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c71c5c31-8e2b-54f1-97b1-5d58c989491d | in fatto: A. RI 1
, architetto, è presidente con diritto di firma individuale della D. _ SA, il cui scopo è la conduzione di un'impresa generale di costruzioni e la promozione immobiliare in genere. PI 1 e PI 2 sono dipendenti dell'emittente televisiva T_ SA in qualità di giornalista il primo e di operatrice addetta alle riprese filmate la seconda.
La D. _ SA ha edificato a in via un quartiere di case unifamiliari, la cui sistemazione esterna nel luglio 2001 non era ancora stata eseguita. Il 15 luglio 2001 vi fu un violento nubifragio, che determinò non solo l'allagamento della zona non ancora sistemata ma anche infiltrazioni d'acqua nelle case già abitate.
B.
Su segnalazione di taluni proprietari esasperati per i disagi riconducibili alle inadempienze dell'impresa di costruzioni, T_ è intervenuta con il giornalista PI 1 e l'operatrice PI 2 lunedì 16 luglio 2001 al mattino. Dopo avere effettuato riprese per illustrare la situazione all'esterno e i danni dell'acqua all'interno di alcune abitazioni, PI 1 e PI 2 hanno chiesto alla D. _ SA di poter parlare con l'arch. RI 1, che però era assente. Solo nel pomeriggio fu possibile concordare un incontro, che avvenne al bar _ di. La conversazione venne registrata con suono e immagini da PI 2 su ordine di PI 1 e all'insaputa di RI 1. In conclusione, RI 1 invitò i suoi interlocutori a recarsi sul posto per verificare la situazione.
C.
Giunti in via per primi, PI 1 e PI 2 iniziarono nuovamente a filmare, continuando anche dopo che RI 1 aveva loro intimato di sospendere le riprese. Visto disatteso il suo ordine, l'architetto si mise all'inseguimento dell'operatrice ma venne ostacolato dal giornalista, che fu spintonato e colpito con un pugno. Raccolto da terra un sasso, RI 1 lo lanciò contro PI 1 senza colpirlo e si diresse verso PI 2, ingiungendole di cancellare le immagini e di consegnargli la cassetta. Neutralizzato PI 1 da un operaio dell'impresa edile, PI 1 cercò senza successo di impossessarsi della cassetta registrata ma nella colluttazione seguita con PI 2 la telecamera venne danneggiata irrimediabilmente. Successivamente RI 1 si recò a alla sede di T_, minacciando di morte il giornalista PI 1.
D.
Con decreto d'accusa del 21 giugno 2002 il Procuratore pubblico ha riconosciuto RI 1 autore colpevole di:
¿ vie di fatto per avere, il 16 luglio 2001 a presso un cantiere edile, colpito intenzionalmente alla testa, con un pugno nel quale era racchiuso un telefono cellulare, il giornalista televisivo PI 1;
¿ lesioni colpose semplici per avere nelle stesse circostanze cagionato un danno al corpo di PI 2, collaboratrice di PI 1, colpita alla gamba da un sasso destinato a PI 1;
¿ ripetuta coazione (consumata e tentata) per avere nelle stesse circostanze mediante atteggiamento minaccioso, risultante da grida e atti intimidatori (pugni e lancio di sasso), intralciato la libertà di agire di PI 1 e PI 2, costringendoli a fare, omettere e tollerare una serie di atti (interrompere una ripresa filmata, subire il tentativo di farsi consegnare il nastro della registrazione televisiva, essere limitati nei movimenti e dover darsi alla fuga;
¿ ripetuta minaccia per avere nello stesso giorno ma a, presso lo studio televisivo del datore di lavoro di PI 1 e PI 2, incusso timore a PI 1 gridando frasi minacciose.
In applicazione della pena, il Procuratore pubblico ha proposto la condanna di RI 1 a 15 giorni di detenzione sospesi condizionalmente per due anni.
Il 1° luglio 2002 RI 1 ha sollevato opposizione al decreto d'accusa.
E.
Con decreti d'accusa del 21 giugno 2002 il Procuratore pubblico ha riconosciuto PI 1 e PI 2 autori colpevoli di violazione della sfera privata mediante apparecchi di presa di immagini per avere in correità tra loro, il 16 luglio 2001 a presso un esercizio pubblico, registrato con una telecamera digitale professionale una conversazione privata avvenuta tra PI 1 e RI 1, all'insaputa di quest'ultimo e sapendo che non avrebbe dato il suo consenso.
In applicazione della pena, il Procuratore pubblico ha proposto la condanna di PI 1 alla multa di fr. 750.¿ e la condanna di PI 2 alla multa di fr. 500.¿.
Il 1° luglio 2002 PI 1 ha sollevato opposizione al decreto d'accusa, così come PI 2.
F.
Statuendo sulle opposizioni di RI 1, PI 1 e PI 2, con sentenza 30 settembre 2002 il Pretore del Distretto di Bellinzona ha confermato per RI 1 l'imputazione di vie di fatto, ripetuta coazione (consumata e tentata) e ripetuta minaccia, prosciogliendolo per contro dall'accusa di lesioni colpose semplici. In applicazione della pena, il primo giudice ha ridotto la condanna a 12 giorni di detenzione, sospesi condizionalmente per due anni.
Per PI 1 e PI 2 è stata confermata l'imputazione di violazione della sfera privata mediante apparecchi di presa di immagini. Pure confermate sono state per entrambi le condanne alle multe di fr. 750.¿ per Gattoni e di fr. 500.¿ per PI 2. È stata ordinata la confisca e distruzione della videocassetta sequestrata, che riproduce la conversazione privata presso il bar _.
G.
Contro la citata sentenza RI 1 ha introdotto il 1° ottobre 2002 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta, prodotta il 18 ottobre successivo, egli chiede in via principale il proscioglimento da tutte le imputazioni, in via subordinata la cassazione della sentenza con contestuale rinvio al primo giudice per nuova decisione sulla fissazione della pena e in via ancora più subordinata la condanna alla pena di una multa in luogo della detenzione.
Con osservazioni 11 novembre 2002 il Procuratore pubblico ha proposto di respingere il ricorso. Chiamato a esprimersi, PI 1 è rimasto silente.
H.
Contro la sentenza si è pure aggravato PI 1, che ha introdotto il 30 settembre 2002 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta, del 29 ottobre successivo, egli chiede la cassazione del pronunciato pretorile con contestuale suo proscioglimento, da estendere anche ad PI 2 in virtù del dettato dell'art. 297 CPP.
Invitati ad esprimersi, con osservazioni 11 e 19 novembre 2002 il Procuratore pubblico e la parte civile RI 1 hanno proposto la reiezione del ricorso. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288 lett. a e b CPP). L'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono sindacabili unicamente qualora la sentenza impugnata denoti estremi di arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche erroneo, bensì apertamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 129 I 173 consid. 3.1 p. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia 369 consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura a norma dell'art. 288 lett. c CPP non basta dunque criticare la sentenza impugnata né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di arbitrio. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev'essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con rinvii).
I. Sul ricorso di RI 1
2.
Il ricorrente insorge anzitutto contro la condanna per vie di fatto nei confronti di PI 1 perché il primo giudice si sarebbe limitato a considerare le sole immagini girate sul cantiere, tralasciando una circostanza rilevante, ossia che egli ha sempre sostenuto di "aver voluto togliere dal suo cammino il PI 1" per poter raggiungere la PI 2 e privarla della telecamera per "far cessare l'indebita violazione della sua personalità". Assevera trattarsi di "reazione proporzionata" perché il giornalista "non ha subito nessuna forma di violenza che ecceda quanto socialmente ammissibile", ritenuto altresì che la vittima stessa avrebbe confermato di non aver quasi sentito il pugno sul capo".
a)
La censura non deve essere vagliata oltre, perché alle vie di fatto è comminato l'arresto o la multa (art. 126 cpv. 1 CP). Si tratta quindi di contravvenzione (Corboz, Les infractions en droit suisse, vol. I, Berna 2002, p. 154, n. 20) riferita a fatti realizzatisi il 16 luglio 2001 ¿ vigente la pregressa normativa dell'art. 109 vCP con il termine di prescrizione biennale dell'azione penale, più favorevole della nuova disciplina dell'art. 109 nCP in vigore dal 1. ottobre 2002 che non solo estende a 3 anni il termine di prescrizione ma ne limita anche il dies ad quem fino al giudizio di merito di prima istanza e non può pertanto costituire
lex mitior
per raffronto al vecchio diritto (DTF 130 IV 101 consid. 1 pag. 102, 129 IV 49 consid. 5.1 p. 51 s.; Trechsel/ Noll, Schweizerisches Strafrecht, Allgemeiner Teil I, 6. ediz., Zurigo 2004, p. 310, ad C. 1; cfr. sul tema Schubarth, Das neue Recht der strafrechtlichen Verjährung, in: RPS 2002, p. 322¿324, 326 s., 334¿336) ¿ per i quali l'azione penale si è prescritta il 16 luglio 2003, il termine di prescrizione continuando a decorrere anche pendente il ricorso per cassazione presentato il 18 ottobre 2002.
Ciò significa che decade la perseguibilità dell'imputazione per il reato di vie di fatto e la prescrizione comporta, come questa Corte ha già avuto modo di rilevare, l'archiviazione del caso (sentenze CCRP 21 maggio 2004 in re C. consid. 5c e 5 novembre 2002 in re M. consid. 3 con rif.), senza che occorra determinarsi sulla natura, controversa in materia penale, della prescrizione (cfr. Peter Müller, Basler Kommentar zum Strafgesetzbuch, Basilea/Ginevra /Monaco, 2003, n. 40 ss. preliminarmente all'art. 70 CP). In DTF 117 Ib 53 consid. 3, così come in DTF 105 IV 7 consid. 1a, il Tribunale federale ha lasciato indecisa la questione a sapere se la prescrizione dell'azione penale costituisca un motivo d'estinzione del diritto dello Stato di condannare, fondato sul diritto materiale, oppure una regola di procedura, costituente un impedimento processuale alla prosecuzione della causa. In DTF 116 IV 80 e 76 IV 123 la prescrizione è stata invece classificata come ostacolo processuale. Il quesito non è risolto in modo unanime nemmeno dai vari tribunali cantonali (cfr. Stefan Trechsel, Schweizerisches Strafgesetzbuch, 2. ediz., Zurigo 1997, n. 3 preliminarmente all'art. 70). Per quanto riguarda il Cantone Ticino, il Tribunale federale in una recente sentenza non pubblicata ha considerato come ¿ sulla base della giurisprudenza della CCRP ed in linea di massima anche della CRP ¿ l'intervento della prescrizione comporti l'estinzione del diritto dello Stato di punire e attenga quindi al diritto materiale (sentenza 1P.258/2002 del 2 ottobre 2002, consid. 3.4 con rif.).
b)
Ciò posto, accertata l¿intervenuta prescrizione dell¿azione penale, la condanna formante oggetto del dispositivo A (in parte) deve essere annullata per quanto riguarda il reato di vie di fatto e il ricorso per cassazione dichiarato, su questo punto, senza oggetto.
3.
Sul reato di ripetuta coazione da parte del ricorrente contro PI 1 e PI 2, il primo giudice ¿ con riferimento al contenuto della videocassetta e al costituto testimoniale D_ ¿ ha ritenuto che lo stesso ricorrente abbia:
¿ costretto il giornalista e l'operatrice ad interrompere le riprese filmate;
¿ tentato di farsi consegnare la videocassetta appena registrata;
¿ ordinato ad un suo operaio di tener fermo PI 1 per impedirgli di intervenire in difesa della collega;
¿ costretto la PI 2 a fuggire.
a)
Il ricorrente chiede di essere prosciolto perché non vi era stato alcun accordo in merito all'intervista e perché le riprese erano "del tutto abusive e lesive della libertà e dell'immagine del ricorrente", oltre che non necessarie quale aggiunta al filmato registrato al mattino. Egli assevera di non aver svolto il ruolo di aggressore, ma di essere stato vittima di "un vero e proprio agguato televisivo" e pertanto legittimato a far cessare "la grave e inopinata turbativa", chiedendo dapprima di interrompere la registrazione, poi tentando di farsi consegnare la videocassetta e infine rincorrendo l'operatrice dopo che al giornalista era stato impedito di intervenire a favore della collega.
b)
Il reato di coazione ex art. 181 CP si realizza quando l'autore, usando violenza o minaccia di grave danno contro una persona, o intralciando in altro modo la libertà di agire di lei, la costringe a fare, omettere o tollerare un atto.
Nel caso di specie il primo giudice, in sostanza sulla base dei fatti così come emergono dalla videocassetta agli atti nell'inc. n. 17.2002.58, ha ritenuto che il ricorrente sia giunto in via dopo che già PI 1 e PI 2 avevano iniziato le riprese e le avevano continuate anche dopo che egli aveva loro imposto di sospenderle. Intenzionato a dar corso al suo ordine, il ricorrente cercò di raggiungere PI 2, ma venne ostacolato da PI 1: dopo averlo spintonato e colpito con un pugno di debole intensità, egli lanciò contro il giornalista, senza colpirlo, un sasso raccolto da terra, ponendosi all'inseguimento dell'operatrice per ottenere la videocassetta, dopo aver impedito a PI 1, facendo capo ad un operaio della sua impresa edile, di intervenire in aiuto della collega.
c)
A fronte di questo puntuale apprezzamento reso in termini condivisibili perché fondato su riscontri oggettivi e soggettivi affidabili e su una valutazione globale spiegata e motivata, il ricorrente si limita in sostanza a criticare la sentenza impugnata contrapponendole una propria versione dell'accaduto, costruita in termini appellatori. Egli infatti si richiama al teorema dell'agguato televisivo, che lo vede quale vittima e non aggressore, non essendovi stato alcun accordo sull'intervista, con la conseguenza che le riprese sarebbero state del tutto abusive e lesive della sua libertà e della sua immagine. Orbene, siffatto argomentare potrebbe già essere dichiarato inammissibile, atteso che per valersi dell'art. 288 lett. c CPP in effetti non basta lamentare arbitrio. Occorre anche illustrare in che cosa l'arbitrio consista. Il ricorrente si limita a contrapporre il proprio punto di vista a quello del primo giudice, ma non spiega perché questi avrebbe tratto conclusioni, oltre che erronee, anche insostenibili, destituite di fondamento serio e oggettivo o in aperto contrasto con gli atti. In sostanza l'interessato motiva il ricorso per cassazione con tesi meramente appellatorie, come se si rivolgesse a un'autorità munita di pieno potere cognitivo anche nell'apprezzamento delle prove, dimenticando che per dimostrare estremi di arbitrio non basta allegare una diversa versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre illustrare perché la sentenza impugnata offenderebbe finanche il sentimento di giustizia ed equità. In questa prospettiva il ricorso è del tutto carente. Egli non spiega comunque per quale motivo non potessero essere effettuate le registrazioni in via e nemmeno perché, dopo aver visto che l'operatrice era intenta a filmare, abbia preferito intervenire intenzionalmente e pesantemente sulla scena in luogo di defilarsi a tutela dell'integrità della sua immagine. Può essere ricordato in questo contesto che T_ era intervenuta con PI 1 e PI 2 su segnalazione di taluni proprietari esasperati per i disagi riconducibili alle inadempienze dell'impresa di costruzioni D. _ SA, di cui il ricorrente è presidente con diritto di firma individuale e azionista al 50% (cfr. atto n. 14, verbale di interrogatorio RI 1 del 14 gennaio 2002). Detto altrimenti, PI 1 e PI 2 svolgevano funzioni che rientrano in linea di principio nella libertà dei media, garantita dall'art.
17 cpv. 1 Cost. (sulla nozione, cfr. Aubert/Mahon, Petit commentaire de la Constitution fédérale de la Confédération suisse, Zurigo 2003, n. 5¿10 ad art. 17).
d)
Sul reato di ripetuta coazione, il giudizio del primo giudice merita pertanto conferma.
4.
Sul reato di ripetuta minaccia per aver espresso nello stesso giorno frasi minacciose ¿ del tipo "digli che lo ammazzo" e "io a te ti faccio fuori" ¿ nei confronti di PI 1 in due occasioni, per il primo giudice i fatti sarebbero dimostrati da _ B_, direttore di T_, e dalla centralinista _ M_. B_ non avrebbe preso sul serio la minaccia di morte, temendo però che il ricorrente potesse andare alla ricerca di PI 1 per passare a vie di fatto, motivo per cui avvertì di tale accadimento il proprio dipendente. La minaccia sarebbe poi stata ripetuta alla centralinista, che ricorda bene le parole udite, pur non essendo stata in grado di riferire altri particolari su quell'episodio.
a)
Il ricorrente postula il suo proscioglimento, subordinatamente la riduzione a "semplice tentativo", siccome la condanna è frutto di accertamenti fattuali arbitrari ed è lesiva del diritto federale sostanziale. La teste M_ sarebbe inattendibile perché avrebbe riferito che la minaccia sarebbe stata formulata da lui appena giunto a T_ e non al momento di andarsene, come indicato nella querela penale "allestita dopo i fatti e quindi più genuina". Si tratterebbe quindi di deposizione da prendere "con le pinze" e da non considerare in applicazione del principio
in dubio pro reo
. La minaccia udita dal teste B_ sarebbe a sua volta inidonea a sostanziare dal profilo oggettivo il requisito della gravità, non essendo atta a provocare spavento. Dagli atti non risulterebbe che PI 1 "si sia sentito non solo minacciato, ma abbia avuto paura o timore", per cui al massimo vi potrebbe essere un "semplice tentativo", atteso che secondo B_ "PI 1 era turbato, non spaventato e impaurito".
b)
Il principio "
in dubio pro reo
" è un corollario della presunzione d'innocenza garantita dagli art. 32 cpv. 1 Cost., 6 n. 2 CEDU e 14 cpv. 2 Patti ONU II. Esso trova applicazione sia nell'ambito della valutazione delle prove sia in quello della ripartizione dell'onere probatorio. Riferito alla valutazione delle prove ¿ cui nel caso di specie il ricorrente si richiama ¿ esso significa che il giudice penale non può dichiararsi convinto dell'esistenza di una fattispecie più sfavorevole all'imputato quando, secondo una valutazione oggettiva del materiale probatorio, sussistano dubbi che la fattispecie si sia verificata in quel modo. La massima non impone che l'amministrazione delle prove conduca a una certezza assoluta di colpevolezza. Semplici dubbi astratti e teorici non sono sufficienti, poiché sono sempre possibili, né una certezza assoluta può essere pretesa: il principio è disatteso quando il giudice penale, che dispone di un ampio potere di apprezzamento, avrebbe dovuto nutrire, dopo un'analisi globale e oggettiva delle prove, rilevanti e insopprimibili dubbi sulla colpevolezza dell'imputato (DTF non pubblicata 19 aprile 2002 [1P.20/2002] consid. 3.2; DTF 127 I 38 consid. 2a pag. 41). Sotto questo profilo il principio "
in dubio pro reo
" ha la stessa portata del divieto dell'arbitrio (DTF 120 Ia 31 consid. 4b pag. 41). Il giudice non incorre nell'arbitrio quando le sue conclusioni non corrispondano alla versione dell'istante e siano comunque sostenibili nel risultato. Una valutazione unilaterale dei mezzi di prova viola per contro il divieto dell'arbitrio. Un giudizio di colpevolezza può poggiare, mancando testimonianze oculari o prove materiali inoppugnabili, su indizi atti a fondare il convincimento del tribunale (DTF non pubblicata 19 aprile 2002 [1P.20/2002] consid. 3.2). Va ricordato che il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288 lett. a e b CPP). L'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono sindacabili unicamente qualora la sentenza impugnata denoti estremi di arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP).
c)
Riferendosi alla valutazione delle prove, il ricorrente censura in sostanza la credibilità della teste M_ e nega che PI 1 si possa essere spaventato o intimorito dalle minacce di morte rivoltegli tramite B_. Come visto, il primo giudice ha evidenziato come la centralinista abbia ben ricordato le minacce espresse dal ricorrente, senza riuscire comunque a contestualizzarle con altri dettagli. La disputa su quando siano state formulate, se prima o dopo l'incontro con B_, non è decisiva. Rilevante è che minacce di morte siano state pronunciate in due occasioni e davanti a due diverse persone a _, dove il ricorrente era giunto dopo che nel corso del pomeriggio a _ in via già si erano realizzati i fatti che concretizzano il reato di ripetuta coazione. Orbene, benché ¿ come assevera il primo giudice ¿ sia vero che B_ abbia dichiarato di non aver preso sul serio la minaccia di morte ma di aver comunque avvertito PI 1 di quanto era capitato, tuttavia ¿ come giustamente rileva ancora il pretore (cfr. sentenza, consid. 9 a p. 8) ¿ il destinatario della minaccia poteva nutrire un giustificato timore, visto il comportamento avuto dal ricorrente in via, quando non aveva esitato a lanciare un grosso sasso nella sua direzione, pur senza colpirlo. La conclusione pretorile è in linea con la concezione giurisprudenziale e dottrinale secondo cui la minaccia deve essere oggettivamente suscettibile di incutere spavento o timore alla vittima, non però in funzione della sensibilità specifica del suo destinatario bensì secondo criteri generali (Corboz, op. cit., p. 644, n. 6 con rif.), ciò che nel caso di specie si realizza.
d)
Ne consegue che sul reato di ripetuta minaccia il giudizio del primo giudice deve essere confermato.
5.
Sulla commisurazione della pena, il Pretore ha condannato il ricorrente per i reati di vie di fatto, ripetuta coazione e ripetuta minaccia a 12 giorni di detenzione, sospesi condizionalmente per due anni, sulla base della seguente apodittica motivazione: "le pene proposte dall'accusa [n.d.R.; 15 giorni di detenzione, sospesi condizionalmente per due anni] sono piuttosto miti visti i reati addebitati. Tuttavia, venendo a cadere un capo d'accusa, la pena detentiva viene ridotta a 12 giorni, fermo restando la concessione della sospensione condizionale. La proposta di pena tiene conto di ogni possibile attenuante".
a)
Il ricorrente censura il giudizio pretorile per il fatto che, se è vero che il giudice di merito fruisce di ampia latitudine di giudizio nella valutazione di ogni singolo fattore che concorre alla determinazione della pena, è però anche vero che egli debba indicare quale valore attribuisca ai vari elementi considerati, secondo modalità tali da consentirne la verifica puntuale ad opera dell'autorità di ricorso. Orbene, nel caso in esame il pretore non avrebbe in sostanza motivato la pena secondo i vigenti canoni giurisprudenziali.
b)
Secondo l'art. 63 CP, il giudice commisura la pena essenzialmente in funzione della colpa del reo. Questa disposizione non elenca in modo dettagliato ed esauriente gli elementi pertinenti per la commisurazione della stessa. La giurisprudenza ha tuttavia interpretato siffatta norma in DTF 129 IV 6 consid. 6.1 p. 20 s., DTF 128 IV 73 consid. 3b p. 77 e in modo più diffuso in DTF 127 IV 101 consid. 2 p. 103¿105, elencando tutta una serie di elementi che entrano in linea di conto e vanno analizzati dal giudice di merito con motivazione che consenta all'autorità di ricorso di valutare se la pena sia stata stabilita in base a valori estranei all'art. 63 CP o appaia eccessivamente severa o clemente.
c)
In particolare, la pena dovrà essere fissata tenendo conto della colpa del reo, del movente, dei precedenti e della sua situazione personale. Il criterio essenziale è quello della gravità della colpa: il giudice deve considerare in primo luogo gli elementi che si riferiscono all'atto stesso, ossia sul risultato dell'attività illecita, sulle sue modalità e come sia stata l'esecuzione; dal profilo soggettivo dovrà essere determinata l'intensità della volontà di commettere il reato e quale ne sia stato il movente. L'importanza della colpa va anche rapportata alla libertà che aveva il reo di determinarsi in conformità della legge: ove fosse stato facile l'ossequio della norma infranta, ben più gravemente verrebbe valutata la sua decisione di averla violata e di conseguenza la sua colpa sarebbe maggiore (DTF 127 IV 101 consid. 2a p. 103 con rif.).
d)
Il primo giudice deve motivare la pena pronunciata per permettere di controllare se egli non abbia ecceduto il proprio potere di apprezzamento o se ne abbia abusato. Non gli incombe tuttavia di pronunciarsi su ogni censura particolareggiata sollevata dalle parti né di indicare in cifre o in percentuale l'importanza attribuita agli elementi determinanti per la commisurazione della pena; egli può omettere di richiamare i fatti che, senza arbitrio, gli appaiano non accertati o di scarsa rilevanza (DTF 121 IV 49 consid. 2a/aa p. 56 s.; 120 IV 136 consid. 3a p. 142¿144 con rif.). Deve comunque esporre gli elementi da lui considerati decisivi ¿ concernenti in particolare il reato e la personalità di chi ha agito ¿ in maniera tale che sia possibile controllare se e in quale modo tutti i fattori determinanti, aggravanti e attenuanti, siano stati effettivamente ponderati. In altre parole, la motivazione deve giustificare la pena pronunciata e permettere in particolare di seguire il ragionamento che ne è alla base. La sola enumerazione delle aggravanti e delle attenuanti non è di per sé sufficiente.
e)
Nel caso di specie, l'apodittica motivazione richiamata in ingresso ¿ che si limita ad indicare che "le pene proposte dall'accusa sono piuttosto miti visti i reati addebitati" e che "la proposta di pena tiene conto di ogni possibile attenuante" ¿ non consente qualsivoglia controllo.
Ne consegue l'accoglimento del gravame su questo punto, nel senso che il primo giudice ¿ vale a dire ora la Pretura penale ¿ si dovrà nuovamente pronunciare sulla commisurazione della pena in ossequio ai principi giurisprudenziali sopra richiamati, tenendo altresì conto che è caduta l¿imputazione di vie di fatto per intervenuta prescrizione dell¿azione penale. Ciò che gli impone di statuire di nuovo anche sulle spese giudiziarie e sulla tassa di giustizia.
6.
Ciò posto, nella misura in cui non è divenuto privo di oggetto in seguito all¿intervenuta prescrizione dell¿azione penale per quanto riguarda il reato di vie di fatto, con conseguente annullamento del dispositivo A della sentenza impugnata (limitatamente a tale reato), il ricorso è parzialmente accolto nel senso che, annullati anche il dispositivo che condanna il ricorrente a 12 giorni di detenzione sospesi condizionalmente per un periodo di prova di due anni, come pure il dispositivo sulle spese e sulla tassa di giustizia, gli atti sono rinviati alla Pretura penale per ricommisurazione della pena in relazione alla condanna per ripetuta coazione (consumata e tentata) e ripetuta minaccia nel senso dei considerandi e per nuovo giudizio sulle spese giudiziarie e sulla tassa di giustizia.
II. Sul ricorso di PI 1
7.
Sul reato di violazione della sfera privata di RI 1 mediante apparecchi di presa d'immagini da parte del ricorrente e PI 2, il primo giudice, con riferimento al contenuto della videocassetta corrispondente e alle ammissioni del giornalista e dell'operatrice televisiva, ha ritenuto che gli elementi costitutivi del reato ex art. 179
quater
CP si siano realizzati, atteso che: "sono stati registrati suoni e immagini con un apparecchio da presa, la conversazione rientrava nella sfera privata dal momento che si riferiva a fatti che RI 1 in ogni caso non era disposto a rendere di pubblico dominio e non vi era il suo consenso" (cfr. sentenza p. 8, n. 10 i.f.). Non meritano per contro accoglimento, a mente del pretore, "gli argomenti fondati su legittima difesa, stato di necessità e salvaguardia di interessi legittimi" (cfr. sentenza, p. 9, n. 10).
a)
Il ricorrente insorge ex art. 288 lit. a CPP per errata applicazione del diritto federale (art. 179
quater
CP, la sola norma contestatagli nel decreto d'accusa). Egli assevera, in sintesi, che la telecamera digitale, programmata automaticamente per registrare audio e video, è stata usata per registrare "clandestinamente" (cfr. atto ricorsuale, p. 6, n. 6) solo la conversazione. Infatti l'inquadratura non era importante, perché l'incontro si svolgeva in luogo pubblico, sulla terrazza esterna di un esercizio pubblico, presenti altri avventori seduti ai tavolini vicini.
Le telecamera era in un primo tempo appoggiata sulle ginocchia della PI 2, verosimilmente per non destare sospetti: conferma di ciò si ha visionando la prima parte della videocassetta in cui non appare la faccia e la parte superiore del tronco di RI 1. L'inquadratura cambia solo dopo che la vittima si era rivolta alla PI 2 chiedendole "la sarà mia dré a filmà?", probabilmente perché per tranquillizzare l'interlocutore la telecamera era stata appoggiata sul tavolino: in questo contesto è bene precisare che "la persona che viene registrata, se non sa che la telecamera è in funzione, non si accorge di nulla" (cfr. ricorso, p. 5 in alto). Il ricorrente sostiene dipoi di aver ordinato alla PI 2 di registrare la conversazione solo per cautelarsi preventivamente da "rimproveri costruiti ad arte o mossi a meri scopi strumentali o vendicativi" (cfr. ricorso, p. 5 nel mezzo). Non si tratterebbe pertanto di parole e pensieri di RI 1 aventi un'importanza particolare per la sua personalità, rientranti nella categoria di elementi o fatti generalmente di natura intima o privata. In diritto il ricorrente reputa che non sia stato violato l'art. 179
quater
CP ma semmai si sarebbe realizzata "la fattispecie dell'infrazione prevista all'art. 179
ter
CP (registrazioni clandestine di conversazioni) poiché unicamente le parole espresse nel corso del colloquio avrebbero potuto ricevere qualifica di fatto privato protetto dalla norma penale (in particolare appunto l'art. 179
ter
CP). Il decreto d'accusa non menzionando l'art. 179
ter
CP e l'eventuale mutamento del capo d'accusa non essendo comunque stato notificato ai prevenuti in conformità dell'art. 250 CPP, il ricorrente ¿ e per attrazione anche PI 2 ¿ devono essere prosciolti dal reato ex art. 179
quater
CP, mancandone i presupposti tanto soggettivi quanto oggettivi.
b)
A mente della parte civile, per contro, "l'inquadratura è importante" perché la PI 2 "non si è limitata ad effettuare un campo lungo" sulla terrazza esterna del ritrovo pubblico, ma ha filmato RI 1 "in primo piano, immortalando quindi un colloquio che era e doveva restare confidenziale". La prima obiezione del ricorrente fondata sulla "natura pubblica del colloquio" va disattesa, perché va tenuto conto che la sfera privata dell'art. 179
quater
CP corrisponde a quella del diritto civile e considera anche la cosiddetta "sfera semi-pubblica, ossia fatti privati che si svolgono in pubblico". Sui rapporti tra gli art. 179
quater
e 179
ter
CP è dell'avviso che si dia concorso ideale perfetto, così come deciso dal primo giudice, quando l'autore utilizzando una videocamera digitale registra immagine e suono.
c)
Il reato di violazione della sfera segreta o privata mediante apparecchi di presa d'immagini ex art. 179
quater
CP si realizza quando l'autore, con un apparecchio da presa, osserva o fissa su un supporto d'immagini un fatto rientrante nella sfera segreta oppure un fatto, non osservabile senz'altro da ognuno, rientrante nella sfera privata d'una persona, senza l'assenso di quest'ultima.
Nel caso di specie il primo giudice si è limitato all'ipotesi di violazione della sfera privata. Con fatto nel senso dell'art. 179
quater
CP si intende tutto ciò che esiste e può essere osservato (DTF 118 IV 41 consid. 3 p. 44). Non si richiede che il fatto sia compromettente né che la sua rivelazione sia suscettibile di esporre la vittima a un danno o a torto morale. Il fatto deve appartenere alla sfera segreta o a quella privata. Per dirla con Corboz, op. cit., p. 613, n. 5, la distinzione tra "sfera segreta" e "sfera privata" non è agevole e i limiti sono difficili da stabilire. Sfera privata è nozione più ampia, che il legislatore ha inteso limitare nel senso che in essa sono compresi anche i fatti che si svolgono in luogo pubblico, purché non siano osservabili senz'altro da ognuno. Ad esempio, chi fotografa, contro la sua volontà, l'occupante di una casa quando questi si trova dinanzi alla porta d'ingresso, riprende un fatto rientrante nella sua sfera privata non osservabile senz'altro da ognuno. La sfera privata tutelata dall'art. 179
quater
CP non comprende soltanto quanto avviene nella casa stessa, bensì anche ciò che si svolge in prossimità della medesima, a condizione che tale prossimità sia senz'altro considerata dai suoi occupanti e riconosciuta dai terzi come facente parte dell'area appartenente alla casa. Fa parte di quest'area anche lo spazio antistante alla porta d'ingresso (DTF 118 IV 41 consid. 4/e¿f, p. 49¿51).
d)
Nel caso sottoposto ad esame, i fatti si sono svolti sull'area attrezzata a bar all'esterno di un esercizio pubblico. RI 1, il ricorrente e PI 2 erano seduti attorno a un tavolino, circondati da altre persone sedute ai tavoli vicini. Ben può dirsi pertanto che non si tratta di fatti ¿ fissabili su un supporto d'immagini ¿ rientranti nella sfera privata, lo spazio destinato ai clienti di un esercizio pubblico non potendo essere qualificato alla stregua dello spazio antistante la porta d'ingresso di un'abitazione privata. Detto altrimenti, i fatti non si sono svolti in area protetta poiché la terrazza è accessibile e visibile non solo agli altri avventori presenti ma anche ai terzi che si fossero trovati a passarvi davanti.
e)
Come si è visto, la presa d'immagini risulta essere nel caso di specie irrilevante dal profilo penale. Il primo giudice, e prima di lui il Procuratore pubblico, non si sono avveduti che se è vero che la telecamera digitale registra tanto le immagini quanto i suoni, possono qui assumere rilevanza penale solo i suoni che registrano la conversazione non pubblica svoltasi tra il ricorrente, PI 2 e RI 1. Quanto si vede è del tutto casuale e non voluto: infatti l'intento era quello di mettere su nastro i suoni ossia la conversazione riservata, tant'è che la telecamera era stata appoggiata nella fase iniziale sulle ginocchia della PI 2, verosimilmente per non insospettire l'interlocutore. È solo dopo che RI 1 aveva notato la telecamera e si era incupito, rivolgendosi minaccioso alla PI 2 con un perentorio "la sarà mia dré a filmà", che vi era stato un posizionamento diverso dell'apparecchio, messo sul tavolino senza che l'interlocutore potesse comunque rendersi conto che la registrazione continuasse (cfr. atto ricorsuale, ammissione a p. 5 in alto). Non vi può pertanto essere spazio per il reato di violazione della sfera privata mediante un apparecchio di presa d'immagini. Ne consegue il proscioglimento di PI 1 da tale reato, con estensione degli effetti ex art. 297 CPP anche a PI 2 che non ha presentato ricorso. Il dispositivo "B" della sentenza impugnata deve quindi essere modificato in tal senso.
8.
Il ricorrente non nega che vi sia stata una registrazione clandestina ¿ da parte di PI 2, su suo ordine ¿ di una conversazione con RI 1 non udibile da terzi. Unicamente le parole espresse nel corso del colloquio avrebbero potuto ricevere qualifica di fatto privato protetto dalla norma penale (in particolare appunto l'art. 179
ter
CP). Il decreto d'accusa non menziona però l'art. 179
ter
CP e l'eventuale mutamento del capo d'accusa non è comunque stato notificato ai prevenuti in conformità dell'art. 250 CPP.
a)
La procedura penale moderna è governata dal principio accusatorio. L'atto di accusa (come pure il decreto di accusa) assume una doppia funzione: da un lato circoscrive l'oggetto del processo e del giudizio, dall'altro garantisce i diritti della difesa, in modo che l'imputato possa adeguatamente far valere le sue ragioni (DTF 126 I 19 consid. 2a p. 21 con rif., 120 IV 348 consid. 2b, 116 Ia 455 consid. cc, 103 Ia 6 consid.
1b; Hauser/ Schweri, Schweizerisches Strafprozesrecht, 3. ediz., p. 162 n. 6 ss. e p. 165 n. 16).
Il principio accusatorio ¿ come il principio dell'immutabilità, che tutela l'identità tra atto di accusa e oggetto del giudizio ¿ è disciplinato dal diritto cantonale (DTF 112 IV 71 consid. 4a), ma garanzie minime sgorgano dal diritto federale (in particolare dal diritto di essere sentito: DTF 126 I 19 consid. 2a p. 21, 116 Ia 455 consid. cc). L'identità tra atto di accusa e oggetto del giudizio non dev'essere spinto all'accesso, fino a esigere una letterale corrispondenza terminologica (CCRP, sentenza del 24 agosto 2001 in re H.G., consid. 3c; DTF del 20 febbraio 1998 in re A.P., consid. 2a/bb). Il principio accusatorio è leso tuttavia quando il giudice si fonda su una fattispecie diversa da quella enunciata nell'atto di accusa, senza che l'imputato abbia avuto la possibilità di esprimersi sull'atto di accusa adeguatamente e tempestivamente completato o modificato (DTF 126 Ia 19 consid. 2c e d p. 22 ss. con rif., DTF del 20 febbraio 1998 in re A.P., consid. 2a; DTF 116 Ia 455 consid. cc; Hauser/Schweri, op. cit., p. 192 n. 7 e p. 195 n. 19).
b)
Stabilito che il decreto d'accusa considera solo l'art. 179
quater
CP e non l'art. 179
ter
CP, la questione non può ovviamente essere vagliata oltre. Per ragioni di economia processuale e in conformità della giurisprudenza di questa Corte, gli atti vanno trasmessi alla Pretura penale perché riprenda il processo secondo l'art. 250 cpv. 1 e 4 CPP (applicabili per analogia anche ai procedimenti che sfociano in un decreto di accusa) dovendosi valutare se l'accusato risulti colpevole del reato ex art. 179
ter
CP non contemplato nel decreto di accusa. Basterà nel caso di specie che il Pretore viciniore contesti agli accusati (il ricorrente e, per attrazione, ossia in virtù dell¿art. 297 CPP, anche a PI 2) la nuova imputazione . Prima di riprendere il processo, nondimeno, egli dovrà assicurare ad entrambi il diritto di essere sentiti ¿ e quindi anche di proporre prove a discarico ¿ sgorgante dall'art. 9 Cost. (cfr. DTF 119 Ia 139 consid. 2e con richiami di dottrina e giurisprudenza; CCRP, sentenza del 21 ottobre 1999 in re B., consid. 2c).
9.
Da quanto precede discende che il ricorso deve essere parzialmente accolto nel senso che, annullato il dispositivo B della sentenza impugnata, il ricorrente e, di riflesso, PI 2 (art. 297 CPP) vanno prosciolti dal reato di violazione della sfera privata mediante apparecchi di presa di immagini (art. 179
quater
CP). Annullati anche successivi dispositivi di condanna emanati nei loro confronti, gli atti sono rinviati alla Pretura penale per un nuovo giudizio nel senso del considerando 8b sul reato di registrazione clandestina di conversazioni (art. 179
ter
CP) e, dandosene il caso, per ricommisurazione della pena e, in ogni caso, per nuovo giudizio sulle spese giudiziarie e sulla tassa di giustizia.
III. Sulle spese e sulle ripetibili.
10.
La tassa di giustizia e le spese del giudizio odierno seguono il principio per cui "se fu pronunciata la cassazione, lo Stato sopporta le spese posteriori all'atto che l'ha determinata" (art. 15 cpv. 2 CPP). In esito all'attuale sentenza si giustifica perciò di caricare gli oneri processuali per 1/2 allo Stato, per 1/3 a RI 1 e per 1/6 a PI 1. In esito al ricorso di PI 1, lo Stato verserà al ricorrente fr. 900.¿ per ripetibili ridotte (art. 9 cpv. 6 CPP). Non vengono per contro riconosciute ripetibili a RI 1, soccombente in misura preponderante (consid. 3d, 4d e 6 che precedono). Sugli oneri di prima sede giudicherà nuovamente, come visto, la Pretura penale in sede di rinvio. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,005 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
c7621179-0a07-58e5-a555-60cf5a0009a3 | in fatto: A.
Con lettera del 16 novembre 2000 indirizzata al Consiglio di Stato con copia al Tribunale federale e al Consiglio federale, _ ha denunciato pretesi abusi che sarebbero stati compiuti in un non meglio precisato esercizio pubblico in danno di una ragazza di 18 anni, la quale sarebbe stata costretta a prostituirsi (act. 51/36). Il Ministero pubblico ha sentito _ il 21 novembre successivo (act. 51/35), dopo di che ha ordinato l'arresto di _, che di fatto gestiva il bar _. Dall'inchiesta è risultato che tra il 2 aprile 1998 e il 22 novembre 2000 nelle camere poste sopra l'esercizio pubblico avevano soggiornato non meno di 66 donne (13 ungheresi, 3 cittadine della Repubblica Ceca, 36 lettoni e 11 brasiliane), per complessivi 3'500 pernottamenti. Le ospiti pagavano per vitto e alloggio fr. 65.– al giorno (in seguito fr. 90.–), dandosi nelle camere alla prostituzione con i clienti raccolti nel bar sottostante.
B.
Il 13 giugno 2001 il Procuratore pubblico ha posto in stato d'accusa _ per promovimento della prostituzione, truffa, falsità in documenti e infrazione alla legge federale sul domicilio e la dimora degli stranieri. La prima imputazione si riconduceva alle cittadine lettoni _ (la ragazza cui si riferiva _ nella segnalazione), _, _ e _, che l'accusato avrebbe sospinto alla prostituzione, ledendone la libertà di azione con l'esercizio di tale attività e mantenendole in quello stato. L'imputazione di truffa riguardava l'assicurazione malattia _, dalla quale l'accusato era riuscito a ottenere rendite giornaliere per incapacità lucrativa sulla base di certificati medici fondati sulle sue stesse dichiarazioni, mentre in realtà egli lavorava al bar _. L'imputazione di falsità in documenti sarebbe stata commessa dall'accusato compilando tre falsi bollettini della _ per simulare versamenti di complessivi fr. 10'500.–. L'infrazione alla legge federale sul domicilio e la dimora degli stranieri, infine, sarebbe stata consumata favorendo il soggiorno illegale delle 66 donne alloggiate sopra il bar _ e, in ogni modo, ospitando _ per oltre 3 mesi consecutivi e/o oltre 6 mesi l'anno.
C.
Con sentenza del 20 agosto 2001 il presidente della Corte delle assise correzionali di _ ha prosciolto _ dall'accusa di promovimento della prostituzione, truffa e falsità in documenti, ma lo ha ritenuto colpevole di infrazione alla legge federale sul domicilio e la dimora degli stranieri per avere favorito, dando alloggio, il soggiorno in Svizzera di _ sopra il bar _ tra il novembre del 1999 e il novembre del 2000, eccedendo di una trentina di giorni il limite consentito di 6 mesi annui. Ciò posto, il presidente della Corte ha condannato _ a 20 giorni di detenzione (computato il carcere preventivo sofferto), da espiare siccome recidivo, senza revocare tuttavia la sospensione condizionale a un'espulsione che l'imputato si era visto infliggere dalla Corte delle assise criminali in _ il 10 novembre 1995. Alle richieste pecuniarie di _, costituitasi parte civile, il presidente della Corte ha rifiutato di dar luogo.
D.
Contro la sentenza appena citata hanno introdotto una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale sia il Procuratore pubblico, il 21 agosto 2001, sia _, il 23 agosto 2001. Nelle motivazioni scritte del 1° ottobre successivo essi chiedono:
– il Procuratore pubblico: la condanna di _ a 22 mesi di detenzione (computato il carcere preventivo sofferto), oltre che a una multa di fr. 5'000.– e a 5 anni di espulsione, sospesi condizionalmente con un periodo di prova di 5 anni, per promovimento della prostituzione, truffa e infrazione alla legge federale sul domicilio e la dimora degli stranieri, rispettivamente – ove ciò non fosse possibile – il rinvio degli atti a un'altra Corte di assise per nuovo giudizio;
– _: la condanna di _ a una pena privativa delle libertà per promovimento della prostituzione, al pagamento di fr. 85'000.– con accessori per torto morale e di fr. 3'000.– per mancato guadagno.
E.
Nelle sue osservazioni del 26 ottobre 2001 _ propone di respingere i ricorsi. _ postula da parte sua, con osservazioni del 25 ottobre 2001, l'accoglimento del ricorso inoltrato dal Procuratore pubblico. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288
lett. a e b CPP). L'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono sindacabili unicamente qualora la sentenza impugnata denoti estremi di arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche erroneo, bensì apertamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia 369 consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura a norma dell'art. 288 lett. c CPP non basta dunque criticare la sentenza impugnata né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di arbitrio. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev'essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con rinvii).
I. Sul ricorso del Procuratore pubblico
2.
Il Procuratore pubblico insorge anzitutto contro il proscioglimento di _ dall'accusa di avere promosso la prostituzione. Ora, l'art. 195 CP punisce con la reclusione sino a dieci anni o con la detenzione chiunque sospinge alla prostituzione un minorenne (cpv. 1), chiunque, profittando di un rapporto di dipendenza o per trarne un vantaggio patrimoniale, sospinge altri alla prostituzione (cpv. 2), chiunque lede la libertà d'azione di una persona dedita alla prostituzione sorvegliandola in questa sua attività o imponendole il luogo, il tempo, l'estensione o altre circostanze inerenti all'esercizio della prostituzione (cpv. 3) e, infine, chiunque mantiene una persona nella prostituzione (cpv. 4). Il Procuratore pubblico lamenta in primo luogo la mancata applicazione dell'art. 195 cpv. 2 CP.
a)
La prostituzione evocata dall'art. 195 CP consiste nell'offerta del proprio corpo, occasionalmente o per mestiere, al piacere sessuale altrui in cambio di denaro o di altri vantaggi economici. Il che non deve necessariamente configurarsi come un'attività regolare o una scelta di vita (DTF 129 IV 73 consid. 1.4 pag. 75 con riferimenti di dottrina;
Schwaibold/ Meng
in: Basler Kommentar, StGB II, Basilea 2002, n. 8 ad art. 195). “Sospingere alla prostituzione” nel senso dell'art. 195 cpv. 1 CP significa indurre una persona a vendersi. E siccome si tratta di minorenni, è sufficiente che l'autore, per età o per qualsiasi altra ragione, sfrutti l'inesperienza della vittima, inducendola o persuadendola, anche senza profittare di un rapporto di dipendenza o perseguire vantaggi economici (DTF 129 IV 71 consid. 2.3 pag. 80). Non può dirsi “sospingere” alla prostituzione, in ogni modo, chi si limita a traviare la vittima, dandole la possibilità di dedicarsi al mercimonio (DTF 129 IV 71 consid. 1.4 pag. 77).
b)
L'art. 195 cpv. 2 CP presuppone, per converso, che l'autore influenzi notevolmente la vittima ed eserciti su di lei pressioni di una certa intensità (DTF 129 IV 71 consid. 1.4 pag. 76;
Corboz
, Les infractions en droit suisse, vol. I, Berna 2002, n. 8 e 9 ad art. 195 CP;
Trechsel
, StGB, Kurzkommentar,
2a edizione, n. 4 ad art. 195;
Schwaibold/Meng
, op. cit., n. 11 ad art. 195 CP). L'art. 195 cpv. 2 CP presuppone altresì che l'autore sospinga alla prostituzione approfittando di un rapporto di dipendenza o per trarre vantaggi patrimoniali. Profitta di un rapporto di dipendenza chi limita la vittima nella sua libertà d'azione valendosi della propria superiorità. Non è necessario un rapporto di subordinazione; basta una relazione di inferiorità che limiti il potere decisionale della vittima (
Corboz
, op. cit., n. 25 e 26 ad art. 195 CP). La “dipendenza” dell'art. 195 cpv. 2 CP va intesa in senso lato, come negli art. 188, 192 e 193 CP, ma non è una nozione teorica. Va accertata in base alle circostanze del caso concreto (DTF 129 IV 71 consid. 1.4 pag. 77). Può ricondursi a una passione della vittima per l'autore, a problemi finanziari (DTF 129 IV 71 consid. 1.4 pag. 80), alla necessità di trovare un impiego che l'attore può procurare o all'esigenza di garantirsi un sostentamento (
Corboz
, op. cit., n. 28 a 30 ad art. 195 CP;
Trechsel
, op. cit., n. 6 ad art. 195). La dipendenza può ricollegarsi anche a fattori psichici, come depressioni o scompensi psicologici (
Corboz,
op. cit., n. 30 ad art. 195 CP).
c)
All'abuso di una situazione di dipendenza l'art. 195 cpv. 2 CP equipara il perseguimento di vantaggi economici, in particolare il lucro che l'autore si prefigge di trarre dalla prostituzione o anche solo dalla locazione di vani destinati all'esercizio della prostituzione (
Corboz
, op. cit., n. 33 ad art. 195 CP). Pure in questo caso l'autore deve porre la vittima sotto pressione o sfruttarne l'inferiorità, giacché decisivo rimane il fatto di “sospingere” alla prostituzione, mentre il movente che anima l'autore non è determinante (DTF 129 IV 71 consid. 1.4 pag. 80;
Schwaibold/Meng,
op. cit., n. 21 ad art. 195 CP). In definitiva, chiunque indebolisca deliberatamente la libertà d'azione di una persona maggiorenne, sfruttandone la dipendenza al punto da indurre quest'ultima a offrire ripetutamente il proprio corpo per il piacere sessuale di terzi in cambio di denaro, “sospinge” alla prostituzione nel senso dell'art. 195 cpv. 2 CP. Ciò vale quando sia quando l'autore eserciti pressioni sulla vittima prospettando vantaggi economici, sia quando l'autore sfrutti la sua superiorità (DTF 129 IV 71 consid. 1.4 pag. 80).
3.
Nel censurare il proscioglimento dall'imputazione di promovimento della prostituzione, il Procuratore pubblico si duole in primo luogo che il presidente della Corte abbia formulato talune premesse d'ordine generale, le quali in buona sostanza anticipano l'assoluzione. Egli avrebbe arbitrariamente dato per acquisito, in specie, un modello di funzionamento dei locali “a luci rosse” basandosi su pretesi fatti notori e su deduzioni da lui ritenute logiche. In tal modo però egli ha posto un serio ostacolo al corretto accertamento dei fatti e a una giusta valutazione delle risultanze processuali. Per di più, il primo giudice sarebbe ripetutamente caduto in arbitrio con apprezzamenti e valutazioni insostenibili, fondate su convincimenti personali anziché su riscontri oggettivi.
a)
Nella sentenza il presidente dalla Corte ha esordito ricordando come, nel Ticino degli ultimi anni, locali gestiti alla stregua del _ si siano moltiplicati. Strutture alberghiere obsolete – egli ha spiegato – sono viepiù adibite da parte di soggetti spregiudicati alla pratica della prostituzione. L'esercizio pubblico (di regola un bar) funge da luogo d'incontro tra avventori, solitamente consapevoli della natura del posto, e prostitute. L'avventore offre una consumazione alla ragazza, ne nasce – secondo l'ordinario andamento delle cose – un breve colloquio e ciò può preludere a un rapporto sessuale a pagamento in una camera locata dalla donna. Il gestore del locale riesce così a far rendere alloggi vetusti (che in condizioni normali rischierebbero di rimanere vuoti), anche per le consumazioni al bar, frequentato grazie alla presenza di prostitute. Queste ultime, da parte loro, trovano tornaconto nel fatto di poter svolgere la loro attività in una camera dello stabile, ciò che le agevola e dovrebbe garantir loro maggiore sicurezza personale (sentenza, pag. 11 seg.).
Il proliferare di siffatti locali – ha continuato il primo giudice – si deve al gran numero di donne affluite ultimamente, soprattutto dall'est europeo e dall'America del sud, convinte (o illuse) di conseguire lauti guadagni. L'abbondante offerta di ragazze disponibili ha fatto sì che nemmeno fosse necessario per i gestori sollecitare le ragazze alla prostituzione, essendo sempre possibile sostituire una ragazza insoddisfatta con un'altra. Al punto che la prima Corte si è domandata se non fosse emblematico, per finire, che a fronte di almeno 66 ragazze passate dal _ fra il 1998 e il 2000, l'accusa di promovimento della prostituzione si limitasse nella fattispecie a quattro soltanto (sentenza, pag. 12).
Il presidente della Corte delle assise correzionali si è soffermato dipoi sullo svolgimento dell'inchiesta, rilevando che l'intenzione delle parti era quella di sottrarre alla Corte il confronto tra le ragazze e l'accusato e che solo la presenza in aula di una di esse _ ha consentito alla Corte di porre domande almeno a una delle presunte vittime del reato prospettato nell'atto di accusa e di prendere conoscenza diretta degli eventi determinanti. La quasi totale mancanza di contraddittorio – ha soggiunto il primo giudice – richiede accresciuta cautela anche nella lettura degli atti preprocessuali, ove si considerino i limiti di alcune verbalizzazioni, conseguenti alle domande talora tendenziose degli interroganti. Infine la Corte ha ravvisato ulteriori motivi di riserbo nella relazione sentimentale di _ con l'imputato, durata circa 6 mesi, nella relazione affettiva di _ con _, nella circostanza che nonostante quel legame _ abbia accettato, per propria ammissione, di avere 5 o 6 rapporti sessuali a pagamento con l'imputato e, in particolare, nell'enfasi e nei toni riscontrabili nell'istanza di costituzione di parte civile della stessa _, volta a ottenere un risarcimento di ben fr. 85'000.– (sentenza, pag. 13 seg.).
b)
Nella misura in cui il Procuratore pubblico rimprovera alla prima Corte di avere anticipato un giudizio assolutorio dando per scontato un determinato modello di funzionamento dei locali “a luci rosse”, in modo da precludere ogni applicazione all'art. 195 CP, il ricorso denota mancanza di obiettività. Nell'affrontare il problema, il primo giudice non ha inteso prosciogliere l'accusato ancora prima di vagliare l'imputazione sotto il profilo dell'art. 195 CP, ma si è limitato a porre l'accento sul substrato sociale che – a mente sua – ha contribuito al proliferare di esercizi pubblico come il _. Più in generale, la Corte di assise si è proposta di inquadrare le condizioni in cui le ragazze sogliono esercitare l'attività in posti del genere, anche per valutare poi oggettivamente il quesito – fondamentale – di sapere se l'imputato abbia realmente coartato la volontà delle donne, sospingendole a prostituirsi contro la loro volontà. Tant'è che la prima Corte ha ripreso la questione in seguito, esaminando i racconti delle singole ragazze.
Certo, potrà fors'anche apparire opinabile che la prima Corte abbia affrontato l'esame del caso dipartendosi da fenomenologie ritenute notorie. Il Procuratore pubblico però non sostanzia l'arbitrio di tali premesse. Si limita a enunciare, fondandosi sulla propria opinione, il suo divergente punto di vista su quanto si verifica, a suo giudizio, in locali come il bar _. Se non che, per censurare una sentenza a norma dell'art. 288 lett. c CPP non basta reiterare nell'uso della locuzione “è arbitrario”; occorre anche dimostrare l'arbitrio. Per quanto riguarda le doglianze volte contro il riserbo manifestato dal primo giudice nei confronti di alcuni atti dell'inchiesta predibattimentale, segnatamente di alcuni verbali reputati conseguenti all'eccessiva solerzia degli agenti, come pure nell'apprezzare l'obiettività di _ con riferimento ai toni usati nell'istanza di costituzione di parte civile, anch'esse sono destinate all'insuccesso. Le riflessioni esposte nei consid. 5.5 e 5.6 della sentenza impugnata non solo sfuggono alla censura di arbitrio, ma sono pertinenti. Se mai si può discutere sull'effettiva mancanza di contraddittorio fra vittime e imputato, dato che un confronto tra _ e l'imputato ha pur sempre avuto luogo al processo. La questione non è tuttavia di rilievo ai fini del giudizio.
4.
Il Procuratore pubblico ravvisa arbitrio anche negli accertamenti e nelle valutazioni della Corte di merito sulla credibilità di _. Alla Corte egli rimprovera, in sintesi, di avere ingiustificatamente cercato di individuare nei vari interrogatori della giovane contraddizioni inesistenti e di avere attribuito senza motivo a determinate dichiarazioni di lei un significato diverso da quello desumibile da una corretta e serena lettura degli interrogatori.
a)
Il primo giudice ha dapprima riprodotto parte dell'interrogatorio cui è stata sottoposta il 22 novembre 2000 (act. 51/13) _, a quel tempo studente diciottenne. Agli inquirenti essa aveva riferito di essersi trasferita in Svizzera da Riga (Lettonia), dove viveva con la madre e la nonna e dove lavorava come ballerina in un locale notturno (senza mai prostituirsi né far bere clienti), a causa dei debiti lasciati da suo padre dopo il divorzio. Essa ha dichiarato che una sua conoscente, attiva nello stesso ambiente, le aveva mostrato verso la fine di settembre 2000 un annuncio di giornale, stando al quale si cercavano ragazze di almeno 18 anni per uno show in night club svizzeri. Donde la decisione di presentarsi, allettata dalla prospettiva di un maggior guadagno, ancorché fosse notorio che lavorare all'estero rispondendo a simili annunci fosse pericoloso. Così essa si era incontrata con un nominato _, il quale le avrebbe assicurato che il lavoro sarebbe stato quello di ballerina, salvo precisare che essa avrebbe guadagnato di più salendo in camera con clienti. Non si trattava però, secondo la ragazza, di un obbligo, ma di una scelta.
_ ha precisato di avere avuto con _ quattro o cinque incontri, di avere firmato in quelle occasioni alcuni formulari con i propri dati anagrafici, come pure un documento in cui si impegnava a versare fr. 2'800.– a una certa _, che le aveva procurato i biglietti per l'autobus e che già si trovava in Svizzera. La somma comprendeva anche le spese necessarie per trovarle un lavoro. Poco prima di partire essa aveva conosciuto poi una ragazza di nome _, la quale era divenuta sua compagnia di viaggio. Con lei aveva raggiunto Milano martedì 10 ottobre 2000, dopo due giorni di viaggio. Lì una donna russa, presentatasi come _, le aveva accolte, dicendo loro che erano destinate a un locale denominato _ dove avrebbero dovuto prostituirsi. Il lavoro consisteva nello stare al bar, nell'incontrare clienti e nel proporre loro di salire ai piani superiori per avere rapporti sessuali dietro versamento di almeno fr. 100.–. Ciò avrebbe gettato le due donne in uno stato confusionale. A quel momento una ragazza conosciuta a Varsavia durante una fermata, tale _, si sarebbe offerta di aiutarle e di condurle in un luogo fuori pericolo.
La sera stessa _ si era presentata all'_ di _ insieme con un certo _, proprietario del bar _. Pagata la somma di fr. 200.–, costui le avrebbe portate in automobile prima a cena e poi al bar _, consentendo loro di trascorrervi la notte. Saputo l'indomani da _ che cosa era accaduto, _ avrebbe proposto loro di rimanere lì a lavorare. Esse avrebbero dovuto intrattenersi al bar fino all'arrivo degli avventori. Alle due donne sarebbe spettato in seguito di decidere se salire in camera con loro, secondo gradimento. Il costo della stanza era inizialmente di fr. 50.– giornalieri, per poi arrivare a fr. 90.–, vitto compreso. _ avrebbe chiesto loro di vestirsi in modo accattivante, di presentarsi tutti i pomeriggi alle ore 16.00 e di rimanere al bar fino alla chiusura. Per finire _ ha raccontato tuttavia di essersi resa conto che con _ essa avrebbe dovuto adescare clienti e ciò l'avrebbe indotta a credere di non avere scelta, dato che _ era sempre al bar e le indicava gli avventori cui essa doveva avvicinarsi, mostrandosi risentito nel caso in cui lei rifiutasse. _ non ha mancato di precisare, in ogni modo, che al suo arrivo al bar _, _ aveva mandato lei e _ in polizia a _ per denunciare _. Narrato l'accaduto agli agenti, esse avevano poi saputo da _ che _ era stata arrestata. Pur negando che _ l'avrebbe picchiata o minacciata, _ ha ribadito che costui le ripeteva di eseguire quanto le si ordinava senza muovere obiezioni (sentenza, pag. 18 a 21).
Il presidente della Corte di assise ha poi riportato le successive dichiarazioni di _ circa l'inizio della sua attività come prostituta, rilevando però contraddizioni che ne minavano l'attendibilità. In un verbale del 23 novembre 2000 delle ore 9.26 (act. 51/14), redatto da un altro interrogante, _ si era espressa per vero in termini ben più pesanti verso il ricorrente, sostenendo che questi le avrebbe ingiunto di lavorare per lui e di consegnargli tutto quanto le versavano i clienti, che al suo fabbisogno avrebbe provveduto lui personalmente. In effetti, per rimanere al bar _, egli l'avrebbe obbligata a prostituirsi e a rimettergli il denaro ricavato da tale attività (sentenza, pag. 21). Un successivo verbale di quello stesso giorno, delle ore 13.34 (act. 51/15), steso dal funzionario che aveva condotto l'interrogatorio del mattino, si esauriva in una singolare trascrizione di frasi contenute nel verbale precedente sulle condizioni in cui era esercitata la prostituzione.
In un ulteriore verbale del 29 novembre 2000 (act. 51/126), cui l'interrogante del giorno 23 non aveva partecipato, _ era tornata a toni più sfumati, ammettendo fra l'altro di non nutrire rancore per l'imputato, ma tutt'al più verso le persone che l'avrebbero ingannata al momento di lasciare la Lettonia (sentenza, pag. 21 seg.). Il presidente della Corte ha evocato altresì talune dichiarazioni rilasciate il 1° dicembre 2000 da _ al Procuratore pubblico (act. 40), cui essa ha raccontato che lei e l'amica avrebbero accettato di prostituirsi perché avevano paura di _ e perché dovevano rimborsare al prevenuto il costo del loro soggiorno, soggiungendo di avere detto all'agente di polizia amico dello stesso prevenuto che questi le aveva di fatto obbligate a prostituirsi (sentenza, pag. 22 seg.). Infine la Corte di merito ha riportato anche un passaggio del confronto davanti al Procuratore pubblico (act. 41) in cui _, chiamata a spiegare come mai avesse accettato di prostituirsi al bar _ dopo avere rifiutato un'analoga proposta presso l'_, aveva risposto che nell'esercizio pubblico dell'accusato le condizioni erano migliori perché lì era più tranquillo, perché nessuna le minacciava, perché pensava di guadagnare meglio, perché lei e l'amica necessitavano del denaro per ritornare a casa e per rimborsare l'accusato e perché al _ non avevano paura (sentenza, pag. 23).
b)
Pur giudicando le dichiarazioni di _ nel loro complesso tutto sommato credibili e abbastanza lineari, ancorché in misura minore rispetto a quelle di un'altra presunta vittima, _ (sentenza, pag. 23 con riferimento alle pag. 15–18), il presidente della Corte delle assise ha mantenuto una certa cautela, specie di fronte a certe affermazioni rilasciate dalla donna alla polizia il 23 novembre 2000, quando essa ha fatto indiscriminatamente uso di termini come “obbligata a prostituirmi” e “pressione” subìta dal prevenuto, chiaramente già nell'ottica – da parte dell'interrogante – di veder applicato l'art. 195 CP. Se non che, ha rilevato il primo giudice, sia “obbligata” sia “pressioni” sono modi di dire che premettono una valutazione o una sussunzione di altri elementi di fatto da parte di chi le esprime. All'atto pratico si cercherebbero invano nelle altre dichiarazioni della giovane elementi di fatto relativi a comportamenti dell'imputato che consentirebbero di accertare concretamente l'obbligo di avviarsi alla prostituzione o pressioni in tal senso, a parte la di lei soggettiva paura che egli si adirasse per essere contrariato.
Né va frainteso – ha continuato il presidente della Corte – il senso letterale di altre ripetute e ben più sfumate asserzioni di _, come “_ ci propose di restare lì a lavorare”, “al momento di accettare la proposta di prostituirmi presso il bar _ ”, “ci offriva allora la possibilità di restare nel suo locale, dove avremmo potuto guadagnare del denaro prostituendoci nella nostra camera” ecc. (sentenza, pag. 24). Affermazioni per altro espresse al plurale, anche a nome di _, che escludono coercizioni e pressioni, non da ultimo ove si consideri che _ ha ammesso come al bar _ si sentisse più tranquilla e sicura, senza timori. Ciò posto, ha concluso la Corte, non si può dire che l'imputato abbia fatto uso di coercizione per avere proposto alla ragazza l'esercizio del meretricio e per avere messo a disposizione la struttura adatta allo scopo (sentenza, pag. 23). Tutt'al più una sua potenziale responsabilità penale potrebbe dipendere, come nel caso delle altre ragazze, dalla possibilità di ascrivergli l'avversa situazione in cui _ si era trovata, ovvero l'asserita mancanza di alternative alla proposta di lui, che per questo motivo avrebbe assunto il carattere di una non scelta. Argomento che la Corte ha trattato più avanti, in un considerando a sé riferito a tutte le ragazze, ritenendolo per finire il vero problema da affrontare (sentenza, consid. 17). Ha comunque subito rammentato che _ ha ammesso di avere già lavorato come ballerina e spogliarellista in un locale notturno a Riga, in un posto dove si praticava la prostituzione. Ed ssa ha accettato di lavorare in Svizzera in un contesto analogo, essendole chiaro, dopo le spiegazioni fornite da _, che anche nel locale in cui avrebbe dovuto far consumare gli avventori, essa avrebbe avuto la possibilità di prostituirsi (sentenza, pag. 24). _ sapeva perciò e accettava di lavorare in Svizzera in un locale dove gli avventori hanno anche la possibilità di avere rapporti sessuali a pagamento (sentenza, pag. 25).
c)
Il Procuratore pubblico lamenta svariati arbitrii negli accertamenti e nelle considerazioni che hanno indotto il primo giudice a relativizzare la credibilità di _. Egli insiste nel far carico alla Corte di avere arbitrariamente cercato nelle puntuali dichiarazioni della giovane contraddizioni in realtà inesistenti, dando più peso ad alcune sfumate affermazioni perché ritenute più credibili rispetto ad altre più categoriche (quelle del 23 novembre 2000), rilasciate a un altro interrogante che mirava ad agevolare l'applicazione dell'art. 195 CP. A prescindere dal fatto che, contrariamente a quanto figura nella sentenza, i verbali del 23 novembre 2000 sono stati redatti da funzionari diversi, una lettura oggettiva conferma – secondo il Procuratore pubblico – che le due categorie di termini usati si accompagnano, mischiandosi in tutte le audizioni, senza che ciò costituisca una contraddizione. In realtà la giovane avrebbe semplicemente voluto spiegare in modo sereno e equilibrato ciò che le era occorso. In tutti gli interrogatori _ avrebbe confermato che il prevenuto, consapevole che lei e l'amica erano giunte in Svizzera con l'inganno e che non volevano prostituirsi, ha offerto loro di rimanere al _, sempre che si fossero prostituite secondo le regola da lui fissate. E ciò pur sapendo delle difficili condizioni in cui versavano le due donne, senza alloggio, ignare della lingua e sprovviste di mezzi finanziari.
In quanto il Procuratore pubblico scorge arbitrio nelle considerazioni che hanno indotto il primo giudice a prediligere le più sfumate dichiarazioni della giovane per quanto riguarda il modo (ben diverso da quello preteso nel ricorso) con cui l'imputato avrebbe suggerito alle due ragazze di prostituirsi, il ricorso si esaurisce sostanzialmente in un atto di appello, per non dire in una requisitoria. Il Procuratore pubblico si diparte invero da una sua interpretazione delle varie deposizioni rilasciate da _ in alternativa alla diversa valutazione della prima Corte. Ciò non è ammissibile in un ricorso fondato sul divieto dell'arbitrio. Il Procuratore pubblico sembra disconoscere altresì che su questo punto la prima Corte ha vagliato solo un aspetto del problema, quello relativo ai presunti comportamenti dell'imputato che avessero ecceduto la semplice proposta di darsi alla prostituzione, mentre ha lasciato irrisolto l'altro tema, non meno importante (e affrontato prematuramente in questa parte del ricorso) legato al possibile sfruttamento – senza passare a significanti azioni coercitive – della avversa situazione in cui si trovava la ragazza. Tale questione sarà ripresa più avanti (consid. 7).
5.
Il Procuratore pubblico fa carico poi alla prima Corte di essere trascesa in ulteriori arbitrii nel valutare la credibilità di _, compagnia di _.
a)
Ricordato che _, anch'essa diciottenne e studente all'ultimo anno di scuola media, è giunta in Svizzera per il tramite dell'agenzia di _, conosciuta per mezzo di un'inserzione sulla stampa, il presidente della Corte di assise ha ripreso alcune dichiarazioni da lei rese in un verbale del 21 novembre 2000 (act. 51/11). Al funzionario la giovane ha raccontato che _ aveva riferito a lei e a sua madre, pure interessata a raggiungere la Svizzera, che il lavoro offerto era nel settore della consumazione, che esse avrebbero dovuto rimanere al bar e bere con i clienti, alloggiando nello stabile dell'esercizio pubblico, e che – se avessero voluto – avrebbero potuto salire in camera con i clienti per guadagnare di più. Visto il loro rifiuto di quest'ultima prospettiva, _ aveva risposto che ciò non era un problema, dato che potevano decidere esse medesime il da farsi. In un secondo colloquio _ aveva ribadito che le si offriva un lavoro nella “consumazione”, rassicurandola che non occorreva prostituirsi.
Il primo giudice ha rilevato di poi che il viaggio di _ dalla Lettonia si era svolto come quello di _, che essa pure aveva raggiunto _ a Milano, che essa pure aveva appreso subito la vera natura del lavoro, che essa pure era stata condotta all'_ e da lì al _ con l'intervento di _. _ ha poi riferito agli inquirenti che, una volta a _, l'accusato aveva aiutato lei e l'amica a scrivere una lettera alla polizia di _ per denunciare l'accaduto. Il quarto giorno egli avrebbe domandato loro se avevano bisogno di soldi e se fossero disposte a lavorare, in particolare a bere con i clienti. Una bottiglia da fr. 250.– avrebbe consentito loro di guadagnare fr. 50.–, al che le due donne avevano accettato. _ ha precisato che il lavoro iniziava alle ore 16.00, che il prevenuto aveva raccomandato loro di essere “un po' aperte” e di vestire in modo provocante, ma di avere rifiutato quest'ultima proposta, pur avendo notato che le altre ragazze al bar (le quali salivano anche in camera con i clienti) vestissero in modo succinto. Si era quindi seduta al bar, con le altre ragazze, e aveva bevuto controvoglia cinque gin-tonic offerti dall'accusato (sentenza, pag. 25 a 27).
Sempre all'interrogatorio del 21 novembre 2000 _ ha dichiarato che a un certo momento l'accusato le avrebbe indicato un giovane _, il quale intendeva accompagnarla in camera. Di fronte al suo rifiuto, egli avrebbe reagito dicendole che non aveva diritto di decidere né di scegliere, dato che lavorava per lui. Ha quindi raccontato di essere salita in camera con il cliente, dopo essersi sentita psicologicamente pronta, di avere guardato l'accusato che da parte sua la fissava, facendole capire che gli doveva qualche cosa e che lei non era nessuno. Giunta in camera, essa si sarebbe spogliata; se non che, _ le avrebbe passato un asciugamano, dicendole di coprirsi e che che intendeva solo parlarle. Ciò che essa avrebbe poi fatto, raccontandogli la sua storia. _ ha poi aggiunto di essersi incontrata altre volte con quel giovane e di avere lavorato presso il _ ininterrottamente per un mese, incontrando altri clienti (sentenza, pag. 27).
Il primo giudice ha anche riportato parte delle dichiarazioni rese da _ al Procuratore pubblico durante un interrogatorio dell'11 dicembre 2000 (act. 42). Al magistrato la ragazza ha ripetuto che quando il prevenuto l'aveva vista salire in camera con il primo cliente _, egli l'avrebbe guardata con un'aria che essa ha interpretato nel senso evocato nel precedente verbale (sentenza, pag. 27). La Corte di merito ha riprodotto anche alcune affermazioni di un verbale dell'8 dicembre 2000 (act. 51/12), in cui _ ha dichiarato che l'accusato l'avrebbe costretta a prostituirsi per circa un mese, che egli le aveva ricordato di lavorare per lui e che quindi non poteva dirgli di no, che essa era stata obbligata a sottostare al volere del prevenuto, nel senso che doveva accompagnarsi anche a clienti da lui scelti e che l'accusato si prendeva quasi tutti i soldi da lei guadagnati (sentenza, pag. 28). La Corte di assise ha infine richiamato anche un verbale dell'11 dicembre 2000, in cui _ ha dichiarato al Procuratore pubblico che l'accusato non l'ha mai percossa né minacciata, ma che di fatto l'aveva obbligata a fare quel che diceva perché era il padrone e perché lei si sentiva condizionata dal fatto di non avere denaro. La ragazza ha poi precisato di avere cominciato l'attività di prostituta un paio di giorni dopo essere stata in polizia per denunciare _ e di essere stata praticamente obbligata dal prevenuto, insieme con _, a prostituirsi con i clienti del bar _. In occasione del confronto con il prevenuto, la giovane ha sostanzialmente confermato le proprie dichiarazioni (sentenza, pag. 29).
La prima Corte ha ricordato infine che, prima del dibattimento, pure _ ha fatto pervenire una dichiarazione di costituzione di parte civile, chiedendo un risarcimento di
fr. 85'000.–. Sentita in aula, essa non ha tuttavia lamentato pressioni da parte dell'accusato, ma ha sostenuto di essersi sentita costretta alla prostituzione per le circostanze in cui si era venuta a trovare (sentenza, pag. 29 seg.).
b)
La prima Corte ha valutato di nuovo con prudenza le dichiarazioni predette, definendo sospetta la circostanza che _ abbia avuto rapporti sessuali a pagamento con l'imputato. Inoltre ha considerato come potenzialmente inquinante la relazione sentimentale da lei avviata con _, suo primo cliente, al quale ha poi dato un figlio. La Corte ha ritenuto, in particolare, che tale rapporto affettivo può avere influito sulle dichiarazioni della ragazza, soprattutto perché i di lei trascorsi come prostituta, seppur brevi, avrebbero potuto destabilizzare la coppia. _ aveva quindi interesse ad addossare per quanto possibile all'accusato la responsabilità della sua permanenza al _. Ciò risulta anche da palesi forzature contenute nella richiesta di costituzione di parte civile e di risarcimento del danno (ben
fr. 85'000.–), segnatamente dalle pesanti accuse secondo cui il prevenuto l'avrebbe sequestrata, violentata e rivenduta. Infine la prima Corte ha considerato singolare che, già prima di partire per la Svizzera, _ si fosse dichiarata disponibile a entrare in relazione con i clienti, ossia a bere al bar e a svolgere un'attività che preludeva a quella costituita dall'appartarsi in camera con loro per avere un rapporti intimi. Al presidente della Corte è apparso perciò poco probabile che la donna possa non avere inteso come la prima parte del lavoro (consumazione) preludesse a una seconda, fin troppo immaginabile (sentenza, pag. 30 seg.).
Il presidente della Corte delle assise correzionali ha soggiunto ad ogni modo che, pur prescindendo dalle citate riflessioni, la lettura delle dichiarazioni rilasciate da _ in merito al suo avvio alla prostituzione non risultavano concludente. Come le altre ragazze, anche lei non aveva saputo sostanziare le circostanze di fatto che l'avevano indotta ad accusare l'imputato, eccezion fatta per l'episodio dello sguardo al momento in cui è salita in camera per la prima volta. Se non che, in quell'occasione essa si era limitata a un colloquio, ragione per cui, si volesse anche conferire all'episodio la connotazione di una pressione di una certa intensità sulla volontà della giovane, rimarrebbe ancora aperta la questione di sapere se vi sia un nesso con la successiva decisione di prostituirsi (sentenza, pag. 31). Altri dubbi risultano dal fatto che le dichiarazioni di lei divergono da quelle di _ circa il contenuto della proposta avanzata dall'imputato alle due. Mentre _ ha sostenuto che era stato loro offerto di far bere i clienti al bar, dietro corresponsione di una percentuale, _ – più credibile – ha affermato che l'imputato avrebbe loro proposto di darsi alla prostituzione le prostitute (sentenza, pag. 31). Infine il primo giudice ha ricordato che _ ha riferito al Procuratore pubblico come le due ragazze, durante il tragitto da Milano a Como, si fossero informate su quanto avrebbero guadagnato facendo bere i clienti o appartandosi con loro e avrebbero manifestando stupore nell'apprendere che avrebbero guadagnato solo prostituendosi, poiché _ avrebbe detto loro il contrario. J_na ha poi soggiunto che, giunte al centro _ poco dopo _, le ragazze avevano comperato cosmetici, calze e preservativi (sentenza, pag. 31 seg.). Ciò posto, la Corte di assise ha ritenuto che, pure per quanto riguardava _, non risultava nulla di tangibile sulle concrete pressioni esercitate dall'imputato, tranne le dichiarazioni secondo cui la ragazza sarebbe stata “di fatto” o “praticamente” obbligata a prostituirsi (sentenza, pag. 32).
c)
Secondo il Procuratore pubblico, nel tentativo di sminuire la portata delle dichiarazioni della vittima, la Corte avrebbe arbitrariamente creato motivi di dubbio sulla sua affidabilità, legandoli ai presunti rapporti instaurati con l'accusato e ad altri suoi interessi personali. I rapporti sessuali con l'imputato sarebbero dovuti al fatto di essersi ormai ineluttabilmente spinta alla prostituzione, mentre il legame con _ non può costituire motivo di sospetto, questi avendo constatato per primo l'accaduto e avendo confermato le versione della ragazza. _ non avrebbe quindi avuto alcuna necessità di deporre il falso per migliorare la sua posizione agli occhi dell'amico. Tanto meno la credibilità della ragazza risulterebbe scalfita dai toni usati nella costituzione di parte civile, in particolare dalla richiesta di risarcimento. Vagliando le deposizioni della vittima – argomenta il Procuratore pubblico – la prima Corte avrebbe dovuto constatare come la vittima, come le altre ragazze, ha sempre inteso riferire i fatti senza eccessi, ammettendo di non essere mai stata oggetto di minacce o di violenza.
d)
Ancorché esposti con diligenza, gli argomenti testé riassunti non bastano per far apparire arbitrarie nel risultato le considerazioni che hanno indotto la prima Corte a valutare con accresciuta cautela le dichiarazioni di _, sia per i suoi rapporti personali con l'accusato, sia per il suo legame con _ e per il suo interesse a ottenere un cospicuo risarcimento in denaro. Certo, la Corte non ha mancato di rigore valutando la credibilità della ragazza, ma ciò non basta a integrare gli estremi di eccesso o di un abuso del potere d'apprezzamento. D'altro canto nella sua tenace argomentazione il Procuratore pubblico perde di vista, una volta ancora, che la prima Corte si è limitata su questo punto a esaminare se l'accusato abbia esercitato pressioni rilevanti sulla ragazza. La questione – non meno importante – di sapere se costei abbia ceduto a pressioni di tipo ambientale, per l'avversa situazione in cui si è venuta a trovare (indipendentemente dall'intensità della proposta fattale dall'imputato), sicché il suo consenso non fosse effettivo, non è ancora stata trattata. Per ora è sufficiente rilevare che l'accertamento secondo cui all'accusato non possono ascriversi comportamenti diretti eccedenti la semplice proposta a _ di esercitare la prostituzione è scevro di arbitrio. A questo proposito il ricorso è destinato all'insuccesso.
