiesa cristiana e hanno perduto tutti i loro diritti in suo riguardo. La comunità cristiana deve constatare, riconoscere e compiere tale separazione! È riuscito al regime ecclesiastico centrale con le sue intrusioni illegali e anticostituzionali, nonostante la fedele resistenza delle comunità, ad allontanare dai loro uffici tutti i legittimi capi ecclesiastici e vescovi, ad esautorare le comunità e imporre il suo regime di violenza. Ora si tenderà di completare quest’opera e reprimere ancora più fortemente la predicazione dell’Evangelo puro e non mutilato». «In vista di questo pericolo, che in molti luoghi ha già condotto ad una insopportabile oppressione di coscienza ed alla falsificazione della dottrina, a punizioni e deposizioni, il “Consiglio fraterno del sinodo confessionale della Chiesa evangelica tedesca” considera come compito affidatogli da Dio quello di combattere imperterrito e tenacemente, per che alla nostra cristianità evangelica rimanga conservato il lieto messaggio. Perciò esortiamo i parroci fedeli alla confessione, gli anziani e i membri delle comunità ad impegnarsi con tutte le forze, perchè sia conservata al nostro popolo la Chiesa dell’Evangelo. Soltanto questa Chiesa, fondata sulla parola di Dio secondo le professioni di fede della riforma, rappresentata nel sinodo confessionale e nel suo consiglio, è la legittima Chiesa evangelica tedesca». Strumenti di Satana! Ma allora eravamo al 18 settembre. Tutto non era ancora consumato. Ora in data 14 ottobre, dopo la sincronizzazione delle tre ultime Chiese, giunge notizia di un manifesto del «sinodo confessionale» ancora più violento, che dà un’idea della tensione degli spiriti. «Nella Chiesa che si chiama evangelica – dice il nuovo proclama – l’Evangelo è abolito. L’arbitrio e la menzogna si sono arrogati il potere. La Reichskirche rinnega i dieci comandamenti ed eleva la menzogna contro la verità, la rapina e la violenza contro il diritto… Responsabili di questa desolazione nella Chiesa sono: il vescovo del Reich Lodovico Müller e il suo amministratore giuridico, il dr. Jäger. Essi sono gli operai di Satana. Così noi eleviamo la nostra querela presso Dio: “Signore nostro Iddio, sono padroni diversi da te che regnano su noi, ma noi non ci ricordiamo che di te e del tuo nome”. Noi preghiamo Iddio: “Liberaci dal male”. Confidiamo nell’aiuto di Dio, noi giuriamo: “Noi non siamo di coloro che indietreggiano e sono dannati, ma di coloro che credono e salvano la loro anima. Signore rendici liberi. Amen”». Intanto il 18 ottobre si annunziava da Berlino che la brutale deposizione dei vescovi Wurm e Meiser aveva avuto delle ripercussioni anche in seno alla direzione della Chiesa centrale. Si assicurava che il vicario del Reichsbischof Engelke e i pastori Berbaum, Langmann e Christians avevano biasimato il contegno del procuratore, il quale per tutta risposta li aveva revocati dalle loro funzioni. Contemporaneamente però si annunciava che anche il presidente dei cristiano-tedeschi, Kinder, si era espresso contro lo Jäger. I cristiano-tedeschi gli avrebbero rimproverato d’aver compromesso con alcune dichiarazioni, troppo avanzate, l’atteggiamento della Reichskirche. Comunque, la posizione del procuratore sembrava scossa, anche perché un foglietto volante dell’opposizione lo aveva descritto non solo come una recluta assai recente del nazismo, ma anche come un divorziato. Tre giorni dopo giungeva all’estero una notizia ben più grave. Zitti, zitti, senza che il pubblico ne avesse il minimo sentore, il 19 ottobre si raccoglievano nel quartiere di Dahlem a Berlino e precisamente nella chiesa di S. Anna, amministrata com’è noto dal Niemöller, i rappresentanti del sinodo confessionale, alla presenza di un delegato della Chiesa evangelica, di un pastore di Basilea e di altri rappresentanti delle Chiese protestanti straniere . In questo sinodo il pastore Niemöller diede lettura di una dichiarazione che invitava senz’altro i fedeli a rompere ogni rapporto con la Chiesa ufficiale e a rifiutarsi a partire dal 1° novembre di pagare l’imposta del culto. Mancano particolari sull’andamento della riunione, ma si sa che la discussione fu amplissima e che ogni sillaba fu dibattuta e ponderata. Il formale distacco La dichiarazione comincia col ricordare che in base all’articolo fondamentale della costituzione della Chiesa evangelica, la base inviolabile di questa Chiesa è l’Evangelo di Gesù Cristo. «Ora, dice la dichiarazione, l’insegnamento, le leggi e le misure della Reichskirche hanno di fatto soppresso questo articolo e così sono soppresse di fatto le basi cristiane della Chiesa evangelica tedesca. La Chiesa nazionale che il vescovo del Reich vuole realizzare colla parola d’ordine “uno Stato, una Nazione, una Chiesa” significa che per la Chiesa evangelica tedesca l’Evangelo non ha più forza di legge e che la missione della Chiesa è così consegnata alle potenze del mondo». La risoluzione protesta contro l’assolutismo del Reichsbischof e del suo procuratore, i quali hanno creato «un impossibile papato», ispirato da uno spirito falso e contrario alla Sacra Scrittura. «Contrariamente ai precetti della Chiesa, il governo ecclesiastico del Reich ha introdotto il principio autoritario, e l’obbedienza senza condizioni che essa esige in virtù di questo principio ha legato i dignitari ecclesiastici al governo di questa Chiesa invece che a quella di Cristo». La risoluzione rileva ancora che la Reichskirche, togliendo di mezzo i sinodi regionali, ha strappato alle comunità dei fedeli tutti i loro diritti, contrariamente alla dottrina della Scrittura e della Riforma. Tutti gli avvertimenti finora furono vani e il Reichsbischof, collaborando coi pubblici poteri, ha proseguito la sua opera di distruzione. Si crea così un diritto di necessità, in nome del quale l’attuale assemblea insorge e dichiara che gli uomini che attualmente reggono la Reichskirche si sono separati dalla Chiesa cristiana. Invita quindi i cristiani fedeli a rifiutarsi d’obbedire a questi uomini ed ai loro rappresentanti ed a separarsi da coloro che continuano ad obbedire a questa Chiesa. La risoluzione conclude: «Noi trasmetteremo questa risoluzione al Governo del Reich, pregandolo di prendere conoscenza della decisione che è divenuta un fatto compiuto. Senza voler intaccare i diritti di sorveglianza dello Stato, noi domandiamo al Governo del Reich di riconoscere che le cose della Chiesa, la sua dottrina e la sua organizzazione devono essere lasciate al giudizio della Chiesa, la quale sola è chiamata a prendere una decisione in questa materia». Questa dichiarazione venne letta ad una folla di aderenti. Poco dopo il presidente del Sinodo confessionale, il sovraintendente Koch, per dimostrare che la nuova Chiesa iniziava le sue funzioni, «ordinò» cinque nuovi pastori, volendo così anche troncare le speranze del Reichsbischof, il quale aveva dichiarato che l’opposizione sarebbe morta di consunzione e di vecchiaia. Il mal di denti del Führer La bomba scoppiò alla vigilia della cerimonia, nella quale il Reichsbischof Müller avrebbe dovuto prestare giuramento nelle mani del Führer. Poiché la stampa quotidiana non può dar notizia alcuna, si era completamente all’oscuro circa gli ulteriori sviluppi. Guerra o conciliazione? Hitler avrebbe coperto il suo amico Müller fino allo scisma, ovvero batterebbe in ritirata? Il primo sintomo fu il differimento della solenne udienza del Reichsbischof presso Hitler. Qualche giornale pubblicò che il Führer aveva mal di denti. Il secondo sintomo, più significativo ancora, fu il ritiro del procuratore Jäger. In una sua lettera, trasmessa alla stampa, egli annunziava d’aver terminato il suo compito e consigliava il Reichsbischof a costituire, per il consolidamento della Chiesa dell’Impero, un comitato episcopale. Müller nominava infatti un «comitato episcopale», composto dei «vescovi regionali» Ditrisch della Nassovia, Kühlewein del Baden, Koch della Sassonia e Paulsen dello Schleswig-Holstein. Questi vescovi sono tutti cristiano-tedeschi, tranne il Kühlewein, rimasto fuori del conflitto. Di fronte a costoro il sinodo confessionale nominava un comitato permanente, composto di Koch, Niemöller, Asmussen, Fiedler, Breit di Monaco e… Karl Barth. Ma gli avvenimenti precipitavano ancora. Si seppe subito che il ministro dell’interno Frick aveva dei contatti coi bavaresi e che il deposto vescovo Meiser era stato da lui ricevuto in udienza. Il 31 ottobre un laconico comunicato ufficiale annunziava che Hitler aveva ricevuto i «vescovi» Marahrens, Meiser e Wurm. L’Ognissanti essi riprendevano indisturbati il loro ufficio. La sera prima, preannunziando tale consolante avvenimento, il Niemöller parlando a Berlino innanzi a grande folla aggiungeva che la lotta non era terminata, che anzi non faceva che cominciare, «ma questa volta contro i veri nemici, contro coloro che vogliono innalzare l’uomo tedesco al di sopra di Dio… Noi combatteremo ora contro Guglielmo Hauer , capo del paganesimo tedesco e contro il signor Alfredo Rosenberg…». Mentre chiudiamo questa rassegna, manca ancora la conferma della voce, giunta all’estero, del ritiro di Müller. Si sa però che Hitler ha affidato al consigliere ministeriale Buttmann l’incarico di tentare una conciliazione fra le due parti in conflitto. Quello che risulta ormai chiaro, è che Hitler, proclamando la sua neutralità di fronte al conflitto ecclesiastico, dà causa vinta all’opposizione, abbandona o almeno fa le viste di abbandonare le tradizioni cesaropapiste che dal cuius regio, eius religio in qua hanno governato il Protestantesimo germanico e si riavvicina al concetto della costituzione di Weimar, la quale garantiva piena autonomia alle confessioni. È manifesto anche che il movimento cristianotedesco creato per «mettere al passo» la Chiesa e servirsene agli scopi del nazismo riceve un colpo fierissimo. Per farsi un’idea dei termini giuridici del contrasto bisogna leggere un parere del canonista protestante dell’università di Erlangen, Ermanno Sasse , pubblicato nel Reichsbote del 21 ottobre. Egli scrive: Chiesa e Stato «Il Governo ecclesiastico centrale vede nella resistenza della gerarchia ecclesiastica bavarese una ribellione contro il diritto canonico instaurato dal nazional-socialismo. Lo stesso concetto sostengono anche i due “commissari ecclesiastici” della Baviera quando nel loro proclama dicono: “Il direttorio della Chiesa evangelica bavarese ha sostenuto che l’inquadramento nella Chiesa del Reich non è legale. Una querela presentata in argomento venne respinta dalle autorità competenti dello Stato. Con ciò la questione della legalità dell’inquadramento della Chiesa evangelica luterana in Baviera è definitivamente decisa: essa è valida”. L’opinione giuridica che in tal modo viene espressa è molto chiara. Se questioni di diritto canonico possono venir decise definitivamente dalle competenti autorità dello Stato in ultima istanza, senza cooperazione della Chiesa, allora la volontà legiferante dello Stato diviene l’unica sorgente del diritto canonico. Poiché allora le autorità competenti dello Stato decidono anche su di un’altra questione che è in giuoco nel così detto inquadramento. Il direttorio della Chiesa bavarese nel suo manifesto pubblicato nel bollettino ufficiale del 17 marzo ha formulato certi corollari che derivano dalla Bekenntnis della Chiesa evangelica luterana per la conformazione legittima dell’ufficio episcopale. Si dice in questo manifesto: “1. Il vescovo di una Chiesa evangelica luterana può essere nominato soltanto da questa stessa: 2. Un vescovo può venir revocato soltanto da quell’istanza che lo ha nominato: 3. La revoca di un vescovo come di un parroco può seguire soltanto in base a regolare procedura corrispondente al diritto canonico e alla posizione”. Se queste proposizioni formulano in modo giusto il diritto canonico come deriva dalla confessione (Bekenntnis) la loro lesione diventa una lesione della confessione della Chiesa, che pure la costituzione della Chiesa del Reich intende garantire. Ma se tale lesione è avvenuta, l’infrazione del diritto non viene riparata per il fatto che un’istanza statale la quale forse non conosce e non può conoscere la confessione e il diritto che da essa deriva, statuisce che tutto è in regola. Lo Stato ha certo il potere di decidere se esso vuole o meno riconoscere un determinato ordinamento ecclesiastico, ma la questione se quest’ordinamento sia giusto o non giusto, se esso corrisponda o meno all’essenza della Chiesa, sfugge al suo giudizio. Lo Stato può eventualmente decidersi a riconoscere o non riconoscere un vescovo di una Chiesa, ma non può sapere se il rispettivo vescovo è veramente tale, cioè se ha il mandato di Cristo che lo fa vescovo. E in caso di dubbio il riconoscimento da parte dello Stato non trasforma nessuno in vescovo legittimo… Se comprendiamo bene la solenne protesta del vescovo bavarese e le dichiarazioni del direttorio di Monaco, si tratta qui di nient’altro che di un appello al governo ecclesiastico centrale, perché sia conservato quel diritto che la Chiesa possiede in Germania da mille anni e la confessione evangelica luterana da quattrocento…». Con tali differenze di principio, dopo gli squarci di polemica luterana e le scomuniche che abbiamo riferito, come si potrà arrivare ad un componimento? Secondo i nostri concetti di credo, dogma, scisma, una pacificazione sembrerebbe illusoria. Ma non bisogna dimenticare che siamo sul terreno della Babele protestante. Il coraggio e la dirittura dei «confessionali» sono certo ammirevoli, ma d’altro canto non hanno torto quei cristiano-tedeschi che rimproverano loro di voler difendere la purezza della dottrina luterana… assieme al calvinista Karl Barth. Le tesi di Barmen che abbiamo pubblicato nel numero di settembre, vennero criticate anche da teologi che non appartengono al nazismo . Sintomatica ci pare in proposito una polemica fra il Dibelius e il dr. Weidemann . Non era anche prima così? L’ex sovrintendente generale Dibelius aveva pubblicata una lettera aperta al presidente dei «cristiano-tedeschi» dr. Kinder, nella quale si ricordavano parecchie manifestazioni di cristiano-tedeschi contro il Nuovo Testamento e contro la divinità di Cristo. Una di queste citazioni riguardava il nuovo presidente nazista della Chiesa di Brema. Ora di questi giorni il vescovo cristiano-tedesco di Brema, dr. Weidemann, pubblicava una risposta al Dibelius della quale sono caratteristici i seguenti passi, riprodotti nel Reichsbote: «Sono veramente i sovraintendenti generali della vecchia scuola così estraniati dal mondo da non sapere, quanto esiguo sia il numero degli studenti di teologia che hanno letto dal principio alla fine gli “scritti confessionali”? Sono proprio i sovraintendenti generali della vecchia scuola così estraniati dal mondo da non sapere quante volte nelle conferenze d’ispezione e nei circoli teologici venne trattata in senso dubitativo, negativo o positivo la questione del Vecchio Testamento, già prima della rivoluzione nazional-socialista? Sono essi veramente così estranei al mondo, da non sapere che certi pastori, mentre ancora i sovraintendenti erano in carica, rifiutarono non solo le “scritture confessionali”, ma anche il Vecchio Testamento ed anzi in parte anche quello Nuovo?…». «… Lutero disse una volta: Noi non vogliamo vedere né sentire Mosè.Soltanto un dilettante di teologia potrà farsi una bandiera di questo motto. Melantone dichiara nella confessione augustana che nelle dottrine e cerimonie della Chiesa evangelica niente si contiene contro la Scrittura né contro la Chiesa cattolica. Ma voi vi rivolgereste con orrore contro un uomo che daquesta proposizione volesse tirare delle deduzioni circa il nostro credo evangelico…». Se tutto questo poteva avvenir prima sotto il vecchio regime ecclesiastico, perché non potrebbe venir tollerato anche oggi? Così intende concludere il vescovo della nuova scuola. Ed in verità con siffatta anarchia dottrinale, e con sì comoda elasticità della Bekenntnis, è difficile per un cattolico di scoprire i punti sui quali l’ortodossia luterana sarebbe decisa a non transigere, «coûte que coûte». 1935
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Veder chiaro nelle questioni internazionali sarebbe il desiderio di tutti, ma è la possibilità di pochissimi. Provvedono i giornali a confondere, ad esagerare, a collocare in falsa prospettiva e fuori proporzione, tanto che, più ne leggi e meno capisci. Tuttavia, a pensarci bene, le cose dovrebbero essere meno imbrogliate di quello che appaiono. La Germania dichiara: la conferenza del disarmo è fallita. È risultato all’evidenza che gli stati vincitori – s’intende la Francia – non vogliono ridurre gli armamenti. Subentra quindi per la Germania il diritto di accrescere i propri per accostarsi al livello dei vincitori, e Hitler propone alla Francia di accordarsi su di un minimo di riarmamenti tedeschi. Ma la Francia risponde: La conferenza non è fallita. Continuiamo gli sforzi per la riduzione. E qui, ricalcando le vecchie proposte si aggiungono nuove formule, nuove condizioni che permettano di continuare le trattative. Ecco quello che è stato detto in pubblico; il resto, cioè il contenuto concreto delle proposte tedesche e delle controproposte francesi si conoscerà appena quando questa fase preliminare delle trattative a due sarà definita o quando, fra poco, si tornerà ad affrontare il problema nel consesso ginevrino. Accontentiamoci intanto di registrare quello che è già di pubblica ragione: le dichiarazioni di Roosevelt e dei governi russi in favore della Società delle Nazioni e la spiegazione, data a Roma dopo il convegno Mussolini-Simon , che l’Italia intende rafforzare, non indebolire, l’organizzazione internazionale della pace; onde trarne la tranquillante conclusione che nessuno in Europa o fuori pensa di abbandonare il principio che la pace si garantisce soltanto con un’organizzazione comune di tutte le nazioni. Disgraziatamente però rimane vero che la comunità internazionale quale oggi esiste, non offre quelle garanzie di tranquillità che, allontanando ogni minaccia di guerra, permettano di risolvere con calma gli altri problemi. L’art. 16 del Patto, a furia di interpretazioni e riserve da parte specialmente dell’Inghilterra, ha cessato di essere quella garanzia di pace ch’era auspicata dai promotori. Il punto decisivo è sempre l’impegno formale e contrattuale d’intervenire contro l’aggressore. Oggi non esiste: bisogna crearlo, per ridare la tranquillità al mondo e permettergli di lavorare in pace alla ricostruzione. Questa fu la considerazione che mosse un illustre cattolico inglese, lord Howard of Perinth , a presentare in un suo discorso tenuto alla «Unione cattolica inglese per le relazioni internazionali» una nuova proposta. Lord Howard, già ambasciatore inglese a Washington, è un personaggio eminente che, unito ad altri noti politici, formulò il nuovo progetto anche in una lettera diretta al Times. Il progetto è semplice, come l’uovo di Colombo. Si tratta di combinare le sanzioni economiche e finanziarie contenute nell’art. 16 del Covenant colla definizione dell’aggressore. I termini della convenzione dovrebbero essere i seguenti: 1) I firmatari s’impegnano a proclamare e mettere in vigore il boicottaggio finanziario ed economico contro le potenze che ricorrono alla guerra o semplicemente all’uso della forza. 2) Le potenze firmatarie intimeranno alle potenze belligeranti la sospensione delle ostilità durante l’inchiesta in corso. La potenza che rifiuterà di accettare tale armistizio e di ritirare le sue forze, verrà considerata come aggressore e, come tale, sarà boicottata; nessun boicottaggio invece verrà applicato contro colui che, avendo accettato l’armistizio, si vedrà obbligato dall’aggressore a continuare la lotta. 3) Se, nonostante il boicottaggio, l’aggressore, così definito, riporterà dei vantaggi militari contro il paese attaccato, le potenze firmatarie continueranno il boicottaggio e rifiuteranno di riconoscere ogni stipulazione di pace imposta colle armi. I proponenti confidano che un simile patto basterebbe a far stare a dovere chiunque avesse velleità guerresche e a tranquillizzare i paesi più angustiati, come la Francia. Si creerebbe così una atmosfera di serenità e di calma che permetterebbe di attuare la riduzione degli armamenti, di concedere alla Germania la parità reale e di correggere, ove occorra, i trattati esistenti. Non è semplice e persuasivo? L’idea del boicottaggio è tipicamente e storicamente anglosassone e anglosassone dovrebb’essere in buona parte anche l’attuazione. Furono proprio gli anglosassoni a sottrarsi alla logica della Società delle Nazioni, da essi stessi promossa. Aderiranno ora almeno ad un patto che, se non la vita dei loro cittadini, metterà eventualmente a repentaglio i loro interessi mercantili? È proprio il caso di far bene i calcoli, giacché si tratta di fare l’economia di una guerra. L’energico e simpatico intervento di re Alberto nella questione dei funzionari richiama la nostra attenzione sulla vita politica belga. Si trattava di reintegrare nei loro diritti di carriera alcune centinaia d’impiegati, licenziati subito dopo la guerra, perché accusati di mancato civismo in confronto degli invasori. Il Consiglio dei ministri aveva già deciso in senso favorevole fondandosi sulle conclusioni di una commissione amministrativa; ma la notizia aveva provocate le proteste delle associazioni combattentistiche e vivaci dimostrazioni patriottiche. Si parlava già di dimissioni del gabinetto Broqueville, nonostante i suoi indiscutibili successi nella riforma finanziaria. In questo critico momento il re costituzionale interviene con una lettera al primo ministro, nella quale propone un riesame di tutta la questione da sottoporsi a tre alti magistrati, al di fuori di ogni giurisdizione amministrativa e pressione politica; e per ristabilire una situazione del tutto impregiudicata, afferma che in base alla Costituzione non si può parlare di decisione presa, giacché il Consiglio dei ministri, tolta qualche eccezione precisata dalla legge, non prende decisioni definitive e le sue conclusioni diventano tali soltanto colla sanzione del re. L’appello del sovrano trovò ascolto presso tutti i ministri, e così fu evitata una crisi che nel presente momento si sarebbe presentata difficile e dannosa all’opera di ricostruzione finanziaria ed economica. Leggendo la stampa belga si ha l’impressione d’un quasi unanime plauso al gesto reale; ma la soddisfazione popolare non riguarda soltanto il caso dei funzionari, il quale pare così trasportato in un’atmosfera di serena giustizia, ma si riferisce sovrattutto alla fermezza con cui il Re ha fatto richiamo ai diritti del potere esecutivo. Anche in Belgio infatti la questione costituzionale è da un pezzo oramai all’ordine del giorno. Il sistema del suffragio universale colla proporzionale, introdotto dopo la guerra, ha diviso le forze politiche in tre grandi partiti, che non possono governare senza compromessi di coalizione. Ciò mette specialmente i cattolici in un certo disagio di fronte ai liberali che, pur essendo un manipolo, si assicurano nei governi una sproporzionata influenza. È vero che le coalizioni hanno permesso al Belgio di superare tutte le crisi postbelliche, da quella della moneta a quella linguistica, e, almeno in parte, anche quella di bilancio; ma il perdurare della crisi economica approfondisce il malcontento e l’inquietudine nelle classi medie, e le minacce della situazione internazionale inaspriscono specie nelle impazienti anime giovanili quel dinamismo politico-sociale che è ormai patrimonio di tutte le gioventù europee. Le due rassegne autunnali delle forze cattoliche, il congresso di Dinant della «Fédération des Associations et des cercles catholiques» (Destra conservatrice) e l’assemblea di Gand della «Ligue nationale de travailleurs chrétiens» (Democratici cristiani) si fecero chiare interpreti di questo nuovo stato d’animo. A Dinant si criticarono con asprezza i difetti del meccanismo parlamentare, l’ipertrofia del parlamento a spese del potere esecutivo e si deplorò il fatto che la rappresentanza nazionale politica diventa illusoria, quando vaste associazioni finanziarie ed economiche dominano in realtà la vita sociale. Marcel Laloire , riferendone alla Vie Intellectuelle dice che il congresso della Destra invocò una riforma profonda con questa direttiva: «pas de dictature, mais la liberté organisée; pas de socialisme d’Etat, mais une démocratie meilleure, une répresentation populaire plus sincère». La riforma dovrebbe investire in pieno le istituzioni parlamentari e ispirarsi sovrattutto all’«autorità, alla responsabilità, alla solidarietà». «È alla restaurazione dell’ordine, concluse Broqueville, che invito a lavorare voi e tutti i cattolici belgi … il nostro ordine deve cercare la sua regola negl’insegnamenti dei grandi Papi che hanno magistralmente definiti i bisogni del mondo moderno». A Gand i lavoratori cristiani si dimostrarono più circospetti. Il loro congresso si pronunciò contro ogni dittatura e per il mantenimento degl’istituti rappresentativi, per una riforma dei metodi parlamentari e per un rafforzatmento dell’esecutivo. Si decise inoltre che i deputati democratici cristiani presenterebbero alla Camera tre proposte di legge per ottenere il riconoscimento di diritto pubblico ai sindacati e alle commissioni paritetiche e per conferire un’esistenza legale ai patti collettivi conclusi fra padroni ed operai. Queste leggi formerebbero la base della ricostruzione corporativa. La formula, votata a Gand, riafferma quell’antica dei corporativisti francesi d’anteguerra: «Le syndicat libre dans la profession organisée». I sindacati nascerebbero e si manterrebbero autonomi colle loro particolari tendenze, ma delegherebbero dei rappresentanti a formare dei «consigli professionali», i quali verrebbero riconosciuti dallo Stato. Da questi consigli verrebbe infine eletto un consiglio nazionale della produzione, con poteri consultivi e normativi. Non bisogna meravigliarsi, conclude il citato autore, che gli operai procedano nelle riforme coi piedi di piombo. «L’istituto parlamentare e il suffragio universale sono per la classe operaia i segni sensibili della sua emancipazione politica. Si capisce che i lavoratori diffidino di ogni progetto che tendesse a toglier loro i frutti dei loro sforzi tenaci e che pensino piuttosto a migliorare e perfezionare ciò ch’esiste e a completare la democrazia politica colla democrazia economica». Pierre de la Gorce , morto di questi giorni più che ottantenne, è una figura sulla quale i giovani devono fissare lo sguardo. La sua fama è legata alla sua opera di storico. I due volumi di storia della seconda repubblica, i sette dell’Histoire du second Empire, i 5 volumi dell’Histoire religieuse de la Révolution française, per non parlare dei suoi libri minori, gli hanno ben meritato il seggio all’Accademia e gli assicureranno un nome nell’avvenire. Mirabile è il suo sforzo d’imparzialità, magnifica la invocazione che nella sua prima opera egli rivolge a Dio, per ottenere d’essere giudice sereno ed equo tanto degli uomini che dei fatti. Ma pochi forse ricordano ch’egli diede anche nella vita pratica luminoso esempio di cristiana fermezza e civile carattere. Quando si trattò di applicare i decreti Ferry contro le congregazioni religiose , Pierre de la Gorce era giudice a Saint-Omer. I decreti prevedevano per il sequestro la cooperazione dei magistrati. De la Gorce con un bel numero di giudici francesi se ne fece un caso di coscienza e piuttosto di collaborare anche formalmente ad un atto ingiusto, inviò al ministro le sue dimissioni e troncò la sua carriera. Ad un tal uomo si può ben riconoscere il diritto di scrivere parole di biasimo, addolcite dall’umano compatimento, per certi cattolici che durante il secondo impero mancarono di civile coraggio o di morale dirittura. Purtroppo il «libro d’oro» della magistratura francese non fece testo nella storia giuridica del mondo contemporaneo. Conviene tuttavia registrare con piacere ogni episodio che risollevi il prestigio ed attesti la dignità della magistratura, perché la fede nella giustizia è un’esigenza assoluta della coscienza popolare. E potremo citare alcuni esempi odierni, se la «storia» vivente non corresse il rischio di passar per «politica». Anche nei paesi nordici si sente il bisogno di stringere i freni. Il dopoguerra aveva esagerato introducendo nei nuovi stati le forme democratiche più larghe che si potessero immaginare ed in uso appena negli stati più induriti alle libertà costituzionali. Ora si fa macchina indietro. Il parlamento della Lituania sta elaborando un nuovo statuto che fa eleggere il presidente dal popolo, e limita i lavori della Camera alla sfera legislativa. Il presidente della maggioranza Ulmans motivando il progetto, ribatté l’accusa di antidemocrazia, affermando che la riforma rispetterà le basi del sistema rappresentativo . Analogo movimento in Estonia. Più interessante è la riforma che si vuole introdurre in Polonia. Lo statuto del 1921 vi aveva trasferita la costituzione francese del 1875 coll’aggravante che anche il Senato veniva eletto a suffragio universale. Ora, secondo il progetto elaborato dal blocco governativo, la Camera bassa rimarrebbe eletta, come oggi, a suffragio universale da tutti i cittadini, d’ambo i sessi, di 21 anni. Il Senato invece verrebbe nominato per due terzi da tutti i cittadini decorati al valore militare o civile e per l’altro terzo dal presidente della repubblica che sceglierebbe i senatori da liste di proposte presentate dai consigli delle grandi associazioni corporative. Il presidente dello Stato riceverebbe il diritto di veto contro le deliberazioni del parlamento ed in caso recidivo, il diritto di appellare al popolo con nuove elezioni. Il progetto dovrà ancora passare la solita trafila regolamentare e il blocco governativo che non raggiunge da solo la maggioranza qualificata, necessaria per una riforma costituzionale, cerca ora alleati a destra e a sinistra. Ma la destra nazionalista combatte il governo, perché troppo democratico e la sinistra gli è ostile per la ragione contraria. Si spera tuttavia che i cristiano sociali finiranno coll’accettare un qualche compromesso. Adam Romer in una corrispondenza da Varsavia alla Reichspost rileva che «il movimento riformista polacco segue una propria linea senza copiare. La situazione di Piłsudski è simile soltanto a quella di Dollfuss. Il Czas nel numero natalizio fa risaltare tale somiglianza. Anche Dollfuss per sua tradizione e convinzione è un democratico, anch’egli venne costretto ad assumersi tutte le responsabilità, perché il Parlamento mancò ai suoi compiti… Piłsudski, benché non l’abbia proclamato espressamente, è tuttavia un fautore convinto delle dottrine leoniane e della Quadragesimo anno. In Polonia si seguono colla più viva attenzione gli sviluppi costituzionali della repubblica austriaca».
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Scrivere sulla vita pubblica in Germania riesce oggidì piuttosto difficile. Appare chiaro tuttavia almeno questo: che il ribollimento d’idee e l’inasprimento degli spiriti causati dalla scossa rivoluzionaria impediscono ancora quell’assestamento ch’era previsto in certi atti di governo. Lasciamo stare la crisi gravissima che funesta le sette protestanti, entro le quali il Notbund, cioè la lega di necessità di 6 mila pastori, lotta contro la direzione ufficiale della nuova «Chiesa» ; ma, per occuparsi delle cose che direttamente ci riguardano come cattolici, noteremo che per protestare contro l’arresto del parroco, il cardinale Faulhaber minacciava l’interdetto alla città di Traunstein: misura grave e sintomatica alla quale non si ricorre per un incidente isolato e senza conseguenze, e che fu abbandonato a seguito del rilascio del sacerdote arrestato . La questione delle organizzazioni giovanili non è ancora risolta e questo differire un accordo, un modus vivendi, che pareva auspicato da entrambe le parti, causa inquietudini, provoca diffidenze, lascia via libera agli intransigenti. Il prefetto di Osnabrück, in una riunione della gioventù hitleriana, additava recentemente nel «pernicioso spirito romano» la causa di tutte le nazionali scissure della Germania; un altro Unterführer proclamava a Coblenza che la «gioventù hitleriana marcerà per la sua strada senza alcun compromesso, fino alla distruzione delle associazioni confessionali». Poiché notoriamente le società «evangeliche» dopo il patto concluso fra il cancelliere e il Reichsbischof e l’internamento di alcuni dirigenti, sono oramai assorbite nell’organizzazione hitleriana, la minaccia non può essere diretta che contro la gioventù cattolica. Altri discorsi, altre pubblicazioni tentano di creare un’atmosfera di battaglia: pensiamo al conte Reventlow della «Reichswart» , alla rivista Deutsches Volkstum e allo scrittore nazionalista Enrico Wolf , il quale in un libro recente sulla politica cattolica afferma che la «una sancta ecclesia fu la sciagura del popolo tedesco». Di fronte a tutto questo, stanno dichiarazioni ottimistiche del vicecancelliere il quale in un recente discorso assicurò che Hitler si proponeva di ricostruire il terzo regno, seguendo le linee direttive dell’encicliche pontificie, specie della Quadragesimo anno. Avviene a questo celebrato documento pontificio quello che accadde già a suo tempo della Rerum Novarum. Tanto giuste, tanto convincenti sono le sue direttive, che ognuno vi scorge rispecchiate le proprie. L’oratore ha aggiunto anche che il modus vivendi per le associazioni giovanili si presenta di facile attuazione e che basterà un po’ di buon volere di entrambe le parti per superare ogni ostacolo. Ma anche su questo punto si potrebbero citare discorsi di capi autorizzati della gioventù hitleriana per trovarsi obbligati a correggere alquanto tale ottimismo. Il programma ufficiale del partito nazista reclama l’unione di tutti i tedeschi, dentro e fuori le frontiere germaniche, e Hitler afferma di «non voler rinunziare a nessun tedesco». «Ma il nazismo – obietta un collaboratore della Reichspost – inalberando la sua bandiera totalitaria, danneggia irreparabilmente la situazione delle minoranze tedesche negli stati marginali». Il principio che riconosce lo Stato come l’unico detentore del diritto, toglie qualsiasi base ai «diritti delle minoranze». Se in Germania nella dottrina e nella pratica si mette al bando il diritto naturale, accadrà fatalmente che anche in Cecoslovacchia, in Polonia, in Jugoslavia le minoranze tedesche non potranno più richiamarsi a questo principio, ma dovranno subire l’applicazione del totalitarismo statale anche sul terreno della lingua e della cultura. Infatti, conclude lo scrittore austriaco, il nazismo ha già provocato all’estero tali reazioni, ch’esso per la espansione tedesca rappresenta già un forte passivo. Dopo l’ex ministro italiano Bottai che parlò in Germania ed altrove ed ultimamente a Bruxelles sul «corporativismo nello Stato moderno», anche il suo collega austriaco, Schmitz, incaricato della riforma corporativa, ha fatto un giro di propaganda in alcune capitali europee, accolto ovunque con molta simpatia ed ascoltato con grande deferenza. A Parigi parlò al Centre catholique in una scelta riunione presieduta dall’ex ministro Champetier de Ribes e alla presenza di deputati, professori universitari, organizzatori cattolici e giornalisti. Il giorno dopo il ministro partecipò ad un convegno di uomini politici cattolici dell’Europa centrale ed occidentale e ripartì poi per Amsterdam in compagnia del dottor Goseling , capo della destra olandese. Altre conferenze egli fece in Belgio e nel Lussemburgo, suscitando anche in quei circoli cattolici grande interesse e promovendo feconde discussioni. Parlando in paesi di tradizioni democratiche e liberali, lo Schmitz si è preoccupato sovrattutto di accentuare le speciali caratteristiche del corporativismo austriaco. Esso non esagera la funzione ed il ruolo dello Stato, ma vuole che il nuovo ordine sia opera dello Stato e della società assieme. La legislazione interverrà ad organizzare e promuovere, ma sempre collo scopo di creare dei corpi autonomi, i quali, magari dopo un periodo transitorio di maggiore tutela, dovranno vivere una vita propria, sotto la suprema vigilanza dello Stato. I sindacati non verranno distrutti, ma dovranno collaborare all’opera di ricostruzione corporativa. La libertà personale troverà nell’autonomia dei corpi professionali migliori garanzie di quella che sappia offrire l’attuale disorganizzazione individualista. La scuola austriaca segue le direttive della Quadragesimo anno, ma ha radici profonde ed antiche nel proprio terreno, ed i nomi di Vogelsang, Liechtenstein, Schindler e Seipel rappresentano lo sviluppo più che semisecolare dei suoi insegnamenti. Mentre il Parlamento italiano votava la nuova legge corporativa, in Germania si annunziava l’imminente promulgazione della legge regolamentare sul lavoro . Annunzi e pubblicazioni avvennero in un clima di fervida esaltazione retorica: si magnificò sovrattutto l’assoluta originalità e novità della riforma, notando espressamente ch’essa tagliava tutti i ponti col passato marxista e «andava più avanti del sistema corporativo italiano». Infatti – rileva la Kölnische Volkszeitung in un comunicato comparso in diversi termini ma collo stesso tenore in altri giornali – la «carta del lavoro» italiana lasciò sussistere in fondo i sindacati tanto operai che padronali, mantenne i patti collettivi di lavoro e rimise le vertenze del lavoro al giudice ordinario. In Germania invece vengono costituiti come organi permanenti dello Stato i fiduciari del lavoro (Treuhänder der Arbeit) i quali possono sostituire ai contratti collettivi finora in uso le loro tariffe e diventano in tutto e per tutto gli arbitri delle questioni operaie. Ma procediamo per ordine. La legge considera il padrone o l’imprenditore come il capo responsabile dell’azienda e gli operai come il suo seguito: Gefolgschaft, dice il testo, risuscitando un termine che ricorda il corteggio del capo feudale. Il capo emana per ogni officina un regolamento, il quale può fissare anche il salario minimo o i cottimi. Il capo non è però assoluto. Accanto a lui ma sotto la sua presidenza viene costituito un «consiglio di fiduciari», su liste proposte dal capo e dal presidente dell’organizzazione locale nazista ed approvate in scrutinio segreto dagli operai. Se per questo mezzo non si arrivasse a costituire il consiglio, subentrerebbe per il «fiduciario del lavoro» il diritto di nominarlo senz’altro, di propria autorità. Il consiglio si occupa sovrattutto di provvedimenti di carattere sociale (assicurazioni, mutue, igiene, regolamenti ecc.), ma può occuparsi anche dei salari, della durata del lavoro ecc. e, a maggioranza di voti, può ricorrere contro le decisioni del capo al fiduciario statale. Questi è insindacabile nelle sue risoluzioni, ma in certi casi previsti, specie per la fissazione dei salari, dovrà sentire un comitato di esperti. La legge introduce oltre a ciò un tribunale di onore, composto di un giudice ordinario, di un padrone e di un operaio. Questo tribunale non sentenzia sulle condizioni del lavoro, ma condanna trasgressioni contro la morale sociale, ovvero contro lo spirito di cooperazione che deve animare tutte le classi. Se, ad esempio, il capo della impresa abusasse della sua autorità per sfruttare gli operai o ne ledesse l’onore, o qualche operaio presentasse delle lagnanze infondate o istigasse i compagni a illecite renitenze, in tal caso il fiduciario del lavoro deferirebbe padrone o operaio al tribunale d’onore, il quale può imporre delle multe fino a 10.000 marchi, può degradare il capo o licenziare l’operaio. In complesso dunque, si ha da fare con una sistemazione mezzo patriarcale e mezzo militare, che mostra delle analogie col regolamento introdotto durante la guerra dal Comando generale tedesco. Arbitro e supremo regolatore è lo Stato attraverso il ministro del lavoro ed i fiduciari regionali o distrettuali che stanno alle sue dipendenze. L’operaio perde la protezione autonoma dei suoi sindacati e la garanzia dei contratti collettivi, ottiene invece la protezione dello Stato che può rettificare le tariffe e i contratti del padrone. I tedeschi vogliono evidentemente superare il sindacalismo fin dall’officina e creare l’unità-base sociale dell’azienda, sulla quale poi innalzeranno la loro costruzione corporativa. Un decreto posteriore infatti, ordina lo scioglimento dei sindacati e il raggruppamento di tutti gli operai in 19 sezioni professionali (alimentazione, vestito, legno, ferro, carta ecc.) che dovrebbero essere le nuove corporazioni tedesche. Ma finora non si capisce quali funzioni esse possono avere. Semplici inquadramenti o veri corpi istituzionali? Il decreto si preoccupa intanto di garantire al partito nazista il dominio assoluto delle nuove organizzazioni. In questo stadio comunque affrettato appare ogni vanto in confronto del sistema italiano, al quale intanto non si potranno negare i vantaggi di una soluzione graduale ed evoluzionista. Alfredo Rosenberg nel Völkischer Beobachter del 9 gennaio mette in guardia contro il vezzo d’invocare ad ogni pie’ sospinto lo «Stato totalitario». Si corre altrimenti il rischio di ficcare in testa alle nuove generazioni che lo Stato e l’impiegato statale rappresentino sempre nella vita pubblica la parte principale. Quello che si sta avverando invece dopo la rivoluzione del 30 gennaio 1933 non è la cosiddetta «totalità dello Stato», bensì la «totalità del movimento nazista». Lo Stato, secondo il Rosenberg, non è che «uno strumento del dominante pensiero nazista». Il fascismo inglese sta prendendo una fisionomia nazionale. Presentandosi al pubblico sotto il nome di United British Party , esso cerca di guadagnare terreno assumendo nel suo programma i postulati di politica estera ed interna che sono patrocinati da lord Rothermere , e di ottenere così l’appoggio del Daily Mail. Un guaio gli è capitato colla candidatura dello Skeels, per l’elezioni suppletorie di Cambridge. Skeels è uno scolaro del nazismo tedesco, di cui tenta di trapiantare in Inghilterra anche l’antisemitismo. Ma gli approcci che fa il partito verso la destra si dimostrano incompatibili colla lotta contro gli Ebrei. La candidatura di Skeels venne quindi ritirata. Il fascismo inglese è anche pacifista. «Only Fascism Can Prevent War», è il titolo di un articolo-programma del Fascist Week e lo stesso giornale attacca il conservatore democratico Baldwin che vuole differire il disarmo aereo alla prossima generazione. I fascisti vogliono che le armi inglesi vengano usate soltanto per la difesa del patrio focolare e proclamano tradimento l’«interventismo» dei laburisti i quali sostengono la Società delle Nazioni a costo anche di rischiare un intervento armato contro i perturbatori della pace. Ecco il punto nel quale l’estrema destra conservatrice converge col nuovo partito.
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Niente di più istruttivo che leggere i verbali delle due commissioni parlamentari d’inchiesta, convocate quasi giornalmente a Parigi. Quella sulle dimostrazioni del 6 febbraio vi fa sfilare davanti i protagonisti delle due parti in conflitto: polizia e dimostranti. Le scene sanguinose del ponte della Concordia – lucus a non lucendo – vengono ricostruite, sceverando la verità dai fantasmi delle menti eccitate e dalle esagerazioni interessate, cosicché prima ancora che l’inchiesta si chiuda, molte ragioni di risentimento per il passato o di preoccupazione per l’avvenire dovrebbero cadere: da una parte non vi fu un complotto contro il regime, né dall’altra vi fu preordinata strage. L’Action française che, secondo la polizia, mette in lizza di solito 2000 dimostranti, ma che a detta di un testimonio autorevole, potrebbe arrivare ora anche ad 8000, coadiuvata da un gruppo, numericamente esiguo ancora, di fascisti francesi (francistes) fu la sola a mettere in causa il regime democratico-repubblicano. Sull’altra sponda soltanto i comunisti, in formazioni limitate, rappresentavano una forza militarmente organizzata a scopo rivoluzionario. Nemmeno la commissione Stavinsky poté fino ad oggi accertare quelle spaventose complicità politiche e parlamentari di primo piano che la stampa aveva segnalato. Ben peggio n’esce l’amministrazione pubblica con funzionari complici, compiacenti o deboli. E tuttavia l’ira del pubblico francese continua a volgersi contro il Parlamento. Ciò avviene non solo perché dietro le criminose compiacenze dell’amministrazione s’indovina più che non si possa dimostrare l’intervento dei deputati o la pressione politica dei partiti; non solo perché in uno Stato ove il Parlamento è tutto, diviene naturale che di tutto esso sia reso responsabile, ma perché la questione del parlamento presisteva all’affare Stavinski ed essa è anzi la questione vera che supera tutte le altre a cui tutte le altre vengono, a torto o a ragione, riferite. Al governo, cioè al parlamento che governa, viene anzitutto ascritta la colpa della crisi economica. Un ex sottosegretario di stato e deputato parigino chiamato a deporre avanti la commissione parlamentare dichiara: «Les troubles dans Paris ont éclatés à la suite de l’affaire Stavinski. Le motif aurait pu être autre chose. En réalité nos masses citadines souffrent cruellement de la crise et du chômage, les fonctionaires sont mécontents. Tout peut être motif à exprimer ce mécontement. J’ai reçu une lettre de reproches, j’ai convoqué son auteur, et il m’a dit qu’il n’avait pas vu de mitrailleuse, alors qu’il en parlait dans sa lettre et qu’en réalité une seule chose lui importait: comment il pourrait élever sa petite famille, mettre ses économies à l’abri des forbans et ce que le Parlement entendait faire pour qu’il pût réaliser ce programme». Caratteristica fu anche la deposizione di un altro manifestante, rimasto ferito al ponte della Concordia. – Perché avete «manifestato»? – domanda il presidente. – Non appartengo a nessun partito – risponde l’interrogato, – ma «je pouvais protester car je payais 700 francs en 1914 et 14.000 francs en 1927. Vous comprenez que nous ne soyons pas contents». Il Parlamento sovrattutto è accusato d’impedire la costituzione d’un governo stabile. Trentun ministeri dopo l’armistizio, sei dopo le ultime non lontane elezioni generali. I deputati del centro e della destra dovrebbero qui condividere la colpa con quelli di sinistra, perché i destri hanno ostinatamente votato contro i radico-socialisti, come questi alla lor volta hanno fatto cadere Tardieu. Ma i deputati «nazionali» giustificano la loro tattica intransigente col dimostrare illogica e perniciosa alla Francia l’alleanza dei radicali coi socialisti, e tutta la loro tattica mira a combattere questi ultimi e ad impedire che godano i vantaggi d’un partito governativo, senza le responsabilità. Comunque, chi sta fuori non bada tanto per il sottile: vede gli effetti e chiede i rimedi. Quali? I combattenti dell’Union fédérale, la quale raggruppa circa un milione di soci, hanno incaricato un comitato di elaborare un piano «de restauration de l’autorité gouvernementale dans le cadre des institutions républicaines et parlementaires», il quale piano dovrebbe comprendere l’inserzione delle forze economiche nazionali nella rappresentanza parlamentare. Come ha spiegato il presidente, si vorrebbe una «chambre consultative économique». Nel parlamento politico una riforma del regolamento dovrebbe rendere più stabile il presidente del Consiglio, coll’esigere che un voto di sfiducia debba essere appoggiato da due terzi dei deputati presenti. Altre riforme su questo piano dovrebbero rendere più durevole e più efficace l’autorità governativa. Tuttavia conclude il presidente che è gran mutilato e professore universitario: «Les Français devront donc se garder de compter sur des interventions miraculeuses, répudier tout romantisme et chercher des solutions qui ne seront pas, sans doutes, des solutions de prestige, mais qui pourront être salutaires». Sulla stessa direttiva marcia l’Union nationale des combattants, forte anche essa di circa 1 milione di aderenti ed il cui presidente Lebecq ebbe gran parte nelle dimostrazioni del febbraio. Mentre scriviamo, l’Unione ha radunato il suo consiglio nazionale, nel quale si dovrà fissare un programma politico. Esso sarà forse – prevede il Lebecq – più moderato di quello dell’Union fédérale, troppo sindacalista questo, a parer suo. In ogni caso, afferma sempre il Lebecq: – «Nous sommes très loyalistes à l’égard des institutions démocratiques de la France. Nul, à ce propos, ne se trompe sur nos mobiles». Le tendenze degli ex combattenti collimano dunque nella sostanza colle riforme proposte dai parlamentari del centro ed anche della sinistra, e formulate virogosamente nel libro, testé uscito, di Tardieu . Dopo l’entrata di quest’ultimo nel governo ha preso la testa della campagna propagandista il suo consenziente Paul Reynaud. Affermava egli pochi giorni fa ad Angoulême che la riforma più urgente dovrebb’essere quella elettorale. La Camera presente dovrebbe votare lo scrutinio di lista colla proporzionale, per liberare i radicali dalla necessità di ricorrere nei ballottaggi all’appoggio dei socialisti, poi dovrebbe sciogliersi e sottoporsi a nuovi comizi. La nuova camera appena eletta, dovrebbe andare a Versailles per riformare la Costituzione. La riforma dovrebbe portare ad una maggior stabilità ministeriale, secondo le note proposte di Tardieu. L’oratore rifugge invece dai mezzi che conducono alla guerra civile … «Tous ceux qui croient encore que la liberté peut et doit survivre, en France, tous ceux qui savent que la dictature implique une surveillance policière intolérable au tempérament national, ne s’uniron-t-ils pas pour opérer, dans la légalité, la révolution morale et politique qui s’impose à nous comme aux autres peuples?». Egli spera che l’idea della solidarietà nazionale vincerà l’idea classista perché purtroppo la crisi economica va proletarizzando anche la borghesia: «La bourgeoisie marche rapidement à la ruine. Des entreprises s’effondrent, la fortune, qui signifiait autrefois stabilité, signifie aujourd’hui pour beaucoup angoisse. C’est pourquoi de solidarité nationale l’emportera sur l’idée de classe». Né si creda oramai che la sinistra neghi la necessità di rinnovare l’istituto e i costumi parlamentari e governativi. Lo stesso partito radicale ha messo allo studio la questione della riforma dello Stato ed un suo deputato venne eletto presidente della commissione di riforma nominata dalla Camera. Molte forze dunque lavorano per la riforma costituzionale e per le vie legali. La stessa questione sindacale non potrà venir sorpassata, quando a sinistra ancora lo stesso Paul Boncour riconosce la necessità di organizzare economicamente la nazione francese. «Où est la nation économique? On la tente aux Etats-Unis, en Italie, en Allemagne, par des procédés bien différents et que j’apprécie différemment, vous le supposez. Le plan de Man l’offre à la Belgique. En France, dans notre France démocratique et qui entend le rester, où est l’effort de la démocratie pour organiser l’économie?». Abbiamo tracciato così, citando discorsi e interviste, la linea di riforma, su cui tende a muoversi gran parte della società francese, per superare la crisi dello Stato. Ma potrà quest’operazione svolgersi pacificamente? Le lotte asprissime delle fazioni, le pregiudiziali di destra e di sinistra contro l’essenza del regime democratico, lascieranno tempo e possibilità di riforma alle forze dell’attuale sistema? Quasi ogni cambiamento è avvenuto in Francia a mezzo di una rivoluzione. Anche oggi non mancano sintomi inquietanti. Gli estremi si accusano a vicenda di cospirazione armata contro il regime. I socialisti, abbandonati dai radicali, si appressano ai comunisti e già parlano di squadre. Léon Blum scrive che non si tratta di gente armata, di formazioni paramilitari, ma di costituire in seno alle sezioni del partito «des groupes de défense». È la traduzione letterale del Schutzbund austriaco! Un altro capo socialista di provincia, citato dal Temps, scrive che «di fronte a gente armata fermamente decisa ad assassinarci e a ridurre il popolo a schiavitù» bisogna costituire dappertutto «des fortes milices, organisées methodiquement et militairement». Ecco che anche in Francia certe formazioni di destra giustificano la loro esistenza colla preesistenza delle centurie comuniste e alla loro volta i socialisti vogliono giustificare il loro squadrismo colla preesistenza delle squadre di destra. Il problema delle milizie entro lo Stato democratico s’imporrà in misura decisiva anche allo Stato più individualista del mondo? Impossibile far previsioni. Ma fra tante, due cause già si vedono che ci farebbero pendere per l’affermativa. L’una sta nel panico che, specie dopo la repressione viennese, ha preso il socialismo internazionale. La rivolta di Vienna viene esaltata come una resistenza eroica, simbolo e faro per i posteri. Tutto il romanticismo rivoluzionario risorge insopprimibile. Meglio battersi come a Vienna che soccombere vilmente come a Berlino. Questo panico e questo romanticismo sembrano scuotere perfino il vecchio socialismo parlamentare del Belgio. Come sarà facile la vampata in Francia, terra classica della rivoluzione e della comune! L’altra causa può essere d’origine esterna. Molti francesi pensano che dalla dittatura di Hitler, la Francia non possa salvarsi che con un governo dittatoriale e che alle Sturmabteilungen nazionalsocialiste occorra opporre formazioni paramilitari francesi, le quali, creato all’interno un fronte unico, senza inquinamenti internazionalisti, diano alla patria verso l’estero quella sicurezza che non è possibile d’ottenere coi patti ginevrini.
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Le parole di congedo che il nostro eccellente amico Maurice Vaussard scrive nell’ultimo numero del suo Univers-Bulletin Catholique International si leggono con tristezza e commozione. «Le désarroi des esprits autour de nous, les oppositions de tendances et de générations, l’acuîté prévisible des prochaines luttes politiques, s’ils inclinent certains à éléver la voix et à s’efforcer de faire prévaloir leur opinion, en inclinent d’autres au silence et au recueillement. Nous sommes de ceux-là. A l’approche des tempêtes, la prière est plus opportune que la parole». Il Bollettino era un organo di collaborazione internazionale sorto ott’anni fa col simpatico ottimismo di chi affidava l’intesa fra le nazioni all’idea cattolica. Oggidì che gli egoismi nazionali si ritirano di nuovo dentro le trincee del sospetto, al Bollettino cominciava a mancar l’aria per respirare e vivere efficacemente. Si annunzia d’altra parte che la bandiera, tenuta alta dal Vaussard con l’onore del suo brillante ingegno, non verrà abbassata definitivamente e che altri la riprenderà in mano con giovanile vigore. Auguriamo che sia presto così. I cattolici francesi che hanno saputo lanciare da poche settimane un nuovo e brillante ebdomadario palpitante di attualità e fervido di pensiero, il Sept della Vie Intellectuelle , hanno il diritto ed il dovere di alimentare ancora la fiaccola di cooperazione internazionale, accesa fra tanti consensi, da Maurice Vaussard. Nessuna meraviglia però che certi spiriti superiori in mezzo alla crisi morale, intellettuale ed economica che si abbatte sul mondo, sentano il desiderio del silenzio e del raccoglimento. La vittoria dell’irrazionale sconvolge le dottrine più generalmente ammesse ed annnienta le previsioni della logica. La violenza del pugno e della parola esercita ogni giorno un fascino crescente, preparando quella della barricata e del cannone. Pare in verità che gli sforzi dei ragionatori, dei moderatori, degli ottimisti siano destinati a fallire e che solo la Provvidenza sia chiamata, al di sopra delle forze umane, a mettere ordine e pace. Così almeno è tentato di concludere il buon cittadino francese ogni mattina, sfogliando i giornali. C’è un incrociarsi d’iniziative, un cozzar d’interessi, un sommovimento di passioni, una confusione di linguaggio da far perdere veramente la testa. Tutti gettano l’allarme e parlano del «fascismo» alle porte. La federazione repubblicana d’Orange, sentito il Daladier, il quale descrisse la giornata del 6 febbraio come una vera vigilia rivoluzionaria, «adresse un appel pressant en vue d’une union loyale contre le fascisme»; il sindacato dei maestri taccia di «fascismo» l’attuale governo di coalizione G. Doumergue; la confederazione del lavoro socialista accusa di «fascismo» i partiti moderati, ma questi alla lor volta parlano di «fascisme rouge». Parigi è tappezzata di manifesti, nei quali i comunisti dell’Humanité accusano di «fascismo» i socialisti della confederazione, i quali alla loro volta replicano con un altro manifesto, che dice: «Ils (i comunisti) étaient déjà le 6 février place de la Concorde aux cotés des fascistes … Leurs manouvres odieuses répètent l’action qui, en Allemagne à fait le lit de la dictature d’Hitler. Entre eux et nous et tous ceux qui sont attachés aux libertés publiques, il ne peut y avoir rien de commun…». Nulla di comune! Ma intanto Leone Blum preconizza sempre l’unione di tutto il proletariato per la suprema lotta antifascista, ed intanto i funzionari socialisti, sotto il pungolo della propaganda moscovita, preparano la sommossa degli statali contro le riduzioni del 5 fino al 10 per cento. I liberali sono preoccupati per la penetrazione marxista nell’insegnamento. Il congresso dell’«Union national des membres de l’enseignement public», tenuto la settimana scorsa a Nantes, ha rilevato per bocca del prof. Salvatier che «la questione d’un regime di libertà o d’autorità è al centro delle preoccupazioni attuali», che bisogna difendere la libertà della scuola perché «in Francia una dottrina di stato opprimerebbe le coscienze dei maestri e degli allievi», che «les signes d’une dictature ou, si l’on préfère, d’un fascisme de l’école, se multiplient. La notion roussseauiste et jacobine de l’onnipotence de l’Etat reprend sa malfaisance». Venendo però al concreto un altro relatore ha dimostrato, in base ad un’inchiesta contemplante numerosi casi personali, che la tirannia scolastica che oggi minaccia la libertà in Francia è l’anticlericalismo inesorabile e forcaiolo di maestri ed ispettori, massonici e socialisti. Che è dunque «le fascisme», deve chiedersi l’uomo della strada; il socialismo o l’antisocialismo, il giacobinismo o il clericalismo? La Confederazione generale del lavoro vota un ordine del giorno in cui «decisa ad impedire un colpo di mano e il crollo delle libertà democratiche», afferma: «En régime démocratique, le libre jeu de la Constitution est incompatible avec des méthodes qui prétendent substituer la contrainte de la force à l’exercice du droit». Sì, ma poco prima motivando quest’ordine del giorno, Jouhaux non aveva escluso che i sindacati, esauriti i mezzi di far presa sull’opinione pubblica, ricorrerebbero anche ai «moyens de force». Contraddizione in potenza che molti paesi hanno già visto in atto e all’esistenza della quale il fascismo deve in molti paesi il suo trionfale cammino. In mezzo a tanto abuso di parole, a così grave stravolgimento di dottrine e confusione di direttive, ascoltiamo ancora una volta la voce chiarificatrice ed ammonitrice della Chiesa. I cardinali e i vescovi di Francia dopo aver passato in rivista i mali dell’ora presente: crisi economica, serie di scandali, lotte fratricide, dichiarano in una lettera collettiva che la questione è sovrattutto morale. Bisogna opporsi alla disgregazione della famiglia e alla demoralizzazione della scuola. «In mezzo alle gravi congiunture presenti ed alle passioni che agitano tutti i popoli della Chiesa appare come la custode della libertà e della pace. Da una parte, precisando i diritti e i doveri dei governi e dei cittadini e dall’altra proclamando il primato della personalità umana, essa ci difende contro gli statalismi eccessivi e contro l’anarchia, assicurando nello stesso tempo una saggia libertà e la vera civiltà». Passando poi al campo economico i vescovi dichiarano che «la Chiesa afferma i diritti dei padroni e degli operai a costituire proprie associazioni sindacali, ma domanda ch’esse creino fra loro delle commissioni miste per il bene della professione comune. L’arbitrato dovrà intervenire per evitare, per quanto è possibile, il ricorso alla serrata e allo sciopero, che sono dei disordini sociali. Essa vede in queste istituzioni i primi elementi della professione organizzata, usciti a fatica dal caos dell’individualismo e della concorrenza. Essa augura per il bene dell’ordine sociale che questi sforzi riescano a costituire sotto una forma nuova e più adatta la corporazione coi suoi quadri, la sua gerarchia, il suo potere regolamentare, la sua giurisdizione e i suoi diritti di rappresentanza presso i poteri pubblici…». Dunque le corporazioni, le vecchie corporazioni, patrocinate, fin dal 1870 dai «catholiques sociaux»! Si griderà anche contro i vescovi alla reazione? Ma che dire allora della confederazione sindacale socialista, la quale, convocati di questi giorni gli «stati generali del lavoro» – ricordate nel 1889 gli «stati generali» di de Mun e du Pin e nel 1922 gli «stati generali» di Valois, Mathon ecc.? – vi propone, tra il plauso delle rappresentanze operaie, un Consiglio nazionale economico, ingranato nello Stato, ed accanto al Parlamento, la cui sovranità politica è mantenuta, ma con clausole che l’obbligano a sentire sui problemi economici il nuovo corpo? Questo consiglio (in ombra esiste di già) sarà riformato in modo da comprendere i rappresentanti delle associazioni sindacali padronali ed operaie, delle banche, dei tecnici, dello Stato. Ed avrà la funzione di «volant régulateur de l’économie». Vigilerà sulla vita economica, centralizzando tutte le informazioni, controllerà i finanziamenti e la formazione degli stocks. Stabilirà un programma «d’outillage national; transports, services municipaux, extensions urbaines, etc.». Questo programma sarà allentato o accelerato a seconda della congiuntura economica. Le industrie-base e le banche costituiranno un settore controllato dell’economia … Ed omettiamo altri particolari di questo programma economico, elaborato in tutti i suoi dettagli. Ma il buon cittadino sovraricordato, leggendo questo programma di economia governata, che il Temps chiama «fascista», Jouhaux «socialista» e Paul Boncour «democrazia economica» e ricordandosi forse d’aver letto qualche cosa di simile in antichi libri cristiano-sociali si chiederà: E se provassimo una volta ad intenderci sulle cose, lasciando da parte i nomi? Per la Pasqua alcuni pochi giornali della Germania hanno pubblicato una lettera del Santo Padre a mons. Klens di Düsseldorf, assistente ecclesiastico generale della gioventù cattolica. La lettera, scritta con tono fermo ed accento affettuoso, esprime ai giovani la soddisfazione del Papa per il loro coraggio, li assicura ch’egli segue con paterna sollecitudine le vicende delle loro associazioni e proclama: «La loro causa è la causa nostra». Gli organi più accreditati del nazionalsocialismo hanno vivamente protestato contro i pochi fogli cattolici che avevano pubblicato il testo della lettera pontificia. La «National Zeitung» già organo personale di Göring, s’indigna sovrattutto contro la «Germania», la quale pur essendo ai servizi di von Papen, ha riprodotto in grassetto il documento pontificio. Pazienza – scrive il giornale – che lo facciano redattori dell’epoca di Brüning, ma gli uomini nuovi venuti su colla fiducia e col mandato del vicecancelliere, non sono scusabili in alcuna maniera. O sono forse anche costoro, come i loro protettori, dei nemici mascherati del nazionalsocialismo che si riservano nel momento opportuno di accoltellarlo nella schiena? Quest’attacco, appena simulato, contro von Papen, imitato da altri giornali, ha fatto circolare la voce ch’egli abbandonerebbe il governo. Ma si tratta finora di congetture . Certo che Hitler dovrà prendere fra poco nella questione religiosa un atteggiamento preciso e spazzare il campo dalle contraddizioni che minacciano d’invilupparlo. Le questioni grosse per il nazionalsocialismo sono tre. Ricordiamo anzitutto il largo dissidio, che si potrebbe chiamare nettamente anche scisma entro la «Reichskirche». «Sinodi liberi» si organizzano oramai in varie parti della Germania. Il Notbund (associazione di necessità) dei pastori resiste agli ordini del Reichsbischof Müller, che in un suo accorato appello del venerdì santo, rivela le sue scarse speranze in una resipiscenza degli ecclesiastici oppositori, i quali «portati all’individualismo, non hanno compresa la tendenza totalitaria del nuovo regime». Hitler esita finora ad intervenire perché gli oppositori sono protetti dall’entourage del vecchio maresciallo e da tutti i pezzi grossi del conservativismo prussiano. Ma la questione ingrossa e a lungo andare egli non potrà sottrarsi alla necessità di prendere un atteggiamento più netto. La seconda questione è quella della A.D.G. Questa sigla s’interpreta «Arbeitsgemeinschaft Deutscher Glaubensbewegung» , nome ufficiale di quel raggruppamento che più brevemente si dice della «fede tedesca». Ne abbiamo già detto altra volta. La «fede tedesca» è la terza confessione che alcuni professori universitari, specie gli etnologi e i propugnatori del principio razzista, vorrebbero instaurare come religione germanica per eccellenza, al di fuori e contro il cristianesimo. Il peggio è che le loro dottrine si nutrono anche della mitologia razzista d’un Rosenberg, capo non solo dell’ufficio di propaganda estera ma delegato dallo stesso Hitler a vigilare sul movimento intellettuale ed educativo della Germania! Ora questi neo-pagani sperano di giungere con una forzata interpretazione della Costituzione di Weimar o, meglio, con un’adatta formulazione del nuovo statuto che si sta preparando, ad essere riconosciuti come «terza confessione» del Reich, con tutti i privilegi delle religioni storiche. Hitler finora non si è compromesso, è molto meno impegnato, ma anche qui i nodi verranno presto al pettine. Terza finalmente questione – last not least – è quella dell’Azione cattolica. Anche in questo campo la tensione, dal concordato in qua, è andata sempre crescendo; mentre le associazioni cattoliche venivano paralizzate o compresse in quasi tutte le regioni della Germania. Lasciamo stare che un buon numero di preti, proprio di quelli che più militavano nell’Azione cattolica hanno dovuto subire misure di persecuzione, che la stampa cattolica, pur dimostrandosi in politica di un conformismo meticoloso, è minacciata nella sua esistenza, come dimostra la recente sentenza dei giudici di Duisburg, i quali dichiarano che nell’attuale Reich la stampa cattolica è superflua; lasciamo stare che i vescovi bavaresi stessi, quando vollero esprimere le loro riserve in occasione del plebiscito e dire che il voto affermativo non significava approvazione della «rivoluzione», si videro confiscati e autoritativamente censurati e che il card. Faulhaber per le sue coraggiose conferenze corse il rischio d’un attentato terrorista. Dimentichiamo tutto questo; ma il peggio è che la reazione anticattolica non va scemando, ma crescendo e che l’abbandono di tutte le trincee politiche e sociali non ha valso ai cattolici un po’ di tregua nemmeno per quanto riguarda l’azione strettamente cattolica. Pochi giorni fa il ministro bavarese Franck , che è anche il legista del partito, in una riunione di magistrati, faceva all’Azione cattolica l’onta di metterla alla pari colla massoneria. «L’Azione cattolica – egli disse –, l’ordine dei druidi, le logge umanitarie, tutte le logge massoniche in generale perseguono degli scopi incompatibili con quelli del nazionalsocialismo…». Come conciliare questi sentimenti col Concordato, colle speranze e colle dichiarazioni di von Papen in polemica coll’episcopato tedesco e soprattutto come conciliare col Concordato l’enorme pressione alla quale sono esposti i giovani cattolici, minacciati del bando dalla vita nazionale? L’ora di decidersi pare venuta anche per il cancelliere germanico, e il discorso pasquale del Pontefice ad un gruppo di giovani tedeschi è un richiamo eloquente e determinante. «Il Santo Padre sa, e purtroppo come pochi possono sapere, quanto difficile e penosa sia l’ora attuale… per tutta la Germania, ma specialmente per la Germania cattolica… e in modo speciale per… la gioventù cattolica. Egli non ha perduto la speranza e la fiducia… la Provvidenza interverrà certamente… Egli sa che… le associazioni giovanili hanno dato prova di un coraggio eroico e di una fede e fedeltà che veramente ricorda i martiri… Essi devono sapere che il papa farà certamente tutto quanto gli sarà possibile per conservare cura paterna di loro e che, sempre se sarà necessario, li difenderà…». «Non dipende dalla volontà del papa ciò che altri possono e vogliono fare di giusto o anche, purtroppo, d’ingiusto: purtroppo anche mentre i responsabili trattano e vogliono trattare, altri maltrattano ciò che il papa ha di più caro… Il papa dirà sempre la verità, difendendola; e difenderà in tal modo i diritti dei suoi figli che sono pure i diritti delle coscienze, della fede cattolica e dell’onore divino…». Abbiamo assistito all’entusiasmo di quei giovani raccolti, dopo l’udienza, attorno all’obelisco di piazza S. Pietro, ove recitarono preghiere per la Chiesa e per la patria e cantarono in un coro di solenne mestizia il Te Deum e l’inno nazionale germanico. Lo spettacolo, estremamente suggestivo, ci faceva pensare con ammirazione a tutta la gioventù cattolica, a tutti i cattolici tedeschi, ricacciati ora dopo tante gloriose lotte, sull’ultima trincea della loro libertà religiosa. Peter Wust all’indomani della guerra aveva scritto il suo «Rückkehr aus dem Exil» (ritorno dall’esilio) per celebrare l’uscita dei cattolici tedeschi dal ghetto, la fine cioè dell’epoca guglielmina che aveva significato per loro svalutazione ed inferiorità. Ritorneranno ora nel ghetto, in un ghetto più chiuso ed oppressivo…? Scacciamo la tetra visione. Il papa ha detto che la Provvidenza interverrà. Interverrà, speriamo, a persuadere i governanti che l’attaccamento dei cattolici alla Chiesa romana non contrasta colla loro collaborazione più fervida alla prosperità della Germania.
