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| 41921-1925
| Negli ultimi attacchi della campagna elettorale c’era qualche propagandista rosso, il quale reclamava per il partito socialista il merito di aver conquistato il suffragio universale e, in compenso, chiedeva l’appoggio degli elettori, specie dei contadini. Cinque giorni dopo le elezioni l’Internazionale recava un articolo intitolato «preti e frati alle urne», il quale incominciava così: «Neghiamo in modo categorico che i chierici abbiano diritto al voto. Per noi, abituati a considerare come cittadini coloro i quali lavorano e producono, e per ciò essi solo aventi diritto alla funzione politica, per equità giuridica consideriamo come una fra le tante sopraffazioni borghesi la partecipazione dei preti alle urne». In questa negazione c’è tutta la nuova teoria soviettista, in quanto vi è più di contrapposto alla vecchia teoria del suffragio universale e della democrazia parlamentare. S’incomincia col negare la cittadinanza agli ecclesiastici, considerandoli forze improduttive, giacché i socialisti increduli e materialisti non sanno valutare l’opera morale del clero; e dal clero si passerà colle esclusioni a tutte le altre categorie che non si occupano di lavoro manuale. Così si gettano le basi dello Stato socialista, su tali principi si fonda la dittatura del proletariato. Il loro esperimento in Russia ci serva di ammonimento. La Duma, la rappresentanza parlamentare, eletta in base al suffragio universale ed eguale, venne sciolta e dispersa colle mitragliatrici di Trotzsky, e al sistema democratico parlamentare venne sostituita la rappresentanza della «popolazione laboriosa». Questa rappresentanza è costituita dai soviety, locali, distrettuali, provinciali e regionali. Questi soviety o consigli degli operai e dei contadini vengono eletti nelle fabbriche maggiori, nei sindacati e per i lavoratori a domicilio, nei rioni operai. Tutto il resto dei cittadini non ha diritti, ma solo doveri. È vero anche i «contadini poveri» sono chiamati a votare, ma è caratteristica qui l’eguaglianza del voto socialista. Per fare un operaio ci vogliono cinque contadini. Al soviet provinciale mandano un deputato due mila operai delle città e 10 mila contadini dei villaggi; al soviet regionale mandano un deputato 5 mila operai e 25 mila contadini; al congresso panrusso dei soviety (parlamento) mandano un deputato 25 mila operai, ma i contadini per avere un deputato, devono essere 125 mila! I bolscevichi hanno paura dei contadini e perciò non potendo negare loro totalmente il diritto di voto, glielo concedono in misura ridotta. Ma non basta. Tutto questo sistema di soviety esiste solo in teoria, non in pratica. In Russia, scrive il Nofri , membro della Missione socialista italiana in Russia, «i soviety raramente esistono nominalmente, mai funzionano realmente». Anche questa ridotta democrazia dei «consigli» si addimostrò inadoperabile nello Stato socialista; e s’introdusse perciò l’art. 25 della costituzione, in base al quale ogni gruppo anche della cosiddetta popolazione laboriosa «può essere privato di tutti i diritti politici, se la sua attività viene riconosciuta come dannosa alla rivoluzione». L’applicazione di tale disposizione veniva affidata alla famigerata Ceka, una società di poliziotti che escludono semplicemente dal diritto di voto tutti coloro che potrebbero votare contro il regime bolscevico. Evidentemente è ad uno Stato ideale consimile che aspirano anche i socialisti dell’Internazionale, ad uno Stato, in cui gli unici moralisti con pieno diritto di voto saranno i conferenzieri rossi e gli unici intellettuali parificati ai lavoratori manuali saranno i segretari delle Camere del lavoro. Questo è il diritto nuovo che ci vaticina il giornale di Trento, questo il regno di luce nel quale veniamo invitati ad entrare. Sentite come chiude l’articolo dell’Internazionale: «Se lo scudo crociato poté essere forza del potere feudale nei secoli lontani; se oggi segue l’onta di un potere che vuole arginare la riscossa contro la borghesia da parte di chi lavora, non potrà però arrestare il diritto nuovo che già ha posta sua sede sulle rovine di una infamia che non ha nome e che gli uomini ha introdotti in un regno di luce… che non è quello dei ceri del tempio». |
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| 41921-1925
| Il Tiroler scrive un articolo in bemolle. I popolari, esso dice, furono troppo nazionalisti, ma forse lo furono solo per tattica elettorale. Le elezioni hanno sconfitto il nazionalismo, quindi è ora che i popolari facciano giudizio e aprano gli occhi alla realtà. I tedeschi non si sono mai opposti ai postulati autonomistici dei trentini (ci mancherebbe altro, in Italia!): i trentini invece, salutando il decreto reale che doveva dare l’autonomia ai tedeschi hanno fatto anche un cattivo servizio a se stessi. È pur meglio in tal riguardo, appoggiarsi vicendevolmente. Questo il succo dell’articolo, che dovrebbe essere evidentemente una ouverture. Breve risposta. Quando i tedeschi vennero in campo per le prime volte col loro postulato autonomistico, i popolari reagirono con dichiarazioni in via di massima non sfavorevoli, tanto che il partito popolare tedesco mandò al partito popolare italiano una lettera di ringraziamento. Anche quando il Verband presentò a Roma il suo progetto concreto, tutti i partiti trentini pur mettendo in rilievo che certi punti di carattere politico, linguistico e militare erano inaccettabili, dichiararono ch’erano pronti, sul terreno delle autonomie locali, a concedere ai tedeschi un’amministrazione separata. Così suonarono le unanimi decisioni di Roma. C’era o non c’era l’addentellato per trattative fra Bolzano e Trento? Ma il Verband si ostinò a cercare la sua salvezza a Roma, ove sperava di poter strappare di sorpresa quelle concessioni che i trentini avrebbero discusse e vagliate. Il Verband, nella sua stolta politica, per la quale non si può addurre come attenuante che la faciloneria verbale con cui venne accolta dai nostri uomini di stato, ebbe la presunzione di saltare Trento, di non curarsi della Venezia Tridentina, di contrattare l’assetto della Provincia, senza nemmeno prender nota della nostra esistenza. Esso non prese nemmeno nota della circostanza che già prima che i tedeschi presentassero il loro progetto, i trentini avevano parlato a Roma di autonomie amministrative, di ricostruzione di Diete ecc.; ma che già allora – non dunque espressamente per impedire un decreto reale in favore dei tedeschi, come suona la leggenda che va creando il Tiroler – avevano chiesto che nulla s’innovasse per decreto di governo, prima che fossero fatte le elezioni. Non prese nota di tutto ciò, e così la sua politica doveva condurre al disastro e all’inasprimento del conflitto nazionale. Il Tiroler, che sembra oggi muovere a noi rimprovero di opportunismo nazionalista, arrivò al punto di affermare che stava nell’interesse dei tedeschi d’indebolire il partito popolare italiano, anche a costo di aumentare i mandati socialisti; e, viva Dio, ci siamo battuti per nostro conto, che le pugnalate nella schiena per parte degli amici del Tiroler non ci sono mancate! Ma intanto lo sciovinismo tedesco, l’eccessività di certi atteggiamenti provocavano la reazione in tutta l’Italia: e oggi la comparsa dei deputati tedeschi alla Camera viene guardata con occhi assai diversi da quelli del 1919. Il Verband e il Tiroler, pare, se ne siano accorti. E forse, nella perplessità del momento, guardando un po’ indietro, si diranno che non sarebbe stato cattivo consiglio quello di parlare anche con Trento e che una qualche moderazione nel tenore e nel tono delle proteste non avrebbe potuto recare danno. Vedremo a quale conclusione porti questo quarto d’ora di resipiscenza. Intanto il Tiroler fa la predica, e la predica non è del tutto fuor di luogo. Solo che l’indirizzo è sbagliato. La fa a noi. Dovrebbe farla ai suoi. Capirà, da amici simili che fino a ieri hanno tentato di nuocerci, è piuttosto difficile che noi accettiamo consigli e ammonizioni. |
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| 41921-1925
| Roma, terza giornata della crisi. La crisi è un gioco di forze . Propositi onesti, volontà serene, energie sane si congiungono, s’intersecano, si confondono con vanità, con ambizioni, con risentimenti. Non si tratta di ricchezze, giacché il negoziante più modesto di corso Umberto guadagna più di un ministro (2 mila lirette al mese oltre la benzina), né di agi, perché accanto al medico in condotta l’uomo politico è l’essere più travagliato che si conosca. Ma si tratta di governare, di reggere altri uomini, di dirigere altre volontà, o almeno di avere l’apparenza di farlo; si tratta insomma di dominare, e il dominio rappresenterà sempre la più irreducibile passione umana. Il giuoco è quindi giuoco gladiatorio, è lotta a corpo a corpo. Ma è lotta silenziosa. Il pubblico spia le mosse e assiste, commentando, sottovoce. Ma non lasciatevi ingannare dalle immagini storiche. I gladiatori fanno di tutto per non apparir tali. Giolitti continua a fare la sfinge, Bonomi si lascia sorprendere alla finestra mentre guarda annoiato nell’azzurro dei cieli, De Nicola si rinchiude nello studio della presidenza e fa dire a tutti ch’è uscito. Uscito per i suoi affari privati, uscito per pigliar l’aria, uscito perché non ha nulla da fare. Orlando poi è partito addirittura, proprio partito col treno verso la Sicilia. Quella di partire sul serio, è la mossa più arrischiata. Si va preannunziando a tutti per 24 ore che si parte – e intanto si attende ansiosamente che qualcuno dica: rimani –, poi ci s’incammina lentamente verso la stazione, giungendovi all’ultimo minuto, – e per via il cuore trema che non venga a tempo il richiamo – e, poi, dopo il distacco da Roma, a ogni stazione principale ci si fa vivi, perché un telegramma ritardatario non falli al suo destino. Orlando ha rischiato l’ultima carta, è partito ed è… arrivato in Sicilia, paese molto lontano. Bonomi ha mandato in giro dei testoni, dei fiutoni, dei pasticcioni coll’incarico di buttar fuori a mezz’aria delle ipotesi e di scomparire subito sott’acqua, salvo ricomparire poi alla superficie, quando il vento tiri all’altro verso. De Nicola si è seppellito in un iniziale rifiuto. Il perché è chiaro. Una soluzione De Nicola esclude la luogotenenza di Giolitti, e De Nicola vuole accettare solo se Giolitti non esprimerà sul conto suo nessuna riserva. Mentre scrivo affermano che Giolitti abbia detta questa sera al re la parola tranquillatrice. Allora De Nicola è tornato e s’è rinchiuso nello studio col fido Montalcini , direttore degli uffici della Camera. Una, due ore… Mentre scrivo, ci stanno ancora. Che diavolo fanno a quest’ora? I giornalisti ne deducono che De Nicola ha avuto l’incarico e che prepara il piano di battaglia, le conferenze cioè coi capi gruppo. Quando questa mia vi sarà arrivata, il telegrafo vi avrà fatto sapere quello che io, mentre scrivo, non potrei che indovinare. La cosa è piuttosto complicata, 15 ministeri, 18 sottosegretariati; è tutto un reggimento. De Nicola è rapido; ama le pose napoleoniche; farà il suo ingaggio a colpi di tamburo. Penso che sotto questa nota sarete posdomani in grado di far seguire molti nomi. Cosicché mi pare di mettere in busta una cosa muffita anche fermandomi a questo punto. E tuttavia come sarebbe dilettevole il fare la descrizione completa dello scacchiere e ripetere innanzi agli occhi dei lettori le mosse dei combattenti! Ma per poter riuscire, bisognerebbe essere deputati, e non degli ultimi, bensì dei protagonisti. Nel qual ultimo caso però mancherebbe d’altro canto il tempo. Ond’è che sarà giuocoforza far punto per davvero. |
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| 41921-1925
| Roma, 7. Il corrispondente parlamentare del Piccolo di Trieste ha avuto coll’on. Degasperi un’intervista della quale vi posso trasmettere il contenuto. Ecco cosa disse l’on. deputato trentino: Non commetto una indiscrezione, se le dico che nelle trattative che i rappresentanti del Partito popolare condussero con l’on. Bonomi per la composizione del Ministero si fece parola, com’era doveroso, anche delle nuove provincie. Noi abbiamo chiesto che si procedesse oramai rapidamente alla ricostituzione delle autonomie provinciali e comunali e che si addivenisse finalmente alla soluzione dei problemi inerenti al cambio della valuta e alla liquidazione dei rapporti finanziari ed economici con gli Stati successori della Monarchia austro-ungarica. La ricostituzione delle autonomie provinciali e comunali Ella conosce oramai per avervi io accennato anche nel mio discorso concordando con ciò con gli on. Suvic e Pogacnig quali siano le mie idee, direi, procedurali. Secondo me non è necessario che, almeno in un primo tempo, ne venga investita la Camera. Il Governo è autorizzato dall’art. 4.o della legge sull’annessione a coordinare le leggi del Regno con le nostre autonomie locali. È sufficiente quindi che il Governo tratti con la deputazione delle nuove Provincie, si accordi con essa per la convocazione dei comizi amministrativi (comunali) e passi dalle parole ai fatti. Della Venezia Tridentina la questione è semplice. Salva la tesi istituzionale che si può salvare, riservando alla futura rappresentanza provinciale la sanatoria, può essere introdotto per tutti i comuni il suffragio vigente nel resto del Regno: desideriamo solo che le città con proprio statuto mantengano il diritto di votare un proprio regolamento elettorale. Trento ha già votato una riforma con la proporzionale, Rovereto l’ha pronta. Le altre, se vogliono, possono farlo entro un breve termine da stabilirsi. Così arriveremo in autunno alle elezioni comunali. So che nelle Venezia Giulia ci sono altre premesse da chiarire e che le condizioni linguistiche esigono una nuova circoscrizione di alcuni aggregati comunali. Sono tutte questioni che con un po’ di buona volontà si possono risolvere entro breve termine. Nello stesso tempo bisogna provvedere alla costituzione delle Giunte provinciali provvisorie e a preparare la riconvocazione delle rappresentanze provinciali (Diete). Io penso che si debbano nominare due Commissioni composte dai deputati e senatori delle Nuove Provincie, aggiungendovi qualche altro rappresentante. L’una Commissione dovrebbe preparare la ricostituzione delle autonomie provinciali per la Venezia Giulia, l’altra per la Venezia Tridentina. Entrambe potrebbero nominare un Comitato ristretto per tutte e due, onde definire il contenuto delle autonomie e i rapporti con i dicasteri centrali, ma per quanto riguarda la circoscrizione delle Province e i rapporti con gli allogeni le due Commissioni dovrebbero agire parallelamente senza intralciarsi a vicenda. Io ritengo che questa questione procedurale debba risolversi immediatamente prima ancora delle vacanze estive. Non è più il tempo di tergiversare. Si è tardato troppo. Da ciò Ella comprende come io non possa essere d’accordo con coloro che vogliono abolito l’Ufficio centrale per le nuove provincie. Il suo compito ricostituivo incomincia appena ora. Se non ci fosse un tale ufficio di coordinamento legislativo, bisognerebbe crearlo. Non confondiamo però questo suo compito con le competenze della giurisprudenza. Come ufficio politico – di terza istanza – ne farei volentieri a meno, demandandone le attribuzioni ai due Commissariati generali, ma il suo compito vero è ben più urgente e diverso. Le questioni economiche e finanziarie Anche nelle questioni finanziarie ed economiche è necessario che si proceda più rapidamente a trovare una soluzione definitiva o almeno a prendere provvedimenti immediati di carattere transitorio . Non è possibile per esempio tergiversare ancora nella questione della Cassa di Risparmio postale. In proposito l’on. Grandi ha presentato una interrogazione che gli darà modo di insistere sull’urgenza che lo Stato italiano assume gl’impegni incontrati dalla Cassa di Risparmio centrale verso i suoi depositanti. Come non è possibile che noi attendiamo il responso della Commissione delle riparazioni per risolvere la questione dei titoli prebellici. Bisognerà qui prendere un provvedimento transitorio che venga in aiuto dei piccoli rantiers e degli enti pubblici. Anche nella questione dei crediti verso gli stati successori della Monarchia austro-ungarica, è necessario che lo Stato italiano assuma direttamente la protezione dei cittadini redenti. Tutte queste questioni e altre simili furono oggetto di discussione nelle conversazioni che precedettero la costituzione del Ministero e l’on. Bonomi ha preso impegno di riconvocare quanto prima la Commissione della valuta per provvedere ad un migliorato decreto del cambio tardivo e alle altre disposizioni in materia finanziaria. Comune poi all’interesse delle Terre redente e delle Terre liberate è il postulato del Partito popolare per l’emissione di un’altra serie di buoni settennali, dedicati al fondo ricostruzione. Anche a questo riguardo il nuovo presidente del Consiglio intende di procedere con larghezza e sollecitudine. Egli avrà presto occasione di provare la sua buona volontà, perché, a quanto sento, i nostri enti cooperativi e consorzi dei danneggiati hanno già iniziata una nuova agitazione per ottenere l’aumento dei fondi per le anticipazioni sulle liquidazioni dei danni. |
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| 41921-1925
| I profani che stanno fuori e giudicano col senso comune crederanno che un ministero si faccia in base ad un semplice calcolo matematico. Il Centro e le Sinistre danno all’incirca 300 deputati. I popolari superano il centinaio, i democratici sociali (sono i vecchi radicali commisti ai combattenti) non arrivano alla settantina, i democratici liberali (non confondeteli coi liberali democratici, gruppetto nazionalista di destra) toccano la sessantina. Questi tre partiti con l’aggiunta del piccolo drappello agrario, giacché si alleano per costituire il governo, e ne assumono la responsabilità, dovrebbero suddividersi in pace tra loro i portafogli e impegnarsi poi a sostenersi reciprocamente. Questo patto d’alleanza dovrebb’essere chiaro e definire un programma d’azione comune ben preciso, e l’alleanza o la coalizione, come si preferisce chiamarla, dovrebbe avere un organico direttivo ed esecutivo per le determinazioni comuni, il «comitato di maggioranza». La costruzione è così semplice, così naturale che la sa ideare il primo arrivato. Ebbene, tutto questo che è naturale, che è logico, a Montecitorio non avviene. Accade invece che nel calcolo, più che la matematica giocano considerazioni d’indole personale o tradizionale. Accade che non è possibile trattare e definire in base ad un programma preciso, perché le cosiddette Sinistre sono dei clubs parlamentari, ma non dei partiti; degli aggregati, non delle sintesi di programma e d’azione. Non è che si privino della decorazione di una presidenza o del lusso di un direttorio, ma presidenza e direttorio impegnano appena il proprio voto personale. Ingenuo quel presidente del Consiglio che volesse trattare con loro sulla scorta di un programma; bisogna che tratti in base a portafogli e sottoportafogli. Quanti più ne accontenta, tanto maggiori sono le probabilità di resistenza per il suo ministero. Soddisfarli non è facile, giacché le brame sono insaziabili. I popolari costituiscono un terzo della maggioranza, e tuttavia si sono accontentati di tre posti di ministro su 15 e di 5 sottoportafogli su 18, lasciando tutto il resto alle bramose canne dei sinistri . Ma anche questo resto non è bastato ad acquetare la democrazia liberale che dopo il pasto ha più fame di prima. Epperò avete letto che, appena fatti i ministri, in quel gruppo si ebbe un’insurrezione e il nuovo direttorio dichiarò che di fronte al Ministero si riservava mano libera. Un’alleanza, una coalizione, quindi, poco sicura. Non bisogna credere però che quest’instabilità della situazione sia dovuta alle deficienze del governo attuale. Certo Giolitti dava l’impressione di maggiore saldezza, ma era stabilità fondata sulla sua fama, sulla sua abilità di manovra, sulla sua tradizione d’imperio, non sul mutuo accordo di una maggioranza organizzata. Il male è cronico, il male è nei settori di sinistra, non sul banco del Governo. Qualunque uomo nuovo venga al potere, a meno di non avere il soccorso straordinario delle ali del genio, non saprà tenersi a lungo sott’acqua prima che la Sinistra non sia guarita dal male che la corrode. Che male? Ambizioni, pregiudizi, anticlericalità, massoneria? Si, anche codeste sono malattie bell’e buone e ne abbiamo riscontrati i sintomi gravi proprio nella recente polemica per la nomina d’un popolare al ministero della Giustizia. Il male più grave però ci pare un altro: è quello della senilità. Di fronte alle innovazioni portate necessariamente dalla proporzionale, codesti uomini, in maggioranza meridionali, sono rimasti gli stessi di cinquant’anni fa. Clientela, fama personale, guadagnata o usurpata, consorteria, a scopo mafioso, o talvolta di difesa contro la mafia, ma sempre consorteria, tutto questo sostituisce nel mezzogiorno (e in qualche lembo ancora del settentrione) la linea programmatica e la disciplina dell’organizzazione. Ora il programma e l’organizzazione costituiscono per l’uomo politico delle sbarre che egli salterebbe volentieri. Specie alla Camera esse diminuiscono la libertà delle ambizioni, riducono le possibilità di salire, tagliano la via a certi rapidi e seducevoli passaggi. Nessun deputato ci si adatta di buona voglia, quando non vi sia educato oramai da un’interiore disciplina. Molto meno ciò può attendersi da deputati che non sono responsabili di fronte a un partito organizzato e non vanno soggetti al suo controllo. La sinistra liberale soffre di vecchiaia. O rinnovarsi o perire. O rinnovare i propri metodi o sottoporsi alla disciplina d’un programma e di un’organizzazione, assicurando così le sorti dei governi di coalizione o inasprire la crisi fino che dovrà sboccare per forza nella collaborazione socialista, cioè nella costituzione di governi che rispondano alla funzione della rappresentanza proporzionale, ossia di Ministeri che piantino la loro salda base su una risultante di programma e di forze disciplinate. |
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| 41921-1925
| La Camera venne sciolta il 7 aprile con una bella motivazione e con un programma sicuro. La motivazione diceva che di fronte al fausto avvenimento dell’annessione delle Nuove Provincie bisognava «chiamare contemporaneamente il popolo italiano a determinare l’indirizzo politico economico culturale, amministrativo che debba essere dato all’Italia nel nuovo periodo storico che si inizia», e il programma era che la Camera rinnovata avrebbe dovuto iniziare un’energica riforma dell’amministrazione e rivalutare sovratutto sé stessa, «adempiendo la grande funzione di controllo che si esercita colla discussione dei bilanci e esercitando sul paese quella vera direzione politica ecc. ecc.». Il 15 maggio vennero le elezioni, l’11 giugno la nuova Camera si radunò e iniziò il periodo di ricostituzione interna. Nomina della Presidenza, nomina della Giunta delle elezioni, nomina delle nove commissioni permanenti. Tutte queste nomine sono precedute dalle candidature dei gruppi, le candidature sono precedute dagli accordi, dagl’intrighi, dalle sollecitazioni dei deputati. Passarono così altri 15 giorni. In questo frattempo non lavorano che due commissioni, la Giunta delle elezioni per convalidare o invalidare i risultati elettorali e la Commissione per la riforma della burocrazia, la quale si arenò innanzi al problema principale (art. 1 del disegno governativo): al Governo si devono dare o non si devono dare i pieni poteri per fare i tagli chirurgici richiesti? Nelle sedute plenarie s’ebbe intanto la grande discussione di politica interna. Essa fu, in generale, notevole. Alcuni discorsi più che parole, furono dei fatti. Quando un discorso imprime un moto direttivo all’opinione pubblica o preme sull’amministrazione statale o contiene la maturazione di un ciclo d’idee che hanno commossa la nazione, esso rappresenta «un fatto politico», e il Parlamento, accogliendolo e dandogli occasione di nascere, esercita la sua funzione propria e, vorremo dire, etimologica. Aggiungiamo la considerazione che a taluno potrebbe apparire banale, che la Camera, contenendo entro la sua disciplina le passioni politiche della nazione, esercita già la funzione utilissima di valvola di sicurezza. Questa volta, chi ha sentito Mussolini e Turati, ne ha avuta una sensazione netta e convincente. Ma il 27 giugno è venuta la crisi, ed ora la Camera si riunisce appena il 18 luglio, con un caldo soffocante, e coll’impossibilità fisica di protrarre troppo oltre i suoi lavori. È chiaro oramai che la stagione primaverile ed estiva del Parlamento è fallita. Quattro mesi perduti. Forse era inevitabile che si perdessero, forse sarebbe utile che si siano perduti o meglio non si potrebbero dire perduti affatto, quando la crisi che attraversiamo servisse a guarire. «Nuovo periodo storico che s’inizia…, determinare l’indirizzo politico, economico, culturale, amministrativo della nuova epoca, rivalutare la Camera, esaminare i bilanci, riforme finanziarie, amministrative, agrarie, industriali…». Finora nulla di tutto questo; né troppo si potrà attendere dai brevi giorni che verranno. Il tempo perduto non si riguadagna più. Sarà per l’autunno. Ma intanto noi vorremmo almeno una cosa: che le Nuove Provincie, per merito delle quali «un nuovo periodo della nostra storia s’inizia» (citiamo sempre la relazione Giolitti al Re) ottenessero almeno l’inizio di quei provvedimenti di sistemazione che reclamano da due anni: sistemazione amministrativa e sistemazione finanziaria. Che almeno per noi di questo tempo perduto sia lecito riguadagnare un’ultima ora! |
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| 41921-1925
| Non amiamo molto i panegerici o i discorsi commemorativi. Assumono troppo spesso la monotona sonorità d’un rito e tralignano in un’esercitazione rettorica che di anno in anno si disgiunge sempre più dal commemorato per destare dei sentimenti che riguardano in prima linea il commemoratore – ammirazione talvolta, più spesso compassione. Perciò noi comprendiamo a meraviglia che talvolta un commemoratore, meno ufficiale e meno sottomesso alla tradizione, senta l’orgoglio di ribellarsi ad uno stile e a un contenuto abitudinario e che, prendendo il suo compito da un punto di vista diverso, voglia sostituire al ciclo usato un’analisi d’idee più comprensiva e più integralmente storica. Così pare abbia fatto quest’anno il commemoratore di Battisti. Ebbene, se l’avesse fatto in altra occasione, non sapremmo che tributargli lode, giacché è bene che la nostra storia, svincolandosi dalle preoccupazioni e dalle visuali della manifestazione o della propaganda, acceleri il suo corso verso un’analisi più severa e una ricostruzione più completa e quindi più verace. Ma il 12 luglio alla fossa del castello erano riuniti uomini di tutte le convinzioni politiche per commemorare la morte di Battisti e dei suoi compagni come coronamento della loro azione durante la guerra . La nostra osservazione quindi che l’oratore ufficiale avrebbe dovuto limitarsi all’argomento ci pare ovvia e serena. Il «Popolo» non è di questo parere e dopo aver dato un largo riassunto del discorso commemorativo – discorso che, preso a sé, ci pare molto notevole – si scaglia con un frasario banale e con ingiurie contro di noi e contro gli… altri (malve del conservatorume, facce luride ecc.) ricordando che noi, i quali abbiamo ancora in viso il prurito delle staffilate polemiche di Battisti, è ben naturale che ce la prendiamo con una commemorazione che accanto al combattente ha rievocato il socialista. Ecco, in quanto a staffilate è vero che il giornalista Cesare Battisti ne distribuiva con una certa larghezza; ma non abbiamo affatto la umiliante sensazione di non aver reagito con altrettanta forza. In tutta la sua propaganda di oratore e di uomo socialista egli ha avuto in noi e nei nostri amici degli avversari aperti e tenaci. Se volessimo sfogliare le vecchie raccolte dei giornali e ricordare discussioni e contraddittori, giungeremmo alla conclusione che la nostra opposizione non ha bisogno di sfogarsi in ignobili risentimenti postumi; essa è là, leale, violenta se volete come talvolta richiedeva la violenza dell’attacco, ma decisa, lui vivente e lui operante. Nessun equivoco quindi, nessuno sfruttamento è oggi possibile. Le idee d’allora sono le nostre idee d’oggi: la lotta contro il socialismo, la difesa del principio sociale cristiano. Se Battisti ritornasse colle sue idee d’allora, il contrasto sarebbe altrettanto profondo, altrettanto vivo. Sulla psicologia di questo ritorno, i socialisti delle varie chiese costruiscono ipotesi contraddittorie. I riformisti dicono che Battisti, passato attraverso la guerra, diverrebbe l’apostolo di un socialismo nuovo, cioè d’un socialismo nazionale, anzi vogliono comprovare che il suo socialismo fu sempre di tal natura. I socialisti ufficiali invece credono (con Flor) ch’egli abbia perduta la testa per cinque minuti e che ora farebbe giudizio, ritornando nei ranghi dell’internazionale, magari in quella di Mosca. Questioni bizantine, ipotesi gratuite, di cui possono occuparsi coloro che intendono sfruttare ancora la memoria di un uomo, divenuto celebre in un momento in cui ha cessato d’essere milite d’un partito per diventare soldato della nazione, che intendono sfruttarlo per la propaganda di un partito politico. Il gran pubblico trentino e italiano non li segue. Di Battisti giornalista, polemista, propagandista del socialismo marxista pochissimi sanno o s’interessano di sapere. Ma tutti sanno, e ciò sta scritto già in monumenti di pietra e di bronzo su molte piazze d’Italia, che combatté eroicamente per la sua patria e per amore di questa sofferse con coraggio una morte obbrobriosa. Questo è quello che rimane d’immortale di lui, quest’eroismo, questo sacrificio, colle idee e colla fede che lo hanno germinato. Questo è anche il tema di una commemorazione di Battisti alla fossa dei leoni. E ripensando a questo, chinan la fronte amici ed avversari politici e possono fondersi con logica sincerità i sentimenti dei propugnatori delle più opposte concezioni sociali; come innanzi alla memoria del giovane Chiesa , morto col sorriso della speranza cristiana nel volto, piegherà il capo pensoso ed orante anche colui che nell’aspre lotte umane ha smarrita l’idea d’un Dio, sommo giudice e ultimo «giustiziere». |
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| 41921-1925
| Leggendo giorni fa il commosso saluto col quale «l’Unione popolare, fra i cattolici d’Italia», augurava, auspicando felici eventi e sempre miglior cammino alla Gioventù Cattolica, che in quest’anno celebra il suo cinquantesimo anniversario, il pensiero nostro riandava il tempo passato e dalle memorie traeva un monito salutare e pieno di conforto. «L’Unione popolare» salutava entusiasta nel cinquantesimo della sua fondazione quella gioventù che aveva dato esempio di fermezza cristiana, di devoto attaccamento alla fede e di sincero ardore alla patria. Linguaggio più dolce non si sarebbe potuto usare oggi dopo il martirio della guerra dove la gioventù in tanta parte si è immolata per un’ideale che accomunava nel simbolo patriottico anche quello cristiano, inteso magari in un superiore concetto di dovere, in una superiore esigenza di difesa di un patrimonio civile. Ma ciò che più tocca il nostro sentimento e la nostra ammirazione in quest’ora grigia e torva … di odi e rancori, è lo spettacolo di una gioventù nuova che balza ardentemente nella vita e che nel nome di Cristo si lancia alla conquista della società. Ieri sotto l’imperio di qualche setta che ora ritira nell’ombra più timida le branchie verdi, questa gioventù muoveva i suoi primi passi quasi incerta, diffidata e avversata dal governo, malvista dalle classi dominanti. Da allora ad oggi quale contrasto! Nel prossimo settembre questa gioventù attraverserà le vie di Roma, imponendo nella capitale d’Italia cattolica il grido: «o Cristo o Morte!» e saranno migliaia i vessilli che sventoleranno e diecine di migliaia i giovani che emetteranno quel grido che sintetizza tutto un ciclo storico e che riassume un lavoro tenace e costante e simboleggia una vittoria ben meritata. La gioventù cattolica passa con la fronte alta, non più serva conculcata di una politica biliosa di governi settari, ma si apre il cammino trionfale in una luce di sole liberatore che varrà a sfatare molte leggende, a distruggere molte calunnie, ed ad affermare ancora una volta che i cattolici in Italia non sono i nemici o i farisei, ma rappresentano un principio universale innanzi al quale tutto il mondo si inchina. Eppure in questo cinquantennio quante volte non abbiamo sentito cantare l’esequie alla Chiesa e al suo movimento sociale; quante volte non abbiamo vista sferrata la più accanita persecuzione verso tutto ciò che poteva sembrare anche lontanamente cattolico? Spogliate le Chiese, disperse le congregazioni religiose ridotte oggi a vivere mendicando e sotto forme di diritto rabberciate cavillosamente attraverso le maglie del codice civile, laicizzata la scuola, deturpato il matrimonio…. Eppure se molta parte di questa persecuzione conserva i suoi effetti, oggi non si attenta più con la facilità di un tempo ai diritti dei cattolici e si è più guardinghi non fosse altro, perché anche i cattolici sono cittadini e la gioventù cattolica è una forza in Italia che sa farsi valere e stimare tanto che oggi in Roma non è più strano che sfili questa gioventù inneggiante alla fede e alla patria. E il conforto maggiore lo si ritrae appunto dal fatto, che mentre cinquantanni addietro la gioventù cattolica era volontariamente obliata nella vita civile, oggi volere o non volere pesa nella bilancia nazionale come una forza propulsiva e coordinatrice che porta un valido contributo all’assestamento della nazione. E i giovani sapranno dare in quest’ora il loro appoggio e sapranno armonizzare nella serenità del loro spirito quella carità, che oggi s’impone a tutti quanti; sentono cristianamente e sanno veramente comprendere la fratellanza come un dovere di coscienza e come un obbligo di civiltà. Il Papa ci ammonisce che è necessario ricorrere a Dio per ottenere una tregua alle lotte fratricide per veder di risolvere il cruento conflitto elevando gli spiriti in un’aria più serena, lontani dagli egoismi di una materia avvilente, di una passione folle. Questi giovani hanno imparato prima a pregare, poi ad agire, quindi a sacrificarsi. Essi vengono alla patria dai campi delle battaglie e non hanno lottato, perché un’altra lotta intrapresero dopo la guerra, ingaggiandosi arditamente contro i negatori del cristianesimo e gli araldi di una nuova barbarie e seppero anche sacrificarsi e dar nuovo sangue alla causa del Vangelo. Lasciateli dunque passare per le vie di Roma e non abbiate timore, o uomini dalle vecchie idee egoisticamente giacobine! Non saranno essi che vi porteranno lo sconforto, la desolazione, la morte… Essi in un motto vi gridano: O Cristo, o morte!… Vogliamo anche pensare che molti uomini che oggi reggono le sorti d’Italia non credano nella religione di Cristo, ma sentano almeno la bellezza della sua dottrina. Ebbene noi diremo a costoro: lasciate passare la civiltà cristiana nella Roma dei Papi e inchinatevi di fronte ai venti secoli di Storia che quel grido sintetizza e pensate che solo da un profondo e religioso concetto cristiano discenderà sul mondo e sugli spiriti la pace e il buon volere. Et in terra pax hominibus… I giovani cattolici nel loro buon volere vi dimostrano vivo desiderio di pace sentita al di sopra dei partiti e degli odii, e nel loro cinquantenario essi la recano sui loro vessilli come una promessa augurale. Quanti l’accoglieranno o la comprenderanno? Non sappiamo: né sappiamo quanto il disordine presente potrà durare, ma è certo che l’azione di questi giovani alimentata dalla preghiera dirà ora e sempre che Cristo non muore, ma che per Cristo si muore. |
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| Il manifesto dell’on. Turati La grande stampa liberale, che è, come sempre l’organo reclamistico più obbediente e più efficace di qualsiasi movimento del socialismo italiano, ribocca, di questi giorni, di impressioni, di note e di commenti intorno al «manifesto» che l’on. Turati, d’intesa con altri deputati del partito, ha pubblicato a nome della fazione di concentrazione socialista. L’on. Turati, come si sa è sempre il beniamino della borghesia liberale che sospira il momento di vederlo ministro e nell’attesa gli perdona i propositi rivoluzionari e i molti penzolamenti a destra e a sinistra . Chi ricorda le infinite cortesie che il leader milanese ebbe a raccogliere dalle vestali del patriottismo italiano quando alla Camera, senza evidenti sottintesi, si degnò di gridare «viva l’Italia», non ha bisogno di altri argomenti per convincersi di quanto scriviamo. Il manifesto in parola però non ha, per adesso, che un valore interno per il partito socialista stesso e rappresenta un indirizzo di possibile azione che dovrà essere discusso al prossimo congresso di Milano, nella prima metà di ottobre, insieme colla mozione dei socialisti unitari redatta dall’on. Baratono e al «manifesto del comitato di unità socialista» che porta le firme degli onorevoli Alessandri, Buratti e Zilocchi . Quale delle tre tendenze che dividono il partito sarà per avere la vittoria al congresso nazionale? L’on. Turati, esponente principale della «concentrazione socialista» che ebbe la sua origine nel non lontano congresso di Reggio Emilia, afferma che la concentrazione allora auspicata non è più il desiderio di una frazione, ma «essa è divenuta il partito», contestata solo da futili sopravvivenze verbalistiche sconfessate in fatto da quei medesimi che a parole si richiamavano ad esse. Se ciò è vero, la prevalenza dell’indirizzo turatiano al congresso dovrebbe potersi prevedere come sicura. Di qui l’importanza del «manifesto» anche fuori del partito, in previsione della partecipazione positiva dei socialisti al governo che Turati, sotto determinate condizioni propugna e invoca. Per questo motivo crediamo opportuno darne qualche cenno. L’utopia rivoluzionaria Lo scritto di Turati e compagni contiene anzitutto una risoluta condanna della tattica utopistica e illusionistica seguita dal socialismo italiano dopo la guerra, mentre, infatuato dalla visione bolscevica russa, s’attendeva da un giorno all’altro il miracolo della rivoluzione. «La utopia di un rovesciamento universale a breve scadenza di tutti i regimi borghesi per edificare sulle loro macerie una nuova economia socialista, la utopia, anche più ingenua, che crede possibile trasportare da uno all’altro clima storico improvvisati istituti socialisti a dispetto del genio e della storia di ogni stirpe e di ogni Nazione, il proposito di servirsi dell’istituto parlamentare e dei municipi conquistati a migliaia come di altrettanti strumenti di pura azione negativa: la concezione miracolistica (neppure tentata di attuare da parte nostra ma sperimentata invece sulle nostre spalle) dell’utilità della violenza come metodo normale di lotta di conquista e l’altra per cui tutte le borghesie e tutte le frazioni borghesi si equivalgono ed ogni Governo borghese è sempre ed ugualmente peggiore, tutto ciò è caduto definitivamente nell’oblio». I contatti con la borghesia Passando oltre, l’on. Turati rileva come la forza attuale delle organizzazioni socialiste e le imperiose esigenze del momento storico che si attraversa impongono necessariamente i contatti con la borghesia e con i governi borghesi, sfatando così la vecchia ipocrisia del socialismo che vuol passare per inavvicinabile a qualsiasi putredine borghese. Scrive Turati: «Collaborazionismo» «Sopravvivono alcuni equivoci più di parole che di fatto e sarà compito del nuovo Congresso di chiarire, sgominare e disperdere. Primo equivoco: il collaborazionismo per il quale, con un processo alle intenzioni che pienamente ripudiamo, si imputano a noi particolari tenerezze e contro il quale, sotto la specie di un rivoluzionarismo che rivela una colossale confusione di idee, si risuscita il cliché di quella evangelica intransigenza tutta negativa e formale che bene si convenne ai gloriosi esordi di un partito timido ancora di possibili confusioni ed assorbimenti a proprio danno, ma contro la cui inanità protestano oggi le cresciute forze tecniche e numeriche delle organizzazioni e del partito e le imperiose esigenze e l’azione quotidiana di quelle e di questo nel momento storico che attraversiamo, perché, non è quando da oltre duemila municipi, da migliaia e migliaia di Cooperative, da forti falangi proletarie minacciate nella vita organizzativa si invoca da noi un’assidua ed energica azione sul Governo e sui partiti borghesi che dia loro modo di difendersi, di vivere, di operare e di prosperare, non è quando si annunzia con voto quasi unanime quella elasticità di manovra parlamentare che consenta di insinuarsi nelle anfrattuosità della compagine capitalistica per crearne frutti sostanziosi di energie proletarie, non è quando si accettano accordi di pacificazione coi violenti forsennati ed i più recisi avversari, non è allora e in tali condivisioni, che si possa senza ipocrisia manifesta proclamare l’ascetismo della castità di fronte ad ogni contatto ed invitare il proletariato, che vuole vivere e progredire, all’astinenza infeconda che ne assistette i primi vagiti. Necessario quindi porre le ideologie del partito in accordo colle realtà inevitabili, quotidianamente accolte e praticate. Nessun altro o maggiore collaborazionismo noi abbiamo invocato». In queste parole l’on. Turati accenna ai contatti «in forma nobile» che il socialismo ha con i governi della borghesia. Per illustrare fino a qual punto questi contatti possano arrivare e dove vada a finire la cosiddetta intransigenza socialista, riportiamo qui sotto le parole dell’on. Baldesi , un altro firmatario del «manifesto», che in forma più brutale esprimono delle cose, che l’on. Flor, con la sua «chiara, sincera e coerente politica» si guarderebbe bene dal confessare in un pubblico comizio. Che razza d’intransigenti! Il Baldesi dopo aver posto la domanda se la collaborazione al governo non sia per i socialisti una necessità, continua: «Per la risposta rivolgersi a quei sindaci che vanno in pellegrinaggio a Roma a chiedere fondi, a domandare che il bilancio sia approvato, a far presenti i bisogni del loro Comune. Domandarlo alle cooperative che fanno consumar le gambe ai deputati per salire e scendere le scale dei Ministeri per il finanziamento, per l’assegnazione del lavoro, per la loro difesa, per la protezione dei loro operai. Domandarlo agli organizzatori, i quali devono sottostare alle più strane – dico strane solo perché fatte da socialisti, da intransigenti, nonché da comunisti – richieste perché ai tali stabilimenti non venga a mancare il lavoro, o perché magari si impedisca la introduzione in Italia della tal altra merce perché una certa categoria non abbia ad essere posta sul lastrico. Ora tutte queste cose – parecchie delle quali oserei dire addirittura antisocialiste – non avverrebbero se il Partito socialista potesse agire con la responsabilità, sì, del potere, ma anche con la libertà di iniziare una politica di realizzazioni che porrebbero la produzione su nuove basi: che potrebbe impedire ai sindaci di correre a piatire protezione, alle cooperative di domandare finanziamenti che non vengano, ed ai Sindacati di non trovarsi nelle condizioni di chi deve bere per non affogare». Edificante, non è vero? Socialisti che invocano il protezionismo doganale alla pari dei… nazionalisti? Le condizioni della collaborazione Ma torniamo a Turati. Egli è, dunque, disposto alla collaborazione, ma solo per il vantaggio del partito, anche se avesse per conseguenza – tanto meglio! – la rovina della borghesia! «Nessuna partecipazione al potere non consentita espressamente in modo e per motivi e fini ben determinati dalla maggioranza del partito e dalle organizzazioni di classe: nessuna partecipazione al potere che ci ponga in dipendenza diretta od indiretta verso i partiti borghesi. Aggiungiamo che se la conquista del potere è la meta necessaria di ogni partito e del proletariato specialmente, come espressione e strumento della sua rivoluzione di classe, mai forse, come in questo momento di crisi economica profonda, il precipitarne l’evento ci appare pieno di pericoli e gravido di spaventose delusioni. Ma poiché i fatti e i fati ben possono improvvisamente travolgere le più pertinaci resistenze, noi invochiamo su questo tema la più ampia ed esauriente discussione del congresso, affinché gli organi direttivi non debbano poi decidere ad arbitrio ed una ferrea precostituita disciplina in questa materia si imponga a tutti ed a ciascuno». In altre parole: Partecipazione al potere, ma quando le circostanze siano favorevoli e quali dominatori. Dovrà costituirsi un governo, nel quale i socialisti abbiano l’assoluta prevalenza. Verso il blocco liberale-socialista? Questi propositi di predominio vengono acconci a gettare un po’ d’acqua fredda sugli ardori della stampa borghese da qualche tempo invocante un governo di sinistra fatto di liberali radicali e di socialisti. È noto come la rappresentanza dei popolari nel ministero sia sopportata con grande stento da certi gruppi liberali che rimproverano al partito popolare di essersi conquistata una posizione privilegiata. L’odio anticlericale ha trovato recentemente nuova esca, in questi rancori e in questi falsi apprezzamenti. Anzi è in corso un tentativo di riunire in un gruppo solo tutti i partiti di sinistra, dalla democrazia socialista ai socialisti riformisti con lo scopo di controbattere il partito popolare e limitarne l’influenza. Tentativo settario e meschino. Il nuovo blocco, per liberarsi dei popolari, dovrebbe poi cercare la collaborazione dei socialisti. Strana aspirazione se si pensa che le recenti elezioni politiche furono volute dai liberali con espliciti intendimenti antisocialisti e con l’illusione di ridurre il partito all’impotenza? Ebbene, le parole di Turati dicono ora a quale prezzo i socialisti potrebbero partecipare alla formazione di un ministero. Essi non si accontenterebbero, come hanno fatto i popolari, di tre portafogli di ministro e di qualche posto di più di sottosegretario. Vorrebbero avere nel governo la prevalenza assoluta, in modo da poter fare una politica socialista, accontentando gli appetiti molteplici delle organizzazioni di partito e facendo gli interessi esclusivi propri: in altri termini sarebbe una collaborazione per lo… sfruttamento della borghesia. Staremo a vedere se l’avversione contro i popolari permetterà ai tipici esponenti dei partiti borghesi di ingoiare rospi di tal genere. Tutto è possibile; e c’è da attendersi anche qualche cosa di peggio. Ma di qui al congresso ne sentiremo delle altre. |
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| I convenuti Come abbiamo già ieri riferito il ministro della guerra S.E. Gasparotto è arrivato a Trento col treno ascendente delle 8.30. Accompagnato dal suo seguito e dall’on. Credaro si recò dapprima alla fossa del Castello, poi visitò le caserme Madruzzo e Perini. Spedì un telegramma alla vedova Battisti dolente ch’ella non fosse in città per portarle personalmente il suo saluto. Verso le 10 al Commissariato generale fu indetta una riunione dei deputati dei rappresentanti della Provincia, della città, della stampa ecc. Oltre al ministro e al commissario generale erano presenti S.E. l’avv. gen. Tomasi, il sen. Zippel, gli on. Degasperi, Tamanini, Carbonari, Groff, il dr. Ferretti per l’amministrazione prov., l’avv. Cappelletti per la Giunta comunale, il dott. Giovanni Viberal per la Concorso forestieri ecc. La riunione fu aperta dall’on. Credaro che a domanda del ministro rileva come la virtù dei nostri contadini fu grande. Essi si adoperarono in ogni guisa per rintegrare nel più breve tempo possibile i loro campi e per ricostituire il patrimonio zootecnico. Si aspettavano i bovini dalla Germania, ma in quest’affare – osserva l’on. Credaro – siamo stati un po’ turbinati. Il trasporto d’un bovino dalla Germania costa in media mille lire. Là fuori sono più disposti a fornire legnami e cavalli. Converrebbe convertire in denaro il bestiame e il legname che dovrebbero fornire in natura. Le provvidenze di assistenza militare reclamate dall’on. Degasperi L’on. Degasperi chiede la parola per rilevare l’assoluta necessità che prima delle legge sugli obblighi militari entrino in vigore nelle nuove provincie tutte le provvidenze di assistenza militare (pensioni invalidi, vedove, genitori e lavoratori militari). In Austria esisteva una legge speciale circa i lavoratori militari. Essi erano veramente inquadrati nell’esercito e dalle compagnie di lavoratori passavano a quelle di combattimento. Essi vanno quindi considerati anche come soldati. È urgente che questa disposizione venga introdotta perché i commissariati civili hanno avuto l’ordine di sospendere le pensioni a queste categorie di invalidi, ciò che naturalmente ha provocato dei lagni. La soluzione di questi due problemi nel senso da lui accennato è urgente, perché il giorno in cui si introdurrà il servizio militare si sappia anche che i cittadini delle nuove provincie sono pareggiati anche nelle previdenze a quelli delle vecchie. I depositi di munizioni Il ministro risponde all’on. Degasperi che non mancherà di informare il presidente del Consiglio e il ministro del Tesoro. Continuando espone che è venuto qui anzitutto per verificare i depositi di munizioni, problema gravissimo di somma importanza. Vinta la guerra, l’Italia si è trovata in possesso di un’enorme bottino di guerra superiore ai propri approvvigionamenti bellici ciò che dimostra il grande sforzo fatto colla vittoria dopo Caporetto. Furono migliaia di cannoni, di bombarde, di cartucce costituenti circa 1200 depositi dei quali solo una parte è stata sgombrata. La popolazione vive in fermento per questi depositi il trasporto dei quali richiede gravissime spese. Il trasporto di uno solo si aggira sui tre milioni di lire. Di fronte alla gravità del problema si è trovata la soluzione dello scaricamento dei proiettili sul posto adoperando per l’agricoltura le materie fertilizzanti ricavate consegnando i rottami all’industria del ferro e usufruendo di quanto è possibile per la dotazione normale dell’esercito. Da un mese si attende a questo lavoro ed è appunto venuto per informarsi sui risultati. Smobilitati gli uomini bisogna smobilitare anche il materiale per ritornare alla normalità. Altro scopo della sua visita si è la ispezione delle caserme, vedere quali si possono tenere e quali abbandonare. Ma oltre e per questi due oggetti di stragrande importanza è venuto qui in pieno accordo col Consiglio dei Ministri allo scopo di venir a contatto coi rappresentanti della popolazione delle nuove provincie ed udire i loro desideri prima che si proceda all’applicazione della legge sul reclutamento, udire qualche suggerimento, qualche desiderio, perché l’Italia intende di continuare e provare che essa è animata dalle migliori disposizioni in volontà verso le nuove provincie. Noi vogliamo udire le nuove popolazioni: non vogliamo far esperimenti sui fratelli senza averli uditi. Osserva che una discussione sul servizio militare nelle nuove provincie non era possibile finché alla Camera non erano rappresentate. La leva Per questo fatto si ebbero vivaci censure nel Regno interpretandolo come una menomazione della forza e della dignità dello Stato. «Io risposi: L’attesa è perfettamente logica. Prima si applichi la legge fondamentale dei diritti civili. Solo dopo l’entrata in Parlamento dei rappresentanti delle nuove provincie si poteva parlare di obblighi». Qui il ministro rileva che mai una deputazione di nuova nomina si è così ben affermata come quella delle Nuove Provincie. Ricorda poi le conferenze avute a Roma coi nostri deputati e successivamente con quegli altoatesini. Osserva poi che la legge italiana è notevolmente più favorevole di quella austriaca e fa quindi un raffronto fra le due legislazioni. Secondo la legislazione austriaca, quando il giovane raggiunge il 18.o anno d’età seguiva la sua elencazione da parte dei tenitori della matricola e l’insinuazione, si compilavano gli elenchi e le liste di leva da parte dei capocomuni; seguiva la verifica da parte delle autorità distrettuali e la pubblicazione delle liste. In quella italiana segue l’iscrizione d’ufficio da parte dei sindaci e capocomuni e l’invito ai giovani di farsi inscrivere sulle liste. Gli altri atti preparatori sono eguali. In Austria nel 21.o anno seguiva la presentazione alle commissioni di leva; in Italia alla fine del 19.o anno o durante il 20.o anno avviene pure la presentazione alle commissioni mobili od al consiglio di leva. In Austria la commissione di leva era ambulante. Essa si componeva di 6 membri: capo dell’autorità politica distrettuale o suo sostituto, 2 ufficiali per l’esercito comune o due ufficiali per la milizia territoriale, un medico militare, un impiegato ed un medico distrettuale o civico (consultivi). In Italia la commissione mobile ha invece prevalenza dell’elemento civile. Essa si compone di soli tre membri: rappresentante dell’autorità politica distrettuale, un ufficiale, un consigliere provinciale o dietale o persona proba. Con voto consultivo un medico militare. Le modalità La commissione stabile di leva già esistente in Austria aveva sede in ciascun comando distrettuale ed era composta come quella ambulante. In Italia invece il consiglio di leva ha sede in ogni capoluogo di circondario o distretto ed anche si compone prevalentemente di elemento civile (rappresentante dell’autorità politica, due ufficiali, due consiglieri provinciali o dietali e con voto consultivo il medico militare). Esisteva poi la commissione di revisione per inscritti per i quali risultarono alla leva disparità di opinioni o fino al 36.o anno inabili per i quali si nutra sospetto di frode. In Italia invece nessuna commissione speciale, ma solo facoltà da parte del Ministero di far sottoporre a visita gli inabili entro due anni dall’ottenuta riforma; senza limite di tempo in caso di frode. Col 21.o anno cominciava la prestazione del servizio militare in Austria ed in Italia con 20.o.-21.o anno. Appunto nelle nuove provincie si vuol introdurre anzitutto le commissioni mobili di leva nella speranza che abbiano buon esito e possano essere estese poi a tutta l’Italia. Il ministro fa particolarmente rilevare la riduzione del numero dei membri delle commissioni e come in esse prevalga l’elemento borghese, e in quanto riguarda l’obbligo di servizio militare fa presente che la legislazione italiana è molto più favorevole di quella austriaca. Secondo questa l’obbligo militare durava dai 21 ai 42 anni, non solo per idonei, ma anche per i non idonei. Invece secondo la legge italiana l’obbligo va dal 20.o o 21.o anno fino al 39.o anno d’età e solo per gli idonei. Secondo la legge austriaca la ferma era di tre anni, secondo la legge italiana la ferma non è ancora ben decisa, ma la durata della ferma verrà stabilita quanto prima dal Parlamento. Secondo un ordinamento provvisorio dell’aprile 1920 la stessa dovrebbe essere di 8 mesi; questa durata sarà troppo breve, ma sarà portata, in base al nuovo ordinamento, a 12, 14 od al massimo 16 mesi. Probabilmente ci si fermerà sui 12 o 14 mesi, dunque la ferma italiana sarà ridotta ad un terzo di quella austriaca. I vantaggi della ferma italiana Il ministro enumera poi parecchi altri vantaggi offerti dalla legislazione miliare italiana così per i ritardi nella presentazione, per la ferma ridotta. Secondo la legge austriaca solo quegli emigrati oltre l’Oceano potevano fruire della visita presso i Consolati, invece secondo quella italiana ammette la visita presso qualunque consolato all’estero. Chiuse assicurando che le giovani reclute troveranno negli ufficiali e nei loro compagni di arme una vera affettuosa famiglia. S. E., l’avv. gen. Tomasi inneggia al patriottismo delle nuove provincie ed esalta le virtù del soldato italiano; assicura che i giovani delle provincie redente constateranno subito quale enorme differenza di trattamento esista fra l’esercito austriaco e quello italiano, come in questo essi siano trattati dai superiori come veri figli, come fratelli dai camerati. Appunti e richieste dei popolari L’on. Degasperi vorrebbe precisare il significato della visita del ministro, affinché non nascano equivoci. Il ministro ci ha annunziato la decisione del Governo di estendere la legge militare italiana coll’ordinamento provvisorio dell’esercito alle Nuove Provincie e comunicandoci previamente questa decisione per atto di deferenza, ci ha invitato ad esprimere i nostri desideri in merito ai modi dell’attuazione della legge. Premesso questo cioè che qui è esclusa una discussione sull’applicabilità o meno della legge, egli deve rilevare che migliore impressione avrebbe il fatto se questa legge fosse stata preceduta dal coordinamento generale delle due legislazioni e in special modo dal promesso e non ancora attuato riassetto della nostra amministrazione in senso democratico e autonomistico. Coglie quindi l’occasione per pregare il ministro a voler urgere presso il presidente del Consiglio l’emanazione dei provvedimenti di carattere istituzionale e quelli per l’aumento del bilancio dei lavori pubblici. Richiamandosi per la questione principale alle dichiarazioni fatte già nella conferenza di Roma l’on. Degasperi, a nome dei colleghi, prende a grata notizia l’impegno di S.E. di voler dare istruzioni perché si facciano le più larghe concessioni del servizio ridotto specie agli abitanti della zona devastata. Gli on. Carbonari e Tamanini danno particolare rilievo a quest’ultimo punto. L’on. Degasperi, continuando, insiste sull’assoluta parità di trattamento che dev’essere fatta agli abitanti di tutta la regione, senza distinzione di nazionalità, al qual principio il ministro assente senz’altro. Il sen. Zippel si associa alle parole dell’on. Degasperi e ringrazia il ministro per la sua visita e per il suo interessamento delle cose nostre. Porge il saluto cordiale e deferente di Trento. In attesa di altri ministri S. E. Gasparotto ringrazia; crede che la sua visita non sia che l’inizio di quelle di altri ministri che verranno ad informarsi esattamente della regione. Questo popolo che ha sempre avuto fede nell’Italia merita di essere trattato colla maggiore confidenza. Qui verranno i ministri a trarre dagli ordinamenti amministrativi qualche norma per rispettarla ed esperimentarla altrove. L’on. Tamanini ricorda al ministro i metodi usati nel ricupero dei materiali residuati, metodi che diedero luogo a critiche e a malumori da parte della popolazione della zona nera che si vide asportato senza motivo specialmente le teleferiche e i tubi per gli acquedotti. Ricorda ancora l’iniziato inconsulto abbattimento dei forti e accenna alla necessità della manutenzione di molte strade militari che possono tornare molto utili al commercio e al turismo. Credaro, notando che c’è una autorità sola, raccomanda che il militare metta a disposizione quanto possiede senza bisogno di lotte che furono già causa di dolori e di disillusioni. Il ministro risponde all’on. Tamanini che non mancherà di informarsi e di prendere disposizioni. Quanto alle costruzioni militari che si desidera siano conservate, gli siano segnalate. Per la manutenzione delle strade militari necessarie e per il commercio e per il turismo è sua intenzione di affidarle ad un consorzio del quale facciano parte le autorità comunali, provinciali e il Touring Club. Dopo altre raccomandazioni del sen. Zippel – notevole quella dei due casermoni sul Bondone per la cura climatica dei nostri bimbi – la importante riunione si chiude. Al tocco gli intervenuti alla riunione si raccolgono a banchetto che viene servito nella sala dei ricevimenti al I piano dell’Hotel Trento. Pronunciarono brevissimi brindisi l’on. Credaro, S. E. Gasparotto e il sen. Zippel. Alle 15 il ministro della guerra, ossequiato dalle autorità, accompagnato dal suo seguito e dall’on. Credaro, lasciava Trento diretto a Bolzano. Durante la sua permanenza nell’Alto Adige visiterà la Chiusa di Bressanone – notiamo che per i danneggiati dal nubifragio ha offerto 2000 lire – e l’accampamento di Sulden. |
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| Vi abbiamo accennato fugacemente lunedì scorso in una nota che ci era dettata dal cuore al primo giungere delle notizie sui divieti polizieschi imposti al pacifico corteo della Gioventù cattolica celebrante il suo cinquantenario; lo ripetiamo oggi a miglior agio, dopo che i nuovi particolari sui fatti di Roma han permesso di apprezzare a pieno la enormità mostruosa dei divieti stessi: è necessario che i cattolici italiani, come cittadini pieni e legittimi, conquistino a se stessi quel riconoscimento di assoluta libertà ed eguaglianza civile che la lettera della legge intende assicurare a tutti gli italiani. Poiché i fatti di Roma, non molto gravi in se stessi quantunque settariamente deformati dalla solita stampa liberale, ma dolorosissimi in quanto offendono un principio sacrosanto che tutti dovrebbero rispettare, hanno dimostrato ancora una volta che a danno dei cittadini cattolici tanto i faziosi delle consorterie anticlericali quanto gli organi autorizzati dal governo credono di potersi permettere delle prepotenze e degli arbitrii che in ogni altro caso susciterebbero l’indignazione generale. Facciamo qualche raffronto. L’anno scorso, per la festa cinquantenaria del 20 settembre, centinaia e centinaia di labari massonici percorsero le vie centrali di Roma: i labari stessi, le loro scritte, le grida che li accompagnavano erano provocazione aperta ai sentimenti dei cattolici, alla Chiesa, alla maggioranza degli italiani. Eppure nessuna autorità si sognò di proibire quel corteo provocatorio né di restringere la manifestazione entro una cerchia determinata. Più tardi fiorirono e si moltiplicarono le manifestazioni dei fascisti, dei nazionalisti, dei repubblicani. Si urlarono le cose più atroci contro classi rispettabilissime di cittadini, contro istituzioni consacrate dalla sovranità popolare. Ma nessuno volle vedervi una provocazione, né alcuna autorità governativa intervenne a porre dei limiti o a frenare gli eccessi. Anche domenica scorsa a Forlì una grandiosa dimostrazione di repubblicani, frammista di insegne e bandiere massoniche, poté svolgersi senza alcuna molestia, quantunque essa dovesse apparire come un atto provocatorio per l’enorme maggioranza del popolo di sentimenti monarchici. Ma in Italia massoni, fascisti, repubblicani e talvolta anche anarchici hanno piena libertà e trovano la piena protezione del monarchico governo. Ben diversa è la situazione dei cattolici. Diciamo cattolici in quanto essi compiono non una manifestazione politica, ma un atto esteriore di fede religiosa. Ad essi si proibisce il suono delle musiche, il canto degli inni, lo sventolio delle bianche bandiere. Ad essi si proibisce di celebrare la Messa nel Colosseo, monumento sanguinoso di fede cristianamente eroica, santificato dal sacrificio di migliaia di martiri. Ed ad avvalorare il divieto si lanciano addosso ai giovani, armati solo del rosario e del loro entusiasmo, le torme incomposte e bestemmianti delle guardie regie e si sfrenano le cariche brutali della cavalleria. Il pretesto al divieto? La minaccia di pochi faziosi di inscenare delle dimostrazioni anticlericali e di creare disordini! Ma bastano dunque pochi fanatici, pochi agenti provocatori forse prezzolati dalle segrete conventicole in cui si fucinano i movimenti anticlericali, a privare migliaia e migliaia di cittadini dei loro inviolabili diritti? E l’autorità che è chiamata a tutelare la sicurezza e la libertà legittima dei cittadini dovrà mettersi contro i cittadini stessi per assecondare le losche mire dei violenti e dei prepotenti? Qui sta la colpa del Governo e dei suoi organi esecutivi: nell’aver prestato, con partigianeria evidente, mano forte ai perturbatori contro i perturbati, nell’aver favorito i faziosi contro i rispettosi della legge. Ma la cosa, per quanto enorme, si spiega. La vecchia psicologia settaria, che considerava i cattolici come cittadini di qualità inferiore, come gente che si può percuotere perché non sa reagire, è ancora profondamente radicata nelle masse borghesi e nelle sfere giornalistiche. Perfino gli organi del governo ne sono compenetrati e pervasi. E il tenace odio anticlericale vive ancora e semina diffidenze e insidie contro ogni atto dei cattolici: tanto che si lacerarono le bandiere tricolori moventi all’Altare della patria e si fischiò l’inno di Mameli che i giovani cattolici cantavano. E accanto all’odio c’è la speculazione politica, il desiderio di creare imbarazzo al partito popolare e di provocare una crisi di ministero. Aspirazioni che gli onesti Jaghi del giornalismo non pensano nemmeno a nascondere. Orbene, di fronte a questo stato di cose, se i cattolici vogliono poter fruire indisturbati delle libertà civili, senza limitazioni e senza violenze, non hanno altro mezzo che l’organizzazione sempre più salda e la rivendicazione sempre più fiera del proprio valore e del proprio diritto. Dovranno lottare e battagliare. Ma finiranno per vincere la resistenza che il massonismo prepotente e finora privilegiato si ostina ancora ad opporre. E, in questo senso, non è senza un profondo valore il fatto che il rapido e vigoroso intervento del partito popolare e dei suoi deputati poté, all’ultimo momento, ottenere ai giovani cattolici la libertà di muovere al monumento a Vittorio Emanuele in solenne corteo, attenuando così la disastrosa impressione degli incomprensibili divieti anteriori. |
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| 41921-1925
| Agli studenti cattolici, che domani si adunano a Rovereto, per l’annuale congresso, porgiamo il nostro saluto. Non è il saluto di prammatica, di convenienza: è il saluto del cuore, e risponde a un’affermazione e a un voto. Questa balda gioventù, che sente nello spirito l’armonia della fede e della scienza, non è un manipolo di gente che mira a scostarsi dalla massa del nostro popolo credente e lavoratore, per brillare in un isolamento superbo per quanto vano. Essa invece, ha chiara la coscienza del compito che le spetta, domani, nella vita turbinosa della società, di guida e di ausilio – non nel solo campo culturale, ma anche in quello, più vasto, morale ed economico – alle fiorenti e validissime energie di un paese fiero della sua fede, delle sue tradizioni, delle sue attività, fiducioso nel suo avvenire. E questo, certamente, affermerà il congresso di domani. Per il quale, oltre all’augurio che riesca pari, se non superiore, ai congressi precedenti, formuliamo il voto che inizi, in questo dopoguerra, una fervida intelligente ripresa di azione, che sia per durare instancabile, associata a quella di tutta la gioventù cattolica e a quella della stragrande maggioranza del Trentino, che, ne siamo certi, domani accompagnerà in ispirito, con profonda simpatia, i nostri accademici. |
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| 41921-1925
| Il giorno 20 e seguenti avrà luogo dunque a Venezia il congresso nazionale del Partito popolare italiano. Gli argomenti generali che vi verranno trattati destano il massimo interesse. Specie la discussione sul collaborazionismo coi socialisti e l’ordine del giorno sul decentramento regionale provocheranno un ampio e fecondo dibattito. Il congresso sarà certo uno dei più vivaci e istruttivi. Oltre a ciò una giornata del congresso verrà dedicata a tre sezioni speciali. Una di queste sarà la sezione delle terre liberate e redente. È la prima volta che le tre Venezie si raccolgono in una comune adunanza per discutere i propri interessi e farli valere poi in seno ad un’assemblea nazionale. Si tratterà qui in particolare della ricostruzione, dei danni di guerra, della disoccupazione. Ma è anche la prima volta che si raccolgono in un convegno numeroso i delegati delle nuove provincie, di Gorizia, di Trento, di Trieste. L’on. Degasperi, per incarico della Direzione centrale, ha convocato a Venezia giovedì prossimo una riunione ristretta onde fissare definitivamente gli argomenti che verranno messi in discussione. Sarà questa l’occasione di dar rilievo ai nostri problemi istituzionali e finanziari e di guadagnarvi l’interessamento di una parte notevole dell’opinione pubblica italiana. Questo procedere a ondate in mezzo all’alta marea della politica nazionale potrà sembrare a taluno un metodo rischioso, incerto e poco redditizio, ma secondo il nostro parere, in uno Stato democraticamente tumultuario – com’è il nostro – almeno nel turbolento periodo che attraversiamo, non c’è altra via che conduca a buon porto. Ragionavamo recentemente con un rappresentante dell’Alsazia-Lorena sulla stessa materia, ed egli si lagnava amaramente dell’isolamento in cui si trova la deputazione delle nuove provincie francesi. È una disgrazia, diceva, che a Parigi non esista un partito popolare organizzato, come il vostro, che possa far suoi i nostri postulati regionali. Isolata e localizzata, la nostra politica assume in Parlamento una caratteristica antipatica, che per quanto in realtà sia solo reazione all’accentramento, viene tuttavia sfruttata come opposizione alla patria francese. Di qui l’enorme difficoltà di mantenere o far passare delle istituzioni speciali e regionali. Noi siamo in una situazione più favorevole. Vediamo di sfruttarla. Approfittiamo di ogni occasione per risvegliare intorno ai nostri problemi l’interessamento dei rappresentanti nazionali e dei partiti politici. A Venezia finalmente sentiremo anche la voce degli adriatici. Le risoluzioni saranno comuni, preludiando, speriamo, ad una intesa fattiva coi rappresentanti della Venezia Giulia, anche in Parlamento. Una doppia ragione ci spinge quindi ad insistere presso i nostri amici affinché facciano il sacrificio di convenire numerosi a Venezia. Sappiamo le difficoltà finanziarie, ma le sezioni devono intervenire col loro aiuto ed anche le associazioni cooperative locali dovrebbero contribuire generosamente alle spese di rappresentanza. Avanti, con slancio, le sezioni trentine devono farsi onore! |
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| 41921-1925
| Il nostro viaggio in Germania fu un viaggio di studio, riguardante più gli uomini che le cose, più lo spirito animatore delle istituzioni che le istituzioni stesse. Dire che siamo partiti «alla scoperta della Germania» come ha scritto qualche malevolo collega della stampa, è attribuirci un’ingenuità che non abbiamo a supporre in noi, un’ignoranza dei dati di fatto che non occorre smentire . La nostra indagine Ma della nuova Germania non basta conoscere il testo della costituzione di Weimar e seguire, sia pure colla massima attenzione, i dibattiti della stampa del Parlamento e delle Diete. Bisogna vedere dappresso come funzioni il meccanismo del Reich e degli stati, ancora semifederati e pur semicentralizzati, udire dalla viva voce dei reggitori quali siano i risultati di questo periodo di trasformazione, controllare da vicino la dinamica politico-sociale delle istituzioni e degli spiriti. C’interessava sopratutto di constatare a quale punto fosse arrivata entro il partito a noi affine, quello del vecchio Centro , la collaborazione alla ricostruzione postrivoluzionaria e da qual punto incominciasse invece l’adattamento più o meno volontario. Infine quali esperienze avevano raccolte i nostri amici nel periodo rivoluzionario e quali ammaestramenti ne potevamo dedurre noi stessi. Qual’è la parte nuova, che dopo il cozzo della rivoluzione, i rappresentanti politici dei cattolici tedeschi riconoscono ormai come acquisita? Solo dopo queste pregiudiziali era logico passare ad una domanda, che altrimenti non avrebbe potuto avere che una risposta formale: Esiste nella mentalità della Germania nuova, e in quale misura, un elemento universalistico il quale renda attuabile e desiderabile quell’intesa internazionale popolare che il Partito popolare italiano cerca di raggiungere? Il campo dell’indagine Ecco le questioni che noi abbiamo poste e dibattute in vivo contraddittorio a Monaco in una riunione coi capi del Partito popolare bavarese, e cogli uomini direttivi del movimento cattolico, quali Speck , ex ministro delle Finanze, i deputati Scharnagl e Walterbach , gli organizzatori Pfeiffer, Brehm e Slittenbauer, i letterati Grauert , presidente della Görres e Carlo Muth , direttore dell’Hochland e in fine le direttrici del movimento femminile, sociale e politico, comprese le deputatesse al Reichstag e al Landtag; a Ratisbona in un incontro col noto capo dei contadini Dr. Heim e con i suoi collaboratori, a Berlino in conversazione col cancelliere Wirth , col ministro Giesberts , e in un’ampia discussione nella sede del ministero prussiano col presidente Stegerwald , circondato dai rappresentanti di parecchi ministeri e dai direttori di tutti i sindacati cristiani, a Berlino, ancora in due altre sedute, convocata l’una nella sede della Charitas, l’altra al Segretariato del Centro, sotto la presidenza del vecchio Spahn ; a Duisburg in un incontro col ministro del lavoro Brauns , a Essen nella sede delle cooperative operaie e in un comizio di 400 delegati dei sindacati dei minatori e dei metallurgici; a München-Gladbach, sede famosa del Volksverein , in un colloquio con Pieper e coi suoi collaboratori, infine a Colonia discutendo con Bachem e i suoi amici, cogli organizzatori dei contadini, coi rappresentanti politici e amministrativi della Renania, coi redattori della Kölnische Volkszeitung e coi direttori della confederazione generale dei sindacati. Presso tutti questi uomini abbiamo fatto un lavoro d’indagine insistente, fino talvolta ad apparire importuni; e sono questi i colloqui sui quali si basano i risultati della nostra inchiesta. In margine, accanto al filone centrale della nostra esplorazione, conversando col Nunzio e con illustri rappresentanti dell’episcopato, quali l’arcivescovo di Monaco e di Colonia e il vescovo di Ratisbona, con capi socialisti, come il Breitscheid , duce degl’indipendenti, coi diplomatici italiani a Berlino e a Colmar, con gli uomini più rappresentativi dell’industria, quali i direttori della Siemens a Berlino, Augusto Thiessen e i suoi ingegneri a Duisburg, i direttori di Krupp a Essen, o discutendo coi governatori locali della Renania e dei territori occupati, e col conte Lerchenfeld , chiamato poi durante il nostro viaggio, a presiedere il ministero bavarese, abbiamo avuto campo di raccogliere impressioni non fuggevoli sullo stato delle questioni ecclesiastiche e religiose dopo la rivoluzione, sulla situazione finanziaria, economica ed agricola in rapporto alle sanzioni, sugli effetti e sul valore dell’occupazione renana. Ma lasciando ad altro momento o ad altri compagni di viaggio più competenti di me, di valorizzare per il pubblico o per il partito tali informazioni su di un terreno che, in rapporto allo scopo della nostra inchiesta, deve apparire secondario, tenterò brevemente di dare qui quelle che mi sembrano le conclusioni definitive della nostra indagine principale. IL PENSIERO SOCIALE DEI CATTOLICI TEDESCHI DOPO LA GUERRA Stegerwald ci diceva che proprio in questi giorni i sindacati cristiani stavano rivedendo il loro programma e tentando di formulare in una sintesi chiara e precisa i punti di contatto e di differenza coi socialisti innanzi ai problemi sollevati dalla rivoluzione. In attesa di quest’esposizione dottrinale che riuscirà senza dubbio oltremodo interessante, mi pare che il pensiero sociale dei cattolici tedeschi possa venire dedotto dall’atteggiamento da loro assunto rispetto al problema della socializzazione, dei consigli d’azienda e del parlamento economico. Un fatto è anzitutto interessante: ministro del Lavoro nel gabinetto di coalizione è un deputato del Centro, il Brauns, un sacerdote della scuola di München-Gladbach. È avvenuto dunque che nel momento in cui la politica sociale della Germania si volse, sotto pressione dei socialisti, verso sinistra, il ministero del lavoro potesse essere tenuto da un deputato cattolico, il quale si trovava per l’opera sua e per la sua dottrina tanto a sinistra da poter rappresentare ed attuare un programma di riforme, propugnato anche dai socialisti maggioritari e tollerato dagl’indipendenti. I consigli d’azienda Brauns è uno degli autori della legge sui consigli d’azienda. La legge fondamentale votata dalla assemblea nazionale prevede la costituzione dei consigli locali, distrettuali, regionali e di un consiglio centrale, chiamato anche parlamento economico. Accanto a questi erano previsti i consigli d’azienda. Ma la legge fondamentale enuncia solo i principi, rimettendosi a leggi speciali che avrebbero dovuto poi definire in concreto l’organismo e le sue funzioni. La legge sui consigli distrettuali e regionali è ancora in elaborazione. Non esiste finora che un consiglio economico centrale, i cui membri sono dalle organizzazioni proposti alla nomina da parte di una commissione parlamentare. Questo parlamento economico provvisorio ha solo poteri consultivi. Il Reichstag ha invece votata la legge speciale per la costituzione dei consigli d’azienda. Se n’è scritto molto ai tempi del progetto Giolitti, e quindi ne suppongo noti i termini principali. In ogni azienda con almeno 20 operai si elegge col sistema proporzionale il consiglio d’azienda che per 20 fino a 50 operai è composto di 3 membri, di 5 per 50 fino a 100, di 6 per 100 fino a 200 e così via fino a un numero massimo di 30. Gli scopi sociali dei consigli li fanno assomigliare alle nostre commissioni interne o ai comitati operai ch’esistevano in Germania anche prima della guerra e che in ogni caso preesistevano alla rivoluzione, giacché erano stati obbligatoriamente introdotti dalla legge Hindenburg sul lavoro di guerra (Hilfsdienstgesetz). Ma gli scopi economici sono nuovi. L’art. 66 della legge dice in generale che è compito dei consigli di aiutare i direttori dell’azienda ad aumentare la produttività dell’impresa, a cooperare all’introduzione di nuovi metodi di lavoro e a comporre conflitti, ma l’art. 70 stabilisce che nelle imprese dove esista un consiglio di sorveglianza (Consiglio d’amministrazione) abbiano seggio e voto uno o due membri del consiglio d’azienda. Inoltre l’art. 72 prescrive che aziende con più di 300 operai debbano, cominciando col 1° gennaio 1921, presentare ai consigli i bilanci d’esercizio e il conto profitti e perdite. Furono questi due articoli i più contrastati della legge. Brauns e i suoi amici diedero il tracollo in favore dell’accettazione. Non avete avuto scrupoli, abbiamo chiesto? Certamente, ci hanno risposto. Le difficoltà che vi vanno congiunte, non ci sono sfuggite. Bisogna che gli operai imparino a collaborare coi direttori. Imparare a nuotare È difficile, ma se non ci si getta in acqua, non s’impara a nuotare. Nessuno ha saputo però dirci i risultati dell’esperimento. Per una ragione molto semplice: non è ancora fatto. Gli art. 70 e 72 prevedono infatti che il regolamento per l’attuazione di tali principi verrà fissato in apposite leggi. Queste apposite leggi sono pronte nei disegni di Brauns che le ha fatte passare nel parlamento economico, ma che arriveranno al Reichstag appena quest’autunno. Cosicché i consigli d’azienda finora sono commissioni interne che gl’industriali trovano spesso utili e tollerabili sempre. Ma degli art. 70 e 72 essi si preoccupano assai, quantunque finora nei consigli gli operai abbiano eletti elementi temperati e quantunque il timore del peggio, di un ritorno cioè dei consigli comunisti, i quali portarono durante i disordini rivoluzionari l’anarchia nelle fabbriche, dissuada i direttori e i proprietari dall’opporre una resistenza risoluta. Brauns e i suoi amici sono invece ottimisti. Buttarsi in acqua per imparare a nuotare è l’espressione più comune della visione ottimista. Strano invece che non ci tengano affatto al partecipazionismo. Quando nella riunione presso Stegerwald abbiamo esposto in tal riguardo il nostro programma, il giornale di Stegerwald ne riferiva il giorno dopo come di una novità interessante! Bisogna avvertire però che la vita industriale germanica, al di fuori della legislazione dei consigli offre delle esperienze notevoli per la possibilità di cooperazione fra lavoratori e industriali. Le comunanze di lavoro (Arbeitsgemeinschaft) sorte liberamente in certi rami dell’industria e che hanno già trasformato la monarchia assoluta di qualche impresa in monarchia costituzionale, la lega economica siderurgica (Eisenwirtschaftsbund) composta per metà di operai e per metà degli industriali, la quale stabilisce il prezzo dei prodotti, il sindacato del carbone, ove risiedono anche fiduciari dei minatori, il consiglio d’esportazione presso il ministero degli Esteri, nel quale gli operai occupano la metà dei seggi, sono esperimenti riusciti di un collaborazionismo che i nostri amici ritengono destinato alla vittoria. La socializzazione Per questo accettano in via di massima anche la socializzazione. Essi hanno votato non solo l’articolo fondamentale della costituzione che riconosce allo Stato il diritto di socializzare, verso rifusione dell’equo prezzo, quelle imprese «che sono mature all’economia associata», ma anche le uniche due leggi speciali che si son fatte per lo smercio (non la produzione) del carbone e del potassio. Le industrie monopolistiche devono passare alla comunità; allo Stato si preferisce il Comune, al Comune il consorzio cooperativo dei lavoratori. La proprietà è legittima solo in rapporto alla sua funzione sociale. La «meccanizzazione» centralistica dell’economia socialista viene respinta e vi viene invece sostituita la ricostituzione organica dei fattori della produzione. Al socialismo si oppone il solidarismo, parola già coniata dal Pesch , ma che in Germania nel dopoguerra, diventerà di moda. Per i solidaristi la socializzazione non è che «la continuazione della vecchia politica sociale del Centro con altri mezzi». Il solidarismo Si noti come in questo concetto solidaristico si sia trovato modo di far entrare anche il sentimento nazionale. La proprietà privata in senso assoluto è voluta dal diritto romano; il diritto cristiano-germanico tende invece al compromesso fra proprietà personale e bene pubblico. Quando è scoppiata la rivoluzione, i solidaristi hanno detto: socializzazione, sta bene, ma non secondo il concetto dei bolscevichi stranieri, ma risalendo alle nostre tradizioni germaniche. Perciò l’organo politico dei sindacati cristiani, fondato da Stegerwald nel momento in cui essi vanno al potere, si chiamerà «Der Deutsche». Molto strano è parso a noi che tali concetti non si siano fatti valere anche nell’agricoltura. Le leggi agrarie della nuova Germania non sono che leggi per la parcellazione e la colonizzazione interna, a lunga scadenza. Il lodo di Cremona, ricordato in una delle nostre discussioni, ha destato la più grande curiosità. A tale assenza contribuirono due condizioni di fatto: la prima che il grande possesso si trova in buona parte nelle regioni protestanti, la seconda che in Germania la fame della terra non esiste, mentre è grande invece la mancanza di mano d’opera, giacché i tedeschi preferiscono le industrie e lasciano l’agricoltura in mano ai braccianti polacchi o ruteni che vi emigrano per la stagione. Ma ciononostante, la questione agraria rimane un punto debole per i nostri amici. L’organizzazione sindacale socialista minaccia su tale terreno di sopraffare completamente quella cristiana, la quale ha bensì fortissime leghe di contadini, ma queste sono leghe di piccoli proprietari, non organizzazioni sindacali di braccianti. Alcide Degasperi. |
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| 41921-1925