6.
Il Procuratore pubblico reputa pure arbitrarie le argomentazioni della Corte di assise sulla credibilità di _.
a)
Stando alla sentenza impugnata, _ (nata nel 1974), ha frequentato la scuola di polizia a Riga e ha lavorato per 8 mesi come agente, iscrivendosi poi alla facoltà di chimica dell'università. Sempre stando alla sentenza, nel verbale del 21 novembre 2000 essa ha sostenuto di essere giunta in Svizzera con la prospettiva di lavorare come baby-sitter, indirizzatavi da un'agenzia che offriva posti di lavoro su un giornale. Giunta in aereo a Zurigo, essa sarebbe stata accompagnata al _ di _ e, non appena arrivata, le sarebbe stato messo in mano un preservativo e le sarebbe stato detto di salire in camera con un cliente (sentenza, pag. 32). Essa ha riferito alla polizia di non essersi ribellata a causa dello choc, dell'ora tarda e della mancanza di denaro. Era quindi salita in camera con quel cliente, costretta a prostituirsi dall'accusato (sentenza, pag. 32 seg.). Nel successivo verbale dell'8 dicembre 2000, sempre secondo la sentenza, _ ha ribadito tali affermazioni, soggiungendo di avere avuto paura del prevenuto (sentenza, pag. 33). Al Procuratore pubblico essa ha precisato di avere appreso che si sarebbe dovuta prostituire solo una volta giunta al _, di non essere stata percossa né minacciata, ma di essere stata obbligata di fatto a prostituirsi nella situazione in cui si trovava, per l'impellente bisogno di denaro destinato a pagare debiti (sentenza, pag. 33).
b)
Anche in questo caso il primo giudice ha ritenuto di valutare con grande cautela tali affermazioni. Egli si è soffermato dapprima sull'asserzione contenuta nel verbale del 21 novembre 2000, secondo cui l'imputato avrebbe persino costretto la donna ad avere un rapporto sessuale con lui, ricordando che l'accusato sosteneva di avere avuto una relazione sentimentale di alcuni mesi con _ e che per finire quest'ultima aveva ammesso tale circostanza, pur soggiungendo di essersi dovuta prostituire anche durante quel periodo (sentenza, pag. 33 seg.). Sta di fatto – ha rilevato la Corte – che in un primo tempo _ ha denunciato una violenza carnale finanche ripetuta, salvo poi riconoscere una relazione sentimentale durata di circa sei mesi (sentenza, pag. 34). Ciò non era di serio affidamento. La Corte ha rammentato altresì che, secondo l'imputato, la relazione sarebbe stata troncata da lui medesimo perché l'amica, contro la sua volontà, avrebbe comunque intrattenuto rapporti intimi con altri uomini e avrebbe partecipato a un festino, per altro immortalato in fotografia (sentenza, loc. cit.). Quanto a _, essa nemmeno si è espressa sui motivi della rottura, che secondo la Corte costituiva senz'altro motivo di rancore, tanto più nell'ambito di un procedimento penale (sentenza, loc. cit.).
Il primo giudice non ha poi mancato di rilevare che _ è incorsa in altre imprecisioni, ad esempio quando ha dichiarato di essere stata portata direttamente al _, dove le sarebbe stato immediatamente messo in mano un preservativo e le sarebbe stato assegnato subito un cliente, mentre il tassista che l'aveva prelevata a Zurigo ha dichiarato di averla portata al bar _ di _, su commissione del titolare di quell'esercizio pubblico (sentenza, pag. 34 seg.), e che di lì l'imputato l'aveva condotta al _ (sentenza, loc. cit.). Comunque sia, ha soggiunto la Corte, nemmeno _ pretendeva che fosse stato l'imputato a metterle in mano il preservativo o a ordinarle di salire in camera con il cliente (sentenza, pag. 35). Per di più, anche _ – come _ – era tornata al _ dopo un primo rientro in patria, né risultava traccia di pressioni dell'accusato volte a sospingere la ragazza alla prostituzione (sentenza, loc. cit.).
c)
Nel motivare il suo dissenso il Procuratore pubblico si muove di nuovo sui binari di una requisitoria e non di un ricorso per cassazione fondato sul divieto dell'arbitrio. Il gravame si esaurisce ulteriormente nel ripetuto uso del termine “arbitrario” rivolto a ogni considerazione e conclusione divergente, seguito ogni volta da persistenti puntualizzazioni e prese di posizione appellatorie. Per motivare una censura di arbitrio non basta però allegare versioni alternative, per quanto preferibili siano, ma occorre dimostrare perché l'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove da parte della Corte di merito appaiano a tal punto insostenibili da integrare gli estremi dell'arbitrio. Il ricorso non adempie nemmeno da lungi tale requisito, tant'è che per il finire il Procuratore pubblico disquisisce liberamente su questioni legate alla constatazione dei fatti e all'apprezzamento delle prove con argomenti riconducibili al suo ruolo di titolare dell'azione penale e di magistrato inquirente, non di ricorrente che invoca il divieto dell'arbitrio. Così com'è formulato, il ricorso non può che essere dichiarato inammissibile.
7.
Il Procuratore pubblico si duole di arbitrio anche nel mancato accertamento della condizione di fragilità e vulnerabilità in cui si trovavano le parti lese, motivo per cui le pressioni esercitate dall'accusato nemmeno dovevano raggiungere un'intensità rilevante.
a)
Nell'intento di accertare se fossero date “pressioni ambientali” tendenti a far prostituire le ragazze e se ciò fosse sufficiente per condannare l'imputato a norma dell'art. 195 cpv. 2 CP, il primo giudice non ha trascurato di esaminare le condizioni in cui versavano le donne. Ha ricordato che, giunte in Svizzera nella convinzione di essere destinate a un lavoro onesto, ancorché in tre casi da esercitare in luoghi ove si praticava la prostituzione, queste si erano viste offrire un lavoro di meretrice, erano state sollecitate a rimborsare le spese di viaggio e a corrispondere una forte commissione da parte di chi aveva trovato loro il lavoro, si erano trovate senza mezzi per il ritorno, si erano indebitate per sostentarsi e non conoscevano la lingua (sentenza, pag. 36). Pur non disconoscendo il peso di tale situazione, la Corte non ritenuto tuttavia che l'unica via d'uscita fosse la prostituzione. Anzitutto perché non si trattava di ragazze ignoranti o sottosviluppate, disperate né tanto meno affamate: _, ventottenne, aveva una formazione e un reddito superiore alla media e non era venuta in Svizzera per fame né come una sprovveduta. _, allora ventiseienne, aveva anch'essa una formazione completa e, pur guadagnando poco come agente di polizia, è una donna matura, volitiva e apparentemente non influenzabile. _ e _, entrambe diciottenni al loro arrivo in Svizzera, erano studenti e si trovavano perciò in una situazione privilegiata, nel senso che non si dibattevano in particolari ristrettezze economiche; benché svantaggiate dalla giovane età, esse avevano modo di aiutarsi vicendevolmente e apparivano persone di normale intelligenza, a prima vista non disposte a cedere alla prima sollecitazione.
La Corte di assise ha ricordato altresì che tutto quanto è pur sempre avvenuto in Svizzera, ove una ragazza che si presenti in polizia per denunciare un inganno circa lo scopo del viaggio viene rimpatriata. Nessuna delle donne poi aveva preteso di essere stata minacciata o privata della libertà personale o dei propri documenti o della possibilità di chiedere aiuto. Due di loro si sono bensì recate in polizia per denunciare chi (ma non l'accusato) le aveva raggirate, ma né l'una né l'altra aveva chiesto il rimpatrio, né vi è ragione di credere che ciò fosse dovuto a collusione della polizia con l'imputato. In sintesi, ha concluso la prima Corte, due delle parti lese non avevano ritenuto di andare in polizia a denunciare la situazione e a chiedere di essere rimpatriate, benché ciò fosse possibile, mentre le altre due avevano sì sporto querela, ma non avevano per nulla sollecitato il rimpatrio. Nessuna di loro poi risultava essere stata minacciata, sicché la prima Corte ha ritenuto in ultima analisi che le ragazze avevano preferito esercitare la prostituzione piuttosto che tornare a casa, cedendo liberamente alle “pressioni ambientali” (sentenza, pag. 36 seg.).
Si volesse nondimeno attribuire maggiore intensità alla proposta dell'imputato – ha soggiunto il presidente della Corte –ciò non basterebbe automaticamente per una condanna. Nella fattispecie, in effetti, a costui non poteva in alcun caso addossarsi il peso di “pressioni ambientali”. L'imputato non aveva ingannato le ragazze sul lavoro che le attendeva, non aveva chiesto loro alcuna provvigione, non si era per nulla rivolto all'organizzazione di _ e _ o a terzi perché gli procurassero l'una o l'altra delle ragazze, tesi per altro nemmeno adombrata dalla pubblica accusa. Egli ha profittato tutt'al più del disagio in cui le ragazze si trovavano per trarne vantaggi economici, presentandosi come un buon samaritano, salvo proporre poi quanto anche gli altri offrivano. Ma ciò non toglie – ha continuato la Corte – che il suo fosse un intervento di second'ordine e in seconda battuta, limitato a consentire l'esercizio della prostituzione, senza intensità di rilievo penale, non avendo egli alcuna responsabilità per la prima fase dell'operazione, in cui le ragazze sarebbero state raggirate, sradicate dal loro paese e indebitate. Quanto alla richiesta di fr. 65.–/90.– giornalieri per vitto e alloggio, alla Corte nemmeno essa è apparsa coercitiva di fronte alla controprestazione fornita. Nelle circostanze descritte il presidente della Corte ha quindi prosciolto l'imputato dall'accusa di avere sospinto le quattro ragazze alla prostituzione, lasciando aperta la questione di sapere se il giudizio sarebbe stato diverso qualora all'imputato si fosse dovuta ascrivere la responsabilità della situazione in cui le donne erano venute a trovarsi (sentenza, pag. 37 seg.).
b)
Secondo il Procuratore pubblico le infauste condizioni delle ragazze all'arrivo nel Ticino dovevano necessariamente indurre la prima Corte a concludere che queste si trovavano in un rapporto di dipendenza e di inferiorità tale da renderle vulnerabili alla proposta del prevenuto. Le giovani donne erano giunte in Svizzera nella convinzione di trovare un lavoro onesto e un alloggio confacente, per quanto consapevoli di dover destinare una parte del guadagno all'estinzione del debito contratto in patria per l'organizzazione del viaggio e per il posto di lavoro. Esse non parlavano italiano e non conoscevano nessuno cui appoggiarsi in caso di bisogno. Ciò bastava a rendere insicuro e fragile chicchessia, specie di fronte all'esigenza di trovare un alloggio e di restituire un debito contratto in patria, oltretutto nella consapevolezza di agire nell'illegalità. Donde, a parere del Procuratore pubblico, un rapporto di dipendenza non trascurabile verso l'imputato, che le aveva accolte nel suo esercizio pubblico.
In realtà con argomentazioni del genere il Procuratore pubblico non si confronta con le motivazioni del primo giudice. Il quale non ha ignorato quanto è illustrato nel ricorso. Anzi, egli medesimo ha dato atto che le giovani erano giunte in Svizzera nella convinzione di essere destinate a un lavoro diverso (ancorché da esercitare, per tre di esse, in luoghi ove si praticava la prostituzione), che erano indebitate e non conoscevano la lingua (sentenza, pag. 36). Nondimeno egli ha ritenuto, a fronte di altri accertamenti, che ciò non fosse decisivo. Le ragazze, in effetti, non erano ignoranti né sottosviluppate: anzi, avevano una formazione e un reddito superiore alla media _, rispettivamente una formazione completa (_, che pur lamentando l'eseguita del suo reddito di poliziotta, è apparsa persona matura, volitiva e apparentemente non influenzabile), rispettivamente il privilegio di essere studenti (_e _), rispettivamente la possibilità di aiutarsi vicendevolmente (_e _). Inoltre non apparivano facilmente influenzabili e avevano la possibilità di rivolgersi alla polizia (ciò che due di esse hanno anche fatto), fosse solo per essere rimpatriate (sentenza, loc. cit.). A dispetto di ciò, tutte e quattro avevano accettato la proposta dell'imputato. Rimanendo al bar _ e prostituendosi, esse non hanno pertanto ceduto – a mente del primo giudice – perché costrette dal disagio di cui l'imputato ha subdolamente profittato, ma hanno agito per libera scelta. Perché tale conclusione sarebbe l'esito di un arbitrario accertamento dei fatti o di un'arbitraria valutazione delle prove, il Procuratore pubblico non spiega. Egli individua per vero una serie di arbitrii nelle considerazioni che hanno indotto la prima Corte a sorvolare sul pericolo al quale le ragazze potevano andare incontro ove non avessero saldato il debito, ma con argomenti di chiara natura appellatoria. Una volta di più egli si diparte da un proprio accertamento dei fatti e da una propria interpretazione delle risultanze del processo fondandosi sulle accuse e sulle dichiarazioni rilasciate dalle donne nei loro interrogatori, dimenticando che la prima Corte ne ha ridimensionato la portata senza arbitrio (sopra, consid. 3 a 6).
Il Procuratore pubblico riscontra estremi di arbitrio anche nelle considerazioni della prima Corte circa le condizioni economiche delle ragazze nel loro paese d'origine. Al proposito tuttavia il ricorso denota ulteriore indole appellatoria. Nonostante la ripetuta invocazione del termine “arbitrio”, esso si esaurisce daccapo nell'esposizione di un personale punto di vista, del tutto inidoneo per motivare doglianze di arbitrio. Ne discende che l'accertamento della Corte di assise, secondo cui le ragazze hanno liberamente accolto la proposta di lavorare – dandosi il caso – come prostitute al bar _ e non perché condizionate in modo rilevante dalla loro fragilità o vulnerabilità dovuta a “pressioni ambientali” resiste alla critica.
8.
Sempre nell'ambito dell'accusa ancorata al promovimento della prostituzione il Procuratore pubblico si duole che l'imputato non sia stato condannato per la fattispecie contemplata dall'art. 195 cpv. 3 CP, la quale persegue chiunque leda la libertà d'azione di una persona dedita alla prostituzione sorvegliandola in tale sua attività o imponendole il luogo, il tempo, l'estensione o altre circostanze inerenti all'esercizio della prostituzione.
a)
La finalità dell'art. 195 cpv. 3 CP è quella di garantire a una persona la possibilità di scegliere liberamente il modo e le condizioni in cui essa intende esercitare la propria attività (
Corboz
, op. cit., n. 45 ad art. 195 CP;
Schwaibold/Meng
, op. cit., n. 22 ad art. 195 CP). Consapevole della fragilità delle persone dedite alla prostituzione, il legislatore ha perciò inteso proteggerle da individui o da gruppi malavitosi che si propongono di dominarle o di gestire la loro attività (
Corboz
, op. cit., n. 45 ad art. 195 CP). L'art. 195 cpv. 3 CP presuppone anzitutto che l'autore eserciti un'influenza rilevante sulla persona (
Schwaibold/Meng
, op. cit., n. 22 ad art. 195 CP). Non occorre che questa si trovi in un rapporto di dipendenza; basta che l'autore eserciti una pressione che consenta di ottenere dalla prostituta un determinato comportamento (DTF 125 IV 269 consid. 1 pag. 271). Egli deve far capo quindi a una forma di dominazione (DTF 126 IV 76 consid. 2 pag. 80) o di costrizione (
Trechsel
, op. cit., n. 8 a 10 ad art. 195 CP), oppure fare pressione sull'altrui libertà di decisione, purché la pressione sia tale da non consentire alla vittima di sottrarsene facilmente, (
Stratenwerth
, Besonderer Teil I, 5a edizione, § 9, n. 11, pag. 173). La vittima, in altri termini, non deve più essere in grado di decidere autonomamente se darsi o no alla prostituzione (DTF 129 IV 81 consid. 1 pag. 84, 126 IV 76 consid. 1 pag. 81;
Corboz
, op. cit., n. 46 ad art. 195 CP).
Tra gli esempi di pressioni intese a sospingere in un certo modo alla prostituzione o a controllarne l'attività, la giurisprudenza annovera il caso di chi sorveglia la prostituta, le imponga regole sul prezzo o sul comportamento oppure esiga un rendiconto (DTF 125 IV 269 consid. 1 pag. 271;
Corboz
, n. 47 ad art. 195). Sapere se la pressione sia di rilievo penale dipende dalle circostanze concrete. La giurisprudenza ne ha ravvisato gli estremi nel caso di alcune
entraîneuses
soggette a rigorosi controlli di presenza sul luogo di lavoro e sull'attività esercitata, costrette a prostituirsi già per le condizioni generali di lavoro (locazione obbligatoria della camera nel medesimo stabilimento,
forfaits
), seppure potessero tenere il guadagno per sé (DTF 129 IV 84 con riferimento alle sentenze non pubblicate 6S.446/2000 del 29 marzo 2001, consid. 3, e 6S.570/1997 del 9 ottobre 1997, consid. 2; v. anche
Schwaibold/Meng
, op. cit., n. 28 ad art. 195 CP, ove si precisa che le donne erano costrette a prostituirsi per evitare il licenziamento). Ne ha pure ravvisato gli estremi nel caso di un gestore d'agenzia di accompagnatrici che esigeva da queste ultime la costante disponibilità a essere ingaggiate ed esercitava una costante sorveglianza per mezzo di autisti che provvedevano anche all'incasso degli introiti (DTF 129 IV 84 con riferimento a DTF 125 IV 269 consid. 2 pag. 271; v. anche
Schwaibold/Meng
, op. cit., n. 29 ad art. 195 CP). Un altro caso di applicazione è risultato quello di un soggetto che aveva portato illegalmente in Svizzera prostitute straniere, le aveva illegalmente ivi ospitate, aveva loro procurato lavoro in saune e in locali notturni, le aveva costantemente accompagnate sul posto di lavoro e sorvegliate, aveva incassato i proventi della loro attività, provvedendo in un secondo tempo a remunerarle, e aveva loro mutuato denaro da restituire con il lavoro (DTF 129 IV 84 con riferimento alla sentenza non pubblicata 6P.162/2001 del 22 marzo 2002, consid. 6). Per contro il Tribunale federale non ha ritento punibile il gestore di una sauna che aveva preteso dalle prostitute il pagamento dell'ingresso e una quota di guadagno del 40%. In quel caso esisteva un vincolante tariffario dei prezzi e le ragazze erano tenute a riversare gli introiti del loro lavoro alla direzione, ma la loro libertà d'azione e di movimento rimaneva intatta. Le prostitute riscuotevano poi il loro guadagno alla fine di ogni giornata, dedotta la quota spettante al datore di lavoro (DTF 129 IV 85 con rinvio a DTF 126 IV 76 consid. 3 pag. 81).
In DTF 129 IV 81 consid. 1.4 pag. 87 il Tribunale federale ha comunque ribadito che la sorveglianza di prostitute, come la direzione della loro attività, è punibile giusta l'art. 195 cpv. 3 CP e che il consenso formale delle interessate non è effettivo se la loro libertà di decisione è fortemente influenzata da precarie condizioni economiche. Nel caso appena citato la donna giudicata colpevole di promovimento della prostituzione giusta l'art. 195 cpv. 3 e 4 CO (oltre che di tratta d'esseri umani giusta l'art. 196 CP) aveva illegalmente ingaggiato nei propri saloni adibiti a postriboli povere ragazze tailandesi, sprovviste di permessi di lavoro, non particolarmente attraenti e perciò più remissive. Giunte in Svizzera, esse venivano private del passaporto e del biglietto aereo di ritorno perché non abbandonassero prematuramente il lavoro e pagassero mediamente una somma di fr. 12'000.– per l'assistenza all'espatrio e il viaggio. All'arrivo in Svizzera, tutte si vedevano comminare una pena convenzionale di fr. 10'000.– qualora fossero ripartite anticipatamente. Costrette a rimanere nei saloni 17 ore al giorno, esse dovevano consegnare alla datrice di lavoro tutti i proventi della loro attività, comprese le mance eccedenti fr. 50.–. Costei tratteneva il 60% degli introiti per sé, lasciando il resto alle prostitute, le quali però erano tenute prima a estinguere il loro debito, ciò che richiedeva un mese di lavoro in media. Il saldo spettante alle ragazze era poi custodito fino alla loro partenza, al fine di garantire la loro lealtà. Ciò costringeva le donne a chiedere ogni volta piccoli acconti per le necessità quotidiane. La datrice di lavoro organizzava però il vitto e provvedeva alla consegna della biancheria, delle scarpe ecc., compensando i costi con i relativi guadagni. In un salone la datrice di lavoro aveva finanche installato un impianto di comunicazione attraverso il quale sorvegliava quanto avveniva nei locali. Essa fissava inoltre i prezzi e il genere delle prestazioni fornite. Nel bordello vigeva una disciplina ferrea, tant'è che una ragazza era stata costretta a prostituirsi nonostante le mestruazioni e infrazioni anche piccole erano punite con multe detratte dai guadagni. Alle ragazze veniva inoltre reso difficile il contatto con l'esterno, al punto da vietar loro l'uso del telefono nei saloni per impedire che riferissero delle condizioni di lavoro. Esse potevano uscire soltanto in gruppo e accompagnate.
b)
Vagliando la fattispecie ora in esame sotto il profilo dell'art. 195 cpv 3 CP il presidente della Corte di assise ha riprodotto un verbale del 22 novembre 2000 (act. 51/17) in cui _ aveva dichiarato che una certa _ le avrebbe dato le informazioni sull'orario di lavoro (dalle ore 16.00 all'una di notte) e sulle tariffe da chiedere ai clienti (almeno
fr. 150.– o Lit. 200'000), spiegandole che le ragazze dovevano farsi offrire almeno una bibita, di regola champagne. Nel verbale _ aveva precisato altresì di avere creduto che quelle regole fossero state dettate dal prevenuto: l'obbligo di presenza delle ragazze dall'apertura fino alla chiusura del locale, l'obbligo delle consumazioni, il divieto di uscire con clienti durante gli orari di lavoro senza il permesso del prevenuto, la proibizione di portare clienti in camera dopo l'orario di chiusura. Ricordato come la giovane avesse confermato tali dichiarazioni nei successivi verbali del 23 novembre 2000 (act. 51/20) e del 1° dicembre 2000 (act. 38), il primo giudice ha ricordato che _ aveva fornito ragguagli anche su comportamenti che non erano regolamentati, come la completa libertà di movimento durante la giornata e quella di conservare gli incassi (eccettuato il pagamento della camera). Anzi, talora l'accusato concedeva sconti sulle consumazioni al bar e mai egli risulta avere chiesto alle ragazze il versamento di introiti ritratti dalla loro attività. _ ha soggiunto poi di essere sempre stata trattata bene, di non avere subìto minacce, di avere sempre potuto decidere liberamente con chi appartarsi, di non avere ricevuto disposizioni sulla durata della permanenza in camera con i clienti e di avere notato il prevenuto attivarsi, inviando una delle ragazze per verificare se tutto fosse a posto, solo quando una di loro si intratteneva in camera per più di un'ora. Nel verbale del 23 novembre 2000 _ aveva espresso anche una sorta di giudizio sulla propria situazione, riferendo di essere rimasta al bar _ volontariamente e senza alcuna costrizione, salvo pagare fr. 6'000.– e U$ 300 a un certo _ (sentenza, pag. 38 a 40).
Il presidente della Corte ha poi evocato il verbale 23 novembre 2000 di _ (act. 51/14), già valutato con circospezione ai fini dell'art. 195 cpv. 2 CP. Nel medesimo l'interessata dichiarava che era tenuta a presentarsi al bar alle 16.00 e a rimanervi fino all'orario di chiusura (l'una di notte, dandosi il caso le tre o le quattro del mattino), che non poteva ospitare nessuno nella sua stanza fuori degli orari d'apertura del bar, che tutte le ragazze dovevano vestire in modo elegante e abbastanza succinto, che qualche volta era il prevenuto a scegliere i vestiti, che il prezzo con i clienti era stabilito da lui, che lei consegnava i soldi all'accusato subito o l'indomani, che il cliente poteva trattenersi in camera tutta la notte, che dal bar grande si raggiungeva attraverso un corridoio il bar piccolo, dove si prendeva il preservativo da un vaso e poi si saliva in camera, che il prevenuto autorizzava le ragazze a rimanere in camera con il cliente un'ora al massimo, che tante volte il cliente era scelto proprio dall'accusato (il quale comunicava se fosse buono o no), che essa doveva convincere il cliente a salire in camera, che a volte l'accusato gridava, senza però mai minacciarla o percuoterla, e che mentre le altre ragazze ricevevano una percentuale sulle bibite smerciate al bar, lei non ha mai percepito nulla.
Il primo giudice ha quindi rilevato che, stranamente, la polizia ha ritento di allestire ancora lo stesso giorno un nuovo verbale, in cui la ragazza ha detto le stesse cose sulle direttive cui doveva sottostare. Ricordato che _ ha confermato le proprie dichiarazioni davanti al Procuratore pubblico il 1° dicembre 2000, egli ha rilevato nondimeno che la giovane aveva riferito nel verbale del 22 novembre 2000 (act. 51/3) che le ragazze potevano scegliere se salire in camera con i clienti o no, a loro gradimento, e nel verbale del 29 novembre 2000 (act. 51/16) la stessa _ aveva dichiarato che durante il primo mese era il prevenuto a consigliare il cliente cui accompagnarsi, indicando quello che pagava meglio, ma che lui non l'ha mai obbligata a salire in camera con nessuno (sentenza, pag. 41 seg.).
Per quanto riguarda _, la Corte di merito ha anzitutto rilevato che essa è stata interrogata in maniera meno sistematica riguardo le regole di esercizio. Ha comunque riportato alcune dichiarazioni tratte dal verbale dell'11 dicembre 2000 (act. 42), in cui la giovane ha dichiarato che all'inizio occorreva che il prevenuto fungesse da interprete ed era lui a trattare con i clienti, ma anche in seguito, quando lei aveva imparato un po' di italiano, era il prevenuto che le inviava i clienti o che le diceva di andare in camera con uno di loro. Lei qualche volta aveva rifiutato, ma senza esito. Nello stesso verbale _ ha confermato che era sempre il prevenuto a scegliere i clienti, rispettivamente le ragazze, e combinava lui gli accordi. Tutte le donne, ha proseguito, erano obbligate a essere presenti nel locale, e lei lavorava praticamente sette giorni su sette, 12 ore al giorno (sentenza, pag. 41).
Infine il presidente della Corte ha riportato l'interrogatorio di _ dell'11 dicembre 2000 (act. 43), nel quale essa ha dichiarato che durante l'orario di apertura vigeva l'obbligo di presenza nel locale e occorreva vestirsi in modo provocante, che spesso era il prevenuto a mandare una ragazza da un cliente o un cliente da una ragazza, che a volte lui medesimo sceglieva la ragazza per il cliente e se questi non aveva i soldi per pagare li anticipava lui e che lei stessa, su incarico del prevenuto, aveva comunicato a _ alcune regole quando è arrivata. Avendo la prima istruito la seconda – ha rilevato il presidente della Corte – anche a _ dovevano per forza essere note le regole menzionate da _.
c)
Il Procuratore pubblico lamenta arbitrii anche nell'accertamento dei fatti e nell'apprezzamento delle prove sottesi all'appicazione dell'art. 195 cpv. 3 CP. In modo insostenibile, a suo avviso, il primo giudice ha attribuito rilevanza solo alle regole e alle direttive concordemente riferite da tutte le ragazze, ignorando arbitrariamente il fatto che non per tutte vigevano le medesime. A suo parere l'accusato imponeva alle ragazze comportamenti diversi secondo la situazione, in particolare secondo la disponibilità e il carattere dell'interessata; all'una era necessario imporre il cliente perché più restia, all'altra no; all'una bisognava trattenere tutto l'incasso per il controllo, all'altra poteva essere lasciato tutto in tasca. Simili argomentazioni potranno fors'anche apparire interessanti, ma denotano evidente natura appellatoria. In un ricorso per cassazione ancorato al divieto dell'arbitrio risultano quindi inammissibili.
d)
Il Procuratore pubblico sostiene altresì che per decidere sulla legittimità di talune regole occorre considerare la situazione nel suo insieme e valutare se sussista un condizionamento inaccettabile. L'imposizione di una fascia oraria obbligatoria, ad esempio, sarebbe conciliabile con un'attività di prostituta stipendiata o retribuita a percentuale sugli incassi, ma non è compatibile con una mancanza di retribuzione né, a maggior ragione, con l'obbligo di pagare lautamente la camera. Ora, il problema non è stato trascurato dalla prima Corte, la quale ha visto l'obbligo di presenza al bar dal tardo pomeriggio fino alle ore piccole e quello di favorire le consumazioni come regole dalle quali il prevenuto traeva vantaggi economici. È quindi verosimile – essa ha continuato – che l'imputato pretendesse il rispetto di tali consegne. Pur ammettendo che simili disposizioni potessero limitare la facoltà delle ragazze di scegliere luoghi e tempi, come pure la facoltà di avvicinare liberamente i clienti, il primo giudice ha però sottolineato che grazie all'obbligo di presenza le ragazze potevano poter facilmente trovare i clienti che altrimenti avrebbero dovuto cercare altrove, con tutti i rischi connessi. Tolto l'orario di apertura del bar, il primo giudice ha rammentato però che le ragazze erano libere di praticare la prostituzione anche altrove, facoltà che nessuna si è mai vista precludere. La presenza obbligatoria al bar rispondeva per finire ai reciproci interessi delle parti e aveva carattere tutto sommato più consensuale che coercitivo, mentre nulla è dato di sapere su come il prevenuto avrebbe reagito alla violazione di tali obblighi.
Con le citate considerazioni il Procuratore pubblico non si confronta. Egli non spiega perché l'obbligo di presenza al bar imposto alla ragazze durante l'orario di apertura sarebbe ancora rilevante sotto il profilo dell'art. 195 cpv. 3 CP nelle circostanze descritte dal primo giudice, né illustra perché la fascia oraria obbligatoria era nell'interesse del solo gestore, né indica le gravi conseguenze che sarebbero seguite a una trasgressione. Egli si limita a far valere che la Corte di assise sarebbe caduta in arbitrio trascurando che l'obbligo di presenza al bar si protraeva ben oltre l'una di notte e a esprimere stupore perché la prima Corte avrebbe arbitrariamente relativizzato il problema considerando gli orari di lavoro come il frutto di un libero consenso. Ma ciò non basta per far apparire la più sfumata conclusione del primo giudice come manifestamente insostenibile, anche perché effettivamente nessuna ragazza ha riferito di eventuali ritorsioni cui essa sarebbe andata incontro in caso di violazione.
e)
Secondo il Procuratore pubblico la Corte di merito avrebbe arbitrariamente accertato l'inesistenza dell'obbligo imposto alle ragazze di far bere i clienti e di consumare preferibilmente champagne. Al riguardo la Corte ha ritenuto nondimeno che anche nella valutazione della portata di tale obbligo occorresse cautela. Ricordato che il Tribunale federale ha ritenuto incompatibile con l'art. 195 CP far dipendere l'accesso alla disponibilità dei servizi della prostituta da consumazioni al bar di costo rilevante, come ed esempio quello di una bottiglia di champagne (v. anche
Schwaibold/Meng
, op. cit., n. 27 ad art. 195 CP), egli ha ritenuto che non vi è invece illecita limitazione della libertà della prostituta qualora l'obbligo riguardi una bevanda di una decina di franchi. Ora, sempre secondo la Corte di assise, proprio il fatto di non dover bere consumazioni costose ha portato al successo locali come il _, ove – a differenza dei normali locali notturni – al cliente è consentito l'accesso alle prestazioni della ragazza senza dover necessariamente pagare costose bottiglie di champagne, bastando appunto offrire una bevanda di prezzo contenuto. Ma in un onere tanto limitato, ha proseguito la Corte, non si ravvisa alcun estremo penale, dato che l'avventore, già di principio disponibile e perfino desideroso di una consumazione, per finire ne offre una alla ragazza, ciò che consente l'auspicato approccio. D'altro canto, ha sottolineato la prima Corte, tre delle quattro ragazze che il prevenuto avrebbe indebitamente sorvegliato nell'esercizio della prostituzione avevano liberamente accettato di venire in Svizzera proprio per far bere clienti al bar (sentenza, pag. 43 seg.).
Anche su questo punto il ricorso sfugge a una sostanziata censura di arbitrio. Anziché confrontarsi con le considerazioni appena riassunte, il Procuratore pubblico si duole di arbitrio ricordando quanto le ragazze e altre persone hanno dichiarato al riguardo in sede predibattimentale e facendo presente che dal rapporto di polizia risulta come siano state rinvenute numerose fatture attestanti l'acquisto, in quattro anni, di 2644 bottiglie di champagne. Così argomentando egli si limita però, di nuovo, a enunciare il proprio accertamento dei fatti e la propria personale valutazione delle prove, come se argomentasse davanti a una Corte munita di pieno potere cognitivo. Il che è estraneo a un ricorso per cassazione fondato sul divieto dell'arbitrio.
f)
Il Procuratore pubblico si duole inoltre del fatto che la Corte di assise non abbia dato peso al controllo, da parte dell'imputato, delle tariffe e della durata delle prestazioni, la cui esistenza risulta in modo inequivocabile dagli atti. A torto. Stando alla sentenza impugnata, eventuali indicazioni sulle tariffe da praticare da parte dell'accusato, che non partecipava in forma percentuale al fatturato delle ragazze, miravano solo a prevenire sgradevoli situazioni di concorrenza interna, che avrebbero danneggiato in primo luogo le ragazze stesse, e non avevano invece lo scopo di limitarne la libertà. Una regolamentazione del genere non è incompatibile con l'art. 195 cpv. 3 CP, come correttamente rileva il primo giudice con riferimento a DTF 126 IV 82 (sentenza, pag. 44). Ancora una volta il ricorso è destinato perciò all'insuccesso.
g)
Secondo il Procuratore pubblico la Corte di merito sarebbe trascesa in un ulteriore arbitrio non accertando l'obbligo, per le ragazze, di accompagnarsi con clienti imposti dall'imputato o da lui scelti. Su questo punto la Corte medesima non ha mancato di sottolineare però che un obbligo del genere costituirebbe una limitazione particolarmente incisiva della libertà tutelata dall'art. 195 CP. Se non che, in concreto un simile obbligo non risultava dimostrato. La Corte ha ricordato anzitutto che _ l'aveva negato e che _ si era espressa al riguardo in termini contraddittori. _ e _ avevano effettivamente deposto in favore di un simile obbligo, ma in modo poco credibile, poiché se così fosse alle ragazze sarebbe stata imposta una una regolamentazione differenziata. Per di più, come si è visto, le due donne apparivano inattendibili anche su altre questioni. In realtà, ha soggiunto la Corte, il prevenuto era probabilmente intervenuto nelle trattative tra clienti e ragazze, ma solo per indicare alle stesse i soggetti solvibili, oppure come interprete o ancora, più in generale, per favorire il contatto. La Corte ha escluso però che si trattasse di coercizione o che alle ragazze fosse stato imposto di avere rapporti sessuali con determinati clienti, situazione che per la sua gravità avrebbe dovuto logicamente essere preceduta da minacce o maltrattamenti, ovvero da comportamenti che le stesse ragazze negavano (sentenza, pag. 45). Oltre a ciò, ha proseguito la Corte, il ritorno spontaneo di _ al _, il fatto che per circa una settimana del mese in cui _ era rimasta al bar _ era presente anche la di lei madre, giunta nel Ticino a spese dell'imputato (il che rende inverosimile l'ipotesi che la giovane sia stata costretta dall'accusato a concupire con uomini da lui scelti) e il fatto che la madre nemmeno avrebbe notato che la figlia si prostituiva (sentenza, pag. 45 seg.) concorrono a escludere coercizioni.
Anche le considerazioni che precedono resistono a censure di arbitrio proposte nel ricorso con ennesime argomentazioni appellatorie, che riecheggiano di nuovo i toni di una requisitoria. Certo, il Procuratore pubblico si duole anche del fatto che il primo giudice abbia trascurato il divieto imposto alle ragazze di non lasciare il locale senza il consenso del prevenuto, rispettivamente di non ospitare persone in camera fuori orario di lavoro. Anche in questo caso tuttavia egli sorvola sui motivi che hanno indotto la prima Corte a ritenere normative del genere non dirette a limitare la libertà delle ragazze, ma se mai, ove fossero realmente esistite, a garantire la loro sicurezza (sentenza, pag. 46).
9.
Il Procuratore pubblico censura di arbitrio anche gli accertamenti in base ai quali la prima Corte ha negato gli estremi del reato di mantenimento delle parti lese nella prostituzione (art. 195 cpv. 4 CP). Se non che, il ricorso si rivela d'acchito inammissibile nella misura in cui si riferisce a _, _ e _, mancando qualsiasi puntuale contestazione alle diffuse motivazioni che hanno indotto il primo giudice a escludere un obbligo fatto alle ragazze – e fondato sulle loro difficoltà economiche, segnatamente sulla loro situazione debitoria – di rimanere al _ e di prostituirsi (sentenza, pag. 47 seg.; v. anche pag. 46). Quanto a _, l'arbitrio consisterebbe nel fatto di non averla ritenuta credibile quando ha riferito di avere prestato fede alle minacce proferite dall'accusato in caso di mancato pagamento dei debiti. Il Procuratore pubblico non spiega tuttavia perché la prima Corte sarebbe caduta in un errore qualificato ritenendo la presunta vittima non credibile ed escludendo che l'accusato abbia profittato dei debiti della ragazza per mantenerla nella prostituzione (sentenza, pag. 50). Donde, per finire, l'inammissibilità del gravame.
10.
Nel concludere l'esposto, il Procuratore pubblico asserisce nuovamente che il proscioglimento del prevenuto dalle tre ipotesi previste dall'art. 195 CP è contrario a tale norma. Per giungere a tanto egli si fonda però su una propria versione degli eventi, dando per scontato l'accoglimento del ricorso diretto contro l'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove, ciò che non è il caso. Che la Corte di merito abbia violato il diritto federale sulla base degli accertamenti e delle valutazioni illustrati nella sentenza impugnata egli non pretende. A ragione, poiché stando a tali accertamenti e a tali valutazioni, come si è visto, non si può far carico all'imputato di avere sospinto le ragazze a prostituirsi profittando della loro vulnerabilità. Giovi ad ogni buon conto ribadire come la fattispecie in esame sia del tutto diversa da quella pubblicata in DTF 129 IV 81, ove appena si pensi che in quel caso le ragazze erano pressoché segregate nei saloni. Nulla di tutto ciò accadeva al _. Se ne conclude che, nella misura in cui è ammissibile, il ricorso diretto contro il proscioglimento dell'imputato dall'accusa di promovimento della prostituzione va disatteso.
11.
Il Procuratore pubblico insorge anche contro il proscioglimento dall'accusa di truffa che l'imputato avrebbe commesso nei confronti dell'assicurazione malattia _ per avere riscosso indennizzi di complessivi fr. 18'9321.25 nel periodo dal 3 marzo al 21 novembre 2000 sottacendo che il suo stato di salute, contrariamente a quanto figurava in certificati medici allestiti sulla base di sue stesse dichiarazioni, gli consentiva di lavorare al _.
a)
Stando alla sentenza impugnata, l'imputato soffriva di gravi affezioni alla schiena, tali da ridurne notevolmente la capacità lucrativa. In un certificato il dott. _ ha attestato un'incapacità lucrativa totale dal 3 marzo all'11 luglio 2000, del 50% dal 12 luglio al 10 settembre 2000 e nuovamente del 100% dal 13 settembre al 21 novembre 2000 (act. 51/62). La _, da parte sua, ha fatto visitare l'accusato dal proprio medico di fiducia, il dottor _, che ha confermato la diagnosi del medico curante (act. 51/62). L'imputato era coperto contro la perdita di guadagno dovuta a malattia in virtù di una polizza disciplinata dalla legge federale sul contratto d'assicurazione. Formalmente egli era un lavoratore dipendente, assunto dalla moglie per gestire il _, come confermava l'assicurazione collettiva stipulata da _ e la scheda di salario per il computo dell'AVS (act. 51/65). La Corte di assise ha accertato tuttavia che durante la malattia l'imputato non risultava avere cumulativamente incassato lo stipendio e l'indennità assicurativa. Né l'accusa di truffa poteva fondarsi sul fatto che egli avesse lavorato sottacendo tale circostanza all'assicurazione. Finché era rimasto degente all'ospedale, egli era impossibilitato a lavorare. Dopo di allora, egli poteva comunque lavorare al 50%. Che poi egli avesse davvero lavorato e in che misura non era dato di sapere. Oltre a ciò, mal si intravedeva come potesse configurare un inganno astuto il fatto di lavorare senza stipendio durante la malattia. Intanto nelle condizioni generali della polizza non figurava alcun obbligo per il lavoratore di informare l'assicurazione di una simile circostanza. In secondo luogo l'assicurazione avrebbe potuto svolgere tutte le verifiche del caso, comprese eventuali ispezioni sul posto di lavoro (sentenza, pag. 62 seg.).
b)
Il Procuratore pubblico rimprovera alla prima Corte di avere arbitrariamente trascurato che il bar _ si reggeva su una struttura fittizia e che in realtà l'imputato era il titolare effettivo, non un semplice dipendente. Egli compilava perciò la scheda dei salari per l'AVS, si occupava della contabilità dell'esercizio pubblico e prelevava lo stipendio. Le sue mansioni andavano dunque ben oltre quelle normalmente svolte da un cameriere qual egli era agli occhi della _. Se non che, il Procuratore pubblico omette di indicare quale rilievo potrebbero avere tali argomenti sull'imputazione di truffa così com'essa è prospettata nell'atto d'accusa, ove per altro si addebita all'interessato di avere ingannato la _ (art. 146 CP) nella sua qualità di assicurato e non (anche) di titolare dell'esercizio pubblico. Carente di motivazione, al riguardo il ricorso sfugge perciò a un esame di merito.
c)
Il Procuratore pubblico ravvisa un arbitrio anche nell'accertamento secondo cui non è stato possibile chiarire se e quando l'imputato abbia effettivamente lavorato nel periodo topico. A parte le settimane in cui egli non ha potuto lavorare a causa dell'intervento chirurgico – argomenta il ricorrente – per il resto dell'anno costui era sempre presente al bar, come dimostrano le testimonianze delle quattro ragazze che hanno esercitato la prostituzione al _. Ora, se è vero che dal 12 luglio al 10 settembre 2000, dopo la degenza in ospedale, l'imputato era inabile al lavoro soltanto al 50%, il mero fatto ch'egli fosse sempre presente al bar ancora non significa ch'egli lavorasse a pieno ritmo. Non è perciò arbitraria la conclusione del presidente della Corte, secondo cui non risulta chiaramente accertato che durante quel periodo l'imputato abbia lavorato al 100%. Tanto meno si può presumere che costui fosse in grado di lavorare appieno subito dopo l'intervento chirurgico o che egli abbia ottenuto indennità assicurative sulla base di certificati medici inveritieri.
Più delicata è la questione relativa al periodo dal 13 settembre al 21 novembre 2000, durante il quale l'imputato era nuovamente inabile al lavoro al 100%. Non consta difatti che in quel periodo egli avesse lasciato completamente la gestione del bar. In che misura però egli lavorasse effettivamente non è dato di sapere. Nel risultato la sentenza impugnata non trascende dunque in arbitrio, tanto meno ove si consideri che, senza incorrere in arbitrio, la prima Corte ha accertato come l'accusato fosse davvero ammalato (pag. 52). Stando alla sentenza impugnata, non consta poi che durante il periodo di malattia costui abbia cumulativamente incassato lo stipendio e l'indennità assicurativa. Ciò fa cadere d'acchito l'ipotesi di truffa (art. 146 CP), l'assicurazione non avendo mai preteso che l'accusato fosse in qualche modo abile al lavoro. Certo, al riguardo il Procuratore pubblico ravvisa ulteriore arbitrio, sostenendo che il salario assicurato era puramente fittizio e che, come titolare effettivo del bar, l'imputato partecipava in realtà agli utili dell'esercizio pubblico e non riceveva solo lo stipendio di fr. 3'600.– mensili dichiarati alla _. Il fatto è che, ancora una volta, mancano le prove. Quale reddito effettivo l'imputato ritraesse dal _ incombeva al Procuratore pubblico dimostrare. A lui spettava di provare, in altri termini, che nel periodo di inabilità al lavoro l'imputato ha conseguito un reddito, pur non risultando il versamento di alcun salario. Ciò fa difetto in concreto e rende superfluo esaminare se il comportamento dell'imputato raffiguri gli estremi dell'inganno astuto (ipotesi scartata dal primo giudice: sentenza, pag. 52). Ne discende che pure il proscioglimento dall'imputazione di truffa resiste alla critica.
12.
Il Procuratore pubblico definisce contrario al diritto federale nel proscioglimento dell'accusato dall'imputazione di avere violato la legge federale sul domicilio e la dimora degli stranieri (art. 23 cpv. 1), per avere – tra l'altro – favorito il soggiorno illegale di 66 ragazze prostituitesi al _ e per avere intenzionalmente impiegato cittadine straniere non autorizzate a lavorare in Svizzera.
a)
Richiamata la sentenza emessa da questa Corte il 29 maggio 2001 in re Z., il primo giudice ha ritenuto infondata l'accusa mossa all'imputato di avere favorito il soggiorno illegale delle 66 ragazze entrate in Svizzera come turiste. Il fatto che uno straniero eserciti un'attività lucrativa in Svizzera senza esservi autorizzato – ha ricordato – non rende illegale il soggiorno se questo è lecito per un altro motivo, come nel caso di turisti. E in mancanza di soggiorno illegale (eccezion fatta per una ragazza, _, che ha risieduto in Ticino oltre il termine consentito), cade anche l'accusa di avere favorito tale situazione (sentenza, pag. 56). Tale conclusione è perfettamente conforme al diritto, come ha stabilito il Tribunale federale in DTF 128 IV 117 consid. 9e e 9f pag. 135 e consid. 9h pag. 136). Ne discende la reiezione del ricorso.
b)
Rimarrebbe da esaminare se l'accusato debba essere condannato in applicazione dall'art. 23 cpv. 4 LDDS, il quale prevede la condanna di chi intenzionalmente impiega stranieri non autorizzati a lavorare in Svizzera al pagamento di una multa sino a fr. 5'000.– per ogni straniero impiegato illegalmente. Se non che, la questione è divenuta senza interesse, dato che – trattandosi di una contravvenzione – l'azione penale è ormai prescritta. È vero che con l'entrata in vigore il
1° ottobre 2002 delle nuove norme sulla prescrizione il termine dell'azione penale in caso di contravvenzione ex art. 24 cpv. 4 LDDS è non più di uno, ma di due anni (art. 333 cpv. 5 lett. a nCP, art. 24 cpv. 1 LDDS e art. 109 vCP; cfr. DTF 129 IV 49 consid. 5.5.1 pag. 52), e che con l'emanazione del giudizio di prima sede qualunque termine di prescrizione relativo all'azione penale “si estingue” (art. 70 cpv. 3 nCP; cfr. anche art. 333 cpv. 5 lett. d nCP). In base a tali norme l'imputazione di avere impiegato ragazze sprovviste del permesso di lavoro non sarebbe prescritta per quanto riguarda il lasso di tempo intercorso fra il 1998 e il 21 novembre 2000, la sentenza di primo grado (suscettibile di “estinguere” la prescrizione) essendo del 20 agosto 2001. Ma la nuova disciplina sulla prescrizione non può applicarsi alla fattispecie, verificatasi prima della sua entrata in vigore, poiché più sfavorevole rispetto al vecchio diritto (art. 2 cpv. 2 e 337 cpv. 1 CP; v. DTF 129 IV 49 consid. 5.5 pag. 52). Secondo l'art. 109 vCP (v. art. 24 cpv. 1 LDDS e 333 cpv. 1 CP), infatti, l'azione penale si prescriveva in un anno (prescrizione relativa), rispettivamente in due anni (prescrizione assoluta: art. 72. n. 2 cpv. 3 vCP). In pendenza di ricorso per cassazione davanti a questa Corte la prescrizione continuava a decorrere (DTF 129 IV 49 consid. 5.5.2 pag. 53). In concreto la prescrizione dell'azione penale relativa all'art. 23 cpv. 4 LDDS è perciò subentrata, in base al principio della
lex mitior
, al più tardi il 22 novembre 2002. Non vi è quindi più spazio per un'eventuale condanna giusta l'art. 23 cpv. 4 CP.
II. Sul ricorso di _
13.
Nei punti 2, 3 e 4 del gravame la ricorrente espone ciò che le sarebbe accaduto prima e subito dopo il suo arrivo al bar _, con particolare riferimento al tipo di lavoro che le sarebbe stato promesso al momento di lasciare la Lettonia e alla dura realtà che essa ha dovuto affrontare appena giunta nel Ticino. Da ciò essa non trae però alcuna conclusione, per altro inammissibile nella misura in cui i fatti si scostano dai vincolanti accertamenti del primo giudice (art. 295 cpv. 1 CPP). Nei punti 5 e 6 la ricorrente espone varie riserve e critiche sulle premesse enunciate dal primo giudice nel consid. 5 della sentenza con riferimento al proliferare di locali “a luci rosse” come il _, alle modalità dell'inchiesta, ai suoi rapporti con l'imputato e al suo interesse nel procedimento individuabile nella cospicua pretesa di risarcimento. Tali argomenti sono di chiara natura appellatoria, impropri a sostanziare un preteso arbitrio, per di più invocato – ma non sostanziato – solo in coda al punto 6. Anche al proposito il ricorso si dimostra così inammissibile.
14.
Riferendosi al proscioglimento dell'imputato dall'accusa di avere promosso la prostituzione e di avere sospinto le parti lese alla prostituzione (art. 195 cpv. 2 CP), la ricorrente censura la sentenza impugnata nella misura in cui il primo giudice non ha individuato nelle dichiarazioni di _ e _ e, più in generale, nella situazione di tutte loro, pressioni rilevanti nel senso dell'art. 195 CP. Per tacere del fatto però che essa solleva argomenti riguardanti altre parti lese e non la propria posizione di parte civile, circostanza che già da sola rende le critiche di dubbia ammissibilità, il gravame non adempie i requisiti cui deve attenersi un ricorso per cassazione fondato sul divieto dell'arbitrio. Si ricordi che per motivare una censura del genere non basta dissentire dalla sentenza impugnata, né contrapporle una diversa versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano manifestamente insostenibili. Nella fattispecie la ricorrente si limita – confrontandosi solo a tratti con le diffuse motivazioni che hanno indotto il primo giudice a relativizzare talune accuse delle ragazze, sdrammatizzando il caso – a proporre una chiave di lettura diversa delle risultanze processuali, come se argomentasse davanti a un'autorità munita di pieno potere cognitivo anche nell'accertamento dei fatto e nella valutazione delle prove. Formulato come un atto di appello, se non come arringa di parte civile, il ricorso sfugge a una sostanziata censura di arbitrio e donota tutta la sua inammissibilità.
15.
La ricorrente critica anche le considerazioni in base alle quali il primo giudice ha ridimensionato certe dichiarazioni di lei, mettendo in dubbio la sua credibilità a causa della relazione allacciata con _ (divenuto poi suo marito) e al modo in cui essa si è costituta parte civile. Anche in questo caso tuttavia le motivazioni a sostegno delle doglianze trasdiscono apertamente la loro natura appellatoria. Il ricorso si esaurisce infatti nella messa in risalto di valutazioni personali e in una serie di interrogativi che non sarebbe stata sciolta dal primo giudice al momento di vagliare la credibilità di lei. Certo, in una costituzione di parte civile, pur seguita da un'elevata pretesa di risarcimento, non va scorto automaticamente un conflitto d'interessi tale da togliere credibilità alla persona coinvolta. Ma la prima Corte, come si è già rilevato, non si è fondata solo sulla costituzione di parte civile o sulla pretesa di risarcimento. Ha ritenuto di usare prudenza, infatti, valutando la credibilità della giovane, anche per l'animosità e le pesanti accuse di lei, che andavano anche ben oltre il promovimento della prostituzione (sentenza, pag. 30). Perché la prima Corte avrebbe manifestamente abusato del suo potere d'apprezzamento valutando con maggior rigore le dichiarazioni della giovane a causa della scarsa serenità che da esse trapelava la ricorrente non spiega. Donde, ancora una volta, l'inammissibilità del gravame. E alla medesima sorte sono destinate le critiche rivolte agli accertamenti e alle valutazioni del primo giudice circa la credibilità di _. Anche al proposito la ricorrente fonda le proprie divergenti conclusioni procedendo attraverso vie proprie, senza sostanziare arbitrio di sorta. Ciò che non è consentito in un ricorso cassazione fondato sul divieto dell'arbitrio.
16.
Infine la ricorrente si diffonde sulla mancata condanna dell'accusato per promovimento della prostituzione nella misura in cui egli ha sorvegliato le parti lese nell'esercizio della loro attività (art. 195 cpv. 3 CP), rispettivamente nella misura in cui ha mantenuto le parti lese nella prostituzione (art. 195 cpv. 4 CP). La pretesa violazione del diritto federale si fonda però su accertamenti di fatto completamente diversi da quelli che figurano nella sentenza impugnata, che com'è noto vincolano questa Corte. Un ricorso per cassazione fondato sul divieto dell'arbitrio non può essere inteso nel senso che, con uno sforzo interpretativo, si può anche giungere a un risultato diverso da quello cui è pervenuto il primo giudice. Se ne conclude che, di palese natura appellatoria e con censure di fatto frammiste in modo disarticolato a censure di diritto fondate su accertamenti diversi da quelli contenuti nella sentenza impugnata, il ricorso in esame non può essere vagliato nel merito. Per il resto si rinvia alla motivazione che riguarda il parallelo gravame del Procuratore pubblico.
III. Sulle spese e sulle ripetibili
17.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza dei ricorrenti (art. 9 cpv. 1 e 15 cpv. 1 CPP), i quali rifonderanno all'imputato, che ha presentato osservazioni al ricorso con l'assistenza di un avvocato, un'equa indennità per ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,003 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
c7cadc10-8d76-5a3b-9b40-bcedafa127a9 | in fatto e in diritto
che, a seguito di opposizione al decreto d’accusa del 26.10.2010 (DA _), e dopo un dibattimento a cui il reclamante non si è presentato, con decisione 26.7.2012 il giudice della Pretura penale ha condannato RE 1 (per violazione di domicilio ripetuta e minaccia ripetuta) alla pena pecuniaria di sessanta aliquote di CHF 30.-- cadauna, per complessivi CHF 1'800.--, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di tre anni, alla multa di CHF 600.--, nonché al pagamento della tassa di giustizia e delle spese (inc. _), notificando la decisione mediante pubblicazione sul Foglio ufficiale, essendo d’ignota dimora (n. _ del _, p. _);
che, con decisione 8.10.2014 il giudice dei provvedimenti coercitivi, sedente in materia di applicazione della pena, ha commutato la pena della sentenza 26.7.2012 in venti giorni di pena detentiva sostitutiva per mancato pagamento della multa di CHF 600.--; l’esecuzione della pena era iniziata il 7.10.2014 e sarebbe terminata il 27.10.2014 (inc. GPC _);
che in data 17.11.2014 il reclamante ha chiesto all’Ufficio dell’incasso e delle pene alternative (di seguito UIPA) la decisione 26.7.2012 che lo aveva condannato;
che con scritto 24.11.2014 l’UIPA ha inviato al reclamante copia di detta sentenza;
che con scritto 19.1.2015 il reclamante conferma di aver ricevuto la sentenza 26.7.2012, censurando il fatto che non gli fosse stata mai notificata, e ponendo alcune domande al riguardo;
che con scritto 6.2.2015 il giudice della Pretura penale (cui era stata trasmessa, per evasione, la missiva) ha fissato un termine al reclamante per indicare se il suo scritto 19.1.2015 dovesse essere trattato quale reclamo;
che con scritto 18.2.2015 il reclamante ha comunicato che la missiva 19.1.2015 doveva essere trattata quale reclamo, di modo che la medesima è stata trasmessa, per competenza, a questa Corte;
che giusta l'art. 396 cpv. 1 CPP il procuratore pubblico e le parti possono, entro dieci giorni dalla ricezione della decisione impugnata, presentare alla Corte dei reclami penali un reclamo nei casi previsti dagli art. 393 e 20 CPP;
che la decisione impugnata, datata 26.7.2012, oltre ad essere stata pubblicata sul Foglio ufficiale in data _ (FU n. _, p. _), è stata in ogni caso ancora trasmessa dall’UIPA il 24.11.2014 al reclamante, che l’ha ricevuta, come si evince dal suo successivo scritto 19.1.2015;
che il termine di dieci giorni di cui all'art. 396 cpv. 1 CPP ha cominciato a decorrere al più tardi alla fine del mese di novembre del 2014 (anche tenendo conto del periodo di giacenza di una raccomandata) ed è venuto a scadere nel corso del mese di dicembre 2014;
che l’invio del reclamo, datato 19.1.2015, e qualificato come tale con lo scritto 18.2.2015, è certamente avvenuto dopo la scadenza del termine per presentare il gravame;
che pertanto con decreto 25.2.2015 questa Corte ha invitato il reclamante ad esprimersi in merito alla tempestività della sua impugnativa, in ossequio al diritto di essere sentito e al divieto di formalismo eccessivo;
che lo scritto 5/6.3.2015 del reclamante, inviato nel termine assegnato, non prende posizione sulla tempestività;
che di conseguenza il gravame è irricevibile in quanto tardivo, con tassa di giustizia, contenuta al minimo, e spese a carico del reclamante, soccombente. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
c7d75740-3caa-5233-b82a-1bf5bfd04071 | in fatto
a.
Dopo aver ricevuto un rapporto d’inchiesta di polizia giudiziaria 7/9.10.2013 (AI 1, inc. MP _), nonché un rapporto di documentazione fotografica 17.7/9.10.2013 (AI 2), con decreto 23.10.213 il procuratore pubblico ha aperto l’istruzione nei confronti di PI 1 per titolo di truffa e incendio intenzionale (AI 3).
b.
In riferimento all’art. 132 CPP in combinazione con l’art. 133 CPP, con decreto 24.1.2014, il magistrato inquirente ha nominato l’avv. RE 1 quale difensore d’ufficio di PI 1 con effetto a partire dal 22.1.2014 (AI 14).
c.
In data 13.3.2014 il procuratore pubblico ha esteso l’istruzione penale nei confronti di PI 1 per il reato di sviamento della giustizia (AI 19).
d.
In data 16.9.2014 il magistrato inquirente ha comunicato alle parti l’imminente chiusura dell’istruzione penale, prospettando l’emanazione di un decreto di abbandono per tutti i reati ipotizzati ed invitando il difensore d’ufficio a trasmettere la sua nota d’onorario al Ministero Pubblico entro il 16.10.2014 (AI 24).
e.
Nel termine impartitogli, con scritto 16/17.10.2014, l’avv. RE 1 ha inviato al magistrato inquirente la sua nota professionale di CHF 1’778.20, di cui CHF 1'485.-- di onorario, CHF 161.50 di spese (comprese le trasferte) e CHF 131.70 di IVA (AI 28).
Il procedimento nei confronti PI 1 è sfociato nel decreto di abbandono 20.11.2014 (ABB _).
f.
Con decreto 4.2.2015 il procuratore pubblico ha tassato la nota professionale di cui sopra, approvandola per CHF 1'616.85, di cui 1'335.60 di onorario, CHF 161.50 di spese (trasferte comprese) e CHF 119.75 di IVA.
Il magistrato inquirente ha ritenuto eccessivo il tempo esposto di 90 minuti per la trasferta _ (andata e ritorno) del 12.5.2014, approvandola per 60 minuti, riconoscendo pertanto 445 minuti alla tariffa oraria di CHF 180.---, per complessivi CHF 1'335.60.
g.
Con gravame 19/20.2.2015 l’avv. RE 1 impugna il suddetto decreto, postulando l’accoglimento del reclamo e l’approvazione della sua nota professionale per complessivi CHF 1'778.20, comprensivi di onorario, spese e IVA.
Il reclamante evidenzia innanzitutto un errore di calcolo nel decreto impugnato, nella misura in cui il procuratore pubblico detrae, dal tempo orario indicato dal difensore di 8 ore e 15 minuti (ovvero 495 minuti), 30 minuti, giungendo ad un importo di 445 minuti.
Tale importo sarebbe, con ogni evidenzia, errato. Il risultato corretto della citata detrazione sarebbe infatti 465 minuti; all’importo riconosciuto dal magistrato inquirente andrebbe quindi aggiunto - in ogni caso - l’onorario relativo alla differenza di 20 minuti.
Ritiene poi la riduzione operata dal magistrato inquirente in merito alla trasferta _ (andata e ritorno) “
insostenibile
” ed arbitraria (reclamo 19/20.2.2015, p. 3).
Sarebbe in ogni caso valido il principio sancito nella decisione emanata da questa Corte in data 2.6.2014 (inc. _) secondo cui nella tassazione di note d’onorario relative a trasferte si deve prendere in considerazione la situazione concreta in merito alla praticabilità delle strade.
In altre parole, “
bisogna tenere conto dell’effettivo tempo impiegato per la trasferta, tenuto conto dell’intensità del traffico
” (reclamo 19/20.2.2015, p. 4).
Conclude affermando che nel caso concreto, il tempo esposto nella nota professionale in questione corrisponde a quanto effettivamente impiegato per percorrere la tratta citata, avvenuta peraltro la mattina (andata), in un momento in cui il traffico è particolarmente sostenuto.
Ritiene infine che la decurtazione operata mancherebbe di fondamento, e per di più il procurate pubblico non avrebbe neppure indicato su quali criteri si sia basato per giungere a tale conclusione. | in diritto
1.
1.1.
Giusta l’art. 135 cpv. 3 lit. a CPP, in materia di retribuzione, il difensore d’ufficio può interporre reclamo alla giurisdizione di reclamo [ovvero in Ticino, alla Corte dei reclami penali (art. 62 cpv.
2 LOG)] contro la decisione del pubblico ministero o del tribunale di primo grado (cfr. art. 393 cpv. 1 lit. b CPP).
Con il gravame si possono censurare la violazione del diritto, compreso l’eccesso e l’abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (393 cpv. 2 lit. a CPP), l’accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l’inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta ed all’art. 385 CPP per la motivazione.
Esso deve indicare, in particolare, i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
La prevalenza dei principi della verità materiale e della legalità impone alla giurisdizione di reclamo, investita di un gravame, di decidere indipendentemente dalle conclusioni o dalle motivazioni addotte dalle parti, applicando il diritto penale, che deve imporsi d’ufficio (Commentario CPP – M. MINI, art. 391 CPP n. 2; cfr., anche, sentenze TF 6B_69/2014 del 9.10.2014 consid. 2.4. e 6B_776/2013 del 22.7.2014 consid. 1.5.).
1.2.
Il gravame, inoltrato il 19/20.2.2015 alla Corte dei reclami penali, contro il decreto di tassazione 4.2.2015 del procuratore pubblico Francesca Lanz, è tempestivo
e proponibile giusta l’art. 135 cpv. 3 lit. a CPP.
Le esigenze di forma e di motivazione sono rispettate
.
1.3.
L’avv. RE 1, nominato difensore d’ufficio di PI 1 nell’ambito del procedimento di cui all’inc. MP _, con decreto 24.1.2014 (AI 14), è pacificamente legittimato a reclamare ex l’art. 135 cpv. 3 lit. a CPP (decisioni TF 6B_151/2013 del 26.9.2013 consid. 1. e 6B_48/2013 del 13.6.2013 consid. 2.3.).
Il gravame è di conseguenza ricevibile in ordine.
2.
2.1.
Giusta l’art. 135 cpv. 1 CPP il difensore d’ufficio è retribuito secondo la tariffa d’avvocatura della Confederazione o del Cantone in cui si svolge il procedimento penale a carico del patrocinato.
Al caso concreto è pertanto applicabile il regolamento sulla tariffa per i casi di patrocinio d’ufficio e di assistenza giudiziaria e per la fissazione delle ripetibili (Rtar), in vigore dall’1.1.2008.
2.2.
Il predetto regolamento stabilisce la tariffa per le prestazioni dell’avvocato nel caso della sua nomina a patrocinatore d’ufficio, nel caso di concessione del beneficio dell’assistenza giudiziaria e per la fissazione delle ripetibili (art. 1 cpv. 1 Rtar).
All’avvocato è riconosciuto l’onorario per le prestazioni necessarie per lo svolgimento del patrocinio, calcolato secondo i principi e le disposizioni del regolamento (art. 2 cpv. 1 Rtar). La retribuzione della difesa d’ufficio copre dunque il dispendio di tempo essenziale ad un’efficace difesa nel procedimento penale (BSK StPO – N. RUCKSTUHL, art. 135 CPP n. 3; ZK StPO – V. LIEBER, art. 135 CPP n. 3/6; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 135 CPP n. 3; Commentario CPP – M. GALLIANI / L. MARCELLINI, art. 135 CPP n. 4): deve essere indennizzato l’onorario proporzionale e necessario, che è in nesso causale con la tutela dei diritti del difeso (BSK StPO – N. RUCKSTUHL, art. 135 CPP n. 3; ZK StPO – V. LIEBER, art. 135 CPP n. 6).
L’onorario dell’avvocato è calcolato secondo il tempo di lavoro sulla base della tariffa di CHF 180.--/ora (art. 4 cpv. 1 Rtar; tariffa confermata anche dall’Alta Corte, decisione TF 6B_502/2013 del 3.10.2013 consid. 3.2.). Se la pratica è stata particolarmente impegnativa, per esempio avendo richiesto studio e conoscenze speciali o avendo comportato trattazioni di nuove e complesse questioni giuridiche, l’onorario può essere aumentato sino a CHF 250.--/ora (art. 4 cpv. 2 Rtar). L’onorario dell’avvocato per la partecipazione a interrogatori fuori dall’orario di lavoro usuale (tra le ore 20.00 e le ore 08.00 dei giorni feriali, nei giorni festivi ufficiali e di sabato) è fissato a CHF 250.--/ora (art. 5a Rtar).
Per la determinazione dell’onorario a favore del difensore d’ufficio, tenute presenti le citate tariffe orarie, fanno stato i principi dell’art. 21 cpv. 2 della legge sull’avvocatura (art. 1 cpv. 2 Rtar), secondo i quali l’avvocato ha riguardo alla complessità ed all’importanza del caso, al valore ed all’estensione della pratica, alla sua competenza professionale ed alla sua responsabilità, al tempo ed alla diligenza impiegati, alla situazione personale e patrimoniale delle parti, all’esito conseguito ed alla sua prevedibilità (decisione TF 6B_810/2010 del 25.5.2011 consid. 2.).
Ha inoltre diritto al rimborso delle spese necessarie allo svolgimento del patrocinio, riservato l’art. 6 Rtar (art. 2 cpv. 2 Rtar). Quest’ultima norma prevede che possa essere riconosciuto un importo forfetario in per cento dell’onorario quale rimborso per le spese di cancelleria, di spedizione, di comunicazione, di fotocopie e di apertura e archiviazione dell’incarto (art. 6 cpv. 1 Rtar).
3.
3.1.
Il reclamante si duole innanzitutto di un errore di calcolo nella detrazione operata dal magistrato inquirente, laddove riconosce un totale di 445 minuti di tempo, partendo dalle 8 ore e 15 minuti (ovvero 495 minuti) indicate dal legale e sottraendo 30 minuti.
Ora, ci si trova evidentemente confrontati ad un mero errore di calcolo, in quanto sottraendo 30 minuti dai 495 minuti indicati nella nota professionale, si ottiene un risultato di 465 minuti e non di 445 minuti, come erroneamente ritenuto dal procuratore pubblico. Tale censura non va approfondita oltre in quanto il reclamo merita pieno accoglimento, come si dirà di seguito, proprio sul principio della decurtazione, di modo che anche l’errore è sanato.
3.2.
3.2.1.
Il procuratore pubblico ha decurtato 30 minuti, dai 90 minuti esposti nella nota in questione, relativi alla trasferta _, andata e ritorno, del 12.5.2014. Il magistrato inquirente si è limitato a ritenere che “
in concreto appare eccessivo il tempo esposto per la trasferta
” (decreto di tassazione 4.2.2015, p. 1).
A torto.
3.2.2.
Come rettamente indicato dall’avv. RE 1, questa Corte, nella sentenza 2.6.2014 ha ribadito il principio, già sancito in precedenza (decisioni CRP inc. 60.2013.455 del 6.5.2014 e inc. 60.2011.204 del 5.7.2011) secondo cui “
nella tassazione della nota d’onorario per prestazioni riferite a trasferte, si deve considerare la situazione concreta in relazione alla praticabilità delle strade: il tempo di percorrenza delle vie di transito ticinesi dipende infatti molto dalla situazione del traffico, che muta in maniera importante a dipendenza del giorno (feriale o festivo) e del momento della giornata (mattina, pomeriggio o sera)
” (decisione CRP inc. 60.2014.26 del 2.6.2014 consid. 4.2.2.).
3.2.3.
Alla luce della citata giurisprudenza, il magistrato inquirente, nella valutazione del tempo esposto relativo alla trasferta del 12.5.2014, avrebbe dunque dovuto tenere conto della situazione concreta, valutando la possibile intensità del traffico, all’orario di percorrenza della tratta in questione.
La decurtazione di 30 minuti dal tempo esposto dal legale, peraltro operata senza motivazione alcuna e quindi in maniera forfettaria, non può essere condivisa.
Il tempo esposto di 90 minuti per la trasferta _, avvenuta il 12.5.2014, tra le 08.15 - 09.15 (andata) e le 11.00 - 11.30 (ritorno), relativa all’esame atti da parte del legale (cfr. AI 23), appare ragionevole.
Non va inoltre dimenticato che l’andata è avvenuta in un momento della giornata (tra le 08.15 - 09.15) in cui il traffico è notoriamente congestionato su quella tratta di percorso.
La trasferta del 12.5.2014 relativa alla suddetta tratta viene dunque approvata così come esposta dal legale nella nota in questione, segnatamente per 90 minuti.
3.3.
In siffatte circostanze, la nota professionale 16.10.2014 presentata dall’avv. RE 1è approvata nel suo complesso per CHF 1'778.20, di cui CHF 1'485.-- di onorario, CHF 161.50 di spese (comprese le trasferte) e CHF 131.70 di IVA.
4.
Il gravame è accolto. Non si prelevano tassa di giustizia e spese. Lo Stato della Repubblica e del Cantone Ticino rifonderà all’avv. RE 1 CHF 300.-- a titolo di ripetibili di questa sede. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
c8313a20-c8ce-59eb-b5af-0b420fd4bbf1 | in fatto
a.
Con decreto 18.12.2014 il procuratore pubblico ha posto in stato d’accusa dinanzi alla Pretura penale RE 1, siccome ritenuto colpevole di guida senza autorizzazione, per avere, a _, il 31.10.2014, “
condotto l’autovettura _ targata _ sebbene la licenza di condurre gli fosse stata revocata dalla competente Autorità amministrativa in data 09.09.2014, per un periodo indeterminato
”, proponendo la sua condanna alla pena pecuniaria (sospesa condizionalmente per un periodo di prova di tre anni) di 70 aliquote giornaliere da CHF 610.-- cadauna, ed alla multa di CHF 2’000.--, con l’avvertenza che, in caso di mancato pagamento, la stessa sarà sostituita con una pena detentiva di 20 giorni.
Il magistrato inquirente ha altresì revocato il beneficio della sospensione condizionale concesso alla pena pecuniaria di 20 aliquote giornaliere da CHF 650.-- ciascuna, decretata nei suoi confronti il 26.2.2014 (decreto di accusa 18.12.2014, p. 1-2, DA _, AI 3, inc. MP _).
Nel decreto in questione risulta indicata la facoltà, per l’imputato e le altre parti, di interporre opposizione entro il termine di dieci giorni dall’intimazione, con riferimento ai relativi disposti di legge.
b.
Il decreto di accusa 18.12.2014 è stato spedito, per raccomandata, all’imputato in medesima data (cfr. timbro apposto sul retro della seconda pagina dell’atto, cfr. AI 3, inc. MP _).
Il 19.12.2014 è stato emesso l’avviso di ritiro. Visto che la suddetta raccomandata, nonostante l’avviso di ritiro di cui sopra, non è stata ritirata, l’ufficio postale – in data 30.12.2014 – ha ritornato al mittente l’invio in questione (cfr. tracciamento degli invii).
Il Ministero pubblico - in data 2.1.2015 - ha di conseguenza provveduto ad inoltrare ad RE 1, per posta semplice (posta B), il decreto d’accusa DA _ (cfr. AI 4, inc. MP _).
c.
In assenza di opposizione, al decreto di accusa 18.12.2014 è stato apposto il timbro di crescita in giudicato il 5.2.2015 (cfr. timbro sulla prima pagina dell’atto, cfr. AI 3, inc. MP _).
d.
Con fax 25.3.2015 il Servizio dei ricorsi del Consiglio di Stato ha richiesto al Ministero pubblico copia del decreto di accusa DA _, nell’ambito di un ricorso amministrativo pendente presso la citata autorità. In tale scritto vi era indicato, quale rappresentante di RE 1, l’avv. _ (cfr. AI 5, inc. MP _).
e.
Con scritto 30.4.2015, l’avv. _, in nome e per conto di RE 1, ha inoltrato al Ministero pubblico un’istanza di restituzione in intero, sostenendo che l’istante “
non poteva immaginarsi, né tantomeno attendersi la notifica del predetto decreto di accusa essendo patrocinato dall’avv. _
” (istanza di restituzione in intero 30.4.2015, p. 3, doc. 1, inc. Pretura penale _).
Sostiene che in data 9.12.2014 l’avv. _, “
rappresentante legale dell’istante nella parallela procedura amministrativa, presentava ricorso al Consiglio di Stato avverso la decisione di revoca della licenza di condurre di data 20.11.2014
”, il procuratore pubblico era dunque a conoscenza di tale rappresentanza “
per mezzo della consueta comunicazione da parte del servizio ricorsi, e ciò già ben prima della notifica del decreto di accusa in oggetto avvenuta in data 18.12.2014
” (istanza di restituzione in intero 30.4.2015, p. 4).
In sostanza dunque, l’istante sarebbe venuto a conoscenza (non per sua colpa) dell’esistenza del DA _ nei suoi confronti, nel frattempo cresciuto in giudicato, “
casualmente, o meglio accidentalmente, in occasione della lettura del dispositivo della sentenza del Consiglio di Stato n. _ notificata all’avv. _ in data 20 aprile 2015
” (istanza di restituzione in intero 30.4.2015, p. 4).
Contestualmente all’inoltro dell’istanza RE 1 ha formulato opposizione al DA _.
f.
Con scritti 4/5.5.2015 e 11/12.5.2015 il procuratore pubblico ha trasmesso alla Pretura penale, l’istanza di cui sopra per competenza, rispettivamente il doc E inviatogli in seguito alla suddetta istanza dall’avv. _ relativo alla copia del bollettino di pagamento 30.4.2015 dell’Ufficio dell’incasso e delle pene alternative, inviato (direttamente) all’attenzione dell’avv. _, _, a differenza del decreto di accusa DA _ (doc. 2, inc. _).
g.
Con scritto 11.5.2015 il presidente della Pretura penale ha assegnato al procuratore pubblico un termine di 10 giorni per presentare le proprie osservazioni circa la suddetta istanza di restituzione (doc. 3, inc. _).
In risposta, con invio 12/13.5.2015, il magistrato inquirente ha proposto la reiezione dell’istanza, rilevando che “
un avvocato esercitante in Ticino deve pur sapere che i procedimenti amministrativo e penale, seguono due distinte vie procedurali davanti ad autorità altrettanto distinte. Ciò che implica la doverosa formale notifica del mandato, ad ogni Istanza giudiziaria davanti alla quale è pendente il procedimento. Eventuali omissioni in tal senso da parte del patrocinatore, non può certo essere invocato come motivo giustificativo addebitabile al MP
” (doc. 4, inc. _).
h.
Con scritto 15.5.2015 il presidente della Pretura penale ha intimato – tra l’altro – all’avv. _, le osservazioni 12/13.5.2015 del procuratore pubblico, assegnandole un termine di 10 giorni per eventualmente replicare (doc. 5, inc. _).