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Alcune riunioni tenute dai cattolici belgi in questa quindicina richiamano la nostra particolare attenzione. I dirigenti dell’Association catholique de la jeunesse belge (A.C.J.B.) hanno trattato in un congresso di studio della questione politica. La relazione sullo «Stato e la famiglia» conclude coll’affermare una «tesi di giusto mezzo fra lo Stato individualista e lo Stato totalitario»: la dottrina cattolica difende l’individuo contro lo Stato e lo Stato contro l’individuo. È in questa posizione intermediaria ch’essa s’incontra con la famiglia, «carrefour de la vie sociale où se forme l’individu et où se préforme l’état». Circa lo «Stato e la professione» il congresso si pronuncia per le professioni organizzate (corporazioni), ma salva la libertà sindacale. Circa le libertà costituzionali belghe il congresso le accetta e difende, ma insiste per una maggiore repressione legale degli attentati della stampa contro il buon costume ed il vincolo famigliare. Una discussione vivace si svolge sul tema «lo Stato e il cittadino». La Chiesa, dice il relatore, non si pronuncia né per il parlamentarismo né per l’autoritarismo. Ogni popolo apprezzerà il metodo di governo che più gli conviene… Certo è che i partiti in qualunque regione devono avere di mira il bene comune. «I partiti non possono degenerare in fazioni né sovrattutto armarsi allo scopo di far prevalere le loro idee colla forza. La loro azione deve sempre inspirarsi alla giustizia e alla carità». Il congresso, (in una seduta del quale il Nunzio portò i voti del Santo Padre), pur astenendosi dall’entrare nella politica attiva, fu tutto un’esaltazione delle dottrine politico-sociali inculcate dai pontefici negli ultimi tempi. «De quoi donc – conclude il relatore generale Hoyois , – les peuples s’enivraient-ils au siècle passé? Des prestiges de la liberté individuelle. Mais quelle est l’erreur contre laquelle l’Eglise s’est élevée alors avec le plus de fermeté? C’est l’abus de la liberté. Mais voici que l’Eglise, encore une fois, jette le cri d’alarme. Dignité de la personne humaine, limitation de la souveraineté publique, réserve inviolable de la liberté… Qui donc tient ce langage? Sinon les papes et les sociologues catholiques?…». La Chiesa prende dunque una posizione realistica e di equilibrio. Il problema politico, il problema dello Stato si ripresenta sempre sotto nuovi aspetti; le associazioni cattoliche non hanno come tali il compito di studiarne le pratiche e quotidiane realizzazioni, ma dalla dottrina e dalla vita cristiana esse attingono la virtù politica, cioè «quell’abitudine dell’intelligenza e quel senso pratico che rende il loro passo sicuro, in mezzo a tutti gli abissi». In appendice al congresso giovanile il noto sociologo Giorgio Legrand ha commemorato La Tour du Pin il cui anniversario veniva nello stesso giorno celebrato anche a Parigi, alla presenza del card. Verdier . Strane vicende della fama! Pochi anni fa, quand’egli morì, pochi si ricordarono dell’antico collaboratore dell’«Association catholique», rimasto quasi sempre nell’ombra, mentre il suo commilitone Alberto de Mun, dopo il «ralliement» aveva emulato i successi parlamentari di Carlo Montalembert. Ora che il parlamentarismo è in crisi, sale in fama La Tour du Pin, tenace assertore del corporativismo e di quel complesso di riforme sociali, che Rerum Scriptor ha qui altra volta ampiamente illustrato! Queste cronache hanno segnalato a suo tempo il fatto sintomatico che l’organizzazione politica dei cattolici belgi (Fédération des Associations et des Cercles catholiques)aveva deciso nel suo congresso di Dinant (settembre 1933) di costituire tre commissioni per studiare la riforma del regime assegnando all’una la trasformazione delle assemblee locali, all’altra le innovazioni amministrative ed alla terza la riforma parlamentare propriamente detta. Ora quest’ultima presentò le sue conclusioni ad un nuovo congresso, convocato a Bruxelles il 15 e il 16 aprile. Che cosa propone la commissione? La creazione, accanto al Parlamento di un Consiglio di Stato, composto di magistrati e tecnici della legislazione, il quale dovrà essere consultato su tutti i disegni di legge che il governo intende presentare alle Camere; la riduzione dell’attività parlamentare a due sessioni annuali ordinarie di tre mesi ciascuna, dedicate in particolare ai bilanci; la riforma elettorale col voto alle donne e col suffragio famigliare, cioè con un voto in più al padre di famiglia. La rappresentanza degl’interessi, sviluppando l’istituto già esistente nel senato belga della cooptazione. I deputati eletti coopterebbero i rappresentanti degl’interessi corporativi, le attuali commissioni paritetiche, sviluppate ulteriormente, presenterebbero i candidati. Il rinforzamento del potere esecutivo, concedendo al re nel suo Consiglio il diritto di emanare decreti legge, che però entrerebbero in vigore soltanto dopo che fossero stati deposti per un mese innanzi alle Camere. Ciò mirerebbe ad assicurare i bilanci anche contro un’eventuale ostruzione parlamentare. L’istituzione d’una suprema corte di giustizia, per combattere gli eventuali abusi del potere esecutivo rinforzato. Forse si attendeva qualche cosa di più rivoluzionario, si è chiesto concludendo il relatore Nothomb . Ma le proposte rappresentano un minimo che potrà venire ulteriormente sviluppato. Comunque bisogna avvertire che – nello spirito del congresso di Dinant – esse devono tendere «a mantenere e rinforzare il sistema rappresentativo, la sovranità del Parlamento e del suffragio universale». «Il sistema proposto organizza l’adattamento della vecchia macchina parlamentare alla rapidità degli avvenimenti e alla moltiplicazione delle funzioni statali». «Il faut être modeste quand on parie des réformes corporatives!», esclama il Nothomb, prevenendo le obiezioni dei corporativisti in voga. E difatti la modestia non è fuor di luogo; ché in un’altra riunione, tenuta simultaneamente a Bruxelles – Le congrès annuel de la Fédération des patrons catholiques – i risultati d’un’inchiesta sullo stato presente dell’organizzazione professionale dimostrano che gli esistenti «conseils de l’industrie et du travail» e le «commissions paritaires» funzionano raramente e male. Prima di parlare di rappresentanze corporative bisogna creare una legislazione corporativa, che dia agli organismi una vita nuova, disse il p. Rutten , intervenendo col peso della sua autorità nella discussione di questo terzo congresso. Questa legislazione però dovrà ben essere cauta e limitata, se anche i corporativisti cattolici, per i quali parlò al congresso patronale per il presidente dei sindacati cristiani, Pauwels, si dichiarano contro un «état corporatif dans lequel les organismes économiques seraient confondus aves les organismes politiques» e reclamano la libertà dei sindacati «au sein de la profession organisée!» La relazione sul congresso delle organizzazioni giovanili popolari della Spagna, tenuto all’Escurial, è piena di interesse. Questi giovani che rappresentano l’avanguardia bersaglieresca del partito di Gil Robles, l’«Acción Popular», hanno già avuto durante le lotte civili del solo 1933 tredici morti. Furono commemorati all’inizio del congresso con un rito cristiano che ha delle risonanze fasciste. Alla citazione dei nomi i 30 mila congressisti rispondevano «Presente y adelante» e poi l’immenso coro preceduto da chi presiedeva recitava il «Padre Nostro!». Lo scopo dei giovani, disse il loro capo, senor Valiente, è quello di coltivare e formare nel loro spirito «lo Stato ideale» a cui devono tendere gli sforzi di tutti gli spagnuoli; i deputati del partito invece devono lavorare nello «Stato possibile», come si presenta nell’attuale situazione politica. Come dev’essere lo Stato ideale, lo «Estado nuevo»? Il lavoro non è facile, perché bisogna delineare un «poder fuerte, que respete la personalidad individual»; e non si risolve quindi col copiare un esempio straniero. «Cerchiamo un potere forte, autoritario, ma che tenga conto della volontà degli spagnuoli e dello spirito che faceva loro dire ai loro re: Nos, que valemos tanto como vos y todos juntos mas que vos». Segue la discussione la quale non si fa su lunghe relazioni, ma su parole d’ordine lanciate con laconici commenti. Creare circoli di studio per rielaborare il pensiero dei grandi pensatori nazionali, come Balmes e Menéndez Pelayo . Affermare lo spirito di disciplina nazionale contro il virus separatista, combattere la legislazione settaria, occuparsi dell’educazione fisica però «con primacia, de la religiosa y moral», specializzarsi nei vari problemi politici, organizzare la mobilitazione civile contro gli scioperi politici, nominando delle commissioni tecniche per il pane, per la luce, per il gaz, per i trasporti… Caddero in questa discussione parole di sfiducia nel Parlamento, contrarie anche al sistema «centralista absurdo parlamentario y mentiroso», ma si cercherebbero invano quelle espressioni allarmanti, che potevano servire di pretesto ai sindacalisti per scatenare a Madrid l’ennesimo sciopero generale. Gil Robles in un’intervista concessa prima del congresso al Temps aveva negato di voler costituire una milizia. L’Action populaire – aveva concluso – «n’admet pas la tactique de la violence, autant par conviction doctrinale que par la conviction de l’inefficacité d’une telle politique dans la pratique. Placé sur le terrain légal, ce parti est certain de conquérir le pouvoir par le chemin de la démocratie». Certamente – egli aveva aggiunto – bisognerà sostituire al sistema attuale il sistema delle due camere, una delle quali conterrà anche la rappresentanza delle corporazioni e dei municipi; ma che cosa in tutto questo poteva allarmare sinceramente i socialisti? La verità è che il colpo di mano, i metodi della violenza armata, il terrorismo della piazza s’invocano e si praticano proprio dalle sinistre. Pochi giorni prima Largo Caballero aveva chiuso il «Congreso de Iuventudes socialistas» con queste parole: «Esa conquista del Poder la realizaremos con las milicias socialistas organizadas militarmente». Lo stesso borghese expresidente del consiglio Azaña lanciò la settimana scorsa nella arroventata assemblea della «sinistra repubblicana» questo grave invito: «Non è ora di perdersi in chiacchiere, non ho da dire che “una sola palabra: revolución”». Qual meraviglia se il Robles, che a Madrid aveva il giorno prima veduto morire un altro dei suoi giovani studenti, colpito presso la sede del Debate, abbia esclamato all’Escuriale: Se scenderanno nelle piazze, ci saremo anche noi per difenderci? Certo i cattolici di ogni gruppo fanno ogni sforzo per assicurare una evoluzione pacifica e risanatrice. Ce ne fornisce un’altra prova il discorso eminentemente politico tenuto domenica nel teatro Victoria dal leader agrario Antonio Royo Villanova . Esso fu una applicazione del celebre detto di Emilio Castelar : «in Spagna non è possibile che una monarchia democratica o una repubblica conservatrice». Facendo appello ai monarchici perché volessero appoggiare la repubblica, il Villanova affermò che se si rendesse impossibile la repubblica conservatrice verrebbe il fascismo o l’anarchismo e nessuno dei due sarebbe monarchico. Se re Alfonso lo credesse necessario per salvare la repubblica conservatrice, rinuncerebbe certo alla corona. «La dottrina cattolica è che si possono prescrivere i diritti di un re alla Corona, ma non quelli di un popolo alla sua tranquillità». L’oratore si applica infine a dimostrare che il programma della «républica conservadora» si concilia benissimo collo statuto proclamato il 14 aprile dal governo provvisorio della repubblica e al quale avevano pur aderito tutti i repubblicani da Azaña a Caballero e propone che l’attuale parlamento stia assieme fino al 1936, per poter poi a maggioranza semplice riformare la costituzione, liberandola dalle incrostazioni settarie, create durante il biennio Azaña. Che il 6 febbraio rappresenti una vera frattura nella vita politica francese, basterebbe a dimostrarlo la polemica svoltasi fra cattolici nella Vie Intellectuelle: gli uni, quasi solleciti di rivendicare al cattolicismo non le dimostrazioni della piazza, ma il sano fermento di moralità che le aveva causate; gli altri tendono piuttosto a far credito al governo allora in carica che dichiarava di aver dovuto difendere la legalità e simpatizzare colle preoccupazioni delle organizzazioni operaie. Del dibattito riteniamo qui soltanto la conclusione nella quale tutti sono d’accordo e che fu espressa da F. Mauriac , quando nel periodico Sept fece voti che «toutes les forces sociales du catholicisme doivent s’employer au service de la classe prolétarienne».
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Beata te, o America che non hai castelli da rimpiangere né inutili memorie da conservare né vane discordie interiori! Amerika, du Hast es besser – Als unser Kontinent, der alte – Hast keine verfallene Schlösser … Dich stört nicht im Innern … – Unnützes Erinnern – Und vergeblicher Streit . Così cantava Goethe, cent’anni fa. Chi oserebbe ripeterlo oggi? Se non le castella, sono rovinati i grattacieli ed una tremenda scissura si è prodotta nella nazione tra profittatori e disoccupati, tra produttori e consumatori. Leggete la pastorale dei vescovi americani, emanata nel passato inverno, ed avrete un’idea dell’abisso che separa l’America goethiana dall’America contemporanea. E tuttavia qual coraggio, quale intraprendenza, quale spregiudicatezza, quale sforzo per affrontare, afferrare, strangolare la crisi, quasi fosse una bestia feroce del Far West! Da rilevarsi è, come nuova prova del valore sociale del cattolicesimo, che i cattolici americani sono fra i più fedeli ed arditi campioni del presidente. Già la ricordata pastorale invitava i cattolici a mettersi completamente al servizio del programma presidenziale e prima e dopo d’allora, innumerevoli furono le manifestazioni, l’esortazioni a cooperare con tutte le forze alla ricostruzione. Il «New Deal» s’inspira alla «giustizia sociale», dimostra John A. Ryan nel «Commonweal» del 13 aprile, e in nessun documento contemporaneo la giustizia sociale è così insistentemente ed autorevolmente invocata come nella «Quadragesimo anno»! La NRA (National Industrial Recovery Act) segue dunque una linea, mira a degli scopi che sono pienamente conformi agl’insegnamenti sociali dei pontefici. La fissazione di un massimo orario e di un minimo di salario, come prevedono i codici di Roosevelt, corrisponde ai principii di Leone XIII e Pio XI; gli appelli dei collaboratori del presidente, Mr. Richberg ed il segretario Wallace , i quali insistono perchè le società industriali riducano al minimo i loro profitti, vogliono proprio quello che inculca la «Quadragesimo anno». La sezione 7 dello NRA che garantisce la libertà di organizzazione agli operai riafferma il pensiero di Pio XI; il tentativo di elevare i prezzi al livello del 1926 corrisponde alla giustizia sociale, perchè così i debiti si estinguono allo stesso valore oro, a cui furono allora accesi… La NRA non dev’essere però un regime provvisorio che cessi col cessar della legge, cioè il 1 luglio 1935. Bisogna che questo sistema di controllare e regolare le attività industriali continui e diventi permanente. «La permanente regolazione dell’industria coi codici e colla NRA implica l’abbandono definitivo del liberalismo economico»: e questa è appunto anche la direttiva di Pio XI. Bisognerebbe però – scrive il Ryan – inserire nella NRA la cooperazione degli operai nel compilare e nell’applicare i codici: allora la conformità essenziale colla «Quadragesimo anno» sarebbe perfetta, perché questa vuole appunto attraverso congegni corporativi assicurare il massimo possibile di «industrial democracy». E qui il parallelismo fra NRA e «Quadragesimo anno» viene descritto in altri e forse discutibili particolari, per arrivare ad una conclusione generale, accettabile questa senz’altro: che, entrambi cercano quella via media fra individualismo e comunismo la quale evita da una parte «the political despotism» e dall’altra la «economic inefficiency». Gli attacchi di certa stampa tedesca e internazionalista contro la Chiesa cattolica, in seguito alla promulgazione della nuova costituzione austriaca, non hanno proprio ragione di essere. È verissimo che i compilatori dello statuto austriaco si sono molto lode-volmente sforzati di seguire alcune linee direttive della «Quadragesimo anno»; ma l’enciclica stessa, del regime politico non si occupa affatto. Tutto quello che Leone XIII e Pio XI inculcano circa le corporazioni può essere conciliabile tanto col governo parlamentare – ed è ciò, come abbiamo visto, che si cerca nel Belgio – come con un governo autoritario o assoluto. L’organizzazione del potere politico, quale appare nel nuovo statuto, è quindi opera degli uomini che reggono l’Austria e frutto dei tempi, colle loro necessità od opportunità immediate. Per convincersene basta leggere l’articolo del ministro Dr. Ender , compilatore della riforma, nel quale egli narra come da alcune idee fondamentali, formulate ancora assai vagamente nello scorso autunno si sia arrivati, attraverso molti studi e numerose modificazioni, al progetto che ora è divenuto legge. Anche qui, come sul terreno parlamentare e come sempre nella vita umana, la realtà matura a forza di compromessi. Dapprincipio, ricorda l’Ender, si pensava ad un parlamento o senato corporativo accanto ad una Camera eletta a suffragio universale. Questa combinazione doveva presentarsi naturalmente alla mente di chi, come l’Ender, aveva studiato gli autori cristiano-sociali. Ma la situazione politica austriaca come veniva sviluppandosi, imponeva di prendere un’altra via. Il sistema elettorale avrebbe richiamato sulla scena i partiti. L’indipendenza dello Stato austriaco sarebbe stata messa in forse dal rinascere del movimento nazionalsocialista. Era pericoloso gareggiare col cesarismo plebiscitario di Hitler, tanto più che da sinistra minacciavano i socialisti. Lo stesso blocco governativo, sorto da una coalizione parlamentare, avrebbe resistito alle scosse del suffragio universale? Bisognava tentare una rifusione di tutte le forze patriottiche, concentrarle attorno ad una sola necessità, quella di reggersi contro tanti nemici intemi e contro una pressione esterna formidabile. Ed ecco presentarsi a proposito il programma Heimwehrista, il quale, ad imitazione di quello italiano, inculcava l’abolizione dei partiti politici o la fusione di tutti in uno solo. Ed ecco il cancelliere tentare la fusione delle varie correnti nel «fronte patriottico»; tentativo non facile, perchè in Austria se l’esperienza politica, le forze culturali ed il numero stanno più dalla parte dei cristiano-sociali, le forze armate sono in prevalenza dalla parte degli Heimwehristi. Più che ad una fusione si è arrivati quindi finora ad un’addizione col binomio Dolffuss e Starhemberg. Comunque l’idea dell’abolizione dei partiti politici portava con sé la fine del suffragio universale. Che cosa sostituirvi? L’antica tradizione austriaca della «rappresentanza degl’interessi» e l’esempio dello Stato corporativo fascista stavano a portata di mano. Ed ecco che il nuovo Parlamento o Dieta federale sarà un corpo nominato da altri quattro Consigli, i quali ne costituiscono la base: il Consiglio di Stato (una specie di corpo senatoriale) di nomina presidenziale, il Consiglio culturale nominato dalle chiese, dalle organizzazioni scolastiche e dalle accademie, un Consiglio delle provincie nominato dalle rappresentanze provinciali ed infine un Consiglio economico nominato dalle costituende corporazioni. Ove è andata a finire la democrazia, si chiede qui il dr. Ender, che nel suo piccolo Vorarlberg s’era guadagnata la fama di democratico. «Fino dapprincipio – egli scrive – bisognò porsi la questione se si dovesse conservare la democrazia o volgersi ad ideali fascisti. Nessuno poteva attendere da me che abbandonassi del tutto le idee democratiche…». Il principio democratico, secondo l’Ender, è salvaguardato dal fatto che 1) si è conservata l’autonomia delle provincie e dei comuni, 2) che le rappresentanze provinciali e comunali e il consiglio economico non vengono nominati dall’alto, ma designate dalle corporazioni. «La democrazia trasferirà la sua sede nelle corporazioni autonome e nelle autonomie locali». Veramente il nuovo statuto non contiene delle corporazioni che alcune linee scheletriche; si volle – dichiara l’Ender – lasciar libero corso all’esperienza; e quindi la loro costituzione e il loro funzionamento verranno fissati più tardi da apposite leggi. D’altro canto larghissime soddisfazioni vennero concesse al principio autoritario: coll’aver stabilito che il presidente dello Stato venga nominato dai sindaci, su terna proposta dai Consigli centrali, coll’aver concesso al presidente e al governo poteri dittatoriali in caso di necessità, per quanto l’uso di tali poteri possa venir controllato dai magistrati della Corte suprema. Come gira rapida la ruota della fortuna! Nel 1920 l’Austria aveva ottenuta una Costituzione repubblicana. La avevano ispirata i socialisti, che gonfiarono talmente il potere parlamentare, da deferire al parlamento perfino l’elezione dei ministri! Sono passati 13 anni, e già quella «Austria nuova» è decrepita e si abbatte al suolo per esaurimento, senza che nessuno la compianga! Del resto nemmeno lo statuto del 1° maggio 1934 è definitivo; bensì – constata il suo stesso compilatore – «esso è l’espressione dello stato presente dell’evoluzione politica. Ora lo stato presente è appunto la transizione verso la Costituzione corporativa». Ora importa sovrattutto vedere come si svilupperanno le forze politiche austriache: come si consoliderà e quali funzioni assumerà il «fronte patriottico», rappresentante più o meno totalitario dell’attività politica, in assenza dei partiti; e quale parte avranno in esso le organizzazioni militarizzate. E, più ancora di ogni altra questione, interessa di sapere se riuscirà di riguadagnare le masse operaie socialiste. I cristiano-sociali fanno mirabili sforzi per avvicinarle. Il viceborgomastro Winter e l’ala operaia, capitanata dal Kunschak, moltiplicano le riunioni in contraddittorio cogli antichi operai socialisti, cercando di conquistare gli spiriti col ragionamento e coll’interessamento. Finora le resistenze sono accanite; ma non abbisogna meravigliarsene, dice il Kunschak; bisogna lasciar loro il tempo di decidersi con dignità e con libertà. «Was nützen uns alle Paragraphe, wenn wir die Seele des Arbeiters nicht erfassen?». Che cosa ci giovano tutti gli articoli di legge, se non conquistiamo le anime? Nell’ultima seduta del Consiglio federale il dr. Hemala , che appartiene al gruppo operaio dei cristiano-sociali, dopo aver mandato un pensiero di gratitudine ai molti colleghi che nel moribondo parlamento avevano lavorato con impegno ed efficacia per il bene del popolo, concluse col seguente augurio: «Che i nuovi uomini, i quali sono ora chiamati a dar vita alla lettera morta della costituzione, non dimentichino mai che la giustizia è il fondamento più sicuro degli Stati né perdano mai il contatto coll’animo popolare, ma ne ascoltino il polso e le quotidiane vibrazioni!». Parole sagge, augurio prezioso e significativo che certo gli homines novi avranno cura di non smentire. Ne fanno fede la sincerità del loro civismo e la santità delle loro intenzioni, colle quali hanno promulgata la nuova Costituzione – «in nome di Dio» – e vi hanno inserito la più schietta e la più intima collaborazione colla Chiesa, nell’insegnamento e nella difesa della morale.
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1,934
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61931-1935
Il corporativismo fascista rappresenta nella storia moderna dell’organizzazione sociale una novità assoluta, sotto due aspetti. Anzitutto si tratta di un esperimento in atto che si estende contemporaneamente a tutta una grande nazione. Nel secolo XIX, durante la prima rinascita del corporativismo, fiorirono molti programmi e progetti, si elaborarono parecchi schemi organizzativi, del tutto simili all’inquadramento fascista, si ebbero anche sporadicamente dei tentativi di pratica attuazione; ma nessun fatto organizzativo è noto che si possa per l’estensione o la misura paragonare con quello italiano . Il valore internazionale di questo sta appunto nell’esperienza d’inquadramento e di funzionamento che si svolgerà attraverso le 22 corporazioni, testé progettate in forma concreta. Un’altra novità che dà all’organizzazione corporativa fascista un’impronta del tutto particolare ed un carattere inconfondibile consiste nella funzione che negli organi corporativi viene esercitata dal partito fascista. Già nel suo discorso del 14 nov. 1933 il capo del governo italiano aveva affermato che per fare il corporativismo integrale bisognava accanto alla disciplina economica far entrare in azione la disciplina politica del partito unico nello Stato totalitario . Ecco che nelle istituende corporazioni il partito fascista rappresentato dal vicepresidente e da altri due delegati, assume la funzione di cementare ed inspirare politicamente i rappresentanti delle categorie. Anche i tedeschi affidano al partito nazionalsocialista una funzione analoga, ma in Germania si è voluto addirittura superare d’un colpo l’organizzazione sindacale, fondere gl’interessi già al primo stadio, cioè nella cellula industriale dell’officina. In Italia invece i sindacati rimangono; operai e datori di lavoro vengono organizzati localmente, regionalmente e nazionalmente a parte: soltanto all’apice della piramide gli uni e gli altri si ritrovano nella corporazione. Ma qui accanto ai rappresentanti delle amministrazioni pubbliche si farà valere la direttiva del partito di governo, colla sua ideologia, col suo programma, colla sua forza. Questa saldatura col potere politico costituisce la novità più caratteristica e dà al corporativismo fascista una fisionomia propria che non si può confondere con altri tipi, passati o presenti nei quali il problema politico è diversamente considerato o risolto. Ciò risulterà più manifesto ancora quando su queste corporazioni verrà innestata la riforma costituzionale. Dei grandi partiti a sfondo religioso sorti nell’èra costituzionale, non rimane in piedi oramai che il più anziano, quello della Destra cattolica belga; ad esso si aggiunge ora il più giovane, l’agrario popolare di Gil Robles. Nessuno di questi partiti morì per interna consunzione, ma tutti soccombettero alle rivoluzioni o alle trasformazioni costituzionali, le quali tolsero loro la possibilità o la ragione di essere. Recente è la scomparsa del Centro tedesco e in questi giorni si assistette ai funebri del partito cristiano-sociale viennese. Ma qual differenza del loro morire! Il Centro scomparve sotto le accuse più violente d’aver tradito la nazione, firmando l’armistizio e collaborando poi coi socialdemocratici. La sua morte repentina venne accompagnata dalle invettive degli avversari e dal silenzio degli amici: se si eccettua una nobile e serena parola episcopale che del Centro ricordò i meriti per la difesa religiosa. Il partito cristiano sociale invece muore col suo bravo necrologio e ai suoi funerali si portano su di un cuscino di velluto le insegne delle passate benemerenze. Il discorso che nella sua ultima riunione, a metà maggio, tenne il vicepresidente Kunschak e l’allocuzione del cancelliere Dollfuss hanno sapore di apologia. Kunschak rileva come merito principale del partito «quello di aver saputo trarre nell’orbita dello Stato democratico costituzionale i socialisti, tenendo lontana così da Vienna nell’immediato dopoguerra la grave minaccia del bolscevismo». «La coalizione coi socialdemocratici, esclama l’oratore, salvò lo Stato austriaco in un momento, in cui coloro che oggi la criticano con tanta sicumera, non si facevano nemmeno vedere». Ma i socialisti commisero più tardi l’errore di non concedere al democratico dott. Ender, i poteri che egli aveva chiesto per salvare lo Stato e il regime, e così si aperse una crisi nella quale il sistema parlamentare doveva finire per naufragare. Ora termina – concluse il Kunschak – il nostro mandato politico, ma il nostro lavoro continua. «Gli statuti costituzionali si elaborano nei misteri, ma il grave problema da cui tutto dipende, è il contatto coll’anima popolare. Questo sarà il nostro compito avvenire…». S’alzò poi per un’allocuzione di congedo il cancelliere Dollfuss, il quale cominciò con un rilievo di storico valore. «Taluno fuori di qui sarà tentato di credere che l’evoluzione politica di quest’anno sia il risultato di qualche costruzione ideologica o magari il risultato di un esperimento tentato da me e dai miei amici… Essa fu invece fatale e non c’era altra strada da prendere. Se volevamo salvare l’indipendenza dell’Austria non c’era che proteggerla dall’ondata bruna come da quella rossa. In ciò sta la grande giustificazione di certi avvenimenti che potranno aver dispiaciuto… Qualora un anno fa mi avessero chiesto, se i partiti sarebbero sopravvissuti o meno, non avrei saputo rispondere. Solo le giornate di febbraio hanno portata la decisione…». Schiettezza simpatica che riconosce la sua parte alla fatalità o meglio, come aggiunse rettificando il cancelliere, alla Provvidenza la quale guida le sorti dei popoli per vie non sempre prevedibili. Manifestazioni recenti di uomini che considerano la situazione internazionale dall’alto della loro responsabilità – particolarmente limpido e sintetico l’articolo «Verso il riarmo» del primo ministro italiano – hanno richiamato l’attenzione del pubblico sulla gravità delle decisioni che si stanno per prendere a Ginevra. Il numero dei pessimisti grandeggia e sembra oramai sommergere in un mare di sfiducia gli ostinati ottimisti che sperano ancora negli accordi internazionali. Parrebbe oramai che l’Europa stia per riassumere come propria quella che era la divisa del duca di Borbone: Omnis salus in ferro est. Dovremo dunque credere al tramonto dell’occidente e alla distruzione della civiltà europea, come la preannunzia G. De Montemajor : «quando nuove guerre aeree, sottomarine, di popoli e di trincea avranno asfissiata, sterminata, devastata ed impoverita l’Europa, recisi gli stami della sua intelligenza civilizzatrice, distolti gli animi dalla coltura, troncate le tradizioni, il nostro grandioso mondo colle sue scoperte, le sue ricchezze, le sue eleganze e le sue arti declinerà…?». No, noi non crediamo né a questo cataclisma né alle previsioni apocalittiche; crediamo e confidiamo invece che anche nelle presenti convulsioni sociali e politiche, come il Balbo dimostrava per le rivoluzioni dal 1789 al 1848, il fermento cristiano lavori come lievito rigeneratore e che le nuove età conosceranno un nuovo e più elevato progresso. Anche noi dunque crediamo nel progresso indefinito dell’umanità? Certo; ma noi vi crediamo non fondandoci sopra una inesistente bontà innata ed incorrotta della natura umana, ma confidando nell’opera soprannaturale che svolge nel mondo il Cristo per mezzo della sua Chiesa, onde costruire nel mondo un’«unica magione dei figli di Dio». Così è potuto avvenire che al congresso economico paneuropeo, convocato a Vienna il 16 maggio, congresso che fu una manifestazione di pacifismo e collaborazione internazionale, partecipassero accanto agli umanitaristi, i quali trovano il loro evangelo nell’inno alla pace di Victor Hugo , anche i rappresentanti del pensiero cattolico, i quali fondano il loro ottimismo, come disse uno di loro, sulla Gotteskindschaft (figliolanza di Dio). Il nostro pacifismo, disse il ministro cristiano sociale Schuschnigg, non è un pacifismo della debolezza interna, ma un pacifismo della responsabilità che ci fa pensare a quello che i nostri popoli hanno di più prezioso, cioè alle nostre madri e alla giovane generazione. Il problema, affermò il Dollfuss, si presenta nella stessa forma come nell’organizzazione interna dello Stato: è un problema di unità e di libertà. Si tratta di trovare la giusta sintesi di questo binomio. Mi auguro che l’Europa futura si basi sulla giusta sintesi di una coordinazione unitaria e di una vera libertà degli Stati che a quest’unità partecipano. Il presidente ed animatore del congresso, Coudenhove Kalergi , nonostante le difficoltà ginevrine, poté tuttavia rilevare con soddisfazione alcuni avvenimenti che preparano la paneuropa economica, superando l’angusto criterio dell’autarchia nazionale. Oltre i lavori economici della Piccola intesa e le clausole del patto balcanico il presidente mise in particolare rilievo l’opera compiuta a Roma dai rappresentanti dell’Austria e dell’Ungheria sotto l’egida dell’Italia, opera che non mira a costituire un blocco economico contro un altro blocco, ma che è un sistema di mutue compensazioni, quale appunto prevede nel suo programma il movimento paneuropeo. Gli accordi di Roma sono aperti a tutti coloro che vorranno aderirvi e sono espressione della comunanza degli interessi di tre Stati sovrani. Così in fondo, affermò col suo tenace ottimismo il Kalergi, così incominciò cento anni fa il Zollverein germanico . Il movimento paneuropeo combatte su due fronti, contro l’estremo nazionalismo e contro l’estremo internazionalismo. Il nazionalismo estremo conduce alla guerra e l’estremo internazionalismo che nega la nazione e vuole la lotta di classe conduce fatalmente alla rivoluzione mondiale. L’idea paneuropea rappresenta fra questi due estremi una linea media la quale tende ad esprimere organicamente la comunanza spirituale della civiltà europea. Così il Kalergi. L’idea della riforma statale in Francia si concretizza sempre nelle formule propugnate con tanto calore da Tardieu e accettate già in parte nella commissione parlamentare presieduta dal radicale Marchandau . Anche il XV congresso dell’Unione nazionale combattenti ha votato un ordine del giorno nel quale dopo aver riaffermato «il suo attaccamento alle istituzioni democratiche e il suo desiderio di conservare le pubbliche libertà, che a diverse riprese i francesi hanno pagato col loro sangue», riconosce l’impotenza dell’attuale regime parlamentare, chiede la ristaurazione dell’autorità dello Stato ed in concreto la possibilità per il presidente della repubblica di sciogliere la Camera senza l’avviso del Senato, il divieto al potere legislativo di ogni proposta in materia di spese e uno statuto dei funzionari che neghi loro il diritto di sciopero. Va notato che quest’ultima questione non è stata ancora toccata nella commissione parlamentare; ma in quanto alle spese, si è già ottenuta una maggioranza per la formula che nessuna deliberazione avente per conseguenza una spesa potrà venire applicata; se contemporaneamente non verrà inscritta in bilancio anche la rispettiva copertura.
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4Internal exile
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Dopo la rivolta e la repressione del febbraio l’«Internazionale sindacale cristiana di Utrecht» inviò a Vienna a fare un’inchiesta il segretario generale della confederazione stessa, Serrarens , e il deputato olandese Amelink . Ora nell’organo testé uscito della confederazione sindacale i due delegati pubblicano le loro impressioni. Dopo aver rilevate tutte le colpe dei socialisti, i due delegati rimangono tuttavia piuttosto scettici anche di fronte all’esperimento Dollfuss. Soprattutto si dichiarano contrari al sindacato unico, imposto dallo Stato. Affermano che il neoeretto sindacato non è un vero sindacato, ma semplicemente un inquadramento statale, mancandogli ciò che del sindacato è caratteristica essenziale, cioè la libera cooperazione dei suoi membri. «Quello che più urta, affermano gli olandesi, è che tutto ciò si presenti sotto l’etichetta cristiana e si voglia far credere al mondo che tutti questi provvedimenti stiano in armonia colla Quadragesimo anno». Questo giudizio sull’organizzazione operaia viennese venne ribadito dallo stesso Serrarens nel suo rapporto al congresso dei sindacati cristiani, tenuto a Montreux il 1 e 2 giugno. Ma qui ben cinque delegati dei sindacati cristiani austriaci, i quali verranno assorbiti dal sindacato unico appena il mese prossimo , intervennero a difendere l’opera sindacale del governo viennese. La difesa, pubblicata per intiero anche dalla Reichspost , si può riassumere nei seguenti punti. I sindacati cristiani austriaci hanno accettato a malincuore e solo dopo parecchie esitazioni il sindacato unico, ma hanno dovuto riconoscere che esso era una necessità politica. Tuttavia essi chiesero ed ottennero la garanzia che lo spirito che anima le organizzazioni cristiane avrebbe diretto anche il sindacato unico e che la maggioranza dei dirigenti verrebbe tolta dai sindacati cristiani. Difatti nel consiglio centrale, su dodici membri, sette provengono dalle organizzazioni cattoliche. In quanto alla eleggibilità delle cariche, essa è prevista per la sistemazione definitiva; come nella Costituzione è previsto anche che, nel loro assetto normale, le corporazioni saranno autonome e lo Stato interverrà soltanto per completare la loro opera e coordinarla coi bisogni generali della nazione. Il sistema delle nomine dall’alto rappresenta dunque a Vienna uno stadio provvisorio e non un regime definitivo quale viene proclamato in Germania. «Si tratta, dice la relazione dei viennesi al congresso di Montreux, di trovare la giusta sintesi fra autorità e libertà. Il cristianesimo ci insegna e ci aiuta a trovarla». In Austria è monopolizzato soltanto il sindacato quale organo autorizzato a concludere i contratti collettivi; ma per il resto le tendenze, che non siano per principio dirette contro lo Stato, hanno libertà di organizzare gli operai in associazioni professionali o di cultura. La relazione austriaca venne ascoltata con deferenza e nella discussione si espresse tutta la simpatia ai colleghi viennesi e riconosciute furono le buone intenzioni di Dollfuss. Tuttavia l’assemblea, alla quale partecipavano un centinaio di delegati rappresentanti circa un milione di membri, non poté fare a meno di esprimere le sue preoccupazioni per l’avvenire. Il discorso più applaudito fu quello di Zirnheld , capo dei sindacati cristiani francesi, il quale con evidente riferimento alla Germania, protestò contro la confisca dei beni sindacali legittimamente acquistati. L’ordine del giorno votato ad unanimità, con l’astensione dei delegati austriaci, rivendica agli operai cristiani la libertà di organizzarsi sindacalmente secondo le proprie convinzioni e d’altra parte protesta contro le tendenze monopolizzatrici dei socialisti negli organi dell’ufficio internazionale del lavoro. Questa rubrica riferisce senza entrare nel merito; tuttavia risulterà chiaro ai lettori che i viennesi colpivano giusto quando sostenevano che fra sindacato unico e la libertà affermata nelle encicliche, non esiste sempre e in tutti i casi antitesi necessaria. Ai primi di maggio The Universe chiese pubblicamente alla British Union of Fascists quale fosse il punto di vista dei fascisti inglesi intorno ai problemi morali ed in particolare alla sterilizzazione. La domanda diede occasione alla centrale fascista inglese di pubblicare una dichiarazione programmatica rivolta ai cattolici e con riferimento ai loro principi e postulati. La dichiarazione rileva che fascismo e cattolicismo combaciano in molte cose, per esempio, nell’opposizione dei loro pensatori alla democrazia e nell’antagonismo contro la «rinascenza», in quanto questo fenomeno creò cinque o sei filosofie in contrasto fra loro, lasciandoci senza una fissa scala di valori morali. D’altro canto la dichiarazione promette che i fascisti al governo non toccherebbero le scuole confessionali, anzi le circonderebbero di un’atmosfera favorevole. In quanto alla eugenetica, il partito fascista inglese non aveva ancora avuto il tempo d’occuparsene, trattandosi di una questione secondaria. In generale il governo fascista rivolgerebbe tutta l’attenzione dovuta ai postulati cattolici, ma certo non potrebbe cedere alcuna parte della sua sovranità a qualsiasi «setta dentro lo Stato» o a qualsiasi «sovrano fuori dello Stato». Nessun partito ha espresso tanta simpatia per i cattolici come il fascista. Non si comprende quindi come mai i cattolici prima di aderire mettano tante pregiudiziali di principio, proprio in confronto dei British Fascists. Non è nostro compito, commenta l’Universe, di risolvere la questione generale, se il regime fascista nel nostro paese rappresenterebbe o meno un progresso in confronto del governo parlamentare. In questa materia i cattolici hanno completa libertà d’opinione. Ci furono degli eminenti cattolici, pensatori e uomini di Stato, che sostennero l’autocrazia, come ci furono degli eminenti cattolici sostenitori delle istituzioni democratiche. È quindi assurda l’affermazione della British Union of Fascists che cattolicesimo e fascismo combacino nell’ostilità alla democrazia. Il Sillon venne condannato dalla Santa Sede perché voleva fare tutt’uno della democrazia e del cristianesimo , ma d’altra parte venne condannata anche l’anti-democratica Action Française, perché voleva che ogni cattolico fosse ostile alla repubblica francese . In quanto alla questione scolastica, il giornale cattolico accetta con soddisfazione l’impegno dei fascisti, ma non è scevro d’inquietudini, perché nel seguito della dichiarazione il loro atteggiamento favorevole, vien fatto dipendere da un contegno «non antinazionale» della Chiesa. Questa riserva, dato che sul patriottismo della Chiesa intende sentenziare arbitrariamente lo stesso governo fascista, merita di venir ulteriormente chiarita. Insoddisfacente è invece la risposta circa le questioni morali, che per i cattolici non possono essere considerate secondarie. Riassumendo, l’Universe, ritiene «che il fascismo inglese, in quanto movimento costruttivo ispirato da sani ideali, potrà attrarre molti cattolici; ma questi, prima di dare la loro adesione, devono essere certi che non si chiederà loro mai di favorire delle tendenze inconciliabili coi loro principi. Noi diciamo quindi ai cattolici di essere molto vigilanti prima di dare il loro nome e, quando l’avessero dato, di usare la loro influenza per impedire nella direttiva fascista delle deviazioni anticattoliche». Consimile atteggiamento assume anche il Catholic Times il quale conclude il suo commento redazionale dichiarando che i cattolici, «in quanto il fascismo è un partito, tengono di fronte ad esso lo stesso atteggiamento di benevola neutralità che mantengono in Inghilterra di fronte a tutti i partiti politici. Ma in quanto esso è un movimento universale, essi hanno il dovere di studiarlo più particolarmente dal punto di vista dei principi universali del cattolicismo». La presente polemica servirà d’inizio ad un necessario chiarimento. La stampa cattolica inglese dunque, quando si esprime redazionalmente, evita, com’è sua tradizione, qualsiasi atteggiamento politico, limitandosi a parlare con solo riferimento a principi e a postulati nettamente religiosi ed ecclesiastici. Nella dichiarazione fascista inglese essa trova offensivo che la Chiesa cattolica venga trattata come «sect» o «denomination» e si preoccupa sopratutto della sterilizzazione, non solo perché in Inghilterra tale problema è all’ordine del giorno, ma perché i tedeschi hanno già dato il cattivo esempio. Se da un canto la conciliazione fra Stato e Chiesa in Italia li dispone favorevolmente, dall’altro il trattamento fatto ai cattolici in Germania li rende diffidenti. Finora tuttavia Mosley, corrispondentemente al temperamento anglosassone, ha evitato di propugnare ideologie e dottrine contrarie al cristianesimo, e nessun Rosenberg inglese è comparso ad inquietare le coscienze cattoliche. I vescovi inglesi non hanno quindi trovato necessario d’intervenire come l’episcopato germanico, e la stampa cattolica ufficiosa può mantenere anche di fronte al nuovo partito la benevola neutralità che mantiene di fronte agli altri partiti e in confronto al fascismo, considerato come movimento spirituale e sociale, limitarsi a delle riserve e a porre delle pregiudiziali, che non escludono il riconoscimento dei suoi fini ideali. Ciò non vuol dire che i cattolici inglesi, come cittadini ed uomini politici, non vadano più oltre, fino a fissare anche il loro atteggiamento politico; e lo stesso Catholic Times ha aperta la discussione anche sul tema «The church and the dictators». Vi leggiamo ad esempio un articolo di Cristoforo Dawson (18 maggio) il quale afferma: «La crisi economica attuale reca la fine dell’individualismo capitalista. Questo sistema si fondava sulla libera concorrenza e sulla libertà dei prezzi e dei mercati. Anche l’Inghilterra, costretta dall’atteggiamento autarchico degli altri paesi, deve ora abbandonarlo ed arrivare all’economia manovrata, allo Stato corporativo, rinunziare insomma alla libertà economica. Ma la libertà economica è intimamente legata alla libertà politica. La democrazia parlamentare è l’espressione politica dell’individualismo economico. Caduto questo, sopprimendo la libertà economica, è giuocoforza rinunciare anche alla libertà politica, al diritto cioè di far opposizione al governo. All’economia manovrata dello Stato corporativo corrisponde perciò il regime politico autoritario». Fino qui il Dawson va d’accordo con Mosley. Ma quando aggiunge, non senza qualche contraddizione, che in Inghilterra non è possibile abolire il parlamento, pianta indigena e secolare, non esotica come in altri paesi e che le classi dirigenti medie inglesi non si lascierebbero eliminare da una dittatura, egli si prepara a concludere che il futuro Stato corporativo inglese dovrà fondarsi piuttosto su di un governo nazionale permanente (oligarchia dunque), il quale sia al di fuori del giuoco dei partiti e non su di un partito inquadrato militarmente. «Nothing is to be gained…». Non c’è nulla da guadagnare imitando le forme esterne di movimenti rivoluzionari stranieri… «Se – conclude il Dawson – il fascismo è solo un nuovo partito che differisce dagli altri soltanto per l’appello alla forza, esso non avrà grande interesse per i cattolici. Ma se d’altro canto esso propugna il principio dell’unità corporativa e dell’ordine e gl’ideali d’autorità e gerarchia nella sfera politica, esso dovrà anche riconoscere l’esistenza di simili principi nella sfera religiosa e che di essi è massima espressione la Chiesa cattolica». Il settimanale di G. K. Chesterton è poco favorevole al nuovo movimento. A suo parere la Quadragesimo anno vuole lo Stato organico, non lo Stato corporativo. Lo Stato organico presuppone l’organizzazione di una nuova democrazia attraverso le corporazioni. Il fascismo inglese non è rivoluzionario abbastanza, perché lascia intatta la struttura sociale capitalista e si accontenta d’irreggimentare le masse. Bisogna invece costituire le gilde proprietarie ed attuare il distributismo, la nota teoria economica di G. K. Chesterton. Il distributismo non può accettare lo Stato totalitario, venga esso da destra o da sinistra. Se si eccettuano le cronache sportive, non si parla molto della Cecoslovacchia. Cattivo segno? Forse il contrario. Potrebbe anche significare che i suoi propri panni – se è necessario – se li lava in casa, senza inquietare l’opinione pubblica degli altri paesi. Ma la quarta elezione del presidente Masaryk è fatto troppo notevole perché il sottolinearlo in una rubrica internazionale possa apparire esagerato. Eletto per la prima volta il 14 novembre 1918, per la seconda il 1920, per la terza il 1927 e per la quarta alla fine di maggio, il prof. Tommaso Masaryk risiede nella vecchia corte di Praga da 16 anni. La nota più caratteristica della sua ultima rielezione fu il voto favorevole, datogli non solo dai cristiano-sociali tedeschi e cattolici cechi, ma anche dai deputati del partito tedesco nazionale, testé disciolto, sotto l’accusa d’irredentismo hitleriano. I tedeschi insomma della Cecoslovacchia, che hanno anch’essi, come minoranza, delle lamentele da presentare e dei postulati da far valere, credono di aver trovato nel Masaryk un uomo di Stato equo e moderatore, il quale riconosce i diritti delle minoranze e si sforza, ove arriva la sua influenza, di render loro giustizia. È noto del resto ch’egli si è espresso anche pubblicamente in favore di qualche rettifica sulla frontiera ungherese. I cattolici che ricordano in lui, giovane e nell’età matura, il propugnatore del «libero pensiero» , lo scrittore umanitarista il quale attingeva fuori del cristianesimo le direttive della sua etica e l’ispirazione delle sue riforme sociali, riconoscono ora con soddisfazione che nella saggezza della sua età patriarcale egli ha pronunciato delle parole di ben diverso significato. Quando Masaryk proclama che «Gesù e non Cesare determina il senso della storia» egli difende la verità dalle falsificazioni storiche di certi suoi colleghi germanici e pare incontrarsi con Mons. Bares , vescovo di Berlino, il quale ha dichiarato in questi giorni a Fulda, in evidente polemica con un noto libro di Enrico Wolf , che la Chiesa non da Augusto, ma da Cristo ha avuta la sua missione; proclamando così i diritti della sua libertà e del suo primato spirituale. Nel suo messaggio natalizio del 1933 Masaryk invocando la pace si richiamò ai precetti «di pura umanità», inculcati da Cristo, e in un’altra occasione il presidente della Repubblica cecoslovacca afferma: «Gesù mostrò che la vera religione, la vera pietà compenetra tutta la vita, quotidianamente e continuamente. La maggior parte degli uomini si limitano ad una religione festiva e solo in momenti eccezionali, specie nella sventura, si ricordano di Dio, gridano aiuto e pretendono portenti e miracoli. Ma la vita eterna non diventa solo dopo la morte e nel mondo al di là: noi viviamo per l’eternità già ora e sempre». Molto si è scritto intorno al presidente filosofo, cercando la sua paternità intellettuale in Hume , negli Scozzesi , o in Carlo Pascal . Comunque sia, certo è che non trovò la saggezza, se non quando la cercò in Cristo.
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Non parlare in questa rubrica degli avvenimenti tedeschi è impossibile; ma parlare con serenità, con esattezza, con giustizia è altrettanto difficile. Il governo ha fatto sapere al pubblico di aver dovuto soffocare nel sangue un complotto contro il regime , ordito per compiere una seconda rivoluzione; e in un primo tempo, considerando il carattere pericolosissimo dell’impresa minacciata, il grave pericolo di una sommossa a fondo bolscevico, la depravazione personale di alcuni fra i colpiti , l’opinione pubblica mondiale si mostrò disposta a far credito ai comunicati ufficiali, in attesa di ulteriori spiegazioni e documentazioni. Ma queste chiarificazioni non sono ancora venute, e la postuma sanzione giuridica , formulata in una proclamazione ministeriale, non sostituisce la sanzione morale che la coscienza pubblica, e con essa la storia, insistentemente reclamano. L’opinione estera, specie quella anglosassone, che alla Germania non riesce mai indifferente, convincerà forse il ministero di propaganda tedesco a sollevare gli spessi veli che avvolgono la tragedia politica e a spiegare sopra tutto come e per quali ragioni perirono quegli uomini d’ordine che nessuna interessata calunnia ha osato classificare fra i cospiratori o fra i depravati. La coscienza cattolica è particolarmente commossa per le tragiche notizie, in parte confermate, in parte non smentite sulla sorte di un Klausener , capo dell’Azione Cattolica berlinese, di monsignor Muller, già presidente della giunta diocesana di Monaco, del convertito Gerlich , ben noto anche fuori della Germania, per le sue pubblicazioni su Teresa Neumann e di parecchi altri che non vogliamo nominare, perché preferiamo sperare ancora in qualche consolante rettifica. Comunque, il governo avrebbe tutto l’interesse a dimostrare che si è trattato di azioni non autorizzate, ma anzi deplorate e punite. Il semplice richiamo alla Rivoluzione e alla Ragione di stato non spiega e non giustifica nulla, poiché le azioni umane vanno soggette alle leggi della morale e alle sanzioni della giustizia, qualunque sia il loro fine e il loro carattere privato o pubblico. Frattanto, in mancanza di un giudizio meritorio, che gli organi più ottimisti e più scrupolosi vogliono ancora riservare, attendendo precisazioni e documenti si ebbe un’edificante discussione intorno ai metodi. La Reichspost ha protestato fieramente contro quei giornali bavaresi che volevano far dei confronti coi socialisti, impiccati nel febbraio a Vienna, durante la sommossa, dopo regolare giudizio statario; mentre dall’«Università per la storia medioevale» di Liverpool viene ricordato, di fronte ad un articolo del Times, che qualificava come «metodi medioevali» e come una «ricaduta nei tempi di Riccardo III» i fatti germanici del 30 giugno, che caratteristica del medio evo fu la riverenza per il diritto e per la legge e sua qualità essenziale la fede che i principi della giustizia e della carità cristiana si potessero e si dovessero applicare anche all’interesse pubblico e alla città; Riccardo III e la guerra delle rose appartengono già alla rinascenza. Per conto nostro ci limiteremo a dire che simili fatti vengono esaltati soltanto in epoche, nelle quali è andato perduto il giusto concetto della dignità e della personalità umana. Questo si fonda sulla fede nell’anima, immortale, sulla convinzione che ogni uomo è un microcosmo che incarna un particolare pensiero divino, una persona con una propria sfera di diritti e di doveri verso Iddio e di fronte agli altri uomini; diritti e doveri che non si limitano alla società civile e temporale, ma la superano. Noi siamo quindi nella logica più perfetta, quando auguriamo che il partito dominante in Germania tragga almeno dalle tragedie di questi giorni la conseguenza che una vera rinascita nazionale non è raggiungibile, se non la si fonda sull’educazione sinceramente religiosa. Sparta non si può fondare sulle rovine di Sodoma, fu scritto giustamente dopo la morte del Roehm. L’austerità della vita, lodevolmente inculcata da Hitler, non si può alimentare che della fede religiosa. La Gioventù cattolica va protetta e favorita, l’opera educativa e sociale della Chiesa dev’essere considerata come un contributo indispensabile per il risanamento morale e l’evoluzione intellettuale della nazione. Forse in questi giorni nei quali si scopre che dietro l’esaltate virtù civili e militari si può nascondere tanta corruzione del costume, torneranno nella dovuta considerazione le umili ma sode virtù del cristiano, che contribuisce ogni giorno colla probità del suo lavoro alla ricostruzione della patria. Forse l’antica e provata scala dei valori ritroverà la sua applicazione anche nella vita politica e nazionale del terzo Reich. Certo che la svolta, se mai, dovrà essere rapida e profonda. Dalla lotta contro la Chiesa cattolica si dovrà passare alla leale applicazione del concordato, dalle misure prese contro von Papen ed i suoi fidi, ultimi rappresentanti del collaborazionismo cattolico, converrà giungere al riconoscimento dell’Azione Cattolica, quale indispensabile e preziosa cooperazione della ricostruzione nazionale. La seconda rivoluzione è finita. Ma sulle frontiere della Germania vive ed agisce lo Schwarze Front di Otto Strasser , fratello di Gregorio , che ha dei tentacoli segreti fra gli squadristi di dentro e insiste ora più che mai sulla vera rivoluzione nazionale che deve passar oltre, «sommergendo l’episodio hitleriano». La rivoluzione è finita, ma fuori l’esistenza di due quotidiani tedeschi come Die deutsche Freiheit nella Saar e il Pariser Tageblatt a Parigi dimostrano che l’emigrazione tedesca è ancora vitale ed ha propaggini nell’interno senza dire che il Neuer Vorwärts di Praga diventato a sua volta propugnatore della rivoluzione totalitaria, propina il suo veleno nelle sue edizioni in miniatura che arrivano fin nelle più remote contrade della Germania. Non sarà ora di pensare, come diceva von Papen nel suo censurato discorso di Marburgo, «che nessun popolo può restare in uno stato rivoluzionario perpetuo, se vuol rimanere nella storia?». Non sarà ora di «organizzare un ordine politico-sociale definitivo, stabilendo nello Stato una giustizia imparziale per tutti?». È questa la via che prenderà il Führer sbarazzato ora dei più violenti Unterführer? Una fitta nuvolaglia di tali incognite e di siffatti interrogativi si addensa sull’orizzonte. Le previsioni non ci paiono così semplici, come alla stampa francese che si limita a predire il trionfo della Reichswehr. Una delle due commissioni parlamentari d’inchiesta, nominate dalla Camera francese in seguito alla crisi del febbraio, ha concluso i suoi lavori. Si tratta della commissione incaricata di inquisire sulle dimostrazioni sanguinose del 6 febbraio, che provocarono la caduta del secondo ministero Daladier. Per quattro mesi nelle colonne dei maggiori giornali comparve il resoconto stenografico d’innumerevoli sedute. Migliaia di testimoni, dal presidente del Consiglio all’ultima guardia municipale, dai consiglieri comunali di Parigi ai dimostranti di ogni categoria sfilarono innanzi ad una trentina di giudici parlamentari per deporre sui precedenti, sui moventi, sul corso, sulle conseguenze della dimostrazione, sulle tendenze e sull’organizzazione delle società che vi parteciparono. Maggioranza e minoranza fecero a gara per allargare ed approfondire quest’opera di analisi e di vivisezione dei fatti e delle ideologie che li ispirarono. Fu certo un grande esame di coscienza che diede occasione di riflettere e fu anche, almeno in un primo tempo, una ricerca spietata di tutte le responsabilità. In questo senso ed entro questi limiti si può affermare che l’inchiesta fece opera utile, sbarazzando il terreno da molte interpretazioni insostenibili e da molte esagerazioni partigiane. Chi però a questo genere di commissioni parlamentari avesse chiesto di più e avesse da esse aspettato una formula di accordo e di pacificazione, si troverebbe oggi ben deluso, giacché la commissione del 6 febbraio terminò il 5 giugno con una conclusione di maggioranza ed una di minoranza: conclusioni naturalmente contraddittorie su certi punti essenziali. La minoranza avrebbe voluto colpire le responsabilità più alte del presidente del consiglio Daladier e del ministro dell’interno Frot , ossia accertare le responsabilità politiche: responsabilità di aver eccitato l’indignazione popolare giustificandone la reazione; responsabilità poi di non aver voluto o saputo impedire la repressione cruenta. Ma la maggioranza, costituita da radicali, socialisti e qualche moderato ribatté che, accettando le proposte della minoranza, si sarebbe finito coll’approvare le dimostrazioni violente della piazza, l’incendio doloso del ministero della marina e le barricate. Dopo questa prima battuta in contraddittorio, la minoranza abbandonò la seduta. Dato che avrebbe potuto esprimere questo suo giudizio anche in un rapporto di minoranza, la sua partenza va probabilmente attribuita al suo desiderio di non pregiudicare il proprio atteggiamento di fronte ai suggerimenti e alle proposte profilattiche che la maggioranza intendeva sottoporre alla Camera e al governo. Queste proposte invitano il governo a modificare la legge sulle associazioni in modo da poter sciogliere gli organismi che provocassero delle dimostrazioni armate, a proibire le milizie private e le uniformi politiche e «à interdire organismes présentant un caractère auctoritaire par leur discipline, leur encadrement et le pouvoir absolu des chefs». Quali prospettive avranno tali suggerimenti? La risposta non è urgente, le Camere si riuniranno in autunno. Ma intanto bisogna concludere che la situazione psicologica delle masse francesi e, più di loro, della classe dirigente, non è ancora tranquillante. Nonostante il lavoro positivo prestato in quest’ultimo periodo dal parlamento – risanamento del bilancio, riforma fiscale, grande piano di lavori pubblici contro la disoccupazione, preparazione della riforma statale – l’irrequietudine permane. Politicamente i liberali del centro temono di ricadere – dopo la parentesi Doumergue – sotto il dominio del cartello. Contro tale deprecata eventualità non vedono altra difesa che nell’introduzione della proporzionale, la quale costringerebbe ciascun gruppo a far da solo e libererebbe i radicali e i socialisti dalla tentazione di coalizzarsi per i ballottaggi. La Camera si è rifiutata di votare già ora la riforma e, benché il rifiuto non sia dovuto al cartello, perché i socialisti votarono in favore, i proporzionalisti accusano l’attuale maggioranza di volersi opporre alla sincerità elettorale. Per una parte cospicua, dunque, della società politica francese la rappresentanza proporzionale, si presenta come un insostituibile strumento d’igiene elettorale.