| In apparenza, le cose non mutano col mutare dei tempi. Tutta Trento è rivestita di verzura e di damaschi; e via Belenzani sarà tutta una magnifica galleria trionfale . Ma frammezzo ai festoni d’alloro, proprio nel punto più centrale del ricevimento, quasi di rimpetto al municipio, si riaffacciano con impronte più vivaci, dopo i lavacri di questa vigilia, i freschi del palazzo Geremia che ritraggono «le scene dell’ingressi trionfali, a trombe squillanti, con bandiere al vento, tappeti alle finestre e archi di verzura, che via Larga vide con tanta frequenza a traverso i secoli, al passaggio di ogni imperatore e principe». La pittura ricorda forse in particolare l’ingresso di Massimiliano nel 1508 ed è quindi vecchia di parecchi secoli . Non v’ha dubbio però ch’essa potrebbe raffigurare anche molti altri spettacoli simili dei secoli posteriori, fino ai nostri tempi. Onde pensiamo che qualche scettico o qualche arrabbiato repubblicano, che per spartana convinzione o per spirito ribelle siasi condannato – come suona l’appello socialista – all’astensione e al silenzio, perambulando per quella che fu detta una volta via Larga, sosti volentieri innanzi a codesta ancora vivida testimonianza del passato e assapori nel contrasto quella ch’egli chiamerà l’ironia della storia. Gli anni passano, i secoli si succedono, la tirannia cambia aspetto ma non muta sostanza, come non si sradica il servilismo delle folle. Indietro, indietro, nell’ombra dei tempi i consoli e gl’imperatori romani, poi la lunga teoria degl’imperatori e dei re calati in Italia per il cunicolo dell’Adige, fino agli ultimi Absburgo. La scena si ripete, si copia di cinquant’anni in cinquant’anni. Si ripeterà anche oggi, si ripeterà sempre – concluderà in cuor suo o griderà forte in qualche convegno il prefato scettico o il prefato ribelle – fino a tanto che non sarà venuta l’ora dell’eguaglianza e dell’emancipazione socialista. A quest’uomo molte apparenze sembrano dare ragione, ma la sostanza gliela nega. C’è tra la festa di oggi e quella dei tempi passati una differenza essenziale, ed è questa: che oggi le accoglienze vengono fatte dal popolo trentino, da tutto il popolo, senza distinzione di classi, e da un popolo politicamente istruito e pienamente libero. Nell’età più remote andarono incontro ai re i guerrieri e i sacerdoti; più tardi, i nobili e i feudatari. Fuori di loro la plebe, che non fosse compra, guardava a quest’ingressi trionfali con lo stupore e coll’ingenuità dei fanciulli. Così passarono per Trento i Cesari, gli Ottone, i Federico, i Rodolfo, i Massimiliano, i Francesco e i Ferdinando. Così vennero e passarono anche gli ultimi Absburgo. Inutile ricercare nei verbali e nelle cronache testimonianze di spontanee accoglienze. Leggerete i discorsetti dei podestà, dei vescovi o di altri rappresentanti, e sentirete ancora la pena che traspare da quelle formule fredde e forzate. Ebbene, oggi noi siamo liberi, completamente liberi. Liberi di seguire l’appello dei socialisti e ritrarci in silenzio; liberi di appartarci sdegnosamente in un rimpianto nostalgico del passato, come farà taluno a nord di Salorno; liberi insomma di dare manifestazione corretta, ma sincera al nostro pensiero. Contro questa libertà non s’innalzerà alcuna forca, non si ordiranno processi d’alto tradimento. Anzi nella nostra patria accade spesso che la devozione al re e l’attaccamento alle istituzioni rappresentino, in confronto di un governo debole, più un imbarazzo che una raccomandazione. Ebbene, è questa libertà che darà oggi un carattere storicamente nuovo al ricevimento di Trento. Già nella vigilia, in queste gioiose e fervide fatiche per farsi bella, Trento ha rivelato i palpiti del suo cuore; oggi fra il giubilo e le acclamazioni, Trento donerà il cuore al suo re. Ecco la differenza sostanziale, ecco il novum della nostra storia secolare. Altri principi passarono e altri re che parvero più illustri o più potenti, altre bandiere furono spiegate al vento, altre trombe squillarono, ma tutta codesta variopinta coorte è scomparsa nell’ombra dei secoli, senza che l’anima di Trento si rivelasse in un impeto di sentimento spontaneo e irresistibile, come invece eromperà oggi vivificando e sommovendo tutte le formole ufficiali e le regole dell’etichetta. Senza dubbio, come sempre nella psicologia delle folle, una parte dell’entusiasmo è dato dalla nota sentimentale, quella parte estetica e superficiale che abbellisce i sentimenti degli uomini, senza approfondirli. Ma, oseremmo dire che oggi e nei giorni seguenti la sentimentalità avrà la parte minore; e ciò non solo per il temperamento freddo e infrenato degli alpigiani, ma perché nelle nuove provincie strappate a sì diversa dominazione e al culto che si tentava instillare nelle scuole per un’altra dinastia, manca ancora quel mito monarchico (absit iniuria verbo) che in altre regioni d’Italia preparerà accesa la fantasia e commosso il cuore. Nessuno deve meravigliarsene: alla nostra generazione non era lecito interessarsi della famiglia reale italiana che di soppiatto e in segreto; la gran massa non ne sapeva molto. La conoscenza fra re e popolo si fa oggi. Ma per questo appunto noi crediamo che l’accoglienza di oggi sarà ancor più significativa. Non che possa mancare l’omaggio personale al re giusto e valoroso che ha diviso col suo popolo in armi tutte le sorti della guerra; non che possa venir meno il ricordo del suo influsso personale nell’opera della nostra liberazione; non che debba mancare l’affettuoso ossequio per la regina che fu durante la guerra la madre dei feriti e degli orfani; ma la base sostanziale delle nostre accoglienze sarà impersonale e più profonda, sarà la convinzione che il re è il principe costituzionale della nazione italiana, che egli non solo simboleggia, ma rappresenta l’unità della patria, di quella patria, in cui dopo così fortunose vicende, abbiamo trovato finalmente, e per sempre, riparo. Per questo, anche per questo, ogni raffronto con ingressi passati è anacronistico, ogni ironia non può riguardare che le apparenze. Oggi l’omaggio al re d’Italia è un atto pienamente libero, compiuto da un popolo non soggetto ad adattamenti servili, ma profondamente convinto di riaffermare in questa sua manifestazione l’unità, la vitalità, le speranze della nostra stirpe. Così Trento si prepara ad accogliere il suo re, come Venezia allo «sposalizio del mare». Desponsamus te, mare nostrum in signum veri perpetuique domini. Non è a caso che è venuto sulla penna il ricordo della cerimonia veneziana. C’è infatti, nell’incontro odierno, un contatto dell’idea civile coll’idea religiosa che lo avvicina al costume della gloriosa repubblica. Tuttavia diremo forse meglio affermando che tale contatto è un anello logico del nostro sviluppo storico. Il Re d’Italia innanzi alla tomba di S. Vigilio, che da Roma e da Atene portò a queste terre latinità e cristianesimo, il Re d’Italia in duomo ove si ricordano i martiri i quali, secondo la leggenda, comparvero sul Carroccio durante la battaglia di Legnano, il Re d’Italia nella cattedrale ove innanzi agli altari dei santi, quasi questi fossero i veri dominatori del paese, vescovi, vassalli ed eletti del popolo chiesero o diedero ragione delle loro azioni e dei loro diritti e tante volte nel corso dei secoli supplicarono, promisero, giurarono, il Re d’Italia significa qui non una cerimonia formale, non una speculazione d’opportunismo politico, ma il ricollegamento più forte, più logico e più profondo che si possa concepire, col filone spirituale della nostra tradizione e della nostra vita collettiva. A Vittorio Emanuele III queste tradizioni non sono straniere. Il giorno 11 agosto 1900, prestando giuramento sulla Costituzione, all’assemblea nazionale solennemente dichiarava: «Cresciuto nell’amore della religione e della patria, invoco Dio in testimonio della mia promessa…». A queste parole, ricorda un deputato anticlericale, «tutti con scatto improvviso, spontaneo, ci levammo in piedi, fragore di battimani, grida altissime di viva. A quella parola “Dio” uscita vigorosa e sonora dalla bocca del re si apersero tutti i cuori: fu acqua ai sitibondi, fu luce ai ciechi, rispondeva al bisogno, all’aspirazione d’ognuno. L’orrore del regicidio conduceva gli animi alla ricerca di un’idea assoluta e centrale, di un punto d’appoggio di fuori, al di sopra delle cose umane». Anche oggi dopo una guerra che distrusse e sconvolse regni e nazioni, con lo spettacolo ancora straziante di lotte fratricide innanzi agli occhi, popolo e Re sentono la necessità di ancorare il patto delle loro volontà e il vincolo dei loro affetti nell’idea suprema di un Dio eterno e onnipotente. È il rito che sarà compiuto oggi; è il pensiero che avvicinerà oggi a Vittorio Emanuele anche gli ultimi e più remoti abitanti della montagna, anche coloro che finora, quasi instupiditi dal crollo improvviso d’una struttura secolare, non avessero per avventura trovata la via della fede nazionale e della nostra Vita Nova. |
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| 41921-1925
| IL PENSIERO POLITICO DEI CATTOLICI TEDESCHI È noto che il blocco del vecchio Centro ha avuto una sfaldatura bavarese. I 14 deputati della Baviera appartengono bensì all’attuale maggioranza di Wirth, ma non siedono sui banchi del Centro (58 deputati). La secessione avvenne per ragioni federaliste, ma si nutrì di un profondo contrasto politico. I «popolari» bavaresi sono monarchici, considerano il re come in disponibilità e si augurano che quanto prima possa «riprendere servizio». Essi sanno però che un tentativo di restaurazione provocherebbe un contraccolpo rivoluzionario e perciò si adattano ad una tragedia politica che mette fuori di questione la forma dello Stato. Monarchia e repubblica Il monarchismo bavarese è fondato nelle tradizionali simpatie che gode la dinastia cattolica dei Wittelsbach, nel senso conservativo della classe rurale e nell’avversione provocata dai tragici e ripetuti esperimenti comunisti e rivoluzionari di Monaco. Una parte dei popolari, gli universitari in ispecie, è imbevuta anche di nazionalismo; per loro il ritorno del re significa la rivincita. Il cancelliere Wirth ha precisato in poche parole i termini del contrasto quando ci disse: I bavaresi fanno della storia, io faccio della politica; e la politica si deve fondare su questi fatti: 1°. che abbiamo perduto la guerra, 2°. che ci siamo impegnati a pagare, 3°. che i socialisti repubblicani hanno otto milioni di organizzati. Non è a credere però che anche nel resto della Germania, fra cattolici, non si trovino dei monarchici convinti. Ma in Baviera i repubblicani per forza (Mussrepublikaner) sono in grande maggioranza; nel resto del Reich invece predominano i repubblicani per elezione; cosicché è lecito concludere che almeno tre quarti dei cattolici tedeschi non desiderano la restaurazione dell’Impero. Le condizioni politiche del resto sono più forti che la volontà degli uomini. Un governo di destra col programma espresso o sottinteso di richiamare gli Hohenzollern è escluso sia per ragioni interne, sia da ragioni internazionali. Un governo di sinistra scivolerebbe immancabilmente nel comunismo. I cattolici devono quindi desiderare un governo di centro che si appoggi sulla coalizione del Centro propriamente detto e sui socialisti temperati. Ma questa coalizione è possibile solo su di un’esplicita ed insospettata base repubblicana. Ed eccoci al punto di convergenza fra il problema politico e il problema sociale. La parte più avanzata dei cattolici, quella sovratutto inquadrata nell’Unione popolare e catechizzata da München-Gladbach, coltiva tenacemente un bellissimo sogno, quello cioè di ricondurre permanentemente i socialisti entro l’orbita della politica nazionale. La meta sembra degna di ogni sforzo. Guadagnare alla Germania le forze attive e propulsive del vecchio socialismo marxista, che per settant’anni ha predicato in Europa l’internazionale proletaria contro gli stati borghesi, ricondurre l’energie organizzate di milioni di operai ai servizi del popolo tedesco, vuol dire sostituire il solidarismo di Pesch al socialismo di Bebel , vuol dire rifare l’unità, morale e politica della nazione in modo e in misura che il militarismo degli Hohenzollern o di Hindenburg non ha saputo nemmeno concepire. La forza dei sindacati In verità questa meta non è chiara nemmeno a tutti i direttori della politica centrista. La coalizione con i socialisti rimane per alcuni un ripiego necessario e del momento, ma, o io m’inganno, o questi opportunisti dell’ora che passa sono in minoranza e perdono ogni giorno terreno. Due forze contribuiscono ormai a rendere più salda la cooperazione popolare socialista. Da un lato i maggioritari, spaventati dalle esuberanze della destra reazionaria, riducono il loro programma realizzatore – si leggano in proposito gli ordini del giorno del congresso di Görlitz, convocato durante la nostra permanenza in Germania – alla difesa della repubblica e a quelle riforme sociali che sono state già accolte dal Centro, e gl’indipendenti, sotto la pressione della minaccia monarchica, danno tregua ai compagni della maggioranza; dall’altro nei sindacati operai, rossi e bianchi, va irrobustendo il senso di una comunanza d’interessi sociali ed economici che concilia logicamente la solidarietà politica. E questo è decisivo, perché chi governa oggi in Germania sono i sindacati. Non bisogna dimenticare che la Germania nuova è più organizzata della Germania anteguerra. Durante i torbidi rivoluzionari tutti si sono organizzati professionalmente. I sindacati rossi balzarono da 3 a 8 milioni. Accanto a quest’ultimi bisogna aggiungere le organizzazioni di classe dei contadini (Bauernvereine) che, fatta eccezione forse della lega bavarese del D.r Heim, seguono la stessa direttiva dei sindacati. Ora è vero che i primieri fervori vanno languendo e che i sindacati rossi, raggiunto ormai il culmine della parabola sono in discesa, ma le organizzazioni germaniche non sono così lasse, da lasciar sfuggire dalle maglie il grosso di chi vi è messo dentro. I sindacati rimarranno quindi la forza decisiva nella politica tedesca. Stegerwald, nel palazzo della presidenza del Ministero prussiano, al posto di Bismarck , di Bülow , di Bethmann-Hollweg , è il simbolo vivente di questo predominio sindacale. La coalizione repubblicana potrà allargarsi, modificarsi, mutar nome, subire delle scosse, ma rimarrà ancora per lungo tempo una logica rappresentazione delle forze organizzate del paese e lascierà ormai un’impronta indelebile nella politica della nazione tedesca. La collaborazione coi socialisti Ora questa acquisizione di una parte notevole delle forze sindacali socialiste al pensiero statale rappresenta per me – non impegno il parere dei miei compagni di viaggio – un grande progresso della Germania in confronto delle nazioni latine, ove questa convergenza si manifesta ancora o non sinceramente ed esplicitamente voluta o inattuabile. È facile immaginare che noi in quasi tutte le conversazioni avute in Germania abbiamo sottoposto i nostri amici ad un insistente interrogatorio sulla collaborazione socialista. Quali esperienze avete fatto? Come v’accordate nelle questioni morali? Non temete di cooperare ad uno sfruttamento dello Stato attraverso le organizzazioni operaie? Quali effetti porta la coalizione sull’atteggiamento socialista nelle lotte sindacali? Non correte pericolo di venir trascinati alla deriva? Wirth, come il solito, fu il più esplicito. Io, coi socialisti – rispose – me la intendo benissimo. Sono leali, mantengono i patti, amministrano imparzialmente. Se ho avuto dei fastidi, li ho avuti dagli altri. Il vecchio Spahn ci faceva notare che nel periodo iniziale della coalizione, prima che vi entrassero i democratici liberali, socialisti e Centro s’erano accordati sulle linee di massima di una riforma scolastica che rimetteva ad un libero referendum fra i genitori, sentiti comune per comune, la costituzione di una scuola confessionale e di una scuola laica. Sopraggiunti i democratici, l’accordo non si poté attuare e si sta, appena ora, tentando di rimbastirlo in forme meno sicure per la libertà religiosa. Pericoli per la nostra organizzazione? Ce ne sono, non v’ha dubbio, rispondono Giesberts e Stegerwald, ma noi si sta in guardia. Educhiamo le masse, teniamo in perpetuo allarme le organizzazioni. E poi i maggioritari hanno da pensare ad altra cosa che a far concorrenza a noi; bisogna che si difendano in seno alla Confederazione del lavoro contro i comunisti e gl’indipendenti. Avviene invece molto spesso che i sindacati rossi combattono le lotte sindacali a fianco a fianco coi bianchi. I bianchi non sono quantité négligeable. Nel bacino della Ruhr costituiscono una forza imponente quantunque, dopo le immigrazioni avvenute durante la guerra, abbiano perduta la maggioranza. Dei ferrovieri 400.000 sono socialisti, 280 mila cristiani, 220 mila neutri, ma i cristiani hanno la maggioranza nel bacino carbonifero, cosicché nei conflitti politici e economici tengono in mano una delle leve più importanti. Lo si è visto l’anno scorso quando, dichiarando lo sciopero, hanno fatto fallire l’insurrezione comunista. Quanto allo sfruttamento dello Stato, poiché non esiste una cooperazione di lavoro sovvenzionata, la nostra domanda è apparsa superflua. I sussidi contro la disoccupazione – in tutta la Germania non vi sono più di 3-400.000 disoccupati – vengono pagati per un terzo dal Reich, un terzo dallo Stato (provincia), un terzo dal comune, e il comune amministra sotto la sorveglianza del ministro del Lavoro. Guai grossi non se ne sono avuti. La collaborazione coi socialisti insomma più che preoccupazione desta nei cattolici speranze. Conoscendoli davvicino si lasciano cadere molti pregiudizi, ci ha detto un deputato berlinese del Centro. Sono in ogni caso più sicuri alleati dei democratici, ci ha detto un altro deputato di Colonia. E Pieper è così convinto dell’opportunità dell’alleanza che ha raccomandato anche a noi di fare altrettanto. Sta bene ha risposto qualcuno di noi, ma disgraziatamente in Italia mancano, fra l’altro, le nostre premesse psicologiche. In Germania, Centro e socialisti si sono trovati spesso, da Bismarck in qua, sulla stessa fronte di difesa delle libertà civili e del diritto comune. Il Centro ha promossa quasi tutta la legislazione sociale, e, infine, quand’è scoppiata la guerra, i socialisti hanno votato i crediti militari. Sono linee di convergenza che in Italia mancano e che creano, in ogni caso, una situazione diversa. Giunto a questo tratto della mia esposizione mi riesce meno difficile rispondere al punto culminante della nostra inchiesta: esiste nella nuova Germania e fra i partiti affini al nostro una tendenza universalista che giustifichi il tentativo dell’internazionale popolare? L’elemento universalistico La Germania è oggi un paese in stato metamorfico. Tutto si trasforma e la trasformazione è ancora in corso; costituzionale statale, struttura economica, psicologica, politica. La parola di moda è sich einstellen, che, nel suo presente significato, non riesco a tradurre ma che significa un atto analogo a quello che fa il deviatore colle rotaie. Ogni profezia è quindi arrischiata, ogni previsione malsicura. Ma io ritengo tuttavia di poter concludere con un nuovo elemento universalistico che esiste e che si affermerà appena lo possa, anche sul terreno dei rapporti internazionali. Non intendo qui di riferirmi alle idee predicate dall’on. Walterbach sull’internazionale cattolica sociale ch’egli vorrebbe diretta e alimentata da un istituto di sociologia cattolica, eretto a Roma; proposta degna della massima considerazione, ma che riguarda sempre un campo non politico, bensì sussidiario alla politica. Non penso nemmeno all’ideologia del Grauert che, nel centenario dantesco, propone la riconvocazione dei congressi scientifici internazionali, deplorando che l’Italia non possa più offrire al mondo internazionale la fervida mente di Giuseppe Toniolo. Ma mi riferisco nettamente al campo politico e dico che se vi fu mai un momento in cui i cattolici tedeschi potranno essere chiamati a trattare e discutere di politica interstatale e internazionale questo momento è venuto. I critici dell’iniziativa popolare sogghignano: si capisce, i tedeschi gemono ora sotto il peso della sconfitta. Accetteranno la vostra internazionale (come uno strumento di penetrazione, per rifarsi il loro dominio in Europa). Rispondo: che i tedeschi vedano con piacere una qualsiasi via che venga loro aperta dinnanzi e li tragga dal loro isolamento, è logico, è naturale. Speranze nel rinnovamento tedesco Che qualcuno di loro, anche tra i cattolici, si metta per questa via col segreto intento di abbandonare ogni internazionalismo, appena uscito fuori dall’odierno cerchio di ferro, è spiegabile. Ma io sostengo che al di sotto di queste speculazioni passatiste, esiste in Germania una corrente nuova, la quale staccandosi dalla tradizionale politica del teutonismo, si muove lentamente e inevitabilmente verso una concezione di solidarietà e fratellanza europea. Questa concezione si fa strada nel movimento sindacale cooperativo e può divenire elemento essenziale del repubblicanismo tedesco. Risvegliare quest’elemento, renderlo più cosciente e più fattivo chiamandolo a contributo nei contatti e nelle discussioni internazionali è opera di saggia politica internazionale; ed è questo il tentativo del Partito popolare italiano. Ben sappiamo che su questo terreno è più facile il dubitare che l’affermare, più agevole il sospettare che il mantenere una linea diritta e dignitosa fra quelli che sono i giusti interessi della nostra nazione e le ideologie d’un mondo rinnovato nella solidarietà e nella fratellanza internazionale; ma il tentativo è degno d’un partito che ha le sue radici nelle tradizioni universalistiche del popolo italiano e s’ispira alle idee d’un cristianesimo che crede sanabili le nazioni e possibile il rinnovamento della faccia della terra. A. Degasperi. |
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| Non dobbiamo dimenticare che il tema decentramento amministrativo, autonomie locali e costituzione della regione di cui si occuperà il Congresso del Partito popolare, che si inaugura domani a Venezia, non è argomento di discussione teorica, ma argomento di politica pratica la cui trattazione è stata preceduta, come si ricorderà, da un largo dibattito nel campo giuridico politico e parlamentare; un dibattito al quale già comincia ad interessarsi l’opinione pubblica. Segno evidente che il problema già si avvia alla sua piena maturità e che perciò il Partito popolare, trattandolo in pieno come uno dei problemi fondamentali del momento, dimostra anche come esso, coi suoi congressi, non voglia creare vane e sterili accademie, ma portare negli ulteriori progressi politici del paese, oltrechè la sua forza, un contributo di pensiero, di studio e di maturate decisioni. Crediamo quindi opportuno, poiché trattasi di un documento politico vivamente atteso, di dare larga notizia della relazione Sturzo (come abbiamo rilevato lunedì, pubblicando l’o.d.g. conclusivo della relazione stessa che il Popolo Nuovo pubblicava nel suo testo integrale). Nella prima parte di essa (poiché, come è noto, è don Sturzo relatore al congresso su questo tema importantissimo) a guisa di introduzione si ricordano i precedenti storici e si dimostra la importanza attuale di questo problema. Nella seconda parte il segretario politico ritraccia tutta la linea già segnata a questo proposito dal Partito popolare italiano con le varie manifestazioni dei suoi Congressi, del suo Gruppo parlamentare, della Direzione e del Consiglio nazionale. Diamo oggi un largo riassunto della terza parte, nella quale si tratta della costituzione della regione. Essa risponde implicitamente, illustrando in modo chiaro e completo il progetto popolare, a tutte le obiezioni vagamente sollevate sulla stampa liberale a questo riguardo. La nostra concezione Per ragioni di metodo e perché questione centrale e di caratteristica politica, comincio dall’analisi della regione quale è da noi oggi concepita e prospettata. Anzitutto credo opportuno sgombrare il terreno da un pregiudizio affacciato dagli antiregionalisti, che cioè non esiste un serio movimento in Italia a favore della costituzione della regione e che è un artifizio di parte, sfruttando un movimento istintivo di reazione contro il centralismo burocratico; che la regione non ha precedenti storici, non ha vere circoscrizioni definite; e che può divenire un movimento disgregativo dello stato e politicamente pericoloso. Nel precisare la caratteristiche della regione e le sue funzioni, i timori politici cadranno facilmente; tanto più che oggi, dopo sessant’anni di unità nazionale, la cui forza morale è penetrata nelle masse ed è base sentita dell’educazione politica del nostro popolo, nessuno può onestamente pensare che una costruzione amministrativa e rappresentativa della regione possa avere caratteri o ripercussioni antinazionali. Né è serio l’altro timore, affermato anche recentemente sopra una rivista, che il movimento regionale disgreghi lo Stato; secondo noi lo rafforza nella sua caratteristica statale, e toglie la debolezza organica attuale dell’accentramento amministrativo. Certo noi non neghiamo, anzi confermiamo la nostra tendenza politica espressa nell’appello al paese del 18 gennaio 1919 in questi termini: «Ad uno Stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali – la famiglia, le classi, i Comuni – che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private. E perché lo Stato sia la più sincera espressione del volere popolare, domandiamo la riforma dell’istituto parlamentare sulla base della rappresentanza proporzionale, non escluso il voto alle donne, e il Senato elettivo, come rappresentanza diretta degli organismi nazionali, accademici, amministrativi e sindacali; vogliamo la riforma della burocrazia e degli ordinamenti giudiziari la semplificazione della legislazione, invochiamo il riconoscimento delle classi, l’autonomia comunale, la riforma degli enti provinciali e il più largo decentramento nelle unità regionali». Contro il predominio statale burocratico Questo programma non è antistatale ma è contro il predominio statale burocratico, che bisogna correggere. Su questo argomento il nostro pensiero è stato sempre chiaro, rettilineo, convincente; e non ho che da riferirmi alle molteplici affermazioni del nostro partito, che ho cercato di illustrare nei vari discorsi da me tenuti, a cominciare da quello di Milano del novembre 1918 «problemi di dopo guerra» che preludeva la costituzione del nostro partito. La regione è concepita da noi come una unità convergente non divergente dallo Stato. Ricercare caratteristiche amministrative e organiche nella storia delle regioni d’Italia, può servire per esercitare polemica; la regione da noi esiste come unità specifica di lingua, di storia, di costumi, di affinità. Vi sono regioni circoscritte naturalmente, come la Sardegna, la Sicilia e la Liguria: altre sono state storicamente sempre une, altre politicamente sono legate alle grandi storie delle repubbliche o dei principati; una varietà che non ha mai soppresso il senso di una realtà vissuta, non politicamente sempre. Così oggi si parla ancora di Lombardia o di Puglie, di Marche o di Liguria come unità non soppresse né sopprimibili. Le piccole questioni storiche o territoriali, quali quelle della Lunigiana o del Monferrato o della Lomellina, accennate anche da giornali seri come difficoltà antiregionali, non negano un fondamento regionale, rivelano la prova viva, che l’Italia ha vissuto in ogni suo angolo, come forza perenne della sua razza. Le ventuno regioni italiane rispondono a una realtà, che neppure l’unitarismo burocratico poteva far scomparire in sessanta anni; ecco perché in Italia si può parlare di regioni, non come una eventuale o burocratica o sistematica divisione di territorio, ma come una regione geografica, storica e morale, come una realtà esistente e vivente nella unità nazionale e nella compagine statale. Quando al 1860 fu posto il problema, dopo la unione della gran parte dell’Italia al Piemonte e il ministro degli Interni Carlo Farini , d’accordo con Camillo Cavour fece costituire la commissione legislativa per il nuovo ordinamento amministrativo, il Farini nell’inaugurare i lavori affrontò in pieno il problema della regione, escluse, e si comprende, la circoscrizione politica dei vecchi stati, escluse il criterio delle circoscrizioni francesi, ammettendo l’unità morale e storica delle regioni italiane. Stato unitario, non federale «La circoscrizione politica, egli affermava, che dobbiamo stabilire, non vuol essere frutto di un concetto astratto, né un’opera arbitraria, ma deve rappresentare quelle suddivisioni effettive, che esistono nelle condizioni naturali storiche di quei centri di forze morali, le quali se fossero oppresse per pedanteria di sistema potrebbero riscuotersi e risollevarsi in modo pericoloso, ma che legittimamente soddisfatte possono mirabilmente concorrere alla forza e allo splendore della Nazione». Per noi il movimento regionalista non ha pertanto carattere di semplice base di circoscrizione territoriale per un migliore assetto degli organi statali decentrati alla periferia, ha una caratteristica amministrativa organica, autonoma: è una unità specifica, ragione della vita rappresentativa delle forze locali. Escludiamo subito che con queste parole si possa direttamente o indirettamente tendere alla struttura politica della regione, e al sistema federalistico della nazione; dico neppure indirettamente, perché le funzioni fondamentali dello Stato (politica interna, estera, finanze e tesoro, guerra, marina, colonie, trattati commerciali, servizi generali) non possono avere che unica espressione popolare il Parlamento nazionale, unico organo di attuazione il governo dello Stato, unica ragione fondamentale gl’interessi collettivi della nazione. Lo Stato italiano è unitario non federale, e la sua struttura non solo non viene per nulla toccata, ma secondo me viene rafforzata dallo sgombro di quello che lo Stato ha di meno appropriato, di superfluo, di accentrato nel campo della pubblica amministrazione e della economia. Da questa idea fondamentale sgorga naturale la conseguenza su quali oggetti dovrebbe svolgersi l’attività dell’ente regione; quale anche in embrione fu concepito da Minghetti e da Cavour, cioè anzitutto i lavori pubblici, compresi i porti, le scuole, specialmente medie e professionali, le industrie, i commerci, l’agricoltura, il lavoro, la beneficenza, l’igiene e i servizi statali che per ragione di semplificazione o perché di natura mista e locale, possono essere delegati alla regione o ad organi misti regionali in rappresentanza e nell’interesse dello Stato. Un rapido esame di tali oggetti dà chiara la visione dell’importanza e della necessita dell’ente che viene a costituirsi e quindi ne determina anche la ragione organica e rappresentativa. E qui la relazione Sturzo esamina il problema della regione in relazione alle varie branche della pubblica amministrazione suaccennate concludendo coll’opporre a tutte le obiezioni che alla riforma regionalistica si fanno, una critica serrata e nutrita di dottrine e di esperienza la quale corrobora, in modo non facilmente distruttibile, tutta la nostra concezione al riguardo. |
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| I giornali hanno pubblicato un resoconto sufficente della discussione svoltasi su questo tema nella prima sezione del congresso di Venezia, ma – per la complessità e molteplicità delle materie che preoccuparono la stessa giornata – un riassunto troppo schematico della relazione conclusiva fatta all’assemblea dal relatore generale on. Alcide Degasperi sullo stesso argomento. Sarà utile, specie dal nostro punto di vista locale, riferirne più ampiamente. Le Tre Venezie, incominciò l’oratore, sono un’espressione geografica. Nessuna unità politico-amministrativa fra il vecchio Veneto e le provincie nuove e molta differenza di interessi fra le provincie dello stesso Veneto. Si pensi solo ai due porti, Venezia e Trieste. Unica solidarietà evidente quella della zona distrutta che si estende a tutte le provincie venete. La I. sezione ha tuttavia fatto uno sforzo di sintesi, che non si potrà dire essenzialmente mancato. È la prima volta che i rappresentanti politici delle tre regioni deliberano assieme su problemi comuni; è anzi la prima volta che i delegati politici delle stesse due nuove regioni, annesse all’Italia, prendono in comune deliberazioni unanimi, attuando così entro il Partito popolare una solidarietà sostanziale ben più profonda di quello che fosse il vincolo politico tradizionalmente espresso dal fatidico binomio di Trento e Trieste. Il nostro è un tentativo di regionalismo in grande stile. Ma non si tratta solo d’interessi di una grande regione; si tratta in buona parte anche d’interessi nazionali, e perciò è giustificato che se ne parli in un congresso di tutta l’Italia. Il problema dei danni di guerra è in fatti il problema delle riparazioni, garantite all’Italia da trattati internazionali. Il Tesoro italiano non funge che da banca di anticipazioni sul credito internazionale dovuto allo Stato italiano. Lo sfruttamento delle forze idrauliche alpine interessa la nuova struttura economica di tutta la Penisola fino all’Appennino, l’avvenire dei due porti adriatici di Venezia e Trieste cogli allacciamenti ferroviari verso l’Europa centrale è congiunto al risorgimento economico della Nazione, le autonomie delle Terre Redente sono il più fecondo esperimento e la prova in atto in favore del decentramento organico di tutto lo Stato. Il congresso nazionale è quindi legittimato a parlarne e chiamato a deliberare in merito. Dopo quest’introduzione – che abbiamo naturalmente riassunta – l’oratore fa alcuni rapidi rilievi su ciascun problema, enunciato dall’ordine del giorno. Danni di guerra Per i danni di guerra, presupposto naturalmente che continui l’azione di anticipo e di liquidazione, si chiede il pagamento dei concordati fino a 10 mila lire, entro brevissimo termine, che continui fino a tutto il 1923 il finanziamento dei bilanci comunali, disposto dal decreto 3 luglio 1919; osservando che le Nuove Provincie stanno assai peggio in entrambi i riguardi che il Veneto propriamente detto, perché, se nel Veneto si hanno già migliaia e migliaia di concordati, a Trento e Gorizia se ne sono raggiunti pochissimi, anche per la scarsezza del personale di Finanza e che ai comuni si è concesso solo di caso in caso qualche mutuo. Si chiede poi in modo speciale la liquidazione degl’indennizzi alle opere Pie e ai Comuni, un riguardo particolare alle piccole industrie e un anticipo sui danni mobiliari sofferti dai nostri emigrati sulla loro sostanza in terra nemica. Nella sezione durante il dibattito provocato dalla relazione dell’on. Roberti si sollevarono molte altre questioni di dettaglio, di carattere tecnico, onde si concluse che nei prossimi mesi, dovesse convocarsi per iniziativa del partito un congresso di comuni, cooperative e consorzi per deliberare intorno alle stesse e per creare un ufficio di controllo di tutta l’azione per la liquidazione dei danni. Al punto 2) il relatore ricorda che in Germania l’opera specializzata degli emigranti italiani sarebbe ancora desiderata. Si chiede che il Governo s’interessi e elabori una convenzione. Per le opere pubbliche contro la disoccupazione la sezione si è richiamata alle deliberazioni della deputazione veneta, ricordate al congresso da un o.d.g. dell’on. Coris . Questioni finanziarie Al punto 3) l’on. Degasperi mette in rilievo che le Nuove Provincie soffrono di un’altra categoria di danni, sentita solo in piccola parte dalle vecchie provincie, quella dei danni finanziari sulla carta moneta e sulle carte di valore. La ricchezza mobile delle N. P. già falcidiata dal cambio della moneta è quasi distrutta per quello che riguarda i titoli pubblici e privati, sia austriaci che ungheresi, i prestiti prebellici garantiti e non garantiti, i depositi della Cassa di risparmio postale, i crediti d’oltre confine e i prestiti bellici. Questa ricchezza che supera certamente il miliardo, deve venire, almeno in buona parte, rifatta. Il relatore chiede che lo Stato mantenga gl’impegni imposti dai Trattati di pace e inoltre che provveda, con riguardo speciale alle casse rurali e banche cooperative, ai depositi di pupilli, ai patrimoni comunali e delle opere pie, ad un’azione di sovvenzionamento e di reintegrazione. Le acque e i porti 4) Dello sfruttamento delle forze idrauliche si occupa anche la relazione Mauro. La I. sezione ci ha tenuto sopratutto a rilevare che le forze idrauliche devono essere sfruttate a preferenza da enti rappresentanti interessi pubblici, rompendo il monopolio delle signone elettriche. Sul porto di Venezia riferì in sezione l’avv. Donati su quello di Trieste il d.r Rinaldini . Per Venezia la sezione raccomanda al congresso che si facciano propri i voti del Comune e della Provincia di Venezia relativi ai danni di guerra, alla lotta antimalarica, all’incremento della piccola e della grande bonifica, alla trasformazione edilizia cittadina, e dei mezzi di trasporto interni e delle comunicazione con la terra ferma, alla restaurazione delle finanze comunali e provinciali; deferisce particolarmente agli organi direttivi e parlamentari del Partito lo studio della pratica e definitiva attuazione dei seguenti postulati riferentisi al porto di Venezia: 1) Trasformazione del Provveditorato del porto in ente amministrativo comunale, integrato dalla rappresentanza diretta dei Sindacati del Lavoro e del Commercio aventi relazione d’interessi diretti col Partito medesimo. 2) Parità di trattamento al porto di Venezia rispetto ai porti concorrenti (specialmente Trieste, ed in parte anche Genova) sia nei riguardi delle condizioni tariffarie e dei servizi ferroviario marittimi, sia in quello delle franchigie doganali che venissero eventualmente concesse per certe merci e per certe destinazioni, massime per quella zona intermedia, rispetto Trieste, che corrisponde approssimativamente alla regione compresa dal Friuli alla Baviera centrale, ove la concorrenza tra i due porti adriatici è efficace. 3)B) Miglioramento ed incremento dei servizi ferroviari facenti capo al porto di Venezia dal suo naturale retroterra commerciale, e precisamente dal Veneto occidentale, Trentino-Svizzera orientale e Provincie sud-occidentali della Baviera. 4) Intensificazione delle opere di sistemazione del Po sul tratto Foce Adda-Foce Mincio. 5) Ripristino e miglioramento delle altre vie d’acqua in diramazione dalla dorsale Torino-Milano-Venezia e in diretta affluenza col porto di Venezia. 6) Incremento delle comunicazioni marittime, specialmente conservazione nell’Adriatico e reintegrazione delle flotte mercantili italiana ed ex austriaca già adibite ai servizi dell’Adriatico, con toccata a Venezia di tutte le linee da e per l’Adriatico, con particolare riguardo ai traffici fra il porto veneziano e i porti dalmati riguardanti l’importazione diretta dagli stati balcanici (cemento, legname, carni vive da macello, ecc.) e l’esportazione verso i medesimi stati dei nostri prodotti nazionali e regionali (canapa, stoffe confezionate, carta, mattoni, vetri di lusso, macinati, ecc.). Sul porto di Trieste le conclusioni accettate dalla sezione furono: rapida costruzione della ferrovia del Predil, riduzione delle tariffe di piazza e dei magazzini generali, per poter sostenere la concorrenza di Amburgo, sistemi più semplici e più commerciali nel servizio ferroviario e postelegrafonico, ritorno alla politica tariffaria austriaca, da avviarsi in trattative colla Jugoslavia e coll’Austria, inizio dei lavori portuali per i quali sono già stanziati 215 milioni. Nella relazione il Rinaldini aveva descritto a colori vivaci il decadimento del porto di Trieste, causato dal depauperamento del retroterra e dalla concorrenza, non ostacolata dalle tariffe ferroviarie, dei porti settentrionali. La questione tecnica del porto franco venne raccomandata alla più attenta considerazione degli organi esecutivi del Partito. Amministrazione Sulla seconda parte dell’ordine del giorno riassuntivo, già pubblicato dal Trentino, l’on. De Gasperi chiede al congresso una nuova affermazione già inclusa anche da don Sturzo nelle sue proposte sul decentramento. Fino a tanto che saranno ricostituite le Diete, il Partito deve invigilare, affinché la burocrazia non invada il campo autonomo. L’oratore ha ricordato a questo punto il recente tentativo della Minerva per le scuole medie. Nella prima sezione il d.r. Rinaldini aveva criticato specialmente l’amministrazione giacché, pur mantenendo lo schema del cessato regime (commissariato generale o luogotenenza e commissariato civile o capitanato), la si era sostanzialmente inquinata mettendo a tali posti della gente che non conosce né la legislazione né il sistema e che non ha nemmeno i titoli legali necessari. Si chiede perciò che – fino all’attuazione di una riforma burocratica generale ispirata ai principi del decentramento regionale e della più rigorosa scelta del personale da mantenersi in servizio con esclusivo riguardo alla maggiore idoneità tecnica e morale – più che nella forma nella sua sostanza sia mantenuto e rispettivamente reintegrato in tutti i rami dei servizi pubblici il sistema amministrativo-burocratico decentrato che vigeva sotto il passato regime, e che pertanto, pur usando equo e doveroso riguardo agli avventizi ex combattenti, si adibiscano però ai servizi diretti e di concetto soltanto funzionari di carriera muniti dei voluti titoli di studio superiore e non ignari delle leggi vigenti nelle terre redente. Linea politica L’on. Degasperi, giunto così alla fine della sua relazione, per quanto riguarda l’economia e l’amministrazione, dà risalto a due spunti politici, che comparvero nelle conclusioni Donati, nella sezione, e nel suo o.d.g. proposto al congresso. Donati aveva concluso col domandare «la conservazione e lo sviluppo dell’indirizzo conciliante e pacifico della nostra politica estera e commerciale coi popoli dell’altra sponda Adriatica, dai quali Venezia può derivare prodotti razionalmente utili e necessari in cambio di prodotti nostri ricercati dagli altri e per noi esuberanti, e presso i quali Venezia stessa può e deve riprendere, col tradizionale commercio economico, quel commercio tutto spirituale che è prodotto della sua fulgida civiltà Romana e Cristiana e merito immortale dei suoi guerrieri, dei suoi statisti, dei suoi Santi». E nell’ordine del giorno generale si afferma: che «in questa opera di sistemazione delle Nuove Provincie deve tenersi conto delle particolari situazioni create dall’esistenza sui nostri confini di minoranze allogene, avendo di mira, per le zone ove l’elemento italiano venne diminuito ad arte da sovrapposizioni del cessato regime, il ricupero di tali posizioni perdute; per le altre, ove l’elemento allogeno prevale naturalmente, l’avvicinamento ad esso mediante una politica di riguardo alle sue tradizioni e al suo speciale carattere nazionale». In questi due rapidi accenni è indicato, dice l’on. Degasperi, il nostro programma politico in confronto delle popolazioni slave e tedesche. Né rinunzie, né invasioni violente, ma conciliante fermezza. Ricorda la recente polemica sull’Alto Adige. Se ne scrive e parla con troppa faciloneria; il problema è serio e non va risolto con formole vaghe e generiche di bilinguità e di unicità amministrativa. Bisogna distinguere e operare diversamente e gradualmente a seconda delle zone. Il partito popolare non può far opera di sopraffazione né ignorare i diritti naturali dei cittadini d’altra lingua, ma non deve nemmeno sanzionare con un’inerte tolleranza le sopraffazioni perpetuate dal vecchio regime. L’oratore chiude la sua applaudita relazione invocando da questo posto che fu il centro della città realtina, l’esempio della saggezza politica con cui Venezia governò per secoli, nella sua «Giurisdizione marittima». |
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| 41921-1925
| Il Governo ha fatto smentire il deferimento dell’elezioni comunali. Esse dovranno venir fatte al più tardi entro il prossimo gennaio. Conviene quindi prendere rapidamente le proprie decisioni. Il congresso di domenica ha chiuso il periodo delle discussioni ed ha data la parola d’ordine che deve essere seguita da tutto il partito. La mozione votata a stragrande maggioranza rileva che le elezioni comunali non si possono abbandonare a criteri meramente locali o personali. Già il nuovo sistema elettorale collo scrutinio di lista, rende necessario lo schieramento dei partiti e dei gruppi organizzati; ma, oltre a ciò, l’importanza di queste prime elezioni amministrative nel nuovo regime ci impegna a ricavarne un’affermazione di carattere generale e programmatico. Votando per il rinnovamento dei comuni noi intendiamo non solo di provvedere a una sana amministrazione locale, ma anche ad eleggere uomini che, senza incertezze e senza debolezze, tengano alta la bandiera dell’autonomismo specie riguardo alla scuola, difendano le libertà comunali e reclamino la ricostituzione della rappresentanza autonoma provinciale. Per riuscire a tale scopo la direttiva del congresso stabilisce che i candidati del partito popolare debbano essere regolarmente e formalmente militanti nel partito stesso (tesserati). Non è che in qualche comune e in qualche caso speciale ove, dato che ci troviamo in un periodo di transizione, ciò sia richiesto da particolari circostanze, non sia lecito includere nella lista dei tesserati qualche persona non militante in nessun partito, la quale sembri indispensabile per la buona amministrazione in causa della sua preparazione tecnica e delle sue cognizioni amministrative, ma ciò potrà solo avvenire, quando anche questi «tecnici» delle gestioni comunali diano affidamento di sostenere con tutte le forze la linea del partito popolare per quanto riguarda i nostri postulati amministrativi e quando il loro numero e la loro posizione sia tale da non attenuare il programma del partito stesso. L’attuale ed equivoco sistema per cui maggioranze consigliari popolari si lascino guidare da un sindaco o un prosindaco liberale o anticlericale, a rischio di compromettere le nostre nette e intransigenti rivendicazioni autonomistiche, deve assolutamente cessare. Chi guida, chi si pone a tutti e sovra tutti deve essere non l’uomo tecnico o praticone di affari comunali, ma l’idea programmatica che deve animare tutta l’amministrazione. La direttiva del congresso ammette anche delle eccezioni. In alcuni pochi casi si può prevedere che la suddivisione degli elettori sia così molteplice da escludere la possibilità che un solo partito si assuma il compito di costituire l’amministrazione. In questi pochi casi e con tutte le debite cautele, su proposta della sezione locale, la direzione regionale viene autorizzata a permettere la conclusione di aperte alleanze con gruppi economici, localisti o anche politici. Le cautele e le misure da prendersi in tali casi dovranno però mirare a escludere qualsiasi confusione o compromissione programmatica, limitando l’alleanza ad una collaborazione elettorale che sia l’anticipata realizzazione della proporzionale, ed a una collaborazione amministrativa che abbia per caposaldi i punti fondamentali del nostro programma amministrativo. Il congresso insomma ha stabilito che in linea generale il partito popolare si presenti con uomini propri, aderenti al nostro programma amministrativo e politico e formalmente tesserati nelle nostre sezioni. Per rendere possibile il tesseramento, dato ch’esso per il deficente funzionamento della nostra organizzazione è ancora incompleto, si è concesso alle sezioni il diritto di accogliere come soci ossia di tesserare quei nostri aderenti che, pur essendo tali, non sono ancora formalmente iscritti in alcuna sezione. Il tesseramento si chiude il 13 dicembre e la direzione e i comitati distrettuali invigileranno perché non vengano concesse le tessere a chi non sia notoriamente nostro consenziente. Dopo il 13 dicembre chi non è tesserato, fatte le speciali eccezioni di cui sopra, non potrà figurare nelle liste del partito. Nella discussione sono state rilevate le difficoltà che si fanno al pagamento della tassa, ma, ciò nonostante, il congresso non ha creduto di dover deflettere da questa norma. Bisogna fare uno sforzo di riorganizzazione, bisogna essere severi e precisi, a costo di qualche sacrificio e di qualche perdita. Caso contrario, invece di rafforzarsi, il partito uscirebbe dall’elezioni locali fiaccato e diminuito. Intanto le sezioni stacchino la ricevuta provvisoria e contemporaneamente chiedano alla Direzione regionale nuove tessere. Le sezioni hanno inoltre da decidere se presentare candidature per la maggioranza o la minoranza. Rimane inteso che ovunque gli ultimi risultati delle elezioni politiche ammettano come ragionevole il tentativo di conquistare la maggioranza, il tentativo debba essere fatto. E che cosa dovrà farsi in quei comuni, ove non esistono ancora le sezioni del partito popolare? In questi comuni i nostri amici devono affrettarsi a costituire la sezione, incominciando colla formazione di un comitato locale. I neocostituiti comitati distrettuali trovano qui un vasto campo ove esercitare la loro funzione di suscitatori e coordinatori delle nostre forze. È chiaro che queste norme sono dettate per la situazione dei comuni secondari; per Trento e Rovereto la proporzionale esime da tutte le combinazioni. Qui ognuno può battersi sotto la propria bandiera, riservando a particolari trattative dopo le elezioni lo stabilire l’atteggiamento che gli eletti prenderanno per compartecipare all’amministrazione. Ed ora mettiamoci al lavoro. La parola d’ordine è data. Bisogna fare ogni sforzo per attuarla. |
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| 41921-1925
| Per la prima volta dopo l’annessione i deputati e i senatori dell’Alsazia- Lorena, in occasione del recente voto sulla politica di Briand, hanno votato contro il Governo. Se ne leggono nei giornali ragioni speciose, formulate un pochino per conto dell’estero. Ma la realtà è evidente. La deputazione delle provincie nuove ha voluto affermare ch’essa incomincia a dubitare della politica di Briand nei riguardi dell’Alsazia-Lorena e in particolare modo della sua politica scolastica e religiosa. Due eccessi oratori degli ultimi giorni vengono ora a caratterizzare la situazione. A Grafenstaden, un borgo dell’Alsazia, in un’adunanza locale dell’«Unione popolare repubblicana» (cattolici) l’abate Schaeffer ebbe a protestare con grande vigore contro l’amministrazione scolastica francese, proponendo che, qualora il Governo non mantenesse i suoi impegni circa la scuola confessionale e il concordato, gli alsaziani dovessero ricorrere alla Lega delle Nazioni. Si può meglio immaginare che descrivere il fracasso che sollevò tale discorso. I radicali ne approfittarono per ripetere che i popolari sono germanizzanti e pure le sfere ufficiali ne rimasero scosse, anche perché proprio negli stessi giorni dal Baden veniva lanciato nelle nuove provincie un appello ai redenti, affinché si organizzassero per chiedere alla Lega delle Nazioni il plebiscito per l’Alsazia-Lorena. I radicali insinuarono subito che fra i due fatti ci dovesse essere un nesso logico. Affermazione questa che non corrisponde a verità e che i cattolici alsaziani respingono colla massima energia, dichiarando che anche l’incresciosa uscita del parroco di Grafenstaden veniva sconfessata formalmente e dalla direzione del partito e dalla deputazione. Contemporaneamente un analogo infortunio sul lavoro, ma in senso inverso, accadeva nelle file dei radicali. Il generale Sarail sabato scorso dichiarava nel congresso del partito a Poitiers che dopo tutto gli alsaziani avevano servito nell’esercito del Kaiser e che quindi non bisognava assolutamente fidarsi di loro. Anche questo discorso sollevò proteste e reazioni. A noi che assistiamo di lontano non importa tanto esaminare la veridicità di tali affermazioni, quanto piuttosto di considerarle come elementi di giudizio della situazione. Ora ne risulta evidente che nelle nuove provincie francesi è tutt’altro che compiuta l’opera di assimilazione nazionale e che vi permangono gravi e infecondi dissensi. Ne risulta ancora che la politica di Briand incomincia a divergere da quella inaugurata da Millerand, sollevando nell’Alsazia stessa le più vive proteste. Quali le ragioni? Sono molteplici non tocca a noi indagarle. Ma ci piace fissarne una che in questa occasione fa capolino anche nella stampa dell’unione repubblicana. La nostra disgrazia, dicono quei giornali, è che a Palazzo Borbone manca un partito nazionale il quale, accogliendo nelle sue fila la nostra deputazione, ne faccia suoi anche i postulati. Avviene così che i deputati delle Nuove Provincie, quando difendono la legislazione locale o caldeggiano le autonomie, finiscono col trovarsi quasi soli di contro al Governo. Quest’isolamento, oltre a ridurre l’efficacia del loro influsso politico, rende più impaziente e più nervosa la popolazione che vive in allarme continuo. Per contro l’isolamento della deputazione fa il giuoco dei radicali (massoni e centralisti) i quali assumono volentieri la parte di difensori della Patria in pericolo contro «i separatisti» alsaziani. Dedichiamo questa considerazione a quegli amici che non valutano abbastanza il servizio che il Partito popolare italiano rende alle Nuove Provincie d’Italia. Qui la tendenza autonomistica è stata assorbita nel programma di un grande partito come il popolare e non è quindi possibile confondere tale tendenza con una tendenza antistatale. Inoltre, se nelle nostre Nuove Provincie si è più tranquilli sulle sorti dei postulati autonomistici, è perché sappiamo che in caso di bisogno possiamo contare sull’appoggio di un grande partito, il quale, specie sul terreno religioso (si ricordi il caso Ciuffelli), ha già dato prova di energia e di saper riuscire. |
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| 41921-1925
| Roma, 27, notte. Le tre battute d’apertura sono state fiacche. Dopo le lunghe vacanze, la Camera ha bisogno d’orientarsi. La battaglia politica è appena in preparazione. Si dice che la fusione dei liberali democratici coi democratici sociali (i due grandi clubs di sinistra) preludi ad un attacco contro l’attuale Ministero. È probabile che ciò avvenga, ma non immediatamente. La settimana ventura s’inizierà la fucileria, ma non è da ritenersi che l’azione s’intensifichi fino al combattimento decisivo. Nelle sinistre i soliti Meridionali dimostrano a dir vero una gran voglia di rovesciare il Gabinetto per il solito «principio» di prendere il posto degli altri; ma i popolari hanno già fatto capire che non intendono prestarsi ad un giuoco che non ha ragioni oggettive e persegue soltanto scopi personalistici. Potete ritenere quindi che, tolte imprevedibili sorprese, di cui è troppo ricca la cronaca parlamentare, Bonomi avrà alla fine della settimana ventura o alla fine dello scorcio prenatalizio il suo bravo voto di fiducia. La battaglia grossa non s’ingaggerà che in marzo, in sede di bilancio. Allora matureranno altri problemi difficili, quali la riduzione della burocrazia e l’ordinamento dell’esercito, problemi sui quali potrebbe sdrucciolare anche un Ministero più forte di quello di Ivanoe Bonomi. Intanto non dovrebbe mancare il lavoro. Ai deputati è stato distribuito un grosso volume di 210 pagine il quale elenca le interrogazioni, le mozioni, le interpellanze e le proposte di legge, che sono annunziate e rispettivamente distribuite alle commissioni permanenti. Ogni commissione ha dinanzi almeno una ventina di «disegni di legge» presentati dal governo, tra i quali alcuni di notevole importanza, senza contare le proposte d’iniziativa parlamentare («proposte di legge») che sono quasi altrettante. I disegni di legge che preoccuperanno però tutti i lavori saranno quelli presentati appena di questi giorni: la riforma cioè delle imposte dirette, la riforma dei tributi locali, le riforme scolastiche dell’on. Corbino e quello non ancora presentato, ma che già travaglia l’on. Gasparotto, il disegno sulla Nazione armata. Si può prevedere che quest’ultimo progetto interesserà vivamente paese e parlamento. Già nella commissione parlamentare consultiva si è sentito odor di battaglia. Chi ha preoccupazioni militari e nazionaliste solleva i più forti dubbi contro la «nazione armata», e i socialisti e repubblicani per contro trovano che le idee dell’attuale ministero sono ancora troppo passatiste. Nella stessa commissione si è delineata oramai una linea di accentuata differenziazione. L’on. Degasperi prendendo la parola a nome dei popolari, rilevò che per ragioni ideali, sociali e finanziarie qualsiasi ordinamento il quale esigesse maggiore spesa o una ferma prolungata e non fosse per la sua stessa struttura l’avviamento alla Nazione armata troverebbe nell’attuale coscienza del paese ostacoli insormontabili. Dopo tali dichiarazioni, il concetto fondamentale del progetto Gasparotto – avviamento alla Nazione armata – venne dalla grande maggioranza della commissione approvato. Ma altro è il concetto generale, altro è il modo dell’attuazione. Noi spendiamo attualmente per le spese militari 1 miliardo e 651 milioni, ivi compresi quasi 300 milioni per l’arma dei carabinieri e esclusi i corpi armati della guardia regia e della guardia di finanza. E notate che si tratta di un esercito il quale si trova in stato di transizione con molti quadri e pochissime forze da riempirli. Quando si passerà sul serio a costituire i nuclei di organizzazione e d’istruzione per la nazione armata, non rischieremo – vedi esempio della Svizzera – di spendere ancora di più? E d’altro canto ancora – data l’attuale situazione interna – è oggi attuabile un organismo civile-militare (chiamiamolo così) che dilacererà lo Stato in due eserciti, il fascista e il comunista? Preoccupazioni gravi alle quali non riuscirà facile il rispondere adeguatamente. Più serena prospettiva ci offre oggidì il lavoro della commissione permanente per l’economia nazionale. In essa si è attaccato sul serio, in base al disegno del Governo voluto dai popolari, il problema della riforma agraria, colla legge sul latifondo. È un inizio promettentissimo, in cui gli amici nostri – come segretario della commissione funge l’on. Romani – svolgono un’attività encomiabile che si dovrà poi estendere a tutta intiera la legislazione sul possesso e sulla coltura del suolo. Delle questioni nostre regionali discorreremo più appresso. |
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| 41921-1925
| Si è avuto nel Senato, in sede di interpellanza, un dialogo tra interpellanti e Governo circa la questione dell’Alto Adige. Il dibattito dovette limitarsi a questi interlocutori, perché sulle interpellanze hanno la parola solo gl’interpellanti per chiedere e i rappresentanti del Governo per rispondere. Il «novum» fu l’intervento del senatore Credaro il quale parlò e come membro del Senato e come commissario del Governo, rinnovando la tradizione dei proconsoli che venivano nelle assemblee romane a difendere la loro politica: atto senza dubbio di onesta franchezza, ma, costituzionalmente parlando, strano assai, giacché converrebbe chiedersi che cosa sarebbe avvenuto se, oltre il senatore Credaro, commissario generale della Venezia Tridentina, avesse preso la parola anche il senatore Salata capo dell’ufficio centrale per le Nuove Provincie e se poi infine al capo responsabile del Governo, unico responsabile diretto in confronto del Parlamento, cioè all’on. Bonomi fosse toccato di modificare, attenuare, correggere o anche semplicemente ricalcare le dichiarazioni dell’uno o dell’altro. Per quest volta il trio venne evitato, ma anche il solo duetto è nuovo indice di quella incertezza di competenze che si rivela ormai troppo frequentemente quando si tratta delle cose nostre. Leggendo le parole del sen. Spirito , per il quale «l’on. Credaro chiese al Governo provvedimenti per richiamarlo (il Peratoner) al rispetto delle leggi, ma inutilmente» o leggendo le parole dello stesso Credaro non essere egli che umile esecutore delle direttive ministeriali o leggendo le altre dichiarazione nella replica dello stesso Credaro con cui egli, il Governatore, «vorrebbe che il Governo italiano stabilisse dei premi per gli impiegati italiani che si impadroniscono del tedesco al fine di rendere più facile le pratiche con gli abitanti tedeschi», e in tal riguardo «si associa al senatore Spirito nella domanda che siano anche ben remunerati», vien fatto di domandarsi: Ma insomma il senatore Credaro è sì o no, commissario generale della Venezia Tridentina, rappresenta qui o non rappresenta la politica del Governo? Se sì, come mai vi possono essere, in questioni importanti, delle direttive di governo che egli non condivida e delle quali non possa e debba assumere tutta la responsabilità? Come mai si possono dare degli strumenti ritenuti necessari per tale politica e che il commissario non chieda ed ottenga direttamente dal suo governo ma debba invocare attraverso una discussione del Senato? Ogni profano dovrà conchiudere per forza che qui la macchina delle responsabilità non funziona logicamente o non funziona affatto. Il profano non saprà dire ove il congegno sia più difettoso, ma l’incongruenza è manifesta; né tali conclusioni giovano a rafforzare l’autorità dello Stato, specie in confronto di popolazioni che dalla rigidezza passata non possono essere preparate ad accogliere con indulgente giudizio un così evidente relativismo politico. Detto questo troviamo inutile entrare nel merito della discussione. Non si sono dette delle gran novità, ma senza dubbio si sono dette anche cose molto giuste ed alcune altre che, senza essere molto esatte, si spiegano tuttavia colle giustificate preoccupazioni di ottimi patrioti. Ma – sia scritto in linea generale e senza particolare riflesso alcuno – quanta superficialità, quanta vacuità questa retorica senatoriale! Quanta ingenuità in quel senatore, il quale ha scoperto che Bolzano è città tedesca, ma che viceversa, se il Re vi fosse entrato, tutto il popolo avrebbe applaudito, quanto semplicismo in quel professore che invoca un provvedimento (energico si capisce) del Governo per imporre la bilinguità in tutti gli uffici e in tutte le scritte, in tutti gli esercizi pubblici, compresi gli alberghi… E come è balordo quel continuo cianciare del «Deutscher Verband», quasicchè invece di un’aperta alleanza di due partiti politici si tratti di una specie di massoneria pangermanista. Pare di leggere i giornali tirolesi di buona memoria, quando gettavano l’allarme sulle misteriose macchinazioni dell’«Irredenta»!! D’altro canto che dire del presidente del Consiglio, il quale vuol far tacere tutte le preoccupazioni colla presunta assicurazione di Toggenburg che ora i tedeschi sono disposti a riconoscere il buon diritto dell’Italia e a collaborare; e cioè a pochissimi giorni dalle rinnovate dichiarazioni di Reut- Nikolussi alla Camera – presente lo stesso Toggenburg – con cui, inneggiando alla liberazione dell’Irlanda, si invocava negli stessi termini la liberazione del «santo Tirolo»?! Ingannati o ingannatori? In ogni caso a tutti noi che, per troppo lunga comunanza di storia e di vita politica, dobbiamo conoscere uomini e cose più addentro di quello che non concedano a professori e letterati le peregrinazioni estive, codesto spettacolo non può che riuscire penoso e preoccupante. |
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| 41921-1925
| «Un elettore» scrive alla «Voce del popolo» per lamentare che i popolari trentini nell’ultimo voto politico abbiano votata la fiducia al Ministero. Il Governo ci tratta malissimo – dice l’elettore – dunque voi dovreste votare contro e non a favore, giacché il voto di fiducia «serve a convalidare tutte le ingiustizie fatte e che il governo sembra ancora disposto a fare». E la Redazione del giornale socialista che dev’essere molto intima dell’«elettore», certa d’aver posto con tale ragionamento i popolari in grave imbarazzo esclama: «staremo a vedere come i nostri deputati… preti se la caveranno d’impaccio». Ecco, senza essere autorizzati a prendere la parola in nome loro, noi vorremmo rispondere così. 1) Argomento ad hominem. Caro lettore socialista se il governo Bonomi è tal pessimo governo che bisogna assolutamente abbattere nell’interesse e per la salvezza del Trentino, come mai il deputato più vicino al tuo cuore, cioè il direttore stesso del tuo giornale, l’on. Groff, non fu presente alla Camera, quando si trattò di dare il voto, preferendo di starsene qui ad organizzare la campagna elettorale del suo partito, invece che essere a Roma a dare il colpo di grazia al governo che talmente ci maltratta? Staremo a vedere anche noi come codesto deputato anti… prete se la (sic!) caverà d’impaccio! 2) Argomento oggettivo. Votando sì o no a conclusione della discussione sulle direttive politiche del Governo, discussione che versò sovratutto sul suo atteggiamento in confronto dei fascisti, degli scioperi ed in generale del problema dell’ordine pubblico, si trattava di esprimere o di negare al Gabinetto Bonomi la fiducia ch’egli abbia l’onesto proposito di ristabilire con energia l’autorità dello Stato, sia in confronto dei violenti di sinistra quanto dei violenti di destra. A questa domanda di fiducia i popolari credettero di poter rispondere sì, i socialisti, i fascisti ecc. furono di parere diverso. Qui non c’entrarono considerazioni d’altro ordine, né di carattere economico, né d’indole differente. 3) Ma poniamo pure che il significato del voto si possa estendere a tutta la politica del gabinetto Bonomi e supponiamo che a questo Ministero si debbano imputare i mali trattamenti, ai quali – secondo la Voce – va soggetta la nostra regione. Anche in tal caso è speculare sulla poca conoscenza che possono avere i nostri elettori dell’organismo parlamentare italiano il voler presupporre che gl’interessi regionali debbano da soli determinare il voto dei deputati di una data regione. Allora non vi sarebbero più partiti nazionali, comprendenti cioè tutta la nazione, ma vi sarebbero solo partiti regionali che voterebbero pro o contro il Ministero a seconda dell’interesse locale. Avviene ciò alla Camera italiana? In nessun caso, e i primi a seguire costantemente un criterio politico generale sono proprio i socialisti i quali votano sempre contro il governo perché governo borghese, cioè governo non socialista. Indipendentemente dal fatto se tale governo tratti meglio o peggio l’una o l’altra regione. È quindi questione di disciplina: la decisione viene presa dal gruppo parlamentare come risultante dell’opinione generale e a tale risultante bisogna che si adattino anche quelle minoranze le quali fossero di parere diverso. Ed è giusto che sia così, giacché se v’è modo di salvaguardare gl’interessi di una regione o di una provincia, è precisamente quello di difenderli a traverso la forza di un grande partito. Quattro o cinque deputati, isolati, raggiungerebbero certo ancora meno. E quindi è naturale che i punti di vista regionali siano subordinati al punto di vista generale, dal quale traggono la loro forza. 4) Ammettiamo però che se il Ministero Bonomi fosse stato o fosse il Ministero che tratta peggio degli altri i nostri problemi regionali, i deputati potrebbero giungere anche alla dimostrazione più forte che starebbe a loro disposizione, cioè a quella di uscire dal partito popolare, per avere libertà di votare, a seconda del proprio punto di vista locale. Non sappiamo quanto questa sortita sarebbe utile, ma, comunque, il gesto energico potrebbe apparire giustificato. Ma noi neghiamo la premessa. Bisogna ammettere che quello di buono o di meno peggio che si è raggiunto in questi ultimi mesi si è ottenuto proprio dal Ministero Bonomi. Dal gabinetto Bonomi abbiamo ottenuto notevoli importi per lavori pubblici, un importo complessivo (60 milioni) e uno per il bilancio in corso per la rettifica della Valsugana, la costituzione autonoma provvisoria che ci garantisce meglio della amministrazione passata, un aumento per gl’invalidi che è male non raggiunga l’intiera quota delle vecchie provincie, ma rappresenta senza dubbio un passo innanzi, una soluzione abbastanza sodisfacente della questione della Cassa di risparmio e un’altra meno sodisfacente ma che di fronte all’inerzia degli altri ministeri rappresenta anche un progresso del problema dei titoli prebellici. Certo molte di tali soluzioni devono venir migliorate e molte altre rimangono ancora da raggiungere. Ma l’esperienza ci dice che specie in tali problemi non è decisivo il contegno di questo o di quel ministro, ma che la opposizione viene sovratutto dalla burocrazia la quale rimane con ogni Gabinetto e che, valendosi delle condizioni poco liete del Tesoro e dell’opinione pubblica la quale reclama riduzioni di spese e risparmi, oppone ad ogni richiesta delle Nuove Provincie – e disgraziatamente sono sempre richieste di decine e centinaia di milioni – una resistenza tenacissima. Per vincerla ci vuole uno sforzo altrettanto tenace ed assiduo a traverso i partiti parlamentari e a traverso gli organi dell’opinione pubblica. È quello che tentano e stanno facendo i deputati delle Nuove Provincie. Questa la situazione reale, questa la via diritta. Non ci sono equivoci, non ci sono contraddizioni, c’è del disagio come in ogni politica che s’adatta alla realtà e tende al successo realistico. I socialisti, che cianciano di equivoci, faranno bene a non parlar di corda in casa dell’impiccato. Equivoca è la loro politica che proclama ovunque la guerra più inesorabile ad ogni governo borghese e intanto fanno e rifanno ogni giorno le scale di tutti i Ministeri, per chiedere favori, come fossero dei deputati borghesi o… preti. Equivoca è la politica socialista la quale si rifiuta di collaborare in qualsiasi modo coi borghesi – vedi il caso recente della Giunta amministrativa – ma contemporaneamente vanno ad accattar voti, promettendo tutto il loro appoggio per gl’interessi economici dei comuni, per assicurare lavori pubblici ecc. Equivoca e falsa è codesta politica la quale, mentre a parole disprezza ogni contatto col regime borghese, in realtà sa accomodarvisi assai bene, pur di trarne qualche vantaggio. |
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| 41921-1925
| Si è annunziata ieri ufficialmente la conclusione di una convenzione preliminare fra Russia e Italia per la ripresa di rapporti commerciali. L’accordo non stabilisce né patti doganali né diritti portuali, né scambio di merci, né sfruttamenti di concessioni, ma, rimettendo tutto ciò ad un trattato commerciale da concludersi prossimamente, afferma in tesi generali la buona volontà dei due paesi di riprendere le relazioni commerciali, garantisce in apposita appendice i diritti degli italiani residenti in Russia, prevede la spedizione a Mosca di una commissione di commercianti italiani per lo studio delle condizioni commerciali ed industriali e impegna la Russia a rimpatriare gl’italiani che si trovino ancora colà e desiderino ritornare in Italia. Questa convenzione economicamente parlando, non porterà per intanto grandi frutti. Il mito diffuso largamente e per due anni dalla stampa socialista di una Russia piena di grano, che non attende se non il libero passaggio, per riversarlo sull’Europa affamata, venne miseramente distrutto dalla prova dei fatti e lo stesso on. Rondani , uno dei più oggettivi peregrini di Mosca, dovette dichiarare recentemente alla Camera che pane non ne verrebbe dalla Russia non solo per la momentanea scarsezza, ma non ne verrebbe prevedibilmente per una lunga serie d’anni, perché il contadino russo, dopo la rivoluzione si è avvezzo a mangiare pan bianco e così il consumo interno è aumentato fino ad esaurire la produzione. Anche sull’esportazione di altre materie prime nessuno che conosca la situazione può farsi illusioni. Ma l’accordo preliminare aprirà forse la via ad avviare relazioni industriali che possano recare all’Italia, in qualche anno, vantaggi non disprezzabili. La clausola invece di immediata utilità e che interessa vivamente il nostro paese, può essere quella riguardante il rimpatrio dei prigionieri italiani ex austriaci. Nessuno sa dire quanti siano. Alla Camera si parlò di 10, 20 mila. L’on. Flor crede, calcolando evidentemente sulle tabelle dei dispersi, che siano circa 4 mila. L’on. Rondani invece che ebbe dirette informazioni dalle autorità bolsceviche calcola che quest’italiani dispersi possano essere da mille fino a milleduecento, dei quali forse solo alcune centinaia sarebbero disposti a rimpatriare. Comunque, sono centinaia di madri che attendono il rimpatrio dei loro figli, e il ritorno avvenuto anche di questi giorni di due ex prigionieri di Mezolombardo e le notizie che portano, confermano che non tutte le madri avranno atteso invano. Onde il nuovo formale impegno preso dalla Russia va salutato con viva sodisfazione. Notevolissima è la circostanza che la delegazione commerciale russa, diretta a Roma dal signor Worowski, si è indotta a firmare un accordo a breve distanza dal dibattito, svoltosi negli ultimi giorni alla Camera. Come si ricorderà gli oratori di estrema sinistra sostenevano a tutta forza la tattica del Worowski e gli davan completamente ragione, chiedendo che l’Italia si adattasse alle condizioni della Russia, la quale subordinava il rimpatrio dei prigionieri ad un certo riconoscimento diplomatico e alla rottura di ogni relazione colla vecchia ambasciata russa che a Roma rappresenta ancora il regime costituzionale degli emigrati (Kerenski). La maggioranza della Camera insistette però nel distinguere nettamente la questione dei prigionieri da quella dei rapporti commerciali e politici e affermandosi sulla mozione Cavazzoni - Degasperi che esigeva dalla Russia l’incondizionato rimpatrio dei prigionieri e faceva voti per la ripresa dei rapporti commerciali, non parlando affatto di quelli politici, o votando poi compatta, dopo il ritiro della mozione, per quella più semplice dell’on. Di Cesarò la quale dava mandato di fiducia al Governo, tolse a Worowski ogni illusione che fosse ancora possibile sfruttare la questione dei prigionieri per finalità politiche e diplomatiche. Così la delegazione russa, a dibattito chiuso, si dichiarò pronta a firmare un accordo analogo a quello concluso già il 16 marzo coll’Inghilterra, accordo che l’Italia era disposta a sottoscrivere già alcuni mesi addietro. Calato così il sipario sull’increscioso episodio di lunghe diatribe diplomatiche, nelle quali i comunisti russi si addimostrarono degnissimi competitori della diplomazia vecchio stile, si potrà ora iniziare l’attuazione di un’opera umanitaria e contemporaneamente si avvieranno quei rapporti di traffico e di commercio che riavvicineranno i due paesi. Alieni da ogni pregiudiziale storica o legittimista, qualora a tali rapporti non vengano subordinate questioni di carattere umanitario, noi facciamo voti che gli stessi promuovano anche il ristabilimento di civili relazioni politiche, in modo che il mondo russo, nel quale si esperimenta il regime dei soviet e del comunismo, si schiuda allo studio e all’esplorazione dei nostri economisti e dei nostri sociologi e la verità, comunque essa sia, faccia la sua strada. Noi crediamo che il progresso sociale non ne possa ricavare che nuovo incremento. |
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| 41921-1925
| Quando arrivava la fine dell’anno, eravamo soliti di volgere uno sguardo retrospettivo sul lavoro compiuto e di elencare con qualche compiacenza gli articoli più notevoli, le descrizioni, le narrazioni più importanti, le formule più comprensive, colle quali durante l’anno il giornale aveva rivestito il suo pensiero o colorito e fissati nella cronaca i fatti più salienti. Questo costume che, rispetto ad oggi, può sembrare patriarcale, fu stroncato dalla guerra, fatto universale in ampiezza, immenso in profondità, e così sostanziale nel suo contenuto politico e nelle sue conseguenze sociali che tutti gli altri scompaiono nell’ombra come purissimi accidenti. Ond’è che elencare, rievocare e riassumere gli avvenimenti di un anno sembrerebbe oggidì impresa puerile e di gusto arcaico come ripetere il catalogo delle navi d’Omero. Questa conclusione vale anche per una cerchia alquanto maggiore, cioè per le idee e per gli avvenimenti di natura locale; e questo, più che della guerra, è una conseguenza della mutata situazione politica. Prima dell’annessione, quando scrivevamo «paese» intendevamo «Trentino» e questo «paese» suddividevamo addirittura in «regioni». Ora, il nostro paese è l’Italia e «regione» è per i più la Venezia, e a stento noi riusciamo a far chiamare così la Venezia Tridentina. Levate in tal maniera le barriere che chiudevano il nostro piccolo mondo antico, si sconnette e vacilla anche il duomo ideale, costruito dalle nostre concezioni storiche ed ambientali; le pareti si allargano e si spostano, la cupola gira e s’inclina. Innanzi a questo fenomeno naturale ed inevitabile di ampliamento e di trasformazione, vi sono due categorie d’uomini o più esattamente due categorie di abitanti del nostro microcosmo prebellico che si abbandonano a falsi timori o a fallaci speranze. Gli uni, e sono i misoneisti, gl’irreduttibili laudatores temporis acti, i conservatori che tirano innanzi, guardando all’indietro, temono che questo duomo ideale, piantato sui pilastri della nostra storia, traballi e rovini rumorosamente, come il tempio dei filistei, trascinando nella catastrofe, coi detriti del vecchio, colle misure dell’angusto, anche gli elementi del buono. Gli altri, e sono gl’iconoclasti, gli spiriti che si gonfiano di frasi e negano l’essenza delle cose, i magnificatori d’un progresso formale e vacuo, gli odiatori di tutto quello che è idea acquisita e esperienza consolidata, sperano che questo duomo si squarci per lasciar libero lo sguardo verso un cielo infinito in cui l’occhio si sperda come in un mare ignoto ed oscuro senza luce di fede, ma con qualche lampo di una luce rossastra che sia emanazione della mente umana ribelle e arbitra delle proprie sorti. Entrambe queste categorie hanno torto, e noi siamo insorti a combatterle. In quest’enunciazione sta tutta la sintesi della nostra attività, l’elenco delle nostre opere, lo sguardo retrospettivo su quello che fu o almeno si propose di essere il nostro giornale nell’anno 1921. Noi credemmo e crediamo che la catastrofe, pusillanimemente vaticinata dai misoneisti, non avvenga, o meglio noi siamo convinti ch’essa non possa avvenire, se vi si opponga la tenace volontà dei buoni che, abbandonando al corso del tempo i concetti formali e dimensionali del microcosmo trentino, delle nostre idee e delle nostre tradizioni, difendono il contenuto sostanziale e indipendente dalle ragioni dello spazio e del tempo. Perciò abbiamo predicata, inculcata e lodata la vita attiva e combattiva, l’opera resoluta e fidente nell’avvenire. Le circostanze invero hanno voluto che di tale opera più che gl’inspiratori e i coordinatori, fossimo i cronisti. Per fare del giornale il banditore e il propulsore di queste idee ci sono mancati il tempo e la lena, cosa deplorevole, senza dubbio, ma spiegabile e, crediamo, anche scusabile, quando si pensi al ritmo travolgente che incalza nel dopoguerra tutta la trasformazione e l’assestamento materiale e morale della nostra regione e quando si avverta che troppo spesso al predicare e al confortare parve doversi preferire l’agire e il porre diritte le mani sopra i propulsori della nostra vita sociale e politica. Tuttavia, benché frammentaria e, per dir così, a corrente alternata, benché talvolta implicita più che esplicita, non è mancata nel «Nuovo Trentino» durante l’anno che muore, questa direttiva progressista, ottimista, energetica verso un avvenire sicuro, garantito dall’opera fiduciosa di uomini che, liberati i vecchi sassi riquadri dalle macerie del tempo, lo ricostruiscono colle proprie mani. Certamente si sarebbe dovuto far meglio e fare di più, e noi ce ne scusiamo; ma l’importante, il decisivo è che la via, il metodo, l’idea direttiva siano stati giusti. Comunque, potessimo anche venir rimproverati di manchevole zelo in confronto di questa categoria di uomini amici, a minor ragione ci si potrebbe muover rimprovero per l’altra categoria, che è avversaria dei nostri principi e delle nostre idee sostanziali. La parola «autonomia», comparsa con tanta insistenza su questo giornale, non è che la veste di un pensiero più profondo e più essenziale di ogni criterio politico e amministrativo. La lotta autonomistica, se può valere nelle sue finalità immediate, per una riforma amministrativa o per una ricostruzione politica, equivale però nelle sue origini profonde ad una battaglia per la libertà della famiglia, della scuola, della coscienza e il suo trionfo finale dev’essere la liberazione dell’anima trentina dalle nebbie di un razionalismo di stato che la minaccia di asfissiare. E ricongiungendo questa lotta, che poteva sembrare legittimista, alla grande battaglia nazionale per il rinnovamento organico e sociale dell’intiera famiglia italiana, noi sposiamo il genio del luogo al genio della stirpe e conduciamo per vie naturali e senza scosse quest’anima libera del microcosmo trentino al macrocosmo italiano, sicché l’ideale della patria derivi logicamente dall’ideale del luogo natio. Gl’iconoclasti nutrono una fallace speranza, quando credono che abbattendo il duomo, sotto cui dianzi figuravamo il complesso delle nostre concezioni e tradizioni locali, non rimanga al di sopra che l’emisfero di concezioni razionaliste e d’idee deterministe che sembra siano state il patrimonio più comune degl’intellettuali della nazione nel secolo passato. Oggidì, nel momento in cui noi entriamo a far parte della Nazione, le idee vanno mutando; la curva del nostro vecchio duomo va a ricongiungersi nella gloriosa elisse della cupola di Michelangelo, com’è vero che la nostra entrata nella famiglia italiana coincide con una meravigliosa rinascita di spiritualità. E al di sopra ancora, nell’alto dei cieli, si riaccendono le stelle della fede. Le idee sostanziali della nostra tradizione locale non muoiono. Cambiano le forme, mutano i tempi; combattendo per il contenuto ideale e sostanziale del nostro Trentino noi combattiamo per le idee fondamentali ed eterne che devono regnare nell’universo. Mentre scriviamo quest’ultime righe, come ci accadde spesso durante codesto travagliato ventuno il quale al raccoglimento del pensiero non ha riservato che le ore notturne, ci sorprende l’alba dell’ultimo giorno dell’anno. Nessuna immagine ci aiuta a misurare il tempo come la visione del cielo. Le stelle che brillano stamane, sul finire del 1921, portano ancora i nomi che diedero loro i Babilonesi, gli Assiri, gli Arabi, e, dicono gli astronomi, che la loro luce per arrivare fino a noi impieghi migliaia di anni. Non occorre la formola d’Einstein per avere, innanzi a questo spettacolo, la sensazione dell’incommensurabile e per sentire tutta l’inanità, nello spazio e nel tempo, di noi creature d’un giorno che passiamo come pulviscolo nell’universo. Ma nello stesso tempo – dice bene il Flammarion – nulla ci avvicina al cielo spirituale quanto il cielo fisico. In questa volta celeste noi sentiamo «l’Amor che muove il sole e le altre stelle», supremo creatore e dominatore degli spiriti e noi, spirito che trionfa del tempo e della materia, sentiamo che la breve e limitata opera nostra di quaggiù è un attimo di cooperazione coll’eterno reggitore del mondo. È con questa fede che ciascuno di noi ha resistito e resiste al quotidiano travaglio: è questa la fede feconda e irriducibile che per l’anno nuovo auguriamo a noi, ai nostri valorosi collaboratori, agli amici che ci precedono, ci accompagnano o ci seguono. Il nostro posto d’azione è modesto ed oscuro; il piccolo mondo, teatro della nostra vita pubblica, è angusto e lontano dalle grandi correnti; ma nessun posto è così oscuro che, quando vi si combatte per il bene, non lo investa la luce dell’eterna Verità, e nessun paese è così remoto, che quando vi si cooperi con Dio, non lo attraversi l’infinita corrente spirituale che domina l’universo. |
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| 41921-1925
| Il sottoscritto chiede d’interrogare il ministro del tesoro, per sapere se sia vera la notizia che si stia approntando uno schema di disegno di legge per la liquidazione delle pensioni agli ex-militari delle nuove provincie divenuti invalidi o ai loro superstiti e che da tali provvedimenti verrebbero esclusi i così detti «lavoratori militari» che in Austria erano però considerati facenti parte dell’esercito combattente. (L’interrogante chiede la risposta scritta ). De Gasperi |