Mediante replica 29.5/1.6.2015 RE 1, per il tramite del suo legale, ha ribadito che non poteva/doveva attendersi la notifica di un atto giudiziario nei suoi confronti, in quanto “
egli sapeva dell’invio del ricorso al Consiglio di Stato presentato dall’avv. _ in data 9 dicembre 2014 e, conseguentemente, che l’autorità penale era a conoscenza dell’esistenza di una persona responsabile della cura dei suoi interessi legali già prima dell’invio raccomandato di data 18 dicembre 2014
” (replica 29.5/1.6.2015, p. 2, doc. 6, inc. _). Il decreto in questione avrebbe dunque dovuto essere notificato, perlomeno per posta semplice, anche all’avv. _.
In sede di duplica 3/5.6.2015 il procuratore pubblico si è riconfermato nelle proprie allegazioni (doc. 8, inc. _).
i.
Con decreto 18.6.2015 il presidente della Pretura penale ha respinto l’istanza di restituzione del termine, ritenendo non sufficienti i motivi addotti dall’istante, e di conseguenza, ha dichiarato irricevibile l’opposizione inoltrata contestualmente all’istanza e definitivo il decreto di accusa DA _ (doc. 9, inc. _).
l.
Con reclamo 2/3.7.2015 RE 1 postula l’annullamento della decisione di cui sopra.
Il reclamante ritiene che, “
in perfetta buona fede, sapendo per altro che il mio patrocinatore in sede amministrativa non può patrocinarmi in sede penale, non mi attendevo ad una notifica diretta di qualsivoglia provvedimento. Sicuro di essere rappresentato regolarmente e quindi di avere un referente atto a ricevere qualsiasi comunicazione non ho mai nemmeno dubitato del fatto che qualsiasi atto rivolto a me per i fatti occorsomi il 31 ottobre 2014 potesse essermi notificato direttamente
”
(
reclamo 2/3.7.2015, p. 2).
Ritiene “
dannoso per i diritti della difesa che un’autorità dello stesso cantone per gli stessi fatti emani un decisione, il decreto di accusa, senza che l’autorità adita precedentemente, ancorché quella amministrativa, gli abbia trasmesso il ricorso
”
(
reclamo 2/3.7.2015, p. 2).
Conclude affermando che se il Ministero pubblico avesse svolto le necessarie indagini, avrebbe senz’altro appreso del suo patrocinio in sede amministrativa, notificando al suo patrocinatore il decreto in questione.
Delle ulteriori argomentazioni, si dirà – se necessario – in corso di motivazione. | in diritto
1.
1.1.
Giusta l’art. 393 cpv. 1 lit. b CPP il reclamo può essere interposto contro i decreti e le ordinanze, nonché gli atti procedurali dei tribunali di primo grado, ad eccezione delle decisioni ordinatorie e dei casi in cui è espressamente escluso dal CPP o quando è prevista un’altra impugnativa
.
Con il gravame si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l'eccesso e l'abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l'accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l'inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato entro dieci giorni, per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta e all’art. 385 CPP per la motivazione.
In particolare il reclamo deve indicare i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP)
.
La prevalenza dei principi della verità materiale e della legalità impone alla giurisdizione di reclamo, investita di un gravame, di decidere indipendentemente dalle conclusioni o dalle motivazioni addotte dalle parti, applicando il diritto penale, che deve imporsi d’ufficio (Commentario CPP – M. MINI, art. 391 CPP n. 2; cfr., anche, sentenze TF 1B_460/2013 del 22.1.2014 consid. 3.1. e 1B_40/2013 del 26.2.2013 consid. 3.2.).
1.2.
Il gravame, inoltrato il 2/3.7.2015 alla Corte dei reclami penali, competente ex art. 62 cpv. 2 LOG, contro il decreto 18.6.2015 del presidente della Pretura penale (inc. _), è tempestivo e proponibile
(N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, 2. ed., art. 356 CPP n. 3; decisioni CRP _ e _ entrambe del 13.8.2014).
Le esigenze di forma e di motivazione sono rispettate
.
RE 1,
imputato e destinatario del decreto impugnato
, è pacificamente legittimato a reclamare ex art. 382 cpv. 1 CPP avendo un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica del giudizio
.
Il reclamo è, di conseguenza, ricevibile in ordine
.
2.
2.1.
Nell’ambito della procedura di cui agli art. 352 ss. CPP l’imputato può impugnare il decreto di accusa entro dieci giorni al pubblico ministero con opposizione scritta (art. 354 cpv. 1 lit. a CPP), non necessariamente motivata (cpv. 2). In assenza di valida opposizione, il decreto di accusa diviene sentenza passata in giudicato (cpv. 3).
Se è fatta opposizione il caso passa nuovamente nelle mani del pubblico ministero (Messaggio concernente l’unificazione del diritto processuale penale del 21.12.2005
, p. 989 ss., p. 1194), che
assume le ulteriori prove necessarie al giudizio sull’opposi-zione medesima (art. 355 cpv. 1 CPP) e decide se confermare il decreto di accusa, abbandonare il procedimento, emettere un nuovo decreto di accusa oppure promuovere l’accusa presso il tribunale di primo grado (art. 355 cpv. 3 lit. a-d CPP).
Se decide di confermare il decreto di accusa, il pubblico ministero trasmette senza indugio gli atti al tribunale di primo grado affinché svolga la procedura dibattimentale; in tal caso, il decreto di accusa è considerato atto di accusa (art. 356 cpv. 1 CPP).
Il tribunale di primo grado statuisce sulla validità del decreto di accusa e dell’opposizione (art. 356 cpv. 2 CPP).
2.2.
Una volta notificato (secondo l’art. 85 cpv. 2-4 CPP) il decreto d’accusa, il termine di opposizione (art. 354 cpv. 1 CPP) decorre dal giorno successivo alla notifica stessa (art. 90 cpv. 1 CPP).
Per l’art. 91 cpv. 1 CPP il termine è osservato se l'atto procedurale è compiuto presso l'autorità competente al più tardi l'ultimo giorno.
Ai sensi dell’art. 93 CPP, vi è inosservanza di un termine quando una parte non compie tempestivamente un atto procedurale o non compare a un’udienza. Il motivo dell’inosservanza è irrilevante (CR CPP – D. STOLL, art. 93 CPP n. 2).
2.3.
2.3.1.
L’art. 94 CPP, che disciplina i presupposti per la restituzione di un termine, prevede al cpv. 1 che la parte che – non avendo osservato un termine – abbia subito un pregiudizio giuridico importante e irrimediabile, può chiederne la restituzione; a tal fine deve rendere verosimile di non avere colpa dell’inosservanza.
L’istanza di restituzione va motivata e presentata per scritto entro 30 giorni dalla cessazione del motivo dell’inosservanza all’autorità presso cui avrebbe dovuto essere compiuto l’atto procedurale omesso; entro lo stesso termine occorre compiere l’atto omesso (cpv. 2).
L’istanza di restituzione ha effetto sospensivo soltanto se l’autorità competente lo accorda (art. 94 cpv. 3 CPP). Sull’istanza di restituzione decide l’autorità penale in procedura scritta (art. 94 cpv. 4 CPP).
2.3.2.
La possibilità della restituzione del termine è esclusa quando sia data una qualsiasi colpa, quindi anche nel caso di una negligenza solo lieve (CR CPP – D. STOLL, art. 94 CPP n. 10; decisione TF 6B_318/2012 del 21.1.2013 consid. 1.2.). La restituzione del termine è concessa quando ci sono motivi oggettivamente riscontrabili
(quali ad esempio eventi naturali, infortuni, malattia)
, cioè ragioni che hanno reso impossibile il rispetto del termine medesimo (Commentario CPP – M. GALLIANI / L. MARCELLINI, art. 94 CPP n. 2; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, op. cit., art. 94 CPP n. 6).
L’irrimediabile pregiudizio giuridico di cui all’art. 94 cpv. 1 CPP può consistere nella perdita di una possibilità di ricorso (Commentario CPP – M. GALLIANI / L. MARCELLINI, art. 94 CPP n. 1), come anche della possibilità di interporre opposizione ad un decreto d’accusa (sentenze TF 6B_289/2013 del 6.5.2014 consid. 10.2; 6B_360/2013 del 3.10.2013 consid. 3.3.; 6B_503/2013 del 27.8.2013 consid. 3.1.).
3.
3.1.
Ora, è incontestato che nella fattispecie in esame, RE 1 ha subito un pregiudizio irrimediabile, dal mancato rispetto del termine per inoltrare opposizione al DA _, ai sensi della disposizione sopra citata.
Occorre dunque esaminare se siano dati motivi oggettivamente riscontrabili, che hanno reso impossibile il rispetto del termine di cui sopra.
3.2.
Il reclamante ritiene sostanzialmente che, almeno una copia del citato DA, andava notificata anche all’avv. _, in veste di suo rappresentante in sede amministrativa, in quanto l’autorità penale doveva essere a conoscenza di tale circostanza.
La questione è dunque quella di sapere se, agli atti dell’incarto penale, vi sia una valida procura e/o comunicazione circa l’esistenza del patrocinio di RE 1 da parte dell’avv. _.
4.
4.1.
L’incarto penale MP _, sfociato nel noto DA, è composto da (cfr. verbale di procedimento):
-
Rapporto di costatazione per infrazioni alla LCStr 1.11.2014 (AI 1), contenente il verbale di interrogatorio 31.10.2014 di RE 1 dinanzi alla polizia cantonale, il formulario relativo al sequestro licenza di condurre 31.10.2014 nonché la dichiarazione stato civile e patrimoniale 31.10.2014;
-
estratto del casellario giudiziale svizzero (AI 2);
-
decreto di accusa 18.12.2014 (DA _), con il tracciamento degli invii della relativa raccomandata (AI 3);
-
busta di ritorno relativa al DA in questione, ritornato poi per posta B all’imputato (AI 4);
-
Fax 25.3.2015 del Consiglio di Stato che richiede copia del DA (AI 5);
-
trasmissione 26.3.2015 DA al Servizio dei ricorsi del Consiglio di Stato (AI 6);
-
trasmissione 23.4.2015 fotocopia incarto completo e DA all’avv. _ (su sua richiesta telefonica) [AI 7];
-
ricezione copia procura 2.12.2014 da parte dell’avv. _ (AI 8);
-
istanza di restituzione in intero 30.4.2015.
Da nessun atto presente nell’incarto penale di cui sopra, esperito prima dell’emanazione del DA _ del 18.12.2014, risulta che RE 1, nell’ambito del procedimento penale a suo carico per infrazione alla LCStr, fosse difeso da un avvocato.
4.2.
Si rileva innanzitutto che l’avv. _ non ha mai prodotto, in sede penale, alcuna copia della procura in suo favore (in ambito amministrativo) da parte del qui reclamante, prima dell’emanazione del DA il 18.12.2014.
Copia della procura 2.12.2014 a favore dell’avv. _, peraltro indicante espressamente il numero di incarto relativo la procedura amministrativa a carico di RE 1, a seguito delle revoca della licenza di condurre (cfr. inc. _), è pervenuta al Ministero pubblico (unicamente) il 27.4.2015 (cfr. AI 8).
A prescindere (anche) dall’invio o meno della procura da parte dell’avvocato, il magistrato inquirente è venuto a conoscenza della rappresentanza di RE 1 da parte dell’avv. _ (in sede amministrativa), al più presto in data 25.3.2015, a seguito dello scritto – inviato per fax – da parte del Servizio ricorsi del Consiglio di Stato che richiedeva copia del DA _ a carico dello stesso (AI 5).
In siffatte circostanze non risulta che RE 1 avesse dato validamente procura ad un legale per assisterlo nel procedimento penale a suo carico. Del resto dal gravame si evincerebbe peraltro l’impossibilità dell’avv. _ a patrocinare in sede penale.
Rettamente, pertanto, il procuratore pubblico ha intimato, in data 18.12.2014, il DA _ direttamente all’imputato e non (anche) all’avv. _.
4.3.
L’asserzione poi secondo cui il procuratore pubblico avrebbe dovuto essere a conoscenza della rappresentanza dell’ avv. _ “
per mezzo della consueta comunicazione da parte del servizio ricorsi, e ciò già ben prima della notifica del decreto di accusa in oggetto avvenuta in data 18.12.2014
” (istanza di restituzione in intero 30.4.2015, p. 4), non trova alcun riscontro agli atti, non essendo presente (e nemmeno prodotta in questa sede) la prova dell’asserita consueta comunicazione all’autorità penale da parte del Servizio ricorsi del Consiglio di Stato.
Il fatto inoltre che nella sentenza 15.4.2015 del Consiglio di Stato, allegata all’istanza di restituzione 30.4.2015 quale doc. B (cfr. doc. 1, inc. _), vi sia indicato, quale rappresentante di RE 1, l’avv. _, nulla muta alla presente fattispecie. Tale decisione è infatti posteriore all’emanazione del DA in questione, avvenuta il 18.12.2014, e prolata in una procedura differente, amministrativa.
Neppure soccorre la tesi del reclamante il fatto che la fattura 30.4.2015 dell’Ufficio dell’incasso e delle pene sia stata inviata direttamente all’avv. _, per conto di RE 1. Tale fattura è infatti posteriore alla ricezione da parte del Ministero pubblico, avvenuta il 27.4.2015, della procura a favore dell’avv. _ (AI 8).
4.4
Non va del resto dimenticato che, in sede di verbale di interrogatorio 31.10.2014, RE 1 è stato reso attento del fatto che nei suoi confronti era stato avviato un procedimento penale per infrazione alla LCStr e che avrebbe avuto il diritto di disegnare un avvocato di fiducia a sue spese o ad un difensore d’ufficio a determinate condizioni.
Apponendo la sua firma in calce al suddetto verbale l’imputato ha dunque confermato di aver preso atto e compreso i suoi diritti ed i suoi obblighi (cfr. verbale di interrogatorio 31.10.2014, in AI 1, inc. MP _).
Inoltre, non era la prima volta che RE 1 fosse oggetto di una procedura penale sfociata in un decreto di accusa per violazione alla LCStr, visto il precedente del 26.6.2014 (cfr. AI 2, inc. MP _).
4.5.
Alla luce di tutto quanto sopra, si ritiene che RE 1 non ha fornito un motivo oggettivamente riscontrabile, che abbia reso impossibile il rispetto del termine di opposizione al decreto d’accusa che lo concerne.
Il decreto 18.6.2014 del presidente della Pretura penale è dunque meritevole di tutela.
5.
5.1.
Si rileva che ai sensi dell’art. 410 cpv. 1 CPP, chi è aggravato da una sentenza passata in giudicato, da un decreto d’accusa, da una decisione giudiziaria successiva o da una decisione emanata nella procedura indipendente in materia di misure può chiedere la revisione: se sono dati nuovi fatti o nuovi mezzi di prova anteriori alla decisione e tali da comportare l’assoluzione oppure una punizione notevolmente più mite o notevolmente più severa del condannato oppure la condanna della persona assolta (lit. a); se la decisione contraddice in modo intollerabile una decisione penale successiva concernente gli stessi fatti (lit. b).
Per giustificare una domanda di revisione, i fatti o i mezzi di prova devono essere nuovi e rilevanti.
Un fatto o mezzo di prova è nuovo quando non era noto al giudice al momento della sentenza, ossia quando non gli era stato per nulla sottoposto (DTF 130 IV 72 consid. 1; 122 IV 66 consid. 2a, 120 IV 246 consid. 2a, 117 IV 40 consid. 2a pag. 47, 116 IV 353 consid. 3a).
L’art. 411 cpv. 1 CPP prevede che le istanze di revisione vanno presentate e motivate per scritto al Tribunale d’appello. La decisione sulle stesse compete, dunque, alla Corte di appello e di revisione penale. Giusta l’art. 411 cpv. 2 CPP le istanze di revisione di cui all’art. 410 cpv. 1 lit. a CPP non sono subordinate al rispetto di alcun termine mentre quelle di cui all’art. 410 cpv. 1 lit. b CPP vanno presentate entro 90 giorni da quando l’interessato è venuto a conoscenza della decisione in questione.
5.2.
Quanto allegato in sede di reclamo, segnatamente che “
al momento del mio fermo in data 31 ottobre 2014, sono venuto a conoscenza del fatto che, per mancata presentazione della necessaria documentazione medica, di essere oggetto di una revoca della licenza di condurre. Immediatamente dopo il fermo mi sono recato nello studio del dottor _, _ il quale dopo aver consultato la mia scheda, confermava aver eseguito la visita medica in data 18.11.2013 e che sia in tale data che in quella del 31 ottobre 2014 il sottoscritto era idoneo alla guida di veicoli a motore e che inspiegabilmente il formulario era andato perso
” (reclamo 2/3.7.2015, p. 1-2), andrà dunque fatto valere, se del caso, tramite un’istanza di revisione alla competente Corte di appello e di revisione penale.
6.
Il gravame è respinto. Tassa di giustizia e spese sono poste a carico dell’insorgente, soccombente. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
c85893ad-1e76-5c9d-bbcb-4a1859e99b87 | in fatto: A.
Con decreto penale del 16 agosto 1996 l'Amministrazione federale delle contribuzioni, Divisione principale dell'imposta sulla cifra d'affari, ha inflitto a _ una multa di fr. 7'000.– per violazione dell'art. 17 n. 1 della legge federale sul diritto penale amministrativo (DPA; RS 313.0) in relazione con l'art. 38 cpv. 1 del vecchio decreto federale che istituiva un'imposta sulla cifra d'affari (RS 641.20), imputandogli di avere intralciato l'azione penale relativa a un procedimento per messa in pericolo dell'imposta.
B.
Contro il decreto in oggetto il condannato ha redatto un'opposizione, datata 22 settembre 1996 e consegnata alla posta il giorno successivo, chiedendo l'annullamento del decreto o – in subordine – un complemento d'inchiesta. Con decisione del 27 novembre 1996 l'Amministrazione federale delle contribuzioni ha dichiarato l'opposizione irricevibile siccome tardiva e ha attestato il passaggio in giudicato del decreto.
C.
Il 4 dicembre 1996 _ ha chiesto all'Amministrazione federale delle contribuzioni che il caso fosse sottoposto a un tribunale o, quanto meno, riesaminato sulla base delle richieste istruttorie e delle nuove risultanze evocate nella sua opposizione del 22 settembre 1996. Il 17 marzo 1997 l'autorità federale ha trasmesso gli atti al Ministero pubblico del Cantone Ticino per il rinvio a giudizio.
D.
Con sentenza del 1° dicembre 2000 il presidente della Corte delle assise correzionali di Lugano ha confermato la decisione emessa il 27 novembre 1996 dall'Amministrazione federale delle contribuzioni, dichiarando l'opposizione irricevibile per tardività e, quindi, anche la domanda di complemento istruttorio formulata da _ il 22 settembre 1996. Egli ha attestato così il passaggio in giudicato del decreto penale a decorrere dal 20 settembre 1996.
E.
Contro il predetto giudizio _ ha inoltrato il 6 dicembre 2000 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta del 18 gennaio 2001 egli chiede che la sentenza impugnata sia annullata e gli atti rinviati a un'altra Corte delle assise correzionali per nuova decisione. Nelle sue osservazioni del 1° febbraio 2001 l'Amministrazione federale delle contribuzioni propone di respingere il ricorso. Il Procuratore pubblico è rimasto silente. | Considerando
in diritto: 1.
Giusta l'art. 62 cpv. 1 DPA, conclusa l'inchiesta, l'amministrazione emana un decreto penale oppure desiste dal procedimento. I requisiti formali del decreto sono regolati dall'art. 64 DPA. Contro il decreto l'interessato può fare opposizione entro 30 giorni dalla notificazione; in suo difetto, esso è equiparato a una sentenza esecutiva (art. 67 DPA). L'art. 68 DPA indica l'autorità alla quale deve essere presentata l'opposizione e il contenuto. Se è fatta opposizione, l'amministrazione riesamina il decreto o l'ordine impugnato seguendo la procedura prevista dall'art. 69 DPA. In base ai risultati dell'esame, essa emana una decisione di non doversi procedere, una decisione penale o una decisione di confisca (art. 70 cpv. 1 DPA). A domanda o con il consenso dell'opponente, essa può trattare l'opposizione come richiesta del giudizio di un tribunale (art. 71 DPA: “trattazione anomala dell'opposizione”). Entro 10 giorni dalla notificazione della decisione penale o di confisca l'interessato può, in ogni modo, chiedere di essere giudicato da un tribunale (art. 72 cpv. 1 DPA).
2.
Il ricorrente sostiene anzitutto che il decreto penale del 16 agosto 1996 indicava come unico rimedio la possibilità di opposizione entro 30 giorni dalla notificazione, ma non la facoltà prevista dall'art. 72 DPA di chiedere di essere giudicato da un tribunale nel termine di 10 giorni. A suo dire, dal momento che l'opposizione costituisce solo una domanda di riesame, l'accusato può chiedere il rinvio a giudizio anche se non l'ha interposta o l'ha interposta tardivamente. L'opinione non può essere condivisa. Lo stadio dell'opposizione è obbligatorio poiché istituito nell'interesse medesimo dell'accusato, in modo da evitargli il deferimento immediato davanti a un tribunale con la pubblicità, gli inconvenienti e le spese che derivano da un processo. Una rinuncia alla procedura di opposizione è lecita unicamente con l'accordo esplicito del prevenuto. Solo in tal caso l'amministrazione può trattare l'opposizione come domanda di giudizio da parte di un tribunale (DTF 121 IV 329 consid. 3d). In concreto l'opposizione del 23 settembre 1996 – la cui tardività non è litigiosa – non conteneva alcuna rinuncia alla procedura degli art. 67 segg. DPA, motivo per cui l'amministrazione nemmeno l'avrebbe potuta trattare come richiesta di rinvio a giudizio. Del resto, la possibilità di chiedere che l'opposizione fosse trattata a tale stregua era indicata nello stesso decreto penale, il quale menzionava a chiare lettere la facoltà prevista dall'art. 71 DPA. Il ricorrente erra quindi manifestamente quando pretende che il decreto penale avrebbe dovuto indicare la facoltà di chiedere il rinvio al giudizio di un tribunale prevista dall'art. 72 DPA, come pure quando asserisce che l'opposizione è una semplice domanda di riesame. Come detto, lo stadio dell'opposizione è vincolante e una rinuncia deve essere esplicita. Solo in tal caso l'amministrazione può far capo all'art. 71 DPA.
3.
Il ricorrente asserisce poi che, seguendo le indicazioni figuranti nella decisione 27 novembre 1996 dell'Amministrazione federale e quelle enunciate dall'art. 72 cpv. 1 DPA, nel termine di 10 giorni egli ha inoltrato, il 4 dicembre 1996, la richiesta di essere giudicato da un tribunale o – subordinatamente – di veder riesaminare il caso come postulato con la precedente opposizione del 22 settembre 1996. La richiesta di giudizio di un tribunale implicava dunque, a suo parere, anche la disamina del fondamento dell'accusa. Il gravame è nuovamente destinato all'insuccesso. In effetti, il 27 novembre 1996 l'amministrazione federale ha emesso un mero giudizio di irricevibilità. Non si vede quindi come il ricorrente possa legittimamente pretendere che la richiesta del 4 dicembre 1996 implicasse il riesame del fondamento dell'accusa da parte del tribunale. Già si è visto che lo stadio dell'opposizione è obbligatorio e che la rinuncia deve essere esplicita. D'altro lato il termine di 30 giorni per l'opposizione previsto dall'art. 67 cpv. 1 DPA è perentorio, né si spiegherebbe altrimenti il cpv. 2 della norma, in particolare il passaggio in giudicato del decreto penale. Il ricorrente non può di conseguenza porre in relazione diretta l'art. 64 con l'art. 72 DPA, poiché egli non ha mai rinunciato allo stadio dell'opposizione, né pretende di avere erroneamente creduto che l'opposizione – tardiva – del 22 settembre 1996 comportasse il deferimento del caso a un tribunale (
Hauri
, Verwaltungsstrafrecht, Berna 1998, pag. 151 n. 3a).
4.
Secondo il ricorrente il presidente della Corte di assise non doveva limitarsi ad accertare il passaggio in giudicato della decisione, ma doveva entrare nel merito degli addebiti che l'amministrazione gli aveva mosso, avendo egli chiesto il rinvio a giudizio nel termine previsto dalla decisione del 27 novembre 1996. Nuovamente l'interessato tascura però che la decisione in oggetto si limitava a dichiarare irricevibile perché tardiva l'opposizione interposta al decreto penale del 16 agosto 1996. La conseguenza della tardiva opposizione è sanzionata dall'art. 67 cpv. 2 DPA, secondo cui in tal caso il decreto penale è equiparato a una sentenza esecutiva. Ammessa la tardività
dell'opposizione del
22 settembre 1996 (pag. 2 della sentenza impugnata), un giudizio sulla fondatezza del decreto penale del 16 agosto 1996 e – quindi – sul merito della condanna, non poteva più entrare in considerazione.
5.
Il ricorrente lamenta altresì la violazione degli art. 73 segg. DPA, rilevando che a norma dell'art. 73 cpv. 2 DPA solo il rinvio a giudizio tiene luogo dell'accusa. Anche in virtù di questo prescritto la Corte di assise avrebbe dovuto esaminare i motivi alla base del decreto penale e completare o far completare gli atti come prevede l'art. 75 cpv. 2 DPA. In realtà quest'ultimo disposto ha mero carattere potestativo. Inoltre il rinvio a giudizio, che dà una descrizione della fattispecie ed enumera le norme di legge applicabili, serve al tribunale – segnatamente – ove si tratti di una procedura “anomala” nel senso dell'art. 71 DPA (
Hauri
, op. cit., pag. 155 n. 5a). Il mancato rispetto del termine perentorio previsto dall'art. 67 cpv. 1 DPA non dà diritto all'accusato di vedersi garantire un processo esteso alla fondatezza del decreto penale nel merito, decreto che – come detto – ha acquisito forza di giudicato.
6.
Da ultimo il ricorrente invoca il diritto a un equo processo consacrato dall'art. 6 CEDU, come pure il suo diritto d'essere sentito, e definisce il rifiuto della Corte delle assise di vagliare il merito del decreto penale come un diniego di giustizia. Anche su questo punto il ricorso è destinato all'insuccesso. Il processo equo è garantito dal DPA, previa tempestiva opposizione al decreto penale (ciò che prelude a un riesame completo della fattispecie da parte dell'amministrazione), rispettivamente con l'opposizione alla decisione penale. È inutile ripetere che il termine dell'art. 67 cpv. 1 DPA è perentorio e che la sua inosservanza comporta il passaggio in giudicato del decreto penale (art. 67 cpv. 2 DPA). In caso contrario una decisione di condanna fondata su un simile decreto non diverrebbe mai esecutiva, con grave pregiudizio per la sicurezza giuridica. Il diritto di essere sentito era garantito, in concreto, dalla possibilità di inoltrare opposizione entro 30 giorni al decreto. Quanto al preteso diniego di giustizia, esso è escluso poiché la Corte di assise doveva verificare unicamente la decisione di irricevibilità. Ne deriva che il ricorso manca di consistenza anche a quest'ultimo riguardo.
7.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 e 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,001 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
c8921419-3762-5c1a-9ccd-436090cd04cf | in fatto: A.
Con sentenza del 3 aprile 2001 la Corte delle assise correzionali di Lugano ha riconosciuto _ autore colpevole di atti sessuali con persona incapace di discernimento o inetta a resistere e di tentata coazione sessuale. La Corte ha accertato che l'imputato aveva, il mattino del 16 ottobre 1995, compiuto la congiunzione carnale con _, nel di lui studio medico in via _, conoscendo e sfruttando l'inettitudine a resistere della paziente, sottoposta poc'anzi a gastroscopia e ancora sotto l'influsso del farmaco “Dormicum” somministratole per via endovenosa. La Corte ha accertato inoltre che il mattino del 21 marzo1995 l'imputato aveva tentato di costringere la paziente _, ancora lievemente inebetita per gli effetti residui del “Dormicum” somministratole a fini di gastroscopia, a farsi toccare i genitali. In applicazione della pena, la Corte ha condannato _ a 2 anni di detenzione e all'interdizione dall'esercizio della professione per due anni. Sospeso condizionalmente quest'ultimo provvedimento con un periodo di prova di 3 anni, essa ha condannato inoltre l'imputato a versare fr. 25'000.– di indennità e fr. 85'000.– per ripetibili a _, rispettivamente fr. 10'000.– di indennità e fr. 20'000.– per ripetibili a _.
B.
Contro la sentenza di assise _ ha inoltrato il 3 aprile 2001 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi del gravame, presentati il 13 maggio successivo, egli ha chiesto l'annullamento della sentenza impugnata e il rinvio degli atti a un'altra Corte di assise per nuovo giudizio o quanto meno, in subordine, la riforma della sentenza impugnata nel senso di proscioglierlo da ogni imputazione. Nelle sue osservazioni del 31 maggio 2001 il Procuratore pubblico ha proposto di respingere il ricorso. Identica conclusione hanno formulato le parti civili _ e _ con osservazioni del 5 e del 15 giugno 2001. Al pubblico dibattimento del
7 novembre 2001 il ricorrente si è confermato nelle proprie allegazioni. Il Procuratore pubblico e le parti civili hanno postulato di nuovo la reiezione dei ricorsi. Statuendo con sentenza dell'8 novembre 2001, la Corte di cassazione e di revisione penale ha parzialmente accolto il ricorso, in quanto ammissibile e non divenuto privo di oggetto, e ha prosciolto _ dall'accusa di tentata coazione sessuale nei confronti di _. Riguardo all'accusa di atti sessuali con persona incapace di discernimento o inetta a resistere riferita a _, essa ha rinviato gli atti a un'altra Corte delle assise correzionali per nuovo giudizio secondo i considerandi (inc. _).
C.
Con ricorso di diritto pubblico _ ha impugnato al Tribunale federale la sentenza appena citata, chiedendo di annullarla per quanto la concerne e di confermare la decisione della Corte delle assise correzionali, o quanto meno – in subordine – di rinviare gli atti all'autorità cantonale per nuovo giudizio. Statuendo il 30 luglio 2002, la I Corte di diritto pubblico ha accolto il ricorso, ha annullato la sentenza impugnata e ha rinviato gli atti a questa Corte per nuovo giudizio nel senso dei considerandi. | Considerando
in diritto: 1.
In seguito alla sentenza emanata il 30 luglio 2002 dal Tribunale federale questa Corte deve statuire nuovamente sul ricorso dell'imputato relativamente alla condanna per tentata coazione sessuale. Non può tornare invece sui motivi per cui ha respinto, in quanto ammissibili, le eccezioni processuali sollevate preliminarmente nel ricorso o su quelli che l'hanno indotta a rinviare gli atti a un'altra Corte di assise per nuovo giudizio nel senso dei considerandi sull'imputazione di atti sessuali con persona incapace di discernimento o inetta a resistere. La sentenza emessa da questa Corte l'8 novembre 2001 è infatti stata annullata nella sola misura in cui ha prosciolto l'imputato dall'accusa di coazione sessuale. Quanto figura nei considerandi 2 a 28 e nel considerando 31 di quella sentenza (riferito appunto all'imputazione di atti sessuali con persona incapace di discernimento o inetta a resistere) rimane impregiudicato. In ordine al potere cognitivo di questa Corte (art. 288 cpv. 1 CPP), si rinvia al consid. 1 della sentenza medesima.
2.
Per quanto attiene alla tentata coazione sessuale nei confronti di _, la Corte delle assise correzionali aveva accertato che il mattino del 21 marzo 1995 costei si era presentata dal ricorrente per sottoporsi a gastroscopia su richiesta del suo medico curante, dott. _, il quale sospettava un'ulcera allo stomaco. Il 4 dicembre 1995 la paziente è stata sentita dal Ministero pubblico in seguito a denuncia sporta il 29 novembre 1995 contro l'imputato per abusi sessuali subìti durante la visita. Essa ha dichiarato che nel corso del colloquio successivo alla gastroscopia l'imputato, dopo averle comunicato l'esito dell'esame, ha cominciato a molestarla con frasi scurrili. Nonostante l'invito a limitarsi all'aspetto clinico, costui avrebbe persistito nel suo contegno sconveniente. Anzi, al momento del congedo, alzatosi e uscito da dietro la scrivania, le avrebbe preso un polso, allontanandola dalla porta. Essa sarebbe riuscita a divincolarsi, ma il ricorrente l'avrebbe di nuovo afferrata con forza al polso e, dicendole di non fare la difficile, avrebbe portato la mano di lei sopra i pantaloni, sul suo membro eretto. Quindi avrebbe sollevato la tunica corta che indossava e avrebbe tentato di infilarle la mano nei pantaloni. Liberatasi dalla presa, la denunciante ha abbandonato lo studio (sentenza, pag. 57). _ ha soggiunto di essersi poi fermata in un piccolo bar dietro lo stabile, in preda ad agitazione, e di avere raggiunto lo studio del dott. _, cui ha narrato l'episodio. Ha ripetuto la vicenda, senza scendere nei dettagli, anche al suo nuovo gastroenterologo, dott. _ (sentenza, pag., 58). Invitata a spiegare perché non aveva sporto subito denuncia, essa ha detto agli inquirenti di non aver ritenuto opportuno ciò, visto che si trattava della sua parola contro quella del medico. Ha raccontato di avere trovato il coraggio di farsi avanti solo casualmente, quando ha saputo della denuncia sporta da un'altra paziente (_: sentenza, pag. 59).
3.
La prima Corte ha creduto alla vittima, sia perché il racconto le è apparso lineare, dettagliato e privo di fronzoli, sia perché la donna non aveva motivo per dichiarare il falso (sentenza, pag. 61). Il fatto risultava confortato anche da altri indizi, a cominciare dall'immediata reazione e dalle conseguenze sul piano psichico. Stando alla cartella clinica, _ si era veramente recata dal dott. _ il 21 marzo 1995 e quel medico le aveva diagnosticato il 24 aprile successivo una sindrome ansiosa depressiva. Il dott. _ e _ (quest'ultima aiuto medico del dott. _) hanno dal canto loro confermato che la donna non ha più voluto tornare dal ricorrente per altri controlli. _ ha pure riferito di essere stata chiamata dal dott. _ in presenza della paziente perché questa si lamentava di avere subito approcci sessuali da parte dell'imputato, sicché bisognava trovarle un altro gastroenterologo. _, altra aiuto medico del dott. _, ha confermato di avere appreso dalla collega _ che la paziente si era lamentata del comportamento dell'imputato. _, aiuto medico e fisioterapista, ha raccontato di avere saputo dalla denunciante degli approcci quando era stata nello studio del ricorrente (sentenza, pag. 62).
I primi giudici hanno poi rilevato, ricordando le testimonianze di _ ed _, che il malvezzo di molestare sessualmente, e non sempre solo a parole, pazienti o altre donne nello studio rispondeva a un comportamento non estraneo alle abitudini del ricorrente (sentenza, pag. 82 a 65). La Corte di assise ha infine richiamato la deposizione del dott. _, il quale ha riferito delle lamentale di una paziente che egli aveva mandato dal ricorrente per un consulto, come pure la deposizione del dott. _, il quale ha riferito di pazienti che, pur senza dirlo espressamente, gli avevano fatto capire che le visite endoscopiche sembravano piuttosto visite ginecologiche (sentenza, pag. 66 a 68).
4.
Il ricorrente fa anzitutto carico alla prima Corte di avere ritenuto assolutamente credibile la vittima, facendo astrazione delle conseguenze che il “Dormicum” può provocare, in particolare di fronte al consumo di alcol e di psicofarmaci. Non soltanto egli fonda l'obiezione avvalendosi di argomenti appellatori, ma nemmeno si confronta con le considerazioni (illustrate anche a pag. 6 della sentenza del Tribunale federale) che hanno indotto i primi giudici a ritenere che il racconto della vittima non fosse riconducibile a fantasia sessuale provocata dalla somministrazione di quel farmaco (sentenza, pag. 68). Donde, su questo punto, l'inammissibilità della critica.
5.
Secondo il ricorrente, la Corte di assise sarebbe trascesa in arbitrio ravvisando nelle annotazioni riportate dal dott. _ sulla cartella clinica della paziente, di cui la Corte avrebbe fatto uso in spregio degli accordi raggiunti al dibattimento con l'accusato, un ulteriore elemento che corroborerebbe la credibilità della vittima. La censura è fondata nella misura in cui i primi giudici hanno stabilito una connessione tra lo stato depressivo diagnosticato alla vittima un mese più tardi (24 aprile 1995) e il preteso abuso sessuale. La prima Corte, infatti non disponeva di alcun elemento utile che giustificasse una conclusione del genere (sentenza del Tribunale federale, pag. 7), sicché l'arbitrio in cui essi sono incorsi al riguardo è inconfutabile. Più delicato è valutare l'incidenza dell'annotazione del dott. _ circa la presenza della donna nello suo studio il 21 marzo 2001, il giorno del preteso abuso sessuale. Pur riconoscendo che _ si è recata dal dott. _ in quella data (onde più non si pone il problema di un eventuale uso illecito della cartella clinica per l'accertamento del fatto), il ricorrente fa valere che da quella circostanza la Corte di assise non poteva – salvo trascendere in arbitrio – dedurre alcunché di rilievo, né tanto meno poteva per ciò solo ritenere che la denunciante avesse reagito immediatamente alle pretese molestie. In realtà, afferma il ricorrente, _ si era si recata dal medico quel giorno non per raccontare l'episodio, ma per eseguire un trattamento fisioteratico per la schiena. La sentenza impugnata si fonderebbe perciò su elementi che non corroborano affatto la credibilità della donna.
a)
Nel suo primo giudizio questa Corte aveva considerato ininfluente il fatto che _ avesse raggiunto lo studio del dott. _ dopo essersi sottoposta a gastroscopia dal ricorrente, lei stessa non pretendendo di essersi recata dal secondo medico solo per denunciare l'abuso, essendo anzi probabile che la visita fosse già stata concordata (consid. 29c). Il Tribunale federale non ha condiviso tale conclusione. Ha rilevato che nelle circostanze del caso questa Corte non poteva sottovalutare la visita di _ proprio quel giorno al medico di famiglia, l'aiuto medico _ avendo dichiarato che, probabilmente, lo stesso giorno della gastroscopia la paziente era stata da lei per una fisioterapia e che, in quell'occasione, le aveva accennato ad approcci da parte del ricorrente. L'aiuto medico _ aveva inoltre riferito, senza però ricordare l'esatta circostanza e se ciò fosse avvenuto in presenza della vittima, che il dott. _ le aveva parlato – senza entrare nei dettagli – di approcci a carattere sessuale subìti dalla paziente e della necessità di trovarle un nuovo specialista. Anche l'aiuto medico _ ha dichiarato che la collega _ le aveva detto dei citati approcci (sentenza del Tribunale federale, pag. 7).
b)
Pur considerando che a ragione questa Corte ha riscontrato arbitrio nell'accertamento dei primi giudici, stando ai quali il dott. _ aveva discusso con l'aiuto medico _ dinanzi a _ degli abusi pretesi dalla paziente, il Tribunale federale ha nondimeno ritenuto che, alla luce delle precedenti considerazioni, ciò non bastasse per escludere un'immediata reazione della donna presso il suo medico di famiglia subito dopo la gastroscopia. Né – ha proseguito il Tribunale federale – tale manifestazione poteva apparire irrilevante, la stessa Corte di cassazione e di revisione penale avendo menzionato, ritenendolo un fattore di incertezza, il ritardo della vittima nel denunciare l'abuso. Ricordato che questa Corte ha disposto il rinvio degli atti alle assise per ulteriori accertamenti sul reato di atti sessuali con persona incapace di discernimento o inetta a resistere, il Tribunale federale ha stimato che pure la reazione della donna presso il suo medico di famiglia meriti approfondimento, in specie sulle circostanze della visita e sulla descrizione dell'asserito abuso. Secondo il Tribunale federale questa Corte non poteva pertanto, senza disporre ulteriori accertamenti sulle circostanze in cui la donna si era recata dal medico di famiglia e sul colloquio da lei avuto con quest'ultimo, ritenere irrilevante che ciò sia avvenuto il giorno medesimo della gastroscopia (sentenza del Tribunale federale, pag. 7).
c)
All'esigenza di altri accertamenti riguardo alla manifestazione di _ presso il dott. _ e alla versione dei fatti a lui riferita, il Tribunale federale ha insistito anche dopo avere ricordato che questa Corte ha ritenuto – dando sostanzialmente ragione all'accusato – che le dichiarazioni delle collaboratrici del medico di famiglia, pur rafforzando l'opinione secondo cui l'imputato era trasceso in comportamenti lesivi dell'integrità sessuale della paziente, non erano sufficientemente precise riguardo ai fatti incriminati, né consentivano di determinarsi sulla loro valenza. E ciò anche dopo avere rammentato che, secondo questa Corte, neppure le deposizioni delle ex pazienti, in particolare della teste _, permettevano di trarre conclusioni significative, il Procuratore generale non avendo proceduto nei confronti dell'accusato per tali episodi. Certo, la Corte di cassazione e di revisione penale ha sottolineato non essere stato chiarito che cosa esattamente fosse accaduto, né la testimone aveva dato ragguagli, né la Corte di assise aveva precisato quali fossero gli atti suscettibili di adempiere il reato di coazione sessuale. Il Tribunale federale ha ritenuto tuttavia che ciò non bastasse per prescindere dagli accertamenti necessari. E ha riconfermato l'esigenza di ulteriori accertamenti anche dopo avere evocato che, secondo questa Corte, dai racconti resi direttamente da altre pazienti, come pure indirettamente dai medici _ e _, non sarebbe stato arbitrario concludere che la mattina del 21 marzo 1995 il gastroenterologo avesse molestato sessualmente la paziente e che i primi giudici avessero ecceduto nel loro potere di apprezzamento accreditando la versione della donna senza disporre di seri riscontri. Tanto più che, vista l'incertezza della fattispecie e il ritardo con cui la vittima aveva denunciato il caso, occorreva optare per la derubricazione nel reato meno grave di molestie sessuali (sentenza del Tribunale federale, pag. 8 con riferimento ai considerandi 29d a 29f e 30 della sentenza della CCRP).
d)
Ribadita la necessità di accertamenti supplementari riguardo alla manifestazione della vittima presso il dott. _ e alla versione dei fatti a lui riferita, il Tribunale federale ha deciso che questa Corte deve stabilire, nell'ambito di un nuovo giudizio, se i nuovi riscontri oggettivi e le valutazioni che ne deriveranno, permetteranno ancora di valutare allo stesso modo gli ulteriori indizi e di giungere alle medesime conclusioni circa l'intensità dell'abuso. Nel nuovo giudizio questa Corte deve pure considerare, tra l'altro, che le assise non hanno accertato i fatti litigiosi fondandosi essenzialmente e in modo determinante sulle deposizioni delle ex pazienti e dei medici, ma si è basata soprattutto sulla testimonianza della vittima, ritenuta credibile sia come tale sia nel contesto di un esame complessivo degli ulteriori elementi disponibili. Pur rilevando che talune deposizioni non permettono di appurare l'intensità degli atti incriminati, il Tribunale federale ha soggiunto che nella misura in cui questa Corte non si è confrontata con la deposizione di _ – ritenuta credibile dalle assise – le circostanze esposte nella sentenza impugnata non appaiono, senza il conforto di ulteriori accertamenti, decisive per sminuire la credibilità della donna e minimizzare il suo resoconto. In mancanza di un puntuale confronto con la versione delle parti e in difetto di altri riscontri le argomentazioni di questa Corte non consentono, sempre secondo il Tribunale federale, di ritenere arbitrari i fatti posti a fondamento del giudizio di assise, ove si consideri che le difficoltà probatorie generalmente riscontrabili nell'ambito di reati contro l'integrità sessuale possono rendere decisive le dichiarazioni delle persone direttamente coinvolte (sentenza del Tribunale federale, pag. 8 e 9).
e)
Già si è visto che il Tribunale federale non ha condiviso l'irrilevanza del fatto che la vittima si sia recata dal medico di famiglia subito dopo la gastroscopia, onde la necessità di ulteriori accertamenti sulla reazione della ricorrente, segnatamente sulle circostanze della visita e sulla descrizione del preteso abuso. A tale proposito però la sentenza di assise non è di tangibile aiuto, i primi giudici essendosi limitati a rilevare (sentenza, pag. 61) che il racconto di _ era credibile anche perché corroborato dalla reazione immediata della donna (oltre che dalle conseguenze sul piano psichico, circostanza quest'ultima accertata, come si è visto, in modo arbitrario). La sentenza non indica in quale contesto ciò sarebbe avvenuto e di quale reazione si sarebbe trattato. Stabilito che _ aveva raggiunto lo studio del dott. _ quello stesso giorno, andavano elucidate le circostanze della visita e soprattutto andava indagato in quali termini la donna si fosse rivolta al medico di famiglia.
f)
È vero che in un verbale del 4 dicembre 1995 (act. D2) _ aveva dichiarato al Procuratore pubblico che, raggiunto lo studio del dott. _, aveva esclamato, rivolgendosi alle aiuto medico che le domandavano come fosse andato l'esame gastroscopico, che avrebbe chiesto al dott. _ “dove diavolo mi aveva mandato”, il dottor _ avendole “perfino messo le mani addosso” (sentenza, pag. 58). Nessuna delle aiuto medico ha confermato però tale fatto, limitandosi a dichiarare di avere appreso di non meglio precisati approcci sessuali. Neppure il dott. _, il gastroenterologo succeduto al ricorrente, è stato in grado di confermare che la paziente gli avrebbe riferito di approcci sessuali, segnatamente che il ricorrente le avrebbe messo le mani addosso (act. D7 pag. 2). Certo, nello stesso verbale _ ha soggiunto di avere subito raccontato sommariamente l'accaduto al dott. _, lamentandosi che “il dott. _ mi aveva trattato molto male, in modo volgare, mettendomi le mani addosso, aggiungendo che io non ci sarei più tornata” (sentenza, pag. 58). La Corte di assise avrebbe dovuto indagare però se la donna si fosse realmente espressa in quel modo, visto che le aiuto medico non avevano confermato il fatto nei termini da lei pretesi e verificare se il modo in cui _ si era espressa davanti al medico di famiglia fosse compatibile con l'esposto contenuto nella denuncia. Doveva interrogarsi in particolare se si trattasse di una reazione immediata (sentenza, pag. 61), corroborante la sua credibilità, _ avendo in seguito precisato di avere informato il dott. _ del modo in cui si era svolta la visita soltanto in una visita susseguente (sentenza, pag. 58 con riferimento ad act. D2). Ulteriore motivo di riflessione era costituito dal fatto che, secondo la denunciante, il dott. _ aveva cercato di sdrammatizzare la cosa (sentenza, pag. 58 sempre con riferimento ad act. D2), salvo rinunciare a insistere dopo averla vista infuriata. Ciò non esonerava la Corte di assise però dal domandarsi se una persona che avesse subìto la prevaricazione accertata nella sentenza si sarebbe limitata a protestare, ancorché in toni accesi, senza precisare che cosa fosse realmente accaduto. Che _ fosse stata molestata sessualmente con un trattamento volgare ancora non significava necessariamente, in effetti, che l'imputato avesse compiuto l'atto incriminato.
g)
Chi poteva in realtà contribuire a far luce sugli interrogativi lasciati irrisolti dalla prima Corte su quanto era avvenuto quel giorno nello studio del dott. _ era anzitutto lo stesso medico. Il quale però non è comparso al dibattimento per gravi – ancorché non meglio precisati – motivi di salute (sentenza, pag. 58). A ciò si sarebbe potuto ovviare con la lettura del verbale istruttorio, salvo che il ricorrente vi si è opposto, i suoi difensori non essendo stati ammessi dal Procuratore pubblico all'audizione del soggetto (sentenza, pag. 59). Così è venuto meno però un punto di riferimento non trascurabile per valutare la credibilità della vittima. Il momento e il contenuto del colloquio con il medico di famiglia, persona che si presume essere in maggior confidenza con la paziente, come pure il modo in cui il dott. _ ha recepito la doglianza della paziente (sempre che essa sia stata realmente manifestata in quel modo già durante la visita del 21 marzo 2001), possono costituire un riscontro utile per apprezzare l'attendibilità della denunciante nel quadro delle altre risultanze del processo, segnatamente le testimonianze circa le lamentale della donna, poco dettagliate. Un circostanziato accertamento sull'incontro con il dott. _ quel giorno appare tanto più necessario per confrontare le versioni delle parti, segnatamente per valutare se, nelle circostanze in cui si è svolto l'esame gastroscopico e alla luce dei poco lusinghieri apprezzamenti espressi dall'imputato (sentenza, pag. 59 a 61 con riferimento al verbale act. BB3), quest'ultimo aveva motivo di comportarsi come accertato nella sentenza di assise, oppure se, per finire, costui non sia solo scaduto nei disdicevoli comportamenti ricordati al pubblico dibattimento (sentenza, pag. 61). Non si tratterebbe peraltro di contrapporre le versioni reciproche in totale antitesi, nel senso che una annulli necessariamente l'altra, ma di verificare se al momento di sporgere denuncia la vittima abbia riferito dello spiacevole e riprovevole episodio in modo esagerato rispetto a quanto riferito in un primo momento al dott. _ (”mi aveva trattato molto male, in modo volgare, mettendomi le mani addosso”) e all'aiuto medico _ (approcci sessuali), rispettivamente a quanto lamentato da altre pazienti che censuravano la disinvoltura del medico.
6.
Come questa Corte ha già deciso nel ricorso contro la condanna per atti sessuali con persona incapace di discernimento o inetta a resistere, gli accertamenti mancanti e le valutazioni che ne derivano (pretesi dal Tribunale federale) non competono all'autorità di cassazione. Anche in questo caso gli atti vanno perciò rinviati a un'altra Corte di assise perché proceda all'emanazione di un nuovo giudizio sull'imputazione di tentata coazione sessuale. Prima di determinarsi, la nuova Corte dovrà cercare anzitutto di chiarire – giovi riepilogare – la reazione della vittima dinanzi al medico di famiglia, segnatamente per quanto concerne le circostanze della visita gastroscopica e la descrizione dell'asserito abuso riferite dalla donna. La Corte dovrà rideterminarsi dipoi sulla credibilità della denunciante, confrontarsi con le versioni dei protagonisti e stabilire quale di esse e in che misura è preferibile nell'ambito di una valutazione complessiva di tutti gli elementi disponibili. Senza dimenticare che _ ha affermato di avere raccontato al dott. _ l'episodio così com'è realmente successo solo in una visita successiva a quella del 21 marzo 1995, in occasione della quale si è limitata a lamentarsi di comportamenti disdicevoli, ma non ancora di atti coattivi, tanto da indurre il dott. _ a sdrammatizzare. Non si tratta di una circostanza decisiva, ma nemmeno da passare sotto silenzio. Spetterà comunque alla nuova Corte vagliarne la portata.
7.
Alla prima Corte il ricorrente rimprovera altresì di essere caduta in arbitrio fondandosi sulle inconcludenti deposizioni delle collaboratrici del dott. _ (_, _, _) e sull'altrettanto inconcludente deposizione del dott. _. Inconferenti sotto il profilo di una coazione sessuale, sempre secondo il ricorrente, risulterebbero inoltre le deposizione delle sue ex pazienti _ ed _. Tali argomentazioni andranno a loro volta vagliate in esito agli accertamenti supplementari richiesti dal Tribunale federale (sentenza, pag. 8). In mancanza di ciò non bastano, da esse sole, per prosciogliere l'imputato.
8.
Se ne conclude che, nella misura in cui è ammissibile e non è divenuto privo di oggetto (v. consid. 31 della sentenza 8 novembre 2001), il ricorso va parzialmente accolto, la sentenza impugnata annullata e gli atti trasmessi a una nuova Corte di assise perché statuisca di nuovo nel senso dei considerandi anche sull'imputazione di tentata coazione sessuale. Ciò comporta una modifica dei dispositivo n. 1 della sentenza emanata l'8 febbraio 2002 da questa Corte, che il Tribunale federale ha in parte annullato. Rimane ancora da rideterminarsi, nelle condizioni descritte, sulle spese e sulle ripetibili.
9.
La Corte di cassazione e di revisione penale giudica sulle spese (art. 15 cpv. 1 CPP). Se vi pronunciata la cassazione, lo Stato sopporta le spese posteriori all'atto che l'ha determinata (art. 15 cpv. 2 CPP). Con la sentenza dell'8 novembre 2001 questa Corte aveva addebitato gli oneri processuali allo Stato nella misura di due terzi e al ricorrente per il resto, condannando lo Stato a versare al ricorrente un'indennità di fr. 5000.– per ripetibili ridotte. A quel momento essa aveva considerato che il ricorrente otteneva causa vinta per quanto riguarda l'accusa di tentata coazione sessuale, dalla quale era prosciolto, ma usciva soccombente nella misura in cui postulava l'annullamento della sentenza impugnata, non senza uscire parzialmente vittorioso circa l'imputazione di atti sessuali con persona incapace di discernimento o inetta a resistere, da rigiudicare. Ora l'imputato esce in parte soccombente anche per quanto riguarda l'accusa di coazione sessuale, dovendo egli essere riprocessato anche a tale riguardo. Nelle circostanze descritte si giustifica dunque di addebitare gli oneri processuali al ricorrente e allo Stato in ragione di metà ciascuno. A titolo di ripetibili ridotte lo Stato verserà al ricorrente un'indennità di fr. 4000.– (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,002 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
c8d5a6f0-0e3b-5428-a4d7-d81174a7de69 | in fatto
a.
A seguito di un controllo di Polizia (25.5.2011) avvenuto ad _, frazione di _, RE 1 è stato citato presso gli uffici della Polizia cantonale in quanto sospettato autore dei reati di entrata illegale, soggiorno illegale ed attività lucrativa senza autorizzazione. Egli avrebbe infatti soggiornato presso _ e vi sarebbe stato il sospetto che fosse alle dipendenze di quest’ultimo in qualità di pastore senza essere al beneficio del necessario permesso di soggiorno (inc. MP _).
b.
In data 17.1.2012 il procuratore pubblico ha emanato un decreto di non luogo a procedere nell’ambito del sopraindicato procedimento affermando che
“(...) in considerazione del fatto che non è stato possibile assumere a verbale l’imputato (attualmente senza fissa dimora) in ossequio al diritto di essere sentiti e considerando come la versione dei fatti fornita da _ non lasci emergere alcun elemento costitutivo di reato imputabile ad RE 1, viene decretato un non luogo a procedere penale nei confronti di RE 1 (...)”
(decreto di non luogo a procedere 17.1.2012, p. 2, NLP _).
c.
Il 27.3.2012 RE 1 ha presentato al Ministero pubblico un’istanza di indennità giusta gli art. 429 ss. CPP postulando la rifusione di CHF 2'430.-- a titolo di indennità per ingiusto procedimento (CHF 3'430.-- dedotti CHF 1'000.-- già ricevuti a titolo di ripetibili per un reclamo presso questa Corte), oltre interessi di mora al 5% dal 27.3.2012 (istanza 27.3.2012, p. 3, AI 15).
d.
Con decisione 14.5.2012 il procuratore pubblico ha, in parte, respinto l’istanza sopraindicata riconoscendo unicamente CHF 1'138.-- (già dedotti CHF 1'000.-- di ripetibili) per spese legali (ritenendo la tariffa oraria di CHF 300.-- eccessiva al caso e riducendo alcune prestazioni).
e.
Con il presente gravame RE 1 chiede l’annullamento della succitata decisione e che gli venga riconosciuto un indennizzo pari a
“(...) CHF 3'039.00 di onorario, CHF 366 di spese e trasferte e CHF 25.12 di IVA, dedotti i CHF 1'000 di ripetibili, per complessivi CHF 2’430.- (...)”
(reclamo 25/29.5.2012, p. 6). A suo dire la tariffa oraria esposta dal suo avvocato, PR 1, pari a CHF 300.-- / ora sarebbe del tutto giustificata non essendo il caso di facile comprensione. Egli contesta inoltre le decurtazioni effettuate dal magistrato inquirente.
f.
Delle ulteriori argomentazioni, così come delle osservazioni del procuratore pubblico, si dirà – se necessario – in seguito. | in diritto
1.
1.1.
Giusta l’art. 393 cpv. 1 lit. a CPP il reclamo può essere interposto contro le decisioni e gli atti procedurali della polizia, del pubblico ministero e delle autorità penali delle contravvenzioni, eccettuati i casi in cui è espressamente escluso dal Codice o quando è prevista un’altra impugnativa.
Con il gravame, da introdurre davanti alla giurisdizione di reclamo (art. 20 cpv. 1 lit. b CPP), ovvero – in Ticino – alla Corte dei reclami penali (art. 62 cpv. 2 LOG), si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l’eccesso e l’abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l’accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l’inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta ed all’art. 385 CPP per la motivazione.
Esso deve indicare – in particolare – i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
1.2.
Il gravame – inoltrato il 25/29.5.2012 – contro la
decisione 14.5.2012 del procuratore pubblico con cui ha in parte negato un’indennità a RE 1 è tempestivo.
Il reclamante, quale imputato, è pacificamente legittimato a reclamare giusta l’art. 382 cpv. 1 CPP avendo un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica della decisione che ha parzialmente negato pretese a’ sensi dell’art. 429 CPP.
Le esigenze di forma e motivazione del reclamo sono rispettate.
Il reclamo è, nelle predette circostanze, ricevibile in ordine.
2.
2.1.
Giusta l’art. 429 cpv. 1 CPP, se è pienamente o parzialmente assolto o se il procedimento nei suoi confronti è abbandonato, l’imputato ha diritto a:
a. un’indennità per le spese sostenute ai fini di un adeguato esercizio dei suoi diritti procedurali;
b. un’indennità per il danno economico risultante dalla partecipazione necessaria al procedimento penale;
c. una riparazione del torto morale per lesioni particolarmente gravi dei suoi interessi personali, segnatamente in caso di privazione della libertà.
2.2.
L’autorità penale esamina d’ufficio le pretese dell’imputato. Può invitare l’imputato a quantificarle e comprovarle (art. 429 cpv. 2 CPP).
L’indennizzo e la riparazione del torto morale possono essere ridotti o rifiutati a determinate condizioni (art. 430 CPP).
Il decreto di non luogo a procedere può essere equiparato ad un decreto d’abbandono, malgrado il silenzio dei lavori preparatori e della legge (
CR CPP – C. MIZEL / V. RÉTORNAZ, art. 429 CPP n. 9;
N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 429 CPP n. 1).
Ciò non può essere tuttavia la regola:
l’art. 430 CPP prevede infatti, al cpv. 1 lit. c, che l’autorità penale possa ridurre o non accordare l’indennizzo o la riparazione del torto morale se le spese dell’imputato sono di esigua entità.
Essa codifica un principio già ritenuto dal Tribunale federale (cfr., per es., decisione 6B_976/2008 dell’8.6.2009 consid. 2.3.), secondo cui il cittadino deve sopportare il rischio, fino ad un certo grado, di un procedimento penale ingiustificato. L’obbligo di risarcimento presuppone di conseguenza una certa obiettiva gravità dell’atto di istruzione e un conseguente notevole danno.
I lavori preparatori al CPP (
Messaggio del 21.12.2005 concernente l’unificazione del diritto processuale penale, p. 1232) menzionano che gli inconvenienti minori quali l’obbligo di comparire una o due volte a un’udienza non danno diritto ad un indennizzo.
2.3.
L’art. 429 CPP
fonda una responsabilità causale dello Stato, indipendente quindi da una colpa delle autorità penali (BSK StPO – S. WEHRENBERG / I. BERNHARD, art. 429 CPP n. 6; ZK StPO – Y. GRIESSER, art. 429 CPP n. 2; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 429 CPP n. 6; Commentario CPP – M. MINI, art. 429 CPP n. 1; Messaggio del 21.12.2005 concernente l’unificazione del diritto processuale penale, p. 1231), chiamato a rispondere della totalità del danno [spese di patrocinio, danno economico e torto morale (Commentario CPP – M. MINI, art. 429 CPP n. 4 ss.)] cagionato all’imputato (cfr., sul concetto di imputato, BSK StPO – S. WEHRENBERG / I. BERNHARD, art. 429 CPP n. 8; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 429 CPP n. 2 s.).
Il nocumento deve presentare un nesso causale, ai sensi del diritto della responsabilità civile, con il procedimento penale (BSK StPO – S. WEHRENBERG / I. BERNHARD, art. 429 CPP n. 9; Commentario CPP – M. MINI, art. 429 CPP n. 1; Messaggio del 21.12.2005 concernente l’unificazione del diritto processuale penale, p. 1231) conclusosi con un decreto di abbandono oppure anche di parziale abbandono (o decreto di non luogo a procedere) o, ancora, con un’assoluzione totale oppure soltanto parziale (ZK StPO – Y. GRIESSER, art. 429 CPP n. 3; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 429 CPP n. 1/4; Commentario CPP – M. MINI, art. 429 CPP n. 3).
Le autorità penali devono pronunciarsi d’ufficio sulle pretese di indennizzo e di riparazione del torto morale, come peraltro stabilisce esplicitamente l’art. 429 cpv. 2 CPP (decisione TF 1B_475/2011 dell’11.1.2012 consid. 2.2.; decisione 1.9.2011 di questa Corte in re F.C., consid. 5.2., inc. CRP 60.2011.222).
Gli art. 317 ss. CPP TI prevedevano una normativa analoga, con principi mutuati
dalle norme sulla responsabilità del CO. Di principio, dunque, la giurisprudenza dell’allora Camera dei ricorsi penali prolata sotto l’egida delle norme precedentemente in vigore mantiene la sua validità anche in merito agli art. 429 ss. CPP.
2.4.
Giusta l’art. 429 cpv. 1 lit. a CPP l’imputato, pienamente o parzialmente assolto o nei cui confronti è stato pronunciato un decreto di abbandono (o decreto di non luogo a procedere), ha diritto ad un’indennità per le spese sostenute ai fini di un adeguato esercizio dei suoi diritti procedurali.
Si tratta, essenzialmente, della rifusione delle spese per un difensore di fiducia. Questa disposizione traspone la giurisprudenza federale e cantonale (riferita, per quanto concerne il Canton Ticino, agli art. 317 ss. CPP TI) secondo cui lo Stato si assume queste spese soltanto se il patrocinio era necessario a causa della complessità del caso sotto il profilo materiale o giuridico (non deve trattarsi di un caso bagatella) e se il volume di lavoro, e di conseguenza l’onorario dell’avvocato, erano giustificati (
Messaggio del 21.12.2005 concernente l’unificazione del diritto processuale penale, p. 1231; BSK StPO – S. WEHRENBERG / I. BERNHARD, art. 429 CPP n. 13; ZK StPO – Y. GRIESSER, art. 429 CPP n. 4; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 429 CPP n. 7; Commentario CPP – M. MINI, art. 429 CPP n. 5).
S. WEHRENBERG / I. BERNHARD (in BSK StPO, art. 429 CPP n. 14) ritengono che ogni imputato oggetto di un procedimento per un crimine o un delitto, che non è abbandonato dopo il primo interrogatorio, ha diritto ad essere assistito da un legale. Y. GRIESSER (in ZK StPO, art. 429 CPP n. 4) è della medesima opinione (aggiungendo le contravvenzioni, qualora si giunga davanti ad un Tribunale); fa un’eccezione per i casi bagatellari.
L’allora Camera dei ricorsi penali, per determinare se riconoscere all’imputato prosciolto spese legali nell’ambito di un’istanza di indennità per ingiusto procedimento, faceva riferimento ai principi in materia di difensore d’ufficio sviluppati dall’Alta Corte.
La necessità della presenza di un difensore nasceva dunque quando gli interessi dell’indiziato erano colpiti in misura importante e la fattispecie presentava difficoltà di fatto e di diritto che superavano le sue capacità e che quindi rendevano necessaria la presenza di un patrocinatore. Ciò era segnatamente il caso laddove ci si doveva attendere l’irrogazione di una pena la cui durata escludeva la sospensione condizionale della stessa o l’assunzione di misure privative della libertà personale. Nei casi in cui la verosimile aspettativa di pena era di pochi mesi si dovevano considerare le difficoltà giuridiche e fattuali della procedura, alle quali l’interessato non era in grado di far fronte (per es. la complessità delle questioni giuridiche e procedurali, la facoltà di difendersi efficacemente nella procedura). Nel caso di evidenti reati minori (“
Ba
gatelldelikte
”), ove entrava in considerazione solo una multa o una pena pecuniaria / pena privativa della libertà di poco conto, era negato il diritto costituzionale ad un patrocinatore (decisione 28.12.2010 in re C.P., inc. CRP 60.2010.422).
Principi che non sono mutati con l’introduzione del CPP.
Si può quindi continuare a riferirsi alla giurisprudenza del Tribunale federale, da cui sono stati ripresi detti principi [cfr. decisione 1B_605/2011 del 4.1.2012 consid. 2.2., concernente la difesa d’ufficio ex art. 132 cpv. 1 lit. b e cpv. 2/3 CPP, disposizione che recita: “
Chi dirige il procedimento dispone una difesa d’ufficio se: (...) b. l’imputato è sprovvisto dei mezzi necessari e una sua difesa s’impone per tutelare i suoi interessi. Una difesa s’impone per tutelare gli interessi dell’imputato segnatamente se non si tratta di un caso bagatellare e il caso penale presenta in fatto o in diritto difficoltà cui l’imputato non potrebbe far fronte da solo. Non si tratta comunque di un caso bagatellare se si prospetta una pena detentiva superiore a quattro mesi, una pena pecuniaria superiore a 120 aliquote giornaliere o un lavoro di pubblica utilità superiore a 480 ore
.”].
La giurisprudenza del Tribunale penale federale (decisione TPF BB.2011.125 del 30.5.2012 consid. 4.2.) sembrerebbe più restrittiva: fa infatti riferimento all’art. 130 CPP (difesa obbligatoria).
Questa Corte continuerà ad applicare i principi sopra descritti.
2.5.
Nella fattispecie in esame ci si può dunque chiedere se gli interessi di RE 1 sono stati colpiti in misura importante tale da escludere l’applicazione dell’art. 430 CPP e se il caso ha presentato difficoltà di fatto e di diritto che superano le sue capacità e che quindi hanno reso necessaria la presenza di un patrocinatore. Visto, in particolar modo, il reclamo interposto davanti a questa Corte dallo stesso imputato in merito allo svolgimento dell’interrogatorio davanti alla Polizia cantonale ed al suo accoglimento, a tale questione si può, eccezionalmente, rispondere positivamente.
3.
3.1.
RE 1 postula la rifusione della nota d’onorario del suo difensore, avv. PR 1, pari a CHF 2'430.-- (pari a 10 ore e 8 minuti a CHF 300.-- / ora, CHF 369.-- di spese, IVA, dedotti CHF 1'000.-- di ripetibili già concesse).
3.2.
Ora, ai sensi dell’art. 429 cpv. 1 lit. a CPP, come detto l’imputato assolto ha diritto innanzitutto a un’indennità per le spese sostenute ai fini di un adeguato esercizio dei suoi diritti procedurali.
Nel presente caso, non sono contestati l’esigenza di un patrocinatore ed il diritto ad una rifusione, ma unicamente le riduzioni delle note d’onorario operate dal magistrato inquirente.
Vanno quindi esaminate le poste relative alle note d’onorario riguardanti la difesa di RE 1 che il procuratore pubblico ha ridotto nella decisione impugnata e che quindi il reclamante ha contestato in questa sede.
3.3.
Innanzitutto per quanto attiene la tariffa oraria esposta di CHF 300.--/ora, la tesi del reclamante non merita accoglimento.
Secondo la prassi invalsa sino al 31.12.2010, l’allora
Camera dei ricorsi penali verificava la conformità della nota d’onorario al principio regolamentato all’art. 15a cpv. 2 LAvv, secondo cui per la determinazione dell’onorario l’avvocato ha riguardo alla complessità ed all’importanza del caso, al valore ed all’estensione della pratica, alla sua competenza professionale ed alla sua responsabilità, al tempo ed alla diligenza impiegati, alla situazione personale e patrimoniale delle parti, all’esito conseguito ed alla sua prevedibilità.
Per la remunerazione oraria, a partire dal 2001, l’allora Consiglio di moderazione l’aveva fissata, a dipendenza della complessità della fattispecie, a CHF 250.-- orari per i casi più semplici, senza stabilire un limite massimo. L’allora CRP ha continuato a riconoscere detto importo di CHF 250.--, anche dopo l’abrogazione della TOA, quale onorario, minimo, nell’ambito dell’istanza di indennità per ingiusto procedimento giusta gli art. 317 ss. CPP-TI [onorario ritenuto non arbitrario dal Tribunale federale (decisione TF 6B_194/2008 dell’11.8.2008, considerando 3.3.2)]. Per casi complessi, l’allora CRP applicava una tariffa oraria pari a CHF 300.--/ora (cfr. decisione 27.5.2009, inc. CRP _).
Questa Corte conferma detti importi, che appaiono ancora adeguati.
Si rileva peraltro che anche l’art. 12 cpv. 1 del regolamento del Tribunale penale federale del 31.8.2010 sulle spese, gli emolumenti, le ripetibili e le indennità della procedura federale prevede che l’indennità oraria ammonta almeno a CHF 200.-- e al massimo a CHF 300.--. Non va inoltre dimenticato che, in una recente sentenza, il TF ha stabilito che, in ambito civile (art. 122 cpv. 1 litt. a CPC), una tariffa oraria minima di CHF 180.--/ora per avvocato (e CHF 110.--/ora per praticante) sia da ritenersi equa ed adeguata in caso di difesa d’ufficio (decisione TF 4C_2/2011 del 17.5.2011).
La fattispecie in esame non può in alcun modo essere considerata di una complessità tale da giustificare l’applicazione di una tariffa oraria particolare.
Conformemente alla prassi della Camera dei ricorsi penali, ripresa da questa Corte, e considerata la complessità della fattispecie, un’indennità di CHF 250.-- / ora può essere ritenuta adeguata.
3.4.
Il reclamante contesta inoltre le decurtazioni effettuate dal procuratore pubblico relative alle prestazioni dell’avv. PR 1 del 3.6.2011
“ricevo ed esamino atti da MP Lugano 12p. x fax”
(ridotta da 30 minuti a 20 minuti), del 6.6.2011
“studio documentazione, analisi e redazione reclamo a Corte dei reclami penali, Lugano 8pg./4cp x racc”
(ridotta da 4 ore a 3 ore), del 20.6.2011
“r. ed esame osservazioni PP e Comando di Polizia”
(ridotta da 30 minuti a 15 minuti) e del 27.6.2011
“studio, preparazione e stesura replica ad osservazioni PP Respini e Comando polizia cantonale alla Camera dei ricorsi penali, TA, 6pg./3cp. x racc.”
(ridotta da 2 ore e 30 minuti a 1 ora e 30 minuti). A dire di RE 1
“(...) la questione che ha fatto oggetto dell’atto ricorsuale in disamina verteva su concetti e aspetti nuovi, introdotti con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, ciò che inconfutabilmente permette di affermare che anche ad un ‘avvocato sperimentato nel diritto penale’ necessita di quel tempo atto ad apprendere e valutare le novità del caso di specie (...)”
(reclamo 25/29.5.2012, p. 5).
La retribuzione dell’avvocato, secondo la giurisprudenza del Tribunale federale, deve stare in un rapporto ragionevole con la prestazione fornita e la responsabilità del libero professionista, in considerazione della natura, dell’importanza, della complessità, delle difficoltà particolari in fatto o in diritto della causa, come pure della condizione economica del cliente e del valore litigioso della causa, suscettibile di influire sulla responsabilità del mandatario. Né possono essere dimenticati il tempo consacrato dal difensore allo studio e alla trattazione dell’incarto, segnatamente quello destinato ai colloqui e alle udienze presso le autorità di ogni istanza, e il risultato ottenuto (DTF 122 I 1; DTF 117 Ia 22; decisione TPF BB.2011.125 del 30.5.2012 consid. 4.2.).
Dagli atti di causa si evince come il procedimento penale aperto nei confronti di RE 1 non abbia comportato numerosi atti istruttori: l’avv. PR 1 ha infatti assunto il suo patrocinio in data 30.5.2011, non ha presenziato ad alcun interrogatorio (non essendocene più stati dopo quello del 25.5.2011), e si è occupato, prevalentemente, del reclamo inoltrato a questa Corte (peraltro simile a quello presentato per l’altro suo patrocinato, _). Pertanto, tutto sommato, tenuto conto di quanto esposto, della natura, della durata e dell’esito del procedimento, nonché del grado di difficoltà e degli atti istruttori compiuti, la scrivente autorità ritiene la decurtazione effettuata dal procuratore pubblico ragionevole e compatibile con la necessaria attività espletata dal legale nella difesa del suo assistito.
Al contrario, la riduzione effettuata dal magistrato inquirente per la prestazione dell’8.8.2011 effettuata dall’avv. PR 1
“r. ed esame decisione CRP”
(dedotta da 1 ora a 20 minuti), non può essere condivisa: per una lettura attenta della sentenza di questa Corte (di 16 pagine), alfine di comprenderne tutte le implicazioni, era effettivamente necessario un dispendio orario di 1 ora. Tempo che forse avrebbero dovuto utilizzare, nella lettura di tale sentenza, anche le autorità preposte al secondo interrogatorio di _.
4.
Al reclamante vanno dunque riconosciute 7 ore e 40 minuti a CHF 250.--/ora per complessivi CHF 1’917.--, oltre CHF 369.50 di spese e CHF 18.50 di IVA, per un totale di CHF 2'305.--. Da tale importo vanno dedotti CHF 1'000.-- già percepiti da RE 1 a titolo di ripetibili. Egli riceverà dunque CHF 1'305.--, IVA compresa, a titolo di indennizzo per spese legali.
5.
Il gravame è parzialmente accolto. Spese e tasse di giustizia ridotte sono poste a carico di RE 1, parzialmente soccombente. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
ca0c57f0-a172-5c6a-a1b0-75dd645a6be2 | in fatto ed in diritto
1
. Con sentenza 27.1.2009 la Corte delle assise criminali ha riconosciuto, tra l’altro, _ autore colpevole (anche) di omicidio intenzionale per avere, a _, in data _, in correità con un terzo, intenzionalmente concorso a cagionare la morte di _. L’accusato è stato condannato alla pena detentiva di dieci anni (inc. TPC _) [giudizio confermato il 17.6.2009 dall’allora Corte di cassazione e di revisione penale e, di seguito, l’11.3.2010 dal Tribunale federale].
2
. Con istanza 14/15.9.2010 l’IS 1 ha chiesto – per conto del dottor _, medico psichiatra, che segue _ presso il carcere di _, dove sta scontando la pena – di potere disporre del rapporto peritale effettuato su _ e delle eventuali fotografie scattate alla vittima (sia sul luogo del reato sia successivamente), e questo al fine della terapia: la visione di detti atti avrebbe infatti aiutato _ ad entrare nella consapevolezza e nella responsabilità rispetto al reato, che sarebbero stati ancora poco presenti.
Il 30.9/1.10.2010 l’IS 1 – in replica alle prese di posizione del magistrato inquirente e, soprattutto, degli PI 2 (che si sono opposti alla domanda per motivi di privacy e di discrezione, che avrebbero reso sproporzionata la richiesta) – ha sottolineato che, ai fini dell’applicazione dell’art. 75 cpv. 1/4 CP, la presa a carico in istituto carcerario sarebbe stata centrata sul delitto e nella triade “
riconoscimento, responsabilizzazione, cambiamento
”. Nel caso concreto il medico psichiatra dell’istituto carcerario di _ avrebbe reputato indispensabile, per la fase del “
riconoscimento
”, confrontare il condannato con la realtà effettiva ed inequivocabile dei suoi agiti. Questo perché lo sviamento psicologico e la banalizzazione dell’atto non avrebbero lasciato spazio per un’evoluzione verso l’assunzione definitiva di responsabilità nell’atto e nelle sue tragiche conseguenze. Ha inoltre evidenziato che il materiale sarebbe stato consegnato in mano esclusiva al medico, senza alcuna trasmissione a _ o a terze persone. Infine, ha rimarcato il profondo rispetto per la vittima e per i suoi famigliari, accentuando che l’istanza avrebbe dovuto essere accolta (oltre che per la protezione della società) proprio perché era dovuta alla vittima ed ai famigliari la completa assunzione di responsabilità.
3
. Per quanto attiene al diritto applicabile, giusta l’art. 448 cpv. 1 CPP, in vigore dal 1°.1.2011, i procedimenti pendenti al momento dell’entrata in vigore del CPP sono continuati secondo il nuovo diritto, in quanto le disposizioni di cui agli art. 450 ss. CPP non prevedano altrimenti. Gli atti procedurali disposti o eseguiti prima dell’entrata in vigore del CPP mantengono la loro validità (art. 448 cpv. 2 CPP).
A norma dell’art. 449 cpv. 1 CPP i procedimenti pendenti al momento dell’entrata in vigore del CPP sono continuati dalle autorità competenti in virtù del nuovo diritto, in quanto le disposizioni di cui agli art. 450 ss. CPP non prevedano altrimenti.
4
. Il previgente art. 27 del Codice di procedura penale ticinese (CPP/TI), in vigore dall’1.1.1996 fino al 31.12.2010, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabiliva che:
"
Oltre ai casi previsti dal presente codice, la Camera dei ricorsi penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti. La Camera dei ricorsi penali fissa le modalità dell’ispezione
"
.
Dal 1°.1.2011 l’esame degli atti inerente a procedimenti penali pendenti è regolato dagli articoli 101 e 102 CPP (BSK StPO – M. SCHMUTZ, Basilea 2011, n. 4 ad art. 101 CPP). Il diritto di esaminare gli atti spetta alle parti [101 cpv. 1 e 107 cpv. 1 lit. a CPP, tra cui figurano l’imputato, l’accusatore privato, il pubblico ministero nella procedura dibattimentale e in quella di ricorso (art. 104 cpv. 1 CPP) e le autorità cui la Confederazione o i Cantoni hanno conferito pieni o limitati diritti di parte (art. 104 cpv. 2 CPP)], agli altri partecipanti al procedimento (105 cpv. 1 e cpv. 2 CPP), alle altre autorità (art. 101 cpv. 2 e 194 cpv. 1 e 2 CPP) e a terzi (art. 101 cpv. 3 CPP), e ciò evidentemente a determinate condizioni (cfr., nel dettaglio, BSK StPO – M. SCHMUTZ, op. cit., n. 5 ss. ad art. 101 CPP). Giusta l’art. 102 cpv. 1 CPP chi dirige il procedimento (cfr., al proposito, art. 61 CPP) decide in merito all’esame degli atti.