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Più che il discorso di Hitler impressiona il silenzio di von Papen. È il silenzio di un ostaggio del passato che attende di giorno in giorno la catarsi di un nodo tragico nel quale gli avvenimenti più forti di lui l’hanno coinvolto, ovvero è il silenzio di chi spera ancora e aspetta dall’indomani riparazione e vittoria? Questo vice cancelliere, sorvegliato da’ suoi subalterni e sospettato da’ suoi amici, questo governante, assediato dai suoi governati, costituisce l’elemento più sintomatico ed insieme più problematico della situazione tedesca. Che dire del cattolico von Papen, del negoziatore del Concordato, del fondatore della lega «Croce ed Aquila» , che si proponeva di riallacciare le nuove glorie del terzo Reich alle antiche tradizioni del Sacro Romano Impero; del presidente dell’«Arbeitsgemeinschaft deutscher Katholiken», il quale inaugurando lo scorso gennaio quest’associazione dei cattolici hitleriani pronunciava un non dimenticato discorso, in cui attribuiva al nazionalsocialismo gli stessi meriti ch’ebbe nella storia l’impero austro-tedesco nella sua trionfale campagna contro i turchi; di quel von Papen infine che nella stessa riunione, polemizzando colla lettera collettiva dell’episcopato austriaco, affermava che i principi ricostruttivi del cancelliere combaciavano mirabilmente colle direttive della Quadragesimo anno? Noi ben possiamo immaginare lo strazio del suo cuore cattolico all’annunzio dell’incenerimento d’un Klausener, alla notizia del massacro di Adalberto Probst , l’eroico presidente della «Deutsche Jugendkraft» di quei ginnasti che sfilarono pochi mesi fa sotto il colonnato di S. Pietro, di Federico Beck , il geniale fondatore dell’«Opera per gli studenti» e amico e collaboratore di Carlo Sonnenschein , di Gerlich, di Schmied ed altre vittime forse che noi, ma sicuramente non lui, il vice cancelliere, possiamo ancora ignorare. E certo egli fu presente in ispirito nella cattedrale di Düsseldorf quando 47 sacerdoti celebrarono le esequie del giovane Probst, tra i singhiozzi di una calca lagrimosa o a Berlino, quando il vescovo pronunciò laconicamente il necrologio del Klausener, come, con atto di lodevole fierezza, assistette anche di persona alla sepoltura del suo intimo collaboratore von Bose , vittima anche questa della terribile repressione. Von Papen è uomo di convinzioni sinceramente cattoliche e di sentimenti cavallereschi. Il suo silenzio non può essere quello di Pilato che, lavatosi le mani, si disinteressa poi delle vittime né può spiegarsi semplicemente colla proibizione del governo di criticare comecchesia i fatti del 30 giugno, infine con considerazioni di prudenza volgare. Il mistero ci verrà presto svelato, sia attraverso una precisazione delle responsabilità e del suo atteggiamento personale, in confronto del governo; sia con un’evoluzione della situazione generale che giustifichi o spieghi la silenziosa attesa. Nonostante tutto, arriva talvolta qualche notizia che ridesta la speranza. Di questi giorni, ad esempio, fu licenziato bruscamente il capo del fronte studentesco Staebel . Era, come Baldur von Schirach , uno dei più violenti e dei più anticlericali della sinistra. Si annuncia inoltre che, in seguito ai fatti del ’30, dovette riparare a Praga anche quello scrittore nazista von Leers , che fu uno dei promotori del neopaganesimo. Ma, di contro a questo, che dire della soppressione della «Corrispondenza cattolica» di P. Federico Muckermann S.J. , perché aveva riferito intorno ad una grande manifestazione cattolica sulla tomba di Ketteler? Diecimila persone si accalcavano quella sera nel duomo di Magonza. I minatori avevano portato di lontano il fuoco degli alti forni, per accendere una lampada votiva che dovrà ardere eternamente sulla tomba del grande vescovo sociale. Volle il caso che in quella stessa sera Hitler tenesse al Reichsrat il suo discorso apologetico e la polizia, applicando una norma generale, proibì durante la radiotrasmissione di questo, qualsiasi altra manifestazione. Perciò anche in duomo alle 20 si annunziò ai radunati la proibizione, e i canti cessarono e la predica venne differita alle 22. Ma la folla non si mosse e si dispose pazientemente ad aspettare. Ed ecco che a poco a poco, con forza irrefrenabile erompere da migliaia di cuori e levarsi in alto verso il mistero delle navate la preghiera. Pregarono così continuamente, in comunità di spirito, finché alle ventidue rispuntò sul pulpito il predicatore e ricomparvero nel presbiterio il vescovo e i sacerdoti… O Germania cattolica, Germania che preghi nei templi delle tue glorie cristiane, folla anonima, venuta di lontano in rappresentanza di altre numerose moltitudini della fedele Renania, noi ti comprendiamo e ti ammiriamo! Per te l’animo dell’osservatore straniero, colpito e sconcertato da fatti così disumani, rinasce alla speranza e vede ancora la tua patria tedesca riprendere il suo gran ruolo nella storia della umana civiltà. In questi giorni – disse Hitler al Reichsrat – «io stesso fui il Supremo tribunale del popolo tedesco». Oberster Gerichtsthof! L’état c’est moi! Stat pro ratione voluntas. Georing parlando il 12 luglio ai rappresentanti del P.M. proclamava: Prima esistette il popolo, e poi il diritto. Fu il popolo a crearsi il diritto e lo Stato… Das Recht und der Wille des Führers sind eins! Il diritto, e la volontà del capo sono una cosa sola. Chi sa quanti fra quei magistrati ossequiosamente annuenti avranno appreso sui banchi dell’università essere supremo vanto della Germania quello d’aver creato il «Rechtsstaat» , lo Stato di diritto appunto perché i suoi giuristi e i suoi politici s’erano imbevuti delle massime d’un Leibniz, d’un Kant, d’un Fichte, d’un Ihering . Eccola ora questa orgogliosa nazione che si chiamava «il popolo dei pensatori», che si vantava del «libero esame» e dell’«imperativo categorico» rinnegare ogni diritto naturale e rifarsi ai principi che il Barbarossa seppe ottenere dai suoi giuristi alla dieta di Roncaglia . Vendette della storia contro l’organismo di quei protestanti che, dopo il concilio vaticano, riversarono tanto sarcasmo e tanto dispregio sui popoli latini perché disposti a riconoscere l’infallibilità pontificia! In Germania si è arrivati a questo, che il Günther , uno dei teorici del razzismo e del nazismo, pubblica di questi giorni un libro intitolato «l’odio eroico». Vi si esalta l’odio eroico del capo che persegue implacabilmente i suoi avversari, «giacché quest’odio è superiore ad ogni diritto». A ragione l’ex ministro Mataja , parlando a Vienna sullo stesso argomento e confrontando i due metodi di repressione, applicati in Germania e in Austria, rilevava che se pur qui si deve ricorrere a misure draconiane, vi sono però delle leggi e dei giudici per applicarle. Dura lex, sed lex! Il riconoscimento d’un diritto e d’una morale, antecedenti e superiori alle umane volontà è principio indispensabile in uno Stato che vuol dirsi cristiano. Quando abbandoneremo mai, esclamò l’oratore viennese, questa mentalità della violenza, tramandataci dalla guerra, e ritorneremo a concezioni più umane? Il consiglio nazionale del partito socialista francese (S.F.I.O.) ha accolto con alcune notevoli riserve, tra cui quella che condanna la violenza sistematica, l’offerta del partito comunista di concordare un’azione comune «contre le fascisme et la guerre». Si dovrebbe trattare finora soltanto di un patto per dimostrazioni ed azioni pubbliche in comune. Ma nelle due parti molti sono coloro che tendono ad una «unità organica». Ad ogni modo di fronte al nuovo ordine di marcia, i partiti borghesi si affrettano ad invocare l’unione nazionale. Il Temps, precorrendo i tempi annunzia la concentrazione antimarxista in questi termini: «l’heure approche où il n’y aura plus en France, à quelques nuance près, que deux conceptions politiques opposées et affrontées: la conception démocratique et nationale, la conception internationaliste et dictatoriale, – l’enjeu de cette lutte n’étant rien de moins que la patrie et la liberté. Il va falloir, il faut se décider, définitivement et sans retour, entre l’idéalisme de la Révolution française et la révolution tout court». È possibile che questo sia veramente lo schieramento politico futuro della società francese; ma oggidì esso non sembra ancora probabile. Altri piani s’intersecano con quello su cui si vuole opporre la democrazia nazionale all’internazionalismo dittatoriale: interessi economici, direttive sociali, questioni di regime. Ma sopra tutto è vano ignorare il problema religioso. L’ideologia della Rivoluzione francese ebbe uno sforzo anticristiano, ereditato poi dai partiti repubblicani anticlericali che governarono da mezzo secolo la Francia. È vero che oggidì il clima è mutato, che il socialista Chastenet può scrivere a Doumergue una lettera per chiedere la riconsegna ai monaci della «Grande Chartreuse», e mietere non biasimi, ma plauso unanime; è vero che il campo della politica va disintossicandosi sempre più del virus anticlericale, ma in fondo la divisione classica del Montalembert in «fils de Voltaire» e «fils des Croisés» sussiste ancora. I cattolici francesi quindi stanno all’erta e diffidano dei blocchi. Non vogliono ripetere l’errore del boulangismo , dell’antidreyfusismo, del conservativismo monarchico. La parola d’ordine è: «essere sé stessi, non lasciarsi sfruttare per i fini altrui». Cl. Mauriès esponendo nella Vie Intellectuelle le speranze «des jeunes équipe catholiques» le mette in guardia contro i metodi di forza, ora in voga; come già Marcel Prelot nella settimana sociale di Reims aveva detto ai giovani che i regimi d’opinion, pur così discreditati oggidì, rappresentano tuttavia, «dans le concret et le relatif, le refuge suprême de ce personnalisme auquel vont comme les nôtres, toutes leurs aspirations». Richiamiamo l’attenzione dei lettori anche sul prezioso opuscolo «Pour le Bien Commun. Les responsabilités du Chrétien et le moment présent», lanciato da un gruppo di laici e scritto – dicono – da Gilson e Maritain . I francesi distinguono sempre fra «principes» e «techniques». Ora per la tecnica e la pratica l’opuscolo appare insufficiente, ma riguardo alle direttive, è luminoso. Non lasciarsi attirare né a destra né a sinistra, ma tendere con tutti gli sforzi a che «l’idée de la dignité de la personne humaine et de sa vocation spirituelle et celle du bien commun de la cité fondé sur la justice et l’amour» sostituiscano come principio dinamico della vita sociale «le mythe de la Classe, de la Race, de la Nation ou de l’Etat». Noi non sappiamo ancora in quale forma queste idee si faranno carne. Ultimamente un manipolo di cattolici alsaziani è entrato a far parte del gruppo Marin , ed esiste sempre un «parti démocrate populaire» il quale «confiant dans les destinées de la République et de la démocratie» si è di nuovo pronunciato anche recentemente per «une économie organisée» da contrapporsi al sistema del capitalismo liberale ed al socialismo di Stato e per una «réforme politique qui garantisse la stabilité ministerielle … qui améliore les méthodes de travail du Parlement et en délimite les attributions». Ma altre voci ancora si fanno sentire, come ad esempio George Viance col suo opuscolo «La France veut un chef» . Forse le nuove forze cattoliche non rafforzeranno formazioni esistenti, forse «tecnicamente», cioè nella pratica elettorale non cercheranno o non troveranno un’equivalente applicazione. Tuttavia quello ch’è certo si è che tali forze esistono e tendono a farsi valere. La reazione in Francia è in parte un fatto biologico della sua società dirigente, estraniata finora dai principi cattolici; ma per un’altra parte cospicua, essa è dovuta ad un accresciuto influsso del sentimento religioso. «Il n’y a jamais eu, dans la vie de l’Eglise de France, une telle fermentation, ni une telle allégresse … Quand la sève, au printemps, monte en chantant, elle fait craquer les vieilles écorces. Il reste encore beaucoup de vieilles écorces, mais il y a la jeune sève qui monte et qui chante …». Questa nota di fervente ottimismo che ci suona all’orecchio dal citato articolo del Mauriès, erano decenni che mancava nel concerto cattolico europeo. Dio ce la manda per consolarci di altri lamenti. Rallegriamocene! La «technique» sarà la preoccupazione dei cattolici francesi; ma questo grido di allegrezza, lanciato con sano ottimismo verso l’avvenire, è il canto delle speranze comuni ai cattolici di tutto il mondo.
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Al generale von Hindenburg i contemporanei, amici e nemici, riconoscono la corona d’alloro, riservata ai grandissimi; al pater patriae tutta la Germania tributa gratitudine e il mondo ammirazione; all’uomo nessuno può negare straordinarie virtù personali e civili, ma il presidente Hindenburg, come politico, è morto portando nella tomba il suo segreto . Rieletto nel 1932 con 19.360.000 voti socialisti, centristi, conservatori contro 13.417.000 dati a Hitler, licenzia alcune settimane dopo il cancelliere Brüning, capo della coalizione che lo ha portato sugli scudi. Lo licenzia, dicono, per uno scrupolo costituzionale, negando a Brüning il decreto che scioglie le milizie di assalto. Ma nemmeno affida il governo ad Hitler, anzi proclama in una dichiarazione solenne di non poterglielo dare, perché in sua mano diverrebbe il governo di un solo partito: questione dunque di principio e di diritto che viene presentata come insormontabile. Da Minerva in armi balza fuori invece allora von Papen, col proposito di attuare il piano dei conservatori, che è la solita illusione dei troppo furbi: sfruttare le forze rivoluzionarie naziste per i propri fini di restaurazione. Hitler non abbocca. Vuole essere cancelliere o niente. Von Papen è costretto a governare per sette mesi da solo e quando, col consenso del maresciallo, fa il colpo di Stato prussiano, mandando un plotone della Reichswehr ad arrestare tutto il ministero, oltre i democratici, si trova contro anche gli hitleriani. Goering, presidente del Reichstag, diventa il paladino della costituzionalità e della libertà contro il «reazionario» von Papen. Il quale, dopo aver tentato invano di truccare il III Reich da Sacro Romano Impero redivivo, pare inabissarsi per sempre tra i fischi unanimi della sinistra, del centro e degli hitleriani. Senonché dopo solo quattro settimane di dittatura militare, che porta il nome di Schleicher, von Papen riesce, rettificandolo alquanto, a riprendere il suo piano. Hindenburg viene persuaso che il comunismo è un pericolo grave ed imminente – e difatti negli ultimi mesi i comunisti sono cresciuti – e che Hitler, ben circondato, non sarà pericoloso. Hugenberg assume i ministeri economici, von Papen il vicecancellierato, un ambasciatore di carriera gli esteri , un generale la Reichswehr . Che cosa potrà fare questo povero cancelliere «neuropatico» – così lo dipingevano i feudali, – questo fanatico agitatore, venuto senza esperienza dalla piazza, in mezzo a tre o quattro esperienze così consumate? Non si era del resto tutti d’accordo nella politica estera e, all’interno, nella lotta contro la democrazia parlamentare? È vero che intorno ad una questione di dettaglio si era di parere diverso. Hitler, rivelatosi elezionista impenitente, voleva un plebiscito; gli altri, con in testa lo Hugenberg, sprezzavano i ludi cartacei. Ma tanto, se ci trova proprio gusto, lasciamolo che si scapricci! Così il 1 febbraio 1933 Hitler scioglieva il Reichstag. Fu un mese di propaganda rivoluzionaria turbinosa e travolgente. L’incendio del Reichstag portò all’incenerimento dei partiti di sinistra, alla débacle dei conservatori ed alla svalutazione dei centristi. Hindenburg veniva poco dopo invitato a firmare una legge di pieni poteri, che concedeva al Consiglio dei ministri il diritto di far leggi e al Cancelliere quello di promulgarle. Così in forza di questa legge, tutto l’antico – compresa la costituzione di Weimar – si dissolveva nelle mani di Hitler. L’autorità morale di Hindenburg era ancora grande, ma i poteri del Reichspresident passavano di fatto già allora al Reichsführer. Ed ecco il segreto del vecchio maresciallo. Da quel punto in poi – se si eccettua forse il suo intervento nella questione della Reichskirche – egli coprì, di fronte al pubblico, tutta l’opera rivoluzionaria hitleriana, fino alle esecuzioni del 30 giugno. Questa solidarietà di fronte ai contemporanei e alla storia, proveniva veramente dall’aver egli mutato opinione, o era soltanto una logica catena di cause ed effetti che lo trascinava ogni giorno più lontano dalle sue idee politico-costituzionali, che aveva fatte proclamare e stampare non solo nel 1925 , ma anche due anni addietro? Sono questi i segreti che i necrologi trasmettono inviolati alla posterità e che i superstiti, nell’amore e nell’odio, cospirano a mantenere. E tuttavia si vorrebbe scrutarli, perch’essi rappresentano quella verità umana, di cui abbiamo sete e per la quale solo la storia fu detta maestra della vita. La Reichspost ha coniato per Hitler, duce dell’impero, il titolo, evidentemente vezzeggiativo, di monocrate, ed Hitler se n’è vendicato proclamando il suo attaccamento più sincero al principio che «ogni potere viene dal popolo». Jede Macht geht vom Volke aus, diceva la costituzione di Weimar , e questa formola, presa dallo statuto belga, venne votata dai cattolici solo colla riserva di formali dichiarazioni esplicative, interpretando cioè che il popolo è colui che designa il detentore del potere ossia lo strumento per trasmettere il potere che deriva da Dio. Quante discussioni intorno a quest’atteggiamento dei cattolici belgi e tedeschi, quali spiegazioni per dimostrare che non si voleva accettare il principio della rivoluzione francese, espressamente condannato dalla Chiesa! Uno degli argomenti dei conservatori contro i parlamentaristi fu appunto questo, che bisognava finirla coi principi rivoluzionari del 1789 o del 1848, abolire l’elezionismo, sostituire al mandato elettorale il principio del capo. Come mai il Führer sente ora bisogno di contare in Germania le teste? Questa monocrazia assomiglierebbe dunque al cesarismo plebiscitario di Napoleone III? Quali sorprese ci potrà recare ancora questo nazionalismo germanico che si chiama socialista, per distruggere il socialismo; e diventa plebiscitario, per abolire la democrazia? O sarebbe vero che in una forma o nell’altra – come sostiene Hanotaux nella sua «Storia di Francia» – il suffragio elettorale sia oggimai divenuto un’esigenza psicologica dell’età moderna, sicché i governi più assoluti, non se ne possano dispensare? «Noi siamo ben lungi – proclama per suo conto il nuovo cancelliere austriaco – noi siamo ben lungi, weit entfernt, dal considerare qualsiasi forma di dittatura come la forma ideale di governo. Siamo invece dell’opinione che un condiritto del popolo a determinare le sue sorti è una necessità…». Il ritorno alla forma della democrazia parlamentare è escluso – egli continua – ma troveremo modo di ripristinare il principio elettivo attraverso le corporazioni. Il popolo sarà presto chiamato a confermare le direttive di Dollfuss e dell’attuale governo. La rivista Der Christliche Ständestaat (lo Stato corporativo cristiano) cerca dunque ancora la sua formola pratica per applicare il principio già riconosciuto nella nuova costituzione; il terzo Reich presume invece d’averla già trovata nel plebiscito. Ma è caratteristico che, ovunque per demagogia o per sincerità si cerchi una nuova strada, essa non possa più accostarsi al tipo dell’assolutismo antico, ma debba tener conto perfino nella Germania di Hegel e di Fichte, del nuovo principio cristiano che Leone XIII richiamava colle parole: Est homo quam respublica senior! Gli è che il mondo, politicamente e socialmente parlando, non si può dividere in individualista e antiindividualista. Tertium datur; vi è anche un mondo personalista. Il personalismo cristiano afferma l’esistenza di una certa sfera di diritti personali, famigliari e sociali preesistenti allo Stato. Il nazismo è antiindividualista, ma anche antipersonalista, o meglio, è personalista solo nel senso che toglie alle persone dei cittadini la loro personalità per concentrarla in una sola persona. I cristiano-sociali viennesi, costretti alla dittatura per salvare l’indipendenza, indotti ad abbandonare il sistema parlamentare per non soccombere alla demagogia, spinti ad organizzare delle milizie di parte per contrapporle allo squadrismo hitleriano, si sforzano tuttavia di creare un sistema che non sia né statualista né individualista, che si fondi sulla forza della legge e non sulla legge della forza. Questo sforzo, questa ricerca fu la tragedia di Dollfuss. E quando si sente dire da qualcuno che i cristiano-sociali si perdono, perché non sanno usare i metodi draconiani di Hitler, o viceversa qualche critico, più a sinistra, vi spiega le presenti loro distrette coll’abbandono delle rigide regole della costituzionalità, entrambe le osservazioni, pur non colpendo nel centro, contengono una particella di vero, perché accennano ai termini estremi entro i quali si dibatte il sistema di governo a Vienna. Ma sarebbe ingiusto il concludere che si tratti di un barcamenare per mancanza di direttive interne e insufficienza di convinzioni. I viennesi non sono semplicemente contrari alla dittatura germanica, ma sono prima di tutto ostili al nazionalsocialismo, come ideologia politica e sociale. Uomini allevati alla scuola di Lueger, Schindler e Seipel, non possono venir classificati tra quei conservatori autoritari che, negando l’individualismo moderno, credono di dover rinnegare anche l’autonomia spirituale della persona umana. Essi cercano la forza del governo nella coscienza religiosa; il che vuol dire, credono che il personalismo cristiano sia la garanzia più sicura della coesione sociale. Pensano di creare all’istinto individualista, ridestato nell’anima moderna e tutt’altro che spento, un contrappeso nella coscienza cristiana; e cercano appunto anche nel metodo di governo quest’equilibrio fra autorità e libertà, tra forza e libero consenso. L’ideale radioso che brillò innanzi al congresso di Vienna, come meta lontana ma gloriosa, è quello che il Dutroncy esprime con queste parole: «Dans un milieu politique, idéal qui prendrait son inspiration dans l’Evangile, le salut de la société serait assuré par l’exercice des devoirs qui assurent l’émancipation et le salut de l’âme individuelle. L’autorité s’y exprimerait uniquement dans la langue de la liberté, c’est-à-dire que la soumission deviendrait volontaire et joyeuse, l’ordre public serait protegé, non plus par le service de la police, mais par celui de la conscience». Quale tragedia: avere dinnanzi agli occhi quest’ideale ed essere costretti, per legittima difesa, a rizzar delle forche e venir chiamati tiranni! Per questo Schuschnigg respinge sdegnosamente l’accusa di voler la dittatura sistematica e definitiva, quella dittatura che è una reazione istintiva della società divenuta pagana e che invece i tedeschi acclamano come il sistema ideale e conclusivo di governare una nazione. Caratteristico per la mentalità di Dollfuss è il mandato ch’egli diede a Winter , ora viceborgomastro di Vienna. Ernesto Carlo Winter, quarantenne, è uno scolaro di Seipel, con qualche derivazione da Othmar Spann . La «Metafisica sociale della scolastica» e la «Sociologia in Platone» sono due lavori che possono venire e furono discussi, ma attestano un pensatore ardito ed originale. Winter era partigiano di un accordo colla sinistra e tentò infatti ripetutamente, per sua iniziativa o per mandato ufficioso, d’indurre i socialisti ad appoggiare disinteressatamente il governo. Dopo la repressione del febbraio, il defunto cancelliere lo chiamò e gli diede l’incarico di accostare e riconciliare i rossi. Da quel momento Winter ispira l’Arbeiter Sonntag, settimanale scritto apposta per gli operai socialisti, con un programma laburista, a tipo anglosassone, nel quale giornale si sostiene che l’attuale dittatura è una misura transitoria e che il futuro Stato corporativo sarà conciliato colla democrazia e cogli interessi della classe operaia. Winter inoltre tiene e presiede delle libere serate di discussione nei quartieri operai, nelle ex camere del lavoro e nelle ex sedi del partito socialista; e in esse domina una libertà di linguaggio che in Germania porterebbe nel campo di concentrazione. Riuscirà questo tentativo di persuasione, quest’appello diretto alle coscienze? Certo esso è un apostolato degno dell’idealismo cristiano ed è opera di grande lena e lunga portata. La gioventù odierna, accesa più dalla fantasia che guidata dalla ragione, preferisce le cosiddette soluzioni dinamiche, il colpo di mano, il ricorso alla forza. L’impresa del Ballplatz è forse la più caratteristica dell’epoca postbellica, pur così ricca di rivolgimenti teatrali. Ma se riusciva, era davvero una soluzione? E chi conta le lagrime, le vittime, i disastri morali e materiali di tanta catastrofe? I popoli alla fine non progrediscono che se progrediscono moralmente gl’individui. E si può dare progresso morale senza elevazione e purificazione delle coscienze? Vero è tuttavia che il politico-cristiano che vuole rispettata la coscienza e salva la legge morale dev’essere pronto al successo, come all’immolazione. Hitler, anche dopo il 30 giugno, è circondato dall’aureola del trionfatore, Dollfuss morì dissanguato, senza che nessuno gli rivelasse che quei soldati non erano soldati e che la rivolta, capeggiata, come gli dissero, da un cristiano-sociale, era fallita. Morì come un vinto, e tuttavia è un vincitore! Di fronte a tanto e sì nobile idealismo chinino la fronte i machiavellici, i realisti e gli scettici. Tacciano riverenti quei letterati estetizzanti che serbano per i politici idealisti le frecce del loro sarcasmo. S’ispirino sopra tutto i giovani, ed imparino che la battaglia della vita è ancora degna di venir combattuta! I cattolici svizzeri annunziano nuovi progressi corporativi. Si tratta però di corporazioni libere che aspirano bensì ad una sistemazione giuridica, ma rifuggono sovrattutto dallo statalismo. Secondo il programma del 1924 gli svizzeri concedono ai poteri pubblici il diritto di vigilare perché fra le diverse corporazioni si mantenga un «equilibrio normale» e sia salvaguardata la pace sociale: e non più. La formola dei cattolici svizzeri rimane: sindacato libero nell’organizzazione autonoma e legalmente riconosciuta. La «commissione parlamentare per la riforma dello Stato» ha preparato in Francia anche un progetto di organizzazione corporativa. Si tratterebbe di riformare l’esistente «Consiglio nazionale economico», suddividendolo in venti sezioni professionali a carattere paritetico. Le sezioni verrebbero elette dalle associazioni professionali libere esistenti, in base ad un censimento da rinnovarsi ogni triennio. Niente dunque sindacato unico, giuridicamente riconosciuto, ma libertà sindacale per gli operai e per i padroni. Il Consiglio rimane un corpo tecnico consultivo; tuttavia l’art. 11 del progetto stabilisce che, entro otto giorni, gli debba venir trasmessa una copia di ogni contratto collettivo di lavoro e che vi debbano venir depositati anche gli accordi di trust, cartelli o convenzione di prezzi. Il Consiglio può proporre che certe disposizioni vengano rese obbligatorie per tutti, padroni e operai, di una data professione o di un dato ramo. Ma ogni decisione spetta sempre agli organi legislativi, cioè ai due rami del Parlamento. E l’accettazione del progetto da parte del Parlamento è tutt’altro che sicura. Già tuonano i pezzi dell’artiglieria pesante liberale. Joseph Barthélemy ammette nel Temps che si possa discorrere di rappresentanze consultive tecniche, ma mette in guardia contro la china scivolando sulla quale si arriverebbe ad affidare a simili corpi anche l’amministrazione dello Stato. L’esperienza, egli dice, fu già fatta. Nel 1789 le «assemblées de bailliage», incaricate di eleggere i deputati, erano costituite in maggioranza di rappresentanti delle corporazioni. Ebbene, furono proprio loro a darci la Costituente, definita a ragione dal Taine come «académie d’utopistes». Bisogna concedere o non concedere un prestito all’Ungheria? Separare la Chiesa dallo Stato? Concludere il patto a quattro? En quoi donc une assemblée de boulangers, d’electriciens et de parfumeurs aurait elle une capacité spéciale pour résoudre ces délicats problèmes?
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Paese ancora in piena ebollizione è la Francia, con una temperatura politica altissima; e dall’immensa folla dell’opinione pubblica sembrano levarsi dei vapori così densi da abbuiare ogni luce e render greve il respiro. Ma tratto tratto dei guizzi di fiamma vivida avvampano tutto d’intorno, soffocano e consumano ogni impurità, scoperchiano e sfogano la caldaia; e in alto vi appare il sorriso furbescamente bonario di papà Doumergue, messo lì a rappresentare il senso comune, il giusto mezzo, la risultante delle forze. Registriamo anche in questa quindicina alcune di queste manifestazioni contraddittorie dello spirito francese. In Lorena, per celebrare il ventesimo anniversario della vittoria, l’artefice principale di questa, il generale Castelnau , presenti Pétain e Lebrun , ministro l’uno, presidente l’altro della Repubblica laica, inaugura un monumento crociato, concludendo il suo discorso colle seguenti parole: «La grande vittoriosa, in queste lotte d’ieri, fu la forza morale, la potenza spirituale della Francia, creata, sviluppata, accumulata nella sua anima di cristiana da un passato multisecolare di saggezza, di lealtà cavalleresca, di buon senso, di nobiltà e di onore». A Nizza nel congresso nazionale dei maestri e delle maestre si decide in via di massima l’accordo sindacale coi maestri comunisti ed al canto dell’Internazionale si fanno voti per la «défense laïque», per la «libertà» contro «il fascismo», e fra altro, si delibera un violento biasimo contro Herriot, sindaco di Lione, perché ha revocato «au mépris de tout droit» ventidue impiegati municipali, i quali si erano rifiutati di prestarsi agli esercizi di difesa passiva contro i gaz, considerando tutta la manovra come «une parade menteuse et dérisoire». In mezzo a questi due raggruppamenti che molto semplicisticamente si dicono di destra e di sinistra, ecco levarsi, come conciliatori, degli uomini che furono combattenti, ma per il loro carattere sono ministri di pace; invocano disciplina e ordine, ma affermano esistere delle libertà essenziali che conviene riconoscere od accordare; sono conservatori, ma hanno l’occhio alle necessarie innovazioni per ristabilire la giustizia sociale. Nel suo congresso dunque, tenuto dal 7 al 9 agosto a Saint-Emilion, la «Ligue nationale des prêtres anciens combattants» ha voluto una risoluzione, nella quale si fa appello al civismo ed alla fraternità di tutti i francesi, si proclama la lotta contro l’egoismo dello spirito di parte e si precisa che «nessun programma di ristaurazione dell’autorità governativa e di organizzazione corporativa potrà aver effetto, se non sarà accompagnato da un ristabilimento della giustizia e dell’onestà, dalle libertà essenziali riconosciute e consentite a tutti i cittadini, e da una restaurazione delle forze spirituali, al primo rango delle quali si trova la religione». Uno dei libri oggi più letti in Francia s’intitola la «Révolution nécessaire» . Il mito rivoluzionario si è impadronito anche della gioventù francese. I destri vogliono fare la rivoluzione contro i sinistri o la repubblica, i giacobini contro la reazione, i combattenti contro i partiti, i socialisti contro il fascismo e i patriotti contro l’antifascismo militante. Sta bene, intervengono a dire i centristi del Temps: ma «le rivoluzioni non hanno procurato sotto nessuna latitudine la quiete e il benessere, cui i popoli aspirano. La crisi economica e finanziaria non risparmia paese alcuno, sotto qualsiasi regime. E si potrebbe perfino affermare che i paesi ad equilibrio meno instabile sono proprio quelli che ebbero meno avventure». In fondo – continua il Temps – che cosa sono le «rivoluzioni», dalle quali si attendono tanti miracoli? «Se non sboccano nell’anarchia, esse non sono che riforme amministrative e politiche… ossia la riforma dello Stato e la riforma elettorale che noi pure invochiamo e che se così si vuole, non ci spaventeremo se qualcuno preferirà chiamarle rivoluzione…». Politici razionalisti che tendono a combattere la suggestione del mito colla forza del raziocinio! Ma la suggestione della violenza e del dinamismo esteriore non si vince che col fuoco delle idee e col rinnovamento interiore dello spirito! Se ben ricordo, fu Woodrow Wilson che in un suo discorso rilevò una volta come ogni costruzione politica corrispondesse al sistema o meglio alla teoria dominante nel mondo fisico. Ai tempi, in cui s’imponeva la teoria di Kant e Laplace , le costituzioni degli Stati riuscirono un sistema di pesi e contrappesi, di forze e di freni per assicurare l’ordine, ma impedire la tirannide, per garantire la libertà, ma escludere la licenza, perché il presidente governasse, ma il congresso decidesse. Il democratico Wilson trovava che al tempo suo la costituzione americana andava interpretata diversamente in corrispondenza alla teoria energetica; la libertà intesa non come equilibrio di tendenze diverse, ma come energia creatrice. E Roosevelt sembra ispirarsi alla dinamo, ancora più del suo predecessore. Ora Max Hermant vorrebbe invece affermare che, al presente, fra la teoria scientifica dominante e la dottrina sociologica o politica più in voga esista contraddizione. Nella scienza della materia, egli dice, i fisici hanno dovuto concludere di non poter scrutare e scoprire le leggi che governano gli elettroni, gli elementi individui della materia, ma di dover limitarsi a registrare e studiare i fenomeni collettivi, dagli atomi e dalle molecole in su. Le leggi scientifiche sono delle regole medie, risultati d’un numero immenso di fenomeni elementari, che rimangono incontrollabili e che dobbiamo immaginare liberi, a scanso di non poterli nemmeno concepire. Con questo riconoscimento di libertà e d’indeterminatezza alle unità della materia, contrasta la moderna tendenza sociologica e politica sempre intenta a valorizzare la collettività in confronto dell’individuo. Nelle società primitive – continua lo scrittore francese – quello che conta è la tribù, l’orda, non la persona. Già il civismo greco e romano elevò la persona; «ma fu il cristianesimo quello che scoperse e proclamò che ogni essere umano ha un’anima eterna, fatta ad immagine di Dio, superiore cioè ad ogni cosa terrena, e collocò quindi la persona in cima alla scala dei valori… Si credeva che tale progresso fosse definitivamente acquisito, ma ecco che in Russia, in Giappone e in Germania l’antica filosofia delle tribù torna ad imporsi. Hitler dice ad ogni tedesco: la Germania è più reale di te, perché tu passi ed essa resta… La Germania non è una somma, ma un’unità. L’essere umano non è un’unità, ma una frazione … Nessun dubbio che una dottrina simile distrugga tutto ciò che il cristianesimo ha portato agli uomini. Ciascuno lo sente e la reazione si sviluppa. E coloro che cercano una direttiva per l’avvenire parlano anzitutto della dignità umana…». Nella sostanza, d’accordo – aggiungiamo noi – tuttavia, considerando la cosa da ogni lato, vorremmo quasi concludere che l’affermazione di Wilson vale anche per i tempi presenti. La scienza politica moderna s’occupa dell’alveare più che delle api, dà importanza alle collettività degli elettroni, ma lascia imprecisati e trascura gli elettroni stessi. Inoltre i difensori della dignità umana sono tutt’altro che d’accordo sul fondamento di questa dignità. Max Hermant e Daniel Rops la ricercano sovrattutto nei caratteri e nei privilegi dell’anima immortale, ma gl’individualisti liberali, come Benedetto Croce, la vogliono trovare «nell’immortalità vera e radiosa che va oltre l’individuo e non nell’immortalità monadistica che, (aggiunge il Croce) chiamerei pagana!». Povero Croce, avvolto nelle spire contraddittorie delle sue premesse hegeliane! Senz’accorgersi, egli trascura le monadi umane, come gli elettroni e, proclamando l’immortalità panteistica, usa proprio gli stessi concetti di Hitler, quando questi nel solenne necrologio annunciò che Hindenburg è entrato nel Walhalla . Contro l’eccesso del collettivismo, del socialismo, dello statalismo nazionalista o comunista non vi è che un rimedio: l’affermazione dell’individuo come entità metafisica. Richiamarsi invece all’individualismo liberale, cioè al culto della libertà, come religione dello spirito, significa sbagliar strada e dar facile giuoco a chi per combattere l’individualismo razionalista è pronto a buttarsi in braccio, senza troppo distinguere, all’antiindividualismo purchessia. Gli austriaci sono sempre in polemica coi tedeschi per la democrazia. Hitler rispondeva alle loro critiche, quando nel discorso di Amburgo riconfermava di accettare il principio fissato nello statuto di Weimar, che ogni potere viene dal popolo, ed aggiungeva di non aver potuto attendere l’esito del plebiscito prima di proclamarsi presidente, per timore di discordie interne. Gli è scappata bella, ribattono gli austriaci. Avere paura delle discordie interne, non significa quanto temere l’opposizione? E se non si aveva paura, perché mettere il popolo – dal quale emana il potere presidenziale – innanzi al fatto compiuto e al giuramento della Reichswehr? Molti del resto, dice il commissario austriaco di propaganda col. Adam , avranno votato in favore, perché messi nell’alternativa di accettare Hitler o provocare il caos. Ma il porre le coscienze dei cittadini innanzi a siffatta alternativa, non può dirsi metodo democratico, il quale vuole una maggioranza che governi ed una minoranza che controlli. Nel frastuono degli avvenimenti politici si sente oramai parlar poco della crisi protestante. Eppure anche sul terreno ecclesiastico le novità sono interessanti. Il 9 agosto venne convocato a Berlino quasi di sorpresa il primo sinodo protestante, secondo il nuovo statuto. A furia di nomine commissariali l’opposizione vi era ridotta al lumicino. Presiedeva il Reichsbischof Müller, ma dirigeva il procuratore Jäger, l’onnipotente funzionario del ministero dei culti . L’assemblea diede il benestare a tutti i decreti centralizzatori del Müller, stabilì che di qui innanzi le assemblee ecclesiastiche non prenderebbero più deliberazioni, ma darebbero solo dei pareri ed impose a tutti i pastori un nuovo giuramento, nel quale si riconosce Adolfo Hitler come capo della Chiesa. Poiché esiste in Germania la proibizione assoluta di parlare delle contese ecclesiastiche, non si sa esattamente quale sarà l’atteggiamento degli oppositori. Ma, secondo un’informazione della Reichspost, la lega dei pastori d’opposizione (Pfarrernotbund) avrebbe fatto leggere dai pulpiti già la domenica seguente una fiera protesta che nega ogni riconoscimento alle deliberazioni sinodali. D’altro canto si ha notizia di parecchie destituzioni e dell’intervento della polizia segreta (Gestapo) contro molti pastori, i quali rifiutano il giuramento. Si parla di «Katakombenprotestantismus» e si vuole appellare alla «solidarietà evangelica mondiale». Si spera nel congresso autunnale di Kopenhagen. Le speranze non dovrebbero essere molto fondate, quando si pensi che nel recente convegno federale protestante tenuto ad Hemmen in Olanda e al quale parteciparono rappresentanti di 85 «chiese», si parlò di proteggere le minoranze protestanti contro le maggioranze cattoliche, ma ci si guardò bene dal prendere atto delle vessazioni alle quali in Germania è sottoposta la «chiesa evangelica» da parte del nazismo. Nell’arringa del procuratore di Stato in Vienna durante il processo contro gli assalitori della Ravag abbiamo avuto la sorpresa di leggere questo ragionamento: «Tutti (gli accusati) erano dell’opinione che il colpo di mano riuscisse e, posto che riuscisse, tutto sarebbe diventato legale. Ed è veramente così! Perché ci sia alto tradimento nella logica del suo concetto, bisogna ch’esso fallisca. Se invece riesce, esso non esiste!». Sarebbe come a dire – e chi sa qual torto faremmo all’illustre magistrato – che, se il colpo fosse riuscito, il P.M. sarebbe stato dall’altra parte! Può essere, ma tocca proprio al custode della legge di proclamarlo? A meno che non si tratti di una ironia. E brameremo sperarlo.
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Parliamo un po’ degli Stati piccoli. La vicenda è meno drammatica, ma anche più controllabile e più analizzabile ad occhio nudo. Il nazismo, com’è noto, non si arrestò alla frontiera svizzera. Nella primavera del 1933 mentre Hitler trionfava in Germania, un professore di Zurigo, Ernesto Biedermann , fondava il «Fronte nazionale» , con un giornale Die Front ed una milizia, chiamata coll’antico nome della storia locale: Harst. Il terreno delle innovazioni e delle riforme era però già preoccupato dal «Nuovo fronte», organismo della gioventù liberale; Biedermann non fece che una secessione, protestando che il «Nuovo fronte» non era abbastanza nazionalista e dichiarando di disinteressarsi della riforma corporativa che i liberali avevano già messo allo studio. Il «Fronte nazionale» si diffuse a Zurigo e a Sciaffusa, e l’anno scorso conquistò 10 mandati su 125 al consiglio municipale di Zurigo. Ma perché i suoi progressi sono lenti, tanto che può contare al massimo su 20.000 elettori, in confronto di 950.000 che ne conta la Svizzera? Come mai il governo di Zurigo trovò la forza di proibire la milizia? Perché il movimento nazionalista stesso, venuto a sbattere contro le Alpi svizzere, si trova contenuto ed impastoiato dalle pregiudiziali democratiche, che costituiscono oramai una nota indelebile della mentalità svizzera. Il fronte di Zurigo infatti è nazionalista, razzista e autoritario come il suo genitore hitleriano, ma non giunge sino a proclamare l’assolutismo del Führer o di preconizzare il colpo di mano. Parla invece di riformare per voto di popolo la costituzione federale e, pur auspicando un presidente all’americana, si guarda bene dall’invocare l’abolizione del referendum popolare. Queste concessioni alla democrazia gl’impediscono la creazione del mito; ed ecco che il movimento stagna. E mentre ristagna, esso si vede subito circondato da concorrenti. Nella Svizzera tedesca i vari fronti di rinnovamento toccano quasi la dozzina, ed altri cinque se ne contano nella zona francese. Die Eidgenössische Front accentua il suo carattere cristiano (protestante), il Bund für Volk und Heimat è più conservatore e più cantonale, la Jungliberale Bewegung der Schweiz vuole rinnovare e purificare il liberalismo, Die schweizerischen Jungkonservativen sono i giovani del partito cattolico. Tutti questi gruppi vogliono innovare e ringiovanire ed hanno in comune la tendenza di rinforzare il potere esecutivo e di favorire – non tutti nella stessa maniera e misura – il corporativismo. Ma sorgono anche delle formazioni di carattere nettamente antitetico al nazismo. I repubblicani svizzeri sotto la direzione di G.B. Rusch si preoccupano anzitutto di difendere l’indipendenza svizzera e vogliono favorire lo sviluppo della «personalità non in un capo qualsiasi, ma in ogni cittadino». Il movimento della «Svizzera nuova» (Neue Schweiz), vuole essere al di sopra dei partiti, s’oppone al totalitarismo e alla dittatura, difende i principi e i metodi della democrazia e sovrattutto agisce per conto suo. Presa dai liberali di S. Gallo, quest’iniziativa ottenne poi l’adesione di cattolici, di protestanti, di socialdemocratici di destra. Nel suo ultimo congresso a Lucerna un prete cattolico celebrò la Messa da campo; e le riunioni furono poi presiedute da un moderato, ch’è ritenuto massone. Si lavora assieme, seguendo le tradizioni di Gaspare Decurtins. Terreno comune è il corporativismo. Si tratta di far passare nel Gran Consiglio una legge federale che, modificando l’art. 31 della Costituzione sulla libertà economica, renda possibili le corporazioni. Come base di discussione servì un abbozzo del liberale Schirmer di S. Gallo. Alla fine l’accordo venne raggiunto su di un progetto al quale aveva collaborato attivamente anche il christlich-nationaler Arbeiterbund. Siamo qui sempre ancora nel campo delle corporazioni facoltative e libere, e la meta è la formula cattolico-sociale: sindacati liberi rappresentati nella corporazione autorizzata. Abbiamo già visto altra volta che questa formola tiene il campo anche nella Svizzera francese, ove l’Union nationale et sociale de Fribourg, l’Ordre et Tradition de Vaud , il Front Valaisan , l’Ordre national Neuchâtelois e l’Union nationale de Genève lavorano già da tempo per la ricostruzione corporativa. Tutti questi «fronti» dunque, quando si tratta di attuare il loro programma puntano sulla revisione della costituzione (via lunga, sbarrata dai rossi, ai quali sono infeudati 2/5 dei voti) e cercano alleati, concludono compromessi. Il fascino del mito è sostituito dalla prosaica politica del possibile. Nelle riunioni della «Nuova Svizzera» si cerca la risultante svizzera. È il metodo migliore, rispondono gli Elvetici al muto interrogativo del cittadino dello Stato grande . «Per l’avvenire dello Stato democratico – afferma il noto scrittore corporativista cattolico di Lucerna Hofstetter-Leu –, questa collaborazione periodica di forze, organizzate su basi diverse, è metodo a lungo andare migliore e più sicuro di ogni esclusivismo». Notiamo, pour la bonne bouche, che ai lavori della «Svizzera nuova» partecipano anche delegati del «Fronte nazionale». Così il metodo tipico dell’Elvezia si è imposto perfino al nazismo, sul quale lo «svizzerismo» ha preso così una prima ipoteca. Tatarescu presiede un ministero di coalizione liberale-nazionalzaranista, collo scopo di riformare l’amministrazione e salvare il sistema parlamentare. In Giugno s’era telegrafato da Bucarest che, in seguito ad una protesta dell’esercito – l’esempio della Bulgaria aveva fatto colpo – era imminente la costituzione di un ministero di concentrazione, d’una specie cioè di gabinetto Doumergue, con alla testa Averescu e colla partecipazione dei piccoli partiti. Il suo programma sarebbe stato di abolire la proporzionale, rinforzare l’esecutivo e trasformare il senato in assemblea corporativa. Il re all’ultimo momento, innanzi all’atteggiamento risolutamente negativo dei due più grossi partiti, i liberali e i nazionalzaranisti, lasciò cadere la combinazione. Tatarescu ottenne invece dal parlamento una legge di pieni poteri che scade il 15 novembre, collo scopo di semplificare l’amministrazione, ridurre la burocrazia, che assorbe il 60 per cento delle entrate, e stabilire che, attuata una volta la riforma, nessun cambiamento sia più possibile per un ventennio, onde impedire la continua mutazione del personale. Il recente appello di Tatarescu alla solidarietà fra i due grandi partiti, venne motivato però anche dal proposito di attuare più decisive riforme. La nostra è la via legale e costituzionale, egli disse: se i partiti non la rendono possibile, il paese si getterà all’avventura. Si sa che anche in Rumenia s’invoca un terzo regno. Le «guardie di ferro» sciolte e proibite, vivono ancora illegalmente. Il loro programma boiaro e antisemita corrisponde agl’istinti profondi dell’anima rumena, che è essenzialmente rurale e odia ebrei e stranieri. Gli universitari, organizzati nelle «guardie di ferro» dal professor Cuza hanno trovato un alleato potentissimo in Cornelio Codreano , un maestro di scuola che in mezzo alle masse analfabete e superstiziose della campagna si fece credere l’arcangelo S. Michele, mandato dal cielo a liberare il popolo dagli strozzini e dai signori. Il suo successo anche fra il clero rurale fu tale che dovette intervenire con proibizioni e minacce di scomunica il patriarca ortodosso Miron Cristea . Cuza e Codreano godono pure di simpatie autorevoli. Il Re tuttavia sta fermo nella sua linea costituzionale. Anche in Romania come in Francia l’autunno deciderà se le invocate riforme verranno raggiunte col sistema parlamentare e per le vie legali o passando sul cadavere del parlamento. In Belgio si cura energicamente la situazione economica con un sistema creditizio che i competenti giudicano fra i migliori d’Europa e, per qualche istituto, assomiglia ai provvedimenti di risanamento finanziario presi in Italia. Il governo attuale pensa che qui stia la radice di ogni irrequietudine pubblica, e che, migliorata l’economia, il miraggio d’indefinite riforme politiche più o meno rivoluzionarie, perderebbe gran parte della sua suggestione. Abbiamo visto che anche le riforme costituzionali ed amministrative, elaborate dalla Destra cattolica, non escono dalle linee di una modesta evoluzione. Qualche politico dell’«associazione dei circoli», accetterebbe volentieri anche lo Stato autoritario, ma l’ala democratico-cristiana, capeggiata dal senatore P. Rutten, diffida delle soluzioni antiparlamentari. Lo si vide di nuovo nella recente settimana sociale di Lovanio che ebbe per oggetto di studio: «La classe operaia organizzata nello Stato». Le conclusioni della settimana sono nettamente contrarie all’individualismo liberale, ma proclamano «errore moderno» anche il totalitarismo nazista. Il compito più urgente – disse uno dei relatori della settimana – è quello di reintegrare la classe operaia nella comunità sociale, affrancandola dalle idee socialiste. Ciò si può ottenere colla diffusione delle idee democratiche cristiane e facendo della classe operaia uno strumento attivo del corporativismo professionale conforme alle direttive delle encicliche pontificie. Salazar, capo del governo portoghese, si è trovato anch’egli di fronte al fenomeno squadrista. Nonostante che nel Portogallo il sistema parlamentare sia stato abolito da un pezzo e che Salazar, riconosciuto dittatore per l’efficacia dei suoi provvedimenti finanziari, abbia introdotta anche l’organizzazione corporativa, sull’esempio dell’Italia, la gioventù portoghese subì tuttavia la suggestione, oramai europea, dello squadrismo; e sorse così per iniziativa di Rolão Preto e del conte di Monsaraz il movimento delle «camicie azzurre» con carattere sindacalista nazionale e tendenza antigovernativa. Salazar intervenne e mandò i due capi al confino. Ma dovette anche opporre squadra a squadra e così, facendo una concessione ai tempi, permise che si costituissero le «camicie grigie». Esse comparvero per la prima volta sulla piazza di Lisbona nel dì natalizio di Salazar e quando questi spuntò sul balcone del ministero delle finanze, l’enorme massa grigia levò il braccio al saluto romano. Otto Müller, comandante di reparto della «lega di difesa» socialista, durante l’insurrezione viennese del febbraio distribuiva ancora granate a mano ai difensori delle case operaie «Karl Marx». Fallito il colpo riparò in Russia, ove rimase quattro mesi. In luglio ritornò a Vienna, si consegnò alla polizia e fu condannato testé a sei anni di carcere. Durante il dibattimento, Otto Müller dichiarò che la situazione in Russia era tale da indurlo a ritornare in Austria a rischio di affrontare il carcere. Lontani dall’Europa: la grande attrazione londinese all’Albert Hall , durante l’estate che va morendo, fu il Pageant of Parliament. Era una serie di quadri plastici, che magnificarono la storia e le gesta del Parlamento inglese, ad incominciare dalla Magna Charta Libertatum, concessa da Giovanni Senzaterra fino al corteo reale per l’apertura della presente sessione . Psicologicamente dunque la Manica è un abisso. In quale città continentale un impresario inventivo si cimenterebbe a simile rischio? Leggendo tale notizia, si ripensa all’Avenir politique d’Angleterre del Montalembert . Il sistema parlamentare vive e supera le crisi soltanto là ove è storia e tradizione nazionale. «È urgente riformare lo Stato, ed è infinitamente più importante migliorare l’uomo e il cittadino…». «Infine fu un grave errore quello di pensare che un popolo si potesse soddisfare con progressi tecnici, che bastasse insegnargli il calcolo e la chimica e il modo di raggiungere la prosperità materiale. Un paese democratico ha bisogno d’una fiamma, d’una fede, d’un ideale. La democrazia francese ha soprattutto bisogno d’un supplemento d’anima». Chi scrive queste parole? Un predicatore, un misoneista, un medioevalista? No, è Joseph Barthélemy, pubblicando nel Temps un suo lucido commento al discorso di Norimberga, là ove Hitler dice che il nazismo aveva sopra tutto ridato un’anima alla Germania. Precisamente: questa Seele di Hitler è ciò che altri, sulla scorta di Giorgio Sorel, chiama mito. Ma ogni popolo cerca il suo mito nella propria epopea storica. I tedeschi nella selva di Teotoburgo e nel Walhalla , l’Italia fascista nel rinnovamento del romanesimo… Ma la Francia, ove prenderà questo «supplemento d’anima», finché rinnegherà le sue più gloriose tradizioni? Gesta Dei per Francos, fils des Croisés, Jeanne d’Arc! Voilà la question! Ed invece, anche oggidì che il governo Doumergue s’è accinto a far ordine, mentre si elaborano provvedimenti per ridare alla scuola un carattere nazionale, si ha fretta di rilevare che l’école laïque rimane tabù e che si tien fermo alla direttiva dei legislatori tipo Jules Ferry, i quali dégageaint l’école des liens confessionels, mais non pas des liens nationaux. Spezzare i vincoli più gloriosi col passato cristiano e voler ridare un’anima alla nazione, quale impresa disperata! Goebbels al congresso di Norimberga: «Nessuno ha portato ad un tal grado di virtuosità l’arte di dominare le masse; i tentativi fatti in altri paesi per imitarci sono quelli di semplici debuttanti». È vero, in nessun paese, come la Germania, il pubblico fu sottoposto ad un tal fuoco tambureggiante. Ma la prova che un simile metodo di suggestione collettiva organizzata possa portare effetti durevoli permanenti, secolari, è ancora da raggiungere! Benché lo Stato si sia impadronito di tutti i perfezionamenti della meccanica, l’individuo può ancora ritirarsi un qualche momento nelle cellule della propria coscienza. E in questa più serena dimora, il trionfo definitivo dell’idea dipende dalla sua veridicità intrinseca. Il Vangelo non è stato diffuso con parate né al suono di bellici oricalchi. La più grande impresa ideale dell’umanità, le crociate, fu predicata da uomini che percorrevano le contrade d’Europa in groppa ad una mula bianca.
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Due grandi riunioni hanno segnato nella repubblica spagnuola il prossimo cammino del suo sviluppo politico: l’assemblea degli agricoltori catalani, convocata in un cinematografo di Madrid, perché il governo della Catalogna l’aveva proibita a Barcellona, e l’assemblea regionale «de la Juventud de Acción Popular de Asturias» riunitasi, nonostante lo sciopero ferroviario, ordinato per impedirla, nel santuario di Covadonga . Il comizio di Madrid era stato promosso dell’«Istituto agrario di S. Isidoro» coll’intervento delle varie società agrarie padronali della Catalogna. Si trattava com’è noto, di protestare contro la legge agraria, votata dal parlamento catalano, «la ley de Cultivos», e sospesa poi come incostituzionale dalla Suprema Corte delle garanzie costituzionali. Il governo regionale del signor Companys s’infischia della sospensione e continua ad applicare una legge che i proprietari designano come legge di confisca. L’ordine del giorno votato assicura che i proprietari non si oppongono ad una giusta riforma dei patti colonici, ma vogliono che tale riforma sia «encuadrada dentro del concepto cristiano de la propiedad». Ma più che dal contenuto dei postulati agrari e di classe, l’assemblea assume carattere politico dal conflitto in atto fra i due governi e fra l’unitarismo spagnuolo e il separatismo catalano. Parole forti vennero pronunciate contro il governo di sinistra catalano. Gli organizzatori del convegno si preoccuparono tuttavia di non lasciar sorgere alcun incidente che potesse far sospettare il sentimento repubblicano dell’assemblea. Degli uomini politici vennero invitati a parlare dal podio solo i rappresentanti dei gruppi «gubernamentales» ossia dei ralliés, cioè Gil Robles per i popolari, Martinez de Velasco per gli agrari e Melquiadez Alvarez per i democratici. Anche i rappresentanti politici delle minoranze «gubernamentales» però protestarono energicamente contro il separatismo e contro l’eccessiva indulgenza dell’attuale governo. I popolari – disse Robles – non sono ostili ad una ragionevole autonomia delle regioni, ma lo statuto catalano, come venne indegnamente pattuito alla vigilia della rivoluzione, rappresenta un pericolo per l’unità e l’esistenza della patria. Analoghe furono le espressioni del capo degli agrari, e molto significative anche quelle dell’Alvarez, il quale rilevò che se non si riuscisse a costituire un governo parlamentare forte, si rischierebbe di sboccare in un regime dittatoriale. A Covadonga, raduno delle forze militanti e giovanili dell’Azione popolare, l’entusiasmo fu ancora maggiore. Squadre di giovani ardenti vi erano affluite da tutte le Asturie su ogni specie di veicoli. L’automobile, vincendo la concorrenza delle ferrovie, spodestò anche il sindacato dei macchinisti scioperanti. Del resto una colonna di popolari riuscì a partire da Oviedo anche per ferrovia, azionando essa stessa un treno, col concorso di un ingegnere ferroviario. Le vie erano piene di agguati e spesso rintronarono le fucilate. Ad ogni arrivo crescevano le notizie di nuove vittorie. Gil Robles parlò da uomo ch’è sicuro di trionfare. Bisogna dare addosso alla «rebaldia separatista de Vasconia y la rebaldia separatista de Cataloña y los traidores socialistas de España». Dalla vittoria elettorale è passato un anno di prudenza, di raccoglimento, di tattica contenutezza. Bisognava dimostrare che per la Spagna si sapevano sopportare gl’insulti, le devastazioni, le ferite. Ora la prova della nostra maggiorennità è stata raggiunta. Ora si tratta della Spagna, della sua unità, quindi avanti! Il nostro atteggiamento deve rendere possibile la formazione di un governo forte. Che se si volesse tornare alla sinistra e sciogliere le Cortes, noi affronteremmo il nuovo cimento, levando la bandiera della Spagna colla divisa: «En el pasado, per España todo; en el porvenir, contra España nada». Robles preconizza qui un’intensa propaganda nazionale. In tutto il mondo domina un’esaltazione patriottica, tutti i popoli si preparano ad essere spiritualmente e materialmente forti; soltanto la Spagna pare rinunciare alla sua storia ed alla sua missione nel mondo. Ciò non può essere. Ci applicheremo di qui innanzi ad esaltare il sentimento nazionale fino al parossismo, alla follia: meglio un popolo di folli che di miserabili! L’oratore raccomanda a questo punto l’austerità e la rinuncia ad ogni egoismo, ciò che è imposto dalla crisi presente. Non torneremo al passato, a quella che si chiama normalità del passato, ma ad un nuovo rigido sistema di giustizia sociale. La campagna popolare è terminata, ora comincia la propaganda per la Spagna. Ante todo España, y sobre España, Dios! Il contenuto ed il tono del discorso di Robles costituiscono un elemento di giudizio importante per valutare la situazione spagnuola che, dopo la scoperta delle armi socialiste, è giunta ad una svolta, piena d’incognite e di pericoli. Gli osservatori lontani non possono giudicare se l’opposizione contro l’entrata della Russia non si sarebbe più praticamente potuta trasformare in condizioni per l’accettazione, se cioè non sarebbe stato possibile e più proficuo di far rinnovare dalla Russia innanzi al mondo ed in forma più impegnativa le promesse ottenute da Roosevelt in favore della libertà di coscienza. Ma comunque bisogna sentire la fierezza che tre uomini di Stato cattolici Motta , De Valera e Jaspar abbiano fatto sentire con tanta forza e dignità le ragioni dell’idealismo. Né si potrà dire che si trattasse di burocrati retrivi o di Metternich in ventiquattresimo. La loro voce è la voce dei loro popoli. Motta ci tenne a rivelarlo, in orgogliosa antitesi contro l’oligarchia tirannica dei soviet: «Notre opinion publique est libre, spontanée. Nous possédons la liberté de la presse; il n’y a point, en Suisse, de presse officieuse, pas de pressions, pas même de directives. D’autre part, nous possédons des organisations patriotiques vigilantes et puissantes, animées d’un vif esprit de démocratie. Pas de démocratie, pas de Suisse. Dans une question importante comme celle-ci, notre opinion s’est exprimée et c’est la volonté nationale dont le gouvernement fédéral a dû tenir compte». E il rappresentante del Belgio non mancò di far sapere ch’egli parlava «au nom du peuple libre et démocratique qui est le mieu». Ah, se la Francia cristiana avesse confortato con la potente voce della sua storia il suo abilissimo ministro degli esteri , forse egli non si sarebbe accontentato di aderire alle parole di Motta e di de Valera «en historien»; ma avrebbe sentito che passato e presente lo autorizzavano a formulare se non le stesse, certo gli stessi voti anche come politico! Al congresso internazionale dei sindacati cristiani, tenuto a Montreux, il capo dei sindacati cristiani della Saar, Pick , aveva protestato contro la confisca fatta dai nazionalsocialisti della proprietà sindacale a Essen, a Colonia ed in genere in tutta la Germania. Era l’ultima voce di quell’organizzazione sindacale cristiana tedesca, che fino all’anno scorso era stata maestra dei movimenti similari in tutto il mondo ed esprimeva certo l’angoscioso pensiero di quelle centinaia di migliaia di operai, ora chiusi e sottomessi come in una botte di ferro nel «Fronte del lavoro» nazista. Ma non l’avesse mai fatto! Violenti attacchi della stampa germanica avvertirono il malcapitato ch’egli era caduto in disgrazia. Anche nella Saar se n’ebbe una ripercussione. Una mattina Pick, arrivato alla sede del suo ufficio e della federazione sindacale, la trovò occupata da una turba di persone. La polizia intervenne, ma appose i sigilli alla sede ed agli uffici. Contemporaneamente un manipolo di operai accusò presso il tribunale il Pick di sottrazione indebita: egli avrebbe cioè nel 1923 e nel 1927, sottratto dei fondi – per il 1927 si parla di 100 lire! – largiti dalla Germania per sostenere gli scioperi, più o meno politici, dell’epoca. L’accusa, non altrimenti vagliata, sembrò ai giudici locali sufficiente per dimettere il Pick e nominare un amministratore d’ufficio. La commissione governativa credette allora di dover intervenire anch’essa e nominò invece un comitato provvisorio direttivo, con alla testa un funzionario, concedendo al Pick ogni possibilità di difendersi. L’episodio non è chiuso, ma è già altamente significativo. Esso dimostra quale sia lo stato d’animo e di fatto di quel territorio nel quale l’anno prossimo si celebrerà il plebiscito. Si annunzia la morte della società dei fiancheggiatori cattolici «Arbeitsgemeinschaft deutscher Katholiken». In un comunicato la direzione del partito nazista dice che il compito di avvicinare i cattolici al nazismo è in gran parte raggiunto e che in ogni caso vi provvederà la sezione culturale della direzione stessa. Von Papen poi, sotto i cui auspici la società era sorta, aggiunge che, dovendosi egli assentare in missione diplomatica, era più conveniente che le funzioni della società venissero direttamente assunte dal partito. L’Arbeitsgemeinschaft era la seconda creatura di von Papen, una creatura già più sincronizzata col nazismo di quello che fosse la prima, tenuta a battesimo dall’ex cancelliere mentre ancora viveva il Centro, col nome «Croce ed Aquila». Croce ed Aquila rappresentava la aspirazione che il terzo Reich potesse diventare il Sacro Romano Impero redivivo; l’Arbeitsgemeinschaft si proponeva il compito più modesto di mettere d’accordo – così scrive il von Papen stesso – «il cattolicesimo tedesco colla dottrina politica del nazismo». La missione all’estero – non si tratta, com’è noto, dell’Estremo Oriente – è venuta a tempo per offrire il motivo formale di un assorbimento ch’era oramai nell’ordine delle cose. Ma che nel momento in cui il Reichsbischof Müller proclama méta del nazismo la creazione di una unica chiesa tedesca – romfreie – e il primo ministro di Baviera, Siebert, in un recente discorso dichiarava che il congresso di Norimberga aveva dimostrato «che ora non vi sono più protestanti nazionalisti, ma soltanto nazionalsocialisti di fede cristiana», la scomparsa di quest’organismo cattolico, non può considerarsi sintomo favorevole. Il congresso internazionale di filosofia, tenuto recentemente a Praga , ha dedicato un’intiera sezione alla «crisi della democrazia». Il problema del resto è sempre mantenuto vivo dai czecoslovacchi che, seguendo la scuola del Masaryk, sono fra i più caldi difensori del sistema democratico. Più di trenta oratori di varie nazioni parteciparono alla discussione. Gl’italiani – Orestano , Del Vecchio , Bodrero – misero in valore il regime fascista, rilevandone i successi sociali, spirituali ed economici, ma evitarono di contrapporre alla classica ideologia liberale una integrale dottrina fascista, forse perché non sarebbero stati tutti d’accordo sulle premesse filosofiche ed ideologiche della stessa. I tedeschi poi, evidentemente per ordine ricevuto, disertarono completamente la sezione politica, così che mancò il dibattito più interessante. La relazione quindi tenuta dal Barthélemy sul «valore della libertà» che metteva in giuoco i regimi totalitari coi regimi democratici non ebbe quella risonanza che l’autore sperava. Di questa relazione sono notevoli tuttavia le concessioni che l’illustre professore francese fa agli avversari. «Les régimes, comme les individus, périssent par leurs excès. Nous disons que la liberté constitue le fonds même d’un tempérament normal pour les peuples; mais les plus solides tempéraments peuvent être ruinés par une série d’imprudences». «… On a cru, dans trop de pays, que la démocratie pouvait se passer de personnalités …». «On a cru aussi que la démocratie pouvait se passer d’un idéal. On a laissé s’affaiblir le sens du collectiv … Le premier besoin de la société c’est l’ordre; la liberté ne vient qu’après …». «Le grand problème est de concilier la liberté avec l’ordre. Il n’y a pas pour le résoudre de formules magiques. Il y faut un effort de tous les instants». Sono affermazioni codeste molto generiche che difficilmente potevano provocare la polemica. La conclusione poi si adatta a tutti i paesi: «Il y a des enfants qui doivent être tenus en lisière. Il y a des colonnes vertébrales qui doivent être tenues par des corsets de fer. Je crois que le peuple français est un peuple majeur et bien portant, qui réclame la liberté et y a droit». E l’oratore, con sentimento d’orgoglio, ricordati i progressi sociali ed economici, nelle lettere, nelle arti e nel pensiero della Francia conclude che «les nations qui su ou pu rester fidèles à la liberté n’ont rien à envier à celles qui ont déserté ses drapeaux». Può essere; ma il rimprovero che il Barthélemy stesso in un’eco del congresso, comparsa nel Temps, muove ai suoi avversari, di non aver esposto i principi assoluti di una dottrina universalmente applicabile ed accettabile non valgono anche per chi vede nella democrazia un regime in condizioni relative di tempo, di luogo, di temperamento nazionale? Alla vigilia dell’elezioni cantonali (conseils généraux et d’arrondissement) che avranno luogo il 7 ottobre non si ha l’impressione in Francia che si debba venire ad un aspro urto politico. Il fronte comune dell’Estrema tenta invano di galvanizzare le masse intorno all’antifascismo, gabellando per «fascisti» tutti i moderati e parte dei radicali. Il giuoco di far apparire come avversari delle «libertà repubblicane» proprio i gruppi liberali democratici, i discepoli di Ferry e di Gambetta , non sembra destinato a riuscire. Finora anzi ha avuto l’effetto opposto, provocando una controffensiva contro il pericolo della dittatura di partito che potrebbe risultare da una vittoria dei rossi, contro l’étatisme in genere e specie contro le organizzazioni sindacali. La reazione invero è alquanto diversa secondo che si tratti dei radicali o dei moderati. I primi tengono fermo ad un programma sociale che li accosta per alcuni punti ai socialdemocratici e che in parte è già stato attuato in Italia. Essi non hanno paura dell’intervento dello Stato anzi preconizzano fino a certi limiti l’economia controllata. «È chiaro – afferma Camillo Chautemps in un discorso elettorale – che la prosperità nazionale non può risultare da un’economia anarchica, nella quale le categorie dei produttori si accaneggiano le une contro le altre nella ricerca egoista e spesso cieca del loro profitto. Conviene dunque che, nel quadro delle libertà pubbliche conservate e rafforzate, lo Stato politico ed economico venga riorganizzato e rinnovato». I moderati del centro invece, organizzati nell’Alliance démocratique , sono i liberali puri, sempre in allarme contro l’intervento statale. Nel loro manifesto, firmato dal ministro Flandin , si legge: «Se volete mantenervi liberi, diffidate dei settari e degli statolatri. L’économie dirigées est un leurre. Elle conduit à la dictature politique. Ni bolscevisme, ni fascisme, ni monopoles, ni taxations… mais rétablir progressivement la libre concurrence défendue réellement aussi bien contre les interventions des Etats que contre la pression des trusts, cartels ou coalition d’intérêts privés…». E qui l’«Alliance démocratique» passa al controattacco: Rifiutate il voto ai demolitori dell’ordine sociale e delle istituzioni rappresentative! Anche il proclama di Herriot segna su questo punto un netto distacco dai socialisti nazionali, che non vedrebbero male uno squadrismo di sinistra per reagire contro quello di destra. «Un’idea per noi domina su tutte le altre – proclama Le manifeste du parti radical socialiste. – Noi non vogliamo dittature di nessuna specie, né quella di un uomo, né quella di un gruppo, né quella di un partito. Noi siamo ostili a qualunque manifestazione di forza, da qualunque parte essa venga… Gli appelli alla violenza, sia pure dopo passeggeri successi, hanno finito sempre e sempre finiranno a vantaggio della reazione». Giacché la réaction è sempre lo spauracchio che tiene assieme i radicali. Quindi vigilanza perché siano osservate le regole del laicismo; quindi scuola unica di Stato, «uno dei più sicuri mezzi di progresso per una democrazia». Come se fino ad ieri da tutte le parti della Francia non si fossero levati alti lai sulla decadenza della scuola. Vero è che questa volta Herriot parla di «laicité entendue comme respectueuse de la neutralité et de la mutuelle tolérance». Ma a quali maestri sia affidata questa rispettosa tolleranza abbiamo visto al congresso magistrale di Nizza! La destra invece appare alquanto disorientata. L’impero del 6 febbraio è venuto meno smorzandosi nel materasso del ministro di unione nazionale. L’affare Stavinski è ad un punto morto, in seguito alla pubblicazione del rapporto Guillaume . Dato il temperamento francese, sarebbe arrischiato fare delle previsioni. Ma forse non hanno torto coloro che negano alle prossime elezioni amministrative qualsiasi effetto risolutivo.