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| DE GASPERI. Onorevoli colleghi, permettete a me, deputato di Trento, nel momento in cui parlo per la prima volta nel Parlamento della mia nazione e nella mia lingua materna, di ricordare per un momento un altro Parlamento, in cui a un piccolo manipolo di deputati di una minoranza nazionale era commesso l’arduo compito di difendere non i diritti politici, ma i diritti all’esistenza di una nazione e di una stirpe. (Approvazioni). E permettete che questo ricordo io faccia non per dar sfogo a risentimenti personali, ma perché nessun altro ravvicinamento può raffigurare il contrasto, il capovolgimento della situazione sulla nostra frontiera alpina, come il ravvicinamento di questi due scenari politici in cui chi parlava allora da un banco isolato, e parlava inascoltato a nome di una minoranza nazionale, può parlare ora dai banchi di un grande partito italiano, e chi allora si trovava, durante un fosco periodo della guerra, al banco dei ministri, a sostenere una politica che forse non sarebbe stata la sua, una politica di oppressione delle nazionalità minori, sia venuto qui, a nome di un drappello, a prendere atteggiamenti di difesa. E quando durante questo dibattito io ho visto alzarsi l’onorevole De Walther e presentare a nome dei suoi colleghi una dichiarazione di protesta contro l’annessione , io ho pensato a quella lunga serie di patrioti trentini che alla Dieta di Innsbruck e alla Camera di Vienna hanno elevato invano la loro voce per la difesa della nostra nazionalità e per la nostra autonomia, e più indietro ancora ho pensato a quei deputati trentini che nel 1848 si sono presentati al Parlamento di Francoforte per ottenere (e hanno domandato invano di ottenere) il ricongiungimento a quelle che erano le province italiane dell’impero austro-ungarico. (Approvazioni). Questo io ricordo, non per prenderne pretesto di sfoghi, che sarebbero ingenerosi sui vinti e sui caduti, ma perché in questo contrasto io vedo la nemesi storica, vedo il manifestarsi di una legge provvidenziale, per cui le ingiustizie e i delitti dei padri presto o tardi vengono espiati dai figli o dai tardi nepoti. (Applausi). E questo io dico perché sia di monito anche a noi che oggi abbiamo anche assunto il difficile compito di stabilire i rapporti di convivenza tra noi, maggioranza di nazione, e le piccole minoranze allogene, che sono entrate nello Stato. (Vive approvazioni). Questo io dico soprattutto per ravvivare nella nostra popolazione il sentimento di gratitudine per la nazione intiera, che ha sopportato una dura guerra per la nostra liberazione, di gratitudine per il nostro esercito, per il popolo italiano in armi, che sulla Zugna, sull’Altissimo e sul Tonale ha sparso il suo sangue; questo io dico per esprimere la riconoscenza e la gratitudine nostra ai nostri volontari, e soprattutto ai nostri martiri, fra i quali mi è duplice dovere ricordare l’eroico deputato di Trento : sia come primo eletto della circoscrizione di Trento, sia per un certo fatto personale, perché, poco tempo dopo la tragedia, tentai invano a Vienna, nel Parlamento austriaco, in una Commissione di bilancio, che sola allora fungeva in mancanza della Camera, di suscitare l’indignazione contro la tragedia di Trento e contro il delitto che si era compiuto. (Vivi applausi). Al saluto del re, al saluto del presidente della Camera nazionale, noi deputati trentini rispondiamo con una promessa: che cioè noi non dimenticheremo mai, ultimi nati a questa patria, di essere i figli di uno speciale e più lungo dolore e le dobbiamo un più speciale amore e una più profonda devozione. (Applausi). Devozione e riconoscimento che non esprimeremo semplicemente a parole, ma con l’offrire alla patria un servigio speciale, il servigio di essere sui confini alpini, come finora fummo durante la dominazione straniera, i milites confinarii della razza nella difesa della stirpe e dell’esistenza nostra come nazione, di essere di qui innanzi i difensori della compagine statale e dell’unità d’Italia. (Applausi). Compito nostro deve essere quello di costituire lassù una frontiera morale e politico-sociale la quale, più ancora che con le armi, ci difenda contro nuove invasioni e nuove guerre. Il compito non è facile. La Camera ha assistito in questo dibattito, da due o tre giorni con un certo stupore, alle discussioni, alle rettifiche di fatto che sono venute dai rappresentanti delle nuove province, ed ha forse per la prima volta avuto coscienza di quello che è, sui limiti della patria, un conflitto tra diverse nazioni. Forse il popolo italiano, dopo la guerra, nel frastuono di grandi problemi post-bellici, non ha avuto la giusta sensazione della difficoltà e dell’importanza di questi problemi, forse non ha compreso la sensibilità estrema di questa parete che abbiamo eretto sul Brennero, le cui vibrazioni hanno risonanza nelle fibre più profonde di un popolo di 60 milioni. Dinanzi a questo problema, a me pare che lo Stato centralista dalle tradizioni unitarie liberali non abbia né esperienze da sfruttare, né formule da applicare, né strumenti politici da mettere in opera. Perciò ritengo che il problema, pur avendo di mira di rinforzare la compagine statale e di assicurare la unità della patria, deve avere una soluzione regionalista, o localista, se vi piace di dire meglio, non solo per la esperienza che vi possono portare quegli uomini politici i quali sul terreno sperimentale, per esperienza dei rapporti fra popoli di diverse nazionalità, come la monarchia austro-ungarica, hanno imparato, hanno studiato, hanno applicato delle formule di compromesso per la convivenza di diverse nazioni e di diverse lingue, ma anche e soprattutto perché nella istituzione di autonomie locali nelle nuove province è contenuto quel tanto di libertà e quel tanto di garanzia per il diritto di esistenza nazionale, che noi dobbiamo e possiamo concedere a cittadini di diverse lingue, senza intaccare la nervatura centrale dello Stato. Perciò noi domandiamo la ricostituzione delle autonomie locali nelle nuove province, non soltanto per la nostra concezione organica dello Stato, non soltanto per le esigenze stesse della nostra situazione di trapasso dall’una all’altra legislazione, ma la domandiamo anche in funzione di questo compito di assicurare una possibile convivenza con diverse nazionalità sulla frontiera settentrionale, perché crediamo che potremo in queste autonomie locali immettere il movimento politico degli allogeni come cellule che sono al servizio e non in contrasto con l’organismo statale. E qui noi ci differenziamo molto nettamente dai nostri colleghi di nazionalità tedesca e slava. Si usano le stesse parole e formule, ma la differenza è sostanziale per il contenuto e per la tendenza dei nostri postulati. Mentre i tedeschi hanno chiesto nel loro progetto di autonomia una autarchia politica nazionale con propria milizia, con propria bandiera e bilancio, con la tendenza ad un regime cantonale, cioè una specie di compartimento stagno che impedisca quasi l’infiltrazione anche naturale e pacifica dello Stato e della nazione italiana, i nostri postulati invece (e non sarà male che precisiamo, dal momento che durante questo dibattito si è parlato tanto in generale di autonomie) sono, in concreto, questi. Riguardo al decentramento delle funzioni statali domandiamo che vengano mantenuti agli attuali commissari generali di Trento e di Trieste, che sostituiscono le vecchie luogotenenze, ed agli attuali commissari distrettuali civili quelle maggiori funzioni che la luogotenenza ed il capitanato austriaco avevano in confronto delle prefetture e sottoprefetture italiane. Sul terreno degli istituti locali domandiamo che il comune, nella sua gestione amministrativa, sia del tutto indipendente dagli organi statali, che il controllo sia esercitato solo dalla giunta provinciale integralmente elettiva (approvazioni) e che rimanga la differenza fra piccoli comuni rurali e le città autonome con propri statuti (bene!) : differenza che abbiamo anche in altri Stati, quali l’Inghilterra, la Germania e, fino ad un certo punto, la Francia. A coronamento di questi istituti basilari, domandiamo una rappresentanza provinciale o regionale, la quale abbia i poteri delle cessate diete come vi erano prima a Parenzo, Trieste, Innsbruck e Gorizia, cioè non solo poteri amministrativi e regolamentari, ma per quello che riguarda l’agricoltura, l’amministrazione scolastica, l’azione professionale, il promovimento della piccola industria, un certo numero di lavori pubblici e idraulici anche le attribuzioni e i poteri legislativi. Crediamo che entro questi limiti possiamo costituire nelle nuove province organismi ove si possa fare appello al concorso di tutte le forze locali, per poter avere sulla frontiera, non individui ribelli ai vincoli meccanici dello Stato centralista (vincoli che sono tanto più meccanici quanto più lontani siamo dal centro e più vicini alla periferia) ma membri di organismi vivi che allo Stato unico e sovrano offrano saldezza di consensi ed ordinata efficacia di energie rinnovatrici. Questo programma dei rappresentanti delle nuove province è programma anche generale del partito popolare italiano per tutto il regno. (Approvazioni al centro – Commenti). E io mi sono meravigliato che l’onorevole Mussolini il quale, nel suo discorso, ha pur cercato tanti punti di raffronto e di avvicinamento con il programma del partito popolare italiano (commenti), in un certo punto abbia parlato di un ritorno ad un medioevalismo che noi non riconosciamo e non vogliamo. Nell’attuazione di questo programma autonomista, dovremmo intenderci (e qui parlo solo della Venezia Tridentina) con i tedeschi. Però debbo esprimere la mia meraviglia che l’onorevole De Walther abbia qui fatto una dichiarazione del tutto inadatta ad un avvicinamento di programma per risolvere il problema. Se l’onorevole De Walther avesse protestato contro l’annessione richiamandosi al principio nazionale da cui è sorto questo Stato, richiamandosi ai diritti di razza, ci avrebbe messi in un tal quale imbarazzo. Se si fosse richiamato alle origini dello Stato italiano, che sono consacrate in quelle tabelle affisse alle pareti di quest’aula, ci saremmo sentiti in una tal quale contraddizione perché, è inutile nasconderlo, il fatto che, per avere un confine strategico sufficiente, si è dovuta includere entro il confine dello Stato una massa più o meno grande, più o meno compatta di abitanti non della stessa lingua, di allogeni, ci ha messo senza dubbio in un certo imbarazzo. (Commenti). Avremmo però anche in questo caso potuto rispondere che a questa piccola lesione, piccola in confronto di altre enormi lesioni avvenute in Europa, a questa eccezione, se si vuole, del nostro principio, siamo stati costretti perché dovevamo provvedere, e troviamo naturale che lo Stato vi provvedesse, alla difesa del nostro confine di fronte alla prepotenza e alla tendenza sempre minacciosa della loro razza che da secoli ha invaso sempre il nostro territorio e ha messo in pericolo la nostra esistenza. (Applausi). Ma l’onorevole De Walther nella sua dichiarazione… MINGRINO . Votavate le spese militari al Parlamento di Vienna contro l’Italia! (Vivi rumori). DE GASPERI. Abbia pazienza di ascoltarmi! L’onorevole De Walther è venuto qui a fare una dichiarazione di protesta, richiamandosi non al diritto nazionale, ma al diritto storico. Egli ha detto che fin dal XIII secolo è sempre esistita una unità organica e politico-storica del Tirolo e oggi ha detto da Innsbruck fino a Salorno, cioè al villaggio che finora, tradizionalmente, segnava il confine linguistico fra il Trentino e il Tirolo, e in nome di questa unità ha protestato contro l’annessione e contro lo strazio di questa provincia storica. Ora questo mi fa concludere che la mentalità dei nostri colleghi tedeschi è sempre la stessa. Se oggi, dopo quello che è avvenuto, continuano nella Camera italiana ad appellarsi al diritto storico, allora, in nome di questo diritto storico, essi dovrebbero altresì reclamare anche l’annessione o la disannessione, verso il Tirolo, del Trentino, perché nel XIII secolo come Bolzano anche il Trentino era nelle stesse condizioni, ed avrebbero anche ragione di reclamare la ricostituzione dell’impero austroungarico! (Approvazioni). Non solo, ma in questa dichiarazione formulata da tedeschi vedo un brutto sintomo, perché in fondo essi si sono richiamati a quello che è il diritto del conquistatore, il diritto dell’usurpatore, giacché‚ i diritti sul Trentino – anche ammessi i diritti storici – provengono soltanto dalle usurpazioni commesse dai conti del Tirolo, che furono poi gli Absburgo, che soppressero l’autorità dei liberi principi di Trento. Ma io credo che i nostri concittadini tedeschi non abbiano fatto appello – spero che sia questa la ragione – al sentimento e al principio nazionale, perché sanno che al di là di Salorno non è vero che esista una massa compatta di soli tedeschi. Al di là di Salorno esistono delle minoranze italiane, che lo Stato italiano deve assolutamente difendere permettendone la libertà di sviluppo. Non solo, ma accanto alle minoranze italiane, esiste anche una stirpe, la ladina, che vale come diversa stirpe, ma che in realtà è così affine alla nostra razza che in essa si confonde. E durante l’ultima campagna elettorale l’episodio che ha portato maggiore conforto ai propagandisti trentini, ed a me soprattutto, è stato questo. Mi trovavo in regioni in cui tutto in apparenza era tedesco, in cui le adunanze stesse venivano inaugurate in lingua tedesca, in cui io stesso, in un primo tempo, dovevo tradurre la mia conferenza dall’italiano in tedesco, perché i ragazzi dai 14 ai 18 anni sembravano non comprendere che il tedesco, mentre le altre generazioni più vecchie comprendevano benissimo l’italiano; ebbene, ho avuto la grande consolazione quando, al terzo o al quarto periodo che traducevo, avendo domandato: «È necessario che io vi traduca in tedesco?» di sentirmi rispondere «No, basta il tedesco! Comprendiamo anche l’italiano». Questo «basta» credo debba essere un programma fermo del Governo italiano. Non si tratta qui di sopraffare i tedeschi. Quelli che sono tedeschi noi li rispettiamo come tali. Si tratta di ricuperare alla nazione quelli che sono italiani, quelli che ne hanno perduta la coscienza e soprattutto i ladini. (Applausi). Per questo, pur avendo noi la ferma tendenza di venire ad un accordo ed a un necessario compromesso anche con i cittadini di altra lingua, dichiariamo però che non possiamo trattare che al di là di Salorno vi sia una specie di compartimento stagno contro tutto quello che è italiano e contro lo Stato italiano. L’onorevole Orano, esponendo il suo programma autonomistico, ha espresso la sua meraviglia perché nel discorso della Corona non si è ripetuto quell’accenno alle autonomie, che fu fatto nel precedente discorso della Corona. Ora, siccome quell’accenno era dedicato specialmente alle nuove province, io debbo dire che, se posso con lui consentire nel lagnarmi o nel deplorare che nel discorso non ci sia un più specifico accenno all’idea del decentramento e delle autonomie regionali in genere, per quel che riguarda le nuove province posso e voglio ammettere che la mancanza di questo accenno si debba al fatto che si sia creduto superfluo, poiché non bisogna dimenticare che questa Camera nell’estate scorsa, votando la legge sull’annessione, all’articolo 4 ha autorizzato il Governo a introdurre la legislazione del regno, però coordinandola con le esistenti autonomie comunali e provinciali. Con ciò la Camera ha già ammesso in via di principio le autonomie locali nelle nuove province. E oggi non è più necessaria una speciale legislazione al riguardo, e il Governo può, in via amministrativa, convocando i comizi amministrativi della provincia e del comune e della regione, ricostituire quelle autonomie con tutte le loro attribuzioni e i loro concreti contenuti. Naturalmente, dovendosi procedere alle elezioni amministrative, è indispensabile, poiché si rinnova il sistema elettorale, che cadano tutte le bardature feudali austriache, che si introduca il suffragio universale e si riformi tutto il sistema elettorale, coordinandolo ai princìpi generali su cui si fonda lo Stato democratico. E fino a questo punto, sono perfettamente d’accordo con il programma dell’onorevole Mussolini, quando parla di sfasciamento della bardatura austriaca nelle nuove province. Però se egli si riferiva o intendeva riferirsi in genere alla legislazione austriaca, alla legislazione sociale che vige ancora nelle nuove province, devo sollevare subito delle obiezioni. Da noi gli operai domandano il mantenimento di una parte della legislazione sociale, come, ad esempio la legislazione delle casse ammalati, che nel regno ancora non esistono, o appena stanno istituendosi. Da noi artigiani e industriali domandano il mantenimento del regolamento industriale col tirocinio obbligatorio, con le scuole professionali obbligatorie, e se qui l’ufficio comunale di Roma le introduce in via facoltativa, perché dobbiamo rinunziare a questa istituzione sociale che porta tanti vantaggi, che serve soprattutto a sollevare proletariato e artigianato? Non parlo poi della procedura civile, il cui mantenimento viene unanimemente richiesto. Altrettanto si dica per i pubblici servizi. Noi domandiamo che anche a questo riguardo il Governo applichi un certo criterio di discernimento. Vorrei chiedere anzi perché le Commissioni parlamentari o extraparlamentari, che si occupano della riforma della burocrazia, non hanno sentito ancora i funzionari delle nuove province, i quali hanno già governato con altra amministrazione che in certi riguardi si ritiene più semplice. Vorrei chiedere che da qui innanzi si faccia questo studio comparativo. Perché bisognerà pur sapere per quali ragioni ad esempio avviene che alla stazione di Trento mentre prima vi erano agli sportelli dei biglietti tre impiegati, oggi ve ne sono dodici, malgrado il numero dei biglietti sia diminuito. E occorre altresì non dimenticare che, per eseguire certe serie di operazioni postali, fu calcolato esattamente, mediante esperimento, che col sistema austriaco si impiegano due ore e col sistema italiano otto ore e un quarto. (Commenti). Lo stesso si dica per le ambulanze postali. Quando io vedo che un ufficio postale, che è capolinea di dieci stazioni, per fare il servizio dei dispacci-lettere spende col sistema austriaco 16 mila lire annue e col sistema italiano 87 mila lire annue, mi domando se non è giusto che studiamo e vediamo se si possa arrivare a risparmiare tanto spago, tante buste e tanta ceralacca di cui fa tanto spreco l’amministrazione italiana. (Ilarità – Commenti). Per questo, onorevoli colleghi, noi difendiamo la posizione e la situazione dei nostri impiegati delle nuove province, per questo domandiamo che la riforma della burocrazia non si applichi sic et simpliciter agli impiegati delle nuove province, che erano in una posizione morale migliore, perché l’Austria per i suoi scopi burocratici, per i suoi scopi politici, se volete, di fatto giungeva a questo risultato, che l’impiegato aveva una posizione più elevata e più stimata. Per questo domandiamo che l’ufficio centrale delle nuove province non sia soppresso, senza aver prima raggiunto il suo compito, che è quello di essere un laboratorio sperimentale tra le due legislazioni, in modo da trarre l’esperienza nel confronto delle due amministrazioni. Ci sono dei pavidi i quali temono che con l’accogliere qualche esperienza della passata amministrazione, anche se si chiama austriaca, si venga a menomare la grandezza della vittoria, a svalutare i sacrifici dell’Italia. Ma è sempre avvenuto nella storia che lo spirito superiore della civiltà ha assorbito e assimilato le forme materiali della cultura e le ha fatte asservire al proprio trionfo. (Applausi al centro). E io vedo il trionfo completo della nazione italiana in quel giorno in cui gli stranieri, affacciandosi al Brennero, dovranno constatare che l’Italia non solo ha vinto con le armi, ma ha saputo anche assimilare, assorbire, asservire ai suoi scopi le forme materiali della cultura straniera. (Vivissimi, prolungati e reiterati applausi al centro – Molte congratulazioni). |
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| DE GASPERI Mai! Mai! È falso! […] DE GASPERI. Sarò brevissimo. Ma non posso permettere, quale rappresentante della Venezia Tridentina, che qui si manifestino dissensi e dissonanze, quasi che nella nostra regione ci sia un’anima nazionale diversa da quella che fu manifestata nel mio discorso e in quelli degli altri colleghi popolari. (Interruzione del deputato Flor). Prego lasciarmi parlare. Non offenderò il collega Flor, come egli ha offeso me… FLOR. Non ho offeso nessuno! DE GASPERI. Quando di qualcuno non si dice la verità, lo si offende sempre. Anzitutto una semplice osservazione in confronto del collega Toggenburg . Nel mio discorso ho fatto un semplice cenno, molto lontano e molto storico, perché sentivo il dovere, come membro di un grande partito nella Camera italiana, di fronte ad un deputato tedesco, di essere molto generoso e dimenticavo quel tanto che avrei potuto ricordare. Ho detto che l’onorevole Toggenburg si trovava al banco dei ministri a difendere una politica che forse non sarebbe stata la sua, come direttiva di Governo, nel caso che egli fosse stato capo di Governo. Ancora oggi ritengo che l’onorevole Toggenburg, per la sua mitezza d’animo, per la sua educazione incline piuttosto ai compromessi e alle attenuazioni, non sarebbe stato l’uomo che avrebbe di sua iniziativa attuata la politica di repressione e di terrore come veniva fatta nel nostro paese. Però, dal momento che oggi egli si richiama a queste mie parole, come attestato di totale giustificazione, gli devo dire: onorevole conte Toggenburg, della vostra partecipazione a quel Governo giudicherà la storia, giudicheranno gli uomini, giudicherà Dio! (Rumori a sinistra – Interruzioni). Non voglio né posso presumere di giudicare io di questa sua collaborazione morale e intellettuale, né se egli, come ha detto il collega Grandi , non avrebbe potuto dare le dimissioni nel momento decisivo, in cui gli si chiedeva di applicare una politica che non approvava come ha detto oggi egli stesso. Noto poi che potevamo trovarci molto bene a collaborare insieme per la soluzione di comuni problemi economici. Il secondo fatto personale riguarda il collega Flor. Egli sente il bisogno di dire tutte le volte che noi parliamo: badate che il Trentino ha mandato qui due deputati internazionalisti e anche altri che al di là facevano gli austriacanti. Potrei rispondere in modo personale al collega Flor, che si dice della scuola di Battisti, ricordandogli certe sue dichiarazioni recenti fatte a proposito dell’attività di Cesare Battisti. Ma, colleghi Flor e Matteotti, vi rinunzio, riservandomi di farlo, se insisterete, altra volta. Non citerò il collega Flor, ma uno dei capi più autorevoli del suo partito, che era Renner, il cancelliere della monarchia austriaca, il quale nella sua relazione ufficiale che egli presentava pel trattato di S. Germano in nome della repubblica austriaca, faceva una dichiarazione che è per noi l’attestato più alto, la lode massima che possiamo augurarci, detta da avversari internazionalisti. Egli, dopo avere dimostrato che tanto i cecoslovacchi, che furono coloro che più contribuirono più tardi a mandare a picco l’Austria, quanto gli jugoslavi e i polacchi, fino all’ultimo momento non seppero sottrarsi al bisogno di fare delle dimostrazioni patriottiche, anche di fronte alle pressioni, nel momento decisivo dell’entente, afferma che l’unica deputazione la quale mantenne sempre logicamente un contegno contro l’Austria fu quella trentina. Eccovi le parole precise della sua testimonianza: «Nessuno dei popoli austriaci fu veramente contento, ma eccettuati gli italiani del Trentino, non ve ne ebbe alcuno in effetto tanto malcontento che, se le aspirazioni nazionali e politiche fossero state attuate, preferisse lo smembramento dello Stato alla sua conservazione». Termino ricordando che noi ci siamo comportati alla Camera austriaca, in confronto di altri partiti, in modo così indubbio che, tanto durante la guerra quanto durante le trattative di Versailles, gli avversari hanno detto che noi avevamo voluto in tutti i momenti che l’Austria cadesse e che le nostre terre venissero ricongiunte alla nazione. (Vivi applausi al centro). |
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| 41921-1925
| DE GASPERI. Chiedo di parlare a favore della chiusura. PRESIDENTE. Ne ha facoltà. DE GASPERI. Io e i miei amici siamo favorevoli alla chiusura, ma preghiamo il ministro del tesoro, per risolvere le questioni che sono rimaste in sospeso, di convocare la Commissione valuta, che da un anno in qua non è stata ancora convocata. PRESIDENTE. Metto ai voti la proposta di chiusura della discussione. |
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| DE GASPERI. Noi non voteremo a favore dell’emendamento dell’onorevole Berardelli , per le ragioni espresse dal presidente della Commissione. (Interruzioni replicate del deputato Tuntar). PRESIDENTE. Onorevole Tuntar, la richiamo all’ordine, non è questo il modo di comportarsi in Parlamento. Ogni giorno lei provoca degli incidenti. (Nuove interruzioni del deputato Tuntar). La richiamo all’ordine per la seconda volta. Alla terza volta le dovrò applicare la censura. DE GASPERI. Pur facendo voti che il Governo trovi modo di rivedere la situazione che si è venuta creando per l’agitazione ultima, noi riteniamo che non si possa fare entrare di straforo in questa legge l’emendamento dell’onorevole Berardelli che è una forma di amnistia. Per queste ragioni noi voteremo contro . […] DE GASPERI. Debbo dire che io non ho avuto occasione in Austria di votare pro o contro quella questione , ma se lo avessi fatto, potevo anche disinteressarmene, perché delle sorti dell’Austria e della sua amministrazione potevo interessarmene fino a un certo punto. Ma dell’autorità dello Stato e dell’ordine in Italia, invece, m’interesso più che mai. (Applausi – Rumori all’estrema sinistra). 2ª tornata del 3 agosto 1921 DE GASPERI. L’onorevole Tuntar, cogliendo pretesto da una interruzione, che io non ho fatto, ma che da qualche premuroso informatore mi venne attribuita, ha rinnovato ieri, in sede di processo verbale, l’accusa contro di me e il collega Rodolfo Grandi di avere votato alla Camera austriaca le spese militari per l’esercito e la marina tanto ordinarie che straordinarie . Rispondo prima in tesi generale che posso ammettere che deputati di nazionalità italiana abbiano potuto votare per le spese militari austriache senza venir meno al loro sentimento nazionale (interruzioni e commenti all’estrema sinistra) e ciò in quel periodo, in cui, sotto il presidio della Triplice, la collaborazione militare fra l’Austria e l’Italia contro gli altri Stati sembrava probabile, se non assicurata. (Commenti). Da questo punto di vista giudicarono sempre e votarono i deputati delle varie nazionalità austriache, ed è noto, per esempio, che Kramár, il capo degli Czechi, che durante la guerra divenne amico dell’Italia, prima della guerra avversò fieramente i crediti militari austriaci perché li riteneva destinati a rinforzare la politica balcanica dell’onorevole Di San Giuliano contro la Russia. Venendo al caso particolare mio e del collega Grandi, i soli, che qui potremmo essere rimproverati di incongruente condotta politica, debbo dichiarare di aver votato alla Camera austriaca e conseguentemente alla Dieta del Tirolo una sola volta, non per i crediti militari, ma per una legge sulla organizzazione militare, cioè per la legge della ferma biennale, per la riduzione da tre a due anni della ferma. E per questa votazione ho avuto il plauso degli elettori perché era nell’interesse della popolazione, la quale voleva che questa legge venisse votata. Delle Delegazioni invece, che era il corpo legislativo comune per l’Austria- Ungheria, dove si votavano i crediti comuni di guerra del bilancio ordinario e straordinario, l’onorevole Grandi non fece mai parte e quindi non ebbe occasione di votare. Io venni eletto una sola volta nel 1912 e quella volta parlai e votai contro. Ma quello che deve essere la pietra di paragone è quanto è avvenuto nel tempo in cui le armi austriache si volsero contro l’Italia. L’onorevole Tuntar ha ammesso che durante la guerra negammo il voto alle spese militari dell’Austria-Ungheria di qualsiasi specie. Questo nostro atteggiamento abbiamo assunto non quando la fortuna delle armi era già assicurata all’Italia, ché Caporetto era ancora lontano, ma, coerentemente, fin dal principio della guerra, anche nel periodo della neutralità, tanto che il nostro illustre capogruppo, senatore Conci, venne internato già nel 1915 perché allo scoppio della guerra contro l’Italia, interpellato dal Governo quale fiduciario del partito popolare, aveva protestato contro l’aumento del limite di età a 50 anni per l’obbligo della leva. D’allora in poi il nostro contegno, nei momenti buoni e nei momenti tristi, fu tale da provocare da parte del capo socialista, divenuto poi rappresentante della repubblica austriaca a Versailles, quella dichiarazione che ho citato l’altra volta, e che dice che i deputati trentini si comportarono in modo da non lasciar dubbio che volevano il disfacimento dell’Austria e il ricongiungimento all’Italia. (Applausi al centro – Commenti – Rumori all’estrema sinistra). […] DE GASPERI. L’onorevole Tonello ha visto la tendenza a sfruttare la situazione a favore di un partito. Ora noi intendiamo, come abbiamo sempre inteso, che i poteri dati al Governo siano facoltà di carattere tecnico-amministrativo e non politico e morale. Ci auguriamo che la questione scolastica sia affrontata in pieno dalla Camera con una legge speciale. Detto questo, mi pare di poter aderire, in via di massima, alla proposta formulata dall’onorevole presidente della Commissione. 2ª tornata del 4 agosto 1921 DE GASPERI. Noi teniamo nel massimo conto le ragioni che ha esposto il ministro del tesoro. Però esse hanno un valore, non assoluto, ma relativo a tutta la situazione del bilancio, a tutta la politica del Ministero. Sappiamo che sono state presentate proposte, le quali portano al bilancio ben maggiori aggravi di quello che possa portare un simile aumento e forse le proposte, le quali possono ben più fondatamente venir criticate, che sono state accettate… Voci. Quali? DE GASPERI. Quelle per gli armatori, per esempio. DE NAVA, ministro del Tesoro. Noi non ne accettiamo nessuna! DE GASPERI. Ieri abbiamo assunto la responsabilità, la grave responsabilità di votare in senso del tutto impopolare, cioè contro l’amnistia agli impiegati e lo abbiamo fatto nella convinzione di evitare anche l’apparenza che in una legge, la quale ha senza dubbio un certo nesso con una grande agitazione, che venne inscenata dai funzionari, si potesse dire che la Camera in qualche maniera indeboliva la situazione del Governo, l’autorità, il prestigio dello Stato. Oggi con la stessa lealtà con la quale, nel tempo dell’agitazione, agli impiegati abbiamo detto di non assumere impegno perché venisse concessa una generale amnistia, pur augurandoci che una revisione avvenga per fatti singoli i quali, nella sanzione affrettata verrebbero ingiustamente colpiti, oggi con la stessa lealtà dobbiamo mantenere la dichiarazione fatta in confronto degli impiegati nel momento in cui le nostre dichiarazioni potevano contribuire a farli ritornare all’ordine e alla legalità. Noi ci lamentiamo sempre, quando avvengono scioperi, che lo Stato ceda alla pressione; ebbene, oggi possiamo liberamente agire rispondendo ai desideri, in fondo relativamente modesti degli impiegati. Crediamo perciò di fare il nostro dovere e di rispondere ad un impegno di onore mantenendo le nostre proposte, tenuto conto che l’aggravio complessivo di 35 milioni che esse portano all’erario, non è tale da mettere in pericolo il bilancio dello Stato. E poiché il ministro del tesoro ha fatto un calcolo degli aumenti degli impiegati che hanno 14 mila lire di stipendio per cui si dovrebbe arrivare all’aumento di 2640 lire, seguendo la scala, devo aggiungere che se mai potranno diminuirsi un poco gli aumenti degli impiegati con assegno più alto, purché la grande maggioranza abbia almeno le 240 lire in più. E ciò perché è principalmente per la massa dei piccoli impiegati che noi parliamo. |
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| DE GASPERI. Chiedo di parlare. PRESIDENTE. Ne ha facoltà. DE GASPERI. Sono d’accordo con la tendenza della proposta dell’onorevole Flor, ma non posso accettare la formula, perchè si potrebbe pensare che un atto della Camera dovesse estendere questa sola disposizione a tutte le provincie. In base alla legge di annesione il Governo è autorizzato a coordinare le disposizioni di legge per le provincie locali. Quindi sarebbe meglio dire: il Governo è invitato a estendere la legge alle nuove provincie . |
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| I sottoscritti chiedono d’interpellare il presidente del Consiglio dei ministri, sulla politica del Governo nella Venezia Tridentina. De Gasperi, Romani. |
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| DE GASPERI. Richiamandoci alle nostre precise dichiarazioni antecedenti, ripetiamo che, pur consentendo nel principio che energica e decisa debba essere la condotta del Governo nel mantenere la disciplina e la continuità dei pubblici servizi, e approvandone quindi la condotta per quanto riguarda le direttive di massima rispetto allo sciopero dei servizi collettivi, non voteremo per questa mozione perché, a parte l’intenzione dei proponenti, essa potrebbe venire interpretata come una visione unilaterale del problema; mentre noi, come era limpidamente espresso nel nostro ordine del giorno, parallelamente agli sforzi per ristabilire l’autorità dello Stato, confidiamo che il Governo senta il dovere di attuare quelle riforme organiche che garantiscano ai lavoratori la legale e intera difesa dei loro interessi, cosicché, a una limitazione della libertà di sciopero nei servizi collettivi, debba accompagnarsi una più garantita tutela nei diritti sindacali. Poiché questo concetto di compensazione non è espresso nella mozione Rocco, noi voteremo contro . (Applausi a sinistra). |
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| ONOREVOLI COLLEGHI! Nel luglio 1916, a pochi giorni di distanza dall’olocausto di Cesare Battisti, mentre ancora rombava il cannone, il Governo prendeva impegno di presentare al Parlamento un disegno di legge per un monumento all’eroe trentino. Tale proposito ebbe corso nel 1919, quando il Consiglio dei ministri, nel primo anniversario della redenzione di Trento e Trieste, deliberava di presentare al Senato una proposta che, associando all’onoranza per il Battisti, un doveroso omaggio a Nazario Sauro, esaltasse le supreme virtù civili e militari della Venezia alpina al pari che l’eroismo e la nobiltà della marina e della Venezia adriatica. Il disegno di legge venne accolto ad unanimità dal Senato nella seduta del 18 settembre 1920, e fu presentato poi anche alla Camera per la prima volta nel novembre 1920, e, dopo la inaugurazione della XXVI legislatura, per una seconda volta nel giugno dell’anno in corso. Onorevoli colleghi! La vostra Commissione crederebbe far torto ai sentimenti della Camera se aggiungesse altre parole per raccomandare l’accettazione di questo disegno di legge. Sopra i contrasti e le differenze di parte, al di là della concezione stessa che potè ispirare la vita politica di questi martiri nazionali, noi sentiamo fremere nel loro sacrificio il Genio universale di tutta la stirpe della quale essi hanno consacrato, con impeto di divinazione, la santità delle aspirazioni. Così i monumenti di Trento e Capodistria oltre che tributo doveroso di omaggio e venerazione alla memoria di Battisti e di Sauro i quali assommano nella loro figura il martirio e l’olocausto di tanti altri irredenti quali i gloriosi roveretani Fabio Filzi e Damiano Chiesa, e il dalmata, Francesco Rispondo, dovranno esprimere sovratutto la potenza evocatrice dell’esempio per le generazioni venture ed essere monito perenne per quanti vogliono che l’Italia, fatta più grande e più sicura entro i nuovi confini diventi, fra i popoli, madre di libertà di giustizia e di progresso civile. E la Camera rinnovando il suo atto di omaggio alla fulgida grandezza degli eroi e associando nella stessa esaltazione la memoria dell’intellettuale, che la santità della sua idea rivendicatrice suggella col proprio sangue, alla maschia ed umile figura del marinaio istriano che affronta ripetutamente oscuramente la morte, con maturato proposito di sacrificio, intenderà così che sulle Alpi e sul Mare sorgano per concorso di tutta la Nazione dei monumenti i quali dicano agli stranieri che nessuna forza materiale, può contrastare il trionfo delle giuste rivendicazioni umane, quando siano consacrate dall’olocausto, e ricordino agl’italiani tutti che la Patria non si fa grande e il popolo non si redime senza generosità di sacrificio nei suoi figli migliori. DE GASPERI, relatore. |
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| 41921-1925
| DE GASPERI. L’onorevole Flor ha accennato ad un collega del suo collegio a proposito della presente interpellanza . Ora, associandomi all’interessamento da lui e da altri manifestato, non posso nascondere l’impressione che dalla relazione fatta ora dall’onorevole ministro degli esteri ho ricevuto, salvo la visione di ulteriori documenti che i socialisti dicono di possedere, e cioè che di questa questione di carattere umanitario (che poté essere risolta durante la guerra perfino dai guerreggianti stessi) si faccia una questione di pressione diplomatica. (Commenti – Interruzioni). E mi pare evidente che l’affare diplomatico venne tentato da parte della delegazione russa, giacché il nostro Governo, sia pure agendo per mezzo del Ministero della guerra, come ha accennato l’onorevole Flor (in fondo è ragionevole quando si tratta di prigionieri di guerra) (commenti) ha evitato la questione diplomatica ed ha messo in opera ogni suo possibile mezzo per arrivare alla conclusione di queste trattative. Senza parlare del merito, della parte storica che è stata qui accennata, del fatto cioè che i russi sono stati restituiti e gli italiani delle nuove province non lo sono stati… BOMBACCI. Perché la Russia ha fatto il suo dovere e l’Italia no! (Rumori). DE GASPERI. Io quale rappresentante delle nuove province, di cui in modo particolare si tratta, mi associo al vivo desiderio che i nostri ex-prigionieri possano essere rimpatriati, ma credo che a questo scopo non si giunga venendo alla Camera a dare unilateralmente ragione alla parte contraria e cioè alla rappresentanza di uno Stato che è in contraddizione… (Interruzioni). Non sono addentro come l’onorevole Flor a tutta la questione e sto alla considerazione dei fatti. Posso anche supporre che talora sia mancata tutta la buona volontà da una parte, come è mancata secondo me in quest’ultimo periodo da parte della delegazione russa; in ogni caso ripeto che non credo si giovi alla causa stessa assumendo atteggiamenti unilaterali in difesa di Worowski e credo che si possa riuscire solamente appoggiando nei suoi sforzi rinnovati il nostro Ministero degli esteri. (Approvazioni). Mi auguro dunque che si abbandoni da tutte, e specialmente da quella parte che ha dimostrato di farlo attualmente, qualunque tendenza di pressione diplomatica in una vertenza che deve essere risolta secondo i princìpi umanitari. (Vivi applausi al centro). […] DE GASPERI. Se ho ben inteso la mozione dell’onorevole Chiesa, essa è composta di due parti distinte, una riguarda la questione specifica dei prigionieri, questione che è stata detta anche di sentimento, l’altra concerne la questione del ripristino dei rapporti diplomatici ed economici con la Russia. CHIESA. Commerciali ed economici. DE GASPERI. Mi pareva di aver capito anche rapporti di carattere diplomatico. Ora se la mozione vuol dire accelerare la discussione ed arrivare ad una conclusione riguardante l’azione per i prigionieri, non avrei niente in contrario ad accettare che la proposta venga trattata prossimamente, anche prima delle vacanze natalizie in una seduta mattutina, ma se invece fosse implicita la questione diplomatica non crederei opportuno che questa sera si decidesse su questo argomento. Ma presa notizia del l’interpretazione dell’onorevole Chiesa voterò in favore della proposta. […] DE GASPERI. Una dichiarazione per fatto personale. Osservo che ho dichiarato di essere favorevole alla iscrizione nell’ordine del giorno di una delle prossime sedute antimeridiane della mozione Chiesa. Invece l’onorevole Cavazzoni domanda che non si fissi stasera tale iscrizione all’ordine del giorno. Differenza sostanziale quindi non c’è . (Commenti all’estrema sinistra). |
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| 41921-1925
| DE GASPERI. L’onorevole Flor ha accennato ad un dissenso formale che c’è stato tra me e l’onorevole Cavazzoni l’altra sera al momento della votazione, per derivarne un dissenso sostanziale, dicendo che io avevo parlato in un certo senso per riguardo al mio collegio elettorale, mentre l’onorevole Cavazzoni ha parlato in senso diverso per riguardo alla situazione parlamentare. Debbo osservare che oggi all’ordine del giorno c’è una mozione firmata Cavazzoni-De Gasperi, la quale stabilisce nettamente il nostro punto di vista sostanziale nei riguardi della questione di cui si tratta. Io ritengo e noi riteniamo… PRESIDENTE. Onorevole De Gasperi, ella è iscritto a parlare sulla mozione e parlerà al suo turno. Ora si attenga al fatto personale. DE GASPERI. Debbo constatare, in confronto alle osservazioni fatte, che il numero dei prigionieri, dalle prime cifre di dieci o ventimila, è stato ridotto oggi a quattromila dall’amico Flor e a 1203 dall’onorevole Rondani, il quale ha detto che probabilmente saranno poche centinaia quelli che avranno la volontà e la possibilità di ritornare. Questo dico per ridurre alla proporzione debita la cosa stessa, di cui si discute. Debbo, poi, osservare che il Governo italiano borghese, il quale è arrivato al punto di incaricare come suo ambasciatore autorizzato l’onorevole Bombacci e in un secondo tempo anche l’onorevole Flor, è stato molto meno legato a formule di quel che non si mostrino il signor Worowski e il Governo russo. (Approvazioni). E finalmente vorrei osservare che noi seguiamo questo punto di vista: che il Governo russo debba lasciar cadere ogni difficoltà diplomatica e semplicemente fare nel campo dei prigionieri quel che ha fatto l’Italia. E se noi avessimo la possibilità di aver tanta forza internazionale quanta ne ha l’onorevole Flor, noi vorremmo augurarci di avere alla Duma russa o al Parlamento russo dei deputati che interpellassero il Governo perché non fa il suo dovere, come ha fatto invece il Governo italiano. (Applausi al centro - Rumori all’estrema sinistra – Scambio di apostrofi fra l’estrema sinistra ed il centro). 2ª tornata del 22 dicembre 1921 DE GASPERI. Rinunzierò allo svolgimento , permettendomi solo due brevissime osservazioni sopra le questioni finanziarie su cui è richiamata l’attenzione del Governo e che riguardano le nuove province. Non entro nel merito delle singole questioni, sperando e confidando che il Governo confermerà anche questa sera il suo buon volere di risolvere questi problemi che in parte ha risolto o tentato di risolvere. Rilevo solo che si tratta di due specie di problemi. L’una categoria è quella attinente ai cambi e alla valuta e a tutti i problemi dei titoli rimasti ancora insoluti. L’altra è quella che riguarda piuttosto un’azione diplomatica del Governo, perché forse la Camera non è ancora a cognizione che, per una recente interpretazione della commissione delle riparazioni a Parigi, è stato dichiarato che i benefici delle clausole economiche del trattato non proteggono gli abitanti delle nuove province. Cosicché stranamente, per questo riguardo, gli abitanti delle nuove province non sono considerati dal trattato di San Germano né come amici né come nemici. Sono esclusi dalle une e dalle altre clausole; cosicché per tutto quello che riguarda il riscatto di crediti, il riscatto di titoli, in confronto dell’Austria o dell’Ungheria, gli abitanti delle nuove province sono esclusi da qualsiasi protezione del trattato. Perciò dobbiamo fare un nuovo appello al Governo, perché nelle trattative che, spero, entro gennaio si riprenderanno con gli Stati successori della monarchia austro-ungarica, il Governo italiano assuma la protezione di questi interessi con speciale energia, perché per questi interessi non vige una formula precisa di protezione nel trattato, come per le vecchie province. Aggiungo un’altra osservazione, riferendomi ad un accenno fatto dall’onorevole Matteotti, il quale parlando delle imposte delle nuove province e dei modi di contabilità, mi pare abbia fatto accenno sopra l’amministrazione più o meno corretta nell’una o nell’altra provincia. Ha parlato in modo particolare della Venezia Giulia e ciò non mi riguarda. Vorrei soltanto che dalle sue parole, e certo questa non era la sua intenzione, non rimanesse l’impressione che queste nuove province sono anche come amministrazione ordinaria pesi morti, province passive che vengono qui a chiedere e che non diano. Debbo osservare che l’ultimo bilancio di previsione prevede 411 milioni di entrata e 394 milioni di uscita. Quindi, nell’amministrazione ordinaria, quelle province sono arrivate all’attivo. Un’altra osservazione debbo fare a proposito del discorso dell’onorevole Toggenburg. La Camera ha ascoltato ieri con deferenza le dichiarazioni sobrie, molto precise e decise del rappresentante della nazione tedesca nella Venezia Tridentina. Sono stato lieto che l’onorevole Toggenburg abbia fatto queste dichiarazioni, perché esse hanno smentito quella morbosa sentimentalità del nostro paese, il quale, appena legge o attraverso un telegramma della «Stefani» o attraverso qualche articolo che si può chiamare cavallo di ritorno, una qualsiasi dichiarazione più favorevole all’Italia, a un modus vivendi, o ad una collaborazione qualsiasi di carattere tecnico o politico coi rappresentanti italiani, ne desume subito che i tedeschi abbandonino il loro atteggiamento di protesta in confronto dello Stato stesso. Credo che non ci si debba mai dare in braccio a simile illusione. L’onorevole Toggenburg ha di nuovo confermato che i rappresentanti tedeschi non abbandonano la loro linea protestataria, per quanto riguarda il diritto, e si riservano di farlo valere quando crederanno opportuno, mettendosi ora sopra un terreno di collaborazione pratica per un modus vivendi, per risolvere soprattutto i problemi economici e finanziari, nei quali, come ha dimostrato, è grandemente interessato anche l’Alto Adige. Ora, io dico, non mi meraviglio che sia così. Credo che sia una esigenza assurda quella di coloro i quali pretendono che la generazione attuale tedesca, specialmente i rappresentanti politici che hanno combattuto tutta la loro vita per una diversa concezione, oggi debbano venire qui a dimostrare un sentimento che non possono avere. Noi questo non lo possiamo pretendere ed è una ingenuità se fingiamo di volerlo credere, o se la stampa qualche volta manifesta di volerlo credere. Noi chiediamo, noi dobbiamo chiedere solo francamente e lealmente che smettano di rimanere continuamente sul piede di guerra in confronto dello Stato italiano; dobbiamo chiedere che questo sentimento che la generazione presente ha innato ed ha attuato ormai in pratica, anche nella pratica politica, non lo inspirino mediante la stampa e la scuola nelle generazioni venture. Dobbiamo esigere che le nuove generazioni non vengano educate all’odio contro l’Italia. Per questo riguardo, l’onorevole Toggenburg ha torto quando critica e si oppone al decreto, testè emanato dal Governo, riguardante la scuola. Debbo rilevare che quel decreto stabilisce una cosa semplicissima: che i genitori italiani debbano mandare i loro figliuoli alle scuole italiane; i tedeschi sono liberi di mandarli alle scuole tedesche. Questa legislazione provvisoria non somiglia quindi, nemmeno di lontano, alla legislazione che i tedeschi avevano introdotto in Russia e avevano tentato di fare anche, sotto il dominio austriaco, nei nostri territori. Per il resto, noi siamo d’accordo. Accettiamo volentieri le dichiarazioni di avvicinamento da parte dei rappresentanti tedeschi, e prego la Camera di prendere nota che, contrariamente a quello che si va dicendo e che purtroppo si è andato ripetendo anche in confronto del potere governativo, i rappresentanti del Trentino non si ispirano a sentimenti di rappresaglia. Non vogliono rifarsi né ricondursi al passato e ai conflitti del passato, ma favoriranno l’avvicinamento e la conciliazione, quando l’interesse dello Stato lo richieda. Ma vogliono soltanto agire con maggiore prudenza, con maggiore cautela e con minore sentimentalità, perché conoscono il passato, il presente, l’attuale condizione e la possibilità per l’avvenire. A questo riguardo, io vorrei pregare il Governo di non dimenticare che un ufficio politico speciale, il quale conosca da vicino e si possa occupare con azione direttiva di risolvere i problemi dell’Alto Adige, della Venezia Tridentina e della Venezia Giulia, è assolutamente una necessità per non incorrere, attraverso tutta l’amministrazione ordinaria, in gravi errori e per non rinfocolare i contrasti, là dove invece bisognerebbe tentare di toglierli. Fatte queste osservazioni, raccomando al Governo di accettare il mio ordine del giorno. (Applausi al centro). |
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| 41921-1925
| I socialisti nostrani sono parte disciplinata e cosciente del partito socialista italiano. Questo partito deve seguire la tattica intransigente del congresso di Milano, che viene interpretata e applicata dalla direzione centrale . Questa tattica s’inspira al dogma massimalista che dice: ogni tentativo di modificare la situazione politica ed economica a favore del proletariato entro il presente sistema borghese è inutile e pericoloso. I socialisti devono quindi combattere con ogni mezzo lo Stato borghese e sia in parlamento che fuori limitarsi a proposte che dimostrino l’impossibilità di convertire all’ideale socialista i partiti «borghesi» ma non cercare di rimediare alla situazione con riforme graduali. Ligi a questa linea direttiva, i socialisti non partecipano al governo dello Stato e, per la stessa ragione, i socialisti trentini dovettero rinunziare, in seguito ad ordine formale della direzione, a partecipare al governo della provincia, ritirando, dopo averli designati, i propri rappresentanti dalla Giunta provinciale . Logica vorrebbe quindi che anche nei comuni i socialisti entrassero solo per far parte del socialismo o alla più per far proposte tali da dimostrare che nel presente sistema «borghese» non è possibile salvare gl’interessi del proletariato. Invece i socialisti trentini danno un colpo sul cerchio e uno sulla botte. Esempio: nell’introduzione generale del proclama socialista pubblicato dalla Voce per le elezioni comunali di Trento è detto: «Anche dalle aule dei consigli comunali, i nostri eletti dovranno proclamare al popolo sofferente che solo l’instaurazione del socialismo segnerà l’inizio della sua redenzione». Ma più sotto nello stesso manifesto si dichiara che «oltre a propugnare il programma generale enunciato sopra, il partito socialista s’impegna di fronte ai propri elettori per la graduale attuazione del seguente programma minimo». E qui seguono sette punti, tra i quali: «interessamento per tutti i problemi politici, ferroviari e idroelettrici della regione che attendono da Trento un vigoroso impulso verso la loro realizzazione, da affrettarsi con tutti i mezzi per ragioni d’ordine economico sociale; costruzione di edifici scolastici rionali, costruzione di case economiche, cucine, bagni, lavatoi, della fognatura, della tramvia elettrica; riforma delle imposte in base alla progressività e coll’abolizione della tassa sul pane ecc.». Ora l’elettore cosciente socialista si chiederà: una delle due. O in consiglio comunale ci si va a proclamare l’instaurazione del socialismo che è appena l’inizio della redenzione ecc. ovvero ci si va a fare tutti quei sette punti, dalle scuole al piano regolatore, alla fognatura, ai bagni, al tram e così via, coserelle le quali costano decine di milioni e esigono parecchi anni per la loro attuazione. Come si fa a mettere d’accordo le due direttive, quella intransigente e quella possibilista o gradualista? Se, passate decine d’anni e costruita tutta quella bella roba, compreso il tram cittadino, con uno sforzo di energie e di milioni (pescando questi ultimi chi sa dove!), non siamo arrivati nemmeno all’inizio della redenzione del proletariato, a qual pro sprecare tanto tempo, tante energie e tanti baiocchi? Non sarebbe meglio addirittura di agire secondo la dottrina intransigente del partito e iniziare o tentare d’iniziare subito il socialismo, senza attendere i bagni, il tram o la fognatura che evidentemente non possono essere che cerotti (scusate, la poco appropriata immagine, ma è un socialista che parla) del sistema borghese? E l’elettore cittadino, considerando il problema dal solo punto di vista comunale, potrà fermarsi qui. Ma chi voglia farsi la questione da tutti i lati dovrà rivolgere un’altra domanda. Voi socialisti volete – citiamo il programma – «interessarvi di tutti i problemi politici, ferroviari e idroelettrici della regione affrettandone la realizzazione con tutti i mezzi per ragioni d’ordine economico-sociale». Con ciò, uscendo dall’ambito puramente comunale, ammettete che Trento ha il compito di promuovere il concorso dei comuni, della provincia e dello Stato per le tramvie, per le centrali elettriche, in genere per i lavori pubblici e per il promovimento delle industrie. Ora come fate onestamente e logicamente a chiedere e ottenere il concorso dello Stato e della provincia, quando codesto Stato «borghese» voi lo sabotate, proclamando la necessità di non votargli un soldo, affinché crolli più presto, per lasciar posto allo Stato socialista; e come volete assicurare ai comuni il concorso della provincia, quando alla provincia negate il concorso della vostra opera e la ripudiate quale organismo borghese? Esempio: L’ospedale civico che volete trasformare in ospedale provinciale, lo trasformerete col concorso della provincia borghese che boicottate o come? C’è una sola logica da seguirsi nelle amministrazioni pubbliche e una sola pratica possibile. Se volete seguirne parecchie, a seconda delle opportunità, in un caso o nell’altro voi ingannate gli elettori e venite meno o al vostro programma e alla vostra disciplina o agl’interessi del paese. Uno dei sette punti riguarda la scuola. Vi si dice giustamente «che la scuola va trattata alla stregua di criteri educativi-didattici»: espresso male, ma detto bene. Senonché i socialisti, i quali hanno proclamato altre volte di volere l’insegnamento laico e di escludere quello religioso, perché non lo dicono quando si tratta dell’amministrazione comunale, la quale sulla scuola ha un grande influsso? Via, un po’ di coraggiosa schiettezza ai campioni della futura redenzione proletaria non starebbe male. Toh! chi si rivede! Nella lista rossa per quella tal redenzione di cui sopra, si leggono anche i nomi di Emilio Parolari e di Benedetto Bonapace. Furono, come tutti ricordano, due bosettiani autentici, il Parolari propagandista della lega dei contadini, poi impiegato delle cooperative gialle, ora impiegato delle cooperative rosse: il Bonapace, prima prete, poi redattore del Contadino assieme a Bosetti, quando costui faceva la lotta più risoluta contro Groff e compagni e ora commilitone di quest’ultimo per la battaglia socialista . Non facciamo, si capisce, questione di persone. Ognuno è libero di cambiare impiego e partito, ma rimane lecito di sapere: È il leghismo che si è fuso col socialismo o è il socialismo che perde della sua integrità cedendo al leghismo? |
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| 41921-1925
| A lato della contraddizione programmatica vi è anche una contraddizione tattica. Abbiamo illustrato a suo tempo l’ordine del giorno del congresso dei socialisti trentini, che confessava una direttiva a doppio binario, con subdoli sottintesi e con una motivazione machiavellica. Il postumo intervento dittatoriale dell’on. Groff, segretario politico del partito, ha forse impedita l’applicazione generale di codesta tattica truffaldina, ma non ha affatto abolito il proprio binario. Ove l’on. Groff crede che si possa assumere la responsabilità come partito, esiste la sezione locale che si presenta in veste propria; ove invece si crede più utile seguire altra via, la sezione per un vicendevole, tacito accordo fra direzione e gregari, scompare e si improvvisa un gruppo autonomo socialista ovvero compaiono sul proscenio le cooperative rosse, le leghe dei contadini, il sindacato edile, il circolo sociale ecc. Queste associazioni d’indole economica hanno costituito anche al tempo delle elezioni politiche il fulcro della situazione elettorale, e formano la massa degli elettori dell’on. Groff e dell’on. Flor, sono insomma – tesserati politicamente o no – quelli che nella nostra campagna vengono chiamati semplicemente «i socialisti». Ora questi «socialisti» possono muoversi con tutta libertà; non essendo tesserati non hanno bisogno di avere un pudore di partito e fanno semplicemente il comodaccio loro. L’on. Groff, segretario politico del partito, non può riconoscerli come «ufficiali» e quando capita loro addosso esclama: Che pasticci mi state facendo? Siete tesserati o autonomi? Siccome la grande maggioranza non paga la tassa, è facile trovare l’alibi dell’autonomia, e allora il segretario politico si fa portare il catino di Pilato, si lava ufficialmente le mani e poi, rimessi in tasca gli «ordini» che non possono impartirsi che ai tesserati, tira fuori «i consigli» che sono riservati agli autonomi, ai simpatizzanti, ai cooperativisti e così via, a questa massa insomma che il partito socialista non conta fra i suoi fedeli coscienti, ma alla quale gli on. Groff e Flor debbono il successo elettorale e il mandato. Citiamo, a mo’ d’esempio, il caso di Mezzolombardo, Ischia e di tutti i comuni del distretto di Primiero, riservandoci di riferire altri nomi. Nel distretto di Primiero è stato diffuso un manifesto diretto ai «cittadini lavoratori» e firmato «Cooperative di lavoro (Primiero-Prade-Caoria), Federazione edilizia (sezioni di Primiero-Prade-Caoria), Leghe dei contadini di Primiero». Sono queste le forze socialiste del distretto. È a questi socialisti che è dovuta la forte affermazione elettorale per gli on. Groff e Flor e sono questi i socialisti di Primiero diretti da uno dei vecchi campioni del partito, il maestro Doff-Sotta. Che più? La Federazione edilizia è sotto l’immediata direzione e responsabilità dell’on. Flor, segretario del sindacato edile. Ebbene nel citato manifesto è contenuto un programma minimo gradualista, possibilista, che potrebbe accettare qualsiasi gruppo «borghese»; nessun accenno alla dottrina o alla prassi socialista; anzi vi si dipinge un ideale piccolo mondo borghese da conquistare con una buona amministrazione, un mondo ove prosperi l’industria degli albergatori, fiorisca quella del legname, vi si organizzino scuole, si proteggano le organizzazioni professionali, ecc. Ci si conferma anche che tale manifesto «socialista» sarà la base della concentrazione antipopolare, concentrazione che comprenderà anche qualche bravo borghese, purché mangiapreti. Che ne dice il segretario politico del partito socialista? Che ne dice il direttore dei consorzi cooperativi rossi? Che ne dice sovratutto il segretario degli edili? Quest’ultimo dubitiamo assai che nutra degli scrupoli eccessivi. L’on. Flor ha notevolmente sviluppato le particolari attitudini dei suoi convalligiani. Intelligente fino a coprire coll’improvvisazione le inevitabili manchevolezze della coltura autodidattica, ardito nelle sue affermazioni fino a sbalordire, egli poté sembrare un tempo un sinistro, un estremista, un iconoclasta, e noi abbiamo riferito altre volte il suo verbo apocalittico contro i borghesi. Egli è però sovratutto uomo pratico e scaltrito. Spentasi la follia russofila e rivoluzionaria, il Flor fu uno dei primi ad assumere con tutta disinvoltura un atteggiamento possibilista. Nei comizi e alla Camera egli si riservò naturalmente di usare qualche forte parola, sdegnerà qualsiasi compromissione coi popolari o con simile genia; ma in casa, fra i suoi elettori, egli tende al sodo e ad infondere in loro l’opinione che nelle questioni pratiche, negli affari, quando si tratta di sovvenzioni e di soldi, tanto vale il popolare che il socialista, che il liberale. Il socialista ha ancora in più il vantaggio di poter sempre dir male del governo, di minacciare il finimondo alla società borghese, di non assumer alcuna responsabilità, quando si tratta di votar tasse o spese. I nonesi, il vecchio tipo del nones avveduto e praticone, è naturalmente predisposto a comprendere i vantaggi di tale situazione. Così Flor scriverà ai comuni dell’Alta Anaunia: «Egregio Signor Sindaco, Mi son fatto premura in questi giorni a Roma presso la presidenza del Consiglio dei ministri Ufficio centrale per le Nuove Provincie per l’invio d’una prima rata dei contributi stanziati alla costruzione di acquedotti e ne ebbi assicurazioni precise del prossimo invio di Lire 12 milioni che a sua volta il commissario generale e la provincia provvederà alla distribuzione ed a quest’ultimi significai in modo speciale i vostri acquedotti. Colla massima osservanza. S. Flor». Qui si tratta evidentemente della spedizione a Trento di 12 milioni, quale prima rata dei contributi inscritti in bilancio per i lavori pubblici, due dei quali sono previsti per gli acquedotti. Ora qui l’importante è l’impegno dello Stato, garantito coll’iscrizione in bilancio. Quando sono iscritti otto giorni prima, otto giorni dopo devono pur venir spediti. Contro il ritardo sono intervenuti parecchi e siccome esso dipendeva dal min. del Tesoro, ricorderete che l’on. Carbonari telegrafava a suo tempo le assicurazioni di De Nava . Ma queste sono piccole cose. Più importante è l’impostazione in bilancio, ossia la concessione dei crediti per parte del ministero del Tesoro per i lavori pubblici, tra cui anche per gli acquedotti. Questa impostazione venne fatta in seguito a trattative dei deputati popolari con Salata e De Nava e a suo tempo abbiamo anche pubblicato e documentato il come . Nessun vanto speciale in fondo. È la funzione della maggioranza. I deputati che votano il bilancio sono chiamati ad influire perché contenga dei danari anche per la propria regione. Ma Flor trova che questa famigliarità coi milioni dello Stato borghese possa aumentare il prestigio anche di un deputato socialista e quindi, approfittando di una conversazione coll’on. Salata, invia una circolare a certi comuni, affinché colà, in Alta Anaunia, si concluda: Quello lì maneggia i milioni, è uomo pratico, guarda che bravo deputato! Noi riconosciamo senza invidia che l’on. Flor sa fare il mestiere. Riconosciamo che la tattica, contrassegnata da questa lettera, egli la usa con certo effetto. Crediamo di avere il diritto però, trovandoci di fronte ad un avversario che verso noi, quando parla o scrive, è abituato a far la voce grossa ed a lanciare le più inverosimili accuse, di rilevare almeno la contraddizione di questa tattica opportunista e di precisare che questa tattica bifida, equivoca e senza dignità di linea, inspira anche l’atteggiamento socialista nelle elezioni comunali. |
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| 41921-1925
| Dell’infortunio alla Banca Italiana di Sconto, da una settimana a questa parte, sono piene le colonne di tutti i giornali: esso è il tema, come si suol dire, di attualità, e i bene e i male informati (questi più di quelli, come avviene sempre) ne parlano dappertutto . Come volete che non ne parli anche la grande stampa socialista? Diamine, si tratta di una istituzione eminentemente e esemplarmente borghese-capitalistica, che aveva distesa una amplissima rete di affari nelle cui maglie era presa buona parte della industria e delle speculazioni commerciali dell’Italia e scivolavano facilmente e, non si può negarlo, prodigalmente le banconote e gli assegni per foraggiare certa stampa livida e trichinosa che va per la maggiore. E l’Avanti!, da Natale in qua, sta facendo pasqua. Non gli si può dar torto, neanche se, in coerenza a tutta la sua condotta passata e alla tattica presente – dandosi alla pazza gioia demolitrice di banche e di istituzioni capitalistiche, per arrivare alla conclusione che il marcio sta nell’attuale sistema economico sociale e che bisogna cambiarlo per sostituirvi quello socialista – minacci di ingenerare un panico producente la contrazione delle sovvenzioni all’industria e all’agricoltura e, di conseguenza, disoccupazione agli operai, miseria, rovina. Che si convochi e si pretenda senza pietà la punizione dei responsabili della rovina a cui è giunta la Banca Italiana di Sconto, va bene: è opera moralissima. Ma ciò che non sta bene, ciò che non è morale, è la gazzarra disfattista dell’economia nazionale inscenata dai socialisti. Fatte le debite proporzioni, le distrette in cui si dibattono, a cominciare dal comune di Milano, tanti comuni socialisti, gli scandali e i fallimenti di tante aziende rosse (parlino i cooperatori di Torino, di Ferrara, di Bologna) non si equivalgono, nel substrato amministrativo, negli abusi, negli sperperi, nella incoscienza e nella irresponsabilità dei dirigenti, alla situazione della Banca Italiana di Sconto? Forse che i metodi amministrativi dei socialisti si sono dimostrati più squisitamente legali e politi di quelli di certi borghesi? Direte che anche le cose socialiste risentono dell’ambiente corrotto della imperante borghesia? Eh! Allora parlateci della Russia, e dimostrateci che Lenin ha portato alla più invidiabile floridezza l’ex impero degli czar… A proposito di socialisti: non ci sappiamo spiegare come e perché l’Avanti! faccia il sornione e si rinchiuda in un impenetrabile mutismo di fronte allo scandalo di Firenze. Non si tratta poi di una bazzeccola! A Firenze, s’era costituito un Consorzio minerario della Toscana, composto prima di tre e poi di cinque cooperative rosse, con alla testa, quale presidente, il deputato socialista on. Umberto Bianchi . Questo Consorzio, in pochi mesi, è andato al fallimento. Leggendo la relazione deposta in Tribunale dal curatore del fallimento si trova della roba come questa: «Incapacità tecnica, amministrativa, direttiva, valutazioni personali di fenomeni economici e concessioni speciali in materia finanziaria, predominio di necessità essenzialmente politiche nello svolgimento delle operazioni sociali condussero il Consorzio lontano da quella retta strada che doveva col più breve percorso, raggiungere il fine prefissosi. La massa operaia, composta di oscuri minatori, che sanno il duro lavoro, attende ancora il prezzo delle proprie fatiche dal mese di aprile, per una somma di mercedi di circa 150.000 lire. Altri modesti gruppi di creditori hanno veduto travolte nel dissesto tutte le loro sostanze raggranellate con sudore e privazioni di lunghi anni di lavori. Il Consorzio nacque per la applicazione dei concetti cooperativistici nel campo minerario, campo che è noto essere il più pericoloso e incerto e che sovente procura sgradevoli sorprese data la povertà del nostro sottosuolo. Invece di procedere con la maggiore previdenza, si costituì una complessa direzione composta di ben 5 uffici con 34 impiegati con una spesa complessiva mensile di 21.255 lire, alle quali vanno aggiunte le indennità di carica corrisposte al presidente on. Umberto Bianchi in lire 2500 mensili e al consigliere delegato ing. Pietro Janer in lire 3500 mensili. Tale somma era spesa per la sola direzione centrale senza tenere conto dei pari direttori tecnici impiegati presso le diverse miniere. Tale complessivo impianto burocratico anziché costituire l’organizzazione del caso ne era la più completa disorganizzazione essendovi attriti tra i vari uffici, incompatibilità di attribuzioni, mancanza di affiatamento fra i funzionari, ecc.». La citazione è un po’ lunghetta, ma è abbastanza significativa; e molto altro, sempre della maggiore eloquenza ed edificazione, si potrebbe citare; come ad esempio che il Consorzio, che in pochi mesi segnò un disavanzo di novecentomila lire, aveva un capitale sociale di duemila e seicento lire, di cui sole trecentosessanta versate. Riportiamo, come per sintesi, la conclusione della relazione fallimentare: «Esiste il reato di cui all’art. 861 del Codice di Commercio prima parte in quanto che, per limitarsi a indicare le maggiori e più salienti mancanze, non fu fatto mai il bilancio né l’inventario, non costituendo bilancio quale è richiesto dalla legge quelle semplici situazioni contabili esposte all’assemblea dei soci, le quali d’altra parte non furono trascritte sugli appositi libri e mancando altresì il prescritto deposito della cancelleria del Tribunale e la pubblicazione come è disposto dall’art. 180 C. C. Il libro giornale, irregolarmente tenuto, manca della vidimazione annuale». Abbiamo detto che l’Avanti! non fiata intorno a questo che è un vero e proprio scandalaccio, che dà un saggio esemplarissimo delle capacità tecnicoamministrative dei socialisti; non fiata nemmeno per tentare una difesa del compagno on. Bianchi. (Non è escluso che si lavori in alto loco, sott’acqua, per un tal quale salvataggio). Invece strilla intorno allo scandalo borghese, grida «raca» al regime capitalistico. Che non sia per coprire il clamore dello scandalo domestico? Potrebb’essere così. |
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| 41921-1925
| Alla vigilia delle elezioni comunali non sarà inutile il ripubblicare, a norma dei nostri amici, le conclusioni votate a grande maggioranza nell’assemblea generale delle sezioni trentine del Partito popolare. Ecco il testo dell’o.d.g. allora votato: «Nella imminente lotta amministrativa il partito deve avere di mira 1) il risanamento delle finanze comunali, sia con più larghi soccorsi da parte dello Stato (mutui della Cassa depositi e prestiti), sin con imposizioni che risparmino le classi popolari; 2) la difesa delle autonomie comunali, specie per quanto riguarda la scuola e l’insegnamento religioso; 3) la sollecita ricostituzione della rappresentanza regionale e della Giunta elettiva, a tutela dei comuni; 4) l’introduzione della proporzionale amministrativa. Per raggiungere tali scopi e affermare nettamente tale programma, l’assemblea delibera: a) Le liste del Partito popolare, sia per la maggioranza che per la minoranza saranno composte di persone tesserate al Partito. b) Alleanze con altri gruppi economici, d’indole locale o di carattere politico sono di regola escluse. La Direzione regionale sarà autorizzata a chiedere alla Direzione centrale la delega dai poteri per ammettere eccezioni a tale regola in quei pochi casi, in cui circostanze particolarissime lo richiedessero». Il giorno dopo l’assemblea, interpreti fedeli di quanto si era detto e di quanto s’era discusso abbiamo scritto, e oggi ci pare di dover ripetere: La mozione votata a stragrande maggioranza rileva che le elezioni comunali non si possono abbandonare a criteri meramente locali o personali. Già il nuovo sistema elettorale collo scrutinio di lista rende necessario lo schieramento dei partiti e dei gruppi organizzati; ma oltre a ciò, l’importanza di queste prime elezioni amministrative nel nuovo regime c’impegna a ricavarne un’affermazione di carattere generale e programmatico. Votando per il rinnovamento dei comuni noi intendiamo non solo di provvedere a una sana amministrazione locale, ma anche ad eleggere uomini che, senza incertezze e senza debolezze, tengano alta la bandiera dell’autonomismo specie riguardo alla scuola, difendano le libertà comunali e reclamino la ricostituzione della rappresentanza autonoma provinciale. Per riuscire a tale scopo la direttiva del congresso stabilisce che i candidati del partito popolare debbano essere persone regolarmente e formalmente militanti nel partito stesso (tesserati). Non è che in qualche comune e in qualche caso speciale ove, dato che ci troviamo in un periodo di transizione, ciò sia richiesto da particolari circostanze, che sia lecito includere nella lista dei tesserati, qualche persona non militante in nessun partito, la quale sembri indispensabile per la buona amministrazione in causa della sua preparazione tecnica e delle sue cognizioni amministrative, ma ciò potrà solo avvenire, quando anche questi «tecnici» delle gestioni comunali diano affidamento di sostenere con tutte le forze la linea del partito popolare per quanto riguarda i nostri postulati amministrativi e quando il loro numero e la loro posizione sia tale da non attenuare il programma del partito stesso. L’attuale ed equivoco sistema per cui maggioranze consigliari popolari si lasciano guidare da un sindaco o un prosindaco liberale o anticlericale, a rischio di compromettere le nostre nette e intransigenti rivendicazioni autonomistiche, deve assolutamente cessare. Chi guida, chi s’impone a tutti e sovra tutti dev’essere non l’uomo tecnico o praticone di affari comunali, ma l’idea programmatica che deve animare tutta l’amministrazione. La direttiva del congresso ammette anche delle eccezioni. In alcuni pochi casi si può prevedere che la suddivisione degli elettori sia così molteplice da escludere la possibilità che un solo partito si assuma il compito di costituire l’amministrazione. In questi pochi casi e con tutte le debite cautele, su proposta della sezione locale, la direzione regionale viene autorizzata a permettere la conclusione di aperte alleanze con gruppi economici, localisti o anche politici. Le cautele e le misure da prendersi in tali casi dovranno però mirare a escludere qualsiasi confusione o compromissione programmatica, limitando la alleanza ad una collaborazione elettorale che sia l’anticipata realizzazione della proporzionale, e ad una collaborazione amministrativa che abbia per caposaldi i punti fondamentali del nostro programma amministrativo. |
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| 41921-1925
| Ci sono due problemi, la cui soluzione darà la segnatura al prossimo periodo storico. L’uno si discute al congresso di Washington, l’altro si dibatterà per la quarta volta nel convegno di Cannes . A Washington si doveva decidere la limitazione degli armamenti. È già caratteristico per il periodo dell’immediato dopoguerra che non si abbia avuto il coraggio di parlare di disarmo. Nel trattato di Versailles il disarmo era stato imposto solamente ai vinti, ma Wilson aveva finito col cedere di fronte all’atteggiamento negativo della Francia, solo perché nutriva la non infondata convinzione che, imposto ed attuato il disarmo nella Germania, nell’Austria, nell’Ungheria e nella Bulgaria, i paesi vincitori dell’Europa continentale sarebbero stati costretti dalla logica, fatta valere da partiti interni, a disarmare o a ridurre gli armamenti essi pure. Egli non aveva fatto i conti coll’orgoglio di razza francese, il quale resiste tutt’oggi a qualsiasi pressione. Infatti è ben vero che da Washington si annunzia una certa resipiscenza francese, ma essa, se mai, riguarderà solo i sottomarini. L’esercito di terra rimane in piedi, più numeroso e più agguerrito dell’anteguerra. Ora è inutile farci illusioni. Se la Francia persisterà, vorrà dire che gli altri Stati, compresa l’Italia, saranno condannati a seguirla. In verità l’on. Gasparotto nella sua relazione alla commissione per il riordinamento dell’esercito ha espressa la speranza che a Washington si prendano tali vicendevoli impegni, da esonerare l’Italia da nuovi armamenti. Ma a tale speranza vi ha accennato fuggevolmente e manifestando subito coi fatti di non credervi. È invero suo il progetto di mantenere sotto le armi un esercito permanente di circa 200 mila uomini, cioè il rendimento di una classe dell’anteguerra, esercito che graverebbe sul bilancio con una spesa eguale a quella dell’anteguerra, aggiornando però il valore della lira; il che significa che l’esercito futuro costerà cinque volte tanto, e la parallela organizzazione della nazione in nazione armata con un costo ancora imprecisato, ma evidentemente notevolissimo, ci dicono che l’accenno a Washington era teoretico e che in realtà si fa i conti con una gara degli armamenti. Si avverta che il consiglio dell’esercito trova troppo angusto il progetto Gasparotto e che ne vorrebbe adottato uno più gravoso, si consideri ancora che si sta già pensando ad un progetto per le nuove fortificazioni di confine. È dunque un nuovo abisso che si spalanca, in fondo al quale nessuno è in grado di vedere. È ben vero che tali progetti devono passare ancora la trafila parlamentare, ma quale serio ostacolo vi potranno trovare se i socialisti stessi, antimilitaristi di professione, hanno contro di sé l’esempio della Russia, la quale in regime bolscevico tiene ancora non uno ma più eserciti sul piede di guerra? Non rimane quindi se non la speranza che i francesi vengano indotti a diminuire la loro forza armata, sia con alleanze che li garantiscono da ogni attacco – come s’erano già impegnati Wilson e Lloyd George – sia col procurare loro un rapido pagamento delle riparazioni. Le alleanze o un qualche analogo impegno potranno uscire forse ancora da Washington o da una conferenza che le farà seguito; le riparazioni si discutono, mentre scriviamo, nuovamente a Cannes. Noi dobbiamo fare i più fervidi voti perché vi si trovi modo di cavare fuori la Francia da quella via cieca in cui, per esasperazione nazionale e, sia pure, anche per legittima reazione alla gran prova superata, è venuta a cacciarsi. Il centro dell’Europa è ancora sul piede di guerra. Nel bel mezzo della piazza di Colonia risiede ancora il «quartier generale dell’esercito inglese». A Colmar imperano i «comandi» francesi e lungo il Reno la Germania, che dovrebbe concentrare tutti i suoi sforzi a pagare le riparazioni, deve investire centinaia di milioni nella costruzione di caserme per gli eserciti di occupazione. Ognuno sente che stiamo riavvicinandoci all’orlo del baratro dal quale la gran guerra sembrava volerci strappare per sempre. È con un senso di amarezza e di spavento che i parlamentari di tutti i paesi vedranno affacciarsi di nuovo il terribile dilemma o di votare nuove spese e nuovi sacrifici o di esporsi al rischio di essere inermi nel momento dell’attacco. Per questo i convegni di questi giorni sono seguiti con ansia e con preoccupazione. L’ideale di un’Europa alleggerita del peso degli eserciti permanenti, deve rimanere proprio irraggiungibile? L’illusione della guerra e dei primi mesi d’armistizio rimarrà proprio un’illusione irreparabile? A seconda che prossimamente si darà risposta a tale domanda, l’epoca che incominciamo avrà o non avrà una propria caratteristica nella carriera del progresso umano. Noi, politici che c’inspiriamo ai principi pacifisti del cristianesimo, non possiamo esitare nella scelta delle aspirazioni. Ma quali mezzi poniamo noi a disposizione per favorirle? Prima della guerra ogni movimento cattolico pacifista naufragava di fronte all’ostinazione militarista dei tedeschi ed ora che questi sarebbero guadagnati all’idea d’un’umanità più civile e più cristiana, sono i cattolici francesi che si oppongono, in nome dell’interesse della loro nazione, ad ogni avvicinamento internazionale. E tuttavia giova ancora sperare e tentare. Nel momento in cui l’internazionale rossa si è infranta e l’internazionalismo bolscevico tentando l’accordo per l’insurrezione universale diviene esso stesso il pretesto più forte per una ripresa del militarismo, non resta altra speranza che nell’influsso dei principi cristiani, ai quali ogni documento pontificio durante e dopo la guerra ha fatto insistente richiamo. Ogni sforzo su questo terreno è prezzo dell’opera, anche se l’effetto immediato sembri di non giustificarlo. |
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| 41921-1925
| Abbiamo spesso sostenuto su queste colonne che l’esistenza dell’Ufficio centrale delle Nuove Provincie è intimamente congiunta col decentramento burocratico statale, quale parallelo alle nostre autonomie locali. Abbiamo cioè affermato che la diminuzione delle mansioni dell’ufficio centrale porta come naturale conseguenza la diminuzione dei poteri dei commissariati generali e a loro scapito un aumento dei poteri dei ministeri centrali, un incremento quindi del deprecato centralismo. Questa nostra affermazione è stata spesso contrastata o messa in dubbio. Ministeri e Commissariati si accanirono contro l’Ufficio centrale e qualche organo della nostra stampa, poco avveduto, credette di dover fare il loro giuoco, gridando forte contro l’inutilità dell’Ufficio. Eccovi ora un altro esempio pratico. Il regio decreto che più sotto pubblichiamo stabilisce che la gestione dei servizi postelegrafonici passi alla diretta dipendenza del Ministero delle Poste. Finora esisteva presso tale Ministero un ufficio speciale, il quale nelle questioni grosse dipendeva dall’Ufficio centrale presso la Presidenza del Consiglio. Di questo ufficio speciale il citato decreto prevede la graduale scomparsa: esso vivrà ancora come ufficio stralcio del Ministero delle Poste; ma non avrà più alcun nesso coll’Ufficio centrale. Quali ne sono le conseguenze? 1) Che i commissari generali civili non avranno più alcuna ingerenza nella locale amministrazione delle Poste; cosicché i commissariati postali di Trento e Trieste vengono eguagliati a due direzioni postali delle vecchie provincie. 2) Che tutte le spese della gestione postale compariranno nel bilancio del Ministero delle Poste e che già d’ora innanzi, ancora durante il presente bilancio che fu pur proposto dai Commissariati, ogni spesa dovrà essere autorizzata dal dicastero centrale; il che porta ritardi, inceppi e stiracchiature e una diminuita libertà di movimento degli organi locali. Così, mentre si parla tanto di decentramento, noi nelle Nuove Provincie stiamo facendo il cammino inverso. Ora si noti bene: la gestione postale è una amministrazione completamente tecnica. La sua riorganizzazione su base centralista sfiora appena il campo delle nostre autonomie, cosicché un allarme esagerato non potrebbe giustificarsi. Ammettiamo anche che il sistema finora vigente non fosse il modello della logica e della coerenza. Basti pensare che ai deputati non è stato finora possibile di accertare a chi risalga la triste iniziativa della recente abolizione della franchigia agli uffici comunali e parrocchiali, e a chi spetti di rimediare a questa malefatta. Il capo dell’Ufficio centrale assicura di non averne saputo nulla e d’altro canto l’on. Giuffrida ministro delle Poste telegrafava di questi giorni all’on. Degasperi che i deprecati decreti non erano usciti dalla sua officina. Ma, a parte i difetti dell’attuale organizzazione, non è chiaro che anche là ove si tratta solo di gestione tecnica, un’affrettata assimilazione in senso centralista si compie sempre a scapito dei poteri locali? E se è così in questo campo strettamente tecnico, quali conseguenze più pericolose non potrà arrecare il passaggio ai ministeri di mansioni politicoamministrative o giuridiche? Di questo esempio sintomatico conviene quindi valersi per rafforzare la resistenza contro l’abolizione e la riduzione dell’Ufficio centrale. Ma anche contro il modo deve elevarsi fiera protesta. Il decreto è uscito improvvisamente senza che la deputazione ne avesse sentore e senza che le commissioni consultive fossero state chiamate – com’è loro diritto – a dare il loro avviso. Evidentemente a Roma si accomuna il nostro riassetto amministrativo colla riforma della burocrazia. Il comitato interministeriale crede di dover deliberare sulla riorganizzazione delle Nuove Provincie, come delibera sulla semplificazione dei servizi burocratici in genere, e cioè dittatorialmente, e all’imprevista, saltando a pie’ pari gl’interessi locali. Ma qui s’incorre in un grosso equivoco. Quando si delibera sulla amministrazione delle Nuove Provincie non è come deliberare sulla riduzione delle preture o delle università, ma si tratta di scegliere fra due sistemi: il centralista o il decentrato, e ciò in relazione al decentramento che è una conseguenza delle nostre autonomie. Si tocca quindi un terreno su cui, per legge, sono chiamati a dire il loro parere anche i rappresentanti delle nuove regioni. Per questo e per mettere le mani innanzi nella preoccupazione che il metodo Giuffrida possa far scuola per altri intraprendenti ministri, sarà utile che deputati e consulte protestino vivamente e difendano con tutte le forze il loro buon diritto. Ecco del resto il testo del decreto: «I servizi postali telegrafici e telefonici nelle nuove provincie del Regno e gli uffici relativi vengono posti alla diretta dipendenza del Ministero delle poste e dei telegrafi , cessando in conseguenza la funzione finora esercitata dai commissari generali civili. Il personale postale, telegrafico e telefonico proveniente dalla cessata Amministrazione austro-ungarica, e confermato in servizio, passa alla diretta dipendenza del Ministero delle poste e dei telegrafi , ma continuerà ad essere soggetto alle norme e discipline dell’antico regime, fino a che non sarà provveduto alla sua definitiva sistemazione giuridica ed economica. Gli uffici postali telegrafici e telefonici delle nuove Provincie, attualmente distinti in erariali e di classe, saranno gradatamente trasformati, per accertata opportunità, secondo le norme vigenti per gli uffici del Regno. Per tutto il corrente esercizio finanziario le spese riguardanti la gestione dei servizi postali, telegrafici e telefonici nelle nuove provincie continueranno a far parte dei bilanci dei competenti Commissariati civili. I fondi stanziati nei singoli capitoli di spesa saranno erogati esclusivamente su richiesta del Ministero delle poste e telegrafiche vi provvede per mezzo dei propri organi, ai quali i commissari civili faranno, su relativa richiesta, le occorrenti anticipazioni nei limiti degli stanziamenti stessi. L’Ufficio speciale istituito presso il Ministero delle poste e dei telegrafi per l’amministrazione degli uffici postali, telegrafici e telefonici nelle nuove Provincie, cesserà di funzionare alla data che sarà stabilita per decreto ministeriale. Secondo esigenze del razionale coordinamento della materia, gli affari ad esso demandati saranno gradualmente passati alle Direzioni generali ed ai servizi dipendenti dal Ministero delle poste e dei telegrafi , secondo le rispettive competenze. La direzione dell’ufficio potrà essere temporaneamente affidata ad un funzionario superiore a riposo. Il presente decreto entrerà in vigore il 1.o gennaio 1922. Le norme per l’esecuzione di esso saranno stabilite con decreto reale promosso dal ministro delle poste e dei telegrafi ». |
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| 41921-1925
| Il Partito popolare italiano celebra in questi giorni il suo terzo anno di vita. Il primo appello-programma fu infatti lanciato da Roma il 18 gennaio 1919 . La via percorsa da allora ad oggi non è stata facile né breve. Non facile perché alle diffidenze verso ogni novità si aggiunsero, particolarmente al principio, le immense difficoltà di prendere posizione come partito di collaborazione tra le classi, su di un terreno rovente e agitato da fermenti rivoluzionari. Non breve, perché all’opera fervida di organizzazione nel paese il partito ha saputo anche aggiungere altro, che gli ha valso di conquistare un degnissimo posto nella vita politica e parlamentare del paese. Dal punto di vista interno, dopo il lavoro di orientamento generale compiuto al congresso di Bologna (giugno 1919), dopo lo scontro delle due tendenze differenziatesi sul terreno economico-sociale avvenuto al congresso di Napoli (aprile 1920), il partito ha ritrovato la sua più completa unità programmatica e tattica al congresso di Venezia (ottobre 1921). Nel campo parlamentare il partito, dopo aver conquistato la proporzionale politica, seguitò a trarne tutte le conseguenze, favorendo la riorganizzazione degli uffici della Camera sulla base dei gruppi di partito e introducendo coi famosi «9 punti» il sistema delle contrattazioni programmatiche, esplicito e pubblico, nella risoluzione delle varie crisi di gabinetto . Escluso dal secondo ministero Nitti, ne provocò la caduta per la mancata ricostituzione dell’autorità dello Stato. Ottenne le più salde promesse intorno ai punti fondamentali del proprio programma ricostruttore, accettò di entrare nel terzo gabinetto Nitti, passato come un fantasma nella vita di Montecitorio. A Giolitti apportò lealmente il contributo dei propri uomini e della propria forza, restando fedele agli impegni presi anche quando gli ondeggiamenti degli altri gruppi di maggioranza ferivano al cuore i suoi più cari propositi, come avvenne per il dispettuccio sul divorzio passato con un colpo di mano agli uffici e per la livragazione [sic] dei progetti Croce sull’esame di Stato e sulla sistemazione dei corsi paralleli aggiunti. Fu sotto Giolitti il massimo propulsore per preparare e imporre la parificazione del prezzo politico col prezzo economico del pane, apportando uno sgravio di otto miliardi al bilancio annuale dello Stato. Con Bonomi il partito popolare fu ufficialmente riconosciuto il fulcro della situazione parlamentare. Del resto, per il nullismo negatore del gruppo socialista, per la incoerenza dei vari gruppi liberali-democratici, per il rigidismo inflessibile teoretico e antirealista delle destre, il partito popolare fin dal principio era stato il vero fulcro di ogni combinazione parlamentare di governo. In questi tre anni di vita lo sforzo realizzatore del partito si è dimostrato prevalentemente prima nella ricostruzione della funzionalità del parlamento, poi nella ricostruzione della finanza statale (prezzo del pane) e dell’autorità dello Stato con la sua serena opposizione sia al bolscevismo rosso che al conservatorismo fascista. Mentre la propria sintetica visione del fenomeno complesso della produzione lo spinse durante tutto questo periodo a invocare a gran voce la realizzazione del proprio programma sociale, chiedendo costantemente a tutti i governi la discussione dei progetti sul latifondo, sulle Camere regionali di agricoltura, sulla riforma del Consiglio superiore del lavoro, sulla registrazione delle organizzazioni sindacali, e sul loro riconoscimento giuridico; mentre coll’«opera di fiancheggiamento data alle organizzazioni bianche dei lavoratori, oltre a far apprezzare nella risoluzione di contrasti pratici e contingenti la propria sintetica direttiva ispirata alla giustizia cristiana, propugnava anche alacremente la radicale trasformazione del contratto di lavoro per avviarlo alle vere e proprie forme di associazione tra capitale e lavoro; l’idea cristiana, ispiratrice di tutto il suo programma e di tutte le sue azioni, condusse finalmente il P.P. a dare la massima importanza ai problemi della spiritualità. Di qui la sua fervida adesione al programma di rinnovazione della scuola italiana, la sua lotta tenace per la conquista della libertà scolastica. È l’unico partito in Italia, dal 1860 a oggi, che abbia fatto di questo punto specifico una condizione sine qua non per partecipare a qualsiasi opera di governo, e dai famosi nove punti in poi, in ogni risoluzione di crisi, esso entrò nelle varie combinazioni solo dopo avere avuto su questo punto le più esplicite assicurazioni. Così il problema della scuola, relegato fino a quel momento tra i problemi di secondaria importanza, assurse, per opera del partito popolare, alla massima dignità di problema politico di primo ordine. Le opposizioni e i tradimenti degli altri gruppi, sia di maggioranza sia di opposizione, dimostrano quanto tenaci fossero le catene saldate ai piedi della scuola italiana e quale tenace sforzo sia stato necessario anche semplicemente per tornare a impostare politicamente l’ardua questione. Quando le ultime lotte elettorali, amministrative e politiche, contrassegnate l’una o l’altra da una rigida intransigenza allo scopo di mantenere alla nazione per l’opera di ricostruzione integre e incontaminate le proprie forze rinnovatrici, dettero al partito popolare la dimostrazione sperimentale della reale corrispondenza tra il proprio ideale e le forze vive agenti nel popolo nostro, esso sentì che era giunto il momento di iniziare lo sforzo più vasto per la ricostruzione integrale dello Stato. Allora, entrando nel ministero Bonomi, esso esigeva la realistica valutazione della propria forza, chiedendo di prendere diretta parte alle direttive politiche generali; e riprendeva intanto ad agitare nel Parlamento e nel paese il problema, apparentemente tecnico, ma fondamentale e rinnovatore, del decentramento statale, delle autonomie locali, della costituzione della regione, della liberazione, in una parola, di tutta la vita nazionale dalle strettoie del quarto potere, anonimo e irresponsabile, della burocrazia. Oggi, mentre si compie il suo terzo anno di vita, incombe sulla nazione la minaccia del collasso e della paralisi di ogni sua attività economica. Il Partito popolare vede in questo tragico epilogo la realizzazione delle sue previsioni. Il suo sforzo costante per l’incremento della produzione nazionale colla lotta contro tutte le forme di economia associata, alimentatrice con il denaro dello Stato di interessi privati e particolaristici, spesso antitetici agli interessi generali della nazione; colla lotta diuturna contro tutte le industrie anti-naturali, tenute in piedi da mezzi protezionistici artificiali; colla spinta alla produzione agricola e alla trasformazione industriale dei nostri naturali prodotti; colla invocazione delle provvide leggi sociali dirette a spegnere fermenti di odio e ricreare nei lavoratori l’affetto al lavoro e l’interesse diretto alla floridezza della produzione – questi suoi molteplici sforzi, diciamo, spesso misconosciuti dai più, talvolta calunniati come demagogici e anti-patriottici, erano proprio diretti a prevenire e impedire i giorni tristi che si stanno oggi abbattendo sulla economia nazionale. Non meno significativa è la testimonianza che proprio in questi giorni gli avvenimenti di politica estera stanno dando alla realtà della visione popolare. La conferenza di Cannes, che va a sboccare nella conferenza di Genova , è l’inizio di quella revisione della falsa pace di Versailles, che il partito popolare formulò al suo secondo congresso, quando ancora non era stata ratificata e con le dichiarazioni che l’on. Longinotti sostenne a viso aperto in seno alla commissione parlamentare per la ratifica dei trattati di pace. Con un tale bilancio, il Partito popolare può bene avviarsi a celebrar degnamente il proprio terzo anno di vita. |