Per contro, per quanto concerne l’esame di procedimenti penali conclusi (come nella fattispecie in esame), il CPP non fissa un’espressa norma. A livello cantonale l’art. 62 cpv. 4 LOG, in vigore dall’1.1.2011, prevede che:
"
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
", riprendendo, in sostanza, quanto sancito dall’art. 27 CPP/TI.
5
. 5.1.
L’art. 62 cpv. 4 LOG impone, anzitutto, l’esame degli interessi delle parti toccate dagli atti oggetto della richiesta, ossia dei famigliari di _ e del detenuto _.
5.2.
_, secondo quanto emerge dallo scritto 30.9/1.10.2010 dell’IS 1, si troverebbe nella prima fase del suo percorso di risocializzazione (comprendente “
riconoscimento, responsabilizzazione, cambiamento
”), ovvero nella fase del “
riconoscimento
”, nel cui contesto – secondo il terapeuta psichiatrico che lo segue – sarebbe indispensabile confrontare il detenuto con la realtà effettiva ed inequivocabile delle sue azioni, perché lo sviamento psicologico e la banalizzazione dell’atto non lascerebbero spazio per un’evoluzione verso l’assunzione definitiva di responsabilità nell’atto e nelle sue tragiche conseguenze.
Da qui la domanda 14/15.9.2010 di visionare il rapporto peritale effettuato su _ e le eventuali di lui fotografie.
5.3.
Ora, giusta l’art. 75 cpv. 1 frase 1 CP – invocato dall’istante – l’esecuzione della pena deve promuovere il comportamento sociale del detenuto, in particolare la sua capacità a vivere esente da pena. La risocializzazione del condannato-detenuto è quindi il compito principale dell’esecuzione della pena, che si deve attenere al principio della prevenzione speciale (BSK Strafrecht I – B. F. BRÄGGER, 2. ed., Basilea 2007, n. 1 ss. ad art. 75 CP).
Al fine di concretizzare quanto esatto dalla disposizione citata, il detenuto deve partecipare attivamente agli sforzi di risocializzazione ed alla preparazione della liberazione (art. 75 cpv. 4 CP), ciò che si realizza – innanzitutto – con la presa di coscienza del reato. La risocializzazione implica infatti che il detenuto comprenda quello che ha commesso e per cui è stato condannato, affinché – in futuro – non ricada negli stessi comportamenti (BSK Strafrecht I – B. F. BRÄGGER, op. cit., n. 27 ad art. 75 CP).
La partecipazione del detenuto alla realizzazione degli obiettivi previsti dal piano di esecuzione è presupposto per la concessione di un regime di detenzione agevolato (BSK Strafrecht I – B. F. BRÄGGER, op. cit., n. 28 ad art. 75 CP). Il suo contributo a detta realizzazione consiste, segnatamente, nel sottoporsi – meglio: nel collaborare attivamente – ad un trattamento terapeutico. La regolare partecipazione del detenuto ad una terapia condiziona invero la concessione o meno di agevolazioni carcerarie (BSK Strafrecht I – B. F. BRÄGGER, op. cit., n. 28 ad art. 75 CP).
Un trattamento terapeutico a favore di _ non è di conseguenza solo auspicabile, ma è addirittura necessario per la sua piena presa di coscienza del reato, ovvero per la risocializzazione e la preparazione della liberazione (art. 75 cpv. 4 CP), ed è peraltro in corso.
E’ quindi certo fondamentale, al fine di raggiungere lo scopo appena indicato, “
(...) confrontare l’interessato con la realtà effettiva ed inequivocabile dei suoi agiti
” (scritto 30.9/1.10.2010).
Ora, la sentenza di condanna 27.1.2009 della Corte delle assise criminali (inc. TPC _) – intimata anche a _ – riporta in maniera ineccepibile e cristallina come si sono svolti i fatti la sera dell’_ ed il ruolo avuto da questi nel decesso di _ (cfr., per esempio, p. 142 della decisione).
La lettura del predetto giudizio permette pertanto al detenuto di confrontarsi con la realtà effettiva ed inequivocabile della sua condotta, senza necessità di accedere ad altri atti dell’incarto.
Il rapporto peritale del dr. med. _ è peraltro (forzatamente) tecnico e specialistico: la sussunzione delle sue conclusioni ai comportamenti di _ – atti con cui la terapia intende porlo di fronte – è stata fatta dalla Corte di merito (p. 143 della citata sentenza): quest’ultima lettura è certamente più utile rispetto a quella della perizia.
Le fotografie di _, di cui l’IS 1 chiede la visione, non palesano particolari lacerazioni visibili all’esterno del corpo della vittima, stante la dinamica dei fatti (pedate alla testa). Non si vede come la loro eventuale visione potrebbe aiutare il detenuto a meglio confrontarsi con la sua condotta, che – come detto – bene si evince dalla sentenza 27.1.2009.
Certo, esse mostrano il risultato delle sue azioni, ovvero il corpo esanime di un giovane uomo, e di conseguenza la realtà effettiva ed inequivocabile di quanto ha commesso la sera dell’_. Da questo punto di vista, c’è da chiedersi se siano necessarie delle foto della vittima per far capire la distinzione tra la vita e la morte.
Per contro, permettere alla persona condannata per il suo omicidio di vedere il corpo senza vita di _, significherebbe – ora, a procedimento penale concluso definitivamente – oltraggiare il sentimento di
pietà
[bene giuridico tutelato anche dal diritto penale, per esempio, dagli art. 175 e 262 CP (StGB PK –
S. TRECHSEL, Zurigo/S. Gallo 2008, n. 1 ss. ad art. 175 CP – V. LIEBER – e n. 1 ss. ad art. 262 CP – H. VEST –)
] dei suoi congiunti, che hanno diritto al di lui rispetto ed alla di lui pace
post mortem
.
Pietà
, rispetto e pace sarebbero infatti manifestamente lesi qualora si concedesse ad uno degli autori della sua morte violenta di visionare immagini appartenenti alla sfera privatissima della vittima e dei suoi famigliari. Le fotografie devono perciò, per l’appunto, restare private, inaccessibili a terzi.
In queste circostanze, gli interessi dei famigliari di _ prevalgono di conseguenza su quelli di _, il quale – come detto – potrà confrontarsi con il suo comportamento leggendo e rileggendo la sentenza 27.1.2009 della Corte delle assise criminali (inc. TPC _), che lo ha condannato.
6
. L’istanza è respinta. Non si prelevano tassa di giustizia e spese in considerazione dei compiti di legge dell’Ufficio qui istante. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
cad0c286-60f6-576c-9f5d-114366c285c2 | in fatto A.
Con sentenza del 24 aprile 2002 la presidente della Corte delle assise correzionali di Lugano ha riconosciuto _ autore colpevole di violazione aggravata della legge federale sugli stupefacenti per avere, dal gennaio del 2001 al 7 gennaio 2002, venduto circa 700 g di eroina nel Luganese e in altre località della Svizzera. _ è stato riconosciuto inoltre autore colpevole di ripetuta infrazione alla legge federale concernente il domicilio e la dimora degli stranieri per essere entrato illegalmente in Svizzera, fra il gennaio del 1999 la metà di ottobre del 2001, senza un valido documento di legittimazione e il necessario visto dai valichi di _ e _ e per avere soggiornato illegalmente a Zurigo, Rapperswil e in altre località fra la metà di ottobre 2001 e il 7 gennaio 2002. In applicazione della pena, la presidente della Corte ha condannato _ a 2 anni e 3 mesi di detenzione (computato il carcere preventivo sofferto) e all'espulsione effettiva dalla Svizzera per 10 anni. Essa ha ordinato infine la confisca di un cellulare, di carte telefoniche e della documentazione cartacea posta sotto sequestro.
B.
Contro la sentenza di assise _ ha introdotto il 25 aprile 2002 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi del ricorso, presentati il 4 giugno successivo, egli chiede che la condanna a suo carico sia ridotta a 18 mesi di detenzione sospesi condizionalmente e all'espulsione dalla Svizzera per un periodo limitato a 7 anni. In subordine egli postula l'annullamento della sentenza impugnata e il rinvio degli atti a un'altra nuova Corte di assise per nuovo giudizio. Il ricorso non è stato oggetto di intimazione. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorrente si duole anzitutto della pena irrogatagli, giudicandola eccessivamente severa per rapporto al grado di colpa, al comportamento processuale, segnatamente alla collaborazione prestata, alla modesta qualità delle droga spacciata, alla situazione personale, alla vita anteriore e a sentenze pronunciate in casi analoghi. Ora, il giudice commisura la pena alla colpa del reo tenendo conto dei motivi a delinquere, della vita anteriore e delle condizioni personali di lui (art. 63 CP). La gravità della colpa è il criterio fondamentale per la fissazione della pena. A tale riguardo entrano in considerazione numerosi fattori: movente e circostanze esterne, intensità del proposito (determinazione) o della negligenza, risultano ottenuto, assenza di scrupoli, modi di esecuzione del reato, entità del pregiudizio arrecato volontariamente, durata o reiterazione dell'illecito, ruolo in seno a una banda e così via. Per quanto riguarda l'autore, in particolare, occorre considerare la sua situazione familiare professionale, l'educazione ricevuta e la formazione seguita, l'integrazione sociale, gli eventuali precedenti e la reputazione in genere. Anche il comportamento dopo la perpetrazione del reato entra in linea di conto, compresa la collaborazione pestata con gli inquirenti e la volontà di emendamento (DTF 124 IV 44 consid. 2d con rinvio a DTF 17 IV 112 consid. 1).
2.
Nella commisurazione della pena il giudice di merito fruisce di ampia autonomia quando valuta l'importanza di ogni singolo fattore. Egli deve indicare perciò quale peso attribuisce ai vari elementi considerati, non necessariamente in cifre o percentuali, ma in modo che l'autorità di ricorso possa – pur rispettando la sua latitudine di apprezzamento – seguire il suo ragionamento e controllare l'applicazione ella legge (
Queloz
, Commentaire de la jurisprudence du Tribunal fédéral en matière de fixation et de motivation de la peine, in: RPS 116/1996 pag. 136 segg.). Sapere se la pena risponda a tali esigenze e rientri nei limiti edittali è una questione di diritto, che va quindi esaminata liberamente dalla Corte di cassazione e di revisione penale; nella commisurazione della pena, per contro, questa Corte interviene solo – come il Tribunale federale – ove il giudice di merito sia stato esageratamente severo o esageratamente mite, la punto da cadere nell'eccesso o nell'abuso del potere di apprezzamento (DTF 127 IV 101 consid. 2c, 123 IV 49 consid. 2a, 122 IV 155 consid. 3b, 241 consid. 1a, 299 consid. 2a, 121 IV 3 consid. 1a).
3.
Per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, esso ha – secondo costante giurisprudenza – un'importanza limitata nell'ambito della commisurazione della pena, ove prevale il principio dell'individualizzazione voluto dal legislatore. Un'eventuale disuguaglianza di per sé non è quindi sufficiente per ravvisare un eccesso o un abuso del potere di apprezzamento, ma deve apparire come una disparità flagrante e manifestamente ingiustificata. Il confronto con casi precedenti o con altri imputati suole perciò essere infruttuoso, poiché ogni fattispecie comporta inevitabilmente, a causa delle peculiarità oggettive e soggettive, una certa disuguaglianza (DTF inedita del 18 aprile 2002 in re B., consid. 8b/bb; cfr. anche DTF 124 IV 44 consid. 2c, 123 IV 150 consid. 2). Ne segue che, in materia di parità di trattamento, la Corte di cassazione e di revisione penale interviene solo – come il Tribunale federale – quando il giudice di merito abbia ecceduto a abusato del proprio potere di apprezzamento, dando luogo a una disparità evidente (CCRP, sentenza del 15 marzo 2001 in re R., consid. 5d/cc con riferimento a DTF inedita del 6 marzo 1998 in re M., consid. 4b in fine).
4.
Nell'infliggere all'imputato la pena di 2 anni e 3 mesi di detenzione la presidente della Corte delle assise correzionali ha ritenuto oggettivamente grave la colpa, avuto riguardo alla quantità di droga spacciata (700 g di eroina) ripetutamente sull'arco di circa un anno per mero scopo di lucro, non essendo egli consumatore. La colpa è stata ritenuta anzi particolarmente grave perché, a differenza di molti altri connazionali, l'imputato era riuscito a regolarizzare la sua situazione in Italia, uscendo dalla clandestinità e ottenendo uno statuto che gli consentiva di vivere nel Comasco in modo trasparente, con la possibilità di intraprendere un lavoro onesto e di integrarsi socialmente. Invece, ha soggiunto la prima giudice, l'accusato ha preferito il facile guadagno grazie alla spaccio di stupefacenti. Lasciata la moglie italiana, egli ha ripreso a frequentare connazionali fino a incontrarne taluni dediti allo spaccio di eroina e a diventare loro simile. Spariti costoro, egli ha trovato altri fornitori tra i suoi connazionali, dei quali nulla si sa, se non che sono stati in grado di consegnargli all'occasione sacchetti “minigrip” da 5 g per la rivendita. Premesso che la condanna di 32 mesi di detenzione proposta dal Procuratore pubblico sarebbe di per sé adeguata alla colpa dell'imputato, visti anche i suoi precedenti penali (ancorché lievi) e la vita scioperata che egli stava conducendo, la prima Corte ha nondimeno fissato la pena in 2 anni e 3 mesi di detenzione per tenere conto della confessione sulle quantità commerciate (700 g di eroina) e della sua condizione personale, familiare e sociale di giovane cresciuto orfano di padre in una paese travagliato, dal quale si è allontanato ancora minorenne, attratto dalla speranza di una vita migliore (sentenza, pag. 8 e 9).
5.
Il ricorrente critica in primo luogo alcuni accertamenti contenuti nella sentenza impugnata. Al riguardo giova ricordare tuttavia che il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto, non destinato a rimettere in causa l'accertamento dei fatti o la valutazione delle prove (art. 288 cpv. 1 lett. a CPP), sindacabili unicamente se il giudizio impugnato denota estremi di arbitrio (art. 288 cpv. 1 lett c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia discutibile o finanche erroneo, bensì manifestamente insostenibile o in aperto contrasto con gli atti (DTF 127 I 56 consid. 2b, 126 I 170 consid. 3a, 125 I 168 consid. 2a, 124 I 208 consid. 4a). Per motivare una censura di arbitrio non basta quindi criticare la decisione impugnata, né contrapporre a quest'ultima una propria versione dei fatti, per quanto preferibile essa appaia. Occorre invece spiegare per quale ragione l'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove siano manifestamente insostenibili, si trovino in chiaro contrasto con gli atti, contraddicano in modo urtante il sentimento di giustizia e di equità (DTF 125 II 10 consid. 4a, 124 IV 86 consid. 2a, 123 I 12 consid. 4a, 122 I 61 consid. 3a) o poggino unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b, 112 Ia 369 consid. 3). Secondo giurisprudenza, inoltre, una sentenza incorre nell'annullamento quando è arbitraria non solo nella motivazione, ma anche nel risultato (DTF 125 II 129 consid. 5b, 124 II 166 consid. 2a, 124 I 108 consid. 4a, 122 I 253 consid. 6c con rinvii).
6.
Stando al ricorrente la Corte di assise sarebbe caduta in un primo arbitrario accertamento dei fatti, rilevando che in aula egli ha dato atto di non avere ancora informato la moglie della sua carcerazione consecutiva all'apertura del procedimento penale. Rileva in sintesi che ciò è dovuto solo al regime detentivo cui è stato sottoposto, che gli ha impedito di avere contatti con l'esterno. Soggiunge di avere chiesto formalmente di essere autorizzato a telefonare alla moglie, ma nonostante il parere favorevole del Procuratore pubblico la presidente della Corte di merito, cui l'istanza è stata trasmessa per competenza, non ha preso alcuna decisione. Non potendogli essere rimproverato alcunché, il fatto evocato dalla prima giudice non può perciò – conclude il ricorrente – pesare sulla commisurazione della pena. In realtà il fatto non ha pesato, tant'è che al momento di commisurare la pena la Corte non ha biasimato l'accusato per non avere informato la moglie del suo stato di detenzione. Gli ha ricordato soltanto di averla lasciata per riprendere i contatti con taluni suoi connazionali (sentenza, pag. 8; v. anche pag. 4), prendendo atto del suo desiderio di ricongiungersi con lei a Como (sentenza, pag. 5).
7.
Sostiene il ricorrente che la prima Corte è caduta in arbitrio accertando che egli ha venduto 700 g di eroina, mentre egli ha spacciato non più di 630 g, dovendosi aggiungere ai 100 g di eroina trattati nella Svizzera interna i 530 g dichiarati dai tossicodipendenti _, _ ed _. La critica non manca di disinvoltura, ove appena si pensi che l'imputato medesimo ha ammesso di avere venduto complessivamente 700 g di eroina (quantità corrispondente a quella indicato nell'atto di accusa), di cui 600 g ad acquirenti del Luganese (sentenza, pag. 5 e 6). Per di più risulta dalla sentenza impugnata che egli ha riconosciuto di avere preso in consegna da due suoi connazionali (_ed _) 600 g di eroina e di averli spacciati (sentenza, pag. 6). Al proposito il ricorso non merita perciò altra disamina.
8.
Il ricorrente definisce irrilevante il rimprovero mossogli dalla presidente della Corte di assise, la quale lo ha criticato per non avere dato ragguagli sull'identità di chi lo aveva ospitato in un appartamento a Zurigo, fornendogli eroina. Ricorda che negli interrogatori davanti al Procuratore pubblico egli aveva insistito sul fatto che la mancata collaborazione non dipendeva da cattiva volontà, ma dalla reale impossibilità di fornire informazioni più precise sull'identità di quelle persone. Rammenta pure di essersi dichiarato disponibile a riconoscere tali individui dalle fotografie. Con argomenti del genere però egli non sostanzia alcun arbitrio. Manifestare scetticismo di fronte alle dichiarazioni del ricorrente, che affermava di non avere idea dell'identità dei connazionali nel cui appartamento egli si era trasferito non è sicuramente insostenibile. La questione è del resto senza interesse poiché la prima Corte, pur sottolineando che tutto si ignora sull'identità delle persone che hanno fornito droga al ricorrente durante il soggiorno a Zurigo, non ha fatto dipendere la pena da tale constatazione, la quale non ha influito né a favore né a sfavore dell'imputato (sentenza, pag. 8).
9.
Secondo il ricorrente, l'atto d'accusa e la sentenza impugnata indicano erroneamente i periodi in cui sono state commesse le infrazioni, tempi che non sono stati chiariti né dall'inchiesta né al dibattimento. E siccome i reati sono strettamente connessi l'uno all'altro, non è possibile fondarsi su due periodi diversi nella medesima sentenza, onde un ulteriore arbitrio nell'accertamento dei fatti. A prescindere dal fatto però che l'imputato non risulta avere sollevato tale argomento davanti alla Corte di merito, per finire egli non pretende che nel caso in cui la Corte di cassazione e di revisione penale considerasse fondata la critica, gli deriverebbe un qualsivoglia vantaggio nella commisurazione della pena. La doglianza è quindi inconcludente.
10.
Per quanto riguarda il grado di purezza della droga, il ricorrente fa valere che esso era inferiore al 10%, contrariamente a quanto sembra desumersi dalla sentenza impugnata. In realtà la Corte di assise non ha rimproverato all'imputato di avere spacciato droga di buona qualità. Si è limitata a rilevare che, smerciando 700 g di eroina, egli ha violato in modo aggravato la legge federale sugli stupefacenti quand'anche ci si dipartisse, prudenzialmente, da un basso tenore di purezza dell'eroina, dell'ordine ad esempio del 10%, tipico della cosiddetta eroina di strada. Per quanto sussistessero indizi che l'eroina venduta fosse – almeno in parte – di qualità migliore, alcuni grammi provenienti da una fornitura ceduta da _ a tale _ essendo risultati puri nella proporzione del 27.9% (sentenza, pag. 7; v. act. 9a), la Corte non si è formalizzata al riguardo. Il ricorrente obietta, certo, che l'inchiesta non ha provato trattarsi, nel caso di _, di stupefacente da lui fornito. Egli non pretende però che costei si approvvigionasse anche da altri oppure acquistasse altra droga. Comunque sia, nella commisurazione della pena la Corte di assise non si è formalizzata sulla circostanza che l'imputato abbia spacciato pure droga di buona qualità. Non soccorre quindi attardarsi al riguardo.
11.
Il ricorrente asserisce che, come traspare dalle motivazioni della sentenza impugnata, la condanna a 2 anni e 3 mesi di detenzione è stata determinata dalla quantità dello stupefacente venduto, un criterio che secondo giurisprudenza è di poco rilievo sotto il profilo dell'art. 63 CP. Inoltre la prima Corte avrebbe considerato come circostanza aggravante – a torto – la sua situazione personale, migliore rispetto a quella di altri suoi i suoi connazionali. Infine, secondo il ricorrente, la prima Corte avrebbe scarsamente tenuto conto della sua spontanea confessione, del suo sincero pentimento e della sua vita anteriore.
a)
La pena irrogata al ricorrente si situa nell'ampio quadro legale previsto per i casi di infrazione aggravata alla legge federale sugli stupefacenti (art. 19 n. 1 cpv. 3 e n. 2 lett. a LStup e 35 CP). In concreto la colpa è sicuramente grave. Né la Corte di merito ha posto l'accento in modo preponderante sulla quantità della droga trattata, che in ogni modo non va dimenticata (DTF inedita del 18 aprile 2002 in re B., consid. 8c). Essa ha sottolineato piuttosto la reiterazione nel delinquere e il basso movente del lucro, l'imputato non essendo consumatore di stupefacenti. Nemmeno si può rimproverare alla presidente della Corte di assise un abuso o un eccesso del potere di apprezzamento per avere giudicato più grave la colpa dell'accusato rispetto a quella di altri albanesi trafficanti. Regolata la sua situazione e uscito dalla clandestinità, l'imputato aveva motivo per valutare le sue scelte. Per il resto la Corte ha ponderato anche gli elementi a favore dell'imputato, come la confessata vendita di 700 g di eroina, la collaborazione con gli inquirenti, la situazione personale, familiare e sociale, in particolare la difficile infanzia (sentenza pag. 9).
b)
Ne discende che la sanzione irrogata, ancorché severa, non risulta commisurata secondo criteri estranei all'art. 63 CP e nemmeno costituisce la risultante di un eccesso o di un abuso del potere di apprezzamento. Quanto al richiamo della sentenza indicata a pag. 12 del ricorso, esso è infruttuoso già per il fatto che il ricorrente non spiega dove risiederebbe, dandosene il caso, un'eventuale flagrante disparità di trattamento rispetto al suo caso (sopra, consid. 4).
12.
Il ricorrente insorge infine contro la durata dell'espulsione (10 anni) pronunciata dalla Corte di assise, ritenendola manifestamente sproporzionata rispetto alla pena principale e alla proposta formulata nella requisitoria dal Procuratore pubblico (7 anni). Tanto più che, secondo il ricorrente, la sentenza di assise nemmeno illustra i motivi che hanno indotto la prima Corte a pronunciare una sanzione tanto pesante.
a)
Accertato che il ricorrente non ha alcun legame con la Svizzera, la presidente della Corte di assise ne ha ordinato l'espulsione effettiva per 10 anni. Ha motivato tale decisione rilevando che l'accusato non ha un diritto soggettivo a rimanere nel nostro paese e che la tutela dell'ordine pubblico di fronte a gravi e pericolosi spacci di eroina deve prevalere. Essa ha pure escluso la sospensione condizionale del provvedimento, formulando prognosi negativa sulla condotta futura del condannato, che non potrà ottenere un permesso di lavoro in Svizzera. Nel Comasco invece egli potrà trovare un lavoro onesto. Gli si consentisse di entrare in Svizzera anche solo per diporto, egli correrebbe il rischio di tornare in contatto con i tossicodipendenti ticinesi cui ha venduto droga, i quali potrebbero indurlo nella tentazione di ricominciare le provviste (sentenza, pag. 9).
b)
Se la pronuncia dell'espulsione (art. 55 cpv. 1 CP) e la sua mancata sospensione condizionale (art. 41 n. 1 CP) non prestano il fianco a critiche, qualche riflessione merita la durata del provvedimento. In DTF 123 IV 107 il Tribunale federale ha infatti stabilito che, di regola, tra la durata della pena principale e quella dell'espulsione deve sussistere una certa corrispondenza. Qualora pronunci un'espulsione di lunga durata accanto a una pena principale lieve o un'espulsione di durata corta a fianco di una grave pena principale, il giudice deve motivare sufficientemente la propria decisione. In quel caso il Tribunale federale aveva perciò rinviato gli atti all'autorità cantonale, chiamata a spiegare per quale motivo di fronte a una pena di 18 mesi di detenzione (sospesa condizionalmente) per incendio intenzionale e danneggiamento, essa avesse pronunciato un'espulsione di 10 anni.
c)
Nel caso in esame la sentenza di assise non appare particolarmente motivata: la Corte non ha accennato né ai motivi che l'hanno indotta a ritenere troppo breve la durata di 7 anni proposta dal Procuratore pubblico né al fatto di essersi scostata dalla più mite requisitoria. Ancorché al limite, questa Corte può esimersi nondimeno dall'intervenire. Per rapporto al caso esposto in DTF 123 IV 107, nella fattispecie la colpa dell'accusato è indubbiamente grave, ove appena si consideri l'entità della pena. E, di regola, di fronte a una colpa grave aumenta l'esigenza di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica (DTF 123 IV 111). La prima Corte aveva motivo di dimostrarsi severa anche per il tipo di reato commesso e per la facilità dimostrata dall'imputato nel mettersi in relazione con trafficanti di eroina. Per di più, l'imputato non ha alcun punto di riferimento in Svizzera (DTF 123 IV 111 in alto), a parte i trafficanti di droga e i tossicomani acquirenti. È vero che il reale rischio di recidiva nello spaccio di droga in caso di accesso al territorio svizzero va apprezzato soprattutto al momento di formulare il pronostico sulla futura condotta (art. 41 n. 1 CP) e non tanto al momento di determinare la durata dell'espulsione. Nondimeno, anche tale fattore non va disconosciuto nell'applicazione dell'art. 55 cpv. 1 CP. Nel risultato non si può dire quindi che la Corte di assise abbia ecceduto o abusato del proprio potere di apprezzamento stabilendo in 10 anni il periodo dell'espulsione. Anche su questo punto il ricorso è pertanto destinato all'insuccesso.
14.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 con rinvio all'art. 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,002 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
cb12370f-30b3-5ff8-ac01-286d0ab65bff | in fatto:
A.
Con atto d’accusa 23 aprile 2008 il procuratore pubblico ha imputato al dott. med. RI 1 un’infrazione alla Legge federale sugli stupefacenti (e meglio, all’art. 19 cifra 1 LStup) per avere, dal mese di ottobre 1996 fino al 9 febbraio 2007, senza essere autorizzato, nella sua qualità di medico generico con studio in proprio, procurato a _ grandi quantità di capsule dimagranti contenenti benzodiazepine e amfepramone 35 e 40 mg, sapendo che quest’ultimo, non essendo abilitato all’esercizio della professione medica, non poteva né ottenere le forniture né rivenderle al pubblico, rispettivamente sapendo che egli le avrebbe rivendute ai suoi clienti al prezzo di fr. 600.- per trattamento e permettendogli, così, di conseguire una grossa cifra d’affari (per l’intero periodo, ca. fr. 590'000.-) e un guadagno considerevole (ca. fr. 450'000.-).
Secondo l’ipotesi accusatoria, il dott. RI 1 ha, in un primo tempo, prescritto, rispettivamente ordinato per telefono ad una farmacia di _, prodotti dimagranti confezionati in capsule contenenti le predette sostanze, sulla base di una ricetta consegnatagli dallo stesso _, che provvedeva direttamente a prendere in consegna le capsule a _. Poi, in un secondo tempo, sulla base della medesima prescrizione, RI 1 ha ordinato le pastiglie alla farmacia _ (che gliele recapitava a mezzo posta al domicilio) e le ha, poi, consegnate a _, conseguendo personalmente un illecito profitto di ca. fr. 920.-.
B.
Dopo avere prospettato, sulla scorta dell’art. 250 CPP, all’accusato altre configurazioni giuridiche dei fatti indicati nell’atto di accusa, il presidente della Corte delle assise correzionali di _, con sentenza 18 dicembre 2009, lo ha riconosciuto autore colpevole dell’ infrazione di cui all’art. 20 cifra 1 cpv. 3 LStup per avere, nella sua qualità di medico, ripetutamente – ma in almeno 16 occasioni nel periodo maggio 2003/9 febbraio 2007 – prescritto almeno 193'660 capsule dimagranti contenenti benzodiazepine ed amfepramone 35 e 40 mg, conseguendo con ciò un illecito profitto personale di ca. fr. 920.-. Per contro, il primo giudice ha assolto RI 1 dall’imputazione di infrazione all’art. 19 cifra 1 LStup (e, pur se implicitamente, dall’imputazione riguardante le prescrizioni fatte prima del 2 dicembre 2002 in quanto la relativa azione penale era prescritta; cfr. sentenza impugnata, consid. 19, pag. 27).
In applicazione della pena, il primo giudice ha condannato RI 1 ad una pena pecuniaria di 150 aliquote giornaliere da fr. 400.- ciascuna, per un totale di fr. 60'000.-, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni e al pagamento di tasse e spese di giustizia.
C.
In data 21 dicembre 2009, RI 1 ha inoltrato dichiarazione di ricorso contro la sentenza del presidente della Corte delle assise correzionali. Nel suo allegato motivato, presentato il 26 gennaio 2010, il ricorrente, invocando un accertamento arbitrario dei fatti da parte del primo giudice ed un’errata applicazione del diritto sostanziale ai fatti posti alla base della sentenza impugnata, ha chiesto la propria completa assoluzione.
D.
Con osservazioni 16 febbraio 2010, il procuratore pubblico ha postulato la reiezione del ricorso in quanto infondato. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è essenzialmente un rimedio di diritto (art. 288 lett. a e b CPP) ritenuto che l’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP) e che arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 135 V 2 consid. 1.3; 133 I 149 consid. 3.1; 132 I 13 consid. 5.1; 131 I 217 consid. 2.1; 129 I 173 consid. 3.1 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b; 112 Ia consid. 3).
2.
Il ricorrente ritiene arbitrario l’accertamento del primo giudice riguardo la sua consapevolezza del carattere stupefacente del contenuto delle capsule dimagranti in questione.
2.1.
Accertato che, dal 1. luglio 1996, le capsule dimagranti in questione – o meglio, l’amfepramone e il clorazepato di cui esse sono composte – sono sottoposte alla legislazione sugli stupefacenti (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 15), il primo giudice non ha creduto a RI 1 che ha sostenuto di non avere saputo che le capsule dimagranti contenevano sostanze stupefacenti. Non gli ha creduto, dapprima, perché la modifica della LStup che ha stabilito il carattere stupefacente delle sostanze contenute nelle pillole in questione è stata portata a conoscenza di tutti gli operatori sanitari mediante il bollettino dell’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP) no. 24 del 24 giugno 1996. Poi, perché, sempre nel giugno 1996, il Farmacista cantonale ha inviato a tutti i medici del cantone una circolare (datata 28 giugno 1996) in cui tale modifica era stata esplicitata e – al di là delle affermazioni dell’accusato di non avere ricevuto tale circolare – il primo giudice non ha ravvisato motivi per cui, indipendentemente dalle modalità di tale spedizione (invio semplice), l’accusato non avrebbe dovuto ricevere la circolare (sentenza impugnata, consid. 15, pag. 24, consid. 23, pag. 32). Infine, perché – sempre secondo il primo giudice – non è credibile che un professionista serio, puntiglioso e preciso (come RI 1 è stato definito) non si aggiorni professionalmente o non legga le circolari trasmesse dalle autorità (sentenza impugnata, consid. 23, pag. 33).
2.2.
Nel suo allegato, il ricorrente censura l’accertamento secondo cui la circolare 28 giugno 1996 è stata trasmessa a tutti i medici del cantone affermando che il doc. AI 14 (lettera del farmacista cantonale al procuratore pubblico) – da cui il primo giudice ha dedotto tale circostanza – dimostra soltanto che era nelle intenzioni del farmacista cantonale spedire a tutti i medici la circolare ma che, in assenza di un invio raccomandato, non vi è la prova che la stessa sia stata effettivamente spedita né che, in particolare, RI 1 l’abbia ricevuta (ricorso, punto 4, pag. 5-6).
Sulla questione, il ricorrente ricorda, poi, come egli – che, pure, ha ammesso altre circostanze che andavano a suo sfavore (in particolare, di essere stato a conoscenza che nel 1987/1988 _ non disponeva dell’autorizzazione ad esercitare quale medico) – abbia sempre negato con fermezza di avere ricevuto tale circolare così come con fermezza ha sempre negato di averla vista prima dell’inizio dell’inchiesta penale e di avere saputo che le sostanze contenute nelle capsule dimagranti soggiacessero alla LStup (ricorso, punto 4, pag. 7 e 8).
Pertanto – conclude il ricorrente sulla questione della sua conoscenza della circolare – l’accertamento del primo giudice è arbitrario poiché si basa su mere congetture, gratuite e prive di riscontri oggettivi.
Il ricorrente sostiene, poi, che agli atti non vi è nulla che permetta di stabilire che il bollettino dell’UFSP no. 24 del 24 giugno 1996 – contenente un articolo riguardante la qualifica di stupefacenti delle sostanze contenute nelle capsule dimagranti – gli è stato effettivamente trasmesso, rispettivamente che egli lo ha ricevuto (ricorso, punto 4, pag. 8). Le considerazioni sull’argomento del primo giudice – continua il ricorrente – sono assunti del tutto ipotetici, non suffragati da riscontri oggettivi (ricorso, punto 4, pag. 8) così come irrilevanti poiché unilaterali ed ipotetiche sono le dichiarazioni del Farmacista cantonale (registrate nello scritto 15 maggio 2007, doc. AI 14) secondo cui egli doveva sapere che le capsule contenevano stupefacenti (ricorso, punto 4, pag. 9-10).
2.3.
Quanto l’autore di un reato sa, vuole o accetta è una questione di fatto (DTF 128 I 177 consid. 2.2 pag. 183, 128 IV 53 consid. 3a pag. 63, 125 IV 242 consid. 3c pag. 252, 119 IV 1 consid. 5a pag. 3; 118 IV 167 consid. 4; 110 IV 20 consid. 2 pag. 22, 74 consid. 1c pag. 77 con rinvii). L'esistenza di un errore sui fatti è anch'essa una questione di fatto (DTF 125 IV 49 consid. 2d e, da ultimo, sentenza 6B_477/2007 del 17 dicembre 2008, consid. 4.5).
Sulla questione di sapere se una persona ha agito con volontà e consapevolezza o ha consentito all'evento delittuoso, quindi, la Corte di cassazione e di revisione penale può rivedere gli accertamenti del primo giudice soltanto sotto l’angolo dell’arbitrio (per analogia, sul piano federale: Wiprächtiger in: Geiser/Münch, Prozessieren vor Bundesgericht, vol. I, 2a edizione, pag. 226 n. 6.99 con i richiami alla nota 182; Corboz, Le pourvoi en nullité à la Cour de cassation du Tribunal fédéral, in: SJ 113/1991 pag. 94 con la nota n. 246; STF 9 aprile 2009, inc. 6B_1004/2008).
Nell’accertamento dei fatti e nella valutazione delle prove, il giudice dispone di un ampio potere di apprezzamento (DTF 129 I 8 consid. 2.1; 118 Ia 28 consid. 1b; STF 30 marzo 2007, inc. 6P.218/2006, consid. 3.4.1) così che, per motivare l’arbitrio, non è sufficiente criticare la decisione impugnata né è sufficiente contrapporvi una diversa versione dei fatti, per quanto sostenibile o addirittura preferibile. E’, invece, necessario dimostrare il motivo per cui la valutazione delle prove fatta dal primo giudice è manifestamente insostenibile, si trova in chiaro contrasto con gli atti, si fonda su una svista manifesta o contraddice in modo urtante il sentimento di equità e di giustizia. In particolare, il TF ha avuto modo di stabilire che un accertamento dei fatti può dirsi arbitrario se il primo giudice ha manifestamente disatteso il senso e la rilevanza di un mezzo di prova oppure ha omesso, senza fondati motivi, di tener conto di una prova idonea ad influire sulla decisione presa oppure, ancora, quando il giudice ha tratto dal materiale probatorio disponibile deduzioni insostenibili (DTF 129 I 8 consid. 2.1). Secondo la giurisprudenza, in assenza di prove certe, il giudice può fondare il proprio convincimento su una serie di indizi valutati in modo logico, obiettivo e coerente. Se, per definizione, un indizio da solo non può bastare poiché, preso a sé stante, può essere interpretato in più modi, più elementi valutati nel loro complesso e in modo rigoroso possono condurre ad escludere il ragionevole dubbio e, quindi, possono costituire un valido fondamento del convincimento del giudice (cfr. Walder, Der Indizienbeweis in Strafprozess, in RPS 108 (1991) pag. 309 citato in part. in STF 7 maggio 2003, inc. 6P.37/2003 consid. 2.2).
2.4.
Le censure di RI 1 non possono trovare accoglimento.
Il fatto che sia la circolare del farmacista cantonale sia il bollettino dell’UFSP non siano stati inviati per raccomandata e che, dunque, non vi è agli atti la prova dell’effettiva ricezione da parte di RI 1 degli scritti in questione non è sufficiente, nel caso concreto, per sostanziare una critica d’arbitrio nella misura in cui ciò non toglie carattere indiziante alle circostanze considerate dal primo giudice e, inoltre, nella misura in cui l’invio della circolare e del bollettino non sono stati gli unici elementi considerati per l’accertamento della consapevolezza di RI 1 della natura stupefacente delle componenti delle pillole procurate a _.
Se deve essere condivisa l’osservazione del ricorrente secondo cui l’invio di tali documenti per posta semplice a tutti i medici del cantone non dimostra “
insindacabilmente
” la ricezione degli stessi da parte di RI 1, va riconosciuto che il fatto che il Farmacista cantonale abbia dichiarato di avere spedito la circolare sulla base delle etichette fornite dall’Ufficio del Medico cantonale - detentore della lista di tutti i medici esercitanti la libera professione nel cantone - e l’esistenza di un bollettino periodico allestito da una diversa autorità – l’Ufficio federale di sanità pubblica – e di norma da essa recapitato a tutti gli operatori sanitari del Paese costituiscono, insieme, elementi fortemente indizianti del fatto che l’informazione é effettivamente giunta a RI 1.
Il ricorrente non ha portato elementi atti a negare o diminuire il valore indiziante delle due circostanze appena evocate: egli non ha, ad esempio, invocato un suo eventuale cambiamento di indirizzo, non ha sostenuto di non essere fra i destinatari regolari del bollettino federale in questione né ha, per avventura, affermato che gli sia capitato in passato di non avere ricevuto qualche numero del bollettino dell’UFSP né ha invocato circostanze che possano, in qualche modo, far dubitare della completezza della lista tenuta dall’Ufficio del Medico cantonale o che possano provare che, altre volte, in passato, le circolari del Farmacista cantonale non gli sono giunte cosi da rendere almeno verosimile la probabilità che ciò sia avvenuto anche con la circolare in questione.
Per il valore indiziante delle circostanze di cui s’è detto non è rilevante che, nel corso dell’interrogatorio di RI 1 del 14 maggio 2007 (verbale V 2), il farmacista cantonale si sia espresso in modo inesatto (riferendo che la circolare proveniva dall’Ufficio del medico cantonale mentre, in realtà, era emanata dal suo Ufficio) o con toni non perentori (ad esempio, descrivendo come “
verosimile
” l’emanazione della circolare) poiché questi fattori di incertezza sono stati superati dalla lettera e dai documenti che il farmacista cantonale ha fatto pervenire al ministero pubblico in seguito (doc. AI 14), così come si era espressamente impegnato a fare a verbale (“
trasmetterò al più presto al Ministero pubblico tutte le circolari emanate al riguardo (sia cantonali che federali)
”, cfr. verbale V 2, pag. 5). I documenti in questione sono stati, poi, presentati a RI 1 nel corso del successivo interrogatorio di data 18 giugno 2007 (doc. A e B allegati al verbale V 4), durante il quale il farmacista cantonale ha dichiarato di avere ricevuto le etichette per l’invio a tutti i medici del cantone dall’Ufficio del medico cantonale, detentore dei nominativi di tutti i medici iscritti ed abilitati all’esercizio della libera attività medica in Ticino (cfr. verbale V 4, pag. 1).
Pertanto, è senza arbitrio che il primo giudice ha considerato le circostanze di cui s’è detto come elementi indizianti la consapevolezza di RI 1 della natura stupefacente dei componenti delle pillole dimagranti.
Come già accennato, non va, poi, dimenticato che, per accertare la consapevolezza di RI 1 sul carattere stupefacente delle capsule dimagranti in questione, il primo giudice si è pure fondato su altre considerazioni, rilevando in particolare come non sia credibile che un professionista preparato – come il ricorrente si definisce – non aggiorni le sue conoscenze e le informazioni riguardanti la sua professione (sentenza impugnata, consid. 23, pag. 32), in particolare, in un tema delicato quale quello degli stupefacenti.
Considerando assodato che dal 1. luglio 1996 le sostanze in questione sono classificate fra gli stupefacenti, non è, infatti, immaginabile che nel maggio 2003 (data delle prime forniture di pastiglie per cui l’azione penale non é prescritta) RI 1 non fosse ancora a conoscenza del fatto che tali sostanze erano (ormai da anni) considerate stupefacenti. Va, al proposito, notato che il riconoscimento del carattere stupefacente di tali sostanze si inserisce nell’ambito di un’importante modifica legislativa che ha condotto alla sostituzione dell’allora vigente ordinanza con due nuove normative, l’Ordinanza sugli stupefacenti e le sostanze psicotrope (OStup) e l’Ordinanza sui precursori e altre sostanze chimiche utilizzate per la fabbricazione di stupefacenti e sostanze psicotrope (Ordinanza sui precursori, OPrec) e che ha comportato dei cambiamenti pratici anche per l’attività dei medici (cfr. doc. AI 14). Non può, dunque, essere considerata arbitraria la conclusione del primo giudice secondo cui una tale importante modifica dell’ordinamento giuridico riguardante da vicino l’attività medica non può essere sfuggita a RI 1.
Del resto, oltre agli elementi sin qui indicati, indiziante della consapevolezza del carattere stupefacente delle sostanze è il fatto che le pastiglie venivano chieste prima in _ e, poi, a _ (e soltanto ad un farmacista evidentemente compiacente, in forza anche del legame di parentela con lo stesso RI 1; cfr. sentenza impugnata, consid. 6, pag. 15; consid. 11, pag. 20-21). Al proposito, il fatto che la composizione (estremamente banale nella sua semplicità) del prodotto fosse stata ideata da un medico della _ (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 17; consid. 11, pag. 20) non giustifica certamente la necessità di recarsi così lontano per ottenere tale preparato (_si recava personalmente a _ per ritirare le capsule, cfr. sentenza impugnata, consid. 11, pag. 20). In maniera analoga, nulla (di lecito) può spiegare la necessità di procurarsi le capsule fuori cantone poiché non può essere ragionevolmente preteso che esse non potessero venire fatte in Ticino per motivi di natura tecnica.
Infine – ma questo è da solo sufficiente a dimostrare l’assoluta inconsistenza della tesi di RI 1 – ormai da anni il carattere stupefacente delle anfetamine è notorio non solo nella cerchia degli addetti ai lavori, ma nella popolazione in generale. Non è, perciò, nemmeno sostenibile che un medico non sapesse che tali sostanze cadono sotto l’influsso della LFStup.
Alla luce di tutte queste circostanze – fortemente indizianti della sua consapevolezza del carattere stupefacente delle sostanze – si rivela a dir poco ardita la tesi ricorsuale secondo cui sarebbe arbitrario il relativo accertamento del primo giudice.
Di conseguenza, il ricorso cade nel vuoto.
3.
Il ricorrente censura come arbitrario anche l’accertamento del giudice di prime cure secondo cui egli sapeva che _ non era a beneficio dell’autorizzazione cantonale per l’esercizio della professione medica.
3.1.
Nella sua sentenza, il giudice di prime cure ha ritenuto di dovere accertare che cosa RI 1 sapesse dello status professionale di _, cioè di dovere accertare se RI 1 sapesse se _ aveva o meno il diploma di medico e se era o meno abilitato al libero esercizio della professione. Così dopo avere lungamente esaminato le risultanze degli atti e le dichiarazioni – modificatesi nel tempo – dello stesso RI 1, il primo giudice ha concluso che l’imputato sapeva – o perlomeno doveva avere preso in considerazione – che l’amico non era abilitato al libero esercizio della professione medica (cfr. sentenza impugnata, consid. 10, pag. 19-20; consid. 18 pag. 25-26; consid. 23 pag. 33-36).
3.2.
Quasi altrettanto lungamente, nel suo allegato il ricorrente si è diffuso in argomentazioni volte a dimostrare, con l’arbitrarietà dell’accertamento di cui s’è appena detto, che egli era convinto in perfetta buona fede che _ , non soltanto avesse il diploma di medico, ma fosse, in ogni caso da molto prima del maggio 2003, autorizzato ad esercitare liberamente la professione, almeno per quanto riguarda le terapie complementari. Sostenendo, alla fine del suo lungo esposto sulla questione, di essere “
una delle vittime finite nella tela di menzogne astutamente intessuta da
_” che è riuscito ad ingannare “
con astuzia un numero considerevole di pazienti sulle sue qualifiche professionali
” così come ha pure ingannato le persone impiegate nei diversi ospedali e istituti che lo avevano assunto in qualità di medico e anche le autorità di controllo che sono intervenute solo nel 2007, egli chiede l’annullamento della sentenza impugnata (ricorso, punto 5, pag. 15-17).
3.3.
Deve, qui, essere precisato che RI 1 – deferito a giudizio dalla pubblica accusa per violazione dell’art. 19 cpv. 1 LStup – è stato condannato, dopo applicazione dell’art. 250 CPP, in forza dell’art. 20 LStup, per avere “
crassamente violato l’art. 11 LStup ordinando e successivamente dispensando a _, che non era suo paziente, della sostanza stupefacente contrariamente ai limiti fissati dalla professione (art. 9 cpv. 1 LStup) e questo sia per i singoli quantitativi consegnatigli se rapportati alle necessità di una singola persona come era _ (AI19 e 21, tabella 1 ...) , rispettivamente perché non giustificato né ammesso dalla scienza medica (art. 11 LStup ed art. 43 cpv. 1 OStup)
” (sentenza impugnata, consid. 24, pag. 36 e 37).
Secondo il primo giudice, infatti, non si può ipotizzare nei confronti di RI 1 il reato di cui all’art. 19 cifra 1 LStup poiché egli è medico abilitato all’esercizio della professione ai sensi dell’art. 9 cpv. 1 LStup e, quindi, è legittimato a prescrivere ed ordinare stupefacenti ai sensi degli art. 10 cpv. 1 LStup e art. 41 cpv. 1 OStup (sentenza impugnata, consid. 24, pag. 36).
A tale impostazione giuridica questa Corte è legata in assenza di un relativo ricorso da parte della pubblica accusa.
a.
Giusta l’art. 11 LStup, i medici abilitati all’esercizio della libera professione (art. 9 cpv. 1 LStup) sono tenuti a usare, dispensare o prescrivere gli stupefacenti nella misura ammessa dalla scienza (cpv. 1). Lo stesso dicasi dei dentisti per quanto concerne l’uso e la somministrazione di stupefacenti (cpv. 2).
Per l’art. 13 LStup, i farmacisti possono dispensare stupefacenti al pubblico soltanto dietro presentazione della ricetta di un medico o di un veterinario.
Giusta l’art. 43 cpv. 1 OStup, i medici (e i veterinari) possono prescrivere stupefacenti soltanto ai pazienti (o agli animali) che hanno essi stesso visitato. Il cpv. 2 dello stesso disposto prescrive che, per i pazienti ambulatoriali, gli stupefacenti possono essere prescritti solamente mediante i moduli ufficiali per ricette (fornite dall’autorità federale, art. 43 cpv. 7 OStup) che devono indicare le generalità, la firma e il timbro del medico che ha prescritto lo stupefacente (lett. a), le generalità del paziente (lett. b), la data di compilazione della ricetta (lett. c), il nome dello stupefacente, il dosaggio e la forma farmaceutica (lett. d), il quantitativo (lett. e) e le istruzioni per l’uso (lett. f). La prescrizione di stupefacenti deve, poi, essere vistata di proprio pugno dal medico e il documento corrispondente deve essere conservato nella cartella medica del paziente (cpv. 3). Infine, per il cpv. 5 dell’art. 43 OStup, il quantitativo di stupefacente prescritto non deve eccedere quanto è necessario per un mese di cura, ritenuto che soltanto eccezionalmente, se le circostanze lo giustificano e nel rispetto dell’art. 11 LStup, questa durata può essere prolungata di due mesi.
Giusta l’art. 20 cifra 1 cpv. 3 LStup chiunque, in qualità di medico, dentista, veterinario o farmacista usa o dispensa stupefacenti diversamente da quanto previsto negli art. 11 o 13 LStup e chiunque, in qualità di medico o veterinario, prescrive stupefacenti diversamente da quanto previsto nell’art. 11 LStup, è punito, se ha agito intenzionalmente, con una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria. Nei casi gravi, la pena detentiva non sarà inferiore ad un anno e ad essa potrà essere cumulata una pena pecuniaria.
Per contro, l’art. 20 cifra 2 LStup prevede che l’autore sia punito con una multa quando ha agito per negligenza.
Vi è
uso
di stupefacenti quando l’autore del reato somministra delle sostanze nel corpo del paziente senza il concorso attivo di quest’ultimo. L’autore
dispensa
stupefacenti quando vi è passaggio del potere di disposizione della sostanza ad un’altra persona (il concetto è più ampio di quanto previsto all’art. 19 cifra 1 LStup). Infine, l’autore
prescrive
stupefacenti quanto dà al farmacista l’istruzione personale scritta di consegnare una precisa sostanza stupefacente ad una determinata persona (Albrecht, Die Strafbestimmungen des Betäubungsmittel- gesetzes [Art. 19-28 BetmG], 2a ed., Berna 2007, ad art. 20 LStup n. 10 e ad art. 19 LStup n. 72).
Per realizzare il reato, l’autore deve agire in violazione degli art. 11 o 13 LStup: i presupposti applicativi dell’art. 20 LStup sono, quindi, dati unicamente se la prescrizione della sostanza non è giustificata dal profilo medico oppure, quand’anche la prescrizione fosse conforme alla scienza medica (cioè, adeguata e necessaria alla cura della patologia o alla presa a carico del paziente), quando di tale sostanza vengono prescritte dosi maggiori del dovuto (cfr. sentenza CCRP del 15 febbraio 1978, in Rep. 1980, pag. 185).
b.
In concreto, nonostante il primo giudice si sia diffusamente pronunciato sulla questione della consapevolezza di RI 1 in merito allo status professionale di _ ed abbia da tali sue considerazioni sull’argomento dedotto che il ricorrente ha agito per dolo eventuale, deve essere rilevato che, per l’applicazione dell’art. 20 cifra 1 cpv. 3 LStup, tale circostanza (cioè, quel che il condannato sapeva di _ ) è totalmente irrilevante.
Infatti, l’art. 20 cifra 1 cpv. 3 LStup sarebbe applicabile all’attività di RI 1 descritta nell’atto di accusa non soltanto nell’ipotesi in cui egli fosse stato convinto a torto che _ era un medico abilitato ad esercitare la libera professione ma anche se, effettivamente, _ avesse avuto tale qualifica e tale autorizzazione.
La prescrizione a _ di pillole dimagranti contenenti sostanze stupefacenti sarebbe stata conforme all’art. 11 LStup – e, quindi, non rilevante dal profilo penale – unicamente se quest’ultimo fosse stato un paziente di RI 1 e (cumulativamente) se la prescrizione di tali capsule (così come la quantità prescritta) fosse stata indicata dall’arte medica per la cura di sue accertate patologie.
Nel caso in questione, è pacifico che RI 1 non ha prescritto le pastiglie a _ a fini terapeutici. Al di là del fatto che ancora ha da essere dimostrato che la somministrazione delle sostanze in questione è scientificamente riconosciuta quale terapia per la cura di patologie legate all’obesità (cosa di cui questa Corte dubita), al di là del fatto che non risulta né che _ fosse paziente di RI 1 né che egli egli soffrisse di obesità patologiche e, infine, al di là del fatto che è stata prescritta una quantità di capsule manifestamente sproporzionata per la cura di un singolo paziente (circa 990 trattamenti completi; cfr. sentenza impugnata, consid. 14, pag. 23), le prescrizioni di RI 1 non erano conformi all’art. 11 LStup poiché, per sua stessa ammissione, RI 1 sapeva che le pastiglie che egli prescriveva erano destinate a terze persone del cui stato di salute e delle cui necessità terapeutiche egli nulla sapeva.
L’attività svolta da RI 1 per _ ha, pertanto, più le caratteristiche di quella di un “fornitore/intermediario” di stupefacenti che non di quella di un medico. Una simile attività è – anche quando avviene a beneficio di un collega medico autorizzato al libero esercizio della professione – manifestamente contraria all’art. 20 cifra 1 cpv. 3 LStup.
Pertanto, in concreto, è del tutto superfluo determinare che cosa RI 1 sapesse dello status professionale di _ .
Prescrivendo a nome di _ delle capsule contenenti sostanze stupefacenti sapendo che esse erano destinate a terzi a lui sconosciuti (cui _ le avrebbe rivendute), il ricorrente ha adempiuto tutti gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 20 cifra 1 cpv. 3 LStup.
Si osserva qui – a titolo abbondanziale ritenuto l’art. 295 CPP – che egli si è evidentemente reso autore colpevole di questo reato per dolo diretto e non per dolo eventuale così come ritenuto dal primo giudice.
Su questo punto il gravame è, perciò, destinato all’insuccesso e la decisione del primo giudice di riconoscere RI 1 autore colpevole di infrazione agli art. 11 e 20 LStup merita conferma senza che questa Corte si debba pronunciare sull’accertamento di quanto egli sapeva di _ .
Nemmeno è necessario che questa Corte si pronunci su tale questione nell’ottica del giudizio sulla censura relativa alla commisurazione della pena ritenuto che il primo giudice, valutando la colpa di RI 1, non ha minimamente considerato quanto da lui accertato sulla questione.
4.
Il ricorrente sostiene, infine, che la sentenza impugnata viola crassamente il diritto sostanziale poiché, nella determinazione della pena, il primo giudice ha preso in considerazione come circostanza aggravante il fatto che egli è un medico (ricorso, punto 6, pag. 27).
4.1.
Dopo avere ricordato le norme applicabili alla commisurazione della pena, il primo giudice ha indicato di avere tenuto in considerazione, quali elementi aggravanti, oltre la ripetitività dell’agire illecito e il consistente numero di pastiglie prescritte in un lungo lasso di tempo, il fatto che l’accusato è medico, cioè è una persona che più di altre appartenenti a diverse categorie professionali
“dovrebbe essere di cristallino esempio per l’intera collettività per la sua onorabilità e rispetto delle leggi, soprattutto mediche
”.
A suo favore – dunque, quali circostanze attenuanti la sua colpa – il primo giudice ha, poi, considerato l’incensuratezza, il fatto che ha agito per dolo eventuale e, infine, che egli ha agito, non per desiderio di arricchirsi, ma perché spinto “
dalla sua decennale amicizia con _
”.
Tutto questo considerato, il primo giudice ha inflitto a RI 1 la pena pecuniaria di 150 aliquote giornaliere di fr. 400.- cadauna (per un complessivo di fr. 60.000), sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni (sentenza impugnata, consid. 28, pag. 40).
4.2.
Nel suo allegato ricorsuale, RI 1 rimprovera al primo giudice di essere caduto in errore considerando che il suo status di medico costituisca un’aggravante in relazione alla condanna giusta l’art. 20 cifra 1 cpv. 3 LStup che istituisce un delitto speciale, che solo medici e veterinari possono commettere (ricorso, punto 6, pag. 27-28). Sostenendo che la medesima circostanza non può essere presa in considerazione sia come elemento costitutivo dell’infrazione sia come aggravante, il ricorrente chiede l’annullamento della sentenza impugnata (ricorso, punto 6, pag. 28).
4.3.
Come visto sopra, il primo giudice ha considerato il ruolo professionale di RI 1 come una circostanza aggravante la sua colpa. A torto. Come già evocato, autore del reato di cui all’art. 20 cifra 1 cpv. 3 LStup può essere solo un medico, un dentista
o un farmacista (Albrecht,
op. cit.,
ad art. 20 LStup n. 9 e rif.).
Su questo punto, il ricorso merita pertanto accoglimento: così come il divieto della doppia presa in considerazione impedisce
di considerare le circostanze che portano a elevare o a
diminuire il quadro della pena come elementi aggravanti o attenuanti nel quadro modificato della pena (cfr. Trechsel et al., Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskommentar, 2008, ad art. 47 n. 27), anche nella commissione di un
Sonderdelikt
– ovvero di un reato la cui commissione presuppone l’appartenenza ad una determinata categoria (in casu, professionale) – tale circostanza non può essere nuovamente (“doppiamente”) presa in considerazione come aggravante nell’ambito della commisurazione della pena (cfr. sentenza CCRP del 13 aprile 2010, inc. 17.2009.50, consid.
3.3.b; STF del 4 marzo 2010, inc. 6B_21/2010, consid.
7.4; STF
del 6 giugno 2007, inc. 6S.44/2007, consid. 4.3.2 e riferimenti). Nel caso concreto, dunque, la colpa del dott. RI 1 non può essere giudicata più severamente per il fatto che egli é medico: se egli non lo fosse, infatti, non avrebbe potuto rendersi autore colpevole dell’infrazione di cui all’art. 20 cifra 1 cpv. 3 LStup.
Pertanto – ritenuto, peraltro, che, in assenza di una relativa impugnazione, non può essere considerato che in prima sede è stato a torto ritenuto quale circostanza attenuante che egli ha agito per dolo soltanto eventuale (art. 295 CPP) – occorre procedere ad un aggiustamento verso il basso della pena inflitta a RI 1 che viene ridotta a 120 aliquote giornaliere.
Per il resto, la sentenza impugnata viene confermata.
5.
Dato l'esito del giudizio, gli oneri processuali sono posti a carico del ricorrente per 3⁄4 e per il resto allo Stato, che rifonderà al ricorrente un'indennità di fr. 600.- per ripetibili ridotte (art. 15 cpv. 1 e 2 combinato con gli art. 9 cpv. 1, 4 e 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,010 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
cbcb7c17-172d-5585-bb30-bc9aa0b24260 | in fatto: A.
Con sentenza del 10 giugno 2009 il presidente della Corte delle assise correzionali di _ ha riconosciuto RI 1 autore colpevole di:
- infrazione aggravata alla Legge federale sugli stupefacenti per avere, senza essere autorizzato, tra l’estate 2007 e il 20 aprile 2008, a _ e in altre imprecisate località, agendo sia singolarmente che in correità con B., fatto preparativi per l’acquisto ad _ di circa 250 gr di cocaina, detenuto 19,19 gr di cocaina (grado di purezza 37%), detenuto 98,32 gr di eroina (grado di purezza 36%) destinata alla vendita e, infine, venduto 200 gr di cocaina;
- riciclaggio di denaro per avere, il 4 gennaio 2008, a _ , in 3 occasioni, in correità con B., compiuto atti suscettibili di vanificare l’accertamento dell’origine, il ritrovamento e la confisca di complessivi fr. 13'290.30, somma che sapeva essere provento di un crimine;
- guida in stato di inattitudine per avere, il 20 aprile 2008, a _ , condotto la vettura VW Golf targata _ sotto l’influsso di cocaina;
- contravvenzione alla Legge federale sugli stupefacenti per avere, senza essere autorizzato, da giugno 2007 al 20 aprile 2008, a _ e in altre imprecisate località, consumato circa 100 gr di cocaina.
In applicazione della pena, il presidente della Corte delle assise correzionali ha condannato RI 1, avendo agito in stato di scemata imputabilità di grado medio, alla pena detentiva di 14 mesi, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 3 anni. Il primo giudice ha, infine, caricato le tasse e le spese di giustizia al condannato e al correo B. in solido, con ripartizione interna in ragione di metà ciascuno.
B.
Avverso la predetta sentenza è insorto il condannato con dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e revisione penale di data 15 giugno 2009.
RI 1, nella sua motivazione scritta presentata il 20 luglio 2009, postula la riduzione della pena detentiva a 8 mesi sospesi condizionalmente per un periodo di prova di due anni.
Egli chiede inoltre che le spese del giudizio di primo grado gli siano caricate solo in ragione del 25%.
C.
Senza formulare particolari osservazioni, con scritto 3 agosto 2009, il Procuratore pubblico si rimette al giudizio di questa Corte. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è essenzialmente un rimedio di diritto (art. 288 lett. a e b CPP). L'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 134 I 153 consid. 3.4 pag. 156, 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371). Nell’accertamento dei fatti e nella valutazione delle prove, il giudice dispone di un ampio potere di apprezzamento (DTF 129 I 8 consid. 2.1; 118 Ia 28 consid. 1b; STF 30 marzo 2007, inc. 6P.218/2006). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. In particolare, il Tribunale federale ha avuto modo di stabilire che un accertamento dei fatti può dirsi arbitrario se il primo giudice ha manifestamente disatteso il senso e la rilevanza di un mezzo di prova oppure ha omesso, senza fondati motivi, di tener conto di una prova idonea ad influire sulla decisione presa oppure, ancora, quando il giudice ha tratto dal materiale probatorio disponibile deduzioni insostenibili (DTF 129 I 8 consid. 2.1).
Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev'essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 8 consid. 2.1 pag. 9, 173 consid. 3.1 pag. 178, 128 I 273 consid. 2.1 pag. 278).
2.
RI 1 esordisce censurando d’arbitrio l’accertamento del primo giudice secondo cui egli ha venduto almeno 200 gr di cocaina.
2.1.
Il primo giudice ha, dapprima, accertato come RI 1, dopo avere iniziato, all’incirca nel giugno 2007, a consumare cocaina, sia diventato, per finanziare i suoi consumi, “
uno spacciatore da strada di cocaina
” dedito anche al taglio della sostanza, “
per aumentarne il quantitativo e, con esso, i propri guadagn
i”.
Il primo giudice ha, poi, rilevato come, nel primo interrogatorio (20 aprile 2008), RI 1 abbia ammesso di avere incassato, negli ultimi 6 mesi circa, 3’000 fr. al mese vendendo bolas a fr. 100.- l’una, come nel secondo interrogatorio (avvenuto il 13 maggio successivo), egli abbia precisato che le bolas contenevano 0.7/0.8 grammi di cocaina e che il loro prezzo – che non sempre riusciva ad incassare – variava da 80.- a 100.- fr. Quanto agli acquisti, il giudice ha ricordato come RI 1, il 23 aprile 2008, abbia dichiarato di avere ottenuto a credito da B. 200 gr di cocaina al prezzo di fr. 75.- al grammo e come il 21 aprile precedente abbia dichiarato di averne acquistati altri 25 grammi a fr. 90.- il grammo da C. e come RI 1 abbia anche dichiarato di avere pagato la cocaina soltanto con il provento delle vendite e di non avere mai investito, per i suoi acquisti di stupefacente, quanto percepito come rendita AI. Infine, quanto al denaro trovato al suo domicilio (fr. 7’249,70), il primo giudice ha ricordato come RI 1 abbia dichiarato che, a parte fr. 1’500.- (riconducibili ad una rendita AI ricevuta) e 300.- Euro (canone di sublocazione pagatogli da tale A.), si trattava di provento della vendita di stupefacente. Infine, ha ricordato che, al dibattimento, RI 1 ha ritrattato tale sua dichiarazione affermando che il denaro era, invece, tutto di provenienza lecita ma che in tale ritrattazione egli non poteva essere seguito ritenuto come essa fosse “tardiva” e “interessata” e come non fosse credibile la tesi secondo cui l’imputato avesse prelevato quei soldi in banca quasi un mese prima e li avesse tenuti in casa poiché si tratta di un “
comportamento incongruente per chi è titolare di un conto bancario”
(sentenza impugnata, consid. 5 pag. 14 e 15). Rilevando, poi, come, sulla base di tali risultanze, il PP abbia imputato a RI 1 la vendita, ed in minima parte, l’offerta, di almeno 200 grammi di cocaina, e come, invece, RI 1 non abbia voluto riconoscere l’addebito ammettendo la vendita di soli 100 grammi, il primo giudice
ha annotato che l’addebito
“è ampiamente giustificato, dimostrato già solo da un semplice calcolo relativo ai proventi dello spaccio”
. Egli ha, poi, spiegato tale sua conclusione nel seguente modo. Dapprima, visto che RI 1 ammette di avere pagato la cocaina soltanto con il denaro guadagnato con la vendita, “
per pagare i 220 grammi di cocaina che ammette di avere acquistato
”, cioè per pagare fr. 16’800.- (fr. 15’000.- a B. per 200 grammi, fr. 1’800.- a C. per 20 grammi) , egli deve avere venduto cocaina per almeno quell’importo. A questo quantitativo, occorre aggiungere – secondo il primo giudice – quello che ha fruttato i fr. 5’000.- trovati a casa sua . “
Si ha così
– conclude il suo ragionamento il primo giudice –
(oltretutto nella poco verosimile ipotesi che egli nulla abbia speso di quanto incassato con il suo traffico) che il provento delle vendite di cocaina è stato almeno di complessivi fr. 21’800.-, ciò che equivale alla vendita di circa 250 bolas al prezzo medio di
fr. 90.-, e perciò a circa 200 grammi di cocaina, ritenendo un peso medio di 0.8 per bola
” (sentenza impugnata, consid. 6,
pag. 15 e 16).
Continuando, il primo giudice ha precisato di avere ritenuto credibile la dichiarazione di B. secondo cui egli ha procurato al ricorrente
“ulteriori 320 gr di cocaina, acquistati da un non identificato spacciatore africano
”: per tale dichiarazione – spiega il primo giudice –
“il solo B. ha subito una sanzione, essendo la fattispecie statagli imputata (...), mentre che RI 1 non ha subito aggravio di sanzione, non essendogli gli acquisti a fine di rivendita stati imputati”
e, pertanto, essa è attendibile andando “
esclusa qualsiasi volontà persecutoria del B. – persona contrariamente al RI 1, bene attenta alla razionale gestione dei propri interessi, anche processuali – non potendosi neppure ammettere che il B. avrebbe accettato di accusare se stesso di fatto non vero pur di far punire anche il RI 1”.
Sulla scorta di questi elementi, il primo giudice ha ritenuto accertato che, nel periodo considerato, l’imputato ha avuto a sua disposizione almeno 650 gr di cocaina e, pertanto, ha concluso che
“è del tutto pacifico, alla luce di un dichiarato consumo di 0,5 gr al giorno, da lui quantificato in almeno 100 gr per l’intero periodo, che le sue vendite ammontano sicuramente ai 200 gr addebitatigli dal Procuratore pubblico”
(sentenza, consid. 6 pag. 15-16).
2.2.
Nel suo ricorso, RI 1, sostenendo che “
è pura follia
” ritenere che egli avesse una “
disponibilità di addirittura 650 grammi”
, sostiene che “
la storia dei 320 gr non è assolutamente vera”
, ritenuto, peraltro, che egli non avrebbe mai saputo dove trovare il denaro per pagare “
il fantasma di pelle nera
”. Afferma – in questa sede, per la prima volta – di avere usato, almeno in parte, per l’acquisto di stupefacente i soldi della rendita AI e di avere dichiarato il contrario agli inquirenti soltanto a causa dello stato confusionale in cui versava, ai farmaci impostigli dal medico del carcere nonché “
all’incredibile trattamento ricevuto da certi secondini in carcere
”. Ribadendo che i soldi ritrovati dagli inquirenti “
sono di fatto tutti riconducibili alla rendita AI”
, precisa che i fr. 5'200.- prelevati il 26 marzo 2008 non sono stati utilizzati per i correnti pagamenti – contrariamente a quanto sostenuto dal primo giudice – giacché egli in, quel periodo,
“non riusciva nemmeno più a lavarsi con continuità, figuriamoci a fare i pagamenti”
.
RI 1 conclude affermando di aver
“spacciato un massimo di 100 gr di cocaina”
(ricorso, pag. 1-2).
2.3.
Nell’accertamento dei fatti e nella valutazione delle prove, il giudice dispone di un ampio potere di apprezzamento (DTF 129 I 8 consid. 2.1.; 118 Ia 28 consid. 1b; STF 30 marzo 2007, 6P.218/2006) così che, per motivare l’arbitrio, non è sufficiente criticare la decisione impugnata ne è sufficiente contrapporvi una diversa versione dei fatti, per quanto sostenibile o addirittura preferibile. È, invece, necessario dimostrare il motivo per cui la valutazione delle prove fatta dal primo giudice è manifestamente insostenibile, si trova in chiaro contrasto con gli atti, si fonda su una svista manifesta o contraddice in modo urtante il sentimento di equità e di giustizia. In particolare, il TF ha avuto modo di stabilire che un accertamento dei fatti può dirsi arbitrario se il primo giudice ha manifestamente disatteso il senso e la rilevanza di un mezzo di prova oppure ha omesso, senza fondati motivi, di tener conto di una prova idonea ad influire sulla decisione presa oppure, ancora, quando il giudice ha tratto dal materiale probatorio disponibile deduzioni insostenibili (DTF 129 I 8 consid. 2.1.)
Secondo la giurisprudenza, in assenza di prove certe, il giudice può fondare il proprio convincimento su una serie di indizi valutati in modo logico, obiettivo e coerente. Se, per definizione, un indizio da solo non può bastare poiché, preso a sé stante, può essere interpretato in più modi, più elementi valutati nel loro complesso e in modo rigoroso possono condurre ad escludere il ragionevole dubbio e, quindi, possono costituire un valido fondamento del convincimento del giudice (cfr. Hans Walder, Der Indizienbeweis in Strafprozess, in RPS 108 (1991) pag. 309 cit., in part., in STF 7 maggio 2003, inc. 6P.37/2003 consid. 2.2).
2.4.
In questa sede – dove occorre dimostrare che il primo giudice ha valutato in modo insostenibile il materiale probatorio a sua disposizione senza ad esso nulla aggiungere – non giova al ricorrente ritrattare le deposizioni rilasciate al procuratore pubblico, affermando di non avere finanziato la cocaina ricevuta da B. e da C. con i proventi della vendita di altro stupefacente, ma attingendo alla sua rendita AI. Ammettere e considerare tale ritrattazione (ciò che ancora non significa ritenerla) equivarrebbe a mutare il materiale processuale, ciò che, in cassazione, non è ammissibile.
Rilevato come, per il resto, l’allegato ricorsuale sia quasi interamente irricevibile poiché dimostra dimenticanza quasi totale del principio secondo cui, in un ricorso per cassazione, non basta contrapporre al giudizio impugnato la propria versione dei fatti, ma occorre spiegare perché il giudice, valutando gli atti istruttori, sia giunto ad un risultato, non soltanto sbagliato, ma manifestamente insostenibile, occorre, comunque, osservare che è senza arbitrio che il giudice ha accertato che RI 1 ha venduto almeno 200 grammi di cocaina. Vista l’ammissione di RI 1 (che qui va considerata come non ritrattata in forza di quanto sopra) di avere pagato i 220 grammi di cocaina che egli ha ammesso di avere avuto da B. e da C. con il solo provento della vendita di stupefacente e considerati i prezzi di acquisto da lui indicati e la cocaina acquistata si ha che, per finanziare gli acquisti di cui s’è detto, RI 1 ha dovuto – come considerato dal primo giudice in un procedimento non viziato da arbitrio – vendere cocaina per almeno fr. 16’800.-. Ciò che significa, visti i prezzi di vendita da lui indicati, che RI 1 ha dovuto vendere almeno 187 bolas di cocaina. A queste – poiché è senza arbitrio che il primo giudice non ha tenuto conto della ritrattazione in aula di RI 1 – vanno aggiunte le 55 bolas vendute per ricavare i fr. 5’000.- circa, cioè quella parte dei soldi ritrovati a casa di RI 1 e che, secondo le sue prime dichiarazioni, non avevano origine lecita. Tenuto, poi, conto del contenuto delle bolas indicato da RI 1, si ha che è possibile ritenere senza arbitrio che questi ha venduto circa 200 grammi di cocaina.
Nonostante questi accertamenti – come visto, non arbitrari – fossero sufficienti a confermare l’imputazione di cui al punto 8.1. dell’AA, il giudice di prime cure ha voluto continuare e procedere a considerazioni relative ad un presunto maggiore quantitativo di cocaina (circa 650 grammi) che RI 1 avrebbe avuto a disposizione. Si tratta di considerazioni non necessarie – come visto – a supportare la condanna ed inutili nella misura in cui da esse il giudice non ha tratto alcuna conclusione nell’ottica dell’applicazione dell’art. 250 CPP che si sarebbe imposta visto il grosso divario fra i quantitativi imputati e quelli apparentemente accertati: si fosse ritenuto davvero accertato che B. ha fornito (venduto e procurato) a RI 1 almeno 520 grammi di cocaina, a questi, pur tenuto conto del suo consumo e pur dedotto il quantitativo ritrovato al domicilio, si sarebbe dovuto imputare la vendita di un quantitativo ben maggiore e a B. si sarebbe dovuto imputare, oltre che di avere procurato a RI 1 i 320 grammi di cui s’è detto (punto 3.2. AA), di avergli venduto i 200 grammi di cui RI 1 ha parlato.
Ciò non è avvenuto.
Si tratta, dunque, di considerazioni inutili nell’economia del giudizio e non solo (e, peraltro, in contrasto con l’affermazione fatta più oltre dal giudice, nel capitolo dedicato alla commisurazione della pena, secondo cui RI 1 “
ha sostanzialmente ammesso i fatti che lo riguardano
” (cfr. sentenza, consid. 11, pag. 20).
Su di esse è, comunque, superfluo soffermarsi ritenuto che da esse, come visto, nulla è stato dedotto relativamente alle responsabilità penali di RI 1.
Concludendo, su questo punto il ricorso è votato all’insuccesso.
3.
Il ricorrente pretende, poi, che gli atti preparatori relativi alla trasferta ad _ per l’acquisto di 250 gr cocaina, non gli possano essere imputati poiché non è provato che il viaggio era davvero finalizzato a trattare un acquisto di stupefacente e, dall’altro, poiché i fatti accertati non bastano a integrare gli atti preparatori.
3.1.
Sulla questione, il primo giudice ha, dapprima, accertato che lo stesso imputato ha
“raccontato di avere condotto il B. dapprima a _ , dove i due hanno effettuato un cambio di valuta da franchi in 8'078.- Euro”
– cambio provato dalle ricevute ritrovate al domicilio di RI 1 – e poi ad _ riconoscendo
“che lo scopo del viaggio era che lui prendeva accordi ed acquistava la cocaina che si faceva poi portare a _ da corrieri”
. Rilevato come con 8’000.- Euro
“sia sicuramente possibile acquistare all’ingrosso almeno 250 grammi di cocaina”
, il primo giudice ha concluso per la fondatezza dell’imputazione a RI 1 di correità in atti preparatori all’acquisto di cocaina relativamente a tale
“trasferta ad _ , via _ , effettuata con la vettura nel frattempo acquistata dal RI 1”
.
Determinandosi sulle giustificazioni dell’imputato secondo cui
“egli non sarebbe stato altro che un tassista, come tale remunerato, e che pertanto nulla gli potrebbe essere addebitato dei traffici dell’amico visto che egli non avrebbe fisicamente trasportato cocaina con la propria vettura”
, il giudice di prime cure, dopo avere rilevato che RI 1 stesso ha ammesso di essere consapevole che B. era un trafficante di stupefacenti e che il viaggio ad _ era finalizzato all’acquisto di stupefacenti, ha concluso che
“l’aiuto prestato mettendo a disposizione la propria vettura e se stesso per condurlo sino a _ e ritorno e per effettuare il cambio di valuta teso a procurare il denaro necessario all’acquisto della droga è costitutivo di correità in atti preparatori al traffico di almeno 250 gr di cocaina”
(sentenza, consid. 7 pag. 16-17).
3.2. RI 1
rimprovera, dapprima, al primo giudice di avere sbagliato dando per scontato che lui e B. sono andati in _ per acquistare 250 gr di cocaina rilevando che, invece, B., con il denaro,
“potrebbe anche aver effettuato un pagamento per una fornitura a credito precedente oppure qualcosa d’altro”
.
Egli ribadisce, infine, di
“non aver trasportato dello stupefacente al ritorno stesso”
(ricorso, pag. 2).
3.3.
Le argomentazioni ricorsuali, di chiaro (e quasi provocatorio) stampo appellatorio, non sono evidentemente ricevibili.
Ci si limita, qui, a ricordare al ricorrente che egli stesso ha ammesso di essere stato consapevole che la trasferta ad _ era finalizzata all’acquisto di stupefacenti (cfr. verbale dibattimento, pag. 4 e verbale del 21 aprile 2008, all. RPG n. 21, pag. 2).
Il fatto – allegato dal ricorrente a sua discolpa – che in quel viaggio non è stato trasportato dello stupefacente, è manifestamente irrilevante: fosse stato il contrario, l’imputazione e la condanna non sarebbe stata per atti preparatori al traffico di stupefacenti ma per traffico (in senso lato) di stupefacenti.