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Sfuggire oramai al problema dello Stato significherebbe imitare lo struzzo. Lo ha avvertito anche il «consiglio ecumenico» delle chiese protestanti, radunato a Fanö (Danimarca) alla fine d’agosto . Come venne già annunziato, il «consiglio» decise di convocare nel 1937 un’apposita conferenza dei delegati di tutte le sette per discutere e deliberare intorno al problema politico, ai rapporti cioè fra Stato e Chiesa e fra popolo ed individuo. Si pubblica ora il testo della motivazione colla quale la proposta venne presentata ed accolta in consiglio. È evidente che l’impulso decisivo venne dalla situazione del protestantesimo in Germania; ma la motivazione abbraccia un più ampio orizzonte. Essa parla in genere della «straordinaria estensione delle funzioni statali, impostasi recentemente in tutti i settori»; «del sorgere di Stati autoritari o totalitari» e del fatto che la crescente organizzazione economica, resa possibile dalla tecnica moderna coincide con «una maggiore secolarizzazione del pensiero e delle azioni umane». Perciò le idee e la condotta, imposte all’individuo dall’autonomia dello Stato o dalla pressione dell’opinione pubblica «possono divenire inconciliabili col concetto cristiano del senso e del fine della vita». Il problema si fa acuto tanto nei paesi autocratici che democratici, perché la pressione sul singolo è ottenuta in entrambi colla scuola, colla stampa, colla radio e col cinematografo. L’entusiasmo per lo Stato può condurre anche ad un nazionalismo imperialista che rende difficile le relazioni fra i singoli Stati e minaccia la pace. Nel centro del problema sta il destino dell’uomo e si dibatte la questione se il primato spetti alla vita personale, alla personalità o alla collettività. La futura conferenza dovrà quindi rispondere ad interrogativi come questi: scopo, funzione ed autorità dello Stato; limiti dell’autorità politica; rapporti fra Stato e popolo; essenza della politica. Il secondo tema riguarderà i rapporti internazionali, la pace e la comunanza ecumenica delle chiese. Comitati e relatori speciali sono stati designati. Auguriamo buon lavoro! Se sarà così, i risultati non si potranno discostare dagl’insegnamenti degli ultimi Papi (ricordare specialmente la Costituzione cristiana degli Stati di Leone XIII e la Quadragesimo anno). Il che non significa che i cattolici, pur possedendo direttive precise e luminose, non abbiano il dovere di ristudiarle e ripensarle di fronte alla situazione presente ed a quella che si prepara per domani. A proposito: a Malines il 25 e 26 settembre si radunò sotto la presidenza del card. van Roey l’«Unione internazionale di studi sociali», l’associazione fondata dal Mercier per continuare l’opera dell’Unione di Friburgo. Erano rappresentate il Belgio, la Francia, la Germania, l’Austria, l’Olanda e la Svizzera: i cattolici italiani non hanno nulla da dire. Sul primo tema «organizzazione dei cattolici» vennero riaffermati i relativi articoli del «Codice sociale» di Malines ; sul secondo argomento «classi medie» venne votata una risoluzione che invoca «una organizzazione corporativa autonoma con poteri regolamentari, il che non esclude né il controllo né l’appoggio dello Stato». L’Europa, vista dall’America, deve sembrare una bolgia di esaltati. L’anglosassone col suo realismo terra terra non arriva nemmeno a rendersi conto delle origini e dei motivi della psicologia nazionalista. «La verità è, scrive il cattolico Commonweal del 21 settembre, che l’Europa is flirting desperately with Master Chaos – fa disperatamente la corte al signor Caos! Il sentimento nazionale intraprende ogni giorno dei voli stratosferici senza alcuna zavorra… Chi provocherà la prossima guerra avrà monopolizzato per sempre il nome di barbaro». Guardando però più attentamente, il Commonweal troverà anche delle manifestazioni che riabilitano in modo nobilissimo la mentalità europea. Volgiamo l’occhio, per esempio, a Lourdes, ove si svolge un pellegrinaggio internazionale di 60.000 combattenti. Ecco il sacerdote ed ex deputato Bergery che nel suo discorso, pronunciato solennemente dal pulpito del santuario, esclama: «Les morts ne veulent pas que vous vous soyez assémblés seulement pour chanter leurs louanges; ils ont compté sur vous pour créer ce qu’ils veulent: la paix définitive et non pas une paix de peur et de servitude, mais une paix joyeuse de liberté et d’honneur. La guerre est une abominable souillure, une régression vers la sauvagerie des premiers âges. La prochaine serait un suicide de l’Europe, où disparaîtraient les vainqueurs aussi bien que les vaincus. Si les diplomates n’appellent pas l’Ouvrier divin à leur oeuvre de Babel, nous, nous tendons nos mains vers un ciel qui pour nous est plein de promesses et de grâces. C’est pour le règne de cette paix totale et forte que nous sommes venus ici à la Grotte …». Quale appello più nobile, più eloquente di questo, col quale si concluse la magnifica orazione? «Camerati di tutti i paesi, avversari di ieri, fratelli d’oggi nella fede! Portiamo via da qui colle nostre bandiere le nostre immense speranze di soldati cristiani; noi strapperemo al cielo colle nostre preghiere, questo miracolo: la grazia della pace … Noi seminiamo nelle lagrime, ma altri raccoglieranno nella gioia!». E alla fede bisogna aggiungere l’azione, aggiunge in un suo altro ascoltatissimo discorso il cardinal Liénart . Il Vangelo contiene una legge di giustizia e di carità. Il Papa ha tradotto nelle sue encicliche questo programma d’azione. Bisogna applicarlo nella vita privata e sociale. Siate cristiani nella famiglia, nel lavoro, nell’organizzazione professionale, nel vostro lealismo di cittadini. Bisogna agire e parlare. Non mettiamo la fiaccola sotto il moggio. «Non abbiamo il diritto di riposarci, abbiamo ancora tutto un mondo da ricostruire!». Un mondo da rifare, «une civilisation plus belle, plus haute, plus humaine!». Un programma di attivismo cattolico lanciato in un mondo agitato da tutti i dinamismi più contraddittori. La sfida dell’ottimismo cristiano al Master Chaos! Gli è che, ritornati nei loro paesi, la voce dei cattolici incontra spesso una atmosfera di sospetto ed è soffocata dal frastuono delle imprese stratosferiche. Ma non è detto che, ove essi abbiano la possibilità ed il coraggio di agire, il loro pensiero moderatore non pesi sulla bilancia delle decisioni. L’opinione che Roosevelt non sia né un corporativista né un liberista né un solidarista, ma semplicemente un tempista, cioè un uomo il quale ricorre di volta in volta alle misure che gli sembrano utili o necessarie senza preoccuparsi di sistemi e d’ideologie, trova nuova conferma nella riforma della N.R.A. (Ufficio della ricostruzione nazionale) . Già si annunzia che il suo nuovo direttore avrà il titolo di «Coordinator», ossia le funzioni non più di dirigere l’economia, ma di coordinare le sue forze libere. In un momento di disperazione la dittatura della N.R.A. venne invocata ed acclamata da tutti, compresi coloro che ora la coprono d’infamia. Roosevelt sembra pensare che la N.R.A. della prima maniera fosse necessaria, quando bisognava rimettere in piedi il mondo industriale e che esso abbia esercitata in ogni caso una funzione utilissima evitando all’America un anno di terrificanti convulsioni. Quando si avverta, ad esempio, che negli Stati Uniti gli operai combattono ancora per la libertà sindacale, non si troverà strano che la N.R.A. abbia voluto imporre i suoi codici. Ma ora, dichiara il Presidente, i codici si attenueranno. Per via di accordi bilaterali si limiteranno le disposizioni troppo restrittive sui prezzi minimi e sui limiti della produzione. Gli scioperi? Bisogna evitarli, e il presidente rimprovera padroni ed operai di non essere ricorsi agli uffici statali di conciliazione. Si propone anche di convocarli per stabilire una tregua industriale, ma si affretta a dichiarare che non intende sottrar loro permanentemente «le armi ordinarie della guerra industriale». Oramai si tratterebbe dunque di «libertà sorvegliata», invece che di «economia diretta». Vero è che l’intervento più decisivo il quale guadagnò a Roosevelt il titolo di dittatore economico fu quello nel campo finanziario e quello sul terreno agrario: e qui l’esperimento non è ancora definitivo. Ma gli nuoce finora un paragone: l’Inghilterra, il Canada, l’Africa del Sud non hanno istituito organismi come la N.RA. e non sono intervenuti a limitare la libertà economica: e tuttavia la ripresa in questi paesi è più rapida, più significativa. Il problema ha molti lati e quindi le deduzioni possono essere sbagliate; ma il grosso pubblico, del quale Roosevelt deve tener conto per le prossime elezioni, è facilmente consequenziario. Perciò mentre da un lato si garantisce l’appoggio degli operai, assicurando loro i diritti sindacali, Roosevelt cerca di parare il controattacco dei conservatori, facendo delle concessioni sul terreno dei regolamenti industriali. Insomma, pare quasi che il New Deal stia per perdere la vivacità dei suoi colori. È un’illusione il credere – scrive C. W. Thompson nel Commonweal – che l’America del 1934 sia una cosa completamente nuova. È nuova soltanto per gli americani che non conoscono la storia. Ma chi la studia, troverà che la situazione di Roosevelt è assai simile a quella di parecchi altri presidenti dell’ultimo secolo; che è anzi una logica conseguenza di un’evoluzione politica, iniziata già con Lincoln. Vero è che la fantasia degli americani è stata colpita dallo spettacolo con cui il Congresso affidò al presidente poteri mai avuti. «Ma erano poteri d’urgenza e fu una legge d’urgenza, revocabile in ogni tempo. Quando tali poteri verranno revocati o semplicemente modificati, si starà a vedere; ma è notorio che nel Congresso, democratici e progressisti, dai Glass e Byrd ai Borah e Nye , sono tutti decisi per la revoca o la modificazione, non meno dei repubblicani». I giornali protestanti della Germania, informati dalla Deutsche evangelische Korrespondenz, organo della federazione evangelica, levano alti lai per l’arresto di alcuni pastori evangelici, avvenuto in Austria dopo l’assassinio di Dollfuss, e parlano di persecuzione religiosa, di furore antiprotestante, d’odio confessionale. A buon diritto si è risposto da parte ufficiale austriaca, controllando caso per caso e dimostrando che si tratta di arresti per complicità politiche in gran parte già revocati e che nulla hanno da fare colla confessione degli arrestati. La confessione augustana gode in Austria piena libertà ed è completamente equiparata, ricevendo anche le congrue degli ecclesiastici dal bilancio dello Stato. Come sarebbe facile, conclude l’organo austriaco, ritorcere l’accusa, dimostrando in qual modo vengano trattati i sacerdoti cattolici in Germania! Sul nostro tavolo sta una rivista ecclesiastica protestante che contiene una serie di lettere dall’Austria, scritte evidentemente da famiglie protestanti – anche di pastori – agli emigrati politici in Germania. Per esse pure vale la risposta dell’ufficio stampa austriaco. Tuttavia vogliamo aggiungere anche una considerazione generale. Tornano sventure, sacrifici, dolori! Anche chi crede che tutto questo sia prezzo di un balzo fatale del destino verso il progresso, si sentirà muovere dalla pietà a gridare: «Arrestatevi, frenatevi; affinché gli uomini che non trascinate nella vostra scia, abbiano almeno il tempo di sgombrare il cammino». In pochi mesi quante violenze e quanto sangue. Vittime illustri, vittime ignote… Caino è in giro per l’Europa. Mentre la resistenza passiva di Gandhi è in declino, l’attivismo violento diventa la regola dominante dei contrasti politici europei. E tutti tentano lo stesso coonestamento: la patria, la libertà, la giustizia, l’indipendenza, un’idea… Bombe, pugnali, rivoltelle, incendi. Strazi e rovine e lutti dovunque! Impossibile spezzare con un supremo arbitrato d’imparziale equità la catena dei rancori e delle rappresaglie, condurre a ragione gli esaltati e convincere i fanatici. Oltre i criminali, vi sarà sempre chi per erronea coscienza aspirerà alla gloria di Bruto, chi col rischiare la vita propria crederà di poter attentare all’altrui o chi infine ripeterà le parole dei Farisei esser meglio che perisca uno piuttosto che tutto il popolo. L’atmosfera di esaltazione nazionale in cui viviamo, il dinamismo eccessivo, prodotto dal culto esagerato dello sport e dal cinematografo, l’esempio della violenza che ha improntati dopo la guerra molti rivolgimenti politici, stanno preparando una generazione che subirà ancora più facilmente delle vecchie la suggestione del colpo brutale, e, impaziente di realizzare i propri ideali politici, sarà più che mai tentata di saltare ogni evoluzione, per tagliare con un colpo netto il nodo gordiano. Le lezioni stesse della storia subiscono interpretazioni contraddittoriamente soggettive. Se nella morte di re Alessandro gli uni vedono un grave pericolo per lo Stato unitario e per la nazione serba, altri vi vorrà vedere la liberazione da un’egemonia o la fine di una dittatura, onde dalle conseguenze, così variamente interpretate, è più facile ai fanatici di dedurre una giustificazione utilitaria del delitto che la sua riprovazione morale. Il cercare quindi delle ragioni politiche ed umanitarie per combattere il criminalismo politico, sembra impresa più che mai vana e disperata. Alla società civile non rimane altra salvezza che quella di ritornare alla vecchia morale ed al quinto articolo del decalogo: Non ammazzare! L’uccisione non è lecita per nessuna ragione, che non sia la necessaria e legittima difesa. Su colui che infrange questo precetto pesa la maledizione di Dio. Come scrive il poeta: … Caini novelli, maledetti da Dio, le mani affonderan nel sangue dei fratelli, e incalzati dal rimorso come lui fuggiran di Dio la faccia. Nessuna scusa, né l’amore alla patria, né la ragione nazionale, né la reazione a torti realmente o non realmente subiti; ma sola e per tutti l’universale e imprescindibile legge divina, scolpita nella coscienza di tutti gli uomini! Fino a che non verrà ristaurato questo supremo principio di morale e non lo si proclamerà francamente nelle scuole e nelle manifestazioni civili, nella stampa di ogni parte, invocheremo invano la scomparsa dai nostri costumi del delitto politico. Al cordoglio per la sventura che colpisce i popoli della Jugoslavia si aggiunge il dolore per il lutto francese . La preoccupazione infine che l’opera di pace intrapresa da Barthou possa subire un arresto tocca specialmente gl’italiani, che dalle comunicazioni fatte nel discorso di Milano, derivavano la speranza di un sostanziale riavvicinamento italo-francese. Voglia il Cielo che le preoccupazioni della prima ora si dimostrino esagerate e che dal sangue prezioso delle vittime, rifiorisca l’opera di pace ch’essi hanno voluto. Nella solidarietà del mondo cristiano a Buenos Aires, centinaia di migliaia di cuori innalzano preghiere perché anche la vecchia Europa riabbia la sua pace e a quelle centinaia di migliaia fanno eco tutti gli uomini, nell’animo dei quali l’amore cristiano soffoca ogni altra passione.
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Sarebbe dunque vero che l’unitarismo ed il totalitarismo nazionalsocialista avrebbero finalmente incontrato un punto di resistenza insormontabile? Il fatto dello scisma protestante è sovrattutto un fatto di politica ecclesiastica. È vero che l’opposizione parla molto di purezza della dottrina e della fede e che il punto di distacco iniziale si ebbe quando una frazione di cristiano-tedeschi, con a testa il Krause , mise in dubbio la divinità di Cristo. È verissimo inoltre che certe dichiarazioni fatte da professori del seminario di Rastenburg , che il Reichsbischof eresse lo scorso anno a seminario modello per tutta la Prussia, e alcune altre manifestazioni di pastori e fiduciari del Müller sollevarono l’indignazione di quanti preoccupa l’ortodossia luterana. Ma conviene pur ammettere d’altro lato che il Reichsbischof stesso si affrettò con precise dichiarazioni a riaffermare le basi dottrinali della chiesa protestante, rifiutando ogni razionalismo; che tentò tranquillare i trepidanti, mandando via il Krause, licenziando i pastori più compromessi e congedando perfino dal sinodo centrale qualche membro che aveva fatto dichiarazioni poco ortodosse. Il secondo punto d’attacco fu il cosiddetto paragrafo ariano . Anche qui il Müller fece delle concessioni; l’articolo venne modificato, poi addirittura soppresso. Alla fine poi «la chiesa dell’impero» sarebbe stata, secondo la costituzione primiera, una federazione di chiese regionali, che rimanevano autonome per quanto riguardava la professione di fede; una forma, senza contenuto proprio, che avrebbe tollerato entro di sé delle professioni di fede (Bekenntnis) diverse, come differiscono i luterani dai riformati (calvinisti) non solo, ma come variano tra loro le stesse sette luterane. Questa Reichskirche=conglomerato, rappresentava un compromesso fra il totalitarismo nazista, propugnato dai cristiano-tedeschi e l’autonomia individualista del luteranesimo, rappresentato dalla maggioranza dei pastori. Hitler parve arrestarsi su questa linea che il vecchio maresciallo , facendo un ultimo atto di energia, aveva ordinato di non varcare. Il protestantesimo germanico avrebbe potuto così trascinare la vita piena di contraddizioni che sempre visse, adornandosi in aggiunta di un esteriore decoro unitario, preso a prestito dalla «gerarchia episcopale» della Chiesa cattolica, e di un Reichsbischof, patriarca, se non papa di tutta la Germania. Ma il compromesso era in sé – così volessero o non volessero i compaciscenti – una menzogna. Col totalitarismo non si transige. O va proclamato nettamente fin dapprincipio ch’esso è un termine puramente politico, che non riguarda la sfera religiosa ed ecclesiastica, ed allora si arriva alla separazione o al concordato; ovvero si lascia ch’esso agisca ovunque secondo la logica del suo principio, ed allora l’autonomia della Chiesa è condannata a scomparire. Ora da un lato in parecchie occasioni Rosenberg e consorti non cessavano di proclamare che il nazismo era una fede, una Weltanschauung, dall’altro Müller, nel momento decisivo dopoché Stato e Chiesa cattolica avevano concluso il concordato, affermò che fra Reichskirche e Stato non ci sarebbero stati accordi o trattati, poiché lo Stato nazista era il naturale protettore della Chiesa protestante. Fu allora che nel campo dei pastori e teologi l’allarme divenne generale. Il cesaropapismo per la Germania protestante non è cosa nuova, fu anzi una conseguenza dello scisma luterano. Tuttavia i principi – tranne quel romantico riformatore che fu Federico terzo – pur manomettendo la organizzazione ecclesiastica, della quale erano summi episcopi, non toccavano la materia di fede e la Bekenntnis. Comunque erano una cinquantina e il loro stesso dispotismo trovava un limite nelle autonomie tradizionali e locali. Il nazismo invece è un dispotismo più pericoloso, perché trae, da una rivoluzione nazionale, la forza di superare tutte le tradizioni. La sua tendenza unitaria abbatte le frontiere regionali, il suo istinto centralizzatore assorbe tutte le fedi, il suo totalitarismo monopolizza tutte le forze. I cristiano-tedeschi si erano impadroniti del governo ecclesiastico ed esercitavano il loro dominio con una logica inesorabile. Morto Hindenburg, il primo statuto, frutto di compromessi, venne sostituito da una specie di legge de’ pieni poteri per il Müller e accanto a costui si levò prussianamente e brutalmente energica la figura del procuratore Jäger, braccio secolare che non attende fuori che gli venga affidata l’esecuzione della sentenza, ma che siede addirittura nell’aula pro tribunali. Allora alcuni uomini coraggiosi dell’opposizione, giocando il posto e rischiando l’urto colla polizia di Stato, crearono prima la lega di necessità (Notbund) dei pastori, poi risuscitarono in alcune regioni gli antichi «consigli dei fratelli», organi della vecchia chiesa; infine questi consigli regionali si radunarono nella scorsa estate a Barmen in un sinodo che pose le basi dottrinali dell’opposizione. Non ci domanderemo se a Barmen venne davvero trovata la formula che concilia la Bekenntnis dei luterani, con quella dei calvinisti o degli uniti. L’unità fu espressa nei confronti della Reichskirche e del nazismo, negativamente. Ricordate i punti salienti della dichiarazione barmense? «La Chiesa non deve mai sottomettersi alle correnti filosofiche o politiche di nessuna epoca … Non v’è nella Chiesa un Führer col diritto di dominio. Lo Stato ha il dovere di mantenere del suo meglio il diritto e la pace, con la legge e l’uso della forza. La Chiesa rifiuta ogni falsa dottrina secondo cui lo Stato dovrebbe e potrebbe divenire la sola organizzazione sociale della vita umana». A Barmen l’opposizione ecclesiastica si costituì anche formalmente, nominando un direttorio, a capo del quale sta l’ex superintendente della Westfalia Koch , il parroco di Altona e noto scrittore Asmussen e il pastore di Berlino (Dahlem) Niemöller . Da questo momento Müller e Jäger accelerano i loro provvedimenti, come gente che ha paura di arrivar tardi. Le chiese regionali, spontaneamente o per forza vengono inquadrate, ossia rimettono i poteri alla Reichskirche, che s’impadronisce dei seminari, delle opere ecclesiastiche, dei benefici e delle nomine alle parrocchie. Alle chiese periferiche non si lascia che la Bekenntnis. Ma chi salvaguarderà la dottrina, se tutti i poteri stanno in mano d’una chiesa centrale la quale dichiara essa stessa di non aver una propria Bekenntnis? Nell’impeto della conquista Müller ed Jäger si lasciano sfuggire dichiarazioni compromettenti. Il primo lancia il motto: un Reich, un popolo, una Chiesa; il secondo afferma che le professioni di fede si possono cambiare. Ecco che i pastori deposti, i teologi dell’opposizione, con alla testa le università di Lipsia e di Erlangen, insorgono in difesa della Bekenntnis, cioè della confessione augustana e alla Reichskirche oppongono la Bekenntniskirche (chiesa confessionale), al sinodo ufficiale un sinodo confessionale . All’atto di violenza usato dal procuratore sinodale contro il vescovo del Württemberg il sinodo confessionale risponde col dichiarare Müller e Jäger fuori della chiesa luterana e allo scioglimento dell’ultima chiesa autonoma, quella bavarese, col proclamare formalmente in una nuova assemblea tenuta a Dahlem (Berlino) lo scisma dalla chiesa statale, il rifiuto di pagare l’imposta ecclesiastica e col rivendicare a sé il carattere e la funzione di chiesa, tanto che il suo presidente, il Koch, ordinò imponendo le mani cinque nuovi pastori. Che farà ora il Müller, intronizzato di recente con pompa inusitata e fra il garrire festoso delle bandiere uncinate? Che farà Hitler, il cancelliere di confessione cattolica, il quale insegna nella sua autobiografia che il moderno politico deve guardarsi dal suscitare lotte religiose? Il fatto che l’opposizione germanica ottenne un voto di adesione ed incoraggiamento nel convegno estivo del consiglio ecumenico protestante, tenuto in Fanoe di Danimarca, e che l’altro giorno a Dahlem erano rappresentati gli anglicani e i protestanti svizzeri non gli deve riuscire indifferente. E qual delusione proprio per i circoli conservativi luterani, i quali avevano accolto il nazionalsocialismo come la salvezza contro il razionalismo liberale che corrodeva le midolla del protestantesimo! Si è dimostrato invece che il nazismo è ferocemente intollerante quando si tratta di pensiero politico, ma non abbastanza conservativo, per proteggere il tradizionale pensiero religioso. Anzi si avvera quello che avevano rilevato con apprensione i vescovi cattolici, che nelle sue dottrine ed anche in alcuni maestri che le diffondono – vedi il Rosenberg – s’insinua il veleno d’una Weltanschauung precristiana o pagana la quale, nonostante le dichiarazioni del Führer, lo può condurre a cozzare in pieno contro l’essenziali esigenze del cristianesimo. Si annunzia all’ultima ora che il consultore legale Jäger – figura caratteristica del cesaropapismo luterano – abbandona il suo posto per ritornare al ministero del culto. Sosta per riprendere la lotta, o ricerca di un nuovo compromesso? «Lerroux es un anciano de pulso firme, scrive il Debate, e gli anziani che conservano il polso sogliono essere i più adatti ad esercitare le funzioni di governo. Gli anni gli hanno dato la esperienza, la conoscenza della vita e degli uomini, la serenità per guardare il mondo ed i fatti … Lerroux è l’uomo dell’ora presente». Questo giudizio così lusinghiero, scritto dopo la vittoria antirivoluzionaria, fa credere infondate le voci di una nuova crisi, sparse all’estero forse dai fuorusciti. Conviene invece sperare che questa volta il tumore sia stato aperto fino in fondo e che l’infezione venga completamente cauterizzata. Bisognerà attendere ancora qualche giorno per farsi un’idea adeguata degli orrori, delle vittime, delle devastazioni di questa nuova rivolta. Ma intanto è già certo che si tratta di un’altra battaglia di retroguardia che il socialismo europeo va combattendo prima della sua rotta definitiva. Il socialismo parlamentare, una volta così sicuro dell’avvenire, così fiducioso degl’inevitabili progressi che parevano garantiti dal meccanismo democratico parlamentare, ha perduto la calma e la fede. L’intervento armato della reazione antimarxista in alcuni paesi europei lo ha sconcertato. Il fascismo, nei films di Mosca e paesi tributari, è diventato sinonimo dell’orco antiproletario : presi da pazzo terrore i socialisti di destra si abbandonano alle suggestioni della violenza e in braccio alle organizzazioni comuniste. Solo questo stato d’animo generale del socialismo mondiale spiega la disperata e disordinata insurrezione spagnuola. Giacché in Spagna chi minacciava il diritto comune e le libertà politiche e civili, il diritto sindacale e tutti gli altri diritti, dei quali il socialismo aveva così largamente abusato? I rossi erano stati battuti elettoralmente; ma collo stesso metodo, se ne avevano la forza, potevano riprendersi la rivincita. Il presidente Zamora aveva diretto loro pochi giorni prima un appello caloroso, riaffermando che la repubblica era aperta a tutti. Forse che Lerroux al governo coi popolari voleva dire la soppressione delle pubbliche libertà? Certo che Gil Robles non ha fatto mistero del suo proposito di voler arrivare una volta a riformare l’attuale sistema di governo, ma non ha mai patrocinato il colpo di mano, la soluzione di forza. Perché lasciarsi prendere dunque dal panico? Domande ingenue, quando si pensi che perfino in Francia il miraggio del «fronte comune» ha fatto vincere ogni scrupolo e calpestare ogni ragionamento. Nella Spagna inoltre ha contribuito assai alla decisione fatale la situazione interna del partito. Colla sconfitta della sinistra i moderati alla Besteiro si sentivano perduti; tutto un sogno di repubblica socialista, fondata su di un’impossibile legge agraria e sulla legislazione scolastica anticlericale crollava. I capi socialisti avevano perduto il tempo a fare dell’anticlericalismo e dal governo uscivano a mani vuote, cioè senza riforma agraria e senza aver socializzate… nemmeno le assicurazioni. La delusione degli operai dev’essere stata enorme. E così prestarono orecchio ai comunisti che coi loro metodi di inquadramento e di addestramento militare preparavano l’insurrezione, dando qualche garanzia di saperla fare. Gli operai vennero così fanatizzati per combattere l’ultima lotta in difesa della libertà. Qual significato avrà mai assunto nei loro cervelli arruffati questa magica parola? Libertad, gridò un minatore rosso in Barruclo (Palencia), mentre spianava la rivoltella contro il direttore del collegio marista. Invano il sacerdote gli ricordava d’aver fatto scuola gratuitamente per tanti anni ai figli dei minatori. – Ve l’ho educati, allevati, nutriti; e per gratitudine mi faresti del male? – Libertad!, replicò l’energumeno, e sparò. Qual devastazione morale in migliaia di anime, qual rovesciamento di coscienze! L’opera di repressione, necessaria per ristabilire l’ordine, è un nulla a confronto della bonifica morale, ancora più necessaria per garantirlo definitivamente. Per fortuna i cattolici spagnuoli, degni dell’ora che attraversano, ci hanno pensato subito. Nelle more dello sciopero è sorto a Madrid un «Frente nacional del trabajo», costituito in prima fila dai «sindicatos obreros católicos de Madrid» e poi da una serie di altre corporazioni operaie non socialiste. Questo fronte diventerà una formazione permanente, e già raccoglie cospicue adesioni fra le masse operaie, rimaste senza capi e senza mèta. Il manifesto del «fronte nazionale del lavoro» non si dirige soltanto contro le suggestioni del socialismo, ma anche contro il prepotere del capitalismo e la carenza dei pubblici poteri. «Lo mismo – dice l’appello – se fabrican rebeldes con el marxismo y sus afines que con las injusticias del Poder Público o con los abusos y atropellos de cierto sector del capitalismo». I cattolici s’incamminano dunque per una via programmatica sociale di centro. Analogo atteggiamento della «Juventud de Acción popular» che a Madrid e specie nelle Asturie ha collaborato validamente coll’esercito per la causa dell’ordine. Dopo aver salutati i propri caduti col grido della J. A. P. «Presente y adelante», la direzione centrale, mentre annunzia d’inviare nelle Asturie una squadra madrilena, aggiunge quest’appello per i compagni di provincia: «Avete lottato come leoni; oggi dovete aiutare come cristiani i vostri stessi nemici, per dimostrare praticamente che non cercate la distruzione degli operai, ma la loro salvezza e riabilitazione morale, liberandoli dai loro indegni sfruttatori. Todos movilizados en la obra de Asistencia social que en Asturias se va a iniciar!». Le revolverate di Marsiglia, le scariche di fucileria di Barcellona e le cannonate di Oviedo hanno turbato il raccoglimento, col quale la vecchia Europa, così gravata di colpe e pur così incline a ravvedersi, assisteva alla mistica celebrazione di Buenos Aires . Ma chi anche negli anni avvenire, non leggerà con edificazione il mirabile discorso del presidente argentino ? La grande stampa, che ha affettato disinteresse o indifferenza, faccia ora ammenda e riproduca quel documento che fa altissimo onore a chi l’ha pronunciato ed alla nazione, della quale ha così veramente interpretati i sentimenti. Intanto rimane significativo che un giornale come il Temps riporti sul congresso una larga corrispondenza, la quale dopo aver affermato il trionfale ed insuperato successo della mondiale manifestazione scrive: «Le congrès de Buenos-Aires est un témoignage irrécusable du redressement moral qui s’accuse dans le monde entier. Qui y a assisté ne peut douter qu’aujourd’hui les masses, lassées des violences politiques et des vaines promesses cherchent à mettre l’accent sur les valeurs spirituelles les plus hautes, les plus stables, les plus lumineuses. Au moment même où tant de désunion apparaît à la surface des peuples, il semble que monte des profondeurs un grand appel à l’unité fraternelle que les “hommes de bonne volonté” doivent entendre et satisfaire». E più sotto un’altra osservazione di minor ampiezza ma che merita anch’essa di venir registrata: «Il faut admirer aussi le succès incomparable du congrès eucharistique actuel. Ce qui me frappe surtout c’est combien les peuples d’Amérique savent unir à l’élan de la jeunesse un sens de l’organisation au moins égal à celui de nos vieux peuples d’Europe. Tous les progrès modernes ont été mis au service du congrès avec une remarquable intelligence organisatrice. Et nous rapporterons d’ici, outre d’immenses bénéfices spirituels, une confiance rajeunie dans la force et la supériorité de l’esprit latin».
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In Germania l’università si accosta sempre più alla caserma. In base ad una nuova ordinanza «per la formazione della gioventù universitaria» d’ora in avanti ogni studente universitario novello sarà obbligato a frequentare i due primi semestri presso la stessa università e precisamente in camerata (Kameradschaftshaus) , portando un’apposita uniforme. Durante questi due semestri egli verrà educato militarmente e formato politicamente secondo i principi del socialismo nazionale. Vero è che tale ordinanza venne per il momento attenuata da una seconda che crea un periodo transitorio, anche perché le case-camerate non si possono improvvisare. Ma il programma finale verrà tenacemente proseguito, fino che, come disse il Rosenberg agli studenti del politecnico di Monaco, tutti gli spiriti saranno in uniforme (geistige Uniformierung des deutschen Volkes!). Il peggior lato però del nuovo ordinamento è la tendenza a creare una classe di privilegiati ed un’altra di diseredati. Siccome in ogni università può essere introdotto il numerus clausus, avverrà quasi ovunque che coloro i quali avranno superato la maturità, verranno sottoposti ad un nuovo vaglio e prima di essere ammessi all’immatricolazione universitaria dovranno subire un «esame politico», nel quale naturalmente sono decisive la purezza della razza ed altre simili discriminazioni. Si viene così ricostituendo il privilegio e ristabilendo la disuguaglianza dei cittadini innanzi alla legge, e si finisce coll’abolire quell’eguaglianza giuridica, che Montalembert, magnifico campione dell’aristocrazia sopraffatta nell’89, esalta nei suoi «monaci d’occidente» con queste parole: «Je salue avec bonheur cette conquête inestimable de l’égalité devant la loi, plus précieuse mille fois pour les vaincus que pour les vainqueurs, lorsque l’hypocrisie ne la confisque pas au profit du plus fort». Naturalmente tanto i novatori della Russia quanto quelli della Germania non mancano di argomenti per difendere questa loro ristaurazione. Anche i nostri vecchi difendevano la necessità di distinguere, di adeguare, di tener conto dei servizi prestati. Quel bando storico del 1587 che vietava certe scommesse «sotto pena di 500 scudi ai signori, 5 anni di galera agli artigiani e della galera perpetua agli ebrei» corrispondeva per i nostri antenati ad altrettanti eccellenti criteri di discriminazione. Tuttavia non è chi non veda che l’esperienza storica ci ha condotto all’eguaglianza giuridica, come l’età più matura conduce alla saggezza. La via su cui camminano Stalin e Hitler riporta l’umanità all’indietro. È chiaro che il capo del fascismo italiano ha voluto vantaggiosamente distanziare la sua rivoluzione dalle altre due, quando nel recente discorso tenuto in Campidoglio alle Corporazioni ha inserito questa dichiarazione, meritevole d’ogni rilievo: «Il secolo scorso proclamò l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge – e fu una conquista di portata formidabile – il secolo fascista mantiene, anzi consolida questo principio». Abbiamo riferito nel nuovo ministero francese il sintomo di una certa ripresa liberale in senso economico anzitutto, ma poi anche per naturale concomitanza, in senso politico e civile. Qui e lì uomini del vecchio indirizzo che sembravano oramai in piena ritirata suonano a raccolta e tentano la resistenza. Uno di questi allarmi è anche il discorso del «generale» sud-africano Smuts , nell’atto di uscire di carica da presidente onorario dell’università scozzese di S. Andrea, per far posto a Guglielmo Marconi ; discorso largamente riprodotto dal Times. Dopo essersi espresso in senso ottimista circa il pericolo di guerra ch’egli, nonostante il crescere delle uniformi in Europa, non ritiene imminente, l’uomo di stato inglese rivolse ai professori e giovani universitari che lo ascoltavano un ardente appello perché difendessero la libertà. «La libertà – egli disse – deve passare al contrattacco per salvare se stessa e la nostra equa civiltà occidentale. Ancora una volta i nostri baldi giovani sono chiamati alla riscossa e forse non esagero, quando affermo che quello che noi chiamiamo libertà, libertà nel pieno significato della parola – di pensiero, di parola e d’azione – come manifestazione della personalità, ce n’è oggi in Europa meno che non ce ne sia stata negli ultimi due mila anni»: affermazione questa che potranno registrare i cattolici, accusati per tutto il secolo XIX da liberi pensatori e socialisti d’avere represso negli anni del maggior influsso religioso ogni libertà. In questi tempi, continuò il generale, in cui l’infezione si propaga in tutti i paesi perfino «in quest’isola culla della libertà costituzionale» incombe ai giovani il dovere di difendere la libertà «la quale non dev’essere semplicemente il nostro ideale politico astratto, ma la forza creatrice che c’ispiri ad azioni generose… Libertà interna e armonia spirituale (harmony of soul), libertà sociale ed eguaglianza innanzi alle leggi, quale fondamento dello Stato, libertà internazionale nelle leggi di pace e di giustizia, questi dovrebbero essere gl’ideali creativi della nuova era… Libertà creatrice è la parola d’ordine dei nuovi tempi e ad attuarla dobbiamo tendere tutti i nostri sforzi: creative freedom is the watchword of the new order…». Il «parti démocrate populaire» ha tenuto a Marsiglia il suo decimo congresso. Sul terreno della politica immediata nessuna nota particolare che lo distingua dai repubblicani moderati: tregua, unione repubblicana, riforma dello Stato (con particolare accentuazione della proporzionale). È nella riforma economica che troviamo una particolare caratteristica di questo partito: «sindacalismo» alla base, organizzazione della professione, il che equivale alla vecchia formola dei cattolico-sociali: sindacato libero nella corporazione obbligatoria. Il leader del partito, Champetier de Ribes , nel suo discorso riassuntivo fece rilevare che il regime parlamentare, come funziona attualmente, non può attuare le grandi riforme finanziarie economiche ed organizzative che sono necessarie per superare la crisi. Quindi riforme e adattamenti, che non tocchino però il fondo del metodo democratico. «Autant nous sommes attachés à la forme démocratique de nos institutions autant nous sommes persuadés qu’il est urgent d’adapter ces institutions aux besoins modernes de la vie et aussi nos moeurs aux exigences de la morale». L’esigenze della morale hanno ispirato la perorazione del discorso: forza morale degli onesti nel mondo degli affari, forza morale dei capi di famiglia, forza morale dei giovani che devono mantener fede agl’ideali, forza morale dei vecchi, che ricordando le gloriose tradizioni, non devono disperare dell’avvenire. Al congresso radicale di Nantes non si parlò solamente dell’attualità politica e parlamentare, come fecero apparire i grandi giornali d’informazione. Il resoconto più ampio e più riposato d’una rivista richiama la nostra attenzione su di una di quelle assemblee collaterali che nei congressi hanno molte volte importanza maggiore delle adunanze plenarie: il congresso annuale della gioventù radicale (jeunesses radicales). Il mondo è ben mutato! Non molti anni fa tali assemblee ci sarebbero apparse come le assise del più arrabbiato giacobinismo. Quest’anno invece abbiamo assistito a un dibattito altamente significativo. Il relatore Moch lesse una relazione intorno alla «irrequietudine della gioventù». «In faccia a tutte le deficenze e a tutti gli errori del tempo presente – egli conclude – e sovra tutto innanzi alla disoccupazione, è assurdo ricorrere alla rivoluzione o al comunismo che ci apporterebbero una miseria ancor più grave». Ma e allora? Ove il rimedio? Quale ancora di salvezza ci offrite? Ed ecco la saggia risposta del relatore: «Attachez vous à un idéal moral, à la probité, à l’honnêteté, à la modération dans vos désirs, à une doctrine spiritualiste, et ressaissez fortement la notion de la personne humaine et de sa dignité». Ricorrete ad un ideale morale, siate onesti, moderate le vostre esigenze, ispiratevi ad una concezione spiritualista! Raccontano i testimoni oculari che questo soffio d’idealismo ch’emanava dalle parole dell’oratore commosse ed afferrò tutto l’uditorio e che perfino i vecchi, che stavano sul podio, Daladier, Herriot, Berthod e Ivon Delbos , applaudirono entusiasticamente. Herriot rincalzò la stessa tesi dell’oratore con argomenti dell’esperienza e, dopo aver insistito contro l’assurdità della soluzione collettivista, confermò: «que c’est la baisse de la moralité, de la probité, des vertus de sacrifice et de patience qui a engendré la crise». Non sappiamo in verità se i giovani radicali tireranno per sé le logiche deduzioni di questa tesi spiritualista! A suo tempo abbiamo qui registrato l’o.d.g. votato nell’ultimo congresso internazionale dei sindacati cristiani a Montreux contro l’unità sindacale, imposta dal governo cristiano-sociale in Austria. L’amichevole dibattito fra i franco-belgi-olandesi e gli austriaci, aveva lumeggiato con tutta la concretezza di un caso pratico la vessata questione della «libertà sindacale». Nessuna meraviglia che Serrarens ed i suoi amici, i quali in una loro tenace battaglia, combattuta in patria e a Ginevra presso l’ufficio del lavoro, avevano finalmente – contro le tendenze monopolizzatrici dei socialisti – conquistata la «libertà sindacale», cioè il riconoscimento di diritto e di fatto delle organizzazioni cristiane, abbiano creduto di dovere per coerenza pronunciarsi contro un provvedimento di monopolio da qualunque parte venisse. Ma anche i cristiano-sociali accamparono delle buone ragioni, quando fecero risultare il carattere evolutivo e di necessità della sistemazione, impostasi a Vienna, dopo la rivolta del 6 febbraio. Tuttavia la questione continua ad agitarsi ed è del 17 novembre un numero speciale della Vie Catholique, dedicato al «sindacalismo cristiano e all’organizzazione corporativa», nel quale con larghe citazioni di encicliche papali e della dichiarazione de’ vescovi francesi del 1934, si vuol rivendicare «avec l’Eglise la dignité de la personne humaine et la liberté légitime des syndicats en face du danger que ferait courir à l’organisation professionnelle un organisme autoritaire et étroit». Né risolve la questione il prof. Muller d’Anversa, il quale, a proposito del Portogallo, scrive che se in Francia e nel Belgio i cattolici, di fronte al predominio socialista, devono difendere i sindacati cristiani e rifiutare il sindacato unico, non vede «alcun inconveniente a che il sindacato, sempre mantenuto nel suo compito puramente professionale sia unico in quei paesi in cui le divisioni, che conosciamo presso di noi, non si siano manifestate». La formula del Muller, non accettata dal Cretinon , che la discute nella Chronique Sociale de France, è accolta invece da un nostro valente e giovane professore che la illustra come una «precisazione del pensiero cattolico», come una formula nuova e definitiva, benché – egli dice – essa «possa sembrare inattesa a tutti coloro che si sono addormentati sulle posizioni della fine dell’ottocento». Non esagera forse un pochino il professore … novecentista e non fa dire forse al Muller più ch’egli non pensasse? Anche gli ottocentisti considerarono l’unicità o la pluralità dei sindacati come una questione relativa e contingente, tanto è vero che intorno al 1890 si discusse se i cattolici dovessero far parte dei sindacati cosiddetti liberi, come già partecipavano alle organizzazioni patronali, ovvero costituirsi in organismi propri. Prevalse questa seconda soluzione, perché il socialismo aveva invaso i sindacati, distruggendo il loro carattere di neutra tecnicità, quel carattere cioè che presuppone anche il Muller nei sindacati futuri. Ma accanto agli organismi tecnico-professionali v’erano e vi sono le società operaie educative e formative; come in Austria – e qui i viennesi hanno risposto trionfalmente – esistono sempre i «christliche Arbeitervereine» . Molte rivendicazioni delle encicliche si riferiscono a queste associazioni di ordine e diritto privato e non sono quindi assorbite dalla questione dell’unità o pluralità sindacale. Ricordiamo in particolare quel passo della Quadragesimo anno, in cui si paragonano i membri della professione agli abitanti d’un municipio. È ben qui che converrà attingere, se si vorrà davvero una formula che precisi il pensiero cattolico.
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La protesta della Conferenza episcopale americana – tre cardinali, nove arcivescovi e sessantasei vescovi degli Stati Uniti – contro la persecuzione del Messico , fa appello sovrattutto ai sentimenti liberali degli anglosassoni. «Ai cittadini del Messico», essa dice, «sono negati quei diritti inalienabili che la Costituzione degli Stati Uniti afferma appartenere ad ogni uomo; si nega la libertà d’istruzione, si afferma che la mente del fanciullo appartiene allo Stato… Libertà di culto religioso, di educazione, di parola, di stampa è negata a tutti… Nessun sostenitore dei diritti degli uomini e della libertà di coscienza può guardare con compiacenza all’esercizio di questa tirannia, sebbene esso si compia in un paese che non è il nostro… Auguriamo al Messico prosperità per la sua vita nazionale, economica e sociale; e tanto più lealmente lo auguriamo, in quanto chiediamo anzitutto fedeltà ai diritti fondamentali di libertà di coscienza, libertà di culto, libertà d’insegnamento, libertà di stampa, libertà di riunione e di petizione… Non è senza significato che nella presente torbida situazione mondiale e nelle difficoltà d’ogni paese, coloro che mirano all’assolutismo nel governo, e scherniscano e neghino le verità fondamentali della religione, dalle quali è venuta la stabilità delle nazioni… Perciò la lotta che sorge dalla persecuzione della Chiesa nel Messico, è l’illustrazione di una crisi che può avere conseguenze di lunga portata… Noi non sosteniamo solamente la causa della Chiesa cattolica, ma bensì anche la causa della libertà umana per tutte le fazioni del mondo». Se veramente la grande stampa europea fosse governata da liberali sinceri e non piuttosto da «libero-pensatori» anticlericali, questa solenne protesta della gerarchia cattolica americana dovrebbe trovare un’eco mondiale efficacissima. Avviene invece che nel coro delle oche capitoline che gridano in quasi tutti i paesi europei l’allarme per la libertà in pericolo, manchi proprio la povera voce del Messico, benché sia vero che qui la Chiesa un’altra volta, come tant’altre durante la sua storia secolare, difendendo la propria causa, difenda nello stesso tempo «la causa della libertà umana per tutte le nazioni del mondo». La Reichspost ha pubblicato per la prima volta, proprio mentre il governo iugoslavo tentava a Ginevra di proiettare verso l’estero le cause interne dei conflitti e degli attentati, il testo della protesta inviata da molti notabili jugoslavi dopo la morte di re Alessandro ai reggenti dello Stato iugoslavo. Il documento è firmato da numerosissimi ex ministri dei passati gabinetti di coalizione, da rettori di università, dal presidente dell’Accademia iugoslava, da presidenti di camere di commercio e di tribunali e in prima linea dall’arcivescovo di Zagabria Bauer , dal suo coadiutore e dal vescovo di Spalato. Il documento reca tutta l’impronta della sincerità e della verità. La menzogna basilare, esso dice, sulla quale si fondano tutti gli errati metodi di governo è quella di affermare che noi siamo nemici dello Stato. Vero è che siamo contrari all’attuale sistema di governo, ma non bisogna confondere l’eterna idea dello Stato iugoslavo col presente regime . Noi siamo per lo Stato iugoslavo e questa nostra volontà positiva ci dà il diritto, come cittadini, di fare la critica delle attuali istituzioni. Ma, a parte la questione del regime che ammettono doversi riservare a momenti più tranquilli, i firmatari intendono sollevare per ora la questione della legalità. Chiedono perciò la cessazione degli arbitrii, l’applicazione delle leggi in modo uguale per tutti i cittadini, l’abolizione della censura, l’attenuazione delle leggi che regolano le riunioni e le associazioni, togliendone tutto ciò che vi costituisce il monopolio di un partito e di un principio; la sospensione se non l’abolizione del Tribunale straordinario per la difesa dello Stato «il quale con le sue sentenze numerose e molto severe fa nascere la dannosa e pericolosa impressione che lo Stato non produca che nemici dello Stato, mentre in realtà quella che produce i nemici dello Stato è la situazione illegale entro lo Stato stesso». Il documento designa poi particolari amnistie ai perseguitati politici, l’abolizione del confino e le elezioni comunali per le nomine di podestà, come quelle misure che sarebbero atte a creare lo stato d’animo, sul quale fondare un forte governo di concentrazione. Alla Camera spagnola durante la discussione di una legge agraria, il cattolico ministro di agricoltura Jimenez Fernandez tenne un discorso programmatico di grande stile rivelando una personalità politica e una preparazione sociale di primo ordine. Quei pochi conservatori ultra di destra, i quali avevano forse sperato che il gruppo di Gil Robles, per reazione contro il socialismo, avrebbe rinunziato a qualsiasi riforma agraria, avranno patita una bella delusione! I socialisti stessi furono così stupiti dell’atteggiamento programmatico del ministro popolare agrario, che gridarono al plagio e lo accusarono d’aver rubato al socialismo le sue idee rinnovatrici. Ma leggendo bene il discorso, in quella parte generale che più ci può interessare, si scopre facilmente la fonte genuina dei suoi concetti fondamentali. Sono i principii della scuola cattolico-sociale, come vengono esposti o nelle encicliche pontificie o nei testi, che risalendo fino alla scolastica, hanno creata la «sociologia cristiana». Così, quando Jimenez Fernandez affermò che nella proprietà esiste un elemento individuale, ma, accanto ad esso, anche un elemento sociale che si divide a sua volta in elemento famigliare e nazionale: «Opino, egli disse, che nella produzione debba prevalere l’elemento individuale; che nella conservazione della ricchezza e della proprietà rustica prevalga sovrattutto l’elemento famigliare e che infine per regolare il consumo prevalgano gli interessi nazionali. Se il diritto di proprietà come tale è inviolabile perché inerente alla personalità umana, l’uso è invece soggetto a limitazioni». Qui egli ne ricorda soltanto tre: «l’una, che non è lecito lasciare improduttivi i propri beni, nel qual caso lo Stato può ricorrere ai mezzi necessari, perché tale abuso non continui; secondo, che non è lecito l’eccessivo tesoreggiamento, cioè l’accumulazione dei beni senza carattere produttivo, sia pure tenendo conto anche di quelle funzioni di decoro che mettono la ricchezza al servizio di tutti, e per ultima quella che la proprietà è condizionata dal caso di estrema necessità che ha riflesso nel codice penale, per cui senza pregiudicare il diritto di proprietà si è dovuto nelle legislazioni di tutti i paesi moderni introdurre la riforma agraria; riforma agraria d’altra parte che non può certo stranire coloro che come me, sanno che ebbe tra i suoi fautori alcuni pontefici come Pio VII e Sisto IV . Perciò non si potrà accusarmi di disconoscere i diritti della proprietà, né censurarmi perché sostengo che la limitazione dell’uso della proprietà, essendo imposta dal bene comune, debba venir determinata dallo Stato, il quale deve appunto provvedere al bene comune nazionale e che tradirebbe tale bene comune, qualora in caso di estrema necessità si attenesse all’elemento individuale della proprietà, dimenticando l’altro elemento importantissimo, cioè l’elemento sociale che consiste nel buon funzionamento della proprietà privata». Nella continuazione del discorso poi, polemizzando col deputato di destra tradizionalista Lamamie de Clairac , il quale lo aveva accusato d’essere partigiano dell’imposta progressiva sulla rendita e di trovarsi così d’accordo col sig. Martinez Hervas e altri deputati socialisti, il ministro risponde: «Non so se le mie opinioni collimino con quelle di questi signori; so invece ch’io mi trovo d’accordo con Toniolo, insigne professore italiano, che al Congresso di Pavia difese il principio dell’imposta progressiva “a cappa y espada”. Per conseguenza non mi vergogno a confessare che difendo l’imposta progressiva sulla rendita perché è la maniera di togliere qualche cosa a coloro che posseggono molto per darla a coloro che non hanno nulla, ciò che è la prima missione di un governo degno di tal nome». Giuseppe Toniolo!, esclamerà qualche giovanissimo; se lo citano in Spagna, bisognerà che me lo legga anch’io! L’ultimo di novembre si fondava nella Saar una nuova organizzazione politica intitolata «Deutscher Volksbund für christlichsoziale Gemeinschaft». Nell’assemblea costitutiva furono adottati come direttiva i seguenti punti: 1) alla lotta di classe e di razza noi opponiamo l’evangelo dell’amore e della fratellanza cristiana; 2) al regno dell’arbitrio e del diritto del partito assoluto opponiamo la rivendicazione del diritto e della giustizia per tutti; 3) al sistema della brutalità e dell’oppressione che uccide ogni cultura, noi opponiamo solennemente l’appello alla libertà, libertà che non deve subire altri limiti che quelli dell’osservanza naturale della morale cristiana; 4) al terrore e alla violenza noi opponiamo il coraggio di difendere liberamente la nostra opinione; 5) alla menzogna noi opponiamo la volontà e il coraggio della verità. Nella relazione, pubblicata dalla Neue Saarpost, si dice che all’assemblea parteciparono cattolici e protestanti, entrambi preoccupati di difendere le loro Chiese dalle imprese del nazional-socialismo e si afferma: finora nella Saar non vi erano che nazional-socialisti e marxisti, di qui innanzi vi saranno anche nel campo politico i cristiani «Mit uns geht Landeszeialles was christlich und darum deutsch ist an der Saar» (Con noi stanno tutti coloro che sono nella Saar cristiani e tedeschi). La Saarbrücker Zeitung, organo del fronte tedesco, polemizzando con l’assemblea e col manifesto fa prova d’una studiata moderazione. Nessuno, essa dice, vuol contestare agli oratori della nuova società il diritto di criticare certi fatti della politica ecclesiastica tedesca, ma è evidente che dietro queste critiche c’erano dei presupposti politici. Dalla relazione infatti si rileva che parlarono i due ex deputati del Centro, Kuhnen e Imbusch … si vuole così rigalvanizzare il vecchio partito, sfruttando ancora il problema religioso? Ma il nazional-socialismo ha spezzato per sempre questo equivoco! Il giornale sospetta che la nuova formazione inviti gli aderenti a votare per lo status quo, benché nella stessa assemblea non sia stata data alcuna parola d’ordine. Il deputato Kuhnen si limitò a dire che non si voterebbe per la Francia e il Sig. Imbusch si limitò a dire che non s’intende di tornare alla patria senza condizioni. Si pensa dunque ad un secondo plebiscito? Il giornale non crede che questo sia possibile e lo vorrebbe dedurre anche dalle dichiarazioni fatte dal Laval alla Camera francese. «O non si tratterebbe piuttosto, insinua il giornale del fronte tedesco, che, con la cooperazione dei cattolici sarresi, si sta per vendere alla Francia una terra tedesca? Quale cattolico di questa terra vorrà assumere la responsabilità di rovesciare su tutti i cattolici tedeschi l’onta di un atteggiamento che sarebbe così grave di conseguenze per il cattolicesimo tedesco?». Il giornale finisce con l’esprimere la speranza che i vescovi di Treviri e di Spira si pronuncieranno contro il nuovo partito. La Neue Saarpost , risponde con una vibrata difesa, sostenendo i diritti del nuovo movimento. Non è il caso di seguire la polemica; ma bastano questi accenni per dimostrare la gravità e l’estrema delicatezza della situazione dei cattolici alla vigilia del plebiscito. All’ultima ora giunge del resto notizia che i vescovi hanno biasimato la partecipazione dei sacerdoti alla fondazione di una società politica. Dalla Saar del resto si annunzia la fondazione d’un altro partito ancora. Si tratta del movimento «libertario nazional socialista» ossia di una figliazione di nazisti estremisti contro Hitler.
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La forza centrica del cristianesimo, com’è annunziato e predicato nell’Evangelo, è la carità ossia l’amore. Esso è una forza associativa infaticabile che fa della socialità una esigenza essenziale della nuova religione. In tale socialità però la persona non viene diminuita o sommersa, perché la nuova religione insegna anche che ogni individuo è l’artefice del proprio eterno destino. Come tale esso dev’esser libero d’indirizzare la sua attività interiore in qualunque senso. Perciò si può affermare che il cristianesimo crea e garantisce, di fronte a qualsiasi potere, la libertà delle coscienze. Così gli elementi costitutivi del nuovo ordine sono l’amore e la libertà, dai quali derivano anche le altre note fisionomiche della società cristiana: l’universalità, l’eguaglianza, la fraternità. Questa società è retta dalla paterna autorità di Dio, dalla quale promana ogni altra autorità, che dev’essere intesa e praticata come un servizio del prossimo nei limiti della carità. È questa la conclusione dello studio che Igino Giordani ha consacrato in un grosso volume al «messaggio sociale di Gesù» . Giordani vi indaga che cosa dica ed insegni Gesù sulla famiglia e sulla personalità umana, sulla giustizia e sulla carità cristiana, sui rapporti della religione coll’autorità civile e colla politica, intorno al problema economico e l’uso del denaro, sul lavoro e sul salario, sulla pace e sulla guerra, sull’universalismo e sul patriottismo ed infine che cosa rappresenti il Vangelo per l’arte, come espressione sociale. Tali capitoli costituiscono naturalmente altrettante sintesi di numerosi commentari evangelici e di studi particolari rivolti ad illuminare questo o quell’aspetto della prima predicazione cristiana, per cui sarebbe assurdo che si tentasse qui di sintetizzarli a nostra volta. È un libro questo che bisogna leggere e meditare, parte a parte. Qualche rapida citazione tuttavia servirà a meglio illuminarne le conclusioni che abbiamo già riassunte. «La relatività della vita terrena e la sicurezza d’una integrazione, per virtù di giustizia eterna, nella vita futura, dà alla giornata del cristiano un tono d’ottimismo» (p. 86). «La responsabilità è un portato della coscienza nuova, conseguenza della libertà d’arbitrio. È di tutti, proporzionata ai mezzi di ciascuno, nel senso che molto sarà richiesto da colui al “quale molto è stato dato”» (Lc. 12; 48). «Poiché l’essenziale del proprio essere era in sé, dipendeva da sé medesimo, l’uomo, fosse anche schiavo, era soggetto di diritti primordiali, naturali (congeniti con la sua creazione) anteriori allo Stato; e il nuovo ordine religioso li rivendicava e giustificava religiosamente» (p. 100). «Questo sangue e questi patimenti furono il prezzo dell’indipendenza dello spirituale dal temporale; … e insieme del riconoscimento del diritto d’imporre un’unica legge etica tanto ai sudditi, quanto ai re e quindi del diritto di giudicare anche le potestà politiche nella loro azione morale; e furono il prezzo della libertà delle coscienze verso la forza materiale e della vittoria del monoteismo sul politeismo di Stato» (p. 210). «Gesù (nel discorso delle Beatitudini) respingeva la ricchezza contro lo spigolo d’una relatività, dove, da tiranna, diventava ancella, spoglia del valore assoluto datole dal mondo; e istigava i ricchi stessi a ritenersi, malgrado la ricchezza, poveri: poveri nello spirito, cioè alla radice dei desideri» (p. 218). «La carità è lo spirito della giustizia: e senza lo spirito, la lettera, la formula, la scritta, custodita da tribunali e baionette, resta, finché può, morta» (p. 235). «La leggenda e la gratitudine hanno fatto di Maria il tipo della bellezza ideale; ma non devono far dimenticare di lei l’aspetto fisico, di donna proletaria, dalle mani callose, stanca per la fatica» (p. 239). «Egli (Gesù) scendendo al contingente immediato, avrebbe potuto risolvere la questione operaia del suo secolo; ma non ci avrebbe dato lo spirito, con cui risolverla anche negli altri secoli…» (p. 254). «Il Vangelo, se condanna la guerra, come principio e operazione di male, non condanna coloro che, per dovere, sono destinati a farla: i soldati» (p. 275). Uno dei meriti principali del libro del Giordani è quello di essere di una oggettività scientifica assoluta. Il lettore non deve temere di cadere nell’insidia di un partito preso o di una tendenza preconcetta. Distaccandosi da molti scrittori di cose sociali che scrivendo nell’ultimo quarto del sec. XIX in polemica coi socialisti, tentarono più o meno consapevolmente di piegare la predicazione evangelica alla loro tesi democratica o aristocratica, libertaria o autoritaria, il Giordani si attiene rigorosamente alle interpretazioni più accertate e alle deduzioni più sicure, rinunziando a ricostruzioni troppo ardite e pericolosamente liriche. Contro ogni sgarro egli si è premunito, armandosi di un’indagine seria e profonda delle fonti, studiando tutti i più celebri commenti degli evangeli e, se va debitore in particolar modo – com’egli stesso afferma – ai commentari di P. Lagrange , non vuol dire che non abbia attentamente consultato gli altri e non abbia confrontate anche le più celebri opere biografiche su Gesù dal Fornari al Lebreton , dal Grand-maison al Prat , non trascurando nemmeno avversari ed eterodossi da Renan allo Harnack , dal Barbusse al Ludwig . Oltre le opere di carattere generale l’A. rivolse naturalmente speciale attenzione a quelle che trattano degli insegnamenti sociali di Cristo in modo particolare e alle monografie sui singoli aspetti etico-sociali del messaggio evangelico: e nell’appendice bibliografica ce ne rende conto ampiamente, dimostrando che nessuna opera italiana o straniera di qualche importanza è sfuggita alla sua coscienziosa fatica. Il libro è quindi riuscito denso di erudizione e come inquadrato in una cornice storico-bibliografica di polemica attuale e arricchito di divagazioni e di note a pie’ di pagina che fanno il punto su certe questioni esegetiche, sull’autenticità dei vangeli in polemica coi protestanti, sui confronti fra i concetti evangelici e i principii delle antiche religioni e civiltà: mazdeismo, codice di Hammurabi, Avesta ecc. ecc. E tuttavia l’erudizione non ingombra, non appiattisce, che anzi talvolta nel Giordani il polemista e il poeta prendono la mano allo studioso e con uno stile caldo e nerboruto lo sollevano a pagine commoventi, ad altezze liriche le quali, come finestre spalancate sulla bellezza dell’orizzonte, compensano la faticosa salita dell’indagine. Questo nostro giudizio non vuol dire che se riconosciamo nell’opera del Giordani un frutto felice e prezioso di profondi studi e di lungo amore, tutto vi sia soddisfacente e perfetto. Ci pare ad esempio che il divagare troppo spesso nelle note, l’insistere troppo largamente sulla esposizione di episodi evangelici o d’insegnamenti di Gesù, che si devono supporre noti, nuoccia all’economia dell’opera la quale, specialmente nei primi capitoli (ambiente storico, Regno di Dio) potrebbe essere più succinta e più sintetica e correre più rapidamente verso il nucleo centrale: mentre qui invece, trattandosi delle varie questioni sociali, desidereremmo talvolta che l’a. fosse meno spiccio: si veda, ad esempio, la questione dell’usura a p. 230 o la spiegazione del: «non sono venuto a portar la pace, ma la spada» (p. 270). Confessiamo inoltre che, a prima vista, le 22 pagine d’introduzione sul cristianesimo sociale e sui criteri generali dell’opera, ci sono sembrate eccessive; ed abbiamo avuto l’impressione che l’autore, specialista apprezzato di studi antiprotestantici, abbia subito un tantino la suggestione di un’apologetica che gli è famigliare. La nota a pag. 15 ha però rettificata la nostra prima visuale. Essa dice che questo volume non è un libro per sé stante ma il primo d’un’opera più vasta sul Cristianesimo sociale. L’introduzione è dunque pensata come prefazione a quest’opera maggiore, e allora se ne spiega anche l’ampiezza e la struttura. Ciò fa comprendere anche perchè in qualche capitolo il Giordani abbia rinunziato a certi sussidi interpretativi che gli avrebbero agevolmente offerto la sua conoscenza dei Padri e dei primi interpreti pratici dell’insegnamento di Gesù. Tutto ciò è riservato ai volumi seguenti. Ed eccoci allora a formare il vivo augurio che il Giordani sociologo continui la sua opera, a costo anche che ne soffra il Giordani letterato. Egli annunzia d’aver già preparato i materiali per l’insegnamento apostolico, ed è universalmente nota la sua competenza nella letteratura della Chiesa antica. È facile prevedere quindi che tali volumi riusciranno ancora più interessanti e più nuovi del primo. Noi confidiamo che la benemerita «Unione Cattolica per le Scienze Sociali» patrocinerà la pubblicazione di tutta l’opera, la quale dovrà costituire una storia del cristianesimo sociale di ben altra ampiezza e profondità di quella del Benigni . Può sembrare invero che i tempi non volgano propizi a simili iniziative, quando la scuola cattolico-sociale in Italia soffre di paresi. Ma non si sente ora appunto più che mai il bisogno di risalire alle fonti per attingervi quei principii dottrinali che per gli uomini di carattere dovranno trasformarsi in pratiche direttive? Questo primo del Giordani è appunto un libro di orientamento. Lo leggeranno con profitto i giovani, i maestri dei giovani e tutti coloro che nella vita sociale si onorano del nome di cattolici e vogliono come tali governarsi. Di tale ossigeno abbiamo bisogno per respirare a larghi polmoni la vita cristiana e custodire ed alimentare la tradizione del nostro pensiero! Ci fu un tempo in cui si lamentava non a torto che i cosidetti sociologi cristiani fossero dei generici: troppa filosofìa, troppa speculazione ed invece poca storia, pochissima economia, nessuna statistica. Ed era vero. Ma non esiste anche il pericolo contrario di farsi assorbire dal tecnicismo, dalla monografia sul fenomeno o dai calcoli statistici? Sarebbe ingiusto di muovere qualsiasi rimprovero a questi laboriosi e benemeriti ricercatori e costruttori del particolare analitico. Ma la loro opera di elaborazione scientifica riesce sterile se tratto tratto non viene coronata dal lavoro sintetico che costituisce come l’anima dell’azione e l’impulso del movimento. L’iniziativa della «Unione Cattolica per le Scienze Sociali» è appunto lodevolissima, perchè tende a creare una sintesi che dia ali e direttiva al nostro pensiero; ed è una fortuna che fra i collaboratori essa abbia saputo guadagnare il Giordani, il quale all’oggettività della ricerca ed alla serietà scientifica dello studio associa le qualità brillanti dello scrittore, che sa parlare alle presenti generazioni nello stile che esse vogliono e comprendono.