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| Roma, 18. Coll’ordine dato da S.M. il Re all’on. Bonomi di affrontare il giudizio della Camera, si chiude la prima fase della battaglia parlamentare. L’epilogo è perfettamente costituzionale e corrisponde al criterio sostenuto dal partito popolare fin dall’inizio della crisi. Alla vigilia della ripresa la Democrazia aveva votato una proposta dell’on. Alessio , la quale constatata l’insufficenza del presente ministero, dichiarava che il Gruppo passava all’opposizione. Il colpo vibrato di fianco, scosse subito la compagine ministeriale, che oramai si reggeva a fatica. Già nei giorni precedenti si sentiva dire che alcuni ministri democratici presagivano la fine imminente e il giolittiano Soleri aveva dato l’ordine di preparare i bauli. I ratti giolittiani abbandonavano la nave che faceva acqua. Era evidente che l’uomo di Dronero riteneva venuto il momento di riprendere il potere e aveva dato quindi gli ordini ai suoi luogotenenti di sgombrare. Bonomi ebbe un momento d’incertezza. Nella notte della fatale vigilia parve resistere e si credette ch’egli, accettando la tesi dei colleghi popolari, si sarebbe rimesso al voto della Camera. Era l’unico modo di liquidare il passato in forma costituzionale e di ricostruire l’avvenire su di una base di chiara indicazione programmatica. Ma la mattina egli si diede definitivamente perduto. Nel Consiglio dei Ministri solo Girardini e Della Torretta appoggiarono i popolari. Gli altri democratici, chi per calcolo, chi per paura della discussione che investendo tutta la politica del Ministero ne avrebbe fatto strazio, trascinando nella contesa e Banca di Sconto e Genova e Papa morto, diedero il loro voto per le dimissioni immediate. Era la fuga; ma Bonomi trovò ch’essa corrispondeva non solo alla fiacchezza del suo carattere, ma anche ad un calcolo di maggiori probabilità per l’avvenire, e quindi vi si acconciò di buon grado. Aperta la crisi, s’ingaggiò ancora in giornata la grande battaglia per la successione. La battaglia non è ancora chiusa, ma fin d’ora si può dire ch’essa fu una delle più aspre che fossero mai combattute durante il periodo costituzionale. Nello sfondo troneggiava l’ombra di Giovanni Giolitti. La Democrazia si suddivide in settanta giolittiani, in una trentina di nittiani e in una quarantina d’indipendenti. I giolittiani si posero subito all’opera, sorretti dalla grande esperienza e dalla fama d’invincibilità del loro duce. Quando Giolitti vuol venire, verrà; questo era l’atto di fede che si è ripetuto ultimamente e quasi su tutti i banchi della Camera. È sempre andata così, si è sempre fatto così; perché non dovrebbe andare anche questa volta? Eppure questa volta non andrà. Giolitti si è trovato di fronte il gruppo popolare, fermo, compatto, disciplinato, insensibile ad ogni minaccia e ad ogni lusinga. I popolari gli hanno barricata la via con tre pregiudiziali: programma di lavoro previamente concordato, comitato di maggioranza, assegnazione proporzionale dei portafogli. Quest’ultima pregiudiziale, oltre che un valore oggettivo, aveva anche un valore decisamente polemico. I popolari hanno detto: Voi ci accusate d’aver avuto un predominio sproporzionato nel Ministero Bonomi; ebbene noi vi rispondiamo che in ogni ministero chiediamo una rappresentanza proporzionale. La proporzionale nella composizione del governo Beninteso la proporzionale non deve risultare da un semplice calcolo aritmetico. Secondo questo avremmo diritto, apportando alla maggioranza un terzo dei voti, ad un terzo dei ministeri e dei sottosegretari. Ma non facciamo questione di numeri. La proporzionale dev’essere una media risultante dalla quantità e dalla qualità dei portafogli. È inteso che il Ministero dell’interno non può valere uno, come che uno il Ministero delle Poste. Ammettiamo anche che il criterio della proporzionalità non dev’essere l’unica chiave. Ci sarà da tener conto anche delle competenze tecniche e delle qualità politiche integratrici di una data linea direttiva segnata dal Capo del Governo. Ma sottoponete il calcolo a qualunque attenuante e troverete sempre che i popolari avendo nel Gabinetto Bonomi tre ministeri importanti, non avevano ecceduto né erano stati invadenti. Questa mossa produsse costernazione e irritazione. Pochi giornali, tra cui autorevolmente il Corriere della Sera, trovarono logico il nostro contegno, gli altri, quasi tutti, ci rovesciarono addosso urla di dileggio, d’imprecazioni, di calunnie. Il più colpito come sempre fu D. Sturzo, il quale si stava tappato in casa, convalescente ancora dall’influenza; gli altri che dirigevano il gruppo – Cavazzoni, Cingolani, Degasperi – vennero accusati di ambizioni personali, sospettati di arrivismo, calunniati di malafede. Ma i popolari non piegarono e il gruppo confermò ad unanimità il fermo atteggiamento della commissione direttiva. Ed ecco la canea lanciarsi sulla seconda pregiudiziale. Programma concordato Programma concordato? Da quando mai alla Camera italiana s’è potuto raggiungere questo? È una pretesa esotica, assurda, anticostituzionale. Il Re affida il potere al Capo del governo; questi sceglie i propri collaboratori e tutti assieme formano il programma. La Camera lo accetta o lo respinge. Questa tesi trovò la sua espressione professorale nel togato tradizionalismo dell’on. Orlando il quale dichiarò ai negoziatori popolari che l’incaricato del Re doveva esigere illimitata fiducia sia per la scelta degli uomini, sia per l’assegnazione dei portafogli, sia per la fissazione dei lavori. I ministri, disse l’illustre professore di diritto costituzionale, devono stare al Capo del governo come le creature stanno al Creatore. Per inde ac cadaver! I negoziatori popolari fecero omaggio alla teoria, si proposero di non discuterla; ma ardirono decidere quale applicazione essa avrebbe nel caso concreto. E questo era uno dei perni delle crisi, che i demogiolittiani tentarono nascondere nei paludamenti delle tesi costituzionali. La crisi s’era voluta dai democratici per cacciare i popolari dalla Giustizia. I popolari reagirono dichiarando di non voler mettere l’ipoteca proprio su questo o su altro dicastero, ma di esigere che in base ad un criterio di proporzionalità, i popolari non dovessero venir esclusi da tutti i ministeri politicamente importanti. Questo il nostro postulato giusto e legittimo che De Nicola non potè far trangugiare ai demogiolittiani e che indusse l’on. Orlando a rifugiarsi entro le pieghe della sua discutibile dottrina costituzionale. Tuttavia questa difficoltà non fu la sola a condurre al naufragio i due incaricati dal Re. Si aggiunse quella programmatica. I popolari non s’erano questa volta accontentati del facile giuoco dei punti programmatici generici che, come s’è visto, non garantiscono dalle più inattese insidie. Questa volta si presentarono a De Nicola e a Orlando con delle proposte concrete chiedendo impegni per progetti di legge già formulati e maturi, come il disegno di legge Corbino per la libertà scolastica, e quelli per il latifondo, per i patti agrari, per il Consiglio nazionale del Lavoro ecc.; e domandarono che il governo non solo s’impegnasse di mettere il voto di fiducia su tali progetti, ma che ottenesse il previo consenso dei partiti che avrebbero costituita la maggioranza. Questa procedura a chi sta fuori del Parlamento può sembrare naturale, logica, doverosa. Qui invece fu oggetto di scandalo. Entrambi i leaders, incaricati dal Re, non tentarono nemmeno un diretto accordo fra noi e i democratici, data l’eterogeneità e l’anarchia programmatica degli elementi che si sono rifugiati nell’arca della Democrazia. Preferirono gli assaggi indiretti, colla loro personale mediazione. E anche questo accordo programmatico fallì. Il contrasto si rivelò più profondo nella questione della scuola. Chi l’avrebbe detto? Il «punctum saliens» del dissenso Il progetto Corbino, approvato dal Consiglio dei Ministri col formale consenso dei 6 ministri democratici, trovò le più aspre obiezioni in seno alla Democrazia. Noi non ci possiamo impegnare per l’art.14, risposero i negoziatori della sinistra. Ma l’art. 14 è il perno del progetto. Esso prevede che gl’istituti privati possano divenire sede d’esame, cioè che i loro alunni esaminati nello stesso istituto da una commissione della quale fanno parte due ispettori governativi, ricevano un attestato che abbia lo stesso valore degli attestati governativi. È insomma il pareggiamento degl’istituti privati coi pubblici innanzi ad un esame di stato, e rappresenta un passo decisivo verso la libertà scolastica. Gli altri articoli hanno carattere regolamentare: respingere il 14 era come seppellire il progetto. I popolari, colpiti dalla rivelazione di questo dissenso, che il ministero Bonomi aveva assopito, ritrovarono nuove ragioni per insistere nel previo accordo programmatico. O si doveva esporsi nuovamente al pericolo di veder naufragare Corbino, com’era naufragato Croce, nonostante l’impegno di Giolitti? Effetto chiarificatore della crisi A questo punto la crisi aveva già avuto un effetto chiarificatore. I lunghi colloqui, le polemiche, i contrasti, gli ordini del giorno, i messaggi che travagliarono i negoziatori fino a produrre un vero tormento fisico, avevano raggiunto almeno questo risultato, che oramai appariva chiaro a tutti essere le pregiudiziali dei popolari non un ripicco né una rappresaglia contro questo o quell’uomo, ma delle indispensabili misure precauzionali e profilattiche per risanare l’ambiente parlamentare, rendere più stabile la situazione e meno frequenti le crisi di governo. In verità, se tutti compresero, non tutti ammisero. I giornali, al servizio di questa o quella fazione e col proposito di giovare a questo o a quel capo, continuarono a scrivere delle smodate ambizioni dei popolari, dei capricci di D. Sturzo e dei tristi effetti della proporzionale; ma dentro la Camera i democratici incominciarono a capire e richiamandosi all’o.d.g. popolare che riaffermava la necessità di una previa intesa programmatica, l’altro ieri fecero il passo decisivo e invitarono la commissione direttiva dei popolari a diretto contraddittorio. Fu una seduta memorabile, di quattro ore d’intenso dibattito, che dovette vertire sovratutto sulla relazione dell’on. Degasperi che spiegò e difese le pregiudiziali e i caposaldi programmatici del gruppo popolare. Due metodi e, conviene quasi dire, due generazioni politiche si trovarono di fronte. Da una parte il tradizionalismo di vecchi parlamentari ed ex-ministri, dall’altra le idee di un partito nuovo costituitosi intorno ad un programma ideale, affidato ai parlamentari dalla masse organizzate del nostro partito. Il fatto solo della previa discussione programmatica era già una vittoria dello spirito nuovo. Ma anche i risultati dell’accordo si possono dire soddisfacenti. Certo che il comunicato dato alle stampe rappresenta – come sempre avviene in simili contingenze – un compromesso e molte cose che non vi sono accennate avranno bisogno di un’ulteriore definizione. Ma intanto l’accordo sul principio della libertà scolastica e dell’esame di stato è stato solennemente affermato. Il pareggiamento degli istituti privati coi pubblici è raggiunto; solo che ai popolari rimane libero, se lo credono opportuno, di esigere dal governo la trattazione del progetto Corbino e ai democratici di chiedere invece che l’esame di stato venga dato, anche per i privati, negli istituti pubblici. Il pareggiamento nell’esame vale per tutti e due: la sede è diversa. I democratici s’impegnarono al disbrigo rapido di un tale progetto e a non opporsi alla domanda dei popolari che il futuro Ministero della rapida accettazione di tale legge faccia questione di fiducia. Così l’accordo coi partiti dev’essere integrato da un accordo parallelo col governo. Ma quest’ultimo non incontrerà ostacoli, come non l’incontrò né con Giolitti né con Bonomi. Comitato di maggioranza In secondo luogo i democratici si impegnarono per la costituzione di un comitato di maggioranza. Questo dovrebbe divenire lo strumento organico che impedisca lo scoppio di crisi irrazionali e personalistiche e garantisca la solidarietà dei partiti, rappresentati nel governo. L’organismo è creato: ora bisognerà infondergli una funzionalità direttiva. Infine il terzo punto: pur nella sua formulazione negativa, ha un grande significato morale e può avere anche un notevole valore pratico. Moralmente, escludendo ipoteche e veti nell’assegnazione dei portafogli, stabilisce la perfetta equiparazione fra popolari e democratici, per quanto riguarda la capacità dei partiti ad essere rappresentati in qualsiasi dicastero. Ricordate le oscure motivazione della crisi e la polemica estiva scoppiata nella stampa, quando un popolare andò alla giustizia? Parve allora si volesse considerare i popolari come cittadini di seconda dignità da confinarsi nei ministeri tecnici. Questa specie di veto d’origine settaria, è ora abbattuto. E poiché d’altro canto i popolari hanno dichiarato di non voler porre alcuna ipoteca su dati ministeri, il criterio dell’avvicendamento e dell’alternazione con pari diritto e pari capacità morale, è chiaramente affermato. Il valore pratico del principio è evidente e confidiamo di vederlo risultare anche dalla prossima soluzione della crisi. Terre redente Un ultimo accenno ad un argomento che non appare nel comunicato, come tanti altri che furono discussi nel convegno, ed è quello delle Terre redente. Poiché, non sappiamo come, ne ha riferito il Corriere della Sera, limitiamoci a rilevare che l’on. Degasperi espose ai due direttori la situazione politica e amministrativa delle Nuove Provincie, toccando anche le questioni finanziarie. Il problema non poteva venir approfondito, ma è già un progresso che oltre il Partito popolare che ne fu sempre il paladino, le questioni delle Nuove Provincie vengano affacciate anche ai rappresentanti più autorevoli del gruppo più forte della Camera. Esso sarà per i nostri nuovi cittadini un compenso per l’indifferentismo e l’ignoranza che si devono purtroppo constatare anche di questi giorni fra molti autorevoli rappresentanti della politica italiana. L’acquisizione dei problemi politico-amministrativi e finanziari delle Terre nuove alla conoscenza e all’interessamento di questa Camera dominata da gravi problemi economici, da preoccupazioni personali e da interessi delle più vecchie regioni, avviene lentamente e a stento, ma per il tenace volere del Partito popolare, essa sarà sicura e inevitabile. |
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| Roma, 1. Questi venticinque giorni di crisi rappresentano nell’era costituzionale italiana la più grande battaglia politica che si sia combattuta per la formazione di un governo. La prima fase s’inizia coll’attacco delle democrazie le quali proclamano «l’insufficienza» del ministro Bonomi e ne provocano la caduta. All’offensiva del 1° febbraio il Centro popolare reagisce immediatamente con un contrattacco, sbarrando la via a chi si doveva ritenere ideatore e preconizzato sfruttatore della manovra. Segue una serie di attacchi e contro attacchi che si chiudono col concordato popolare democratico del 9 febbraio . A questo punto tre uomini o – per mantenere lo stile – tre capitani sembrano già fuori di combattimento. Giolitti, consigliere supremo e intimo di S. Maestà il Re, aveva rifiutato, De Nicola dopo una schermaglia di ventiquattr’ore rompe bruscamente colla Democrazia, Orlando dopo una breve giostra di professorali disquisizioni rinunzia all’incarico. Orbene, se in questo momento avesse dominato la logica e la visione sincera degli interessi del paese, che cosa si sarebbe dovuto fare? Semplicissimo: riesaminare la situazione al lume del concordato democratico-popolare. Questo concordato non conteneva nulla che smentisse il proposito negativo dei popolari circa una loro partecipazione ad un ministero Giolitti: Giolitti rimaneva quindi escluso. Il concordato conteneva una formula di compromesso sul problema scolastico e proclamava, circa l’assegnazione dei portafogli, il criterio del «nessun veto e nessuna ipoteca». De Nicola che aveva rotte le trattative, perché i democratici ponevano il veto contro la assegnazione ai popolari di uno dei ministeri politici (giustizia, istruzione o interni) e perché volevano assumere impegni sulla scuola, trovava quindi innanzi a sé sgombra la via per poter riprendere le trattative. Infine il concordato faceva piazza pulita di tutte le togate pregiudiziali dell’on. Orlando, giacché fissando un accordo di programma e di azione fra Centro e Democrazie aveva superato brillantemente tutte le teorie di diritto costituzionale e aveva resa superflua la scappatoia dell’ex presidente siciliano, il quale per non dirimere sui contrasti di programma aveva proposto di… accantonarli per tempi migliori. Cosicché, in forza del concordato, la sera del 9 febbraio, De Nicola in prima linea e Orlando in seconda potevano attendersi di venire invitati a ritentare la prova, colle migliori prospettive. Avvenne invece ciò che secondo le norme costituzionali si sarebbe dovuto far prima ma che in questo momento era ormai anacronistico. Il re ordinò a Bonomi di andare alla Camera e di ricercare nel voto una indicazione per risolvere la crisi. Era però evidente che in questo stato di cose la Camera non avrebbe potuto corrispondere al compito a cui veniva chiamata troppo in ritardo. Un’indicazione era già contenuta dal punto di vista, diremmo, topografico, nell’o.d.g. popolare che parlava di un «orientamento a sinistra, come nei precedenti ministeri, cioè colla punterella a destra» e una indicazione dal punto di vista programmatico era data dal concordato del 9 febbraio. Ma come si potevano esprimere tali indicazioni in un voto sul ministero Bonomi, rispetto al quale era chiaro che popolari e riformisti avrebbero votato «sì» e i democratici avrebbero insistito sul loro «no»? Inevitabilmente quello che fu detto sforzo di chiarificazione programmatica doveva intersecarsi colle tendenze contraddittorie per gli uni di salvare, per gli altri di abbattere Bonomi. Ad aggravare questa complicazione, che spezzava la maggioranza, nello stesso tempo che voleva ricostituirla, sopravvennero nella discussione le manovre degli estremi: Modigliani che proclamò anzi tempo il trionfo del suo semicollaborazionismo e Mussolini che per consiglio degli amici di Giolitti, pur di non dar partita vinta ai socialisti, dichiarò cinicamente di votare anch’egli per l’orientamento di sinistra. La discussione alla Camera si manifestò quindi inutile. Non per tutti però. Chi l’aveva consigliata era partito da questo calcolo: «I popolari si sono legati con una dichiarazione pregiudiziale contro Giolitti solo per affrettata rappresaglia contro la manovra extraparlamentare del l° febbraio. Se dunque si riesce a creare una situazione nuova, promossa da una crisi parlamentare, anche la pregiudiziale cadrà». Ma il calcolo era sbagliato. Il giorno dopo il voto, il gruppo popolare, richiamandosi alle dichiarazioni programmatiche di Degasperi e Gronchi, invitava la commissione direttiva a non deflettere dall’atteggiamento preso fin dall’inizio della crisi. Il linguaggio era chiaro; ma Giolitti non si diede per vinto e rifece sotto altre forme la manovra diretta a creare situazioni «nuove» e più gravi, innanzi alle quali i popolari dovessero ripiegare. Con una mossa gigantesca l’espertissimo lottatore lanciò innanzi a sé De Nicola e Orlando per logorarli del tutto e rimaner solo incontrastato sul terreno. Nessuno conosce ancora i particolari di questa manovra svoltasi nell’ombra, mentre quasi tutta la stampa romana cercava di scuotere la fermezza dei popolari, accusandoli di tradire la causa nazionale, si propalavano oscure minacce di dittatura e si preparavano dimostrazioni in piazza. Furono tre giornate grigie e nebbiose in cui i lottatori si scorgevano tratto tratto coi contorni indecisi di ombre. Un piccolo sprazzo di luce apportò il comunicato De Nicola-Orlando, il quale rivelò l’ultima e più formidabile manovra giolittiana della cosiddetta concentrazione costituzionale. Non è facile dare al pubblico una idea delle risorse infinite che ideò in questo stadio della lotta l’on. Giolitti. Egli gettò nell’arena tutte le forze di cui può disporre un quasi incontrastato dominio di trent’anni, ricorrendo a tutti i mezzi, salendo tutte le scale, non soltanto quelle del Quirinale, ove aveva assunto la carica di generalissimo, ma per interposta persona, anche quelle cui accennava ieri la rivelazione dell’Osservatore Romano . Ma alla fine egli dovette confessare di non saper trovare il mezzo per indurre i popolari alla collaborazione, e rimise il mandato nelle mani del re. Intanto però la lotta non aveva lasciato che abbattimento e rovina. Gli uomini della Democrazia si erano logorati l’uno contro l’altro; nel gruppo stesso la fazione più audace e più solidale col Duce, inasprita per lo scacco subito, manifestava propositi estremi, invocava Giolitti con un governo di minoranza e giurava di contrastare qualsiasi altra soluzione, compreso il cosiddetto ministero d’affari Tittoni, contro il quale si preparavano già al Senato e alla Camera le contro-mine. I socialisti, disfatti per le lotte interne, non agivano quasi più, limitandosi a «vigilare»: i riformisti erano disorientati; la Destra premeva perché si facesse un governo qualunque coll’inclinazione appariscente di parteciparvi. Così quando il re diede l’incarico all’ultima persona che la danza delle consultazioni gli aveva fatto passare dinanzi, l’on. Facta, comprese che il fulcro della situazione erano sempre i popolari, sentendo il bisogno di parlare prima di tutto con i popolari. Non è vero che egli si presentasse in tono quasi di ambasciatore per dettare le condizioni della resa e per ribadire la pregiudiziale dell’on. Orlando, come ha ripetutamente affermato, sapendo di mentire, la Tribuna. Nelle trattative l’on. Facta partì dalla dichiarata premessa che il gruppo popolare era un partito patriottico e costituzionale, e venendo sul terreno dei fatti, accettò e praticò con noi – come con altri partiti organizzati – il metodo opposto dalla presidenza del gruppo alla tesi dell’on. Orlando, cioè il previo accordo programmatico e la previa intesa per l’assegnazione dei portafogli. La discussione programmatica partì naturalmente dall’accordo del 9 febbraio, al quale l’on. Facta aveva partecipato, quale membro del direttorio della Democrazia, ma non trascurò altri disegni di legge di carattere sociale e amministrativo che interessano il nostro gruppo e sovratutto non lasciò dubbi sulla politica finanziaria e tributaria che il nuovo Ministero dovrà seguire. Essa dovrà essere una revisione della politica Giolitti, col fermo proposito di restaurare la pubblica economia, senza demagogiche deviazioni. Questo proposito impegna naturalmente in prima linea i ministri del nostro gruppo, né l’onorevole Bertone è tal uomo che autorizzi a dubitare delle sue esplicite intenzioni. Ciò va rilevato in confronto alle insinuazioni dell’Avanti! e di qualche altro giornale. Circa i portafogli, noi manteniamo le nostre posizioni, arrivando per la prima volta all’Istruzione, uno dei dicasteri che ci fu in un primo tempo ferocemente contrastato. Qualche amico ci scrive deluso, perché non è stata applicata la proporzionale. Ma pur riservando di far valere, ogni qualvolta ci parrà opportuno, l’equità di tale criterio e pur osservando che non esiste solo una proporzionale aritmetica, ma anche una proporzionale qualitativa, dobbiamo ricordare che l’impostazione del criterio proporzionale durante la lotta ebbe sovratutto un valore tattico, il significato cioè di una controffensiva di fronte all’attacco democratico, sferrato apparentemente contro il Ministero Bonomi, ma diretto in realtà a cacciare i popolari dalle loro posizioni e a fiaccare la loro «invadenza». Oggi alla fine della lotta le posizioni sono mantenute e la cosiddetta «invadenza» ha una nuova sanzione. Rimane a chiedersi, sinceramente, oggettivamente, fino a qual punto l’esistenza della lotta possa dirsi un successo popolare. Secondo noi una risposta definitiva e conclusiva non potrà darsi, se non dopo che si sarà visto il Ministero Facta all’opera. Tuttavia già oggi può essere fissato quanto segue: Fu impedito il ritorno di Giolitti e dei suoi amici più direttamente compromessi nella sua ultima politica. Questa politica s’imperniò nelle elezioni, fatte per creare a Giolitti una maggioranza demo-liberale che lo disimpegnasse dalle limitazioni, dalle regole e dai criteri imposti ai governi di coalizione dalla situazione parlamentare creata dalla proporzionale. La lotta contro Giolitti non è la lotta contro la persona: è la lotta contro il suo sistema personalistico tradizionale, che lo fa tendere sempre allo sgretolamento dei gruppi, all’atomizzazione della Camera, e a una politica versatile e opportunista senza vincoli di programmi e di organizzazioni. Vista da questo lato, la conclusione della crisi significa senza dubbio una nostra vittoria. Giacché Facta può essere un amico devoto di Giolitti, ma la sua mentalità e i limiti stessi della sua ambizione direttiva, il metodo e il modo coi quali venne costituito il ministero non lasciano dubbio che il suo Gabinetto sarà come quello di Bonomi un ministero di coalizione, che per di più avrà dietro di sé un comitato di maggioranza, nel quale saranno rappresentati tutti i gruppi ministeriali. Inoltre il galantomismo dell’onorevole Facta e dei suoi principali collaboratori ci affidano che non verrà in alcun modo rinnovato il tentativo di ritornare verso il sistema personalistico e atomistico, come lo abbiamo definito più sopra. Se invece vogliamo elevarci ancora ad un punto di vista superiore, quello cioè del sommo interesse che aveva in questo momento il paese di raggiungere un governo rinnovatore che contasse sulla stabilità della Camera, dobbiamo ammettere che la crisi non ha recato a tal riguardo un risultato definitivo. Gli unici elementi di stabilità furono apportati dal nostro Gruppo e sono la fissazione di un programma minimo concordato e il comitato di maggioranza. Ma gli altri gruppi mancarono all’appello; alle Democrazie regna un individualismo-anarchico che ha permesso lo spettacolo dei tre leaders in aspra lotta fraterna; il gruppo socialista è colpito da paralisi; la Destra è straziata fra il dogmatismo di politica estera dell’on. Federzoni e il cinico dinamismo dell’on. Mussolini. Solo i popolari ebbero e mantengono compatti una linea diritta. Ma il gruppo popolare rappresenta un quinto della Camera; non è quindi né deve presumere di essere il fattore costantemente determinante della situazione parlamentare. A questa oggettiva visione della realtà si deve se la battaglia per il risanamento della situazione parlamentare si è per ora sospesa, col proposito di radunare nuove forze e di attendere che il rinnovamento del pensiero e del costume politico, manifestatosi nel paese, si riveli finalmente anche negli altri gruppi della Camera. Diremo, domani, in relazione alla crisi, delle nuove provincie. |
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| Roma, 10. Riepilogando il 1.o di questo mese la storia della complessa crisi parlamentare promettevo di parlare all’indomani della questione delle Nuove Provincie. L’indomani s’è fatto aspettare, ma a ragione, perché non si può riepilogare, fino che la questione non è definita; e i lettori hanno potuto dedurre dalle notizie, spesso contraddittorie e spesso inesatte dai giornali riportate fino agli ultimissimi giorni, che il problema delle Terre Liberate e delle Nuove Provincie coll’assunzione dell’interim da parte del Presidente del Consiglio non era affatto risolto. Ora finalmente, avendo potuto attingere ad informazioni sicure che mi danno per definita la questione, almeno nelle sue linee sostanziali, sono in grado di fissare i risultati della crisi anche per quanto riguarda le Nuove Provincie. La conclusione Il Ministero delle Terre Liberate rimane quello che è, cioè Ministero della ricostruzione della zona devastata e alla sua testa verrà chiamato un senatore. L’Ufficio centrale per le Nuove Provincie rimane quello che è, cioè un ufficio alle dipendenze del presidente del Consiglio. Il suo capo però, il quale è contemporaneamente presidente della commissione centrale consultiva , acquista maggiore influenza politica, in quanto che sarà sentito in Consiglio dei Ministri, ogni qualvolta vi si tratteranno decreti legge e provvedimenti di qualche importanza riguardanti le Nuove Provincie. Per garantire inoltre un migliore coordinamento nell’opera della nostra sistemazione il presidente del Consiglio stabilirà che ogni schema di decreto legge, da qualunque dicastero venga promosso, debba, prima d’essere portato in Consiglio dei Ministri, venir sottoposto al parere della Presidenza del Consiglio che, a seconda dell’urgenza, sentirà previamente la commissione consultiva centrale o l’Ufficio centrale. Con ciò non potrà più avvenire che, dal Consiglio dei Ministri escano d’improvviso dei decreti che né Commissione consultiva né Ufficio centrale abbiano antecedentemente conosciuto. Vedi il caso del decreto legge Giuffrida sull’amministrazione postale. Viene da sé che, data questa soluzione, diremo bilaterale, non è più da attendersi che a ministro delle Terre Liberate venga nominato il sen. Salata o altro senatore o deputato delle Terre Redente. Non occorre rilevare che la partecipazione al Consiglio dei Ministri del capo dell’Ufficio centrale, se verrà lealmente attuata, come venne formalmente promesso, rappresenta un notevole vantaggio e non una disprezzabile garanzia per l’opera della nostra sistemazione. Sarebbe però esagerato l’affermare che questo espediente possa sodisfare le giuste esigenze delle Nuove Provincie. Dalle notizie trapelate nei giornali i lettori hanno potuto comprendere che la soluzione da noi propugnata era ben diversa; e lo sapranno con maggiore precisione quando leggeranno la seguente breve, ma genuina storia delle trattative. Lo svolgimento delle trattative 1. Ancora nella fase iniziale della crisi nelle trattative coll’on. De Nicola, primo incaricato a formare il Ministero, il Partito popolare pose la questione della rappresentanza politica delle Nuove Provincie entro il Ministero, rilevando che l’opera di coordinamento legislativo e di sistemazione delle Terre Redente aveva bisogno di un propulsore e di un patrocinatore con preparazione tecnica entro il Consiglio dei Ministri. E poiché data la tendenza dominante di ridurre, sotto la bandiera della riforma burocratica, il numero dei dicasteri attuali, non si considerava nemmeno come discutibile l’istituzione di un nuovo apposito Ministero per le Nuove Provincie, il mezzo migliore per raggiungere lo scopo sembrò la fusione dell’Ufficio centrale per le Nuove Provincie col Ministero delle Terre Liberate, ponendo a capo di questo dicastero che si sarebbe chiamato «Ministero delle Terre Liberate e Redente» un parlamentare delle Nuove Provincie. In tale senso venne consegnato all’on. De Nicola anche un memoriale. È già noto che l’on. De Nicola a tale proposta oppose la sua decisa volontà di sopprimere non solo il Ministero delle Terre Liberate, ma anche quello dell’Industria, ministeri la cui durata è fissata per legge fino al prossimo 30 giugno. Nel corso delle trattative egli si acconciò tuttavia all’idea di fondere Ufficio centrale e Terre Liberate in un Alto Commissariato, il quale avrebbe avuto carattere ministeriale, ma non il nome di Ministero e con ciò avrebbe accentuata la transitorietà della sua funzione. Questa controproposta di De Nicola non ebbe seguito, perché frattanto tutta la combinazione naufragò contro le opposizioni della Sinistra. In ogni caso va rilevato che a questo punto né era del tutto definita la cosa, né si fecero proposte formali per il parlamentare che avrebbe dovuto dirigere il Commissariato. Solo in via di discorso venne accennato al nome del sen. Salata. 2. Nella seconda fase della crisi la nostra questione passò inevitabilmente in ultima linea. Nella lotta gigantesca che ingoiò uomini e partiti e parve mettere in forse perfino l’esistenza della Camera e dell’attuale suffragio, non si avevano orecchie per le preoccupazioni delle nostre terre. Solo nel dibattito svoltosi fra il Direttorio democratico e la Commissione direttiva il giorno 9 febbraio l’on. Degasperi sollevò la questione ottenendo almeno il risultato che per la prima volta in un’affermazione programmatica della Sinistra (o.d.g. Cocco-Ortu , Casertano, ecc.), fosse invocata maggior cura per la nostra sistemazione e per le nostre autonomie. 3. La terza fase è quella del Ministero Facta, Ministero il quale più che una soluzione della crisi fu detto un precipitato, giacché le rovine accumulate dalla tattica Giolitti, la spossatezza che s’era impadronita di tutti i partiti, l’urgenza di dare al paese un governo qualsiasi precipitarono la costituzione del Gabinetto, saltando a pie’ pari molte questioni che dovevano sembrare secondarie. Il partito popolare anche in tale ressa non perdette però di vista il nostro problema e insistette presso l’on. Facta per il mantenimento del Ministero delle Terre liberate e per la sua fusione coll’Ufficio centrale. Ma a questo punto già avevano avuto modo di agire altre forze in senso contrario cosicché il designato presidente del Consiglio, volendo girare per il momento le difficoltà, decise di lasciare impregiudicata la questione del Ministero delle Terre liberate, assumendone egli stesso la direzione interinale. I nostri fiduciari vollero però allora assicurarsi almeno un minimo di garanzia politica per la sistemazione delle Terre redente e concordarono una formula per la quale, salvi ulteriori provvedimenti, il capo dell’Ufficio centrale avrebbe assistito al Consiglio dei Ministri ogni volta che si trattasse di affari delle Nuove Provincie. Così il Ministero Facta era compiuto. Ma l’interim delle Terre Liberate rappresentava un differimento non una soluzione del problema. Gli antipopolari ne erano malcontenti, perché rimanendo a questo dicastero il solo sottosegretario Merlin si preoccupavano di una soluzione che dava ai popolari un quarto Ministero e parte dei popolari stessi del Veneto, facendosi interpreti, assieme ai socialisti, del desiderio della zona distrutta, replicarono le insistenze perché si passasse senz’altro alla nomina del ministro. Facta si risolse a non opporsi a tali pressioni, cosicché in quest’ultimo stadio divenne di nuovo di attualità la questione della fusione coll’Ufficio centrale. Le nostre ragioni Dobbiamo ripetere qui le ragioni nuovamente addotte dai nostri fiduciari? Il Ministero delle Terre liberate, come semplice ministero di ricostruzione può difficilmente e per un lungo periodo legittimare la sua esistenza, sotto la direzione di due uomini politici, un ministro e un sottosegretario, quand’è ridotto oggidì a 130 funzionari, tra cui 30 uscieri. Fonderlo coll’Ufficio centrale voleva dire rinforzarlo e legittimarne il mantenimento, riducendo contemporaneamente il personale. Le nuove Provincie anche per quanto riguarda gli attuali compiti del Ministero delle Terre liberate, hanno pur diritto di mettervi una volta alla testa dei propri rappresentanti. Trento e Gorizia sono in arretrato di un anno nelle ricostruzioni e di un anno e mezzo nelle liquidazioni. È pur giusto che l’epicentro si trasferisca ora nelle Venezie nuove. Nelle Nuove Provincie il ministero non ha fatto nulla per la sistemazione delle strade militari, nulla o quasi nulla per l’«incremento all’agricoltura, all’industria e ai commerci» (terza funzione che il ministero ha svolto nel Veneto). Inoltre è logico che tale ministero, come in Francia, diventi il Ministero delle Riparazioni e che prenda in mano tutto il groviglio dei rapporti di liquidazione fra l’Italia e gli Stati successori della monarchia danubiana; e qui si tratta soprattutto degl’interessi delle Nuove Provincie. Infine – last not least – la sistemazione politico-amministrativa esige la presenza in seno al Gabinetto di un uomo che conosca le due legislazioni e che coordini le linee di una politica che dev’essere dibattuta e difesa direttamente alla Camera. Tali e altrettali argomenti non riuscirono a persuadere i consiglieri dell’on. Facta o meglio li persuasero ma non ebbero la forza d’indurre il capo del governo a superare gli ostacoli da varie parti frapposti. Fu in giuoco naturalmente anche la questione della persona. I fiduciari del partito popolare credettero servire meglio alla causa delle Nuove Provincie e in modo particolare al principio autonomista, escludendo tale questione da quelle che devono formare oggetto di equilibrio fra i partiti. Non proposero né un popolare, né un amico dei popolari, proposero un senatore delle Nuove Provincie, un tecnico, un autonomista. Ma anche questo disinteresse non valse a facilitare la via. Nel momento decisivo si rivelò il solito antagonismo che oramai si perpetua fra i poteri dell’Ufficio centrale e quelli dei Commissariati generali. Chi sosteneva la teoria di questi ultimi ragionava così: A Roma non occorre né un ministero né un ufficio speciale con prerogative politiche; basta una commissione di giuristi per coordinare le leggi. La politica la fanno i commissari, i quali verranno anche a difenderla alla Camera. Inutile discutere qui tale tesi. Se essa si addimostrasse realizzabile, noi ne saremmo, perché autonomisti e decentratori, partigiani convinti. Ma a parte che l’attuale costituzione non conosce una siffatta situazione dei commissari regionali – e converrebbe quindi tentare la riforma superando difficoltà ben più gravi di quelle opposte alla nomina di un ministro – è lecito affermare in tanto che lo status quo, in cui la mancata istituzione del ministero ci ripiomba, è là per provare che i commissari non hanno avuto finora nemmeno la forza di farsi sentire una volta sola in Consiglio dei ministri, per quanto ci sia tanto di decreto in loro favore, ed è là per provare che i commissariati non hanno la forza d’impedire la tenace invasione della burocrazia, ignara delle nostre condizioni, e che viene imposta dai vari dicasteri. Il caso della commissione per i lavori pubblici è tipico. Ma di ciò a miglior agio. Intanto ci pare ovvio che data la tendenza, e talvolta la necessità, dei vari ministeri d’introdurre per decreto-legge nuovi regolamenti e nuove disposizioni a modifica delle leggi vigenti, noi non abbiamo nei commissari garanzia sufficiente che ciò avvenga secondo le direttive autonomiste, concretate dalla legge sull’annessione; e ciò anche se accadesse – come non accade – che i commissari venissero chiamati di volta in volta a controllare i disegni di decreto-legge presentati in Consiglio dei Ministri. Come si accorderebbero i due commissari, quando uno, il Mosconi , è notoriamente antiautonomista? Ma non lasciamoci trascinare a digressioni. Ci basti aver ricordato tale teoria per far capire com’essa – accenniamo qui alle preoccupazioni fatte valere in nome di una tesi, non all’opera dei commissari – abbia potuto influire negativamente non solo sulla costituzione del Ministero, ma perfino sulla formula già concordata coll’on. Facta per la partecipazione al Consiglio dei Ministri del presidente della Commissione consultiva centrale. Per tenere conto di tali preoccupazioni, se siamo bene informati, il decretino parlerà di estendere al capo della Commissione o dell’Ufficio centrale, ch’è tutt’uno, la facoltà concessa ai commissari. Se a questa facoltà non si fosse aggiunto il preciso impegno del presidente del Consiglio di farla all’atto pratico valere in tutta la sua estensione, dovremmo concludere con accenti amaramente ironici. Ma non abbiamo nessuna ragione di dubitare della lealtà dell’on. Facta e dell’abilità dei nostri fiduciari. Ai quali la lunga crisi se non il pieno risultato che potevano attendersi avrà recato almeno più profonda esperienza su uomini e cose, più esatta notizia del meccanismo che governa le nuove provincie e più chiara visione di come il sistema di governo nato nelle Nuove Provincie durante l’armistizio possa svilupparsi dentro il periodo parlamentare. |
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| Eccoci ai primi passi del ministero Facta . Buoni propositi di lavoro: ripetizione di ottime intenzioni per la politica estera, per l’interna, per la finanziaria. È questo il triangolo o il tripode sul quale insiste ogni discorso programmatico di un capo di governo, che si accinga all’opera faticosa di reggere il paese nei momenti presenti. E l’on. Facta mostra egregie intenzioni, come le ebbero i suoi predecessori: ha lo stesso fine, la medesima buona volontà, adopera gli stessi mezzi, e si trova dinanzi a que’ medesimi collaboratori e a quelle identiche difficoltà che gli altri affrontarono e non riuscirono a superare. Tutti a quest’ora avranno letto il discorso programmatico del nuovo presidente del Consiglio. Muta il maestro: resta la musica, e, peggio, restano i cattivi musicanti dell’orchestra parlamentare. Perché il difetto è qui, tutto qui, unicamente. La funzione del Parlamento è degenerata così da contendere la stabilità e, colla stabilità, la autorità continuativa ed efficace del governo, qualunque sia e chiunque ne sia il preside o il timoniere. Diciamo viete cose e rampogne: ma la fotografia è sincera. Oggi l’on. Facta, sia l’ombra di Giolitti o sia persona salda, traccia l’ordine dell’azione da seguire nel cerchio della politica. Domani comincerà a Montecitorio la logorrea verbosa di tutti i malcontenti, dei critici, dei faccendieri dei ministri e dei semiministri falliti, delle anime in pena, di chi attende e di chi spera, di chi dispera e di chi intriga e congiura. E così, invece di mettersi al lavoro, la Camera si pone a chiacchierare, a pettegolezzare malignando, divagando, perdendo il tempo prezioso e dimenticando la meta, il paese, lo sbilancio finanziario, la crisi economica, il dramma di Fiume, la enigmatica conferenza di Genova . Quanto durerà al potere il ministero Facta, pensano già gli astrologhi della meteorologia parlamentare? Cadrà a novembre, o prima, o supererà l’anno? Il resto poco conta per coloro che osservano il giuoco degli scacchi senza preoccuparsi che la posta è il danno della nazione. Molte insidie sovrastano al nuovo governo che sorge mentre sull’orizzonte ritorna la meteora dell’on. Nitti. L’urto non sarà immediato, ma è inevitabile, benché nel discorso di Melfi l’on. Nitti abbia giudiziosamente sentenziato che per la vita pubblica le crisi di governo frequenti sono gravissimo danno. Intanto tutti vedono ch’egli si offre alla soma proprio quando un nuovo governo inizia il suo compito. Non cerchiamo la logica nelle contraddizioni orali degli uomini parlamentari. Il fatto è che l’assalto alla diligenza ministeriale è il giuoco preferito di Montecitorio, come il golf è la distrazione dei diplomatici che tessono la tela di Penelope della pace europea, come il lawn tennis lo è dell’high life che si diverte e perde il tempo. Ormai governare colla Camera, uscita da qualsivoglia sistema elettivo, è una fatica erculea che spezza le fibre più robuste e porta l’esaurimento al cervello. Vediamo il compito del nuovo governo. I problemi massimi sono sul tappeto per la politica estera: per l’interna è riaperta la ferita di Fiume, che ognuno vede quanto sia pericolosa finché il trattato di Rapallo non verrà applicato. Per le cose finanziarie è sufficiente ricordare il discorso dell’on. Nitti. Gli oppositori suoi hanno potuto togliere valore alle mire apologetiche, alle aspirazioni di capeggiare l’evento collaborazionista: non hanno saputo negare forza alle argomentazioni economiche e finanziarie perché sono le lagrime delle cose. Quale dovrebb’essere dunque il dovere d’ogni vero italiano e de’ buoni cittadini anche se ci sono cattivi deputati a Montecitorio? Uno solo: dar tregua agli uomini che hanno il peso e le responsabilità del governo; cooperare e facilitare loro il grave incarico; non tendere agguati, non distrarli e impedirli colle incessanti scaramucce di Montecitorio. Allora anche un ministero mediocre opererebbe con buon successo e la continuità conferirebbe a iniziare la convalescenza della politica interna e la pacificazione degli animi che tanto gioverebbero a rialzare all’estero il decoro nazionale e a riprendere in paese la feconda attività del lavoro. |
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| Il Piccolo di Trieste accentua in questi giorni la sua campagna contro l’autonomia regionale. Abbiamo già detto che l’organo del senatore Mayr prende occasione di rinfocolare la lotta dalle discussioni che si svolgono ora o stanno per svolgersi nei vari organi consultivi della Venezia Giulia. Il comitato tecnico giuridico è già arrivato alle conclusioni e nella seduta di sabato sera con ventidue voti contro dodici accoglieva la cosidetta tesi unitaria dell’avvocato Mrach e del prof. Asquini dell’istituto commerciale, tesi contraria a quella autonomistica sostenuta dal comm. Pettarin. Il comitato tecnico è un comitato costituito non esclusivamente né principalmente da membri della commissione consultiva, ma messo assieme con un numero ragguardevole di «esperti», scelti dall’antiautonomista sen. Mosconi, onde è da ritenersi che la commissione regionale possa assumere diverso atteggiamento. Nello stesso comitato tecnico, la maggioranza dei 22 è composta di triestini, di due rappresentanti dell’Istria Alta e del sindaco di Monfalcone, fascista, mentre per la tesi autonomista votarono i goriziani e gli altri istriani, e i popolari e i socialisti, senza distinzione. La maggioranza territoriale è quindi senza dubbio per la tesi autonomista. Ma intanto il Piccolo prende coraggio e s’ingaggia a fondo in una lotta che prima aveva attaccato con molta circospezione. In due articoloni esso riassume le ragioni degli unitari. Intanto noi protestiamo contro questo nome che è un vilissimo trucco. L’unità non è in questione, ma è in causa il centralismo o il decentralismo (o regionalismo che si voglia dire). Il Piccolo vorrebbe circondare questo nome di una risonanza storica ponendo il suo drappello sotto la bandiera del Mazzini . Ma anche questo richiamo è inesatto. Non è vero che l’unitarismo di Mazzini si possa identificare col centralismo e coll’antiautonomismo del Piccolo. Basti ricordare che già nel manifesto agl’italiani del «Comitato nazionale italiano» residente in Londra costituito da G. Mazzini, Aurelio Saffi e Mattia Montecchi , in data dall’8 settembre 1850, si leggeva: «I principi che governeranno la nostra azione sono noti… Indipendenza, Libertà, Unificazione – siccome scopo; guerra e costituente italiana – siccome mezzi». «L’Italia vuol essere nazione una: non d’unità napoleonica, non d’esagerato concentramento amministrativo che cancelli a beneficio di una metropoli e d’un governo la libertà delle membra, ma d’unità di patto: d’assemblea interprete del patto, di relazioni internazionali, d’eserciti, di codici, d’educazione, d’unità politica armonizzata coll’esistenza di regioni circoscritte da caratteristiche locali e tradizionali e di grandi e forti comuni partecipanti, quanto più possibile, coll’elezione al potere e dotati di tutte le forze necessarie a raggiunger l’intento dell’associazione». E più tardi il Mazzini, annotando uno scritto del 1833 in cui trattava dell’«unità italiana» in una lunghissima nota che si legge nel vol. XIII dell’edizione completa delle sue opere p. 30 e 99 (I) scriveva le testuali parole: «… Io vorrei che trasformate in sezioni o semplici circoscrizioni territoriali delle tante artificiali divisioni esistenti in oggi, non rimanessero che sole tre unità politico-amministrative: il Comune, unità primordiale; la Nazione, fine e missione di quante generazioni vissero, vivono e vivranno tra i confini assegnati visibilmente da Dio a un popolo; e la Regione, zona intermedia indispensabile tra la Nazione ed il Comune, additata dai caratteri territoriali secondari, dai dialetti e dal predominio delle attitudini agricole industriali o marittime». Abbiamo creduto non inutile questa piccola escursione storica per dimostrare come il Piccolo a torto si ammanti di mazzinianismo, a torto veda nel regionalismo una ripresa di movimento neo-guelfo contro l’unità nazionale e come per la testimonianza stessa di Mazzini l’accaparrare il centralismo per il sentimento unitario italiano costituisce semplicemente una truffa politica. Ma, a parte la storia, il Piccolo tenta ancora il vecchio giuoco di ricattare per la sua tesi il sentimento nazionale. La mentalità autonomistica, dice il Piccolo, «è una specie di subdolo, tenace, inintelligente ostruzionismo al nuovo, di qualunque natura esso sia, qualunque carattere esso abbia, qualunque finalità si proponga. Il nuovo è anche il definitivo. Così ha detto la storia con la guerra. Naturalmente non tutti nelle nuove Provincie sono oggi disposti a credere che quanto diventa italiano, giorno per giorno, con una crescita graduale come quella dell’albero robusto le cui radici rompono e dissodano il terreno per duro che sia, diventa italiano in modo irreparabile». … «Chi è contro il definitivo, possiede la più squisita mentalità autonomistica: la quale, in questo caso, non è più un desiderio d’innestare sul complesso giuridico italiano – che è la base realistica del nostro Paese – quel tanto di vivo che della vecchia legislazione rimane, ma un pretesto politico per combattere il nuovo regime. Questa mentalità appartiene soprattutto ai nazionalisti tedeschi e slavi e, in forme attenuate, ai popolari e ai socialisti ufficiali». E come prova di tale mentalità il Piccolo adduce… le recenti discussioni parlamentari, in cui l’on. Grandi, un deputato slavo e un deputato tedesco si trovarono d’accordo per chiedere una proroga dell’estensione del codice. Argomentazione che non merita di venir ribattuta, quando si ricordi che l’on. Grandi interpretava il pensiero dei giudici trentini e dell’intera commissione consultiva, la quale si era però antecedentemente dichiarata in via di massima favorevole all’estensione del codice. La verità è che l’insinuazione del Piccolo si addimostra semplicemente ributtante e che se l’accusa non ci venisse dall’organo degli ebrei o ebraizzanti, grecizzanti, cosmopolizzanti, massoni di Trieste richiederebbe una risposta alquanto precisa. Ma la risposta si legge scritta nel Piccolo stesso con un sorprendente cinismo, là ove dopo aver sfoderati tutti gli argomenti ideali, in un accento di sincerità scrive: «I nostri problemi sono prevalentemente di natura economica. Tutto il resto è vana accademia da perdigiorni. Ebbene noi vorremmo chiedere agli autonomisti della Venezia Giulia; a quelli che amano l’Italia e da italiani vogliono vivere, in che modo essi concepirebbero la resurrezione economica della regione qualora non confidassero nell’intervento di quello Stato… verso le cui leggi ed i cui ordinamenti stanno apertamente o celatamente in armi. Il triennio di storia che abbiamo dietro di noi è ricordato da tutti: non vi è problema economico d’importanza decisiva per la cui soluzione non sia stato indispensabile invocare lo Stato, la sua generosità, il suo aiuto cordiale. Lo Stato ha dei torti: siamo pronti a riconoscerlo: la sua burocrazia ha dei difetti: li vediamo tutti. Ma nessuno ha pensato di rifiutare i benefici dello Stato… solo perché la sua burocrazia è qualche volta tardigrada: nemmeno i tedeschi dell’Alto Adige. E allora? Si continuerà a dire che lo Stato ha il dovere di dare alle nuove Province quanto ha di meglio, in compenso di quel tanto di… peggio che le nuove Province gli daranno, confermando la loro stima negli ordinamenti, nelle leggi, nello spirito del vecchio regime? Lo Stato, si sa, è in Italia… l’animale utile, paziente e bastonato. Ma noi giuliani e triestini non abbiamo interesse a spingere le cose oltre il limite; giacché i problemi che ancora debbono essere affrontati, dai quali dipende la nostra sorte avvenire, sono di natura economica e la loro risoluzione non è possibile senza andare d’accordo con lo Stato, in seno al quale dobbiamo saper vivere, saper esercitare le nostre oneste influenze, saperci insomma valorizzare con quegli elementi di superiorità di cui veramente disponiamo». Eccovi dunque dopo il ricatto nazionalista il ricatto finanziario. Ma non è che un ricatto. Per quale ragione lo Stato italiano dovrebbe largheggiare meno nel sovvenire ai bisogni di Trieste, se la Venezia Giulia invece di un consiglio regionale colle competenze della legge amministrativa dovesse avere una dieta, cioè un consiglio con qualche limitata facoltà legislativa? In Italia nessuno lo pensa, nessuno lo immagina. Forse che Trieste anche nell’attuale regime autonomista non ha avuto dei larghi contributi? Le cifre dei bilanci parlano chiaro; e basterà ricordare che i fondi per anticipi ai comuni furono assorbiti dal Comune di Trieste, in una misura che tutti gli altri comuni se ne dolgono amaramente. Né vi sarà chi possa opporsi anche nell’avvenire acché all’emporio tergestino vengano consacrate tutte quelle cure particolari che la speciale situazione reclama. Ma c’entra tutto ciò coll’autonomia amministrativa? Comunque, se Trieste crede di mettere in pericolo coll’autonomia il proprio avvenire commerciale e industriale non ci sarà nessuno delle nuove provincie che esiga un simile sacrificio. Trieste richieda per sé, un trattamento diverso, si dia un ordinamento centralista e faccia suo il comodo. Ma non pretenda d’imporre agli altri con argomenti generali di carattere politico, quello che per ragioni economiche desidera per conto suo. E soprattutto, se le sta a cuore la solidarietà dei trentini, non getti il sospetto sul loro programma decentratore, non alimenti il movimento antiautonomista con accuse che vorrebbero dipingere la grande massa di elettori istriani, goriziani e trentini come nemici dell’Italia, per la quale hanno combattuto e sofferto e nell’avvenire della quale nutrono una fede che non ha bisogno né degli eccitamenti né degli esempi altrui. I Vedi anche La critica politica, anno II, fasc. 3. |
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| Riassumiamo in altra parte del giornale la parte espositiva che riguarda in prima linea il punto di vista dei nostri avversari. Qui è opportuno aggiungere qualche parola di chiarimento, che riguarda sovratutto il nostro punto di vista. Premettiamo, per essere precisi, due constatazioni di fatto. Il criterio di massima che si debba mantenere nella loro essenza le autonomie provinciali e comunali, sia pure con eventuali temperamenti che si rendessero necessari, venne accolto finora nel Trentino da tutti i partiti della Venezia Tridentina che hanno una rappresentanza politica o amministrativa alla Camera, nella Giunta provinciale o nelle Commissioni consultive. A buon diritto quindi potevamo affermare, in confronto al Piccolo di Trieste, l’«unanime volere» della Venezia Tridentina. L’avv. Zippel ha creduto opportuno d’indebolire tale nostra affermazione, denunziando al Piccolo il punto di vista contrario del gruppo nazionalista trentino e del gruppo fascista e mettendo in dubbio l’opinione della democrazia liberale. Rispondiamo che il gruppo nazionalista e la sezione fascista rappresentano, su tale terreno, un pensiero che non ha ottenuto in nessuna parte il suffragio degli elettori e della opinione pubblica. La democrazia liberale invece in tutte le occasioni si è manifestata per la tendenza autonomista in termini così precisi, che non è lecito dubitare del suo pensiero . La seconda constatazione va fatta in confronto del Piccolo il quale per comodità polemica suppone che l’autonomismo sia una creazione dei popolari trentini alla cui propaganda gli altri partiti abbiano soggiaciuto. Ora è certo che i popolari trentini furono sempre in prima linea, ma è anche un fatto che contemporaneamente quasi tutti gli elementi indigeni di Gorizia, dell’Istria e di Zara, senza distinzione di partito, si sono pronunciati per la stessa tendenza. A Gorizia oltre il Pettarin, attuale capo dell’amministrazione, è autonomista il sen. Bombig, liberale nazionale, a Zara l’on. Krekic , liberale democratico e nell’Istria si è dichiarato per lo stesso programma la maggioranza liberale nazionale, capitanata dal sen. Chersic e dal deputato Pogatnic . Ed ora alcune brevi osservazioni, per oggi, sulla questione stessa. Gli avversari dell’amministrazione autonoma non brillano per eccessiva chiarezza. Non c’è che il cons. Emer, il quale proceda alle spicce. Egli vuole l’uniformismo più rigoroso e più immediato, il livellamento più meccanico e più completo che sia possibile. E questo è un punto di vista. Esso in verità va non solo contro il postulato della maggioranza delle Nuove Provincie, non solo contro il parere di uomini autorevoli delle vecchi provincie che ci raccomandano tutti di non lasciar cadere l’amministrazione autonoma, ma anche contro la legge stessa della nostra annessione la quale stabilisce che le nuove leggi debbano venir coordinate colle autonomie locali esistenti. Ma è un punto di vista spiegabilissimo. Il fascista è un partito accentratore, il quale nega ogni riforma organica dello Stato, riguarda ogni libertà locale come una rinascenza del medioevo, e combatte qualsiasi decentramento dei poteri. Gran parte poi di fascisti non sono nati nelle nuove provincie e credono che qualsiasi differenziazione fra le vecchie e le nuove sia un ostacolo alla loro attività. Non ci potevamo attendere, che i fascisti, i quali fra il resto non sembra si rompano proprio il capo per comprendere sul serio di che si tratti, fossero dalla nostra parte. I nazionalisti, di qua e di là dell’Adriatico, hanno evidentemente una preoccupazione suprema, ed è che qualsiasi decentramento istituzionale indebolisca la forza di pressione dello Stato in confronto degli allogeni e faciliti la resistenza nazionale dei Tedeschi e degli Slavi. Per questo il Piccolo polemizza sovratutto colla Giunta prov. del Friuli, la quale nella risoluzione, che nella sua prima parte riferiamo altrove, ha anche trattato il problema sussidiario delle circoscrizioni provinciali, chiedendo la formazione di una provincia di «Gorizia» con annessi i distretti di Postumia, Idria e Tarvisio, prima appartenenti alla Carniola, e ottenendo in un compromesso coi partiti slavi che una tale provincia la quale conterebbe 240 mila sloveni e 120 mila italiani avesse tuttavia una rappresentanza (Dieta), composta di 20 italiani e 19 slavi. Noi crediamo che tale compromesso rappresenti una vera conquista nazionale; ma, comunque, questo è certo che la questione delle circoscrizioni è questione subordinata alla principale. Non bisogna confondere l’una con l’altra, né volere, a scopo polemico, pregiudicare per vicendevole riflesso. Perciò il quesito posto dalla Commissione cons. centrale alle consulte regionali fu quello riguardante il criterio direttivo, lasciando ad un secondo tempo di risolvere il problema, certo non facile, delle circoscrizioni provinciali. Ma in via generale non c’è bisogno di aggiungere che riteniamo completamente falso, che un consiglio regionale o provinciale il quale invece di avere carattere limitatamente amministrativo, com’è nelle vecchie provincie, avesse carattere legislativo per un certo raggio di competenze (agricoltura ecc.) diventi un ostacolo alla fusione spirituale o alla unificazione nazionale. Chiamiamo in testimonio la nostra popolazione intera per attestare se il contatto già avvenuto con la parte della burocrazia centralizzata dello Stato abbia ottenuto l’effetto di fondere o di provocare reazione. La commissione consultiva centrale fu – meno due – unanime nel rilevare che l’adattamento avvenuto finora senza scosse troppo grandi è dovuto al sistema di transizione decentrato. In quanto agli allogeni noi manteniamo la nostra onesta convinzione, che gli esperimenti attuali ci dicono speranza fondata: gli slavi e i tedeschi potranno venir avvicinati allo Stato italiano a traverso una loro positiva partecipazione al governo locale, ma non ponendoli soli di fronte al potere centralizzato o alla macchina repellente dell’amministrazione accentrata. Quello però che va infine avvertito è il bisogno rivelato da molti dei nostri contraddittori di parlare di decentramento nel momento stesso che nelle N.P. attuano il centralismo. La verità è che qui e ovunque tutti sentono che così non si può andare avanti. In Italia parlare di decentramento amministrativo o istituzionale è oramai di moda. Il centralismo oramai soffoca la nazione. Bisogna cambiare. Ebbene che avviene? Alla Camera e nei comizi molti oratori di varia fede politica accennano con speranza agli ordinamenti delle Nuove Provincie. La Commissione per la riforma della burocrazia, composta di alti periti in materia dichiara fondato il desiderio delle N. P. di mantenere i propri ordinamenti e fa voti perché un decentramento avvenga anche in Italia; la stessa commissione parlamentare agl’interni – relatore l’attuale sottosegretario Casertano – giunge alle stesse conclusioni; ma no, accade invece che nelle N.P. chi per interessi locali come Trieste (lo stesso Piccolo che vuole la perfetta unificazione in tutto respinge però la legge italiana sul monopolio dell’assicurazione, per salvare gl’interessi dell’Adriatica e delle Assicurazioni generali), chi per preoccupazioni infondate di carattere nazionalista, chi per teoria politica, chi per poca o nessuna conoscenza dei nostri istituti, ci venga con lunghi e confusi o. d. g. che dicono e non dicono, ma che in fondo vorrebbero consigliarci di abolire il decentramento burocratico e istituzionale che abbiamo per poi attendere che ci venga, in forma consimile, restituito a traverso la generale evoluzione regionalista dello Stato italiano. Tutto questo significa però che è ora di uscire dalle frasi e affermazioni generiche e di esporre all’opinione pubblica delle proposte concrete. Per quelle ci batteremo fino alla consultazione popolare e magari al referendum. È quindi superfluo che in piccoli convegni si cerchi di nasconder nella nebulosità di un o.d.g. il proprio pensiero. È la questione più grave che ci toccherà di risolvere, e il popolo stesso dovrà portare sulle sue spalle la decisione delle sue sorti. |
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| Sulle trattative seguite nei due mesi scorsi a Roma fra i rappresentanti degli stati successori della monarchia a.u. leggiamo tratto tratto nei giornali alto-atesini e nella stampa tirolese qualche notizia di evidente buona fonte. Benché si tratti di convenzioni preliminari, cioè di progetti che devono ancora ottenere l’approvazione dei rispettivi governi, riterremmo tuttavia utile che anche in Italia e specie nelle Nuove Provincie se ne desse qualche esatta informazione al pubblico; e in argomento, in assenza di altre comunicazioni ufficiali, farebbe ottima cosa l’«Ufficio economico», il quale molto opportunamente inviò un proprio delegato alla conferenza, a mandare ai giornali quelle informazioni che sia lecito e utile fornire. In tale attesa faremo qualche rilievo come ce lo permette una non completa cognizione della materia discussa e regolata. La conferenza concluse convenzioni riguardanti i crediti e i debiti statali dell’Austria-Ungheria e degli stati successori, il rapporto di debito e credito fra privati, la liquidazione delle assicurazioni, la ripartizione dei beni collettivi (qui c’interessa in prima linea la ripartizione del patrimonio provinciale, dell’istituto ipotecario ecc.) oltre una serie di accordi particolari riguardanti determinate istituzioni e banche. L’accordo che avrà più ampie e più profonde conseguenze è quello che regola i crediti e i debiti privati. Si ricorderà che era contrastata la questione se il Trattato rendesse obbligatorio il pagamento dei debiti austriaci verso i creditori delle nuove provincie al noto tasso del 56.80 o meno. Gli austriaci lo negavano, gli italiani lo sostenevano; ma dinanzi all’improbabilità di ottenere in pratica una tale liquidazione, anche i nostri rappresentanti finirono coll’ammettere la necessità di sostituire alla formula inapplicabile del trattato una convenzione più modesta ma praticamente attuabile. È questa che si crede d’aver raggiunto a Roma, inspirandosi ai seguenti criteri. In Austria e in Italia, si farà un esatto censimento di tali debiti e crediti, osservando che nell’ambito di quest’accordo cadono tutti i debiti e i crediti espressi in corone esistenti fra cittadini della repubblica austriaca e cittadini delle nuove provincie dall’altra, (escluse le obbligazioni derivanti da titoli, da debiti e crediti della Banca A. U., e della Cassa postale), sorti prima del 4 novembre 1918. Fatto il censimento, le parti contraenti se ne scambieranno i risultati, assicurandosi reciprocamente il più largo controllo e istituiranno poi ciascuno un ufficio di verifica e di compensazione. I crediti di creditori austriaci verso debitori italiani saranno trasferiti all’ufficio italiano, i crediti dei creditori italiani verso i debitori austriaci saranno trasferiti all’ufficio austriaco. La cessione avverrà naturalmente in quanto sia ammessa dal debitore o determinata dai tribunali arbitrali. L’ufficio italiano incasserà i crediti che gli saranno ceduti obbligando i debitori italiani a estinguere i loro debiti al ragguaglio di 100 corone 56.8 lire e impiegherà la somma incassata a pagare in lire i creditori italiani. L’ufficio austriaco incasserà i crediti ad esso ceduti obbligando i debitori austriaci a pagarli secondo apposite convenzioni interne e impiegherà le somme a pagare i creditori austriaci. Ciascun Stato si riserva la facoltà di fissare la quota parte da assegnarsi a ogni creditore, rimanendo fermo, che gli austriaci nelle nuove provincie e gl’italiani in Austria avranno parità di trattamento. Per il saldo che dovrà rimanere eventualmente allo scoperto, dopo esaurita la compensazione, ci si rimette a nuove trattative, da condursi dagli uffici stessi. Come si vede, tale convenzione presuppone un accordo coi debitori, donde l’opportunità di costituire qui e in Austria quei consorzi, dei quali fu parola altra volta. Siamo sulla strada di una qualche soluzione – nessuno può dire quale essa sia, prima di avere un censimento esatto –, ma la strada appare tutt’altro che facile. Intanto va rilevato che la conferenza in un apposito articolo ha stabilito che i depositi giudiziali non si considerano come pagamenti, cosicché i molti depositi che debitori austriaci hanno fatto in nostro danno, dopo la pubblicazione del trattato, rappresenteranno fatica sprecata. |
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| Tutti sentono, a Genova, e quanti, nel mondo, a Genova guardano con ansia, che la conferenza non riuscirà se in un certo momento le barriere rizzate dall’odio non ancora estinto, dalla paura non ancora spenta, dall’egoismo avido e diffidente non cadranno per un soffio impetuoso e travolgente di generosità, di amore e di solidarietà umana . Le formole diplomatiche, le abilità tattiche, gli espedienti di tecnica finanziaria operano alla superficie; ma tutti sentono che la salvezza non è nella lettera, ma nello spirito. Tutti lo sentono, ma pochi lo confessano, perché lo spirito deve venir invocato e l’invocazione presuppone l’umiliazione, la vittoria sull’orgoglio; e l’orgoglio ahimé! è il retaggio più certo della guerra. Noi non siamo pessimisti e crediamo che sbaglino coloro i quali pretendono troppo e passano facilmente da esagerate esigenze allo scetticismo più sfiduciato. Quando pensiamo che pochi mesi or sono ancora veniva accolto in tutta l’Europa il verbo della rivoluzione russa che voleva raggiungere la pace universale con nuovi orrori e con nuovo sangue fraterno, ed oggi vediamo Cicerin e Joffe cercare a Genova nella solidarietà umana, senza distinzioni di classi, la salvezza del proprio paese; quando vediamo Lloyd George, lo sterminatore dei tedeschi, fare appello ai sensi di fratellanza verso i vinti; quando sentiamo un primo ministro d’Italia, ove durante la guerra risuonarono le voci più appassionate e più violente contro la missione pacificatrice della Santa Sede, inneggiare all’«augusta parola del pontefice, che compie l’altissimo suo ufficio di amore e di pace», noi crediamo che sarebbe far torto all’Europa politica il disperare delle sue sorti. Genova, comunque finisca la conferenza, rivela senza dubbio un progresso notevole. È troppo chiaro tuttavia che questi capi di Stato raccolti attorno ad un tavolo solo non si ricongiungeranno mai «quadam etiam fraternitate», come ricordava nella sua lettera il pontefice, se almeno per un momento – il grave, il decisivo momento psicologico che determina nella storia i destini dei popoli – l’animo loro non sarà invaso da una unica suprema e invincibile aspirazione di pace. A invocare questo avvento dello spirito c’invita nel suo paterno appello il pontefice e ci chiama la grande festa della resurrezione e della pace che domani i popoli cristiani celebreranno in tutto il mondo. I cristiani sanno quale spirito debbano invocare e quale sia anche oggi la salvezza del mondo. Noi lo ricorderemo colle parole di Giovanni Papini , citando alcuni brani di quella sua bellissima preghiera a Cristo: «Il mondo, per quattr’anni interi, s’è imbrattato di sangue per decidere chi doveva avere l’aiola più grande e il più grosso marsupio. I servitori di Mammona hanno cacciato Calibano in opposte interminabili fosse per diventare più ricchi e impoverire i nemici. Ma questa spaventevole esperienza non ha giovato a nessuno. Più poveri tutti di prima, più affamati di prima, ogni gente è tornata ai piedi di fango del Dio Negozio a sacrificargli la pace propria e la vita altrui. Il divino Affare e la santa Moneta occupano, ancora più che nel passato, gli uomini invasati. Chi ha poco vuol molto; chi ha molto vuol più; chi ha ottenuto il più vuol tutto. Avvezzati allo sperpero degli anni divoratori, i sobri son diventati ghiotti, i rassegnati son fatti abili, gli onesti si son dati al ladroneccio, i più casti al mercimonio. Sotto il nome di commercio si pratica l’usura e l’appropriazione; sotto l’insegna della grande industria la pirateria di pochi a danno di molti. I barattieri e i malversatori hanno in custodia il denaro pubblico e la concussione fa parte della regola di tutte le oligarchie. I ladri, rimasti soli ad osservare la giustizia, non risparmiano, nell’universale ruberia, neppure i ladri. L’ostentazione dei ricchi ha chiovato nella testa di tutti che altro non conta, sulla terra finalmente liberata dal cielo, che l’oro e quel si può comprare e sciupare coll’oro. […] Tu sai queste cose, Cristo Gesù, e vedi ch’è giunta un’altra volta la pienezza dei tempi e che questo mondo febbroso e imbestiato non merita che d’esser punito da un Diluvio di fuoco o salvato dalla tua intercessione. Soltanto la tua Chiesa, la Chiesa da te fondata sulla Pietra di Pietro, la sola che meriti il nome di Chiesa, la Chiesa unica e universale che parla da Roma colle parole infallibili del tuo Vicario, ancora emerge, rafforzata dagli assalti, ingrandita dagli scismi, ringiovanita dai secoli, sul mare furioso e limaccioso del mondo […] Noi ti preghiamo dunque, Cristo, noi, i rinnegatori, i colpevoli, i nati fuori di tempo, noi che ci rammentiamo ancora di te, e ci sforziamo di viver con te, ma sempre troppo lontani da te, noi, gli ultimi, i disperati, i reduci dai peripli e dai precipizi, noi ti preghiamo che tu ritorni ancora una volta fra gli uomini che ti uccisero, fra gli uomini che seguitano a ucciderti, per ridare a tutti noi, assassini nel buio, la luce della vita vera. Più d’una volta sei apparso, dopo la Resurrezione, ai viventi. A quelli che credevan d’odiarti, a quelli che ti avrebbero amato anche se tu non fossi figliolo di Dio, hai mostrato il tuo viso ed hai parlato con la tua voce. Gli asceti nascosti tra le ripe e le sabbie, i monaci nelle lunghe notti dei cenobi, i santi sulle montagne. ti videro e ti udirono e da quel giorno non chiesero che la grazia della morte per riunirsi con te. Tu eri luce e parola sulla strada di Paolo, fuoco e sangue nello speco di Francesco, amore disperato e perfetto nelle celle di Caterina e di Teresa. Se tornasti per uno, perché non torni, una volta, per tutti? Se quelli meritavano di vederti, per i diritti dell’appassionata speranza, noi possiamo invocare i diritti della nostra deserta disperazione. Quell’anime ti evocarono col potere dell’innocenza; le nostre ti chiamano dal fondo della debolezza e dell’avvilimento. Se appagasti l’estasi dei santi perché non dovresti accorrere al pianto dei dannati? Non dicesti d’esser venuto per gl’infermi e non per i sani, per quello che s’è perduto e non per quelli che son rirnasti? Ed ecco tu vedi che gli uomini sono appestati e febbricitanti e che ognuno di noi, cercando sé, s’è smarrito e ti ha perso. Mai come oggi il tuo Messaggio è stato necessario e mai come oggi fu dimenticato o spregiato. Il regno di Satana è giunto ormai alla piena maturazione e la salvezza che tutti cercano brancolando non può essere che nel tuo Regno. La grande esperienza volge alla fine. Gli uomini, allontanandosi dall’Evangelo, hanno trovato la desolazione e la morte. Più d’una promessa e d’una minaccia s’è avverata. Ormai non abbiamo, noi disperati, che la speranza d’un tuo ritorno. Se non vieni a destare i dormenti accovati nella belletta puzzante del nostro inferno è segno che il gastigo ti sembra ancor troppo certo e leggero per il nostro tradimento e che non vuoi mutare l’ordine delle tue leggi. E sia la tua volontà ora e sempre, in cielo e sulla terra. Ma noi, gli Ultimi, ti aspettiamo. Ti aspetteremo ogni giorno, a dispetto della nostra indegnità e d’ogni impossibile. E tutto l’amore che potremo torchiare dai nostri cuori devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato per amor nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile amore». |
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| Nella recente seduta della commissione regionale i membri tedeschi avevano presentata una proposta d’urgenza sulla questione delle scuole italiane dell’Alto Adige. Il commissario generale dichiarò di non essere in grado di fare in argomento comunicazioni definitive, e allora la Commissione respinse l’urgenza, rimettendo la proposta alla trattazione normale, cioè alla trafila del comitato competente. I membri italiani erano informati che fra Commissariato e Ministero si era rivelato un grave dissenso sopra l’applicazione del decreto-legge Corbino e, respingendo, contro il voto dei tedeschi e dei socialisti, l’urgenza, ebbero il proposito di lasciare agli organi governativi il tempo necessario per dirimere la controversia, senza che intervenissero dibattiti e manifestazioni pubbliche che avessero l’effetto di compromettere seriamente l’autorità dello Stato. Il buon proposito però risultò vano perché dopo quel giorno e per opera di circoli tedeschi e per opera di circoli italiani la cosa diventò pubblica, sì che oggi minaccia di trasformarsi in un vero scandalo della amministrazione statale. A Salorno il sindaco contrappose al manifesto del commissario civile che inculcava l’osservanza del decreto Corbino, un comunicato del Verband che, richiamandosi ad una lettera del Ministero dell’istruzione, prometteva impunità fino all’evasione dei ricorsi in terza istanza; a Trento molto inopportunamente si alluse al delicato problema nei brindisi di un banchetto per … la mutualità agraria, e la sera una manifestazione oltremodo biasimevole veniva inscenata alla stazione al passaggio del sen. Salata che viaggiava in compagnia della famiglia e per dolorose contingenze personali. Così il dissenso che doveva venir liquidato tra i fattori competenti dilaga in un conflitto pubblico nel quale chi fa la peggior figura è proprio il Governo d’Italia. Stando oramai così le cose, è lecito che noi abbandoniamo il nostro riserbo e diciamo chiaro il nostro pensiero, oggettivamente e francamente. I termini della questione sono noti. Il R.D. 28 agosto 1921, detto anche brevemente legge Corbino, stabilisce l’obbligo della frequentazione della scuola elementare, fissato dalla legge vigente, per scolari italiani si riconosce adempiuto solo se essi frequentano la scuola italiana. L’autorità scolastica rimaneva autorizzata a stabilire quali bambini dovessero riguardarsi come italiani e rimetteva ad apposito regolamento il precisare il modo di accertare la nazionalità degli scolari. Sventuratamente – ed ecco il primo errore – il regolamento esecutivo veniva emanato dal Ministero solo il 12 ottobre 1921 e giungeva a Trento appena il 23 dello stesso mese, mentre il decreto-legge stesso veniva pubblicato nella Gazzetta quasi due mesi dopo! Le operazioni di accertamento durarono così fino ai primi di dicembre e appena il 2 gennaio 1922 il Commissariato generale avendo avute le proposte dei singoli commissariati civili, ordinava l’assegnazione dei bambini riconosciuti italiani, alle scuole italiane. Poche famiglie obbedirono, i più presentarono ricorso al Commissariato generale contro la decisione di prima istanza. Su tali ricorsi ritenne di poter decidere in via definitiva il commissario generale, perché nelle succitate norme esecutive del Ministero era detto testualmente: «Eventuali ricorsi contro tale obbligo in dipendenza della lingua di uso saranno decisi dall’E. V. (il Commissario generale) quale capo dell’autorità scolastica provinciale». La decisione avvenne dopo un nuovo accertamento. Mentre la prima istanza aveva deliberato in base ad informazioni riguardanti i genitori e la lingua d’uso della famiglia, il Commissariato ordinò invece dei rilievi riguardanti i bambini stessi, sottoponendoli ad un esame fatto da un maestro italiano e da uno tedesco, alla presenza del presidente dell’Ufficio scolastico provinciale e di due Ispettori e nei singoli luoghi di due rappresentanti del Consiglio scolastico locale. In base all’esito di tale esame il Commissariato decise definitivamente sui ricorsi e contro i renitenti iniziò la procedura penale, contemplata dai paragrafi 30 e 35 della legge scolastica provinciale per mancata frequentazione della scuola. La procedura condusse all’inflizione di parecchie multe, le quali però – è bene notarlo – e per la longanimità, con cui si procedette e per la complicazione stessa della procedura non furono ancora pagate in nessun caso. I lettori del Trentino sono informati dal nostro corrispondente di Bolzano che i ricorsi e la resistenza furono organizzati dall’on. Reut-Nicolussi, il quale comparve ripetutamente innanzi al Commissariato generale civile come procuratore dei ricorrenti. In tutte le occasioni i deputati del Deutscher Verband sostennero: 1. che in base alla legge scolastica doveva venir ammesso il ricorso anche in terza istanza, cioè al Ministero; 2. che tali ricorsi dovevano avere forza sospensiva, cosicché i bambini dei ricorrenti avrebbero dovuto ritornare frattanto alla scuola tedesca. In questo momento, la situazione era che su 290 scolari della zona mista riconosciuti italiani, e quindi obbligati a frequentare la scuola italiana, 223 avevano finito coll’adattarsi a frequentare tale scuola e solo 65 mantenevano la resistenza. Di questi, 30 (su 49 obbligati) appartengono al comune di Salorno che, com’è noto, dei comuni in questione è il paese più italiano, ma dove disgraziatamente l’agitazione tedesca si fece valere con maggiore efficacia. Nelle ultime settimane il numero dei renitenti è ancora diminuito, sia perché alcuni abbandonarono spontaneamente la resistenza, sia perché alcuni altri vennero rimandati autoritativamente alla scuola tedesca, giacché i maestri italiani ebbero l’ordine di denunciare al Commissariato generale tutti quei casi in cui un continuato rapporto con gli scolari avesse rivelato errori di accertamento. In questo studio della vertenza, in seguito alla rimostranza dei deputati alto-atesini, intervenne il ministero dell’Istruzione a dichiarare che dovevasi ammettere il ricorso in terza istanza con forza sospensiva per l’attuazione della legge. Tale determinazione venne comunicata dal ministro dell’Istruzione, previo accordo col presidente del Consiglio, anche al conte Toggenburg come capo dei deputati tedeschi. Se esaminiamo ora spassionatamente il lato giuridico del problema, troviamo che i tedeschi hanno con sé la legge quando chiedono l’ammissibilità dei ricorsi al Ministero. Infatti, tanto la legge scolastica locale vigente, quanto la legge scolastica italiana prevedono che l’ultima istanza in tali vertenze è il Ministero dell’Istruzione. Quello che ha torto è il Ministero stesso, il quale ha in un primo stadio emanata una ordinanza esecutiva in contrasto con la legge, e quindi illegale, e di questo errore si è accorto solo ora. Nella pratica poi il torto diventa ancora maggiore, quando si pensi che il ritardo della emanazione del decreto e del regolamento fece differire l’assegnazione degli scolari al 2 gennaio, cioè in pieno anno scolastico coll’effetto di portare il perturbamento nella scuola e di alimentare l’agitazione degli oppositori. Ma i tedeschi e il Ministero hanno recisamente contro la legge quando vogliono imporre ai ricorsi la forza sospensiva, giacché la legge scolastica prevede che l’autorità scolastica provinciale possa negare tale forza sospensiva qualora lo richiedano ragioni di ordine pubblico. Ora, avendo l’autorità scolastica provinciale deciso in tale senso, com’è sua competenza, il Ministero non ha più il diritto di levare tale decisione. Questo per il lato giuridico. Il lato politico non ha bisogno di molte illustrazioni. Si tratta di applicare una legge in difesa delle minoranze italiane in confronto di un’agitazione che tende a frustrare l’opera di ricupero dello Stato italiano in quella zona mista ove un lungo periodo di germanizzazione aveva snaturato il carattere e la missione della scuola elementare . Il Governo ha il sacrosanto dovere di favorire la applicazione della legge, e pecca di debolezza o d’ignoranza quando con norme contraddittorie e con colpevoli ritardi mette a repentaglio il nostro buon diritto. Non siamo qui a consigliare alcuna deviazione da quella che è la stretta norma giuridica; e quindi si riformino pure le norme esecutive nel senso che vengano accettati e decisi i ricorsi presentati a tempo al Ministero; ma nessuna giustificazione esiste, né formale né politica, per concedere a tali ricorsi la forza sospensiva. Il sospendere ora l’effetto della determinazione del Commissariato generale significherebbe un nuovo rinvio degli scolari della scuola italiana alla scuola tedesca per restituirli poi eventualmente alla prima, con evidente perturbamento della scuola e della pubblica tranquillità. Noi uniamo quindi energicamente la nostra voce a quei nostri deputati che, ancor prima che il conflitto divenisse pubblico, hanno scritto a Roma; e vogliamo sperare che una nuova e rapida regolamentazione della materia assicuri la pronta applicazione della legge Corbino, legge che s’inspira ai più elementari principi di diritto che possono venir sostenuti non solo al Parlamento in confronto dei tedeschi, ma in confronto a qualsiasi foro internazionale. E rinunziamo per oggi a quelle ovvie considerazioni di carattere politico generale intorno al metodo di governare le nuove Province, che questo caso, come molti altri, ci suggerirebbe di fare. |