Come correttamente rilevato dal primo giudice, l’ammissione secondo cui egli era consapevole che la trasferta ad _ era finalizzata all’acquisto di stupefacenti (cfr. verbale dibattimento, pag. 4) e l’accertamento del preventivo cambio di denaro di cui s’è detto sopra bastano per stabilire che RI 1, accompagnando B. ad _ con lo scopo di
“prendere accordi e trattare l’acquisto di cocaina”
(cfr. DTF
106 IV 74 consid. 3 e 104 IV 40 consid.1
), ha intenzionalmente commesso dei preparativi per l’acquisto di 250 g di cocaina. Costituisce, infatti, un atto preparatorio ed è punibile ai sensi dell’art. 19 cifra 1 cpv. 6 LStup, colui che, con le azioni, manifesta di stare preparando la commissione di uno dei reati di cui ai cpv. 1-5 dell’art. 19 cifra 1 LStup con azioni concrete, come lo spacciatore che raccoglie informazioni sulle possibili fonti di approvvigionamento o che stabilisce dei contatti con gli ambienti della droga (DTF 117 IV 309 consid. 1b, 106 IV 74 consid.
3 e 104 IV 40 consid.1; Fingerhuth/Tschurr, Kommentar Betäubungsmittelgesetz, Zurigo 2002, ad art. 19 pag. 127).
Ne discende che RI 1, si è reso colpevole del reato di cui all’art. 19 cifra 1 cpv. 6 LStup.
Su questo punto, pertanto, il suo ricorso deve essere respinto.
4.
RI 1 propone, inoltre, delle contestazioni relative al reato di riciclaggio di denaro.
4.1.
Relativamente a tale reato, il giudice di prime cure, dopo avere accertato che il denaro era
“sicuramente provento di reato, e meglio di traffico di stupefacenti, non avendo B. mai svolto alcuna attività lecita, ciò di cui RI 1 era ovviamente consapevole”
, ha ritenuto che
“il cambio del provento di reato con altra valuta è per definizione un tipico atto di riciclaggio”
. Dopo avere accertato che l’operazione di cambio è avvenuta in tre distinte fasi –
“due presso l’ufficio di cambio _ (una fatta da RI 1 e l’altra da B.) e una presso la _ (fatta da RI 1 o da B.)”
e dopo avere precisato che fu proprio RI 1 a suggerire quel modus operandi
“per eludere il controllo dell’avente diritto economico praticato sulle singole operazioni superiori a fr. 5’000.-”
(sentenza impugnata consid. 7 pag. 17), il primo giudice ha concluso che
“la malafede del RI 1 (ergo la consapevolezza di commettere reato)”
è provata da quanto dichiarato da RI 1 stesso che ha precisato che la suddivisione dell’importo da cambiare in tranches inferiori a 5’000.- fr. è stata decisa
“per non dovere sottostare alle disposizioni contro il riciclaggio che impongono di allestire i relativi formulari”
(sentenza, consid. 8 pag. 17-18).
4.2.
Nel suo allegato, il ricorrente sostiene che
non fu lui ma B., a decidere di fare tre cambi e precisa che quello che lui disse al proposito agli inquirenti “
è solo una logica deduzione di quanto tutti sanno, e cioè che sopra i fr. 5’000.- bisogna fare il formulario
” (ricorso pag. 3). Precisando, poi, che lui si limitò a cambiare fr. 4’998.- che B. gli diede, il ricorrente conclude che, se riciclaggio ci fu, per lui il reato si limita semmai a quella cifra.
Ma – continua – in realtà non c’è reato poiché, accertando che il denaro cambiato è sicuramente provento di reato, il primo giudice è caduto in arbitrio poiché non ha
considerato che, oltre a spacciare droga, B. si prostituiva (ricorso, pag. 3).
4.3.
L’accertamento del primo giudice secondo cui il denaro era sicuramente provento di reato resiste alla censura d’arbitrio proposta dal ricorrente. Se è vero che B. ha dichiarato di essersi prostituito ad una donna conosciuta solo con il nome di Patrizia dal febbraio al giugno del 2007 e di avere percepito dai fr. 200.- ai fr. 700.- a notte (cfr. classatore relativo a B., AI 30, pag. 3), è anche vero che tali dichiarazioni, in particolare quelle relative ai proventi di tale attività appaiono piuttosto fantasiose e poco credibili soprattutto se riferiti ad una sola cliente. In realtà, quel che emerge dagli atti è che, negli anni considerati, gli unici veri proventi di B. sono quelli derivanti da attività illecite, in particolare dal traffico di stupefacente che negli anni 2007 e 2008 ha raggiunto una certa importanza (620 gr tra cocaina ed eroina) e dal furto (fr. 32'000.- da lui sottratti ad un asilante africano).
In queste condizioni, è senza arbitrio che il primo giudice ha ritenuto che i fr. 13'290.30, da lui e RI 1 cambiati in euro, erano provento di reato.
Ciò detto, non può essere negato che – così come sostiene il ricorrente – dagli atti non risulta che sia stato RI 1 a suggerire come procedere per il cambio per evitare l’applicazione delle disposizioni contro il riciclaggio di denaro. L’accertamento non può essere fondato sulle dichiarazioni di B. che ha negato di avere proceduto al cambio. Nemmeno l’accertamento può essere fondato sulle dichiarazioni Di RI 1 che ha semplicemente riferito che
“evidentemente abbiamo fatto due cambi inferiori a fr. 5'000.- per non dover sottostare alle disposizioni contro il riciclaggio”,
senza però fornire dettagli sulla questione di sapere chi – tra lui e B. – abbia avuto l’idea di suddividere l’importo da cambiare.
Ciò detto, la cosa si rivela del tutto ininfluente per il giudizio poiché è fuor di dubbio che gli altri accertamenti del primo giudice non sono arbitrari: la consapevolezza non soltanto dell’origine delittuosa del denaro ma anche dell’importo complessivo che lui e B. hanno cambiato e della sua suddivisione in tranches inferiori ai 5’000.- fr. così da evitare di raggiungere il limite superato il quale scattano le verifiche, bastano – indipendentemente dall’accertamento di chi fu ad avere l’idea – per dichiarare RI 1 autore colpevole, in correità con B., di riciclaggio per l’intero importo.
In effetti, Il Tribunale federale ha già avuto modo di specificare che l’azione delittuosa repressa dall’art. 305
bis
cpv. 1 CP può consistere anche nei negli atti più semplici, quali le operazioni di cambio di denaro nella stessa valuta o in una valuta estera (DTF 122 IV 214 consid. 2c) e, sempre secondo la giurisprudenza, è correo colui che in occasione della decisione, della pianificazione e dell’esecuzione di un reato collabora intenzionalmente in modo determinante con gli altri autori, così da risultare un “partecipante principale”. La correità presuppone, dunque, una “Mit-Tatherrschaft”, ovvero una padronanza collettiva dell’azione delittuosa, ritenuto che, se dal profilo soggettivo la correità presuppone l’intenzionalità ed una comune decisione di compiere il reato (
“animus auctoris”
), questa, può essere anche manifestata tramite atti concludenti e che il correo non deve aver necessariamente partecipato, già dall’inizio, alla decisione originale, essendo sufficiente che egli aderisca alla stessa anche solo in una fase successiva, fino al più tardi al compimento del reato (DTF 133 IV 76 consid. 2.7, 130 IV 58 consid. 9.2.1; 118 IV 397 consid. 2b; 108 IV 88 consid. I.2.a; Rehberg/Donatsch, Starfrecht I, 7a edizione, Zurigo 2001, pag. 140 e seg.; Forster, Basler Kommentar, Strafgesetzbuch I, ad vor art. 24 CP n. 7 e segg.).
Anche su questo punto, pertanto, il ricorso di RI 1 è respinto.
5.
Il ricorrente contesta la commisurazione della pena.
5.1.
Commisurando la pena da infliggere a RI 1, il primo giudice ha, dapprima, ritenuto “
la sicura gravità oggettiva dei reati
” poiché il traffico di cui RI 1 si è reso responsabile concerne “
un quantitativo importante, pari ad un multiplo del minimo giurisprudenziale del caso grave sia per la cocaina che per l’eroina
”. Grave è perciò – sempre secondo il primo giudice – la disponibilità a delinquere
“al riguardo di addirittura due tipi di droga pesante”
. La colpa di RI 1 è, poi – continua il primo giudice – grave anche perché egli “
ha spacciato con intensità durante vari mesi
”, senza alcuna intenzione di smettere ritenuto “
che è stato fermato solo dal suo arresto”
e poiché ha agito
“con notevole pericolosità e mancanza di scrupoli, sia per avere tagliato la cocaina che per essersi messo in (parziale) sodalizio con un trafficante su scala internazionale come il B. che per essersi prestato all’effettuazione di operazioni per importanti quantitativi unitari, nell’ordine delle centinaia di grammi
”. Pertanto – conclude il presidente della Corte – ”
siamo perciò ad un livello chiaramente più elevato rispetto a quello dello spacciatore da strada che vende e compra pochi grammi alla volta per finanziare il proprio consumo
”. Il giudice ha, poi, continuato affermando come a spingere RI 1 a delinquere sia stato il desiderio di guadagnare
“per supplire con lo squallido traffico al fallimento economico della propria caotica ed inconcludente attività paraprofessionale di patrono occulto di diseredati, tra cui in primo luogo sé stesso, ma anche di personaggi privi di scrupoli e dediti all’illegalità popolanti il sottobosco con il quale l’imputato si è da anni mescolato
”. Il fatto che RI 1 abbia agito per denaro è particolarmente grave poiché – precisa il primo giudice – egli poteva contare sulla rendita AI di fr. 2’612.- mensili “
e su qualche centinaio di franchi supplementari (ed esentasse) provento delle sue consulenze e quindi senza che egli fosse anche solo lontanamente in situazione di indigenza, potendo al contrario contare su un reddito sicuro corrispondente nell’entità a quello percepito da moltissime persone che svolgono lavori semplici, senza che queste – pur prive della formazione giuridica completa dell’accusato – si sognino anche solo lontanamente di mettersi a spacciare droga
” . Più oltre, riassumendo questi concetti, il primo giudice ha precisato che il
“traffico avviato e proseguito in grande stile dal prevenuto, avvocato oggi 47enne”
è da considerarsi “
odioso ed esecrabile
” e che “
biasimevole è la chiara mancanza di scrupoli con cui ha deciso di procedere nell’illegalità, quasi che tutto gli dovesse essere consentito in ragione delle difficoltà che ha dovuto affrontare nel corso della sua vita
”.
A favore di RI 1, il primo giudice ha considerato che egli
“ha sostanzialmente ammesso i fatti che lo riguardano”
e ne ha rilevato l’incensuratezza che, però, ha ritenuto
“almeno parzialmente controbilanciata dal biasimo che deve essere espresso nei confronti di chi, come lui, inizia a dedicarsi allo spaccio di droga alla soglia dei 45 anni, età teorica della piena maturità”
(sentenza consid. 11 pag. 19 e 20).
Esaminando la richiesta della difesa di riconoscere a RI 1 una scemata imputabilità di grado medio-alto, il primo giudice ha, dapprima, rilevato come egli si sia dichiarato sano di mente e come, “
la Corte
, in assenza di riscontri certi, avrebbe potuto ritenere le affermazioni del RI 1 e rimarcare come egli fosse perfettamente consapevole della natura illecita dei propri atti, addirittura in misura qualificata vista la formazione legale
” e come “
sempre in assenza di migliori riscontri sulle implicazioni giuridiche delle turbe psichiche dell’imputato
” avrebbe potuto ritenere data anche la capacità di conformarsi alla corretta percezione dell’illecito, in particolare
“alla luce del movente razionale costituito dalla volontà di guadagnare denaro con lo spaccio
”. Ciò precisato, il primo giudice ha deciso di risolvere la questione “
in favore dell’accusato e non senza considerazioni d’ordine pietistico
” ed ha stabilito
“di accordare”
una scemata imputabilità di grado medio per cui ha deciso di
“concedere una riduzione del 40% sulla pena base
” poiché ha ritenuto “
insufficienti gli elementi di giudizio per concedere la riduzione massima del 50% ammissibile secondo giurisprudenza per il grado di comprovata ed effettiva scemata responsabilità
” (sentenza impugnata consid. 11 pag. 20 e 21).
Tutto questo rilevato, il giudice di prime cure ha concluso che
“la pena base si pone ad un livello assai elevato, superiore a 2 anni e mezzo di pena detentiva”
. Effettuate su questa pena base
“altre deduzioni minori per effetto della confessione, di una collaborazione solo parziale, dell’incensuratezza e del carcere preventivo sofferto, anche tenuto conto della scemata imputabilità la pena da irrogare non può scendere sotto i 14 mesi di pena detentiva”
(sentenza, consid. 11 pag. 21).
5.2.
Contestando la commisurazione della pena, il ricorrente ne chiede la riduzione a 8 mesi. Egli sottolinea, in particolare, che la frase che il primo giudice ha interpretato come la sua ammissione di essersi dato allo spaccio per desiderio di guadagnare altro non è che “
la stupenda opera letteraria di uno degli ispettori al quale quel giorno il sottoscritto non è riuscito a fare modificare la frase né aveva la forza per farlo
” e conclude rilevando come “
comunque, di fatto, non c’è stato alcun guadagno a parte quello in sostanza stupefacente per il consumo personale
” (ricorso pag. 3 e 4). Sostiene, inoltre, che, a seguito della sua scemata imputabilità di grado medio, la sua pena doveva essere ridotta del 50%.
5.3.
Nella commisurazione della pena (art. 47 CP; art. 63 vCP) il giudice di merito fruisce di ampia autonomia. La Corte di cassazione e di revisione penale interviene solo – come il Tribunale federale – ove la sanzione si ponga al di fuori del quadro edittale, si fondi su criteri estranei all’art. 47 CP, disattenda elementi di valutazione prescritti da quest’ultima norma oppure appaia esageratamente severa o esageratamente mite, al punto da denotare eccesso o abuso del potere di apprezzamento (DTF 129 IV 6 consid. 6.1 pag. 21 segg. e riferimenti, 128 IV 73 consid. 3b pag. 77, 127 IV 10 consid. 2 pag. 19).
Quanto ai criteri determinanti per commisurare la pena, la gravità della colpa è, come lo era sotto l’egida del vecchio diritto (art. 63 vCP), fondamentale. L’art. 47 cpv. 1 CP – in vigore dal 1° gennaio 2007– stabilisce esplicitamente, del resto, che il giudice commisura la pena alla colpa dell’autore tenendo conto della vita anteriore e delle condizioni personali di lui, nonché dell’effetto che la pena avrà sulla sua vita. Il legislatore ha in sostanza aggiunto la necessità di prendere in considerazione l’effetto che la pena avrà sulla vita a venire del condannato, codificando la giurisprudenza secondo la quale il giudice può ridurre una pena apparentemente adeguata alla colpa del reo se le conseguenze sulla sua esistenza futura appaiono eccessivamente severe (
sentenza del Tribunale federale 6B.14/2007 del 17 aprile 2007, consid. 5.2 con rinvii;
DTF 128 IV 73 consid. 4 pag. 79, 127 IV 97 consid. 3 pag. 101). Questi aspetti di prevenzione speciale permettono tuttavia solo delle riduzioni marginali, la pena dovendo essere sempre adeguata alla colpa; il giudice non potrebbe ad esempio esentare da pena il reo in caso di delitti gravi (
Stratenwerth
,
Schweizerisches Strafrecht, Allgemeiner Teil II, Strafen und Massnahmen, Berna 2006, § 6 n. 72;
Stratenwerth/Wohlers, op. cit., n. 17 e 18 ad art. 47 CP
).
Secondo l’art. 47 cpv. 2 CP la colpa è determinata secondo il grado di lesione o esposizione a pericolo del bene giuridico offeso, secondo la reprensibilità dell’offesa, i moventi e gli obiettivi perseguiti, nonché tenuto conto delle circostanze interne ed esterne, secondo la possibilità che l’autore aveva di evitare l’esposizione a pericolo o la lesione. La norma riprende,
mutatis mutandis
, la giurisprudenza relativa all’art. 63 vCP (Stratenwerth/Wohlers, Strafgesetzbuch, op. cit., n. 4 ad art. 47 CP) a mente della quale per valutare la gravità della colpa entrano in considerazione svariati fattori: le circostanze che hanno indotto il soggetto ad agire, il movente, l’intensità del proposito (determinazione) o la gravità della negligenza, il risultato ottenuto, l’eventuale assenza di scrupoli, il modo di esecuzione del reato, l’entità del pregiudizio arrecato volontariamente, la durata o la reiterazione dell’illecito, il ruolo avuto in seno a una banda, la recidiva, le difficoltà personali o psicologiche, il comportamento tenuto dopo il reato (collaborazione, pentimento, volontà di emendamento; DTF 129 IV 6 consid. 6.1 pag. 20, 124 IV 44 consid. 2d pag. 47 con rinvio a DTF 117 IV 112 consid. 1 pag. 113 e 116 IV 288 consid. 2 pag. 289).
Vanno inoltre considerati – sempre secondo la citata giurisprudenza – la situazione familiare professionale dell’autore, l’educazione da lui ricevuta e la formazione seguita, l’integrazione sociale, gli eventuali precedenti penali e la reputazione in genere (DTF 124 IV 44 consid. 2d pag. 47 con rinvio a DTF 117 IV 112 consid. 1 pag. 113 e 116 IV 288 consid. 2a pag. 289). Non va trascurata nemmeno la sensibilità personale all'espiazione della pena (
Strafempfindlichkeit
) per rapporto allo stato di salute, all'età, agli obblighi familiari, alla situazione professionale, ai rischi di recidiva ecc. (DTF 102 IV 231 consid. 3 pag. 233; sentenze del Tribunale federale
6B.14/2007 del 17 aprile 2007, consid. 6.4,
6P.152/2005 del 15 febbraio 2006, consid. 8.1 e 6S.163/2005 del 26 ottobre 2005, consid.
2.1 con rinvii;
Stratenwerth
,
Schweizerisches Strafrecht, Allgemeiner Teil II, Berna 1989, § 7 n. 53 seg.).
Esigenze di prevenzione generale, per converso, svolgono solo un ruolo di secondo ordine (DTF 118 IV 342 consid. 2g pag. 350). Il principio della parità di trattamento, da parte sua, assume rilievo solo in casi eccezionali, nelle rare ipotesi in cui pene determinate in modo di per sé conforme all’art. 47 CP (che ha la stessa portata del previgente art. 63 CP) diano luogo a un’obiettiva disuguaglianza; il confronto tra casi concreti suole invece essere infruttuoso, ogni fattispecie dovendo essere giudicata in base alle sue individualità soggettive e oggettive (DTF 123 IV 150, 116 IV 292; v. anche DTF 124 IV 44 consid. 2c pag. 47).
Secondo l’art. 50 CP, se la sentenza deve essere motivata, il giudice vi espone anche le circostanze rilevanti per la commisurazione della pena e la loro ponderazione. Questo significa che nella sua motivazione il giudice deve motivare la sentenza in modo che l'autorità di ricorso sia in grado di verificare il rispetto di tali criteri, siano essi a favore o a sfavore del condannato. Non gli incombe di diffondersi necessariamente su ogni fattore, né di indicare in cifre o in percentuali l'importanza attribuita ai singoli elementi considerati nella commisurazione della pena. Deve permettere tuttavia di seguire il suo ragionamento. La motivazione deve quindi giustificare la pena e permettere di seguire il ragionamento del giudice, senza che questi sia tenuto ad esprimersi in cifre o in percentuali su ogni elemento che cita
(
sentenza del Tribunale federale 6B.14/2007 del 17 aprile 2007, consid. 5.3;
Stratenwerth/Wohlers, Strafgesetzbuch, Handkommentar, Berna 2007, n. 2 ad art. 50 CP). Un mero elenco di elementi pro e contro l'imputato non è comunque sufficiente (sentenza del Tribunale federale 6S.390/2005 del 27 febbraio 2005, consid. 3). Anzi, più la pena è rigorosa, più la motivazione dev'essere completa, soprattutto qualora – pur mantenendosi nei limiti edittali – la sanzione appaia complessivamente molto severa. Ove la commisurazione della pena risulti conforme al diritto, in ogni modo, l'accoglimento di un ricorso per cassazione non si giustifica solo per far migliorare o integrare un singolo considerando della sentenza (DTF 127 IV 101 consid. 2c pag. 104 in fondo con riferimenti).
5.4.
Pur se l’art. 47 CP non impone al giudice di esprimere in cifre o in percentuali l’importanza attribuita ad ogni singolo elemento di valutazione e pur se è sufficiente che la motivazione della sentenza consenta di capire in che modo gli elementi aggravanti o attenuanti sono stati apprezzati (DTF 127 IV 101 consid. 2c con richiami; CCRP 20.9.2006 in re N.), è evidente che, in concreto, la motivazione della sentenza quo alla pena pone dei problemi, in particolare laddove non definisce in modo preciso la pena base: in effetti, il primo giudice, impropriamente, definisce tale la pena – di cui, peraltro, si è limitato a dire che essa “
si pone ad un livello assai elevato, superiore a 2 anni e mezzo”
– prima delle deduzioni delle attenuanti generiche.
Ciò rilevato – nell’ottica di evitare un rinvio degli atti al presidente della Corte delle assise correzionali affinché integri la motivazione della sentenza conformemente ai requisiti minimi del diritto federale (art. 296 cpv. 2 CPP) – questa Corte ritiene di poter porre rimedio alle imprecisioni del primo giudice determinando la pena “piena” da lui stabilita – cioè, la pena prima dell’applicazione della riduzione in ragione della scemata imputabilità – procedendo a ritroso. Ritenuto che il primo giudice ha precisato di avere applicato, per la scemata imputabilità, la riduzione del 40% e in assenza di altre attenuanti specifiche, si ha che deve essere ritenuto che la pena piena (o la pena base) da egli stabilita è di 24 mesi (o poco meno).
RI 1 deve rispondere di infrazione grave alla LFStup relativa ad un quantitativo complessivo relativamente importante di stupefacenti (200 gr di cocaina venduti, detenzione di altri 19 gr e preparativi per l’acquisto di altri 250 gr di cocaina nonché detenzione di 93 gr di eroina), di riciclaggio di denaro, di guida in stato di inattitudine nonché di contravvenzione alla LFStup.
Ciò ritenuto, nonostante il primo giudice abbia pesantemente enfatizzato a suo sfavore l’entità e la qualità delle infrazioni alla LFStup definendoli “
un traffico avviato e proseguito in grande stile
” quando “
il grande stile
” (se di stile si può parlare) è proprio tutt’altra cosa e nonostante, apprezzando la situazione personale di RI 1, egli abbia trascurato che, se è vero che l’imputato è un avvocato 47enne, è anche soprattutto vero che egli non ha mai trovato lavoro e che, dall’inizio degli anni novanta, vive una situazione di emarginazione sociale, personale e professionale (cfr, in particolare, AI 22 e incarto AI) ciò che va considerato ad attenuazione e non ad aggravamento della sua colpa, la pena stabilita (senza la deduzione del 40%) di 24 mesi non può dirsi frutto di un eccesso o di un abuso di apprezzamento. Su di essa, pertanto, questa Corte non può intervenire.
Quel che, invece, pone un serio problema è la considerazione da parte del primo giudice della scemata imputabilità riconosciuta a RI 1.
Come chiarito dalla giurisprudenza, una scemata imputabilità comporta una sicura riduzione di pena, ancorché non necessariamente lineare. Una scemata imputabilità di grado lieve, in altri termini, non implica per forza una riduzione di pena del 25%, né una scemata responsabilità di grado medio o grave implica ineluttabilmente una riduzione del 50 o del 75% (DTF 129 IV 22 consid. 6.2 pag. 35). Da ogni singola situazione bisogna trarre – secondo il Tribunale federale
–
“conseguenze ragionevoli” (loc. cit.). Resta, però, il fatto che le proporzioni citate rimangono punti di riferimento e, perciò, in caso di scemata imputabilità grave un giudice non può – secondo il Tribunale federale – ridurre la pena del solo 50% senza alcuna motivazione, così come in caso di scemata imputabilità media non può limitarsi a ridurre la pena senza alcuna motivazione del 40% (cfr. CCRP 20.9.2006 in re N.).
Come visto, in concreto il primo giudice ha accertato che RI 1 presenta una scemata imputabilità di grado medio.
Una riduzione di pena inferiore al 50% richiederebbe pertanto una motivazione specifica, che legittimi “conseguenze ragionevoli”.
Una simile motivazione non si trova nella sentenza impugnata. Non basta al proposito l’indicazione – non minimamente sostanziata – secondo cui il primo giudice ha ritenuto “
comunque insufficienti gli elementi di giudizio per concedere la riduzione massima del 50%”
. Per poter essere considerata – ritenute, fra l’altro, le valutazioni medico-specialistiche agli atti – tale valutazione di insufficienza avrebbe dovuto procedere da un serio esame. Ciò che non é. O perlomeno, non traspare dalle motivazioni della sentenza.
Pertanto, la pena inflitta a RI 1 deve essere ridotta a 12 mesi.
6.
Il ricorrente
sostiene, inoltre, che il periodo di prova deve essere stabilito in due e non tre anni. Dopo avere dichiarato di trovarsi ancora “
in un mare di difficoltà”
, spiega di sentirsi molto meglio con il nuovo farmaco e di non avere più la necessità di delinquere perché
“non ha più bisogno di approvvigionarsi di cocaina per i suoi bisogni”
. Egli dichiara, inoltre, di essersi nel frattempo sposato (ricorso, pag. 4).
6.1.
Il primo giudice, dopo essersi detto non del tutto convinto che RI 1, anche a processo celebrato, sia pienamente consapevole della gravità dei suoi atti, considerato anche il perdurare delle sue difficoltà personali ed economiche nonché il suo stato psichico precario, ha determinato il periodo di prova in tre anni osservando come
“se non vi fosse stata la prospettiva di un matrimonio alle porte, che si spera potrà avere effetti benefici almeno sulla situazione di disagio sociale, il periodo di prova sarebbe stato fissato in almeno quattro anni”
(sentenza, consid. 11-12 pag. 21).
6.2.
L’art. 44 cpv. 1 CP prevede che, se il giudice sospende del tutto o in parte l’esecuzione della pena, al condannato è impartito un periodo di prova da due a cinque anni.
Nel quadro fissato dalla legge, la durata del periodo di prova si determina in funzione delle circostanze del caso concreto, in particolare tenendo conto della personalità e del carattere del condannato, così come del rischio d'una sua recidiva. Più questo pericolo è importante, più lungo deve essere il periodo di prova e la pressione che esso esercita sul condannato affinché rinunci a commettere delle nuove infrazioni (STF 14.04.2009, inc. 6B_16/2009, consid. 2; DTF 95 IV 121 consid. 1): la durata del periodo di prova deve essere determinata in modo tale da garantire, nella misura del possibile, che non vi sia recidiva (Stratenwerth, Schweizerisches Strafrecht, AT II, 2a ed. 2006, § 5 n. 60; Schneider/Garré, Basler Kommentar, 2a ed. 2007, ad art. 44 CP n. 4 e rif.).
Nel determinare la durata del periodo di prova il giudice di merito fruisce di ampia autonomia. La Corte di cassazione e di revisione penale interviene solo – come il Tribunale federale – ove la durata si ponga al di fuori del quadro edittale o il primo giudice ecceda palesemente il suo potere di apprezzamento (DTF 95 IV 121 consid. 1).
6.3.
In concreto, ritenuto quanto indicato dal primo giudice, la determinazione in tre anni del periodo di prova non può in questa sede venire censurata.
Su questo punto, pertanto, il ricorso deve essere disatteso.
7.
RI 1 contesta pure la ripartizione degli oneri processuali caricati, in solido, a lui e al correo B. in ragione di metà ciascuno (sentenza, consid. 14 pag. 22), rilevando come B. abbia ricevuto una pena più grave della sua e come le sue spese d’inchiesta siano state
“ben maggiori”
. A mente del ricorrente si giustifica, pertanto,
“una ripartizione 25%-75% oppure 33%-66%”
.
Egli infine, senza oltre specificare, contesta alcune spese d’inchiesta, perché derivanti da atti istruttori inutili e dei quali non gli è stata data comunicazione (ricorso, pag. 5).
7.1.
Giusta l’art. 9 cpv. 2 CPP i coautori ed i complici sono obbligati al pagamento delle spese nella misura stabilita dalla sentenza. Questa determina se e in quale misura i condannati ne rispondono solidalmente. Di principio la divisione dei costi avviene secondo una chiave di ripartizione in funzione dell’importanza e della gravità dei fatti imputati a ciascun condannato (Schmid, Strafprozessrecht, 3. edizione, Zurigo 1997, § 66 n. 1200, Piquerez, Procédure pénale suisse, Zurigo 2000, § 141 n. 3101).
7.2.
Il ricorrente, sostenendo di meritare un carico di oneri processuali ridotto perché B. ha ricevuto una pena più grave della sua, argomenta a torto. Egli infatti trascura di considerare che l’importante differenza tra la sua pena detentiva (14 mesi) e quella del correo (26 mesi) non va ricondotta a una minore gravità dei fatti addebitatigli, ma unicamente all’effetto della sua scemata imputabilità, senza la quale la sua pena sarebbe stata addirittura superiore a quella inflitta al correo.
D’altra parte, anche esaminando i singoli reati a cui RI 1 rispettivamente B. sono stati condannati, emerge come gli addebiti non divergano in modo sostanziale: oltre alle infrazioni e alle contravvenzioni alla LStup, talune commesse in correità, a B. è stato imputato un furto di fr. 32'000.- e l’entrata e il soggiorno illegale in Svizzera, a RI 1 la guida in stato di inattitudine. È a torto, dunque, che il ricorrente pretende che le spese d’inchiesta causate da B. siano state
“ben maggiori”
rispetto alle sue, ritenuto oltretutto che il pilastro dell’inchiesta risulta essere la determinazione dei traffici di stupefacente in cui le responsabilità dei due condannati non divergono in misura tale da imporre una significativa ripartizione delle spese.
Irricevibile, infine, poiché formulata in modo vago e per nulla sostanziata, la censura relativa agli atti istruttori.
Anche su questo punto, pertanto, il ricorso è votato all’insuccesso.
8.
Solo di transenna è, infine, il caso di rilevare che il ricorrente, con i suoi ripetuti rimproveri alla polizia giudiziaria, tesi ad evidenziare l’errata verbalizzazione delle sue deposizioni (cfr. ricorso, pag. 2), non fa altro che sollevare la violazione di vizi essenziali di procedura, dimenticando, tuttavia, che tali censure andavano sollevate “non appena possibile” (art. 288 lett. b CPP). Non avendole egli sollevate in precedenza, esse sono, in questa sede, irricevibili.
9.
Gli oneri processuali seguono la parziale soccombenza e sono posti, in ragione di 1/3 a carico del ricorrente (art. 15 cpv. 1 in combinazione con l’art. 9 cpv. 1 CPP).
La richiesta del ricorrente di essere ammesso al gratuito patrocinio
“nella misura della tassa di giustizia”
(ricorso, pag. 4) viene trasmessa, per competenza, al Giudice dell’istruzione e dell’arresto (art. 31 Lag). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,010 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
cc1ee345-56e3-5cbc-b757-3a43e709e9cd | in fatto ed in diritto
1.
A seguito dello scritto 2/4.05.2011 di PI 2, inviato al Ministero pubblico e per conoscenza a PI 1 [mediante il quale PI 2, quale gerente e titolare del Bar _, _, ha in sostanza sostenuto che il 27.04.2011 PI 1, in quel periodo cameriera e già gerente del predetto esercizio pubblico, l’avrebbe minacciata, chiedendo parimenti di diffidarla a non presentarsi presso il locale fuori dall’orario di lavoro e dopo la fine del rapporto di lavoro (31.05.2011)] è stato aperto un procedimento penale a carico di PI 1 per l’ipotesi di reato di minaccia sfociato nel decreto di non luogo a procedere 4.07.2011 emanato dal procuratore pubblico Arturo Garzoni in applicazione dell’art. 310 cpv. 1 lit. a CPP (NLP _ – inc. MP _).
Avverso il predetto decreto non è stato presentato reclamo a questa Corte.
2.
Con la presente istanza –
trasmessa dal Ministero pubblico, per competenza, a questa Corte
– l’IS 1, _ (di seguito IS 1) chiede, in nome e per conto di PI 1, di ottenere la trasmissione, in copia, degli atti del surriferito incarto penale, avendo bisogno di tale documentazione nell’ambito dell’istanza di conciliazione da lei presentata in nome e per conto di PI 1 contro _, _, di cui _ è socia e gerente, precisando parimenti che l’udienza è prevista il 24.08.2011 alle ore 11:00 presso la Giudicatura di pace di _ (cfr. istanza 28.07./16.08.2011 e documentazione ivi annessa).
Come esposto in entrata, il Ministero pubblico ha preavvisato favorevolmente la richiesta.
Questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare PI 2, poiché le parti del procedimento di conciliazione corrispondono a quelle del procedimento penale.
3.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
4.
Giusta
l’articolo 68 capoverso 2 lit. d CPC
in relazione all’art. 12 cpv. 1 lit. b LACPC (RL 3.3.2.1.), all’IS 1 è riconosciuta la rappresentanza processuale professionale in materia di contratto di lavoro [a condizione che abbia una procura scritta del loro rappresentato, che abbia l’esercizio dei diritti civili e che sia ritenuta dal giudice capace di proporre e discutere la causa con la necessaria chiarezza (art. 12 cpv. 2 LACPC)].
Il Codice di diritto processuale penale svizzero (entrato in vigore l’1.01.2011) prevede all’art. 127 cpv. 4 CPP che le parti possono designare quale patrocinatore qualsiasi persona avente l’esercizio dei diritti civili, di buona reputazione e degna di fiducia; sono fatte salve le restrizioni stabilite dal diritto sull’avvocatura, in particolare dall’art. 2 cpv. 1 LLCA, secondo cui la rappresentanza in giudizio / dinanzi alle autorità giudiziarie è riservata agli avvocati (BSK StPO – N. RUCKSTUHL, art. 127 CPP n. 15; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 127 CPP n. 5).
Tenuto conto di quanto sopra esposto, all’IS 1 non può essere di principio riconosciuta la rappresentanza processuale professionale dinanzi alle autorità penali.
Occorre quindi esaminare la natura dell’istanza in discussione per verificarne la ricevibilità. In altri termini va analizzato se una domanda di compulsazione atti in una procedura conclusa – come in concreto – vada considerata una procedura di natura penale. Va ribadito che, in simili situazioni, l’attività di questa Corte sia sostanzialmente limitata all’esame ed alla ponderazione degli (opposti) interessi in gioco ed alla valutazione della loro prevalenza (cfr. considerando precedente). Si tratta di valutazione che apparenta la procedura in causa maggiormente a quelle di natura amministrativa rispetto alle procedure di natura penale (cfr. decisione del Tribunale federale 28 luglio 2008 pubblicata in DTF 134 II 318 con riferimento a decisione dell’allora competente Camera dei ricorsi penali, sulla scorta dell’art. 27 CPP). Ritenuto ciò che precede e considerata la competenza dell’associazione rappresentante l’istante di patrocinare la stessa in ambito civile, l’istanza deve essere ritenuta ricevibile. Una decisione contraria costituirebbe un formalismo eccessivo inammissibile.
5.
Nel presente caso, pur essendo stata PI 1 parte (quale imputata) nel procedimento nel frattempo terminato, essa deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo
.
Come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.3.1987, ad art. 8 p. 10). Inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994 p. 19).
Lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG.
6.
Nella fattispecie in esame è pacifico l’interesse giuridico legittimo di PI 1 ad ottenere copia
degli atti dell’incarto penale MP _ sfociato nel decreto di non luogo a procedere 4.07.2011 (NLP _)
, poiché l’ha interessata personalmente in veste di parte. A ciò aggiungasi che tali atti potrebbero essere utili in vista dell’udienza di conciliazione che si terrà il 24.08.2011 dinanzi alla Giudicatura di pace del circolo di _ inerente alle problematiche sorte riguardo al rapporto di lavoro instauratosi tra le parti e nel frattempo terminato.
Di conseguenza gli atti dell’incarto penale MP
_
[AI 1 (1 pagina), AI 2 (1 pagina), AI 3 (8 pagine), AI 4 (1 pagina) e AI 5 (2 pagine)], vengono trasmessi, in copia, direttamente all’IS 1 unitamente alla presente decisione.
7.
L’istanza è accolta ai sensi del surriferito considerando. Non si prelevano tassa di giustizia e spese, in considerazione della particolarità della fattispecie. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
cc37ce3a-aa97-5326-aa6a-b7275fce0d52 | in fatto ed in diritto
che a seguito delle segnalazioni dell’8/10.05.2006 e del 29/30.05.2006 da parte dell’Ufficio federale di comunicazione in materia di riciclaggio riguardanti due persone, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale (inc. MP _) a loro carico per titolo di riciclaggio di denaro (art. 305bis cifra 1 CP), nell’ambito (tra l’altro) del quale IS 1 è stato sentito
"
con facoltà di non rispondere (...)
" (decreto di non luogo a procedere 27.08.2009, NLP _, p. 1);
che
esperite le indagini preliminari, il procedimento penale – per quanto interessa la fattispecie in esame – è sfociato nel decreto di non luogo a procedere 27.08.2009 emanato dall’allora procuratore pubblico Giovan Maria Tattarletti a carico di IS 1, riservata la scoperta di nuove prove (cfr., nel dettaglio, decreto di non luogo a procedere 27.08.2009, NLP _);
che avverso il suddetto decreto non è stata presentata un’istanza di promozione dell’accusa ex art. 186 CPP TI alla (allora) Camera dei ricorsi penali; il medesimo è dunque regolarmente passato in giudicato;
che con la presente istanza l’avv. PR 1, che ha patrocinato IS 1 nell’ambito del procedimento penale di cui all’incarto MP _, chiede la trasmissione, in copia, del verbale d’interrogatorio del suo assistito tenutosi il 24.07.2008 dinanzi alla polizia (recte: al Ministero pubblico), non disponendo più del medesimo, precisando parimenti che il mandato di patrocinio è tuttora in essere (doc. 1.A);
che, come esposto in entrata, il procuratore pubblico non si è opposto alla richiesta;
che questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare le altre parti coinvolte nel procedimento penale di cui all’incarto MP _ nel frattempo archiviato, essendo il qui istante stato parte (in qualità di indiziato) al medesimo;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel presente caso, pur essendo stato l’istante parte (in qualità di indiziato) nel procedimento nel frattempo terminato, egli deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo;
che,
come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10);
che inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994 p. 19);
che lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG;
che nella fattispecie in esame – visti i motivi addotti nella presente richiesta – appare pacifico l’interesse giuridico legittimo di IS 1 giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere la trasmissione, in copia, del suo verbale d’interrogatorio 24.07.2008 di cui all’incarto MP _ (AI 51), poiché l’ha interessato personalmente in veste di indiziato;
che di conseguenza il verbale richiesto viene trasmesso, in copia, al patrocinatore di IS 1 unitamente alla presente decisione;
che si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo IS 1 già stato parte al procedimento penale nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
cc4df9c6-248f-5f8e-b5c0-88c56efe54e4 | Con decreto di accusa del 4 febbraio 2008 il Procuratore pubblico ha ritenuto RI 1 autore colpevole di grave infrazione alle norme della circolazione per avere, il 6 novembre 2007 a _, violato gravemente le norme medesime cagionando un serio pericolo per la sicurezza altrui, in particolare per avere circolato con il motoveicolo Gilera targata _ alla velocità di 78 km/h (dedotto il margine di tolleranza) accertata dalla Polizia mediante apparecchio radar, malgrado il vigente limite di 50 km/h. In applicazione della pena, egli ha proposto la condanna di RI 1 alla pena pecuniaria di 90 aliquote giornaliere di fr. 30.–, corrispondenti a complessivi fr. 2 700.–, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 4 anni, e al pagamento di una multa di fr. 500.–, con l’avvertenza che, in caso di mancato pagamento, la stessa sarà sostituita con una pena detentiva di 5 giorni. Egli non ha dipoi revocato il beneficio della sospensione condizionale concesso alla pena detentiva di 12 mesi decretata nei suoi confronti dalla Corte delle assise correzionali di _ il 2 giugno 2006, prolungando tuttavia di un anno il relativo periodo di prova. Ha invece proposto la revoca del beneficio della sospensione condizionale concesso alla pena pecuniaria di 60 aliquote giornaliere da fr. 30.– ciascuna per complessivi fr. 1 800.– decretata nei suoi confronti dal Ministero pubblico l’8 ottobre 2007, con l’avvertenza che in caso di mancato pagamento essa sarà sostituita con una pena detentiva di 60 giorni. Al decreto di accusa RI 1 ha sollevato opposizione.
B.
Statuendo sull’opposizione, con sentenza del 18 giugno 2008 il presidente della Pretura penale ha confermato l’imputazione, condannando RI 1 alla pena di 90 aliquote giornaliere di fr. 50.–, per un totale di fr. 4 500.–, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 4 anni, e a una multa di fr. 500.–, con l’avvertenza che in caso di mancato pagamento la pena detentiva sostitutiva è fissata in 5 giorni (art. 106 cpv. 2 CP). Rinunciato alla revoca della sospensione condizionale concesso alla pena detentiva di 12 mesi decretata nei suoi confronti dalla Corte delle assise correzionali di Locarno il 2 giugno 2006, il Presidente della Pretura penale ha invece revocato il beneficio della sospensione condizionale concesso alla pena pecuniaria di 60 aliquote da fr. 30.– per complessivi fr. 1 800.– decretata nei suoi confronti dal Ministero pubblico del Cantone Ticino l’8 ottobre 2007, con l’avvertenza che in caso di mancato pagamento, la stessa sarà sostituita con una pena detentiva di 60 giorni.
C.
Contro la citata sentenza RI 1 ha inoltrato il 23 giugno 2008 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi scritti del gravame, presentati il 23 luglio successivo, egli chiede il proscioglimento dall’impu- tazione di grave infrazione alle norme della circolazione. Il ricorso non ha formato oggetto di intimazione. | Considerando
In diritto:
1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288 lett. a e b CPP). L’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. b e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 133 I 149 consid. 3,1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1. pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia 369 consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una propria versione dell’accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev’essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1. pag. 219, 129 I 8 consid. 2.1. pag. 9. 173 consid. 3.1 pag. 178).
2.
Nella condanna per grave infrazione alle norme della circolazione, il ricorrente ravvisa una violazione del principio
in dubio pro reo
da parte del presidente della Pretura penale, al quale rimprovera di avere manifestamente violato il principio della presunzione di innocenza, rispettivamente di avere fondato il giudizio impugnato solo sull’indizio costituito dal fatto che egli è il detentore del motoveicolo ritratto nella fotografia agli atti, scattata in occasione del controllo radar, che ha rilevato una velocità da parte del conducente – che in realtà era la persona alla quale egli aveva prestato poco prima il citato mezzo – di 78 km/h (dedotto il margine di tolleranza), malgrado il vigente limite di velocità di 50 km/h.
3.
Premesso che la moto, di cui l’accusato è detentore, è incorsa il 6 novembre 2007 alle ore 10.41 in via _, in un controllo radar, nel quale è stata accertata una velocità chiaramente superiore al consentito, il presidente della Pretura penale ha ricordato che lo stesso prevenuto ha sempre contestato di essere stato alla guida del mezzo, sostenendo di avere dato in prestito il medesimo a una persona straniera casualmente conosciuta la sera precedente in un bar di _, la quale aveva chiesto tale favore per sbrigare alcune faccende, prima di ritornare nel suo paese. Davanti alla polizia, ha proseguito il giudice, dopo avere dichiarato di non conoscere le generalità del soggetto – presentatosi come “_” – cui aveva prestato la moto, il ricorrente ha precisato di avere, la mattina verso le 07.30, incontrato lo stesso “_”, presso il _, soggetto che aveva conosciuto il giorno prima nel medesimo esercizio pubblico durante una partita di calcetto. Questi, ha proseguito l’accusa- to, gli ha chiesto se poteva prestargli la moto in quanto doveva sbrigare alcune faccende, prima di rientrare in Italia. L’accusato, sempre stando alla sua versione, ha acconsentito, consegnando le chiavi al suo interlocutore, dopo che questi lo aveva accompagnato a casa. L’accordo prevedeva che “_” avrebbe riportato il motoveicolo per le 13.00 presso lo stesso esercizio pubblico, depositando la chiave nel vano di mezzo. Il che è poi avvenuto (sentenza, pag. 3 con riferimento al verbale di polizia del 7 novembre 2007). L’imputato, sempre stando alla sentenza impugnata, ha dipoi soggiunto di abitare con la madre e che all’ora del controllo si trovava a casa a _, dove è rimasto fino a quando non è ritornato al pub. Al dibattimento, ha puntualizzato il primo giudice, l’accusato ha riferito di avere chiesto a “_” se fosse in possesso della licenza di condurre e che questi gli ha mostrato una patente internazionale, che lo abilitava a guidare motoveicoli. A precisa domanda dello stesso giudice, egli ha risposto di non avere controllato le generalità del personaggio in discussione (sentenza, pag. 3).
Nel valutare tali dichiarazioni, il presidente della Pretura penale ha anzitutto rilevato che di principio incombe all’autorità provare la colpevolezza di una persona, puntualizzando tuttavia che, dottrina e giurisprudenza, hanno avuto modo di stabilire che in caso di infrazione alle norme della circolazione, non è contrario alla costituzione riconoscere nella qualità di detentore un indizio per la colpevolezza. Un indizio del genere, secondo lo stesso giudice, impone perciò al detentore di fornire delle spiegazioni. Qualora egli rimanga silente o non dia chiarimenti sufficientemente plausibili, il giudice – sempre stando alla sentenza di primo grado - potrà concludere che era lui il conducente (sentenza, pag. 4, con riferimento, tra l’altro, alle sentenze del Tribunale federale 1P. 39/2005 del 5 aprile 2005 e 1P. 6412/200 del 21 aprile 2001). Trattasi, secondo lo stesso primo giudice, di una applicazione della giurisprudenza della Corte di Strasburgo (sentenza, pag. 4). Orbene, ha concluso il presidente della Pretura penale, nella fattispecie il prevenuto ha fornito una spiegazione che ha dell’inverosimile e che appare finanche pretestuosa, perché non suffragata dal benché minimo indizio di veridicità. Non risulta infatti credibile, egli ha spiegato, che l’accusato abbia dato in prestito il suo unico veicolo a uno straniero di passaggio appena incontrato, di cui non conosceva nemmeno l’identità, con il rischio che il mezzo potesse essere rubato o anche solo danneggiato (sentenza, pag. 4). Altrettanto incredibile, ha di poi obiettato lo stesso giudice, che quando, come asserito, ha dato una occhiata alla licenza di condurre di “_”, sempre che lo abbia fatto, egli non abbia profittato dell’occasione per prendere nota, se non anche dell’indirizzo, per lo meno delle sue generalità. Strano inoltre che nessuno li abbia visti e possa confermarlo, rispettivamente che non ci sia qualcuno (per esempio la mamma, una cameriera o un avventore) che possa dare indicazioni sulla presenza nel pub del soggetto e sui suoi spostamenti (sentenza, pag. 4). Desta infine interrogativi, secondo il giudice, il fatto che non sia stata concordata la riconsegna della moto al domicilio dell’imputato, dato che lo “straniero” lo avrebbe finanche condotto a casa e conosceva quindi il luogo; se del caso l’accusato lo avrebbe poi potuto riportare al pub. Solo così egli avrebbe potuto controllare che tutto fosse in ordine (sentenza, pag. 4–5). In definitiva, secondo il primo giudice, l’accusato non ha fatto fronte all’obbligo che gli incombeva di provare che il conducente fosse un’altra persona. Egli non solo non ha portato, ma nemmeno si è attivato al fine di fornire un qualche elemento a sostegno della sua versione, affermando ad arte sempre e unicamente circostanze non verificabili; per cui non si può che concludere che il racconto del soggetto fosse un estremo, ma non veritiero, tentativo di difesa, nel senso che era lui stesso alla guida della sua motocicletta (sentenza, pag. 5).
4.
Secondo il ricorrente, asserendo che dottrina e giurisprudenza hanno avuto modo di riconoscere che in caso di infrazione alle norme della circolazione stradale, nella quale l’autore rimane sconosciuto, non è contrario alla costituzione riconoscere nella qualità di detentore del mezzo motorizzato un indizio di colpevolezza, con conseguente obbligo per il detentore stesso di fornire delle spiegazioni plausibili sulla vicenda, ritenuto che in caso contrario si potrà concludere che era lui il conducente, il presidente della Pretura penale ha manifestamente violato il diritto costituzionale, applicando erroneamente il principio
in dubio pro reo
e annichilendo il fondamentale principio della presunzione di innocenza. Giacché, egli rileva, ogni soggetto, nello stato di diritto, è presunto innocente fino a quando la prova della sua colpevolezza non sia stata fornita in termini chiari, ritenuto che una insufficienza di prove va a beneficio dell’accusato in virtù proprio dei citati principi. In materia di circolazione stradale, sempre secondo il ricorrente, non esiste alcuna presunzione legale che consente di sostenere che il detentore di un veicolo ne è il conducente ed è pertanto l’autore dell’infrazione, come appunto nel caso di un eccesso di velocità constatato mediante rilevamento radar. La sentenza del Tribunale federale 1P. 39/2005 richiamata dal primo giudice, assevera il ricorrente, non legittima infatti il giudizio impugnato, dal momento che essa riguarda un caso in cui l’autore era perseguito per il reato di atti sessuali con fanciulli. Nella fattispecie, ricorda il ricorrente, vi è solo un indizio, peraltro astratto, costituito dal fatto che egli è detentore della moto ritratta nella fotografia agli atti. L’altra sentenza richiamata, obietta il ricorrente, non è invece in alcun modo pertinente con la fattispecie, verosimilmente per un errore di redazione, trattandosi di un decreto di stralcio a seguito del mancato versamento dell’anti- cipo delle spese giudiziarie. La prassi evocata dal primo giudice, fa poi valere il ricorrente, può e deve essere applicata con estremo ritegno e grande circospezione, ossia non deve in ogni modo comportare una illegittima inversione del principio della presunzione di innocenza. I criteri posti a fondamento dell’am- missione di colpevolezza dell’accusato in una situazione del, genere, fa valere il ricorrente, devono essere analizzati in modo approfondito e sicuro: in sostanza o da una parte l’accusato si è rifiutato di collaborare senza alcun valido e serio motivo, oppure dall’altra la sua versione dei fatti deve porsi oltre ogni linea di quanto oggettivamente credibile (DTF 105 Ib 114).
5.
Con argomentazioni del genere, inutilmente prolisse, il ricorrente si propone con ogni evidenza di equivocare su una fattispecie di una semplicità palmare. Che il giudice poteva considerare come indizio di colpevolezza (guida della motocicletta immortalata nella fotografia agli atti) la circostanza che egli fosse il detentore, rispettivamente il proprietario della stessa moto, il ricorrente per finire non lo contesta più di quel tanto, e a giusta ragione. Orbene, di fronte a questa premessa non si può di certo far carico al primo giudice di avere violato la costituzione, per avere risolto il problema vagliando la credibilità della versione fornita dall’accu- sato nell’intento di dimostrare, rispettivamente di rendere verosimile che alla guida dalla motocicletta vi fosse una terza persona, anziché lui medesimo, come ci si poteva per principio attendere, dato che si trattava per l’appunto della sua moto. Tanto meno il ricorrente può seriamente rimproverare lo stesso giudice di avere stabilito la sua colpevolezza in violazione palese del principio della presunzione di innocenza, rispettivamente in violazione del principio
in dubio pro reo,
per avere ritenuto fuori da ogni logica e ai limiti della pretestuosità la spiegazione da lui fornita circa il fatto che alla guida della moto ci fosse un terzo. Non si vede infatti per quali motivi il giudice avrebbe stravolto la costituzione, ritenendo del tutto inverosimile che l’accusato abbia affidato la propria motocicletta al primo straniero conosciuto per caso la sera prima un esercizio pubblico, di cui non conosceva nulla, nemmeno la sua identità; rispettivamente ponendosi seri interrogativi di fronte all’asserzione dello stesso accusato di avere dato una occhiata alla licenza di condurre dello stesso soggetto, senza profittare dell’occasione per prendere nota per lo meno delle sue generalità; rispettivamente ponendosi ulteriori seri interrogatovi di fronte al fatto che nessuno abbia visto i due, cosi da confermarlo, come pure di fronte al fatto che non ci fosse qualcuno in grado di dare indicazioni sulla presenza dello straniero nel pub e sui suoi spostamenti; rispettivamente ponendosi ulteriori interrogativi una volta preso atto che non sia stata concordata la riconsegna della moto al domicilio del prevenuto, dato che “_” lo aveva – secondo l’accusato – condotto a casa e conosceva perciò il luogo, in modo da consentire allo stesso proprietario di controllare se tutto fosse in ordine. Certo, nel seguito del ricorso il ricorrente si diffonde sulla concludenza di questi indizi, facendo carico al primo giudice di essere trasceso in arbitrio nel porli a fondamento del giudizio di colpevolezza. L’esposto, invero caratterizzato da scarsa forza argomentativa, si esaurisce però a ben vedere in critiche di chiaro stampo appellatorio, mediante le quali il ricorrente non va oltre la prospettazione del proprio personale punto di vista, rispettivamente della propria personale interpretazione degli eventi, con la posa, tra l’altro, di meri interrogativi; il che non è però consentito in un ricorso per cassazione fondato sul divieto dell’arbitrio, con conseguente inammissibilità del rimedio al riguardo. Del resto, ogni ulteriori disamina del gravame, presentato a ben vedere con leggerezza, si appalesa comunque sia superflua, data l’inconsisten- za delle argomentazioni addotte nel tentativo di contestare l’evi- denza.
6.
Ne discende che nella misura in cui è ammissibile, il ricorso deve essere disatteso siccome manifestamente infondato. Gli oneri processuali seguono la soccombenza, ossia sono posti a carico del ricorrente (art. 15 cpv. 1 in combinazione con l’art. 15 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,008 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
cc58bc0b-3d53-56e8-9f73-a2543f2cb4bb | in fatto: A.
Con decreto di accusa 12 febbraio 2007 il sostituto procuratore pubblico ha riconosciuto RI 1 autore colpevole di lesioni semplici per avere, in data 21 settembre 2006, a _, cagionato a PC 1 – afferrandolo per il bavero, facendolo procedere a ritroso per poi spintonarlo con vigore facendogli battere la testa contro un muro – due ferite lacero contuse nella zona sopraccigliare destra che hanno necessitato l’applicazione di 3 punti di sutura.
In applicazione della pena, il sostituto procuratore pubblico ha proposto la condanna di RI 1 alla pena pecuniaria di 10 aliquote giornaliere di fr. 110
.–
, per un importo complessivo fr. 1
100
.–
, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 2 anni. Ha proposto inoltre la condanna del prevenuto al pagamento di una multa di fr. 400
.–
(fissando la pena detentiva sostitutiva in caso di mancato pagamento in 4 giorni) e delle spese giudiziarie ed ha rinviato la parte civile PC 1 al foro civile per le pretese di tale natura.
B.
Al decreto d’accusa RI 1 ha sollevato opposizione.
C.
Con sentenza 6 novembre 2007, il giudice della Pretura penale ha confermato il capo di imputazione di lesioni semplici intenzionali precisando che l’autore aveva agito per dolo eventuale, in stato di legittima difesa discolpante ai sensi dell’art. 16 cpv. 1 CP.
Il giudice ha, così, condannato RI 1 alla pena di 5 aliquote giornaliere, per un importo complessivo di fr. 550
.–
(pena sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 2 anni) cui ha associato una multa di fr. 400
.–
(prevedendo in 4 giorni la pena detentiva sostitutiva in caso di mancato pagamento). RI 1 è stato inoltre condannato al pagamento delle tasse e spese giudiziarie per complessivi fr. 1
270
.–.
D.
Contro la sentenza, RI 1 ha introdotto, il 6 novembre 2007, una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta del 13 dicembre 2007 egli ha chiesto, in via principale, il suo proscioglimento per non avere commesso il fatto ed avendo egli, “comunque“, agito con vie di fatto in stato di legittima difesa.
In via subordinata, egli ha chiesto la riforma della sentenza impugnata con l’accertamento che egli ha provocato delle lesioni semplici per negligenza, in stato di legittima difesa. In via ancora più subordinata, egli chiede che, in caso di condanna per lesioni semplici occasionate con eccesso di legittima difesa ex art. 16 CP, venga accertata la non colpevolezza in applicazione dell’art. 16 cpv. 2 CP.
E.
Il procuratore pubblico, senza svolgere particolari osservazioni, ha chiesto la conferma dell’impugnato giudizio.
F.
La parte civile, pure chiamata ad esprimersi, è rimasta, per contro, silente. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288
lett. a e b CPP). L’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una propria versione dell’accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev’essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 8 consid. 2.1 pag. 9, 173 consid. 3.1 pag. 178).
2.
I fatti accertati dal primo giudice – non contestati né dall’imputato né dalla parte civile – sono i seguenti.
In data 21 settembre 2006, verso le ore 22:30, l’accusato - custode, responsabile della sicurezza e gerente del bar _ di _ - mentre si trovava presso lo snack bar _ di _ è stato informato per telefono da un suo collaboratore, _ che PC 1, cui era stata comminata in data 15 settembre 2006 (per raccomandata con ricevuta di ritorno) una diffida formale a non più superare la soglia del locale, insisteva (“
con tracotanza
”) per entrare ugualmente, sostenendo di non essere la persona indicata nella diffida.
Giunto pochi minuti dopo sul posto, l’accusato – che conosceva PC 1 in quanto frequentatore abituale del locale – gli ha chiesto di andarsene, mostrandogli nuovamente copia della diffida.
PC 1 ha continuato a negare di essere la persona interessata dalla diffida e, rifiutando pure di esibire un documento d’identità, ha continuato a non ottemperare all’invito di lasciare il locale e, alzando i toni, ha minacciato “
di spaccare tutto
”.
A questo punto, “
non vedendo alcuna volontà di collaborazione (...) e temendo il peggio
” (sentenza consid 3 pag 4), il prevenuto – che sapeva che PC 1 era un esperto di arti marziali - ha chiesto al collega di aprire la porta d’entrata per facilitare l’allontanamento dell’avventore indesiderato. Ha cercato, quindi, di prenderlo per un braccio e di accompagnarlo fuori ma questi si è immediatamente divincolato.
Così, RI 1
“lo ha afferrato per il bavero sollevandolo leggermente in modo da fargli perdere parte dell’attrito con il suolo e ridurre le sue possibilità di opporre resistenza e, quindi, facendo ricorso ad una tecnica che egli aveva appreso nell’ambito della sua formazione professionale quale guardia del corpo, lo ha spinto velocemente e con forza oltre la soglia della porta”
(sentenza consid 3 pag 4).
PC 1 ha perso l’equilibrio - va detto che, per cercare di opporsi all’espulsione, egli “
si era appoggiato allo stipite della porta e facendo forza con le braccia ha cercato di darmi una spinta all’indietro”
(sentenza consid 3 pag 4) - e, cadendo, è andato a sbattere contro un muretto, procurandosi una ferita all’arcata sopraccigliare destra, che ha necessitato 3 punti di sutura (sentenza, pag. 3-5 consid. 1-5).
3.
In diritto, il giudice della Pretura penale ha stabilito che oggettivamente le lesioni cagionate dall’imputato a PC 1 costituiscono delle lesioni semplici ai sensi dell’art 123 CP.
Dal punto di vista soggettivo, il giudice della Pretura penale ha stabilito che RI 1 “
ha agito intenzionalmente o, quantomeno, con dolo eventuale
”. Il giudice ha spiegato che il prevenuto, esperto di tecniche di combattimento e di difesa corporale, non poteva non sapere che, spingendo l’uomo all’indietro con forza, “
per di più in corrispondenza di un piccolo dislivello del pavimento dovuto alla presenza di un gradino
”, questi avrebbe potuto perdere l’equilibrio e, cadendo, sbattere contro “
qualche ostacolo, che nemmeno poteva vedere
” e ferirsi.
Nonostante ciò – ha sottolineato il giudice – l’imputato ha deciso di allontanare l’avventore facendo ricorso alla violenza. Così facendo, secondo il giudice egli “
ha sicuramente agito con dolo eventuale, se non addirittura con l’intenzione di far del male, visto che non si è limitato a fare uscire la parte civile dal locale, ma lo ha deliberatamente scaraventato fuori
”.
Il primo giudice ha, per finire, ritenuto – al contrario di quanto sostenuto dalla difesa – che l’imputato ha ecceduto i limiti dei doveri connessi con l’esercizio della propria funzione di addetto alla sicurezza. Il giudice ha, inoltre, rilevato che il ricorso alla violenza fisica per allontanare PC 1 dal locale non trovava alcuna giustificazione oggettiva: l’utilizzo della forza è apparso al primo giudice immotivato e non commisurato alle circostanze, nonostante la parte civile – rifiutatasi di abbandonare il locale a dispetto della diffida – abbia commesso una violazione di domicilio.
Il primo giudice ha considerato che, sebbene abbia minacciato di “
spaccare tutto
”, PC 1 non ha effettuato alcun gesto concreto che facesse capire che intendeva realmente mettere in atto i suoi propositi e, oltretutto, non ha cercato il contatto fisico, limitandosi a liberarsi dalla presa al braccio. Secondo il primo giudice, quindi, l’imputato ha “
palesemente superato i confini della proporzionalità
”. Egli avrebbe potuto – ha aggiunto il giudice – risolvere ragionevolmente il problema in altro modo: cercando di convincerlo ad andarsene, chiedendo l’intervento della polizia o
“accompagnarlo civilmente alla porta, magari anche prendendolo per le braccia
” (sentenza consid. 12 pag. 9). Inoltre, - continua il giudice di prime cure - la spinta decisiva, “
quella più violenta
”, è stata inferta quando PC 1 era ormai già sulla soglia della porta: essa è, perciò, stata inferta quando non ce n’era più la necessità. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,009 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
cc86ba1d-86a3-530c-be14-867aad01aa34 | in fatto
a.
In data 27.9./1.10.2012 l’avv. PR 1 ha comunicato al Ministero pubblico di rappresentare IS 1, il quale lo ha incaricato di verificare l’esistenza, in territorio svizzero, di procedimenti penali pendenti o conclusi a suo carico presso il Ministero pubblico del Canton Ticino e se egli è stato oggetto di domande di assistenza giudiziaria in materia penale (doc. 1.E).
A seguito dello scritto 23.10.2012 da parte del Ministero pubblico (mediante il quale il patrocinatore è stato invitato a completare la sua domanda con i dati anagrafici del suo assistito e una breve motivazione, doc. 1.D), il 25/26.10.2012 l’avv. PR 1 ha fornito i dati anagrafici del suo cliente, precisando parimenti che quest’ultimo avrebbe interesse nell’avvio di un’attività imprenditoriale sul territorio elvetico e che
"
(...). Prima di adottare iniziative in quest’ottica, tuttavia, egli desidera conoscere nel dettaglio la propria situazione processuale, in modo tale da non incorrere in qualsiasi malinteso. (...)
" (scritto 25/26.10.2012, doc. 1.C).
b.
Con scritto 29.10.2012 il Ministero pubblico ha comunicato all’avv. PR 1 che, allo stadio attuale, non risultano procedimenti penali a carico di IS 1 presso questo Ufficio. Ha inoltre evidenziato che nel 2008, su richiesta delle autorità italiane, è stata evasa una domanda di assistenza giudiziaria internazionale, precisando in ogni modo che questa comunicazione non ingloba procedure federali, di altri cantoni o amministrative (doc. 1.B).
c.
Il 5/6.11.2012 l’avv. PR 1 ha chiesto al Ministero pubblico di poter visionare gli atti della procedura rogatoriale menzionata nello scritto 29.10.2012 (doc. 1.A).
Il 6.11.2012 il Ministero pubblico ha deciso di trasmettere, per competenza, a questa Corte la suddetta richiesta, allegando i surriferiti scritti e l’incarto ROG _ di cui viene postulata la compulsazione, senza formulare osservazioni in merito. | in diritto
1.
Giova preliminarmente rilevare che nella fattispecie in esame si è alla presenza di una richiesta di ispezione degli atti riguardante un incarto rogatoriale in cui, nell’ambito di un procedimento penale italiano, la
Procura della Repubblica presso il Tribunale di _
ha postulato assistenza giudiziaria al Ministero pubblico del Canton Ticino. Occorre dunque stabilire la competenza e il diritto applicabile in quest’ambito.
2.
2.1.
I rapporti di assistenza giudiziaria in materia penale tra la Repubblica Italiana e la Confederazione Svizzera sono anzitutto retti dalla Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20.04.1959, entrata in vigore il 12.06.1962 per l'Italia ed il 20.03.1967 per la Svizzera (CEAG; RS 0.351.1), dall'Accordo italo-svizzero del 10.09.1998 che completa e agevola l'applicazione della CEAG (RS 0.351.945.41), entrato in vigore mediante scambio di note il 1°.06.2003, nonché, a partire dal 12.12.2008 (Gazzetta ufficiale dell'Unione europea,
L 327/15
-17, del 5.12.2008), dagli art. 48 ss. della Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen del 14.06.1985 (CAS) (decisione TPF RR.2012.60-61 del 24.09.2012, consid. 1.2.).
La Legge federale sull'assistenza internazionale in materia penale del 20.03.1981 (AIMP; RS 351.1) e la relativa ordinanza (OAIMP; RS 351.11) sono applicabili alle questioni che la prevalente Convenzione internazionale e l'Accordo non regolano espressamente o implicitamente, come pure quando il diritto nazionale sia più favorevole all'assistenza di quello convenzionale (art. 1 cpv. 1 AIMP, art. I cpv. 2 dell'Accordo;
DTF 130 II 337
consid. 1; DTF 124 II 180 consid. 1a), fatto salvo il rispetto dei diritti fondamentali (
DTF 123 II 595
consid. 7c) [decisione TF 1A.107/2006 del 10.08.2006 consid. 1.1.].
2.2.
Nell’ambito della AIMP, il diritto di esaminare gli atti della procedura, quale aspetto del diritto di essere sentito garantito dall’art. 29 cpv. 2 Cost, è messo in atto dall’art. 65a AIMP (che prevede in particolare al suo cpv. 1 che ai partecipanti al processo all’estero può essere consentita la presenza ad operazioni di assistenza giudiziaria nonché la consultazione degli atti qualora lo Stato richiedente ne faccia richiesta in base al suo ordinamento giuridico) e dall’art. 80b AIMP [secondo cui gli aventi diritto possono partecipare al procedimento ed esaminare gli atti sempreché ciò sia necessario alla tutela dei loro interessi (art. 80b cpv.
1 AIMP); tali diritti possono, secondo l’art. 80b cpv. 2 AIMP, essere limitati: nell’interesse del procedimento estero (lit. a); per la protezione di un interesse giuridico essenziale a domanda dello Stato richiedente (lit. b); per la natura o il carattere urgente delle misure da prendere (lit. c); per la protezione di interessi privati essenziali (lit. d); nell’interesse di un procedimento svizzero (lit. e); il diniego d’esame o di partecipazione al procedimento dev’essere ristretto agli atti e alle operazioni soggetti a segreto (art. 80b cpv. 3 AIMP)]
(R. ZIMMERMANN, La coopération judiciaire internazionale en matière pénale, 3. ed., § 477, p. 442 e riferimenti).
2.3.
Nell’ambito della procedura di cooperazione internazionale, l’accesso agli atti ha quale scopo imprescindibile la tutela dell’esercizio dei diritti delle parti, in particolare il diritto al ricorso. Di conseguenza questo diritto si estingue allorquando l’assistenza è stata ammessa e la domanda è stata evasa (R. ZIMMERMANN, op. cit., § 481, p. 447 e rif.).
Al riguardo il Tribunale federale ha in particolare stabilito che non appena i documenti vengono trasmessi all’autorità richiedente, la richiesta di poter accedere agli atti rogatoriali deve essere presentata all’autorità competente dello Stato richiedente, e non più presso l’autorità svizzera di assistenza giudiziaria [decisione TF 1A.60/2000 del 22.06.2000 consid. 4e;
decisione TF non pubblicata in re H. del 10.10.1997, consid. E. 2.b)
; giurisprudenza confermata nella decisione TF 1A.212/2003 del 30.08.2004 consid. 13, in cui è stato statuito che se l’assistenza giudiziaria è stata attuata in base ad un provvedimento passato in giudicato, secondo la prassi del Tribunale federale viene di principio meno anche l’interesse degno di protezione].
Ne discende che l’art. 62 cpv. 4 LOG (secondo cui "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
") non può dunque trovare alcuna applicazione.
3.
Nella fattispecie in esame il patrocinatore del qui istante ha postulato di poter visionare l’incarto ROG _
.
Ora, dall’incarto ROG _ risulta che il 28.12.2007 la Procura della Repubblica presso il Tribunale di _, nell’ambito del procedimento penale no. _ _ contro, tra gli altri, IS 1 (_), ha chiesto assistenza giudiziaria al Ministero pubblico del Canton Ticino.
Il 2.01.2008 l’allora procuratore pubblico Maria Galliani ha deciso di entrare nel merito della domanda, ordinando parimenti un atto d’esecuzione (art. 80a AIMP), al quale la polizia ha dato seguito.
Il 15.01.2008 l’allora procuratore pubblico ha trasmesso alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di _ la documentazione inerente alla commissione rogatoria e alla sua evasione.
Il 17.01.2008 la predetta autorità ha confermato all’allora magistrato inquirente di aver ricevuto la documentazione oggetto della domanda di assistenza giudiziaria del 28.12.2007.
L’incarto ROG _ è stato conseguentemente archiviato dal Ministero pubblico.
In siffatte circostanze, alla luce della suddetta giurisprudenza e considerato come i documenti rogatoriali di cui all’incarto ROG _ sono stati trasmessi dal Ministero pubblico del Canton Ticino all’autorità richiedente (la Procura della Repubblica presso il Tribunale di _) e che la domanda di assistenza giudiziaria è stata evasa, la presente richiesta di poter accedere agli atti dell’incarto rogatoriale in questione deve essere presentata all’autorità competente dello Stato richiedente, e quindi all’autorità italiana competente.
L’istanza è dunque da dichiararsi irricevibile in difetto della competenza territoriale.
4.
L’istanza è irricevibile. Vista la particolarità della fattispecie, si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
cd27650d-533d-5f26-8738-2cff4a8d95e4 | in fatto
a.
Con atto d’accusa 6.5.2008, l’allora procuratore pubblico
Manuela Minotti Perucchi ha posto in stato d’accusa dinanzi alla Corte delle assise criminali PI 26 e PI 27 per i titoli di reato di truffa, falsità in documenti ed appropriazione indebita
(ACC _).
b.
In data 15.2.2013, la Corte delle assise criminali ha condannato gli imputati alle pene di ventiquattro mesi di detenzione per PI 26 e di venti mesi di detenzione per PI 27, siccome ritenuti colpevoli di truffa aggravata, appropriazione indebita e falsità in documenti (sentenza 15.2.2013, p. 17, inc. TPC _). Entrambi gli imputati sono stati condannati ad un risarcimento equivalente in favore dello Stato di CHF 450'000.-- ciascuno (dispositivo 5.1.2. e 5.2.2.), ed a versare, in solido, ai ventisette accusatori privati importi per complessivi CHF 2'969'191.10. La Corte delle assise criminali ha inoltre confiscato
“(...) prestazioni assicurative della polizza d’assicurazione sulla vita (...) presso la _; conto di libero passaggio (...) presso _; fr. 146'517.55 depositati presso il Tribunale penale (...)”
di spettanza di PI 26 e
“(...) fr. 211'700.-- depositati presso il Tribunale penale (...)”
di spettanza di PI 27. I risarcimenti compensatori di cui ai dispositivi 5.1.2. e 5.2.2. sono stati assegnati, previo soddisfacimento di tasse e spese di giustizia,
“(...) in favore degli accusatori privati proporzionalmente ai crediti loro riconosciuti ai dispositivi 8.3
[PI 24]
,8.4
[PI 25]
, 8.12
[_]
, 8.25
[RE 1]
e 8.26
[_]
(...)”
(sentenza 15.2.2013, p. 19, inc. TPC _).
La sentenza 15.2.2013 è passata in giudicato.
c.
Con scritto 16.9.2013 il presidente della Corte delle assise criminali, giudice Marco Villa, ha disposto le assegnazioni a favore di ulteriori cinque accusatori privati oltre quelli già riconosciuti nella sentenza 15.2.2013, che si erano annunciati dopo l’emanazione di quest’ultima (scritto 16.9.2013, inc. TPC _).
d.
Contro tale decisione sono insorti, fra gli altri, i qui reclamanti
contestando nella sostanza le modalità di assegnamento adottate dal presidente della Corte. A loro dire le assegnazioni disposte nella sentenza di merito del 15.2.2013 avrebbero acquisito forza di cosa giudicata, e sarebbero state, di conseguenza, vincolanti, e non ulteriormente modificabili. Inoltre, nessuna cessione a favore dello Stato sarebbe intervenuta da parte di altri accusatori privati. I reclamanti hanno inoltre censurato una violazione del diritto di essere sentito.
e.
Con sentenza 8.10.2013 questa Corte ha accolto i gravami sopraindicati annullando la decisione 16.9.2013 in quanto adottata dal solo presidente della Corte delle assise criminali, e non dalla stessa. Ha inoltre constatato una violazione del diritto di essere sentito in quanto il presidente, prima di prendere la propria decisione, non aveva intimato le richieste di assegnazione e non aveva dato, almeno a chi aveva già avanzato simili richieste precedentemente, la possibilità di esprimersi (sentenza 8.10.2013, inc. CRP _).
f.
Dopo aver accordato a tutti gli accusatori privati un termine per confermare la cessione allo Stato della quota relativa al loro credito nei confronti di PI 26 e PI 27 (scritto 6.12.2013, doc. 36, inc. TPC _), e dopo aver ricevuto gli scritti di risposta, la Corte delle assise criminali ha emanato la decisione di assegnazione 18.2.2014. La Corte ha affermato che i valori confiscati al momento del passaggio in giudicato della sentenza di merito 15.2.2013 ammontavano a CHF 358'217.55. Ha inoltre informato che
“(...) con scritto 23.7.2013 della _ Assicurazioni, le prestazioni assicurative relative alla polizza vita (...) di pertinenza di PI 26 non sono esigibili e che neppure lo sono attualmente gli averi della previdenza professionale presso Banca _ (...), sempre di pertinenza di PI 26 (...)”
e che
“(...) i condannati si sono impegnati a proseguire i versamenti al Tribunale penale cantonale per il risarcimento degli accusatori privati e, facendo fede ai loro impegni, hanno versato ad oggi (...) l’ulteriore importo di fr. 51'200.- (...)”
(decisione 18.2.2014, p. 3). La Corte delle assise criminali ha inoltre citato la dottrina e la giurisprudenza in merito all’art. 73 CP (assegnamenti al danneggiato) affermando che
“(...) dal momento che né in sede d’istruttoria né in sede dibattimentale vi è stata debita informazione sul contenuto dell’art. 73 CP alle parti lese sprovviste di rappresentante legale, le richieste degli AP (...), con cessione allo Stato della relativa quota del loro credito, vanno accolte e, pertanto, anche a loro va assegnato proporzionalmente al loro credito l’importo disponibile al momento del passaggio in giudicato della sentenza (...). (...) al momento del suo passaggio in giudicato la sentenza 15.2.2013 non era in tutti i suoi punti esecutiva, stante l’impegno di versamenti futuri – nel frattempo effettivamente avvenuti – da parte dei condannati e stante la non esigibilità delle prestazioni assicurative relative alla polizza vita e degli averi della previdenza professionale di PI 26 (...)”
(decisione 18.2.2014, p. 5 s., inc. TPC _). La Corte ha dunque proceduto all’assegnazione dell’importo confiscato ad ogni singolo accusatore privato per la quota parte di sua spettanza.
g.
Contro tale decisione insorgono nuovamente, fra gli altri, RE 1 e _. A loro dire la decisione impugnata violerebbe l’art. 73 CP, nella misura in cui, la sentenza di merito del 15.2.2013 sarebbe regolarmente passata in giudicato e sarebbe diventata esecutiva. In particolare sarebbe diventato esecutivo il dispositivo che attribuiva i risarcimenti equivalenti agli unici cinque accusatori privati, fra cui gli stessi reclamanti, che avrebbero validamente e tempestivamente formulato istanza di assegnazione. Al contrario la Corte non avrebbe attribuito loro l’importo complessivo di CHF 358'217.55 disponibile al momento del passaggio in giudicato della sentenza. Essi chiedono che quest’ultimo importo sia assegnato ai cinque, fra cui gli stessi reclamanti, accusatori privati, riconosciuti nella sentenza di merito del 15.2.2013. Per contro, che l’importo supplementare di CHF 51'200.--, maturato dopo il 15.2.2013, sia assegnato a tutti gli accusatori privati istanti (cfr. reclami 28.2./3.3.2014, inc. CRP _). In merito, essi precisano che la Corte delle assise criminali avrebbe sottratto erroneamente da quest’ultimo importo anche la tassa e le spese di giustizia pari a CHF 5'473.30, ciò che non sarebbe corretto dato che la precitata somma di denaro era già stata dedotta in precedenza. A loro dire inoltre la decisione della Corte delle assise criminali creerebbe
“(...) un paradosso (...) qualora gli effetti vincolanti dell’assegnamento avvenuto con sentenza 15 febbraio 2013 non fossero rispettati (...)”
:
“Un domani uno o più degli altri accusatori privati (...), la cui pretesa è stata riconosciuta al punto 8 del dispositivo della sentenza 15 febbraio 2013 e che non hanno ancora inoltrato un’istanza di assegnamento, potrebbero farsi avanti (...). (...). Ora, applicando la stessa modalità di giudizio messa in atto con la pronuncia del 18 febbraio 2014, la Corte delle assise criminali dovrebbe nella nuova sentenza trascurare quanto già statuito nelle decisioni precedenti e porre anche i nuovi accusatori privati al beneficio dell’assegnamento e ciò non solo con riferimento a quanto versato dai due condannati dopo la sua ultima decisione, bensì tenendo conto della totalità di quanto versato dai due condananti sin dall’inizio, il tutto in barba al passaggio in giudicato di sentenze precedenti. Ciò avrebbe conseguenze paradossali, dovendosi poi recuperare presso gli accusatori privati arrivati prima, quanto essi hanno ricevuto in eccesso. (...)”