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Scrive Vladimiro D’Ormesson che ogni volta ch’egli entra in Francia, dopo aver visitato qualche paese dell’est o del sud, ha l’impressione di rientrare nello stato normale. Questa volta invece, avendo passato la Manica, per rivedere l’Inghilterra, quando ritornò in patria, ebbe l’impressione di trovarsi in un regime a colletto floscio. Tra la Francia da una parte – egli afferma – e gli altri Stati al suo est o al suo sud dall’altra non vi è possibilità di paragone; ma l’Inghilterra che nonostante la crisi economica e l’ondata rivoluzionaria che ha scosso tutta l’Europa, è rimasta una grande democrazia parlamentare, offre utili termini di confronto. Perché l’Inghilterra ha resistito? Perché, dice D’Ormesson, ha mantenuta intatta la gerarchia dei suoi valori sociali ed ha conservato il predominio dei suoi valori morali. L’Inghilterra è una democrazia, ma non una demagogia. L’Inghilterra è un sistema parlamentare, ma non un sistema ipertrofico, in cui il potere legislativo assorba l’esecutivo… l’Inghilterra è un paese religioso che tiene pubblicamente alla sua vita religiosa, ove la parola «sinistra» non ha alcun significato antireligioso o laicista, ove le sedute della camera dei Comuni cominciano con un atto di fede religiosa e ove le forze socialiste militano forse in essa fede più numerose che le forze conservatrici. L’Inghilterra è una democrazia nel vero senso della parola, perché l’opinione pubblica vi esercita veramente un ruolo sovrano…, ma quando in una sala risuona il «God save the King» tutti i presenti, compresi gli operai in berretta, si levano con un atto di disciplina consentanea, spontanea, indiscussa… È questa forza morale interiore e questo contegno disciplinato che hanno permesso alle istituzioni libere inglesi di resistere vittoriosamente alla crisi psicologica che imperversa nel mondo… A fianco di questo contegno inglese, il regime della Francia, appare al D’Ormesson come «un régime en col mou, comme un régime dont les boulons se son desserrés, … où l’esprit public est en faillite, où – sauf le deficit – tout est devenu petit, parce que tout est devenu facil». Lasciamo per ora il regime della Francia che ha trattenuto molte altre volte la nostra attenzione; ma, per quanto riguarda l’Inghilterra, ci pare opportuno di prender nota di due sintomi i quali confermano il concetto del D’Ormesson sulle forze dominanti nel popolo inglese. L’uno è l’evoluzione conservatrice del laburismo. Pareva tre anni fa che il socialismo, battistrada del comunismo, penetrasse ormai invincibilmente le vecchie organizzazioni laburiste. Leggiamo invece nel numero di dicembre della nota rivista The Nineteenth Century un articolo dell’ex deputato comunista Walton Newbold il quale accusa Henderson d’aver lasciato corrompere il partito laburista, fino al punto da permettere l’elezione di un cattolico alla presidenza del consiglio esecutivo del partito . Com’è possibile, egli dice, di non avvertire l’antinomia fra il socialismo e i partigiani dell’autorità, quando già Leone XIII nella Rerum novarum ha parlato così chiaro e preciso? Sembra dunque vero che l’entrata dei Fabiani ossia delle forze liberali nel Labour Party, la collaborazione delle popolazioni protestanti puritane sempre pronte ad appassionarsi per le cause umanitarie e morali ed infine quella di numerosi gruppi cattolici di Liverpool e di Glasgow influiscano sopra la direttiva del partito laburista. Sono dunque le forze morali che prevalgono nel momento decisivo. Si conferma d’altro canto anche l’altro fatto continuo della vita politica inglese, del dominio cioè dell’opinione pubblica. Da qualche mese in qua i continentali si sono accorti che la Gran Bretagna prende negli affari dell’Europa un atteggiamento meno insulare. Non è molto che il governo inglese manifestava quasi il suo rincrescimento perché il capo del governo provvisorio della Saar fosse un suo connazionale. Ora invece abbiamo visto l’Inghilterra patrocinare la polizia internazionale della Saar, anzi mandarvi i suoi soldati. Un attento osservatore delle cose inglesi ritiene che questo cambiamento sia dovuto all’influsso dell’opinione pubblica, la quale in questi ultimi mesi è stata scossa e tenuta in allarme da parecchie iniziative favorevoli all’intervento pacificatore delle cose d’Europa. Tra esse egli mette in rilievo l’inchiesta dell’«Unione della Società delle Nazioni» la quale ha voluto dimostrare che la maggioranza del popolo inglese è contraria alla politica d’isolamento sostenuta dai giornali di Rothermere . 170.000 sono state finora le risposte date al rispettivo questionario e benché questo referendum sia appena agli inizii, si può già constatare che 165.000 sono state per l’intervento e solo 5.000 contrarie. «Durante le tristi giornate della rivolta asturiana – scrive un illustre collaboratore della Liberté di Friburgo – il sindacato cattolico di Moreda seppe opporsi con fermezza e coraggio ai comunisti rivoluzionari, tenendo loro testa per una intera giornata. Ma non è triste di constatare che vi siano degli operai obbligati a combattersi con le armi alla mano? Il mio omaggio va in questo momento a tre spagnoli ben conosciuti dai cattolico sociali d’Europa: il professor don Severino Aznar , l’avvocato ed ex ministro Angelo Ossorio e il canonico Arboleya . Essi sanno quali ostilità, quali sospetti, quali lotte abbiano dovuto sostenere per organizzare il loro programma sociale. Se fossero stati ascoltati, i cattolici spagnoli non passerebbero oggi agli occhi degli operai per dei reazionari…». Si può confidare comunque che simile rimprovero non sarà meritato dai cattolici spagnoli che lottano presentemente nella vita pubblica, perché dall’esempio di Moreda essi traggono anzi nuovi argomenti onde promuovere il sindacalismo cristiano. In una recente adunanza convocata appunto dalla Confederazione nazionale dei sindacati cattolici per celebrare la resistenza di Moreda, l’oratore principale, il deputato delle Asturie Fernandez Ladreda , ricordò che «gli operai cattolici erano stati combattuti o trascurati tanto dalla monarchia che dalla repubblica, le quali, per un raro contrasto, proteggevano i socialisti. Ora s’è visto però che nel momento del pericolo, nonostante la codardia dei poteri costituiti, i sindacati cattolici avevano trovato nella loro coscienza la forza di resistere anche con le armi alla violenza rivoluzionaria. Gli operai cattolici, egli disse, devono lottare contro due violenze: la violenza dei socialisti e la violenza dei capitalisti che per i loro interessi o i loro comodi tradiscono i loro doveri verso gli operai. Se infonderemo nello spirito delle masse proletarie il sentimento cristiano della chiesa e nello stesso tempo compiremo i nostri doveri verso gli operai, essi volgeranno i loro occhi verso i principi della loro salvezza». Anche la politica seguita dal gruppo di Gil Robles, come abbiamo visto altra volta citando il discorso del ministro d’agricoltura, è una politica riformatrice e rinnovatrice. È in discussione una legge sugli affittuari, è in elaborazione una legge per la colonizzazione delle terre e si sta preparando una modifica della «Riforma agraria», che la renda veramente attuabile. Questa trilogia agraria mira allo scopo di aumentare e garantire la piccola proprietà, distruggendo o almeno riducendo al minimo il latifondo. L’atteggiamento riformatore, accompagnato dalla direttiva costantemente legalitaria che induce Gil Robles a sostenere il governo di Lerroux, suscita qualche obbiezione anche fra deputati e giornali di destra. La verità è, scrive il monarchico A.B.C. del 15 dicembre che «fra la ideologia della C.E.D.A. e quella che ispira D. Michele Maura non troviamo alcuna differenza». Il socialista El Pueblo si rallegra dei contrasti che si manifestano fra popolari e conservatori e nazionalisti di destra ed esprime la speranza che «la casa de las detechas se convirtiera en un campo de Agramante». Ma il Debate tiene fermo e sostiene con molto vigore che nella tattica politica il meglio è talvolta nemico del buono e che la C.E.D.A. col suo attuale atteggiamento rende preziosi servigi alla Spagna. La questione delle organizzazioni giovanili si affaccia anche in Austria. In un recente discorso il principe Stahremberg accennò ad una differenza sorta fra gli organizzatori del fronte patriottico circa le organizzazioni giovanili. «È sorta, egli disse, anche qui la questione della totalità, se cioè nel campo delle organizzazioni giovanili la totalità spetti allo Stato o alla Chiesa. Io sono del parere che qui sia necessaria la cooperazione di tutti e due i fattori. È naturale che lo Stato pretenda la garanzia che la gioventù venga educata in senso patriottico. Lo Stato ha il diritto di esercitare un influsso determinante non soltanto sulla formazione fisica, ma anche su quella spirituale della gioventù. D’altro canto è non soltanto giusto, ma anche necessario che lo Stato faccia alla Chiesa tutte le concessioni atte a metterla in grado di attuare un’educazione religiosa e morale…». «…Se ci si oppone che le organizzazioni giovanili confessionali, accanto alla formazione religiosa e morale, hanno sempre avuto in programma anche l’educazione patriottica, non è certo lecito dubitarne, ma tuttavia lo Stato ha diritto di esercitare su questo terreno il controllo che gli sembra indispensabile». «La soluzione giusta sarebbe una unica e grande organizzazione giovanile statale, nella quale il clero potrebbe avere la parte direttiva che gli compete. Ma si sa che talvolta queste soluzioni semplici vengono complicate da questioni di tecnica organizzativa. Ma non bisogna perdere la pazienza e urtarsi in modo da compromettere la soluzione definitiva…». Il movimento giovanile «Jung-Vaterland», movimento controllato dalle Heimwehren e che ora si vuol trasformare in organismo di Stato, secondo un comunicato della direzione, avrebbe già raggiunto in tutta l’Austria 2000 gruppi locali e più di 70.000 soci. Un capo di questi giovani parlando a Linz in un’assemblea convocata poco prima di quella nella quale Stahremberg pronunciò il succitato discorso, aveva fatto le seguenti dichiarazioni: «Nel concordato esiste un articolo 14 che è per noi obbligatorio, perché diventato legge costituzionale. Secondo questo è previsto che le associazioni cattoliche giovanili debbono continuare ad esistere colla protezione dello Stato. D’altro canto però s’intende creare un’organizzazione giovanile statale. Noi abbiamo quindi il dovere di mantenere rapporti fraterni colle associazioni giovanili organizzate dall’Azione Cattolica e provare per nostro conto ai loro capi che non siamo cattolici o cristiani di secondo o terzo grado». Impostato così il problema, quale sarà la sua soluzione organizzativa? È nota la fiammeggiante protesta pronunciata dal vescovo di Treviri, Bornewasser , contro la parola d’ordine del capo delle organizzazioni giovanili hitleriane, Baldur von Schirach, il quale aveva proclamato in un’adunanza giovanile a Berlino che la via di Rosenberg, cioè la via che costui raccomanda nel Mito del secolo XX è la via della gioventù tedesca. La domenica dopo il vescovo di Treviri saliva sul pergamo innanzi ad una folla di 15.000 membri della gioventù cattolica e dichiarava: «Giovani, state saldi nella fede! La miscredenza passa attraverso le terre tedesche! Moderni falsi profeti scuotono le basi fondamentali della nostra fede. Dei neopagani lottano contro il vero Dio vivente, che creò il cielo e la terra e la vostra anima… Si è detto che la via di Rosenberg è la via della gioventù tedesca. Giovani cattolici tedeschi, opponete a questa parola la vostra più viva protesta! La via della gioventù cattolica tedesca è la via di Gesù Cristo e la via di Nostro Signore. La via dell’uomo Rosenberg mena alla rovina del cristianesimo, alla rovina dell’impero tedesco e del popolo…» . Questa clamorosa protesta fece enorme impressione, tanto che Göbbels si credette in dovere d’intervenire con un altro discorso, per attutire il colpo. Ma a rendere vana l’opera pompieristica del Göbbels, ecco sopraggiungere poco dopo un discorso del ministro dei culti bavarese Schemm il quale in una assemblea di maestri tenne un discorso programmatico di due ore su «razza ed anima, come eterna base costruttiva dell’educazione». Egli affermò fra altro che la massa ereditaria di ogni individuo non è modificabile con l’educazione; essere quindi inevitabile una azione preventiva, e così il discorso terminò con un’esaltazione della legge per la sterilizzazione . È ben vero che in seguito alla proibizione del libro del Rosenberg il maestro cattolico non è più obbligato, nell’ora di demografia e di scienza della razza ad usare il Mito del secolo XX; l’ordinanza però dice che ogni maestro lo può usare, e obbliga, almeno nelle scuole prussiane, tutti i maestri a fare argomento delle lezioni il Manuale della questione ebraica di Teodoro Fritsch , ben noto campione del movimento anti-cristiano. Per quanto riguarda l’istruzione religiosa nelle scuole le cose devono stare assai male, se «la società evangelica delle maestre tedesche» si è creduta in obbligo di presentare al ministro dell’interno la preghiera di voler intervenire affinché «l’istruzione religiosa della gioventù evangelica non prenda false vie che rendano impossibile la comprensione della rivelazione divina come è fissata nella bibbia e nel messaggio di salute del Nuovo e del Vecchio Testamento». In un convegno tenuto a Montreux fra i rappresentanti dei vari movimenti fascisti europei che hanno aderito ai «Comitati di azione per l’universalità di Roma» si sono votate parecchie risoluzioni che dovranno costituire la base programmatica di un’organizzazione internazionale e le linee direttive per i prossimi congressi annuali. Le risoluzioni proclamano l’universalità del fascismo come una «dottrina politica economica e sociale nuova, creata da Mussolini suo geniale fondatore», la quale impegna «a combattere il materialismo marxista, l’internazionalismo negatore della nazione, il comunismo distruttore della morale della libertà, come pure l’egoismo capitalista, il falso nazionalismo borghese e le ingiustizie sociali che ne derivano» ed inoltre deve fare del fascismo «un perpetuo movimento in avanti, una creazione continua». Questa dottrina è la sola «capace di condurre il mondo del lavoro nelle vie della prosperità» e «non può esistere una vera dottrina fascista senza che sia guidata dall’ideale dell’ordine corporativo dello Stato e della società». «Contrariamente alle dottrine del liberalismo, il fascismo proclama che gli interessi particolari devono essere sempre subordinati agli interessi generali e, contrariamente alle dottrine del marxismo, il fascismo mantiene il diritto di proprietà e l’iniziativa privata, ma vi attribuisce una funzione sociale». In un altro capoverso, glossando un recente discorso di Mussolini, il convegno proclamò essere il fascismo «una rivoluzione che, oltre al principio di uguaglianza di fronte alla legge, propugna anche quello dell’eguaglianza davanti al lavoro». Alla riunione parteciparono delegati di diversi paesi (Austria, Belgio, Danimarca, Francia – il francista Bucard – Grecia, Irlanda, Lituania, Norvegia, Olanda, Portogallo, Romania, Svezia, Svizzera e Spagna). Manca come si vede la Germania, la quale troverà forse il proclamato principio dell’eguaglianza giuridica poco conforme alla dottrina e alla legislazione nazista. Sembra del resto che gli hitleriani continuino a contestare al fascismo il suo primato rinnovatore e rivoluzionario. Eschmann in un libro recente sulla «politica estera del fascismo» vuole dimostrare una tesi, d’altronde molto famigliare ai nazisti germanici, essere cioè il nazismo un movimento più vasto, più completo, più moderno del fascismo. Al che la rivista romana Affari Esteri oppone che il fascismo ha fatto la sua rivoluzione undici anni prima del nazismo e che quest’ultimo è un’imitazione e un adattamento e precisamente quello che i tedeschi hanno l’abitudine di chiamare dalla guerra in qua, un Ersatz (surrogato). Ma una delle differenze capitali in favore del fascismo è stata rilevata in un articolo assai notato dello stesso Mussolini, comparso nel Figaro. «L’idea bislacca, scriveva il capo del governo italiano, di creare una religione di Stato o di asservire allo Stato la religione professata dalla quasi totalità degli italiani non è mai passata per quella che potrei chiamare l’anticamera del mio cervello. Il dovere di uno Stato non è di tentare di creare nuovi vangeli o altri dogmi, rovesciare vecchie divinità per sostituirle con altre, preconizzate dalla razza, dal sangue o da un nordismo qualunque…». Ora l’idea bislacca è proprio quella del nazismo o almeno del suo Rosenberg, ed è proprio quella che lo mette in più stridente contrasto colle caratteristiche di un movimento universale.
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Nelle considerazioni di fine d’anno gran parte ebbe l’avvenire della gioventù. «I paesi a governo autoritario, disse il maresciallo Pétain, hanno provveduto a disciplinare la scuola e il dopo scuola in modo da farne, in Italia, in Germania, e in Russia, il vivaio dello Stato futuro e la prosecuzione del regime. Il nostro sistema pedagogico persegue invece come scopo unico lo sviluppo dell’individuo, considerato come un fine a se stesso. Sotto i nostri occhi si svolgono i più grandi esperimenti di educazione statale che la storia conosca. Rassicuratevi, esclama qui il maresciallo francese, non è questa la forma d’educazione alla quale voglio condurvi. Per essere efficace il nostro sistema della nazione armata presuppone una politica di educazione nazionale. Di questa politica sono strumenti i maestri nelle scuole e possono essere veicoli tutti i mezzi di propaganda di cui dispone lo Stato, dalla stampa, al cinema e alla radio. La propaganda deve creare un’atmosfera di salubrità morale e diffondere la dottrina virile che esalta lo sforzo collettivo, l’interesse nazionale, le glorie e i destini della patria». «Il problema della Francia di domani, rincalza Wladimir D’Ormesson nel Temps, è solo in parte un problema di masse; in primo luogo è problema di capi». Anche Stanley Baldwin fa appello alle nuove generazioni perché salvaguardino le tradizioni nazionali. In una lettera alla Lega della Gioventù dell’Impero egli scrive: «Noi abbiamo intorno a noi l’esempio dei paesi in cui la forza ha soppresso le libertà, in cui il socialismo di Stato ha sommerso le imprese e le iniziative individuali, in cui il militarismo asservisce la pace e il paganesimo e l’ateismo prevalgono sull’ideale cristiano. In faccia a tali influenze bisogna che i giovani sentano la responsabilità d’insorgere per difendere le nostre tradizioni nazionali e i nostri principi, per proteggere la nostra costituzione democratica, per difendere le libertà e l’indipendenza dell’individuo contro tutte le forme di dominio dello Stato, per promuovere uno spirito di autentica devozione per il paese e la comunità dei cittadini e soprattutto per mantenere l’ideale spirituale che solo può ispirare e rialzare l’attività e il governo degli uomini». «Forse mai nella storia è accaduto, scrive il noto oratore gesuita P. Bichlmair nella Reichspost, che uno Stato muti dalla mattina alla sera la sua struttura e proclami di voler accettare le basi di un’enciclica papale. Ma che cosa vuol dire costruire uno Stato sulla Quadragesimo anno? Un’enciclica pontificia non è un manuale di consultazione per i compilatori di sistemi costituzionali o ordinamento sociali. Nemmeno la Quadragesimo anno costituisce una forma definita di un sistema politico sociale od economico; essa proclama invece una particolare direttiva, infonde un determinato spirito del quale devono penetrarsi le masse e i loro capi, delinea un supremo ideale sociale e morale, verso il quale tutti devono tendere. Quadragesimo anno è spirito, spirito è vita, e la vita non rappresenta mai qualche cosa di chiuso, di finito, di compiuto. Sarebbe grave illusione il credere che l’Austria di oggi sia già completamente edificata sulle basi della Quadragesimo anno, semplicemente perché possiede una costituzione corporativa. Senza fermarsi al fatto che anche tecnicamente non tutto corrisponde alle direttive dell’enciclica, importa soprattutto affermare che la Quadragesimo anno preconizza un nuovo spirito politico-sociale e politicoeconomico e che nello Stato austriaco la Quadragesimo anno si attuerà solo intanto in quanto dominerà col suo spirito sul popolo austriaco e sui suoi rappresentanti. Sarebbe ora che in pubblico si parlasse meno della Quadragesimo anno e si facesse invece di più per ravvivarne lo spirito in tutti gli strati dello Stato». Il compito più urgente è di preparare le generazioni venture anche con una propaganda bene organizzata. Il notevole discorso dell’americano segretario di Stato per l’agricoltura Wallace , tenuto nell’assemblea della World Alliance for International Friendship through the Churces è un appello alla coscienza, e precisamente alla coscienza dei ricchi. Nell’anno 1929, anno della catastrofe economica, 36.000 famiglie degli Stati Uniti toccarono il massimo del reddito, ossia guadagnarono complessivamente un importo eguale a quello guadagnato dagli 11 milioni di persone che ebbero la rendita minima. Questi 36.000 fortunati, che vennero così a trovarsi in cima alla piramide sociale, erano davvero 300 volte più benemeriti, 300 volte più capaci, 300 volte più intelligenti degli 11 milioni, che stanno alla base della costruzione sociale? Noi, dice il segretario, non rinunciamo ai principi della libertà economica; ma non si può negare che il libero gioco delle forze ha portato a differenze troppo grandi e che la nuova politica deve mirare ad indurre i ricchi a contribuire più largamente alla prosperità generale. È vero, in America alcuni uomini singoli hanno fatto cose grandiose per il bene pubblico, quali mai ne conobbe la storia: ma è mancata un’azione unitaria e collettiva delle classi ricche, un’azione che riconosca in pratica il principio che la ricchezza obbliga e che la religione non è cosa privata, ma deve applicarsi anche all’amministrazione e alla distribuzione della propria ricchezza. Son queste conclusioni di un temperato riformismo sociale che si ispirano ai dettami del cristianesimo. Ma prevarrà in America lo spirito del Wallace o quello che il giorno dopo in un’assemblea di industriali rivelava il dottor Iordan segretario della federazione industriale, quando chiedeva il pieno ritorno alla libertà, la liberazione da ogni inceppo e proponeva la disciplina del lavoro militare soltanto per i disoccupati? Il ministero francese si prepara ad attuare il secondo punto del suo programma, cioè quello delle riforme politiche. Nel primo periodo, Flandin, dopo aver proclamato il ritorno alla libertà economica, si vide costretto, sia pure, come egli affermò, per avviarsi proprio a questo stato normale di libertà, di far votare delle leggi estremamente interventiste, quale quella sul grano che costringe parte dei produttori a consegnarlo allo Stato perché lo denaturi e quella sul vino che oltre la distillazione obbligatoria prevede la proibizione di nuovi impianti viticoli e per poco non arriva a disporre lo sradicamento delle vigne esistenti. Vedremo ora a quali compromessi dovrà giungere il sistema liberale quando si tratta di disciplina pubblica e di libertà civile. Avversari di sinistra e di destra lo attendono in agguato: i socialisti per difendere le «libertà democratiche» e certe organizzazioni di destra per difendere unguibus et rostris l’esistenza delle leghe di combattimento. Quest’ultime, in una lettera aperta al presidente, gl’intimano di volgersi prima contro altri abusi che minacciano l’ordine pubblico, cioè gli scioperi dei pubblici servizi e le ribellioni dei funzionari. Così il progetto di legge contro le leghe armate reclama per compenso un progetto sullo statuto dei funzionari e sulla difesa dei servizi pubblici. Il compito non sarà facile, a tener conto delle minacce espresse dalle leghe nella citata lettera al presidente del consiglio: «Nous tenons à vous informer que chacun des groupements et ligues soussignés se transformera, si besoin est, en société secrète et agira avec les moyens particuliers des associations occultes». Così il metodo liberale potrà o non potrà riuscire, a seconda della volontà, della forza e dell’abilità degli uomini. La fatalità non esiste, risponde a questo proposito un collaboratore del giornale di Chesterton (G.K.’ S, 27 dicembre) all’accademico Luigi Madelin . Se Hindenburg non avesse licenziato Brüning e poi von Schleicher, per le loro riforme agrarie sociali che intaccavano gli interessi dei latifondisti prussiani, Hitler non avrebbe conquistato il governo, e forse la Germania avrebbe evitata l’esperienza hitleriana. «Quando gli avvenimenti sono compiuti, sorgono gli storici a provarvi che i tempi erano maturi e che quello che accadde, non sarebbe potuto accadere altrimenti. Questa è una facile filosofia post factum, la quale non avverte che se fosse mancato uno solo dei fattori concomitanti, gli avvenimenti avrebbero preso un’altra strada». Il 1935 viene proclamato in Spagna «el ano de la revisión». L’attuale blocco governativo cioè e in modo particolare l’Azione popolare spera di poter attuare entro quest’anno la nuova riforma della Costituzione spagnola. In un recente discorso Gil Robles ha dichiarato che i cattolici popolari insisteranno senza compromessi sulla radicale modificazione degli art. 26 e 48 dello Statuto (Scuola e congregazione), ma si adatteranno a riforme graduali per quanto riguarda il sistema politico e parlamentare. Il lungo discorso, che è una vigorosa polemica contro gli estremisti di destra, si può dire riassunto in un’intervista concessa dal capo dell’Azione popolare a Domenico Russo : «La funzione dello Stato, dice Gil Robles, secondo le concezioni mie e dei miei amici dell’Azione popolare, non può consistere nel sostituirsi agl’individui ed alla collettività, ma a protegger questa e quelli, aiutandoli nel loro sviluppo, coordinando i loro sforzi, integrandoli. Noi vogliamo uno Stato forte, ma non tirannico. D’altra parte, siamo partigiani delle assemblee deliberative. Vale mas una mala Camara que una buena camarilla, tale è stata ieri, tale è oggi, l’opinione degli spagnuoli savi. Non bisogna prender pretesto dagli inconvenienti che si sono manifestati nella pratica del parlamentarismo e che è possibile correggere, per pretendere di distruggere tutto il sistema». Abbiamo detto che il discorso di Gil Robles si volgeva contro l’estrema destra. Infatti pare oramai che l’antica coalizione delle destre stia per disciogliersi di fronte alla costituzione del blocco nazionale, formato dai deputati monarchici e tradizionalisti. Questi rimproverano ai popolari di collaborare coll’attuale maggioranza salvando così il regime repubblicano e li accusano di compromettere colla loro alleanza coi radicali la questione dell’insegnamento religioso e quella della riforma costituzionale. Secondo il discorso del capo del nuovo blocco, Goicoechea , i nazionali vogliono abbattere lo Stato parlamentare liberale e sostituirlo con il sistema corporativo. Ma il Debate risponde che la Spagna non ha bisogno di esporsi al rischio d’introdurre innovazioni esotiche. Le corporazioni, secondo la tradizione spagnola, non sono semplicemente la rappresentanza corporativa dei sindacati, ma più importanti ancora sono le corporazioni economiche territoriali come los Ayuntamientos e las Diputaciones o Mancomunidades comarcales, ovvero quelle che si propongono fini culturali come le università e le accademie e quelle che disimpegnano i grandi servizi dello Stato, cioè l’esercito, l’amministrazione pubblica, la giustizia e infine le alte istituzioni spirituali, prima fra le quali la Chiesa. Queste dovrebbero essere chiamate, sia pure accanto alle corporazioni di mestiere, a formare la Camera corporativa. Tuttavia, secondo il Debate, sarebbe un grave errore di affidare a questi corpi la rappresentanza di tutti gli interessi pubblici e delle idee generali di autorità, di gerarchia, di libertà. Sarà quindi sempre necessario di avere accanto alla Camera corporativa una Camera dei comuni nella quale i deputati saranno eletti a seconda del loro atteggiamento di fronte al programma generale del governo. Il Debate quindi pensa al sistema bicamerale, nel quale costituire sull’esempio della «Camera alta» del 1876 una rappresentanza corporativa e una Camera bassa con una rappresentanza politica. Così del resto si è fatto anche nell’altro Stato iberico, il Portogallo . «C’è qualche cosa di comune nelle nostre giovinezze tormentate, perché abbiamo al nostro attivo delle esperienze politiche similari e una evoluzione che ci ha condotto dall’universalismo, necessariamente un po’ utopista, alle realtà nazionali indistruttibili e profonde. È di qui che si deve sempre partire, ciò che non esclude la ricerca, soprattutto in tempi turbati come quelli che viviamo di collaborazioni e di solidarietà più vaste» . Bisogna partire dalla Nazione. Ignorare questo consorzio naturale, questa dilatazione della famiglia, per aver coscienza soltanto della classe, equivale a voler ridurre la società umana ad una sola dimensione, quella verticale. L’universalismo internazionalista, ignorando o sopprimendo dei vincoli naturali, doveva cadere nell’utopia. L’evoluzione però che ha ricondotto – secondo la parola mussoliniana – i due uomini di Stato verso le indistruttibili e profonde realtà nazionali, non si è arrestata alle frontiere. Le stesse realtà li hanno risospinti verso la collaborazione internazionale. Anche l’Europa, la società civile, il consorzio umano rappresentano una realtà insopprimibile che c’impone dei doveri, ci stabilisce dei limiti, reclama dei servizi. Ma noi dobbiamo servire l’universalità solo per mezzo della Nazione e con la Nazione, come serviamo lo Stato nella famiglia e con la famiglia. Il concetto dell’universalismo cristiano, avendo carattere organico, riposando cioé sulla subordinazione e coordinazione degli organi naturali, della società, ispira una collaborazione internazionale che provvede alla pace fra i popoli, senza intaccare la coscienza nazionale. Di questo genere è appunto l’opera così felicemente iniziata a Roma dai rappresentanti dell’Italia e della Francia. Tali coincidenze sono affermate anche dal Temps (8 gennaio) – O tempora, o mores! – quando con un linguaggio insolito, che ricorda il Guizot , dichiara che il popolo francese, rimanendo fedele al suo ideale di solidarietà umana, per servire la propria causa serve nello stesso tempo la cause de la chrétienté qu’on ne saurait séparer en Europe de celle de la civilisation.
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La Saar, come questione internazionale, è finita, e – così Dio voglia! – liquidata per sempre . Il territorio verrà ripartito in distretti del Palatinato bavarese e della Prussia renana, e dell’attuale regione autonoma non rimarrà neppure il nome. Dissipate le preoccupazioni, fatte nascere dal plebiscito, l’Europa internazionale respira di sollievo. Tutto è bene, quello che finisce bene. L’avvenimento si presenta anche a delle soddisfazioni bilaterali. I nazionalisti possono celebrarvi il trionfo del principio nazionale e la marcia irrefrenabile della tendenza unitaria; i democratici possono invece vantare la forza reparatrice della procedura plebiscitaria, che trova pacifici rimedi ai trattati imposti nella psicosi di guerra, e là ove regimi assoluti avrebbero create situazioni statiche irreparabili, causa di nuove guerre, introduce la dinamica delle rettifiche consensuali. Infine anche gli europeisti vi troveranno argomento di consolazione. Non si vide questa volta marciare lungo il Reno un campionario del futuro esercito europeo? Non accorsero gli italiani, gl’inglesi, gli svedesi, gli svizzeri a proteggere ed organizzare la libertà del plebiscito? «È con grande sollievo – scriveva il 12 gennaio la Libre Belgique – che nelle cancellerie europee si apprenderà che il problema avrà ottenuta la sola soluzione definitiva possibile, cioè il ricongiungimento alla Germania!». L’indomani la facile profezia trovò avveramento, e il sollievo fu proprio generale. Chi oserebbe turbare la gioia comune? Eppure all’Europa che pensa e che sente, a quanti amano figgere lo sguardo nell’intima profondità dei problemi umani, è rimasta una spina nel cuore. Il plebiscito fu libero, nel senso che le forze armate internazionali lo protessero da ogni violenza esteriore; ma né queste stesse forze né ogni altra cautela procedurale valsero a dargli la libertà interiore, la capacità cioè di venir espresso con sincerità e con integrità. Dio ci guardi dal contestare la sincerità del voto, per quello che concerne la sua tendenza finale, cioè il ritorno alla Germania. «Il povero uccellino della Saar – scriveva alla vigilia la cattolica e saarese Neuenkirchner Zeitung, parafrasando una celebre canzonetta, “Arm Saar-Vöglein” viveva in una gabbia d’oro, ma all’oro preferiva… la sua patria!». Sì, ma evidentemente voleva essere uccel di bosco! Il plebiscito per essere integrale e sincero, l’autodeterminazione per essere degna di tal nome avrebbe dovuto riguardare anche le qualità essenziali del regime. Perciò l’ex deputato Imbusch in una riunione che abbiamo ricordata altra volta , aveva esclamato: ad un ritorno senza condizioni non c’è da pensare! Ed invece fu proprio così, perché Ginevra non volle e forse non poté creare l’alternativa dello statu quo condizionato o meglio dell’annessione differita. Come potevano prevedere i formulatori del trattato di Versailles che in Germania sarebbe sorto un regime di tal fatta, da rendere perplessi i Saaresi nel momento delle loro decisioni? Com’era possibile nel caldo dopoguerra immaginare un sistema di governo che ponesse in discussione i principi comuni che allora reggevano tutti i popoli? E tuttavia noi non possiamo dimenticare che nella Saar l’angoscioso problema fu posto, ed ancora ci risuona agli orecchi il grido patetico dei cattolici, convenuti nella sala delle opere cattoliche di Saarbrücken il 30 novembre. Vi si videro una cinquantina di sacerdoti, attorno al sac. Bungarten già capo del Centro, vi si videro vecchi e giovani organizzatori con artigiani, con intellet-tuali, con operai: un forte nucleo insomma di discepoli di quel celebre cappellano Dasbach che fu una delle figure più popolari della Germania cattolica, una pattuglia numerosa di quei cattolici che ancora nelle elezioni del 1932 per la dieta locale (Landesrat) costituivano con 156.515 voti su 336.893 votanti il partito più numeroso e disciplinato della regione. Questi cattolici assieme ad un gruppo di protestanti, fedeli alle loro vecchie chiese, pubblicarono una fiera protesta contro «la violenza brutale, la soppressione di ogni libertà, la soppressione delle lettere pastorali dei vescovi, l’abolizione delle società cattoliche, contraria al concordato, la distruzione dei diritti operai, la propaganda neopagana di Rosenberg e Bergmann». L’o.d.g. dell’«Associazione popolare cristiano-sociale», riportato anche in queste cronache , fu un atto di coraggiosa sincerità. In quanto al plebiscito, l’adunanza si esprimeva per il ritorno alla Germania, ma colla garanzia di un minimo di giustizia e di libertà! Vogliamo sperare che tali garanzie nel frattempo siano state date e ci associamo all’Osservatore Romano nella fiducia che Hitler voglia inaugurare nella Saar un regime di tolleranza e di rispetto alle giuste convinzioni, il quale dimostri esagerate o infondate le preoccupazioni della vigilia. Dopo tutto i cattolici hanno finito col votare per la Germania. «Andremo a soffrire e a combattere coi nostri fratelli», aveva dichiarato una personalità cattolica al direttore della Cité Chrétienne. I vescovi, possedendo tutti gli elementi di giudizio, ed interpreti di una situazione generale che supera i confini della regione contrastata, diedero una parola d’ordine che venne seguita dall’enorme maggioranza. La vittoria della Germania è dovuta al patriottismo e alla disciplina dei cattolici. Ora il vescovo di Spira emana di questi giorni una pastorale per ringraziare i diocesani d’aver votato per la Germania ed aggiunge: «Siamo riconoscenti anche ai diocesani saaresi che forse opponevano qualche obiezione al ritorno immediato. Durante quindici anni hanno provato con atti e con parole la loro fedeltà alla patria tedesca». Questo coraggioso riconoscimento di un vescovo tedesco rende ancora più doveroso quello dei cattolici non tedeschi, che possono guardare al problema da un punto di vista puramente ideale e nazionalmente disinteressato. A buon diritto, prima ancora che il voto avvenisse e polemizzando con un confratello fiammingo, la Libre Belgique scriveva: «Ceux qui luttent avec une belle vaillance au mépris de leurs intérêts materiels, de leur sécurité et de leur vie, pour une Allemagne libre et chrétienne… méritent de leurs coreligionnaires étrangers, mieux que des reproches aussi déplacés. Les Sarrois opposants se seront, quoi qu’il arrive, grandis aux yeux de l’Europe. Au lendemain du scrutin, l’Europe devra, s’il le faut, les protéger et empêcher qu’ils ne tombent… victimes de leur courage et de leur fidélité aux valeurs morales». Fedeltà ai valori morali, ecco la parola. Noi non abbiamo nessuna ragione di credere che i cattolici oppositori o la maggior parte di essi si siano lasciati guidare da interessi meschini. Da due anni già il partito del Centro non esisteva più ed era stato assorbito dal «fronte tedesco»; giornali ed organizzazioni di carattere economico o sindacale erano stati sincronizzati. Non rimanevano in piedi che le società di formazione cattolica; le ragioni per cui ci si batteva non potevano essere che ideali. Per che cosa volete si sia battuto quel missionario del Verbo divino, ritornato in patria dopo molti anni in Cina e recatosi a parlare nel comizio di Sulzbach? Quali interessi personali avevano da difendere quei sacerdoti e quegli intellettuali che affrontavano, inermi, minacce così paurose? O quei vecchi deputati che nel periodo prehitleriano avevano girato le capitali d’Europa per convincere italiani, inglesi, olandesi, del carattere irremovibilmente tedesco della loro regione? Non v’ha dubbio, essi combattevano per ragioni morali; e tra queste vi era anche una ragione insuperabile di dignità. Ciò che rendeva penosa e moralmente equivoca la loro situazione, non era l’adattamento ad un regime più forte di loro, né il fatale compromesso colla realtà: compromessi, di cui è purtroppo intessuta tutta la vita; ma era il silenzio complice e colpevole, il mentire tacendo, l’ipocrisia di un atto, rimasto in aria come un interrogativo, senza la possibilità di una discriminazione. L’autodeterminazione non poteva consistere semplicemente nel decidersi per il sì o per il no, ma consisteva sopra tutto nel dichiarare le ragioni del sì o del no, in modo che in ogni caso, avesse potuto farsi valere la libera personalità del cittadino. Solo così si poteva precisare il significato del voto e cavarne le indicazioni necessarie. Se il terrore avesse soffocata questa libertà di motivazione ed avesse imposta una votazione en bloc, cioè una cambiale in bianco per l’avvenire ed una sanatoria per il passato, il voto rischiava di diventare un atto di viltà e d’ipocrisia, se non di dedizione servile e capitolazione dottrinale, come se ne vide cenno anche in qualche perorazione sacerdotale che l’Osservatore Romano si affrettò a sconfessare. Per i più avviene in tali casi che, non osando dire pubblicamente il proprio pensiero, escogitino in privato le motivazioni più machiavelliche, a proposito delle quali si potrebbe ripetere coll’Ojetti in Cose viste : «Gran bella cosa in politica la paura. Ma abbi cura di chiamarla prudenza, tattica, tradizione, disciplina, amor di patria ecc.». E nel caso nostro si sarebbe potuto aggiungere: amor di religione, perché molti erano pronti a dire che si sacrificavano, affinché i confratelli del resto della Germania soffrissero meno. Per questo quel gruppo di cattolici credette suo dovere di parlare, fino che di parlare, per quanto con rischio, era ancora possibile. Dixi et servavi animam meam! Dopo quelle fiere proteste contro il sistema nazista, nessuno potrà più equivocare o speculare sul plebiscito. Si vota per la Germania, non per il nazionalsocialismo; per la patria, non per il regime. Quest’atteggiamento ebbe anche il merito di costringere gli stessi hitleriani prima del voto a fare tale discriminazione. Deutschland über alles, anche sopra il nazismo. Ed ecco le dichiarazioni dei vescovi, i quali avendo parlato anche recentemente contro le false dottrine politico-sociali, erano fuori di ogni equivoco, ed ecco mons. Wolker , capo delle organizzazioni giovanili, scrivere nella Jungfront un appello, affinché i saaresi venissero ad unirsi ai confratelli nella lotta per la libertà religiosa. La voce di protesta della Saar ebbe quindi il merito di moralizzare il voto, di salvare l’integrità e la dignità della persona umana, di contribuire in misura notevole a dare al plebiscito il significato di un ritorno alla Germania, nonostante il nazismo. Onde se il vescovo di Spira esprime il suo riconoscimento, gl’hitleriani stessi dovrebbero apprezzarne l’alta ispirazione ideale e il mondo non negare l’omaggio dovuto a chi ha fatto l’onesto sforzo di conciliare il proprio patriottismo colle inderogabili ragioni della coscienza. Nella Revue des Deux Mondes si legge un vigoroso articolo di *** sul cattolicismo e la politica mondiale. L’articolista tende a dimostrare che il cattolicismo esercita oggidì un’azione preponderante sul movimento politico del mondo e che quindi la Francia ha il massimo interesse di tenere in gran conto una forza così viva e potente. L’articolo, scritto evidentemente da penna diplomatica prima della visita di Laval in Vaticano, ne è come un commento anticipato e rappresenta un’eloquente perorazione di quella saggia politica che riconduce la Francia ad accostarsi – purtroppo non ancora nelle leggi – alla Chiesa cattolica. In questo tour d’horizon l’illustre autore così scrive del cattolicismo in Germania. «Solo interprete in Germania dei diritti della coscienza umana e della libertà individuale contro l’assolutismo dei nazi, il cattolicismo ha cominciato ad essere il solo fermento della resistenza all’asservimento generale della nazione sotto la disciplina spirituale dei suoi padroni». In Austria fu sulla base del cattolicismo che si pose il governo quando volle difendersi contro l’Anschluss e il contagio del nazismo. Nella stessa Saar fu il Vaticano a garantire colla sua neutralità la libertà delle coscienze. In Italia il governo fascista «è riuscito ad adattare gli interessi della Chiesa cattolica alle esigenze del regime totalitario, unificatore dell’educazione, geloso della sua influenza sulla gioventù, diffidente delle associazioni che non sono le sue». In Ispagna, non essendosi la Santa Sede vincolata alla Monarchia, può ora liberamente sostenere i cattolici nella loro opera di riforma costituzionale; e se nella Russia sovietica il regime bolscevico paralizza ogni sviluppo del cattolicismo, bisogna rilevare in compenso che negli Stati Uniti, nel Giappone e nell’America Latina i progressi del cattolicismo sono grandiosi. Il Ministero Flandin, sempre richiamandosi al principio economico liberale, il cui regime proclama di voler ristaurare, ha presentato un terzo progetto di legge che tende a fare nel campo industriale quello che, su proposta dello stesso Flandin, il Parlamento ha già decretato per il campo agricolo, onde valorizzare il vino e il grano. La legge rende obbligatori certi accordi industriali, quando siano accertate determinate premesse. Il progetto introduce nella legislazione francese un principio del tutto nuovo e antiliberale, quello cioè che nell’interno di una professione interessante l’economia nazionale, la minoranza possa essere costretta, sotto certe condizioni ben determinate, ad adottare le misure prese dalla maggioranza, per rimediare ad una situazione grave. Questi «accordi obbligatori» sono circondati da numerose cautele. La maggioranza che decide un dato provvedimento dev’essere di due terzi e rappresentare almeno i tre quarti degli affari di tutte le imprese della branca interessata. Gli accordi dovranno avere una durata limitata e passare prima la trafila di un comitato d’arbitrato, il quale sarà composto delle più alte personalità dell’economia nazionale e nel quale il segretario generale del Consiglio economico nazionale eserciterà le funzioni di commissario di governo. Quando la decisione della maggioranza della professione avrà ottenuto il parere favorevole di questo comitato consultivo, il governo potrà rendere obbligatori gli accordi con particolare decreto del ministero. In caso d’infrazione agli accordi resi obbligatori, il contravventore sarà condannato a rifondere i danni e perfino alla chiusura dello stabilimento. Come risulta dalla motivazione che precede il progetto, il nuovo provvedimento mira a diminuire e regolare la produzione industriale, come quelli sul vino e sul grano miravano a contenere la produzione dell’uno e dell’altro. In Italia e altrove questa legislazione si chiamarebbe corporativa, in contrasto voluto e reale colla libertà di produzione e di commercio, caratteristica del sistema capitalistico. Flandin invece afferma che questo è un provvedimento per il ritorno alla piena libertà, dovuto al disordine e alle sovrapposizioni create dall’eccessivo interventismo internazionale che impedisce «il libero giuoco delle leggi naturali». Lo stesso Flandin rileva questo contrasto di dottrine e di sistemi pur nell’analogia dei provvedimenti e dichiara che è questione di tradizioni e di temperamento. «È nel rispetto delle iniziative individuali e nel quadro della libertà che noi vogliamo ottenere dai produttori che essi si impongano da se stessi una disciplina. Non si tratta di uno statuto permanente per la produzione e ancor meno di una risurrezione delle antiche corporazioni, ma intendiamo creare una legislazione di crisi». Niente dunque corporazioni, commenta il Temps, o meglio solo corporazioni provvisorie, per la durata della crisi. E il prof. Bartelemy, ricalcando questa tesi, afferma che l’intervento dello Stato «è il rimedio eccezionale dei casi disperati, l’operazione chirurgica che si tenta su la domanda scritta del malato e la preghiera della famiglia. Si tratta di mettere la macchina in movimento, come si aggiogano i buoi ad un’automobile per farla partire… Quando crollerà questa Babele dello statismo, cominciato avanti la guerra e poi montato così in alto, il liberalismo sarà sempre là per salvare il paese». Si duo facient idem, non est idem. I fatti economici hanno una loro logica, al di fuori di ogni filosofia sociale. Ma gli uomini hanno bisogno di rivestirli di una dottrina e d’inquadrarli in un sistema che corrisponda al proprio temperamento ed alla propria concezione politica.
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I cattolici francesi hanno il merito di affrontare i problemi e d’indicarne almeno dottrinalmente la soluzione. La loro deficenza nell’azione pratica non deve attenuare questo riconoscimento, tanto meno ora che ai cattolici, nella maggior parte dei paesi, è rimasto solo il compito di conservare la purezza del loro ideale e di presentarlo nella maniera più suggestiva alle generazioni che sorgono. Dopo gli articoli di Etienne Gilson professore al «Collège de France» su Sept comparsi ora anche in un volume col titolo «Pour un ordre catholique» , ecco Jacques Maritain pubblicare nella Vie Intellectuelle del 25 gennaio un suo studio preparato nella parte essenziale per il congresso filosofico di Poznan (agosto 1934) con titolo: «Idéal historique d’une nouvelle chrétienté» . Questi pensatori hanno la giusta sensazione che i cattolici contemporanei sentono il bisogno di una palingenesi, di una nuova sintesi che raffronti i loro principi colle nuove tendenze politiche e sociali e tentano di aggiornare – se è lecito usare in tal nesso questa parola – il cattolicismo sociale all’attualità contemporanea. È ben vero che vecchi libri, come quello di Carlo Périn sulle «leggi della società cristiana» offrono ancora i criteri essenziali per giudicare anche i nuovi movimenti politici, ed è vero sopra tutto che le encicliche di Leone XIII, specie quella sulla «Costituzione cristiana degli Stati» servono sempre a chi le rilegga e le ricordi, come norma sicura; tuttavia il tentativo di designare le linee architettoniche dello Stato cristiano ideale, come meta d’un sia pur lontano avvenire, corrisponde ad una esigenza dello spirito ed è altamente meritorio. Il «mito» nel significato soreliano della parola ha preceduto tutti i movimenti politici odierni; ebbene, perché la visione di una «cristianità» ideale e pur conciliabile colla realtà non precederà la gioventù cattolica dei nostri giorni, come la colonna di fuoco che guidava gl’Israeliti nel deserto? È tempo perso, dice anche Maritain, come gridava già ai suoi tempi lo Hertling ai medioevalisti corporativi, è tempo perso di volgersi indietro ad ammirare la cristianità medioevale. Il mito del Sacro romano impero è tramontato. L’ideale storico del medioevo corrispondeva ad una concezione cristiana «sacrale» del temporale. La civiltà temporale era considerata come una funzione del sacro: si pensi al braccio secolare, al titolo di «vescovo degli esteri» attribuito talvolta al monarca, alle crociate. L’apparato istituzionale dello Stato veniva messo al servizio del bene spirituale. Non intendo condannare questo regime per principio, aggiunge il Maritain, ma fu in esso che l’umano introdusse i maggiori abusi, i quali divennero sempre più intollerabili fino che, caduta la cristianità medioevale, lo Stato, cessando di agire come strumento d’un’autorità spirituale legittima ed a lui superiore, si arrogò per se stesso ed in proprio nome il diritto di agire nelle cose spirituali. Il medioevo cristiano cadde colla Rinascenza e colla Riforma, ed è oramai una legge storica che una esperienza troppo fatta non possa venir ricominciata. Quale può essere invece l’immagine prospettiva d’una cristianità nuova? Essa corrisponderà non più ad una concezione sacra, ma ad una concezione profana cristiana del temporale e si fonderà su di un umanismo integrale e teocentrico. Le caratteristiche della sua struttura saranno, secondo il filosofo francese, le seguenti. Lo Stato, in opposizione alle diverse concezioni totalitarie in voga, sarà pluralista, raccoglierà cioè nella sua unità organica una diversità di gruppi e strutture sociali, incarnanti le libertà positive. Sarebbe un’ingiustizia ed un pernicioso turbamento dell’ordine sociale, scrive Pio XI nella Quadragesimo anno, quello di ritirare ai gruppi d’ordine inferiore per affidarle ad una collettività più vasta e di rango più elevato, le funzioni ch’essi sono in grado di esercitare da sé. Ma il principio pluralista troverà applicazione specialmente nel campo delle relazioni fra lo spirituale e il temporale. La differenza capitale fra lo Stato medioevale e il moderno è che quest’ultimo ammette nel suo seno la diversità religiosa. Nella città dei tempi moderni i fedeli vivono frammisti agl’infedeli. «È vero che lo Stato totalitario odierno pretende di nuovo d’imporre a tutti la medesima regola di fede, pur in nome dello Stato e del potere civile: ma questa soluzione non è accettabile per un cristiano». Maritain vuole invece che in base al principio della tolleranza civile, la società tolleri in essa (tollerare non è approvare) maniere diverse di adorare Iddio; ritus infidelium sunt tolerandi (Thomas II II, 10, 11); ma che d’altra parte tutta l’orientazione generale della legislazione sia verso la vita virtuosa e le prescrizioni della legge morale. La struttura giuridica della società sarà orientata verso il diritto cristiano, senza escludere una giusta libertà alle famiglie spirituali non cristiane. Non sarà possibile di ottenere un’unità religiosa confessionale come nel medioevo, ma si potrà ancora arrivare ad un’unità d’orientamento. La seconda nota caratteristica sarà l’autonomia del temporale a titolo del fine intermedio, ossia l’autonomia dello Stato nella sfera che gli è propria. La terza sarà la «exterritorialità della persona di contro ai mezzi temporali e politici». Al mito della forza al servizio di Dio si è sostituito quello della conquista e della realizzazione della libertà. «Non si tratta della libertà di scelta dell’individuo (non è che il principio o la radice della libertà) e nemmeno della concezione imperialista o dittatoriale, della libertà di grandezza di potenza dello Stato; ma, anzitutto della libertà d’autonomia delle persone, che si confonde colla loro perfezione spirituale». Chi ha letto l’opera recente del Maritain sul «Régime temporel et la liberté» comprende quello ch’egli voglia dire, quando parla di exterritorialità della persona in confronto del potere politico e terreno. A questa questione della persona Maritain congiunge anche quella della proprietà. La tendenza dev’essere quella di dare ad ogni persona umana la possibilità reale e concreta di accedere ai vantaggi della proprietà individuale. Ma d’altro canto non bisogna dimenticare che, come dice S. Tommaso, quanto all’uso l’uomo non deve avere le cose esteriori come proprie, ma come comuni. Fra queste due linee direttive pare a Maritain che il grande compito avvenire dell’etica cristiana sarà quello di difendere entro un sistema corporativo o sindacale, che sembra oramai una fatalità economica, la persona contro la collettività corporativa, sia pure assicurando alla comunità i vantaggi di tale regime: garantire cioè i beni elementari agl’individui non incorporati o non incorporabili nei quadri corporativi o sindacali, e garantire entro questi stessi quadri, i diritti e la libertà della persona. Il regime avvenire sarà democratico o antidemocratico? Si potrà chiamare antidemocratico, se si pensa alla libertà impersonale ed astratta di Rousseau, poiché la nuova civiltà incarnerà in istituzioni e corpi sociali le libertà concrete e positive, necessarie alla libertà interiore della persona. Ma d’altro canto questo regime salverà uno dei valori inclusi nella parola democrazia, cioè il sentimento civico popolare, per il quale il popolo è venuto ad aver coscienza dei suoi diritti e del fatto che il governo, secondo la parola di S. Tommaso, non è che vicem gerens multitudinis . E il fine di questo regime? Se non potrà più essere, come nel medioevo la realizzazione per mezzo dell’uomo di un’opera divina sulla terra, sarà almeno la realizzazione di un’opera umana da attuarsi sulla terra per il passaggio di qualche cosa di divino, che è l’amore, la fraternità umana. Il principio dinamico di questa società non sarà né il mito della classe né quello della razza, non quello della nazione né quello dello Stato, ma l’idea evangelica della dignità della persona umana e della sua vocazione spirituale e dell’amore fraterno che le è dovuto. In verità Jacques Maritain non crede che la palingenesi sia molto vicina, anzi pensa che dovrà formarsi lentamente nelle «catacombes de l’histoire». Premesse indispensabili della nuova civiltà sono: a) che il mondo cristiano rompa con un regime di civiltà fondato spiritualmente sull’umanismo borghese ed economicamente sulla fecondità del danaro; b) che un numero sufficiente di cristiani comprenda che l’instaurazione di una cristianità esige il mezzo della santità personale. Tendere più che a meccanismi esteriori e a riforme istituzionali, a riformare se stessi, a vivere politicamente secondo lo stile cristiano. Questa conclusione è identica a quella che Giuseppe Toniolo poneva in fondo al suo libro sulla democrazia cristiana (1900) . Diversa mentalità, diversa situazione, ma identico il pensiero, che la vera e decisiva riforma sociale verrebbe non dal mutato ordine di cose – che è pur giusto invocare e preparare – ma dall’opera e dall’esempio della santità. Non tutte le affermazioni del Maritain sono altrettanto indiscutibili quanto questa; ma intanto il suo sforzo di rielaborare gli antichi principi in faccia ad una nuova situazione, merita ogni lode ed imitazione. Toniolo ed in genere la scuola sociale l’hanno fatto in confronto del liberalismo e del socialismo; e gran parte degli elementi che costituirono la loro scuola sono oggi più vitali che mai e tutt’altro che legati all’età che fu loro: esigono tuttavia un aggiornamento, una proiezione verso l’avvenire, affinché la gioventù non rinunzi alla virtù di quei principi e si riscaldi ancora al fuoco di quelle speranze. Georges Viance caratterizza benissimo la situazione politica francese, da noi illustrata, altra volta, con queste sole parole: «Flandin sera-t-il libre de diriger la liberté?». Il signor Heyman , che molti in Italia ricorderanno come oratore per il Belgio nell’assemblea commemorativa della Rerum novarum alla Cancelleria e fu già ministro del lavoro, ha presentato alla Camera belga un progetto di legge che è il frutto degli studi e delle discussioni svoltesi in seno alla Federazione dei lavoratori cristiani ed all’assemblea dell’Unione padronale, presieduta dall’odierno presidente dei ministri Theunis . Il progetto è dunque la risultante concreta delle varie correnti entro il cattolicismo sociale belga. Esso mira a dare riconoscimento giuridico ai sindacati; a dar forza di legge ai contratti collettivi di lavoro, per l’esecuzione dei quali i sindacati potranno stare in tribunale e il tribunale potrà punire i dirigenti sindacali che ecciteranno i membri a rompere il contratto; a costituire per legge delle commissioni paritetiche permanenti, rappresentanti tutto il ramo dell’industria. I sindacati avranno diritto di presentare dei candidati per le funzioni dei commissari, ma la nomina verrà fatta per decreto reale. La presidenza è riservata a magistrati. Le commissioni tenteranno di conciliare i conflitti, ma non li giudicheranno; il giudizio è riservato ai tribunali competenti, specie ai consigli «de prud’hommes». Esse potranno però decidere di estendere una convenzione a una o più regioni o a tutte le imprese d’un ramo industriale o commerciale; anzi, con una maggioranza qualificata, potranno imporre alla professione un regolamento corporativo. Questi regolamenti dovranno venir sanzionati dal potere centrale. Per coronare tale edificio si propone l’istituzione di una commissione nazionale della produzione, con poteri conciliativi e regolamentari. Questo progetto dovrà ancora passare la trafila parlamentare e subire probabilmente delle modificazioni. Ma intanto non sfuggirà ad alcuno che si tratta di applicare il programma corporativo per risolvere le vertenze del lavoro. Le commissioni paritetiche agiscono come corporazioni: la loro funzione è eminentemente sociale (componimento delle differenze fra operai e padroni) ed in parte economica (regolamenti corporativi). Manca invece del tutto la funzione politica. Il sindacato è libero, la corporazione invece è unica, sotto la direzione dello Stato, in base al vecchio principio dei cristiano-sociali francesi: «Le syndicat libre dans la profession organisée»!
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Il cardinal van Roey , arcivescovo di Malines e primate del Belgio, nella sua pastorale della presente Quaresima tocca anche la questione dei «partiti cattolici». «È assurdo, egli dice, scambiare la Chiesa cattolica con un partito cattolico e misurare la sua forza dai risultati elettorali. È fuori di dubbio – però – che il partito cattolico, quale venne creato dall’evoluzione storica nelle nostre provincie , ha reso alla religione ingenti servigi. Esso ha frustrato parecchi attentati alla libertà di coscienza e ai diritti essenziali della Chiesa ed altri ne ha riparati: da ciò derivò il suo diritto di esistenza nel passato e da ciò deriva il suo diritto di esistere anche nel presente. Sarebbe una pazzia – com’è avvenuto troppo spesso in altri paesi, ove i cattolici pagano cara questa mancanza – di lasciare incontrastato il potere politico ai nemici della nostra fede cristiana, perché distruggano così i nostri diritti e mettano in catene la libertà religiosa. Tutti coloro perciò, ai quali sta a cuore la difesa dei postulati spirituali, devono di qui innanzi formare un partito saldo, ben organizzato e forte per la sua disciplina, che rappresenti, se necessario, una cittadella inespugnabile. Crediamo di dover dir questo con tutta franchezza, specie di fronte ad alcuni gruppi di giovani cattolici, i quali non tengono sempre conto della realtà che scambiano spesso per i loro sogni. Ciò detto, non è lecito tuttavia confondere il partito cattolico belga colla Chiesa cattolica. Il partito cattolico non è un’emanazione della Chiesa né da essa dipende nella sua attività politica; esso fissa in tutta libertà il suo programma economico, finanziario e militare, e per diventare membri del partito non è richiesta alcuna professione di fede. La Chiesa s’occupa di tutt’altre cose; essa si rivolge alle anime e procura d’indicar loro la via della felicità. Si può facilmente constatare che il suo campo d’azione non ha nulla di comune col campo di battaglia, sul quale si battono i partiti. Essa non pone dei limiti alla sua benefica influenza; e a lei vengono le anime senza distinzione, spinte dall’aspirazione religiosa, posta dalla natura nel cuore di tutti gli uomini… Di questo regno delle anime che sta fuori e sopra i gruppi e i partiti, intendiamo dire, ogni volta che parliamo della Chiesa». I giornali spagnuoli fanno un gran parlare d’un discorso di don José Maria Gil Robles tenuto all’Union Mercantil di Madrid il 2 di questo mese. È un grande programma di ricostruzione economica che tratta di riforme fiscali (imposta sulla rendita), economie nelle amministrazioni, riforme doganali, rimboschimento, organizzazione della produzione industriale. Politicamente il discorso riafferma la necessità del governo forte, ma pur ammettendo desiderabile un mutamento della costituzione nel senso di rafforzare il potere esecutivo, Gil Robles crede che anche l’attuale statuto spagnuolo ammetta la possibilità di costituire una «autoridad incontrastable, contro la cual no puedan las coacciones ni las violencias de ningun género», purché esista una volontà decisa di mantenere lo Stato al di sopra delle fazioni. In questo nesso egli viene a parlare anche del Parlamento: «Si ripete spesso che il Parlamento è una finzione e che la sua scomparsa è indispensabile. Devo constatare che né per i miei precedenti, né per la mia esperienza parlamentare sono partigiano di questa sparizione. Conosco i suoi difetti, ma non commetto l’imprudenza di pretendere la sua demolizione. È molto facile di minare le basi delle istituzioni, ma poi è difficile assolvere i compiti ch’esse disimpegnano». «Ma con la stessa sincerità tengo ad affermare che il Parlamento attuale non ha né la costituzione tecnica, né il tempo, né l’interessamento necessario per attendere ai problemi economici. I produttori non sono rappresentati nelle Camere politiche. Accanto ai parlamenti ideologici (de ideologia) che saranno necessari finché esisteranno partiti e i partiti esisteranno finché esisteranno differenze d’opinione, è necessario creare la rappresentanza degli interessi. È urgente costituire un “Consejo de la Economia nacional” nel quale siano rappresentati tutti i settori economici del paese, i proprietari e gli operai … Questo Consiglio dovrebbe esaminare tutte le leggi economiche dello Stato spagnuolo, le quali leggi passerebbero poi, per “un’approvazione sommaria in blocco”, al Parlamento. Confido inoltre che questo Consiglio economico si convertirà in un organo “colegislador”, cioè nella seconda Camera di cui la Spagna ha tanto bisogno». A questo punto Gil Robles accenna anche al corporativismo: «Io non sono ostile alla rappresentanza corporativa che è così radicata nella nostra tradizione nazionale. Però devo osservare che lo spirito razionalista del sec. XVII coincise col corporativismo, che il sindacalismo non è che una lotta d’interessi, la quale rende impossibile lo spirito corporativo e che se non va congiunto ad uno spirito adeguato, tutta l’organizzazione corporativa è condannata a morte. Quello che più importa dunque è lo spirito del popolo, quello spirito che deve sostituire la coazione colla collaborazione e l’odio coll’amore». Le notizie che giungono dalla Baviera fanno temere che i cattolici tedeschi perdano una battaglia che finora avevano combattuta vittoriosamente in tutte le varie vicende della storia contemporanea. La scuola cattolica confessionale aveva resistito a tutti gli assalti del liberalismo, aveva attraversato quasi impunemente il periodo del Kulturkampf e si era salvata perfino nella Costituzione di Weimar, votata da una maggioranza socialista e democratica. Con grande energia e con celebrata abilità i deputati del Centro erano riusciti a costringere i socialisti ad un compromesso che in ultima istanza lasciava decidere ai genitori se preferivano per i loro figliuoli la scuola confessionale o la scuola comune interconfessionale chiamata comunemente «simultanea». La Costituzione di Weimar cioè stabiliva bensì all’articolo 146 che verrebbe istituita «una scuola-base a tutti comune», sulla quale s’innalzava poi l’edificio delle scuole medie e superiori. Nel secondo capoverso però dello stesso articolo si aggiungeva: «Tuttavia nei comuni, su proposta dei genitori e in quanto ciò non renda impossibile un’adeguata frequentazione della scuola, saranno da erigersi scuole popolari della loro confessione. Della volontà dei genitori sarà da tener conto nella massima misura possibile. I particolari esecutivi saranno fissati in apposite leggi degli stati federali, seguendo le linee fondamentali che verranno tracciate da una legge scolastica del Reich». La Costituzione di Weimar dunque prevedeva che si dovesse decidere plebiscitariamente in ogni comune quale scuola popolare vi si dovesse erigere. Ma non era che un’affermazione di principio, perché per l’esecuzione bisognava prima che si votasse un’apposita legge nel Parlamento centrale e si fissassero dei regolamenti negli stati federali. È noto che i vari tentativi fatti dai cattolici fino al 1932 non riuscirono a varare la legge scolastica, sia per l’opposizione dei socialisti, sia talvolta per l’opposizione della destra. Ciò malgrado la scuola confessionale non perdette terreno, perché il Centro aveva avuto cura di fare inserire nella Costituzione di Weimar un’articolo aggiuntivo (174), il quale stabilisce che fino all’emanazione della legge e dei regolamenti rimane in vigore lo statu quo. Ora lo statu quo era che la scuola confessionale dominava nella maggior parte della Prussia, in Baviera e nel Württemberg, mentre la scuola simultanea prevaleva di fatto e di diritto nel Baden, nell’Assia, nella Nassovia e nella Prussia occidentale. Ora l’attacco del nazionalsocialismo contro la scuola confessionale appare più pericoloso di quello che sarebbe stato l’attacco socialista: in teoria, perché i socialisti germanici si erano lasciati indurre ad ammettete nella Costituzione il diritto d’esistenza d’un terzo tipo di scuola, cioè della scuola libera, che i cattolici consideravano come la trincea di riserva sulla quale si sarebbero ritirati; ma più ancora per la ragione pratica che mentre l’anticlericalismo socialdemocratico veniva tenuto in iscacco da un forte gruppo parlamentare cattolico, ora il nazismo ha concentrato in sé la rappresentanza di tutti i poteri. I cattolici però, come s’è visto, si battono con estremo valore sotto la guida di un episcopato che è esempio di coraggio e di energia. Il discorso del 9 febbraio del cardinale Faulhaber , la cui diffusione venne subito interdetta e che pur tuttavia s’è fatto arrivare fino all’ultimo villaggio della Baviera su stampati alla macchia e dischi di fonografo, è un grido potente di allarme per l’adunata di tutte le forze. Non si può negare tuttavia che la percentuale dei genitori che hanno iscritto i loro figliuoli alle scuole confessionali è notevolmente diminuita, benché sia ancora la maggioranza, e questo senza dubbio per l’enorme pressione esercitata dal partito di governo. L’articolo 23 del concordato garantisce senz’altro il mantenimento e la nuova fondazione delle scuole cattoliche confessionali; ma si è visto che il governo procede cautamente su questo terreno e comincia frattanto ad abolire o ridurre le scuole magistrali cattoliche, intaccando cioè l’albero nelle stesse radici. Per di più i sindaci in gran parte protestanti o comunque fiduciari del nazismo, nominati dall’alto, agiscono via facti entro la sfera autonoma del proprio comune e istituiscono senz’altro scuole comunali «simultanee» dichiarando, come fece recentemente il Bürgermeister di Monaco , che i danari pubblici non si possono disperdere in istituti di parte. Il regresso subito dai cattolici nelle pubbliche mansioni è maggiore ancora in altri paesi fuori della Baviera. Il Baden, per esempio, che fino all’avvento di Hitler aveva un governo cattolico è ora diretto da un governo che non conta fra i suoi membri nemmeno un cattolico praticante e protestanti sono i sindaci della maggior parte delle città del lago di Costanza, benché la maggioranza della popolazione sia indiscutibilmente cattolica. Il consiglio federale della gioventù cattolica francese (A.C.I.F.) venne convocato il 27 e il 28 gennaio per deliberare intorno ai «doveri civili dei giovani». Non si trattava di una discussione teoretica ma di un problema pratico imposto dalla situazione. Si avvertiva infatti che qui e là qualche diserzione dalla gioventù cattolica avveniva in nome di un maggiore attivismo, rappresentato da una di quelle leghe squadriste che abbiamo descritto nell’ultimo numero di questa rubrica. Qui e là i giovani si erano detti che l’azione cattolica era diventata insufficiente, che bisognava inquadrarsi in quei movimenti che intendevano difendere i buoni principi anche con la forza e che si proponevano di intervenire subito nella politica quotidiana. A parte anche queste diserzioni, sorgevano inoltre delle voci ad accusare la gioventù cattolica di astensionismo di fronte ai pericoli che minacciavano la società francese e alla necessità di rinforzare le falangi dei difensori dell’ordine. La A.C.I.F. però dopo due giorni di discussione estremamente interessante ha respinto la cosidetta tendenza attivista riconfermando che il suo scopo non è quello di gettarsi nella mischia attuale dei partiti, ma di perseguire l’opera di cristianizzazione delle masse e di completarla con una restaurazione cristiana delle istituzioni sociali, quali la famiglia, la professione, la città, fondamenti questi necessari dello Stato che si vuole ricostruire. Così rifiutandosi di fare la politica quotidiana, la gioventù cattolica fa la grande politica, quella di risanare le basi fondamentali della società e dello Stato. Si annunzia che al prossimo congresso generale dei soviet il governo presenterebbe un soggetto di riforma elettorale. Si tratterebbe nientemeno che d’introdurre, dopo diciassette anni di regime socialista, quel suffragio «eguale, diretto e segreto», che fu fin dal 1848 il grido di battaglia dei socialisti contro i regimi borghesi di tutte le nazioni. La eguaglianza consisterebbe nel permettere che anche i contadini possano eleggere i loro deputati nella stessa proporzione, in rapporto alla cifra della popolazione, come gli operai. Pure i collegi rurali eleggeranno direttamente il deputato pel congresso dei soviet, mentre finora i contadini eleggevano appena gli elettori regionali dei loro deputati. Infine il voto sarà segreto, ossia si voterà mediante scheda in busta chiusa. E come votavano finora, chiederà a questo punto il «reazionario» europeo? Votavano alzando la mano! Votavano cioè con quel sistema che i socialisti nelle loro campagne democratiche del secolo XIX qualificavano come il sistema coattivo e menzognero della più nera reazione. Staremo a vedere in qual forma il progetto uscirà dalle discussioni del congresso e quali altre clausole vi verranno introdotte per garantire a qualunque costo la continuazione del presente regime; e rimane fin d’ora certo che non si potrà parlare in ogni caso di suffragio universale quale conoscono la maggioranza degli Stati europei. Ma intanto l’annuncio della riforma ha dato rilievo ad un fatto vergognosamente caratteristico, al fatto cioè che in Russia, a tutt’oggi, il regime deve la sua esistenza ad un voto strappato ad una folla terrorizzata che, all’intimazione dei capi, si arrende e alza le mani! Nel recente referendum svizzero sui progetti militari (aumento della ferma di tre settimane) i cantoni cattolici, specie quelli attorno al lago dei quattro cantoni, votarono contro. Non valsero gli appelli dei due ministri cattolici (Motta e Etter ), né la parola d’ordine del partito cattolico-conservatore. I contadini votarono contro, per significare che la crisi era venuta fino lassù, a battere alle loro porte.