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| Merano, 1 maggio. Ieri ha parlato qui innanzi a numeroso pubblico della colonia italiana il vostro direttore on. Degasperi, accolto con larghe dimostrazioni di simpatia. Presentato da un caloroso saluto a nome della locale Sezione dal D.r Lucchini, l’oratore descrisse prima le linee generali dell’attività di parlamentare italiana, in quanto sono inspirate o determinate dal partito popolare, mettendo in contrapposto la situazione attuale caratterizzata dall’atteggiamento di Cicerin a Genova colla febbre rivoluzionaria che sembrava minacciare la consistenza stessa dello Stato due anni or sono, quando anche proprio in Merano, l’on. Flor in contraddittorio coll’oratore, predicava i miracoli della dittatura russa ed esigeva per essa la nostra illimitata ammirazione. Discorrendo del programma di riforme del partito, l’on. Degasperi trovò modo di rilevare che anche le riforme generali stanno in nesso col risorgimento della regione, portando ad esempio la nuova legislazione agraria che con analoghi provvedimenti, potrebbe darci la possibilità della grande bonifica della Val d’Adige, bonifica che ha un alto valore sociale e politico e che sarà una delle mete che la nostra deputazione si proporrà di raggiungere. L’oratore stesso per un principio di affermazione fece inserire già nel bilancio di quest’anno un primo importo per la bonifica a nord di Salorno. L’on. Degasperi si diffuse poi, ascoltatissimo, a spiegare i tentativi che i popolari stanno facendo per riorganizzare la vita del Parlamento e riformare l’amministrazione, rilevando che anche queste riforme stanno in nesso logico coi nostri postulati locali riguardanti l’assetto istituzionale e amministrativo della regione. Degne di ampio rilievo sarebbero le dichiarazioni del presidente del nostro gruppo parlamentare circa le questioni dell’Alto Adige, e ci rincresce non averle potute raccogliere letteralmente. Ci pare tuttavia di poterle riassumere così. La decisione circa le nostre autonomie provinciali e comunali dovrà essere imminente. Gli avvenimenti della Venezia Giulia c’insegnano che gli amici del sistema amministrativo autonomistico devono subordinare la questione delle circoscrizioni provinciali al riconoscimento del sistema. In ciò si compiace di aver trovato per tale tattica ch’egli ha caldeggiato già in autunno in seno alla commissione consultiva centrale l’assenso anche della Landeszeitung. Stima di poter dire già oggi però che, pur riconoscendo le ragioni che in via di principio possono consigliare per la circoscrizione di Bolzano delle istituzioni autonome particolari, nella pratica di questo periodo di transizione la collaborazione fra italiani e tedeschi in una sola amministrazione è richiesta da ragioni finanziarie, politiche e di diversa indole. In questo periodo conviene provvedere alla riorganizzazione dei servizi statali, mutandone, ove occorra, la sfera d’azione, risolvere il problema della lingua d’uso negli uffici dei vari dicasteri, coordinare la legislazione sociale, economica, giudiziaria, in modo che la questione dell’amministrazione autonoma possa risolversi, con criteri oggettivi, indipendentemente da preoccupazioni politiche e giurisdizionali che riguardano i rapporti dei cittadini collo Stato. È interesse tanto degl’italiani quanto dei tedeschi che la questione di eventuali nuove circoscrizioni provinciali o circolari venga posta e risolta in un ambiente e in un tempo in cui si proietti meno l’ombra del passato. Frattanto il partito popolare che non ha alcuna responsabilità diretta della politica fatta dai vari organi governativi nell’Alto Adige, crede tuttavia di dover appoggiare tale politica, quando miri a proteggere il libero sviluppo delle minoranze ladine e italiane e, senza ledere i diritti naturali dei tedeschi, tenta al ricupero degli elementi italiani. Esso deve lamentare però che tale politica non sia scevra da contraddizioni che si rivelano al pubblico, con grave danno dell’autorità statale e che si proceda troppo a rilento nella sistemazione amministrativa degli organi statali. Il governo dei tedeschi ha delle esigenze di sensibilità speciale, onde il partito popolare, forte delle passate esperienze e consapevole delle gravi responsabilità intende procedere non con agitazioni di piazza o con azioni precipitate, ma con opera premeditata e predisposta da un’esatta conoscenza di uomini e cose. A questo punto l’oratore fra il vivo interessamento dell’assemblea, annunzia che la Direzione centrale del Partito d’intesa col comitato regionale di Trento istituisce col giorno d’oggi un apposito segretariato popolare per l’Alto Adige, il quale avrà lo scopo di tutelare gl’interessi delle minoranze ladine e italiane in specie e della regione in generale, diventando organo di osservazione, studio ed azione per quanto riguarda la nostra politica altoatesina. Sotto gli auspici del Segretariato uscirà pure in Bolzano un settimanale il Ponte, il quale vuole essere non solo organo di avvicinamento coi ladini e con gl’italiani delle zone che furono già sotto l’influenza tedesca, ma anche interprete di ogni tendenza conciliativa e collaborazionista in seno ai tedeschi stessi. Ciò si potè fare con gravi sacrifizi; agli amici altoatesini di dare tutto il loro appoggio, ricordando che simili istituzioni fioriscono solo se sostenute col proprio obolo e colla propria fatica. Questa notizia e queste dichiarazioni le quali richiamano tutta l’opera di persuasione e di trasformazione psicologica compiuta dai popolari con tenacia e con successo – basti ricordare il recente comizio dell’on. Degasperi in Gardena – furono accolte da grandi applausi. L’on. Degasperi, che nello stesso giorno conferì coi dirigenti della Sezione sui vari problemi locali, si abbia la nostra particolare riconoscenza per il suo vigile interessamento. |
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| Roma, 9. Al recente Consiglio nazionale del Partito popolare nella sua seduta sui problemi della Conferenza di Genova , il segretario politico don Sturzo ha fatto un’ampia relazione sia di quello che in via preparatoria aveva elaborato la Direzione del partito e la Commissione consultiva dei problemi esteri e nazionali, sia della azione dei delegati ed esperti di parte popolare, sia della sua attività personale nel recente viaggio a Genova e dei contatti avuti con tutti i capi delle delegazioni straniere e dei rappresentanti delle correnti politiche affini o simili al Partito popolare italiano. Il prof. Sturzo ha detto che il suo viaggio a Genova ha avuto due scopi: studiare da vicino, nei vari modi, e di apprezzare i problemi economici che formano il substrato della Conferenza di Genova ed i rilievi politici nei riguardi generali e italiani; continuare il lavoro di contatto per la formazione di una internazionale politica a base popolare, e fare valutare agli amici e agli estranei la opera, l’indirizzo ed il programma del Partito popolare. Ha riferito quindi le sue impressioni personali sull’andamento della Conferenza di Genova affermando che per l’Italia saranno notevoli i vantaggi della riuscita della Conferenza in una città italiana che ha dato il senso a tutto il mondo che l’Italia ha superato la sua crisi morale e che si avvia col lavoro e la sobrietà del suo popolo alla sua ricostruzione. Continuando la sua esposizione, il prof. Sturzo ha osservato che non sembra tuttavia che vantaggi economici reali possano derivare all’Italia dalla Conferenza, dato che sul regime delle materie prime, sul regime doganale, sul movimento emigratorio, e sulle condizioni dei cambi non si è fatto ancora a Genova nessun passo reale in avanti. La ripresa dei rapporti con la Russia è un problema morale e civile che sta davanti all’Europa in tutta la sua visione tragica. I risultati economici Quanto ai risultati economici di tali problemi non bisogna nutrire larghe speranze di lavoro ricostruttivo, tranne quello dell’accaparramento delle materie prime, che viene fatto con abilità da finanzieri e da uomini politici. Il rifacimento dell’economia e dei popoli vinti dell’Europa centrale gravita su due problemi fondamentali: la ricostruzione tedesca e la sistemazione greco-turca. Gli interessi della Francia e dell’Inghilterra sono in conflitto più o meno palese e si mostrano sotto vari aspetti della Conferenza. L’Italia si trova in una difficile condizione per mantenere l’equilibrio. Oggi intanto l’Italia ha il compito di agevolare il buon esito della Conferenza che raggiungerà i suoi scopi se arriverà a stabilire i rapporti con la Russia ed approverà il patto di non aggressione; e a predisporre alcuni elementi fondamentali per la ricostruzione economica, ricostruzione però che attingerà assai più dagli sforzi di gruppi capitalistici e dall’energia dei lavoratori che non da decisioni di commissioni e di conferenze. Dopo vari particolari di fatto e altre riserve, il prof. Sturzo ha concluso facendo notare quanto notevolmente benefica sia stata nell’ambiente della Conferenza l’impressione ricevuta dalla recente lettera del pontefice e come in tutti abbia trovato un’eco viva e profonda la parola del pontefice pronunciata in un’ora così difficile e tanto attesa. Sulla relazione di Sturzo si è aperta quindi la discussione a cui hanno partecipato varii oratori e tra gli altri i deputati Degasperi e Gronchi. A tutti ha replicato don Sturzo dando vari schiarimenti specialmente sulla politica del Mediterraneo Orientale e sulla grave questione del conflitto franco-tedesco. Lo spirito pacificatore di Pio XI Il Consiglio nazionale ha conclusa la discussione, levando profondo omaggio allo spirito pacificatore del papa Pio XI e precisando i punti di vista che tutti gli organizzati, le associazioni, i comitati, e la stampa aderente debbono tenere come elemento di indirizzo e di valutazione nei riguardi della Conferenza di Genova e della politica internazionale. Tali punti di vista sono così prospettati: 1) Per ragioni di umanità e di senso cristiano si deve favorire anche per mezzo della conferenza e della stampa, lo spirito di pacificazione tra i popoli e l’allacciamento di rapporti politici civili ed economici tra gli Stati, in modo speciale con la Russia e la Germania senza delle quali non è possibile una politica economica duratura. 2) Nel rilevare il tragico destino della Russia ove si contano a milioni le vittime del disordine e della fame, bisogna combattere le tendenze sociali comuniste che alla folla esaltano quel regime sociale, che acutizza l’immensa crisi ed eleva una barriera con la civiltà occidentale; e combattere la cupidigia di coloro che tendono allo sfruttamento della Russia come terra di capitalizzazione e di conquista. Le proposte di Genova per una cooperazione di tutti i servizi russi, cedendo su diritti legittimi, concedendo garanzie ed aiuti, benché siano da considerarsi come uno sforzo iniziale limitato, debbono essere moralmente sostenute. 3) Deve ritenersi impossibile raggiungere la pace, se non si trova una intesa transattiva con la Germania (come si è incominciato a fare con gli Stati eredi dell’ex impero austro-ungarico), in modo che per mezzo di un prestito estero la Germania possa pagare le indennità di guerra già rimandate alla prossima scadenza, e nello stesso tempo ricostruire le proprie economie e rivalutare la propria moneta in un congruo periodo di moratoria, eliminando anche così i danni e le spese di occupazione militare. 4) Deve appoggiarsi e sostenersi moralmente il patto di non aggressione per tutti, con reciproche garanzie dell’osservanza dei trattati e delle decisioni internazionali, dando quindi luogo ad una diminuzione degli armamenti. Per potere però raggiungere l’esecuzione di tale patto occorre che sia effettivamente risolta la vertenza greco-turca; sistemati i confini ancora incerti tra vari Stati; riconosciuti e sistemati gli stati sovrani creati nel sud della Russia e dell’Asia Minore; fissate le garanzie per le minoranze, risolute le questioni della Galizia, del Montenegro e della Lituania. I capisaldi della ricostruzione 5) Perché l’economia internazionale possa ricostituirsi occorre: a) combattere le tendenze a mantenere alte le barriere doganali; b) agevolare con prestiti diretti in oro, per i paesi a bassa valuta, la rivalutazione della moneta onde ottenere un graduale aumento nella capacità di acquisto e di stabilizzazione dei cambi; c) facilitare gli acquisti delle materie prime, abolendo i doppi prezzi di esportazione e combattendo i monopoli artificiali per i petroli; d) togliere i sistemi proibitivi della emigrazione ed agevolare l’emigrazione qualificata e lo scambio di attività umane; e) facilitare i trasporti; f) economizzare sulle spese per avere i bilanci statali al pareggio. Tali postulati sui quali dalla Conferenza di Genova si sono avute affermazioni di carattere generico, debbono essere oggetto di larga propaganda tra le masse. 6) È opportuno richiedere che tutti gli Stati siano ammessi alla Società delle nazioni come frutto della Conferenza di Genova, dove appunto tutti gli Stati si sono riuniti per discutere sulla ripresa economica dell’Europa. 7) Si deve affrontare la soluzione amichevole ed equa della applicazione del trattato di Rapallo tra l’Italia e la Jugoslavia, e la sistemazione dello Stato di Fiume, con la costituzione di un consorzio portuale e un regime economico dei porti dell’Alto Adriatico, sicché il sistema sia corrispondente come per Fiume così per Trieste e Venezia. 8) L’Italia deve continuare nell’opera sua di pacificatrice e nella sua missione di equilibrio tra l’alta Europa ed il Mediterraneo, e pure nella realtà della sua posizione con l’Intesa deve orientarsi verso una politica di valorizzazione delle sue forze economiche e di valutazione delle varie forze di ricostruzione europea. Il Consiglio nazionale ha quindi emesso un voto contro l’uso delle truppe di colore nell’occupazione europea, per alte ragioni di umanità e di morale. Inoltre il Consiglio nazionale, confermando il voto della direzione del Partito a favore della proposta transazionale per la liquidazione dei beni dei sudditi ex nemici in Italia, ha voluto dare alla conferma il significato di miglioramento nei rapporti internazionali e di rivendicazione di moralità pubblica contro il possibile sfruttamento di speculatori, come avviene in ogni Stato in occasione di vendite in massa di beni privati. Infine il Consiglio nazionale ha preso atto con soddisfazione delle comunicazioni del segretario politico sui passi fatti a Genova per concretare l’iniziativa dell’internazionale popolare. |
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| Quello che sta succedendo in questi giorni a Bologna è sommamente istruttivo : la minaccia fascista esercitata in grande stile, se non può costituire una sorpresa per coloro che avevano penetrata l’intima essenza di questo movimento – conclamato in un primo tempo movimento di difesa dell’ordine e dello Stato contro l’insidia del sovversivismo, ma in seguito rivelatosi analogo, nella sua natura e nei suoi fini, al movimento bolscevico, perché come questo inteso a comprendere Stato, ordine, legge, vita pubblica come la semplice affermazione di una dittatura partigiana basata sulla violenza – dovrebbe finalmente aprire gli occhi agli ingenui non del tutto convinti della evidenza di questa lapalissiana verità. L’aperta minaccia all’autorità dello Stato di cui sta scrivendo i fasti a Bologna il fascismo, i conflitti armati, gli incendi e le devastazioni delle cooperative e degli organismi sindacali rossi, la grande mobilitazione delle proprie forze con relativi cortei e clamorose dimostrazioni, mentre il governo si sbraccia a emanare le sue «grida» vietanti il porto d’armi e i pubblici comizi – il grottesco che si innesta sul tragico – tutto ciò dimostra a qual punto di gravità sia giunto il male, e come incomba ad un governo che non voglia il proprio suicidio agire energicamente. Questa sfida allo Stato – che ha per suo maggiore esponente uno di quei «minorenni» che la scrupolosità costituzionale dei partiti di destra vorrebbe imporre alla Camera – ha per pretesto una disposizione presa dal prefetto di Bologna colla quale, nella provincia, e nell’interesse dei disoccupati locali, si vietava l’impiego di mano d’opera di altre provincie. La disposizione, motivata dal proposito di tutelare prima l’interesse dei disoccupati del luogo che quello dei disoccupati d’altre provincie, ha irritato i fascisti che calcolavano di trasportare nel bolognese i disoccupati ferraresi dei loro sindacati che sarebbero stati naturalmente dagli agrari emiliani: era insomma una manovra elegante colla quale il fascismo provvedeva alla occupazione dei propri organizzati a tutto scapito degli altri iscritti ad altre organizzazioni. (A questo punto, ed «en passant», si potrebbe opportunamente ricordare alle organizzazioni rosse che ora giustamente si lamentano e protestano contro le inique pretese fasciste, se esse pure non hanno, in argomento, qualche rimorso sulla coscienza e se, nella epoca della loro indiscussa potenza e prepotenza esse pure non ricorsero al metodo iniquo del boicottaggio e dell’affamamento dei lavoratori che chiedevano la libertà delle loro opinioni e il diritto d’organizzarsi come meglio loro piaceva. La lezione gioverà a qualche cosa? ne dubitiamo; ma ad ogni modo, per noi, la ingiustizia di allora non può legittimare l’ingiustizia d’ora). La causa confessata del pronunciamento bolognese è, per altro, un pretesto: la verità è che il movimento fascista fa le sue grandi manovre in previsione di prove più vaste e decisive. In tale situazione, con un partito liberale disorganizzato, incerto, che non si preoccupa minimamente del propter vitam vivendi perdere causas, anche il governo non trova quella base parlamentare solida, efficace che gli consentirebbe di agire con forza e fermezza. L’inerzia o la tacita o confessata complicità che in quest’ora torbida il partito liberale concede all’attività rivoluzionaria del fascismo non potrà mai essere giudicata abbastanza severamente: se esso fosse invaso dalla follia della dissoluzione non potrebbe agire diversamente di come fa, illudendosi forse di assicurarsi la continuazione incontrastata del proprio predominio. Quanto al partito socialista, esso sta – col suo nullismo – attentando alla vita anche più efficacemente di quello che non faccia lo stesso fascismo: la situazione politica è di una tale gravità che ai dirigenti socialisti intelligenti dovrebbe porre questo dilemma logico e fatale: o uscire dal movimento legale e tentare per proprio conto un movimento rivoluzionario, o tentare l’ascesa al potere per assicurare il rispetto dell’ordine e della legge. Il nullismo attuale della direzione intransigente – osserva uno dei socialisti più equilibrati e autorevoli – «è il peggiore dei delitti che possa essere consumato da uomini investiti di responsabilità, perché rappresenta il sacrificio di tutto un popolo ad una formula fredda e vuota che è contraddetta e negata da tutto ciò che è realtà e che è vita. L’intransigenza arida ed implacabile degli attuali dirigenti del partito è la pietra al collo che sommerge e trascina al fondo il corpo martoriato del socialismo italiano». Ma questo nullismo è anche, evidentemente, un impaccio alla libertà di movimento del governo, che nello spirito di disciplina, d’ordine, di legalità del partito e del gruppo parlamentare popolare trova certamente un forte aiuto, un saldo fulcro, ma non quella sufficiente base numerica parlamentare che lo assicuri dalle minaccie di crisi continue. In tale situazione matura forse la necessità di radicali revisioni dell’orientamento e della responsabilità dei partiti. Indipendentemente dai calcoli di aritmetica parlamentare vi sono dei doveri che un governo deve adempiere, e in primo luogo il mantenimento dell’ordine e il rispetto della legge. A questo supremo dovere un governo non può rinunciare; un governo, intendiamo, degno di tal nome e che voglia continuare ad avere l’appoggio e la collaborazione del nostro partito, di quel partito cioè che oggi è realmente nella nostra vita pubblica l’unica forza d’ordine. |
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| La commissione consultiva convocata ai 7 giugno ha già terminata la discussione sulla progettata assimilazione giuridico-economica dei funzionari statali delle Nuove Provincie e presentate al governo le proposte formulate in merito dal comitato, che è stato nominato in antecedenza dal suo seno. Il compito della Commissione Dopo il lungo e minuzioso lavoro della commissione interministeriale svolto in numerose sedute fra i 2 dicembre 1921 e il 13 maggio u.s., alla commissione consultiva non restava necessariamente altro compito che quello di migliorare l’inquadramento economico di certe categorie, che – in seguito al peggiore trattamento fatto alle similari categorie del Regno – subivano una ingiusta sperequazione di fronte ai loro colleghi del medesimo gruppo presso altre amministrazioni, e quello di temperare certe durezze e certi svantaggi economici e morali che l’assimilazione reca agli impiegati delle Nuove Provincie in causa del trattamento giuridico assai più sfavorevole fatto nel Regno agli impiegati dagli ordinamenti antiquati colà vigenti. In questo riguardo dunque la commissione consultiva ha cercato di raggiungere quello che i delegati delle Nuove Provincie in seno alla Commissione interministeriale non riuscirono ad ottenere malgrado la tenacia con la quale hanno sostenuto il principio, che l’assimilazione non doveva arrecare al personale nessun pregiudizio né economico né morale e che quindi in nessuna parte doveva segnare un regresso di fronte alla legislazione vigente. Per il trionfo dell’equità In linea economica la commissione consultiva ha proposto che l’assimilazione abbia vigore non dal 1 luglio, ma già dal 1 gennaio 1920 e che le aggiunte personali (di cui fruirà la più gran parte degli impiegati) non siano affatto assorbite da future promozioni o per lo meno siano assorbite gradualmente a principiare non dalla prossima, ma appena dalla seconda promozione a stipendio maggiore. È questa una felice idea della commissione, perché soltanto in questo modo sarebbe reso possibile un effettivo miglioramento economico da parte di tutto il personale, che altrimenti, in quanto viene a percepire aggiunte personali, non risentirebbe più alcun beneficio da qualsiasi futura promozione. Speriamo che il governo accetti la proposta informata ad un principio di elementare equità. L’inquadramento delle varie categorie In particolare la commissione propose un miglior trattamento degli impiegati politici, i quali – ed è doloroso il dirlo – dalla Commissione di assimilazione furono trattati poco generosamente malgrado le vive proteste dei delegati delle Nuove Provincie. La commissione consultiva ripresentò la proposta di questi ultimi rispetto agli impiegati della VIII (segretari) e VII classe, i quali dovrebbero essere inquadrati rispettivamente all’inizio del 2.o grado (consiglieri di prefettura) agli effetti economici e all’inizio del 9.o anno a tutti gli effetti, mentre gli impiegati della VI classe dovrebbero essere equiparati ai vice prefetti anche agli effetti giuridici. Corrispondenti migliorie furono richieste per le altre categorie del personale d’ordine e subalterno (uscieri). Rispetto al personale di Finanza fu proposto un miglior inquadramento degli impiegati di concetto di singole classi di rango, così dei ragionieri, di agenti dell’ex guardia di Finanza, che per circostanze indipendenti dalla loro volontà non fossero ancor stati assunti fra il personale d’ordine, di alcune classi degli impiegati delle manifatture tabacchi e infine dei geometri. Questi ultimi, che in sede d’assimilazione erano stati inquadrati nelle tabelle dei geometri del Regno colla distanza di 5 anni in più, secondo la proposta della commissione consultiva dovrebbero essere raffrontati agli ingegneri con una certa distanza in meno. Per il personale postelegrafonico fu proposto un più favorevole inquadramento degli esecutivi e ragionieri della VII e VI classe, degli ufficiali superiori, che dovrebbero andar tutti nel quadro I tabella B e del personale del gruppo D, al quale dovrebbe essere abbonato un anno di praticantato. Nei riguardi del personale rurale invece sembra che anche la commissione consultiva si sia trovata dinanzi alle medesime difficoltà, contro le quali si infransero gli sforzi dei delegati nella commissione d’assimilazione. Delle modificazioni furono infine proposte a favore del personale forestale e dei cancellieri giudiziari. Considerevoli miglioramenti furono proposti dalla commissione consultiva allo schema del decreto d’assimilazione giuridica. Contro le grettezze del trattamento di malattia Come è noto, uno dei maggiori sacrifici dei propri diritti imposti agli impiegati ex regime dall’assimilazione giuridica è l’abbandono della procedura disciplinare fissata dalla prammatica di servizio e la perdita del trattamento di malattia goduto dalla metà del secolo scorso in poi, quindi da tre quarti di secolo. Ognuno comprende, che con la perdita di questi diritti sono messi in pericolo i più vitali interessi dell’impiegato, anzi la sua stessa esistenza economica. Si sa che le norme disciplinari del Regno sono antiquate e assolutamente deficienti, sicché la procedura non offre alcuna seria garanzia di un giudizio ben ponderato ed imparziale né una sufficiente difesa all’accusato; è noto del pari, che l’impiegato ammalato, dopo due mesi di assenza dall’ufficio, è collocato in aspettativa, ciò che significa che all’impiegato incatenato al letto da una grave malattia nel momento che abbisogna maggiormente di mezzi pecuniari per far fronte alle ingenti spese causate da una lunga infermità, vien ridotto lo stipendio della metà fino a due terzi, se conta più di 10 anni di servizio e di due terzi fino a tre quarti se conta un servizio minore di 10 anni, cioè l’impiegato ammalato è gettato sulla strada; e, poiché se lo stipendio è scarso nella sua misura intera, è naturale che colla metà, o con un quarto di esso nessuno può vivere, men che meno un povero ammalato inchiodato sul letto. Come si vede, il trattamento di malattia dei funzionari italiani è dettato da una grettezza e da una crudeltà indegna dei tempi nostri. Il «modus vivendi» proposto dalla Commissione Bene a ragione quindi la commissione consultiva si preoccupò dell’enorme peggioramento, che andavano a subire i nostri funzionari in questo riguardo e propose un emendamento all’art. 5 dello schema del decreto d’assimilazione giuridica, in base al quale dovrebbero restare in vigore fino alla riforma dei relativi ordinamenti del Regno tanto le disposizioni della prammatica di servizio concernenti la punizione delle violazioni dei doveri, e quanto quelle riflettenti il trattamento di malattia. Speriamo che la formula escogitata dalla commissione consultiva sia accolta dal governo nell’interesse stesso dei funzionari del Regno, i quali una buona volta dovrebbero aprire gli occhi ad uno spassionato esame dei nostri ordinamenti e, liberandosi da ogni gretta prevenzione, comprendere, quanti benefici trarrebbero essi medesimi dall’appoggio dei postulati dei nostri impiegati. Per i casi di controversie La commissione consultiva si preoccupò inoltre di assicurare per i casi di controversie una giudicatura che sapesse tener conto del diverso spirito che anima gli ordinamenti, che regolano i rapporti di servizio dei nostri funzionari e stabilì quindi che controversie concernenti l’assimilazione economica siano giudicate da una commissione speciale composta di un consigliere di Stato e di 5 membri, dei quali due consiglieri d’appello delle Nuove Provincie, mentre le controversie derivanti dal rapporto di pubblico impiego debbano essere di competenza della VI Sezione del Consiglio di Stato. Quest’ultima disposizione corrisponde del resto al disposto della fondamentale sulla competenza della VI Sezione del Consiglio di Stato, legge che in sede di assimilazione giuridica si tentava di violare, sottraendo gli impiegati alla competenza di questa Sezione, che per tutti i rapporti di diritto amministrativo e costituzionale della Nuove Provincie è costituzionalmente il giudizio naturale. Non dubitiamo che l’atteggiamento assunto in questo riguardo dalla commissione consultiva avrà maggior influenza sul governo, che non ebbero tutte le argomentazioni svolte in merito dai delegati nostrani nella commissione interministeriale, la quale, malgrado il chiaro disposto della legge surricordata, restò irriducibile nel voler sottoporre tutti i rapporti di servizio dei funzionari delle Nuove Provincie alla competenza della VI Sezione del Consiglio di Stato. Altri emendamenti In diversi altri articoli del predetto schema di decreto furono introdotti degli emendamenti diretti a salvaguardare maggiormente i diritti dei nostri funzionari, così all’art. 11 rispetto alla fissazione dell’anzianità di rango nei rapporti coi funzionari del Regno, all’art. 12 col restringere maggiormente la facoltà dell’Amministrazione di ordinare trasferimenti di funzionari dalle nuove nelle vecchie Provincie, all’art. 16 riguardo alla liquidazione della pensione e specialmente all’art. 22, in cui con una corrispondente aggiunta fu rilevato e fissato il principio – invano fatto valere nella commissione interministeriale – che all’impiegato fino al giorno della liquidazione della pensione spettano gli emolumenti di attività. Anche negli altri schemi di decreti la commissione consultiva ha introdotte delle modificazioni a tutto vantaggio dei nostri funzionari. Notevoli sono le garanzie a favore degli avventizi, le quali, date le condizioni in cui si trovano tutti gli uffici delle Nuove Provincie, impediranno che sieno licenziati. È poi da salutarsi il riconoscimento della parità agli invalidi e alle vedove di guerra delle Nuove Provincie, intorno al quale argomento già nella commissione interministeriale vi furono delle discussioni in certi momenti assai vivaci. Infine fu espresso il voto che il provvedimento concernente il passaggio dei funzionari giurisperiti alla magistratura sia preso nella forma più semplice del decreto regio, anziché in quella del decreto legge, ritenendo la commissione che la relativa autorizzazione al governo sia già contenuta nelle leggi d’annessione. Tirando le conclusioni, si può affermare, che dopo le modificazioni apportate ai vari decreti dalla Commissione consultiva, l’assimilazione riesce abbastanza soddisfacente e che non tutti i diritti dei funzionari e non tutti i benefici della prammatica di servizio sono andati perduti. Difatti dopo una serie di considerazioni, che gli avventizi coprono posti di ruolo, che le varie amministrazioni senza di loro sarebbero imbarazzate a mantenere in efficienza i servizi, che, trattandosi di personale che ha una particolare conoscenza dell’ambiente, della popolazione e della legislazione qui vigenti, ben difficilmente potrebbe essere sostituito da personale delle vecchie Provincie e che infine l’amministrazione statale per le sue ripetute promesse ha l’obbligo morale di sistemare questo personale, la Commissione consultiva invita il governo a predisporre con sollecitudine la sistemazione in ruolo. A. D. |
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| 41921-1925
| Roma, 15. La crisi socialista è più che mai nella sua fase acuta. Il primo movimento svoltosi dopo il voto del Consiglio nazionale, è servito a delineare nettamente le posizioni, nel senso che da una parte e dall’altra, esse restano inalterate. Ciò significa, nella situazione attuale del Partito socialista, scissione irrimediabile in tutti i rami dell’organizzazione rossa. Divisa sostanzialmente la Direzione del partito, diviso il Consiglio nazionale, diviso il Gruppo parlamentare, divisi i dirigenti della Confederazione generale del Lavoro, da coloro che tengono ancora oggi le redini del socialismo nostrano; è evidente che mai il travaglio rosso è stato così grave e così minaccioso come oggi, per quella unità che è stata mantenuta in questi ultimi anni con prodigi di equilibrismo tra i fulmini dell’intransigenza da una parte e la fretta dei collaborazionisti dall’altra. Il dissenso dei collaborazionisti I collaborazionisti di fronte alla deliberazione del Consiglio nazionale del partito, non solo non intendevano fare atto di disciplina, ma erano disposti a rompere nel più breve tempo possibile gli indugi, per passare dalla teoria alla pratica, dalla collaborazione intenzionale – quella dell’ordine del giorno – alla collaborazione effettiva, quella che va al Governo e vota la fiducia al Governo. Ora si può affermare che gli indugi sono stati rotti da tutte le parti e da tutte le parti si è sentita la necessità di uscire dall’equivoco definitivamente. Dagli organi dirigenti del Partito socialista infatti, accogliendovi la richiesta partita dalle varie frazioni, è stata decisa la convocazione del Congresso socialista. Nella riunione di ieri mattina, il Consiglio nazionale del partito ha approvato un ordine del giorno, col quale, vista la gravità della situazione politica italiana e di quella interna del partito, specialmente nei rapporti con la Confederazione generale del Lavoro, delibera: 1) di dare mandato alla Direzione del partito di convocare al più presto possibile un Congresso nazionale straordinario con rappresentanze provinciali; 2) di fare rispettare il deliberato preso sull’indirizzo del partito e denunziare al Congresso nazionale tutti coloro che lo violassero. Bilancio e previsioni Ieri poi la Direzione del Partito socialista ha continuato i propri lavori per esaminare la situazione che si è creata nel movimento sindacale e in quello politico, in seguito alla esplicita votazione dell’ordine del giorno confederale e alla discussione che ha proceduto in seno al Consiglio direttivo. È stato deciso di convocare il Congresso nazionale in agosto a Roma, restringendolo ai rappresentanti per provincia. In sostanza, invece che dalle sezioni, i rappresentanti al Congresso saranno nominati dai congressini provinciali che saranno appositamente riuniti. Ieri sera stessa intanto si è costituita la frazione massimalista cui partecipano Serrati, Fiorito , Vella e altri. Il Congresso socialista si presenterà così distinto in quattro frazioni: gli intransigenti che seguono Maffi , i massimalisti cha fanno capo a Serrati, i destri e i centristi. L’impressione a Montecitorio Appena a Montecitorio si è sparsa la notizia della convocazione del Congresso, la mossa è stata interpretata come una manovra della Direzione intesa a paralizzare un eventuale voto del Gruppo parlamentare riaffermante l’ordine del giorno Zirardini. L’altra sera destri e centristi nella loro riunione si trovarono concordi nella necessità di riaffermare l’atteggiamento da essi assunto con l’approvazione dell’ordine del giorno Zirardini. Il direttorio del Gruppo parlamentare, il quale è formato di intransigenti, ha deciso intanto in una riunione tenuta ieri, di invitare i deputati centristi e destri ad attendere i risultati del prossimo congresso. Ed è stato questo l’oggetto della riunione del gruppo che ha avuto luogo ieri sera. La riunione del gruppo parlamentare socialista è terminata ad 1 ora. La discussione è stata vivace. L’on. Cazzamalli ha fatta la relazione dei deliberati del Consiglio nazionale ed ha soggiunto che, essendo stato indetto il congresso, era bene attendere per qualsiasi deliberazione. L’on. Musatti ha invece presentato e sostenuto il seguente ordine del giorno: «Il gruppo parlamentare socialista, pienamente conscio delle ragioni che lo hanno indotto per la difesa della libertà del proletariato a votare l’ordine del giorno Zirardini pur di fronte alle diverse opinioni della maggioranza del consiglio nazionale del partito, riconferma l’indirizzo già approvato dichiarando di assumere verso il congresso nazionale la responsabilità dell’atteggiamento che la eccezionale circostanza richiede». Contro questo ordine del giorno hanno parlato Pagella , Maffi e Vella. L’on. Turati per dichiarazione di voto ha detto che avrebbe votato l’ordine del giorno Musatti per quanto crede che l’esperimento si presenti con relativa facilità e non per colpa dei destri. A questo punto l’on. Baratono anche a nome degli altri deputati ha presentato il seguente ordine del giorno: L’o.d.g. del gruppo parlamentare «Il Gruppo considerando la posizione in cui viene a trovarsi dopo le deliberazioni del Consiglio nazionale che lo lasciano ormai autonomo e responsabile soltanto di fronte al prossimo Congresso, delibera di darsi una disciplina interna e di subordinare le proprie deliberazioni di gruppo e la sua condotta alla Camera ed eleggere un direttorio conforme a questi fini». Questo ordine del giorno ha avuto 40 voti a favore, 10 contrari, due astenuti. Hanno votato contro i massimalisti ultraintransigenti. Messo in votazione poi l’ordine del giorno Musatti, ha avuto 33 voti a favore, 14 contro e 3 astenuti. Hanno votato contro Vella, Cavina, Volpi, Mastroppi, Assennato, Baratono, Cazzamalli, Romita, Cagnoli, Pagella, Maffi , Ribaldi e Marchiori. L’on. Vella a nome dei suoi colleghi dichiara di rimanere nel gruppo stesso, finché questo non si porrà con i fatti contro i deliberati del Consiglio nazionale. Solo in quel momento i deputati che accettano la disciplina del Congresso, si staccheranno e terranno una conseguente azione in Parlamento contraria nettamente alla politica collaborazionista. La votazione dell’ordine del giorno Musatti continua per «referendum», ma gli ulteriori voti non spostano le proporzioni. Prima di terminare la riunione, il Gruppo ha nominato una Commissione, composta di D’Aragona, Musatti e Turati, per presentare una lista di candidati al nuovo direttorio che sarà eletto venerdì. Il Consiglio nazionale della Confederazione del lavoro Intanto il voto anticollaborazionista del Consiglio nazionale socialista acuisce il dissidio tra il partito e il gruppo parlamentare e la Confederazione generale del lavoro. Il consiglio nazionale della Confederazione generale del lavoro si riunirà il 3, 4, 5 luglio a Genova per trattare: 1) Nomina della presidenza; 2) Verifica dei poteri; 3) Relazione morale e finanziaria; 4) Azione da svolgere per la difesa del movimento sindacale; 5) Nuovo ordinamento della Confederazione generale del lavoro (rapporti tra resistenza e cooperazione). Al Consiglio nazionale parteciperanno i rappresentanti delle organizzazioni nazionali di categoria e dei raggruppamenti locali i quali dovranno essere eletti da apposite assemblee. Le Camere del Lavoro e le federazioni di mestiere convocheranno i consigli generali e chiameranno i delegati delle leghe e delle sezioni a discutere e decidere in merito alle questioni poste all’ordine del giorno. Tra esse la più importante è quella che riguarda l’azione da svolgere per la difesa del movimento sindacale; elegante eufemismo per fare scaturire fuori il problema dei rapporti tra organizzazione economica e organizzazione politica, tra la confederazione che indica una direttiva transigente al gruppo parlamentare e il partito che, geloso della prerogativa di dirigere i propri organi, primo fra tutti il gruppo parlamentare, si è fissato sulle scarse tavole intransigenti e non intende muoversi da esse. Decideranno su questa questione non solo i proletari e i socialisti, ma anche i comunisti i quali assommano a oltre un quarto degli organizzati. Questi chiederanno lo scioglimento del patto di alleanza e i capi della confederazione rifaranno la storia delle trattative avutesi in questi ultimi tempi con la direzione del partito per indurla a muoversi sulla via dell’azione diretta o indiretta del proletariato. |
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| L’atteggiamento del Partito popolare di fronte al problema della collaborazione coi socialisti ha sconcertato un po’ tutti, perché in Italia purtroppo la politica si usa considerarla quasi unicamente come un giuoco parlamentare, ma ha finito con imporsi come l’unico veramente logico e corrispondente alla gravità della situazione nella quale si dibatte il nostro paese. Ed oggi abbiamo la soddisfazione di vederlo apprezzato nel suo giusto valore, anche se da taluno a denti stretti, da tutti i partiti, compreso il socialista, che è il più direttamente interessato. La direzione del Partito popolare, richiamandosi nel suo ordine del giorno ai deliberati del congresso di Venezia, ha dimostrato chiaramente che la sua linea di condotta non è suggerita dalle contingenze del momento, ma segue un programma profondamente meditato e capace di rispondere alle grandi esigenze della vita politica . In un regime parlamentare, specialmente se a sistema proporzionale, il collaborazionismo è una necessità che si impone a tutti i partiti nei confronti dei partiti avversari, e la collaborazione coi socialisti non costituisce pel Partito popolare un problema molto diverso da quello che ha dovuto risolvere per collaborare colle diverse frazioni della democrazia e della destra, parecchie delle quali non sono idealmente meno lontane dai popolari che dai socialisti. Salvo i grandi e fondamentali principi ideali, a cui si ispirano i programmi dei vari partiti, in politica tutto è relativo, e sarebbe assurdo respingere pregiudizialmente la collaborazione con un dato partito, quando questa potesse servire in qualche modo ai supremi interessi del paese, che sono gli scopi diretti della politica. Nessuno potrebbe negare che l’entrata di un partito, così numeroso e forte come il socialista, nell’ambito della vita costituzionale sarebbe un avvenimento storico di somma importanza, che potrebbe rafforzare notevolmente l’autorità statale e rendere assai più agevole quel lavoro di ricostruzione che ogni giorno più si impone come una necessità assoluta. Il Partito popolare comprende questa grande verità, perciò agli approcci collaborazionisti dei socialisti non ha opposto un rifiuto, si è quindi dichiarato pronto a trattare, anzi ha posto immediatamente due capisaldi della azione politica, che dovrebbero servire di base alle future trattative: l’interesse del paese ed un programma pratico. Ponendo queste due condizioni, il Partito popolare dimostra, contro i troppo corrivi critici, che in nessun caso potrebbe collaborare coi socialisti quando questi si proponessero unicamente un’azione negativa come quella di costringere lo Stato ad una violenta repressione antifascista allo scopo di far rivivere quella tirannide bolscevica che ha deliziato l’Italia nell’immediato dopoguerra. I popolari vogliono restituire autorità allo Stato su tutti i cittadini e non potranno mai mettersi a servizio della violenza e della prepotenza. Come dicevamo, non v’ha dubbio che l’entrata del Partito socialista nell’ambito costituzionale sarebbe un bene, ma i socialisti, che fino a ieri sono stati decisamente contrari al cosidetto Stato borghese, sono oggi veramente e sinceramente disposti a lavorare sul terreno costituzionale nell’interesse generale del paese, oppure, come il loro passato permetterebbe di credere, intendono entrare nel governo allo scopo di rendere più facile e più rapida quella rivoluzione di cui parla il loro programma massimo? Questo è necessario stabilire ben chiaramente prima di discutere praticamente di collaborazione. Qui non si tratta già di negare ai socialisti il diritto di tendere alla realizzazione del loro programma massimo; se essi lo credono utile e possibile sono liberi di agire in quel senso, ma non possono pretendere che i partiti i quali ritengono quel programma utopistico e dannoso, diano la propria collaborazione alla opera loro. Dimostrino i socialisti di essere disposti a collaborare sul terreno costituzionale, ed anche se essi si propongono di curare gli interessi del proletariato, la collaborazione sarà possibile perché tali interessi, quando siano bene intesi e non tendano a sovvertire l’ordine costituito, rientrano nel quadro più complesso dell’interesse del paese, al quale deve mirare la politica. E qui ci troviamo naturalmente portati sul secondo punto accennato dalla direzione del Partito popolare, che serve a concretare il primo: un programma pratico di azione politica, alla cui attuazione si possa e si debba collaborare. Tra due partiti idealmente così lontani come il Popolare e il Socialista non si può pensare ad una collaborazione di carattere generale che abbracci tutti i problemi della vita pubblica. In caso di collaborazione reale, di molti di questi problemi si dovrebbe forse ignorare l’esistenza, molti dovrebbero essere risolti per via di transazione, e solo di una parte di essi si potrebbe cercare una soluzione pratica e definitiva. Anche di questi ce ne sarà sempre abbastanza per giustificare una lunga ed efficace collaborazione, ma è necessario che questi vengano chiaramente precisati e che la loro soluzione venga, almeno nelle grandi linee, prospettata per rendere impossibili divergenze troppo facilmente disgregatrici. Il Partito popolare ha portato nella vita politica italiana un nuovo criterio di azione, sostituendo alle persone i programmi. Ad ogni nuova crisi ministeriale, quando i suoi uomini vennero invitati a far parte del governo, il Partito popolare subordinò l’accettazione dell’invito ad alcuni punti programmatici, di cui reclamava l’attuazione. Se questo ha fatto per collaborare cogli altri partiti costituzionali, è naturale che non vi rinunzi oggi che si tratta di mettersi a fianco di un partito che non dà certo maggiori garanzie di quegli altri. Questo programma la direzione del P.P.I. non crede di poter redigere, non avendo ricevuto dai socialisti un invito ufficiale alla collaborazione, e rivolge l’invito di tracciarlo a coloro che soli per via indiretta hanno fatto comprendere di essere disposti a collaborare cogli attuali partiti di governo. Niente di più logico e di più onesto per un partito conscio della propria forza e deciso a non deflettere dalla sua via, sulla quale non gli sono mancati i successi nell’interesse della nazione. C’è chi non riesce a comprendere la pretesa dei popolari di voler agire sempre in base ad un programma, c’è anche chi si offende come di una mancanza di fiducia e di riguardo quando i popolari propongono di intendersi su alcuni punti programmatici prima di passare alla collaborazione diretta, c’è quindi chi prospetta la possibilità di una collaborazione dei socialisti con altri partiti costituzionali all’infuori, e magari contro, dei popolari. Non sarà certo la direzione del Partito popolare che si spaventerà di questi propositi. Una collaborazione senza programma ben definito non potrebbe durare e non renderebbe possibile un governo capace di rispondere alle necessità più elementari del paese. Concretare un programma che possa essere accettato dai socialisti e da tutti i liberali, quanti sono necessari a formare una maggioranza, è una fatica paradossale. Del resto il Partito popolare non è mai andato con entusiasmo al governo, ed un po’ di opposizione servirebbe forse a metterlo in valore ed a rinforzarne l’azione nel paese. Ricordino questi signori che con degli uomini si possono comporre dei ministeri, ma un governo non si fa se non con un programma. Il Partito popolare ha il suo programma, e saprà farlo valere anche se dovesse restare all’opposizione. |
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| 41921-1925
| Assai poche volte si riscontra nella storia un uomo che abbia vissuto più intensamente il dramma della sua epoca e della sua patria come Walther Rathenau . E assai poche volte un uomo è apparso, come Walther Rathenau, il simbolo di una nuova umanità, e d’una nuova nazione, per cui la guerra fu causa e spinta a rinnegare il passato e a formarsi un’anima totalmente opposta a quella che la portò alla disfatta, votandola alla espiazione. Scriveva il Rathenau verso la fitte del ’14: «Non arriverà mai il giorno in cui il Kaiser, vincitore dell’universo, passerà per la porta del Brandeburgo, seguito dai suoi paladini, montato su bianchi cavalli. Quel giorno, la storia universale avrebbe perduto il suo senso. No, non uno solo dei grandi uomini che fanno questa guerra, sopravviverà a lui». La storia gli dette ragione. Rathenau era l’uomo di fiducia della Germania, e sopratutto l’uomo di fiducia dell’Europa. Nessuno ebbe più di lui attitudine e competenza per scrutare, nella lenta elaborazione delle soluzioni dei problemi economici internazionali, il punto di sutura nel quale l’utilità nazionale coincidesse con la realizzazione pratica della giustizia internazionale. Walther Rathenau fu anche l’uomo che meno mutò del suo pensiero. Il grande dramma del germanesimo lo ebbe, prima della guerra e durante la guerra, critico e analizzatore spietato. Romperla colla tradizione prussiana, finirla col codinismo dinastico, col panteismo patriottico, colla devozione e la fedeltà intese nel senso deformato di una lunga schiavitù politica, finché i tedeschi (sono sue parole) non avessero trovata salvezza riprendendo la loro evoluzione, dal tempo in cui «avevano cessato di essere tedeschi per divenire berlinesi»: questa era, secondo lui, la necessità più urgente per la Germania. Bisognava, secondo lui, che il popolo tedesco si emancipasse dalla tradizione prussiana, la quale ne aveva stampato indelebilmente, ma non irrevocabilmente il carattere uscito appena dal periodo glorioso e vitale dello «Sturm und Drang»; occorreva strapparlo al rigido meccanismo, al giogo dell’oppressione morale che deviava il suo stesso passato. Col senso delle grandi fatalità storiche, che è proprio dei precursori, Rathenau vide tuttavia nella guerra la soluzione provvidenziale del conflitto tra le due anime della Germania moderna, e giunse alla nota discussa invettiva: «Noi siamo una razza di transizione destinata al letamaio». E il periodo di transizione entra oggi nella fase più acuta. La politica di Rathenau in questi ultimi mesi toccò la massima altezza. L’uomo che, attanagliato dalla sconfitta, aveva firmato il più triste trattato di tutti i tempi, tenuto a distanza dai vincitori, aveva raggiunta ormai la certezza di un respiro per la sua nazione oberata di debiti: dopo aver partecipato alla più utile conferenza per la pace, da pari a pari coi nemici di ieri, pensiero e azione di tutto il movimento repubblicano e politico della Germania, era riuscito a portare le relazioni del suo Stato verso nuovi orizzonti economici. Nella ultima crisi ministeriale Rathenau aveva tergiversato prima di accettare di nuovo quel portafoglio che lo aveva condannato alla più dolorosa firma della sua vita, ma l’insistenza del cancelliere Wirth per riavere a collaborare il più franco, se non il più geniale, uomo politico della Germania lo sforzò ad accettare. La sua attività era proverbiale in Germania. Uomo di energia intensa, non aveva riposo e la sua villa di Grünewald era meta continua di uomini d’azione che da lui traevano consiglio. Ciò che Rathenau era noi lo abbiamo veduto da vicino durante la conferenza di Genova ; ciò che Rathenau pensasse dell’Italia lui stesso ce lo disse nel discorso pronunciato a Genova il 19 maggio, discorso che terminava colla nota invocazione petrarchesca alla pace. Dalla data di quel discorso è appena trascorso un mese. Dagli incidenti altoslesiani – affermazione di un rinnovarsi del nazionalismo tedesco – all’assassinio di Rathenau non è trascorso che un giorno. È quindi verosimile l’ipotesi esser stato il pangermanesimo – quello che condannò a morte Erzberger – ad armare la mano di un pazzo per uccidere Rathenau il quale della politica di Erzberger era il più autorevole e valido continuatore. In lui l’elemento reazionario vedeva il propugnatore di una politica di pacificazione, specialmente colla Francia (infatti ciò che vi è di più concreto e di apprezzabile nella azione di Rathenau è lo sforzo perseverante e oculato per trovare nella conclusione di accordi internazionali il mezzo di riavvicinare e tranquillizzare la Francia) e un fedele assertore dei principi repubblicani. Le sue origini ebree poi aumentarono gli odi che lo circondavano e fino dal tempo dell’assassinio di Erzberger, si diceva che sarebbe venuto anche il suo giorno. La tragedia di sabato, che apre per la Germania un nuovo periodo di agitazioni e che mette il governo di fronte a imprevedibili avvenimenti, avrà ripercussioni su tutto l’andamento della politica europea nella quale Rathenau portava la sua esperienza e la sua fede nella soluzione del conflitto tra le due anime del popolo tedesco e nella graduale pacificazione di tutti i popoli del mondo. |
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| 41921-1925
| Chi non ha notato negli ultimi tempi della vita politica italiana che talune correnti del liberalismo più conservatore, a forza di resistere e di battagliare contro il sovversivismo, hanno cominciato a plagiare lo spirito ed i metodi del sovversivismo più pericoloso? Le conseguenze di tale aberrazione, come esempio a quelle masse inquiete e traviate dal socialismo che si dovrebbero educare o rieducare, sono evidenti. Esse dovrebbero ricavarne che l’opposizione ai loro movimenti di carattere sovversivo non dipende da principii stabili di giustizia e di ordine, ma soltanto dalla conservazione di situazioni vantaggiose che non appena minacciate e intaccate si possono difendere con le stesse armi: disprezzo della legge, ribellione allo Stato, violenze, imposizioni ecc. e ciò in una nazione democratica, retta da istituzioni in cui è rappresentata, attraverso al suffragio universale, la volontà popolare. Nella nostra stampa che si ispira ai principii superiori e immutabili di giustizia e di moralità politica per i quali la vera e sana conservazione si pratica con una ben intesa democrazia, accoppiata alla generosità ed al sacrificio di ogni cittadino, per il bene di tutti, sono frequenti gli allarmi per quello che si chiama bolscevismo a rovescio, così bene espresso nel movimento fascista (anche se statuti e programmi volessero diversamente) al quale precisamente sorridono e piangono troppi conservatori dei nostri giorni. Ma anche da altra stampa, lontana da noi, si levano voci di monito per questa specie di rivoluzione conservatoristica la quale pretende di salvare la Nazione mentre ne sovverte allegramente le tradizioni ed i valori. Il Secolo l’altro giorno trattava il grave argomento, prendendo appiglio da uno scritto del prof. Pantaleoni e coglieva particolarmente la contraddizione in cui cadono quei conservatori nazionalisti e liberali a proposito dell’azione dello Stato attuale nello sviluppo e nella organizzazione delle attività nazionali. Essi vanno da una condanna feroce, per presupposti dottrinali e pratici, delle imprese di Stato e contro ogni intervento integrativo di esso in determinate imprese private, specie cooperative, ad una uguale e simultanea condanna dello Stato stesso per la sua assenza, citando come esempio di tale colpa la corrività a favore del socialismo. Vero è che lo Stato ha peccato molto nell’un senso e nell’altro; ma occorre precisamente trovare la linea che avvicini e contemperi i due estremi viziosi e non assalire e negare con voluttà demolitrice proprio come fanno i sovversivi quando oppongono l’apriorismo dello Stato borghese, del monopolio statale, di classe ecc. ecc. E il Secolo che assegna alla agitazione di queste correnti conservatrici contro lo Stato l’obiettivo immediato di evitare l’avvento del paventato collaborazionismo, con l’effetto evidente – diciamo noi che in materia abbiamo chiaramente espresso il nostro pensiero – di renderlo più probabile e di avvicinarlo anche alle simpatie di chi non lo desidera per motivi molto più alti, continua la sua critica così: «Questi sedicenti conservatori non esitano a minacciare un sovvertimento totale, pur di impedire ai nuovi ceti – ai ceti fino ad oggi diseredati, posti alla mercè della munificenza dei potenti e costretti, loro malgrado, a tutti gli accomodamenti e a tutte le transazioni degradanti della servitù – di entrare una buona volta a far parte dello Stato, dello Stato di tutti, a collaborare, in proprio nome, a questa grande opera comune. Se c’è evento di significato spiccatamente conservatore, è proprio questo; ma intanto, esso suscita la pazzesca reazione dei conservatori». Il giornale milanese rivendica poi a se stesso il merito di rappresentare la vera e sana conservazione – cosa che ha pure bisogno di qualche ulteriore dimostrazione! – e continua: «Veramente conservatrice è soltanto quella politica (Gioberti ! Spaventa !) che vigila attentamente affinché le istituzioni non s’irrigidiscano come tronconi morti e intende continuamente ad alimentarle con forze nuove e vive. Essa sa per esperienze che la libertà irrigidita in formole, degradata a un possesso ereditario di un ceto, significa null’altro che schiavitù dei molti diseredati. Ma, lungi dal voler privare gli abbienti dei loro beni, tende a farne partecipi anche gli altri. Fare che lo Stato sia patrimonio di tutti e presidio di tutti, che ogni interesse abbia in esso la sua rappresentanza e la sua difesa; cointeressare alla sua prosperità e al suo prestigio un sempre maggior numero di cittadini: ecco i veri compiti di una vera, di una reale conservazione. Noi vogliamo rinnovare per conservare e non per disperdere. Noi vogliamo progredire per non perdere contatto con la vita che si svolge, perché dove tutto il resto è in moto, chi sta fermo, indietreggia. Che cosa vogliono, invece i così detti conservatori, in nome della Patria, della Nazione, delle tradizioni? Essi vogliono sovvertire tutto: distruggere il nuovo, perché non venga alla luce, distruggere l’antico, perché non accolga il nuovo nel suo grembo. Sono i rappresentanti autentici dell’anarchismo, senza neppure quella nebbiosa lealtà, che gli anarchici lasciano fluttuare nel lontano futuro; essi, i sedicenti conservatori, spingono la folla anarchica, fino al parricidio, perché distruggono quello Stato, quella tradizione, quella legalità, che forma l’unica loro ragione d’essere ed a cui nulla sono più in grado di sostituire. Essi sono raffigurabili a quei topi di campagna, che, dopo aver distrutto un ricco campo di grano, si divorano per fame tra di loro». |
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| 41921-1925
| Non si leggono senza un senso di profonda tristezza le notizie della guerra civile che è scoppiata in Irlanda . La lotta epica che da tanti secoli il popolo irlandese combatteva per la propria libertà ed indipendenza, sembrava finalmente che stesse per terminare colla vittoria del diritto sulla forza. L’Irlanda era riuscita a strappare all’Inghilterra il riconoscimento della propria costituzione in Stato libero ed era entrata a far parte dell’Impero britannico in condizioni simili a quelle del Canadà e dell’Australia. Non era ancora la indipendenza assoluta, ma una libertà che avrebbe permesso agli irlandesi di reggersi con proprie leggi e di sviluppare le proprie energie in modo tale che sarebbe stato difficile per ora stabilire se l’unione con la Gran Bretagna fosse piuttosto un danno che un vantaggio. Il mondo civile si era sinceramente rallegrato della insperata vittoria ed il popolo irlandese poteva contare sulla simpatia universale per la conquista dei suoi futuri destini. Ma ecco che, appena terminata vittoriosamente la guerra contro lo straniero, gli irlandesi cominciarono a straziarsi in una desolante guerra civile, che giustifica i più gravi timori sull’avvenire del nuovo Stato libero. Era grave e dolorosa la scissione fra le contee dell’Ulster e quelle dell’Irlanda meridionale. Ma quella aveva un substrato etnico e religioso che fino ad un certo punto la spiegava, e, per quanto lasciasse l’adito al sospetto di un doppio giuoco del governo londinese, tutto lasciava sperare che il fattore economico avrebbe finito col prevalere inducendo gli ulsteriani a migliori consigli. Molto più preoccupante invece è quanto succede a Dublino ed in gran parte dell’Irlanda meridionale, dove irlandesi autentici, fratelli di razza, di fede, di storia e di tradizioni, si combattono e si uccidono perché divisi in partigiani della repubblica indipendente ed in partigiani dell’accordo coll’Inghilterra. De Valera e Collins erano riconosciuti come due eroi nazionali irlandesi, che per anni avevano combattuto per il comune ideale di una repubblica assolutamente indipendente dall’Inghilterra. Ad un certo punto, sotto la pressione dell’opinione pubblica mondiale, l’Inghilterra si vide costretta a proporre all’Irlanda un accordo che, pur non rispondendo completamente all’ideale dei capi irlandesi, permetteva la costituzione dello Stato libero e segnava un passo decisivo sulla via dell’indipendenza. Collins, seguito dalla grande maggioranza degli irlandesi, comprese la importanza della riportata vittoria ed accettò l’accordo coll’Inghitterra. De Valera, con una forte minoranza dei suoi antichi seguaci, si ostinò invece a volere per il suo paese l’indipendenza assoluta e la forma repubblicana. Non riuscendo coi mezzi legali ad imporre la loro volontà, i seguaci di De Valera si sono ribellati al governo provvisorio del nuovo Stato libero ed adoperarono contro di esso gli stessi metodi usati con successo contro il governo inglese nel tempo passato. Essi hanno organizzato delle truppe irregolari, per le quali fino a ieri erano padroni del palazzo di giustizia di Dublino e che terrorizzano città e campagne, per impedire la costituzione di un governo definitivo. L’Inghilterra, dovendo dar corso alle clausole dell’accordo coll’Irlanda, ha domandato al governo provvisorio di Dublino di mettere termine ai disordini provocati dalle truppe irregolari. Il governo provvisorio si è accinto alla non facile bisogna, ed il sangue irlandese, per mano di irlandesi, corre per le strade della antica capitale, dove crepitano le mitragliatrici e romba il cannone. Evidentemente l’esercito regolare dello Stato libero si preoccupa di non spargere più sangue di quello che sia strettamente necessario per ristabilire la normalità della vita pubblica, perché in caso contrario le vittime sarebbero enormemente più numerose. Ma una volta scatenata la guerra civile non si può mai prevedere dove si vada a finire. Ad ogni modo è molto triste quanto sta succedendo, sia perché, continuando l’attuale stato di cose, l’Inghilterra potrebbe credersi autorizzata a ritirare le fatte concessioni, sia perché innegabilmente le simpatie del mondo civile per l’Irlanda vengono a soffrire per questi irragionevoli conflitti, e nell’avvenire verrebbe forse a mancare al popolo irlandese il potente ausilio dell’opinione pubblica mondiale. Un popolo che vuole conquistare la libertà e l’indipendenza deve sapersene rendere degno, dando al mondo un chiaro esempio di servirsene bene. Altri popoli, e tra questi l’italiano, in condizioni analoghe hanno saputo operare con molto maggior senso di responsabilità e di praticità. Anche gli italiani, al tempo del risorgimento nazionale, erano divisi in unitari e federalisti, in monarchici e repubblicani. Tutti i partiti lavoravano per il trionfo delle proprie idealità, ma alla cima dei loro pensieri stavano l’unità e la indipendenza della patria. Quando tali ideali erano in giuoco, tutti si sentivano solamente italiani e trovavano il coraggio di rinunziare alle proprie vedute personali. I federalisti accettarono l’unità statale, i repubblicani accettarono la monarchia sabauda, e nessuno fu così poco italiano da scatenare la guerra civile, che avrebbe permesso il ritorno dello straniero ed un nuovo spezzettamento dell’Italia. Discussioni, polemiche, malcontenti e resistenze ve ne furono anche da noi, ma alla guerra civile non si giunse mai, quando si trattava dell’unità e della indipendenza nazionale: questo ci dimostrò degni di essere una nazione ed il mondo riconobbe il nostro diritto. Noi comprendiamo le differenze profonde dei due momenti storici. Noi comprendiamo che la costituzione dello Stato libero d’Irlanda non corrisponde all’ideale completo di libertà e di indipendenza a cui aspira giustamente il popolo irlandese, ma siamo persuasi che se lo spirito pratico che animò i fattori del risorgimento italiano fosse compreso e seguito dai capi riconosciuti dal popolo irlandese, i nostri fratelli dell’Isola martire avrebbero compreso tutta l’importanza della riportata vittoria ed avrebbero accettata la costituzione dello Stato libero come un passo gigantesco verso l’attuazione di quell’ideale pel quale combattono da tanti secoli. Noi, che abbiamo sempre seguito con tutto l’affetto del nostro cuore e con tutto l’entusiasmo dell’anima nostra la lotta per la liberazione dell’Irlanda, non possiamo disperare dei destini dell’eroico popolo e ci auguriamo che esso, seguendo i consigli del suo mirabile episcopato, ponga ben presto fine alla guerra fratricida e sappia nell’ordine e nella calma prepararsi ai più grandi trionfiche l’avvenire certamente gli riserba, a compenso dei dolori e del martirio del passato. |
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| 41921-1925
| Roma, 8. La necessità di dare una buona volta un indirizzo preciso alla politica del nostro paese fa sì che la collaborazione socialista costituisca sempre più l’oggetto delle discussioni del giorno. Il dibattito che appassionatamente si svolge ha due aspetti: uno pettegolo, parlamentare, un altro più profondo che vaglia l’opportunità sociale e non soltanto politica dell’avvenimento. Tutti e due questi aspetti però sono espressione del desiderio, ormai diffuso così nella Camera come nel paese, di cercare di uscire da questa situazione di disagio se non di equivoco e orientare la vita nazionale verso un accentramento che sia effettiva alleanza di forze e quindi determinante di equilibrio per il libero svolgimento di tutte le legittime energie del paese. Ma altra cosa è sentire tutto quanto di buono possa fare scaturire la recente decisa volontà collaborazionista del gruppo socialista, altra cosa significa parlare di revisione immediata della situazione e di immediata crisi ministeriale. È naturale che chi frequenta Montecitorio riceva l’impressione che un po’ da tutti i banchi si sarebbe pronti ad accogliere con soddisfazione un chiarimento ministeriale, chiarimento che, a nostro parere, non potrebbe esservi se non fosse preceduto da un rivolgimento. Si parla così di manovre fatte dagli amici dell’on. Giolitti come di manovre fatte dagli amici dell’on. Nitti. Oggi nei corridoi si è visto anche qualche amico dell’on. Orlando fare degli approcci per poter presentare una combinazione bella e fatta nel caso che il fatto nuovo si verificasse. Con ciò non vogliamo dire che la crisi avverrà: registriamo la cronaca di Montecitorio rilevando che qualunque possa essere il compimento dei fatti che si preparano a Roma, non si può non avere la sensazione che dei seguaci di uomini diversi, se non opposti tra loro, nella sensazione che battaglia vi debba essere, hanno preparato non soltanto un platonico piano strategico, ma anche una effettiva mobilitazione su piede di guerra; né questi preparativi – diremo così di azione, per continuare il linguaggio bellico – sono stati del tutto infruttuosi: si è avuta anzi occasione per arrivare a un primo chiarimento. Il progetto, che è stato detto giolittiano, ma che in verità non è stato soltanto dell’on. Giolitti, di arrivare ad una combinazione che andasse dalla destra ai socialisti è stato completamente respinto dai socialisti collaborazionisti, alcuni dei quali, come ad esempio l’on. Dugoni , per il travaglio intimo che lo attraversa avrebbero forse anche aderito all’idea, ma il progetto – assai strano in verità – è stato buttato a mare dalla destra la quale ha rifiutato qualsiasi agevolazione anche indiretta da parte sua a una combinazione la quale possa portare nell’orbita costituzionale un partito fino ad ieri rivoluzionario. Questo fatto ci costringe a trarne una conclusione: che non è possibile – nel caso che la collaborazione socialista si avveri – a un assenso dei popolari. I popolari, pure apprezzando tutta la importanza che ha in sé il fatto della collaborazione socialista, non potranno mai e poi mai accettare di andare coi socialisti al potere senza avere stabilito delle effettive, diremo quasi granitiche, basi programmatiche per la collaborazione. Questo è stato già molte volte detto. Questo ribadisce oggi, commentando il voto che si è avuto a Genova dal consiglio della Confederazione generale del lavoro, il Popolo Nuovo organo ufficiale del Partito popolare. Scrive infatti il direttore dell’autorevole settimanale: «Finora il socialismo dice solo di voler collaborare, ma mentre se ne dichiara lo scopo immediato, quello della propria difesa, trascura di dirci la ragione della collaborazione. Non ripeteremo ancora una volta che non concepiamo una collaborazione politica che non abbia per obbiettivo una attività ben determinata nella chiara cornice di un preciso programma; cioè i socialisti devono dirci che cosa essi intendono compiere di positivo nel campo legislativo e magari, nell’azione di Governo, per far sì che la loro più diretta partecipazione alla cosa pubblica possa riuscire utile a loro stessi non solo, ma a tutti gli italiani. Quando questa dichiarazione di principi e questa esposizione di un programma venisse e fosse soddisfacente, non solo noi, che non abbiamo nessun pregiudizio anticollaborazionista, ma anche i più feroci anticollaborazionisti di oggi diverrebbero entusiasti della collaborazione dei comuni avversari. Perché potremmo cominciare a considerare il socialismo in tutto quel che esso ha di non buono, di irritante, di inutile e di negativo, come un male da cui il paese si fosse finalmente liberato. Certo questo se avvenisse sarebbe una ottima cosa». Così scrive Il Popolo Nuovo, così pensano tutti coloro che non hanno l’infelicità di essere affetti dallo sterile conservatorismo ultrastatico della destra parlamentare, ma che non spingono la loro giustificata simpatia per i neofiti della costituzionalità fino al punto di dimenticare che per arrivare alla collaborazione socialista popolare non basta intendersi – il che sarebbe facile – sulla distribuzione dei portafogli e dei sottoportafogli, ma occorre conciliare due cose che fino ad oggi non coincidono tra loro. Dovranno essere i socialisti che eventualmente dovranno collaborare con noi, mostrando quale sia il grado di evoluzione che da sinistra verso destra essi hanno fatto per avvicinare nel campo economico e nel campo sociale le loro teorie con la dottrina popolare. Ciò senza tener conto di quella intesa di carattere spirituale alla quale, è inutile dirlo, il nostro partito non potrà mai derogare. Tutto ciò, bisogna riconoscerlo, non è impresa facile. I popolari restano naturalmente fermi in tutte le posizioni del loro programma. I socialisti collaborazionisti non si sono ancora pronunziati, ma molto cammino essi devono fare verso di noi se ancora ieri l’on. Modigliani si opponeva alla nostra tesi per il diritto di prelazione a favore dei contadini. Tutto ciò, ripetiamo, non è impresa facile. Per la nuova situazione politica e parlamentare quindi è ancora tempo di discutere. Vi è chi sostiene che si debba attendere il risultato del Congresso di Roma. Vi è chi, preoccupato dal termometro che inesorabilmente sale, vorrebbe rinviata ogni discussione a novembre. Ma la verità è che il problema della collaborazione socialista è una realtà effettiva, tanto sentita quanto discussa, e che, se il ministero Facta vuole avere delle speranze, deve fondarle su dei fatti soli: sulla non spedita conclusione di un programma di collaborazione coi socialisti da parte di quei gruppi della Camera che hanno effettivamente un programma e sul fatto che all’ombra a Roma il termometro segnava oggi né più né meno che 33. Ma il disagio parlamentare esiste, come disagio esiste in tutta la situazione interna del paese. |
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| 41921-1925
| Il comunicato ufficiale del colloquio avvenuto domenica tra il nostro ministro degli Esteri e il presidente del Consiglio francese Poincaré , comunicato da noi pubblicato nel giornale di lunedì, non potrebbe essere più esplicito nel suo significato fin de non recevoir. Meglio così del resto, che uno di quegli artificiosi comunicati in cui le due parti si dichiarano a vicenda che sono perfettamente d’accordo e che tutto va benissimo. I fatti poi dimostrano quanta sostanza esista in tutte le sdolcinature e che cosa riescano a portare a casa di concreto i più esaltati e incensati degli statisti negoziatori. A quanto ci è stato dato sapere, l’on. Schanzer ha messo innanzi tutto il sig. Poincaré al corrente delle sue conversazioni di Londra, poi i due uomini di Stato hanno esaminate tutte le questioni all’ordine del giorno. Informazioni attinte da fonti che abbiamo ragione di ritenere esatte, ci permettono di affermare che sulla questione della Palestina l’azione eseguita dall’on. Schanzer tende ad avvicinare il punto di vista inglese a quello francese ed italiano . La commissione dei Luoghi Santi, anziché essere nominata dall’Inghilterra, lo sarà dal Comitato della Società delle Nazioni che designerà i candidati che ne faranno parte. Per la presidenza di questo comitato, l’on. Schanzer sosterrà energicamente che essa resti affidata per turno ad un membro della commissione anziché essere deferita ad uno di essi. I due uomini di Stato si sono soffermati ad esaminare rapidamente il problema orientale. La conversazione ha permesso di constatare ancora una volta che le vedute di Roma e quelle di Parigi sono concordi. Tanto l’onor. Schanzer che l’on. Poincaré non hanno obbiezioni da fare né sulla data, né sul luogo della riunione dei ministri degli Esteri di Francia, Italia ed Inghilterra. Ciò smentisce la voce diffusa secondo la quale il ministro degli Esteri avrebbe desiderato che questo convegno venisse ritardato. Per quanto riguarda la famosa questione di Tangeri , ecco il punto controverso. Poincaré ha insistito con vigore sulla tesi francese e cioè che l’Italia non può partecipare ai negoziati per Tangeri in seguito agli accordi del 902-912 in base ai quali ha dichiarato di disinteressarsi di qualsiasi questione concernente il protettorato francese sul Marocco, in cambio della sua piena libertà di azione in Tripolitania e Cirenaica, libertà di azione che il governo francese ha rispettato rigorosamente, astenendosi dall’intervenire in qualsiasi modo anche quando l’azione di occupazione di Libia aveva prodotto alcuni incidenti per le autorità francesi. Il ministro Schanzer da parte sua, insiste sul punto di vista italiano e cioè che, anche prescindendo dal fatto che la guerra ha mutato le condizioni esistenti all’epoca in cui quell’accordo venne concluso, la cosa si presenta sotto un diverso aspetto per quello che concerne Tangeri, per la quale è stato accettato un regime internazionale, e perciò l’Italia, potenza eminentemente mediterranea, non potrebbe essere assente quando si tratti non di protettorato francese sul Marocco, sul quale l’Italia non ha la minima intenzione di intervenire, ma dello stato internazionale di un porto mediterraneo. Così, come a Londra, anche a Parigi sembrerebbe prevalere il concetto che se l’Italia non può pretendere di intervenire nella prima fase dei negoziati che si intavoleranno tra la Francia, Spagna ed Inghilterra, cioè tra le potenze principalmente interessate, l’Italia non potrebbe essere esclusa quando si tratta di modificare lo stato internazionale, a cui il regime di Tangeri è sottoposto. Allo stato delle cose, non rimaneva al nostro ministro degli Esteri che di richiamare l’attenzione di Poincaré sulla condizione degli italiani in Tunisia, che rischiano di perdere la nazionalità italiana per assumere quella francese, ciò che costituisce una anomalia essendo Tunisi un paese di protettorato. Relativamente al problema dei debiti interalleati, circa il quale l’Italia e la Francia si trovan nelle identiche condizioni, Poincaré ha promesso di tenere l’on. Schanzer al corrente della missione di cui è stato incaricato negli Stati Uniti, il signor Parmentier. L’on. Schanzer avrebbe infine attirata l’attenzione del signor Poincaré, sulle difficoltà della situazione austriaca che può avere gravi ripercussioni politiche perché potrebbe favorire l’unione dell’Austria alla Germania e porre le potenze di fronte ad un fatto compiuto, e finanziarie perché potrebbe provocare dimostrazioni bolsceviche, eventualità nella quale l’Italia non potrebbe rimanere indifferente. Poincaré ha assicurato Schanzer di studiare la questione con la massima attenzione. E questo è tutto. Ora, dato il presupposto programmatico dell’on. Schanzer che l’azione dell’Italia non deve rispondere soltanto al nostro dovere verso l’Europa, ma anche, e sovratutto, verso il nostro paese, è per lo meno lecito dubitare della sua soddisfazione, dopo i colloqui tanto di Londra che di Parigi. Ancora una volta abbiamo constatato, senza per questo essere pessimisti, come anche la propaganda di certi riconoscimenti tecnici (che denotano, se non altro, dell’indubbio patriottismo del nostro ministro degli Esteri) finisca con l’essere nulla o quasi, se ad essa non corrisponda almeno un principio di realizzazione, una volta tanto, dopo le delusioni sofferte, realizzazione nostra, di parte nostra, cioè italiana. E abbiamo visto altresì quanto sia difficile codesta realizzazione, quando, a malgrado delle promesse e delle lusinghe di recente memoria, si sia costretti per precedenti errori e debolezze passate, a ritornare su questioni che altra volta ci furono cagione d’amarezza e di vergogna e che oggi può mettere in dubbio il proposito della «più intima collaborazione» manifestato a Genova e a Londra e a Parigi e capace di sciogliere i problemi di politica internazionale con qualche riguardo ai nostri diritti e alle nostre necessità. Certi particolari interessi devono, nell’esercizio della politica estera di un Paese, specialmente del nostro Paese, essere affrontati con la giusta coscienza di evitare che, trascinati a lungo da una opportunistica tattica straniera, sieno per sempre vulnerati. E qui non giova certo ricordare quanti e quali, dall’armistizio ad oggi, sieno stati gli interessi italiani irrimediabilmente compromessi. |
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| 41921-1925
| Roma, 13 notte. Il caso ironico ha voluto che il signor De Alvear il presidente della Repubblica argentina che in questi giorni Roma ospita, capitasse nell’aula di Montecitorio proprio nel momento in cui la Camera ascoltava la esposizione finanziaria dell’on. Peano . Il signor De Albera è qui en turist e naturalmente dall’alto della tribuna reale ha badato a tutto tranne che ad ascoltare le malinconie della relazione fatta dal ministro del Tesoro. È bene che sia stato così. È di cattivo gusto raccontare ed un ospite i propri guai e di guai, in verità alla Camera il ministro del Tesoro con scialba oratoria e con una leggera intonazione di ottimista, ne ha raccontati un bel po’ circa il presente disavanzo del nostro bilancio. L’on. Peano non ha detto delle grandi novità: ha esposto ufficialmente dal banco del Governo una situazione che purtroppo è stata tanto nota nei giorni scorsi da far salire notevolmente i cambi e da far diminuire sui mercati di borsa i prezzi dei titoli di stato. Il disavanzo dell’esercizio dell’anno finanziario decorso, che era stato previsto per meno di 5 miliardi, è salito a più di 6 miliardi e mezzo nella chiusura dell’esercizio. Il disavanzo dell’anno finanziario in corso si prevedeva di meno di 3 miliardi nel novembre dal ministro De Nava. La previsione dell’on. Peano invece è che nel luglio del 1923 il bilancio si chiuderà con un disavanzo di 4 miliardi in cifra tonda. Sulla causa del disavanzo notevole parte naturalmente hanno le spese che sono in dipendenza diretta della guerra. Notiamo tra l’altro i 12 miliardi e 350 milioni circa che riguardano la gestione straordinaria per le terre liberate e redente. Questa spesa, che pure essendo notevole, non soddisfa che una parte soltanto delle legittime esigenze della popolazione delle Tre Venezie, è stata opportunamente indicata dall’on. Peano come prova dello sforzo che la Nazione ha potuto compiere per il rifiorimento delle terre che più soffersero nella vicenda della guerra e di quelle che sono state ricongiunte alla patria. Anche direttamente in dipendenza della guerra sono i 36 miliardi circa di prestito nazionale e i 22 miliardi circa di prestiti che sono stati contratti dall’estero. Questa cifra è particolarmente impressionante se si pensa che l’on. Peano – continuando un sistema già iniziato dal suo predecessore – calcola 22 miliardi poiché considera la moneta alla pari. Ma la cifra diventa più che tripla se si consideri che i nostri debiti sono stati contratti con paesi a cambio più alto quali l’America e l’Inghilterra. Può consolarci soltanto la considerazione che già alla Conferenza di Genova un gran passo si è fatto verso l’annullamento reciproco dei debiti di guerra. Ed il principio che è per essere ribadito all’Aja nei riguardi della Russia troverà indubbiamente sanzione in una delle prossime conferenze internazionali. L’influenza di ripercussione della guerra è stata anche tenuta presente dall’on. Peano, quando ha parlato della crisi economica che travaglia in modo particolare il nostro Paese. Ed è notevole che a questo punto l’on. Peano, che è un giolittiano, abbia fatto una sconfessione della demagogica politica finanziaria giolittiana; quando ha detto che occorre non aggravare con un regime fiscale incerto e vessatorio il libero svolgimento delle forze produttive del Paese, agevolando in pari tempo il concorso del capitale straniero offertosi a buone condizioni. La sincerità o meno delle esposizioni fatte dall’on. Peano va giudicata naturalmente per l’avvenire e non per il passato. L’aumento del «deficit» previsto per l’anno finanziario che è finito in questo giugno scorso è un po’ colpa dei calcoli fatti dal Governo passato e un po’ colpa del Governo attuale e un po’ della Camera che, facendosi direttamente portavoce degli interessi delle classi che maggiormente hanno bisogno di aiuto, preme sull’erario portandolo a nuove spese. Recriminazioni e critiche pertanto non possono avere che valore accademico o polemico. Basta la domanda se la previsione fatta dall’on. Peano per il disavanzo dell’anno finanziario in corso, subirà la sorte della previsione dell’on. De Nava, per l’anno scorso, cioè se si fermerà ai 4 miliardi di disavanzo, dei quali si è fatto parola oggi. Non bisogna essere pessimisti. Sarebbe assurdo parlare di situazione finanziaria irreparabile come vanno facendo specialmente certi giornali esteri, taluno dei quali ha perfino inventato che da molti mesi in Italia non si pagano gli impiegati, ma è onesto considerare grave la situazione ed è necessario fare ogni sforzo per fronteggiarla. Il ministro del Tesoro nella conclusione della sua esposizione non ha annunciato che un rimedio soltanto: la politica della economia. Troppo poco in verità per un ministro del Tesoro, il quale d’altra parte ha riconosciuto più innanzi nel suo discorso che già notevolmente forte è la pressione tributaria sul contribuente italiano. La politica della economia è certo una delle principali armi per raggiungere la fine del pareggio; ma essa non deve essere la politica dell’intransigenza assoluta del Tesoro alle opposizioni contro tutte le classi sociali. Una simile opposizione cieca, per essere troppo ferma, potrebbe spesso risolversi nella attuazione del paradosso dello Stato contro lo Stato. Così per esempio, se sono efficaci per raggiungere le economie, le dichiarazione fatte dall’on Peano di non accettare nessun invito che serva a migliorare le condizioni degli impiegati, esse non sono giuste dal punto di vista politico sociale. In conclusione, la necessità di raggiungere il pareggio diventa sempre più sentita poiché è sempre più urgente. L’on. Peano ha fatto dei calcoli e delle considerazioni, ma non ha indicato nella sua esposizione un rimedio concreto. Frattanto i debiti aumentano, le risorse si esauriscono, la vita economica è in gran parte paralizzata, la posizione finanziaria è opprimente. La discussione sul bilancio del Tesoro si annuncia molto movimentata ed interessante e noi speriamo che in essa la Camera sappia fare opera di collaborazione fra tutti i gruppi per indicare al Governo – questo ed un altro non importa – la via maestra che senz’altro si deve seguire. |
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| 41921-1925
| Quasi tutta la stampa atesina ha dedicato alcune righe o colonne di commento alla destituzione del sindaco Simeoni. Ma nessun giornale è tanto onesto da mettere in rilievo le vere cause di questo atto da parte dell’autorità. Tutti gridano semplicemente al pugno di ferro, alla violenza, prepotenza e spirito di oppressione da parte di chi è preposto al governo della Venezia Tridentina e invitano la popolazione tedesca (!) dell’Unterland a tener duro, a resistere contro i tentativi di trattamento che si vorrebbero consumare ai suoi danni politici. Ed è naturale, poiché il giorno che i tedeschi incominceranno a dire almeno in parte la verità subentrerebbe un po’ alla volta quella pace fra italiani e tedeschi che tutti gli onesti devono augurarsi per il bene comune. Volendo considerare con spirito di obiettività come noi lo vediamo il caso di Salorno, si presenta presso a poco come segue: È vero che l’asilo infantile tedesco frequentato da moltissimi bambini italiani viene naturalmente a frustrare gli scopi di equità nazionale cui tende la lex Corbino , poiché i bambini italiani, opportunamente istruiti dalla maestra tedesca, agli esami per l’assegnazione all’una o all’altra scuola risponderanno meglio in tedesco che in italiano; è vero che la maestra Marenberger pur conoscendo le disposizioni di legge, e pur sapendo che era vietato, ha ammesso all’asilo, col tacito consenso del Comune bambini italiani che per la cocciutaggine dei genitori non frequentano la scuola italiana ed è vero che fu in questa infrazione recidiva; è un fatto che il comune di Salorno non solo non ha esortato le famiglie a ottemperare alla legge sulla commissione scolastica con la resistenza passiva, ma affiggendo all’albo del Municipio arbitrariamente manifesti contrari agli ordini categorici dell’autorità ha favorito l’atteggiamento ostruzionistico dei genitori ottenendo il risultato certo lusinghiero, che cioè la maggior parte dei bambini del primo anno hanno perduta una intera stagione di scuola. Ma a quanto ci consta – e non fu bene – né il sindaco né la rappresentanza ebbero per questo delle noie. E i politicanti di Salorno e di altri luoghi lo sanno benissimo. Come sanno che il sindaco Simeoni venne destituito per elementare mancanza di rispetto all’autorità, per il linguaggio ingiurioso da lui usato in un atto ufficiale, come sanno che quell’atto non fu né potrebbe essere approvato, almeno nella forma, da nessuno che abbia una briciola di equilibrio e di tatto politico, e quindi né da italiani né da tedeschi. Qualche giornale si compiace ricordare la magnanimità austriaca vantando che il governo degli Asburgo destituiva un sindaco appena ogni cinquant’anni. Non disponiamo di statistiche in argomento, ma sappiamo per esperienza che nessun sindaco avrebbe osato di redigere un atto ufficiale in uno stile così insolente e offensivo. L’Austria aveva delle cure preventive che l’Italia non conosce affatto appunto per quella liberalità, che i politicanti tedeschi nella loro stampa amano così spesso schernire. Noi auguriamo che gli atesini imparino a meglio apprezzare il regime di libertà ch’è loro concesso ed auguriamo ancora che vogliano finalmente comprendere che l’opera di pacifica convivenza e di reciproco rispetto potrà iniziarsi solo quando i caporioni di Salorno e di altri paesi avranno capito che bisogna dare ad ognuno il suo in tutti i campi e quindi alla scuola italiana i figli dei genitori italiani. |
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| 41921-1925