(reclamo 3.3.2014, p. 10 s.).
h.
Delle ulteriori argomentazioni, così come delle successive osservazioni, si dirà, se necessario, in corso di motivazione. | in diritto
1.
1.1.
L’art. 73 cpv. 3 CP dispone che i Cantoni debbano prevedere una procedura semplice e rapida per decidere sugli assegnamenti qualora non fosse possibile deciderli nella sentenza penale. Il testo di questo capoverso è sostanzialmente identico a quello del previgente art. 60 cpv. 3 vCP. È più che probabile che l’entrata in vigore del Codice di procedura penale federale (CPP) abbia di fatto reso superfluo detto capoverso. Di modo che, per determinare le norme procedurali applicabili, ci si deve orientare sul CPP.
1.2.
Nella presente fattispecie, questa Corte ritiene applicabili le norme degli art. 363 ss. CPP, relative alle decisioni giudiziarie indipendenti successive (
N. Schmid
, StPO Praxiskommentar, 2. ed., art. 378 CPP n. 2). Caratterizzando in tal modo la procedura, la via d’impugnazione è quella del reclamo a questa Corte (Commentario CPP –
M. Mini
, art. 393 CPP n. 18).
1.3.
I gravami, inoltrati il 3.3.2014, sono dunque tempestivi e proponibili. Le esigenze di forma e di motivazione sono rispettate. RE 1 e _, quali accusatori privati, sono pacificamente legittimati a reclamare ex art. 382 cpv. 1 CPP, avendo un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica del giudizio (BSK StPO – M. ZIEGLER, art. 382 CPP n. 4; PC CPP – L. MOREILLON / A. PEREIN–REYMOND, art. 382 CPP n. 5).
I reclami sono, nelle predette circostanze, ricevibili in ordine.
2.
2.1.
Giusta l’art. 73 CP se in seguito a un crimine o a un delitto, alcuno patisce un danno non coperto da un’assicurazione e si deve presumere che il danno o il torto morale non saranno risarciti dall’autore, il giudice assegna al danneggiato, a sua richiesta, fino all’importo del risarcimento o dell’indennità per torto morale stabiliti giudizialmente o mediante transazione: a. la pena pecuniaria o la multa pagata dal condannato; b. gli oggetti e i beni confiscati o il ricavo della loro realizzazione, dedotte le spese; c. le pretese di risarcimento; d. l’importo della cauzione preventiva prestata. Il giudice può tuttavia ordinare questi assegnamenti soltanto se il danneggiato cede allo Stato la relativa quota del suo credito.
2.2.
Conformemente al testo di legge, gli assegnamenti sono concessi al danneggiato unicamente a sua richiesta. Quando più danneggiati possono pretendere un risarcimento, è dovere di ciascuno di loro farne domanda al giudice competente. Quest’ultimo dovrà tener conto unicamente dei danneggiati che avranno espressamente formulato la richiesta sulla base dell’art. 73 CP. La dottrina sostiene che il giudice deve rendere attento il danneggiato alla possibilità offerta dall’art. 73 CP, almeno nei casi in cui quest’ultimo non ha delle conoscenze giuridiche sufficienti o non è assistito da un avvocato. Anche la giurisprudenza ammette un dovere di informazione da parte del giudice quando il danneggiato non è pratico nella materia giuridica o non è assistito da un patrocinatore (cfr. decisione TF 6B_659/2012 dell’8.4.2013; sentenza TF 6B_190/2010 del 16.7.2010; BSK Strafrecht I – F. BAUMANN, 3. ed., art. 73 CP n. 20).
In virtù del principio dell’economia processuale l’assegnamento deve essere deciso, di principio, già nella sentenza penale (art. 73 cpv. 3 CP a contrario). I Cantoni devono prevedere una procedura semplice e rapida nel caso in cui gli assegnamenti non fossero possibili già nella sentenza penale (art. 73 cpv. 3 CP). Una tale procedura è possibile nel caso in cui il danneggiato, che postula l’assegnamento giusta l’art. 73 CP, si annunci posteriormente. Per esempio nel caso in cui la confisca degli oggetti e i beni ai sensi degli artt. 69-72 CP sia già stata ordinata o quando la pena pecuniaria o la multa pagata dal condannato sia già stata acquisita dall’autorità competente. Una decisione ulteriore è tuttavia possibile nel caso in cui i beni in questione non siano già stati oggetto di una decisione di assegnamento, passata in giudicato, in favore di altri danneggiati (decisione TF 6B_53/2009 del 24.8.2009).
3.
3.1.
La Corte delle assise criminali al dispositivo 13 della sentenza di merito del 15.2.2013 ha deciso che
“(...) i risarcimenti compensatori di cui ai dispositivi 5.1.2
[CHF 450'000.--]
e 5.2.2
[CHF 450'000.--]
sono assegnati, previo soddisfacimento di tassa e spese di giustizia,
in favore degli accusatori privati proporzionalmente ai crediti loro riconosciuti ai dispositivi 8.3
[RE 1]
,8.4
[RE 1]
, 8.12
[_]
, 8.25
[PI 25]
e 8.26
[_]
(...)”
(sentenza 15.2.2013, p. 19, inc. TPC _).
Con scritti 9.3.2013 di PI 17 e PI 18, 20.2.2013 di PI 14, 28.3.2013 di PI 6 e 12.9.2013 di PI 8, gli accusatori privati chiedevano l’assegnazione, a loro favore, dei risarcimenti compensatori di cui ai dispositivi 5.1.2 e 5.2.2 (doc. 1/2/3/6, inc. TPC _).
A seguito di tali richieste il presidente della Corte delle assise criminali ha deciso di procedere all’assegnazione di quanto confiscato anche agli accusatori privati sopraindicati che avevano fatto richiesta dopo l’emanazione della sentenza di merito (decisione 16.9.2013, doc. 7, inc. TPC _).
3.2.
A seguito della sentenza 8.10.2013 di questa Corte, che annullava la predetta decisione 16.9.2013, il presidente della Corte delle assise criminali ha invitato tutti gli accusatori privati o i loro rappresentanti a confermare, nel termine di dieci giorni, la cessione allo Stato della quota relativa al loro credito nei confronti di PI 27 e di PI 26 (così come stabilito nella sentenza 15.2.2013 della Corte delle assise criminali), attirando la loro attenzione sul fatto che
“(...) in mancanza di una loro dichiarazione di cessione del credito allo Stato l’assegnazione non può essere ordinata (...)”
(scritto 6.12.2013, doc. 36, inc. TPC _).
È così che (oltre ai cinque accusatori privati che si erano annunciati prima dell’emanazione della sentenza di merito della Corte delle assise criminali ed ai cinque del 9.3.2013, 20.2.2013, 28.3.2013 e 12.9.2013) altri dieci accusatori privati hanno fatto richiesta di assegnazione giusta l’art. 73 CP (scritti doc. 38, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 57, inc. TPC _).
Con decisione 18.2.2014 la Corte delle assise criminali ha precisato che
“(...) i valori confiscati al momento del passaggio in giudicato della sentenza ammontavano a fr. 358'217.55, di cui fr. 146'517.55, di pertinenza di PI 26 (...) e fr. 211'700.- di pertinenza di PI 27 (...)”
; ha evidenziato che
“(...) visto lo scritto 23.7.2013 della _ Assicurazioni, le prestazioni assicurative relative alla polizza vita (...) di pertinenza di PI 26 non sono esigibili e che neppure lo sono attualmente gli averi della previdenza professionale presso Banca _ (...) sempre di pertinenza di PI 26 (...)”
; ha ricordato che
“(...) i condannati si sono impegnati a proseguire i versamenti al Tribunale penale cantonale per il risarcimento degli accusatori privati e, facendo fede ai loro impegni, hanno versato ad oggi (...) l’ulteriore importo di fr. 51'200.- di cui fr. 20'000.- PI 26 e fr. 31'200.- PI 27 (...)”
(decisione 18.2.2014, p. 3, doc. TPC 60, inc. TPC _). La Corte ha ribadito che per gli accusatori privati PI 25, PI 24, RE 1 e _
“(...) le rispettive richieste di assegnazione, ribadite in questa sede, sono già state decise con la sentenza 15.2.2013, passata in giudicato (...)”
. Di conseguenza
“(...) dal momento che né in sede d’istruttoria né in sede dibattimentale vi è stata debita informazione sul contenuto dell’art. 73 CP alle parti lese sprovviste di rappresentante legale le richieste (...)”
degli ulteriori accusatori privati
“(...) con cessione allo Stato della relativa quota del loro credito, vanno accolte e, pertanto, anche a loro va assegnato proporzionalmente al loro credito l’importo disponibile al momento del passaggio in giudicato della sentenza (punti 11.1.3 e 11.2.1 del dispositivo) (...)”
(decisione 18.2.2014, p. 5 s., doc. 60, inc. TPC _).
Alla luce di quanto precede la Corte delle assise criminali ha dunque suddiviso l’importo confiscato al punto 11 del dispositivo della sentenza 15.2.2013 tra i quindici accusatori privati annunciatisi (oltre a RE 1, _, PI 24 e PI 25) per la quota parte di loro spettanza in funzione delle altre indennità riconosciute in sentenza.
4.
4.1.
La Corte
delle assise criminali sostiene dunque che non essendovi stata una debita informazione da parte del giudice, né in sede di istruttoria, né in sede dibattimentale, agli accusatori privati sprovvisti di patrocinatore in merito ai loro diritti derivanti dall’art. 73 CP, le loro richieste, avvenute dopo la crescita in giudicato della sentenza di merito, del 15.2.2013, devono essere accolte. L’importo disponibile al momento del passaggio in giudicato di quest’ultima ammontava a CHF 358'217.55; somma di denaro da suddividere dunque, a mente dell’autorità giudicante, fra diciotto accusatori privati.
4.2.
Tale tesi non può tuttavia essere condivisa da questa Corte.
La Corte
delle assise criminali si riferisce al fatto che, giusta la giurisprudenza e la dottrina, il giudice deve rendere attenta la parte lesa in merito alle possibilità offerte dall’art. 73 CP, almeno nel caso in cui quest’ultima non possa fare affidamento sulle sue conoscenze giuridiche o sull’aiuto di un avvocato. Come già sopraindicato il Tribunale federale sancisce infatti il dovere di assistenza del giudice nel caso di danneggiati inesperti non patrocinati (cfr. sentenza TF 6B_659/2012 dell’8.4.2013). L’assegnazione deve tuttavia essere ordinata contemporaneamente alla decisione di merito giusta l’art. 73 cpv. 3 CP, come è avvenuto nel caso in esame. Un’assegnazione posteriore può infatti essere effettuata unicamente nel caso in cui non sia già avvenuta alcuna assegnazione passata in giudicato in favore di altri danneggiati (sentenza TF 6B_53/2009 del 24.8.2009 consid. 2.6; sentenza TF 6B_659/2012 dell’8.4.2013 consid. 3.1.) o se i beni pervengono dopo. Nel caso in esame nella sentenza 15.2.2013 la Corte delle assise criminali assegnava a PI 24, PI 25, RE 1 e _ i risarcimenti compensatori (punto 13). La sentenza è passata in giudicato. Pertanto, contrariamente a quanto sembra sostenere l’autorità di merito, il fatto che né in sede di istruttoria né in sede dibattimentale vi è stata una debita informazione alle parti lese in merito ai loro diritti, è irrilevante: determinante è il solo carattere definitivo ed esecutivo della decisione di assegnazione ai cinque accusatori privati, ossia la sentenza di merito 15.2.2013 della Corte delle assise criminali. RE 1 e RE 1 hanno dunque diritto alle assegnazioni derivanti dai beni confiscati. Tale giudizio si impone anche per garantire una certa sicurezza del diritto ed evitare che i danneggiati che hanno fatto valere le proprie pretese durante la procedura si vedano diminuire il loro risarcimento, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, da ulteriori accusatori privati annunciatisi successivamente.
4.3.
Al contrario, come rettamente rilevato dalla Corte delle assise criminali,
“(...) gli importi maturati posteriormente al passaggio in giudicato della sentenza ovvero dopo il 15.2.2013 vanno assegnati a tutte le parti istanti proporzionalmente al loro credito nel frattempo ceduto allo Stato (...)”
(sentenza 18.2.2014, p. 6). Pertanto i versamenti effettuati posteriormente al 15.2.2013, che ammontano a CHF 51'200.--, devono essere assegnati a tutti gli accusatori privati annunciatisi e di conseguenza anche a RE 1 e a RE 1. Al momento del passaggio in giudicato della sentenza di merito 15.2.2013 tale importo non era infatti ancora stato assegnato, anche perché non ancora confiscato. Medesima sorte per le prestazioni assicurative della polizza d’assicurazione sulla vita della _ e del conto di libero passaggio presso _.
5.
I gravami sono accolti. La decisione di assegnazione 18.2.2014 è annullata e gli atti rinviati alla Corte delle assise criminali affinché emani una nuova decisione tenendo conto dei considerandi precedenti. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
cdbbd6f7-87f9-5fab-a443-15693b96fc8f | Con decreto di accusa del 19 gennaio 2004 il Sostituto Procuratore pubblico ha ritenuto RI 1 autore colpevole di omicidio colposo per avere cagionato a _ un trauma psichico (rispettivamente fisico-contusivo) al cranio che ne ha provocato la morte. In applicazione della pena, egli ha proposto la condanna dell'accusato a 50 giorni di detenzione sospesi condizionalmente per due anni. Al decreto di accusa RI 1 ha sollevato opposizione. Statuendo sull'opposizione, il giudice della Pretura penale ha confermato tanto il capo d'imputazione quanto la proposta di pena.
D.
Contro la sentenza appena citata RI 1 ha introdotto il
5 luglio 2004 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta, presentata il
2 agosto successivo, egli chiede di essere assolto o almeno, in via subordinata, di rinviare gli atti alla Pretura penale per nuovo giudizio previa audizione dei medici dell'Ospedale della Beata Vergine di Mendrisio e del medico legale. Nelle sue osservazioni del 30 agosto 2004 il Sostituto Procuratore pubblico propone di respingere il ricorso. PA 1, costituitisi parte civile, sono rimasti silenti. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288
lett. a e b CPP). L'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono sindacabili unicamente qualora la sentenza impugnata denoti estremi di arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì apertamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia 369 consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev'essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 129 I 8 consid. 2.1 pag. 9, 173 consid. 3.1 pag. 178, 128 I 273 consid. 2.1 pag. 275).
2.
Il ricorrente si duole che il primo giudice gli abbia illegalmente limitato i suoi diritti di difesa rifiutando l'escussione in aula del patologo dott. _ L_. Ricorda di avere sollecitato tale audizione perché questi, medico legale che ha condotto l'autopsia, poteva fornire tutte le necessarie precisazioni sulle cause del decesso e perché il patologo è stato sentito dal Sostituto Procuratore pubblico in assenza dell'accusato.
a)
Il giudice della Pretura penale ha motivato tale rifiuto precisando che il patologo era già stato sentito dal Sostituto Procuratore pubblico (verbale d'interrogatorio 2 aprile 2003: act. 28), che la sua deposizione è sufficientemente chiara sulle cause del decesso e che una sua nuova deposizione sarebbe stata inutile, le conclusioni del dott. Pierangelo Lucchini essendo state condivise dal perito giudiziario dott. _ Bo_ (ordinanza sulle prove 13 aprile 2004 e 11 giugno 2004).
b)
Il diritto di essere sentito assicura ¿ tra l'altro ¿ la facoltà di assumere le prove formalmente e tempestivamente offerte (DTF 115 Ia 8 consid. 2b pag. 11 con citazioni), compresa quella di interrogare i testi a carico e a discarico (DTF116 Ia 289 consid. 3 pag. 291 con richiami). In tale prospettiva esso consacra le stesse garanzie processuali dell'art. 6 par. 3 lett. d CEDU e le sua inosservanza comporta la cassazione della sentenza impugnata già per motivi di forma, senza riguardo al merito (DTF 116 Ia 52 consid. 2 pag. 54 con richiami). Il Tribunale federale ha però avuto modo di stabilire che se per un verso ¿ e per principio ¿ l'imputato ha diritto all'assunzione delle prove offerte, per altro verso l'autorità può rinunciare a quei mezzi istruttori il cui presumibile risultato non porterebbe elementi di rilievo (DTF 124 I 208 consid. 4 pag. 211, 122 V 157 consid. 1d pag. 162 con rinvio al principio enunciato in DTF 106 Ia 162 consid. 2b). Entro tali limiti l'apprezzamento anticipato delle prove non viola la garanzia di un equo processo consacrata dall'art. 6 CEDU (
Miehsler/
Vogler
in: Internationaler Kommentar zur Europäischen Menschenrechtskonvention, nota 367 ad art. 6 con rimandi; CCRP, sentenza del 10 settembre 2002 in re D., consid. 7.2; del 23 agosto 1999 in re R., consid. 1b; del 23 agosto 1999 in re G., consid. 2.1 con riferimenti).
c)
In concreto non si può dire che il primo giudice abbia arbitrariamente rifiutato l'assunzione della prova. Per ottenere chiarimenti sul nesso di causalità fra l'incidente, l'emorragia e la broncopolmonite della vittima (causa ultima del decesso: referto autoptico del 7 febbraio 2003, pag. 3) già il Sostituto Procuratore pubblico ha sentito il 2 aprile 2003 il dott. P
d)
L_ (act. 28), il quale ha confermato il nesso di causalità nella sequenza: incidente, stress emotivo, rialzo della pressione arteriosa, rottura vascolare intracerebrale, emorragia intraparenchimale dell'emisfero cerebrale sinistro, broncopolmonite lobare acuta diffusa, insufficienza respiratoria terminale acuta, morte. Tale conclusione è stata condivisa dal perito giudiziario G_ Bo_, seppure con una maggiore propensione per il trauma fisico quale origine scatenante della catena causale, il quale ha ritenuto che le conclusioni del dott. L_ non solo sono in grado ¿di spiegare al meglio la causa anatomo-patologica del decesso, ma anche di correlarla al momento di interesse giuridico e medico legale, e cioè all'incidente stradale del 3 gennaio 2003¿ (referto peritale pag. 10). Sulla base di ciò il giudice della Pretura penale poteva rinunciare senza arbitrio all'escussione litigiosa, tanto più che il ricorrente non spiega quali ragguagli avrebbe inteso ottenere dal professionista. Anzi, nel ricorso egli elogia la deposizione 2 aprile 2003 del dott. L_ per la ¿particolare precisione, dovizia e notevole capacità di sintesi¿ (ricorso, pag. 5). Il primo giudice non ha quindi commesso alcun vizio essenziale di procedura rifiutando di citare in aula il patologo.
3.
Sostiene il ricorrente che la sentenza impugnata sarebbe inficiata di altre ¿manchevolezze ed errori procedurali essenziali che ne hanno irrimediabilmente pregiudicato un eventuale esito favorevole all'accusato¿ (ricorso, pag. 15), il primo giudice avendo ¿ in particolare ¿ ¿estromesso¿ rilevanti deposizioni rilasciate al dibattimento (ricorso pag. 17). Ora, nella misura in cui il ricorrente lamenta un vizio essenziale di procedura a norma dell'art. 288 lett. b CPP, il ricorso è fuori argomento. Se il primo giudice ha ignorato determinate deposizioni ai fini della sentenza, può tutt'al più essere caduto in arbitrio accertando i fatti, ma non ha commesso alcun vizio di procedura. È vero che il ricorrente rimprovera anche al primo giudice di avere dato arbitraria prevalenza alle conclusioni peritali piuttosto che a quelle dei medici dell'Ospedale della Beata Vergine di Mendrisio, ma non spiega perché. Riassunta la deposizione 1° luglio 2004 del dott. _ Ba_,
egli pretende che ¿la sentenza qui impugnata non indica alcunché e neppure considera la pur precisa esposizione del testimone¿ (ricorso, pag. 16). Non indica tuttavia per quali ragioni il giudice sarebbe incorso in arbitrio accreditando le conclusioni peritali piuttosto che quelle ricordate nel gravame. Una doglianza di arbitrio non può esaurirsi nel prospettare una diversa opinione, foss'anche più convincente, né tanto meno nel rimproverare al giudice di avere scartato o ignorato un determinato parere medico (sopra, consid. 1). In un ricorso per cassazione fondato sul divieto dell'arbitrio occorre spiegare perché il censurato agire del giudice sarebbe arbitrario, non solo nella motivazione, ma anche nel risultato. Carente di motivazione, al riguardo il gravame va dichiarato inammissibile.
4.
Nel merito il ricorrente sostiene che, per quanto riguarda la dinamica del sinistro, non è stato individuato con precisione alcun punto di collisione tra il veicolo e la bicicletta, che il furgoncino procedeva ¿a passo d'uomo¿, che in realtà non v'è stata nessuno scontro e che il ciclista è caduto da sé, ¿senza urtare la vettura¿ (ricorso, pag. 9 seg.). Al giudice della Pretura penale egli rimprovera di avere accertato fatti non conformi alla realtà, senza soffermarsi su dubbi più che fondati circa il reale svolgimento degli eventi (ricorso, pag. 10). Ora, cosi com'è formulato, al proposito il ricorso potrebbe essere dichiarato inammissibile senza ulteriore disamina. Il ricorrente non pretende infatti che il primo giudice sia caduto in arbitrio nell'accertare i fatti. Tanto meno egli specifica in che consisterebbe l'arbitrio. Carente ancora una volta di requisiti formali, l'impugnazione sfuggirebbe già di per sé a un esame di merito.
Sia come sia, si volesse da ciò prescindere, il ricorso non sarebbe votato a miglior sorte. Che il ricorrente procedesse a velocità moderata, invero, è stato accertato anche dal primo giudice, il quale non ha precisato, certo, che nell'affrontare la rotonda l'automobilista viaggiasse ¿a passo d'uomo¿, ma ha dato atto che il furgoncino ha ridotto notevolmente la velocità, immettendosi nella rotatoria ad andatura confacente (sentenza, pag. 10). Per quanto attiene alla collisione, il giudice l'ha accertata fondandosi sulle dichiarazioni dei testimoni e sui rapporti della polizia
can
tonale (sentenza, loc. cit.). Contestare l'impatto non è serio, ove appena si consideri che nel verbale di interrogatorio del 3 gennaio 2003 il ricorrente medesimo ha ammesso di avere sentito un colpo e di avere poi constatato che a terra v'era un ciclista, ciò che il 16 aprile 2003 egli ha confermato di fronte al Sostituto Procuratore pubblico, precisando di avere intravisto un'ombra dopo essersi immesso nell'area rotatoria e di avere contemporaneamente udito un rumore alla portiera sinistra del furgone. Attardarsi oltre sugli accertamenti di fatto sarebbe perciò superfluo.
5.
In diritto l'art. 117 CP punisce chi, per negligenza, cagiona la morte di una persona con la detenzione o con la multa. E, giusta l'art. 18 cpv. 3 CP, commette un crimine o un delitto per negligenza chi, per imprevidenza colpevole, non ha scorto le conseguenze della sua azione e non ne ha tenuto conto. L'imprevidenza è colpevole ove l'agente non abbia usato le precauzioni cui era tenuto secondo le circostanze e le sue condizioni personali. Un comportamento viola i doveri di prudenza, in particolare, quando al momento dei fatti l'autore avrebbe potuto, tenendo conto delle sue conoscenze e delle sue capacità, rendersi conto della messa in pericolo altrui e ha oltrepassato i limiti del rischio ammissibile (DTF 129 IV 119 consid. 2.1 pag. 121, 127 IV 62 consid. 2d pag. 64, 126 IV 13 consid. 7a/bb pag. 17;
Trechsel
, StGB, Kurzkomnentar, 2a edizione, n. 28a e 33 ad art. 18 CP). Per determinare precisamente quali siano i doveri di prudenza occorre riferirsi alle norme specifiche (DTF 129 IV 119 consid. 2.1 pag. 121), a cominciare da quelle sulla circolazione stradale (DTF 122 IV 133 consid. 2a pag. 135, 225 consid. 2a pag. 227; sentenza del Tribunale federale 6S.297/2003 del 14 ottobre 2003, consid. 3.1;
Trechsel
, op. cit., n. 29 ad art. 18 CP).
a)
Tra il comportamento colpevole contrario a un dovere di prudenza e l'esito deve sussistere inoltre un rapporto di causalità naturale e adeguato. Un rapporto di causalità naturale è dato se il comportamento colpevole raffigura la condizione necessaria dell'evento, ossia se non può essere tralasciato senza che l'evento venga a meno, ancorché non ne sia la causa unica (sentenza del Tribunale federale 6S.297/2003 del 14 ottobre 2003, consid. 4 pag. 7; DTF 115 IV 199 consid. 5b e rinvii pag. 206). Al proposito un alto grado di verosomiglianza è sufficiente (DTF 122 IV 17 consid. 2c/aa pag. 23, 121 IV 207 consid. 2a pag. 212, 118 IV 30 consid. 6a). L'accertamento della causalità naturale è una questione di fatto, come tale sindacabile soltanto sotto il ristretto profilo dell'arbitrio (art. 288 lett. c CPP), a meno che il giudice di merito abbia disconosciuto il concetto stesso di causalità naturale (sentenza del Tribunale federale 6S.297/2003 del 14 ottobre 2003, consid. 4 pag. 8; DTF 122 IV 17 consid. 2c/aa pag. 23, 121 IV 207 consid. 2a e rinvii pag. 212).
b)
La causalità naturale deve poi essere adeguata. È necessario quindi stabilire se il comportamento dell'agente fosse idoneo, secondo l'andamento ordinario delle cose e l'esperienza generale della vita, a cagionare o a favorire l'evento (DTF 130 IV 7 consid. 3.2 pag. 10, 127 IV 62 consid. 2d pag. 65, 126 IV 13 consid. 7a/bb pag. 17; sentenze del Tribunale federale 6S.297/2003 del 14 ottobre 2003, consid. 4, e 6S.54/2002 del 27 giugno 2002, consid. 4.2). La causalità adeguata è un problema di diritto, che questa Corte ¿ come il Tribunale federale ¿ esamina con pieno potere cognitivo (DTF 121 IV 207 consid. 2a e rinvii pag. 213). Essa viene a meno, e il concatenamento dei fatti perde la sua rilevanza giuridica, allorché un'altra causa concomitante, come ad
esempio la colpa di un terzo o della vittima, sopravvengano senza poter essere previste. Il carattere imprevedibile non è in sé sufficiente per interrompere il nesso di causalità: la concausa o la concolpa deve avere un peso tale da risultare
l'origine più probabile e immediata dell'evento considerato e relegare in second'ordine tutti gli altri fattori, in particolare, il comportamento dell'agente (DTF 130 IV 7 consid. 3.2 pag. 10, 127 IV 62 consid. 2d pag. 65, 126 IV 13 consid. 7a/bb pag. 17, 122 IV 17 consid. 2c/bb pag. 23, 121 IV 27 consid. 2a pag. 213; sentenze del Tribunale federale 6S.297/2003 del 14 ottobre 2003 consid. 4 pag. 8 e 6S.54/2002 del 27 giugno 2002, consid. 4.2).
6.
Il ricorrente afferma che in virtù del principio
in dubio pro reo
e in mancanza di una prova che possa determinare le cause di un sinistro, come una perizia tecnica ricostruttiva dell'incidente, nel dubbio non si può maturare il convincimento che egli abbia violato l'art. 41
b
cpv. 1 ONC. Al riguardo il giudice della Pretura penale ha ricordato che, secondo l'art. 41
b
cpv. 1 ONC, prima di entrare in un'area con percorso rotatorio obbligato il conducente deve rallentare e dare la precedenza ai veicoli che arrivano da sinistra. Ciò posto, egli ha accertato che al momento in cui l'accusato si è immesso nella rotatoria _ P_ già si trovava all'interno. L'accusato doveva quindi cedergli la precedenza. E nel caso in cui non avesse visto il ciclista, egli non avrebbe prestato sufficiente attenzione al traffico, pur circolando piano, onde la negligenza. Perché tale conclusione sarebbe conseguente a un arbitrario accertamento dei fatti o a un'arbitraria valutazione delle prove, rispettivamente alla violazione del principio
in dubio pro reo
riferito al divieto dell'arbitrio, il ricorrente non accenna. Si limita a evocare la velocità ridotta, il punto di collisione, il tempo trascorso tra la percezione del pericolo e l'incontro tra il veicolo e la bicicletta, il tempo di arresto della bicicletta e i motivi della caduta del ciclista, lo stato di salute e le possibili reazioni della stessa vittima, senza però spiegare perché ¿ sulla base dei fatti accertati dal primo giudice ¿ ciò denoterebbe un'erronea applicazione dell'art. 41
b
cpv. 1 ONC.
7.
Il ricorrente contesta nella fattispecie anche il nesso di causalità naturale. A suo parere l'emorragia cerebrale che ha determinato la morte di _ P_ non è di origine traumatica, bensì spontanea. Al primo giudice egli fa carico di avere arbitrariamente scartato l'opinione del dott. _ Ba_, ribadita dagli altri medici, secondo cui se l'emorragia cerebrale fosse stata di natura traumatica, ciò denoterebbe ¿un evento decisamente straordinario ed eccezionale¿ (ricorso, pag. 16). Privilegiando le conclusioni del perito giudiziario, il giudice della Pretura penale avrebbe inoltre sorvolato su vari riscontri favorevoli all'automobilista (ricorso, pag. 17).
a)
Esaminati i vari referti medici (compreso quello peritale e quello autoptico), Il primo giudice ha ritenuto che l'emorragia cerebrale all'origine della morte di _ P_ si riconduce a un trauma direttamente correlato all'incidente. Che la perdita di sangue nell'encefalo si debba a un trauma psichico e a uno fisico nulla muta, giacché pure un trauma psichico riconducibile allo stress emotivo di essere stato vittima di un incidente è un risultato diretto dell'infortunio e non ha nulla di spontaneo (sentenza, pag. 11). Quanto all'età
avanzata, alla sclerosi vascolare e alla diminuita capacità di coagulazione della vittima, esse rappresentano concause di minore importanza che non interrompono il nesso causale (sentenza, pag. 12).
b)
L'argomentazione del primo giudice è scevra di arbitrio. I soli professionisti ¿ unitamente, sembra, ai medici dell'Ospedale Civico di Lugano ¿ che nella fattispecie propendevano per
un'emorragia spontanea erano il dott. Ba_, i suoi collaboratori e il dott. _ O_, tutti presso l'Ospedale Beata Vergine di Mendrisio. In un certificato del 3 gennaio 2003 quest'ultimo ha attestato invero un'¿estesa emorragia intracerebrale sinistra verosimilmente spontanea¿ (act. 2). In un certificato del 4 febbraio 2003 gli altri avevano diagnosticato a loro volta un'emorragia cerebrale verosimilmente spontanea a sinistra, precisando che ¿l'ipotesi è quindi di un
ictus cerebri
emorragico spontaneo¿ (act. 15). Sta di fatto però che, conosciute le risultanze dell'esame autoptico e della perizia giudiziaria, al dibattimento il dott. Ba_ ha relativizzato la dinamica dell'incidente posta alla base del suo certificato 4 febbraio 2003 (l'ipotesi che il ciclista si fosse semplicemente accasciato sulla fiancata dell'autofurgone), definendola azzardata e senza riscontri oggettivi (sentenza, pag. 8). Inoltre le ulteriori indagini medico-legali sulle quali il primo giudice ha fondato la sentenza hanno fornito una diversa spiegazione dell'origine emorragica, tant'è che il dott. L_, medico legale _, e il perito giudiziario hanno chiaramente fatto risalire la morte di _ P_ a un trauma.
Abbia lo stress emotivo causato l'emorragia cerebrale e in seguito la broncopolmonite (dott. L_) o direttamente il trauma cranico causato l'emorragia intraparenchimale seguita dalla broncopolmonite e dall'insufficienza respiratoria terminale (dott. Bo_), poco giova. Anzi, lo stesso perito ha finito per condividere proprio l'opinione del dott. L_, secondo cui l'origine dell'emorragia cerebrale può ricondursi a uno stress emotivo (spavento) dovuto all'incidente, non senza aggiungere che il trauma fisico di natura contusiva a livello del cranio sembrava addirittura prevalente nella diffusione dell'emorragia cerebrale (referto, pag. 10; sentenza, pag. 8). Senza cadere in arbitrio il giudice della Pretura penale poteva fondarsi su tali opinioni specialistiche, tanto più che in aula il dott. Ba_ ha ¿ come detto ¿ relativizzato la propria. Nella misura poi in cui il ricorrente menziona affermazioni proferite in aula dal dott. Ba_, ma non registrate nel verbale del processo, egli può solo rimproverare sé stesso (art. art. 255 lett. b e c CPP).
8.
Stando al ricorrente, tra il suo comportamento e la morte della vittima farebbe difetto ad ogni modo, in concreto, un nesso di causalità adeguato. A suo avviso un osservatore imparziale non avrebbe ravvisato una correlazione idonea fra il comportamento di un automobilista che si immette lentamente in una rotonda e quello di un ciclista che si appoggia alla portiera del veicolo, cadendo a terra e decedendo (verosimilmente) a causa dell'età
avanzata, di deficit dei fattori della coagulazione ematica dipendente da epatopia cronica, di sclerosi vascolare e della particolare labilità emotiva. Il solo spavento bastava in effetti per determinare un rialzo della pressione arteriosa, che nel caso specifico ha portato alla rottura vascolare intercerebrale, senza dimenticare che l'emorragia si è prodotta a livello sottogaleale (non nella zona dell'urto della testa con il terreno, né nella zona del contraccolpo, né sulla direttrice dell'urto), che i medici hanno escluso trattarsi di emorragia traumatica, che è subentrata una broncopolmonite, un'insufficienza respiratoria, e che la morte è subentrata a 15 giorni di distanza. Se così fosse ¿ rileva il ricorrente ¿si tratterebbe di evento straordinario e imprevedibile (ricorso, pag. 22).
a)
La causalità adeguata dipende dalla sua prevedibilità oggettiva. Occorre concretamente chiedersi se un osservatore neutro, scorgendo l'autore agire nelle circostanze del caso,
avrebbe potuto prevedere che il comportamento avrebbe molto verosimilmente condotto alle conseguenze verificatesi, sebbene non potesse prevedere il susseguirsi di ogni singolo elemento (DTF 122 IV 145 consid. 3b/aa pag. 148). Ciò non significa che l'evento debba succedere spesso o regolarmente, né si devono prendere in considerazione solo quelle conseguenze che, secondo un apprezzamento oggettivo, sono da attendersi di solito. Bisogna dipartirsi dalle conseguenze effettive e decidere retrospettivamente se e in che misura
l'azione incriminata costituisca una causa rilevante (CCRP, sentenza del 25 agosto 1995 in re B., consid. 2c). Se un
evento è di per sé idoneo a provocare conseguenze come quelle verificatesi, anche conseguenze singolari, ovvero straordinarie dal punto di vista quantitativo e non qualitativo, possono essere adeguate (DTF 112 V 38 consid. 4b).
b)
Secondo gli accertamenti del primo giudice, in seguito alla collisione della sua bicicletta con il furgoncino _ P_ è caduto a terra, ha battuto violentemente il capo, si è fratturato il cranio nella zona temporale destra, è stato colpito da un'emorragia intercerebrale ed è entrato in coma, subendo un graduale declino fisico che ha portato all'insorgere di una broncopolmonite, di un'insufficienza respiratoria terminale e, infine, alla morte (sentenza, pag. 13; act. 28, pag. 2). La natura dell'emorragia, riconducibile a un trauma contusivo-encefalico con lesione cerebrovascolare da contraccolpo (piuttosto che a un trauma psichico) ha costituito una concausa della morte (sentenza, pag. 13 con riferimento alla perizia giudiziaria, pag. 10). Quanto alla età della vittima (77 anni), alla sua particolare emotività, alla preesistenza di una sclerosi vascolare e al deficit di coagulazione sanguigna, il giudice della Pretura penale non ha ritenuto tali fattori prevalenti sulle altre cause che hanno portato al decesso (sentenza, pag. 13).
c)
Nel caso specifico si conviene che ¿ come hanno rilevato tanto il dott. Ba_ quanto il perito giudiziario ¿ lesioni analoghe a quelle subìte dalla vittima, ossia emorragie nella zona centrale del cervello, sono quasi sempre d'origine spontanea, mentre quelle traumatiche sono di regola più superficiali. Entrambi i professionisti hanno precisato tuttavia che, in un minor numero di situazioni, una lesione come quella descritta può ricondursi anche a un trauma (sentenza pag. 12 seg. e referto peritale, pag. 11). Anche il medico legale dott. L_ ha riconosciuto che, seppur rara, un'emorragia cerebrale provocata da un rialzo pressorio derivante da una reazione di stress, non è un fatto straordinario (verbale del 2 aprile 2003, pag. 3). Dal canto suo il perito giudiziario ha sì ravvisato concause della morte preesistenti, come l'età avanzata, la sclerosi vascolare, la labilità emotiva e il deficit della capacità di coagulazione sanguigna, ma non al punto da prevalere sulla causa principale, cioè sul trauma contusivo cranico-encefalico con lesione cerebrovascolare da contraccolpo (sentenza, pag. 8 seg.).
d)
In una recente sentenza del 18 maggio 2005 (6S.55/2005, destinata a pubblicazione) il Tribunale federale, riassunta la giurisprudenza e la dottrina sulla nozione di causalità adeguata e le circostanze che ne permettono l'interruzione (consid. 5.1 e 5.2), ha rammentato che ¿ oltre al diritto francese, italiano, tedesco e austriaco ¿ il diritto svizzero non conosce l'interruzione del nesso causale preesistente a una predisposizione costituzionale della persona (se mai se ne tiene conto nella calcolazione del danno e dell'indennità per torto morale; DTF 131 III 12). In quel caso il pedone vittima dell'incidente aveva subìto in seguito dell'impatto con un'automobile la frattura del piede sinistro, che è degenerato in cancrena e ha dovuto essere amputato. Due settimane dopo il pedone è deceduto per una crisi cardiaca dovuta alla cancrena, ma l'infarto è stato ritenuto come causa oggettivamente prevedibile. La cagionevole salute della vittima non è stata giudicata, in quel caso, un fattore atto a interrompere il nesso di causalità adeguato (consid. 5.4).
e)
Se ne conclude che, giudicando nel senso descritto sulla base dei fatti accertati, il primo giudice ha avuto corretta nozione anche del nesso di causalità adeguata. Anche sull'ultimo punto il ricorso è destinato quindi al rigetto.
9.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 combinato con l'art. 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,005 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
cdc8b202-d39e-51b6-bc72-006daefb02a8 | in fatto
a.
In data 23.07.2008 la Corte delle assise criminali ha giudicato RE 1 autore colpevole di omicidio intenzionale, ripetuto sequestro di persona e rapimento (in parte aggravato), lesioni personali semplici aggravate e turbamento della pace dei defunti, tutti reati perpetrati contro il proprio fratello; riconosciuta una lieve scemata imputabilità, lo ha quindi condannato alla pena detentiva di sette anni e sei mesi. La Corte ha inoltre ordinato a favore del condannato il trattamento ambulatoriale per la durata di cinque anni (inc. TPC 72.2008.6).
Con decisione 3.11.2008 (cresciuta in giudicato il 14.01.2009) l'allora Corte di cassazione e di revisione penale (CCRP) ha confermato il giudizio di prima istanza, respingendo, per quanto ricevibile, il ricorso interposto dal condannato (inc. CCRP 17.2008.58).
b.
Ritenuto che RE 1 ha iniziato l'espiazione della pena il 23.07.2008, in base al calcolo dell'esecuzione della pena, dedotto il carcere preventivo sofferto, il 1/3 della pena è stato raggiunto il 7.07.2009, la metà pena il 6.10.2010 e i 2/3 per la liberazione condizionale il 5.01.2012. Il termine per la fine dell'espiazione della pena è previsto per il 6.07.2014.
c.
Nell'ambito della procedura, avviata d'ufficio, per l'esame della liberazione condizionale il giudice dei provvedimenti coercitivi ha provveduto a raccogliere i preavvisi delle autorità interessate.
In data 18.11.2011 il direttore aggiunto delle Strutture carcerarie cantonali ha considerato il comportamento di RE 1 in carcere nella norma malgrado avesse subito un'ammonizione scritta il 20.12.2010 per vie di fatto, dimostrasse frequentemente atteggiamenti polemici e non svolgesse per scelta di quest'ultimo attività alcuna. Ha rilevato come il qui reclamante sia da considerare uno straniero privo di agganci sul nostro territorio, al quale infatti l'autorità amministrativa competente ha revocato in data 30.12.2008 il permesso di domicilio "C". Ha evidenziato infine come RE 1 "
potrebbe domiciliarsi tra il _ e _, zona che conosce molto bene e gli è familiare
" e che "
l'OS di riferimento in collaborazione del tutore _, nonché del legale di RE 1, si stanno occupando di questo aspetto
", così che in conclusione ha formulato un preavviso favorevole "
a condizione che
[RE 1, ndr]
venga preso a carico e seguito dall'ASL, inoltre lasci legalmente il nostro territorio
" (scritto 18.11.2011 del direttore aggiunto delle Strutture carcerarie).
La capoufficio e l'operatore sociale dell'Ufficio di patronato, pur rilevando che RE 1 in carcere ha sempre rifiutato di svolgere una qualsiasi attività, ha un' "
indole piuttosto antisociale
" (egli comunque non creerebbe, a loro avviso, particolari problemi), è "
spesso polemico e scontroso
" (tant'è, come da loro riconosciuto, i contatti con l'operatore sociale sarebbero sempre stati difficili per la di lui mancanza di collaborazione e motivazione) ed ha rifiutato in esecuzione di pena di seguire una terapia psicologica, il 22.11.2011 hanno formulato un preavviso positivo, alla condizione che "
al momento della liberazione, l'interessato dovrà essere accompagnato (operatore sociale - tutore - avvocato) al nuovo comune di domicilio, dove sarà previsto un passaggio di informazioni
" (scritto 22.11.2011 dell'Ufficio di Patronato, p. 2). Ciò sulla base del fatto di avere, unitamente al direttore aggiunto delle strutture carcerarie, al tutore e al patrocinatore del reclamante proposto "
all'interessato un progetto concreto per il rientro in Italia
" al quale RE 1 "
sembrava aderire positivamente
". In sostanza l'Ufficio di Patronato si sarebbe impegnato, in caso di concessione della liberazione condizionale, "
a contattare un comune tra _ e _ disposto a domiciliare RE 1
" e "
considerata la problematica psichiatrica
" a "
segnalare il caso all'ASL della regione _ nonché al servizio sociale del comune di domicilio
"; il tutore, dal canto suo avrebbe provveduto "
a sistemare l'aspetto economico con l'AI
", affinché RE 1 dopo la sua scarcerazione possa nuovamente percepire la propria rendita d'invalidità come precedentemente al suo arresto. Di conseguenza il reclamante, a loro avviso, "
così integrato nella rete sociale e medica italiana (...) potrebbe essere in grado di reinserirsi in modo corretto nella società, e la prognosi non risulterebbe dunque negativa
" (scritto 22.11.2011 dell'Ufficio di Patronato, p. 1). | Il giudice dei provvedimenti coercitivi ha pure raccolto il rapporto 28.11.2011 del dr. _, del servizio di psichiatria delle Strutture carcerare ticinesi, del cui contenuto si dirà nei considerandi in diritto.
Infine nella seduta 23.12.2011 - senza che il reclamante abbia chiesto di essere preventivamente sentito - la Commissione per l'esame dei condannati pericolosi ha formulato un preavviso positivo. Conclusione questa a cui essa è giunta asserendo - peraltro succintamente - che "
la Commissione ha ritenuto l'estrema particolarità di questo caso umano e sulla base della situazione personale di RE 1 ha considerato che, nonostante l'attitudine non sempre positiva durante l'espiazione, in specie il rifiuto del trattamento ambulatoriale ordinato, non sussista un reale pericolo di recidiva o altra circostanza che osti alla sua liberazione condizionale
". Inoltre ha precisato che "
alla valutazione positiva della Commissione ha concorso in misura determinante la disponibilità del difensore avv. PR 1 a collaborare, facendosi parte attiva, nella necessaria presa a carico dell'interessato da parte dei servizi sociali della zona _ - _ - _, in cui egli
[RE 1, ndr]
intende trasferirsi
" (preavviso 23.12.2011 della Commissione per l'esame dei condannati pericolosi).
d.
In data 21.12.2011 il reclamante è stato sentito dalla segretaria giudiziaria dell'Ufficio del giudice dei provvedimenti coercitivi. In quell'occasione, preso atto dei preavvisi favorevoli espressi dalle autorità interpellate competenti per la liberazione condizionale, RE 1 ha preliminarmente consegnato all'interrogante una sua richiesta di trasferimento in sezione aperta di data 22.11.2010 (ove egli si metteva a disposizione per lavorare all'orto o come scopino) preavvisata favorevolmente dall'operatore sociale e che non avrebbe avuto alcun riscontro. Ha dipoi rilevato di non aver svolto attività lavorativa in carcere (chiuso) in quanto, a suo dire, non gli sarebbe stato proposto nulla. In questo senso ha lamentato una carenza di visite da parte del proprio tutore e del patronato e una mancanza di aiuto concreto da parte di questi ultimi. Ha evidenziato di aver avuto visite e sostegno unicamente da una non meglio precisata _ di _ e del proprio patrocinatore, avv. PR 1. Ha rilevato di non aver seguito una terapia siccome da lui ritenuta inutile e di aver avuto difficoltà a sopportare la vicinanza degli altri detenuti.
e.
Con decisione 29.12.2011 il giudice dei provvedimenti coercitivi ha rifiutato la concessione della liberazione condizionale a RE 1.
Riassunti le motivazioni e il dispositivo della condanna del Tribunale di primo grado, le conclusioni delle due perizie psichiatriche a cui il reclamante è stato sottoposto prima del giudizio di merito, ricordato il di lui difficile vissuto e riepilogate le norme applicabili, il giudice dei provvedimenti coercitivi è giunto a formulare una prognosi negativa in relazione al pericolo di recidiva.
In buona sostanza, non condividendo (né comprendendo) il parere espresso dalla Commissione per i condannati pericolosi, visti l'accertata problematica psichiatrica di RE 1, il di lui rifiuto a sottoporsi in carcere al trattamento ambulatoriale ordinato dalla Corte del merito, il suo mancato riconoscimento del reato commesso, la sua asserita ma non convincente disponibilità a sottoporsi ad una terapia ambulatoriale da parte delle competenti autorità italiane - comunque non ancora prevista in un progetto concreto e dettagliato concordato con uno specialista - il giudice ha concluso per la presenza di un alto rischio di recidiva e della pericolosità pubblica dell'interessato.
f.
RE 1
insorge con esposto 10/11.01.2012 contro la suddetta decisione postulando in via principale la propria liberazione condizionale e in via subordinata la concessione della stessa con l'assegnazione di un termine di 90 giorni (o altro) affinché venga avviata una terapia psichiatrica all'interno del carcere e una presa a carico sociale e psichiatrica in Italia, venga prodotta la prova dell'esistenza di un alloggio in Italia e (eventualmente) venga avviata un'attività lavorativa in carcere. In via ancor più subordinata chiede che l'incarto venga retrocesso al giudice dei provvedimenti coercitivi per nuovo esame e nuova decisione.
Pur ammettendo di non avere in carcere né seguito una terapia psichiatrica né lavorato, il reclamante evidenzia che da parte delle strutture preposte e/o delle persone intervenute in esecuzione di pena mai è sorto alcun segnale che lo "
rendesse attenti sul fatto che l'andamento dell'espiazione della pena sarebbe stato giudicato incompatibile con la liberazione condizionale
" (reclamo 10/11.01.2012, p. 2). Di fatto rileva come i preavvisi espressi al proposito siano stati tutti favorevoli.
Sostiene che il suo disinteresse per un approccio terapeutico farebbe parte della sua personalità "
ruvida e poco incline a terapie
" e che non darebbe adito di conseguenza ad una diagnosi di pericolosità da parte sua.
Invoca la parità di trattamento verso innumerevoli (non meglio precisati) altri casi di detenuti, a suo dire, giudicati pericolosi, e che avrebbero beneficiato della liberazione condizionale ai 2/3 della pena "
in assenza di pericolo di recidiva, siccome allontanati dalla Svizzera
" (reclamo 10/11.01.2012, p. 3).
Sottolinea il suo stato di invalido e che come tale non gli si può rimproverare di non avere avuto un'attività lavorativa nel penitenziario.
Evidenzia come egli non debba soffrire delle eventuali carenze da parte delle preposte istanze che avrebbero dovuto "
insistere per l'avvio della terapia
" rendendolo attento "
sulle nefaste conseguenze di un disinteresse nei confronti della stessa
" (reclamo 10/11.01.2012, p. 4).
Infine chiede di essere ammesso al beneficio dell'assistenza giudiziaria e del gratuito patrocinio.
Delle ulteriori argomentazioni, così come delle osservazioni del procuratore pubblico e del giudice dei provvedimenti coercitivi, si dirà, ove necessario, nei considerandi che seguono.
in diritto
1.
1.1.
Il Codice di diritto processuale penale svizzero (Codice di procedura penale, CPP), in vigore dall'1.01.2011, all'art. 439 cpv. 1 CPP lascia ai Cantoni la facoltà di designare le autorità competenti per l'esecuzione delle pene e delle misure e di stabilire la relativa procedura.
Il Canton Ticino ha adottato il 20.04.2010 la Legge sull'esecuzione delle pene e delle misure per gli adulti (LEPM), entrata in vigore l'1.01.2011, che all'art. 10 cpv. 1 lit. j conferisce al giudice dell'applicazione della pena - funzione questa attribuita in Ticino dall'1.01.2011 al nuovo giudice dei provvedimenti coercitivi giusta l'art. 73 LOG - la competenza, fra l'altro, ad adottare le decisioni relative alla liberazione condizionale da una pena detentiva (art. 86, 87 cpv. 1, 89 cpv. 3 e 95 cpv. 3-5 CP).
Contro tali decisioni, conformemente all'art. 12 cpv. 1 lit. b LEPM, è data facoltà al condannato e al Ministero pubblico di interporre reclamo ai sensi degli art. 393 e seguenti CPP alla Corte dei reclami penali.
1.2.
Con il reclamo ex art. 393 ss. CPP si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l'eccesso e l'abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l'accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e/o l'inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato entro 10 giorni per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all'art. 390 CPP per la forma scritta ed all'art. 385 CPP per la motivazione.
La persona o l'autorità che lo interpone deve indicare, in particolare, i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
1.3.
Il gravame, inoltrato il 10/11.01.2012, contro la decisione 29.12.2011 del giudice dei provvedimenti coercitivi notificata il 30.12.2011, è tempestivo.
Le esigenze di forma e motivazione del reclamo sono rispettate.
RE 1 - quale condannato, destinatario della decisione impugnata che lo tocca direttamente, personalmente e attualmente nei suoi diritti - è pacificamente legittimato a reclamare giusta l'art. 382 cpv. 1 CPP avendo un interesse giuridicamente protetto all'annullamento o alla modifica del giudizio.
Il reclamo è quindi, nelle predette circostanze, ricevibile in ordine.
2.
2.1.
L'art. 86 cpv. 1 CP stabilisce che quando il detenuto ha scontato i due terzi della pena, ma in ogni caso almeno tre mesi, l'autorità competente lo libera condizionalmente se il suo comportamento durante l'esecuzione della pena lo giustifica e non si debba presumere che commetterà nuovi crimini o delitti.
L'autorità competente esamina d'ufficio se il detenuto possa essere liberato condizionalmente. Chiede a tal fine una relazione alla direzione del penitenziario. Il detenuto deve essere sentito (art. 86 cpv. 2 CP). Se non concede la liberazione condizionale, l'autorità competente riesamina la questione almeno una volta all'anno (art. 86 cpv. 3 CP).
2.2.
La concessione della liberazione condizionale è dunque subordinata a tre condizioni: il detenuto deve innanzitutto aver espiato buona parte della propria pena privativa della libertà - per l'art. 86 cpv. 1 CP i due terzi della pena ed almeno tre mesi -, secondariamente il suo comportamento durante l'esecuzione della pena non deve opporvisi, infine non vi dev'essere il timore che egli commetta nuovi crimini o delitti (A. BAECHTOLD, Exécution des peines, p. 257, n. 4).
La liberazione condizionale non costituisce né un diritto, né un favore, né un atto di clemenza o di grazia che il detenuto è libero di accettare o di rifiutare (DTF 101 Ib 452 cons. 1); esaminata d'ufficio, può, se del caso, essere disposta contro la volontà del detenuto, non presupponendo l'accordo di quest'ultimo (S. TRECHSEL, Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskommentar, art. 86 n. 12; Commentaire romand, Code pénal I - A. KUHN, art. 86 n. 16). Si tratta di una modalità d'esecuzione della pena detentiva, ossia della quarta ed ultima fase del regime progressivo d'espiazione della condanna, precedente la liberazione definitiva. Come tale essa costituisce la regola da cui conviene scostarsi solo se sussistono valide ragioni per ritenere che essa non sarà efficace. Ove l'autorità vi si discosti, è tenuta ad indicare i motivi che giustificano la sua decisione (DTF 133 IV 201 cons. 2.3; 124 IV 193 cons. 4d; 119 IV 5 cons. 2; PRA 6/2000, p. 534).
2.3.
Dal punto di vista sostanziale, l'art. 86 cpv. 1-3 CP non si differenzia molto dal precedente art. 38 vCP (rimasto in vigore sino al 31.12.2006): in tal senso si esprime il Messaggio del CF del 21.9.1998 (pubblicato in FF 1999 p. 1669 ss, p. 1800-1802).
Con l'art. 86 cpv. 1 CP, in vigore dall'1.01.2007, c'è stata tuttavia una modifica: se prima la liberazione era concessa al detenuto
"se si può presumere ch'egli terrà buona condotta in libertà"
(art. 38 cifra 1 vCP) con la nuova disposizione la liberazione va concessa se
"non si debba presumere che commetterà nuovi crimini o delitti"
(art. 86 cpv. 1 CP). Si passa in altre parole dall'esigenza di una prognosi favorevole circa il comportamento futuro del detenuto a quella di una prognosi non sfavorevole (decisione TF 6B_900/2010 del 20.12.2010; DTF 133 IV 201 cons. 2.2), ciò che è rilevante nei casi intermedi in cui non si arriva a formulare una prognosi certa. Per il resto la nuova normativa non si discosta nella sostanza dal diritto previgente, così che la giurisprudenza resa sotto l'imperio dell'art. 38 vCP conserva la sua validità (decisione TF 6B_428/2009 del 9.07.2009; DTF 133 IV 201).
La prognosi sul comportamento futuro deve fondarsi su una valutazione complessiva, che deve tenere conto dei precedenti del condannato, della sua personalità, del suo comportamento da un lato in generale e dall'altro lato nel contesto della commissione dei reati che sono alla base della condanna, nonché il grado del suo eventuale ravvedimento, oltre al suo eventuale miglioramento, così come le condizioni nelle quali ci si può attendere che egli vivrà dopo la sua liberazione (decisioni del TF 6B_206/2011 del 5.07.2011, consid. 1.4., 6B_714/2010 del 4.01.2011 cons. 2.4. e 6B_428/2009 del 9.07.2009 cons. 1.1.; DTF 133 IV 201 cons. 2.3.; 124 IV 193 cons. 3). Al riguardo, di fronte a pene privative della libertà di durata limitata, va esaminata la pericolosità dell'agente, se questa diminuirà, rimarrà invariata o aumenterà nel caso in cui la pena fosse interamente scontata e quindi se la liberazione condizionale, eventualmente accompagnata da regole di condotta e da un patronato, non sia più favorevole alla sua risocializzazione che non l'esecuzione completa della pena (DTF 124 IV 193 cons. 4).
La natura del reato che ha portato alla condanna, anche se l'importanza del bene giuridico protetto dalla norma penale va considerata, di per sé non è determinante per la formulazione della prognosi. Possono essere di rilievo le circostanze nelle quali è stato compiuto il reato, nella misura in cui permettano di trarre conclusioni sulla personalità dell'autore e di conseguenza sul suo futuro comportamento (DTF 124 IV 193 cons. 3).
Per quanto riguarda la condotta tenuta durante l'esecuzione della pena, solo comportamenti che hanno gravemente ostacolato la disciplina carceraria o che denotano di per sé l'assenza di emendamento possono avere valenza autonoma per escludere la liberazione condizionale. Comportamenti meno gravi possono invece essere esaminati nel contesto della prognosi sulla futura condotta in libertà (DTF 119 IV 5 cons. 1a con rif.), stante che, nei lavori preparatori relativi alla revisione della parte generale del CP entrata in vigore l'1.01.2007, si ribadisce chiaramente che il criterio determinante per una liberazione condizionale è rappresentato dalla prognosi, formulata al momento della liberazione, circa la possibilità che il detenuto commetta altri crimini o delitti (cfr. Messaggio del CF del 21.09.1998, pubblicato in FF 1999 p. 1669 ss, p. 1801).
3.
3.1.
Pacifico è, nel caso concreto, che i 2/3 dell'espiazione della pena sono intervenuti lo scorso 5.01.2012. Si rileva nondimeno che RE 1 non ha nel frattempo beneficiato di alcuna forma di alleggerimento del regime progressivo, in quanto considerato uno straniero senza agganci al nostro territorio e colpito da un ordine di allontanamento a seguito della decisione 30.12.2008 con cui la Sezione dei permessi e dell'immigrazione di Bellinzona gli ha revocato il permesso di domicilio "C".
In carcere in data 20.12.2010 egli ha ricevuto un'ammonizione scritta per vie di fatto, per essere rimasto coinvolto in una colluttazione con un altro detenuto. Trattasi di una sanzione disciplinare che, come visto sopra, non riveste una gravità tale da avere valenza autonoma per escludere la liberazione condizionale. La stessa può nondimeno essere presa in considerazione nella valutazione della prognosi sulla futura condotta in libertà. Prognosi questa da effettuarsi al momento della decisione da prendere in tal senso.
3.2.
Come si evince dalla sentenza 23.07.2008 del Tribunale di primo grado (inc. TPC 72.2008.6) nonché da quella resa dall'allora CCRP di data 3.11.2008 (inc. CCRP 17.2008.58), RE 1 (_.1949), cittadino italiano, cresciuto in seno a diversi istituti del suo paese d'origine, ha alle spalle un difficilissimo vissuto, caratterizzato dalla quasi totale mancanza delle figure genitoriali e da una povertà affettiva negli anni dell'infanzia, dell'adolescenza
e anche nell'età adulta, che lo ha visto crollare in un pesante alcolismo. Al di là del legame instaurato con il fratello _ (per la cui uccisione il reclamante si trova in espiazione di pena) - colpito da un importante ritardo nello sviluppo psicomotorio e pure lui cresciuto in seno a vari istituti - RE 1 non ha sviluppato rapporti particolari con altri familiari, né ha fondato una propria famiglia. Affetto da un ritardo nello sviluppo dell'intelligenza il reclamante non ha frequentato le scuole dell'obbligo e dopo l'apprendimento di nozioni base è stato iniziato alla professione di falegname nel laboratorio dell'istituto che lo ha accolto sino all'età di 17 anni. In seguito, lasciato tale istituto, ha lavorato nel settore della ristorazione in Italia.
Nel corso degli anni settanta egli si è impiegato in Svizzera quale cuoco in vari esercizi pubblici del _ e del _. Nel 1987 è divenuto inabile al lavoro e dal 1989, all'età di 40 anni, ha beneficiato di una rendita completa di invalidità accordatagli a seguito del suo etilismo. In effetti dal 1987 in poi egli ha subito diversi ricoveri in vari nosocomi e strutture dedicate al recupero di persone con problemi di dipendenza, a seguito del suo cronico abuso etilico. Nel 1996 egli è stato sottoposto a tutela. Nel 1997, a seguito di una brutta frattura al femore conseguente ad una caduta, ha subito un danno permanente con una gamba più corta dell'altra di alcuni centimetri, così che egli necessita del sostegno di una stampella per camminare.
RE 1, a seguito dei gravi fatti per cui è stato chiamato a rispondere e prima del giudizio di primo grado, è stato sottoposto a due perizie psichiatriche.
Nella prima, richiesta dal Ministero pubblico al dott. _, quest'ultimo ha diagnosticato un disturbo di personalità misto persistente da anni e che non avrebbe avuto conseguenze rilevanti riguardo ai fatti imputati. Di conseguenza, a mente del perito, RE 1 sarebbe stato totalmente in grado di valutare il carattere illecito e di agire secondo tale valutazione, così da non aver delinquito in stato di scemata imputabilità di alcun grado (cfr. perizia 17.05.2007, AI 6.15, p. 35-36). Giudizio questo poi da lui rettificato in aula a fronte dell'accertata alterazione alcolica del qui reclamante al momento dei fatti, per cui il perito ha concluso per una scemata imputabilità di grado lieve (cfr. sentenza 23.07.2008 della Corte delle assise criminali, p. 46). Per quanto attiene al rischio di recidiva il dott. _ lo ha ritenuto ridotto ma non completamente escluso. Ha altresì rilevato che "
il rischio di commettere nuovi reati dello stesso tipo da parte del prevenuto non è collegato ad una turba psichica di notevole gravità permanente o di lunga durata
" (cfr. perizia 17.05.2007, AI 6.15, p. 37). Sennonché in relazione al quesito peritale relativo alla necessità di ordinare misure terapeutiche il dott. _ ha sostenuto che "
ammessa la correlazione tra l'accertata turba psichica ed i fatti in oggetto si porrebbe in una prima fase un trattamento stazionario, per esempio presso la clinica psichiatrica cantonale ed in seguito un trattamento ambulatoriale presso i servizi presenti sul territorio
" (cfr. perizia 17.05.2007, AI 6.15, p. 38).
La seconda perizia, richiesta dal presidente della Corte delle assise criminali al dott. _, medico capo dell'Unité d'expertises del dipartimento di psichiatria del _, ha confermato la presenza nel qui reclamante di un disturbo di personalità non specificato con tratti persecutori in un soggetto con un'intelligenza limite e affetto da una dipendenza da alcool (cfr. perizia 30.06.2008 del dott. _, p. 15 ss.).
In relazione al pericolo di recidiva il dott. _ si è così espresso: "
il p. potrebbe commettere in futuro nuovi reati assimilabili a quelli attualmente imputati in particolare se esposto ad uno stress emotivo e relazionale connesso con il sentimento di poter essere accusato o di sentirsi oggetto della malvolenza altrui (contesti vissuti in senso persecutorio)
" (cfr. perizia 30.06.2008 p. 20); inoltre: "
al di fuori di questo contesto
[ambiente protetto, ovvero in carcere, ndr]
l'utilizzo abusivo di alcool riprenderebbe. I tratti paranoidei della personalità e l'intelligenza limite sono tuttora presenti (...). La riduzione del rischio di recidiva è strettamente connessa con il mantenimento dell'astinenza e la collocazione in una struttura terapeutica chiusa (...)
" (cfr. perizia 30.06.2008 p. 21).
La Corte di primo grado per finire, nel suo giudizio di condanna di data 23.07.2008, ha riconosciuto una scemata imputabilità di grado lieve in relazione a quanto perpetrato da RE 1 ed ha ordinato, cumulativamente alla pena detentiva da espiare, a favore del condannato il trattamento ambulatoriale per la durata massima di 5 anni, stante che "
i periti sono in definitiva stati concordi nel ritenere che un trattamento ambulatoriale può essere sufficiente per ottenere la finalità desiderata, avendo in particolare il dott. _ allentato in aula il proprio precedente giudizio, ammettendo la possibilità di
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un trattamento ambulatoriale stretto unito a misure di sorveglianza sociale
»
" (sentenza 23.07.2008 della Corte delle assise criminali, p. 54).
3.3.
RE 1 in inchiesta e pure in aula si è sempre dichiarato estraneo alla morte del fratello.
Ancora in esecuzione di pena - come evidenziato nel Piano d'esecuzione della sanzione penale (PES) elaborato a fine novembre 2009 e a cui il reclamante ha aderito - egli "
non ha ancora elaborato il delitto, si sente vittima e non riesce a capire come mai sia lì
" (cfr. PES, p. 6). "
Essendo che non ammette i fatti, non spiega neppure il passaggio all'atto, anzi, a sua detta l'avrebbe unicamente aiutato poiché non ha trovato alcun appoggio da parte delle altre persone e degli ospedali
" (cfr. PES, p. 5).
Atteggiamento negatorio questo che, fra l'altro, ha influito sulla possibilità di mettere in atto in esecuzione di pena il trattamento ambulatoriale ordinato nella sentenza di primo grado per il disturbo di personalità diagnosticato a RE 1, essendosi egli rifiutato di sottoporsi a una qualsiasi terapia, malgrado ne fosse stata accertata la necessità, come visto sopra.
Il Servizio-psicosociale di _, che ha seguito il reclamante dal settembre 2008, nel suo rapporto del 23.02.2009, ha infatti osservato che quest'ultimo "
ha sempre mantenuto un atteggiamento di diniego rispetto al reato e rivendicativo, sulla base di una ideazione che nel corso delle ultime settimane si è rivelata sempre più chiaramente di stampo delirante. Sostanzialmente rifiuta un contatto specialistico, non sentendosi colpevole dei fatti che lo hanno portato in prigione; a volte assume un atteggiamento minaccioso e querulomane, proiettando sui curanti e sulla Istituzione la responsabilità del fatto-reato, dei propri deficit e fallimenti. Solo nelle ultime settimane ha accettato un breve colloquio con l'infermiere psichiatrico, altrimenti dal mese di gennaio u.s. ha rifiutato di continuare la presa a carico psichiatrica
" (cfr. rapporto 23.02.2009 del Servizio-psicosociale di _, p. 2).
Dal canto suo il dott. _, medico psichiatra del servizio di psichiatria delle strutture carcerarie ticinesi, nel suo rapporto del 28.11.2011, ha evidenziato che il reclamante "
è stato esaminato in due riprese da parte della Dr.ssa _ negli ultimi due mesi del 2009 e non ha accettato alcuna presa a carico
". Ha inoltre rilevato che, dopo aver egli conferito con lui nell'ambito dell'osservazione e dei controlli abituali alla Sezione B del penitenziario nonché dopo un colloquio personale tenutosi il 23.05.2011, "
il detenuto ha mostrato un flebile interesse per instaurare una relazione terapeutica, in primo luogo per esaminare le possibilità di riottenere la rendita(?), ma al prossimo appuntamento proposto ha rifiutato di presentarsi. Il paziente ritiene di aver una perfetta salute mentale e attribuisce la sua condizione alla malevolenza delle autorità e dei magistrati
". Infine ha rilevato che "
nel corso della detenzione non sono stati osservati particolari scompensi e il detenuto è rimasto autarchico, con pochi
contatti con i co-detenuti e particolarmente ostile nei confronti delle proposte terapeutiche
" (cfr. rapporto 28.11.2011 del dott. _).
Dinnanzi alla segretaria giudiziaria dell'Ufficio del giudice dei provvedimenti coercitivi RE 1, ancora in data 21.12.2011, ha negato l'utilità di sottoporsi ad una terapia ["
Non ho seguito una terapia perché non la ritenevo utile al mio caso e perché già ho fatto molta fatica a sopportare la situazione nella sezione B (poiché succede di tutto, p. es. detenuti che ingoiano lamette, ecc.)
" (verbale di discussione 21.12.2011, p. 1)], sennonché egli per finire ha lasciato trasparire una certa sua apertura verso una presa a carico da parte dei competenti servizi italiani ["
Se proprio devo, sono disposto a farmi seguire dalle ASL in Italia e eventualmente a esser seguito da un terapeuta
" (verbale di discussione 21.12.2011, p. 2], che tuttavia non sembra convincere a fronte dell'atteggiamento da lui dimostrato durante tutto il periodo di detenzione sinora subito.
Sia come sia, certo è che per il suo accertato disturbo di personalità - a tutt'oggi presente e per il quale, nella valutazione della sua personalità, non occorre obbligatoriamente ricorrere a nuovi accertamenti peritali (BSK Strafrecht I, 2.a ed. – A. BAECHTOLD, art. 86 CP n. 8) - è appurato che egli necessiti di essere sottoposto ad un'adeguata terapia, onde scongiurare il pericolo di recidiva. Ciò che peraltro anche le competenti autorità intervenute nella procedura prevista per la liberazione condizionale (che hanno formulato preavviso positivo) hanno riconosciuto, prospettando il reinserimento sociale del reclamante se integrato nella rete sociale e medica della zona in cui prevedibilmente egli andrà a stabilirsi.
Pure certo è che il problema di etilismo cronico di cui RE 1 è affetto - e per il quale egli prima della sua carcerazione ha goduto di una rendita intera d'invalidità (che, come fatto accertare dal suo patrocinatore, gli verrà nuovamente erogata al momento della sua liberazione anche se residente in territorio italiano) - è rimasto sotto controllo, perché il reclamante è sinora stato in una struttura protetta.
3.4.
RE 1, a cui la Sezione dei permessi e dell'immigrazione di Bellinzona con decisione 30.12.2008 ha revocato il permesso di domicilio "C", al momento della sua scarcerazione dovrà obbligatoriamente lasciare il nostro territorio.
Da quanto in atti non risulta sia stata sinora predisposta per lui una qualsiasi forma di alloggio o sistemazione nella regione del
_ tra _ e _ - zona non distante dal confine svizzero da cui egli proviene e che conoscerebbe meglio - in grado di accogliere il reclamante al momento del suo rilascio.
3.5.
Ora, da quanto in atti, RE 1 risulta privo di una sistemazione precisa in un comune non ancora determinato della zona del _. Ha problemi a relazionarsi (vedasi i conflitti a suo tempo sorti con i vicini nel luogo dove egli risiedeva prima del suo arresto, la separazione dagli altri detenuti, i difficili contatti con il tutore, l'operatore sociale e gli altri specialisti dei servizi medici intervenuti). Non può contare sull'aiuto in loco di un familiare o di un conoscente in grado di seguirlo e di sostenerlo. Non riconosce la propria responsabilità in punto ai reati da lui commessi, nemmeno il suo bisogno di un trattamento medico ritenendosi in perfetta salute mentale, e, non essendosi sin qui sottoposto a terapia alcuna, non è stata riscontrata in lui un'evoluzione positiva circa i suoi disturbi e le sue difficoltà comportamentali. Malgrado i seri e solerti sforzi profusi dal difensore del reclamante, dalle tavole processuali non emerge alcuna conferma da parte di un preciso servizio medico specializzato italiano e/o di un determinato terapeuta della medesima regione, pronto a farsi carico del trattamento dei disturbi diagnosticati in RE 1, almeno in parte connessi con i gravi fatti per cui egli sta ora espiando la pena. Ha una dipendenza da alcool che al di fuori di un ambiente protetto secondo il perito _ si manifesterebbe nuovamente. Ciò ove più si pensi che RE 1, si troverebbe al suo rilascio, da quanto risulta agli atti, solo e senza la possibilità di impegnarsi in un'attività (lavorativa o non) ancorché semplice e/o parziale.
In tali circostanze la prognosi - da effettuarsi al momento in cui dev'essere resa la decisione sulla liberazione condizionale - non può che essere sfavorevole, essendo il pericolo di recidiva ancora altamente probabile.
La decisione qui impugnata merita quindi tutela.
4.
Si rileva che quando non viene concessa la liberazione condizionale, l'art. 86 cpv. 3 CP impone all'autorità competente di riesaminare la questione almeno una volta all'anno.
Ciò comporta che, entro il termine di 12 mesi a decorrere dalla decisione di rifiuto, l'autorità competente è tenuta a rendere un nuovo giudizio in punto alla liberazione condizionale. Qualora le circostanze siano già mutate in precedenza, la liberazione condizionale può essere ordinata anche prima di tale termine (BSK Strafrecht I, op. cit. – A. BAECHTOLD, art. 87 CP n. 29).
In questo senso, appare evidente che l'inizio del trattamento disposto nella sentenza di primo grado può risultare utile in vista di un'ulteriore valutazione della liberazione condizionale, sia per la successiva presa a carico da parte di strutture esterne (italiane), sia per il pericolo di recidiva.
Cade pertanto nel vuoto la censura sollevata dal reclamante secondo cui, in caso di rifiuto di liberazione condizionale ai 2/3 dell'espiazione della pena, egli si vedrebbe "
infliggere un obbligo di espiazione di pena di 2 anni e 6 mesi in più per rispetto ai 2/3 della stessa
" (reclamo 10/11.01.2012, p. 4).
5.
Per quanto attiene alla censura di disparità di trattamento ventilata dal reclamante, si osserva che questa Corte è tenuta a rendere il suo giudizio per rapporto al caso concreto sulla base di quanto risulta dalle tavole processuali e non per rapporto ad altri casi di detenuti asseritamente giudicati pericolosi. Casi questi, peraltro non meglio precisati dal reclamante, e comunque non noti a questa Corte.
6.
RE 1 postula la concessione del
l’assistenza giudiziaria, con gratuito patrocinio nella persona dell'avv. PR 1, per il reclamo presentato davanti a questa Corte contro la decisione del giudice dei provvedimenti coercitivi che gli ha rifiutato la concessione della libertà condizionale, essendo, a suo avviso, "
l'indigenza assodata
" (cfr. reclamo 10/11.01.2012, p. 4).
Pacifica è la competenza di questa Corte a decidere su tale istanza in virtù dell'art. 10 della nuova legge sull'assistenza giudiziaria e sul patrocinio d'ufficio (LAG) del 15.03.2011, in vigore retroattivamente all'1.01.2011, limitatamente al merito, ovvero alla procedura di reclamo.
Il diritto all'assistenza giudiziaria e al gratuito patrocinio sono determinati dalle norme di diritto procedurale cantonale e, indipendentemente da ciò, tali diritti discendono pure dall'art. 29 cpv. 3 Cost., secondo cui chi non dispone dei mezzi necessari ha diritto alla gratuità della procedura se la sua causa non sembra priva di probabilità di successo ed al patrocinio gratuito qualora la presenza di un legale sia necessaria per tutelare i suoi diritti.
Nel caso in esame, viste la situazione personale ed economica (precaria) del qui reclamante, nonché la di lui necessità ad essere rappresentato da un legale per la tutela dei suoi diritti in una procedura complessa almeno nei fatti, si giustifica in questa sede la concessione dell'assistenza giudiziaria e del gratuito
patrocinio, ma limitatamente alla procedura relativa alla liberazione condizionale. Nel presente caso, in assenza di una dettagliata nota spese, sono riconosciute 5 ore a CHF 250.-- l'una, per complessivi CHF 1'250.--, oltre CHF 300.-- di spese.
Non si prelevano tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
cddf557c-fd66-5493-bb55-124c045d50f5 | in fatto
a.
In data 27.2.2012 RE 1, rappresentato dal suo attuale tutore _, ha querelato/denunciato _, suo precedente tutore, per i reati di appropriazione indebita, subordinatamente semplice ed amministrazione infedele (querela/denuncia 27/28.2.2012, AI 1, inc. MP _). L’agire del querelato/denunciato gli avrebbe, a suo dire, procurato un danno patrimoniale pari a circa CHF 65'825.--.
RE 1 ha contestualmente postulato di essere ammesso al gratuito patrocinio nella misura più ampia possibile (art. 136 cpv. 2 lit. a-c CPP), con l’assistenza dell’avv. PR 1, in considerazione della sua situazione finanziaria. Inoltre egli non sarebbe, a suo dire,
“(...) manifestamente in grado di procedere con atti propri nell’ambito di questa vertenza dagli aspetti giuridici complessi (...). La designazione di un patrocinatore si rende necessaria alla corretta tutela dei suoi interessi (...)”
(querela/denuncia 27/28.2.2012, p. 6).
b.
Con decisione 15.3.2012 il magistrato inquirente ha respinto
“(...) l’istanza volta all’ottenimento del gratuito patrocinio a far tempo dal 31 gennaio 2012, e meglio comprendente l’intervento del patrocinatore per la preparazione della denuncia del 27 febbraio 2012 (...)”
(decisione 15.3.2012, AI 3), ritenendo che, a prescindere dall’eventuale indigenza di RE 1, non appariva necessario ai sensi dell’art. 136 cpv. 2 lit. c CPP, per tutelare i propri interessi, l’ausilio di un avvocato. A dire del procuratore pubblico infatti l’attuale tutore del querelante/denunciante era perfettamente in grado di tutelare gli interessi del suo pupillo: | “(...) nel caso concreto, il procedimento penale non risulta essere particolarmente complesso né in fatto né in diritto, e la quantificazione del danno eventualmente subito da RE 1 a seguito dei comportamenti di _ non sembra presentare particolari difficoltà, alle quali _ non possa far fronte senza l’ausilio di un avvocato (...)”
(decisione 15.3.2012, p. 2).
c.
Con gravame 26.3.2012 RE 1 chiede che, in accoglimento dell’impugnativa, la decisione 15.3.2012 sia annullata e riformata
“(...) nel senso che è accordato all’accusatore privato RE 1, (...), il gratuito patrocinio a far tempo dal 31 gennaio 2012; lo Stato si farà carico, secondo la tariffa usuale, dell’onorario e delle spese di patrocinio dell’avv. PR 1, _, e prescinderà dal richiedere anticipi o prestazione di garanzia nonché dall’accollare a RE 1 spese procedurali (...)”
(reclamo 26.3.2012, p. 7).
A suo dire il procuratore pubblico non avrebbe tenuto conto
“(...) dell’oggettiva difficoltà relativa all’allestimento di una denuncia penale come quella presentata, per la quale proprio il signor RA 1 (sostenuto dalla _, presieduta da un esperto avvocato), ha preferito chiedere il sostegno del sottoscritto legale (...)