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Nell’azione della Germania bisogna distinguere il fine e il metodo. Il fine è l’eguaglianza giuridica, cioè la parità di trattamento anche nelle questioni militari. Questo fine fu la mèta di tutti i governi tedeschi del dopo-guerra ed è l’aspirazione unanime del popolo tedesco. A questa mèta ci si andava accostando anche nei convegni internazionali: si era già ammesso da tutti il principio e c’era l’impegno anche di attuarlo, purché venisse compensato dalla partecipazione della Germania ad un sistema di patti di sicurezza imperniati sul patto fondamentale della Società delle Nazioni. Ma il metodo per raggiungere il fine fu diverso, a seconda dei governi che diressero la Germania. Fino a Brünning i tedeschi agirono secondo i principi di una graduale evoluzione, che di anno in anno andava liberandoli dai pesi e dalle «discriminazioni» del trattato di Versailles. Fino a Brünning tutti i governi, di destra, di centro e di sinistra pur chiedendo di essere prosciolti, affermarono il loro buon volere di osservare le clausole del trattato. Brünning si liberò delle clausole economiche, non rinnegando l’impegno firmato dalla Germania, ma dimostrando l’impossibilità di attuarlo. Era il metodo buono, il metodo efficace che aveva guadagnato alla Germania molte simpatie. Adolfo Hitler prescelse tutt’altra via in nome del prestigio e del «punto d’onore» della Germania. Molti, anche fuori della Germania – basti ricordare l’Italia ed il suo governo – hanno combattuto certe imposizioni del trattato o come ingiuste o come inefficaci e tutti sono persuasi che una pacificazione non è possibile senza l’eguaglianza. Ma questi stessi sentono la necessità inderogabile che il mondo civile sia legato dalle norme supreme del diritto anche nei rapporti internazionali. C’è ancora una volta una questione morale che caratterizza, che controsegna la questione politica: quella che avendo aperto all’Europa del dopoguerra la via, più o meno facile, più o meno faticosa delle intese e dei patti, si trova oggi nuovamente rovesciata nei procedimenti unilaterali, nei colpi di sorpresa e di forza, nei «fatti compiuti»; di tutto ciò in una parola che ha costituito in ogni tempo le premesse dei più dolorosi conflitti. L’insistenza della crisi economica del Belgio dovuta allo sviluppo eccessivo della produzione industriale e alla chiusura degli sbocchi del suo commercio, è causa di un malessere profondo che scuote tutti partiti e tutte le tradizioni. In un primo periodo il partito che soffrì più fu il socialdemocratico che non rivediamo al potere dal 1928. Ne soffrì maggiormente perché la crisi colpendo sopra tutto i salariati industriali ne esasperò i sentimenti politici spingendoli verso le idee del sindacalismo rivoluzionario; e ne sofferse anche perché il dissesto economico coincise colla rapida decadenza del socialismo europeo, culminata nel crollo del marxismo tedesco. Anche il vecchio Vandervelde comprese che bisognava rinnovarsi o perire, che l’antica tattica dell’attendere il crollo del capitalismo dalla sua stessa degenerazione non esercitava più alcuna attrattiva e che per opporsi risolutamente ai movimenti «fascisti», bisognava prendere a prestito il loro attivismo dinamico. In questo momento i socialisti belgi ebbero la fortuna di trovare il loro nuovo profeta in Enrico de Man . Prima della guerra il de Man era un giovane e brillante oratore del partito socialista che si distingueva per il suo attaccamento al marxismo ortodosso. Venuta la guerra, de Man si batté valorosamente e nelle meditazioni della trincea subì anche egli come tanti altri un profondo mutamento intellettuale del quale ha lasciato traccia nel suo opuscolo «La lezione della guerra». Come tanti altri egli finì di credere che le condizioni economiche della produzione siano fattori principali della storia e che il movimento socialista sia fatalmente provocato dalla crescente miseria del proletariato. Comprese invece tutta l’importanza del sentimento nazionale, tutta l’influenza delle idee forza e tutta l’importanza dell’azione volontaristica individuale. In un primo tempo i socialdemocratici alla Vandervelde lo trattarono con diffidenza e lo tennero in quarantena come sospetto di eresia, per cui Enrico de Man accettò una cattedra universitaria a Francoforte ove pubblicò le sue opere: «Al di là del marxismo» e «La gioia del lavoro» . Questo rinnovato studio del marxismo e la situazione economica, portarono il de Man a tentare una palingenesi del sistema marxista, capace di risollevare la morale del partito e di ridonare coesione alle varie correnti che in esso si combattono. Ed ecco il famoso «Piano di lavoro» . Il Plan du Travail non è però una disquisizione teoretica e non mira a trasformare la dottrina socialista, è invece una trasformazione dell’azione del partito socialista, dei suoi metodi e della sua politica. Il partito operaio belga (P.O.B.) nel suo congresso del Natale 1933 accolse questo piano come un’àncora di salvezza. Infatti esso nelle sue motivazioni generali non rinnega le vecchie dottrine e nelle sue finalità ultime riconferma il concetto generale della socializzazione e dell’abolizione delle classi, soddisfa quindi i veterani del partito che credono così di marciare sempre nella vecchia direzione. Ma il piano nella sostanza è un complesso di misure e provvedimenti economici che vengono presentati come immediatamente attuabili senza guerre civili e catastrofi sociali, sovrattutto come un intervento energico ed efficace per combattere la crisi e la disoccupazione. Gli attivisti vi vengono dunque attratti dalla speciosità di un dinamismo riformatore che affronta i mali sociali collo spirito risoluto del combattente che ha fatto la guerra. Il piano de Man rappresenta per il socialismo il mezzo di riprendere la marcia in avanti ed ecco perché esso trova ammiratori e seguaci anche nel socialismo francese e spagnolo. Esso esercita anzi la sua attrattiva anche su non socialisti e perfino su un gruppo di cattolici. L’autore del progetto si è preoccupato di disarmare tutte le diffidenze e tutte le ostilità. Egli ha creato un programma di governo che per essere realizzabile nelle attuali situazioni della società belga avrà bisogno della cooperazione di parte dei liberali e parte dei cattolici. De Man si proclama rispettoso delle libertà democratiche e delle istituzioni parlamentari, dichiara la Costituzione inviolabile e d’altro canto, condannando l’anticlericalismo tradizionale della socialdemocrazia, afferma che il suo piano s’occupa soltanto di riforme economiche e non tocca né le idee né le istituzioni religiose. Qual meraviglia che alcuni giovani cattolici desiderosi di superare i conflitti scolastico religiosi che hanno dominato fino alla guerra la politica belga, prestino facile orecchio a questa sirena di pace? Ma qual’è dunque il contenuto economico e politico di questo nuovo piano? Riportarne il testo sarebbe annoiare i lettori, riassumerlo non è facile . Oggetto del piano è la trasformazione economica e politica del paese e consiste nell’instaurare un regime di economia mista che comprende accanto ad un settore privato un settore nazionalizzato: la nazionalizzazione si estende all’organizzazione di credito, (banche) e all’industrie-basi; consiste inoltre nell’attuare un vasto programma di lavori pubblici per riassorbire la disoccupazione; infine tende a realizzare una riforma dello Stato e del regime parlamentare «che crei le basi di una vera democrazia economica e sociale». Un commissariato finanziario nominato dal parlamento presiederà all’organizzazione del credito e alla sua distribuzione. Le principali industrie e i trasporti verranno organizzati come servizi pubblici. Tutte le altre branche dell’economia appartengono al settore privato e il nuovo regime proteggerà tutte le attività economiche nelle quali sussistono l’unità della proprietà e la diretta conduzione dei mezzi di produzione (artigiani, contadini, piccoli proprietari ecc.). Il risparmio individuale sarà considerato come una forma legittima di assicurazione contro i contraccolpi economici e la legislazione sull’eredità non imporrà che i freni necessari per impedire la ricostituzione di un’oligarchia finanziaria ereditaria. Il piano prevede a questo punto la creazione di un Consiglio economico, il riconoscimento dei sindacati, le commissioni paritetiche, i contratti collettivi obbligatori, il minimo di salario. Un «Bureau d’études sociales» studierà «la possibilità d’orientare queste realizzazioni in vista di un piano quinquennale che comporterà un aumento della capacità di consumo d’almeno il 50% in 3 anni e del 100% alla fine del quinto anno». L’ultimo capitolo tratta delle riforme politiche che consisteranno nell’abolizione del senato, nella creazione di un’unica camera a suffragio universale assistita da consigli tecnici consultativi. Recisamente si afferma che l’esercizio delle libertà costituzionali sarà pienamente garantito a tutti i cittadini e che onde evitare i pericoli dello statalismo, i consorzi economici incaricati dal governo di dirigere l’economia saranno più che possibile autonomi. Il piano è innegabilmente molto abile e cerca di disarmare in antecedenza le grandi obbiezioni di principio che si oppongono al socialismo; ma è anche vero che esso è troppo generico. In realtà, a ben considerarlo, non si tratta di un piano, cioè di un complesso di provvedimenti concreti saggiati dalla esperienza, ma piuttosto di un programma, di indicazioni, di finalità, di metodi. La parte economico finanziaria ha sollevato le maggiori obbiezioni. A ragione si prevede che la nazionalizzazione delle banche provocherebbe la fuga dei capitali, che la distribuzione del credito per mezzo di organi dello Stato condurrebbe a favoritismi e corruzioni, che nessuna garanzia è in vista perché la politica dei prezzi preconizzata dal piano possa anche venire attuata, tanto più che il Belgio per un quarto della sua produzione industriale dipende dall’estero, né si vede come la politica monetaria del de Man possa attuarsi senza l’inflazione e i danni che essa comporta. Altre obbiezioni hanno carattere politico. A parte le intenzioni dell’autore, il piano non ci condurrà a breve scadenza alla dittatura socialista? È l’obbiezione che più preoccupa il de Man, il quale ben sa quanto sia radicato il costituzionalismo belga. Tanto è vero che in un progetto ulteriore, elaborato dal socialista «Bureau d’études» sopra citato, si abbandona la proposta della camera unica e si insiste sulla assicurazione che i metodi democratici saranno salvi e il parlamento manterrà le sue prerogative. Tuttavia dopo queste dichiarazioni preliminari, il progetto prevede che il Consiglio dei ministri potrà nominare per decreto reale cinque commissari incaricati della nazionalizzazione del credito e dell’industria-base. Questo direttorio economico acquisterà di fatto un potere sempre più estensivo a cui il controllo parlamentare potrà porre un ben scarso freno. «In realtà, scrive Henry Nicaise nella “Cité Chrétienne” ,l’attaccamento alla democrazia parlamentare non è per i socialisti che un atteggiamento difensivo contro il capitalismo e il “fascismo” dei governi borghesi… Per coloro che sono attaccati ai valori della persona e della vera dignità dell’uomo, il regime della dittatura del proletariato è altrettanto odioso che il regime di dittatura capitalista… Per noi cattolici in particolare un governo socialista autoritario rappresenta la rovina di tutte le speranze della costruzione di una società cristiana». Ma i cattolici non possono limitarsi a respingere il piano e a criticarne le disposizioni. «Noi crediamo, scrive il Padre Arendt S. J. , quello stesso che in questi giorni di crisi venne con parecchi altri non parlamentari consultato dal Re, che l’umanità è arrivata a una di quelle grandi epoche che portano alla vita pubblica dei grandi cambiamenti. È vero che più urgente di tutti è la riforma dei costumi, ma non possiamo trascurare il cambiamento delle istituzioni e dobbiamo tentare, come lo augura Pio XI nella Quadragesimo Anno, di “creare un ordine giuridico e sociale che informi in qualche maniera tutta la vita economica”» . Sulla base dell’enciclica il Padre Arendt preconizza la riforma corporativa, nel senso però di guardarsi tanto dall’individualismo economico come dalla centralizzazione e dallo statalismo, badando sovrattutto ad assicurare la partecipazione di delegati dei salariati ai consigli di officina e ai consigli corporativi. Lo Stato veglierà affinché l’attività corporativa serva il bene comune; ma dovrà lasciare la più larga autonomia alle corporazioni. Il programma del Padre Arendt s’occupa anche della riforma dell’economia e della riforma bancaria, a proposito della quale egli respinge tanto la libertà assoluta come il direttorio del piano de Man e preconizza invece una legislazione sulle anonime e sulle banche che implica il controllo da parte degli azionisti, la responsabilità degli amministratori ecc. sulla scorta, com’egli dice, della vigente legislazione ungherese. Altre sue proposte riguardano la legislazione del lavoro, secondo il piano proposto dai sindacati cristiani e che noi abbiamo altra volta citato. Tutte queste riforme però, conclude il Padre Arendt, esigeranno parecchi anni di fatiche e di esperimenti. Intanto come stroncare immediatamente la crisi dei nostri giorni? «Nessuno ha ancora proposto dei rimedi efficaci, nonostante il gran numero di medici che pretendono di guarire l’economia ammalata. In realtà la crisi è il risultato di errori e di colpe delle quali non è possibile di eliminare rapidamente le conseguenze. I rimedi impiegati in certi paesi per guarire l’economia nazionale, stimolando l’attività di un organo, ne hanno paralizzato degli altri… Le barriere doganali, e i larghi crediti concessi alla finanza, all’industria e all’agricoltura, i grandi lavori intrapresi hanno avuto effetti buoni, ma anche effetti cattivi. Nessuno di questi espedienti ha messo fine alla crisi e molti l’hanno aggravata… Quello che si può fare agendo con prudenza e con calma è di raddolcire le sofferenze delle vittime della crisi e di facilitare il riadattamento dell’economia alle circostanze nuove…». Il nuovo governo è un governo planista? No, perché non ha in programma la nazionalizzazione delle banche e delle industrie basilari e molto meno le riforme politiche proposte dal de Man. Ma un proposito del Van Zeeland , quello di costituire un organismo centrale regolatore supremo del credito, può essere presentato agli elettori socialisti come un passo verso sinistra. In realtà è una misura imposta dalla crisi che lascia dietro di sé ogni pregiudiziale e ogni ideologia. Negli Stati Uniti e in Germania sono organismi simili che provvedono alla distribuzione del credito; in altri Stati invece sono arbitre le banche d’emissione. Nel Belgio oramai bisognava costituire un governo di salute pubblica, perché il panico, provocato anche dalla propaganda socialista, aveva devastato le banche. Ma certo incomincia anche nel Belgio, sotto la pressione della crisi, l’esperimento dell’economia controllata, nel quale converrà vedere fino a qual punto le dottrine liberali e i concetti dell’autonomismo organico dei cattolici sapranno imporre dei freni e dei limiti allo statalismo, rappresentato nel ministero specialmente dal de Man e dagli altri membri socialisti, che profittando di un momento di panico, hanno imposta la loro cooperazione.
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Le voci che giungono dall’estero sulla situazione dei cattolici tedeschi sono ancora molto tristi, per quanto si parli meno di urti violenti e di contrasti profondi. Ma di fronte allo spirito e, per qualche articolo, anche alla lettera del Concordato, la Germania rimane inadempiente. L’esecuzione della legge sulla sterilizzazione viene imposta anche ai cattolici, le organizzazioni d’Azione Cattolica, specie le giovanili, sono paralizzate, la scuola «simultanea» è favorita sistematicamente ai danni della confessionale e il razzismo neopagano rimane la dottrina ufficiosa, se non ufficiale, del partito dominante. I cattolici, ricacciati da tutte le posizioni pubbliche, vivono nell’ombra, fasciati di sospetti e di silenzio. Eppure essi hanno fatto sforzi sovrumani per adattarsi al nuovo stato di cose. Il Centro si è autosciolto, dopo aver contribuito col suo voto all’instaurazione dei nuovi poteri; mentre un gruppo di minoranza guidato da von Papen ha tagliato addirittura i ponti col passato per associarsi alla marcia dei vincitori. Un giornalista di questo gruppo che diresse per un certo periodo la Germania di Berlino, Emilio Ritter , pubblica, un libro sulla «via del Centro e del cattolicismo politico tedesco» , esprimendovi la speranza che la morte del Centro sia non soltanto la fine d’un partito, ma anche la cessazione del «cattolicismo politico». La Chiesa, dice il Ritter, è invulnerabile, fino che non scende nell’arringo politico. «L’affermazione non è esatta – obiettano le Stimmen der Zeit – la Chiesa non perirà, ma non è detto che sia invulnerabile. Certo le forme nelle quali i cattolici fanno valere il loro influsso nella vita pubblica mutano col mutare dei tempi, ma una forma qualsiasi deve pur esistere, a scanso di costringere la Chiesa a ridiscendere nelle catacombe. E il Ritter, se ha condannato i metodi passati, non ha però suggerito quali dovrebbero essere i presenti». Il Ritter nel suo libro rimprovera anche i cattolici di non aver capito subito qual vento soffiasse e di non essersi decisi più rapidamente per i concetti fondamentali della rivoluzione nazista. E qui viene a proposito un articolo del P. Pribilla S. J. , comparso nella stessa rivista ed intitolato «Carattere». Ci sono nell’individuo delle esigenze spirituali che costituiscono il suo carattere. Ammesso anche che la novità, manifestatasi improvvisamente in un atto rivoluzionario sia di per sé ottima, l’uomo diritto e sincero, còlto d’improvviso, avrà sempre un necessario periodo di esitazione, dovuto al pudore di non parere una banderuola ed un profittatore. È logico che l’esitante si rifugi nel silenzio a pensare ed osservare. Il silenzio naturalmente si prolunga, quando il fenomeno nuovo contenga degli elementi o abbia in parte delle finalità che non si possono accettare. In tali casi conviene distinguere, e se distinguere non si può, conviene tacere. La Bibbia offre dei passi tanto ai partigiani dell’adattamento che agl’intransigenti. Gli uni citano l’Ecclesiastico: Noli resistere contra faciem potentis, nec coneris contra ictum fluvii! Gli altri invocano la franchezza, la dirittura evangelica. È certo che nella dottrina e nella pratica della Chiesa i consigli di prudenza si alternano con quelli di un santo ardimento. Fino a che punto deve arrivare l’adattamento, fino a qual momento deve durare il silenzio?, ecco il grave esito pratico che pesa sulle coscienze. «Ci sono dei momenti – scrive P. Pribilla – in cui una cosa deve venir detta, senza motivo visibile, per la semplice ragione ch’essa è la verità. Se non viene detta, l’ordine morale del mondo subisce un colpo che è peggiore della ferita inferta dalla rozza violenza. Questo vale anche del silenzio “per evitare mali maggiori”. Poiché alla fine la cosa peggiore sarebbe che la verità e la giustizia non avessero più sulla terra né confessori né martiri. Perciò, secondo la parola dell’Apostolo, la verità deve essere detta anche “importune” (2 Tim. 4, 2)… cioè anche quando viene accolta malvolentieri e causa dispiaceri a chi la proclama». Chiamati a parlare sono gli anziani e i sacerdoti, questi per il loro mandato, quelli per l’esperienza avuta. Bismarck nel 1891, dopo il congedo, scriveva che il dovere di parlare, che gli derivava dalla sua conoscenza delle cose, lo sentiva saettare dalla sua coscienza come una pistola puntata contro di lui. E in quanto ai sacerdoti, chi non ricorda la lettera di S. Ambrogio all’imperatore Teodosio? «Sed neque imperiale est libertatem dicendi denegare, neque sacerdotale, quo sentias, non dicere. Nihil enim in vobis imperatoribus tam populare et amabile est, quam libertatem etiam in iis diligere, qui obsequio militiae vobis subditi sunt… Nihil enim in sacerdote tam periculosum apud Deum, tam turpe apud homines quam quod sentiat, non libere denuntiare» . L’articolo prosegue citando dichiarazioni di Hitler, di Hess ed altri capi nazisti, i quali non amano i camaleonti ed i versipelli e concludendo del resto che anche se l’uomo sincero avesse poco successo quaggiù, egli deve sopra tutto provvedere alla serenità della sua coscienza ed a portare illeso nella tomba il suo carattere. Pensieri simili si leggono nell’opuscolo di Monsignor Gröber , vescovo di Friburgo i. Br. (Nationalkirche?, Herder, 1934) il quale osserva che le nature camaleontiche e le banderuole non furono mai le colonne dello Stato, bensì i caratteri franchi e vigorosi. Tali pubblicazioni ci fanno comprendere quale sia oggi la psicologia della massa silenziosa dei cattolici tedeschi e quali problemi comporti il loro atteggiamento in confronto del nazionalsocialismo. L’«Union catholique belge», la federazione politica che dovrebbe abbracciare i vari gruppi e sottogruppi politici dei cattolici belgi ha tenuto un’assemblea generale per discutere la nuova situazione creata dal governo Van Zeeland. All’ingrosso si dovrebbe concludere che i democratici cristiani appoggiano con fiducia il nuovo premier, mentre i conservatori o gli sono contrari o favorevoli con molte riserve e condizioni. Ma, come si è potuto constatare alla Camera e al Senato, nemmeno questa divisione approssimativa è esatta: le diversità si manifestano negli stessi sottogruppi. Era necessaria e legittima la svalutazione? Molti cattolici la qualificano praticamente come una catastrofe e, moralmente, come un’illecita confisca delle sostanze e dei redditi; altri affermano ch’era inevitabile per salvare le banche, le quali altrimenti avrebbero dovuto crollare una dopo l’altra. In conclusione è fallito lo Stato, per evitare il fallimento degl’istituti finanziari. Altro punto di dissenso, la collaborazione coi socialisti; per il vecchio Vandervelde, transeat, ma il de Man e il sinistro Spaak ? E le speranze che tale collaborazione ha rigalvanizzato nel recente congresso socialista? Non precipiteremo verso il famoso Plan du Travail? Alcuni, e tra questi il più autorevole Carton de Wiart , hanno tranquillato i trepidanti assicurando che Van Zeeland non è planista. Anch’io, esclamò il Wiart, sono favorevole al controllo delle banche, ma alla maniera inglese, senza socializzazione, che dal programma governativo è esclusa. Del resto Van Zeeland fece capire d’essere roosveltiano solo fino ad un certo punto. L’assemblea si chiuse senza votazione politica, ma col proposito di riorganizzare le forze cattoliche ristabilendo una maggiore unità e una linea di condotta. I cattolici vennero – ma non i cattolici soli – débordés par les événements. Un comitato riordinatore e di vigilanza cercherà ora di rimettere le forze politiche cattoliche in efficenza. A tal proposito il presidente dell’Union e ministro di Stato Poullet ricordò anche la recente pastorale del Card. di Malines, da noi qui già citata . Recenti riunioni coi «circoli più rappresentantivi dei giovani» – assicurò il Poullet – dimostrarono che si tratta piuttosto di malintesi che di dissensi irriducibili. Dal confronto dei programmi è risultato che molti punti del programma giovanile, potranno venir inseriti nello statuto dell’Union.
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Il Temps ha pubblicato le conclusioni della sua lunghissima inchiesta intorno alle «leghe» e ai gruppi giovanili, che per qualche parte abbiamo altra volta citato . I due giornalisti, che l’hanno fatta, affermano di aver potuto constatare che la maggior parte delle leghe, cogliendo le idee ovunque le trovano, si ispirano spesso ad iniziative prese in paesi stranieri senza accorgersi che queste stesse derivano le loro idee da Maurras o da Sorel. In genere poi la tendenza a creare delle cellule e forme consimili e di usare una terminologia rivoluzionaria, per quanto attribuendo talvolta un senso diverso alle parole, indica l’influenza che ha esercitato in Francia come in tutto il resto del mondo la rivoluzione russa. Si è in diritto di chiedersi se queste dottrine rabberciate in fretta e in furia sotto la pressione degli avvenimenti e se la personalità di questi nuovi capi offrirebbero in caso di torbidi tutte le garanzie che esige la sicurezza del paese; perché la lodevole intransigenza dei capi non impedisce che una parte delle loro truppe, sotto il colpo delle delusioni, possa domani sbandarsi ed affidarsi ad altre guide che stanno attendendole al varco. Questo è senza dubbio un pericolo. Tuttavia, a parte un inevitabile psittacismo e una mitologia nebulosa, non si può negare che le leghe non rechino anche utili insegnamenti. «Abbiamo visto, dicono i due giornalisti, che da sinistra a destra, perfino fra nemici irreducibili esiste possibilità d’intesa su alcune ispirazioni comuni: rafforzamento del potere esecutivo, indipendenza della magistratura, epurazione dei costumi parlamentari e amministrativi, risanamento generale della pubblica moralità e organizzazione di una economia migliore». «Le leghe dispariranno certamente da per se stesse, almeno quelle che si proclamano nazionali e lealiste, il giorno che i francesi, meglio protetti da istituzioni più ferme e nello stesso tempo più agili, non avranno motivo di pensare, a torto o a ragione, che spetti a loro di agire in luogo del governo». Il direttore del Temps poi, commentando a sua volta i risultati dell’inchiesta, si esprime in un senso ancora più ottimista. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole, e per dimostrarlo egli pubblica una dichiarazione del Bergson comparsa il 15 giugno 1912 nel Gaulois: «Sì, veramente, scriveva il filosofo, io credo ad una specie di rinascenza morale francese e ciò che mi colpisce di più, ciò che mi fa bene sperare di questa rinascenza, è che essa non è solamente una trasformazione di idee – di idee se ne cambiano molte – ma una vera trasformazione o piuttosto una vera creazione della volontà. Ora la volontà è l’espressione stessa del temperamento, di ciò vale a dire che è più difficile modificare… La crisi politica di quest’estate ha dimostrato che noi eravamo stanchi di zizzanie, che tutta la nostra gioventù, che tutte le nostre gioventù aspirano ad una magnifica unità nazionale… Come non rallegrarsi al vedere una gioventù più ardita, più audace, più cosciente delle sue responsabilità, più francese, in una parola, delle generazioni presenti?». «Queste parole, scrive il Temps, si possono applicare benissimo alla gioventù del 1935, la quale non è che l’ereditiera di quella di cui parlava Bergson nel 1912. Alla più si potrà ripetere che le manca una vita interiore, che questa gioventù di leghe e di gruppi è troppo cosciente delle responsabilità degli altri e le manca il senso dell’autocritica… Bisogna che questa gioventù prenda coscienza del valore della libertà, ma bisogna anche che i maggiori le accordino credito e amicizia… Bisogna starle dappresso per mostrarle che ella prende talvolta per realtà ciò che non è che un miraggio. Tuttavia appunto per questo bisogna amarla, perché essa rappresenta l’avvenire». Nell’assemblea generale dell’Unione nazionale degli Insegnanti francesi si sono dette delle parole saggie che hanno avuto nella stampa una grande eco, il che è un altro sintomo consolante del ritorno della Francia. «Noi abbiamo proclamato, disse Jacques Chevallier , decano della facoltà di lettere a Grenoble, il rispetto della legge che riconosce la coscienza: gli avvenimenti hanno provato che senza il rispetto della legge divina, superiore agli individui come alle società, né gli uni né le altre possono vivere… Noi non troviamo difficoltà ad osservare la neutralità che ci impone lo statuto della scuola pubblica, nelle materie che non sono di nostra competenza. Essa è perfettamente compatibile col rispetto di tutte le convinzioni sincere e rispettabili. Ed essa non ci inibisce, anzi ci comanda di andare fino in fondo la ragione, voglio dire al suo oggetto supremo, che ne è anche il principio e la fine. In presenza del bene e del dovere non si potrebbe essere neutri». La soluzione della crisi spagnola ha dato ragione alla tattica intransigente di Gil Robles. La destra spagnola ritorna al governo con forze tali da escludere di venir maggiorizzata in seno al gabinetto come avvenne nel caso della grazia ai condannati politici. Lo stesso Gil Robles entra nel governo ed assume il portafoglio della guerra , che oggidì è senza dubbio il più importante strumento di governo nell’agitata repubblica. Nella ripartizione dei seggi ministeriali questa volta si è tenuta una certa proporzione, benché numericamente i popolari non siano ancora favoriti. Essi contano alla camera 113 mandati in confronto dei 75 radicali e hanno tuttavia come questi cinque ministri . Ma quello che più importa e che pare accertato, e non potrebbe essere diversamente, è che la nuova coalizione si è costituita sopra un patto chiaro e ben definito di riforme agrarie e sociali, di modificazioni costituzionali e di un progetto elettorale le quali dovranno venir votate prima dello scioglimento delle Cortes. I cattolici hanno mandato al ministero del lavoro Federico Salmon , uomo molto colto di problemi sociali e alle comunicazioni il deputato di Valenza, Lucia , specialista in questioni industriali e commerciali, Aizpun al commercio e all’industria, uomo che ha già fatta magnifica prova e Casanueva alla giustizia, deputato di Salamanca, notaio a Madrid. I deputati del gruppo agrario sono rappresentati nel nuovo gabinetto da quel Royo Vilanova del quale abbiamo ricordato altra volta la forte campagna contro il separatismo catalano . Di questa circostanza si sono subito impadroniti i giornali dell’opposizione per aizzare i catalani contro il ministero ed è per questo che Lerroux si è affrettato a dichiarare che tutti i componenti del gabinetto si erano impegnati a rispettare l’attuale «modus vivendi» nella Catalogna. Il governo teoreticamente dovrebbe rappresentare 228 deputati sui 450 che compongono la Camera, ma le molte astensioni che si ebbero nel primo voto di fiducia indicano che l’esperimentato parlamentare il quale dirige il suo quarto gabinetto, dovrà ora concentrare tutti i suoi sforzi sui radicali perché la sfaldatura verso sinistra non diventi troppo forte. Comunque bisogna rallegrarsi che le forze conservatrici e moderate abbiano ottenuto il sopravvento e siano ora in grado di cancellare dalla Costituzione le impronte settarie di chi la volle strumento di laicizzazione e di passione anticlericale. La storia delle persecuzioni messicane è stata scritta molte volte, ma si troverà tuttavia interessante l’eloquente sintesi che ne fa un giovane messicano, che firma Pedro de Urdinalos, nell’ultimo numero della Vie Intellectuelle. Le ostilità antireligiose cominciano colla Costituzione del 1917 promossa ed elaborata da Venustiano Carranza che nel 1914 aveva conquistato il governo dopo una sanguinosa guerra civile. Questa legge fondamentale decreta all’articolo 30 che nessuna corporazione religiosa e nessun ministro di culto potranno fondare o dirigere scuole elementari; l’articolo 50 proibisce gli ordini religiosi; l’articolo 27 confisca per lo Stato tutti i beni della Chiesa, compresi le chiese e i conventi, ed esclude il clero da qualsiasi contatto con le opere di beneficenza; l’articolo 130 nega alla Chiesa qualunque personalità, dichiara il matrimonio dipendente soltanto dallo Stato, stabilisce che gli Stati federali possano fissare per legge il numero dei sacerdoti, esclude all’esercizio del ministero tutti gli stranieri e stabilisce che il vescovo non può revocare il curato o il cappellano senza avvertire l’autorità municipale. Decreta infine che non sono tollerati i partiti politici, «il cui titolo contenga una parola o un’indicazione qualsiasi che lo leghi ad una fede religiosa»; si prevede che i sacerdoti non abbiano diritto di ereditare per testamento e che i processi per infrazione non potranno essere giudicati dai giurì popolari. Appena votata, le proteste e l’indignazione furon tali, che lo stesso Carranza riconobbe di essere andato troppo avanti e che la legge non era applicabile. Ma egli morì assassinato nel 1920. Obregon che gli successe, parve ai zelanti troppo tollerante, cosicché nel 1925 andò al potere il capo dei radicali, Calles , che fece il noto tentativo di creare una chiesa nazionale con alla testa un sacerdote apostata, ricredutosi poi in fin di vita. Dal 1926 al 1929 si svolge una persecuzione sanguinosa. Calles espulse tutti i preti stranieri, chiuse le scuole e i conventi e si mise sul serio ad applicare la Costituzione del 1917. Si ricorderà allora la gloriosa resistenza dei vescovi che sospesero il culto pubblico in tutte le chiese e promossero delle petizioni al congresso che raggiunsero più di due milioni di firme. Un comitato di cattolici proclamò poi la resistenza passiva, cioè il rifiuto di pagare le imposte. In risposta Calles inasprì ancora le misure di persecuzione provocando la costituzione dei «soldati di Cristo» e di altri gruppi di combattenti che in parecchi Stati ricorsero alle armi e tennero in scacco per lungo tempo le truppe federali. Le prigioni erano piene di cattolici che venivano maltrattati, mutilati e persino assassinati. Il sangue dei martiri bagnò tutto il suolo del Messico. Il regime del terrore ebbe una tregua, quando nel 1929 gli arcivescovi Pasquale Diaz e Leopoldo Ruiz invitati dal governo, esercitarono l’arbitrato per superare la guerra civile. Il nuovo presidente Portes Gill offrì delle garanzie e gl’insorti si arresero. Un gran numero di loro però fu poi assassinato. Il 10 dicembre del 1929 prese possesso del governo l’ingegnere Pasquale Ortis Rubio , il quale non fu un persecutore sistematico, ma si lasciò spesso strappare delle misure odiose dal Partito Nazionale Rivoluzionario fondato e diretto da Calles. Quando si celebrarono le splendide feste per il quarto centenario di Guadalupa, i deputati furiosi per queste straordinarie manifestazioni, decisero nel 1932 di riprendere l’attacco contro la Chiesa cattolica. Gli stati di Vera Cruz e Tabasco, che non avevano mai sospesa la persecuzione dopo il 1926, divennero ora il modello per tutti gli altri Stati federali. In tutti s’introdusse a mano a mano una «regolamentazione del culto» che include sempre la limitazione del numero dei sacerdoti; sette stati esclusero anzi qualsiasi esercizio del ministero. Alle proteste del papa, si rispose coll’esportare nel Texas per aereoplano il delegato apostolico, l’arcivescovo Ruiz. Ora si sta progettando una legge per espellere da tutto il territorio federale i vescovi e i sacerdoti. Nello stesso tempo i cattolici sono esasperati per la campagna d’immoralità che sotto il pretesto di educazione sessuale si fa ufficialmente nelle scuole del Messico. Il giornale Excelcior della città del Messico scrive a proposito del manuale dell’educazione sessuale propagato dall’ex ministro Bassol «arrossirebbe perfino il nastro della macchina da scrivere se si volessero riprodurre gl’insegnamenti osceni di questo manuale destinato a destare precocemente nei fanciulli gli istinti peggiori». Piena libertà inoltre è data alla propaganda atea del sindacalismo bolscevico che in un congresso del 18 settembre proclamava che «non vi saranno più idoli, sia che si chiamino padri di famiglia o persone rispettabili, o maestri, o Dio». Tutto ciò avviene in un paese ove, in base all’anagrafe ufficiale del 1930, su 16.500.000 abitanti si dichiararono cattolici 16.130.000, protestanti 130.000, religioni diverse 70.000 e senza religione 170.000. Come mai i rappresentanti di quest’infima minoranza hanno potuto imporre un giogo così odioso al 98% dei cattolici? È una questione che merita tutta la nostra considerazione; benché oggi importi sovrattutto di far risuonare nel mondo troppo spesso ignaro e indifferente la voce della protesta e dell’indignazione più umana contro i concultatori di ogni fede e di ogni libertà.
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Recensendo le pubblicazioni della fondazione Carnegie per la pace, il padre E. Rosa nell’ultimo numero della Civiltà Cattolica rievoca le dottrine del domenicano Francisco de Vitoria e del gesuita Suarez , i quali si possono dire i fondatori del diritto internazionale ben più a ragione del Grozio e del Gentili che, erroneamente, vengono considerati come tali nei testi di studio. Il segretario della fondazione Carnegie, James Brown Scott , nel suo libro «Francisco de Vitoria and his Law of Nations» pubblica anche il testo delle famose lezioni che il de Vitoria teneva dalla cattedra di Salamanca sulla legittimità o meno delle guerre spagnole per soggiogare il nuovo mondo. La Civiltà Cattolica ne trae argomento per affermare che solo quando nei rapporti internazionali si farà largo il concetto cattolico del diritto, si potrà parlare sul serio di un movimento efficace per l’abolizione o almeno per la limitazione della guerra. Di qui il dovere dei cattolici di coltivare in tutti i paesi lo studio del diritto internazionale secondo le proprie tradizioni. «Per la certa persuasione di questa verità – che l’esperienza della guerra faceva sentire tanto più vivamente, come noi sappiamo, anche perché ne fummo in qualche modo a parte – si manifestò allora, durante la guerra e subito appresso, tra studiosi cattolici, pubblicisti, giurisperti, ecclesiastici e laici, un notevole impulso verso gli studi del diritto dei popoli, massime circa il diritto e i metodi della guerra… Un moto simile, ricordiamo, aveva rappresentanti ragguardevoli tra i cattolici dell’uno e dell’altro campo, così in Germania, per esempio, come nella Svizzera neutrale, in Francia e in Italia . E non abbiamo dimenticato che si ricorse allora, più di una volta, e di proprio moto da ambe le parti, a Roma, con la preghiera o il desiderio espresso che si procurasse in questi punti una più solenne, generale ed esplicita proclamazione della dottrina cattolica. Ma poiché questa dottrina era già nota per l’ordinario insegnamento della Chiesa, la proclamazione straordinaria non ne sembrava necessaria: poteva anzi apparire sospetta in quelle circostanze… Da altri, perciò, ben più praticamente, come tra noi dal venerando prof. Toniolo, si vagheggiava o proponeva qualche organo o istituto scientifico, che promovesse da Roma lo studio e preparasse il trionfo dei principi giuridici più accertati, quindi, più umani insieme e più cristiani, anche in questo campo: dove pare che signoreggi l’interesse, l’arbitrio o l’”egoismo”. Come quei disegni non ebbero piena attuazione per i casi e rivolgimenti che poi seguirono in Italia e fuori, così non poterono avere risonanza; ma non meritavano di cadere in totale oblio, dopo la morte del prof. Toniolo in particolare, che tanto aveva caldeggiato l’idea, anche presso il papa Benedetto XV e ne aveva infervorato gli altri. Essi mostrano che già si era pensato in Italia, a ciò che poi si è attuato nell’America». Padre Rosa conclude coll’esprimere la speranza che la nuova rivista giuridica Rassegna di Morale e di Diritto, pubblicata ora dal prof. Romani dell’Apollinare riprenda la tradizione interrotta. A sì autorevoli voti aggiungiamo anche il nostro. Non è soltanto la fondazione Carnegie che, per opera di scrittori protestanti, sta pubblicando un vero Corpus Catholicorum dei maestri cattolici di diritto internazionale. Ma la questione, come ognuno sa, è agitata e studiata, anche in molti altri paesi d’Europa. Basterà ricordare che per iniziativa presa a Friburgo nella Svizzera, un gruppo insigne di teologi appartenenti a varie nazioni, sotto la propria responsabilità, ha redatto in forma collettiva un parere intorno alla moralità della guerra, pubblicato in lingua latina e francese nel quaderno di febbraio 1932 della rivista Les Documents de la Vie Intellectuelle e seguito da una copiosa documentazione tratta da teologi e sociologi antichi e recenti. Della stessa epoca è un discorso del card. Faulhaber, pubblicato esso pure nei Documents nel fascicolo del 20 aprile 1932. Negli ultimi tempi i francesi hanno pubblicato una miscellanea assai interessante sotto il titolo: Les catholiques en face de la guerre e il p. Stratmann , che in Germania ha dovuto interrompere la sua opera pacifista, riassume ora il suo pensiero in una lucida sintesi: «La Chiesa e la guerra, uno studio cattolico» . Nei paesi anglosassoni il problema della pace e della guerra viene coltivato e studiato specie dalla Catholic Association for International Peace di Londra. In taluno di questi libri si propugna una nuova teologia sulla guerra giusta: cioè che nei tempi moderni, data la giurisdizione internazionale che si è creata, ogni guerra che non si presenti necessaria, sia ingiusta. Queste nuove teorie che ebbero il loro primo germe tra noi, sono esse conciliabili colla dottrina tradizionale che risale alla scuola del Vitoria e del Suarez? Costituiscono esse, ad ogni modo, un elemento apprezzabile per l’ulteriore sviluppo del diritto internazionale? Ecco dei problemi che gli studiosi cattolici italiani potrebbero proporsi di risolvere col loro senso innato d’equilibrio e con una visione sintetica, la quale non dimentichi i postulati naturali del patriottismo, rettamente e cattolicamente sentito, il quale naturalmente non potrebbe ammettere un pacifismo che, trascurando la realtà, non tenesse conto della sicurezza del proprio paese. L’altra volta annunciando un convegno di studio sul corporativismo, convocato a Vienna dall’«Unione Popolare dei Cattolici Austriaci» sotto la direzione di un comitato presieduto da quel cardinale arcivescovo di Vienna e diretto dal noto scrittore di sociologia cristiana dr. Meszner, facevamo voti che in questo convegno internazionale si distinguesse bene fra gli insegnamenti dell’enciclica Quadragesimo anno intorno all’ordine sociale corporativo e le singole riforme politiche che, nate in particolari contingenze, si propongono di attuarlo. Il nostro voto è stato esaudito in anticipo giacché il questionario inviato dall’apposito comitato agli studiosi si limita a riassumere gli argomenti nelle seguenti domande: 1. È da attendersi nel vostro paese per il prossimo tempo lo stabilimento di un ordine corporativo? La costituzione presente offre delle possibilità di un tale sviluppo? Si pensa ad una costruzione dal basso, coll’unione di società operaie e padronali locali, ovvero dall’alto, cioè cominciando da un corpo rappresentativo corporativo centrale? 2. Esistono nel vostro paese istituzioni per frenare la concorrenza, nel senso del principio regolativo dell’economia, cioè della giustizia sociale proclamata dalla Quadragesimo anno (associazioni private dei datori di lavoro, legislazione sulla concorrenza, controllo statale o delle professioni)? 3. Quali tendenze puntano verso la deproletarizzazione, che dev’essere la meta principale del nuovo ordine sociale ed economico? Quali sono i compiti prossimi del movimento sociale del vostro paese? (superamento della disoccupazione, giusto salario, salario famigliare, equiparazione sociale dei lavoratori, contratti collettivi ecc.). 4. Esistono nel vostro paese i sintomi di un nuovo spirito nel senso della Quadragesimo anno, senza il quale, come afferma la enciclica, l’ordine corporativo non può avere una vera vitalità (morale professionale, onore professionale, coscienza corporativa, amore sociale)? Come considera l’Azione Cattolica del vostro paese i relativi compiti e di quali mezzi si serve? Alla conferenza parteciperanno delegati dell’Italia, della Spagna, della Svizzera, della Francia, del Belgio, dell’Olanda, della Polonia, della Cecoslovacchia, dell’Ungheria, della Jugoslavia, della Rumenia e del Canadà. Dopo la conferenza internazionale si avranno una serie di rapporti per illustrare l’attuale ordinamento sociale e l’organizzazione politica della nuova Austria. Anche riguardo a questa, fervono ancora, come abbiamo detto l’altra volta, le discussioni fra i cattolici stessi. Ce ne dà nuova prova una pubblicazione di Schmieder Godfried uscita recentemente ad Innsbruck sotto il titolo: «La limitazione del potere governativo a mezzo delle organizzazioni corporative autonome in Austria» . Questo libro dimostra che i diritti autonomi degli «stati» hanno sempre limitato anche nel passato impero austriaco e sotto i regimi democratici i poteri degli organi centrali. Ora non si farebbe che continuare su questa strada servendosi delle corporazioni. E qui l’autore chiama in aiuto la Quadragesimo anno la quale, ove parla del carattere supplettivo dell’azione dello Stato nelle questioni corporative, tenderebbe appunto a creare anche un decentramento di poteri. Al che Padre Nell Breuning oppone nelle Stimmen der Zeit che la Quadragesimo anno si limita ad esigere dallo Stato una sua autolimitazione per lasciare liberamente agire gli organi inferiori che sono le corporazioni. Nell Breuning contesta soprattutto che federalismo e ordinamento corporativo contrastino fra loro. Forse che, egli dice, la Svizzera per assumere l’ordine corporativo dovrebbe abbandonare la tradizionale sua struttura cantonale? Di notevole interesse, almeno a giudicare dalle brevi relazioni comparse nei giornali, deve essere stato anche il convegno italo-francese di studi corporativi svoltosi in Roma a villa Aldobrandini sotto la presidenza dell’onorevole Bottai, presente l’ambasciatore di Francia presso il Quirinale e parecchie personalità del governo e del Partito fascista. A Roma si è affrontato in pieno il problema politico, e non poteva essere diversamente poiché si trattava di discutere il corporativismo integrale dello Stato fascista nella sua costruzione ad un tempo sociale e politica. Si cominciò anzi con una relazione dell’on. Bottai sul «valore politico della corporazione». Nella seduta seguente il cattolico Viance, che ha esposto recentemente le sue teorie e i risultati dei suoi studi nella Vie Intellectuelle, ha parlato della corporazione dal punto di vista economico e politico. Speriamo che si pubblichi un ampio resoconto delle discussioni che non possono essere state che chiarificatrici e oltremodo istruttive. Dai brevi comunicati sui giornali risulterebbe che da parte francese vennero chieste spiegazioni sulle funzioni del Partito in confronto dell’orga-nizzazioni corporative, sulla questione dello Stato totalitario e la questione della libertà. Altri toccarono i problemi della base proletaria del fascismo e della partecipazione degli operai al regime. A tutte queste domande venne risposto esaurientemente, illustrando la costituzione del regime italiano. In qualche momento la discussione deve essersi scostata assai dal corporativismo, perché l’on. Fioretti dovette rispondere al sig. Marion che «aveva prospettato i pericoli della esistenza della Chiesa, della Monarchia e del super-capitalismo come forze reazionarie». Le elezioni in Cecoslovacchia hanno portato un notevole spostamento di voti. Nei partiti slavi le differenze in confronto delle passate elezioni del 1929 non sono grandi, benché anche tra essi vi sia la novità di sei deputati «fascisti» (gruppo Gaida) conquistati con 177.449 voti. Nemmeno nel rapporto numerico fra i mandati slavi (195) e quelli tedeschi (66) accanto ai 9 ungheresi e 30 comunisti, subentrarono notevoli spostamenti. Ma la grossa novità si ebbe tra i mandati tedeschi col successo dell’organizzazione filonazista di Corrado Henlein . Questa assorbì quasi due terzi dei voti degli agrari tedeschi che si erano logorati nella maggioranza governativa e portò via più della metà di voti ai socialisti che avevano partecipato anch’essi, finora, alla coalizione ministeriale. Successo dunque di opposizione? Si potrebbe concludere così, se Heinlein non avesse tolto 5 mandati su 11 anche al partito cristiano-sociale tedesco il quale da 348.000 voti scese a 162.000. La Deutsche Presse, organo dei cristiano-sociali, ammette senz’altro la sconfitta e ne attribuisce la colpa al trattamento fatto dai cechi ai tedeschi, ma come spiegare allora che sia stato così profondamente colpito anche il partito cristiano-sociale che, essendo rimasto fuori della coalizione governativa, non era responsabile delle sue reali o presunte malefatte? Converrà ammettere che, oltre le ragioni contingenti, abbia agito l’impulso nazionalista, che pervade ora tutti gli Stati europei. È da ritenersi che la spinta tedesca provocherà una spinta in senso contrario nel campo cecoslovacco inducendo i partiti slavi a rinunciare almeno in parte alla loro frammentaria costituzione; ma, fino a tanto che vive Masaryk e domina ancora la sua tendenza democratica, non è da credersi che si ricorra contro i tedeschi a delle misure repressive e anticostituzionali. Nel comunicato sulle trattative di Mosca va dato rilievo a quel passo nel quale è detto che «Stalin comprende ed approva pienamente la politica di difesa nazionale fatta dalla Francia per mantenere la sua forza armata al livello della sua sicurezza». La dichiarazione colpisce in pieno petto i socialisti e comunisti francesi che combattono sempre in Francia ogni armamento, richiamandosi ai doveri internazionali del pacifismo. Ma il colpo è diretto anche in genere contro l’internazionale socialista. L’attrattiva principale esercitata dall’internazionalismo socialista è sempre stata quella di promettere una certa garanzia contro i nazionalismi armati delle diverse nazioni. Ma se i comunisti russi armano non solo in casa propria, ma approvano anche gli armamenti degli Stati che stanno con loro in rapporti di amicizia, qual prova si potrà esigere ancora per dimostrare che i governi socialisti o comunisti non trovano nelle loro ideologie nessuna garanzia contro la guerra più di quella che trovano gli Stati borghesi? Le elezioni municipali francesi non hanno portato un cambiamento notevole nella situazione dei partiti. Ciò nonostante, dato l’eccessivo frazionamento degli elettori borghesi e la loro mancanza di disciplina, il fronte comune dei socialisti e dei comunisti ha conquistato parecchi municipi e 8 comunisti sono entrati anche nella rappresentanza municipale di Parigi. Questi risultati, dice il Temps, sono l’effetto dell’abilità colla quale i socialisti hanno saputo sfruttare «la cosiddetta lotta contro il fascismo», per la difesa della repubblica. L’Humanité esalta le elezioni di Parigi nelle quali il presidente dell’unione nazionale dei combattenti soccombette di fronte ad un comunista con le parole: «è la vittoria della libertà». I peggiori nemici dunque della libertà, i partigiani della dittatura di classe, i settari del marxismo sono riusciti a camuffarsi da difensori del regime e della democrazia. Troppi cittadini hanno creduto che la Francia avesse veramente corso il pericolo di un violento mutamento di regime e contro tale presunta minaccia hanno voluto fare una dimostrazione votando addirittura per i candidati della dittatura rossa. Inesplicabile contraddizione dell’urna elettorale! L’avvento di Gil Robles al potere suggerisce al corrispondente spagnolo del Temps considerazioni come queste: «all’audacia dei suoi nemici che fomentavano l’insurrezione per impedirgli l’accesso al potere, Gil Robles ha risposto con eguale audacia impostando questa alternativa: possibilità di governare per lui come per gli altri o appello agli elettori ai quali egli non mancherebbe di dire che la repubblica gli aveva dato la baia… Gil Robles alla guerra diminuirà senza dubbio l’influenza della massoneria nell’esercito. Bisogna forse vedere un simbolo nel fatto che anche Azaña, incarnatore della politica precedente, fu sempre ministro della guerra … Nel campo degli avversari regna la costernazione. A destra invece la gioia è grande. Qui si ricorda che in un altro maggio non più di 4 anni fa, le chiese e i conventi furono preda alle fiamme e negli avvenimenti inaugurati in questo nuovo mese di maggio si vuol vedere l’alba di giorni migliori. Ci fu un tempo in cui si parlò molto in Spagna di una sollevazione di cattolici, giocati dalla rivoluzione. I cattolici non si sono sollevati, ma hanno qualche cosa di meglio: sono scesi sul terreno dei loro avversari e, almeno per il momento, essi sono i vincitori».
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La «Conferenza Internazionale del Corporativismo Cristiano» della quale in questa rubrica abbiamo preannunciato e commentato il programma, venne presieduta in Vienna dal direttore della Reichspost dr. Funder, come presidente, e dal padre Veermeersch , come vice presidente. Nella prima giornata ebbero la parola i rappresentanti esteri per rispondere al questionario da noi altra volta pubblicato. Per il Belgio il p. Muller di Anversa ricordò alcune parziali istituzioni ed alcuni provvedimenti governativi del dopoguerra, dovuti anche ad un ministro socialista, i quali tendono a limitare colle commissioni paritetiche e con altri freni di carattere organizzativo i conflitti fra capitale e lavoro. Tali disposizioni passano ora sotto il titolo di «precorporativismo». In realtà il principio corporativo trova nel Belgio forti resistenze. I socialisti sono contrari perché difendono le organizzazioni sindacali; i liberali lo combattono dal punto di vista della libertà economica; solo nella parte fiamminga esistono delle «organizzazioni fasciste» che guardano come modello alla Germania nazista . Da parte dei cattolici p. Muller rileva come elemento principale del loro «precorporativismo» un progetto di legge presentato dai democratici cristiani e che noi abbiamo illustrato recentemente in questa rubrica: progetto che mira soprattutto a dar forza di legge ai contratti collettivi. Da una relazione del Conte Stolberg sulla parte tedesca della Cecoslovacchia risulta che il corporativismo non ha fatto colà ancora dei passi concreti benché i cattolici tedeschi abbiano accolto con entusiasmo i principi della Quadragesimo anno. Il partito nazionalista di Henlein, che ebbe recentemente un grande successo elettorale, ha accolto le idee dello Spann e del dr. Heinrich . Il prof. Delos di Lilla afferma che i cattolici francesi diffidano del sistema dei grandi «piani economici» sul tipo di quello del De Man e intendono rifiutarli, qualora essi non tengano sufficiente conto della «libera natura dell’uomo». I cattolici preferiscono di sviluppare organicamente e in senso corporativo le associazioni esistenti. Ammettono l’intervento dello Stato «solo in quanto si tratti di dare alle corporazioni uno statuto legale». Quello che importa sovrattutto è di preparare gli spiriti e a questo mira con successo il nuovo metodo dell’Azione Cattolica specializzata che organizza i laici secondo la loro professione cioè in associazioni di lavoratori, di studenti, di laureati ecc. Il dr. Peter Perger parlò dello sviluppo corporativo in Italia ricordando che il S. Padre nella Quadragesimo anno aveva esposto il pro e il contro del sistema fascista. «Conviene ammettere, egli conclude, che i possibili danni dell’enciclica indicati, in seguito allo sviluppo ulteriore, non sono più da temersi nella stessa misura». Una relazione sulla Jugoslavia, che si limita evidentemente alla parte slovena, non riferisce nulla di nuovo. In mancanza di un delegato della Germania il p. Muller di Anversa riprende la parola per alcune relazioni sul sistema corporativo nazista, concludendo che esso è troppo rigido e finisce col sottoporre l’economia all’assoluto dominio dello Stato e del Partito. La relazione del p. Kors , rettore dell’Università Cattolica di Nimega, rileva che gli accenni corporativisti dell’Olanda vengono piuttosto considerati come metodi per superare la crisi più che come inizi di ricostruzione definitiva. Il dr. K. Hackhofer , di Basilea fa presente che i cattolici svizzeri sono entusiasti del corporativismo; ma intendono di limitarsi ad una riforma sociale, non di fare una riforma politica, nel senso dello «Stato corporativo». Il segretario generale dell’Azione Cattolica spagnuola Alberto Martino Artajo ricorda il nuovo movimento cattolico operaio, sviluppatosi negli ultimi anni in Spagna ed esprime la speranza che i popolari al governo sviluppino le istituzioni corporative già create dalla dittatura ed in parte mantenute dalla repubblica. Il rappresentante della Polonia dottor Korlowski mette in rilievo l’attività del «Consiglio Sociale», istituito in seno all’Azione Cattolica polacca. Si fa sovrattutto un lavoro di formazione, ma già qualche disposizione legislativa concreta, come quella per lo scioglimento dei trusts, costituisce un passo in avanti sulla via della riforma. La seconda giornata venne dedicata all’illustrazione del sistema austriaco. Il primo oratore, l’ex presidente del consiglio dr. Ender , il quale, come si sa, fu il compilatore della nuova costituzione, si sforzò di spiegare ai presenti come lo statuto maturò in mezzo ai noti avvenimenti politici. La crisi scoppiò quand’io ero a capo del governo, dichiarava l’Ender; io feci ogni sforzo per disincagliare il parlamento cercando di convincere i socialisti che la loro tattica ostruzionista metteva in pericolo la democrazia. Un bel giorno la Camera risultò paralizzata dalle commissioni di tutta la presidenza e da quel momento Dollfuss costituì un nuovo governo, considerò suo destino quello di preparare un cambiamento costituzionale. Egli voleva però trasfondere nella nuova forma un sano spirito democratico. Infatti l’autonomia dei comuni venne rispettata, come essenzialmente non venne diminuita l’autonomia delle regioni; a queste due vecchie autonomie doveva aggiungersi la graduale amministrazione autonoma delle classi nelle organizzazioni corporative. Egli non pensò mai a governare da solo e ritenne necessaria la cooperazione del popolo per mezzo di qualche forma parlamentare. Da principio credemmo di potere istituire due camere, l’una economica e l’altra in base al suffragio universale, ma per via dovemmo abbandonare per ragioni politiche questo sistema, e si giunse invece alla creazione di tre corpi consultivi sui quali poggia il corpo legislativo che ha il pieno diritto di approvare o di respingere il bilancio dello Stato. È inoltre nostro proposito di deferire a mano a mano alle corporazioni degli affari che ora vengono trattati dalle autorità governative. Ma nessuno può prevedere ancora lo sviluppo di questi organismi che stanno appena creandosi. Dopo di lui il dr. Bayer descrive rapidamente l’organismo corporativo austriaco nei suoi quadri provvisori dell’industria, dell’artigianato, del commercio e dei trasporti, delle banche e delle assicurazioni, e infine delle professioni libere. Finora si sono organizzati gli operai e gli impiegati nei sindacati unici; quest’anno poi si finirà anche la costituzione delle organizzazioni padronali e l’anno prossimo si costituiranno le rappresentanze miste di carattere corporativo. Più importante fu la relazione di ms. Messner sulla «questione sociale nell’ordine corporativo». Egli diede lettura fra altro di una lettera della «Confederazione operaia cristiana sociale della Svizzera», nella quale si dice: «se ci fosse stato possibile di partecipare alla vostra conferenza, avremmo sentito il dovere di esprimere la nostra grandissima perplessità rispetto alla soluzione austriaca dell’ordinamento corporativo, e ciò sovrattutto perché tale soluzione viene attuata con esplicito richiamo alla Quadragesimo anno. Noi abbiamo profondamente deplorato che un governo cattolico in uno Stato cattolico abbia distrutti i sindacati cristiani. E tanto più rimaniamo perplessi, in quanto che il nuovo “ordinamento corporativo”, almeno visto da lontano, porta i lineamenti della dittatura e dello Stato totalitario. Noi siamo zelanti sostenitori dell’idea corporativa. Ma lo “Stato corporativo” quale viene creato in Austria da una “moderata” dittatura è per noi assolutamente inaccettabile. Con ciò noi vogliamo soltanto esprimere il proposito e reclamiamo per noi la libertà di favorire e creare l’ordine corporativo in quei modi che meglio corrispondono alle condizioni del nostro paese». A questa lettera mons. Messner risponde che i convocatori della conferenza non hanno voluto impancarsi a maestri, ma saranno volentieri degli scolari. Ogni paese potrà scegliere la propria via. Per quanto riguarda la «dittatura moderata», egli ricorda che Dollfuss, alcuni giorni prima della promulgazione del nuovo statuto, gli ebbe a dire che «il problema centrale di ogni politica rimaneva quello di trovare il giusto rapporto fra unità e libertà» ed aggiungeva che in Austria non si poteva applicare il totalitarismo. L’oratore passa poi a descrivere la «comunità di lavoro» (Werksgemeinschaft) che venne introdotta obbligatoriamente in ogni impresa che supera i 20 lavoratori. Questi vi possono eleggere liberamente i loro fiduciari. Questa forma assicura agli operai una loro naturale rappresentanza e la difesa dei loro diritti. Ciò è l’essenziale e questo può raggiungersi tanto col sindacato unico che coi sindacati cristiani. In Austria del resto il monopolio sindacale non esclude la coesistenza delle società operaie cattoliche con tutti i loro compiti di formazione, di divertimento e di previdenza. Certo che la mèta fondamentale deve essere l’inserzione degli operai nella comunanza popolare dando loro la consapevolezza di partecipare attivamente alla vita sociale e politica. Questo sarà la meta dell’ordinamento corporativo. Seguì, infine, una conferenza del ministro delle corporazioni Neutstädter- Stürmer sopra il futuro sviluppo delle organizzazioni corporative in Austria. Anche egli si diede premura di dimostrare che la Costituzione austriaca contiene elementi democratici quanto autocratici. Lo Stato mira a spogliarsi sempre più delle funzioni economiche e attribuirle alle organizzazioni corporative. Prossimamente si creerà una magistratura del lavoro e si passerà poi alla democratizzazione delle organizzazioni professionali. Oggi, tenendo conto della situazione politica, abbiamo dovuto creare una forma transitoria di rappresentanze corporative nominate dall’alto. Ma ritornata la calma, introdurremo senza dubbio il sistema elettivo per tutte le cariche. L’Austria cerca una via di mezzo fra l’autocrazia e la democrazia, fra la statizzazione e la libertà assoluta. La conferenza terminò coll’accettazione unanime della proposta del professor Delos per la costituzione di un comitato permanente con sede in Vienna e sotto la presidenza di mons. Messner. Come assessori di questo comitato vennero nominati rappresentanti di diversi paesi: per l’Italia il prof. Vito . Il comitato fungerà sotto il protettorato dell’arcivescovo di Salisburgo monsignor Waitz. Prendendo commiato, il presidente dr. Funder trovò delle parole giustissime per descrivere la situazione del movimento corporativista cristiano: tutti siamo uniti per quanto riguarda l’idea fondamentale e i principi del corporativismo; ma le vie e i metodi variano, sovrattutto per la vessata questione del sistema democratico o autoritario. Gli stati, il cui politico sistema subì una scossa particolare nel dopoguerra, si decisero per il sistema autoritario. Gli altri invece, che rimangono attaccati al sistema della democrazia, cercano di giungere all’ordine corporativo per altra via. Ma entrambi i gruppi troveranno alla fine una via di mezzo che concili l’iniziativa dello Stato e l’iniziativa privata. Questi problemi sono difficili ed esigono molto tempo. L’oratore termina inneggiando alla Quadragesimo anno che è come l’orifiamma della nuova epoca, ed esprimendo l’ammirazione dei congressisti per papa Pio XI al quale era stato mandato fin da principio un telegramma di omaggio. Questa conclusione dell’autorevole presidente del convegno conferma la necessità, da noi già propugnata, di tenere distinto, specie quando si parla di applicare l’enciclica, il problema dell’ordinamento sociale dal sistema politico in senso stretto, il quale può essere diverso e molteplice. Prima ancora che il dibattito ne dimostrasse la convenienza, i convocatori austriaci ebbero la giusta consapevolezza di ciò che in ordine alla riforma sociale si presenta come assoluto e di ciò che è contingente e dipende dalla situazione politica. Di questa relatività, del resto, nessuno poteva essere più cosciente del Katholischer Volksbund austriaco, il quale nella conferenza del 1931, convocata a Vienna a commentare la Quadragesimo anno, aveva dato la parola ad oratori come il Seipel, il quale vi si era espresso su questioni secondarie e discutibili, toccate anche in questa conferenza, in modo notevolmente diverso. Non si legge senza impressione l’ultimo libro di Tardieu: Sur la pente . Sulla china è la Francia o meglio, secondo Tardieu, vanno declinando le sue istituzioni politiche. Per i lettori stranieri può costituire una sorpresa che Tardieu, il quale nell’ultimo ventennio partecipò a tutti i ministeri di unione nazionale, da Clemenceau a Poincaré, a Doumergue, si dichiari oggi nettamente e risolutamente contro qualsiasi governo di concentrazione o coalizione. Ma è appunto la sua annosa esperienza che conduce Tardieu a conclusioni così recisamente negative. Delle coalizioni, egli afferma, hanno sempre profittato solo i demagoghi di sinistra, sempre pronti ad abbandonare la barca alla vigilia elettorale, per mettersi in combutta coi socialisti. Ma Tardieu va più innanzi e da questa considerazione di parte si eleva ad una questione di principio. Le unioni nazionali – egli argomenta – più o meno sacre paralizzano la vita pubblica, impedendo la battaglia per le idee nette, per i sistemi organici e di efficacia duratura. Nei governi di coalizione si cede troppo «agli insidiosi consigli della prudenza e del compromesso». Si rinunzia a fare, per accontentarsi di fare a mezzo. Mosso da queste convinzioni, Tardieu proclama la guerra a tutte le combinazioni parlamentari; ed a chi gli obietta che, con tale atteggiamento, non troverà una maggioranza, egli risponde: «tutte le riforme furono opera di minoranze attive e compatte; tutte le libertà della Francia devono la loro esistenza ad una vittoriosa minoranza. Egli si dedicherà perciò alla propaganda nel paese, sforzandosi di ottenere per la sua tesi l’assenso dell’opinione pubblica». «Le idee, come i popoli, hanno bisogno per vincere, che ci si batta per esse…». «È l’ora di proteggere i valori spirituali contro la forza del numero». Potremo attenderci quindi d’ora in poi una propaganda più attiva di Tardieu per la riforma costituzionale, da lui propugnata l’anno scorso e tentata invano da Doumergue. Questa campagna potrà avere anche delle risonanze all’estero: in Spagna esce ora la traduzione spagnuola del primo libro del Tardieu con prefazione di Gil Robles . Com’è diversa la situazione inglese! Qui il sistema coalizionista è esaltato come quello che ha salvato l’Inghilterra dalla crisi: Mac Donald e Baldwin si scambiano il posto ma la coalizione continua, e si tratta di una cooperazione fra la destra e parte della sinistra, che va dai «duri a morire» ai socialisti nazionali! «La stabilità democratica – disse Baldwin nel suo ultimo discorso – è cosa difficile ad ottenere e, quando la si è ottenuta, conviene mantenerla gelosamente». A proposito del convegno italo-francese di studi corporativi il Secolo fascista nota: «Le critiche (dei francesi) al corporativismo italiano erano basate su quattro punti: l’esistenza malgrado tutto in Italia di classi e residui capitalisti, i pericoli di una eccessiva statalizzazione, la funzione politica del Partito, la definizione e i limiti del concetto di libertà». Il Secolo lamenta che a queste critiche non si sia risposto in misura adeguata, causa specialmente la tinteggiatura hegeliana di una parte della delegazione italiana. Riguardo al Partito, p. e., mentre nelle prime sedute si era risposto vittoriosamente, l’ultimo giorno scappò fuori uno ad affermare che, identificandosi l’individuo collo Stato, in via logica, il Partito non avrebbe alcuna ragione di esistere. Inoltre, secondo il Secolo fascista, fu sbagliata l’impostazione del problema. Per ben quattro giorni non si fece che discutere di classi, di capitale, di produttori e di salari… ma il significato e il contenuto spirituale della Rivoluzione fascista non si riassume in questi termini. Sopra l’organizzazione economico-sociale c’è l’organizzazione politica, la lotta delle razze, lo spostamento del predominio europeo verso altri continenti, il ritorno all’autorità, in una parola tutte le questioni che sfuggono agli schemi economici. In complesso all’autore dell’articolo i francesi «sono apparsi in gran parte ancora prigionieri d’indirizzi spirituali dell’altro secolo».