| Roma, 15 notte. Non passioni di parte, ma umanissimo sdegno ha determinato la manifestazione di oggi alla Camera; manifestazione spontanea, nobile, generosa. La casa di due deputati è stata incendiata a Cremona , proprio mentre quei due deputati portavano alla Camera la voce di due loro forti partiti. Un popolare e un socialista, Miglioli e Garibotti , in proporzione maggiore o minore non importa, mentre essi compivano a Roma il loro dovere, sono stati colpiti nella loro casa, nella tranquillità della loro famiglia lontana. Questo fatto è tanto grave e così dolorosamente impressionante che non ha bisogno di apprezzamenti. Basta l’equa e nuda cronaca dell’episodio per dire quanto grande sia stata quella vera e propria insurrezione che ha provocato in tutti i banchi del parlamento – tranne su quelli della destra – l’annuncio di quanto oggi è avvenuto a Cremona. La seduta è stata sospesa in segno di protesta. È stata questa una grande manifestazione che la Camera, perdurando la insostenibile situazione interna, ha fatto contro i metodi messicani delle bande armate che si vogliono imporre con manifestazioni politiche e sociali, mentre altro scopo non raggiungono se non quello di seminare ovunque sul loro cammino lo sterminio o la morte. Basta! ecco la parola che implicitamente il Parlamento ha detto quando ha interrotto questa sera i suoi lavori per i fatti di Cremona: ecco la sintesi della manifestazione odierna, che è stata più significativa in quanto è stata rapida, immediata, spontanea. La Camera ha sentito il suo atto in tutta la sua portata: non si è lasciata trascinare ad una impulsività eccessiva, poiché non ha ceduto alla prima proposta fatta dall’on. Modigliani, che era stata interpretata dal governo come una formula di sfiducia, ma senza entrare nel merito della responsabilità che il governo può avere su quanto accadde si è affermata compatta – con l’astensione della Destra – sulla proposta fatta da Pasqualino Vassallo di sospendere la seduta in segno di deplorazione e protesta. Niente intrighi di corridoio, quindi, nessun secondo fine politico si può trovare nella dimostrazione, anche se lo si volesse ricercare col lanternino così come ha fatto l’on. Federzoni che, trascinato dalla necessità di difendere un atto senza attenuanti, è stato, contrariamente al suo spirito e al suo temperamento, di un cinismo tale, che il secondo di destra, il fascista Vicini , prendendo insegnamento dagli urli di indignazione coi quali erano state accolte le parole del suo collega, si è ricordato che era doveroso, almeno per pudore, associarsi alla deplorazione unanime degli incendiari di Cremona. Nessun elemento è valso ad attenuare la impressione di disgusto che tutta la Camera ha sentito; così non ha diminuita l’impressione di solidarietà commossa che tutta la Camera ha provato nella stessa testimonianza dell’ansia trepidante degli on. Garibotti e Miglioli per i loro cari lontani che essi ignorano quale sorte abbiano subito dopo che la furia della devastazione ha invaso, spogliato, distrutto. Questo il significato essenzialmente sentimentale della seduta di oggi. Alla seduta non si è innestato l’elemento politico parlamentare propriamente detto. Ed è stato bene che così fosse. La dimostrazione antifascista della Camera era ispirata esclusivamente a quel senso umano di sdegno che si prova contro degli assassini, degli incendiari: una discussione sulla eventuale responsabilità del governo avrebbe tolto il valore al voto di oggi. Dell’opera del governo si discuterà martedì, forse su di una mozione. Allo stato dei fatti non abbiamo gli elementi per potere esprimere un nostro giudizio, ma poiché il gruppo parlamentare popolare si è riservato un esatto dettaglio dei fatti specifici di Cremona, come di tutta la situazione interna del paese, e poiché gli on. Gavazzeni e Mauro Francesco , del direttorio popolare riunitosi d’urgenza, sono stati questa sera inviati a compiere a Cremona una inchiesta popolare, noi abbiamo fiducia nella deliberazione che prenderanno i nostri amici di Montecitorio. Essi hanno detta oggi alla Camera una parola appassionata, sì, ma serena, elevata e – soprattutto – cristiana. Noi abbiamo fiducia nel loro senso di responsabilità e siamo sicuri che essi sapranno seguire la giusta via. |
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| 41921-1925
| Roma, 26 notte. A Montecitorio vi è una losca congiura che domina sullo svolgimento della crisi : la congiura del siluramento. Manifestavamo ieri sera tutto il nostro scetticismo per la buona riuscita del lavoro che sarebbe stato fatto dall’on. Bonomi dopo aver ricevuto l’incarico dal re; ed eravamo pessimisti poiché indicavamo quali manovre sarebbero state fatte dalla destra e da due democrazie: la giolittiana e la sociale, legata per moltissimi uomini all’on. Giolitti. La cronaca di questa giornata che si chiuse con il fallimento di una seconda combinazione, quella che avrebbe dovuto fare capo all’on. Bonomi, dimostra che niente è stato trascurato per poter mettere il deputato mantovano nella condizione di dovere restituire al re il mandato che ufficiosamente gli era affidato per la composizione del gabinetto. Un fatto sintomatico: nessuno degli ordini del giorno che sono stati votati dagli oppositori del secondo designato della corona spiega le ragioni della opposizione; notiamo anzi che il nome dell’on. Bonomi nei comunicati non è neppure accennato mentre i gruppi di destra hanno voluto esercitare la piccola astuzia di non assumere ufficialmente atteggiamento alcuno, limitandosi a fare la loro campagna negativa sulle colonne del Popolo d’Italia e della Idea Nazionale. Fenomeno evidente di scorrettezza; poiché quando dei partiti costituzionali protraggono per loro colpa il periodo in cui il paese è costretto ad assistere a quella indecente fiera che è una crisi governativa, hanno almeno il dovere di fare sapere perché dei tentativi onesti, come è stato quello dell’on. Bonomi, sono stati mandati a monte. E la combinazione profilatasi ieri all’orizzonte è stata mandata a monte con una tale fretta e una tale intensità di siluro che con tutta la buona volontà possibile nessuno può credere a una serenità di giudizio e a un ponderato criterio di azione. La verità è che l’on. Bonomi aveva chiaramente visto quale fosse il significato del voto della Camera. Demo-sociali e demo-giolittiani, per convenienza degli uomini e dell’uomo ai cui interessi essi servono per la loro origine elettorale filo fascista non rinnegata fino a quando non potranno ottenere in cambio dei vantaggi migliori, hanno fatto il giuoco della destra evitando ad ogni costo che fosse possibile formare l’auspicato gabinetto di pacificazione risultante dalla concentrazione del centro e delle sinistre. I popolari, che fin dal primo inizio di questa crisi hanno manifestato quale fosse il loro pensiero per poter giungere a un governo capace di opporsi a tutte le violenze, avevano assicurato tutto il loro appoggio all’on. Bonomi il quale aveva dato prova di non voler allontanarsi dallo spirito dell’ordine del giorno Longinotti . I nostri amici quindi, che troppo facilmente sono accusati di eccessiva preponderanza e di veti, hanno veduto oggi urtare tutta la loro buona volontà di collaborazione contro l’ostinazione negativa di due gruppi che avrebbero dovuto essere notevole parte della collaborazione tra le sinistre ed il centro. Né si può parlare più ormai onestamente di responsabilità nella provocazione della crisi poiché la democrazia sociale, tenacemente oppostasi alla combinazione Bonomi, fu nell’abbattere il gabinetto Facta il gruppo crisaiolo per eccellenza. Ma non era da aspettarsi dalla democrazia sociale un atteggiamento differente; il gruppo, capitanato dall’on. Di Cesarò , fece la crisi a scopo di portare Orlando al potere; né per altro ha rinunziato alla candidatura Orlando per quanto oggi allo stato delle cose si contenterebbe pure che a capo del governo fosse posta quella figura politica di quinto e sesto piano che è l’on. Fera . I giolittiani poi insisteranno fin quanto sarà possibile che un governo di pacificazione possa effettivamente essere composto. Innanzi tutto essi sono molto seccati dal fatto che gli unici che in questa crisi abbiano dimostrato di avere una direttiva precisa siano stati i popolari; in secondo luogo padron Giolitti è assente e ad essi non giunge altro ordine che l’epistola ostruzionistica del villeggiante di Vichy . Questa lettera che la Tribuna pubblica oggi – dopo averne pubblicata ieri una parafrasi in stile più colto e più equilibrato sotto forma di pensiero dell’on. Giolitti – merita di essere esaminata soprattutto come il documento principe della congiura del siluro che viene perpetrato a Montecitorio dai servitori dell’uomo di Dronero. Circa il contenuto della lettera, rileviamo solamente che, malgrado la cura di Vichy, l’on. Giolitti è così bilioso per essere lontano dal potere da aver perduto completamente le staffe. Non parliamo della frase in cui si accenna anche al segretario politico del partito popolare: questa frase non dimostra altro che ignoranza e acidità: ignoranza poiché tutti sanno quante riserve i popolari – e specialmente l’amico Sturzo – abbiano fatto sempre circa il collaborazionismo socialista: se queste riserve non vi fossero state, forse Turati e Modigliani sarebbero già ministri da un pezzo; acidità è dimostrata pure in quella frase, ed è ben strano che un uomo come l’onorevole Giolitti che tiene a mantenersi sempre ad un’altezza olimpica, non abbia mancato alla prima occasione che gli si è presentata di sfogare un piccolo livore personale. Ma ciò non costituisce che un dettaglio, così come un dettaglio è l’accenno all’«ingiustificabile impazienza», mentre tutti ricordano che per rovesciare il gabinetto Bonomi nella speranza di poter aver la successione, l’on. Giolitti non disdegnò, a corto di argomenti, di ricorrere alla manovretta di una crisi extra parlamentare. Il grave è che l’on. Giolitti – il quale ha detto un nome che gli dovrebbe consigliare cautela – non ha esitato neppure un istante a denunciare nella sua lettera una vera e propria crisi di Stato: «morale e finanziaria», per arrivare alla conclusione esplicita che soluzioni alla crisi non ve ne sono e per arrivare alla conclusione implicita che l’unica soluzione potrebbe essere un governo presieduto da lui. Fatte le debite proporzioni tra il piccolo deputato che rinnega il suo partito pur di avere un sottosegretariato e l’on. Giolitti che in una lettera al Malagodi – resa pubblica per sua volontà – fa sapere all’estero che l’Italia è in rovina pur di andare al potere, una differenza non c’è né si potrebbe vedere. Notiamo infine che i due mali supremi indicati dall’on. Giolitti sono ambedue opera sua: il fascismo l’ha inventato lui; la rovina finanziaria – ammesso che una rovina ci sia – è incominciata, indipendentemente dalla conseguenza normale del periodo di assetto del dopo guerra, dalla politica finanziaria giolittiana così miracolisticamente annunciata. La lettera dell’on. Giolitti ha indubbiamente contribuito al siluramento della combinazione Bonomi: crediamo anzi sia stata a bella posta pubblicata nonostante che fosse una ripetizione nella parafrasi che già ieri ne dava la Tribuna. Allegramente quindi: la crisi ministeriale continua a esser aperta. C’è posto per altri tentativi e per altri siluri: un tentativo Orlando, De Nava, un nuovo tentativo Orlando, magari un ministero Fera o un reincarico all’on. Facta. Ma vi pare? I popolari non sperano altro che si arrivi alla soluzione ministeriale: quella da essi indicata. Ma non potranno mai permettere che dalla equivoca situazione creata dai siluramenti della destra, dai demosociali e sovrattutto dai giolittiani si possa trarre materia per tentare una speculazione politica ai loro danni. Ormai il giuoco degli avversari è troppo chiaro perché essi possano continuare la loro losca manovra a meno che il pudore parlamentare sia andato tutto a Vichy così come lo sdegno bilioso dell’on. Giolitti è tutto venuto a Roma oggi colla lettera a Malagodi. Documento, che nessuno dimenticherà. |
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| 41921-1925
| Non era difficile il vedere a fior d’acqua, fin dall’inizio della crisi, lo scoglio della situazione. La Camera, col suo voto, aveva espressa una designazione chiara e logica: ma la logica avrebbe trovato una immediata contraddizione nella resistenza della sinistra giolittiana intesa a mercanteggiare a caro prezzo la sua partecipazione alla nuova maggioranza. La chiave di volta delle oscurità, delle contraddizioni, dei pericoli in cui si è impigliato il momento politico parlamentare e che lo rendono veramente preoccupante, è infatti tutta qui. L’accusare la destra di porre ostacoli alla soluzione della crisi, è esatto ma ingenuo. Davvero sarebbe un troppo pretendere se si chiedesse alle pattuglie nazionali liberali di restarsene quieti nell’isolamento in cui le ha poste il voto. Esse compiono ogni sforzo per riprendere contatto con la maggioranza e per riaprire il conto corrente col governo di domani: e ciò è logico e umano. Ma la combinazione Orlando e quella Bonomi non sono andate a monte per questo: bensì perché la democrazia giolittiana ha lusingate le tendenze destraiole del primo in quanto avrebbero incontrata l’opposizione risoluta del resto della maggioranza, e ha ostacolata la tendenza di sinistra del secondo in quanto poteva avere una efficacia risolutiva. Così i pretoriani – mentre la sede è vacante e dell’antico imperatore non s’ode che la voce affiochita dalla distanza – si abbandonano a un’orgia inquieta di distruzione fino a che uno di loro possa afferrare il bastone del comando profittando della stanchezza e della nausea altrui. Naturalmente, accade che, mentre questi pirati di tutti i carichi ministeriali si preparano all’arrembaggio, tutte le colpe, tutti gli appetiti, tutte le imposture sieno attribuite ai popolari. Vecchia storia, che si ripete con intensità ed asprezza crescente mano a mano che il vecchio mondo parlamentare si avvede che noi non abbiamo sventolato dei programmi per burla e che ci importa meno che nulla di abbandonare, ad esempio, per via il latifondismo nazionalista del principe Boncompagni , se esso voglia dire diminuzione o deformazione della nostra fisionomia politica, allo stesso modo che non ci è importato affatto l’eliminare dalla nostra compagine altri che volevano modificare il tono e spostare l’equilibrio in cui si impernia il nostro inquadramento di partito. Così Mussolini con furore apoplettico, il Corriere delle sera, con isterica iracondia e il pecorume greppaiolo della capitale con isocronismo servile, si scagliano contro i popolari che ingoiano i propri ministeri. Ora, è davvero umiliante dover perdere il proprio tempo per difenderci da simili scemenze, ma la discussione politica oggi si dibatte tutta in modo chiacchiericcio di bassa corte. I popolari che ingoiano i propri ministeri, quando è anche troppo nota la lealtà colla quale essi si dimostrarono leali fino all’ultimo con tutti i ministeri ai quali parteciparono, tanto che, ad esempio, nello scorso febbraio rimasero quasi soli a mantenere la propria fiducia nel gabinetto Bonomi, quando le democrazie si allearono con nazionalisti e fascisti, socialisti e comunisti, per tentare vanamente il turno di Giolitti. Anche allora, però, la Camera aveva prima votato un certo ordine del giorno Celli che, non ostante l’escamotage della destra, aveva un preciso significato di orientamento verso sinistra; ed anche allora nelle more della crisi i pretoriani di Giolitti posero ogni opera per sofisticare quel voto così da giungere ad un ministero Facta nel quale vollero rimanesse un germe di dissoluzione nella eterogeneità della sua compagine politica. I popolari avevano detto con chiarezza la loro opinione, e se per evitare guai maggiori, si arresero ed accettarono l’imposizione dell’equivoco, non mancarono però di denunziarlo, fino a che l’intollerabilità della situazione li fece accorti che non bastava la denuncia ma era necessaria un’azione risolutiva. E anche in ciò quanta pazienza e quanta prudenza! Una settimana prima del voto essi avevano insistito presso l’on. Facta sulla opportunità di eliminare dal governo gli elementi più eterogenei e insidiosi, e al voto non si decisero se non quando tre delle quattro frazioni della democrazia concordarono apertamente nella necessità di una crisi. Questa è la storia non sofisticata degli ultimi avvenimenti parlamentari. Ma la verità non è tutta qui. Le sofisticazioni hanno uno scopo evidente: ed è quello di contrabbandare il metodo tipico attraverso il quale un uomo col suo piccolo gruppo di procaccianti vuole dominare il parlamento. Si ricordi la lettera al caro Peano. Anche nel 1915 Giolitti, con un’azione extra parlamentare, e cioè senza il coraggio politico di affrontare una lotta dalla quale dipendeva il destino e l’avvenire d’Italia, tentò la sollevazione dei pretoriani portando lo scompiglio e accendendo delle menzognere speranze in quella legione di onesti che credevano nella sua rettitudine e fidavano nella sua forza . Scompiglio inutile, speranze vane! Ora abbiamo la lettera al caro Malagodi e i pretoriani ordiscono le loro basse congiure nei corridori di Montecitorio. Se durante le more tra la crisi Bonomi e il ministero Facta i giolittiani giocarono a carte scoperte, ora tentano il gioco subdolo con le idiosincrasie sdegnose di Vichy. I popolari hanno fatto la crisi? I popolari la risolvano. Ecco la loro comica sfida. Cominciamo infatti a dire che il consiglio doveva essere subito dato non a noi ma alla Corona. In secondo luogo ripetiamo che la crisi non è stata provocata esclusivamente dai popolari ma è stato il prodotto di un aperto accordo tra centro e sinistra. In terzo luogo è assurdo – in regime proporzionalistico – il chiedere un governo di puro colore. Lo sforzo che si deve compiere è quello di creare un governo omogeneo nel quale non ci siano discordanze palesi di volontà nell’imprendere la soluzione dei problemi fondamentali. La sfida giolittiana è dunque nulla più che un «non senso politico» che mira a prolungare e stancheggiare la crisi forse per giungere a una inversione paradossale della situazione. Dato infatti che centro e sinistra non riescono a comporre un ministero, perché i gruppi che non vogliono una soluzione conforme alla designazione della Camera non potrebbero accordarsi per assumere il potere? Democrazia, agrari e destra potrebbero ben costituire un governo di relativa maggioranza. Perché non tentare? Un buon decreto di scioglimento della Camera in tasca – secondo il consiglio che una strabiliante intervista attribuisce all’on. Tovini – potrebbe facilitare la cosa: e, si badi, ciò sarebbe l’equivalente di quel colpo di stato che forse, tra un bicchiere e l’altro d’acqua di Vichy, sorride al vecchio Giolitti per seppellire definitivamente la democrazia insieme ai suoi ultimi pretoriani. È però evidente che la stessa possibilità della formulazione di una simile ipotesi dimostra come il gruppo giolittiano – consapevole o ignaro che sia – non indietreggi dinnanzi alle soluzioni più catastrofiche e come perciò la situazione sia sempre più irta di difficoltà: a meno che, come si va dicendo, tutto si riduca ad una manovra per conservare la luogotenenza all’on. Facta. Un «ridiculus mus», insomma, che sbucherebbe di sotto al franamento della montagna, perché oggi l’on. Facta sarebbe costretto a fare quello che non volle o non poté fare cinque mesi fa e una settimana avanti la crisi. Perché, in fondo, oggi ogni buon italiano non può non aderire al voto espresso ad un periodico romano dall’on. Meda che, dopo aver detto della sua ripugnanza alla crisi ed insieme della inevitabilità di questa, ha aggiunto: «Adesso non ho che un voto: che il nuovo ministero sia presto composto e che esso risponda all’utilità del paese, la quale io vedo esistere nella ripresa del dominio dello Stato sulle fazioni. Da questo punto di vista penso debba farsi ogni sforzo per dar modo di concretarsi alla tendenza collaborazionista determinatasi nel socialismo – la quale, per me, significa accrescimento dell’energia di assimilazione insita negli ordini costituzionali – e poi per provocare la risoluzione dell’equivoco fascista, nel senso che il movimento dei fasci chiarisca la sua natura e si decida fra l’azione lealmente legalitaria e quella apertamente rivoluzionaria; nella prima ipotesi esso sarebbe certo un elemento di restaurazione nazionale, nella seconda dovrebbe essere contenuto come qualsiasi altra fazione che si eriga contro la legge e pretenda di conquistare il potere per vie diverse da quelle consentite dal nostro diritto pubblico». Basta porre il problema – italianamente – in questi termini per vedere come la soluzione non possa allontanarsi da quella che i popolari hanno proposto. Essa, coalizzando il centro e le sinistre in un nobile sforzo di superamento delle fazioni in contesa, potrà aver ragione di quanto in queste vi è di disordinato e di anarcoide, a meno che, con un tentativo ardito e di cui non riusciamo a intravedere la conclusione logica, non si giungesse ad un gabinetto che compiesse la sintesi dei contrari effettuando paradossalmente la collaborazione dei fascisti e dei socialisti. Comunque, quello che fondamentalmente importa è l’azione con un atto vigoroso di volontà, che può venire sia dell’esterno che dall’interno dei partiti in contesa, il quale valga a dissipare questa asfissiante atmosfera di guerra civile in cui le anime vengono devastate, l’economia nazionale manomessa e depressa, la nostra efficienza internazionale annullata. Il nostro partito che, grazie a Dio, né si è esaurito né si esaurisce nel parlamentarismo e che sa continuamente rinnovarsi nella freschissima e viva fonte delle sue idealità cristiane, non ha speculazioni da compiere, ambizioni illecite da soddisfare, interessi subdoli da far valere. Esso ha affrontato il problema parlamentare nel suo esclusivo aspetto politico: quello cioè di raggiungere il mezzo più idoneo perché il grido di dolore che viene dalle moltitudini sbandate sotto la ferula della reazione venga ascoltato. Chi ha immaginato – in un suo sogno torbido e irreale – che il partito popolare potesse essere usato come un comodo comprimario nella lotta contro la libertà, è stato vittima di un errore radicale. Balzando alla vita della libertà ci siamo fatti uno scudo che la tristezza dei tempi non è valsa a farci velare: e se la sorte ha voluto che dovessimo dare battaglia forse non tanto per la «nostra» libertà quanto per quella di «altri» che in tempo non lontano ci furono aspri nemici e domani lo ridiventeranno con non minore asprezza, ciò significa che fra noi la santità dei principi non è subordinata alla convenienze di parte. Ed è questa continuità del nostro pensiero, questa fermezza del nostro programma, questa tranquilla dignità del nostro atteggiamento che permette al paese di contare su di una forza omogenea ed organica che non si disperde e non si annulla nelle contingenze contraddittorie ma si sviluppa su di un piano positivo ed ascendente. Il vecchio mondo parlamentare non vuol avvedersi di ciò, e si agita convulso nella speranza di isolarci. Ma le forze profonde e vive di una nazione si possono isolare nel gioco di corridoio, non già nell’intreccio organico della vita. Per il gioco di corridoio, ci sono i pretoriani; nella vita vasta e aperta ci stiamo noi. |
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| 41921-1925
| Roma, 27 notte. L’on. Meda, per le note ragioni, ha declinato l’incarico che, in omaggio a una formalità, gli è stato stamattina offerto dal re . Si è messo quindi al lavoro l’on. De Nava. Il deputato calabrese, per quanto non sia una figura di primo piano, avrebbe la qualità per presiedere un gabinetto e, dopo otto giorni di crisi, egli che è un democratico, verrebbe ad avvantaggiarsi di quella situazione che ormai si è venuta a creare per l’equivoco delle democrazie. Nessuno più di noi – e di quei giornali che hanno la nostra fede e il nostro stesso colore – ha sostenuta a spada tratta la concezione possente che era contenuta nell’ordine del giorno del partito popolare per la formazione di un governo di centro e di sinistra . Il centro – vale a dire il gruppo popolare – non ha deflettuto neppure per un momento dalla sua affermazione; ma la sinistra, numericamente più forte del gruppo popolare, ha silurato – per l’urtante desiderio di una parte dei suoi gruppi di avere anche la destra al governo – tutte le combinazioni che fino ad oggi si sono presentate. La sinistra ha dimostrato in modo eloquente che la posizione dei suoi settori nell’aula altro non è che un bluff. I democratici in gran parte sono dei veri e propri uomini di destra i quali con i famosi blocchi hanno fatto nel 1921 le elezioni coi fascisti ed ai fascisti sono rimasti legati, malgrado alla Camera i blocchi si siano divisi in gruppi e tendenze aventi un valore esclusivamente formale. Ciò è già noto e non avrebbe avuto bisogno di una dimostrazione. Tre gruppi di democrazia, più o meno accentuatamente, hanno tenuto a dare al paese una riprova del falso, che è nella loro denominazione. Conservatori nel senso più gretto della parola, hanno voluto anche questa volta restare legati ai fascisti nella speranza che nelle nuove elezioni – minacciate artificiosamente vicine – essi possano trovare un bastone e una rivoltella che li riporti con la violenza in Parlamento. Prendere l’uno o l’altro atteggiamento, costituisce un loro diritto; chiamarsi democratici e sedere a sinistra, costituisce una loro menzogna se – come vogliamo augurarci – sarà possibile un governo di centro e di sinistra per l’opposizione del nucleo maggiore che dovrebbe formarlo. Per queste considerazioni condividiamo perfettamente l’o.d.g. che è stato votato oggi dal direttorio del gruppo popolare . I popolari lasciano ferma la loro deliberazione presa fin dal primo giorno di crisi come l’unica via giusta che si dovrebbe seguire. È una via di pacificazione. I gruppi che coi popolari e con maggiore intensità di manovra dei popolari provocarono la crisi, si sono in gran parte dichiarati solidali non appena le consultazioni sono state iniziate, con i gruppi che votarono in senso contrario all’ordine del giorno Longinotti. Oggi occorre fare un ministero qualunque esso sia. Essi, riservandosi di indicare al paese la slealtà e l’equivoco democratico, costretti all’angusto ambito del giuoco parlamentare a dover collaborare coi democratici, sono i primi a rompere il giuoco vizioso che in una atmosfera di equivoco è stato creato. Animati sempre da un solo intento, la pacificazione interna, essi lasciano ai democratici la responsabilità della soluzione e non esitano a dichiarare che il loro voto daranno a quell’uomo che, senza discordanza, riuscirà ad avere l’appoggio dei gruppi di democrazia che votarono contro il gabinetto Facta. Per colpa della democrazia tre tentativi sono falliti: quello dell’on. Bonomi, anzi, non si è potuto neppure effettuare. I democratici hanno cercato di rovesciare la loro responsabilità sui popolari. Dopo l’ordine del giorno di oggi non è più possibile giocare sull’equivoco, e se per domani mattina l’on. De Nava non avrà composto il ministero, non sappiamo quale soluzione i democratici potranno trovare. Ma intanto già i siluri sono in azione. La democrazia sociale non vuol saperne di De Nava, ma vuole Orlando poiché Orlando è siciliano e perché i demo-sociali in maggioranza sono siciliani. Questo è il significato dell’ordine del giorno demo-sociale che è stato votato questa sera. Innanzi a tanta miseria il disgusto è troppo poca cosa. Ecco che l’on. De Nava, appena ricevuto l’incarico, scappa a Fiuggi per conciliare capra e cavoli sperando, secondo un precedente Ricotti e un precedente Zanardelli che sono entrambi nella nostra storia parlamentare, di poter finire con l’affidare all’on. Orlando la presidenza e gli esteri, riservando a se stesso gli interni. Ma il tentativo De Nava avrà molto probabilmente la sorte degli altri precedenti tentativi. Miseria di personalismi quindi per una crisi che aveva avuto una impostazione precisa e che equivoci non poteva ammettere in modo alcuno. Dell’offerta dei voti socialisti a un governo costituzionale, allo stato delle cose non sembra sia il caso di parlare. Noi lasciamo insieme coi demo-sociali, responsabili in prima linea, i servitori di quell’on. Giolittí che nel maggio dell’anno scorso scioglieva la Camera e faceva le elezioni sulla base di una relazione al re nella quale era contenuto un invito esplicito ai socialisti per una loro collaborazione al governo. |
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| Questa collaborazione che i socialisti offrono nel momento risolutivo di una crisi non ci persuade . Essa infatti ha tutto l’aspetto di una mossa parlamentare, più onesta e meno illogica di quelle di cui si sono dilettati i giorni scorsi i vari Cocco-Ortu, ma non per questo di portata chiaramente politica. E se portata politica essa ha, è difficile sceverarne il negativo da quello positivo. Per orientarci un po’ e darci una ragione approssimativa dell’ultimo avvenimento parlamentare, è necessario risalire alle cause: e in tal caso non è difficile vedere come le ragioni più risolutamente determinanti del collaborazionismo socialista consistono in una necessità che sta tra la difesa e l’offesa. Dall’ordine del giorno Zirardini a quello votato venerdì dal gruppo socialista – un po’ per la pressura degli avvenimenti, un po’ per una interna incertezza paralizzatrice – il movimento per la collaborazione non è mai riuscito a chiarirsi con un apporto di dati positivi apprezzabili. Tutt’al più si sono avute delle dichiarazioni le quali dimostrano come da parte dei collaborazionisti ci sia ormai la persuasione della sufficienza dei freni e degli ordini costituzionali a garantire la libertà, e perciò, poiché la libertà è minacciata e manomessa, della opportunità politica di ristabilire l’efficienza dell’ordine costituzionale. Come però l’innesto del socialismo all’organizzazione politica debba effettuarsi, è ancora quasi totalmente oscuro. È tuttavia obbligo di giustizia l’ammettere che gli stessi collaborazionisti avevano la percezione di questa zona d’ombra che si intrometteva tra essi e la responsabilità positiva di governo, tanto è vero che quei loro rappresentanti ebbero contatti quasi compromissori coi rappresentanti di altri gruppi e nel periodo d’incubazione della crisi Facta convennero senza fatica sulla immaturità di un tentativo sperimentale di collaborazione. Ora: quale fatto nuovo è sopravvenuto a far mutare d’improvviso una evoluzione che si palesava ancora lenta e difficile? Il fatto parlamentare. Ma è qui che si radica il nostro dubbio. In sostanza i socialisti dichiarano la loro disposizione a collaborare solo perché l’intransigenza audace della destra e le oscillazioni perturbatrici delle sinistre hanno avuto ragione di una situazione parlamentare cui ne hanno sostituito un’altra del tutto artificiosa. Ma oggi come ieri, anzi oggi più di ieri, la pressione socialista tende a dare alla soluzione della crisi una colorazione partigiana in cui non è difficile intravedere tutta una serie di pericoli: allo stesso modo che la pressione di destra aveva dimostrato ai più chiaroveggenti la gravità di una soluzione che apparisse vincolata ad una delle parti in contesa. Quei giornali, piccoli e grandi, che per oltre una settimana hanno coperto di contumelia il partito e il gruppo popolare solo perché, partendo da una intuizione esatta della situazione, ne avevano tratto le conseguenze logiche, devono ora rettificare il loro tiro; ma la loro malafede, la loro insincerità, la loro incoscienza sono evidenti. La loro avversione ai popolari non era determinata da altro che dal segreto riconoscimento che solo per la via additata da noi si poteva giungere, non diremo alla pacificazione, ma all’unico governo che di volontà decisamente pacificatrice dia garanzia. Ed essi la pacificazione non la vogliono. Neppure i fatti di Rimini – dove dei giovinetti sono stati atrocemente pugnalati senza motivo –: neppure i fatti di Ravenna – dove si è distrutto quell’edificio cooperativo che rappresentava uno dei pochissimi organismi di realizzazione pacifica e benefica del socialismo –, hanno sollevata una loro parola di riprovazione. Che cosa si vuole di più per dimostrare che questa borghesia destraiola non ha più nessuna capacità reattiva, nessuna sensibilità morale, nessun concetto delle funzioni etiche e giuridiche dello Stato? E ora essa si meraviglia che i socialisti passino il Rubicone e tentino la manovra parlamentare? Ma lasci che ce ne doliamo noi, noi che il collaborazionismo avevamo posto in mora fino a che, rischiarato l’ambiente e rifatti normali i rapporti politici, esso potesse liberamente chiarire la sua funzione politica così da essere una forza di integrazione e non di negazione o di logoramento dello Stato. Così al punto in cui siamo, quando la borghesia liberale ha dichiarato la sua inettitudine a dominare la situazione politica e a farne il cardine per ristabilire la sicurezza funzionale dell’ordine etico-giuridico e quando è pur necessario giungere ad un compromesso risolutivo delle forze politiche in opposizione, ecco presentarsi nuovamente le ipotesi che sono state fatte dopo il fallimento del tentativo Bonomi, cioè che la soluzione proposta dai popolari, coalizzando il centro e le sinistre in un nobile sforzo di superamento delle fazioni in contesa, potrà aver ragione di quanto in queste vi è di disordinato e di anarcoide, a meno che, con un tentativo ardito e di cui non riusciamo a intravvedere la conclusione logica, non si giungesse ad una gabinetto che compiesse la sintesi dei contrari effettuando paradossalmente la collaborazione dei fascisti e dei socialisti. Quello che allora si giudicava di una possibilità paradossale ha tentato l’on. Orlando che si accinge a realizzarlo. Siamo quindi in attesa della nuova costruzione politica di cui ancora non riusciamo a vedere le precise linee architettoniche. Certo nessuno più di noi sarebbe lieto se essa valesse a garantire quella pace che destra e democrazia si sono dimostrate inette, nonché a garantire, a volere, ma è legittimo il chiedersi se un compromesso parlamentare possa essere sufficiente a smorzare gli odii che ardono nel paese. Che cosa infatti rappresenteranno del fascismo e del socialismo gli on. Mussolini e Turati il giorno che divideranno la responsabilità del governo? Basta cioè che Mussolini e Turati si coprano della feluca per risolvere quella famosa contraddizione che il «leader» fascista enunciò nelle sue ultime dichiarazioni alla Camera e che il «leader» socialista sa essere ugualmente profonda nel proprio partito ? In altri termini: sono disposti Mussolini e Turati a usare del potere per contenere con rigida fermezza i fenomeni insurrezionali dei rispettivi partiti? Basta porre questi interrogativi per definire l’arduità del tentativo di Orlando e le disperate difficoltà della riuscita. |
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| Mentre la cronaca parlamentare fa delle frasi intorno alle comunicazioni che, a nome del governo, farà alla Camera l’on. Facta – comunicazioni intorno alle quali, francamente non crediamo valga la pena di logorarsi in una ansiosa aspettativa – e mentre la cronaca delle varie provincie d’Italia è densa di avvenimenti tragici, di illegalità e di violenza – varrebbe la pena di prescindere dalle contingenze episodiche e di tentare, se fosse possibile nella passionalità del momento, di stabilire una linea della lotta politica di oggi: troveremmo subito, al di fuori di questa lotta, una folla enorme di spettatori, la gran massa degli italiani che subisce – passivamente – la tragicità dell’ora che l’Italia attraversa avendo a volta a volta delle oscillazioni, ora verso destra, quando per esempio i rossi proclamarono lo sciopero poiché disperavano di influire sullo svolgimento di una crisi ministeriale, ora nettamente verso sinistra quando i fascisti devastano, incendiano e ammazzano. Da che cosa derivano queste oscillazioni dello stato d’animo della maggioranza dei cittadini, degli spettatori? La risposta è facile: l’idea dello Stato, il dovere dello Stato è stato smarrito. Il nucleo più forte degli italiani che non appartiene a nessuna delle due parti che sono apertamente oggi in guerra civile è costituito dal Partito popolare italiano. D’Annunzio invitava l’altra sera a Milano i lavoratori d’Italia ad una più intima solidarietà con l’anima della nazione . Ma ci vien fatto di domandare – con spirito di obbiettività – non è forse la nazione che deve essere invitata ad una più intima solidarietà con sé stessa? Noi abbiamo invocato fino a ieri il ripristino della autorità dello Stato. Oggi crediamo che questa invocazione debba essere mutata: non è allo Stato che occorre più chiedere quella forza che una parte del paese coi suoi atti gli nega, è al paese invece che occorre chiedere di ricostruire nella coscienza dei suoi cittadini il concetto di Stato, di riedificare quello che le fazioni di lotta vanno distruggendo, di ritrovare tutta la sensibilità di organizzazione civile, vale a dire di organizzazione statale per ridare energia al nucleo centrale che lo deve rappresentare. Per questa opera i popolari sono in prima linea: essi sono le avanguardie della difesa dello Stato contro le fazioni. Ma la nostra azione non basta. Una parte equivoca degli altri gruppi vuole soffocare la nostra voce, nel paese il fragore delle armi sembra coprire le nostre parole di pace. Occorre intanto tornare a formare quelle coscienze delle istituzioni che tutti dovrebbero avere, a meno di non voler fare del sovversivismo, e che invece sembrano aver perduto specialmente coloro che delle istituzioni si dicono difensori. |
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| I. La nave in sosta – Camera e Paese – La grande stampa liberale – Vento di reazione – Il paese in crisi – La Camera segue il paese. Roma, 16. La Camera si è svuotata come un bastimento che dopo una rotta lunga e asfissiante abbia toccato un porto di sosta; coi passeggeri è sbarcata anche la ciurma, cioè i funzionari e gli addetti, dal sommo reggitore, il comm. Montalcini, fino al garzone del lift, e si è sbandato pure lo stormo chiassoso dei giornalisti che usa infestare (direbbe un mio collega autocritico) le corsie di Montecitorio. Fra i pochi rimasti sono venuto qui stamane a ripararmi dal caldo spaventoso e sto nel corridoio dei busti, fra le erme pensose, ad annotare quello che, riflettendo all’ultima crisi, mi pare utile venga ricordato ai miei pazienti lettori. I quali avranno ben compreso oramai che l’ultima crisi non fu una crisi come le altre, che non fu giuoco di partiti, se non per qualche isolata frazione, ma lotta gigantesca tra forze che, più che alla Camera, agiscono nel paese. Camera e paese, ecco due termini ch’è moda oramai di statuire antitetici. La grande stampa liberale e conservatrice dal «Mattino», al «Giornale d’Italia», al «Corriere della Sera», fanno da tempo una campagna denigratrice della Camera dei deputati, risparmiando invece il Senato nel quale oltre i senatori del «Corriere» e del «Giornale» tengono alto l’onore del Paese una serie di uomini illustri che tratto tratto con professorale sicurezza si levano a largire moniti e a sprecare profezie. Come i suoi giornali, così pensa la borghesia italiana del medesimo stampo, abituata oramai a trovare in quelle colonne la formula del suo scetticismo, delle sue preoccupazioni, delle sue avversioni e delle sue speranze. Il «Corriere» da Firenze in su e il «Giornale», il «Mattino», e la minore coorte da Firenze in giù vanno predicando già da parecchi mesi che la Camera fa una politica demagogica di tassazioni ingiuste, di spese improduttive, di leggi distruttive e non ricostruttive; che la colpa è dei popolari e delle democrazie, per concludere che la causa delle cause è il suffragio proporzionale. A smontare tali accuse non è bastato che i popolari abbiano rinnegato quasi tutta la politica finanziaria di Giolitti – Giolitti invocato e conclamato proprio dalla stessa borghesia come domatore dei socialisti! – non è bastato che affrontassero l’impopolarità presso le masse, votando imposte antipatiche pur di sanare il bilancio – pensate alla riduzione del deficit per il pane –; il «Corriere» ha continuato a scrivere che i popolari sono dei demagoghi; e a ribadire l’accusa, negli ultimi giorni il grande organo liberale ha aggiunto che i popolari impongono al Parlamento di occuparsi di leggi inutili, corrispondenti più a fisime teoriche che a possibilità pratiche; e dicendo così – badate – si riferiva alle leggi agrarie (latifondo) e alla legge scolastica! Fu specialmente la crisi che doveva servire di pretesto a nuovi accanimenti. Durante quelle giornate si sostennero le tesi più pazze, si lanciarono le proposte più inverosimili. Partendo dal presupposto, stabilito oramai come incontrovertibile, che il «paese» voleva la verità e la politica giusta e che la Camera si ostinava a volere il contrario, il «Giornale d’Italia» aperse le sue colonne ai suggeritori di colpi di stato e a ideatori di ferree dittature; e se altri giornali dello stesso colore non giunsero a tanto, lasciarono però capire che un colpettino anticostituzionale, il quale cambiasse il sistema del suffragio, otterrebbe il plauso del «paese». Disgraziatamente non c’è nazione al mondo in cui si dica tanto male del proprio Parlamento, come in Italia, onde la suddescritta campagna un qualche successo presso l’opinione pubblica, almeno per il momento, l’ha certo ottenuto. Eppure la verità è tutt’altra. Nonostante il congresso di Genova, la Camera aveva lavorato come mai in nessun altro periodo e per la prima volta, dopo 10 anni, si erano discussi, capitolo per capitolo, i bilanci ordinari e straordinari, si era votata, dopo quaranta sedute di faticosi dibattiti, la legge per la colonizzazione interna e per lo spezzettamento del latifondo, la più grave e la più complessa legge agraria che si sia deliberata nella nuova Italia, si era discussa ed elaborata in commissione la legge per la libertà scolastica, e le piccole leggi di provvedimenti amministrativi si erano sbrigate a centinaia. È d’uopo riconoscere che in giugno e in luglio i deputati, che vollero fare il loro dovere, furono legati a Montecitorio mattina e sera. La Camera dunque faticava, lavorava, produceva. È ben vero che la macchina funzionava con grandi sforzi, dovendo sempre tentare riparazioni al proprio meccanismo, arrugginito o sconquassato; ma codesto non è né difetto né colpa specifica della Camera italiana, che oramai, dopo la guerra, non v’è Stato in cui non si avverta che la rappresentanza elettiva democratica deve attraversare un periodo di adattamento e semplificazione per «mettersi al passo» della marcia degli avvenimenti. Ma la Camera italiana ha tentato e ritentato anche questo: basti ricordare l’ultima riforma delle commissioni permanenti . Ma il «paese» invece, proprio il paese era in crisi permanente. Alla Camera ne giungeva l’eco veridica o esagerata, ma sempre dolorosa, ogni giorno, dalle 3 alle 4, l’ora degli sfoghi a traverso le interrogazioni. Oggi era una Lega incendiata, domani un municipio occupato, domani l’altro uno scontro a rivoltellate. Poi queste nuove che martellavano giorno per giorno il cervello dei deputati ingrossarono, crebbero minacciosamente. Si proclamarono «mobilitazioni», si organizzarono parate militari, si operò e si scrisse secondo lo stile e l’uso di guerra. E il governo che fa? concludeva ogni interrogazione. Fu così che dal paese entrò nella Camera la crisi, la sensazione cioè che la situazione fosse insostenibile, che bisognasse cambiare. Le agitazioni del paese creavano i turbamenti della Camera e preparavano la crisi ministeriale che fu quant’altra mai un corollario della crisi del paese. Observer. |
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| 41921-1925
| Roma, 18. Sono state pubblicate nei giorni scorsi notizie del tutto inesatte sul movimento dei gruppi di democrazia, e qualche giornale ha perfino pubblicato dei nomi di deputati quali oratori in varie città d’Italia, senza che nulla di deciso fosse stato stabilito nella riunione che ha avuto luogo in questi giorni dai rappresentanti dei quattro gruppi di democrazia e del gruppo riformista. Le riunioni che si sono susseguite nei giorni scorsi hanno avuto lo scopo di dare seguito a quella unione dei cinque gruppi – democratici e riformista – unione iniziata già alla Camera con la nota dichiarazione, concertata preventivamente dai cinque gruppi stessi, dell’on. Cocco Ortu. Sulla base annunciata dal discorso del decano della Camera si procederà alla organizzazione vera e propria della democrazia. Ieri mattina ha avuto luogo una nuova riunione alla quale hanno partecipato gli on. Cocco Ortu e Masciantonio della democrazia senza aggettivi, Guarino Amella e D’Alessio per i demo-sociali, Cuomo e Presciutti per la democrazia italiana, Torre per la democrazia liberale. Mancavano i riformisti. È stato deciso di inviare una circolare ai componenti dei gruppi invitandoli a dare esplicita adesione alla federazione democratica. Raggiunto l’accordo avrebbe luogo a Montecitorio una riunione plenaria cui interverrebbero anche i riformisti ed un gran convegno avrebbe luogo verso la metà di settembre a Napoli. L’oratore che sarà designato a parlare a Napoli esprimerebbe il pensiero comune a tutte le democrazie e sull’ordine economico sociale e politico. Probabilmente dopo il discorso verrebbe lanciato un manifesto al paese firmato da tutti i deputati dei cinque gruppi. La federazione dunque dovrebbe essere proclamata in una riunione da tenersi a Napoli nella prima metà di settembre: in quella occasione l’on. Cocco Ortu esporrebbe il programma delle democrazie e le finalità della federazione. Un po’ in ritardo la democrazia cerca di riprendere posto come partito organizzato nel paese. Nel 1862 si ricorda, negli anni immediatamente successivi alla caduta della destra, quando la sinistra dovette assumersi il compito di guidare ed orientare l’Italia, un grande convegno democratico ebbe luogo a Napoli simile a quello di cui oggi si discorre. Erano gli anni della pentarchia: ed in un grande gabinetto al quale parteciparono fra gli altri Cairoli , Zanardelli, Crispi , Nicotera , Baccarini, Cocco Ortu e molti altri furono riaffermate le idealità del partito e fu rialzata dinnanzi al paese la bandiera della democrazia. Da decenni poi i gruppi democratici hanno circoscritto la loro azione nel campo parlamentare. Oggi svalutati nel paese cercano di svolgere un’opera di propaganda nelle diverse varie regioni e la federazione parlamentare dovrebbe essere accompagnata da una intesa federale delle varie associazioni della democrazia. «Non è possibile – diceva a Montecitorio ai giornalisti un autorevole deputato democratico – che la democrazia continui a restare frantumata in mezzo a tre grandi partiti disciplinati come il socialista, il popolare ed il fascista. La sensazione della necessità di unirsi ci ha raccolti intorno all’on. Cocco Ortu che a nome di tutti i gruppi della democrazia ha pronunciato le sue applauditissime dichiarazioni dopo l’ultima crisi sulle comunicazioni del governo. Questo movimento è ora un grande sforzo comune con cui ci si adopera per ottenere una disciplina comune dei gruppi, disciplina che fu già tentata senza però un buon risultato. Ma il federare non significa distruggere le singole autonomie. Raccogliamoci in un programma comune come le necessità del momento esigono, un programma minimo di accordo e di battaglia. Questo accrescerà le forze ed il valore dei singoli. Vogliamo almeno sperarlo. Bisogna d’altronde che la democrazia si adoperi ad essere e ad affermarsi più una funzione delle cose, che delle persone». Sin qui l’autorevole deputato democratico e noi ci auguriamo che alle parole rispondano i fatti. Solo quando la democrazia cesserà di esercitare la sua funzione subordinata alle esigenze parlamentari personalistiche potrà aversi una chiarificazione della nostra politica; e ciò anche per un maggior prestigio del Parlamento e per gli interessi della nazione. |
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| 41921-1925
| II. L’atmosfera in cui scoppiò la crisi – Una valvola di sicurezza – La coalizione di Destra – I fascisti nella maggioranza – La compagine contro i popolari – L’equivoco fascista – I benefici della crisi – Le sorti del partito socialista – Condizioni rivoluzionarie. Roma, 19. La situazione, abbiamo detto, era ritenuta insostenibile; tuttavia i popolari non fecero nulla per farla precipitare. Checché si sia scritto ed affermato, la verità è che i popolari tentarono fino all’ultimo di evitare lo scoppio della crisi; ossia esperimentarono tutte le vie per ristabilire la situazione senza cambiare il ministero. «Ristabilire la situazione» significa dare al paese la sensazione che le azioni militari, e le violenze del fascismo avrebbero incontrato di qui innanzi un governo disposto a fronteggiarle coll’applicazione della legge. Né più né meno; anche proprio durante la seduta di quel sabato, alla fine della quale doveva scoppiare la bomba di Cremona, i capi del gruppo popolare, ritirati nella sala del governo, discutevano col sottosegretario all’Interno e col direttore generale di P.S. comm. Vigliani , sui mezzi legali per ricostituire l’autorità dello Stato. |
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| 41921-1925
| La letteratura che fiorisce intorno al partito popolare si arricchisce ogni giorno di un nuovo capitolo. Al tempo della crisi era la stampa nazionale fascista che strepitava per la invadenza dei popolari, che facevano e disfacevano i ministeri, ricattavano il Governo, volevano perfino imporre un dato ordine ai lavori parlamentari. Con la stessa allegra disinvoltura pochi giorni dopo il «Corriere della Sera», commentando una lettera dell’avv. Degli Occhi, diceva che in sostanza tutta l’azione pratica del partito e suo gruppo parlamentare segnava un bilancio spaventosamente passivo perché i popolari non erano stati in grado di varare nemmeno quell’esame di Stato per cui tanto tempo si volse… Oggi è la «Giustizia», l’organo dei collaborazionisti turatiani, che dedicando il suo articolo editoriale al nostro partito, scopre un’altra faccia del poliedro popolare, il machiavellismo per cui il partito può ondeggiare da sinistra a destra secondo che spira il vento e il favore elettorale. Conveniamo che in mezzo alla canea che abbaia addosso al partito popolare, la critica del giornale collaborazionista, pur inspirata da un senso di partigianeria e quindi scevra di serenità, è una delle poche che, per attaccarci, non sente alcuna necessità di ricorrere alle sguaiate melensaggini così care a certa stampa liberale. L’organo della frazione turatiana vuol esaminare la condotta dei popolari soprattutto in seguito alla crisi e dopo lo sciopero. Prima della crisi i popolari volgevano a sinistra, e solo per questo la crisi fu possibile; ma a sciopero rientrato essi hanno voltato precipitosamente le calcagna a destra. Acrobatismi che non possono durare perché finiranno col danneggiare lo stesso partito, al quale non giova l’aver assunto una scaltra posizione di centro, assai comoda apparentemente per far parte di tutte le possibili combinazioni. Una ripresa anticlericale, ammonisce concludendo la «Giustizia», è sempre un evento da preventivarsi in Italia e potrebbe significare che le fortune del popolarismo hanno determinato l’inevitabile tracollo. Sostanzialmente dunque il punto centrale della critica è che i popolari avrebbero fatto delle disinvolte piroette, andando dall’estrema sinistra all’estrema destra. Ma accanto a questi rilievi c’è un assai trasparente contorno che spiega molte cose, che ci apre la psicologia dello scrittore riformista. I collaborazionisti sono premuti da una parte dall’insuccesso della loro tattica, tardiva e meschina, e dall’altra dalla polemica serratiana che li stringe sempre più in un cerchio possente, che potrebbe essere irreparabilmente saldato dal prossimo congresso. E allora, nell’osservare la crisi del partito socialista, lo scrittore riformista sembra colpito oltre che da malcontenti anche da un evidente senso di gelosia. Ai riformisti non garba che il partito popolare eserciti una funzione di centro, quella che Don Sturzo nella sua intervista definisce funzione di centralizzazione dei problemi e di polarizzazione delle forze. Gelosi per la fortuna che al nostro partito è toccata, per i successi ottenuti, i riformisti non sanno vedere nel compito storico assegnato ai popolari altro che un meschino calcolo egoistico. Scrive «La Giustizia»: «Che la proporzionale necessiti, come necessiterà sempre più, in governi di coalizione, è un conto. Ma è un altro conto il precostituirsi in tale variopinta loggia da doverne sempre far parte; ciò ha l’aspetto di un abuso; più sembra implicare il preordinato sfruttamento di un concetto troppo materiale, troppo meccanico della proporzionale, che ne ferisce l’essenza democratica». I popolari dunque sarebbero antidemocratici perché hanno concetto falso, meccanico del principio proporzionalistico e commettono un abuso col pretendere di fare parte di ogni governo. Si direbbe che il foglio riformista voglia mettere le mani avanti per precludere una eventuale partecipazione dei popolari ad un futuro governo. La verità è che i popolari hanno dato prova di coscienza delle propria responsabilità non sottraendosi agli oneri del potere e che, se la Camera eletta colla proporzionale esige dei ministeri di coalizione, non agisce contro il principio proporzionale un gruppo che, forte di più di cento deputati, ne fa parte. E si potrebbe anche chiedere ai collaborazionisti se il posto di centro, al quale il partito è stato destinato dalla sua stessa composizione e dalle finalità programmatiche che si propone al quale non potrebbe sottrarsi senza perdere la sua fisionomia, sia realmente così vantaggioso anche agli effetti di quella bottega elettorale che è uno dei tanti e abusati luoghi comuni che si adoperano contro i popolari, o se non sarebbe talvolta più comodo e più redditizio quel posto di opposizione, al quale i socialisti, per esempio, devono tutte le loro fortune di piazza. La gelosia spicca più aperta là dove «La Giustizia» soggiunge: «Certo la fortuna del partito popolare comincia a sembrare troppo insolente a molti e guadagnata con mezzi troppo facili, senza sacrifizi. Molti sono che non si peritano a considerare addirittura tale fortuna un “sopraprofitto di guerra” non tassato». È il superficialismo di chi non ha mai capito l’origine del partito popolare, i suoi precedenti di azione e di programma, il movimento svolto per decenni dai cattolici italiani, e che non sa darsi pace come questo giovane e fresco partito abbia trovato tanta rispondenza nel paese. La mentalità riformista, socialista è la stessa mentalità dei liberali a cui non sembra vero che i popolari abbiano a essere così compatti e così vigorosi. Tutto ciò è posto in fondo all’articolo e ne spiega il contenuto, il quale si riassume poi in questi periodi: «D’accordo che è lecito a ogni partito di misurare i suoi postulati alla possibilità concreta delle circostanze, e quindi ora di insistere più su di un punto ed ora su di un altro. Ma se un programma non è una veste di Arlecchino, non è possibile che lo spirito unico che lo deve animare consenta i salti dalla Estrema Sinistra alla Estrema Destra. Vi è in ciò qualche cosa di ripugnante nella sua insincerità che colpisce tutti. Infatti non sembra che le genuflessioni a destra abbiano disarmato quella parte, né che l’opinione pubblica più imparziale sia rimasta edificata». I popolari sarebbero passati da un estremo all’altro. Sono proprio i socialisti che avrebbero diritto di farci un rimprovero di questo genere, essi che sono passati dalla propaganda sbracata, esaltata, ubbriacatrice alla propaganda pacifica, temperata, che hanno riempito la testa delle masse di tanti errori e oggi dicono tutto il contrario? I popolari non hanno per nulla modificato il loro programma; sono sempre stati contro le violenze di ogni genere, quelle di ieri e quelle di oggi; sono stati contro le riforme demagogiche della finanza giolittiana di allegra memoria, i consigli di fabbrica con intenti comunistici e tutto il miracolismo parolaio che i collaborazionisti mostrano di aver dimenticato con troppa disinvoltura. Il giornale riformista riconosce, bontà sua, che un partito può ora insistere su un punto ora sull’altro del suo programma, a seconda delle contingenze e delle necessità. E che altro mai ha fatto il partito popolare reclamando l’esame di Stato, la regolamentazione dei contratti agricoli e la legge sul latifondo? Il partito popolare bisogna osservarlo nella sua azione complessiva, non già nelle iniziative di qualcuno dei suoi soci. Ora complessivamente il partito ha tenuto la strada di mezzo, la strada maestra, mantenendo fede al suo programma ed evitando le esagerazioni demagogiche. È un puro artificio polemico il dire che i popolari sono passati all’estrema destra, quando invece essi hanno propugnato una soluzione della recente crisi secondo la logica del voto della Camera e non hanno ripiegato un lembo della loro bandiera. Ma un partito non vive nel mondo delle astrazioni e se vuole essere realistico non può chiudere gli occhi davanti al succedersi delle contingenze ed al loro variare. Ciò spiega come i popolari, pure mantenendo intatto il proprio programma, cerchino di valorizzare quegli elementi e quei postulati che, meglio rispondendo alla psicologia di un dato momento, hanno migliore probabilità di riuscita. Ciò non è davvero insincerità, non è genuflettere davanti agli idoli del giorno. Ciò è saggezza e previdenza, è realismo impregnato di idealità. |
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| La situazione nella quale attualmente si dibatte la Repubblica austriaca è determinata da un complesso di cause che non si possono scindere tra di loro per il nesso che lega i vari fattori interni, esteri, politici ed economici, dai quali dipende la crisi denunziata dal grido di allarme del cancelliere Seipel. Il ribasso persistente della corona ha provocato senza alcuna sosta una corsa vertiginosa al rialzo dei generi di prima necessità, che ha reso la vita del paese ognora più difficile. Naturalmente la popolazione ed i pubblici poteri hanno subito gli effetti di questa svalutazione del cambio che provoca un nervosismo crescente e rende sempre più incerto il funzionamento dell’Austria. Disorientazione, mancanza di programma preciso, diminuzione della fiducia nella vitalità dello Stato e minaccia di annessione alla Germania, hanno caratterizzato in questi ultimi mesi le manifestazioni della politica austriaca. Tutti i governi hanno compiuto l’errore di basarsi sulla speranza dei crediti esteri, sul terreno incerto dei rapporti delle diverse commissioni. Erano questi dei fondamenti troppo instabili per ricostruire un edificio. Gli scarsi anticipi sui crediti ottenuti sono appena bastati per chiudere le falle della nave pericolante. Il cancelliere Seipel, pur non avendo nel suo Gabinetto dei collaboratori troppo sicuri, è tuttavia stato il primo che abbia cercato di trarre delle conseguenze pratiche dalla situazione esistente e ha tentato dei provvedimenti energici che permettessero all’Austria di risollevarsi con le proprie forze. Egli ha elaborato un nuovo piano finanziario ed istituito un commissario per le economie, ha progettato la creazione di una banca di emissione destinata a prendere a suo carico i biglietti in circolazione, garantendone la copertura per porre un termine alla inflazione fiduciaria. Secondo il suo programma l’aumento delle entrate dello Stato deve essere accompagnato da una riduzione delle spese; si è proposto di procedere ad una liquidazione del numero dei funzionari e degli uffici. Le imprese che impongono dei gravami allo Stato debbono passare nelle mani del capitale privato. In una parola si è avuta per la prima volta la sensazione che l’Austria aveva intrapreso un lavoro positivo e che la Repubblica aveva un piano di vero risanamento, per la bella energia del cancelliere Seipel. Ma il problema non è solo di indole interna, perché l’Austria è senza dubbio in questo momento una vittima della delittuosa lentezza con la quale le potenze si sono sottratte ai loro impegni. Qualche tempo prima della conferenza di Londra, il governo inglese aveva chiesto che la riunione non si dovesse tenere se non a patto che in essa si parlasse dell’Austria. Ma all’avvicinarsi della conferenza, si deliberò invece di non accordare più alcun soccorso finanziario al governo austriaco. Nel frattempo un piano di risanamento era stato elaborato a Vienna, ed il governo austriaco si spingeva energicamente sulla via della attuazione. Dovendosi creare una nuova banca di emissione per garantire un prestito all’estero, l’Austria domandava alla Commissione delle riparazioni di liberare alcune sue attività e cioè le foreste, i demanii e le saline, ed una parte delle entrate doganali che dovevano servire di garanzia per le operazioni finanziarie della nuova banca. L’eccedente delle dogane e dei tabacchi doveva garantire il prestito estero. La Commissione delle riparazioni liberò formalmente i pegni necessari alla costituzione della Banca e non restava altro che organizzare il prestito. I finanzieri stranieri riconoscevano che le garanzie proposte erano sufficienti ma essi si domandavano se la situazione politica dell’Austria fosse stabile e per assicurare completamente i futuri sottoscrittori, proponevano che i governi dell’Intesa garantissero la maggior parte del prestito. Queste garanzie dovevano funzionare nel caso in cui i pegni austriaci divenissero insufficienti per cause impreviste. Il prestito avrebbe dovuto raggiungere dai 10 ai 15 milioni di lire sterline e nel caso in cui le garanzie austriache fossero divenute insufficienti, il governo inglese, francese ed italiano avrebbero fatto una garanzia supplementare, fino alla concorrenza dell’80 per cento. Il peso di queste garanzie avrebbe gravato per la metà sull’Inghilterra e per due quarti sulla Francia e sull’Italia. Cioè l’Inghilterra avrebbe garantito sei milioni di lire, la Francia e l’Italia tre milioni per ciascuna. Nel pomeriggio del 14 agosto quando la conferenza di Londra stava per chiudersi, Lloyd George mise finalmente sul tappeto la questione austriaca. Nella discussione, molto breve, che s’intavolò, si riconobbe che l’Italia aveva per la sua stessa posizione geografica un interesse speciale al regolamento della questione austriaca. L’onorevole Schanzer, prendendo atto di questa constatazione degli alleati, dichiarò che l’Italia intendeva però sempre di agire di concerto con Londra e Parigi, ma non si venne a nessuna deliberazione, per ciò che riguardava gli aiuti finanziari. L’unica deliberazione di Londra fu quella di invitare la Società delle Nazioni a redigere d’urgenza un rapporto sulla situazione austriaca. Questo risultato negativo del convegno alleato ebbe una ripercussione talmente catastrofica a Vienna da decidere il cancelliere Seipel a intraprendere immediatamente quel viaggio che oggi ha il suo epilogo nei colloqui di Verona. Il cancelliere austriaco ha domandato a Praga aiuti economici; ha prospettato a Berlino la situazione anche da un punto di vista politico, e si è rivolto ora all’Italia come ad un paese nel quale esso ripose una fondata fiducia per la lealtà degli intendimenti che inspirano la sua azione. Per risolver il problema finanziario, l’Austria domanda il pagamento dei prestiti ad essa accordati dall’Inghilterra dalla Francia e dall’Italia. Noi siamo chiamati a versare secondo gli impegni assunti 70 milioni di lire. Per risolvere il problema finanziario che minaccia di sconvolgere la terra danubiana è necessario considerare la inevitabilità di esso e la opportunità di agire prima che gli eventi rendano inutile il soccorso invocato. Per il problema finanziario nei riguardi tra Roma e Vienna, il problema stesso si presenta in termini molto precisi. Può l’onorevole Paratore mettere a disposizione le somme richieste od una parte notevole di esse? Dalla risposta che sarà data a questa domanda, dipende in gran parte l’attivo dei colloqui di Verona, nei quali certamente potranno essere escogitati anche altri espedienti economici che possano mitigare la crisi austriaca. Ma in ogni caso non si possono nutrire soverchie illusioni circa la possibilità di un risanamento finanziario dell’Austria, senza sacrifici adeguati da parte di chi è interessato immediatamente alla sua conservazione come entità statale indipendente ed autonoma. L’Italia ha il dovere di contribuire, invitando però sovratutto anche l’Inghilterra, che si è impegnata per due milioni e mezzo di sterline, a completare d’urgenza i versamenti che essa per le sue risorse finanziarie può compiere senza preoccupazioni soverchie. Risanare l’Austria significa convalidare lo statuto territoriale sancito dai trattati; significa in una parola rendere vitale la pace firmata dagli Alleati. E solo ha questa mira la politica dell’Italia, la quale, come ha affermato tre giorni fa a Belgrado, vuole sinceramente e fortemente il rispetto e la integrità del trattato di San Germano. Cadono quindi anche tutte le fantastiche voci di una unione doganale e di una annessione dell’Austria all’Italia. Questi progetti largamente annunciati dalla stampa europea non sono stati mai presentati da Vienna; l’Italia li ignora e non può associarsi ad alcuna idea che contrasti con il principio della indipendenza statale della Repubblica austriaca, da qualunque parte essa sia minacciata. Non può consentire a un assorbimento dell’Austria da parte della Piccola Intesa, perché equivarrebbe alla costituzione di una Federazione danubiana per noi inaccettabile, né ad un qualsiasi altro mutamento che ledesse la sua entità autonoma. Ma volendo l’indipendenza di questo Stato, ne dobbiamo volere contemporaneamente la sua attività che potrà esserle assicurata con una riorganizzazione interna della sua forza produttiva; e con la attuazione della convenzione di Porto Rose, destinata a riattivare la normalità delle comunicazioni con i paesi vicini e con una contribuzione integrale da parte di tutti gli alleati agli aiuti indispensabili a porre in essere il funzionamento del programma concepito da Seipel. |
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| Abbiamo pubblicato ieri il manifesto della destra socialista. Esso, com’era prevedibile, ha provocati molti e svariati commenti. La replica dell’«Avanti»! L’Avanti! ha facile giuoco per replicare ai «compagni» di destra, chiamandoli corresponsabili di quella «gloriosa intransigenza» massimalista che ora sconfessano. «Con esso (manifesto) non si è in polemica col massimalismo, si è in polemica con lo stesso manifesto della frazione di concentrazione stilato a Reggio Emilia e nel quale – non vogliamo credere per opportunismo, per meschina concessione al momento d’allora – si ammetteva la dittatura proletaria – come mezzo estremo e transitorio – e il ricorso all’uso della violenza – come necessità storica del movimento rivoluzionario. I collaborazionisti – detti anche concentrazionisti – si sono dati alla compilazione di programmi su programmi. Ne fanno uno ad ogni stagione. Ed in ognuno – che è sempre molto o poco, diverso dall’altro a seconda delle circostanze e delle necessità – insistono sul fatto che non hanno mai mutato pensiero, che hanno sempre parlato così. Basti notare che essi – che a Bologna non vollero contarsi e si rifugiarono sotto le grandi ali di un ordine del giorno Lazzari, detto per irrisione massimalista-unitario, che a Livorno erano appena ottomila – oggi si vantano maggioranza, o quasi, nel Partito, per comprendere come questo allegro composito di uomini “fermi nel dondolare” – la definizione la togliamo a Turati – abbia veramente ragione di gettare alle masse un manifesto intitolato: “Ai socialisti fedeli al socialismo”. Fedeli? Lo vedremo, senza alcun dubbio, nei prossimi tempi; ma intanto, a giudicare di tanta fedeltà basti considerare che una parte degli attuali collaborazionisti – i più seri, quelli che possono vantarsi di una certa quale coerenza – sono coloro che dalla dichiarazione-manifesto di Reggio Emilia (13 gennaio 1921) in cui si concludeva con la necessità di “fare sforzi per avvicinarci al periodo di azione rivoluzionaria più intensa e più efficace, in senso socialista, attesa e desiderata da tutti”, sono giunti all’attuale programma, meschina rimasticatura di luoghi comuni democratici, senza senso comune per un socialista. L’altra parte, la maggioranza, è composta di coloro che, nel 1919, accusavano noi di soverchio “legalitarismo”, ci credevano non sufficientemente bollenti per la causa della rivoluzione, inalberavano la falce ed il martello – soprattutto in periodo elettorale – e si presentavano alle folle nella più accesa veste di bolscevichi. Sono costoro i fedeli al socialismo. Noi siamo gli infedeli!… E l’Avanti! finisce col pubblicare le mozioni unitarie del 1919 e del 1920, da cui risulta che allora la “dittatura proletaria” era nel programma anche dei destri!». Il fascismo sarà abbastanza saggio per inibirsi di stravincere L’on. Mussolini dal canto suo esaminando ieri il manifesto turatiano, fra l’altro scrive: «I destini del socialismo italiano precipitano: fra qualche settimana due partiti, entrambi socialisti, si contenderanno il privilegio di rappresentare il vero, il puro, l’autentico socialismo. Noi ci rifiutiamo energicamente di intervenire per giudicare di questa autenticità. Sorge con questo manifesto il nuovo partito. Esso dispone di discrete forze numeriche. Dei 55-60 mila tesserati del PUS [Partito unitario socialista], almeno un terzo seguiranno Turati. Forze giornalistiche non gli mancano. È ormai evidente che Giustizia, Lavoro, Lavoratore, la stessa Azione di Roma, rappresenteranno la stampa quotidiana del nuovo partito. Quanto alle forze parlamentari, metà almeno dei deputati sottoscrivono il manifesto riformista. È ovvio che tutte le forze della cooperazione, giudicate da Vergnanini , si appoggeranno ai destri del socialismo. Le forze sindacali della Confederazione si sottrarranno coll’autonomia, alla tutela di tutti i partiti socialisti, ma nessun dubbio che praticamente l’attuale stato maggiore confederale solidarizza e solidarizzerà colla social-democrazia italiana. Non è da escludere che, analogamente a quanto è accaduto in Francia, non si verifichi una scissione nella Confederazione generale del lavoro. Se, per ipotesi, i comunisti riuscissero, domani, ad impadronirsi della Confederazione i seguaci di D’Aragona e soci resterebbero militi disciplinati della minoranza o non preferirebbero andarsene per piantar casa nuova? Dal punto di vista della politica generale è chiaro che la scissione del PUS non è un altro motivo per affrettare la consultazione del Paese. La scissione stessa, indebolendo la massa sovversiva e sottraendo elementi alla speculazione degli estremisti, è un fattore automatico di pacificazione. Se i socialisti rinunciano ai propositi di controffensiva violenta, se riconoscono nel fascismo una forza e una idea che ha incontrastato diritto di cittadinanza politica nella Nazione, la detente degli spirti si produrrà spontaneamente e la guerriglia civile sarà giunta al suo epilogo. Il fascismo che ha vinto, sarà abbastanza saggio per inibirsi di stravincere». L’on. Mussolini, però, dovrà riconoscere, che per l’autunno prossimo la consultazione del Paese non può essere matura, perché il quadro che egli fa è indubbiamente vicino alla realtà, di domani. Quindi se mai di elezioni si parlerà l’anno venturo: e se intanto si creasse in Italia una atmosfera di pace, nessuno oserebbe più opporsi anche alla consultazione elettorale. La quale se fatta colla scheda, invece che col «santo manganello», potrebbe anche riservare delle sorprese. Il 15 maggio 1921 dovrebbe insegnare! Da una dittatura all’altra Questo atteggiamento dell’on. Mussolini, disposto a non stravincere, contrasta però con quello che ha detto fino all’altro ieri, sempre. Difatti telegrafò ai fascisti meridionali che «tutte le vie conducono a Roma» e in Liguria aggiunse che scopo supremo del fascismo è quello di «governare l’Italia». Ora se il fascismo nelle elezioni avesse ad ottenere la maggioranza, nessuno gli negherebbe questo diritto. Ma diceva giorni fa l’on. Giuriati ai fascisti di Venezia ch’egli è sicuro di interpretare il pensiero di Mussolini dicendo che il fascismo aspira alla «dittatura militare». Nel qual caso cadremmo da una dittatura all’altra e Mussolini pretenderebbe di «stravincere», contrariamente a quello che oggi assicura. Ieri Italo Chitarro sulla Tribuna, trattando De Monarchia – cioè della risposta condizionata di Mussolini in fatto del mantenimento o no dei Savoia in caso dell’avvento fascista – segnalava questo pericolo di cadere in questa nuova dittatura: «Tutti hanno il senso della necessità d’una più vigorosa gestione delle funzioni dello Stato in questo acuto periodo del travaglio in liquidazione della grande crisi della guerra, ma non si vede che il mezzo per raggiungere questo obiettivo, per avviare tutto il sistema della vita nazionale a ordinarsi nell’equilibrio delle sue forze ricostruttive, possa consistere nel prepotere assoluto d’un partito su tutti gli altri; ma non si vede che una dittatura fascista, la quale per affermasi metta in giuoco le istituzioni, possa valere più d’un’altra qualsiasi dittatura. L’illusione che il fine diverso e magnanimo possa giustificare il mezzo, s’identifica nel suo fondo semplicista e catastrofico con quella che animava i propositi della tramontata dittatura del proletariato. Il fascismo rivendica a sé d’avere troncata l’egemonia del partito socialista sulla Nazione, e giustifica la sua violenza anche contro lo Stato, perché esso intende colpire anche nello Stato, nelle istituzioni, il socialismo che vi è dentro. Così, per questa opera di reazione che gli sembra indispensabile alla salute del Paese, vuole per sé l’egemonia tolta al socialismo, vuole per sé lo Stato, e s’impegna ogni giorno, sia pure in spunti di prosa giornalistica del suo leader, a segnare obiettivi che è facilissimo enunciare, ma che non son d’altrettanta facile conquista, anche quando s’abbia in mano, come preda, l’organismo stesso dello Stato. “Governare l’Italia” non è un programma: ne è il presupposto e l’applicazione: due condizioni che diventano concrete quando il programma ha messo sostanza ed ha segnato i propri limiti». Sicuro. Governare l’Italia, va bene. Ma come? È qui – si può dire al fascismo – che «si parrà la sua nobilitate!». |
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| Nel suo numero odierno, la Libertà ospita una lettera dell’on. Degasperi – rimessale nel pomeriggio di sabato – circa gli appunti a lui rivolti per la questione dell’Avisio, e la fa seguire da un sufficientemente lungo commento. Riproduciamo la lettera dell’on. Degasperi, avvertendo che questi è forzatamente assente da Trento, e replicherà appena di ritorno. Ecco la lettera: «Ortisei di Gardena, 31. Egregio Direttore, In un articolo pubblicato dalla Libertà di stamane leggo il seguente inciso che mi riguarda personalmente: “È vero sì o no che l’on. Degasperi capo del P. P. e direttore del Nuovo Trentino sollecitò dal ministro Bonomi, nel momento in cui lo stesso stava per lasciare il potere, ad inviare al locale commissariato generale civile il parere favorevole del consiglio superiore delle acquea al progetto di deviazione dell’Avisio presentato dalla Ste? È vero sì o no che l’on. Degasperi per questo suo intervento disinteressato ebbe a vantarsene?”. Poiché queste domande hanno, nel contesto di tutto l’articolo il significato di capi d’accusa e l’ultima il sapore di un’insinuazione offensiva, non dubito ch’Ella vorrà accogliere, in risposta, queste mie brevi dichiarazioni. 1. Fino a tanto che per la concessione dell’Avisio erano in discussione i vari progetti, non me ne occupai affatto né in favore dell’uno né a sfavore dell’altro. Quando però il Consiglio superiore delle acque ebbe dato il suo parere sulla bontà tecnica dei progetti e il Ministero dei LL. PP. tratteneva questo parere nei suoi scaffali, impedendo per settimane e mesi che venisse trasmesso alle autorità politiche regionali e locali del Trentino le quali sole in base al noto decreto, hanno diritto di deliberare sulle concessioni, allora in seguito a ripetute insistenze dei sindaci di tutta la valle di Fiemme, intervenni presso il Ministro dei LL. PP. del tempo, perché l’ostruzionismo del Ministero cessasse e la trattativa potesse avere il suo corso legale. Ciò facendo, credetti agire nell’interesse della regione, perché se si voleva finalmente passare dalla parole ai fatti, conveniva pur definire il problema delle concessioni, e iniziare i finanziamenti e le costruzioni, e in secondo luogo perché i sistemi antilegali e ostruzionistici di Roma miravano, tanto nel caso delle Giudicarie come in quello di Fiemme, a rendere in pratica nulle le disposizioni vigenti per cui nelle Nuove Provincie viene riservato alle autorità locali un influsso decisivo sulle concessioni di forze idrauliche. Inutile ricordarle che anche la Commissione consultiva regionale s’era espressa in tale senso. Ho notato che intervenni per le insistenze dei comuni di Fiemme, ed è la pura verità. Aggiungo però con tutta franchezza che mi sarei creduto in dovere d’intervenire anche se fossi stato invitato a farlo da società industriali trentine o non trentine, perché penso che anch’esse abbiamo diritto d’ottenere che l’autorità deliberi e decida e che non faccia ostruzione, e poi perché, in questa tristezza di tempi, penso che un deputato trentino debba promuovere quanto può il risorgimento industriale della propria regione e dirsi lieto che Bresciani, Milanesi o Romani mettano a contributo il proprio danaro (magari a traverso il Banco di Roma) o la propria esperienza industriale (magari a traverso l’ingegno d’un Magnocavallo), per lo sfruttamento delle nostre forze naturali. Con ciò, egregio direttore, mi pare d’aver risposto esaurientemente alle sue domande. C’è ancora quell’ironia del disinteressato che giustificherebbe una domanda da parte mia. Si intende dire ch’io in tale faccenda abbia potuto cercare o trovare un lucro personale? Ritengo di no perch’Ella sa bene ch’io non fo’ parte in alcuna maniera del consiglio d’amministrazione della Ste, nella quale, se ben ricordo, per quanto riguarda il Trentino, sono rappresentati più i liberali che i popolari. Immagino piuttosto che Ella abbia pensato a miei rapporti colla Banca Cattolica. Ebbene le dirò che non faccio parte nemmeno della Banca Cattolica, ma aggiungerò che credo di non sbagliarmi ascrivendo a merito della B. C. d’aver contribuito alla costituzione di una società la quale nel Trentino e nell’Alto Adige ha assunto l’onere d’importanti servizi di pubblico interesse. Ringraziando, godo segnarmi Suo Dev. A. Degasperi». |
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| Legislazione tumultuaria. – Politica Credaro, Salata o Mosconi, ma non politica di Governo. – Assenza del Ministero Facta. – La questione linguistica e quella amministrativa. – Gli organi per la sistemazione delle Nuove Province. – Ultimo termine per la loro prova. Il decreto legge Corbino, i provvedimenti deliberati e poi sospesi, dell’autorità ecclesiastica circa una nuova e provvisoria distrettuazione delle diocesi di Trento e Bressanone, la forma e il carattere eccezionale del recentissimo decreto Credaro che regola parte del problema linguistico dell’Alto Adige «per ragioni d’ordine pubblico» sono tutti fatti politici i quali comprovano che nella politica del Governo in confronto dei cittadini italiani di lingua tedesca manca qualsiasi linea unitaria e direttiva. Non intendiamo oggi entrare nel merito della questione né lumeggiare le disposizioni prese dal punto di vista della legislazione vigente. Specie ques’ultimo esame ci parrebbe superfluo, quando è anche troppo chiaro che tutti i provvedimenti presi emanano non da un programma politico amministrativo del Governo, ma dal presentarsi volta a volta di stati di necessità ai quali si fa fronte con espedienti più o meno duraturi e – de lege lata – più o meno giustificabili, e tuttavia, politicamente, forse inevitabili. È ora però di ripetere quello che abbiamo rilevato invano altre volte: il governo centrale deve avere un programma per governare l’Alto Adige ed in genere i territori d’altra lingua e questo programma deve sistematicamente attuare. Sembra strano, sembra assurdo che si debba reclamare, a quattr’anni dall’annessione, che il Governo sappia e dica quello che vuol fare in Alto Adige; ma purtroppo, quando si consideri lo stato di convulsione in cui, perdurando il primo periodo postbellico, si dibatte ancora la politica italiana, l’assurdo appare meno lontano dalla logica delle possibilità. I governi si sono succeduti rapidamente, assillati, travagliati, compulsi da avvenimenti interni ed esteri di gravità straordinaria: dalla conferenza di Parigi al trattato di Rapallo, dalla questione di Fiume all’occupazione delle fabbriche, dalla minacciata rivoluzione bolscevica alla logorante e sanguinosa guerriglia civile fascista e comunista. In verità, quando nonostante i più disperati tentativi non sembrava per lungo tempo possibile liquidare, senza il cannone, l’impresa di Fiume e sul Carnaro si stavano di fronte eserciti fratelli, gli uni contro gli altri armati, la situazione al confine alpino, malgrado le verbali ostilità del «Deutscher Verband», potè sembrare al paragone, una situazione ideale. E quando tutto il resto d’Italia era in fiamme per l’occupazione delle fabbriche e gli atti prerivoluzionari che l’accompagnarono, quando in tutta l’Alta Italia imperversava in città e in campagna il terrore rosso, agli uomini di stato e ai parlamentari in villeggiatura l’Alto Adige dovette apparire come un cantuccio idilliaco ove, nonostante le filippiche del Nicolussi e gli attacchi del Tiroler l’ordine non era turbato, la gerarchia veniva rispettata, l’autorità circondata più che d’obbedienza, d’ossequio. La stessa impressione si manterrà, anzi si acuirà più tardi nel periodo della reazione fascista. Quando un Governo non è in grado (se per ragioni intrinseche o estrinseche qui non conta) di ostacolare la costituzione di una milizia di partito e non ha la forza d’impedire le mobilitazioni regionali o generali, l’occupazione di municipi e d’intere città, di punire comecchessia gl’incendi e le devastazioni e ogni domenica o meglio ogni giorno… la cronaca di buona parte delle provincie italiane riferisce di scontri, di rivoltellate, d’uccisioni, talvolta organizzate, quasi sempre impunite, può ben darsi che un tale governo non sia il meglio disposto a valutare adeguatamente il caso Peratoner e del municipio di Bolzano, la questione della Ladinia o quella delle tabelle bilingui nell’Alto Adige. Concediamo anche un’altra attenuante, che a un Governo cioè il quale ha tutto da sistemare, dalle finanze dello Stato che si trovano in condizioni veramente allarmanti per la nostra vita economica, alle 60 Provincie e ai tanti comuni delle quali e dei quali molte centinaia non possono funzionare e molte centinaia non sono retti che provvisoriamente da commissari regi o prefettizi, la cosidetta sistemazione delle Nuove Provincie non debba apparire come la sistemazione più importante e più urgente. Tuttavia premesso tutto questo, affinché non ci si possano imputare errori di prospettiva, torniamo ad affermare l’urgenza che il Governo centrale risolva, secondo criteri direttivi generali, le questioni degli allogeni e quelle che con tale problema politico-nazionale vanno connesse; e ciò per non essere trascinato a soluzioni tumultuarie, imposte da interventi di partiti o di forze illegali all’interno, o più tardi, forse da ragioni di politica estera; ma sovratutto allo scopo e col proposito di coordinare e subordinare ogni provvedimento alle meta irriducibile che dev’essere: guadagnare alla causa dello Stato italiano gli spiriti ora ostili o indifferenti, ottenendo l’attaccamento di una parte della popolazione, già predisposta, e dall’altra un rationabile obsequium. Ora i provvedimenti che s’impongono sono di due categorie: l’una riguarda solo o precipuamente l’amministrazione dello Stato, come a dire, la lingua d’uso negli uffici erariali, la circoscrizione e la distrettuazione politica; l’altra riguarda le amministrazioni autonome, cioè la Provincia e i Comuni. Tutti comprendono però che fra l’una e l’altra categoria corrono parecchie interferenze e sussiste una certa interdipendenza. Non è detto tuttavia che non si possa procedere alla sistemazione provvisoria o definitiva per gradi, ed è noto, a mo’ d’esempio che il ministro Bonomi fu presso a deliberare notevoli ritocchi alla distrettuazione politica con speciale riguardo alla zona mista e alla Ladinia, distrettuazione che poi rimase fra le tante cose sospese del primo Ministero Facta. E tuttavia appariva necessario, proprio per regolare l’uso delle lingue, che si fossero prima nettamente individuate le due diverse zone dell’Alto Adige, le quali – se si fa astrazione dalle due maggiori città – possono venir circoscritte anche da una linea territoriale. Ma il Ministero Facta nella trascuranza e svalutazione dei nostri problemi di sistemazione ha superato di gran lunga i ministeri precedenti. Mentre con Giolitti e Bonomi, riaffermati i criteri autonomistici, si era almeno creato il meccanismo provvisorio delle commissioni consultive con lo scopo fondamentale di elaborare uno statuto definitivo per le amministrazioni provinciali e comunali delle Nuove Provincie, con Facta, le cui personali attitudini di governo furono assorbite, prima dalla conferenza di Genova, poi dal conflitto fascista, l’assenteismo di una direttiva di Governo divenne ancora più palese. Non è davvero che sieno mancate sollecitazioni e pressioni da parte dei deputati. Chi non ricorda che nella lunghissima crisi il partito popolare pose fra i suoi postulati capitali una più energica cura delle Nuove Provincie che avrebbero dovuto avere un rappresentante entro il Consiglio dei ministri, sia come ministro, sia come commissario? Chi non ricorda che tale postulato aveva prospettiva d’essere accolto tanto da De Nicola quanto da Orlando; ma che non trovò grazia invece presso Facta il quale per ragioni che riguardavano le persone, ma più per le obiezioni avanzate dai commissari generali, s’ostinò a lasciar prima scoperto il dicastero delle Terre Liberate, per mettervi poi Maggiorino Ferraris ? Il partito popolare si battè disinteressatamente per questo postulato che voleva dire «regolare e definire le questioni delle Nuove Provincie» ma dopo la lunga crisi, esaurito nella lotta impegnata e vinta contro Giolitti dovette accontentarsi di una mezza misura, cioè della partecipazione dell’attuale capo dell’Ufficio centrale ai consigli dei ministri, quando vi venissero trattate le nostre questioni. Se tuttavia questa misura fosse stata applicata con intensità e con conseguenza, se a tempo e a luogo si fossero sentiti anche i commissari generali, l’opera di adattamento alla legislazione italiana sarebbe ben più avanzata. Non vogliamo negare che non si sia fatto parecchio per quanto riguarda la legislazione generale: i decreti di applicazione si assommano già cogli ultimi, deliberati recentissimamente, a parecchie centinai. «Ma le questioni delicate e grosse non si sono affrontate». Sovratutto non è intervenuto alcun accordo fra commissari, Ufficio centrale e presidente del Consiglio per stabilire una linea di condotta di cui il Governo «voglia assumere solidalmente» la responsabilità. Ora se v’ha un campo, in cui il fare o il non fare è colpa o merito del Governo è proprio quello delle Nuove Provincie, ove il decreto legge è norma legittima accettata e la deliberazione parlamentare appena eccezione. Per questo furono create – accanto all’Ufficio centrale e ai Commissariati – le commissioni consultive. Siamo già prossimi a proclamare l’insuccesso di tale sistema? Vogliamo sperare di no: tuttavia non v’ha dubbio che il sistema passerà ora la prova del fuoco. L’Ufficio centrale è stato invitato dalla riunione del giugno della Commissione consultiva a elaborare e presentare un progetto di sistemazione amministrativa delle Nuove Provincie sulla base del mantenimento della parte essenziale delle autonomie, inquadrate nella legge provinciale e comunale del Regno. Il capo dell’Ufficio, sentito prima il presidente del Consiglio, si dichiarò autorizzato a promettere la presentazione di tale progetto nei primi mesi autunnali. Ebbene bisogna assolutamente che tale progetto venga, che si discuta e che si deliberi, a scanso di lasciar passare l’ultimo termine che appaia ancora utile. Se l’accordo fra i partiti e soprattutto fra le due nazionalità interverrà, tanto meglio; se non verrà, il Governo dovrà agire per responsabilità propria. In questo stesso momento, se per disavventura, i problemi linguistici e di distrettuazione politica, non saranno ancora risolti, converrà risolverli per forza e nessun’altra dilazione sarà possibile. Che se anche l’autunno dovesse passare infruttuoso, la deputazione delle Nuove Provincie dovrebbe appellarsi alla Camera e chiedere al Parlamento di avocare a sé una sistemazione per la quale furono creati tanti organi che poi si sarebbero dimostrati incapaci o non atti a dare alle N. P. quell’assetto che fu invocato dalle loro popolazioni, promesso solennemente da parecchi governi e garantito dalle leggi di annessione. Questa nuova via sarebbe resa più agevole dall’ultima riforma delle commissioni parlamentari permanenti, la quale ha creato la commissione XII assegnandole non solo gli affari del Ministero delle Terre Liberate, ma anche quelli dell’Ufficio centrale per le Nuove Provincie. |