. (reclamo 26.3.2012, p. 4). Inoltre il tutore sarebbe formato in campo psicopedagogico e sociale e non giuridico, e non sarebbe in grado di seguire il procedimento in oggetto, anche perché egli, quale dipendente della città di _, a tempo pieno e con funzione dirigenziale, non potrebbe assentarsi dal lavoro per seguire tutti gli interrogatori necessari. Andrebbe poi considerato il fatto che
“(...) il signor RA 1 dovrà essere certamente sentito in qualità di teste nell’ambito del procedimento in oggetto. Egli potrà quindi essere controinterrogato dal patrocinatore del signor _ o dall’imputato medesimo. Il doppio ruolo di teste e patrocinatore di RE 1, in tale situazione, sarebbe senz’altro problematico. Un avvocato, incaricato di tutelare gli interessi dell’accusatore privato, potrebbe invece porre efficacemente domande al teste RA 1 (...)”
(reclamo 26.3.2012, p. 5).
d.
Con decisione 5.4.2012 il procuratore pubblico ha esonerato RE 1 dal pagamento di anticipi, prestazioni di garanzia e dalle spese procedurali (art. 136 cpv. 2 lit. a e b CPP), avendo appurato che quest’ultimo non dispone delle risorse finanziarie sufficienti (decisione 5.4.2012, AI 7).
e.
Delle ulteriori argomentazioni di RE 1 e delle osservazioni del magistrato inquirente, si dirà, se necessario, in corso di motivazione.
in diritto
1.
Giusta l’art. 393 cpv. 1 lit. a CPP il reclamo può essere interposto, entro il termine di dieci giorni, contro le decisioni e gli atti procedurali della polizia, del pubblico ministero e delle autorità penali delle contravvenzioni, eccettuati i casi in cui è espressamente escluso dal CPP o quando è prevista un’altra impugnativa.
Con il gravame, da introdurre davanti alla giurisdizione di reclamo (art. 20 cpv. 1 lit. b CPP), ovvero – in Ticino – alla Corte dei reclami penali (art. 62 cpv. 2 LOG), si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l’eccesso e l’abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l’accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l’inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta ed all’art. 385 CPP per la motivazione.
Esso deve indicare – in particolare – i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
2.
Il gravame, inoltrato il 26.3.2012, contro la decisione 15.3.2012
del procuratore pubblico, con cui ha respinto l’istanza di ammissione al beneficio del gratuito patrocinio, è tempestivo e proponibile (
BSK StPO – G. MAZZUCCHELLI / M. POSTIZZI, art. 136 CPP n. 21; ZK StPO – V. LIEBER, art. 136 CPP n. 12).
Le esigenze di forma e motivazione del reclamo sono rispettate.
RE 1, accusatore privato ai sensi dell’art. 104 cpv. 1 lit. b CPP, è pacificamente legittimato a reclamare giusta l’art. 382 cpv. 1 CPP avendo un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica del giudizio che non gli ha concesso il postulato gratuito patrocinio nel procedimento penale.
Il gravame è quindi nelle predette circostanze ricevibile in ordine.
3.
3.1.
Giusta l’art. 136 cpv. 1 CPP chi dirige il procedimento accorda parzialmente o totalmente il gratuito patrocinio all’accusatore privato, affinché questi possa far valere le sue pretese civili, se: a. l’accusatore privato è sprovvisto dei mezzi necessari; e b. l’azione civile non appare priva di probabilità di successo.
Il gratuito patrocinio comprende, a’ sensi dell’art. 136 cpv. 2 CPP: a. l’esonero dagli anticipi e dalla prestazione di garanzie; b. l’esonero dalle spese procedurali; c. la designazione di un patrocinatore, se necessario per tutelare i diritti dell’accusatore privato.
Il diritto al gratuito patrocinio per l’accusatore privato (ovvero per il danneggiato che dichiara espressamente di partecipare al procedimento penale con un’azione penale o civile, art. 118 cpv. 1 CPP) si fonda sull’art. 29 cpv. 3 Cost. (decisione TF 1B_45/2012 dell’8.6.2012 consid. 4.1.; BSK StPO – G. MAZZUCCHELLI / M. POSTIZZI, art. 136 CPP n. 1). L’art. 136 CPP definisce le condizioni e l’entità del diritto in sintonia con la prassi adottata sinora in relazione all’accusatore privato (messaggio 21.12.2005 concernente l’unificazione del diritto processuale penale, p. 1087).
3.2.
La concessione del gratuito patrocinio presuppone una domanda, motivata, dell’accusatore privato, che fa valere pretese civili nel procedimento (decisione TF 1B_619/2011 del 31.5.2012 consid. 2.1.; messaggio 21.12.2005 concernente l’unificazione del diritto processuale penale, p. 1087), che deve allegare i documenti attestanti la situazione di reddito e di sostanza, i suoi obblighi finanziari e, parimenti, il suo fabbisogno attuale (BSK StPO – G. MAZZUCCHELLI / M. POSTIZZI, art. 136 CPP n. 9).
L’onere di comprovare la propria indigenza spetta quindi, di principio, a colui che chiede il gratuito patrocinio. La direzione del procedimento – a cui compete la decisione (art. 133 cpv. 1, 137 e 61 CPP) – è nondimeno tenuta ad interpellare il richiedente qualora manchino determinati documenti, domandandogli di produrli. Non deve peraltro limitare, in maniera formalistica, i mezzi di prova (BSK StPO – G. MAZZUCCHELLI / M. POSTIZZI, art. 136 CPP n. 12; BSK StPO – N. RUCKSTUHL, art. 132 CPP n. 30; decisione TF 1B_288/2010 del 2.11.2010 consid. 3.4.).
L’accusatore privato è da considerare privo dei mezzi necessari secondo l’art. 136 cpv. 1 lit. a CPP, e di conseguenza indigente, se non può provvedere con mezzi propri – composti di reddito e sostanza – agli oneri processuali e legali, ovvero non è in grado di affrontare detti costi senza intaccare il fabbisogno suo e della sua famiglia (decisione TF 6B_50/2012 del 14.5.2012 consid. 6.2.2.; BSK StPO – G. MAZZUCCHELLI / M. POSTIZZI, art. 136 CPP n. 12; BSK StPO – N. RUCKSTUHL, art. 132 CPP n. 23; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 132 CPP n. 8; Commentario CPP – M. GALLIANI / L. MARCELLINI, art. 136 CPP n. 4).
Determinante, al fine di stabilire se l’accusatore privato è privo dei mezzi necessari per il procedimento, è la sua complessiva situazione patrimoniale al momento dell’introduzione della domanda, situazione che deve tenere conto di tutti gli oneri finanziari, dei redditi e del patrimonio (BSK StPO – N. RUCKSTUHL, art. 132 CPP n. 23; decisione TF 6B_50/2012 del 14.5.2012 consid. 6.2.2.; decisione TF 6B_413/2009 del 13.8.2009 consid. 1.5.).
3.3.
L’art. 136 CPP, al cpv. 1 lit. b, presuppone poi – cumulativamente – che l’azione civile non appaia priva di probabilità di successo (BSK StPO – G. MAZZUCCHELLI / M. POSTIZZI, art. 136 CPP n. 14 s.; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 136 CPP n. 6; ZK StPO – V. LIEBER, art. 136 CPP n. 6; Commentario CPP – M. GALLIANI / L. MARCELLINI, art. 136 CPP n. 5; cfr., sul tema, decisione TF 1B_51/2011 del 29.3.2011 consid. 2.1.).
3.4.
Il gratuito patrocinio può estendersi, oltre che all’esonero dagli anticipi, dalla prestazione di garanzie e dalle spese procedurali (art. 136 cpv. 2 lit. a-b CPP) [ZK StPO – V. LIEBER, art. 136 CPP n. 7 ss.], alla designazione (da parte della direzione del procedimento, art. 133 cpv. 1, 137 e 61 CPP) di un patrocinatore, i cui costi sono assunti dallo Stato, se la fattispecie presenta particolari difficoltà in fatto o in diritto e se l’accusatore privato non è in grado da solo di far valere i suoi diritti (decisione TF 1B_45/2012 dell’8.6.2012 consid. 4.5.; BSK StPO – G. MAZZUCCHELLI / M. POSTIZZI, art. 136 CPP n. 16 ss.; ZK StPO – V. LIEBER, art. 136 CPP n. 10 s.; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 136 CPP n. 4 e art. 132 CPP n. 11 s.).
Per determinare se occorra designare un patrocinatore – i cui costi sono assunti dallo Stato – si deve esaminare se la fattispecie presenta particolari difficoltà in fatto o in diritto e se l’accusatore privato non è in grado da solo di far valere i propri diritti. Si deve tenere conto, segnatamente, dell’età, della situazione sociale, delle conoscenze linguistiche e dello stato fisico e psichico dell’interessato, della difficoltà e della complessità del caso (decisione TF 1B_45/2012 dell’8.6.2012 consid. 4.5.), dal profilo per esempio delle questioni processuali e materiali che si pongono (BSK StPO – G. MAZZUCCHELLI / M. POSTIZZI, art. 136 CPP n. 18), o – ancora – del domicilio all’estero (BSK StPO – G. MAZZUCCHELLI / M. POSTIZZI, art. 136 CPP n. 18).
4.
4.1.
Il procuratore pubblico, per fondare la propria decisione, non ha preso in considerazione le capacità di RE 1 a tutelare i propri interessi, bensì quelle del suo tutore che, in virtù dell’art. 106 cpv. 2 CPP, è chiamato e legittimato a rappresentarlo nell’ambito del procedimento penale:
“(...) la questione a sapere è dunque se le difficoltà civili e penali del caso giustifichino rispettivamente rendano necessario il patrocinio da parte di un avvocato, piuttosto che da parte del tutore di RE 1 che, per quanto è dato a sapere, non ha una formazione giuridica. Dalla documentazione prodotta, sembrerebbe tuttavia che RA 1, tutore di RE 1, sia responsabile del settore tutele e curatele del servizio accompagnamento sociale della Città di _ (...), e dunque vi sono motivi per credere che egli abbia conoscenze superiori alla media nell’ambito del diritto tutorio e degli altri aspetti tipicamente connessi a situazioni legate a tutele e curatele, quali possono essere le assicurazioni sociali (...)”
(decisione 13.3.2012, p. 2). Il magistrato inquirente ha poi citato la giurisprudenza secondo la quale una persona comune dovrebbe essere in grado di tutelare i propri interessi e diritti di danneggiato (rispettivamente accusatore privato) nell’ambito del procedimento penale, in particolar modo per quanto concerne le pretese civili e dunque il risarcimento, facilmente documentabile.
4.2.
La nomina di un patrocinatore gratuito presuppone che la parte in giudizio
abbisogni di un patrocinatore al fine di tutelare i propri diritti in modo efficace. È pur vero che, come affermato dal procuratore pubblico, tale condizione è
soddisfatta se ci si trova di fronte a quesiti complessi dal profilo materiale o giuridico. Vanno però prese in considerazione altre circostanze del caso, come ad esempio la rilevanza della causa penale, la competenza giuridica della parte, o, ancora, la possibilità di eventuali conflitti di interesse.
Nel caso in esame, come rilevato dallo stesso reclamante, vi potrebbe essere infatti un conflitto di interesse: innanzitutto perché il procedimento penale verte proprio su eventuali responsabilità in merito al danno patito dal pupillo RE 1, responsabilità che il vecchio tutore, _, denunciato/querelato, potrebbe far ricadere sul nuovo tutore; inoltre RA 1 sarà interrogato nell’ambito del procedimento penale ed il suo doppio ruolo di teste e rappresentante del pupillo potrebbe risultare difficile da conciliare. Perdipiù RA 1 non ha una formazione giuridica ma è persona formata nell’ambito psicopedagogico e sociale.
Pertanto, visto quanto precede, nel caso in esame si deve concludere per la necessità di un patrocinatore legale alfine di tutelare al meglio i diritti dell’accusatore privato.
5.
Il gravame è accolto. A RE 1 è concesso il gratuito patrocinio [oltre quanto già stabilito nella decisione del procuratore pubblico 5.4.2012 (art. 136 cpv. 2 lit. a e b CPP)] compresa la designazione di un patrocinatore (art. 136 cpv. 2 lit. c CPP), a far tempo dal 27.2.2012, data della richiesta (BSK StPO – G. MAZZUCCHELLI / M. POSTIZZI, art. 136 CPP n. 8). Non si prelevano tassa di giustizia e spese. Lo Stato della Repubblica e del Cantone Ticino rifonderà al reclamante adeguate ripetibili. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
ce05f27a-53fe-5732-8e46-03c388ed77c2 | in fatto ed in diritto
1
. Il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale a carico di PI 2, conclusosi con la sentenza di condanna del 23.9.2008 pronunciata dal Presidente della Corte delle assise correzionali per ripetuta ricettazione di un certo numero di autovetture (inc. _).
2
. Presso la Pretura istante è pendente un’azione civile ordinaria (inc. _) promossa da PI 3 contro la _, di cui PI 2 è amministratore unico, e inerente alla compravendita di un’autovettura marca Jaguar. Con scritto 16/17.2.2011 il pretore aggiunto, allegando anche lo scritto 14/17.2.2011 di motivazione del richiamo inviato da una delle parti, chiede di concedere l’ispezione dell’incarto penale surriferito.
3
. L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.1.2011, che ha nella sostanza ripreso il testo del previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
”.
4.
Come ricordato dalla prassi di questa Corte, in caso di richiesta da parte di autorità giudiziarie tendente ad ottenere documenti di un incarto penale, la giurisprudenza ammette la richiesta se: (i) si riferisce a procedimenti ancora pendenti presso l'autorità richiedente; (ii) è compatibile con il codice di rito applicabile a quel procedimento; (iii) è formulata dal titolare dell’autorità giudiziaria richiedente. Inoltre deve essere dato un legame di pertinenza dell’incarto richiamato con quello richiamante.
5
. Nel presente caso, dallo scritto di motivazione 14/17.2.2011 allegato all’istanza della Pretura risulta chiaramente che lo scopo della richiesta è quello di verificare se l’autovettura di cui alla vertenza civile rientri tra quelle oggetto dell’illecito traffico di veicoli di cui al procedimento penale. Dalla lettura della pagina 2 della relativa sentenza del 23.9.2008 (che riporta il contenuto dell’atto d’accusa; decisione richiamata dal Tribunale penale cantonale), non risulta nessuna autovettura marca Jaguar.
6 | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
ce1007aa-8f95-5fee-bbc0-b255eb1dc82b | in fatto
a
. A seguito di denuncia 15/17.11.2010, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale per infrazioni alla legge federale concernente le lotterie e le scommesse professionalmente organizzate a carico di RE 1 e di RE 2 (inc. MP _).
b
. Con comunicazione di chiusura dell’istruzione (art. 318 CPP) del 23.11.2012, il Ministero pubblico ha prospettato l’emanazione di un decreto di abbandono.
Nel termine fissato e prorogato, il patrocinatore dei reclamanti ha presentato una domanda d’indennizzo in data 14.12.2012, allegando la nota di onorario sua e del precedente patrocinatore di fiducia.
c
. Con decisione del 19.12.2012, il Ministero pubblico ha abbandonato il procedimento penale (ABB _).
Nella medesima decisione, il Ministero pubblico ha stabilito l’indennità per le spese sostenute da RE 1 e da RE 2. Rispetto alla domanda d’indennizzo, il Ministero pubblico ha ridotto l’importo della tariffa oraria dei patrocinatori da CHF 250.-- a 220.-- l’ora, nonché non ha riconosciuto alcune prestazioni (cfr. punto 4 dell’ABB _).
d
. Con il presente reclamo, RE 1 e RE 2 impugnano unicamente la decisione di abbandono limitatamente alla riduzione della tariffa oraria, citando una recente decisione della Corte di appello e di revisione penale e facendo riferimento alla prassi invalsa tra le autorità giudiziarie ticinesi.
e
. Con osservazioni 11.1.2013, il Ministero pubblico si è rimesso al prudente giudizio di questa Corte. | in diritto
1
. 1.1.
Giusta l’art. 393 cpv. 1 lit. a CPP il reclamo può essere interposto – entro il termine di dieci giorni – contro le decisioni e gli atti procedurali della polizia, del pubblico ministero (decreto di abbandono ex art. 319 ss. CPP, impugnabile secondo l’art. 322 cpv. 2 CPP) e delle autorità penali delle contravvenzioni, eccettuati i casi in cui è espressamente escluso dal CPP o quando è prevista un’altra impugnativa.
Con il gravame, da introdurre davanti alla giurisdizione di reclamo (art. 20 cpv. 1 lit. b CPP), ovvero – in Ticino – alla Corte dei reclami penali (art. 62 cpv. 2 LOG), si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l’eccesso e l’abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l’accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l’inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta ed all’art. 385 CPP per la motivazione.
Esso deve indicare – in particolare – i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
1.2.
Il gravame, inoltrato il 4.1.2013 a questa Corte contro la decisione 19.12.2012 del Ministero pubblico con cui ha abbandonato il procedimento a carico degli imputati e ha riconosciuto solo in parte l’indennizzo richiesto (ABB _), è tempestivo e proponibile.
RE 1 e RE 2, quali imputati nei cui confronti il procedimento penale è stato abbandonato, sono pacificamente legittimati a reclamare giusta l’art. 382 cpv. 1 CPP avendo un interesse giuridicamente protetto alla modifica della decisione relativa all’indennizzo in applicazione dell’art. 429 CPP.
Le esigenze di forma e motivazione del reclamo sono rispettate.
Il reclamo è, nelle predette circostanze, ricevibile in ordine.
2
. 2.1.
Giusta l’art. 429 cpv. 1 CPP, se è pienamente o parzialmente assolto o se il procedimento nei suoi confronti è abbandonato, l’imputato ha diritto a:
a. un’indennità per le spese sostenute ai fini di un adeguato esercizio dei suoi diritti procedurali;
b. un’indennità per il danno economico risultante dalla partecipazione necessaria al procedimento penale;
c. una riparazione del torto morale per lesioni particolarmente gravi dei suoi interessi personali, segnatamente in caso di privazione della libertà.
L’autorità penale esamina d’ufficio le pretese dell’imputato. Può invitare l’imputato a quantificarle e comprovarle (art. 429 cpv. 2 CPP).
2.2.
L’art. 429 CPP
fonda una responsabilità causale dello Stato, indipendente quindi da una colpa delle autorità penali (BSK StPO – S. WEHRENBERG / I. BERNHARD, art. 429 CPP n. 6; ZK StPO – Y. GRIESSER, art. 429 CPP n. 2; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 429 CPP n. 6; Commentario CPP – M. MINI, art. 429 CPP n. 1; messaggio del 21.12.2005 concernente l’unificazione del diritto processuale penale, p. 1231), chiamato a rispondere della totalità del danno [spese di patrocinio, danno economico e torto morale (Commentario CPP – M. MINI, art. 429 CPP n. 4 ss.)] cagionato all’imputato (cfr., sul concetto di imputato, BSK StPO – S. WEHRENBERG / I. BERNHARD, art. 429 CPP n. 8; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 429 CPP n. 2 s.).
Il nocumento deve presentare un nesso causale, ai sensi del diritto della responsabilità civile, con il procedimento penale (BSK StPO – S. WEHRENBERG / I. BERNHARD, art. 429 CPP n. 9; Commentario CPP – M. MINI, art. 429 CPP n. 1; messaggio del 21.12.2005 concernente l’unificazione del diritto processuale penale, p. 1231) conclusosi con un decreto di abbandono oppure di parziale abbandono o, ancora, con un’assoluzione totale oppure soltanto parziale dell’imputato (ZK StPO – Y. GRIESSER, art. 429 CPP n. 3; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 429 CPP n. 1/4; Commentario CPP – M. MINI, art. 429 CPP n. 3).
Gli art. 317 ss. CPP TI prevedevano una normativa analoga, con principi mutuati
dalle norme sulla responsabilità del CO. Di principio, dunque, la giurisprudenza dell’allora Camera dei ricorsi penali prolata sotto l’egida delle norme precedentemente in vigore mantiene la sua validità anche in merito agli art. 429 ss. CPP.
3
.
3.1.
Nel presente caso, contestata è unicamente la tariffa oraria applicabile ai due patrocinatori.
3.2.
Occorre premettere che nella presente fattispecie ci si trova confrontati con un caso di patrocinio di fiducia e non d’ufficio.
Non sono applicabili la Legge sull’assistenza giudiziaria e sul patrocinio d’ufficio (LAG) del 15.3.2011 e il Regolamento sulla tariffa per i casi di patrocinio d’ufficio e di assistenza giudiziaria e per la fissazione delle ripetibili del 19.12.2007, che prevede (all’art. 4 cpv. 1) una tariffa oraria base di 180.-- CHF l’ora, aumentabile fino a CHF 250.-- nei casi impegnativi (art. 4 cpv. 2) o per gli interventi fuori orario di lavoro usuale (art. 5a).
3.3.
Come ricordato dal reclamo, citando una recente decisione della Corte d’appello e di revisione penale (CARP), le autorità penali ticinesi, ed anche la Camera dei ricorsi penali (che ha preceduto questa Corte), hanno consolidato da tempo una prassi per la tariffa oraria per i casi di patrocinio di fiducia:
“...
che il Consiglio di moderazione aveva fissato dal 2001 la remunerazione, a dipendenza della complessità della fattispecie, a CHF 250.-- orari per i casi più semplici (CHF 200.-- dal 1992 e CHF 220.-- dal 1996), senza stabilire un limite massimo, importo che questa Camera continua a riconoscere, anche dopo l’abrogazione della TOA, quale onorario, minimo, nell’ambito dell’istanza di indennità per ingiusto procedimento giusta gli art. 317 ss. CPP [onorario ritenuto non arbitrario dal Tribunale federale (decisione 6B_194/2008 dell’11.8.2008, considerando 3.3.2)];
” (sentenza del 28.12.2010. inc. 60.2010.422).
3.4.
Non ci sono motivi per modificare, per di più al ribasso, questa prassi, consolidata negli anni e ratificata anche dall’Alto Tribunale federale.
Pertanto, il reclamo va accolto con riferimento all’applicazione di una tariffa oraria di CHF 250.--/ora.
4
. Il reclamo è accolto. Data la particolarità del caso, non si preleva la tassa di giustizia e si rinuncia al rimborso delle spese. Ai reclamanti sono riconosciute congrue ripetibili. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
ce8d51d0-172f-59f5-87d8-712d50eab6f1 | in fatto: A.
Il 23 novembre 2001 si è svolto a _ il forum dei direttori delle Banche _, al quale erano presenti – tra l'altro – _, allora dipendente dell'_, e _, direttore della Banca _. Durante la pausa-caffè tra le ore 10.00 e le 10.30 ha avuto luogo un diverbio tra i due. Secondo _, _ lo avrebbe afferrato per il collo, fin quasi a strangolarlo. _ sostiene invece di essersi limitato ad afferrare _ per il bavero della giacca con una presa brevissima. _ si è rivolto al suo medico curante, che lo ha inviato dalla dott. _. Visitato il paziente una prima volta il 4 dicembre 2001 e una seconda il 15 gennaio 2002, questa ha rilasciato un certificato attestante la presenza di un grosso ematoma che prendeva tutta l'emilaringe sinistra e l'ipofaringe omolaterale.
B.
Con decreto d'accusa del 18 marzo 2002 il Procuratore pubblico ha riconosciuto _ autore colpevole di lesioni semplici per avere intenzionalmente cagionato un danno al corpo di _,
prendendolo per il collo e procurandogli le lesioni descritte nel certificato medico 4 dicembre 2001 della dott. _. In applicazione della pena, egli ne ha proposto la condanna a una multa di fr. 400.–. Al decreto di accusa il prevenuto ha sollevato opposizione. Statuendo sull'opposizione, con sentenza del 7 giugno 2002 il Pretore del Distretto di _ ha prosciolto _ dall'imputazione, ritenendo che né le testimonianze raccolte né la corrispondenza prodotta al dibattimento né il certificato medico agli atti permettessero di accertare con la necessaria certezza che l'imputato avesse tentato di strangolare _.
C.
Contro la sentenza pretorile _ ha introdotto il 19 giugno 2002 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione di revisione penale. Nei motivi del gravame, presentati l'8 luglio successivo, egli chiede che il giudizio impugnato sia annullato e che _ sia riconosciuto colpevole di lesioni semplici, con obbligo di pagare una multa e di corrispondergli fr. 4'800.– per spese legali, come pure fr. 3'000.– per torto morale. Nelle sue osservazioni del 29 luglio 2002 _ propone di respingere il ricorso. Con scritto del 17 luglio 2002 il Procuratore pubblico dichiara di rimettersi al giudizio della Corte. | Considerando
in diritto: 1
. Il ricorrente rimprovera al primo giudice di essere caduto in arbitrio accertando che le prove assunte non permettono di concludere con la necessaria certezza che l'accusato abbia tentato di strangolarlo, provocandogli le lesioni descritte nel certificato medico agli atti. Ora, come lo stesso ricorrente mostra di sapere, la Corte di cassazione e di revisione penale è abilitata a esaminare gli accertamenti di fatto e la valutazione delle prove da parte del primo giudice solo con cognizione limitata all'arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). La conclusione del Pretore può censurata, quindi, solo ove risulti manifestamente insostenibile, smentita apertamente dagli atti o fondata unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 128 I 81 consid. 2 pag. 86, 127 I 38 consid. 2a pag. 41).
2.
Il Pretore ha anzitutto rilevato che, interrogato il 1° marzo 2002, il direttore _ ha riferito agli inquirenti di essere intervenuto durante il forum del 23 novembre 2001 per separare _ e il ricorrente, che “stavano avendo un alterco gridando uno nei confronti dell'altro”. Invitato a precisare se avesse visto l'accusato prendere l'avversario per il collo, egli non era però stato in grado di rispondere, avendo la sua attenzione rivolta altrove. Ricordato che alla riunione presenziava una cinquantina di persone, il Pretore ha sottolineato che, quantunque sull'episodio fossero stati sentiti cinque testimoni, nessuno aveva visto l'accusato afferrare _ al collo. Quanto alla corrispondenza tra la Banca _ e l'_ prodotta da _ al dibattimento, essa non era di sussidio.
Certo, ha soggiunto il Pretore, con lettera del 4 dicembre 2001 _ definiva deprecabile – per il tramite del direttore _– l'azione com-messa dall'accusato, prospettando anche sanzioni nei suoi confronti, ma non ha esplicitamente ammesso uno scontro fisico tra i due. E al dibattimento _ ha spiegato di essere intervenuto perché attratto dalle grida, ma non ha saputo rispondere – nuovamente – alla domanda di sapere se vi fosse stato un qualsivoglia contatto fisico. Per quel che è del certificato medico agli atti, ha continuato il Pretore, esso si limita a riportare la versione del paziente. È vero che in tale certificato la dott. _ ha constatato un grosso ematoma non dovuto a un infetto, ma essa non si è pronunciata sulla causa e non ha precisato se un ematoma del genere possa formarsi soltanto per effetto di un'azione esterna, come un tentativo di strangolamento, né se l'ematoma – riscontrato il 4 dicembre 2001 – potesse in qualche modo essere collegato con un'azione esterna avvenuta il 23 novembre precedente. Mancando prove tranquillanti per una condanna, il Pretore ha quindi assolto l'imputato.
3.
Il ricorrente si diffonde anzitutto sull'importanza dello scambio epistolare esibito al dibattimento, dolendosi che il primo giudice non ne abbia considerato la reale valenza, al punto da trascendere in arbitrio. La censura è infondata. Le argomentazioni del ricorrente non consentono di intravedere arbitrio alcuno nel convincimento del Pretore, secondo cui lo scritto del 4 dicembre 2001 firmato dal direttore _– in risposta a una lettera 28 novembre 2001 della _, che denunciava l'aggressione di _ – non consente di trarre conclusioni decisive. Da tale lettera parrebbe invero che l'_, e segnatamente il suo direttore _ i, condividesse il biasimo mosso all'accusato nella lettera del 28 novembre 2001. Se non che, dinanzi agli inquirenti e ancora al pubblico dibattimento lo stesso _, sentito come teste, ha ridimensionato la portata di quello scritto, riferendo in modo inequivocabile di non avere assistito alla pretesa colluttazione fra _ e l'imputato, la sua attenzione essendo stata attirata soltanto dalle grida dei contendenti (sentenza, pag. 3).
Senza trascendere in arbitrio il primo giudice poteva perciò considerare lo scambio di corrispondenza evocato nel ricorso come superato dai chiarimenti forniti in aula dallo stesso _. Nelle circostanze descritte spettava al ricorrente dimostrare che le relativizzazioni del testimone sullo svolgimento dei fatti non sono credibili, ad esempio rendendo verosimile che quanto figura nella lettera del 4 dicembre 2001 è il risultato di specifiche indagini interne svolte dall'_. Dalla sentenza impugnata si desume invece che nessuna delle altre persone sentite al dibattimento ha riferito di avere visto l'imputato prendere _ per il collo. Le riserve espresse dal ricorrente sulla deposizione di _ e dei testimoni escussi dal Pretore non giovano. Anzi, manifestamente appellatorio, su questo punto il ricorso denota addirittura sua irricevibilità.
4.
Il ricorrente ravvisa arbitrio anche nella mancata constatazione che quanto riportato nel certificato medico del 4 dicembre 2001 si riferisce allo strangolamento messo in atto nei suoi confronti il 23 novembre 2001. Nemmeno al riguardo egli dimostra però la manifesta insostenibilità della conclusione del Pretore, secondo cui nel certificato in questione la professionista si è limitata in buona sostanza a riferire la versione del paziente, senza attestare che l'ematoma constatato possa formarsi soltanto per effetto di un'azione esterna (come un tentativo di strangolamento), né che tale ematoma fosse la conseguenza dell'azione esterna che stando all'accusato sarebbe avvenuta il 23 novembre precedente. E nemmeno bastava la locuzione “ematoma dopo strangolamento” apposta in calce al certificato medico, ove figura anche uno schizzo della dott. _, perché il primo giudice dovesse accertare, sotto pena di arbitrio, che l'ematoma era effettivamente dovuto all'azione risalente – secondo il ricorrente (il quale per altro soffriva di problemi alla gola già prima del presunto fatto: verbale del 26 febbraio 2002, pag. 1) – a 10 giorni prima (sentenza, pag. 4). La questione andava chiarita, se mai, dalla stessa dott. _ in qualità di testimone. Ciò che tuttavia non è avvenuto.
5.
Se ne conclude che, nella misura in cui è ammissibile, il ricorso è destinato all'insuccesso. Gli oneri processuali seguono la soccombenza del ricorrente (art. 15 cpv. 1 e 9 cpv. 1 CPP), che rifonderà a _, il quale ha presentato osservazioni al ricorso per il tramite di un avvocato, un'indennità di fr. 800.– per ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,002 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
ceaaa97f-4a79-5762-86ac-d7aeebe3934a | in fatto: A.
Da aprile 2008, RI 1 è titolare di una patente per la gerenza dell’affittacamere situato in un’ala dell’esercizio pubblico denominato “_” a _, struttura che comprende pure un locale notturno e un bar.
B.
Preso atto di un rapporto della polizia cantonale che confermava come il summenzionato esercizio pubblico fosse, in realtà, un postribolo, il Municipio di _, con risoluzione 18 giugno 2008, ha fatto ordine alla _ (proprietaria del fondo), alla _ (gestrice dell’esercizio pubblico) nonché a RI 1, sotto la comminatoria dell’art. 292 CP,
“di sospendere immediatamente l’esercizio della prostituzione nello stabile denominato _ sito sulla particella _ di _ e di ripristinare l’uso dell’immobile a scopo di affittacamere”
.
La richiesta di conferire l'effetto sospensivo al gravame interposto da RI 1 e dalla _ avverso la suddetta decisione è stata respinta da tutte le istanze adite ed, in ultima analisi, dal Tribunale federale con sentenza 17 ottobre 2008.
La risoluzione municipale è poi stata definitivamente confermata, nel merito, dal Tribunale cantonale amministrativo con decisione 16 gennaio 2009.
C.
Nel frattempo, in data 22 ottobre 2008, la polizia cantonale ha effettuato un nuovo controllo presso la _, in occasione del quale ha riscontrato la presenza di sette donne straniere, tutte soggiornanti presso le camere in affitto situate nella struttura e regolarmente registrate nei libretti delle notifiche alla polizia. Per tre di loro è stata promossa l’accusa di infrazione alla Legge federale sugli stranieri e di esercizio illecito della prostituzione sfociata in tre decreti d’accusa di data 23 ottobre 2008.
Pure RI 1 veniva denunciato per disobbedienza a decisioni dell’autorità nonché per infrazione alla LStr.
D.
Il 18 febbraio 2009, la polizia cantonale ha effettuato un’ulteriore ispezione presso l’affittacamere, durante la quale non veniva riscontrata la presenza di donne straniere, ancorché in alcune camere fossero presenti degli effetti personali riconducibili ad una clientela femminile. A seguito di questo intervento RI 1 è stato nuovamente denunciato per infrazione alla LStr.
E.
Sulla scorta delle emergenze appena evocate, il procuratore pubblico, con decreto d’accusa 23 marzo 2009, ha ritenuto RI 1 autore colpevole di:
- ripetuta incitazione all’entrata, alla partenza o al soggiorno illegale per avere facilitato il soggiorno illegale a cittadine straniere esercitanti attività di prostituzione senza regolare permesso, in particolare per avere ospitato, presso l’affittacamere collegato all’esercizio pubblico _ di cui è gerente, al prezzo di fr. 100.- per notte:
·
dal 14.9. al 22.10.2008 _,
·
dal 22.9. al 22.10.2008 _,
·
dall’ 8.10 al 22.10.2008 _,
·
il 18 febbraio 2009 due cittadine straniere, una brasiliana ed una lettone;
- ripetuta disobbedienza a decisioni dell’autorità per avere, nelle circostanze di cui sopra, omettendo di dare seguito all’ordine 18 giugno 2008 del Municipio di _ di sospendere immediatamente l’esercizio della prostituzione nello stabile denominato _, disatteso una decisione a lui intimata da un’autorità competente.
Ne ha, pertanto, proposto la condanna alla pena pecuniaria - sospesa condizionalmente per un periodo di prova di tre anni - di fr. 7’200.- (corrispondente a 90 aliquote di fr. 80.-) e al pagamento di una multa di fr. 3’000.- da sostituirsi, in caso di mancato pagamento, con una pena detentiva di 30 giorni.
Contro il decreto d’accusa il prevenuto ha sollevato tempestiva opposizione.
F.
Dopo il dibattimento, esperito nelle forme contumaciali, il giudice della Pretura penale, statuendo sull’opposizione, con sentenza 27 agosto 2009, ha confermato le imputazioni contenute nel decreto d’accusa.
G.
Con istanza 28 ottobre 2009, il condannato ha chiesto alla Pretura penale di essere nuovamente giudicato.
Esperito un secondo dibattimento, con sentenza 23 febbraio 2010, il pretore lo ha dichiarato autore colpevole di incitazione all’entrata, alla partenza o al soggiorno illegale e di ripetuta disobbedienza a decisioni dell’autorità. In applicazione della pena, egli lo ha condannato ad una pena pecuniaria - sospesa condizionalmente per un periodo di prova di quattro anni - di fr. 4'900.- (corrispondente a 70 aliquote di fr. 70.-), alla multa di fr. 2’000.- (da sostituirsi, in caso di mancato pagamento, con una pena detentiva di 30 giorni) nonché al pagamento delle tasse e spese giudiziarie di complessivi fr. 1’100.-.
H.
Avverso la predetta sentenza è insorto il condannato con dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e revisione penale di data 24 febbraio 2010.
RI 1, nella sua motivazione scritta, presentata il 1° aprile 2010, chiede, in via principale, l’annullamento della sentenza impugnata e il suo proscioglimento da ogni accusa e, in via subordinata, il suo proscioglimento dalle accuse per quanto attiene ai fatti del 18 febbraio 2009 con conseguente riduzione della pena pecuniaria inflittagli ad un massimo di 30 aliquote giornaliere di fr. 70.- cadauna.
I.
Con scritto 12 aprile 2010, il procuratore pubblico ha comunicato di rinunciare alla presentazione di osservazioni ed ha chiesto la conferma della decisione impugnata. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è essenzialmente un rimedio di diritto (art. 288 lett. a e b CPP) nella misura in cui l’accertamento dei fatti è censurabile unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP), ritenuto inoltre che arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 135 V 2 consid. 1.3 pag. 5, 134 I 153 consid. 3.4 pag. 156133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371).
2. RI 1
sostiene innanzitutto che il primo giudice ha arbitrariamente accertato che, il 18 febbraio 2009, delle donne straniere illecitamente dedite alla prostituzione, erano ospitate nell’affittacamere presso la _.
2.1.
Sulla presenza di straniere illecitamente dedite alla prostituzione in occasione del controllo effettuato dalla Polizia cantonale il 18 febbraio 2009, il primo giudice si è limitato a rilevare come
“questa volta all’interno dell’esercizio pubblico non è stata trovata nessuna ospite, ma unicamente degli effetti personali, degli abiti, tutti femminili, ma non merce abbandonata, bensì oggetti lasciati da qualcuno che apparentemente è dovuto improvvisamente fuggire. La Polizia cantonale ha ipotizzato che “ignoti” abbiano anticipato quel controllo, visto che, poco prima, gli agenti erano intervenuti in un vicino postribolo”
(sentenza, consid. 2 pag. 4)
.
Condannando il ricorrente
“per i fatti compiuti nelle circostanze descritte nel DA n. 1417/2009 del 23 marzo 2009”
(cfr. dispositivo della sentenza impugnata) il primo giudice ha tuttavia ritenuto - come indicato nello stesso DA - che il 18 febbraio 2009 due cittadine straniere (una brasiliana ed una lettone) esercitanti la prostituzione ancorché sprovviste del regolare permesso erano ospitate nelle camere in affitto presso la _.
2.2.
Il ricorrente rileva come, il 18 febbraio 2009, la Polizia cantonale abbia rinvenuto presso l’esercizio pubblico in questione unicamente degli abiti femminili
“che, al massimo, possono fungere da indizio che ospiti di sesso femminile alloggiavano presso la struttura”.
Secondo la tesi ricorsuale, tuttavia, tale circostanza non dimostra assolutamente che le donne ospitate nelle camere della _
“siano state delle prostitute e che esse abbiano esercitato illecitamente la loro professione nell’affittacamere”
. Il primo giudice - continua il ricorrente - fondando il suo accertamento
“su quello che a malapena può essere definito un indizio”
e non essendovi agli atti nessun’altra prova, è incorso in un manifesto arbitrio.
Ne discende, conclude RI 1, che, per quanto attiene ai fatti del 18 febbraio 2009, egli non può essere condannato per il reato di cui all’art. 116 cpv. 1 lett. a LStr né per quello di cui all’art. 292 CP (ricorso, pag. 4-5).
2.3.
Nell’accertamento dei fatti e nella valutazione delle prove, il giudice dispone di un ampio potere di apprezzamento (DTF 129 I 8 consid. 2.1.; 118 Ia 28 consid. 1b; STF 30.03.2007 6P.218/2006) così che, per motivare l’arbitrio, non è sufficiente criticare la decisione impugnata né è sufficiente contrapporvi una diversa versione dei fatti, per quanto sostenibile o addirittura preferibile. È, invece, necessario dimostrare il motivo per cui la valutazione delle prove fatta dal primo giudice è manifestamente insostenibile, si trova in chiaro contrasto con gli atti, si fonda su una svista manifesta o contraddice in modo urtante il sentimento di equità e di giustizia. In particolare, il Tribunale federale ha avuto modo di stabilire che un accertamento dei fatti può dirsi arbitrario se il primo giudice ha manifestamente disatteso il senso e la rilevanza di un mezzo di prova oppure ha omesso, senza fondati motivi, di tener conto di una prova idonea ad influire sulla decisione presa oppure, ancora, quando il giudice ha tratto dal materiale probatorio disponibile deduzioni insostenibili (DTF 129 I 8 consid. 2.1.).
Il precetto
in
dubio pro reo
è un corollario della presunzione di innocenza garantita dagli art. 32 cpv. 1 Cost., 6 par. 2 CEDU e 14 cpv. 2 patto ONU II. Esso disciplina sia la valutazione delle prove sia il riparto dell'onere probatorio. Per quanto attiene alla valutazione della prove - cui, nel caso di specie, il ricorrente in sostanza si richiama - il principio
in dubio
pro reo
significa che il giudice penale non può dichiararsi convinto di una fattispecie più sfavorevole all'imputato quando, secondo una valutazione non arbitraria del materiale probatorio, sussistano dubbi sul modo con cui si è verificata la fattispecie medesima. Il precetto non impone che l'assunzione delle prove conduca a un assoluto convincimento. Semplici dubbi astratti e teorici non sono sufficienti, poiché sono sempre possibili. Il principio è disatteso quando il giudice penale, che dispone di un ampio potere di apprezzamento, avrebbe dovuto nutrire, dopo un'analisi globale e oggettiva delle prove, rilevanti e insopprimibili dubbi sulla colpevolezza dell'imputato (DTF non pubblicata 13 maggio 2008 [6B.230/2008], consid. 2.1., DTF non pubblicata 19 aprile 2002 [1P.20/2002] consid. 3.2; DTF 127 I 38 consid. 2a pag. 41, 124 IV 86 consid. 2a pag. 88, 120 Ia 31 consid. 4b pag. 40). Sotto questo profilo il precetto
in dubio pro reo
ha la stessa portata del divieto dell'arbitrio (DTF 133 I 149, DTF 120 Ia 31 consid. 4b pag. 40).
2.4.
Come giustamente rilevato dal ricorrente, oltre alla constatazione per cui nell’affittacamere in questione sono stati rinvenuti indumenti femminili apparentemente da ricondurre a persone che sono dovute improvvisamente fuggire, non emerge, dalla sentenza impugnata, un solo elemento a sostegno dell’accertamento secondo cui il 18 febbraio 2009 due cittadine straniere illecitamente dedite alla prostituzione erano ospitate nell’affittacamere presso la _.
Nemmeno dagli atti è possibile dedurre elementi a supporto della conclusione del primo giudice. Dal verbale 11 marzo 2009 del ricorrente, in particolare, risulta unicamente che gli effetti presenti nelle camere non occupate dagli ospiti registrati erano da ricondurre a
“due donne di nazionalità straniera e meglio ad una brasiliana e ad una lettone, le quali erano giunte presso l’affittacamere. Per quanto attiene la brasiliana posso dire con certezza che era giunta il giorno stesso del vostro
(ndr. della polizia
), mentre per quanto concerne la lettone aveva depositato temporaneamente i suoi bagagli in quanto non era sicura di fermarsi”
(verbale d’interrogatorio RI 1 11 marzo 2009, pag. 2). Dal verbale, per contro, nulla emerge in merito all’attività svolta dalle due donne straniere, né risulta dagli atti che le stesse siano state interrogate dalle autorità inquirenti sulle ragioni della presenza di loro effetti personali nelle camere della _.
In queste condizioni, ritenuto come, di per sé, la presenza di indumenti femminili non può essere considerata un indizio sufficientemente probante per l’accertamento secondo cui nella camera erano presenti straniere illecitamente dedite al meretricio, rilevata altresì la totale assenza di altri riscontri probatori, forza è concludere che il primo giudice, nel ritenere accertati i fatti indicati del decreto d’accusa relativi al controllo di polizia effettuato il 18 febbraio 2009, è trasceso in arbitrio.
Su questo punto, pertanto, il ricorso merita accoglimento e, di conseguenza, RI 1 deve essere prosciolto dalle imputazioni relative ai fatti del 18 febbraio 2009.
3.
Continuando nel suo gravame RI 1 rimprovera al primo giudice di averlo erroneamente ritenuto un gerente dell’affittacamere ai sensi della LEP.
3.1.
Il pretore ha, dapprima, rilevato che la questione dell’assenza di un certificato di capacità quale gerente
“non è necessariamente rilevante”
, ritenuto che tale certificato non è richiesto per la gerenza di tutti gli esercizi pubblici e che, comunque, la patente di tipo P di cui RI 1 è titolare
“permette di gestire camere, appartamenti, case o altre unità abitative”.
D’altra parte - ha osservato -
“ciò che conta per la valutazione penale del caso sono le effettive mansioni che l’autore aveva nella gestione della struttura e se egli disponeva di specifici poteri nell’amministrazione”
(sentenza, consid. 6.1 pag. 8). A mente del primo giudice, infatti, l’art. 53 cpv. 1 e 3 LEP non distingue tra gerenti con e senza certificato della Divisione della formazione professionale, ma impone determinati obblighi a tutti coloro che hanno ottenuto un permesso nell’ambito della ristorazione o dell’alloggio. Per cui - continua il pretore - anche il gerente affittacamere soggiace a questa normativa (sentenza impugnata, consid. 6.2, pag. 9).
Che RI 1 fosse il responsabile dell’affittacamere - spiega ancora il primo giudice - emerge anche dai suoi interrogatori 23 ottobre 2008 e 11 marzo 2009, in occasione dei quali egli si è definito
“il responsabile dell’andamento della gerenza delle camere della struttura”
ed ha ammesso, peraltro, di essere la persona che, per quelle stanze, deteneva il potere decisionale.
Il pretore, infine, rimarca come l’imputato, contrariamente a quanto da lui sostenuto, non può essere considerato un semplice dipendente subalterno del gestore _, ritenuto che l’istruttoria ha dimostrato
“la sua piena autonomia nella gestione delle camere: dalla registrazione delle clienti in entrata alla pulizia dei locali alla mattina”
. Il pretore ha, inoltre, considerato
“ininfluente”
la circostanza secondo cui RI 1 poteva, per le sue decisioni, essere “ripreso” dall’amministratore della suddetta società, “
visto che questa persona, in realtà, non era mai presente nell’esercizio pubblico”
(sentenza, consid. 7 pag. 9-10).
3.2.
Il ricorrente sostiene di non essere affatto un gerente ai sensi della LEP rilevando che, ai sensi di tale legge, il gerente di un esercizio pubblico è unicamente colui che ha conseguito il certificato di capacità e che, dunque, é responsabile nei confronti dell’Ufficio permessi. Egli, invece - spiega il ricorrente - è a tutti gli effetti un dipendente della _ e, pertanto, egli è soggetto alle sue istruzioni ed è a tale ditta che egli deve rispondere della sua attività. Contrariamente a quanto sostenuto dal primo giudice - osserva ancora il ricorrente - egli non era libero di gestire le camere come meglio preferiva e, in particolare, non poteva autonomamente decidere di non accettare ospiti nell’affittacamere (ricorso, pag. 5-6).
3.3.
Si osserva, innanzitutto, che la circostanza per cui RI 1 non ha conseguito il certificato di capacità rilasciato dal Dipartimento delle istituzioni (art. 19 LEP) non significa che egli non sia un gerente ai sensi dell’art. 53 LEP, ritenuto come tale certificato non sia richiesto per la gerenza di tutti gli esercizi pubblici (cfr. a proposito gli art. 62, 64 e 65 REP). Tantomeno rilevante è la circostanza secondo cui egli era un semplice dipendente della New Ristobar SA, se solo si considera che la stessa società risulta essere la “gestrice” dell’affittacamere (cfr. documenti prodotti al dibattimento, Patente d’esercizio pubblico n. 4105) - ovvero l’imprenditrice, la responsabile economica dello stesso (cfr. sulla controversa nozione di “gestore”, Garbani, Commentario alla LEP, Bellinzona 2005, pag. 117) - da non confondere con il “gerente”, ovvero l’operatore che si occupa direttamente della conduzione dell’esercizio pubblico e che soggiace agli obblighi di cui all’art. 53 LEP.
In concreto, che il gerente dell’affittacamere fosse proprio RI 1 risulta in modo evidente dalla patente rilasciata dall’Ufficio dei permessi che lo indicava esplicitamente come “gerente” di 11 camere e 19 posti letto (cfr. documenti prodotti al dibattimento, Patente d’esercizio pubblico n. 4105).
D’altra parte, il suo ruolo di gerente emerge incontrovertibilmente anche dalle dichiarazioni da lui stesso rilasciate alla Polizia:
“all’interno dell’affittacamere mi occupo di tutte le mansioni che competono ad un gerente, compresa la compilazione delle notifiche degli ospiti alla Polizia”
(verbale RI 1 23 ottobre 2008, pag. 2); “
principalmente sono responsabile dell’andamento e della gerenza delle camere della struttura, ovvero mi occupo della redazione delle notifiche degli ospiti alla polizia, del coordinamento per quanto attiene alla consegna delle camere agli ospiti”
(verbale RI 1 11 marzo 2009, pag. 1). In queste circostanze, non giova al ricorrente sostenere che egli
“non era libero di gestire le camere come meglio preferiva”
.
Ritenuto, dunque, come il ricorrente - in possesso della relativa patente - si è sempre occupato della conduzione dell’affittacamere presso la _, è a ragione che il primo giudice lo ha ritenuto un gerente ai sensi dell’art. 53 LEP.
Su questo punto il ricorso deve essere disatteso.
4.
Il ricorrente sostiene, poi, che, anche nella denegata ipotesi in cui egli dovesse essere ritenuto un gerente ai sensi della LEP, la sua condanna ex art. 116 LStr viola il principio della legalità (art. 1 CP).
4.1.
Il giudice della Pretura penale ha, dapprima, rilevato che l’art. 116 cpv. 1 lett. a LStr corrisponde all’art. 23 cpv. 1 quinto periodo e capoverso 2 della vLDDS e che, di conseguenza, appare giustificato applicare la giurisprudenza sviluppata dai tribunali sulla previgente normativa anche in relazione al nuovo disposto (sentenza, consid. 5.1 pag. 7-8).
Ciò posto, dopo aver ricordato i recenti sviluppi giurisprudenziali sull’art. 23 cpv. 1 LDDS e dopo avere appurato che il ricorrente, in qualità di responsabile delle camere in affitto, pure soggiaceva all’art. 53 LEP, il primo giudice è giunto alla conclusione che RI 1, omettendo più volte di segnalare alla polizia locale - in aggiunta alle semplici notifiche degli ospiti che risultano essere state fatte regolarmente - la presenza di donne straniere che esercitavano un’attività lucrativa illegale nelle camere di cui egli era responsabile, si è reso colpevole di ripetuta incitazione al soggiorno illegale ai sensi dell’art. 116 cpv. 1 lett. a LStr (sentenza, consid. 8.2 pag. 10).
Dal profilo soggettivo, il primo giudice ha ancora rilevato che il ricorrente sapeva o doveva presumere che le ragazze non si trovavano presso l’affittacamere come villeggianti, ma erano entrate nel nostro Paese per esercitare un'attività lucrativa (sentenza, consid. 8 pag. 10).
4.2.
Il ricorrente rileva che la nuova legge, così come la previgente vLDDS, disciplina due differenti tipi di doveri: quello imposto allo straniero nei confronti della polizia degli stranieri e quello imposto a colui che lo alloggia nei confronti della polizia locale, evidenziando come non sia possibile rendere penalmente responsabili gli uni per le mancanze degli altri, ritenuto che ciò violerebbe il principio
nulla poena sine lege
.
Nel caso in esame - continua il ricorrente - egli
“ha sempre effettuato la notifica alla polizia locale mediante il consueto formulario “notifica di polizia” in dotazione agli albergatori e, pertanto, il suo dovere si esauriva in quell’atto”
. Null’altro gli poteva essere imposto. Oltretutto - osserva ancora - nel formulario egli non affermava nulla di ingannevole o di sbagliato ritenuto che, al momento dell’arrivo delle ragazze, egli non aveva alcun motivo di dubitare che queste fossero veramente delle turiste e non era, del resto, ipotizzabile che egli ponesse domande sconvenienti alle clienti sullo scopo del loro soggiorno (ricorso, pag. 6-7).
Continuando nel suo esposto, il ricorrente sostiene che la teoria dell’
unechtes Unterlassungsdelikt
, applicata dalla CCRP nella sua recente giurisprudenza, “
viola palesemente il principio della legalità in ambito penale” e “rappresenta un’inammissibile interpretazione estensiva della legge esistente”
che va al di là della reale volontà del legislatore ticinese, poiché il gerente di un esercizio pubblico è una figura istituita soprattutto quale persona di riferimento verso l’Ufficio dei permessi e non un poliziotto tenuto a denunciare le violazioni di legge.
“Il suo dovere legale di garante” -
spiega -
“si estende, dunque, unicamente a quelli che sono i suoi doveri sgorganti dalla LEP e non di certo all’intero ordinamento giuridico penale della Confederazione Svizzera, tantomeno a controlli in materia di polizia degli stranieri”
. Per il ricorrente, inoltre, valutare ed, eventualmente, perseguire la violazione dei doveri di un gerente è unicamente di competenza delle autorità amministrative cantonali.
Pertanto, con riferimento al caso in esame, egli osserva che l’unico obbligo derivantegli dalla LEP, era
“quello di procedere con la regolare notifica degli ospiti della struttura, ciò che in concreto è stato fatto”
(ricorso, pag. 8-9).
Il ricorrente rileva ancora che,
“alfine di ritenere una persona colpevole di facilitazione al soggiorno illegale ai sensi dell’art. 116 LStr, l’agire della stessa deve rendere maggiormente difficoltosa all’autorità l’emanazione rispettivamente l’esecuzione di provvedimenti nei confronti di chi soggiorna illegalmente in Svizzera”.
Ritenuto che, come dimostrato dinanzi al giudice di prime cure, tutte le donne straniere sono state notificate mediante il consueto formulario,
“non vi è stato nessun impedimento da parte sua nei confronti dell’operato degli agenti di polizia”
. Piuttosto - spiega RI 1 - è proprio anche grazie alle sue notifiche che la polizia giudiziaria ha potuto identificare le ragazze straniere ed emettere nei loro confronti i decreti d’accusa. Ne discende - conclude il ricorrente su questo punto - che
“difettano gli elementi oggettivi costituenti l’infrazione di facilitazione al soggiorno illegale”
.
Si dovesse ritenere l’omissione della notifica quale elemento oggettivo costitutivo dell’infrazione di cui all’art. 116 LStr,
“si dovrebbe allora accettare che una persona possa essere condannata penalmente per l’agire contrario alla legge di una terza persona, ciò che è inaccettabile”
(ricorso, pag. 9-10).
A titolo abbondanziale, il ricorrente evidenzia come il fatto che egli avrebbe dovuto sapere che alcune ospiti si prostituivano
“non cambia alcunché”
, ritenuto come egli non abbia comunque
“facilitato il loro soggiorno e tantomeno le ha nascoste o reso più difficoltoso il compito di controllo di polizia”
. In ogni caso - conclude - non incombeva a lui denunciarle. Toccava, semmai, alle autorità, informate della presenza di sedicenti turiste straniere, intervenire (ricorso, pag. 10-11).
4.3.
Sotto il titolo marginale “Incitazione all’entrata, alla partenza o al soggiorno illegali”, l’art. 116 cpv. 1 lett. a LStr, in vigore dal 1° gennaio 2008, punisce con una pena detentiva sino ad un anno o con una pena pecuniaria chiunque, in Svizzera o all’estero, facilita o aiuta a preparare l’entrata, la partenza o il soggiorno illegali di uno straniero.
Tale disposto, pur con una formulazione lievemente differente, corrisponde all’art. 23 cpv. 1 quinta frase della vecchia Legge federale concernente il domicilio e la dimora degli stranieri (vLDDS), il quale puniva chiunque, in Svizzera o all’estero, facilitava od aiutava a preparare l’entrata o l’uscita illegale o un soggiorno illegale (cfr. STF del 17 luglio 2009 6B_128/2009, consid. 2.1, cfr. anche FF 2002, pag. 3447).
Il Tribunale federale ha già avuto modo di precisare che, per realizzare l’infrazione di cui all’art. 23 cpv. 1 quinta frase vLDDS - e, dunque, anche quella di cui all’art. 116 cpv. 1 lett. a LStr - il comportamento dell’autore deve rendere più difficile la presa di una decisione di espulsione o l’esecuzione di una tale decisione, per esempio rendendo più difficile l’arresto dello straniero. Il comportamento dell’autore deve, dunque, contribuire a sottrarre lo straniero in situazione irregolare dal potere d’intervento delle autorità (DTF 130 IV 77 consid. 2.3.3).
L’infrazione è realizzata, ad esempio, quando l’autore alloggia uno straniero in situazione irregolare all’insaputa delle autorità (STF del 16 novembre 2007 6B.176/2007, consid.
4.2; STF del 30 settembre 2005 6S.281/2005, consid. 1; DTF 130 IV 77 consid. 2.3.2 e sentenze citate; Nguyen, Droit public des étrangers, Berne 2003, pag. 679; Roschacher, Die Strafbestimmungen des Bundesgesetzes über Aufenthalt und Niederlassung der Ausländer, ANAG, tesi, Zurigo/Coira 1991, pag. 87-89).
Il reato qui in esame può, inoltre, essere commesso per omissione, ciò che, conformemente alle norme generali che reggono il diritto penale, presuppone che l’autore si trovi in una posizione di garante (Uebersax/Rudin/Hugi Yar/Geiser, Ausländerrecht, 2a edizione, Basilea 2009, n. 22.44; DTF 127 IV 27, consid.
2b; CCRP 13.4.2010 inc. n. 17.2009.50 consid. 2.3; CCRP 8.5.2009 inc. n. 17.2008.46 consid. 8; CCRP 16.9.2008 inc. n. 17.2007.28/29 consid.
7).
Secondo la giurisprudenza - ripresa nella sua sostanza nell’art. 11 CP in vigore dal 1° gennaio 2007 - è garante chi, per obbligo legale o contrattuale, deve impedire il compiersi di una fattispecie penale o sopprimerne gli effetti. La responsabilità penale richiede, inoltre, la consapevole lesione di doveri derivanti dalla posizione di garante, ciò che è dato, nel caso di reato intenzionale, quando il garante riconosce o prevede la commissione di un reato da parte di terzi, e ciò nonostante rimane passivo (DTF 105 IV 173 consid. 4a e 4b pag. 175).
Dal profilo soggettivo, l’infrazione di cui all’art. 116 cpv. 1 lett. a LStr presuppone l’intenzione, ossia la consapevolezza e la volontà di commettere il reato, ritenuto che il reato può essere commesso per dolo eventuale (Roschacher, op. cit., pag. 91 e seg.; Uebersax/Rudin/Hugi Yar/Geiser, op. cit., n. 22.45).
4.4.
Prima di entrare nel merito della censura sollevata dal ricorrente si osserva che in occasione del primo dibattimento, esperito nelle forme contumaciali, il procuratore pubblico aveva chiesto di completare il pto. 1 del decreto d’accusa, relativo al reato d’infrazione alla LStr, con la frase
“ed inoltre per avere, nelle medesime circostanze di tempo e di luogo di cui sopra, omesso di notificare alle competenti autorità di polizia la presenza di cittadini stranieri esercitanti un’attività lucrativa senza autorizzazione, benché di principio soggetta a permesso”
(cfr. verbale del dibattimento 27 agosto 2009, pag. 3). Analoga richiesta è stata formulata dal procuratore pubblico in occasione della ripetizione del dibattimento (cfr. verbale del dibattimento 23 febbraio 2010, pag. 9). Nonostante l’opposizione della Difesa e nonostante il primo giudice abbia rilevato di non poter ammettere l’aggiunta poiché
“tardivamente notificata”
(cfr. sentenza impugnata, consid. 13 pag. 13), lo stesso pretore, determinandosi sul ruolo di garante dell’accusato e sulla sua omissione delle segnalazioni alla polizia, ha di fatto ammesso la richiesta del procuratore pubblico.
Nella misura in cui la Difesa, nel suo gravame, non ha più eccepito la violazione del principio accusatorio, la questione di sapere se il primo giudice, ammettendo il complemento del decreto d’accusa e giudicando RI 1 autore di un reato per omissione, abbia commesso un errore procedurale, non deve essere vagliata oltre.
4.5.
In concreto, gli obblighi di RI 1 in qualità di gerente del affittacamere situato nella _ (cfr. consid. 3), contrariamente a quanto da lui sostenuto, non si esaurivano con la notifica alla polizia degli ospiti della struttura, come imposto dall’art. 53 cpv. 3 LEP. Giusta l’art. 53 cpv. 1 LEP, infatti, il gerente è pure responsabile dell’igiene, dell’ordine, della quiete e della tutela del buon costume nell’esercizio pubblico e nelle immediate vicinanze. L’art. 89 del REP - che esplicita gli obblighi posti dall’art. 53 LEP - precisa che il gerente ha l’obbligo di prendere tutti i provvedimenti atti alla tutela del buon costume e al mantenimento dell’ordine e della quiete (cpv. 1) e che egli è tenuto, inoltre, a dare immediato avviso alla polizia comunale e cantonale di tutti quei fatti che, verificatisi nell’esercizio, presentino un aspetto grave o comunque d’interesse per la polizia quali disordini, risse, contravvenzioni, ecc (cpv. 3).
È indubbio che queste norme pongono il gerente, nei confronti delle autorità, in una posizione di garante ai sensi di quanto sopra (CCRP 13.4.2010 inc. n. 17.2009.50 consid. 2.5, CCRP 8.5.2009 inc. n. 17.2008.46 consid. 8, CCRP 16.9.2008 inc. n. 17.2007.28/29 consid. 6, cfr. anche RDAT N. 51/I -2000).
RI 1, nella sua veste di gerente, era, quindi, tenuto a notificare alle autorità tutte quelle situazioni per lui riconoscibili come in contrasto con la legge che si realizzavano nell’affittacamere. Fra queste, vi era, evidentemente, il fatto che persone straniere - che lui sapeva o doveva presumere essere sprovviste della necessaria autorizzazione - vi esercitavano un’attività lucrativa (sull’illiceità del soggiorno nel caso di chi inizia a svolgere un'attività lucrativa non notificata rispettivamente autorizzata, dopo essere entrato in Svizzera con l'intenzione di esercitare tale attività lucrativa, disponendo solo di un visto turistico, cfr. DTF 131 IV 174 consid. 3.2).
Contrariamente a quanto sembra sostenere il ricorrente non è, dunque, l’omissione della notifica ex art. 53 cpv. 3 LEP che il primo giudice gli ha rimproverato nella sentenza impugnata quanto piuttosto il fatto che egli, nonostante l’obbligo in tal senso impostogli dalla LEP, non abbia provveduto a segnalare alla polizia l’attività lucrativa illegale delle straniere presenti nel suo esercizio pubblico.
Ciò posto, al ricorrente non giova sostenere che proprio grazie alle sue notifiche ex art. 53 cpv. 3 LEP la polizia ha potuto identificare e sanzionare le straniere presenti nel motel.
Così argomentando egli, ancora una volta, dimentica la differenza tra la notifica delle ospiti ex art. 53 cpv. 3 LEP e l’avviso alla polizia ex art. 53 cpv. 1 LEP in combinazione con l’art. 89 cpv. 3 REP.
D’altra parte, il TF ha già avuto modo di stabilire che avere segnalato alla polizia le ospiti con il formulario di notifica d’albergo è ininfluente relativamente alla realizzazione dell’art. 23 cpv. 1 LDDS (e, quindi, del nuovo art. 116 cpv. 1 LStr) nella misura in cui l’annuncio destinato alla regolarizzazione di un’attività lucrativa soggiace a ben altre condizioni (DTF 131 IV 174 consid. 3.2).
La trasmissione alla polizia locale (così come previsto dall’art. 53 cpv. 3 LEP)
di semplici notifiche di soggiorni turistici non fornisce alcuna indicazione utile per l’accertamento di un’attività lavorativa abusiva. Né agevola la pronuncia o l’esecuzione di una decisione da parte di un’autorità nei confronti di uno straniero in posizione irregolare. Al contrario. L’estensore di semplici notifiche di soggiorni turistici, che sa o deve presumere che il soggiorno dello straniero da lui notificato è illegale a motivo dell’attività lavorativa esercitata da quest’ultimo senza permesso, altro non fa che protrarre l’inganno - già messo in atto dallo straniero ai danni dell’amministrazione al momento dell’ottenimento del visto per turisti - nei confronti della polizia locale sulle ragioni e quindi sulla natura stessa del soggiorno (cfr.
mutatis mutandis
DTF 128 IV 136 consid.
9h; CCRP 13.4.2010 inc. n. 17.2009.50 consid. 2.5, CCRP 8.5.2009 inc. n. 17.2008.46 consid. 5, CCRP 16.9.2008 inc. n. 17.2007.28/29 consid.
7).
Da quanto precede discende che, in virtù dell’obbligo legale derivatogli dall’art. 53 cpv. 1 LEP in combinazione con l’art. 89 cpv. 3 RLE, RI 1 avrebbe dovuto segnalare alla polizia la presenza nel motel di donne straniere che esercitavano un’attività lucrativa illegale e non limitarsi a notificarle ex art. 53 cpv. 3 LEP.
Omettendo di agire in tal senso, egli ha di fatto facilitato il loro soggiorno in Svizzera ciò che configura il reato di cui all’art. 116 cpv. 1 lett. a LStr.
Solo di transenna è qui ancora il caso di rilevare che la censura con cui il ricorrente sostiene di non aver avuto modo di dubitare che le straniere che giungevano nell’affittacamere non fossero delle turiste, si rileva d’acchito inammissibile. RI 1, infatti, non si confronta minimamente con l’accertamento del pretore - fondato su diversi elementi e del tutto sostenibile (cfr. sentenza, consid. 4 pag. 6-7) - secondo cui egli sapeva (o doveva presumere) che le ragazze, nelle camere di cui egli era responsabile, esercitavano un’attività lucrativa.
Su questo punto, pertanto, il ricorso deve essere disatteso.
5.
Anche per quanto attiene al reato di disubbidienza a decisioni dell’autorità, RI 1 solleva una censura di diritto, sostenendo che il primo giudice ne ha erroneamente ammesso i presupposti.
5.1.
Il pretore, dopo aver ricordato i presupposti applicativi dell’art. 292 CP e i principi giurisprudenziali sviluppati dal Tribunale federale sulla facoltà del giudice penale di riesaminare la legittimità di una decisione amministrativa, ha rilevato che la risoluzione del Municipio di _ è da considerare
“perfettamente coercitiva”
, ritenuto come al ricorrente, nella fattispecie, fosse data la facoltà di ricorrere,
“facoltà di cui ha regolarmente fatto uso, senza ottenere soddisfazione alcuna”
.
A detta del primo giudice, nemmeno poteva il ricorrente prevalersi della possibilità che il Tribunale federale concedesse alla decisione l’effetto sospensivo, ritenuto come la stessa fosse già stata sconfessata in prima ed in seconda istanza.
Ciò posto e dopo aver osservato come sia pacifico che il ricorrente non ha dato seguito all’ordine 18 giugno 2008 impartito dal municipio sotto comminatoria dell’art. 292 CP, il pretore ha condannato RI 1 anche per ripetuta disobbedienza a decisioni dell’autorità (sentenza, consid. 10 pag. 11).
5.2.
Il ricorrente rileva che, in qualità di dipendente della _, egli non aveva alcuna possibilità di decidere chi poteva entrare o meno nell’esercizio pubblico e, dunque, di ottemperare all’ordine impartitogli dal Municipio di _. D’altra parte - continua - è
“per un manifesto errore”
che la risoluzione municipale gli è stata inviata, ritenuto che la stessa andava piuttosto destinata al gestore e al gerente. In simili circostanze - conclude RI 1 - la decisione si rivela inefficace nei suoi confronti e, di conseguenza, difettando la sua intenzionalità nel commettere il reato, egli deve essere prosciolto dalla sua condanna ex art. 292 CP (ricorso, pag. 11).
5.3.
L'art. 292 CP punisce con la multa chiunque non ottempera ad una decisione a lui intimata da un'autorità competente o da un funzionario competente sotto comminatoria della pena prevista nello stesso articolo.
Dal profilo soggettivo l’insubordinazione deve essere intenzionale; l’autore deve, dunque, aver preso conoscenza dell’ingiunzione ed essere consapevole del carattere vincolante della stessa e delle conseguenze penali della sua disobbedienza. Il dolo eventuale è sufficiente (DTF 119 IV 240 consid. 2a).
In merito alla facoltà del giudice penale di esaminare pregiudizialmente la legalità delle decisioni amministrative che stanno alla base dell'infrazione penale, il Tribunale federale ha avuto modo di osservare che, nel caso in cui un tribunale amministrativo si è già pronunciato, il giudice penale non può più rivedere la legalità della decisione amministrativa. Quando, invece, un ricorso al tribunale amministrativo sarebbe stato possibile ma l'accusato non lo ha interposto, oppure quando il ricorso è stato interposto ma la decisione in merito non è ancora stata emanata, l'esame della legalità da parte del giudice penale è possibile, ma è limitato alla violazione manifesta della legge e all'abuso manifesto del potere d'apprezzamento (DTF 129 IV 246 consid. 2.1).
5.4. RI 1
argomenta a torto sostenendo che la risoluzione municipale gli è stata inviata
“per un manifesto errore”
poiché essa era destinata ad altri. La decisione è, infatti, stata confermata dal Tribunale cantonale amministrativo con sentenza 16 gennaio 2009 e la sua legalità non può più essere vagliata da questa Corte.
Si osserva, poi, che, contrariamente a quanto sostenuto del ricorrente, egli ha agito intenzionalmente. RI 1, infatti, ha preso conoscenza dell’ingiunzione del Municipio di _ e, vista la reiezione della sua richiesta di conferire effetto sospensivo al ricorso da lui interposto (cfr. sentenza del Tribunale federale del 17 ottobre 2008 allegato all’AI 1 che conferma le decisioni delle istanze cantonali), era perfettamente consapevole del fatto che la decisione era per lui vincolante e che, disattendendola, sarebbe incorso nella sanzione penale in essa comminata.
Ritenuto come sia, per il resto, pacifico che il ricorrente, ospitando nell’affittacamere donne dedite alla prostituzione, non ha dato seguito all’ordine 18 giugno 2008 impartitogli dal Municipio di _ sotto comminatoria dell’art. 292 CP, è a ragione che il pretore lo ha condannato per disobbedienza a decisioni dell’autorità.
Anche su questo punto, pertanto, il gravame deve essere respinto.
6.
Il ricorrente contesta, infine, la commisurazione della pena inflittagli dal primo giudice.
6.1.
Commisurando la pena da infliggere a RI 1, il primo giudice ha, dapprima, rilevato che la colpa del ricorrente “
non è lieve, alla luce della sua posizione legata alla sua attività di gerente del locale pubblico in questione
”. In questa sua attività - continua il primo giudice - “
egli ha violato gli obblighi di garantire l’igiene, l’ordine, la quiete e il buon costume dell’esercizio pubblico e delle immediate vicinanze, omettendo di notificare alle autorità il fatto che persone straniere, che lui sapeva o doveva presumere essere sprovviste della necessaria autorizzazione, vi esercitavano un’attività lucrativa (art. 53 cpv. 1 LEP e 89 RLE)
”.
Quale ulteriore elemento a carico, il primo giudice ha, poi, ritenuto il fatto che il ricorrente ha agito per scopo di lucro,
“la sua attività permettendogli di conseguire un salario soddisfacente che non avrebbe di certo mai ottenuto lavorando come barista”
.
Il pretore ha, inoltre, considerato, quali aggravanti, la non certo esemplare collaborazione con l’autorità inquirente, la circostanza per cui il reato è stato ripetuto per un lungo periodo (da marzo 2008 a febbraio 2009) e per cui il ricorrente ha continuato a lavorare presso l’esercizio pubblico in questione anche dopo il primo intervento della polizia nonché il fatto che egli è recidivo avendo alle spalle una condanna ad una pena detentiva di 60 giorni, sospesa condizionalmente per un periodo di due anni, per facilitazione all’entrata illegale.
Ciò rilevato, il giudice della Pretura penale, dopo aver ancora considerato, a favore di RI 1, il suo essere
“un marito e padre di famiglia di tutto rispetto con una moglie che lavora e tre figli agli studi”,
gli
ha inflitto una pena pecuniaria di 70 aliquote giornaliere di fr. 70.-, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di tre anni, e una multa di fr. 2'000.- (sentenza, consid. 12 e 13 pag. 12-13).
6.2.
Sulla commisurazione della pena, il ricorrente rileva innanzitutto che “
il giudice di prime cure ha commesso un errore concettuale, considerando la sua colpa più grave a causa della violazione del suo dovere di garante
”.
La violazione di un dovere di garante - spiega RI 1 - è, infatti, “
una condizione oggettiva del reato affinché sia possibile individuare una commissione per omissione (...). Considerare che l’aver realizzato una delle condizioni oggettive del reato costituisca un elemento della valutazione soggettiva della colpa è errato. La forchetta di pena prevista per il reato in questione già tiene conto della sua realizzazione oggettiva, pertanto gli elementi oggettivi del reato non vanno presi in considerazione nell’ambito della valutazione soggettiva della colpa del reo
” (ricorso, pag. 12 pto. 4.2).
Il ricorrente rileva, poi, che anche la considerazione del primo giudice secondo cui egli ha agito a scopo di lucro è errata.
Al proposito, egli osserva di non aver guadagnato alcunché dall’aver fornito alloggio a persone esercitanti un’attività non autorizzata, ma di aver semplicemente percepito uno stipendio quale responsabile delle camere, stipendio che, peraltro, avrebbe guadagnato anche se nessuna sedicente turista avesse alloggiato presso l’affittacamere. “
Semmai qualcuno ha guadagnato qualche cosa
” - conclude il ricorrente - “
è al limite la società della quale egli era dipendente, non il signor RI 1
”
(ricorso, pag. 12 pto. 4.3).
Il ricorrente, considerata anche la sua richiesta di proscioglimento dai fatti del 18 febbraio 2009, ritiene ingiustificato l’aggravio della pena stabilito dal giudice della Pretura penale e chiede che la stessa non ecceda le 30 aliquote giornaliere di fr. 70.- cadauna (ricorso, pag. 13 pto 4.4 e 5).
6
.3.a.
Giusta l’art. 34 cpv. 1 CP il giudice stabilisce il numero delle aliquote giornaliere commisurandolo alla colpevolezza dell’autore.
Nella commisurazione della pena (art. 47 CP; art. 63 vCP) il giudice di merito fruisce di ampia autonomia. La Corte di cassazione e di revisione penale interviene solo - come il Tribunale federale - ove la sanzione si ponga al di fuori del quadro edittale, si fondi su criteri estranei all’art. 47 CP, disattenda elementi di valutazione prescritti da quest’ultima norma oppure appaia esageratamente severa o esageratamente mite, al punto da denotare eccesso o abuso del potere di apprezzamento (DTF 129 IV 6 consid. 6.1 pag. 21 segg. e riferimenti, 128 IV 73 consid. 3b pag. 77, 127 IV 10 consid. 2 pag. 19).
Quanto ai criteri determinanti per commisurare la pena, la gravità della colpa è, come lo era sotto l’egida del vecchio diritto (art. 63 vCP), fondamentale. L’art. 47 cpv. 1 CP stabilisce esplicitamente, del resto, che il giudice commisura la pena alla colpa dell’autore tenendo conto della vita anteriore e delle condizioni personali di lui, nonché dell’effetto che la pena avrà sulla sua vita.
Secondo l’art. 47 cpv. 2 CP la colpa è determinata secondo il grado di lesione o esposizione a pericolo del bene giuridico offeso, secondo la reprensibilità dell’offesa, i moventi e gli obiettivi perseguiti, nonché tenuto conto delle circostanze interne ed esterne, secondo la possibilità che l’autore aveva di evitare l’esposizione a pericolo o la lesione.
La norma riprende,
mutatis mutandis
, la giurisprudenza relativa all’art. 63 vCP (Stratenwerth/Wohlers, Schweizerisches Strafgesetzbuch, Handkommentar, Berna 2007, ad art. 47 CP n. 4) secondo cui per valutare la gravità della colpa entrano in considerazione svariati fattori: le circostanze che hanno indotto il soggetto ad agire, il movente, l’intensità del proposito (determinazione) o la gravità della negligenza, il risultato ottenuto, l’eventuale assenza di scrupoli, il modo di esecuzione del reato, l’entità del pregiudizio arrecato volontariamente, la durata o la reiterazione dell’illecito, il ruolo avuto in seno a una banda, la recidiva, le difficoltà personali o psicologiche, il comportamento tenuto dopo il reato (collaborazione, pentimento, volontà di emendamento; DTF 129 IV 6 consid. 6.1 pag. 20, 124 IV 44 consid. 2d pag. 47 con rinvio a DTF 117 IV 112 consid. 1 pag. 113 e 116 IV 288 consid. 2 pag. 289).
Vanno inoltre considerati - sempre secondo la citata giurisprudenza - la situazione familiare e professionale dell’autore, l’educazione da lui ricevuta e la formazione seguita, l’integrazione sociale, gli eventuali precedenti penali e la reputazione in genere (DTF 124 IV 44 consid. 2d pag. 47 con rinvio a DTF 117 IV 112 consid. 1 pag. 113 e 116 IV 288 consid. 2a pag. 289).
b.
Secondo il principio del divieto della doppia presa in considerazione (
Verbot der Doppelverwertung
), le circostanze che portano all’aumento o alla diminuzione del quadro della pena, non possono essere considerate anche come attenuanti od aggravanti nell’ambito del quadro modificato della pena. In caso contrario, infatti, il ricorrente si troverebbe gravato o beneficiato due volte dalla stessa circostanza, ciò che porterebbe a un risultato insostenibile (STF del 6 giugno 2007 6S.44/2007 consid.
4.3.2; DTF 120 IV 69 consid. 2b; 118 IV 342 consid. 2b; Wiprächtiger, Basler Kommentar, Strafgesetzbuch I, 2a edizione, Basilea 2007 ad art. 47 CP n. 77; Trechsel, Schweizerisches Strafgesetzbuch, San Gallo 2008, ad art. 47 CP n. 27).
Al giudice che, ad esempio nell’ambito di un furto, ammette l’associazione dell’autore ad una banda, non è permesso, commisurando la pena, ponderare nuovamente tale circostanza a sfavore dell’imputato. Con l’aggravio del quadro della pena, infatti, l’associazione dell’autore ad una banda è già stata presa in considerazione (DTF 72 IV 114).