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Lo scoppio della crisi jugoslava ha rivelato un grande effetto politico d’un alto gesto morale. Dopo le elezioni parlamentari fra le grida di trionfo della maggioranza governativa che aveva conquistato due terzi dei mandati , e il giubilo non meno trionfante dell’opposizione, che in una forma o nell’altra aveva conquistato la maggioranza nella Croazia, nella Dalmazia, nella Bosnia e nella Slovenia, si vide arrivare a Belgrado un vegliardo che tutti rispettano per il suo carattere e per il suo patriottismo. Questo vegliardo era l’arcivescovo di Zagabria mons. Bauer , venuto a presentare alla reggenza e al governo una protesta contro le misure repressive applicate da organi governativi subalterni a danno delle popolazioni e specialmente del clero croato. Il memoriale, pubblicato per esteso dalla stampa austriaca, era passato in occidente quasi inosservato. Quand’ecco nella prima discussione politica svoltasi nella nuova Camera, parecchi membri della maggioranza tra i quali lo stesso ministro della giustizia insorgere contro monsignor Bauer accusandolo in termini violenti di voler fare una politica anticostituzionale. Ma a questo punto si vide che gli attacchi sembrarono assolutamente infondati anche alle persone equanimi della maggioranza, tanto è vero che essi furono l’occasione immediata delle dimissioni del gabinetto. La soluzione della crisi ha trovato ora una via di conciliazione fra opposizione e maggioranza, e pare che un nuovo spirito di pacificazione o almeno di tregua si imponga a tutti i partiti. Ecco un caso nel quale si dimostra che il clero, pur senza fare politica di partito, col solo suo prestigio morale può fare un’ottima e patriottica politica. I vescovi jugoslavi prima delle elezioni avevano raccomandato in apposita circolare che il clero non partecipasse alla campagna elettorale, salvo sempre l’esercizio dei suoi diritti civili. A battaglia finita però questo stesso clero, mosso da ragioni umanitarie e di equità, interverrà per mezzo del suo capo con un gesto morale che rappresenta la migliore politica e che ha un effetto di gran lunga superiore a qualsiasi scrutinio elettorale. Il congresso socialista francese, radunato a Mulhouse il 9 giugno e giorni seguenti, assomigliò in tutta la sua struttura e in tutto il suo contenuto intellettuale e sociale ai 31 congressi annuali che lo precedettero. L’ordine del giorno delle maggioranze contiene il solito compromesso fra il sistema democratico che si vorrebbe difendere e lo spirito rivoluzionario che non si può non alimentare. La maggioranza si è dichiarata contraria all’organizzazione di squadre armate e al metodo di rappresaglia contro le manifestazioni «fasciste», ma ha però ammesso che si crei una specie di guardia difensiva a tutela delle sedi del partito. Eppure il congresso si dimostrò addirittura ossessionato dal pericolo di una rivoluzione «fascista» ossia da una marcia su Parigi compiuta dai Croix de Feu e dalle altre squadre di destra. Come pensa dunque di difendersi il socialismo nel caso di un colpo di mano su Parigi? L’ha rivelato il segretario generale Paul Faure quando ha dichiarato: «la battaglia comincerà dopo l’insurrezione fascista. Il solo partito capace di salvare la repubblica, il nostro, raccoglierà attorno a sé tutti coloro che vorranno spezzare il fascismo con la parola d’ordine: arrestate i treni di approvvigionamento di Parigi, onde far capitolare i faziosi per un istante vincitori». I socialisti maggioritari contano dunque sul numero dei propri aderenti nella provincia e nei dintorni di Parigi, numero che, come avrebbero rivelato le ultime elezioni municipali, sarebbe andato crescendo appunto in forza della reazione antifascista. E se i socialisti vincessero? Il grande profeta dell’equilibrismo maggioritario l’on. Leone Blum, volendo raccomandare l’adozione del rapporto morale del segretario, uscì in queste letterali parole: «Forse un giorno noi faremo la rivoluzione. Sventuratamente quel giorno faremo anche noi come gli altri: ci prenderemo a fucilate e ci ghigliottineremo reciprocamente, come fecero i giacobini. Ma fino a quel momento bisogna che stiamo fraternamente uniti per arrivare alla soglia della rivoluzione…». Magnifiche prospettive in verità e meravigliosi argomenti per sostenere le istituzioni democratiche contro le rivoluzioni di destra! Raimondo Millet passa in rassegna nel Temps le associazioni giovanili francesi che parteciparono alle discussioni corporative di Roma nel palazzo Aldobrandini. Si tratta per la maggior parte di cenacoli intellettuali, di gruppi cioè di giovani che hanno per bandiera una rivista, ma non ancora per quadri un’organizzazione politica o economica nel paese. Il signor Ganivet, direttore dei quaderni Homme Réel rappresentava a Roma il sindacalismo rivoluzionario. «È la bestia nera del fascismo, dice il Millet, e tuttavia egli ottenne presso gli italiani il più vivo successo». Egli ha dimostrato infatti che i sindacalisti francesi non accettano più i principi marxisti. Essi vogliono la collaborazione degli operai e dei tecnici, ossia di tutti i produttori ma non accettano i capitalisti. Egli trova invece che il corporativismo italiano lascia troppo posto ai capitalisti e sostituisce alla nozione di classe la nozione del partito totalitario, che non corrisponde alla «realtà». L’Homme Réel ha un programma molto simile a quello del piano de Man e vuole la nazionalizzazione delle banche e delle industrie-chiavi. L’Homme Nouveau è invece la rivista giovanile del neo-socialismo. Era rappresentata a Roma dal sig. Roditi e da Paolo Marion organizzatore della gioventù neo-socialista (partito socialista di Francia). Benché questi due neosocialisti dichiarino di non aderire al fascismo, perché la Francia è un paese sempre in sospetto contro il cosiddetto Stato forte, essi ammettono però che anche in Francia la rivoluzione futura dovrà essere una rivoluzione nazionale e non una rivoluzione di classe e in ciò si accostano al fascismo, come s’accordano con esso nell’invocare il corporativismo . «Ma noi mettiamo l’accento sul controllo popolare; noi teniamo all’idea della consultazione popolare». Una terza rivista, più nota, è l’Ordre Nouveau. Sono i personalisti che hanno trovato il modo di conciliare l’autorità anzi la dittatura colla libertà, ammettendo la prima per le funzioni subalterne della società e riservando la seconda al dominio dello spirito . Si tratterebbe di organizzare l’ordine sociale in modo da impegnare ogni individuo a compiere durante qualche mese della sua vita le funzioni subalterne o inferiori della società, permettendo così che a turno gli individui possano dedicarsi in piena libertà alle opere superiori dello spirito. Qualche cosa di queste idee, sostenute a Roma da Robert Aron , Chevalley e Dubuis e che il Millet attribuisce anche al nostro Daniel Rops , ricorda la motivazione nazista del servizio civile nei campi di concentramento germanico. Infine, last not least, il cenacolo che si raggruppa attorno alla rivista Esprit difende il primato dello spirituale. «Essendo personalisti, ha detto a Roma il direttore della rivista Mounier , non vogliamo affatto ristabilire al disopra di tutto l’individuo; intendiamo però che la persona umana debba essere collocata in cima alla gerarchia. Noi rimaniamo diffidenti di ogni movimento politico sociale e non soltanto riguardo al fascismo, in causa del pesante determinismo che domina ogni organizzazione di questo genere. Noi reclamiamo delle garanzie tanto contro l’oppressione dell’anarchia individuale quanto contro l’oppressione del gruppo nemico della persona». Il sig. Galley che appartiene al cenacolo dell’Esprit, ma che a Roma disse di parlare piuttosto a nome del Fronte comune (sinistra radicale) credette di ritrovare nell’esperienza fascista la lotta di classe e concluse affermando che le soluzioni rivoluzionarie cercate e trovate da vent’anni in qua non sono che la risultante di due elementi: da una parte la necessità di lottare contro la situazione economica, d’altra parte in ogni nazione, che ebbe a soffrire per inferiorità, il bisogno di ritornare a ciò che ha fatto la sua grandezza nel passato (Roma per l’Italia e l’impero germanico per la Germania). Ora in Francia il passato veramente glorioso è rappresentato dalla credenza all’universalità dello spirito francese e fu appunto questa credenza che animò i rivoluzionari dell’89. «Io m’auguro quindi, concluse il giovane oratore, di veder costituirsi in Europa – salva sempre l’autonomia delle singole nazioni – il fascio della solidarietà europea che faccia crollare tutte le autarchie economiche e finanziarie». Jean de Fabrègues parlò a Roma a nome del Vingtième Siècle, monarchico-corporativista-regionalista, ma che condiziona il proprio corporativismo al culto della persona che esso pone al di sopra di tutto il resto. Egli fece delle obbiezioni contro la funzione del partito entro l’organismo corporativo. La dottrina tradizionale cattolica-sociale, formulata da La Tour du Pin, venne esposta da Giorgio Viance che ci è occorso spesso di citare per i suoi eccellenti articoli nella Vie Intellectuelle. Il Front Paysan , considerato non è molto come filocomunista e combattuto ora come reazionario, fu a Roma la delegazione che parve accostarsi più di ogni altra al fascismo. Anche rappresentanti della Jeunesse Patriote si dichiararono per il corporativismo italiano. «Noi abbiamo, disse con una certa ingenuità il loro delegato Gimon, due teorie sul corporativismo: l’una applicabile in caso di riforma del regime attuale, l’altra riguarda una rivoluzione brutale. In ogni caso le nostre corporazioni rassomiglierebbero alle vostre». Infine anche il parlamentarismo trovò nel sig. Forestier, rappresentante dell’artigianato, un difensore convinto. Lo stesso Millet dichiarò, a nome della fondazione Blumental, che l’individualismo ora invocato in Francia dai liberali non ha più niente di comune coll’egoismo personale o di classe. «Anche per noi, disse il Millet, i legislatori e governanti devono ispirarsi al bene comune, ma la massa, anche quando avrà ottenuto giustizia e soddisfazione, nell’interesse nazionale resterà quello che è sempre stata, cioè una folla dalla quale domandano di sorgere degli individui eccezionali, dei pensatori, degli artisti e dei civilizzatori che non potranno compiere la loro opera senza un minimo di libertà». Il giornalista ricorda infine che i congressisti ebbero occasione di intrattenersi a palazzo Farnese con padre Gillet, autore della recente opera «Culture Latine et Ordre sociale» , nella quale sono difesi in modo particolare i diritti della persona umana; e dopo avere reso omaggio allo spirito di libertà che dominò nelle discussioni di Roma e al vivo interesse per lo studio e per le idee che anima gli uomini di azione del fascismo, persino alla vigilia di una spedizione militare, promette di riassumere in un prossimo articolo le risposte degli oratori italiani.
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I congressi di Praga e Lubiana sono avvenimenti internazionali di primo ordine. Ignorandoli, la grande stampa d’informazione rivela una mancanza di sensibilità ed una deplorevole deficenza nei suoi servizi. O molti di questi organi della pubblica opinione temono d’infliggersi una clamorosa smentita? Ci fu un tempo infatti, nel quale la stampa anticlericale spacciava per certa ed indiscutibile l’affermazione che il cattolicismo austro-ungarico fosse un fenomeno di protezione statale, un prodotto della politica asburgica. Crollata la monarchia, crollerebbe anche il cattolicismo, legato con vincoli secolari ad una dinastia ed alimentato da interessi feudali e reazionari. Ciò sarebbe dovuto avvenire soprattutto in Boemia, ove il vittorioso nazionalismo ceco nutriva delle nostalgie ussite o nelle Carnie divenute parti integranti di una monarchia «ortodossa». Ecco invece il magnifico congresso eucaristico di Praga, ecco il trionfo religioso di Lubiana . Nello Stato forse più democratico di Europa, nel quale i diritti feudali e le signorie sono scomparse collo scomparire della monarchia austro-ungarica, nello Stato retto dall’umanitarismo filosofico di un Masaryk e governato dall’illuminismo di Benes , in quella piazza di S. Venceslao, nella quale nacque nel 1918 la Repubblica cecoslovacca, ecco celebrarsi con partecipazione immensa i fasti dell’Eucaristia e l’esaltazione del Papato, quale suprema ed indiscussa autorità religiosa. E nella capitale della Slovenia non si sono ascoltate dalle labbra del governatore parole di franca adesione alle verità della fede? Certo nella storia umana i regimi, le dinastie, le costituzioni politiche hanno la loro importanza e sarebbe ingiusto oltre che antistorico il negare la funzione provvidenziale esercitata dagli Asburgo contro il pericolo islamico o il loro energico intervento in favore della controriforma. Ma rimane vero che ciò che è essenza del cattolicesimo deriva dalla perenne fonte della fede, zampillante nelle coscienze. Di fronte a questa eterna sorgente, i fatti esteriori dei regimi e dei rapporti economici, sociali e politici, costituiscono appena l’involucro caduco e mutevole. Rimane ancora vero che se la cooperazione dei poteri pubblici è sempre desiderabile, quello che soprattutto importa nella vita contemporanea è che la Chiesa cattolica goda di quel tanto di libertà nell’ordine che le permette di vivere integralmente e pubblicamente la propria vita religiosa e di esercitare il suo pacifico ministero spirituale. A Praga la manifestazione religiosa è stata anche un atto di pacifica convivenza fra sei nazionalità, abitanti nella stessa repubblica. In questo momento, in cui l’Europa è dilaniata da tanti nazionalismi esclusivisti, anche questo gesto di pace merita ogni rilievo. Non era, è vero, un raduno politico, anzi la politica ne fu rigorosamente bandita, ma quando la politica è intessuta di tante discordie quella di non farne, non è appunto la politica migliore? In fine segnaliamo ancora una volta il prestigio del Pontificato romano. Nella Francia laica, come nella Cecoslovacchia, che ebbe sempre la tentazione d’imitarla, i delegati del Papa vengono accolti come sovrani. Ci fu un tempo in cui tali accoglienze festose poterono attribuirsi al proposito di assicurarsi gli aiuti finanziari o il contributo militare degli Stati pontifici. Oggi questi calcoli interessati non avrebbero fondamento. Oggi le accoglienze al legato costituiscono un riconoscimento di un potente e benefico dominio spirituale, di un’autorità universale sulle coscienze dei fedeli. È insomma il «primato dello spirituale» che riprende la sua marcia in Europa. Al banchetto, offerto dall’ambasciatore francese a Mosca in onore di Laval, accanto ai ministri sovietici assistevano Mgr. Neveu , vescovo francese di Mosca, e due altri religiosi, venuti appositamente da Leningrado. Ah! noi non ci facciamo davvero delle illusioni. Amiamo però credere che il materialismo e il razionalismo politico comincino almeno ad avvertire che al di fuori di loro, esistono dei «fattori» sociali, dei quali sarebbe pericoloso ignorare l’ascendente nella vita dei popoli. Federico Le Play, chi era costui ? Leggendo di una conferenza letta da Tardieu nella «Société d’économie sociale» «qui demeure fidèle à la doctrine de Frédéric Le Play», molti avranno esclamato: chi era costui? Ignoriamo se in Italia esistano ancora quelle Unioni della pace sociale, alle quali, oltre alcuni cattolici e conservatori, avevano dato il nome i riformatori del tipo Luigi Luzzatti , e che intendevano propugnare e diffondere le dottrine del Le Play; certo è che se ne può parlare come di cose morte. Ma quali sono le dottrine del sociologo francese, scomparso già nel 1882? Stanno raccolte in troppi volumi, per poterne parlare in questa rubrica. Diremo solo che il Le Play affermava, contro il determinismo ed il materialismo imperante, che «gli elementi essenziali per cui si fonda la preminenza d’una società appartengono all’ordine morale», e lo dimostrava con le sue inchieste mondiali. Nello stesso modo Andrea Tardieu, dichiara oggi, a tanti anni di distanza: «Con tutta la forza della mia ragione e della mia esperienza io credo in verità che il male dell’economia contemporanea sia sopra tutto d’origine politica e morale». Le Play inoltre insegnava che esiste una «costituzione essenziale dell’umanità», indipendentemente dalle condizioni sociali e dai regimi politici, costituzione che non bisogna offendere, se pur si vuole che i popoli arrivino ad un certo benessere. Si tratta per il Le Play di alcuni principi ed elementi essenziali, come sono il Decalogo e la legge naturale, l’autorità paterna, la religione, la proprietà, i costumi famigliari. E Tardieu riprende la tesi, dimostrando che la moderna civiltà, fondata sulla meccanica e sull’industrialismo, ha condotto alla crisi appunto perché ha offeso tale costituzione essenziale. Infine, Le Play combatte l’eccessivo intervento dello Stato. Egli afferma anzi, come a conclusione della sua inchiesta mondiale, che «l’estensione della vita privata è sintomo di prosperità, e i popoli liberi e superiori estendono sempre più la vita privata a spese della vita pubblica». Nello stesso senso Tardieu combatte «lo Stato idropico, la cui autorità diminuisce, a mano a mano che cresce il suo volume». Ma quale traiettoria ha percorso il mondo dai tempi del Le Play ai nostri! Nel 1881, sotto i suoi auspici e colla sua approvazione, i suoi discepoli pubblicavano un programma di governo che chiedeva allo Stato la sola abolizione delle leggi contro la religione, la proprietà e la famiglia: «rientrati così nella tradizione dei popoli civilizzati, noi pregheremo Dio di rendere feconda la nostra libertà e tenteremo di salvarci noi stessi». Oggi invece tutti pretenderebbero di essere salvati dallo Stato, unico regolatore della vita economica, sociale ed educativa! Tutti sanno oramai che il celebre professore di teologia protestante Karl Barth , è stato dimesso dalla sua cattedra di Bonn, per non aver voluto prestare un giuramente incondizionato al Führer . La Reichspost rileva a questo proposito che il Barth s’era disposto a giurare in quanto si trattasse di suoi obblighi politici, ma faceva delle riserve per quanto riguardava il suo insegnamento religioso. Il Völkischer Beobachter replica che il giuramento deve essere incondizionato ed assoluto, senza riserve di sorta né religiose né filosofiche. E sta bene: inutile argomentare, poiché è notorio che si cercava un pretesto qualsiasi per bandire il Barth, appunto perché egli era una colonna dell’opposizione contro la «Chiesa evangelica del Reich». Ma che dire di quelle migliaia di professoroni, che si vantavano d’insegnare la «scienza pura senza presupposti» e alcuni anni fa minacciarono il finimondo perché Pio X coll’autorità che gli competeva sulle coscienze dei suoi fedeli, aveva imposto ai docenti di teologia un giuramento d’ortodossia dottrinale? Queste migliaia hanno giurato, rimanendo sulle loro cattedre ad insegnare la loro «Wissenschaft», che continueranno a voler imporre al mondo come l’oggettività assoluta e il prodotto più puro della più pura ragione! Nonostante il giuramento tuttavia il governo nazionalista comprende che i professori tedeschi nella loro enorme maggioranza gli rimangono avversi . Esso si serve perciò della «federazione studentesca nazista» per controllarli e spiare le loro lezioni e intanto bada a formare ed organizzare le forze nuove. Il ministro dell’istruzione sceglie fra gli abilitati all’insegnamento quelli che sono politicamente incensurabili e fidati e li nomina «docenti» a questa o quella facoltà. Le attitudini e le direttive politiche del docente vengono esaminate e sviluppate nel «campo dei docenti» (Dozentenlager), nel quale per sei mesi i candidati devono sottoporsi ad esercizi fisici e a studi di politica nazista e nell’«accademia dei docenti» che accanto a studi pedagogici comprende anche la preparazione politica. In tal modo il nazismo pensa di garantirsi per l’avvenire e di conquistare anche in spirito le università tedesche. In quanto agli studenti, bisogna avvertire che i progetti più radicali di rinserrare in convitti e di abolire le vecchie «corporazioni» sono, per ora almeno, lasciati cadere. Di tutte le proposte lanciate in turbine per la conquista delle università si sono attuate soltanto: quelle dei campi di addestramento e lavoro, nei quali gli studenti devon passare sei mesi prima di entrare nelle università e quella di un corso generale di coltura politico-militare da frequentarsi nei primi tre semestri, prima d’iniziare lo studio della propria materia. Inoltre, in via di fatto, la federazione nazista detiene il monopolio e la rappresentanza ufficiale della vita studentesca. Si vuole notare tuttavia un certo raffreddamento negli studenti, un ritorno dall’attività politica allo studio, un’appartarsi, che è l’unica forma di resistenza possibile. Le divise, scrive un professore tedesco nella Reichspost, sono quasi scomparse dalle aule universitarie. Certo – egli conclude – rimane difficile di prevedere quale possa essere l’ulteriore sviluppo dell’università germanica, perché è impossibile prevedere anche la direttrice sulla quale si muove il nazismo. «La sintesi fra un’istituzione scientifica e di libera indagine ed una scuola ove si dovrebbero formare i totalitaristi politici non è stata ancora trovata». La situazione politica francese è in continuo sviluppo. Apparentemente le questioni finanziarie e il problema della sicurezza s’impongono su tutte; ma sotto sotto cova minacciosa la vera crisi politica che si concreta nella questione delle «leghe». Le sinistre, allarmate dalla crescente attività squadrista delle «Croci di fuoco», ne chiedono a gran voce lo scioglimento. I destri che stanno al governo nel gabinetto di coalizione vi si oppongono. Dei radicali circa la metà al comando di Herriot, pur condannando le leghe, è disposta a sostenere l’attuale governo fino al superamento delle difficoltà finanziarie; l’altra metà, diretta da Daladier, morde il freno, vorrebbe un atto di forza e si prepara a combinare un governo di sinistra, disposto a schiacciare il «fascismo». Non bisogna tuttavia anticipare i termini. Intanto non si avrà che una manifestazione «antifascista», il 14 luglio, anniversario della Bastiglia. Herriot si è dichiarato favorevole alla partecipazione dei radicali, purché marcino in colonne distinte e sotto il tricolore. Nello stesso discorso egli ha affermata la urgenza del risanamento finanziario e quindi la continuazione del governo di tregua. Salvo incidenti, si può quindi ritenere che il governo vivrà fino alla ripresa parlamentare e anzi il 16 luglio raffredderà gli animi eccitati con una serie di nuove riduzioni e nuove tasse, onde raggiungere il pareggio del bilancio. Ma lo sviluppo ulteriore è oscuro. Daladier sta cercando affannosamente un programma che possa venir accolto da tutte le sinistre: dovrà essere un ministero di lotta «antifascista» e comprendere magari anche i comunisti, i quali dopo le nuove istruzioni di Stalin, dovrebbero essere disposti anche a votare le spese militari . La stampa di destra ed anche quella del centro liberale, come il Temps, fanno capire però che un simile governo vorrebbe dire la rivoluzione a breve scadenza. Assistiamo qui al solito palleggio delle responsabilità. Herriot dice: i radicali stanno lavorando per il risanamento finanziario; ma l’agitazione squadrista nel paese non lascia tregua né al governo né al parlamento. I destri invece ed i liberali moderati replicano che «le leghe» sono un prodotto naturale della crisi parlamentare e delle deficenze di un regime che i radicali si ostinano a non voler modificare. Siamo alla tragedia della duplice «paura», che l’una parte o l’altra dovrà tra pochi mesi superare.
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L’ultimo concordato germanico porta la data del 20 luglio 1933. Esso era stato offerto con insistenza dai reggitori del terzo Reich come una unica e meravigliosa occasione, da prendere o lasciare, ed era stato accettato dalla Chiesa come un modus vivendi come un adattamento e un’integrazione dei precedenti concordati colla Prussia, colla Baviera e col Baden. Ma uno sparuto drappello di cattolici-nazionalisti, radunato sotto le bandiere di von Papen prese ad esaltarlo, come una pace costantiniana, come un’alleanza interiore, una compenetrazione di due mondi, sorti per intendersi e impediti finora di abbracciarsi dal dominante sistema liberale o, peggio ancora, dal cattolicismo politico del Centro che, secondo loro, si era alimentato sovrattutto del dissidio. Povero Centro, miserabile Windhorst (aveva detto già ai tempi di Leone XIII un diplomatico, troppo facile ad esaltarsi dei successi delle formule): la pace di von Papen metteva nell’ombra il compromesso concluso con Bismarck e, benché non costituisse in sostanza che la continuazione della politica religiosa del Centro, cioè la ricerca d’una garanzia giuridica della libertà della Chiesa, la sua conclusione fu accolta da questo gruppo con grida di abbasso la libertà, abbasso la democrazia, pronunciate in nome dell’interesse religioso. Ma ben presto si annunciò in Germania la lotta contro le associazioni cattoliche giovanili e contro la stampa quotidiana cattolica; e la legge sulla sterilizzazione, già in preparazione durante le trattative per il Concordato fu promulgata con forza d’obbligo per tutti. La Santa Sede non mancò di presentare ripetutamente le sue rimostranze e il 10 settembre 1933, in occasione dello scambio delle ratifiche, venne aggiunto al Concordato un protocollo finale con gli appunti della Santa Sede, riguardanti l’applicazione che se ne era fatta fino allora circa «l’esistenza, l’attività e la protezione delle organizzazioni cattoliche», e «la libertà dei cattolici tedeschi di esporre e spiegare pubblicamente, anche nella stampa cattolica, le dottrine e le massime della fede e della morale cattolica». Frattanto ripetuti discorsi del Santo Padre e richiami all’enciclica Casti connubi avevano spiegato a che cosa in particolare si volesse accennare parlando della morale cattolica. I delegati del Reich sottoscrissero in coda al protocollo la promessa di avviare subito trattative per togliere le ragioni delle lagnanze della Santa Sede. Tuttavia la politica religiosa tedesca continuò il suo corso. I fatti crudeli del luglio 1934 portarono la morte di Klausener e di altri cattolici militanti. Dopo la partenza di von Papen, l’influsso di Rosenberg, nominato Praeceptor Germaniae, parve non avere più contrappeso. Una certa tregua si ebbe durante la campagna per la Sarre, trattandosi di guadagnare i voti di quei cattolici e di assicurarsi la neutralità della Santa Sede. Ma poi la lotta venne ripresa con vigore, ed ora siamo non soltanto al discorso di Rosenberg contro il vescovo di Münster , ma perfino il burocrate D. Frick , che passava per moderato, prende la parola per affermare coll’autorità di ministro degli interni che la legge sulla sterilizzazione obbliga anche i cattolici, proprio in forza del concordato. Nello stesso discorso poi egli attacca le organizzazioni giovanili cattoliche e non soltanto quelle sportive, che abbiamo ammirato ripetutamente anche a Roma, ma perfino i famosi Gesellenvereine fondati da Kolping e che finora hanno resistito a tutte le rivoluzioni e a tutti i sistemi politici; infine, contro il formale impegno preso nel concordato, egli proclama che non deve esistere nessuna stampa quotidiana cattolica. Il 18 luglio è la volta di Göring, capo del ministero prussiano, che in una circolare ai prefetti «segnala l’atteggiamento repulsivo di certi sacerdoti contro l’idea nazista». Come se il nazismo integrale abbia mai potuto essere accolto dai cattolici! Come se il concordato avesse fatto cadere le famose obbiezioni di principio dell’episcopato germanico; come se a Roma non fosse stato esplicitamente rilevato che si trattava di un modus vivendi et gubernandi, non d’identità di dottrine. Göring parla di un ritorno al centrismo; ma in verità qui non si tratta di politica, per quanto sia verissimo che si tratta di quegli stessi principi cattolici che il Centro aveva il merito di difendere. Il giorno dopo rincalza il ministro della giustizia con una circolare alle autorità giudiziarie per la rigorosa applicazione del paragrafo 2 dell’articolo 130-A diretto contro «l’abuso del pulpito». È il famoso «Kanzelparagraph»; usato anche da Bismarck per distribuire anni di prigione e di fortezze ai sacerdoti . Nello stesso tempo in armonia colla circolare del Göring si abolisce la vita pubblica delle associazioni giovanili, ridotte a confraternite religiose, e private di ogni simbolo e di ogni attributo di vita corporativa. È dunque il Kulturkampf che si ripresenta in Germania, ma con un aspetto ben più feroce e più terribile. Bismarck usava dei mezzi legali, il nazismo invece, accanto ai paragrafi, usa il terrorismo delle sue squadre e dei suoi campi di concentramento. Allora i cattolici potevano protestare, appellarsi alla Costituzione, impegnare battaglia in parlamento; oggi essi sono politicamente disarmati e non possono impugnare nessuna arma civile per difendere la loro libertà. Il loro spirito però non è venuto meno, il discorso del vescovo di Münster, accanto a quelli del cardinale Faulhaber, è un meraviglioso documento di coraggio e di ardimento apostolico. «Io non so – egli esclama, di fronte a migliaia di suoi fedeli – io non so, se sia già avvenuto che un vescovo di Münster si sia lasciato intimidire da minacce nel dire e nel fare quanto nell’esercizio del suo santo ministero si credette in dovere di dire o di fare. So però che fu proprio un vescovo di Münster – il quale poi abitò in questa casa – che ai tempi della dominazione straniera francese, nel cosidetto consiglio nazionale di Parigi, osò opporsi apertamente alle pretese che il violento Corso, Napoleone I, voleva imporre contro il diritto divino e la libertà della Chiesa. Io so che sessanta anni fa, in questa casa, fu arrestato un vescovo di Münster e di qui fu tratto in prigionia, per avere egli, fedele al suo dovere ed alla voce della sua coscienza, difeso i diritti di Dio e la libertà della Chiesa di Gesù Cristo. Io non so se qualche cosa di simile attenda anche me; se anch’io sarò un giorno ritenuto degno in nomine Christi contumeliam pati, e non soltanto incomprensioni e rimproveri, ma anche limitazioni della libertà, maltrattamenti e sofferenze. Se la Provvidenza di Dio mi riterrà degno di questa successione degli Apostoli spero che la grazia di Dio mi conserverà nel proposito di tutto soffrire, piuttosto che deviare dalla strada del dovere, spero che l’aiuto di Dio mi darà nelle ore difficili luce e forza di imitare i precedenti vescovi di Münster nello spirito di sacrificio e nella fermezza» . Bisogna inoltre attendersi altre manifestazioni dell’episcopato germanico. Per intanto domenica 21 luglio in tutte le chiese è stata data lettura dell’articolo pubblicato il 15 luglio dall’Osservatore Romano, articolo che oppone ai passionali discorsi e agli attacchi dei ministri tedeschi la serena esposizione dei principi della Chiesa e il richiamo tranquillo ma deciso agli impegni presi dal loro governo nel solenne documento concordatario . Alla fine della circolare, Göring afferma di non voler la guerra religiosa e raccomanda di non fare martiri, con l’aria di voler essere più furbo e più abile di Bismarck. Ma gli attuali governanti dimenticano che questa è arte vecchia smascherata anche durante il Kulturkampf. Anche allora Bismarck dichiarava di voler lottare soltanto contro il Centro e la politica guelfa del Windhorst. Ma se allora riuscì alla Santa Sede di tener ben distinte la questione religiosa da quella politica, come non sarà facile dimostrare che si tratta veramente e solamente di principi religiosi, oggi che le idee politiche dei cattolici non hanno più né rappresentanti né propagandisti? D’altro canto il fronte oggi si allarga a tutti i cristiani. Proprio di questi giorni si annunzia che anche il Meiser , vescovo protestante della Baviera e uno dei capi del fronte confessionale, ha indirizzato al generale Göring una lettera di protesta per il discorso pronunciato il 23 giugno dallo stesso Göring in occasione della festa neopagana del solstizio. In questo discorso il ministro aveva parlato vigorosamente contro le «beghe dei surati» e, riferendosi specialmente ai conflitti in seno ai protestanti, aveva affermato che «i dogmi hanno poca importanza». La protesta del Meiser viene paragonata alla lettera scritta dal vescovo di Münster prima della venuta di Rosenberg in quella città e i giornali nazisti annunciano che lo Stato non tollererà più a lungo che le Chiese conducano la lotta contro di lui. Si annunzia dunque una campagna totalitaria contro le Chiese e ne dovrebbe essere supremo organizzatore l’ex ministro della giustizia Kerrl che viene creato «ministro dei culti» e sarà come si può immaginare, ministro dello Stato poliziesco contro la libertà religiosa. Ma noi siamo certi che i cattolici germanici, sorretti dal loro valoroso episcopato e dalla mondiale autorità della Santa Sede, non verranno meno e susciteranno attorno alla loro causa l’adesione e la solidarietà di tutto il mondo civile. La ruota della fortuna gira nella nostra epoca con una rapidità imprevista. Appena 16 anni fa, il 3 aprile 1919, l’assemblea nazionale austriaca votava una legge che, per la sicurezza della repubblica, metteva al bando i membri della famiglia d’Asburgo e ne confiscava le sostanze in favore dello Stato e precisamente del fondo invalidi di guerra . Gli oratori di sinistra presentavano la legge come una riparazione e nel mondo dell’Intesa bando e confisca vennero esaltati come meritata punizione per la famiglia che con l’ultimatum alla Serbia aveva scatenato la guerra europea. In favore della legge votarono allora anche i cristiano-sociali: «onde evitare il peggio», diceva il rispettivo ordine del giorno. E questa decisione parlamentare sarebbe, come molte altre dell’epoca, inesplicabile, se non si ricordasse, più di quello che non lo lascino comprendere le cronache, che allora la proporzione numerica dei mandati parlamentari era una maschera, dietro la quale dominava una realtà: la minaccia della piazza. La paura del bolscevismo veniva sfruttata dai socialisti parlamentari per indurre i deputati conservatori ad aderire alle proposte più radicali. Poveri ordini del giorno, stilati con tanto lusso di formule speciose, chi vi capirà mai, fino a tanto che tutto il vostro sforzo mirerà a nascondere l’inconfessabile motivo della paura? Solo la Reichspost può oggi vantarsi d’aver chiamato ladroneccio la legge di confisca, fin dal momento che veniva votata. Comunque sia, la repubblica austriaca autoritaria ha disfatto oggidì la legge dell’Austria rivoluzionaria. Tolto il bando, gli Asburgo si vedono restituito anche il loro patrimonio, eccettuato i palazzi di evidente carattere pubblico, come la Corte e Schönbrunn, eccettuati anche gli archivi e i musei. Si assicura del resto che la confisca aveva recato agli invalidi un magro contributo perché le tenute sequestrate non diedero mai un reddito maggiore di 400.000 scellini all’anno e i 106 milioni in contanti sfumarono quasi completamente, perché la metà investiti in prestiti di guerra ed altri in titoli svalutati. Gli Asburgo, rileva la Reichspost, non si erano garantiti comprando consolidato inglese, come avevano fatto altri principi. Intanto l’arciduca Eugenio , rappresentante anziano della Casa, fa il giro dei comuni stiriani e carinziani per ringraziarli di aver nominato Ottone loro cittadino onorario. I legittimisti confidano in un ritorno della monarchia e anche all’estero, specie in Francia, molti sono coloro i quali pensano che gli Asburgo a Vienna costituirebbero una garanzia contro Hitler. Benes è sempre ferocemente contrario, i magiari sono divisi, l’Italia non è favorevole, ma i legittimisti sperano oramai che la ruota della fortuna compia fatalmente il suo giro. Laval ha pubblicato 20 decreti legge che migliorano il bilancio di undici miliardi, riducono del 10 per cento tutti i pagamenti del Tesoro e nella stessa percentuale la rendita, il consolidato, le obbligazioni ferroviarie, i titoli parastatali aumentano dal 17 al 24 per cento la tassa sui valori mobiliari e di una grossa aliquota i redditi sopra ottanta mila lire; impongono l’abbassamento dei prezzi del pane, dell’elettricità, del gas, del carbone, degli affitti e delle rispettive ipoteche. Lo Stato annulla e modifica i contratti privati e impone la sua legge in tutti i rami dell’economia. Contemporaneamente sono costituite delle commissioni che lavorano in tutti i dicasteri per attuare un piano di rigorosa economia. «Si è cercata, come disse Laval, nel suo discorso radiodiffuso, l’eguaglianza nel sacrificio, necessario, come egli soggiunse, per difendere le libertà dello Stato che sono le libertà pubbliche». Così nella repubblica parlamentare francese un governo liberale fa in nome della libertà quella stessa politica d’intervento e di regolamentazione che in altri paesi si potrà chiamare politica pianista, politica dell’economia diretta, politica corporativa, politica del New-Deal. Ove trovare una prova più convincente che la crisi è generale, che essa è almeno in buona parte indipendente dai sistemi politici e che dappertutto si impongono gli stessi rimedi, qualunque sia la dottrina imperante? La lotta contro la crisi economica si richiama a diversa motivazione ed assume diverso colore, a seconda della teoria politica che essa trova in un determinato paese, ma nella sua finalità e nei suoi metodi è sostanzialmente eguale, perché la realtà economica si impone dappertutto. La stampa liberale moderata francese, che si è distinta nella campagna contro i provvedimenti della INRA americana, ovvero del corporativismo fascista, accetta oggi con rassegnazione i decreti legge Laval, pur ritenendoli fuori della legge comune e come una palese violazione dei sacri principi dell’economia liberale. Il timore della svalutazione fa tacere gli scrupoli ed assopisce le contraddizioni più forti. Solo i demagoghi sono dappertutto coerenti ed anche nella Francia egualitaria all’eguaglianza dei sacrifici, proclamata da Laval, oppongono la proporzionalità dei pesi come postulato di una campagna politica che in autunno dovrebbe condurre ad un nuovo ministero cartellista. Di fronte a questa campagna e alle speranze reazionarie di destra, l’ardimento del ministro Laval costituisce come una pietra di paragone del sistema liberale, benché oramai questo sistema abbia abbandonato le classiche vie del liberalismo.
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Il comunismo cambia tattica. Chi non ricorda l’atteggiamento dei comunisti in Italia, in Germania, in Francia, diretto sopra tutto a combattere i socialdemocratici e la democrazia borghese? Per la Germania è certo, che se i comunisti non avessero combattuto i socialisti parlamentari, ma li avessero sostenuti, Hitler non sarebbe arrivato al governo. Ora se ne sono accorti e nel recente congresso del Komintern a Mosca hanno deciso di cambiar tattica. Il realismo di Stalin, rinforzato dalla esperienza, è riuscito ad imporsi, né sarà meraviglia che se ne sia fatto sostenitore anche quel Dimitrov , che nel processo di Lipsia aveva partecipato come uno dei primi attori al grande dramma nazionalsocialista. L’ordine del giorno, votato a Mosca, invita i propagandisti ad abbandonare il carattere astratto della loro propaganda per dedicarsi a scopi pratici e ad una dottrina accessibile alle masse. Bisogna convincerli – continua la risoluzione – della necessità che ha il partito nella sua lotta contro il fascismo a difendere i resti della borghesia democratica, onde assicurarsi il concorso dei partiti moderati. «In ogni paese si dovranno adottare i mezzi più opportuni per realizzare l’unità d’azione antifascista». Si stenterebbe a credere ai propri occhi, se tali parole non si contenessero proprio nel comunicato ufficiale del Komintern. Dimitrov, poi, nel suo applaudito discorso ha biasimato aspramente quei comunisti che propugnano il «nichilismo nazionalista». Il loro primo dovere – esclamò il Dimitrov – è invece quello di rispettare il sentimento nazionale popolare. Anche codesto è un linguaggio completamente nuovo in bocca ad un bolscevico. Si dovrà concludere che si tratta di cambiamenti, suggeriti da mero opportunismo? Le sconfitte subite finora, li avrà certo persuasi che la tattica del tutto o nulla liconduce al disastro, ma non è da escludere che sia in atto anche un rivolgimento più interiore, che cioè anche i più arrabbiati internazionalisti si siano convinti che il sentimento nazionale è una insopprimibile forza di natura. Il vigore della reazione europea contro l’antinazionalismo li deve avere persuasi che qui si tocca un nervo vitale della costituzione dei popoli. La nuova tattica avrà effetti pratici specialmente in Francia, nella costituzione e nel consolidamento del Fronte comune . Il pericolo che la borghesia radicale, per paura di un colpo di mano nazionalista, scivoli verso l’alleanza cogli estremi, è aumentato, perché i radicali potranno affermare, con qualche apparenza di verità, che sono proprio i comunisti a fare un passo verso la democrazia e non i democratici ad accostarsi al socialismo bolscevico. Ottocento delegati rappresentanti 80 mila insegnanti, regolarmente ed illegalmente sindacati, hanno applaudito in Francia a dei propositi e votato delle decisioni che hanno carattere spiccatamente rivoluzionario. Sotto pretesto di combattere il fascismo, il segretario generale Delmas – un insegnante messo in disponibilità, colla riserva di tutti i vantaggi della carriera – ha protestato con tale veemenza contro i decreti-leggi Laval, ha inveito con tanto disprezzo contro i ministri e i parlamentari, che in verità sono bene da compassionarsi quei governi che si credono costretti a tollerare siffatto linguaggio. Ma non si tratta solo d’irruenza verbale. Delmas inneggiò anche apertamente alla rivoluzione. «Da una parte – egli concluse – il fascismo e la guerra; dall’altra il risveglio dello spirito di libertà, il disarmo; la formula sublime, lanciata dai comunisti: “pane, pace e libertà” è anche la nostra divisa. Fra qualche mese la coalizione popolare avrà il potere nelle mani: o allora o il fascismo!». Nel congresso magistrale ebbe la parola anche il segretario della «Confederazione generale del lavoro» Jouhaux , il quale espose il noto piano di politica costruttiva delle sinistre: un programma minimo di nazionalizzazione, alla stregua del piano Man, programma che dovrà essere la piattaforma elettorale comune dai comunisti fino a Daladier. Con tale programma le sinistre affronteranno le elezioni, sfruttando sopra tutto la crescente opposizione ai decreti Laval. Riuscirà il piano a raggruppare sotto una sola bandiera forze così disparate? Se si tratterà degli odi e degli amori a tutti comuni, nulla di più facile, specie quando le «leghe di destra» si prestassero a far da spauracchio. Ma se il programma dovrà veramente costituire uno strumento di realizzazione pratica, come mettere d’accordo gl’inflazionisti e i deflazionisti, come trovare gli 11 miliardi dei decreti che si vorrebbero abolire, ed evitare il crollo del franco? Nemmeno nel Belgio, con Man al governo, è possibile nazionalizzare le banche e le industrie-chiavi; come lo si potrà tentare impunemente con una popolazione prevalentemente risparmiatrice? La evoluzione comunista, sotto la pressione della realtà, si accentua anche sul terreno agrario. Quest’anno è il primo raccolto che si fa col nuovo … statuto. È noto che, in base alla costituzione sovietica, il territorio di ciascun villaggio forma una comunità agraria detta Kolchos. I contadini della Kolchos eleggono il presidente e il consiglio d’amministrazione, determinano il piano di lavoro e deliberano sulle norme esecutive. Lo statuto stabilisce che sul raccolto debbasi dare allo Stato la quota da esso fissata di anno in anno, poi si restituisca la semina e infine che si paghino in natura le prestazioni delle macchine agricole messe a disposizione dal governo. Inoltre, si preleveranno ancora dalla nuova semina, una certa quantità che costituisce la riserva, un’altra quantità come contributo al fondo invalidi, vecchiaia, infortuni ed infine quel che rimane andrà al singolo contadino in proporzione delle giornate lavorative. Se questo resto, come avviene negli anni magri, sarà troppo scarso, il contadino dovrà ricorrere al fondo della comunità che è alimentato dai pagamenti che fa il governo per la quota da lui requisita. Si aggiunga che in pratica, essendo sempre il governo quello che dispone quando e come si debba coltivare e seminare, l’apparente autonomia della comunità agraria si riduce a poca cosa. Le comunità hanno piuttosto il carattere di fondi demaniali sui quali il contadino è ridotto a fare il servo della gleba. Non del tutto però, ed ecco le concessioni strappate al collettivismo dall’esperienza di quasi un ventennio. Il nuovo statuto delle comunità agrarie infatti, deliberato nello scorso febbraio, concede che al singolo contadino venga lasciato, in propria disponibilità, un campetto ad uso di orto ed inoltre che esso possa allevare per i propri bisogni animali domestici. La concessione non è piccola e lo strappo al collettivismo notevole. Colle patate e cogli ortaggi, col latte e colla carne, il contadino si garantisce la maggior parte del suo sostentamento, e ricostituisce una propria sfera di libertà individuale. Così il comunismo di esperienza in esperienza, va adattandosi alla realtà. Questa ultima combinazione ricorda un po’ il sistema misto delle famose riduzioni del Paraguay. Disgraziatamente nel caso della Russia il campo comune non si chiama campo di… Dio!! «Abbiamo fatto una pace di propaganda colla proibizione ai vinti di ricadere nella servitù, ai tedeschi di richiamare gli Hohenzollern , agli austriaci di riunirsi sotto Absburgo. Ciò facendo, intendevamo di riservare un premio ai governi che si costituirebbero sul nostro modello. Non eravamo noi i conservatori e i distributori del diritto? Ed ecco che dopo 15 anni, siamo al punto in cui Danton rinunziò a correggere l’Europa; e stiamo per rinnegare quell’ideale di un’Europa unificata che fu quello del 1919, del presidente Wilson e delle cancellerie alleate. Smentita tacita, perché le collettività né confessano né rinnegano esplicitamente. Ma smentita tacita, implicita, progressiva, inclusa nei fatti, inserita nei comunicati che annunziano a voce bassa le tappe dell’evoluzione internazionale: la Repubblica Francese riconosce de iure il governo dei sovieti … Laval si accorda con Mussolini e fa visita al Papa … Di giorno in giorno il ricordo delle peggiori dispute svanisce. Litvinof siede al Consiglio delle nazioni, la Cecoslovacchia accoglie con onori eccezionali il card. Verdier , legato pontificio. Lo spirituale e il temporale fraternizzano. È forse solo un pacifismo decorativo e di convenienza? No. Ognuna di queste procedure di conciliazione trova il consenso delle popolazioni. Riconciliare i contrari implica l’obbligo di comprendere che essi possono e devono coesistere… Avevamo dimenticato per stordimento metafisico, la disparità dei suoli e delle nazioni. La crisi dell’economia ci restituisce il senso della realtà» (L’ex ministro De Monzie nell’ultimo volume dell’Encyclopédie fraçaise). I cattolici francesi hanno dedicato una settimana di studio alla corporazione. Essi hanno dapprima studiato i principi dottrinali, alla stregua delle encicliche pontificie, hanno poi esaminato la corporazione nella storia e negli esperimenti contemporanei ed infine ne hanno descritta e precisata la funzione nella crisi economica e sociale della nostra epoca. Il disegno costruttivo ch’essi hanno abbozzato nelle conclusioni pratiche corrisponde naturalmente alle particolari esigenze della società francese contemporanea; ma le premesse dottrinali e le direttive generali dell’ordine del giorno francese rappresentano veramente, come fu stampato, la dottrina cattolica sull’organizzazione corporativa. Eccone le affermazioni principali. Il Sindacato è e deve rimanere organo di libertà; la Corporazione invece, paragonabile in ciò al Comune, fa opera di disciplina e di coordinazione ed è obbligatoria per tutti. Corporazione e Stato non si confondono. Lo Stato riconosce l’autorità speciale della Corporazione, nata dal giuoco degli obblighi e dei diritti professionali, le rimette i poteri giuridici necessari e la lascia poi usare di questo potere senza sostituirsi ad essa né assorbirla. Lo Stato ha diritto di controllare, rispettivamente di omologare gli atti della Corporazione, ma l’espressione Stato corporativo va evitata, per non ingenerare l’equivoco ch’esista un corporativismo totalitario. La persona invece è chiamata ad espandersi nella Famiglia, nel Comune, nella Corporazione, nella Provincia, nello Stato, e nessuna di queste collettività può pretendere un monopolio dei rapporti dell’individuo con i suoi simili. Ma ciò che importa al di sopra di tutto è di dare alla corporazione una anima, uno spirito di giustizia e di carità. La molla morale della vita corporativa è il senso dei propri doveri professionali. La corporazione varrà quello che varranno i suoi capi e i suoi membri. Questi i principi che abbiamo riferito colle stesse parole delle conclusioni presentate dal Duthoit alla fine della settimana sociale di Angers. Non abbiamo bisogno di rilevare che in esse ritroviamo sempre le linee direttive della scuola cristiano sociale. La tradizione elaborata dall’«Association catholique» verso il 1880 e perfezionatasi nei congressi di Liegi, nell’Unione di Friburgo, nelle discussioni fra il Vogelsang, Hitze e Hertling, nell’Opera dei Congressi italiani, sanzionata da Leone XIII nella Rerum novarum e riassunta ed aggiornata da Pio XI nella Quadragesimo anno,riprende e mantiene vigore, pur raffrontata all’esperienza ed alle esigenze contemporanee. Vi sono in essa alcuni elementi fondamentali, indipendenti dai rivolgimenti politici e dalle crisi economiche, perché derivano dai concetti basilari della filosofia cristiana intorno allo Stato, ai Corpi intermedi fra Stato e individuo, alla persona umana e sopra tutto dal concetto pluralistico della società umana, quale venne con limpidezza analizzato anche ultimamente da G. Maritain. Questa è la scuola cristiana, la tradizione perenne che troviamo già per intiero in un prezioso e raro opuscolo di Giuseppe Toniolo, estratto dalla Rivista internazionale e pubblicato a Roma nel 1904 . Rileggendo di questi giorni quelle 70 pagine, scritte colla solita completezza d’informazioni e con la solita profondità meditativa, abbiamo fatto voti che qualche intelligente editore le ristampasse, come documento prezioso del nostro contributo allo sviluppo corporativo. Certo nelle applicazioni pratiche parecchio è caduco o superato, come vi appare vincolata ai tempi la parte politica; ma lo sfondo dottrinale è là, limpido, preciso, ammonitore. Le grandi attuazioni moderne in Italia, in Austria e nel Portogallo provengono, in parte, da altri principi operativi, di carattere essenzialmente politico. Riconoscerne l’ardimento istruttivo ed il valore esperimentale, seguirne con interesse il funzionamento in mezzo alla complessa realtà della vita economica, collaborare con lealtà al loro sviluppo e progresso è per i cattolici una esigenza del loro spirito sociale e può diventare un loro imprescindibile dovere verso il bene comune; ma il loro contributo sarà tanto più onesto ed accetto, quanto più affermerà la perenne sollecitudine della Chiesa pei problemi che sono alla base, sono nell’anima della vita sociale e la cui soluzione facilita, assicura, custodisce, difende, in ogni sviluppo pratico, l’ordine cristiano.
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A proposito del neopaganesimo germanico Julien Benda , nel Temps scrive: «Tutti i popoli da cent’anni in qua si sono messi a voler prendere coscienza della loro anima nazionale, a insegnarla ai loro figliuoli, a esaltarla e a deificarla. Non è fatale che con questa volontà di affermare il loro essere in ciò che vi ha di più specifico, vengano un giorno o l’altro a drizzarsi contro l’universalismo, di cui la religione cristiana costituisce la più forte espressione? Non si è visto anche in Francia un partito urtarsi con Roma, appunto per il suo “nazionalismo integrale”?». Registriamo quest’omaggio alla religione cristiana dello scrittore «universalista». Ma come si spiega allora che Julien Benda si sia associato ad André Gide , Henri Barbusse , André Malraux , Jean Guéhenno , Victor Margueritte , Heinrich Mann e Thomas Mann ecc. ecc. per celebrare, nel congresso internazionale degli scrittori tenuto a Parigi nello scorso giugno, il comunismo e descrivere il regime sovietico come l’unica salvezza delle idee universali? Il bolscevismo non è il più feroce avversario del cristianesimo, anzi di qualsiasi fede ultraterrena? L’umanità senza le ali di una credenza nella vita futura, senza un Bene infinito, al quale essa tenda, senza una meta comune, alla quale essa miri, come alla riparazione di ogni ingiustizia, è fatalmente destinata a ripiombare nell’egoismo materialista e nelle lotte più feroci per i beni terreni e per l’ambizione di dominio. Se tutto finisce quaggiù, questa nostra povera terra non rappresenta che la preda dei popoli più forti: e ci vuol ben altro che un vago umanitarismo o la speranza di un ipotetico uguaglitarismo collettivista per frenare gli appetiti ed imporre la pace! E tuttavia, in reazione al nazionalismo, noi assistiamo oggi al fenomeno che scrittori come Andrea Gide, celebrino con fracasso il loro passaggio al comunismo e cerchino nelle molteplici risorse del loro stile e della loro dialettica i mezzi per dissimulare le contraddizioni profonde che sussistono fra il loro individualismo libertario e la tirannia comunista, fra il loro sentimento patriottico e il loro internazionalismo. Il Malraux ha voluto addirittura dimostrare che «il comunismo restituisce all’individuo la sua fertilità»! Che sia vero quello che affermò il Maritain di Andrea Gide, cioè che questi scrittori amano inconsapevolmente i principi dell’evangelo e, messisi una volta al bando della Chiesa, li cercano poi là ove di tali principi non si trova che un loro riflesso quasi parodistico? Politicamente però il fenomeno ha il suo significato. Il neopaganesimo hitleriano ha suscitato una tale reazione che ne traggono profitto anche i comunisti. Un’altra reazione si annunzia e si consolida, e sta creandosi una teoria ed una dottrina. È il pluralismo sociale che si vuol opporre al totalitarismo statale, ultimo corollario dell’individualismo assoluto. Abbiamo già messo in rilievo la dottrina pluralista del Maritain, che, risalendo in fondo alla scolastica, distingue nettamente fra Società e Stato il quale della Società è parte, come sono parte le persone e le istituzioni intermedie. Una dottrina similare è ora svolta sistematicamente, nel suo aspetto soprattutto giuridico, da un non cattolico, il prof. Georges Gurvitch , nel suo recente libro: L’idée du Droit social . Il diritto sociale per il Gurvitch è un diritto d’integrazione, superiore al diritto individuale. Ne segue che lo Stato, non essendo che il coordinatore dei diritti individuali, trova segnati i limiti della sua competenza «da altri ordini giuridici, di carattere non statale, che in caso di conflitto hanno la prevalenza». La teoria è svolta con argomenti, in parte non accettabili, perché crudamente positivisti; ma va tuttavia segnalato che anche da questa parte il pluralismo trova nuovi aderenti e sostenitori. Anche quest’anno le «Salzburger Hochschulwochen» hanno avuto grande successo. Speciale rilievo meritano le lezioni di Mons. Hudal sui concordati nella vita moderna. I numerosi concordati del dopo guerra – egli sostenne – hanno particolare importanza, perché fanno penetrare concetti giuridici ecclesiastici nel diritto internazionale. La tesi della separazione della Chiesa dallo Stato viene sostituita da quella della cooperazione. Importante è, praticamente, che la personalità giuridica della Chiesa venga riconosciuta e che i vescovi vengano nominati da Roma. I concordati coll’Italia, coll’Austria e con alcuni altri Stati garantiscono anche lo sviluppo dell’Azione Cattolica. Il migliore concordato è quello austriaco che offre alla Chiesa cattolica la massima protezione, senza diminuire i diritti delle altre confessioni. Il concordato austriaco si completa col sistema corporativo cristiano, il quale vuole essere una via di mezzo tra la democrazia esagerata e il totalitarismo autoritario spinto. I concordati esercitano una particolare funzione anche in confronto del totalitarismo statale, perché agiscono da limite e da freno. Vero è – si potrebbe aggiungere – che questi strumenti giuridici trovano completa e verace applicazione solo quando l’autorità della Santa Sede trova l’appoggio dell’opinione cattolica organizzata. Il medioevo torna in onore! Con riferimento al conflitto italo-etiopico l’on. Lansbury , leader del gruppo laburista, scrive al Times per proporre la proclamazione d’una «tregua di Dio». La tregua si organizzerebbe sotto gli auspici delle «autorità ecclesiastiche delle diverse religioni» e sarebbe seguita da una grande conferenza internazionale per una migliore distribuzione delle risorse e per la soddisfazione dei bisogni materiali del mondo. Il carattere utopistico della proposta è così evidente che ogni commento appare superfluo. Ma non è fuor di luogo rilevare che il suo autore è un socialista, per quanto un socialista … all’inglese. La «tregua di Dio» fu un’istituzione di quel «nero» medioevo che l’illuminismo moderno non si stanca di maledire e poté sorgere e farsi valere, solo perché l’Europa era tutta unita da una stessa fede e riconosceva l’autorità d’una sola ed universale autorità ecclesiastica. Quella fede non s’improvvisa ora, in un momento d’angustia, mentre negli anni della vera o creduta prosperità le false dottrine e specie il socialismo fecero ogni sforzo per demolirla; né le autorità dei vari scismi arriveranno mai a sostituire il prestigio e l’universale dominio spirituale della Sede romana. Detto questo; che cosa pensano i nostri socialisti massoni continentali della cristiana ed anacronistica proposta del leader inglese? Ci par di rivedere le facce stupefatte di quei capoccia socialisti che trovatisi una volta in Amsterdam ad un banchetto, dopo un convegno internazionale, videro un leader laburista inglese (se non erriamo, era Henderson ) raccogliersi in atto di preghiera, prima di prender cibo. In Germania si rinnova la campagna contro i gesuiti. Una circolare segreta del governo bavarese ai sottoprefetti richiama l’attenzione delle autorità politiche sul pericolo gesuitico. Ogni mese dovrà essere inviato un rapporto speciale intorno all’attività dei padri gesuiti. Bisogna controllarne le prediche, le conferenze, le pubblicazioni… Espressioni atte a sminuire il prestigio dello Stato vanno punite col confino… Tener d’occhio specialmente certe collezioni apologetiche, come «Idee chiare», edite dal Krone (Berlino); «La Chiesa nella nostra epoca» (Colonia); «In difesa della fede» (Monaco). Dopo questa circolare i membri della Compagnia si sentono spiati in ogni loro manifestazione. La storia si ripete con la stessa malafede. Il Kulturkampf di Bismarck s’iniziò col bando ai gesuiti. Anche il Kulturkampf di Hitler mira alla Compagnia. Fra l’uno e l’altro, in un lungo periodo di libera discussione, che cosa non si è fatto per smontare la campagna antigesuitica! Tutta una letteratura scientificamente apologetica venne dedicata a dimostrare l’infondatezza dei pregiudizi e delle accuse contro la Compagnia. La polemica coll’ex gesuita Hoensbroek fornì l’occasione di confutare vittoriosamente le antiche e sempre nuove calunnie. Le «Jesuitenfabeln» dello storico P. Duhr ebbero parecchie edizioni. Chi potrà credere ancora in buona fede all’esistenza dei «Monita secreta» o al tesoro del Paraguay!? Il generale Ludendorf e la consorte Matilde tentarono, è vero, pochi anni fa di rimettere in circolazione queste ed altre favole antigesuitiche, ma il libro del protestante Fülöp-Miller venne proprio a buon punto per convincere anche il grosso pubblico che la «potenza dei gesuiti» va spiegata in ben altra maniera . L’antigesuitismo nazista non può essere quindi che in malafede o, meglio, si perseguitano i gesuiti, perché sono quelli che combattono in prima linea per le «idee chiare», per la «Chiesa nella nostra epoca» e «in difesa della fede». Ben lo esperimentò anche il p. Asmann S. I. il quale venne recentemente espulso dalla Germania, perché denunziato da un maestro rurale d’aver usato nella predica delle espressioni «che dal pubblico potevano venir interpretate come dirette contro il regime». E può dirsi fortunato, perché essendo cittadino americano, si ebbe il bando invece del confino! Fino a qual punto si svilupperà la lotta contro i cattolici in Germania? Il discorso del potente ministro alla economia dottor Schacht significa che i circoli finanziari se ne preoccupano come di un perturbamento della loro opera di ricostruzione. Benché il discorso sia stato in parte censurato dal suo collega Goebbels, può essere che esso ottenga ragione da Hitler, almeno fino ad un certo limite. Anche i dittatori devono essere sensibili alle difficoltà economiche. Inoltre, paralizzate o demolite le società cattoliche, imbavagliati o denaturati i quotidiani cattolici, trovato un qualsiasi modus vivendi per un’Azione Cattolica, contratta nella sua diffusione e compressa nelle sue manifestazioni può essere che il nazismo si arresti a questa prima ondata. Non conviene dimenticare che – formalmente – finora la lotta appare meno grave che ai tempi di Bismarck. Non si tratta né di sopprimere le Congregazioni né dell’insegnamento religioso nella scuola, né della nomina dei parroci e dei vescovi. A parte la sterilizzazione, il dissidio non si concreta nelle leggi. Spiritualmente ed essenzialmente però la lotta è più profonda, giacché ora una propaganda insidiosissima mira a «superare» il cattolicismo, in nome dell’interesse nazionale e dell’ideale nazista, e il dissidio viene portato nelle menti e nei cuori delle moltitudini. È di ieri l’enunciazione di Goebbels: «Essere un gran popolo, questa è religione della nostra epoca, qualunque cosa ci avvenga nell’al di là!». I cattolici, quindi, oltre che fronteggiare le disposizioni governative, dovranno concentrare i loro sforzi nel controbattere la propaganda neopagana. È questo il terreno sul quale il Kulturkampf può venir condotto fino in fondo – Rosenberg imperante –, ovvero il campo nel quale Hitler può essere disposto a concludere un compromesso, una volta che si sia liberato della pericolosa concorrenza delle associazioni cattoliche giovanili.