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| 41921-1925
| La Libertà, dopo aver pubblicati al posto d’onore parecchi articoli in favore del progetto avisiano della «Società elettrica trentina» (Ste) , s’è messa d’un tratto in coda alla Voce del Popolo, aggiungendosi al giornale socialista nel tentativo di cavare dal contrasto degli interessi locali e del conflitto fra le società industriali concorrenti ragioni di polemica politica contro il partito popolare. Diciamo interessi locali e pensiamo soprattutto da una parte ai comuni di Fiemme , i quali, costituito un consorzio elettrico si sono alleati alla Ste e ne caldeggiano il progetto; dall’altra ai comuni di Cembra i quali in un primo tempo, accettarono la deviazione dell’Avisio, ma ora l’avversano; e diciamo anche conflitto fra società industriali, perché se da una parte vi è la Ste, dall’altra in appoggio a Ciurcentaler vi è la Siet la quale società era già in concorrenza colla Ste per il progetto di deviazione dell’Avisio. Ora di fronte a codesto tentativo, che è così compassionevole per la serietà e la dignità della nostra vita politica, benché ci sia noto che moltissimi dei più autorevoli liberali trovino pazzesco e miserabile siffatto giuoco di fazioni, quando si tratta di gravi interessi economici, gioverà tuttavia rinnovare alcune considerazioni che, in verità, dovrebbero apparire superflue. Non abbiamo bisogno di premettere che né organizzazioni di partito, né deputati di nostro colore hanno comecchessia preso in tale questione un atteggiamento per incarico, in rappresentanza o comunque, in compromissione del partito stesso. Ciò era naturale, quando si pensi: a) che la concessione per le centrali elettriche viene data dagli organi statali, sentito un Consiglio tecnico; b) che tanto in Fiemme come in Cembra la maggioranza degli interessati in contrasto fra loro appartengono al partito popolare, c) che i deputati e gli ex deputati del Partito popolare italiano, assieme a persone di fiducia di altri partiti, avevano ancora nel primo periodo postbellico aderito al criterio che le forze idrauliche dovessero anzitutto venir sfruttate da enti consorziati locali, specie dai comuni e dalla provincia; dal quale criterio generale l’on. Conci quale commissario generale trasse poi norme per il suo ulteriore contegno che lo condusse fino a portare all’ente autonomo interprovinciale di Verona-Mantova ecc. anche l’adesione della Venezia Tridentina. Si è fatto durante la polemica, il nome dell’on. Degasperi, per affermare ch’egli avesse esercitato pressioni sul ministro dei LL. PP. e sul Consiglio superiore delle acque; ma l’on. Degasperi ha dichiarato di non essere mai intervenuto per esercitare tali pressioni né presso il ministro né presso i membri del Consiglio delle acque; e la Libertà che lo accusava del contrario, non è in grado in verun modo di provarlo; mentre l’on. Degasperi può recare a conforto delle sue affermazioni anche la testimonianza dei rappresentanti dei comuni di Fiemme che non ha creduto, quando andarono a Roma, di poter accompagnare presso i dicasteri competenti. L’on. Degasperi intervenne soltanto, dopo che il parere del Consiglio delle acque era stato già preso – dopo circa due mesi! – e chiese che il parere venisse trasmesso a Trento, perché l’autorità potesse continuare la procedura di prendere una delibera circa la concessione. Ma resta ancora l’atteggiamento del giornale, come organo del partito popolare. Orbene, per il contegno del N. Trentino nulla abbiamo da mutare di quanto scrivevamo già nel Numero del 22 aprile 1922, ultimo Numero, nel quale ci occupammo esplicitamente della questione. In questo articolo affermavamo e documentavamo: 1) che, mentre la nostra deputazione si era astenuta da qualsiasi atto politico-parlamentare in argomento alle centrali, il deputato socialista Flor, il cui giornale si lanciava in quei giorni contro di noi, ancora il 5 dicembre del 1921, cioè dopo che il Consiglio superiore delle acque aveva già emesso il suo lodo, presentava assieme a suoi consenzienti di altre provincie un’interpellanza al Governo «per ottenere come cosa necessaria ed urgente che la concessione fosse data senz’altro alle provincie richiedenti a nome e per conto dell’Ente Adige-Garda», ossia faceva pressione perché venisse concessa la deviazione dell’Avisio verso la val d’Adige, giacché tale era appunto il progetto che gl’interpellanti chiamavano «il grandioso impianto di derivazione dell’Avisio»; 2) che durante l’istruttoria ufficiale per i progetti dell’Avisio i rappresentanti dei comuni di Cembra, radunati in Cembra il 28 ottobre 1920 avevano messo a verbale una dichiarazione di pieno appoggio («appoggia con tutte le forze» dice il protocollo) al progetto di deviazione dell’Avisio, e precisamente a quello della Siet, il quale – sempre secondo il verbale – prevedeva la «deviazione dell’Avisio nella località Ischiazza presso Stramentizzo e mediante una galleria di farlo sboccare in Val d’Adige sotto i Laghetti»; cosicché è assurda l’affermazione della Libertà, che se pressioni da parte popolare in quel primo periodo ci fossero state – e noi abbiamo dimostrato che non ci furono – esse potessero farsi in odio alla volontà della valle di Cembra; 3) scrivevamo allora per lumeggiarre l’ultimo stadio della questione le precise parole: «alcuni mesi dopo venne fuori il progetto Ciurcentaler per lo sfruttamento dell’Avisio senza deviazione. Anche per questo progetto si ebbe il commissario. I Cembrani lo sostennero calorosamente, e anche questo progetto come gli altri venne mandato a Roma. Qui il Consiglio superiore delle acque nella seduta 18 novembre 1921 diede parere favorevole al progetto fiemmese, elaborato dalla Ste. Ignoriamo la motivazione di tale scelta. Siccome il parere non venne ancora pubblicato, non sappiamo se il Consiglio abbia deciso così per riguardi tecnici o dal punto di vista, trattandosi di centinaia di milioni, del finanziamento e della rendibilità. Frattanto la decisione definitiva in base al decreto del 28 marzo (è il decreto che regola le concessioni per le Nuove Provincie), per il fatto stesso che il Ministero non comunica il parere, rimane sospesa». Dopo queste premesse ecco la conclusione in cui delineava l’atteggiamento del nostro giornale: «Dati questi precedenti di fatto, noi non abbiamo creduto né crediamo che lunghe diatribe polemiche sulla stampa locale portino un qualsiasi frutto. Abbiamo dato ospitalità a comunicati ufficiali o ufficiosi della Comunità generale di Fiemme, abbiamo pubblicato un comunicato di Lavis e avremmo pubblicato anche il memoriale dei comuni cembrani – se ci fosse stato mandato. Riconosciamo il diritto a tutti gli interessati di dire il loro parere, ma ci rifiutiamo di fare di tale questione un oggetto di discussione politica a base di minacce o di promesse elettorali. Se lo credono opportuno, lo facciano i socialisti, e s’accomodino. Le centrali non si costruiscono colle chiacchiere né colle ingiurie verbali, né noi vogliamo esporci in alcun modo al pericolo di contribuire a eterne polemiche le quali potrebbero anche finire col sabotare tutta l’invocata azione per lo sfruttamento delle nostre ricchezze idrauliche, a favore di altre provincie che ci avranno preceduti». Questo era il nostro punto di vista nell’aprile, come era già stato prima, e come rimase dall’aprile in qua, né abbiamo oggi ragione di modificarlo. Il binomio quindi «la centrale dell’Avisio e il partito popolare» non esiste, e l’abbiamo messo in testa all’articolo, solo per dimostrarne l’assurdità. La centrale sull’Avisio è un problema tecnico e finanziario, al di fuori dei partiti politici. Esso va giudicato coi criteri dell’ingegnere e dell’economista. A questa lapalissiana verità non abbiamo contraddetto nel passato, né per quanto si faccia, intendiamo contraddire nei giorni che verranno. |
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| 41921-1925
| Ieri ebbe luogo una seduta della Direzione regionale del Partito popolare nella quale oltre che di diversi argomenti, di cui riferirà il comunicato ufficiale, si trattò anche dell’assoluta urgenza che venga risolto il problema amministrativo delle Nuove Provincie e che si passi alla costituzione definitiva dell’assemblea e dell’amministrazione provinciale. Il partito popolare fu il primo a chiedere ancora nella prima Consulta trentina che venisse convocato un consiglio regionale sulla base del suffragio universale, eguale e colla rappresentanza proporzionale di tutti i partiti. Purtroppo gl’indugi frapposti dai governi centrali, i dissensi sul carattere e sulle attribuzioni che dovesse avere tale corpo rappresentativo, scoppiati nella Venezia Giulia, ed in genere la situazione politica incerta nelle provincie adriatiche differirono sempre di termine in termine la risoluzione del problema. Dobbiamo convenire ch’esso non è facile per due ragioni, perché si tratta d’inquadrare nel centralismo amministrativo nazionale il regime locale più decentrato e più libero e di fare così un esperimento utile di legislazione combinata, e perché l’assetto politico-amministrativo delle Nuove Provincie importa anche la regolazione di certi rapporti di convivenza con cittadini d’altra lingua, rapporti che, allo stato presente, non trovano in Italia alcuna analogia. In verità per la Venezia Tridentina le difficoltà non sono mai apparse insuperabili. Tutti i partiti trentini, salvi temperamenti e gradazioni nei dettagli, si sono affermati per trapiantare entro l’amministrazione provinciale e comunale italiana la sostanza della costituzione provinciale e comunale autonomista, e se non tutti i partiti, certo la maggioranza di essi sono convinti che anche volendo ammettere per i tedeschi un’amministrazione autonoma separata entro l’unità della provincia statale, in un primo periodo di assetto regionale convenga prima stabilire le basi di un’unica rappresentanza lasciando alla futura collaborazione di questa stessa rappresentanza collo Stato la definizione di ogni altro rapporto fra le diverse zone. Per la Venezia Tridentina quindi una linea di massima per la compilazione di un progetto e per la sottomissione di tale progetto ad una discussione degl’interessati era visibile ancora due anni fa. Purtroppo le condizioni della Venezia Giulia erano e in parte sono ancora diverse. Di fronte alle insistenze e alla necessità tuttavia di dare alle amministrazioni provinciali maggior corpo di quello che non fosse il primo governo provvisorio nella persona dei commissari provinciali, si venne all’altra forma interinale di sostituire cioè al commissario unico una Giunta provinciale nella quale fossero persone di vario colore politico. Coerenti al nostro principio, noi chiedemmo allora che venissero rappresentati i partiti che nelle recenti elezioni avevano ottenuto il suffragio degli elettori, in proporzione della loro rappresentanza. Per la Venezia Tridentina vennero chiamati a formare la Giunta interinale i popolari italiani, i liberali italiani, i socialisti, i liberali tedeschi, la federazione tedesca. È noto che i socialisti, pur dopo seguita la nomina, in base agli ordini intransigenti della Direzione del partito, non vollero assumere in nessuna misura la collaborazione della Giunta. Tuttavia, appena nominata questa Giunta, il nostro partito dichiarò subito che codest’espediente di nomina governativa doveva al più presto far luogo alla giunta nominata dal Consiglio provinciale (Dieta) eletto col suffragio universale e proporzionale; e fummo proprio noi ad insistere appena convocate le commissioni consultive, perché tali commissioni non venissero assorbite da altri problemi ma si occupassero anzitutto dell’assetto definitivo del quale conveniva affrettare l’avvento. Tutti sanno per quanto tempo si trascinò la trattativa nella Venezia Giulia, per poi giungere al risultato di votare tre ordini del giorno, contraddittori, non riuscendo nessun gruppo a raccogliere la maggioranza. Ma ora, come abbiamo scritto altra volta, l’on. Salata promette di mantenere il suo impegno preso in Giugno per la sessione autunnale della Consulta centrale. Non dubitiamo di questa parola; ma intanto il Partito popolare che fu il primo ad entrare in battaglia riprenderà vigorosamente la campagna perché si dia uno statuto provinciale e si convochino prossimamente i comizi elettorali. Il nostro partito li ha invocati ancora durante il regime militare, ha sempre protestato allora contro ogni amministrazione di nomina governativa, si è adattato poi a tale forma perché transitoria e invitabile; e sarà lieto se – meglio oggi che domani – la regione avrà una rappresentanza elettiva alla quale il popolo trentino abbia liberamente affidato il mandato del suo governo, nell’ambito delle amministrazioni autonome locali. |
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| 41921-1925
| Dei due primi titoli il lettore si renderà conto leggendo le considerazioni che facciamo seguire; per l’ultimo sarà meglio far procedere l’avvertenza che s’intende parlare ancora della Libertà la quale essendo una volta e fino a poco fa il portavoce dei democratici liberali con tendenze di sinistra, ora è divenuto giornale dei liberali democratici con tendenze di destra. Ora ai lettori non è sfuggito che codesta Libertà di seconda maniera da alcuni giorni a questa parte attacca in modo violento l’amministrazione provinciale, amministrazione che non è di partito, ma che fu costituita in base a criteri di rappresentare proporzionalmente tutti i partiti politici, così che anche il partito liberale democratico vi partecipa nella misura che gli compete condividendo sia la responsabilità delle deliberazioni, in quanto contro di esse il suo rappresentante non sollevi di volta in volta formale eccezione, sia la responsabilità dell’amministrazione, in quanto ciascun assessore ha una speciale funzione direttiva da compiere (referato). Stando così le cose quando sopravvennero gli attacchi più sopra accennati, attacchi di carattere generale, si doveva logicamente concludere che 1) il giornale non rappresentava più le idee dell’assessore di Giunta, designato dal partito liberale democratico 2) ovvero quest’assessore era stato fino ad oggi o vuol stare da oggi in poi sistematicamente all’opposizione. Le accuse infatti mosse alla Giunta provinciale non riguardano solo e specificamente un argomento determinato sul quale è comprensibile che possa sussistere differenza di vedute, ma investono tutto l’indirizzo, tutto il criterio, tutto il programma amministrativo svolto dalla Giunta provvisoria. La Libertà non si limita a protestare contro questa o quella soluzione data a un determinato problema ma proclama alto che il «paese tutto è stanco di vedere la cosa pubblica affidata all’arbitrio di pochi, che fanno alto e basso a loro talento» e scrive queste parole di oscura minaccia: «Il governo centrale deve sentire che il malcontento che si addensa contro la attuale amministrazione provinciale potrebbe un giorno o l’altro portare dei gravi disordini in paese, specie ove gli interessi delle valli venissero subordinati dall’Amministrazione provinciale a quelli particolari di una istituzione e di un partito». Dunque il «malcontento si addensa», si prepara un grosso temporale e «possono scoppiare gravi disordini, in paese». Situazione quindi gravissima che può portare a qualche mobilitazione fascista o, a scanso di essa, a qualche decreto per ragioni d’ordine pubblico. Quand’è così gl’ingenui si sono chiesti; perché il partito liberale non ritira senz’altro il suo rappresentante? Perché il partito, del quale la Libertà è ancora portavoce, collabora ancora con simile amministrazione, dannata da Dio e coperta ormai dell’esecrazione universale? Gl’ingenui, che ripetevano tale ragionamento, lo facevano anche per analogia. Se, p.e., il Nuovo Trentino attaccasse a fondo l’amministrazione cittadina di Trento o quella di Rovereto nelle quali i popolari collaborano coi liberali, sarebbe possibile immaginare che liberali e popolari potessero ancora condividere la responsabilità di queste amministrazioni? O viceversa, se tale collaborazione continuasse, sarebbe immaginabile che il Nuovo Trentino potesse valere ancora come portavoce dei popolari? Si capisce che un partito minore, rappresentato proporzionalmente, abbia una responsabilità proporzionalmente minore; si capisce che un partito il quale in un dato caso sia stato maggiorizzato, per quel dato caso non porti la responsabilità della deliberazione; ma non si capisce che un partito possa collaborare e nella funzione deliberativa e nella funzione esecutiva con altri partiti quando questi partiti svolgano una attività disastrosa in genere e tale da provocare le proteste «del paese tutto». Questa è logica, è dirittura, è onestà politica. Ma gl’ingenui hanno il torto di essere ingenui e sovratutto di non conoscere la storia, non molto remota, del partito liberale. Quello che anche nel passato inacerbì spesso la lotta fra i partiti e rese estremamente disagevole ogni contatto e instabile ogni situazione collaborazionista coi liberali fu l’equivoco, di cui questo partito spesso si compiacque: fare bensì nei corpi amministrativi o rappresentativi una politica realistica di accordi e di corresponsabilità, ma riservarsi contemporaneamente la possibilità di muovere all’attacco contro tale politica, rinnegando ogni contatto con essa, quando il farlo, in vista di mutate situazioni, possa riuscire di giovamento. Questa slealtà opportunista fu consigliata ai liberali quasi sempre da ragioni interne di partito. Ogni volta che nel campo della borghesia si levava una ventata anticlericale, ogni volta che per tale soffio l’ala radicale del partito minacciava di staccarsi, saltava fuori il giornale d. l. a salvare la situazione col fare dell’anticlericalismo o dell’antipopolarismo anch’esso, anzi col farlo più forte e più aspro degli altri, per battere la concorrenza. Analogamente oggi. A Trento sta per uscire un nuovo quotidiano che già nella sua attuale veste ebdomadaria si presenta come anticlericale, antipopolare, attaccabrighe . Bisogna fargli concorrenza, bisogna dimostrare che la lotta contro i popolari si sa fare senza giornali nuovi e bisogna trattenere nel chiuso d. l. i più radicali coll’assicurarli che si è disposti a virare di bordo. Questa è l’origine della campagna. Anche gli argomenti dell’attacco sono presi a prestito dai concorrenti. Oltre l’«Avisio» sul quale argomento la Libertà ha cambiato opinione entro poche settimane, si attacca l’amministrazione provinciale per l’Hotel Trento, per la nomina dei funzionari e per i contributi a opere di beneficenza e istruzione. L’Hotel Trento… La Libertà evoca la protesta della «nostra città» «che nel periodo estivo ha potuto constatare a proprie spese il danno ingente ad essa causato con la soppressione del suo unico grande albergo e che ha dovuto assistere tutte le sere all’esodo dei forestieri che, non trovando albergo partivano alla volta delle città vicine». Quasicché del mancato albergo fosse responsabile la Giunta, la quale invece non procedette alla compera se non quando, per un mese intiero, mediante pubblico avviso non fosse stata assicurata la preferenza a un compratore qualsiasi che garantisse di esercirlo come albergo e quasicché non fosse vero che nessuno si presentò a offrire e trattare col proposito di continuare l’albergo. E degl’impiegati? La Libertà chiede: «È vero sì o no che la stessa Amministrazione ha creati numerosi posti di impiegati, che ha poi coperti, senza bandizione di regolari concorsi, con persone tutte indistintamente tesserate del P. P. e non di rado anche per di più anziane d’età, per modo che dopo la prestazione di qualche anno di servizio dovranno venire pensionate, creando così un onere non indifferente a carico dei fondi provinciali?» Rispondiamo secco e preciso, sicuri di poterlo comprovare: No, non è vero. La Giunta provinciale è provveduta alla riorganizzazione degli uffici, bandendo regolari concorsi, (concorsi che, a pagamento, furono pubblicati anche sulla stessa Libertà), e i funzionari vennero scelti fra i concorrenti dell’uno o dell’altro concorso. Se prenderete visione del loro attestato di nascita avvertirete che sono ancora assai lontani dalla pensione. A nessuno fu chiesta la tessera di partito ed è falso che i prescelti siano indistintamente tesserati del P. P. Crediamo invece che la maggior parte non lo siano ed in ogni caso furono assunti funzionari che, in quanto militino politicamente, si trovano in diversi campi. Non parlate del resto di corda in casa dell’impiccato. Quanti funzionari popolari hanno assunto le amministrazioni cittadine del vostro partito? Sovvenzioni. Anche qui la Libertà papagalleggia secondo i concorrenti. Ecco com’essa riassume le critiche rabbiose degli altri giornali: «Abbiamo visto rimessi in onore i sistemi delle elargizioni alle istituzioni del partito, alle opere di beneficenza di evidente carattere confessionale: sistemi dal nostro partito combattuti fin dai tempi della dieta di Innsbruck». Sapete cosa vi rispondiamo? Primo, che è falso che voi abbiate sempre combattute le sovvenzioni «fin dai tempi della dieta d’Innsbruck». Rileggete il verbale stenografico e troverete che non solo non le avete combattute, non solo le avete votate, ma le avete anche proposte. Secondo, che in queste sovvenzioni il partito popolare non c’entra per niente. Darle o non darle, il partito non guadagna né perde un’ette. Ma si tratta di concedere o meglio in quasi tutti i casi di continuare a concedere dei contributi provinciali per mantenere dei ginnasi, dei licei, delle scuole, pareggiate, con diritto di pubblicità le quali sostituiscono scuole statali provinciali o locali che, assieme, se fossero tutte a carico dello Stato o della Provincia costerebbero milioni. È vero che molte di esse, nel Trentino e specie dell’Alto Adige sono dirette da religiosi o da monache, ma è forse un demerito della concezione cristiana della vita se essa infonde nei suoi fedeli lo spirito dell’apostolato e della solidarietà umana? E forse altre istituzioni laiche che l’hanno chiesto, come il liceo femminile di Rovereto, il ginnasio di Ala ecc., non le ebbero nella stessa misura? L’unico contributo (40 mila) che potrebbe avere la parvenza di «elargizione alle istituzioni del partito» potrebb’essere il contributo alla federazione dei consorzi cooperativi, perché la federazione è diretta da amici nostri. Ma la federazione è come il «Revisionsverband» dell’Alto Adige, un ufficio di revisione e di consulenza tecnica per le casse rurali e per le cooperative di consumo e di lavoro e la sovvenzione venne assegnata in base al numero dei revisori e alle giornate delle revisioni compiute, revisioni che, com’è noto, hanno carattere ufficiale e vengono trasmesse al Regio Tribunale. Può negare la Provincia ogni interessamento alla corretta amministrazione della casse rurali che sono in gran parte buone prestatrici dei comuni o alle cooperative di consumo, che fungono da calmiere per i prezzi dei prodotti alimentari? Del resto, detto questo, e costatato che si tratta di poste continuative ereditate dagli altri bilanci e infine che il tutto si assomma a non moltissime decine di migliaia di lire su un bilancio di quasi 40 milioni, noi diciamo: Libero ognuno di giudicare se in un dato momento tali contributi debbono venir concessi o non concessi. È questa una valutazione di carattere tecnico e oggettivo, che non è legata né al programma, né all’interesse dei partiti. Ma non è lecito a persone serie e a politici onesti di gonfiare la questione, facendo credere ai lettori superficiali che si tratti di un’amministrazione corrotta e dissipatrice. Non è lecito e, quando si è corresponsabili, oltre che illecito è anche sleale. Che se tutto codesto armeggio avesse davvero come finge d’avere, lo scopo di «por fine a questo sistema illegale, chiamando il popolo alle urne», noi dovremmo concludere non solo che neanche questo fine giustifica i mezzi ma sovratutto che a tal fine siffatti mezzi sono del tutto superflui. I popolari hanno invocato i comizi e hanno insistentemente protestato contro le amministrazioni nominate dall’alto ancora durante l’armistizio in un momento in cui invece i liberali non pensavano al «paese tutto», ma dichiaravano desiderabile «un consesso provvisorio di nomina governativa». |
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| 41921-1925
| Diamo oggi le linee direttive del discorso che l’on. Degasperi, per invito dei giovani cattolici universitari tenne domenica al loro annuale convegno. Fu un discorso giubilare perché ventun anni fa, proprio nello stesso giorno, cioè il 17 settembre 1901, il Degasperi, allora alle sue primissime armi, aveva svolto nella stessa Mezocorona al III Congresso dell’Associazione il tema «La riscossa cristiana nel campo della coltura» , mentre l’on. Grandi parlava del dovere sociale dei giovani. Questo ricorso diede occasione all’oratore di chiamare a paragone i tempi d’allora coi tempi d’oggi, ricavandone ammaestramenti e considerazioni che non ci paiono senza interesse anche per i nostri lettori. Il pensiero sociale nel 1901 Ricordata la situazione locale, caratterizzata da un nucleo assai esiguo di cattolici militanti, da un movimento sociale economico nel primo sviluppo, da un’organizzazione sindacale deficiente e dalle totale mancanza di una organizzazione politica, il Degasperi descrive a rapidi tocchi la situazione generale, nei suoi rapporti col pensiero cristiano. Nel movimento sociale incalzava il socialismo, venuto finalmente colle sue ondate a cozzare anche contro le nostre Alpi e, nei riguardi più particolarmente nostri, s’imponeva con tutto il vigore la dottrina sociale della Rerum Novarum. Quest’enciclica aveva constatato che nel mondo capitalista un piccolissimo numero di straricchi avevano imposto alla infinita moltitudine dei proletari un giogo poco men che servile; respinta la dottrina socialista della comunanza dei beni, aveva rilevato però la funzione sociale della proprietà; aveva insegnato che nelle contrattazioni fra lavoratori e datori di lavoro entra un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti e constatato che interessa allo Stato che sia inviolabilmente osservata la giustizia, che una classe di cittadini non opprima l’altra, aveva dichiarato «che il pubblico potere deve assicurare a ciascuno il suo, non impedirne o punirne le violazioni… le misere plebi che mancano di sostegno proprio, hanno specialmente necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato… E, agli operai, che sono del numero dei deboli e bisognosi, deve lo Stato a preferenza rivolgere le cure e la provvidenza sua». Con tali insegnamenti veniva decisa in senso affermativo la vessata questione della liceità e dell’opportunità dell’intervento dello Stato nei rapporti economici dei cittadini, allo scopo di tutelare i più deboli. La critica presente sull’intervento dello Stato L’oratore ha creduto opportuno ricordarlo perché oggidì sembra sopravvenire di nuovo fra i seguaci stessi della dottrina cattolica un qualche dubbio e riprendere vigore la vecchia teoria liberale del disinteressamento dello Stato e del «lasciate fare, lasciate passare», quasicché nel sistema economico capitalista, lasciato completamente libero nei suoi impulsi economici, esista un elemento naturale di equilibrio e di giusta compensazione. Questa dottrina, vent’anni fa quasi universalmente rifiutata, sembra ora riprendere vigore, perché il pubblico confonde l’intervento sociale dello Stato sopra descritto, coll’intervento industriale e finanziario dello Stato, come amministrazione, a imprese economiche. Le esperienze fatte nell’ultimo periodo, specie in conseguenza della guerra, sono disastrose, onde d’ogni parte s’invoca – e il partito popolare fra i primi – il ritiro dello Stato da simili partecipazioni. Giova però rendere attenti i cattolici che pur assecondando la campagna per quello che si proclama «il ritorno dello Stato alle sue funzioni» non ricadano nella vecchia teoria libero-conservatrice che nega la funzione di tutela che lo Stato deve esercitare per i più deboli. Il regime corporativo L’oratore crede opportuno ricordare anche che la stessa enciclica proclamava la necessità di un ordinamento operaio con esplicito richiamo alle antiche corporazioni d’arte e mestieri. («Manifestissimi furono presso i nostri maggiori i vantaggi di tali corporazioni… Bensì il progresso della cultura, le nuove costumanze e i cresciuti bisogni della vita esigono che queste corporazioni vengano adattate alle condizioni presenti»). Oggi che le corporazioni si riaffacciano col loro vecchio nome nel movimento sociale e vi vengono propagate, quasicché fossero riesumazione nuova dello statuto del Carnaro, i cristiano-sociali non hanno che da ricordare Vogelsang e De Mun , per scegliere tra i molti e rileggere le tesi dell’Unione di Friburgo (l’internazionale scientifica dei cattolici raccoltasi ogni anno a Friburgo dal 1884 in qua) una delle quali tesi dice: «Il regime corporativo è il modo di organizzazione sociale che ha per base l’aggruppamento degli uomini dietro la comunanza dei loro interessi naturali e delle loro funzioni sociali e per coronamento necessario la rappresentanza pubblica e distinta di questi differenti organismi». Queste citazioni, questi ricordi – continua l’oratore – vengono ravvivati per l’orientamento della generazione nuova; nel 1901 non ne avevamo bisogno, giacché si lavorava allora con entusiasmo e senza titubanza per la via segnata dal Pontefice. Il nostro compito di organizzare corporativamente o sindacalmente le masse operaie era chiarissimo. Ma al di là di questo compito, diremo, manuale e per uno studioso, ausiliare, non ne avevamo uno più diretto, più confacente alla nostra vocazione e che pur doveva servire ai progressi dello stesso movimento cristiano-sociale? L’attività scientifica Ecco il quesito al quale ventun anni fa, cercavo di dare risposta nella mia relazione. Rispondevo che il socialismo doveva la sua forza non solo alla massa operaia organizzata, ma anche alla sua veste scientifica e all’attività della sua scuola che, attraverso il materialismo storico, aveva inquinate le università e inspirate migliaia di pubblicazioni. Il socialismo non sarebbe caduto prima che non si fosse spazzato via il falso nimbo scientifico di cui era circonfuso. Ma conveniva non solo far opera di confutazione, ma anche di positiva elaborazione scientifica del nostro programma. Conveniva tentare la riscossa su tutti i campi della coltura perché i cattolici sarebbero riusciti a risolvere la questione sociale solo se avessero strappato agli intellettuali il riconoscimento della loro abilitazione scientifica. L’oratore ricorda qui – commosso – il bel tentativo fatto dai nostri accademici e dal nostro piccolo mondo scientifico riuscendo per parecchi anni a mantenere la Rivista Tridentina che, lontana com’era dai centri d’attività intellettuale, non poteva dare nessun contributo alla rinascita che invocavamo, ma che rimane una prova confortevole dello sforzo con cui gli irredenti, chiusi a nord dal confine linguistico e a sud da quello politico, si affermavano nel campo della coltura. Il compito degli studiosi trentini E qui l’on. Degasperi apre una parentesi per invocare dagli studiosi trentini, ora che è felicemente aperta la grande via della Nazione, una maggiore attività nel collaborare alle riviste e agli organismi colturali nazionali. Ci lagniamo di essere mal compresi e protestiamo contro chi ignora il valore dei nostri particolari istituti amministrativi, politici e giuridici, che vogliamo difendere, ma ove sono i giuristi, i letterati, i politici del Trentino, che parlino dei nostri problemi alla Nazione? Ritornando all’argomento principale l’on. Degasperi completa il paragone fra il movimento sociale del 1901, e quell’odierno, chiedendosi quali siano le ragioni della decadenza socialista. Le ragioni della decadenza socialista Gran parte dell’opinione pubblica l’attribuisce semplicemente alle «operazioni» della milizia fascista; ma sarebbe come affermare che Napoleone in Russia deve la sua disfatta ai cosacchi – (il paragone non ha alcun sapore offensivo) – i quali molestarono e finirono i resti della Grande Armata dopo… Napoleone perdette la partita per l’orgoglio sconfinato del suo spirito di predominio e per il freddo e per le nevi che fecero cadere le armi dalle mani dei suoi soldati. Il socialismo ha toccato la sua più tremenda sconfitta il giorno che volle spingere le masse operaie alla conquista rivoluzionaria di uno Stato utopistico e quando, volendo l’assoluto predominio della sua dottrina sulle masse lavoratrici soffocò ogni tentativo venuto da parti diverse per sottrarre il movimento operaio come tale al predominio dell’organizzazione politica socialista. Oggi che i socialisti stessi parlano di liberare la confederazione del lavoro dall’influsso dei partiti giova ricordare che dopo Ketteler e Ferdinando Lassalle, il più grande tentativo di emancipare il movimento operaio dal socialismo, pur difendendone le rivendicazioni sostanziali fu la Rerum Novarum. Il tentativo a giudicare dai congressi internazionali di Bienne e Wintertur (1896), ove convennero rappresentanti cattolici e socialisti per deliberare sulla tutela internazionale degli operai sarebbe anche riuscito, se i socialisti non avessero poi violentemente avocato a sé il monopolio della rappresentanza operaia e non avessero, inspirandosi al materialismo della loro dottrina filosofica, intensificata la loro campagna anticlericale. Ma il socialismo marxista venne disfatto anche perché interiormente oramai s’era sfasciata la sua impalcatura scientifica e morale. Soldati e soprattutto capitani che combattono senza fede nella propria causa lasciano cadere le armi, come se avessero le mani assiderate dal freddo. La demolizione della dottrina e della fede nella dottrina era già quasi completa prima della guerra. Durante la guerra i partiti socialisti che trovarono la via dell’unità nazionale, si salvarono trasformandosi in partiti operai, e la costituzione di Weimar è forse il più bel documento che chiude, in Germina, la patria di Carlo Marx, il periodo inaugurato dal «manifesto dei comunisti» e inizia quello della collaborazione sul terreno nazionale. Ma in Germania i socialisti si erano costruiti il ponte del ritorno entro la nazione col loro atteggiamento favorevole alla guerra cosidetta «di difesa»: in Italia invece, sventuratamente, la guerra, per la condotta dei capi socialisti da un lato e dall’altra perché le classi dirigenti non seppero avvincere durevolmente le masse, come avevano saputo fare i consiglieri di Guglielmo , non attenuò, ma acuì il dissenso. L’oratore dichiara a questo punto di non voler trarre dalla situazione le ovvie considerazioni di attualità politica, perché in un convegno universitario sarebbero fuor di luogo, ma di poter concluderne che se alla revisione prima e alla demolizione scientifica del socialismo poi ha contribuito la sociologia e l’attività scientifica dei cattolici, contemporaneamente quello che contrastò al movimento socialista il dominio assoluto fu il sindacalismo bianco che rappresentò fino a poco fa l’unico rifugio per gli operai che non vollero piegarsi alla tirannide rossa. Quel che più importa ancora è di rilevare che tale risultato fu ottenuto senza compromettere in nulla la causa delle rivendicazioni operaie, anzi riaffermandola, e senza mai nulla concedere alla reazione che avrebbe voluto riprendere la posizione procuratale dal liberalismo economico. La ricostruzione nazionale Con tali criteri converrà procedere anche di qui innanzi. I cattolici riaffermano per oggi che la ricostruzione nazionale non sarebbe possibile qualora si attentasse al nuovo diritto operaio conquistato negli ultimi anni, si negasse allo Stato ogni intervento e si soffocasse il movimento cooperativista e partecipazionista, il quale, non ostante gli errori commessi, rappresenta un indispensabile correttivo del sistema capitalista e un avviamento ad un sistema migliore. Noi affermiamo sovratutto anche oggi che la ricostruzione non può avvenire senza il riconoscimento di un Vero immutabile e supremo e di una moralità superiore all’interesse del momento. Vale insomma oggi quello che l’oratore ebbe a dire vent’anni fa: «che la differenza capitale fra questo nostro punto di vista e quello degli altri sta in ciò, che gli altri coscientemente o no seguono un principio che si ripresenta sotto varie forme dall’umanesimo e dalla rinascenza in poi, per il quale una volta agli uomini fu Dio lo Stato, poi l’Umanità, ed ora è la Nazione. E come Comte e Feuerbach parlavano di una religione dell’umanità, così ora si parla d’una religione della patria in senso della nazione, sull’altar della quale debbasi sacrificare ogni convinzione e ogni diritto individuale umano. Che cosa infatti si vuol insegnare alla gioventù se non altro che la Nazione, va innanzi tutto, che essa solo può pretendere una religione sociale, mentre il resto è cosa privata? Noi in particolare delle Nuove Provincie che abbiamo imparato a sentire che cosa sia la Nazione nel lungo tormento dell’esserne dalla violenza straniera disgiunti, sappiamo valutare in tutta la sua bellezza ogni sforzo che tenda a farla risorgere nelle coscienze e negl’istituti del paese; ma anche tale attività dovrà andare soggetta alle norme della morale e ai principi immutabili della giustizia. La rappresaglia e la legge del taglione sono Vecchio Testamento. Cristo ci ha dato un Testamento Nuovo! L’on. Degasperi termina eccitando i giovani a sollevare lo spirito al di sopra delle lotte presenti, a non lasciarsi vincere dalla tristezza dello spettacolo quotidiano, a tenere fisso lo sguardo a quanto è secolare, permanente, divino nello svolgimento della nostra civiltà italica e cristiana. Ogni volta, egli dice, che spinto dal bisogno irrefrenabile di cercare come nel cielo un’idea che mi elevi al di sopra dei contrasti terreni m’innalzo fino dentro la cupola di Michelangelo a contemplare dipinti nell’ampio empireo Angeli e Santi che fanno corona alla Tomba apostolica, penso con infinito orgoglio che qui ove s’incurva il duomo della mia religione universale s’innalza anche il tempio del genio della mia stirpe e al di sopra delle delusioni presenti, rinnovo nel mio spirito rinfrancato la visione dei grandi e sicuri destini della Patria. |
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| 41921-1925
| La dottrina fascista contro le autonomie – Ci sono degli equivoci? – Decentramento amministrativo e autarchia regolamentare – Autonomia e controllo parlamentare – La mancanza di un progetto concreto – Trentini e Bolzanini – Provincia unica – Urgenza delle elezioni provinciali amministrative – La Giunta provvisoria e il mondo dei popolari. Nel telegramma spedito al presidente del Consiglio dagli on. Giunta e De Stefani e dal capitano Starace si legge anche il seguente periodo: «Chiediamo inoltre pronta risoluzione questioni riguardanti sistemazione legislativa e soppressione autonomie provinciali e comunali non più giustificabili» . Secondo il «Popolo» poi gli stessi signori e il signor Barbesino avrebbero fatto a Bolzano delle dichiarazioni delle quali vanno rilevati in questo contesto quest’incisi: «Ma occorre anche avvertire che la situazione locale di Bolzano si inquadra oggi in un’azione più complessa e più vasta che il Partito nazionale fascista, dopo ben ponderato e maturo esame, ha deciso di affrontare. Intendiamo parlare del definitivo assetto così dell’Alto Adige, come della Venezia Tridentina e per tutti i problemi che interessano la regione». … «Occorre che le nuove provincie abbiano finalmente una organica sistemazione ed un inquadramento nazionale nell’Italia rinnovata. Deve cessare questo autonomismo che crea uno Stato nello Stato al di fuori del controllo del parlamento e in un certo senso dell’opinione pubblica del paese. All’eliminazione degli on. Credaro e Salata va connesso lo scioglimento dell’attuale giunta provinciale e la regolazione di tutti gli organismi locali. Le autonomie devono cessare di esistere. E se erano una necessità, e potevano essere una conquista di fronte all’Austria, Stato plurinazionale, non lo sono oggi e non lo possono essere di fronte all’Italia. Ma a questo punto è bene avvertire che i fascisti non permetteranno mai che il loro movimento venga sfruttato da chicchessia. I popolari e l’on. Degasperi, che nella ultima crisi manovrarono per la conquista dell’Ufficio delle N.P., sono pertanto avvertiti. La nostra azione quindi si estende e comprende tutta la regione. Essa non finirà che quando sarà risolto il problema della sistemazione italiana, rapida e definitiva, della V.T.». Ora queste dichiarazioni esigono una parola franca e precisa da parte nostra, primo perché riguardano l’assetto di questa nostra terra, alla quale ci lega un passato di travaglio o di speranze; secondo perché, almeno in parte, veniamo chiamati direttamente in causa. Premettiamo anzitutto che i trentini tutti fra loro vedono con piacere l’interessamento del partito fascista per i nostri problemi regionali. Ci lagniamo sempre, e a ragione, di essere trascurati, o non compresi, e deploriamo l’inerzia dei governi e la noncuranza dell’opinione pubblica, quando si tratta delle Nuove Provincie; e lo sforzo dei trentini è stato sempre diretto in questi primi anni dopo l’annessione a risvegliare entro le varie correnti politiche l’interessamento per i nostri problemi; primi fra tutti i popolari nei congressi e nel gruppo parlamentare, poi i nazionalisti e liberali. Tutti questi gruppi ebbero la tendenza di far assurgere il problema locale a problema nazionale, di dare alla Venezia Tridentina «un inquadramento nell’Italia rinnovata» e di ottenere che la sistemazione definitiva venisse rapidamente attuata. Basti richiamarsi in proposito al nostro articolo riassuntivo scritto alcune settimane fa . Il contrasto incomincia quando si vuole indicare la direttiva della soluzione. I fascisti o, per dir nominalmente, gli on. Giunta e De Stefani reclamano l’introduzione pura e semplice della legge amministrativa comunale e provinciale vigente nel resto del regno, colla soppressione di quegl’istituti che nella costituzione ancora vigente nelle Nuove, rappresentano un maggior decentramento e una maggiore autarchia in confronto dello Stato. Essi vedono in questo sistema «un autonomismo che crea uno Stato nello Stato al di fuori del controllo del parlamento e in un certo senso dell’opinione pubblica del paese». Ora in quanto i fascisti propugnino come programma di rinnovamento nazionale un maggiore accentramento di poteri e di funzioni, ogni discussione, trattandosi di contrasto tendenziale, può sembrare superflua. Ma a noi rimane sempre il dubbio che, nel caso concreto delle Nuove Provincie, permangano dei grossi equivoci che abbiamo visti annidarsi ostinatamente nelle discussioni fasciste nella Venezia Giulia e negli articoli dell’on. De Stefani e ci pare risultino anche dalle manifestazioni che stiamo commentando. Di fronte ai quali equivoci bisogna ancora una volta rilevare che nessun partito trentino ha mai chiesta un’autonomia politica, né ha mai avuta la tendenza di diminuire l’influsso politico dello Stato sui comuni e sulle provincie; che anzi quando gli Alto Atesini chiesero nel loro progetto di autonomia qualche cosa di simile, i trentini (e allora tutto il resto d’Italia taceva), furono i primi a dare l’allarme e a protestare. Quando noi parliamo di autonomia intendiamo parlare di decentramento amministrativo con maggior libertà di gestione da parte degli enti locali di quella che consenta attualmente la legge in vigore nel regno. A Bolzano, per esempio, il governo, nonostante la costituzione autonoma, può confermare o non confermare il sindaco, sciogliere o non sciogliere il Consiglio comunale, per ragioni d’indole politica. La differenza sostanziale sta nella sorveglianza della gestione finanziaria la quale è riservata alla Giunta provinciale. Ma anche in caso di provvedimenti che si rendessero necessari in seguito a cattiva gestione, il governo, cui spetta sempre il diritto di intervenire a tutela della legge, ha il mezzo di far prevalere le sue direttive. Nessuna disposizione autonoma poteva trattenere il governo d’intervenire a Bolzano, come viceversa gli articoli della legge comunale sulla sorveglianza dello Stato non hanno saputo indurre il governo di Bonomi o di Facta a intervenire a tempo a Milano. Si avverta ancora che la questione della polizia municipale non ha da che fare collo statuto autonomo. Si tratta di attribuzioni che lo Stato delegava o toglieva ai comuni, secondo la fiducia che nutriva verso di loro. Trento era autonoma come Rovereto e Bolzano, ma a Trento l’Austria aveva tolte le attribuzioni delegate, a Bolzano e a Rovereto, per ragioni diverse, le aveva lasciate . Dov’è qui l’autonomismo che crea lo Stato nello Stato? Ma si vorrà accennare forse allo statuto provinciale. Ebbene anche di questa autonomia non si può dire che essa si svolga al di fuori del controllo parlamentare e dell’opinione pubblica, quando la rappresentanza o il consiglio provinciale è ridotto o per statuto, in quanto certe deliberazioni hanno carattere regolamentare, o in pratica, in quanto al finanziamento della spesa occorra il contributo dello Stato, a collaborare in subordinazione allo Stato e al Parlamento. Comunque, noi abbiamo sempre affermato che di fronte al disorientamento rivelatosi qua e là nell’opinione pubblica ignara degli ordinamenti e sovrattutto della pratica del passato e alle polemiche suscitate pro e contro, poco giova l’addentrarsi in discussioni di carattere generico. Bisogna avere come base di discussione un progetto concreto; ed è questo progetto che abbiamo invocato ed è stato promesso dall’Ufficio centrale per quest’autunno. È troppo il chiedere che nazionalisti e fascisti attendano di poter discutere e deliberare sull’accettabilità o meno di uno statuto? È troppo quando noi stessi, autonomisti convinti nel senso di cui sopra, ci dichiariamo pronti a lasciar cadere ogni nostro postulato, quando lo si possa dimostrare in contrasto col rinnovamento e col rafforzamento dello Stato? E qui ci giovi anche un’altra considerazione. I trentini, dopo l’armistizio furono non solo unanimi nel respingere le esagerate e viziate pretese autonomiste dei tedeschi altoatesini, non solo intervennero efficacemente, per quanto talvolta soli, a creare la circoscrizione elettorale coll’annessione a Trento della Ladinia e della zona mista , non solo fecero pressioni in favore della legge Corbino, come primo passo per risolvere il problema scolastico , non solo intervennero rapidamente contro lo smembramento della diocesi , ma in ogni occasione che si trattò di difendere i diritti nazionali e il prestigio dello Stato sulle sue frontiere, furono i più solleciti ad accorrere e a dare l’allarme, tanto che i negatori dello Stato italiano d’oltre Salorno vedono in Trento più che in Roma l’ostacolo più contrastante alle loro tendenze. E non facciamo qui appello alle prove di fedeltà alla causa della stirpe date dal Trentino in altri tempi, più aspri e più pericolosi di questi. Ma, allora, concludiamo, perché non volete concedere a questi trentini, i quali badate bene, all’unanimità dei partiti rappresentanti nella commissione consultiva, il che vuol dire all’unanimità dei partiti che sono riusciti ad affermarsi nelle ultime elezioni, si sono pronunciati di nuovo per una sistemazione delle Nuove Provincie la quale mantenga la sostanza delle attribuzioni decentrate e autonome, sostanza che dev’essere inquadrata entro la amministrazione italiana, perché, ripetiamo, non volete concedere a questa gente che ha date tante prove di attaccamento alla nazione, di studiare, eventualmente attuare un esperimento organizzativo sul terreno delle gestioni locali? Tanto più voi questo potete concedere, in quanto oggidì oramai, per merito specialmente del contegno del Verband tutti i partiti si accordano per la soluzione della provincia unica, nella quale a Trento toccherebbe il compito di fungere da centro assimilatore e propulsore! Voi questa sistemazione la volete rapida? Nessuno l’ha invocata più insistentemente di noi, che fin dai primi mesi dell’amministrazione militare domandavamo la convocazione dei comizi provinciali e che tutt’oggi nessun altro sbocco legittimo e salutare vediamo che l’indizione delle elezioni, elezioni che noi – partito di maggioranza – vogliamo fatte col sistema proporzionale perché sia data equa rappresentanza a tutte le correnti. Frattanto voi accennate – si vera sunt exposita – alla soppressione della Giunta provinciale provvisoria. La Giunta venne nominata circa un anno fa dal governo , perché esso non era ancora in chiaro sui criteri che avrebbe dovuto seguire nella sistemazione definitiva. Essa rappresenta dunque un collegio amministrativo regio, sostituito all’unica persona del commissario provinciale, e venne costituita col concorso proporzionale di tutti i partiti ch’ebbero affermazioni notevoli nelle ultime elezioni. La Giunta è anche l’unico tentativo riuscito di collaborazionismo tedesco, giacché contro il volere del Verband, i due assessori tedeschi finirono coll’adattarsi a venire a Trento e a collaborare in un collegio unico per tutta la regione. Malgrado ciò e nonostante l’opera preziosa dei nostri amici, noi nessun altro desiderio più forte abbiamo che quello di vedere la Giunta provvisoria e nominata far luogo quanto prima alla Giunta definitiva ed eletta. Ma a che gioverebbe momentaneamente la soppressione del collegio giuntale? Per ritornare di nuovo all’unico commissario provinciale? Considerino bene i politici del fascismo e vedano quanto i suggerimenti interessati di certi settari, appiccicatisi nell’ultima ora alle loro vesti, corrispondono all’interesse del paese o a ire e brame di fazioni locali insoddisfatte. In quanto «ai popolari e all’onorevole De Gasperi che nell’ultima crisi manovrarono per la conquista dell’Ufficio delle Nuove Provincie» , crediamo di poter affermare che l’avvertimento è superfluo. Non è vera la premessa e non è logico quindi il monito. Se l’on. Giunta interrogherà i suoi colleghi delle Nuove Provincie, che siedono sui banchi della Destra, potrà avere comprovato con testimonianze insospette che l’on. De Gasperi non agì per suo conto personale, né unicamente per il suo partito, ma per mandato di quasi tutti i deputati delle terre redente, e col proposito di garantire quella diretta responsabilità della politica fatta nelle nuove Provincie in confronto del Parlamento, di cui oggi si deplora la mancanza e coll’intento di spingere finalmente il governo a quella sistemazione definitiva, sia in confronto degli allogeni, sia riguardo ai problemi regionali in genere, che ancora tarda a venire. Se l’on. De Gasperi e i colleghi che lavorarono con lui, fossero allora riusciti, la situazione oggi sarebbe radicalmente mutata, giacché non è al potere o – per dirlo in stile odierno – alla parvenza d’un potere ch’egli tendeva, ma a dare, disinteressatamente, alle Nuove Provincie un governo forte, cosciente e parlamentare responsabile. |
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| […] Data la situazione generale della città , saremmo imprudenti se non ci attenessimo sovratutto al criterio suggerito dalla saggezza di rimandare i commenti e l’esposizione completa del nostro pensiero a tempi più tranquilli. Nella tensione degli spiriti una parola anche giustificatissima potrebbe venire interpretata come provocazione e aggravare quella crisi che nell’interesse generale del paese non dev’essere prolungata. Ma potrebbe apparire viltà se non dichiarassimo esplicitamente che la protesta della Giunta è quella della straordinaria maggioranza della popolazione, la quale, e nelle elezioni politiche e nelle elezioni comunali, ha espressa quasi plebiscitariamente la sua libera volontà. Il popolo trentino il quale dacché ha potuto esprimere il suo pensiero, ha rivelato in moltissime ed imponenti manifestazioni – ricordate solo la festa dell’annessione e le insuperate accoglienze ai Reali – il suo entusiastico attaccamento alla patria, e la sua profonda riconoscenza per l’esercito liberatore, sarà sorpreso di questo colpo di mano che in nome di una italianità più sentita, vorrebbe togliergli, senza nemmeno la possibilità di discutere, la speranza di sfuggire a quell’accentramento burocratico che nelle vecchie provincie è deprecato da tutti, anche dai fascisti, ma dal quale, introdotto oramai ch’esso sia, nessuno trova il modo di liberarsi. Sorpreso, ma non crediamo che muti convinzione. La deputazione popolare e con lei l’intiero partito faranno di tutto per darci l’interpretazione più efficace. Noi deploriamo vivamente che la delegazione fascista si sia lasciata indurre da suggerimenti locali ad attuare un’impresa contro la Giunta. Partigiani di una sempre più intima assimilazione fra vecchie e nuove provincie, per tutto quello che riguarda lo spirito e il sentimento nazionale, ma convinti che il nostro sistema amministrativo provinciale decentrato merita di venire coi debiti adattamenti conservato e, diremmo, italianizzato, abbiamo visto con dolore che il partito fascista, che aveva organizzato un movimento contro il Perathoner , si sia lasciato indurre alla lotta contro un corpo amministrativo provvisorio, che nessuno poteva volere né voleva definitivo e che tutti invocavano venisse sostituito quanto prima fosse possibile da un corpo elettivo. La cosa si aggrava, quando essa è diretta contro persone le quali nazionalmente hanno fatto e fanno il loro dovere. Noi c’immaginiamo il sarcasmo degli enipontani e, in cuor loro, anche dei bolzanini, quando leggeranno che quel Conci, che venne internato e processato, quel Conci che in un’occasione famosa portò a Praga, in momenti decisivi, l’adesione degl’italiani, quel Conci che fu a Vienna capo del «fascio parlamentare italiano» che proclamò prima della battaglia decisiva l’annessione delle terre redente all’Italia, quel Conci che venne bandito dalla Giunta provinciale enipontana per ordine imperiale, lo stesso Conci – dopo essere stato accolto trionfalmente in tutta l’Italia – si veda ora sbattere in faccia l’uscio della giunta da lui interinalmente presieduta, quasicché il patriotta Enrico Conci fosse d’un colpo divenuto indegno della sua nazione e difensore del sistema austriaco, contro il quale ha combattuto tutta la sua vita. Noi rinnoviamo anche oggi un diretto appello alla coscienza e alla mente dei capi fascisti e torniamo a chiedere se non credano giusto e anche dal punto di vista nazionale più opportuno che la questione dell’assetto amministrativo provinciale venga risolta in via parlamentare, o, comunque, sulla base di un progetto concreto, al quale non potrà mancare né la vigilanza né la collaborazione della rappresentanza fascista. |
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| Il nostro corrispondente da Milano ci aveva telefonicamente segnalato già ier l’altro un articolo del «Corriere» a commento delle azioni fasciste e della debolezza del governo. L’articolo, per il giornale che lo scrive e per il momento in cui è scritto, merita di venir messo nella collezione dei documenti caratterizzatori dell’ora che passa. Nessuna novità, nessuna verità rara, anzi nemmeno la verità intera, e la preoccupazione evidente di non dispiacere ai fascisti, suoi alleati nelle prossime elezioni amministrative. Ma rimane tuttavia notevole che il «Corriere» a tre mesi di distanza dall’ultima crisi ministeriale, senta oggi l’urgenza di fare un governo forte e scriva, nonostante le sue simpatie per il fascismo, che la debolezza del governo è scuola di anarchia. Benissimo: e com’era la situazione di tre mesi fa, quando scoppiò la crisi del ministero Facta? Perché allora il «Corriere» fece coro con quasi tutta la grande stampa di Roma, accusando i popolari di crisaiolismo inutile e dannoso? Il «Corriere» [ha] presente l’obiezione e risponde che ora dovrebbe trattarsi di costituire non un ministero antifascista o un ministero di collaborazione coi socialisti, ma semplicemente un governo di forte iniziativa. Rispondiamo che, almeno per quanto riguarda i popolari, è una fiaba ch’essi abbiano voluto un ministero antifascista o collaborazionista. Essi volevano un ministero che fosse di fatto e manifestamente disimpegnato tanto dai fascisti, quanto dai socialisti collaborazionisti; e per ottenere tale scopo parve buona la formola «né estrema destra né estrema sinistra». Nel corso però delle trattative, quando Orlando propose di fare il ministero equilibratore, chiamandovi a far parte anche una rappresentanza più o meno attenuata dei fascisti e dei collaborazionisti, i popolari non vi si opposero, ma insistettero perché Orlando allargasse il suo concetto ed arrivasse ad una compartecipazione in pieno. Il secondo metodo era a parer nostro, un’arma a doppio taglio giacché poteva anche riuscire ad indebolire invece che a rafforzare la compagine ministeriale. Tuttavia i popolari non si ostinarono nella loro formula e aderirono anche a siffatto esperimento. I popolari non volevano quindi né un ministero fascista né un ministero collaborazionista, ma semplicemente un ministero forte che ricostituisse l’autorità dello Stato. Al quale proposito gli oratori del nostro partito hanno sempre accentuato che se è troppo chiaro che il disordine presente esige altro spirito e altra energia nel tutelare la pubblica sicurezza, nessuno può tuttavia ritenere che il problema sia precipuamente di polizia. Bisogna, dicevano anche allora i nostri amici, sanare il male con mezzi profilattici, dando allo Stato una forza d’iniziativa che porti i problemi alle rapide risoluzioni che l’impulsività dei tempi richiede. Tuttavia conviene intendersi chiaro. Il fascismo ha nel suo programma alcuni punti di carattere generale nazionale che sono condivisi dalla maggioranza e da altri partiti (riforma delle finanze, burocrazia ecc.) e ha in sé una tendenza realizzatrice delle finalità statali e a questi punti e a questa tendenza lo Stato potrà dar atto e corpo; ma il fascismo come partito politico ha anche dei programmi e dei metodi suoi particolari che la maggioranza del paese non accetta. Qui diventerebbe falso il dire che il Governo forte è quello che fa prima quello che illegalmente farebbe il fascismo poi. Il governo non dev’essere antifascista, ma nemmeno fascista. A parte la questione del metodo, la quale risolleva il problema dell’ordine pubblico e metterà sempre il fascismo innanzi al dilemma della legalità o dell’infrazione delle leggi, rimangono ancora molti punti oscuri e contraddittori nel programma ricostruttivo del partito nazionale fascista, che devono venir precisati, vagliati e contemperati da una maggior esperienza e da una valutazione più oggettiva delle cose. Ed ecco l’articolo del Corriere . |
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| Qualche dubbio In mezzo alla frenesia demolitrice di questi giorni ecco far capolino qualche dubbio, spuntare qualche riserva, manifestarsi timidamente qualche resipiscenza. Abolire l’Ufficio centrale sta bene dice l’on. Suvich deputato nazionalista di Trieste, ma facciamolo con certe cautele di transizione, per non finire nel caos amministrativo. Abolire le commissioni consultive, e sia, dicono i nazionalisti triestini, ma salviamo la commissione dei traffici per il porto di Trieste (la quale non è che un sottocomitato delle consultive). E Suvich arrivato tardi a Roma, quando il Consiglio dei ministri aveva già preso le sue decisioni, protesta contro il proposito di voler sistemare le Nuove Provincie senza il concorso dei legittimi rappresentanti del paese. Badate, l’on. Suvich è forse l’unico deputato della Venezia Giulia che conosce a fondo il nostro meccanismo amministrativo, l’unico che elaborando presso l’Ufficio centrale la faticosa riforma burocratica dell’assimilazione dei nostri impiegati si sia fatto un concetto chiaro delle difficoltà che bisognava superare per giungere all’unificazione amministrativa degli organi statali; e uno dei pochi deputati, i quali avendo dovuto combattere coll’impreparazione dei ministeri abbia potuto valutare le funzioni ausiliari che nel trapasso esercitava l’Ufficio centrale. Comunque, non è per rimpiangere l’Ufficio che ritorniamo sull’argomento. Oramai da tempo avevamo vista l’ineluttabilità del suo scioglimento, giacché per le diminuite attribuzioni e per la riduzione del suo personale, non poteva più diventare quello che doveva essere; onde, abbandonando ogni idea di poterlo mantenere come dicastero amministrativo, avevamo caldeggiato il progetto di farne uno strumento politico interinale che affrettasse la opera di assimilazione e di sistemazione secondo una direttiva precisa, parlamentarmente responsabile. Ma chi ne invocò l’immediata soppressione, rendendolo responsabile della cattiva amministrazione delle Nuove Provincie o attribuendo al suo Capo tutti gli errori politici che si sono compiuti, avrà occasione nei prossimi mesi di disingannarsi. Sarà buono che sovratutto a Trieste si sappia che le obiezioni principali che si movevano all’Ufficio, ragioni che determinarono parecchi ministri a schierarglisi contro, riguardavano l’eccessiva tutela degl’interessi giuliani che si attribuiva all’on. Salata; e l’on. Paratore crede di celebrare la morte dell’Ufficio col risparmiare parecchi milioni, economie però, badate bene, che spera di raggiungere non col sopprimere le spese per l’Ufficio stesso – poche centinaia di migliaia di lire all’anno – ma col far cessare qualsiasi contributo dello Stato, dall’Ufficio richiesto a favore di enti e comuni delle Nuove Provincie. Non sarà un caso se il contributo statale al Comune di Trieste cesserà col cessare dell’Ufficio centrale; non sarà un caso se i bilanci dei commissariati subiranno la falcidia di parecchi milioni previsti per lavori pubblici o spese redditizie e non sarà un caso se certe poste – come quella degl’internati e perseguitati politici – scompariranno collo scomparire dell’Ufficio. Si avverta che noi non intendiamo disapprovare ogni sacrificio indispensabile per arrivare al pareggio, ma esso vale come sacrificio per coloro che sanno di doverlo compiere. Chi invece, lavorando oggi di piccone, intona il peana della vittoria, credendo d’aver fatto il proprio interesse andrà incontro a disillusioni molto amare. La cosa è più grave, quando si consideri che la soppressione dell’Ufficio centrale deve appena inaugurare la serie delle soppressioni ritenute indispensabili per ragione di economia. L’on. Paratore fu uno dei «soppressori» più dichiarati perché tra breve intende di sopprimere il Ministero delle Terre Liberate. Un ministero di meno, benissimo, dirà taluno. E chi ne dubita? Il guaio è che col ministero si tenterà ridurre anche il suo bilancio, di diminuire in misura notevolissima i fondi per il pagamento dei danni di guerra. Chi ne avrebbe maggior danno? La zona devastata delle N. P. per la quale la legge sui danni venne applicata un anno e più dopo che vigeva nel Veneto. Ora è chiaro che le Nuove Provincie non potranno sottrarsi, fino ad un certo limite, alla politica della lesina finanziaria; ma conviene ben far capire che questo è un sacrificio che eventualmente si avrà il doloroso dovere di accettare, ma non un successo di cui si debba o possa menar vanto. Le ragioni dell’opposizione fascista Nel «Popolo d’Italia» leggiamo il comunicato, diramato del Fascio di Trento, per spiegare le ragioni dell’opposizione fascista alle autonomie locali delle nuove provincie. Una di queste «ragioni» che potrebbe aver presa, suona così: «Perché l’autonomia della Venezia Tridentina fornirebbe argomento irrefutabile agli alto-atesini per pretendere la costituzione di una provincia di Bolzano con una propria e più larga autonomia. È ovvio quanto sarebbe pericoloso per la Nazione il formarsi, ai confini, di una provincia autonoma prevalentemente tedesca. Il postulato autonomistico dei liberali trentini risulta perciò in antitesi con la loro volontà di mantenere l’unità regionale della Venezia Tridentina». Benché il comunicato sia rivolto ai liberali, ci permettiamo d’interloquire osservando: una delle due, o si costituisce una provincia con un consiglio provinciale e una giunta esecutiva eletta dallo stesso consiglio provinciale, accomunando in questo esecutivo le attribuzioni che hanno nel Regno Deputazione provinciale e Giunta provinciale amministrativa, e allora si ha il tipo della provincia autonoma; ovvero si costituisce il consiglio provinciale colla sua Deputazione e accanto si crea la Giunta amministrativa composta di rappresentanti elettivi e impiegati statali e presieduta dal prefetto, e allora si ha la provincia tipo francese centralizzato introdotta in Italia. In tutti e due i casi si ha il Consiglio provinciale elettivo; in tutti e due casi vi sarà nel Consiglio una forte minoranza tedesca. Ma mentre nel caso della provincia autonoma o decentrata, trattandosi di un organo elettivo, i trentini avranno vantaggio a mantenerne l’unità per ragioni politiche o finanziarie, nel caso della provincia centralizzata la forza antagonistica contro la minoranza tedesca non può essere che la burocrazia statale. Allora può sembrare che sia indifferente avere una o due provincie; tant’è vero che l’on. Giunta l’ha dichiarato esplicitamente. E allora voi credete sul serio che un Consiglio provinciale con grande maggioranza tedesca che si raccogliesse a Bolzano, anche se di attribuzioni ridotte non possa servire a manifestazioni politiche per l’estero? E voi credete che l’eventuale prefetto di Bolzano avrebbe più forza di resistere alle pressioni dei membri elettivi tedeschi che lo circondano? Via, la vostra tesi è per lo meno assai discutibile, anche se nutrite poca fiducia nell’elemento elettivo trentino. Il dominio… clericale Un’altra frase: l’autonomia amministrativa si vuole per mantenere il predominio dei popolari nelle nuove provincie. Ebbene, fate i calcoli. Nella Venezia Giulia i popolari organizzati sono una minoranza esigua, e quindi la regione giuliana è fuori questione. Rimane la Venezia Tridentina. Introducete senz’altro la legge italiana e avrete un Consiglio provinciale che nella sua maggioranza – si elegge ancora secondo il principio maggioritario – sarà presumibilmente popolare. La deputazione sarà tutta o in maggioranza di popolari, la Giunta amministrativa fra i suoi membri elettivi avrà popolari. Introducete invece il Consiglio provinciale colla proporzionale, come abbiamo proposto noi e avrete che il partito popolare potrà essere ancora il più forte, ma difficilmente da solo raggiungerà la maggioranza assoluta. Parliamo naturalmente in base ai risultati recenti. Che se calcolassimo in base alle rinverdite speranze antipopolari, la proporzionale potrebbe spostarsi ancora in nostro sfavore. Ma la frase tira, e si ripete senza controllo. Sempre confusione! Abbiamo pubblicato l’altro giorno le richieste del fascio nel campo scolastico e, per il loro contenuto, le abbiamo anche commentate. Ma ci è sfuggito che fra le premesse di un ordine del giorno riguardante l’ordinamento scolastico delle scuole medie, le norme di classificazione e di esami, il processo disciplinare, l’insegnamento religioso ecc. sta questa motivazione: «Visti i postulati del P. N. F. neganti speciali autonomie per le Province redente, autonomie la cui richiesta costituisce un attentato al concetto unitario della Patria; e la cui concessione segnerebbe l’inizio d’una serie di altre autonomie regionali che determinerebbero lo sgretolamento dell’Unità nazionale, ecc.». Ora se gli aderenti del fascio, che non appartengono alla regione, credono che gli ordinamenti delle scuole medie stiano in un nesso qualsiasi colle autonomie comunali e provinciali, s’ingannano di grosso. Si può essere per il decentramento amministrativo colle attuali attribuzioni del Comune e della Provincia e contemporaneamente essere i più rigidi partigiani del perfetto livellamento degli ordinamenti delle scuole medie. Né calendari scolastici, né norme di esami né processo disciplinare, né insegnamento religioso hanno mai avuto alcun rapporto coi comuni e colla provincia. Qui è lo Stato che delibera e regola nella propria sfera di azione. Codeste mistificazioni sembrano proprio suggerite da qualche anima anticlericaluccia vecchio stile che approfitta della ventata antiautonomista del fascismo, per sfruttarne la forza in favore del suo criterio massonico. I socialisti alto atesini I socialisti altoatesini pur disapprovando le imprese fasciste e dichiarando che «tali metodi rendono difficile la posizione degli amici d’una politica conciliativa» (Volksrecht la corrente) rilevano che parte della colpa va ricercata nell’atteggiamento provocante del Deutscher Verband e ricordano che il conte Toggenburg ha dichiarato in una pubblica adunanza che s’egli fosse italiano, sarebbe anch’egli un fascista. È vero, aggiunge il Volksrecht «se avessero vinto le potenze centrali, quei signori (del Verband), sarebbero oggi nello stato maggiore della Orgesch e il famigerato programma di Sterzing sarebbe stato un giuoco da ragazzi in confronto delle follie nazionaliste dei Nicolussi, Edgar Mejer e compagnia». Monito contro le imposizioni L’Era Nuova recava l’altro giorno il seguente commento ai provvedimenti presi dal Governo per le nuove provincie: «Ciò premesso, perché non ci sia la possibilità di equivoci (e lo avevamo del resto detto ieri abbastanza chiaramente), non si può nascondersi l’impressione di sorpresa e di disorientamento che ha suscitato l’annuncio della decisione presa con una superficialità e una fretta di cui non si hanno precedenti, e dell’attuazione immediata di un provvedimento che, come abbiamo detto, era stato per tanto tempo invocato invano e rimandato da un Governo all’altro come una cosa la cui soluzione non potesse essere presa se non a capo di studi e di preveggenza che ne cautelassero l’efficacia e ne garantissero la buona riuscita. Di tutto ciò, niente, quando l’attendere e il rimandare ancora non faceva più comodo, o quando faceva più comodo cedere semplicisticamente ad una imposizione sopraffattrice che arrivare allo stesso scopo salvando il prestigio dello Stato col provvedere ad una sistemazione organica anziché estemporanea, calma e ragionata anziché angosciata e incompleta. Non sarebbe stato infatti necessario decidere sulla distrettuazione delle nuove Provincie prima di smobilitare i Commissariati generali e sapere per lo meno quanti prefetti e quali si dovranno mandare al posto di Mosconi e di Credaro? Ma poiché la politica del mettere il carro innanzi ai buoi è ormai consumata, e recriminare non serve, cerchiamo almeno di non pregiudicare per nulla la situazione collo svalutare, l’inutilizzare, il disperdere tutto il patrimonio di esperienza e di concreto lavoro fatto in questi due anni dall’Ufficio centrale e col non mandare a Trieste e Trento due uomini che non abbiano la sufficiente preparazione a intendere i nostri problemi particolari e a innestare l’attività nuova delle prefetture sul tronco faticosamente cresciuto dei Commissariati civili. Non ci si mandino per carità, uomini che debbono cominciare con l’imparare l’ubicazione della città, lo stato d’animo dei cittadini, l’importanza degli organi funzionali delle nostre attività. Di esperimenti, ne abbiamo già avuti troppi. Bisogna non distruggere quello che di buono s’è fatto, e procedere innanzi senza scosse, senza soluzioni di continuità. Anzi, per i problemi triestini, di carattere economico e tecnico, particolarmente gravi e complessi, che sono assolutamente diversi da quelli della Venezia Tridentina (poiché i problemi di un grande porto di traffico internazionale dotato di cospicuo naviglio, non hanno alcun rapporto, nemmeno di proporzione, con quelli della amministrazione di una Provincia), il governo che oggi ne avoca a sé la competenza diretta, per trasferirla dall’Ufficio centrale ai Ministeri ha il dovere di garantire Trieste contro i pericoli della improvvisazione. Trieste ha dovuto più volte constatare, e scontare errori gravi della burocrazia centrale che pretende di improvvisarsi arbitra di problemi triestini al disopra dei pareri degli esperti. Per ciò è necessario che in questo trasferimento, governo e burocrazia centrale sieno assistiti dal consiglio della Commissione consultiva. È probabilmente con riguardo a questa situazione che il Governo ha voluto mantenere temporaneamente la Consulta centrale. E ciò crediamo tanto più necessario in quanto il decreto elimina le commissioni locali. (Questo non è esatto perché anche le regionali rimangono – n.d.r.) Per fortuna il provvedimento preso dal Governo non sopprime quella Commissione dei traffici, che pur avendo mandato limitato, può integrare in questo campo l’azione della Consulta centrale, per quel che riguarda la Venezia Giulia». Anche nei nazionalisti triestini qualche resipiscenza L’associazione nazionalista triestina pur esprimendosi per l’applicazione della legge comunale e provinciale italiana in un ordine del giorno formulato sotto l’impressione d’una falsa notizia che cioè venisse subito soppressa la commissione consultiva centrale e tutto venisse demandato alla commissione per la riforma burocratica, biasima il Governo per aver «trascurato di chiamare a decidere i legittimi rappresentanti, considerando le Nuove Provincie estranee alla Madre patria e la questione quale un problema di natura puramente amministrativa». Un atto di viltà dopo tre anni di equivoco Il «Popolo Nuovo», organo ufficiale del Partito popolare italiano, pubblica: […] |
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| Roma, 15. Nella politica italiana non sembrano esservi in questo momento che tre vie aperte: quella di combattere il fascismo, quella di lasciarlo passare avvenga quello che ha da venire e quella di chiamarlo a partecipare al governo. La prima via che sarebbe quella dell’applicazione pura e semplice delle leggi, giacché le leggi escludono non il «partito nazionale fascista», ma la sua organizzazione militare, è forse oggi aperta solo teoreticamente. C’è chi ritiene che l’ordine di sciogliere le squadre non verrebbe eseguito e che alla ribellione a tale ordine lo Stato non potrebbe opporre l’obbedienza incondizionata e la saldezza efficace dei suoi organi. Ma se anche ciò non fosse vero, è vero tuttavia che nessun uomo politico troverebbesi oggi alla Camera il quale si proponga la soppressione dell’organismo militare fascista; primo perché dovrebbe affrontare il rischio della guerra civile, secondo perché disciolta l’organizzazione militare fascista e divenuto il fascismo un partito come un altro, si correrebbe il rischio d’una reazione violenta da parte social-comunista e lo Stato liberale che oggi deve lagnarsi dell’eccesso della sua difesa, domani si troverebbe dinanzi ad un movimento rivoluzionario esasperato dalle azioni fasciste. Inoltre la violenza della propaganda fascista non può togliere che il programma fascista contenga dei postulati positivi i quali sono fatti non per abbattere, ma per rafforzare lo Stato. Quando i fascisti domandano una politica severa di economie, quando reclamano dallo Stato più spina dorsale in confronto delle tendenze disgregatrici, quando proclamano la rimessa in valore delle forze spirituali, in confronto al materialismo socialista e all’edonismo borghese, essi propugnano un programma di rinnovamento, che sta nell’aspirazione della maggioranza del popolo italiano. Non c’è pericolo combattendo la sua organizzazione militare, che si soffochi anche il suo programma e che si spengano quelle speranze ch’esso sa suscitare? D’altro canto ormai anche i più ottimisti, i superficialoni dello «stellone» comprendono che così non può andare avanti. Il manchesterianismo politico di Facta – laissez faire, laissez passer – ha condotto al punto che una parte – i socialisti unitari – proclamano la astensione dalle elezioni – vedi le elezioni amministrative del Polesine – e che un’altra, la comunista, ritorna all’organizzazione segreta e rivoluzionaria, vecchio stile. Mentre ciò avviene, il governo non è in grado di difendere non dico l’incolumità degli antifascisti, ma nemmeno la libertà di parola e di movimento dei membri stessi del suo gabinetto. Il «lasciar fare» quindi come metodo si presenta come un giuoco assai arrischiato. Ed eccovi la terza via; chiamare i fascisti al governo. È presto detto: ma come e a quali condizioni? La collaborazione dei fascisti era stata prospettata anche nell’ultima crisi, e i popolari non vi si erano opposti, purché l’andata al governo fosse l’arresto dell’attività extralegale e rivoluzionaria dei fascisti. Si può ammettere che Mussolini sia ministro e nello stesso tempo dia l’ordine o tolleri che gl’iscritti al suo partito prendano d’assalto municipi o prefetture? Ovvero si può immaginare che un ministro della Guerra tolleri di fronte a sé un altro esercito capitanato dal suo collega ministro dei LL. PP., delle poste o dell’istruzione? Nel momento quindi che il fascismo si accinge ad andare al governo, esso deve sciogliere il suo amletico dilemma che Mussolini si era posto già in estate alla Camera: o partito di governo o partito rivoluzionario. La difficoltà sta tutta nell’ottenere una risposta netta e sicura a tale domanda. Il pericolo sta tutto nel momento in cui viene posta. Ci sarà oggi la calma, la forza di costringere il fascismo ad uscire da ogni equivoco? Ovvero sotto la minaccia di qualche moto rivoluzionario, più o meno ingrandito dalla fantasia, si apriranno ai fascisti le porte del Viminale, offrendo qualsiasi seggio, pur di avere una tregua e superare la crisi dell’ora grave che attraversiamo? In questo momento si pensa naturalmente a Giolitti. Perché? I suoi amici non mancano di esaltare le virtù taumaturgiche del «Vecchio», come usano dire a Montecitorio. Ma la verità è più modesta. La verità è che Giolitti è l’ultimo e l’unico uomo dei liberali che abbia l’autorità e l’abilità di comandare alla maggioranza dei liberali stessi, riducendoli ancora ad una forza unitaria ed effettiva alla Camera e, contemporaneamente, l’unico che abbia, fra i prefetti, molti personalmente devoti della sua persona. Non a torto quindi si pensa che tali qualità giovino per dare alle forze statali una maggiore coesione. Al di là di questo, il resto è leggenda o esagerazione. I suoi partigiani sanno dimostrare, a seconda del vento, che Giolitti è filosocialista o filofascista, che Giolitti ha aperto la via al fascismo indicendo le passate elezioni ovvero ch’egli, come ha sparato a Fiume, saprà tirare anche sui fascisti ecc. Ma la verità è che Giolitti rappresenta il vecchio e tanto criticato sistema democratico, di compromettere i partiti e di ammansirli col chiamarli al governo. Al di là di questo sistema egli non apporterà nessun elemento nuovo di soluzione. Ma insomma, dicono tutti, quando la disgregazione e la gelosia reciproca delle democrazie ha impedito che in estate sorgesse un ministero forte, al di fuori dei giolittiani, è ben meglio che invece d’un suo luogotenente inetto venga Giolitti stesso. Oggi, in mezzo allo sbandamento generale, Giolitti rappresenta un espediente, al quale finiranno per rassegnarsi tutti, come al male minore. |
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| Roma, 2 notte. L’on. Degasperi, quale presidente del Gruppo popolare parlamentare, ha diretto ai membri del Governo che appartengono al suo gruppo la seguente lettera: «Cari ed egregi amici, La Commissione direttiva del Gruppo parlamentare mi ha incaricato, in occasione della vostra partecipazione al nuovo Governo di esprimervi i suoi rallegramenti e i suoi auguri. A Voi, onorevoli Ministri, in modo particolare sono affidati i dicasteri che per l’ora che corre assumono notevole importanza: l’uno che deve presiedere all’opera di restaurazione finanziaria, l’altro che deve riorganizzare le previdenze sociali e promuovere la ricostituzione della rappresentanza del lavoro entro la Nazione. Nell’uno e nell’altro noi confidiamo che vi riesca, col concorso dell’intero Governo, di far opera rinnovatrice e duratura, ispirandovi al nostro programma sociale e finanziario che mai come in questo momento si è dimostrato tanto consono alle esigenze della situazione e agli interessi della Patria. A voi dunque e agli altri egregi colleghi che hanno accettato di collaborare al Governo, non solo per un senso di solidarietà, ma perché condividono con noi il concetto di quello che è in questi momenti il nostro e il vostro dovere verso il Paese, diamo assicurazione del più ampio e sincero appoggio. Col nuovo Ministero la Presidenza del Gruppo perde due membri eminentissimi, l’on. Cavazzoni e l’on. Gronchi, ma ci conforta il pensiero che essi anche nel nuovo Governo potranno concorrere ad attuare quei postulati di libertà e di ordinato progresso civile, di elevazione e valorizzazione delle classi popolari che fu opera e meta della loro attività pubblica e delle organizzazioni da loro dirette, prima fra tutte la Confederazione italiana dei lavoratori. Con questi sentimenti accogliete, colleghi, l’espressione del nostro devoto e cordiale amore». Con questa lettera l’on. Degasperi si rende fedelmente interprete del consenso e della pratica importanza con cui il partito ha mandati i suoi rappresentanti al Governo per cooperare a risolvere le gravi difficoltà della crisi finanziaria e della nuova situazione politica. |
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| Riepilogando il nostro pensiero sui rivolgimenti di questi giorni, abbiamo l’obbligo di dire solo parole che siano doverose o giovevoli, non di pronunciare sentenze o affrettare conclusioni. Siamo all’epilogo formale di una rivoluzione politica, iniziata e cresciuta col crescere entro lo Stato di un altro Stato munito di una sua propria milizia; e le condizioni rivoluzionarie non si tramuteranno in condizioni normali legalitarie, fino a tanto che di questi due Stati o di queste due forze non si farà un solo Stato con una sola legge costituzionale e con una unica forza militare a sola disposizione di tale legge. L’epilogo formale è l’andata di Mussolini al governo, l’epilogo sostanziale si avrà soltanto quando il fatto rivoluzionario dello squadrismo avrà una soluzione legalitaria. Premessa questa considerazione generale, per significare che, rimanendo aperto il problema, ne dovremo giudicare in ulteriori riprese e in varie fasi del suo sviluppo, ci resta a dire quanto è doveroso e giovevole dire sul fatto insurrezionale della cosiddetta «marcia su Roma» e sugli episodi di violenza che in molte città lo accompagnarono . L’insurrezione si fa o non si fa; si spiega o non si spiega, ma non si giustifica. Molti uomini politici e quelli che per professione devono esprimere nei giornali un loro giudizio hanno tentato di spiegare l’atto di rivolta con tali ragioni ideali e con tali colpe del passato regime da giungere a una esplicita giustificazione, o a un’implicita coonestazione della tentata impresa. Noi riteniamo invece che chi sente il dovere di salvaguardare la rettitudine della coscienza pubblica, chi pensa che il paese non si salva, se nei cittadini, specie nella nuova generazione, al criterio assoluto della disciplina nazionale e dell’obbedienza alle leggi prevalesse un criterio relativo, che, a volta a volta, seguisse la legge o il comando di un partito, debba anche onestamente e francamente dire che sarebbe una sciagura per l’Italia se le sue nuove generazioni apprendessero dal recente successo a ritenere lecito, tra i mezzi di pressione politica sui poteri dello Stato, anche quello di ricorrere alla minaccia o all’atto a mano armata. Non occorre poi ripetere il nostro giudizio sui singoli atti di violenza contro comuni, società, partiti, giornali, persone che, in minore numero furono compiute durante l’azione contro lo Stato e in maggiore numero poi, da coloro che Mussolini chiamò «eroi della sesta giornata». Nessun atto di violenza è lecito approvare, e sarebbe viltà il coonestare, quasi, con una cronaca che registri tra gl’incidenti che non meritano commento dei fatti, i quali, più ancor che contro il codice urtano contro la legge morale, che guai a noi e alla nostra Patria! se non rimanesse scolpita nella nostra coscienza civile e cristiana. Perciò, per quanto dolenti, siamo tuttavia orgogliosi che ovunque violenza fu fatta, nessuno dei nostri amici si trovi fra coloro che la compirono, ma molti fra coloro che la soffersero. A loro, vittime quasi sempre di una passione, a cui non avevano dato né ragione né pretesto, valga la parola di solidarietà doverosa, la quale non intende eccitarli né a rappresaglie né a resistenze esacerbate dello spirito, ma a deporre sull’altare della patria anche queste loro ingiustificate sofferenze, onde nasca finalmente l’ora della pacificazione. Poiché, ecco l’altro e più grave dovere che c’incombe in questo momento, come pubblicisti cristiani ed italiani. Il nuovo governo ha dichiarato il suo proposito di ristabilire la pace interna, sulle basi del diritto comune e delle pubbliche libertà e di ristabilire lo Stato nella sua struttura costituzionale e legale . Noi dobbiamo favorire tale proposito, e nessuna riserva di giudizio sui metodi coi quali il fascismo andò al potere ci esime dal dovere di influire sulla coscienza dei cittadini, affinché allo sforzo pacifico e legalitario non manchi il concorso morale e materiale delle forze che non hanno mai abbandonato il terreno della legge. Abbiamo pronunciata espressamente la parola dovere; e la ragione ci pare intuitiva. In altri momenti e nelle fasi più normali della nostra evoluzione politica, può essere lecito ed apparire nobile l’atto di chi, offeso nel suo senso morale e giuridico dal modo, con cui si svolsero, si tira fuori degli avvenimenti. Oggi sarebbe cecità imperdonabile o deficiente patriottismo. Ed invero, chi può oggi, al di fuori del governo attuale, tentare di ristabilire definitivamente le condizioni normali della costituzione e darci l’epilogo sostanziale di cui abbiamo detto al principio di quest’articolo? O c’è chi veda in questo momento possibile o desiderabile un ritorno a governi che sarebbero insufficienti o esautorati? O infine c’è chi creda giovevole al nostro paese il facilitare o tollerare l’avvento di una reazione «bolscevica» (chiamandola così grosso modo) che, approfittando dell’energia iniziale ch’è insita in ogni rivolta alla violenza patita, ci spinga verso la catastrofe sociale e nazionale? No, il problema va riportato al punto in cui si trovava, quando lo scontro armato del fascismo contro lo Stato non era ancora avvenuto. Si diceva allora che nel movimento fascista confluivano un grande idealismo e una forza energetica rinnovatrice che conveniva inserire nel governo del paese; si trattava di vedere come queste forze costruttive potessero sceverarsi da metodi inconciliabili collo Stato moderno. Ora l’inserzione è avvenuta con un intervento chirurgico. Non è giusto e doveroso che quanti possono o ne vengono richiesti concorrano alla guarigione e al ringiovanimento del corpo malato, quando il duce del fascismo, divenuto capo del governo si propone di far cessare metodi e situazioni antitetiche allo Stato? Non neghiamo che qualche elemento di diffidenza verso uomini e cose possa far apparire la situazione non scevra di rischio o pericolo; ma altre considerazioni subentrano qui che s’appalesano decisive. Le pubbliche finanze sono in rovina e il loro dissesto grava su tutta l’economia pubblica e privata. L’amministrazione è scossa e sbandata. Bisogna provvedere urgentemente, energicamente. Riuscire è difficile, ma il tentare è un dovere improrogabile. Qui non bastano il maggiore impulso alle volontà, il ritmo del lavoro governativo o parlamentare, l’energia chirurgica del dittatore; qui sono necessari il concorso tecnico e il credito morale di tutte le forze sane del paese, affinché da tale solidarietà di cognizioni e di potenzialità morale ed economica rinasca il credito dello Stato, all’interno, e, quel che più importa, all’estero. Onde ci è parso che il Partito popolare accogliendo la proposta di collaborare al governo, col mettere uno dei suoi uomini proprio al posto più ricco di responsabilità e più povero di simpatie, qual’è il ministero del Tesoro, e collocandone un altro al Lavoro, ove è facile raccogliere applausi in periodi di aumentata produzione e di alti salari, ma è difficile garantire criteri di giustizia sociale, quando incalzano la depressione economica e l’urgenza dell’economia, ci è parso dunque che il Partito popolare abbia fatto opera di sacrificio e di patriottismo, ma opera inderogabile e doverosa. Lo sappiamo: la collaborazione al ministero Mussolini implica una corresponsabilità politica in condizioni nelle quali l’influsso politico è suddiviso nelle stesse proporzioni e ciò presuppone quindi una – per quanto condizionata – fiducia nei capi del fascismo che dominano la situazione. E sia. I primi atti di governo non sono tali da indebolirla, ma anzi da rafforzarla. A questi primi atti bisogna guardare con fede. La salvezza del paese è là: bisogna che il governo Mussolini riesca, poiché il suo insuccesso cagionerebbe nel paese uno schianto di molte speranze, un collasso di molte energie. |
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| Finalmente anche gli altri partiti si mettono sulla nostra strada, riconoscendo implicitamente la bontà del nostro programma e dei nostri concreti atteggiamenti in ordine ai problemi più vitali e indilazionabili della vita sociale e politica contemporanea. Una eloquente prova ne ha dato il governo dell’on. Mussolini. Oggi il Giornale d’Italia dice: decentriamo, riduciamo le forze statali accentratrici e inizia in proposito una apposita campagna. Ma ieri, avantieri, quando queste cose le dicevamo noi (e le abbiamo dette per primi e soli) era il Giornale d’Italia, erano gli altri giornali liberali, democratici, nazionalisti, che sorridevano, con olimpica indifferenza (sino alla derisione), ai nostri propositi, come se si trattasse di cosa trascurabile o di nessun momento. Se vi è stato problema che il Partito popolare italiano abbia tenuto presente e vigorosamente agitato nella coscienza nazionale sin dalla sua nascita, sino dai primi suoi giorni, è stato precisamente il problema burocratico e amministrativo, non inteso in un senso empirico e formale, ma in senso organico e sostanziale, in tutta la sua ampiezza e complessità. Nel capitolo VI del nostro programma, il problema è tratteggiato in sintesi efficace ed impostato sulla vera sua base e cioè libertà ed autonomia degli enti pubblici e locali. Riconoscimento delle funzioni proprie del Comune, della Provincia e della Regione in relazione alle tradizioni della nazione e alle necessità di sviluppo della vita locale. Riforma della burocrazia. Largo decentramento amministrativo ottenuto anche a mezzo della collaborazione degli organismi industriali, agricoli e commerciali del capitale e del lavoro. Nello stesso appello ai liberi e forti del 18 gennaio 1919 – il primo appello del Partito popolare italiano al paese – uno dei motivi che risuonano con maggiore insistenza è precisamente quello contro lo Stato accentratore, tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale; è l’affermazione di uno Stato veramente popolare che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali – la famiglia, le classi, i comuni –, che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private. E qualche mese prima che sorgesse il nostro partito, nel discorso che Luigi Sturzo tenne a Milano nel novembre del 1918 , e che è lo squillo precorritore del Partito popolare, il disquilibrio tra il vincolo statale e la libertà individuale è rilevato in una forma esauriente, e trova la sua ragione d’essere nella concezione statale assoluta e panteista, in una specie di inversione assurda dei termini e per cui, mentre il vincolo sociale deve servire alla elevazione personale di ciascun associato, nella concezione statale liberale, lo Stato diviene come fine ultimo di ogni attività degli associati, legge a se stesso, principio di ogni altra ragione collettiva. La centralizzazione statale, la burocratizzazione della vita nazionale – diceva allora don Sturzo – si ripercuote in tutti i campi della attività sociale ed è divenuta l’assurdo sperimentale, opprimente fenomeno della vita politica moderna. Fenomeno aggravato dalla tendenza socialista mirante ad un’organizzazione di un socialismo di Stato – concludeva don Sturzo – si riduce a forme di tirannie di partiti o di organismi extra-statali, operanti all’ombra propizia della burocrazia, che pervade le fibre del corpo sociale come un bacillo che attenua le forze e toglie le energie libere e operanti. Concetti, codesti, che il nostro amico ha sempre sostenuti, poi, col prosieguo della vita del partito, nei congressi, nelle adunanze degli organi del partito stesso, in articoli, in interviste, nei discorsi elettorati, nei manifesti al paese, in varie e molteplici occasioni dalla conferenza tenuta a Firenze nel gennaio 1922 , nella quale la crisi delle classi dirigenti veniva lumeggiata principalmente, o quasi, sotto l’aspetto della invadenza della casta burocratica in ogni ramo della vita nazionale, sino alla sostituzione del Parlamento. Ma non basta. Il nostro partito agitò il problema non soltanto con i discorsi e con gli scritti, ma lo faceva maturare nella vita politica del nostro paese, portandolo davanti alla ribalta parlamentare. Saremmo imbarazzati nella scelta se dovessimo ricordare tutti gli atti, disegni e proposte preparati dalla direzione e segreteria politica del partito e dal gruppo parlamentare popolare sulla importante e vessata questione. Ricorderemo soltanto che il Partito popolare si è sempre opposto a tutti i provvedimenti emanati sulla questione burocratica, sino al punto di essere ingiustamente tacciato di infedeltà ai ministeri, dei quali faceva parte (vedi «Giornale d’Italia», «Corriere della Sera», ecc.), appunto perché tali provvedimenti lasciavano inalterata la struttura centralizzata, ipertrofica e ingombrante della pubblica amministrazione. E mentre gli avversari tacevano o indulgevano al malo andazzo perpetuantesi, i nostri amici erano gli unici – o quasi – che nel governo, nella Camera, nelle commissioni parlamentari, nelle commissioni ufficiali e ministeriali sulla riforma della burocrazia, sostenevano il decentramento amministrativo e la riduzione organica e razionale dei pubblici servizi. Sin dal giugno 1921, il gruppo popolare aveva presentato al governo e alla Camera, un progetto organico di riforma (dopo la grave agitazione degli impiegati pubblici culminante sino allo sciopero) premendo ed insistendo vigorosamente perché la riforma fosse tradotta in atto. Nel giugno del 1922, la direzione del partito prospettava al gruppo parlamentare e al governo una serie di riforme radicali e concrete, così formulate: 1. Abolizione degli enti statali, che ne usurpano le funzioni, o che d’altra parte esercitano funzioni di pura iniziativa privata, creando privilegi insopportabili, parassitismi impiegatizi e con caratteristiche antieconomiche o senza responsabilità amministrative e politiche (esame degli enti: Unione edilizia, Enit, Consorzio zolfifero, Camera agrumaria, Istituto nazionale della cooperazione, enti portuali e simili). 2. Abolizione dei monopoli industriali come quello dell’assicurazione sulla vita e ritorno alle responsabilità dirette del ministero, di commissioni o giunte autonome create per i servizi di assicurazione e contro la disoccupazione. 3. Abolizione dell’autonomia del Commissariato di emigrazione e dipendenza dal ministero degli Esteri o del Lavoro. 4. Abolizione del ministero delle Colonie e passaggio del servizio agli Esteri con una speciale direzione generale. 5. Abolizione dell’autonomia delle ferrovie, del ministero delle Poste, del sottosegretariato della Marina mercantile e creazione del ministero delle Comunicazioni aeree. 6. Riunione del ministero dell’Industria e commercio con quello dell’Agricoltura; e passaggio al ministero dei LL.PP. delle divisioni dell’irrigazione, bacini montani e bonificamento agrario, in unica direzione con le bonifiche e i servizi idraulici. 7. Riunione del ministero del Tesoro con quello delle Finanze. 8. Riunione dei ministeri di Guerra e Marina in unico della Difesa nazionale. 9. Abolizione del ministero delle Terre liberate appena il compito vada a esaurirsi. 10. Riduzione delle intendenze di finanza, soppressione delle sottoprefetture, soppressione degli economati dei benefici vacanti. 11. Soppressione dei sottosegretari di Stato e creazione delle direzioni generali centrali per ogni ministero, meno quello dell’Interno, Esteri, Finanza, e Difesa nazionale. Egli è che quando una idea è buona, non v’ha forza di avversari o volgere di eventi che possa farla naufragare e farla cadere nella dimenticanza. Un giorno o l’altro dovrà trionfare o per lo meno diventare di comune acquisizione. Ed aveva ragione Antonio Anile , in una recente intervista al Giornale d’Italia, che ogni qual volta i partiti avversari voglian porsi sulla via di una seria e sana ricostruzione nazionale, devono inevitabilmente avvicinarsi al Partito popolare italiano, accettarne il programma e i principi teorici e pratici. |
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| Certe manifestazioni iniziali del governo dell’on. Mussolini hanno avuto indubbiamente, tra le masse dei credenti e presso l’opinione pubblica non turbata da apriorismi settari, una simpatica ripercussione. Vogliamo in proposito accennare al revocato ostracismo del pensiero di Dio e delle cerimonie religiose, ostracismo che sembrava un canone indiscusso delle manifestazioni ufficiali della nostra politica. Il nuovo governo non ha avuto paura di rompere questa deplorevole consuetudine ed anche nella sua presentazione alla Camera il nuovo «premier» non ha trascurato di invocare l’assistenza divina e di accennare ai «particolari riguardi per la religione dominante che è il cattolicismo». Di ciò dobbiamo dunque rallegrarci come di ottimi auspici. Tuttavia, non per fare il guastafeste, ma per la chiarezza delle idee e per sgombrare il terreno da possibili equivoci o da pericolose illusioni, non sarà inopportuno fare alcuni rilievi e ripetere certe necessarie affermazioni a scanso di eventuali responsabilità e per non incorrere in dolorosi malintesi. Per noi, come per tutti i credenti sinceri, l’appello al sentimento religioso non può, non deve essere semplicemente il frutto di un abile calcolo politico, una sapiente arte di governo, ma deve scaturire da una fede schietta, sincera, fervida. Il sentimento religioso è per noi un così prezioso tesoro, nella gerarchia dei valori morali e sentimentali, è per noi così in alto da occupare, senza dubbi e senza discussioni, il primo posto e il più elevato. Noi non concepiamo contrasti e antagonismi tra la nostra coscienza di credenti e il nostro dovere di cittadini, ma se, per assurda ipotesi, ancora una volta dovesse verificarsi l’antagonismo che videro i secoli di Roma imperiale durante le persecuzioni, la nostra scelta tra l’ossequio alle leggi divine e l’ossequio alle leggi dello Stato non potrebbe essere dubbia. Per questo il nostro animo rifugge dall’immaginare un sentimento religioso foggiato ad uso e consumo di servizi statali, una religione sfruttata a scopi nazionalistici, una più o meno larvata risurrezione del gallicanismo o del gioseffismo. La mentalità dell’inglese che fa dell’anglicanismo il crisma della sua razza, o del prussiano che identifica il germanesimo col luteranismo ci sembra condannabile ugualmente alla mentalità di chi pensasse di ridurre il cattolicismo a una semplice manifestazione del genio latino, a un semplice strumento di propaganda di italianità, di chi ritornasse insomma ad una concezione non nuova, e che «l’ancien régime» ha già largamente applicato coi risultati che tutti conosciamo, la concezione cioè della religione «instrumentum regni». Per questo ci pare doveroso non passare sotto silenzio alcune manifestazioni sintomatiche. L’on. Dino Grandi scrive nel Popolo d’Italia queste parole di colore oscuro: «Un secolo di travaglio ha maturato la nostra rivoluzione nazionale e n’è uscito finalmente lo “Stato”. Lo Stato italiano fu dapprima il raggiungimento di una unità geografica, e quindi un’organizzazione amministrativa, per diventare oggi una realtà storica immanente, fatta di potenza, di religione, di spirito. Lo Stato etico di Mazzini e di Spaventa. Quello che altre nazioni hanno raggiunto molti secoli prima di noi, noi soltanto ora abbiamo raggiunto. Per questo l’Italia è giovane, e appare nuovissima nella storia e agli occhi stupiti del mondo. Essa può bene oggi come a Roma al tempo delle sue guerre puniche innalzare sull’alto del Campidoglio il tempio del Dio Giovane cui andava Scipione Africano a sacrificare come al simbolo della nascente civiltà latina. “La religione dello Stato”, questa bisogna vivificare, mantenere, rinsaldare nel cuore di tutti gli italiani. È un compito di difesa e di creazione ad un tempo. Questo è il compito del Fascismo». Una corrispondenza romana al Secolo, dopo aver accennato a questo strano colorirsi di neopaganesimo statolatra che talvolta mostra l’attuale divampare del nostro nazionalismo, riferisce che nelle alte sfere ecclesiastiche non manca chi si chieda perplesso «se nel movimento stesso con cui il governo rampollato dai fasci si atteggia a rivendicatore della missione del cattolicismo nel mondo, non si cela un equivoco. Da quattro secoli, può dirsi, la storia europea è tutta nel processo progressivo dello sviluppo delle nazionalità e nel conflitto dei loro interessi antitetici. Tale processo ha fatto già subire alla causa universale del cristianesimo cattolico iatture e mutilazioni lacrimevoli. Oggi che lo spirito nazionale sembra aver saturato di sé il mondo civile, anche là dove esso aveva incontrato più tenace e funzionale resistenza, gli spiriti più chiaroveggenti dell’alta politica ecclesiastica, intravedono nettamente i pericoli inerenti alla nuova situazione creata dal travolgente successo della passione nazionalistica italiana. O essa, infatti, tenterà di avvincere il cattolicismo romano alla propria causa, e ne affievolirà fatalmente l’efficienza supernazionale; o lo troverà inassimilabile e cercherà di suscitare da sé una forma spirituale che rappresenti il travestimento religioso del suo programma espansionista. Nell’un caso o nell’altro, il cattolicismo latino conoscerà rischi ed ansie mai sperimentati in due millenni di storia. Ha destato una certa impressione in Vaticano il fatto che organi di propaganda protestante come “Conscientia” abbiano apertamente inneggiato al successo rumoroso del fascismo come al prologo di una vasta riforma religiosa. La presenza nel gabinetto di Mussolini di un filosofo idealista, che ha ripetute volte conclamato alla decadenza definitiva del cattolicismo nella civiltà moderna, non ha, certo, concorso a valorizzarne le azioni nel mondo ecclesiastico ufficiale. Nell’esaltazione di tanto febbrile fervore patriottico, non c’è pericolo, veramente, che si smarrisca il senso supernazionale dell’unità cristiana?». Sappiamo benissimo che a certe corrispondenze romane della stampa liberale bisogna attribuire un valore molto relativo, perché quasi sempre tendenziose e arbitrarie. Ma nel brano surriferito vi sono tuttavia elementi che possono richiamare e meritare una attenta riflessione. Nel Popolo nuovo Giulio Seganti prende lo spunto da alcune affermazioni di Carlo Scarfoglio , per altre opportune «mises au point». Lo Scarfoglio, parlando della questione dei rapporti fra il cattolicismo ed il principio nazionale come di un problema nuovo che s’imponga oggi alla nostra coscienza politica, viene, attraverso rilievi non si sa più se paradossali, a delle conclusioni che, secondo lui, dovrebbero venire o sarebbero, mercé l’avvento del fascismo, prossime a venire. Lo Scarfoglio assicura che il riavvicinamento tra questi due principi ancora non sia avvenuto in Italia, e che esso debba essere realizzato dal fascismo. Ma, per ottenere tale riavvicinamento – egli dice – è necessario togliere di mezzo il grande ostacolo che ad esso si oppone, e cioè… il Partito popolare, perché non v’ha dubbio che, mentre la democrazia «che per tanto tempo ha governato sotto veste monarchica, ha fatto della politica, anche involontariamente antimonarchica, dall’altro canto i popolari hanno fatto, nei pochi anni della loro vita, della politica nettamente anticattolica». Il Seganti chiosa: «Si potrà dire: ma vale la pena di prendere sul serio questa roba? – Non prenderla sul serio, ma vale la pena rilevarla perché non è per il gusto di divertire i lettori che uno scrittore brillante, quale è lo Scarfoglio, può dire di queste amenità, ma bensì per venire alla saporosa conclusione che, per affrettare la fusione del principio cattolico col principio nazionale, è necessario che il popolarismo… cessi per dar luogo al “cattolicismo nazionale”. E, perciò – conclude – il popolarismo, come del resto la democrazia devono comprendere che, “non sono ancora in vita se non per liquidare le loro rispettive posizioni, presentare i registri e chiudere…”. Questo, dunque, è il pensiero e il programma del liberalismo: creare cioè un “cattolicismo nazionale” (contraddizione in termini) e togliere dai piedi il popolarismo come partito politico. Distruggere cioè l’organismo politico che, pure avendo a base della propria concezione l’idea cristiana come animatrice di ogni più grande progresso sociale e quindi civile, si dichiara e si mantiene rigorosamente aconfessionale; l’organismo politico il quale, conscio del suo dovere, si propone di non sfruttare la religione a scopo politico, mentre il liberalismo si appresterebbe, secondo il suaccennato proposito, a sfruttare il cattolicismo a scopo… nazionale… In termini poveri si tratterebbe di distruggere il partito politico il quale, attraverso la realtà politica, vuol permeare della sua ispirazione cristiana la vita italiana, per avere a che fare non già con una forza con la quale si debbano fare i conti, ma per avere a disposizione, come nel passato, un determinato numero di “cattolici nazionali”, e cioè una massa di manovra ossequiente, disponibile sempre, pronta a rendere dei servizi». Questi rilievi ci servono per una semplice e naturale conclusione: tra l’agnosticismo ufficiale di un tempo ed una religiosità che non sgorgasse da una profonda convinzione interiore, ma fosse dettata da calcoli di sfruttamento politico, non sapremmo quale sarebbe il male peggiore. |
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| Roma, 19. Fra tutte le dichiarazioni che vennero date alla camera sulle comunicazioni del Governo, le più notevoli, a detta di amici e di avversari furono certo quelle fatte dal presidente dal gruppo popolare. Mentre gl’illustri uomini della sinistra, tra cui i più vecchi luminari come Giolitti, Orlando, De Nicola, De Nava, Bonomi ecc. preferirono votare in silenzio, intascandosi non solo le insolenze dette da Mussolini, ma non tentando nemmeno un’affermazione in difesa della Camera attuale o quanto meno dell’istituto parlamentare, ovvero fecero dei discorsi da giullari, come Rosadi e Gasparotto, l’on. Degasperi che pur aveva il compito di motivare il voto favorevole al Ministero, s’introdusse con parole dignitose respingendo non solo l’eco rivoluzionaria («la rivoluzione ha i suoi diritti» – diceva Mussolini, mentre di poi nello stesso discorso s’impegnava per il più rigido legalismo) del verbo mussoliniano ma anche il giudizio sommario da lui pronunciato sull’attività dalla Camera. Sobrio ma preciso fu poi giudicato il rilievo del patto costituzionale fra popolo e sovrano che nessuno ha diritto d’infrangere e saggia fu la risposta alla alternativa sullo scioglimento della Camera. Detto questo però con pari franchezza il partito popolare dichiara che la situazione eccezionale consiglia e fa almeno tollerare metodi e misure eccezionali, che non possono venire riguardati col tradizionale criterio del costume parlamentare. Di qui un voto ed un appoggio che significano lo sforzo di ricondurre il paese verso l’ordine e sul binario della costituzione, congiunto a quello di voler arrivare a qualunque costo al pareggio e alla riforma amministrativa. S’è dovuto certo anche alle dichiarazioni del Gruppo popolare, fatte fra la più viva attenzione della Camera, e il presidente del Consiglio dava, prendendo poco dopo la parola, quelle spiegazioni che accentuarono se non tolsero l’effetto di risentimento che il suo discorso aveva prodotto il giorno prima. Del discorso vi mando il testo, come appare dal verbale stenografico . |
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| Ai sospetti, alle diffidenze, alle accuse rivolte oggidì contro quanti difendono ancora il principio autarchico e decentrativo com’esso è formulato nei nostri ordinamenti amministrativi e provinciali e comunali, gioverà opporre il fresco ricordo di quanto venne scritto o detto in solenni e recenti occasioni da alte cariche dello Stato, da persone che per la loro funzione sono al di fuori dei contrasti che si dibattono nelle Nuove Provincie o, comunque, appartengono ai partiti di destra. Citeremo e ricorderemo, senza commentare: «Le nuove terre riunite all’Italia impongono la soluzione di nuovi problemi. La nostra tradizione di libertà deve segnare la via alle soluzioni, con il maggior rispetto delle autonomie o delle tradizioni locali». (S. M. il Re nel Discorso che inaugurava la XXV Legislatura, 1 dic. 1919). «D’altro canto dovrà aversi un giusto riguardo alle particolari autonomie di cui godranno le nuove terre riunite all’Italia, con l’augurio che ciò valga ad una più feconda espansione del principio autarchico nel nostro governo locale». (Indirizzo di risposta al discorso della Corona) commissione della Camera dei deputati, presidente Orlando, relatore Alessio). «Per quanto riguarda il decentramento amministrativo ieri ne ha parlato a lungo il collega onor. Pogatschnig (deputato liberale dell’Istria che come l’on. Pesante aveva interloquito in favore delle autonomie) …Sarà quindi molto opportuno che queste autonomie e questo decentramento amministrativo non siano toccati, perché così potranno servire anche di campo sperimentale per il resto del Regno». (On. Suvich, deputato nazionalista di Trieste nella seduta 23 giugno 1921, discutendosi l’indirizzo della Corona). «Credo inoltre che dobbiamo per ora non turbare quei decentramenti che già sono in vigore nelle nuove provincie; probabilmente dalle loro istituzioni potremmo trarre qualche esempio utile per la trasformazione, in senso regionale, di una parte dei servizi… che si possono togliere all’accentramento statale». (Giolitti, pres. Del Consiglio, durante la stessa discussione). «Ai problemi della graduale unificazione legislativa, per i quali soccorrerà l’esperienza dei nativi, sovrasta per urgenza la necessità di dar forma concreta agli ordinamenti di autonomia amministrativa ivi esistenti, giovandoci della collaborazione, nei due rami del Parlamento, dei rappresentanti dei territori interessati». (Bonomi, pres. Del Consiglio, 18 luglio 1921). L’art. 4 della legge sull’annessione, 26 sett. 1920, suona notoriamente come segue: «Il governo del Re è autorizzato a pubblicare nei territori annessi lo Statuto e le altre leggi del Regno e a emanare le disposizioni necessarie per coordinarle colla legislazione vigente in quei territori e in particolare con le loro autonomie provinciali e comunali». L’inciso delle autonomie non era prima contenuto nel disegno governativo, ma vi venne introdotto dalla commissione della Camera, pres. Cocco-Ortu, relatore Carnazza. Ed ecco come lo motivava l’attuale ministro dei LL. PP. «Vi sono da quelle Provincie ordinamenti amministrativi, a cui quelle nobili popolazioni sono affettuosamente legate ecc. Ritiene la vostra Commissione che non debba pensarsi a modificare o abrogare quelle istituzioni e quelle disposizioni…» Nella discussione alla Camera presero la parola diversi oratori. Ecco alcuni passi da ricordare: «Quali saranno i criteri che presiederanno a questo ordinamento? Si dice da varie parti autonomia, decentramento, e tutti siamo concordi, e mentre l’anima nazionale si dirige verso forme sempre più decentrate della amministrazione, mentre noi stiamo studiando un programma di decentramento di tutta l’amministrazione dello Stato è ben naturale che si cominci dall’attuare il decentramento più completo nelle nuove Provincie, che aspettano ex novo un loro ordinamento amministrativo». (On. D’Alessio, della democrazia sociale). Parlarono ancora in tale senso deputati popolari e socialisti, ma non va dimenticato che lo stesso Federzoni, nazionalista, ora ministro delle colonie, non solo non si oppose al principio dell’autonomia amministrativa, ma ammettendola si limitò a combattere le due provincie, proposte dai socialisti, opponendovi la proposta delle rappresentanze distrettuali. Ecco le precise parole di Federzoni nella seduta del 9 agosto 1920: «Il principio dell’autonomia amministrativa si può e si deve salvaguardare in altro modo e precisamente nel modo austriaco, ritornando cioè ad una tradizione costituzionale della cessata monarchia, ossia alla istituzione dei Consigli distrettuali elettivi, i quali avendo funzioni quasi simili a quelle dei nostri Consigli provinciali, con in più la tutela della scuola e in genere degl’interessi culturali della popolazione, potrebbero a Bolzano, Merano, ecc. ecc.». Sul disegno di legge, votato dalla Camera, venne chiamato a deliberare anche il Senato, e la rispettiva commissione, approvandolo – relatore il principe Colonna – scriveva: «L’articolo 4 del disegno di legge del Ministero è stato modificato dall’altro ramo del Parlamento nel senso che nello estendere ai territori annessi lo Statuto e le altre leggi dello Stato, debba il Governo tener conto particolare delle autonomie provinciali e comunali vigenti nei territori che vengono ora a costituire parte integrale del Regno d’Italia. La vostra Commissione approva pienamente l’accennata modificazione… L’Italia instaurerà pertanto la più savia delle politiche, se rispetterà le autonomie amministrative e se non pretenderà di tutto unificare ad una stessa stregua e tutto accentrare, come purtroppo è avvenuto con grave danno del nostro paese e contro il pensiero più volte espresso dal nostro maggiore statista il conte di Cavour, nelle annessioni delle varie parti della penisola». Parecchie citazioni potremmo qui fare anche dalla relazione della commissione parlamentare d’inchiesta sull’ordinamento delle amministrazioni di Stato (legge 16 marzo 1921), commissione composta di 7 senatori e 7 deputati. Diremo per oggi solo che questa commissione dopo parecchi mesi di lavoro, durante il quale studiò e riferì anche sugli ordinamenti delle nuove provincie, che raccomandò di non abolire (vedi pag. 51), concluse fra l’altro con quest’o. d.g. che raccomandiamo all’attenzione dei semplicisti: «Considerato che il decentramento organico diretto alla sua più ampia esplicazione colla costituzione delle Regioni – sulla cui istituzione non tutta la commissione concorda – non potrebbe attuarsi con provvedimenti che non siano profondamente maturati, anche allo scopo di evitare il pericolo che i nuovi istituti portino aumento di spesa; è di avviso che la trasformazione degli ordinamenti attuali debba intanto iniziarsi con un largo decentramento burocratico delle funzioni di amministrazione diretta dello Stato; con una semplificazione delle funzioni di vigilanza e tutela sugli enti locali nel senso di una più larga autonomia di essi, maggiore o minore a seconda della loro importanza, con un graduale passaggio di alcune funzioni governative agli enti stessi». |
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| L’opinione di Crispi sul sistema francese. – Come si fece nel ’59. – Il parere di Saredo. – Le modificazioni introdotte nel 66. – Provvedimenti rimasti dal 66 al 1912. – Entro l’alveo della Nazione e per la Nazione. L’Italia fu il paese classico delle libertà locali. Ma il dominio di Napoleone e dei Napoleonidi le distrusse; e quando le vecchie dinastie, passata la meteora della rivoluzione francese, risalirono sul trono non pensarono affatto a ricostruire le autonomie antiche. La rivoluzione aveva liberato i principi da rivali troppo incomodi. Codeste sono verità vecchie e riconosciute; ma Gino Piva nell’articolo da noi in parte riferito l’altro ieri , ha creduto opportuno ricordare, per esaltarlo, l’esempio francese, e raccomandarlo al nuovo governo d’Italia. Noi potremmo opporgli un coro di voci autorevolissime, dagli albori del Risorgimento fino ad oggi, e non poche abbiamo già ricordato in questo giornale durante il già lungo dibattito sulla nostra sistemazione amministrativa; ma oggi ci soccorre una citazione, della quale non vogliamo defraudare né il valente collega in giornalismo, né i nostri lettori. Siamo al 4 luglio 1887 e Francesco Crispi, presidente del Consiglio, ha la parola per difendere alla Camera il suo disegno di legge sul collocamento a riposo dei prefetti. Ed ecco le parole dell’ardente patriotta siciliano: «Io non sono innamorato del sistema amministrativo del nostro paese. I miei ideali sono tutt’altro. Io godo nel vedere che l’antico municipio romano abbia trovato asilo in Inghilterra. L’Inghilterra è il solo paese che ha conservate le antiche nostre istituzioni: colà recate dai nostri avi. Noi siamo schiavi del sistema francese. In Francia era antico il sistema delle provincie governate dagli intendenti. Nell’anno VIII della Repubblica, sotto Napoleone, sorsero i prefetti, e furono strumento di amministrazione e di governo, col regime imperiale. Possiamo noi farne senza? La rivoluzione francese, per il tanto bene che ci portò, ci portò anche il male di avere estinto l’antico municipio italiano … Avvenne un fatto che parrebbe fenomenale nella nostra rivoluzione. Nel 1848 restaurammo in Sicilia la vecchia legge municipale del 1812. Non fu applicabile. I municipi chiedevano costantemente e continuamente al governo quella tutela alla quale erano avvezzi. Avevano perduto il sentimento dell’autonomia, il concetto dell’individuo. Abituati per moltissimi anni ad essere retti governati amministrati anche dall’autorità centrale, non sapevano svincolarsene. Ed anche la rivoluzione dovette pagare questo tributo all’abitudine che la legge francese aveva disgraziatamente, malamente inoculato». Si è citato anche il metodo spiccio del ’50 e del ’66: fare presto radicalmente, definitivamente! Ebbene, rifacciamoci un po’ alla storia. In Lombardia, come in tutte le altre provincie tra il ’59 e il ’61, venne estesa la legge amministrativa del Piemonte, come era formulata nel testo 23 ottobre 1859, legge che non era uscita dal dibattito parlamentare, ma era stata compilata dal ministero Lamarmora-Rattazzi in virtù dei pieni poteri concessi al governo per la guerra; ed è noto che tale legge venne emanata sotto la pressura degli avvenimenti e dopoché era caduto il ministero Cavour il quale aveva già annunciato un disegno di legge «per allargare le libertà comunali». Non può essere compito nostro discutere questa legge capostipite delle nostre leggi provinciali e comunali e che poi venne continuamente riformata fino al testo unico del 1915. È probabile che ne riprenderemo a parlare. Ma le aspre critiche levatesi poi in quasi tutte le provincie, le radicali riforme che tentarono d’introdurvi subito dopo Cavour, Carlo Farini, e il Minghetti lasciano concludere che se l’affrettata unificazione poté allora essere o apparire giustificata dal punto di vista politico, in quanto che si trattava di dettar leggi all’Italia in formazione, tra una guerra e l’altra, fra un plebiscito e l’altro, la precipitazione con cui vennero modificati gli ordinamenti amministrativi non può tuttavia essere invocata ad esempio dal punto di vista oggettivo; e molto meno dev’essere questo un precedente che debba imporsi ad imitazione anche per tempi normali, in cui nessun pericolo può correre né l’unità nazionale né il sentimento patriottico dei cittadini. Del resto si ricordino le conclusioni del sen. Saredo , già presidente del Consiglio di Stato, e autore del più celebrato commento della legge amministrativa (vol. I; pag. 24). Ecco le sue gravi parole: «Certo è che, in alcune provincie, specialmente in Lombardia, venne accolta con grandissimo malcontento, come quella che vi peggiorava non pochi degli ordinamenti amministrativi che vi avevano fatto buona prova. Il nessun conto tenuto di molte sapienti istituzioni esistenti nel Lombardo- Veneto è stato certamente uno degli errori più gravi commessi nel periodo della nostra unificazione legislativa. Gli antichi e troppo giusti risentimenti politici avevano fatto velo al giudizio al segno di fare disconoscere il non poco che vi era da imparare…». Ed ora veniamo al ’66. Qui neghiamo che le cose siano procedute con tanta precipitazione quanta s’invoca ora per le nuove provincie; benché la smania livellatrice, che doveva poi deplorare più tardi Cesare Correnti , abbia cagionati molti guai, conviene ricordare che per la legge amministrativa si procedette (perfino allora che la unità nazionale non era compiuta), con una discreta graduazione. La legge amministrativa (che frattanto aveva raggiunto il nuovo testo votato dal Parlamento nel febbraio 1865), venne estesa con diversi provvedimenti di raccordo e di temperamento, che in parte durano tuttora! Dopo quattro decreti parziali venne il decreto legislativo 2 dicembre 1866, ch’estese alle provincie venete le disposizioni della legge amministrativa, ma: a) mantenne i distretti coi rispettivi commissari distrettuali; b) l’alienazione dei beni comunali, venne mantenuta obbligatoria a norma delle leggi già vigenti nell’ex regno lombardo-veneto; c) vennero modificati diversi articoli riferentesi alle facoltà tutorie della deputazione provinciale (nella legge del ’65 la tutela dei comuni è riservata alla Deputazione provinciale, cioè alla nostra giunta elettiva); d) per le spese e le imposte vennero mantenute le leggi locali vigenti; e) non furono comprese certe disposizioni circa le spese per il restauro delle chiese; f) furono deferite alle Deputazioni provinciali le attribuzioni assegnate dalle leggi speciali vigenti nel Veneto, alle soppresse congregazioni provinciali. (Le congregazioni provinciali erano un corpo amministrativo deliberante simile alle Diete, ma costituite col criterio d’allora, cioè nominate dal sovrano su terne proposte dai consigli comunali). «Così le provincie venete – conclude il già citato Saredo – conservarono in molte materie delle loro amministrazioni comunali e provinciali l’antica loro legislazione; e la conservano tuttora in non poche, come per le spese di assistenza sanitaria, di culto ecc.». Interessante sarà poi di far sapere ai livellatori semplicisti che fanno le più alte meraviglie perché nelle nuove provincie in tre anni di governo civile non sono ancora scomparsi tutti i resti dell’amministrazione cessata che i commissariati distrettuali del Veneto e del Mantovano terminarono la loro esistenza appena in forza del R. Decreto 19 maggio 1912! Con queste note non vogliamo aver concluso nulla in concreto circa la sistemazione in corso, ma aver avvalorato una volta di più la nostra affermazione: che il nostro movimento autarchico (come più propriamente lo vogliono definire i più recenti studiosi della materia) o autonomista (come dissero i giuristi o i parlamentari, da Cavour a Minghetti, a Crispi, a Rudinì, a Saracco , senza riferirsi ad altro che alle autonomie provinciali o comunali), non è un movimento d’indole grettamente locale, né tanto meno, come scioccamente s’insinua, legittimista, ma è una tendenza che si ricongiunge ad una profonda ed ininterrotta corrente nazionale, la quale ogni volta che un aumento di territorio o una riforma della legge amministrativa le dà occasione, tenta di aprirsi un varco a traverso la selva aspra e fittissima creata da decenni di accentramento. Può essere che anche questa volta il pregiudizio politico o il criterio burocratico ci sbarrino la via. Ma la tendenza non verrà per questo ricacciata fuori dall’alveo della nazione, quasicché si trattasse di un elemento eterogeneo alle nostre origini ed ai nostri destini. E agli uomini di fede rimane sempre l’orgoglio di aver servito disinteressatamente un’idea, per la quale il combattimento continua – per la nazione e dentro la Nazione! |
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| Abbiamo visto in altro articolo come la legge capostipite della legge italiana venne promulgata nel ’59 subito dopo la pace di Villafranca in virtù dei pieni poteri concessi al governo per la guerra e come questa legge piemontese venisse poi estesa dal ’59 al ’61 alle altre provincie. Le ragioni politiche che troncarono allora ogni tentativo di migliorare la legge – Cavour stesso aveva approntata una riforma – sono troppo ovvie. Non cessa però coll’estensione della legge la tendenza alla riforma nel senso del decentramento e dell’autonomia locale; e con le note che seguono vogliamo portare una ulteriore documentazione al nostro asserto: che la corrente verso il decentramento non solo burocratico, ma anche autarchico, è corrente profonda della vita italiana, ch’ebbe sempre fautori in ogni epoca fra i più ferventi costruttori dello Stato nazionale. I progetti Cavour-Farini Fu infatti lo stesso Cavour che, ripreso il potere nel gennaio 1860, di concerto col ministro dell’Interno Carlo Farini, istituiva una commissione straordinaria presso il Consiglio di Stato col compito di elaborate nuove leggi amministrative. La commissione venne inaugurata dal Farini con una nota che si rilegge ancora oggidì con ammirazione. Possiamo riferire solo alcuni passi: «Esso (cioè il fine della legge - ndr.) consiste, per mio avviso, nel coordinare la forte unità dello Stato coll’alacre sviluppo della vita locale, colla soda libertà delle provincie, dei comuni e dei consorzi, e colla progressiva emancipazione dell’insegnamento, della beneficenza e degli istituti municipali e provinciali dai vincoli della burocrazia centrale». E più innanzi: «Se vogliamo compiere un’efficace opera di discentramento e dare alla nostra patria gli istituti che più le si convengono, bisogna, a parere mio, rispettare le membrature naturali dell’Italia. Se noi volessimo creare l’artificiato dipartimento francese, riusciremo a spegnere le vive forze locali, spostandone e distruggendone i centri naturali, e turbando l’antico organismo, pel quale esse si mantengono e si manifestano». Il progetto Cavour-Farini, com’è noto, mirava oltre che al rafforzamento della provincia e dei comuni, anche alla creazione della regione; e per questa parte non c’interessa seguirlo, se non rilevare che l’amministrazione regionale decentrava in misura notevolissima le competenze dei ministeri tecnici e di quello degl’Interni. La commissione accettava in via di massima i criteri del Farini; ma questi frattanto veniva mandato come dittatore nelle provincie napoletane (31 ottobre 1860) e gli succedeva nel ministero degl’Interni Marco Minghetti. Questi però aveva delle idee molto simili a quelle del suo antecessore, perché s’affrettava ancora nelle prime settimane ad inviare alla commissione una nota in cui stabiliva i criteri direttivi della riforma, com’erano voluti dal governo. In base a tali criteri la commissione elaborò un progetto per l’ordinamento dell’amministrazione e sulla scorta di tali studi il Minghetti presentò alla Camera nella seduta 13 marzo 1861 quattro progetti di legge approvati prima nel Consiglio dei ministri sotto la presidenza di Camillo Cavour, che avevano per progetto: 1. La ripartizione del regno e l’ordinamento delle autorità governative e amministrative; 2. l’amministrazione comunale e provinciale; 3. i consorzi fra privati, comune e provincia, per cause di pubblica utilità; 4. l’amministrazione regionale. Il ministro accompagnò i progetti con un discorso ch’è uno dei più belli che si possono leggere nei verbali della Camera italiana, discorso che contenne dei principi che purtroppo molti epigoni del liberalismo hanno abbandonato. Il pensiero di Minghetti sul Comune e sulla Provincia Questi per esempio: «Il comune è la prima, fondamentale e più intima associazione delle famiglie». «La provincia ha in Italia antiche origini ed ha per avventura una personalità più spiccata che in alcun’altra parte d’Europa». E riassumendo: «Pertanto il concetto, dal quale si partono le leggi che ho l’onore di proporvi, si è questo: che la Provincia non sia un’associazione fittizia, ma sia in generale, e salvo poche eccezioni, una associazione naturale fondata sopra interessi comuni, sopra tradizioni e sentimenti che non si possono offendere senza pericolo. Laonde io respingo la massima della formazione di provincie artificiali più o meno grandi e create secondo le convenienze politiche e i calcoli dell’opportunità. Ciò posto, io credo che la Provincia debba esercitare un ufficio molto importante nell’ordinamento amministrativo d’Italia; la libertà provinciale è, a mio avviso insieme con la libertà comunale, la vera salvaguardia del regime costituzionale. Imperocché se in alcune parti d’Europa gli ordini costituzionali non fecero buona prova egli è da attribuirsi principalmente a ciò, che il Comune e la provincia non vi erano bene ordinati né abbastanza liberi; per la qual cosa trovandosi l’individuo isolato di fronte alla oltrepotenza dello Stato, si corre non solo alla democrazia, ma alla dittatura e al despotismo. La costituzione normale della Provincia è l’idea capitale del progetto che ho l’onore di sottoporvi. Voi scorgerete pertanto le attribuzioni della Provincia aumentate grandemente da quello che sono nelle leggi presenti. La maggior parte delle strade, la difesa dei fiumi minori e dei torrenti, l’istruzione secondaria, la sanità e le terme, le discipline per la conservazione dei boschi e per gli usi agrari; quella parte di beneficenza che non è né comunale né di amministrazione privata, gli ospizi per gli esposti e per i maniaci, la conservazione dei monumenti viene ad essa assegnata… Oltre a ciò la Provincia avrà un’amministrazione sua propria e totalmente indipendente cosicché al prefetto, che oggi è il presidente nato dalla deputazione provinciale verrebbe tolta ogni ingerenza nella trattazione degli affari. Solo rimarrebbe ad esso la superiore vigilanza, la quale non credo che mai in alcuno Stato ben ordinato debba venir meno». Ma la commissione incaricata di deliberare sui progetti Minghetti proponeva di respingerli per introdurre rapidamente e colle necessarie modificazioni la legge vigente, ed essendo morti in quel tempo Cavour e succeduto Bettino Ricasoli al Minghetti, i progetti vennero ritirati dalla discussione. Questo ministero venne a sua volta sostituito dal gabinetto Farini e quest’ultimo entro breve tempo dal mistero Minghetti (dicembre 1862 - settembre 1864). Peruzzi , ministro dell’Interno, presentava allora un progetto di parziali riforme, accettato anche dalla commissione parlamentare. Come si riferisce alla Camera sull’applicazione della legge piemontese Di questa è notevole la relazione, compilata dall’on. Boncompagni , perché contiene un epilogo ed un giudizio sulla recente storia degli ordinamenti amministrativi italiani. Ricorda ad esempio la commissione che l’improvvisa estensione della legge piemontese alla Lombardia vi aveva suscitato un malcontento, giacché la Lombardia nell’ordinamento amministrativo del 1755 – ordinamenti compilati da insigni giuristi italiani – aveva salvaguardate le libere tradizioni nazionali. «Non crediamo tuttavia errare affermando che se quella materia fosse venuta in discussione, innanzi al Parlamento, si sarebbero probabilmente uditi dei richiami affinché le leggi di questa libera monarchia dessero nuova consacrazione a taluna delle franchigie che l’oppressione austriaca non aveva distrutte». Ricorda ancora che in Toscana nell’ultimo giorno del 1859 veniva promulgata una legge comunale e provinciale e il 12 febbraio 1860, alla vigilia della già deliberata annessione, un regolamento per i consigli distrettuali e dipartimentali; cosa che veniva motivata il 29 febbraio dal presidente del governo di Toscana, quando, in un discorso, esprimeva la persuasione che quando il Parlamento nazionale darebbe leggi al nuovo Regno italico vorrebbe piuttosto camminare per la via delle libertà comunali e provinciali, che non per quelle di una eccessiva centralizzazione di poteri. «Considero inoltre che, se le nuove istituzioni facessero buona prova in Toscana, ne venisse un esempio autorevole che troverebbe sostenitori fra coloro a cui gli elettori fossero per confidare l’arduo mandato di costituire la Nazione». E infine il relatore della commissione citava un discorso dell’intendente generale per l’Emilia Mayr, che inaugurando il 3 settembre 1860 il Consiglio provinciale di Bologna diceva che quelle provincie ripugnanti a tutto ciò che era opera del governo clericale si affezionarono alla loro autonomia amministrativa che «fu feconda di importanti vantaggi per utili istituzioni attivate per grandiosi lavori opportunamente eseguiti». Non ci attarderemo però a riferire più oltre della relazione e della discussione svoltasi alla Camera nel giugno e nel luglio 1864, perché essa venne interrotta dai nuovi straordinari avvenimenti politici che determinarono il trasporto del Parlamento a Firenze. E anche questa volta si votava, data l’urgenza dell’unificazione colla Toscana, divenuta sede del governo, una legge eccezionale con cui si autorizzava il governo – presidente era diventato nel frattempo La Marmora – a rendere esecutive in tutto il Regno cinque leggi fondamentali, tra cui quella sulla amministrazione comunale e provinciale. Appena estesa, incominciano le riforme-Rattazzi per le autonomie amministrative Dopo i precedenti che abbiamo raccontato, era chiaro che la pubblicazione della legge 20 marzo 1865 non avrebbe contentate le aspirazioni locali, né calmate le censure che venivano fatte agli ordinamenti dal punto di vista amministrativo e tributario; né a togliere questi guai giovarono i temperamenti, le parziali variazioni e modificazioni che si fecero subito dopo con una lunga teoria di leggine o di decreti-legge. Cosicché, senza tener conto delle proposte d’iniziativa parlamentare, già nel 1867 l’on. Rattazzi, salito al potere, nominava una commissione, composta di 11 deputati e presieduta da un senatore (fra i deputati Francesco Crispi), per studiare una riforma coi seguenti criteri, stabiliti dallo stesso Rattazzi: «Stabilire i mezzi acconci per dare vita pienamente autonoma ai comuni o alle provincie, emancipandole dalla tutela governativa affinché, sulla base dell’elemento elettivo, possano liberamente regolare da sé i propri affari, e compiere, senza veruna dipendenza, gli atti di pubblica amministrazione, nei quali lo Stato non ha un interesse assoluto e diretto, per forma che riesca più semplice, più pronto e più conforme alle nostre istituzioni il servizio; ed il governo, sciolto dal dover volgere le sue cure e la sua attenzione a quella minuta e continua sorveglianza che richiede l’amministrazione dei comuni e delle provincie, possa attendere meglio alla conservazione dei grandi interessi nazionali…». «Considerare il prefetto – è sempre il Rattazzi che parla – rispetto ai comuni e alle provincie, quale semplice rappresentante del governo, avente la sua missione d’invigilare se gli amministratori di questi enti morali si conformino o no alle prescrizioni delle leggi, e l’incarico di impedire o sospendere l’esecuzione dei loro provvedimenti, quando si riconoscessero alle leggi contrari». La commissione dopo lunghe e laboriose sedute accolse questi criteri decentrativi e autonomistici; ma il progetto non venne discusso alla Camera, perché frattanto il ministero Rattazzi cadeva, succedendogli il Menabrea . Questi presentò un altro progetto e altra commissione (relatore principale Cesare Correnti), venne chiamata a riferire; ma anche questa discussione non venne condotta a termine per la caduta di Menabrea. I principii dell’opposizione costituzionale Di questo dibattito merita però ricordanza l’ordine del giorno dell’opposizione costituzionale (123 contro 200 e tra i primi, il Cairoli, il Farini, il Lacava , Brottero, Ferraris ecc.), il quale statuiva, fra gli altri, i seguenti principi: «La Provincia e il Comune, nell’ambito delle rispettive funzioni, sono enti autonomi. La loro amministrazione è sostenuta da eletti per suffragio popolare… Niuna ingerenza o sindacato degli agenti al potere esecutivo può esercitarsi sugli atti della gestione collettiva della Provincia e dei Comuni. Essi hanno pienezza di facoltà nella loro amministrazione. Il presidente (della provincia) sarà eletto per suffragio diretto dalla intiera provincia. Esso presiede la Deputazione provinciale e rappresenta la Provincia in tutti i suoi atti, come ne’ suoi rapporti con governo e coi comuni… La Deputazione provinciale è eletta dal Consiglio a maggioranza assoluta di voti. La medesima… interviene come potere moderatore nella gestione collettiva dei comuni… Sono servizi obbligatori della provincia: … i lavori pubblici provinciali, l’istruzione pubblica, secondaria, professionale, gl’istituti tecnici, sanità, beneficenza ecc.». Caduto il Menabrea, l’on. Lanza in due riprese si fece avanti con altri due progetti che non furono accolti (1872). E così si arrivò al primo gabinetto Depretis con Nicotera all’Interno (1876-77), il quale varò un altro progetto che per il ritiro di Nicotera non arrivò alla discussione parlamentare. Ma anche questo progetto e la relazione che ne fece a nome della commissione parlamentare l’on. Marazio meritano uno speciale rilievo. La riforma del ’77 per il decentramento e le libertà locali In verità prendendo in mano questa relazione (atti parlamentari, sessione 1876-77, XIII legislatura N. 33-A), ingiallito documento dell’epoca classica della nostra legislazione, e leggendo in testa i nomi di Cairoli, presidente, e fra i membri Codronchi , Correnti, Morrone, Sella , noi dobbiamo sorridere della superficiale ignoranza di quei politicanti che tentano dipingere le nostre idee, come un frutto di un gretto misoneismo locale o come un’esotica importazione di un feudalismo antinazionale. Ecco come incomincia la lunga e bella relazione dell’on. Marazio : «Signori! Costituitasi in unità di nazione, l’Italia aveva a scegliere fra l’accentramento od il disaccentramento amministrativo. Il primo sistema connette tutte le parti della pubblica amministrazione all’opera diretta del governo, il secondo lascia che le amministrazioni si facciano, quanto più si può, da coloro che hanno un interesse diretto ed immediato in esse; quello addossa al governo tutto il carico e la responsabilità della pubblica tutela e dei servizi sociali; questo gli consente soltanto gli uffici politici, la conservazione delle competenze, la vigilanza sull’applicazione della legge; nell’uno il comune, la provincia, e in generale le associazioni che si aggirano nell’orbita dello Stato, sono come suol dirsi autonome, dentro i confini della loro legge costitutiva. Il primo di questi due sistemi ha una storia e pagine stupende; ma esso non è favorevole alle libertà pubbliche, non educa i cittadini all’esercizio de’ loro diritti politici, non gli ammaestra nel maneggio de’ pubblici affari; oltrediché non si confà al genio di tutte le nazioni. Il secondo ha pure la sua splendida storia e questa è nazionale. Qui nacquero molte delle franchigie municipali che in altri tempi furono l’onore e le fortune d’Italia, e che prelusero alle conquiste della civiltà moderna. Le nostre tradizioni, il sentimento della libertà, necessità inutili a dirsi perché troppo palesi, consigliavano all’Italia un ordinamento interno che conciliasse l’unità nazionale, nella quale essa veniva finalmente a riposarsi, colle libertà locali, che la nostra patria non poteva dimenticare…». Il contenuto della riforma. «A questo fine mira il disegno di legge, sul quale dobbiamo riferire. Il censo è ridotto a cinque lire per tutti i comuni; esteso il diritto elettorale alle donne; allargata la cerchia della capacità, distinti in due classi i comuni, alla stregua della popolazione; sciolti dalla tutela della deputazione provinciale i comuni della prima; reso elettivo il sindaco in tutti i comuni, ed elettivo il presidente della deputazione provinciale; data piena autonomia alla provincia; ammesso il ricorso all’autorità giudiziaria contro l’annullamento delle deliberazioni dei consigli e delle giunte comunali, dei consigli e delle deputazioni provinciali pronunciato dal prefetto; introdotto il convocato. Queste ed altre tali disposizioni distinguono più direttamente i poteri e le competenze dello Stato da quelli dei comuni e delle provincie; e restringendo sempre più l’ufficio del governo all’esercizio d’una costante vigilanza sull’applicazione della legge, lasciano libertà maggiore ai corpi locali, nelle interne loro amministrazioni». Dopo una lunga introduzione generale, da cui abbiamo levate queste citazioni, il relatore illustra le singole parti del progetto. Sarà opportuno riferire letteralmente quello che è detto a pagina 29 intorno alla deputazione provinciale: Autonomia della deputazione provinciale «La piena autonomia della provincia fa un primo e notevole passo colla presidenza della deputazione provinciale data ad uno dei suoi componenti. È inutile che la provincia abbia ampie e gravi attribuzioni, che abbia una vera e propria amministrazione, se poi il suo potere esecutivo deve impennarsi e quasi confondersi nel potere del rappresentante del governo. D’altronde giova che i due poteri rimangano pienamente distinti per la necessità dei servizi, per la dignità delle istituzioni, e per il bene reciproco. Del resto questa disquisizione della presidenza della deputazione tolta al prefetto e data alla provincia stessa nelle persone d’uno dei suoi deputati, è risoluta da un pezzo nella convinzione comune. Tutte le riforme della legge comunale e provinciale proposte dal 1859 ad oggi, avevano questo caposaldo della autonomia provinciale. Che se questa innovazione non s’è potuta recare ad effetto, è perché questa proposta è stata accompagnata coll’altra del levare alla deputazione provinciale la tutela dei comuni; il che contraria troppo l’opinione generale. Ma il progetto ministeriale mantiene nella deputazione provinciale la tutela dei comuni di seconda classe, mentre le dà un presidente elettivo; cosicché è ragionevole credere che questa riforma desiderata altresì da quasi tutte le deputazioni e non contradetta dai prefetti, nelle loro risposte ai quesiti del 1869, non trovi dubbi e difficoltà di rilievo». Ingerenza e vigilanza In quanto alla vigilanza governativa nella amministrazione provinciale la relazione diceva: «L’autonomia della provincia riceve la sua piena consacrazione in questo capitolo. Cessa, di regola, l’ingerenza del prefetto; i suoi poteri sono ristretti alla vigilanza sull’applicazione delle leggi». Queste conclusioni della commissione Cairoli sono tanto più rimarchevoli, quando si sappia che vi si giunse dopo un’inchiesta fatta presso tutte le prefetture e tutte le deputazioni provinciali del Regno. Col ritorno di Depretis nel ’79, incomincia un nuovo periodo di assestamento che porterà finalmente alla legge comunale del 30 dicembre 1888 e da questa, dopo varie altre modificazioni di testo unico, 10 febbraio 1889, a quello del 4 maggio 1898, a quello del 21 maggio 1908 e infine al testo 4 febbraio 1915, ora vigente. Humani juris conditio in infinitum decurrit; e avremo occasione di documentare ulteriormente la continuità della corrente autarchica fino ai nostri giorni. Ma intanto abbiamo attinto sufficientemente dall’epoca classica per comprovare ancora una volta che le idee da noi propugnate per la sistemazione delle nuove provincie hanno la piena cittadinanza della tradizione nazionale. Idee e proposte discusse e discutibili come tutti i congegni delle leggi umane, ma idee italiane nate su terreno italico e tramandate dal genio particolare della nostra stirpe. |
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| Roma, 12. Si è riunita la direzione del partito popolare italiano con l’intervento di tutti i membri, meno il prof. Colonnetti, assente per malattia. L’esame della situazione politica ha dato luogo a una lunga discussione in seguito alla quale è stato approvato il seguente ordine del giorno come espressione del pensiero unanime della direzione: «La direzione del P.P. preso atto delle comunicazioni della commissione direttiva del gruppo e sentita la relazione del segretario politico sulla situazione interna del partito e sulla situazione generale del paese, afferma che il partito si è ispirato a questi criteri ai quali devono attenersi tutti i suoi organi: Ordine e Libertà 1. Premessa indispensabile per la rinascita del paese e per la sua valorizzazione all’estero è la restaurazione dell’ordine e della libertà all’interno. Il partito sente perciò il dovere di contribuire con ogni sforzo e di prestare il più largo e disinteressato concorso affinché il governo riesca ad adempiere il compito di por fine alla situazione illegale sviluppatasi nel paese. Il risanamento finanziario 2. Il fine più immediato cui il governo deve tendere rimane quello di sanare il bilancio dello Stato. Il Partito popolare riconferma la sua decisa volontà di contribuire con ogni sacrificio, senza riserve e senza riguardi per gli effetti elettorali, all’azione che si sta iniziando per accrescere le entrate dello Stato e per introdurre tutte le possibili economie, e si richiama al proprio programma finanziario e soprattutto a quello per la riforma dei servizi pubblici e per l’amministrazione dello Stato. Autorità e imparzialità. Libertà di voto e proporzionale 3. I cardini fondamentali per il rinnovamento politico della nazione sono il ripristino dell’autorità e della imparzialità dell’amministrazione statale e, liberata dall’influsso di clientele politiche, la ricostituita vitalità degli enti locali e una riorganizzazione ai fini nazionali della rappresentanza degli interessi in modo particolare delle classi lavoratrici e del ceto medio. Nessuna riforma raggiungerà però il suo scopo, nessun rinnovamento sarà possibile se prima non sorga nella coscienza politica degli italiani il libero e sincero consenso al supremo principio della disciplina nazionale. Il Partito popolare ritiene perciò che se in questo momento è necessario che il governo abbia forza e saldezza, altrettanto indispensabile è che sia garantita libera e sincera l’espressione di voto dei cittadini. La creazione di sistemi elettorali artificiosi che mettessero in contrasto la maggioranza così ottenuta di una Camera rappresentativa colla maggioranza dei votanti nel paese svaluterebbe l’istituto parlamentare e indebolirebbe il governo all’estero di fronte al quale l’Italia sola in Europa potrebbe apparire governata da una minoranza. Noi abbiamo propugnato e difendiamo la proporzionale come mezzo di educazione alla sincerità e alla disciplina dei partiti italiani e come correttivo organico del suffragio universale. Il Partito popolare rappresenta una forza e una riserva morale della nazione. Alla nazione esso può servire con molti o pochi rappresentanti politici, ma non potrebbe servire se rinnegasse per vantaggi momentanei la propria autonomia e la propria figurazione politica. In momenti gravi in cui la omogeneità della direttiva di governo può sembrare elemento indispensabile, il partito popolare ha dimostrato che la patria gli può rivolgere non invano ogni appello, anche se comporti sacrificio della propria influenza politica, ma non potrebbe mai contraddire a quei principii fondamentali e a quei postulati programmatici per i quali è sorto e che costituiscono le condizioni necessarie per il rinnovamento politico della nazione. La rinascita delle energie spirituali 4. Fermo rimane anche in mezzo alle urgenze della situazione finanziaria e amministrativa il principio da noi sostenuto fin dal nostro sorgere che la vita nazionale va rinnovata soprattutto nella scuola e nei suoi organismi educativi pubblici e privati. Il Partito popolare ha fiducia che nella rinascita delle energie spirituali della nazione il governo riconosca la preminenza della forza delle convinzioni religiose liberamente professate e sinceramente rispettate. Gli uomini del Partito popolare hanno combattuto finora da soli per questa idea, in mezzo a diffidenze e a ostilità aprendosi la via tra una selva di pregiudizi accumulati da decenni. Se ora accadrà che il momento di rinascita sbocchi nella millenaria tradizione nazionale alla quale risalgono anche le nostre origini, la crisi profonda che travaglia lo spirito e le istituzioni si ricomporrá in una feconda unità spirituale». Il comunicato della direzione del Partito popolare italiano, dopo avere toccato alcuni essenziali problemi della nostra vita nazionale, si diffonde, tra l’altro, su quella tale riforma elettorale e con visione assai larga inquadra la difesa della proporzionale in una cornice ampia. Dagli avversari del sistema attuale si é detto che con la proporzionale non è possibile costituire la maggioranza omogenea della Camera e quindi è impossibile, di conseguenza, costituire un governo forte e deciso. Di qui la instabilità dei ministeri. E il ragionamento sarebbe perfettamente a posto se la storia parlamentare d’Italia dimostrasse che – prima della proporzionale – i ministeri erano saldi, continuativi, incrollabili. La testa di ariete contro il sistema proporzionale, il nocciolo della accusa, per cui si dice che essa è causa della instabilità dei governi, si infrange contro la testimonianza ininterrotta di 74 anni di vita costituzionale italiana. Avendo anzi sott’occhio tutta la cinematografi a ministeriale di quasi 74 anni passati, subito appare la necessità di andare a ricercare la intima ragione altrove e non è necessario essere geni in sociologia per ritrovarla subito nella stessa natura del nostro paese. Un paese come il nostro che ha una civiltà così profonda, nel quale vivono tante tradizioni di carattere generale e di carattere locale, nel quale c’è la più varia diversità di interessi, da un capo all’altro della penisola, e interessi rispettabili nel campo industriale, nel campo agrario, nel campo di ceti medi, nel campo professionale, nel campo operaio, che ha una popolazione così numerosa, al di sopra anzi della propria potenzialità, che infine, per la sua stessa costruzione geografica, determina tante diversità di temperamenti, di esigenze, di bisogni, è impossibile e assurdo pensare di coartarlo in una unificazione meccanica, o, peggio ancora, volerne limitare la espansione pubblica ad una sola corrente, ad una sola forza. Anche quando vigeva il suffragio limitato e puramente di censo e si determinava quindi una vita politica ristretta a poche classi – agrari, industriali, professionisti e qualche isolato gruppo elettorale – congegnata attraverso il collegio uninominale, permetteva una maggiore valutazione degli indici nazionalisti, l’Italia aveva sempre una rappresentanza politica assai varia e notevole dal nord al sud, dalla campagna alla città, dai gruppi industriali a quelli agrari. E per quanto i primi parlamenti rappresentassero tutta la vittoria unitaria e la vittoria liberale, ciò nonostante le divisioni di opinioni, di interessi, di vedute fecero sempre della Camera italiana una delle Camere più varie ed instabili. E ciò sia per le ragioni di carattere economico e politico sovrapponentisi alla nostra storia affannosa, sia per le stabili divergenze di origini fra i singoli deputati, le ragioni della instabilità dei ministeri sono ben lungi dal potersi attribuire al sistema proporzionale. E si può domandate: perché è venuta la proporzionale? E la ragione è questa: la proporzionale è un correttivo del suffragio universale. Non è infatti possibile mantenere il suffragio universale, senza dare ad esso la possibilità di areazione, di incanalamento, di organicità. Questo avviene appunto con l’abolizione del collegio uninominale che – per la ipervalutazione degli elementi localistici – impediva col suffragio universale di dare la espressione elettorale di un contenuto di carattere nazionale e di politica generale. È certo necessario giungere ad avere nella Camera una espressione di maggioranza. Ma occorre ricordare che lo stesso principio costituzionale, dando a tutti i cittadini la ragione di partecipazione della vita politica col diritto di voto, implicitamente dichiara che la maggioranza non può avere altra valutazione che quella «numerica». È l’espressione del maggior numero quella che deve prevalere, per portare senza scosse alla realizzazione di quei programmi che trovano il più ampio consenso nel Paese. |
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| Il comunicato della Direzione del Partito popolare italiano, dopo aver toccato alcuni essenziali problemi della nostra vita nazionale si diffonde tra altro su quello della riforma elettorale. E con visione assai larga inquadra la difesa della proporzionale in una cornice più ampia. Esso la difende come «mezzo di educazione alla sincerità ed alla disciplina e come correttivo organico del suffragio universale». Crediamo che questi punti precisi meritino una più ampia illustrazione non avulsa, ma balzante anzi da una completa visione della storia parlamentare d’Italia. Nella recente ripresa di furore antiproporzionalista tutti gli attacchi si sono imperniati attorno ad un punto centrale. Si è detto: col sistema proporzionale non è possibile costituire una maggioranza della Camera omogenea e quindi, di conseguenza, è impossibile costituire un Governo forte e deciso. Di qui la instabilità dei Ministeri… E il ragionamento sarebbe perfettamente a posto, se la storia parlamentare d’Italia dimostrasse che – prima della proporzionale – i Ministeri erano saldi, continuativi, incrollabili. I ministeri dal ’48 al ’76 Ma il guaio è proprio qui. E cioè che la nostra storia dimostra proprio perfettamente il contrario. Ci siamo levati il gusto di fare un piccolo spoglio in proposito. Ed eccone i risultati: Parlamento subalpino: suffragio ristretto, metodo del collegio uninominale. Dal 48 al 62, in meno di 12 anni, si succedono vorticosamente ben 15 ministeri (Balbo, Casati, Alfieri, Perrone, Gioberti, ancora Gioberti, Chiodo, De Launay, e altre due reincarnazioni D’Azeglio, Cavour, e altre due reincarnazioni Cavour, e Lamarmora). Dal 60 al 70, sempre con suffragio ristretto e metodo uninominale, in meno di 10 anni, si succedono in maggior fretta ben 16 ministeri (due ministeri Cavour, poi Ricasoli, Rattazzi, Farini, Minghetti, Lamarmora, e altre due sue reincarnazioni, poi altri due ministeri Ricasoli, poi ancora Rattazzi, tre successivi ministeri Menabrea e infine il ministero Lanza). Dal 70 al 76 con l’avvento della destra si ha un ritmo meno affannoso sicché in 6 anni vivono tre soli ministeri, uno Lanza e due Minghetti. …e dal ’76 ad oggi La sinistra si insedia nel 76 con De Pretis, metodo elettorale e ampiezza del suffragio restano invariati, ma dal ’76 all’82, in meno di 6 anni, si succedono ben 18 ministeri (tre De Pretis, poi Cairoli, poi De Pretis, poi tre Cairoli, poi ancora sette successive reincarnazioni di De Pretis e infine due ministeri Crispi). Dal marzo 1882, anno in cui si ebbe da Crispi il primo allargamento del suffragio, sino al suffragio universale del 1912, sostanzialmente i metodi elettorali rimasero invariati. A parte infatti il rapido e transitorio esperimento di collegio plurinominale con suffragio relativamente assai ristretto, esperimento durato per due sole elezioni successive in meno di un anno, e a parte la revisione straordinaria delle liste imposta sulla legge 11 luglio 1894, non si ebbero modificazioni sostanziali. Ma la cinematografi a ministeriale non accennò a rallentarsi. In più di 19 anni si ebbero infatti 26 ministeri (due Crispi, Rudinì), due Giolitti, due Crispi, quattro Rudinì, due Pelloux, Saracco, Zanardelli, due Giolitti, Tittoni, due Fortis, Sonnino, due Giolitti, Sonnino, Luzzati e Giolitti). Dalla fine del 12 alle prime elezioni fatte col metodo proporzionale (novembre 1919) si successero, in meno di 7 anni, ben 7 ministeri (due Giolitti, due Calandra, uno Boselli, uno Orlando e il primo Nitti). E si deve pur tenere presente che durante questo periodo visse la lunghissima Camera della guerra, cui le preoccupazioni generali per la vita del Paese imponevano un senso particolare di responsabilità, e quindi il bisogno di non gettarsi a capofitto alla ricerca di novità. La testa d’ariete contro il sistema proporzionale, il nocciolo dell’accusa, per cui si dice che essa è causa della instabilità dei Governi, si infrange dunque contro la testimonianza ininterrotta di 74 anni di vita costituzionale italiana. Avendo anzi sott’occhio tutta la cinematografi a ministeriale di questi 74 anni, balza subito agli occhi la necessità di andarne a ricercare la intima ragione altrove e non è necessario essere geni in sociologia per ritrovarla subito nella stessa natura del nostro Paese. La fisionomia del Paese Un Paese come il nostro che ha una civiltà così profonda, nel quale vivono imponenti tante tradizioni di carattere generale e di carattere locale, nel quale c’è la più varia diversità di interessi – da un capo all’altro della penisola – e interessi rispettabili, nel campo industriale, nel campo agrario, nel campo dei ceti medi, nel campo professionista, nel campo operaio – che ha una popolazione così numerosa, al di sopra anzi della propria potenzialità che infine per la sua stessa situazione geografica determina tante diversità di temperamento, di esigenze, di bisogni – è impossibile ed assurdo pensare di coartarlo in una unificazione meccanica, o peggio ancora, volerne limitare la espansione pubblica ad una sola frazione, ad una sola corrente, ad una sola forza. Anche quando vigeva il suffragio limitato, e puramente di censo, e si determinava quindi una vita politica ristretta a poche classi – agrari, industriali, professionisti, e qualche isolato gruppo operaio – anche quando la tecnica elettorale, congegnata attraverso il collegio uninominale permetteva una maggiore valutazione degli indici proporzionalistici, l’Italia aveva sempre una rappresentanza politica assai varia e mutevole, dal nord al sud, dalla città alla campagna, dai gruppi industriali a quelli agrari. E per quanto i primi parlamenti rappresentassero tutti la vittoria unitaria e la vittoria liberale, ciononostante le divisioni di opinioni, di interessi, di vedute fecero sempre della Camera italiana una delle Camere più varie ed instabili. E ciò sia per le ragioni di carattere economico e politico, sovrapponentisi nella nostra storia affannosa, sia per le stabili divergenze di origine fra i singoli deputati. La storia dei Ministeri d’Italia è quella che abbiamo tracciata – non altra – le ragioni della sua instabilità sono ben lungi dal potersi attribuire al sistema proporzionale. Né si può dire che durante tutto il primo periodo della vecchia destra esistesse una degenerazione parlamentare, conducente a quello stato di crisi latente e permanente, giacché allora col suffragio ristretto giungeva in Parlamento una «élite», allora non esistevano le tradizioni democratiche – così deprecate dagli avversari – e il ricordo di un Governo personale influiva nel pensiero e nelle abitudini di quanti unificarono la Patria. Tuttavia la instabilità dei Governi persisteva, e lo abbiamo dimostrato, e persisteva per l’intima varietà della nostra Nazione. Del resto – il ricordo storico, al quale ci siamo largamente abbandonati – ci dimostra anche un’altra grande verità e cioè – sia detto fra parentesi – che la stessa instabilità dei Governi non è un male in sé. Non si può infatti negare un altissimo valore storico di elaborazione legislativa, di rettitudine parlamentare, di sviluppo della vita nazionale, alla opera del nostro Parlamento (almeno fino al periodo crispino) nonostante la imprecisazione di politica estera, e la debolezza di una politica interna eccessivamente accentuata, delle quali ancora soffriamo. Resta ad ogni modo ancora una volta dimostrato come la proporzionale sia assolutamente fuori tiro, da tutti gli attacchi mossi a lei, ai fini della creazione del Governo forte e continuativo. La proporzionale correttivo del suffragio universale Ma si può fare un passo più in là. E si può domandare: perché è venuta la proporzionale? Anche il suo avvento, specie se si pensi che è generale in tutti i Paesi d’Europa – eccezione fatta dell’Inghilterra e della Francia, che tuttora sentono il bisogno di modificare in senso proporzionalista la propria legge elettorale – deve avere una qualche ragione. E la ragione è questa: la proporzionale è un correttivo del suffragio universale. Non è infatti possibile mantenere il suffragio universale senza dare ad esso la possibilità di creazione, di incanalamento, di organicità. Questo avviene appunto con l’abolizione del collegio uninominale che – per la ipervalutazione degli elementi localistici – impediva, col suffragio universale, di dare all’espressione elettorale un contenuto di carattere nazionale e di politica generale. È certo necessario giungere ad avere nella Camera una espressione di maggioranza. Ma occorre ricordare che lo stesso principio costituzionale, dando a tutti i cittadini la ragione di partecipazione alla vita politica col diritto di voto, implicitamente dichiara che la maggioranza non può aver altra valutazione che quella «numerica». È la espressione del maggior numero quella che deve prevalere per portare senza scosse alla realizzazione di quei programmi che trovano più ampi consensi nel Paese. Sfuggire a questi concetti non è possibile, altro che, facendo cammino a ritroso, abolendo cioè il suffragio universale… Ma occorrerebbe in tal modo tener presente che l’Italia si metterebbe da sola contro a tutti gli altri paesi civili e ne sminuirebbe il suo prestigio, come di popolo incapace a governarsi con quei metodi indicati come esponenti di una più diffusa e più vasta vita politica. Ed ecco l’intima ragione per cui i popoli non solo propugnano il mantenimento della proporzionale, ma si sono opposti anche al sistema Bianchi. Secondo i risultati tecnici esso è infatti tale da assicurare in ogni collegio la maggioranza della rappresentanza, ad una parte degli elettori che può essere anche minoranza relativa a tutti gli altri votanti. Che se l’analogo fatto avviene contemporaneamente – come il Bianchi dovrebbe auspicare per raggiungere lo scopo propostosi di quella tale compatta e stabile maggioranza parlamenta re – in tutti i collegi si giungerebbe a questo assurdo – in perfetta antitesi con quanto perseguono tutte le legislazioni moderne in Europa – che in Italia la maggioranza assoluta dei mandati sarebbe affidata ad una minoranza assoluta di votanti. E allora? I fascisti non hanno detto forse di volere le elezioni perché la vecchia Camera non rappresentava più il paese? E come allora potrebbero auspicarla con un metodo che «a priori» impedisce al Paese di essere rappresentato alla Camera? |
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| 41921-1925
| Non è facile esprimere i sentimenti di profonda angoscia che opprimono il cuore degli italiani, amanti del loro paese, innanzi alla violenta ripresa di guerra civile che insanguina le vie di alcune città ed in modo speciale quelle di Torino . La rivoluzione della fine di ottobre, che metteva il governo nelle mani del capo del fascismo, di quel partito cioè che si riprometteva di restituire allo Stato la sua piena autorità e ridare alla nazione l’ordine e la disciplina, aveva fatto nascere molte, forse esagerate, speranze, e queste erano state rinvigorite da alcune settimane di relativa tranquillità. Ma purtroppo l’ordine è nuovamente turbato e la disciplina sembra fare difetto precisamente nelle file fasciste, nelle quali si nota una preoccupante assenza di freni inibitori ed una non meno preoccupante mancanza di rispetto e di fiducia verso l’autorità dello Stato. Noi non abbiamo mai creduto che il fascismo potesse fare dei miracoli né che l’on. Mussolini avesse a sua disposizione una bacchetta magica che gli permettesse di ridare la tranquillità in pochi giorni ad un paese che da ormai quattro anni viveva in condizione di vero e proprio orgasmo. Sappiamo quanti elementi psicologici e quanti interessi d’ogni genere debbano essere tenuti in considerazione da chi vuole giudicare di una così difficile situazione, e non faremo colpa al nuovo governo di non essere riuscito a fare in un mese e mezzo quello che altri governi precedenti non avevano potuto ottenere durante degli anni. Ma questo non toglie a noi il diritto di constatare che i gregari del fascismo sfuggono ogni giorno più dalle mani dei capi e minacciano di compromettere in modo forse irrimediabile l’autore di quel governo che in loro nome ha preso a reggere le sorti d’Italia. Quello che è successo a Torino è di una gravità eccezionale, tanto per se stesso, che come sintomo di una situazione generale tutt’altro che tranquillante. Non abbiamo sufficienti elementi di giudizio, ma ammettiamo senza riserve la gravità della provocazione nei fatti della Barriera di Nizza, nei quali due fascisti vennero proditoriamente uccisi. Ci spieghiamo quindi umanamente l’esasperazione dei fascisti torinesi e il desiderio di ricorrere a rappresaglie contro i presunti autori di quell’imboscata, anche se noi, in omaggio ai principii evangelici, non possiamo giustificare la vendetta, qualunque sia la forma con cui si compie. Ma gli stessi fascisti debbono riconoscere che la loro rappresaglia, oltre ad essere sproporzionata per la misura, non è facilmente giustificabile data la circostanza che il governo fascista, disponendo di tutti gli organi dello Stato, avrebbe potuto colpire severamente ed esemplarmente i responsabili, senza alcuna necessità di un’azione diretta delle squadre fasciste. Una nota romana, che si dice ufficiosa, a proposito dei fatti di Torino, dice tra l’altro: «Questa balda gioventù, che ha fatto la guerra, che è abituata ai cimenti sportivi e che ha coscienza della propria forza e della propria ragione, non sa adattarsi a rimettere in mani altrui, siano pure le mani di quella legge e di quegli organi governativi i quali si trovano ora applicati e retti dai fratelli di fede, gli atti con cui questa compie la legittima difesa e rintuzza la insopportabile tracotanza». Non si legge senza un senso di penosa tristezza una confessione così aperta di impotenza governativa nei confronti di quella gioventù in nome della quale si pretende di reggere il paese. Se i fascisti non hanno fiducia nel governo fascista, come si può pretendere che questa fiducia abbiano i partiti che al fascismo sono avversari? Se queste squadre che, quando il fascismo era partito di opposizione, seppero dare così memorandi esempi di disciplina, ora che il loro capo è al potere non sanno sostenerlo con eguale, anzi con più perfetta disciplina, finiranno con indebolire l’autorità dell’on. Mussolini ed impedire che si compia l’esperimento di un governo che venne imposto alla nazione come l’unico capace di ricostruire moralmente e materialmente l’Italia. Noi non possiamo approvare la violenza, da qualunque parte venga, non possiamo quindi che deplorare i fatti dolorosissimi di questi tragici giorni. Ma senza voler imporre i nostri principii a coloro che non li accettano, crediamo poter rilevare da un punto di vista essenzialmente pratico che la violenza esercitata da un partito non può fare a meno di ritornare a suo danno. Ai social-comunisti è stato ripetuto infinite volte che la violenza non poteva che generare la violenza. La tracotanza dei rossi ha finito col provocare la reazione borghese e da due anni gli uomini e le organizzazioni socialcomuniste vanno scontando amaramente gli eccessi inqualificabili ai quali si erano abbandonati quando si credevano di poter tutto impunemente osare. Ma anche la reazione deve sapersi imporre dei limiti ragionevoli se non vuole a sua volta provocare una contro-reazione. La reazione fascista, che oggi ha in mano il potere, ha ottenuto un successo tale di cui può e deve ritenersi soddisfatta; se non vuole compromettere questo successo e rigettare il paese in preda alla guerra civile del social-comunismo, deve sapersi mantenere rigidamente disciplinata ed inspirare così nel popolo tutto quella fiducia di cui ha bisogno il governo per poter attuare nelle linee fondamentali il programma di ricostruzione e di riforme con cui salì al potere. Pensino i fascisti all’impressione che la cronaca dei fatti di Torino non può fare a meno di produrre all’estero, si persuaderanno che noi abbiamo parlato nell’interesse del governo e della nazione. |
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| DE GASPERI – Gentile gli ha dichiarato di voler mantenere nelle scuole delle Nuove Provincie l’insegnamento religioso come ora viene impartito. Ha aggiunto che nonché abolire tale insegnamento nelle Nuove Provincie ha il proposito di facilitarlo estendendo eventualmente lo stesso sistema a tutto il Regno; ha infine dichiarato di credere che ciò corrisponda anche all’intendimento del capo del Governo. Mi puoi autorizzare a dichiarare che tali sono i tuoi propositi? MUSSOLINI – Precisamente: intendo non toccare l’insegnamento religioso nelle Nuove Provincie e se Gentile nel quale ripongo la massima fiducia mi proporrà di estendere tale sistema o analogo sistema al Regno accetterò la proposta perché ciò corrisponde alla mia tendenza. DE GASPERI – Riepiloga i fatti di Brescia mostrando la Fiamma ove si esclude che nel Bresciano i popolari possono concludere qualsiasi patto colonico e si attribuisce (Farinacci) al Governo di convalidare tale proposito . Ricorda simili atteggiamenti dell’organizzazioni fasciste in confronto a quelle bianche in parecchie altre località e accenna all’odierna intervista dell’on. Torre che parla di licenziare i ferrovieri che non appartengono al sindacato fascista. MUSSOLINI – Quello che è avvenuto a Brescia non corrisponde alle sue direttive né ha autorizzato Farinacci a fare simili dichiarazioni. Deplora anche interviste di Torre che gli ha già procurato altri fastidi. Ma per poter dare una risposta precisa anche di carattere generale lo prega di presentare alcune domande scritte allegando il giornale. Risponderà immediatamente in modo rassicurante. DE GASPERI – Esprime il desiderio che prima della convocazione della Camera e a tempo intervenga fra Mussolini e qualche nostro fiduciario un’ampia spiegazione e discussione sul programma dei lavori. MUSSOLINI – Porterò il trattato di Santa Margherita e quello Italo Francese e dimostrerò così di non voler svalutare la Camera. Non sono ancora certo se farò portare la riforma elettorale, giacché come sai, dato lo stato di convulsione in cui si trova il paese, mi propongo di differire più che è possibile le elezioni e quindi anche la riforma. Ma può darsi che convenga trattarla già in questo scorcio di sessione. DE GASPERI – Tu conosci le nostre differenze in proposito. Qual è il tuo pensiero? MUSSOLINI – Intendo di trovare l’accordo con i popolari. Infine io sono per il mantenimento del sistema proporzionale, come criterio di massima, e quando dico di volere una maggioranza compatta alla Camera non è che io voglia a tutti i costi garantire tale maggioranza ad un solo partito. La maggioranza potrà essere formata anche di due o tre gruppi. Quello che voglio evitare è lo spezzettamento e la dosatura di gruppi numerosi che tolgono al Governo ogni forza e ogni omogeneità. DE GASPERI – Con tali criteri credo che l’accordo non sarà difficile. Quando vuoi che se ne discorra più espressamente? MUSSOLINI – Dopo il 15 di gennaio io prenderò le iniziative di tale colloquio e se fra tanti affari me ne scordassi tu me lo ricorderai. Il resto del colloquio oltre le Nuove Provincie riguardò il caso di Torino sul quale espresse la sua indignazione e la ferma volontà di mettere ordine, aggiungendo che simili fatti avvengono perché manca la mano forte della Prefettura e della Questura. Vi ha rimediato mandandovi Zamboni e minacciando l’arresto al direttorio fascista se non venissero ritirati i bandi ai comunisti. |
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