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Nella presente polemica internazionale si sono fatte sentire alcune voci, che se paiono oggidì senza efficacia immediata, alimentano tuttavia la speranza d’un mondo migliore nell’avvenire. Alcuni laburisti inglesi hanno parlato di fare fra i popoli una nuova e più equa ripartizione delle risorse economiche del mondo ed in Francia lo stesso Alberto Sarraut ha concluso che nel mondo coloniale si dovrà arrivare ad un condominio delle nazioni europee, condominio che rappresenterebbe a sua volta uno stadio di transizione verso l’autonomia dei popoli di colore. Sulla stessa linea si trova un articolo che Maurice de Gandillac pubblica nell’ultimo numero della Vie Intellectuelle. Alcune sue affermazioni rimarranno discutibili, ma altre meritano in ogni caso di venir segnalate, come uno sforzo di comprensione e di equità: «L’ingiustizia – egli scrive – consiste nel privilegio esclusivo d’un piccolo numero di Stati ricchi e intraprendenti (e in via di fatto d’un piccolo numero di società capitaliste) su territori di sfruttamento o di colonizzazione che sarebbero più utili ad altri o corrisponderebbero per questi a bisogni più immediati… Uno statuto internazionale non deve servire di copertura ad una società di mutuo soccorso per il mantenimento di privilegi… Che la Società delle Nazioni, che la Piccola Intesa, che la Francia e l’Inghilterra abbiano troppo trascurato fino ad oggi quest’aspetto del problema, chi ne può dubitare?». L’A. si difende dal sospetto di voler con ciò giustificare l’«illegalismo» della Germania e dell’Italia, ma ritiene che gli atti di forza di queste due nazioni debbano avere il valore di «avvertimenti salutari». «La virtù della prudenza – egli continua – si accorda dunque qui colla virtù della giustizia per consigliare che si eviti, sia pure in risposta a rivendicazioni troppo violente, una soluzione troppo rigida: di fronte ad un realismo intemperante noi dobbiamo condannare anche un idealismo chimerico che considerasse come assoluta una regola giuridica appena abbozzata e che non ha messo ancora delle radici profonde nella coscienza universale. Un tale atteggiamento, oltre che presupporre una purezza di coscienza, che nessun popolo d’Europa oggidì possiede, otterrebbe il risultato proprio contrario di quello che si cerca… Vuol forse dire che ognuno debba badare ai fatti suoi, non curandosi che dei propri interessi immediati? No. Ogni sforzo dello spirito sul terreno scientifico come su quello morale, consiste nel far prevalere il razionale sull’irrazionale, ma tenendo conto anzitutto e continuamente di questo stesso irrazionale e tentando di trasformarlo dal di dentro (e non con amputazione violenta), civilizzandolo, trasfigurandolo, battezzandolo… Associamo dunque anzitutto i popoli giovani e “dinamici” allo sfruttamento dei nostri propri beni: prendiamo di mira assieme la messa in valore dell’Africa per mezzo della comunità delle nazioni europee. Con ciò stesso e per il reciproco controllo, attenueremo gli abusi più violenti del colonialismo: nello stesso canalizzeremo ambizioni immoderate e le legheremo per l’intreccio degl’interessi comuni a un ordine internazionale, cui diventerà sempre più malagevole sottrarsi con uno strappo violento. Nello stesso tempo prepareremo a poco a poco l’emancipazione completa dei popoli di colore. Delle sovranità condivise rappresentano un grado minore di prestigio e d’amor proprio e il passaggio dal condominio all’autonomia sarà forse facilitato dalla molteplicità delle potenze mandatarie…». Con un colpo di penna la «Chiesa protestante del Reich» viene statizzata. Un decreto-legge, comparso alla fine di settembre, autorizza il ministro per gli affari ecclesiastici Kerrl ad emanare ordinanze con forza di legge «per ristabilire l’ordine nella Chiesa evangelica del Reich e nelle Chiese evangeliche regionali (dei singoli paesi)». Siffatto ristabilimento dell’ordine non soffre nel decreto alcun limite: il ministro può fare il suo «ordine» nell’organizzazione, nell’amministrazione, nella disciplina, come nella teologia, nei dogmi e negli articoli di fede. In tal modo il signor Kerrl, ch’era prima un funzionario contabile del ministero prussiano della giustizia, è diventato il capo assoluto della Chiesa protestante, e la Chiesa di Stato, suprema aspirazione del nazismo è ora un fatto compiuto. Susseguentemente, il 6 ottobre, compariva un’ordinanza dello stesso ministro che nominava organi di propria fiducia per presiedere la Chiesa centrale e quelle provinciali abolendo le cariche elettive e toglieva alle Chiese l’autonomia amministrativa da loro finora goduta, col costituire delle «sezioni finanziarie» sotto il controllo dello Stato. Tutto l’organismo, improvvisato così dal regime socialnazionale, ricorda il «Santo Sinodo» della Russia prebellica coi suoi famosi procuratori ; ma si deve ritenere che in Germania l’ingerenza dell’autorità politica in materia di fede sia ancora più incisiva e più violenta. Che cosa accadrà ora dei pastori ricalcitranti? O le catacombe colla fame o la sottomissione, e benché brilli ancora qualche faro di luce, quanti lumi spenti nella massa dei gregari! Nello stesso tempo si annunzia che il teologo protestante Walter Künneth , autore di un libro polemico contro il «Mito» del Rosenberg viene dimesso dalla facoltà teologica dell’università di Berlino, perché aveva avuto il coraggio di difendere il «Vecchio Testamento». E che dire della libertà di stampa di cui godono i cattolici? La Kirchenzeitung (settimanale ecclesiastico) di Colonia dovette interrompere una serie di articoli che trattavano al lume dei documenti storici la «situazione morale religiosa dei Germani prima della loro conversione al cristianesimo», perché secondo la polizia segreta negli articoli si rivelava la tendenza a «denigrare la religione e i costumi degli antichi Germani»! In Germania dunque il Cristianesimo può venir attaccato e denigrato in tutti i modi, quello che importa proteggere è il paganesimo teutonico dell’epoca barbara! A che cosa condurranno mai così fatali tendenze? Chi fra i protestanti credenti si salverà dal totalitarismo opprimente del terzo Reich, chi dei cattolici resisterà alla bufera? Se da una parte la magnifica ed apostolica lettera di Fulda riempie l’animo dei cattolici di orgoglio e di speranza, se tutta una reviviscenza di pratiche e manifestazioni religiose attesta la resistenza interiore della Chiesa cattolica tedesca, se anche fra i protestanti alcune personalità continuano a dimostrare un encomiabile coraggio, non si può tuttavia essere senza preoccupazioni circa la capacità di resistere del funzionario, del cliente delle pubbliche amministrazioni, dell’uomo dei commerci e della strada. Certo il cristianesimo in Germania trionferà sempre anche quando del paganesimo sarà scomparso perfino il nome; ma intanto quante flessioni, quante sottomissioni contro coscienza, quante debolezze, avvilenti invero più per chi le impone che per chi le subisce! A Bonn esiste una scuola superiore di magistero «Pädagogische Akademie» ch’è sempre stata la scuola magistrale cattolica e l’orgoglio dell’insegnamento confessionale. Ed ora si annunzia che professori e alunni hanno deciso ad unanimità di chiedere l’abolizione del carattere confessionale della scuola. La petizione è firmata da un noto pedagogo cattolico G. Räderscheivt, direttore dell’istituto, ch’era fino alla rivoluzione, presidente del partito del Centro a Neuss! E quali umiliazioni interiori dovranno subire quei giornalisti cattolici, che accettano nei loro giornali articoli di spirito anticattolico! Non s’è visto perfino un noto redattore del Katholik di Magonza polemizzare in un giornale nazista coll’Osservatore Romano per sostenere che il ministro Frick aveva ragione nell’interpretare a suo modo e contro la verità il Concordato? Il Katholik dovette licenziarlo ed ecco il giornale nazista ad esaltarlo come «la prima vittima economica dell’inquisizione del cattolicesimo politico»! La pressione è enorme, incessante; la seduzione dell’atmosfera sovreccitata quasi invincibile. Certi errori fan capolino perfino in riviste insospettate. Tanto maggiore è la nostra ammirazione per l’episcopato, per il clero, per i fedeli, per i giovani specialmente che combattono intrepidi la buona battaglia! In Francia le due Confederazioni del lavoro quella – chiamiamola così – moderata di Jouhaux e quella unitaria di comunista osservanza , dopo lunghi negoziati e private e pubbliche discussioni hanno deciso di fondersi. Si ritorna così alla situazione del 1920, prima della scissione comunista. Apparentemente si tratta di un ritorno all’ovile puro e semplice. I comunisti o unitari hanno accolto tutte le condizioni dei confederali: indipendenza dei sindacati dai partiti politici, accettazione dei metodi democratici. Ma è probabile che la fusione non rappresenti che la nuova tattica proclamata dal congresso del Komintern: appoggio di tutte le resistenze di sinistra contro il «pericolo fascista», pur conservando intatto il patrimonio programmatico del bolscevismo. Ed è verosimile che «a lumi spenti» si riveli che i giocati sono proprio i democratici. Ma qui «a lumi spenti» significa: dopo le elezioni generali che in Francia si stanno preparando. Per vincere in queste elezioni i comunisti oramai fanno blocco non solo coi socialisti, ma di caso in caso e forse, chi sa?, anche programmaticamente, coi borghesi radicali. Un’altra spinta alla fusione venne dai sindacati dei funzionari e dei servizi pubblici. Questi preparano la riscossa contro i decreti legge Laval, cioè contro la riduzione degli stipendi. La Confederazione unica dovrà fungere da ariete contro il ministero Laval. D’altro canto la paura dei rossi non è senza fondamento. Le leghe, specie le «Croci di fuoco», hanno inscenato delle parate imponenti, e tra i contadini va acquistando una certa diffusione il movimento agrario radicale capeggiato da Dorgères , che gareggia in demagogia coi più accesi rivoluzionari. È contro questa pericolosa concorrenza «fascista» che i socialisti hanno convocato recentemente un loro congresso di contadini a Limoges. Congresso moderato, prudente, antidemagogico, tutto in favore della piccola proprietà terriera. Nessuno è sorto a ricordare che il canone fondamentale del marxismo è l’abolizione della proprietà privata. Nessuno ha evocato gli antichi campioni del socialismo agrario Compère-Morel , Renaudel, Edouard Vaillant . La stessa moderazione nel campo operaio industriale. Il piano di Jouhaux, approvato dalla Confederazione, è ricalcato su quello del de Man, ma è più prudente. Socializzazioni solo in un settore assai limitato, nessuna espropriazione senza indennità, credito agrario, controllo delle banche, lavori pubblici: tutto un programma minimo in funzione elettorale e allo scopo di accaparrare i piccoli borghesi del radicalismo francese.
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I cattolici di tutte le nazioni prendono parte all’appassionante dibattito sul problema della pace e della guerra. Come sempre tra i più preparati alle discussioni di attualità sono i cattolici francesi. Già prima della guerra europea il libro del Vanderpole sui «cattolici e la guerra» aveva offerto un prezioso contributo alla pace cristiana. Negli anni più recenti un’interessante miscellanea sotto il titolo «Les Catholiques en face de la guerre» e la pubblicazione fatta nel 1932 nei Documents de la Vie Intellectuelle del parere di alcuni professori dell’Università di Friburgo (Svizzera) avevano data nuova esca alle discussioni. Ma importante fu sopra tutto la Settimana sociale di Parigi (1928), dedicata alla carità come legge sociale. Maurice Blondel vi dissertò sulla «Patria e Umanità», fissando le direttive cattoliche in confronto dell’umanitarismo e del nazionalismo integrale; il prof. Bodin affrontando con larga visione il problema coloniale invocò «le partage des ressources terrestres entre les peuples»; Lucien Romier , ora direttore del Figaro trattò della carità e dell’imperialismo ed il noto giurista p. Delos presentò un magnifico lavoro sulla carità come legge della vita internazionale. Ancor oggi gli studi e le conclusioni della Settimana di Parigi possono servire di orientamento. Ma ecco in quest’anno a portare nuovi lumi un libro del p. Regout S.J. , prefazionato da Ives De la Brière: La doctrine de la guerre juste de S. Augustin à nous jours (Paris, 1935, Pedone). Questo volume riporta la dottrina dei padri, dei dottori della Chiesa e dei più illustri maestri medioevali, ed alimenta la speranza che i nostri tempi possano riprendere la tradizione più antica della Chiesa, propugnata anche dal cardinal Enrico di Susa nella sua «Somma» al capitolo «De tregua et pace» , per studiare le misure da prendersi collettivamente per la sicurezza della repubblica cristiana. Si può facilmente immaginare che sull’argomento, reso così palpitante dal conflitto italo-etiopico, abbiano preso la parola anche le riviste. Ce ne basterà ricordare due delle più lette: gli articoli di p. De La Brière e di altri negli Etudes e quelli di Folliet e Gandillac nella Vie Intellectuelle, specie a commento del discorso del papa alle infermiere. Accanto alla questione della guerra e della Società delle Nazioni, è il problema coloniale che fa capolino come i lettori di questa nostra rubrica avranno potuto giudicare dalla parziale riproduzione dell’articolo di Maurice de Gandillac . Conviene rilevare che di tale problema e di una più giusta ripartizione delle risorse e delle terre coloniali si preoccupano anche i cattolici inglesi, che pur sono particolarmente severi nel giudicare il presente conflitto. Si veda, fra tutti, l’articolo pubblicato dal p. Keating S. J. nella rivista Month, il quale dopo aver sposato il punto di vista inglese circa la guerra, propugna però la redistribuzione delle colonie, rilevando sulla fede dello stesso Times (10 agosto) che gl’inglesi possiedono ancora in Australia, nel Canadà ed in Africa dei vasti territori praticamente vuoti. Rigido e tagliente è fra gli altri organi cattolici inglesi il Catholic Herald, mentre il periodico di Chesterton rinfaccia ai pacifisti odierni i peccati dei padri. L’altra stampa, più ufficiosa, si preoccupa sopra tutto di difendere il Papa contro la campagna dei protestanti, che talvolta sotto lo stesso impulso della gerarchia anglicana, si è dimostrata particolarmente violenta. È lo stesso compito del resto che spetta alla stampa cattolica americana; America che in via di massima aderisce all’atteggiamento del Month, deve battersi in ogni numero contro periodici metodisti e protestanti, i quali rimproverano la gerarchia cattolica di scarso pacifismo. Il Commonwealth invece più riservato, preannunzia oramai che il conflitto italo-abissino non è che l’inizio di una grave crisi europea che finirà in una conflagrazione, dalla quale gli Stati Uniti vogliono assolutamente restar fuori. A proposito sempre del mondo anglosassone merita particolare rilievo l’allocuzione di mons. Hinsley , arcivescovo di Westminster, tenuta l’11 ottobre nella chiesa di S. Edoardo il confessore. Il discorso, pubblicato nel suo testo autorizzato dalla stampa cattolica inglese, è tutta una difesa dell’atteggiamento del Pontefice, del quale si mettono in rilievo i discorsi contro la guerra e per la pace. Mons. Hinsley si dice incalzato a parlare da pressioni di ogni specie, da lettere firmate ed anonime e da pubbliche sfide; ma egli ammonisce gli uditori a non divenire essi stessi guerrafondai per amore della pace, a non lasciarsi dominare dalla psicosi bellica «Keep yourselves free from the war-mind!». Caratteristica quest’apologia che deve occuparsi perfino delle campane; prima le campane di S. Pietro, poi quelle di Roma, poi quelle delle diocesi. Hanno suonato? Non hanno suonato? Che cosa dice il diritto canonico? Cose tutte ormai precisate fra alterazioni di ogni specie a servizio di ogni interesse. Gli scalmanati pretenderebbero anche che il Papa si rifiutasse di mandare i cappellani militari! A parte questi e molti altri spunti polemici l’allocuzione si preoccupa sopra tutto dei popoli di colore, della mentalità con cui potranno vedere la guerra, del contraccolpo sulle Missioni. Il discorso termina con un appello alla carità, come principio operante della solidarietà internazionale. I lettori dell’Osservatore Romano sanno del resto che gli attacchi contro il Pontefice non sono un monopolio inglese: la stampa internazionale del comunismo e dell’anticlericalismo gareggia in menzogne e in virulenza. Ma anche i gerarchi protestanti scendono in lizza. Lasciando stare l’arcivescovo anglicano di Canterbury che si ebbe la debita risposta e negli ultimi giorni rettificò alquanto il suo contegno, va ricordato il consiglio ecumenico dei protestanti di Svezia, il quale vuole che sia invitato il Papa a giudicare della guerra e a «dimostrarsi difensore della giustizia». La Reichspost di Vienna ha già risposto ad una simile pretesa e l’Osservatore Romano riproducendone l’articolo, ne ha convalidato l’argomentazione. «La benedizione – essa dice – che i sacerdoti e i vescovi d’Italia impartiscono ai soldati che partono per la guerra, non ha nulla da fare col giudizio sulle circostanze politiche della guerra. All’istesso modo come la madre cristiana benedice il figlio che parte verso regioni lontane e pericolose, la Chiesa dà ai suoi figli, che vanno in guerra, il viatico delle sue preghiere e dei suoi voti, per il corpo e per l’anima. Solo l’ignoranza o la mala volontà possono svisare questo fatto. È naturale che la Chiesa non può abbandonare il cristiano, proprio quando la Patria chiede da lui il massimo dei sacrifici, la vita stessa, e quando appunto egli ha il massimo bisogno di forza morale». La questione, come si sa, ha appassionato anche gl’intellettuali. Quelli di sinistra in Francia hanno pubblicato un manifesto intonato ad un pacifismo radicale. Ad esso hanno risposto con un altro manifesto, redatto forse da H. Massis , gl’intellettuali di destra. Tra questi si leggono alcuni nomi di scrittori cattolici, come H. Gheon , L. Bertrand , H. Bordeaux . Ma questo manifesto non è sembrato accettabile alla maggioranza degl’intellettuali cattolici. La rivista Sept rimproverava subito al manifesto di contraddire ai principi cristiani perché sembra ammettere l’ineguaglianza essenziale delle razze. Ed ecco uscire un terzo manifesto, quello dei cattolici, chiamiamoli così, di centro. Accanto a nomi illustri come Paul Claudel , François Mauriac, Francis Jammes , Jacques Maritain si leggono i nomi dei più noti professori universitari cattolici e di altre notabilità laiche ed ecclesiastiche tra le quali il vescovo di Troyes . Anche questo manifesto è, come gli altri due, contrario a misure di guerra per difendere la pace. «La generalizzazione del conflitto sarebbe non solo una calamità per la civiltà e per il mondo intiero, ma un’altra iniquità riguardante questa volta i popoli che si troverebbero ingaggiati in questa tragedia». Il seguito del manifesto contiene un giudizio sull’opera colonizzatrice in genere, sulle colpe commesse nel passato, sulle speranze suscitate dal dopoguerra «nel momento che l’Europa cominciava a prendere meglio coscienza delle sue responsabilità riguardo ai popoli di colore, e alle condizioni di giustizia e di libertà verso le quali deve evolversi il regime di colonizzazione». Da questo punto di vista si giudica amaramente l’impresa abissina e si conclude: «Gli avvenimenti attuali dimostrano in una maniera terribilmente chiara che l’organismo di Ginevra non può essere veramente utile all’ordine del mondo che se i popoli e i governi vogliono sinceramente la giustizia e la pace. È questa volontà di giustizia e di pace assieme, che importa più che mai di riaffermare oggidì». Dobbiamo naturalmente rinunziare ad esaurire in questo numero la rassegna della stampa cattolica sul problema che travaglia ora la coscienza europea. Limitiamoci intanto a dire che in ogni nazione – salva l’adesione ai principi generali espressi dal Padre comune della cristianità – i cattolici assumono, com’è naturale, l’impronta del proprio ambiente e integrano il proprio giudizio con elementi nazionali e colla visione propria del loro paese. Così se nel Belgio e nei paesi della Piccola Intesa si è preoccupati anzitutto di Ginevra, in Austria si pensa all’amicizia coll’Italia, e in Italia la stampa cattolica condivide le ansie e le speranze degli italiani. La loro linea di condotta è indicata da mons. vescovo di Udine quando scrive: «Non è questo il momento né tocca a noi discutere le ragioni della guerra e della pace. Il nostro dovere di italiani e ancor più di cattolici (perché quando si tratta del dovere i cattolici non vogliono essere a nessuno secondi), il nostro dovere, diciamo, è di cooperare efficacemente per il successo delle nostre armi e il trionfo della nostra causa». E il cardinal Minoretti ha pubblicato ai parroci della città e diocesi di Genova una lettera nella quale si legge: «Non spetta a noi il dare giudizi, ma semplicemente l’accettare quanto viene ordinato dalle Autorità supreme dello Stato. A queste la responsabilità come la visione intiera della posizione. La guerra, come tutte le guerre, non è cosa amabile; ed il desiderio di pace è naturale, purché la pace sia pacifica ricognizione della giustizia. Noi desideriamo che la espansione coloniale non diventi guerra europea; e, a questo intento, ci asterremo da espressioni, da giudizi avventati, che possano inacerbire gli animi. Iddio guardi misericordioso sopra le Nazioni e riconduca la mutua fiducia, il mutuo amore ed il mutuo aiuto, onde si sentano strette ad un patto: amare la pace nella giustizia».
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La federazione delle «associazioni e dei circoli cattolici» che è l’antica associazione incaricata di formulare, alimentare ed aggiornare il programma della Destra cattolica belga, ha tenuto recentemente a Courtrai un’assemblea di delegati di tutto il Belgio , i quali divisi in due sezioni, fiamminga e vallone, discussero e deliberarono sopra il programma rinnovatore del partito cattolico. Abbiamo altre volte riferito intorno alle discussioni e ai lavori preliminari; ora a Courtrai si presentò in formule ben definite un programma minimo, il quale comprende: a) Riforme destinate a migliorare il lavoro parlamentare: 1) Consultazione obbligatoria di un «Consiglio di legislazione» su tutti i progetti d’iniziativa del governo e dei deputati; 2) Il Parlamento verrà convocato due volte all’anno per tre mesi ciascuna volta; 3) Limitazione del numero dei deputati; 4) Sostituzione in casi eccezionali del voto segreto al voto pubblico, in virtù d’una decisione della presidenza della Camera e su proposta del governo. b) Riforme per rinforzare il potere del governo: 1) Diritto per il re di legiferare con decreti-legge deliberati in Consiglio dei ministri. In generale il decreto-legge non sarà esecutivo che un mese dopo che sarà deposto sui banchi della Camera e del Senato, ma in casi di estrema urgenza e in materia d’ordine pubblico, di sicurezza militare, di moralità e di credito pubblico, i decreti-legge entreranno in vigore immediatamente. In tutti i casi i decretilegge potranno venire ulteriormente riveduti dal Parlamento che resta sovrano; 2) Istituzione di una Corte di contenzioso amministrativo. c) Riforme del potere legislativo. Esse avverranno utilizzando la rappresentanza degli interessi e migliorando le leggi elettorali. Alla prima categoria appartiene l’utilizzazione come Consigli ausiliari del Parlamento delle «commissioni paritetiche» fra datori e detentori del lavoro e dei Consigli superiori dell’agricoltura, del commercio e dell’industria ecc. debitamente riorganizzati. Si darà inoltre ai corpi professionali e ad altri gruppi nazionali rappresentanti interessi spirituali, intellettuali o morali, il diritto di intervenire in primo grado nel designare un certo numero di deputati e senatori cooptati dalle rispettive assemblee. In quanto al diritto elettorale, si domanda un miglioramento della rappresentanza proporzionale concedendo un premio alla maggioranza, l’estensione del diritto elettorale alle donne e la instaurazione del suffragio famigliare, come primo avviamento al quale si chiede un voto supplementare ai padri di famiglia sopra i trent’anni. Infine in certe situazioni il re, oppure il governo, avrà diritto di ricorrere al referendum popolare. Questo programma minimo rappresenta per i cattolici belgi ciò che è attuabile delle riforme auspicate per rinforzare il potere esecutivo, per limitare, senza indebolirlo, il Parlamento e per avviare la partecipazione progressiva degli organismi corporativi al potere legislativo. Pierre Nothomb , sostenendo questo programma innanzi all’assemblea, ha fatto notare che esso include dei germi molto radicali. La reintegrazione del concetto famigliare nel suffragio universale ci potrà forse condurre un po’ alla volta alla sola formula sana che è quella del suffragio famigliare. Anche i partigiani dello Stato corporativo potranno sperare che, se la loro idea è realizzabile, le corporazioni sviluppandosi dalle commissioni paritetiche e dagli altri gruppi professionali prenderanno a poco a poco coscienza di se stesse, offrendosi a funzioni nuove e maggiori. Coloro invece che si preoccupano del regime parlamentare, considerino che queste riforme, preservando il parlamento dagli abusi, dagli errori e dagli eccessi, gli permetteranno di rimanere lungo tempo ancora il fattore principale del nostro edificio costituzionale. A Courtrai la votazione di questo programma non fu molto tranquilla. Un movimento giovanile di destra diretto da Dégrelle , movimento che si chiama Rex perché inalbera l’insegna di Cristo re, aveva fatto occupare quasi la terza parte dei posti disponibili della sala e aveva interrotto spesso con vivacissime dimostrazioni i relatori e inscenato ovazioni rumorose al proprio capo. Il presidente della federazione, il ministro di stato Segers , dovette difendere ripetutamente l’opera sua contro attacchi di grande violenza. Dégrelle domandò replicatamente a nome dei giovani che il presidente e tutti i vecchi cedessero il posto alla generazione novella che non è compromessa dal passato ed è animata da idee nuove e feconde. In verità dal discorso del Dégrelle non si è potuto capire quali siano queste idee . Sotto un verbalismo reciso e violento non sembra che i giovani abbiano scoperto altre riforme diverse da quelle elaborate dalla federazione. Ma è innegabile che i cattolici belgi si trovano politicamente in una crisi organizzativa. Il partito diviso in quattro grandi federazioni, (la federazione delle associazioni dei circoli cattolici, la lega dei lavoratori cristiani , il «boerenbond» e la federazione delle classi medie), dovrebbe costituire un organismo unico nell’Union catholique, che a tutte sovrasta. Ma in realtà questo organismo decentrato negli ultimi anni ha funzionato a pena e non gli fu sempre possibile di mantenere la compattezza necessaria. Per questo le critiche dei giovani sono facili. Essi stessi del resto sono divisi in due correnti, quella che tende a sinistra (Avantgarde) e la Rex che tende a destra. Veramente questa nuova associazione non è mai stata ammessa ufficialmente al partito, cosicché a Courtrai poté venir trattata da intrusa. È probabile tuttavia che la sua azione stimolatrice riesca a raffermare e a rinnovare l’attività degli organismi cattolici e in modo particolare della federazione che sotto la guida illuminata di Paul Segers ha già fatto notevoli progressi. Quasi contemporaneamente a Liegi aveva luogo il congresso dei lavoratori cristiani sotto la presidenza di Heyman e la guida del canonico Colens . Dal rapporto morale di quest’ultimo si poté rilevare che la lega dei lavoratori cristiani comprende nel 1935: 709.197 persone di cui 440.294 uomini adulti, 207.011 donne e 71.892 giovani e giovanette lavoratrici. Queste cifre attestano che la lega cristiana è ormai la più forte associazione operaia del Belgio: risultato magnifico, esclamò il presidente, dovuto alla direzione saggia ed energica del canonico Colens. Questi, continuando il suo rapporto, dimostra che le tre banche operaie cristiane del Belgio hanno resistito magnificamente alla crisi finanziaria e possiedono oggidì cento e nove milioni di depositi. Oltre queste organizzazioni finanziarie la lega possiede ancora ottocento quindici magazzini cooperativi, una cooperativa del pane e una società di assicurazione sulla vita con 10.000 polizze. Concludendo, mons. Colens insiste sulla necessità di accrescere i mezzi finanziari delle leghe locali e infine, considerando i problemi dell’azione cattolica, egli deplora l’indifferenza di una parte della gioventù cattolica verso le opere di carattere economico-sociale e l’organizzazione politica stessa. «Non bisogna, egli esclama, per trovare un ideale, correre l’avventura di un colpo di forza, esponendo la società civile alla dittatura di un cattolicismo intollerante… non bisogna perdere il proprio tempo cercando la salvezza nella creazione artificiosa di una comunità civile poggiante su basi storiche ormai superate». Sul programma economico-sociale dei lavoratori cristiani parlò il noto p. Arendt , il quale fra altro si lagnò del controllo delle banche come venne introdotto dal presente governo, perché esso finisce col favorire le grandi banche a danno delle piccole e ad estendere ancora più la dittatura finanziaria. Questa creazione di grandi organismi impersonali ed anonimi condotti dalla burocrazia costituisce in realtà una specie di precomunismo pericoloso ed insopportabile. Il relatore mette in guardia contro i tentativi collettivisti nel campo della produzione. «Se è vero, egli dichiara, che non si può ritornare all’anarchia liberale e al dominio dell’individualismo, d’altro canto non si può dimenticare il carattere personale della produzione ed i vantaggi immensi della iniziativa privata. Le nostre organizzazioni operaie e cristiane, egli dice, hanno sempre affermato non esservi che un solo mezzo pratico per conciliare e rispettare il carattere personale e il carattere sociale della produzione, l’organizzazione cioè delle professioni, sotto la condotta di autorità professionali, controllate esse stesse dall’autorità suprema dello Stato, incaricata di salvaguardare e di promuovere il bene comune. Non si tratta affatto di un corporativismo politico qualsiasi, perché le nostre organizzazioni diffidano profondamente di tutte le forme di corporativismo politico. Per preparare il sistema corporativo i sindacati cristiani hanno cominciato col proporre il riconoscimento giuridico dei sindacati e la moltiplicazione delle commissioni paritetiche. Le nostre organizzazioni continueranno la loro lotta contro il comunismo che pretende di imitare nel Belgio il regime sovietico, ma devono opporsi anche ripetutamente a ogni precomunismo bancario e a ogni corporativismo nazionalista il quale pure prepara le vie al comunismo». Il sig. Bodart, ex deputato di Charleroi, espone poi il programma politico dei lavoratori cristiani. Esso ha le seguenti direttive principali: attaccamento incrollabile alla religione cattolica; rispetto della persona umana e della famiglia; mantenimento delle libertà costituzionali; ripartizione equa delle ricchezze; organizzazione della collaborazione delle classi e professioni. Venendo alle riforme pratiche, il relatore patrocina delle modificazioni all’attuale sistema parlamentare analoghe a quelle votate a Courtrai. Gli operai però si dichiarano ancora più espressamente contro ogni specie di dittatura. Noi l’abbiamo già detto, dichiara il Bodart : «noi proclamiamo il nostro irremovibile attaccamento alle istituzioni e alle libertà costituzionali e ci pronunciamo categoricamente contro ogni forma di dittatura, pronti ad opporci con tutti i mezzi in nostro potere a ogni tentativo d’instaurarla». I democratici popolari francesi hanno tenuto il loro congresso annuale a Brest. Nel discorso finale il senatore Champetier de Ribes si è dichiarato contrario alla costituzione di due blocchi antagonisti di destra e di sinistra, dicendo che gli uni minano l’autorità dello Stato che essi pretendono ricostituire e gli altri compromettono la repubblica che pretendono di salvare. Noi che non riconosciamo a nessun partito il diritto di monopolizzare la difesa patriottica o la difesa repubblicana, proclamiamo che l’autorità dello Stato appartiene al governo e che sostituendosi ad esso col pretesto che è debole, i cittadini rischiano di indebolirlo ancora più e, costituendo l’uno contro l’altro dei fronti opposti, si espongono a scatenare la guerra civile che è la peggiore di tutte. Attaccati all’ordine repubblicano, partigiani risoluti della libertà d’associazione e di riunione e di stampa, noi ne dimandiamo il mantenimento per tutti e non solamente per i nostri amici. Decisi a sostenere l’autorità legittima, noi ci opporremo con tutte le nostre forze agli aggressori del disordine da qualunque parte essi vengano. Il leader del partito terminò facendo appello al buon senso del popolo francese e all’unione di tutti i repubblicani, condizione essenziale per la restaurazione economica, la difesa delle libertà pubbliche, la giustizia sociale e la pace. Il nuovo ministro della previdenza sociale, il professore di economia politica Dobretzberger ha dichiarato in un discorso ai giornalisti stranieri che appena l’Austria sarà uscita dal periodo rivoluzionario, la organizzazione corporativa austriaca si fonderà sulla libera elezione dei membri degli organismi cooperativi. «Il regime autoritario restituirà a poco a poco alla classe operaia nei quadri sindacali cooperativi la voce in capitolo, nel senso di una collaborazione assidua alla vita pubblica». È questa una risposta indiretta ad un manifesto clandestino distribuito dai socialisti nel quale si chiede, quale pregiudiziale di una collaborazione col regime, la libera elezione dei delegati sindacali, l’amministrazione autonoma delle istituzioni operaie e la libertà di stampa. Il vescovo di Meissen nella Sassonia si trovava in visita pastorale per amministrare la cresima nella cittadina di Altenburg. Il vescovo era passato per le vie riccamente pavesate, oggetto degli applausi e delle acclamazioni della popolazione, ed era salito poi in canonica per ricevere il clero e i capi delle associazioni cattoliche; ma fra i visitatori s’intromisero improvvisamente un procuratore superiore e un commissario criminale, arrivati in quel momento in automobile da Berlino. Introdotti in presenza del vescovo, lo dichiararono in arresto e sulle porte della canonica vennero subito appostate delle guardie di pubblica sicurezza. La sera di quel giorno, 8 ottobre, un’automobile trasportava il vescovo alle carceri di Mohabit a Berlino, ove venne rinchiuso alle quattro del mattino. Appena il giorno dopo la nunziatura apostolica venne informata dell’arresto. Così dunque si ripeteva la tradizione bismarckiana che aveva trascinati i vescovi Ledochowski , Melchers , Förster , ecc. nelle prigioni, durante il Kulturkampf. Si conosceva mons. Legge, vescovo di Meissen, come un oratore affascinante ed uno scrittore vigoroso, di provata fama negli ambienti universitari, nei quali i suoi discorsi contro Rosenberg e il neo-paganesimo producevano sicuro effetto. Egli passava per uomo di coraggio, di dignità e di onore. Ed eccolo incarcerato sotto l’accusa di traffico illecito di divise! Di che si tratta invero? Nominato vescovo a Meissen e trovatosi alla testa di una diocesi poverissima che contiene il 5 per cento dei cattolici in confronto del 95 per cento dei protestanti, egli si trovò a lottare contro difficoltà finanziarie notevolissime. Fu allora che accolse volentieri la proposta di suo fratello, Teodoro Legge, segretario generale dell’associazione di San Bonifacio, il quale gli disse di aver trovato un uomo capace di alleggerire i debiti della diocesi riscattando le obbligazioni di un prestito di trecentomila fiorini in condizioni particolarmente favorevoli. La diocesi avrebbe potuto pagare il prestito, depositando presso una banca di Münster 180.000 marchi in favore dei creditori olandesi, marchi però che avrebbero dovuto rimanere a Münster, fino a tanto che si sarebbe potuto legalmente esportare il capitale. Ma un giorno il banchiere, ora fuggito in Olanda, confessò a Teodoro Legge di aver trasferito il danaro in Olanda contrariamente alla legge. Così il vescovo e il fratello furono in realtà vittime di uno speculatore. Il processo che si svolse a Berlino «contro Pietro Legge e consorti», nonostante il contegno parziale del tribunale, dimostrò ad ogni sereno osservatore l’innocenza degli accusati e la loro buona fede. Ma il tribunale condannò il vescovo a 100.000 marchi di ammenda, il fratello a 5 anni e il vicario vescovile a tre anni di prigione . Questo processo si rilega a tutti i processi contro religiosi che si sono svolti in questo periodo. Converrebbe occuparsi più in particolare delle accuse farisaiche rivolte dall’hitlerismo contro 120 sacerdoti e religiosi, tre vicari generali ed infine un vescovo, incarcerati per la stessa accusa. Basterà constatare che si tratta in genere del tentativo di questi religiosi di pagare i loro debiti, debiti venuti a scadere entro il 1935 e contratti quasi tutti in Olanda 10 anni fa, per assecondare l’invito del governo d’allora, il quale voleva che tutti gli enti pubblici eseguissero lavori di costruzione e di rinnovamento onde combattere la disoccupazione. Ma a questi pagamenti si oppone ora la dittatura finanziaria che domina in Germania e i casi di eccezione o le modalità da seguirsi sono contemplate in una trentina di decreti. Per poter superare tutti gli scogli giuridici, i religiosi dovettero naturalmente affidarsi a tecnici e a banchieri, tra i quali il direttore della Banca Universum di Münster era loro stato particolarmente raccomandato. Fu così che la lor buona fede poté venir sorpresa e che parecchi incapparono nelle maglie della nuova legislazione finanziaria. Ma niente giustifica lo scandalo farisaico suscitato attorno a questi processi delle divise e tutto fa ritenere che ci troviamo innanzi ad una colossale montatura destinata a mascherare la lotta senza quartiere che certi circoli tedeschi muovono contro la Chiesa cattolica.
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1,935
4Internal exile
61931-1935
Si sa quello che sono le Croci di fuoco . Il movimento è di recente formazione. Da principio si trattava di un gruppo di ex combattenti che avevano tutti ricevuto la croce di guerra sotto il fuoco del nemico. Ma durante lo scandalo Stawinski l’associazione che il 6 febbraio, giorno della sommossa sotto il ministero Daladier, non aveva avuto che una parte del tutto secondaria, prese un rapido sviluppo. Il suo capo, il colonnello La Rocque , ebbe allora l’idea di creare accanto alle Croci di fuoco un movimento di giovani chiamati figli delle Croci di fuoco e ora «volontari nazionali» . Le adesioni furono numerosissime. Nel luglio ’34 erano già 300.000 ed ora hanno certo superato il mezzo milione. L’attacco principale dei gruppi parlamentari che rappresentano il fronte popolare si svolge alla Camera francese specialmente contro le Croci di fuoco, perché le camicie azzurre della Solidarietà francese, i francisti di Marcello Bucard e le Jeunesses Patriotiques dirette dal deputato parigino Taitinger , rappresentano assieme una forza molto meno temibile e spesso discordante. È noto che dopo un appassionante dibattito durante il quale il presidente di una delle commissioni dell’inchiesta Stavinsky, Guernut , valendosi di tutti i documenti raccolti dalla commissione, fece contro le leghe una requisitoria impressionante, il deputato Ybargenerai , vice presidente delle Croci di fuoco, fece improvvisamente una dichiarazione sensazionale, propose cioè egli stesso il disarmo delle leghe di ambe le parti. Alla proposta reagirono i rappresentanti dell’estrema sinistra con accenti molto conciliativi, cosicché alla Camera e nel Paese si ebbe una grande catarsi. Il Temps che non aveva mancato finora di ammonire le sinistre, accolse con entusiasmo la proclamata conciliazione, scrivendo che essa era stata imposta dalla pubblica opinione: «Il Paese, infatti, esso scriveva, vuole la pace, la conciliazione, il lavoro tranquillo, la certezza dell’indomani. Esso sa che sono indispensabili delle riforme e vede che il parlamento si allontana troppo spesso dalla realtà e che le agitazioni politiche hanno qualche cosa di fittizio che causa l’instabilità dei governi. Ma questo stesso Paese è profondamente attaccato al regime parlamentare, aspira al mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, ha bisogno di respirare per riprendersi e ha bisogno di sperare. Ora bruscamente i partiti hanno avuta la sensazione di questi desideri e di queste esigenze e in uno slancio che dovrebbe essere durevole, vi hanno corrisposto. La Camera si è elevata al di sopra di sé stessa, ha preso coscienza della sua vera missione ed ha cacciato i fantasmi della guerra civile». Sembra tuttavia che le speranze della conciliazione universale si siano nel frattempo molto attenuate. Laval, profittando del momento giusto, aveva presentato subito alla Camera tre progetti legge, il primo sullo scioglimento delle associazioni di combattimento e delle milizie private, il secondo sul disarmo dei cittadini che prendono parte a cortei od a riunioni e il terzo per frenare la libertà di stampa sottoponendo ai giudici il diritto dell’eccitamento all’assassinio. Questi progetti vennero discussi rapidamente dalla Camera e la maggioranza di sinistra ne profittò, per renderli ancora più rigorosi. In base ad essi entro il dicembre il ministro dell’interno con suo semplice decreto avrebbe il potere di sciogliere le leghe di combattimento. Ma contro tale disposizione si agitano già non solo le leghe colpite ma anche le destre della Camera. Le stesse Croci di fuoco dichiarano di non voler essere considerate come squadre di combattimento e affermano che l’offerta di Ybargenerai concerneva il disarmo e non lo scioglimento. Tutta l’agitazione si svolge ora per indurre il Senato a ristabilire il testo proposto dal governo, il quale dichiarando di fatto illecite e soggette a scioglimento le società paramilitari, rimetteva l’applicazione della legge ai tribunali, mentre il testo della Camera affida tale autorizzazione al ministro dell’interno. La situazione dei cattolici in Germania si aggrava di giorno in giorno. Immediatamente dopo la condanna del vescovo di Meissen, mons. Legge, veniva arrestato mons. Banasch , membro della curia episcopale di Berlino, e poco dopo si passava agli arresti del vicario generale di Würzburg e di monsignor Clemens assistente ecclesiastico delle associazioni cattoliche giovanili della Renania. L’arresto più importante è quello di mons. Banasch, il quale in seguito alla conferenza dei vescovi di Fulda, era stato incaricato di dirigere un ufficio di informazioni per le autorità vescovili di Germania in Berlino. Si ritiene quindi che egli dovesse avere in mano una abbondante corrispondenza che potrà agli occhi della polizia germanica mettere in causa personalità eminenti, giacché ogni critica degli atti ufficiali costituisce, secondo il regime, un crimine contro lo Stato. Un altro punto d’attacco è la sede centrale della gioventù cattolica a Düsseldorf, ove era segretario generale e assistente mons. Clemens. Ci si può quindi attendere un periodo di lotte ancora più incresciose e più dure. Il vescovo di Meissen, contro il quale si svolge ora una campagna di stampa per ottenerne le dimissioni, è partito per Roma anche perché la sua scossa salute richiede riposo. Fuori della Germania, nessuno dubita che ci si trova innanzi ad una crescente attività aggressiva che oramai, abbattute le organizzazioni, non si arresta più nemmeno dinanzi all’episcopato. La rivista Cité Chrétienne, commentando il risultato delle elezioni inglesi e dei paesi scandinavi scrive che le democrazie sembrano superare la crisi dalla quale negli ultimi anni del dopo guerra sono state colpite. «Senza dubbio, essa scrive, in questi regimi non è tutto perfetto e non ci sogniamo nemmeno di affermarlo. Tuttavia degli indizi seri, numerosi e di più in più convergenti, permettono di sperare in una prossima rinascita. Le forze giovani e sane che si offrono al servizio di questi regimi, dopo aver misurato i pericoli del potere arbitrario, esigono anche per parte loro l’integrità nell’azione e la severità nella repressione; esse sapranno assicurarsi il potere necessario per procedere alle riforme economiche e sociali indispensabili, ma queste si faranno senza il soffocamento della persona e in un’atmosfera di collaborazione». Negli ultimi tempi si è avuta una triste eco delle sanguinose sommosse di Belfast, quando gli orangisti uccisero un caffettiere cattolico e ferirono mortalmente una vecchia signora. Giorni fa un giornalista cattolico che assisteva ad una riunione protestante per un suo giornale venne malmenato dai presenti e minacciato delle peggiori torture. Il feroce spirito di intolleranza degli orangisti non è ancora diminuito e il vescovo cattolico di Belfast, e i cattolici del Regno Unito, attendono soltanto il momento opportuno per forzare il governo ad assumere le sue responsabilità. È vero che il giudice di Belfast dovette lasciar impuniti la maggior parte dei delinquenti che in luglio incendiarono le case dei cattolici e ciò per insufficienza di prove; ma egli non ha tralasciato di fare intendere che, ciò malgrado, le loro azioni erano ben conosciute da tutti e che costituiscono la vergogna della nostra civiltà. Intanto The Universe ha aperto una sottoscrizione in favore delle 200 famiglie di Belfast rimaste senza tetto, ed è stata raggiunta già una bella cifra. Perché mai né in Inghilterra né altrove questi fatti non suscitano una reazione proporzionata? È questo un fatto che ci fa meditare sull’importanza della stampa per la formazione dell’opinione pubblica. I semiti perseguitati in Germania hanno almeno la consolazione di sentirsi appoggiati da grandi giornali e da grandi partiti negli altri paesi del mondo; ma quanto è debole invece l’eco suscitata in favore dei cattolici dell’Ulster o, per accennare ad un esempio più grave, dalle persecuzioni messicane! Nel Messico si sono finora banditi cinque vescovi, cacciati dalle loro diocesi dodici e quattro messi agli arresti . Non meno di 40 sacerdoti vennero uccisi e moltri altri scomparvero «in modo inesplicabile». Nel 1926, 3000 sacerdoti avevano nel Messico cura d’anime: ora in forza delle disposizioni legali sono 334 per 15 milioni d’anime. Una delegazione inviata nel Messico dall’American Committee on Religious Rights composta di un cattolico (un ex diplomatico), di un protestante (un professore di diritto internazionale) e di un ebreo (un procuratore di Stato), ha pubblicato ora un rapporto sensazionale concludendo che il governo messicano distrugge le libertà religiose del popolo e tende a sradicare la religione coi metodi del bolscevismo… Come mai questo rapporto non ha suscitato l’indignazione universale? Non bisogna credere che la maggioranza degli abitanti di Europa e di America approvino o giudichino indulgentemente tali persecuzioni! Ma la verità è che l’opinione pubblica non viene scossa, perché non funziona l’organismo che è solito produrre tutte le vibrazioni dell’animo popolare. Mancano cioè le agenzie telegrafiche, le agenzie radio, manca la grande stampa di informazione che porti e commenti le notizie fino nelle ultime capanne. Il problema della stampa rimane per i cattolici uno dei più gravi e attende da troppo tempo la sua soluzione… Consolante è la ripresa del movimento giovanile cattolico in Francia. La Association catholique de la jeunesse française fondata nel 1886 da Alberto de Mun ebbe nel dopo guerra un grande sviluppo. Essa si divide ora secondo il concetto corporativo: esiste cioè una Jeunesse agricole chrétienne (J.A.C.), la Jeunesse ouvrière chrétienne (J.O.C.), la Jeunesse étudiante Chrétienne (J.E.C.) e finalmente la Jeunesse maritime (J.M.C.). Tutti questi rami fioriscono adattando gli stessi principi alle varie esigenze della professione e delle condizioni sociali. Quando a Pentecoste del 1936 la gioventù cattolica francese celebrerà il suo cinquantesimo anniversario, si può sperare che la festa riuscirà una mirabile rassegna delle nuove forze della Francia. Un esempio magnifico è il movimento giovanile sviluppatosi presso le varie scuole tecniche superiori di Parigi. Padre Pupey Girard , egli stesso ex ingegnere, iniziò la sua opera due anni prima della grande guerra. Essa consisteva anzitutto nel persuadere i giovani del Politecnico a frequentare durante le ferie gli esercizi spirituali. Oggi i corsi di questi esercizi sono frequentati ogni anno in ottobre da 400 studenti. Tutti gli studenti che escono di anno in anno dalle scuole tecniche entrano nell’«Union sociale d’ingénieurs catholiques» , la quale conta ormai ottomila membri in 49 sezioni. Negli anni 1912 fino al 1934 dalle tre scuole di ingegneria di Parigi uscirono anche 70 vocazioni sacerdotali. Quest’anno si è potuto annunciare che il 70% degli studenti dell’École Polytecnique e dell’École Centrale hanno fatto la Pasqua. Notevole è anche l’azione sociale di questi gruppi studenteschi, che ogni domenica si spargono nei sobborghi di Parigi ad insegnare il catechismo ai fanciulli abbandonati. Non abbiamo più seguite in questa rubrica le polemiche sulla guerra di parte cattolica. Oramai c’è poco costrutto a ricercare chi si attenga più fedelmente a S. Tommaso o chi più se ne discosti: discussioni che hanno certo il loro valore, ma da svolgersi in una atmosfera più serena, quando sentimenti, interessi e passioni non turbino né preoccupino il ragionamento. Volgiamo piuttosto i nostri desideri e i nostri sforzi verso la composizione pacifica del conflitto. Tuttavia non sarà vano il rilevare che se i cattolici durante gli anni di pace si fossero interessati maggiormente ai problemi della vita e del diritto internazionale, le divergenze sarebbero meno ampie. Forse non ci sarebbe dissenso, almeno su certe linee fondamentali, cautamente indicate negli Études dal più noto cultore cattolico di diritto internazionale. Forse, in ogni caso, ci sarebbe, come ci dovrebb’essere, una maggiore comprensione della diversa psicologia dei cattolici dei vari paesi, se maggiore contatto di persone e concorso di studi avessero cercato su tale argomento quello scambio di idee che equilibra direttive e dirime difficoltà. Forse non accadrebbe che il Catholic Herald si lagni di qualche intellettuale italiano, perché non si capisce l’idealismo dell’opinione inglese; né che un professore domenicano sulla Libre Belgique deplori l’incomprensione da parte di un gruppo cattolico belga della psicologia britannica; come forse non si ripeterebbe il caso che gli italiani considerino oggetto di scandalo qualche manifestazione cattolica francese. Vero è che fino ad un certo punto, circa l’applicazione concreta dei principi, la diversità di giudizio e quindi di atteggiamento mentale e sentimentale sarà sempre inevitabile. Se fino ieri gli storici cattolici tedeschi hanno condannato come immorali le guerre di conquista di Luigi XIV che illustri scrittori francesi, rappresentanti del cattolicismo intellettuale, apertamente difendono, come pretendere uniformità di giudizio su di un problema complesso che include una questione di giustizia distributiva per la ripartizione delle risorse terrestri, una questione di diritto e di organizzazione internazionale ed un problema di sicurezza e di espansione civilizzatrice? Vi sono tuttavia alcune linee generali, toccate anche nel discorso del Santo Padre, vi sono alcune direttive, emananti dalla dottrina comune, che hanno diritto di essere tenute ben in alto sopra la mischia, come insegna e come luce irradiatrice di un migliore avvenire: è questa la fiamma che in periodi più calmi i cattolici dovranno accendere ed alimentare. Godiamo per ora che nel Belgio la gioventù cattolica si sia raccolta anche in una settimana di preghiera per la pacificazione del mondo; registriamo anche con soddisfazione che la questione fondamentale, cioè quella della giustizia distributiva nel mondo coloniale, attiri sempre più, al di là del presente conflitto, l’attenzione dei cattolici. Tra le manifestazioni delle quali, ci pare rechi una nota caratteristica la lettera rivolta ai parroci dal cardinal arcivescovo di Torino, Maurilio Fossati . Il Sommo Pontefice ricevendo in ottobre il cardinale, gli aveva detto d’insistere nella preghiera, «perché il Signore ci conceda giorni più sereni». E con tale spirito il cardinale scrive ai parroci: «Noi non possiamo straniarci dalla patria nostra; dobbiamo condividerne colle gioie anche le ansie. Non spetta a noi erigerci a giudici delle decisioni prese da chi ha la terribile responsabilità del governo della nazione. Nostro dovere in quest’ora, in cui l’onore della nazione è seriamente impegnato, perché contrastato da tanti nemici, si è quello di mantenere alto il morale delle nostre popolazioni; di impedire il propapagarsi di notizie tendenziose come è facile in consimili circostanze; di accettare e far accettare generosamente quelle restrizioni che saranno richieste; di pregare e far pregare perché il Signore assista e consigli il re, il capo del governo ed i suoi cooperatori, dia forza e infonda valore ai nostri cari soldati ed ai condottieri, sostenga le famiglie che hanno dato i loro figli all’esercito e ci conceda di poter più presto godere di quella pace, che è il dono prezioso portato da Gesù sulla terra agli uomini di buona volontà». L’Osservatore Romano in un corsivo assai notato, commentando di questi giorni le manifestazioni episcopali, rilevava che esse s’ispirano ad una solidarietà cristiana, la quale si rivolge particolarmente a sollevare l’indigenza e nutre desideri di giustizia e di pace. Nello stesso senso la giunta diocesana di Trento trovava l’intonazione appropriata invitando in un appello i cattolici «ad essere esempio, secondo i principi cristiani, di nobile e fattivo amor di patria in quest’ora storica per la nostra nazione. All’assedio economico rispondiamo col sacrificio e colle limitazioni. Alla Patria, che chiede mezzi per la vita del nostro popolo, diamo secondo le nostre possibilità. Aumentiamo la nostra carità verso i poveri, maggiormente esposti alle privazioni, perché a nessuno manchi il necessario. I nostri soldati, che espongono la vita per un nobile dovere, sosteniamoli con la preghiera ardente e con lo slancio operoso dei cuori».
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1,936
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71936-1940
Accennare anche solo rapidamente alla molteplice collaborazione che l’iniziativa del Comitato ordinatore ha suscitato ed ottenuto in tutti i paesi del mondo non è cosa facile. Il panorama è troppo vasto e centinaia di collaboratori umili e devoti hanno faticato per illustrare il proprio paese, il proprio ordine religioso o la propria impresa di stampa, paghi che il loro nome si sommerga nella solidarietà nazionale o sociale di un atto d’omaggio alla Santa Sede. Ma alcune associazioni, alcuni centri direttivi, alcune personalità più rappresentative non sfuggono alle nostre note di cronaca . Per l’Italia non abbiamo bisogno di rilevare che col’aiuto di un apposito comitato consultivo i lavori preparatori vennero diretti dalla Giunta Centrale dell’A.C. sotto la presidenza del comm. Ciriaci , coadiuvato dal dr. Rigoni prima e poi dal dr. Orecchia, dal P. Claretta e da altri zelanti funzionari di Largo Cavalleggeri. In Austria l’apposito Comitato costituitosi sotto la presidenza onoraria del Cancelliere, del Cardinale Arcivescovo e del Cardinale Pronunzio Apostolico, trovò nel dott. Funder direttore della Reichspost un provato ed energico organizzatore, il quale affidò al noto architetto Clemente Holzmeister lo studio della parte artistica. Il dott. Funder volle esporre non soltanto l’attuale stampa austriaca, dando particolare rilievo ai metodi di propaganda che fecero per es. del Kleines Volksblatt di Vienna un tipo di giornale di grandissima edizione per il popolo minuto, ma preparò anche una sintesi storica che è una visione dello sviluppo giornalistico della vecchia Austria e illustrò così l’opera della stampa (Vaterland) alle origini del movimento cristiano-sociale e poi in tutto il periodo agitato che seguì fino alla costituzione del nuovo Stato austriaco. La stampa cattolica austriaca comprendeva nel 1935: 207 pubblicazioni periodiche con 12 quotidiani, 14 settimanali, 13 riviste, senza contare i bollettini parrocchiali . Nel Belgio la direzione venne assunta da Giuseppe De Marteau direttore della «Gazzetta di Liegi» e presidente dell’Unione giornalisti belgi, coadiuvato dal segretario Van Den Eynde, direttore dei giornali fiamminghi De Standaard, Hed News Blaad ecc; del comitato fa parte anche Abbé Calmeyn, direttore dell’opera di S. Paolo a Bruxelles. I Belgi non si sono limitati a una esposizione descrittiva e geografica della stampa belga, ma hanno voluto anche, seguendo le istruzioni del Comitato centrale, illustrare il ruolo della stampa durante le campagne sostenute dai cattolici per la difesa del principio cristiano, per la libertà della scuola e nell’organizzazione sociale . Ammirevole è lo sviluppo della stampa cattolica in questo paese! Per i soli quotidiani, si può calcolare che su una tiratura complessiva di 2.220.000 copie 935.000 rappresentano la quota dei cattolici, 700.000 quella anticattolica e 565.000 la neutra. Nella Cecoslovacchia per le cure immediate dell’Episcopato l’esecutivo venne affidato alla società di S. Venceslao nelle mani provette del dott. Yanda Vaklar. Il Comitato Ceco ha concepita la missione storica della sua stampa, come quella di un ponte fra l’oriente e l’occidente; perciò nella parte storica piante e diagrammi esposti mostrano gli sforzi fatti per l’unione degli slavi nella chiesa cattolica, e vi si incontrano le figure di S. Cirillo e Metodio e di S. Venceslao patrono della Boemia. L’attuale fioritura della stampa cecoslovacca è dovuta al periodo dell’indipendenza, dopo il 1918. Oggi si contano in Cecoslovacchia 51 periodici cattolici politici (6 quotidiani e 45 settimanali) e 270 apolitici; i tedeschi hanno 2 quotidiani e 11 settimanali e 12 periodici apolitici, i magiari hanno 2 pubblicazioni politiche e 12 apolitiche . In Francia sotto l’alto patronato del cardinale Verdier il Comitato è presieduto da Paul Verschave , decano della facoltà giornalistica di Lille, e l’organizzazione è stata diretta dall’attivissimo Mons. Olichon. Il Comitato francese ha curato con particolare amore la sintesi storica che è una delle più importanti dell’Esposizione. La biblioteca nazionale di Parigi ha fornito parecchi volumi. Il Comitato francese, oltre al padiglione riservatogli, ha acquistato una propria sala supplementare a quella della Bonne Presse. In Gran Bretagna il Comitato stampa è presieduto dallo stesso Arcivescovo di Wesminster Mons. Hinsley . L’organizzazione venne affidata a John P. Boland direttore della Catholic Truth Society . Presidente del comitato tecnico è Martin Melvin direttore del Tablet. La Gran Bretagna, come è noto, benché contenga 3.000.000 di cattolici non ha nessun giornale quotidiano cattolico. Vedremo però l’interessante sviluppo dei suoi settimanali che hanno complessivamente una tiratura di 250.000 copie. Accanto alle altre 340 pubblicazioni periodiche inglesi, è illustrato anche l’attività della Truth Society. Alla sua Truth Society ha affidato il compito di organizzare la propria sezione anche l’Irlanda e precisamente al suo attivissimo presidente dott. O’Reilly, già celebrato come energico organizzatore del Congresso Eucaristico mondiale di Dublino . L’Irlanda ha solo due giornali cattolici The Irish Catholic e Standard. In Jugoslavia la costituzione del Comitato è dovuta allo zelo di Mons. Giovanni Saric, arcivescovo di Sarajevo, che ne divenne il presidente. Il Comitato organizzò la partecipazione jugoslava in quattro sezioni conforme alla composizione del paese. Si tratta di 136 pubblicazioni periodiche sulle 1096 che escono in Jugoslavia. Piccola ma interessante riuscì l’esposizione del Lussemburgo, perché organizzata da un campione del giornalismo qual è Mons. Origer, direttore della tipografia di S. Paolo in Lussemburgo. Altro campione del giornalismo è il presidente del Comitato olandese, il noto Enrico Kuypers, direttore commerciale del Maasbode, il quale affidò la parte tecnica a V. Grottemberg di Amsterdam e quella artistica all’architetto Mellis. Interessantissimo sarà passare in rivista lo sviluppo secolare del giornale De Tyd e l’attuale sviluppo del Maasbode. Questo ha anche un padiglione speciale presso la sala cinematografica e a Kuypers si deve inoltre la produzione di una delle films più interessanti sul giornalismo creata apposta per quest’Esposizione . Il Comitato portoghese, emanazione dell’Azione Cattolica, è presieduto da S. E. Mons. Sena d’Oliveira, arcivescovo titolare di Mitilene e ne è segretario il canonico Conçalves. La piccola mostra del Portogallo mostra come i cattolici riuscirono a fondare o ad acquistare 5 quotidiani, alcuni settimanali di grande importanza e una rivista che ha raggiunto la tiratura di 300.000 copie. Nella Spagna il Comitato esecutivo è derivato dalla collaborazione della Junta Central de Accion Catolica, allora presieduta da Angelo de Herrera colla Junta Nacional de Prensa Catolica, presieduta dal vescovo di Tortosa. Il Comitato è riuscito ad organizzare un’eccellente mostra. La più istruttiva naturalmente è quella parte che illustra lo sviluppo del Debate, dovuto al talento organizzativo di Angelo Herrera. La Editorial Catolica pubblica, oltre il Debate in 5 edizioni quotidiane, un altro diffuso quotidiano della notte e parecchi settimanali e riviste. Accanto al Debate e alla Faceta del Norte di Bilbao troviamo nelle provincie un altro centinaio di giornali cattolici con complessivamente otto milioni di lettori. La mostra illustra anche l’opera della Giunta Nazionale della Stampa Cattolica colle sue giornate della buona stampa e il funzionamento della scuola di giornalismo, fondata da Herrera. Numerose le riviste, dalla vecchia Razon Y Fé fino alla rivista ecclesiastica di Madrid fondata nel 1928. La preparazione della mostra svizzera venne assunta direttamente dagli organismi giornalistici sotto la direzione del sacerdote Pauchard direttore delle Freiburger Nachrichten e coll’attiva collaborazione del segretario dott. Müller direttore della nota agenzia K.I.P.A.. Gli altri membri del Comitato rappresentano le forze giornalistiche delle tre nazionalità. L’attività del Comitato si svolse sotto la protezione dei vescovi di Sion e di Losanna e del dott. Motta membro del Consiglio Federale. La stampa cattolica svizzera si sviluppa in un primo tempo in stretta connessione colla storia politicoecclesiastica della Repubblica, ed assume poi un carattere cantonale che ne spiega la molteplicità e la grande varietà di tipo e di caratteristiche. È nota l’esemplare organizzazione delle conferenze episcopali della Polonia. Dalla sezione stampa e propaganda nacque il Comitato polacco, presieduto da Mons. Adamski, vescovo di Katowice che pose a capo del segretariato l’attivissimo direttore dell’Agenzia della Stampa Cattolica Polacca K.A.P . I polacchi hanno già fatto a Varsavia un’esposizione per proprio conto e si presentano oggi con un padiglione, decorato dal celebre pittore Rosen , in una mostra che contiene circa 400 pubblicazioni periodiche con una tiratura di 4 milioni di copie, di cui 82 giornali, con 1.200.000 copie. Di particolare interesse lo sviluppo e il perfezionamento della K.A.P. L’apostolo della stampa in Ungheria è il noto gesuita padre Bangha che nel 1918 riuscì a fondare una società editoriale con un capitale di dieci milioni di corone, la quale pubblica fra altro tre quotidiani. Pochi cenni ancora per esaurire l’Europa: Malta ebbe un degno rappresentante nel canonico Pantarellesco di Hamrun, la Romania aveva trovato in Mons. Gabor un eccellente organizzatore il quale fu purtroppo rapito ai vivi due mesi or sono, e vi venne sostituito poi dal prof. Paal di Iassi e, per gli Stati nordici, merita particolare menzione per la sua zelante collaborazione il dott. Scherz, direttore del giornale cattolico di Kopenhagen. Il comitato lituano venne presieduto dal venerando sacerdote Mons. Dombrauskas ed ebbe nel P. Reklaitis dei Mariani un attivo rappresentante. Ed ora un rapido sguardo al nuovo continente. L’anima del Comitato Canadese fu il canonico Alfredo Chamberland direttore dell’Action Sociale Catholique di Quebec. Sotto il suo impulso e con la collaborazione dei rappresentanti di ambedue le nazionalità si riuscì a far partecipare alla mostra circa 200 pubblicazioni periodiche che rappresentano la stampa dei 4 milioni di cattolici che abitano quel vastissimo paese (totale 10 milioni di abitanti). La parte francese espone 3 quotidiani e 13 settimanali, la parte inglese 9 settimanali. Vi sono inoltre un settimanale tedesco, uno polacco, uno ucraino e due riviste italiane. A Washington agli uffici della sezione stampa di quella geniale fondazione dell’episcopato americano che è la N.C.W.C. (National Catholic Welfare Conference) bisogna cercare l’animatore e l’organizzatore della partecipazione nord americana. Il signor Hall, direttore del N.C.W.C. Service, cioè di quella benemerita agenzia che serve tutta la stampa cattolica americana ha associato i suoi sforzi con quelli del signor Carlo Ridder, segretario dell’associazione dei giornalisti cattolici (C.P.A.), per attuare le direttive del presidente della sezione stampa della N.C.W.C. Mons. Vescovo di Pittsburgh e del signor Giuseppe Quinn di Oklahoma, presidente della C.P.A. La stampa degli Stati Uniti è molto recente. Il primo giornale cattolico vi esce circa 25 anni dopo la proclamazione dell’indipendenza, ma poi il suo sviluppo è piuttosto lento. Dopo la guerra mondiale essa fece un balzo in avanti, cosicché i periodici cattolici degli Stati Uniti, hanno oggi una tiratura complessiva di 18 milioni di copie. Resterebbe ora da parlare dell’America latina. Qui – come già fu detto – sono le centrali d’Azione Cattolica che assumono la direzione dei preparativi. Meritano particolare menzione il dottor Romulo Amadeo e il sacerdote di Pasquo del Comitato argentino, il dott. Alceu Amoroso Lima presidente del Comitato esecutivo brasiliano, il dott. Quagliotti di Montevideo, collaboratore di quel zelantissimo arcivescovo Mons. Aragone, Mons. Pellin, direttore della Religion in Caracas, Mons. Borge per la Costarica, il sac. Aug. Lopez per Cuba, Mons. Chavez Aguilar per il Perù e preziosissima fu sopra ogni altra l’opera di S. E. Luigi Centos, nunzio apostolico in Bolivia. L’Azione Cattolica della Colombia ebbe un solerte rappresentante in P. Marquez ed infine il Messico – last not least – nonostante le persecuzioni, si presenta all’esposizione con più di 60 periodici. Finita così, come Dio vuole, questa rassegna territoriale, è forse esaurita la sfera organizzativa, diretta dalla segreteria? Converrebbe ancora parlare dei 35 ordini, congregazioni e istituti religiosi che hanno preparato la loro mostra particolare. Ma citare qui i nomi dei collaboratori sarebbe davvero fare opera contraria alla loro modestia. Non vogliamo incorrere nelle ire dell’attivissimo padre Mondrone S.I. né in quelle del domenicano ed artista P. Panzer, né guadagnarci i rimproveri di P. Basilio, bibliotecario cappuccino, o di P. Scaramuzzi O.F.M., o P. Turo dei Figli del Cuore Immacolato di Maria, per non ricordare che soltanto alcune delle figure che più spesso comparvero negli uffici del Comitato. Ma come fare anche soltanto pochi nomi per le terre di missione ed in genere per le circoscrizioni affidate alla giurisdizione di Propaganda Fide? Qui il cronista dovrebbe cedere la parola all’indefesso organizzatore delle sale dell’Asia, dell’Africa e dell’Oceania, Mons. Monticone, archivista di Propaganda . Ma anch’egli dovrebbe rinunciare a tale segnalazione per non dover elencare tutti gli operai della vigna del Signore, dai delegati apostolici più illustri ai più umili missionari che si sono prodigati nei preparativi. Del resto l’Esposizione della Stampa dell’Asia orientale, dell’India, di Ceylon e della Birmania, quella della Cina, della Manciuria e della Mongolia e quella dell’Impero Cinese e infine quella delle circoscrizioni africane e dell’Oceania riveleranno da sé alcuni nomi dei più infaticabili e dei più illustri. Dai direttori dei giornali di Madras, Bomaby e Calcutta e dell’Indocina, ai fondatori e organizzatori dell’Agenzia Lumenn voluta dalla commissione sinodale di Pechino, dagli scrittori di riviste giapponesi, all’opera indefessa dell’Ufficio centrale della stampa cattolica in Tokio, affidata al sacerdote dott. Taguchi, già alunno del pontificio collegio di Propaganda a Roma, è tutta una serie di energie le quali cooperarono al buon esito della parte forse più varia e più attraente della Mostra. Lo stesso dovremo dire per la partecipazione alla sala dei riti orientali affidata alla Sacra Congregazione Orientale: anche qui attiva collaborazione dei dignitari ecclesiastici e degli scrittori sacerdoti e laici di tutte le pubblicazioni di rito greco, alessandrino, antiocheno, armeno e caldeo, da Leopoli cogli ucraini fino ai calabresi e malancaresi dell’India meridionale: materiale ordinato con rara competenza da P. Cirillo Korolewski. La segreteria ha dovuto poi provvedere direttamente alla raccolta del materiale per le sale: uomini e giovani di Azione Cattolica, mentre il merito d’aver organizzata e sistemata la sala femminile spetta esclusivamente all’Unione internazionale delle Donne Cattoliche di Utrecht e il materiale di Pax Romana venne raccolto dal suo segretario stampa di Lilla. Ad un’iniziativa che passò attraverso qualche fase d’incertezza, anche a causa della ristrettezza dello spazio, si deve la sala dell’alta coltura cattolica. Il materiale venne ordinato colla autorevole cooperazione della S. Congregazione delle università e degli studi. I lettori avranno notato con sorpresa che fra le sale delle nazioni manca quella della Germania. Quale mostra avrebbe potuto organizzare la stampa dei cattolici tedeschi, se tal partecipazione non fosse stata loro incomprensibilmente interdetta! Coltura e arte tedesca hanno però collaborato alla creazione delle 16 sale della sezione generale che trattano dello sviluppo e delle condizioni attuali del giornalismo nel mondo. Il dottor Krumbach, assitente del prof. D’Ester, direttore dell’Istituto Scientifico per il giornalismo in Monaco, ha elaborato e ordinato tutto il materiale di questa mostra e l’architetto Hauptmann ha presieduto all’esecuzione artistica. Data l’importanza del materiale esposto fu tanto più gradita l’offerta della Riunione Adriatica di Sicurtà che fece omaggio della polizza d’assicurazione contro i danni dell’incendio e del furto. E con ciò si potranno finalmente chiudere quest’aride note di cronaca che daranno un’idea della collaborazione veramente universale suscitata dall’iniziativa del Comitato, benché debbano rinunziare a descrivere gli entusiasmi, le alternative di ottimismo e di pessimismo, gli ostacoli incontrati, le difficoltà della prima e le ansie dell’ultima ora. L’Esposizione è maturata faticosamente, perché i tempi non le erano propizi: ma ogni difficoltà è stata superata dall’immenso prestigio che gode il Papato nel mondo.