Lo stesso principio vale per la doppia presa in considerazione dei presupposti del reato. Al proposito, il Tribunale federale, con riferimento al diritto e alla dottrina tedesca, ha osservato che le circostanze che costituiscono degli elementi costitutivi del reato, non possono essere considerati anche per la commisurazione della pena nell’ambito del quadro modificato della stessa ritenuto che essi sono già stati utilizzati per la definizione del reato e, di conseguenza, per la definizione del nuovo quadro della pena (cfr. STF del 6 giugno 2007 6S.44/2007 consid. 4.3.2, STF non pubblicata 6S.84/1998 consid. 8a).
6.4.
Ora, come giustamente osservato dal ricorrente, il fatto che RI 1 avesse una posizione di garante costituisce un presupposto oggettivo del reato e non può, dunque, essere ritenuto quale aggravante della sua colpa. Ne discende che il pretore,
rilevando che la colpa del ricorrente deve essere considerata più grave alla luce della sua posizione di gerente del locale pubblico in questione, ha violato l’art. 47 CP.
Neppure si può seguire il primo giudice quando ritiene, quale ulteriore aggravante, il fatto che il ricorrente ha agito per scopo di lucro. In realtà, quanto percepito dal ricorrente rappresenta la sua retribuzione quale dipendente della _(fr. 5'000.- lordi mensili, cfr. verbale d’interrogatorio RI 1 23 ottobre 2008, pag. 1; verbale del dibattimento 23 febbraio 2010, pag. 5) e non il provento di un’attività illegale, quale sarebbe stata, ad esempio, una ricompensa da parte delle prostitute o di terzi per l’omissione della loro notifica all’autorità.
Ciò posto, tenuto conto inoltre del proscioglimento dell’imputato per i fatti del 18 febbraio 2009, questa Corte ritiene adeguata sia alla gravità oggettiva del reato che alle circostanze personali dell’autore la pena pecuniaria di 40 aliquote giornaliere.
Non essendovi elementi che impongano la formulazione di una prognosi negativa, la pena è sospesa condizionalmente per il periodo di prova di quattro anni.
Su questo punto, pertanto, il ricorso merita accoglimento.
7.
Il ricorrente pretende infine che - oltre al numero delle aliquote giornaliere - sia ridotto anche l’ammontare di ogni singola aliquota. Sennonché egli non motiva tale richiesta, ossia non spiega per quali ragioni si giustificherebbe di scostarsi dall’importo di fr. 70.- stabilito al riguardo dal primo giudice.
Ne discende perciò l’inammissibilità del rimedio su questo punto.
8.
Gli oneri del ricorso sono posti per 1/3 a carico del ricorrente e per il resto a carico dello Stato (art. 15 cpv. 1 in combinazione con l’art. 9 cpv. 1 CPP) che rifonderà a RI 1 fr. 400.- per ripetibili ridotte (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,010 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
cebf7b7d-a52e-5b53-a001-07fa3efca30d | in fatto ed in diritto
che a seguito della denuncia/querela datata 10.09.2004 (ricevuta dal Ministero pubblico soltanto il 28.09.2004), sporta da IS 1 contro ignoti, successivamente identificato nella persona di PI 2,
in relazione allo smarrimento di due carte di credito, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale (inc. MP _) sfociato nel decreto di accusa 26.08.2005 mediante il quale l’allora procuratore pubblico Giuseppe Muschietti ha posto quest’ultimo in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale siccome ritenuto colpevole di furto di poca entità ["
(...) per avere, a _, nel corso del mese di agosto 2004, sottratto, ai danni di IS 1, la tessera bancaria _ intestata a quest’ultima, al fine di procacciarsi un indebito profitto, e meglio di eseguire dei prelevamenti di denaro indebiti sul conto bancario a lei intestato, mediante la citata tessera
"] e ripetuto abuso di un impianto per l’elaborazione di dati ["
(...) per avere, a _, nel periodo _, prelevato indebitamente, in 8 occasioni, presso apparecchi Bancomat, complessivi Frs. 29'100.--, a debito del conto (...) intestato a IS 1, utilizzando la tessera bancaria a lei intestata (...)
"] ed ha proposto la sua condanna alla pena di tre mesi di detenzione, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di tre anni, alla pena accessoria dell’espulsione dal territorio svizzero per un periodo di prova di tre anni, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di cinque anni (art. 55 vCP) e al pagamento della tassa di giustizia e delle spese, e meglio come descritto nel DA _;
che il suddetto decreto è regolarmente passato in giudicato, non essendo stato impugnato;
che con la presente istanza – trasmessa, per competenza, dal Ministero pubblico a questa Corte – IS 1 chiede di ottenere la trasmissione, in copia, degli atti istruttori e del DA del summenzionato procedimento penale;
che a sostegno della sua richiesta precisa in particolare che l’Istituto delle assicurazioni sociali vorrebbe sapere quale è il destino dei CHF 30'000.-- ricevuti dal suo ex marito dopo il divorzio avvenuto nel 2000, che le sarebbero poi stati sottratti dal suo conto e che non sarebbero mai più rientrati in suo possesso (doc. CRP 1.a);
che, come esposto in entrata, il procuratore pubblico non ha formulato osservazioni in merito alla presente richiesta;
che questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare PI 2, accusato ai sensi del previgente CPP TI nel procedimento penale di cui all’incarto MP _
nel frattempo archiviato, essendo la qui istante stata parte (in qualità di denunciante/querelante/parte lesa ai sensi del previgente CPP TI) al medesimo;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel presente caso, pur essendo stata l’istante parte (in qualità di denunciante/querelante/parte lesa ai sensi del previgente CPP TI) nel procedimento nel frattempo terminato, essa deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo;
che,
come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10);
che inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994, p. 19);
che lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG;
che nella fattispecie in esame – visti i motivi addotti nella presente richiesta – appare pacifico l’interesse giuridico legittimo di IS 1 giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere la trasmissione, in copia, degli atti istruttori dell’incarto MP _
(eccetto dell’estratto del casellario giudiziale svizzero di PI 2, dello scritto 23.12.2005 di PI 2 e dello scritto 27.12.2005 del PP, e ciò nel rispetto del diritto di essere sentito e della sfera privata/personale)
e del relativo DA _ (passato in giudicato), poiché il procedimento penale nel frattempo archiviato l’ha interessata personalmente in veste di parte;
che a ciò aggiungasi che essa necessiterebbe della summenzionata documentazione da produrre dinanzi all’Istituto delle assicurazioni sociali allo scopo di dimostrare di non essere più in possesso dell’importo in questione;
che di conseguenza la documentazione richiesta (eccetto
l’estratto del casellario giudiziale svizzero di
PI 2, lo scritto
23.12.2005 di quest’ultimo e lo scritto 27.12.2005 del PP)
viene trasmessa, in copia, alla qui istante unitamente alla presente decisione;
che si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo la qui istante già stata parte al procedimento penale nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
cefec958-f2a7-575b-898d-b96d5ddb8600 | ritenuto che il procuratore pubblico, nel termine fissato, non ha presentato osservazioni;
letti ed esaminati gli atti;
considerato
in fatto
a.
RE 1 è stato condannato in prima istanza l’8.3.2012 (inc. _); con sentenza 24.10.2012 in appello, la condanna è stata sostanzialmente confermata, e la pena commisurata a tre anni e tre mesi di pena detentiva (_).
La metà pena è stata raggiunta il 31.3.2013, i 7/12 il 5.6.2013. I due terzi scadono il 15.10.2013 e la fine pena è prevista per il 15.11.2014.
b.
Con decisione 3.4.2013 la Sezione della popolazione ha intimato l’allontanamento del reclamante a fine pena. In data 23.4.2013 l’Ufficio federale della migrazione ha emesso nei confronti del reclamante un divieto d’entrata valido da subito e a tempo indeterminato.
c.
Con istanza 24.5/17.6.2013 il reclamante ha chiesto il trasferimento in sezione aperta, al fine di potersi reinserire gradualmente nella società.
d.
L’Ufficio di patronato (con preavviso del 13/17.6.2013) e la direzione delle strutture carcerarie (con preavviso 21/25.6.2013) hanno dato parere favorevole. Il piano di esecuzione della pena (PES) prevede che un trasferimento in sezione aperta ai 7/12 di espiazione della pena.
e.
Con decisione del 26.7.2013 (inc. GPC _) il magistrato ha respinto la richiesta di trasferimento, in ragione della sussistenza di un pericolo di fuga in capo al qui reclamante. Considerato per un verso che la fine pena è prevista per il 15.11.2014, e ritenuto per altro verso che il reclamante non può risiedere legalmente sul nostro territorio, sussisterebbe il rischio che RE 1 ripari in Italia al fine di sottrarsi alla pena.
f.
Nel reclamo RE 1 ha espresso la sua intenzione, una volta espiata la pena, di stabilirsi in zona _ per aprire una ditta quale imbianchino e fondare una famiglia con l’attuale compagna. Richiamato gli scopi del regime aperto, il reclamante chiede il trasferimento per poter mettere in pratica il proprio progetto di lavoro, di ristabilire i contatti con la famiglia e di procedere con i preparativi per il matrimonio. Ciò anche in ragione del fatto che RE 1 si è comportato bene durante l’espiazione della pena. Invoca pure il diritto al ricongiungimento familiare, senza specificare ulteriormente quest’argomento.
g.
Con scritto 8/9.8.2013 il giudice dei provvedimenti coercitivi ha comunicato di non avere particolari osservazioni da formulare e di rinviare alla decisione impugnata. | in diritto
1.
1.1.
Il Codice di diritto processuale penale svizzero (Codice di procedura penale, CPP) lascia ai Cantoni la facoltà di designare le autorità competenti per l'esecuzione delle pene e delle misure e di stabilire la relativa procedura.
Il Canton Ticino ha adottato il 20.4.2010 la Legge sull'esecuzione delle pene e delle misure per gli adulti (LEPM), entrata in vigore l'1.1.2011, che all'art. 10 cpv. 1 lit. h conferisce al giudice dell'applicazione della pena - funzione questa attribuita in Ticino dall'1.1.2011 al nuovo giudice dei provvedimenti coercitivi giusta l'art. 73 LOG - la competenza, fra l'altro, a decidere il trasferimento del condannato in sezione aperta e la concessione del lavoro e dell'alloggio esterni (art. 77a CP).
Contro tali decisioni, conformemente all'art. 12 cpv. 1 lit. b LEPM, è data facoltà al condannato e al Ministero pubblico di interporre reclamo ai sensi degli art. 393 e seguenti CPP alla Corte dei reclami penali.
1.2.
Con il reclamo ex art. 393 ss. CPP si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l'eccesso e l'abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l'accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e/o l'inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato entro 10 giorni per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all'art. 390 CPP per la forma scritta ed all'art. 385 CPP per la motivazione.
La persona o l'autorità che lo interpone deve indicare, in particolare, i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
1.3.
Il gravame, inoltrato il 5/6.8.2013, contro la decisione 26.7.2013 del giudice dei provvedimenti coercitivi è tempestivo.
Le esigenze di forma e motivazione del reclamo sono rispettate.
RE 1, quale condannato e destinatario della decisione impugnata che lo tocca direttamente, personalmente e attualmente nei suoi diritti, è pacificamente legittimato a reclamare giusta l'art. 382 cpv. 1 CPP avendo un interesse giuridicamente protetto all'annullamento o alla modifica del giudizio.
Il reclamo è quindi, nelle predette circostanze, ricevibile in ordine.
2.
2.1.
Giusta l'art. 75a cpv. 2 CP "
Per regime aperto si intende un'espiazione della pena tale da essere meno restrittiva della libertà, in particolare il trasferimento in un penitenziario aperto, la concessione di congedi, l'autorizzazione del lavoro o alloggio esterni e la liberazione condizionale
"
.
L'art. 76 cpv. 2 CP stabilisce inoltre che
"
il detenuto è collocato in un penitenziario chiuso o in un reparto chiuso di un penitenziario aperto se vi è il pericolo che si dia alla fuga o vi è da attendersi che commetta nuovi reati
"
.
Interpretata
e contrario
quest'ultima norma prevede quali criteri determinanti per il collocamento in un penitenziario aperto o in un reparto aperto di un penitenziario chiuso, cumulativamente, che non sussista il pericolo che il detenuto si dia alla fuga e che nemmeno vi sia il rischio che egli commetta nuovi reati (cfr. Messaggio concernente la modifica del Codice penale svizzero del 21.09.1998, pubblicato in FF 1999 p. 1669 ss., p. 1793; BSK Strafrecht I – B.F. BRÄGGER, 2a. ed., art. 76 CP n. 8).
A livello cantonale - oltre l'applicazione del Concordato sull'esecuzione delle pene privative di libertà e delle misure concernenti gli adulti e i giovani adulti nei cantoni latini del 10.4.2006 (Concordato latino sulla detenzione penale degli adulti) - l'art. 19 del Regolamento sull'esecuzione delle pene e delle misure per gli adulti del 6.3.2007 (REPM), in vigore dal 9.3.2007, al cpv. 1 dispone che l'esecuzione della pena in uno stabilimento chiuso (ossia in uno stabilimento in cui le misure di sicurezza sono elevate) è la forma di esecuzione ordinaria quando al detenuto non possono essere concesse altre forme di esecuzione in grado di evitare in particolare la fuga o pericoli a terzi.
Il cpv. 3 del medesimo regolamento prevede inoltre la possibilità di espiare la pena privativa della libertà, in tutto o in parte, in uno stabilimento aperto (ossia in una struttura che dispone di misure di sicurezza ridotte per quanto concerne l'organizzazione, il personale e la costruzione) se tale collocazione non provoca pericoli alla comunità, evita il ripetersi di azioni delittuose e non vi è rischio di fuga.
L'art. 3 del Regolamento delle strutture carcerarie del Cantone Ticino del 15.12.2010, in vigore dall'1.1.2011, precisa che sono considerate strutture aperte lo Stampino e il Naravazz (cpv. 5). Esse sono in particolare destinate all'incarcerazione di: a) persone in esecuzione di pene eseguite in regime di lavoro esterno; b) persone in esecuzione di pene eseguite in forma di semiprigionia; c) persone in esecuzione di pene di breve durata eseguite per giorni; d) persone in esecuzione di pena che non presentano un rischio di fuga e per le quali non vi è da attendersi che commettano nuovi reati (cpv. 6).
Inoltre l'art. 43 cpv. 1 di detto regolamento stabilisce che l'esecuzione della pena avviene di principio secondo una progressione, il cui obiettivo, condizioni e fasi sono contemplati dal PES (Piano d'esecuzione della sanzione penale). I passaggi tra le fasi sono decisi dall'autorità competente, che tiene conto segnatamente della durata della pena, del comportamento in esecuzione di pena, dell'impegno nel lavoro o nella formazione, dei rischi di fuga, della capacità di rispettare le norme di condotta imposte, dei rischi di commissione di reati e di sicurezza.
2.2.
Con quale intensità debba sussistere il pericolo di fuga o il rischio che il detenuto commetta nuovi reati richiesto dall'art. 76 cpv. 2 CP, non può essere espresso in generale e in astratto ma dipende dalle circostanze. Tali due criteri non sono cumulativi (cfr. Messaggio concernente la modifica del Codice penale svizzero del 21.9.1998, FF 1999 p. 1793).
Conformemente alla giurisprudenza federale il rischio di fuga deve essere analizzato in funzione di un insieme di circostanze quali la gravità dei reati, il carattere dell'interessato, la sua morale, le sue risorse, i suoi legami con lo Stato che lo persegue come pure i suoi contatti con l'estero, che fanno apparire un tale rischio non solo possibile ma probabile (decisione TF 1B_423/2010 del 17.1.2011; decisione TF 1B_195/2010 del 13.7.2010; DTF 125 I 60).
In ambito di concessione del primo congedo, l'Alta Corte ha avuto modo di precisare che il pericolo di fuga non può essere ammesso, allorquando un rischio simile è dato solo in modo astratto. Devono sussistere dei motivi concreti, che facciano apparire la fuga come probabile. Al proposito va preso in considerazione l'insieme delle condizioni del detenuto ("
die gesamten Verhältnisse des Eingewiesenen
"), quali ad esempio i suoi legami familiari ("
familiäre Bindungen
"), le sue condizioni di vita ("
Lebensumstände
"), la sua situazione professionale e finanziaria ("
berufliche und finanzielle Situation
"), i suoi contatti all'estero ("
Kontakte zum Ausland
") [sentenza TF 6B_577/2011 del 12.1.2012, consid. 2.2.].
La dottrina ha inoltre precisato che un alto pericolo di fuga è dato in particolare allorquando l'interessato non dispone di alcuna rete di relazioni
("Beziehungsnetz"
) con il nostro paese, ovverossia quando egli non ha alcun legame con la Svizzera, ciò che è da presupporre per i cosiddetti turisti del crimine
("Kriminaltouristen"
) e per i condannati sprovvisti di un valido permesso di soggiorno o di dimora (BSK Strafrecht I - B.F. BRÄGGER, op. cit., art. 76 CP n. 4).
3.
3.1.
È pacifico che RE 1 ha raggiunto i 7/12 dell'esecuzione della pena. Inoltre il suo comportamento in carcere è stato corretto.
Nondimeno questa Corte intravvede, per le circostanze che verranno esposte nei considerandi che seguono, un concreto pericolo di fuga che impedisce la concessione del postulato trasferimento in sezione aperta, così come correttamente accertato dal giudice dei provvedimenti coercitivi nella decisione qui impugnata, che dunque merita tutela.
3.2.
Il reclamante non ha possibilità alcuna di stabilirsi legalmente in Svizzera, dove peraltro egli mai ha risieduto regolarmente.
Il 3.4.2013 la Sezione della popolazione di Bellinzona ha emanato nei suoi confronti un ordine di allontanamento a fine pena.
L’Ufficio federale della migrazione ha emanato il 23.4.2013 un divieto d'entrata valido da subito e a tempo indeterminato.
3.3.
Il reclamante, nemmeno dal profilo familiare e affettivo, può vantare dei legami significativi con il nostro territorio, tali da facilitare un suo reinserimento.
La compagna con cui ha una relazione e con cui vuole maritarsi (non appena questa avrà ottenuto il divorzio), pur risiedendo a _, è intenzionata a trasferirsi in _ (suo paese di origine) o comunque nel _.
La relazione con il fratello, residente in Svizzera, si è interrotta già prima dell’arresto del reclamante.
_, paese in cui egli è vissuto sino al suo arresto da parte degli inquirenti elvetici e dove ha dichiarato di voler far rientro (sia per abitarvi, sia per lavorarvi), rimane indiscutibilmente il centro dei suoi interessi personali, familiari e professionali.
_, come possibile destinazione alternativa, appare ancor più problematica, in un'ottica di pericolo di fuga.
3.4.
A ciò si aggiunga, in relazione alle condizioni personali del reclamante, la gravità dei reati per cui è stato condannato nel nostro paese, nonché i precedenti in _ per rapina e furto che gli hanno comportato l’espiazione di 8 anni di carcere.
3.5.
In tali circostanze, in generale risulta palesemente non essere data al reclamante la possibilità di una progressiva reintegrazione nel nostro paese dal profilo professionale, sociale o familiare.
In particolare, appare difficile che la concessione della sezione aperta possa facilitare la messa in pratica del progetto di lavoro del reclamante, il ristabilire i contatti con la famiglia ed i preparativi per il matrimonio.
La mancanza di un titolo giuridico per risiedere nel nostro paese rende difficile un reinserimento per il tramite della sezione aperta: sarà piuttosto la liberazione condizionale ai 2/3 della pena a facilitare quanto auspicato dal reclamante.
Per concludere, avendo il proprio centro degli interessi personali, familiari e professionali in _ e non avendo alcun legame e/o prospettiva di integrarsi in Svizzera, viste le sue condizioni di vita (precedenti penali), il rischio che egli possa sottrarsi al residuo di pena riparando in patria, qualora fosse trasferito in sezione aperta, risulta concreto.
4.
Il reclamo è respinto. La tassa di giustizia e le spese, contenute al minimo, sono poste a carico del qui reclamante, soccombente. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
cf6614be-2a71-5072-8ad3-a45cc4fcf361 | in fatto ed in diritto
che il 23.01.2012 il procuratore pubblico Amos Pagnamenta ha posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale IS 1 (in carcerazione preventiva dal 14.12 al 16.12.2011) siccome ritenuto colpevole di infrazione alla LStr (incitazione all’attività lucrativa senza autorizzazione) giusta l’art. 116 cpv. 1 lit. b LStr ed ha proposto la sua condanna alla pena pecuniaria di venti aliquote giornaliere da CHF 30.-- cadauna, per complessivi CHF 600.-- (da dedursi il carcere preventivo sofferto), sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, alla multa di CHF 200.-- e al pagamento della tassa di giustizia e delle spese giudiziarie, e meglio come descritto nel DA _ (inc. MP _);
che il predetto decreto è passato in giudicato il 27.02.2012;
che
con la presente istanza –
trasmessa dal Ministero pubblico, per competenza, a questa Corte
– IS 1 chiede, per il tramite del suo patrocinatore avv. PR 1, la trasmissione, in copia, di tutti gli atti del surriferito incarto penale (scritto 16/18.07.2012 dell’avv. PR 1, doc. 1.a);
che a suffragio della sua richiesta precisa di necessitare di questi atti "
(...) per esprimersi compiutamente in una procedura amministrativa aperta nei suoi confronti dall’Ufficio federale della migrazione entro il 31 luglio 2012
" (istanza 12/18.07.2012 dell’avv. _, p. 1, doc. 1.b);
che, come esposto in entrata, il procuratore pubblico non ha presentato osservazioni in merito alla presente istanza;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel presente caso, pur essendo stato l’istante parte (quale imputato) nel procedimento nel frattempo terminato, egli deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo
;
che,
come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10);
che inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994 p. 19);
che lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG;
che nella fattispecie in esame – visti i motivi addotti nella presente istanza – è pacifico l’interesse giuridico legittimo dell’istante (e di riflesso del suo patrocinatore) ex art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere copia
di tutti gli atti dell’incarto penale DA _ (inc. MP _) nel frattempo archiviato
, poiché il procedimento l’ha interessat
o
personalmente in veste di parte;
che a ciò aggiungasi che egli necessita della documentazione richiesta nell’ambito di un procedimento amministrativo in materia di migrazione pendente a suo carico;
che di conseguenza, gli atti dell’incarto penale
DA _ (inc. MP _)
vengono trasmessi, in copia, al patrocinatore del qui istante unitamente alla presente decisione;
che non si prelevano tassa di giustizia e spese, essendo stato il qui istante parte al procedimento penale
DA _ (inc. MP _) nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
cf6ffffd-b66d-5b8c-ab33-cc886a0d3a86 | in fatto ed in diritto
che a seguito delle segnalazioni attuate nel corso del mese di giugno 2010 da tre compagnie di assicurazione, tra cui la PI 3, contro PI 2 e contro PI 4, è stato aperto un procedimento penale a loro carico per l’ipotesi di reato di truffa sfociato, da un lato, nel decreto di accusa 24.01.2011 mediante il quale il procuratore pubblico Andrea Maria Balerna ha posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale PI 2 siccome ritenuta colpevole di truffa consumata e tentata, tra l’altro, per quanto interessa la fattispecie qui in esame, per avere
"
(...) con la complicità di PI 4, redatto, in data 14 febbraio 2010, all’attenzione della compagnia assicurativa PI 3, presso la quale era assicurata, una dichiarazione di sinistro, indicando, sapendo di dire il falso, che, a seguito dell’incendio della sua vettura _ targata _, avvenuto in data 24 gennaio 2010 a _, il computer portatile di sua proprietà, (...) del valore di circa fr. 1'500 (millecinquecento), era bruciato, non riuscendo nell’intento, non avendo l’assicurazione a tutt’oggi risarcito il sinistro
",
ed ha proposto la sua condanna ad una pena pecuniaria, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, al pagamento di una multa e della tassa di giustizia e delle spese giudiziarie, e meglio come descritto nel DA _, e dall’altro lato, nel decreto di accusa DA _ di medesima data emanato a carico di PI 4 (inc. MP _);
che i suddetti decreti di accusa sono passati in giudicato e l’incarto MP _ è stato quindi archiviato;
che con scritto 2/3.04.2012 – a valere quale istanza ex art. 62 cpv. 4 LOG – la IS 1 postula la trasmissione dell’incarto penale MP _ nel frattempo archiviato, essendo stato richiamato con il consenso del giudice e delle parti ai fini dell’istruttoria della causa civile di cui all’incarto _ promossa il 18.08.2011 da PI 2, _ (patr. da: avv. _, _) contro la _, _ (patr. da: avv. _, _), in cui ha postulato la condanna della convenuta al pagamento della somma di CHF 25'155.90 (oltre interessi) in relazione ad un sinistro occorsole il 23/24.01.2010 (corrispondente alla fattispecie del considerando 1.3. del DA _) ai suoi danni, importo che la Compagnia d’assicurazione ha rifiutato di risarcirle avendo annullato la sua polizza d’assicurazione retroattivamente in applicazione dell’art. 40 LCA a seguito della sua condanna di cui al DA _ (istanza 2/3.04.2012 e scritto 29.03.2012 dell’avv. _, doc. 1.a ivi annesso);
che a suffragio della sua richiesta la Pretura istante ha prodotto uno scritto datato 29.03.2012 dell’avv. _, patrocinatore della PI 3 nel procedimento civile, in cui sono state riassunte le motivazioni che stanno alla base della presente istanza, ove emerge in particolare che il richiamo dell’incarto penale sarebbe necessario per comprovare che la parte attrice è stata giudicata in sede penale riguardo alla medesima fattispecie, che
"
(...) era solita ad ingannare gli istituti assicurativi
" e che avrebbe agito in mala fede (
scritto 29.03.2012, p. 2, dell’avv. _ annesso all’istanza 2/3.04.2012, doc. 1.a);
che, come esposto in entrata, PI 4 – interpellato da questa Corte in ossequio al diritto di essere sentito – non ha presentato osservazioni in merito alla presente istanza;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha nella sostanza ripreso il testo del previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che come ricordato dalla prassi di questa Corte, in caso di richiesta da parte di autorità giudiziarie tendente ad ottenere documenti di un incarto penale, la giurisprudenza ammette la richiesta se: (i) si riferisce a procedimenti ancora pendenti presso l'autorità richiedente; (ii) è compatibile con il codice di rito applicabile a quel procedimento; (iii) è formulata dal titolare dell’autorità giudiziaria richiedente; inoltre deve essere dato un legame di pertinenza dell’incarto richiamato con quello richiamante;
che nella fattispecie in esame – visti i motivi addotti nella presente richiesta – è certamente data una connessione tra la causa civile di cui all’incarto _ pendente presso la Pretura istante e il procedimento penale dell’incarto MP _
sfociato, tra l’altro, nel decreto di non luogo a procedere 24.01.2011 (DA _) emanato a carico di PI 2, nel frattempo passato in giudicato, potendo essere indubbiamente utile ai fini dell’istruttoria e del giudizio civile riguardo in particolare all’incendio dell’autovettura di quest’ultima di cui al considerando 1.3 del DA _ (reato perpetrato con la complicità di PI 4), poiché alla base di entrambi i procedimenti vi è la medesima fattispecie con le stesse parti;
che in casu è quindi adempiuto un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG;
che di conseguenza – dopo la crescita in giudicato della presente decisione – l’incarto penale MP _ (una mappetta rosa, in originale) verrà trasmesso da questa Corte alla Pretura istante, con l’obbligo di restituirlo direttamente al Ministero, al più tardi, a procedimento civile concluso;
che la tassa di giustizia, contenuta al minimo, e le spese sono poste a carico della Pretura istante, che a sua volta le addosserà alle parti in base alle norme del CPC. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
d01690f1-d506-52bc-9668-7e067e3db3e0 | in fatto ed in diritto
che nel corso del mese di ottobre 2005 è stato aperto un procedimento penale, tra gli altri, a carico di IS 1
(inc. MP _) sfociato nel decreto di accusa 15.03.2006 mediante il quale l’allora sostituto procuratore pubblico Chiara Borelli lo ha posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale siccome ritenuto colpevole di denuncia mendace, infrazione alla LStup e contravvenzione alla LStup ed ha proposto la sua condanna alla pena di quattro giorni di detenzione sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni parzialmente aggiuntiva alla pena di quindici giorni di detenzione decretata dal Ministero pubblico del Canton Ticino l’11.07.2005, al pagamento della tassa di giustizia e delle spese, non revocando il beneficio della sospensione condizionale concesso alla pena di quindici giorni di detenzione decretata nei suoi confronti l’11.07.2005, ma prolungandone di un anno il periodo di prova, e meglio come descritto nel DA _;
che il suddetto decreto è passato in giudicato il 18.04.2006;
che con la presente istanza – trasmessa, per competenza, dal Ministero pubblico a questa Corte – IS 1 chiede la trasmissione, in copia, del surriferito decreto di accusa, indicando i suoi dati (doc. 1.a);
che, come esposto in entrata, il procuratore pubblico ha preavvisato favorevolmente la richiesta;
che questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare le altre parti coinvolte nel surriferito procedimento penale nel frattempo archiviato, essendo il qui istante stato parte (in qualità di accusato ai sensi del CPP TI) al medesimo;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel presente caso, pur essendo stato l’istante parte (in qualità di accusato ai sensi del CPP TI) nel procedimento nel frattempo terminato, egli deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo;
che,
come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10);
che inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994 p. 19);
che lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG;
che nella fattispecie in esame – nonostante abbia omesso di precisare i motivi che stanno alla base della sua richiesta – appare pacifico l’interesse giuridico legittimo di IS 1 giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere la trasmissione, in copia, del DA _, poiché il procedimento penale nel frattempo archiviato l’ha interessato personalmente in veste di parte;
che a ciò aggiungasi che il procuratore pubblico non si è opposto alla richiesta;
che di conseguenza il decreto di accusa richiesto viene trasmessa, in copia, al qui istante unitamente alla presente decisione;
che si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo IS 1 già stato parte al procedimento penale nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
d04b7841-8f9d-5197-9fea-fc807628bdc1 | in fatto ed in diritto
1.
In data 9.05.2011 il procuratore pubblico Margherita Lanzillo, visti gli art. 352 ss. CPP e ritenuto che nell’ambito del procedimento penale di cui all’inc. MP _ i fatti sono stati sufficientemente chiariti, ha posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale PI 1, cittadino _, siccome ritenuto colpevole di attività lucrativa senza autorizzazione giusta gli art. 115 cpv. 1 lit. c LStr e art. 23 LDDS "
per avere, a _, dall’autunno 2005 all’autunno 2010, e meglio per 10 giorni all’anno corrispondenti al periodo della vendemmia, esercitato un’attività lucrativa come dipendente, presso i vigneti del viticoltore _, senza essere in possesso del necessario permesso di Polizia degli stranieri
", proponendo la sua condanna alla pena pecuniaria di dieci aliquote giornaliere da CHF 30.-- cadauna (per complessivi CHF 300.--), sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, alla multa di CHF 50.-- e al pagamento della tassa di giustizia e delle spese (DA _).
Il medesimo giorno il procuratore pubblico,
visti gli art. 352 ss. CPP e ritenuto che nell’ambito del procedimento penale di cui all’inc. MP _, i fatti sono stati sufficientemente chiariti, ha inoltre posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale _, siccome ritenuto autore colpevole di impiego di stranieri sprovvisti di permesso giusta gli art. 117 cpv. 1 LStr e art. 23 LDDS "
per avere, a _, dall’autunno 2005 all’autunno 2010, nella sua qualità di viticoltore nonché di proprietario di alcuni vigneti, impiegato il richiedente l’asilo PI 1 per il periodo della vendemmia e meglio per circa 10 giorni all’anno, sapendo che lo stesso non era autorizzato a lavorare in Svizzera, poiché privo del necessario permesso di Polizia degli stranieri
",
proponendo la sua condanna alla pena pecuniaria di tre aliquote giornaliere da CHF 70.-- cadauna (per complessivi CHF 210.--), sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, alla multa di CHF 100.-- e al pagamento della tassa di giustizia e delle spese (DA _).
Entrambi i decreti sono cresciuti in giudicato il 10.06.2011.
2.
Con la presente istanza l’IS 1 chiede anzitutto di poter accedere agli atti del procedimento penale riguardante PI 1, dovendo verificare se il medesimo, quale richiedente l’asilo posto al beneficio di prestazioni assistenziali unitamente a sua moglie, abbia percepito indebitamente delle prestazioni conseguendo degli introiti non dichiarati. Postula inoltre di poter accedere agli atti del procedimento penale inerente al suo presunto datore di lavoro (_) per compiere una doppia verifica sui redditi o sostanza dichiarati da entrambi.
Con osservazioni 22/23.09.2011 PI 1 afferma di aver lavorato presso _ per la vendemmia, ma di non aver percepito denaro da lui e di averlo aiutato essendo un suo amico, senza opporsi alla richiesta.
Con scritto 4/5.10.2011 _ non si oppone alla richiesta, fornendo le sue spiegazioni riguardo a quanto accaduto.
3.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
4.
Nel caso in esame – ritenuti i motivi addotti dall’autorità istante nella sua richiesta e la finalità per cui è domandata la compulsazione degli atti, considerati inoltre l’art. 26 Laps (restituzione di prestazioni indebitamente percepite), l’art. 36 Las (prestazioni ottenute indebitamente), l’art. 67 Las (obbligo di informazione) e gli art. 1 e 2 lit. a del relativo regolamento (competenza) – si deve, di principio, ammettere l’esistenza di un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG prevalente sui diritti personali di PI 1 e di _, che peraltro non si sono opposti all’istanza.
In particolare il contenuto dei rapporti di polizia allestiti nell’ambito di entrambi i procedimenti penali potrebbero, in effetti, essere potenzialmente utili all’autorità istante ai fini delle sue incombenze.
Di conseguenza, un funzionario dell’IS 1, tenuto al segreto d’ufficio/professionale, è autorizzato da questa Corte ad esaminare gli incarti MP _ e MP _ presso il Ministero pubblico, concordando i tempi di accesso con il procuratore pubblico Margherita Lanzillo, compatibilmente con i suoi impegni.
Il funzionario è, se necessario, autorizzato a fotocopiare i documenti utili ai fini delle sue incombenze.
5.
L’istanza è accolta ai sensi del surriferito considerando. Viste la natura dell’autorità istante, la finalità della richiesta, la Laps e la Las, si prescinde dal prelievo di tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
d0d7326a-66ef-5b83-910c-f05cf1a532b3 | in fatto ed in diritto
1.
A seguito della segnalazione _ della IS 1, per il tramite del suo presidente _, è stato aperto un procedimento penale a carico di PI 2 per l’ipotesi di reato di violazione del segreto d’ufficio ex art. 320 cifra 1 CP (inc. MP _) sfociato nel decreto di abbandono _ (ABB _) emanato dal procuratore pubblico Andrea Pagani.
Avverso il suddetto decreto non è stato presentato reclamo a questa Corte giusta i combinati art. 322 cpv. 2 CPP e 393 ss. CPP: il medesimo è dunque passato in giudicato.
2.
Con la presente richiesta – trasmessa dal Ministero pubblico, per competenza in applicazione dell’art. 62 cpv. 4 LOG, a questa Corte – la IS 1, per il tramite del suo membro _, chiede di ottenere la trasmissione, in copia, del surriferito decreto di abbandono emanato a carico di PI 2.
A sostegno della sua istanza precisa che la IS 1 è stata istituita dal _ il _. Nella seduta del _ ha deciso di inoltrare la presente richiesta poiché
"
(...) ritiene importante conoscere i contenuti e le motivazioni del decreto che riguarda fatti che hanno toccato l’attività commissionale, quale presupposto per la redazione in piena cognizione di causa del proprio rapporto finale ai sensi dell’art. 43 LGC/CdS
" (istanza 28/29.08.2013, doc. CRP 1.a).
3.
Con osservazioni 5.09.2013 il procuratore pubblico rileva che, per quanto riguarda il Ministero pubblico, nulla osta, di per sé, alla trasmissione alla IS 1 dell’ABB _ emanato a carico di PI 2. Nell’ipotesi in cui quest’ultimo dovesse opporsi alla richiesta, il magistrato inquirente si rimette al prudente giudizio di questa Corte quo alla valutazione dell’interesse giuridico legittimo della IS 1 prevalente sui diritti personali dell’imputato assolto (art. 62 cpv. 4 LOG e art. 320 cpv. 4 CPP) (doc. CRP 3).
PI 2
, dal canto suo, si oppone alla richiesta. Mette in particolare in dubbio la legittimazione della IS 1, per il tramite del suo membro _, di inoltrare la presente richiesta. Ritiene inoltre che in casu non sia dato un interesse giuridico legittimo da parte della IS 1, evidenziando in particolare che vi è
"
(...) il sospetto che si tratti di o di “voyeurismo giudiziario” o di maldestro intento di controllo dell’attività della Magistratura da parte di una commissione politica che si picca di essere organo inquirente
" (osservazioni 13/16.09.2013, p. 2, doc. CRP 6).
A titolo abbondanziale rileva di essere, di principio, disposto a consegnare direttamente alla IS 1 copia del DA (recte: ABB), alle seguenti condizioni, e meglio che la IS 1 glielo chieda direttamente per il tramite del suo legale, che risponda allo scritto 22.08.2013 del suo patrocinatore e che la IS 1 "
(...) si impegni a non trasmettere né mostrare tale DA
(recte: ABB)
al suo presidente _ essendo in conflitto d’interesse come desumibile dalla sua autoricusa e dal citato, allegato scritto
" (osservazioni 13/16.09.2013, p. 3, doc. CRP 6 e documentazione ivi annessa).
Con replica 25/26.09.2013 la IS 1 rileva in particolare che la richiesta sarebbe prima di tutto volta ad ottenere la trasmissione, in copia, dell’ABB. Nel caso in cui vi fossero altri atti istruttori l’istanza sarebbe volta ad esaminare e a fotocopiare anche questa documentazione.
L’istanza è stata sottoscritta da _ quale membro anziano della IS 1 in applicazione dell’art. 5 del Regolamento della IS 1. Il presidente _ non si sarebbe mai astenuto e gli altri membri della IS 1 (formata da quattro membri dopo le dimissioni di PI 2 e di _) non gli avrebbero mai chiesto di ricusarsi. Le delibere riguardanti la presente procedura sarebbero avvenute con l’accordo dei quattro membri in carica.
Ritiene che in casu sia dato un interesse giuridico legittimo ex art. 62 cpv. 4 LOG da parte della IS 1, adducendo che la Commissione
"
(...), in applicazione del Capitolo 6 della Legge sul Gran Consiglio e i rapporti con il Consiglio di Stato, è tenuta a lavorare rispettando il segreto d’ufficio più stretto. Il Decreto d’abbandono nei confronti di PI 2 ha stabilito che nella fattispecie segnalata al Ministero pubblico dal Presidente _ giusta l’art. 65 LGC/CdS
[recte: art. 65a LGC/CdS (Obbligo di denuncia)]
non vi è stata violazione del diritto applicabile. Dato che i lavori commissionali non sono terminati e vista la necessità di conoscere i motivi dell’abbandono – per il momento IS 1 sa solo quanto pubblicato dai media su informazioni fornite da PI 2 e/o dal suo patrocinatore – per potersi attenere e conformare alla giurisprudenza sviluppata dal Ministero pubblico nella decisione in oggetto e renderne conto a chi di dovere, vi è
(un)
eminente interesse a conoscere le motivazioni di fatto e giuridiche alla base del Decreto d’abbandono
"
(replica 25/26.09.2013, p. 2, doc. CRP 8).
Rileva inoltre che PI 2 non abbia in sostanza precisato quali sarebbero i suoi diritti personali prevalenti, ritenendo che sarebbe nell’interesse di tutti conoscere l’esatto contenuto dell’ABB, essendo stata la segnalazione presidenziale pubblicata integralmente sui media e sui facebook con commenti di quest’ultimo. Afferma infine che preferisce rimettersi al prudente giudizio di questa Corte invece di sottostare alle condizioni inaccettabili di PI 2.
Con duplica 30.09./2.10.2013 PI 2 riconferma la sua opposizione alla presente istanza. Ritiene in particolare che la IS 1 non avrebbe fornito alcuna precisa e concreta motivazione in relazione al legittimo interesse che rimarrebbe vago e non circostanziato. Inoltre il mandato conferito alla IS 1 di indagare sull’attività della _ non avrebbe nulla a che vedere con il procedimento sfociato nell’ABB emanato a suo carico (cfr., nel dettaglio, duplica 30.09./2.10.2013, doc. CRP 11).
I
n data 27.09.2013 il procuratore pubblico comunica di non avere osservazioni di duplica da formulare, rimettendosi al prudente giudizio di questa Corte circa la valutazione dei contrapposti interessi delle parti in gioco (doc. CRP 10).
4.
Con scritto 8/9.10.2013 il patrocinatore di PI 2 segnala di aver appreso dai media che la IS 1 è giunta al termine del suo lavoro e che ha redatto il relativo rapporto. Ne deduce che la presente istanza sarebbe superata e priva d’interesse, confermando contestualmente le ragioni addotte contro la stessa (cfr. scritto 8/9.10.2013 e copia dell’articolo CdT ivi annesso, doc. CRP 12).
In data 10/11.10.2013 il procuratore pubblico comunica di non avere particolari osservazioni da formulare in relazione al summenzionato scritto. Si rimette al prudente giudizio di questa Corte in merito alla valutazione dei contrapposti interessi che d’acchito sembrano ancora essere in gioco, evidenziando inoltre che il rapporto finale della IS 1 dovrà in ogni caso essere ancora discusso in Gran Consiglio (doc. CRP 14).
La IS 1, dal canto suo, contesta il fatto che mediante la consegna del rapporto i lavori sarebbero terminati, richiamando in particolare gli art. 41, 43 e 37 cpv. 4 LGC/CdS e una sentenza del Tribunale federale. Riconferma integralmente la sua richiesta (cfr, nel dettaglio, scritto 15/16.10.2013, doc. CRP 15).
5.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
"
.
6.
6.1.
Il _ è stata istituita la IS 1 (art. 1 del Decreto istitutivo del _, approvato dal Gran Consiglio).
La IS 1 è stata incaricata di esaminare le risultanze dell’inchiesta disciplinare oggetto del rapporto di indagine del _, svolta su mandato del CdS, riguardante la _ e in particolare il cosiddetto
"_" (art. 2 cpv. 1 frase 1 del
Decreto istitutivo del _; cfr. il medesimo articolo riguardo al mandato conferitole).
La IS 1 è composta da sei membri, uno per ogni gruppo parlamentare (art. 3 del Decreto istitutivo del _). I membri della IS 1 sono elencati all’art. 4 cpv. 2 del Decreto istitutivo del _. _ è stato designato quale suo presidente (art. 5 del Decreto istitutivo del _).
L’attività della IS 1 è retta dalle disposizioni di cui agli art. 36-43 della Legge sul Gran Consiglio e sui rapporti con il Consiglio di Stato del 17.12.2002 (RL 2.4.1.1, LGC/CdS). A titolo sussidiario è applicabile la LPamm e il CPC (art. 2 del Regolamento della IS 1 del 24.04.2012).
I suoi membri, i suoi collaboratori diretti, i collaboratori dei servizi dello Stato chiamati a supportare le attività commissionali o che ricevono mandati o incarichi dalla IS 1 e i periti esterni sottoscrivono prima di iniziare la loro attività una dichiarazione relativa al segreto d’ufficio (art. 4 del Regolamento della IS 1 del 24.04.2012).
I lavori della IS 1 sono diretti dal Presidente nominato dal Gran Consiglio (ndr. _). In caso di sua assenza o impedimento i lavori commissionali sono diretti dal più anziano dei deputati presenti (ndr. _) (art. 5 del Regolamento della CPIL del 24.04.2012).
Giusta l’art. 8 del Regolamento della IS 1 del 24.04.2012 i rapporti con il CdS e l’Amministrazione cantonale sono curati dal Presidente, salvo decisione diversa della IS 1. La IS 1 richiede direttamente al CdS e ai servizi dell’Amministrazione cantonale le informazioni e la documentazione necessarie per l’esecuzione del proprio mandato giusta quanto previsto dagli art. 36-43 LGC/CdS e dal mandato conferito dal Gran Consiglio. Per ottenere informazioni, documentazione o supporto può avvalersi del rappresentante del CdS autorizzato a presenziare ai lavori commissionali giusta l’art. 41 cpv. 1 LGC/CdS.
I rapporti con i media sono curati dal Presidente, d’accordo gli altri membri della IS 1 (art. 9 del Regolamento della IS 1 del 24.04.2012).
In particolare i membri della Commissione parlamentare d’inchiesta – in casu la IS 1 – sono tenuti al riserbo più assoluto e restano vincolati al segreto d’ufficio anche dopo il termine dei lavori commissionali, per tutti quei fatti alla stessa sottoposti e non portati alla conoscenza del Gran Consiglio (art. 37 cpv. 4 LGC/CdS).
6.2.
Giova anzitutto ricordare che il procedimento penale nei confronti di PI 2, (già) membro della IS 1 (art. 4 cpv. 2 del Decreto istitutivo del 15.02.2012), è stato aperto dal Ministero pubblico a seguito della segnalazione 17.05.2013 da parte del Presidente della stessa IS 1 in relazione a delle interviste rilasciate il 15.05.2013 e il 16.05.2013 dal denunciato concernenti un _ della _, che a giudizio del denunciante avrebbero potuto configurare il reato di violazione del segreto d’ufficio in applicazione dell’art. 320 CP in relazione all’art. 37 cpv. 4 LGC/CdS (AI 1 – inc. MP _).
Il procedimento penale, sulla base delle risultanze istruttorie, è sfociato nel decreto di abbandono 21.08.2013 emanato dal procuratore pubblico Andrea Pagani (ABB _).
6.3.
È pacifico che nell’ambito del surriferito procedimento penale la IS 1 (per il tramite del suo presidente), non ha assunto la veste di parte, ma di denunciante, di modo che i suoi diritti si limitano a quelli previsti dall’art. 301 CPP.
6.4.
La IS 1 ha inoltrato la presente istanza, che si fonda sull’art. 62 cpv. 4 LOG trattandosi di un procedimento penale concluso, sottoscritta dal suo membro _ quale deputato più anziano in sostituzione del Presidente _ (art. 5 frase
2 del Regolamento della IS 1 del 24.04.2012).
6.5.
Ciò posto, dalla lettura dell’ABB _ emerge come lo stesso tratti il problema a sapere cosa sia un fatto coperto da riserbo giusta l’art. 320 CP, cosa meriti di rimanere segreto. A giudizio di questa Corte ciò è sufficiente per ammettere l’esistenza di un interesse giuridico legittimo ex art. 62 cpv. 4 LOG da parte della IS 1 prevalente sugli interessi personali di PI 2 a conoscere il contenuto e l’esito del procedimento penale sfociato nell’ABB _.
In siffatte circostanze – dopo il passaggio in giudicato della presente decisione – questa Corte trasmetterà alla IS 1 copia del decreto di abbandono 21.08.2013 (ABB _), in forma anonimizzata.
I membri della IS 1 sono tenuti al segreto d’ufficio (art. 37 cpv. 4 LCG/CdS)
7.
L’istanza è accolta ai sensi del precedente considerando. Stante la natura della IS 1 e della presente istanza, si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
d115504d-9b2a-51ac-8158-6ed6792d7bbd | in fatto
a.
In data 5.06.2009 l'Ufficio giuridico della Sezione della circolazione di Camorino ha inflitto a RE 1 una multa di CHF 200.-- (oltre CHF 60.-- per tassa di giustizia e spese, per complessivi CHF 260.--) per contravvenzione alle norme della circolazione (risoluzione 5.06.2009 n. _).
Contro tale risoluzione RE 1 si è aggravato davanti alla Pretura penale, che con sentenza del 7.03.2011 ha respinto il ricorso confermando la decisione impugnata.
La sentenza del presidente della Pretura penale è passata in giudicato.
b.
Con decreto d'accusa 21.01.2011 l'Ufficio giuridico della Sezione della circolazione di Camorino ha inflitto a RE 1 la multa di CHF 300.-- (oltre CHF 130.-- per tassa di giustizia e spese, per complessivi CHF 430.--) per contravvenzione alle norme della circolazione, con l'avvertenza che in caso di mancato pagamento la multa sarebbe stata sostituita, a tenore degli art. 106 cpv. 2 CP e 8 cpv. 1 LPcontr, con una pena detentiva di tre giorni (decreto d'accusa 21.01.2011 n. _).
Con scritto 26.01.2011 RE 1, sostenendo essere la sua famiglia in una precaria situazione finanziaria, ha chiesto all'Ufficio giuridico di poter espiare la pena detentiva sostitutiva di tre giorni in vece della multa di CHF 300.-- inflittagli con DA 21.01.2011 (n. _).
Interpretato tale scritto quale formale opposizione a tenore dell'art. 354 CPP, in data 2.02.2011 l'Ufficio giuridico della Sezione della circolazione ha confermato il decreto d'accusa 21.01.2011 (n. _) ed ha trasmesso gli atti del procedimento alla Pretura penale (conferma decreto d'accusa 2.02.2011).
Il presidente della Pretura penale in data 10.02.2011, constatato che nel caso concreto non erano contestati da RE 1 né i fatti né la proposta di pena, bensì egli chiedeva unicamente di poter scontare la pena detentiva sostitutiva di tre giorni, ha ritenuto trattarsi di una questione di esecuzione della pena non facente parte delle proprie competenze. Come tale ha dichiarato l'opposizione irricevibile e il decreto d'accusa definitivo (decreto 10.02.2011 del presidente della Pretura penale).
c.
Ne è seguito uno scambio di corrispondenza tra il reclamante e l'Ufficio incasso e pene alternative rispettivamente l'Ufficio esazione e condoni, tendente ad ottenere il pagamento rateale delle tasse e spese inerenti ai due decreti emanati dalla Sezione della circolazione - che gli veniva concesso - e la possibilità di espiare la pena detentiva in sostituzione delle multe ivi pronunciate, vista la sua asserita precaria situazione finanziaria.
d.
Il 18.07.2011 l'Ufficio giuridico della Sezione della circolazione di Camorino, riconosciutosi autorità competente a decidere sulla possibilità o meno di eseguire una pena detentiva in sostituzione della multa, ha respinto la richiesta posta in tal senso dal reclamante, ritenuto che "
la scelta della pena non è data al condannato, il quale non dispone dell'esecuzione della misura che meglio gli aggrada, atteso che non risultano nei suoi confronti né il mancato incasso previa esecuzione formale né la sua insolvenza e che lei potrà far fronte al regolare pagamento degli importi delle multe e delle relative tasse e spese, peraltro proporzionati, richiedendo, se del caso, all'autorità d'esecuzione la possibilità di dilazione e del pagamento rateale
" (scritto 18.07.2011 dell'Ufficio giuridico della Sezione della circolazione).
e.
Con decreto d'accusa 16.08.2011 (passato in giudicato) RE 1 è stato condannato dal Ministero pubblico per contravvenzione alla LF sugli stupefacenti al pagamento di una multa di CHF 600.--, con l'avvertenza che, in caso di mancato pagamento, la stessa sarebbe stata sostituita con una pena detentiva di sei giorni (DA _).
Con istanza 8.09.2011 il reclamante ha richiesto al procuratore pubblico la commutazione della multa in giorni di detenzione, facendo valere le difficili condizioni finanziarie (a quel momento al beneficio di una rendita mensile di CHF 3'876.-- e con una moglie e due figli agli studi a carico).
In applicazione degli art. 106 e 107 CP, ottenuto l'accordo in tal senso da parte di RE 1, con decisione giudiziaria indipendente successiva del 29.09.2011 il magistrato inquirente ha deciso la commutazione della multa di CHF 600.-- non in pena detentiva (applicabile solo qualora l'incasso non risulta possibile nemmeno in via esecutiva) bensì in 24 ore di lavoro di utilità pubblica, con l'avvertenza che in caso di fallimento dello stesso sarebbe stata ordinata l'esecuzione della pena detentiva di sei giorni.
f.
In accoglimento dell'istanza 19.12.2011 presentata da RE 1 tendente ad ottenere la trasformazione delle multe inflittegli con i decreti d'accusa 5.06.2009 (cfr. considerando in fatto a.) rispettivamente 21.01.2011 (cfr. considerando in fatto b.) in lavoro di pubblica utilità, l'Ufficio giuridico della Sezione della circolazione con decisione indipendente successiva dell'8.02.2012 ha decretato la commutazione delle multe di complessivi CHF 500.-- in 32 ore di lavoro di utilità pubblica, con l'avvertenza che in caso di fallimento lo stesso sarebbe stato sostituito con una pena detentiva di cinque giorni.
Ciò, secondo tale autorità, in considerazione: che "
l'istante si trova effettivamente in una situazione di particolare disagio finanziario e che il pagamento delle multe, lo porrebbe in una situazione di grave angustia finanziaria
", che "
la facoltà del riscatto delle multe insolute in lavoro di utilità pubblica
" è "
stato recentemente riconosciuto all'istante nell'ambito di un procedimento di competenza del Ministero pubblico (decisione del 29.09.2011)
" e, infine, che "
in applicazione della corrente prassi secondo cui il riscatto della multa con il lavoro di utilità pubblica avviene, di regola, in ragione di 32 ore per una multa insoluta sino a fr. 800.- e di 4 ore in più per ogni successivo importo di fr. 100.- di multa insoluta
" (decreto di commutazione 8.02.2012 della Sezione della circolazione).
g.
Con scritto 10/13.02.2012 RE 1 ha chiesto all'Ufficio giuridico della Sezione della circolazione la rettifica della decisione 8.02.2012, nel senso di ridurre da 32 a 20 le ore di lavoro di pubblica utilità a fronte di un importo di CHF 500.--, in applicazione del medesimo metro di misura adottato dal pubblico ministero, ossia di quattro ore di lavoro di pubblica utilità per ogni CHF 100.-- di multa (lettera 10/13.02.2012).
h.
L'Ufficio giuridico della Sezione della circolazione il 20.02.2012 ha informato RE 1 di non potersi più occupare del suo caso dopo la decisione formale resa l'8.02.2012; nel contempo gli ha chiesto di confermare se il suo scritto del 10/13.02.2012 doveva essere considerato quale reclamo contro la stessa.
Ciò che il reclamante ha confermato con lettera 20/23.02.2012.
i.
Con reclamo 20/22.02.2012 RE 1 insorge davanti a questa Corte contro la decisione 8.02.2012 resa dall'Ufficio giuridico della Sezione della circolazione.
Dopo succinta esposizione dei fatti e sottolineato come l'Ufficio giuridico abbia accolto la sua richiesta (da lui formulata in precedenza a più riprese) di commutare le multe in lavoro di pubblica utilità soltanto dopo la decisione resa in tal senso dal pubblico ministero, postula la commutazione delle multe di complessivi CHF 500.-- in 20 ore di lavoro di pubblica utilità, in applicazione della "
regola che dice 4 ore per ogni 100.- CHF
" (reclamo 20/22.02.2012, p. 2), così come stabilita dal Ministero pubblico.
l.
L'Ufficio giuridico della Sezione della circolazione con osservazioni 29.02/1.03.2012 riconferma la propria decisione, concludendo per la reiezione del gravame.
In modo particolare esso precisa di aver ripreso "
la prassi consolidata seguita dall'autorità di giudizio precedentemente competente (Giudice di applicazione della pena)
" (osservazioni 29.02./1.03.2012, p. 1).
Rileva inoltre che "
l'applicazione di un minimo di 32 ore di lavoro di pubblica utilità per il riscatto di una multa insoluta sino a fr. 800.-- non contrasta la normativa vigente e tiene conto di un rapporto equo e ragionevole tra reato e pena, la quale con la commutazione non deve perdere valore e sostanza
". In quest'ottica sostiene che tenuto conto dell'onere organizzativo gravante lo Stato una pena inferiore a tale minimo non avrebbe senso.
Infine evidenzia che "
nel caso concreto il riscatto della multa di fr. 500.-- con 4 giornate di lavoro di pubblica utilità, che in caso di fallimento verrebbero sostituite con 5 giorni d'arresto risulta, a mente dello scrivente ufficio, equo, proporzionato e rispettoso del diritto
" (osservazioni 29.02/1.03.2012, p. 1).
m.
In replica RE 1 pone nuovamente in risalto la decisione 29.09.2011 del Ministero pubblico, sulla base della quale muove una serie di critiche all'Ufficio giuridico.
Rileva in particolare l'incongruenza tra la misura di conversione adottata dal pubblico ministero, competente per i reati penali, rispetto al più elevato limite minimo stabilito dall'Ufficio giuridico, per comportamenti meno gravi, a suo parere, totalmente arbitrario e contrario alle normative applicabili.
n.
Con osservazioni di duplica 23/26.03.2012 l'Ufficio giuridico della Sezione della circolazione riconferma, in buona sostanza, le proprie precedenti allegazioni.
o.
Delle ulteriori argomentazioni si dirà, se necessario, nei considerandi che seguono. | in diritto
1.
1.1.
L'1.01.2011 è entrato in vigore il Codice di diritto processuale penale svizzero (Codice di procedura penale, CPP), che disciplina, tra l'altro, la procedura penale in materia di contravvenzioni. L'art. 357 cpv. 1 CPP conferisce in particolare alle autorità amministrative istituite per il perseguimento e il giudizio delle contravvenzioni i poteri del pubblico ministero. La procedura (contravvenzionale) è retta per analogia dalle disposizioni concernenti il decreto d'accusa (art. 357 cpv. 2 CPP).
Compatibilmente alle norme federali, il Cantone Ticino il 20.04.2010 ha emanato una nuova Legge di procedura per le contravvenzioni (LPcontr), entrata in vigore l'1.01.2011, che regola il minimo indispensabile e per il resto rinvia al Codice di procedura penale, anche per le contravvenzioni di diritto cantonale (Commentario CPP – M. MINI, art. 17 CPP n. 3). L'art. 1 cpv. 2 di detta legge ribadisce che la procedura davanti all'autorità amministrativa e alle autorità giudiziarie è retta dal Codice di procedura penale.
1.2.
L'art. 17 CPP, che concerne le autorità penali delle contravvenzioni, stabilisce che la Confederazione e i Cantoni possono affidare il perseguimento e il giudizio delle contravvenzioni ad autorità amministrative.
I
n virtù del rinvio dell'art. 106 cpv. 2 seconda frase della LF sulla circolazione stradale del 19.12.1958 (LCStr) [secondo cui
"(...) i Cantoni sono incaricati di eseguire la presente legge. Essi prendono le misure necessarie a tale scopo e designano le autorità cantonali competenti
"] - in Ticino - il Dipartimento delle istituzioni, la Sezione della circolazione e gli organi di polizia, sono le autorità competenti per l’applicazione delle normative in materia di circolazione stradale e di tassa sul traffico pesante commisurata alle prestazioni (...) [art. 1 del Regolamento del 2.03.1999
della legge cantonale di applicazione alla legislazione federale sulla circolazione stradale, RLACS].
In modo particolare l'Ufficio giuridico della Sezione della circolazione è competente, tra l'altro,
ad istruire e decidere le contravvenzioni e le denunce previste in materia di circolazione, di polizia ferroviaria e di durata del lavoro e del riposo dei conducenti professionali, salvo nei casi di competenza delle autorità giudiziarie (art. 4 lit. f RLACS).
Secondo l'art. 363 cpv. 2 CPP il pubblico ministero o l'autorità penale delle contravvenzioni che hanno pronunciato rispettivamente in procedura di decreto d'accusa o in procedura di decreto penale emanano anche le decisioni successive. Tra quest'ultime rientrano le decisioni della commutazione delle multe, che dunque - dopo l'introduzione del CPP dall'1.01.2011 - non vengono più emesse dal giudice dell'applicazione della pena ma dall'autorità amministrativa che le ha adottate (Messaggio n. 6165 del 21.01.2009 sull'adeguamento della legislazione cantonale all'introduzione del codice di diritto processuale penale svizzero, p. 33).
L'art. 8 cpv. 2 LPcontr prevede infatti che la multa di cui non è possibile l'incasso è commutata in pena detentiva sostitutiva o in lavoro di pubblica utilità dall'autorità amministrativa che l'ha emanata.
Contro una decisione indipendente successiva pronunciata sotto forma di ordinanza o decreto e, di norma, in procedura scritta (...) è dato reclamo (Messaggio concernente l'unificazione del diritto processuale penale del 21.12.2005, in FF 2006 p. 1202).
Per gli
art. 20 cpv. 1 lit. b e 393 cpv. 1 lit. a CPP in combinazione con l'art. 62 cpv. 2 LOG è la Corte dei reclami penali l'autorità competente a giudicare i reclami contro gli atti procedurali e contro le decisioni non appellabili della polizia, del pubblico ministero e delle autorità penali delle contravvenzioni ex art. 17 CPP.
Ne discende dunque la competenza di questa Corte ad esaminare il presente gravame.
1.3.
Con il reclamo ex art. 393 ss. CPP si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l'eccesso e l'abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l'accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e/o l'inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato entro 10 giorni per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all'art. 390 CPP per la forma scritta ed all'art. 385 CPP per la motivazione.
La persona o l'autorità che lo interpone deve indicare, in particolare, i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
1.4.
Il reclamo, inoltrato il 20/22.02.2012 contro la decisione 8.02.2012 dell'Ufficio giuridico della Sezione della circolazione, notificata il 10.02.2012, è tempestivo.
RE 1 -
quale imputato, destinatario della decisione di commutazione che lo tocca personalmente, direttamente e attualmente nei suoi diritti - è pacificamente legittimato a reclamare giusta l’art. 382 cpv. 1 CPP avendo un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica del giudizio.
Il gravame è quindi nelle predette circostanze ricevibile in ordine.
2.
2.1.
Il reclamante postula in buona sostanza la commutazione delle multe pronunciate dalla Sezione della circolazione, Ufficio giuridico, di complessivi CHF 500.-- in 20 ore di lavoro di pubblica utilità, conformemente al fattore di conversione applicato dal Ministero pubblico pari a 4 ore di lavoro di pubblica utilità per ogni CHF 100.-- di multa.
L'Ufficio giuridico dal canto suo sostiene l'esistenza di una prassi interna - ripresa dalla precedente autorità competente in ambito di commutazione delle multe (ovverossia l'allora giudice dell'applicazione della pena) -, conforme alle normative in vigore, che prevede un minimo di 32 ore di pubblica utilità per il riscatto di una multa insoluta sino a CHF 800.--, in quanto al di sotto di tale minimo la pena del lavoro di pubblica utilità non avrebbe senso.
2.2.
Giusta l'art. 106 CP se la legge non dispone altrimenti, il massimo della multa è di CHF 10'000.-- (cpv. 1).
In caso di mancato pagamento della multa per colpa dell'autore, il giudice ordina nella sentenza una pena detentiva sostitutiva da un minimo di un giorno a un massimo di tre mesi (cpv. 2).
Il giudice commisura la multa e la pena detentiva sostitutiva alle condizioni dell'autore, in modo che questi sconti una pena adeguata alla sua colpevolezza (cpv. 3).
Per l'esazione e la commutazione si applicano per analogia gli art. 35 e 36 cpv. 2-5 CP (cpv. 5).
L'art. 107 cpv. 1 CP dispone altresì che con il consenso dell'autore, il giudice può in sostituzione della multa pronunciata, ordinare un lavoro di pubblica utilità fino a un massimo di 360 ore.
Infine a tenore dell'art. 8 cpv. 1 LPcontr la multa di cui non è possibile l'incasso è commutata in pena detentiva sostitutiva o in lavoro di pubblica utilità dall'autorità amministrativa che l'ha emanata.
2.3.
Con la riforma della parte generale del Codice penale svizzero entrata in vigore dall'1.01.2007, la multa è diventata la pena ordinaria unica per le contravvenzioni (ad eccezione della possibilità di convertirla in lavoro di utilità pubblica in virtù dell'art. 107 CP), che non sono più punibili con una pena privativa della libertà, ad esclusione della pena detentiva sostitutiva disposta ex art. 106 cpv. 2 CP in caso di mancato pagamento per colpa dell'autore (V. MAIRE, Les peines pécuniaires, p. 173-174, in A. KUHN / L. MOREILLON / B. VIREDAZ / A. BICHOVSKY, La nouvelle partie générale du Code pénal suisse, 2006).
A tenore dell'art. 106 cpv. 3 CP il giudice deve simultaneamente stabilire in un unico giudizio l'importo della multa e i giorni - da uno a tre mesi al massimo - della pena detentiva sostitutiva (applicabile se l'autore per sua colpa non provvede al pagamento) commisurandole entrambe non solo alla gravità della colpa dell'autore ma anche alla sua capacità finanziaria (Y. JEANNERET, Légalité, contravention et nouveau droit: des surprises?, in RPS 122/2004 p. 29 e 30; Messaggio concernente la modifica del Codice penale svizzero del 21.09.1998, in FF 1999 II p. 1825).
Anche al lavoro di pubblica utilità è stato posto un limite superiore, pari a 360 ore (art. 107 cpv. 1 CP), equivalente a tre mesi di pena detentiva sostitutiva massima ex art. 106 cpv. 2 CP; limiti questi (applicabili in materia contravvenzionale), corrispondenti alla metà di quanto previsto in ambito di sanzionamento di crimini e delitti ex art. 34 cpv. 1, 36 cpv. 1 e 37 cpv. 1 CP (BSK Strafrecht I – B. BRÄGGER, 2a. ed., art. 107 CP n. 1).
L'art. 107 CP, applicabile in ambito contravvenzionale, stabilisce soltanto il limite massimo superiore (di 360 ore) del lavoro di pubblica utilità, ma non prescrive (espressamente) nulla riguardo ad un tasso di conversione tra l'importo della multa e il numero di ore del lavoro di pubblica utilità in sostituzione alla stessa, come invece previsto dall'art. 39 cpv. 2 CP per i crimini e i delitti, secondo cui quattro ore di lavoro di utilità pubblica corrispondono a un'aliquota giornaliera di pena pecuniaria o a un giorno di pena detentiva.
Il legislatore ha espressamente voluto lasciare al giudice la libertà di stabilire un fattore di commutazione (ovverossia a un giorno di privazione della libertà corrisponde una determinata somma), pur rilevando che "
nella prassi per i casi ricorrenti, è probabile che si adotterà comunque un fattore di commutazione
" (Messaggio concernente la modifica del Codice penale svizzero del 21.09.1998, FF 1999 p. 1825). Ciò ha incontrato critiche da parte della dottrina, che ha ritenuto straordinario il fatto che il Consiglio federale, nel suo messaggio del 21.09.1998, si è da un lato rallegrato di aver, nell'ambito della riforma della parte generale del Codice penale, abbandonato un fattore di conversione legale, e dall'altro lato ha ammesso l'instaurarsi nella pratica, per i casi ricorrenti, di un tale fattore. Così che ciò avrebbe come risultato quello di favorire le disparità cantonali (Y. JEANNERET, op. cit., RPS 122/2004, p. 39-40).
Almeno una parte della dottrina ritiene - in analogia all'art. 39 cpv. 2 CP - che debba essere applicato il criterio di quattro ore di lavoro di pubblica utilità per un giorno di pena privativa della libertà (M. DUPUIS / B. GELLER / G. MONNIER / L. MOREILLON / C. PIGUET, Code pénal I, art. 107 CP n. 2 e dottrina ivi citata). Questa soluzione risulta anche dal confronto tra il massimo della pena detentiva sostitutiva (art. 106 cpv. 2 CP) e il massimo delle ore di lavoro di pubblica utilità (art. 107 cpv. 1 CP).
2.4.
Ora, nel nostro Cantone, il Ministero pubblico ha optato per una prassi secondo cui di regola, in ambito contravvenzionale, a un importo di CHF 100.-- di multa corrispondono un giorno di pena detentiva rispettivamente quattro ore di lavoro di pubblica utilità.
L'Ufficio giuridico della Sezione della circolazione in materia di contravvenzioni in ambito di circolazione stradale, riprendendo una prassi precedentemente instaurata dal giudice dell'applicazione della pena, pone preliminarmente un limite minimo di 32 ore di lavoro di utilità pubblica per le multe sino ad un importo di CHF 800.--.
Come visto ai considerandi che precedono, la fissazione di un minimo di ore non viola l'ordinamento giuridico ed è comprensibile in un'ottica organizzativa e pratica. Tuttavia essa è atta a creare delle disparità ove ci si trovi a giudicare contravvenzioni in materia di circolazione stradale oppure in altre materie del diritto penale, disparità che questa Corte ritiene non trovi sufficiente giustificazione e debba essere evitata.
Ne consegue che il presente gravame trova fondamento, così che anche in materia di circolazione stradale deve essere applicato lo stesso fattore di conversione in uso al Ministero pubblico, scevro da un determinato minimo di ore di lavoro di pubblica utilità.
3.
Il reclamo è accolto e gli atti vengono rinviati all'Ufficio giuridico della Sezione della circolazione, affinché statuisca ai sensi dei considerandi che precedono. Non si prelevano tassa di giustizia e spese. Non si assegnano ripetibili, non avendo RE 1 fatto capo alle prestazioni di un legale. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
d1eff16c-f099-5d3e-8d7c-b7d15a6354a0 | in fatto: A.
Con sentenza 28 ottobre 2010, la Corte delle assise correzionali di _ ha ritenuto RI 1 autrice colpevole di truffa, per avere, tra il 12 e la fine di settembre 2008, a _, per procacciarsi un indebito profitto, ingannato con astuzia il consulente di Credit Suisse _, inducendolo ad atti pregiudizievoli al patrimonio di PC 1 per circa Euro 658'000.-.
RI 1 è, inoltre, stata riconosciuta autrice colpevole di falsità in documenti per avere, tra il 12 e la fine settembre 2008, a _ (Reggio Emilia - Italia) e a _, a scopo d’indebito profitto, fatto allestire un documento volto ad estinguere la relazione bancaria n. _ intestata a CS Life Bermuda Ltd di cui era avente diritto economico PC 1, abusando della di lui firma autentica, nonché fatto uso, a scopo d’inganno, di siffatto documento.
In applicazione della pena, RI 1 è stata condannata alla pena detentiva di 12 (dodici) mesi, la cui esecuzione è stata sospesa condizionalmente per un periodo di prova di anni 2 (due).
Il giudice di prime cure ha, inoltre, ordinato la confisca della falsa lettera 15 settembre 2008, in atti sub AI 12, nonché la confisca degli averi di cui alla relazione n. _ intestata a CS Life (Bermuda) Ltd con attribuzione di questi ultimi alla PC 1.
B.
In
sintesi, i fatti alla base del giudizio della Corte delle assise correzionali di _, non contestati da RI 1, sono i seguenti.
a.
Nel 1995 RI 1 ha iniziato a collaborare con la _ (Italia), ditta avente per scopo la progettazione e la fabbricazione di macchinari, dove è stata assunta a tempo pieno l’anno successivo. Responsabile dei rapporti commerciali con l’estero, l’accusata era preposta allo sviluppo dell’azienda sia in ambito organizzativo che in quello delle esportazioni. Nel 1996 RI 1 ha iniziato una relazione sentimentale con PC 1, titolare della predetta ditta, con cui ha contratto matrimonio il 21 dicembre 2006. La condannata ha sostenuto che dal 2001 il salario mensile netto da lei percepito ammontava a 1'500 Euro (più tredicesima) e che lo stesso era inadeguato rispetto alle sue reali competenze e al ruolo ricoperto in azienda. Ciononostante, avrebbe accettato di essere sottopagata in quanto persuasa dei vantaggi fiscali che la situazione comportava dal marito che, peraltro, le avrebbe prospettato ripetutamente di voler condividere con lei i proventi della loro attività (sentenza impugnata, consid. 1, pag. 6).
b.
A dire dell’accusata, il rapporto fra lei e il consorte, già difficile e problematico, si incrinò in modo irrecuperabile nel 2007 quando, durante una sua grave malattia, venne a conoscenza di una relazione extraconiugale del marito che, messo davanti all’evidenza dei fatti, reagì nei suoi confronti in modo violento (cfr. certificato medico agli atti AI 1, all. A rilasciato il medesimo giorno dal pronto soccorso _ in località _). Sempre durante il 2007, RI 1 ha chiesto la separazione ed ha cercato di trovare una soluzione che ne regolasse anche gli aspetti economico-patrimoniali. In risposta, PC 1 ha negato che le spettasse sia un assegno di mantenimento sia una partecipazione alla liquidazione del regime matrimoniale.
Il rifiuto del marito di riconoscerle quanto le spettava ha indotto l’accusata ad appropriarsi di una parte del patrimonio del coniuge nel dichiarato intento di negoziare le condizioni di separazione con maggior forza
(sentenza impugnata, consid. 2, pag. 6-8).
RI 1 ha, così, pensato di potersi rivalere sugli averi del conto del marito presso Credit Suisse di _. Si trattava di un conto alimentato da una parte dei proventi delle vendite all’estero della di lui ditta e di cui la donna era procuratrice con firma individuale e che - sempre a dire dell’accusata - nonostante fosse intestato soltanto al consorte, avrebbe dovuto costituire una sicurezza comune per il futuro di entrambi i coniugi. Lo stesso PC 1 avrebbe più volte rassicurato in tal senso la moglie dicendole che “
si trattava della loro pensione
”.
c.
Il 12 settembre 2008, mentre il consorte era all’estero per lavoro, l’accusata si è recata presso il Credit Suisse di _ ed ha aperto un conto a suo nome, manifestando al consulente _ l’intenzione di trasferirvi l’intero saldo attivo del conto del marito, adducendo a pretesto di temere un’ispezione della Guardia di Finanza. Il consulente ha, così, allestito un documento di estinzione della relazione bancaria intestata ad PC 1 che l’accusata avrebbe dovuto far sottoscrivere al marito e, poi, ritrasmettere al consulente affinché questi potesse dare seguito all’operazione convenuta.
Il 15 settembre 2008, l’accusata ha sottoposto al marito, per la firma, unitamente ad altra corrispondenza, la predetta lettera di estinzione, ben sapendo che il coniuge era solito firmare sulla fiducia - astenendosi da una previa lettura e senza neppure avvalersi degli occhiali correttivi - quanto gli veniva presentato. La condannata confidava, inoltre, nel fatto che in quel periodo il consorte cercava di evitarla, ciò che lo induceva a firmare senza prestare la dovuta attenzione pur di liberarsi frettolosamente della sua presenza (verbale dibattimentale, pag. 3). La lettera sottoscritta da PC 1, sulla quale la moglie ha stampato anche il luogo, la data e il nome del marito, è stata di seguito trasmessa al consulente finanziario che, il 22 settembre 2008, ha dato seguito a quanto ivi disposto
(sentenza impugnata, consid. 3, pag. 8).
C. RI 1
ha
presentato dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale contro la sentenza della Corte delle assise correzionali in data 9 novembre 2010. Nella motivazione scritta, inoltrata il 9 dicembre 2010, la ricorrente non contesta la condanna per i reati di truffa e falsità in documenti, ma si limita a chiedere che, in riforma del dispositivo 4. della sentenza impugnata, le parti siano demandate al foro civile per la decisione sulla richiesta di restituzione formulata da PC 1 non avendo questi - a suo dire - qualità di parte lesa e, conseguentemente, di parte civile e non avendo sufficientemente provato il suo diritto sugli averi oggetto di confisca.
In subordine, la ricorrente chiede il rinvio degli atti ad una nuova Corte per un nuovo giudizio.
D.
Il procuratore pubblico, con osservazioni 12 gennaio 2011, chiede la reiezione del gravame.
E.
Ugual richiesta ha formulato, con osservazioni 13 gennaio 2011, PC 1. | Considerando
in diritto: 1.
Giusta l’art. 288 CPP TI - applicabile in forza dell’art. 453 CPP(fed)
- il ricorso per cassazione è essenzialmente un rimedio di diritto (lett. a e b), ritenuto che l’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP TI) e che arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 135 V 2 consid. 1.3 pag. 4, 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371).
2.
La ricorrente sostiene, preliminarmente, che PC 1 non era legittimato a costituirsi parte civile nell’ambito del procedimento penale.
2.1.
La Corte di prime cure ha considerato “
ai limiti del pretestuoso
” la tesi difensiva (proposta già al dibattimento) secondo cui PC 1 non è legittimato ad agire in sede penale poiché l’avente diritto economico degli averi oggetto di reato non è lui ma la banca (sentenza impugnata, consid. 10 e 11 pag 12) ed ha motivato tale sua conclusione con le argomentazioni riprodotte di seguito.
Il primo giudice ha accertato che, il 13 gennaio 1997, PC 1 ha aperto presso la filiale di _ del Credit Suisse il conto cifrato denominato _ - per il quale ha conferito procura alla moglie - e che, nel luglio 2006, gli averi
giacenti
sul predetto conto sono stati utilizzati dal titolare del conto per pagare il premio unico - di importo pari al saldo attivo del conto stesso - previsto dal contratto di assicurazione (polizza “Life Portfolio International”) stipulato con la Credit Suisse _.
Il primo giudice ha, poi, accertato che, se è vero che, secondo quanto espressamente indicato nel contratto stipulato fra le parti, l’avente diritto economico dei valori patrimoniali versati a pagamento del premio è la Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd e che il contraente (che ha ceduto questi beni alla Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd) riceve in cambio una polizza assicurativa per il relativo controvalore, è anche vero che - “
cosa inusuale per un normale contratto di assicurazione
” - ciò malgrado, le parti hanno previsto che la Credit Suisse Life avrebbe investito il premio assicurativo in base al tipo d’investimento convenuto con il contraente che conservava la facoltà di richiedere in qualsiasi momento dalla Credit Suisse Life una modifica del tipo di investimento.
Proseguendo nella sua disamina, il giudice di prime cure ha, poi, ancora rilevato che, se la polizza assicurativa veniva custodita dalla Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd, ad RI 1 - indicata come beneficiaria della prestazione assicurata in caso di morte del titolare - è stata conferita ampia procura sugli averi di PC 1 confluiti in questo investimento “
affinché esegua riscatti parziali e totali dell’assicurazione sulla vita”
ed ha sottolineato che, in forza di tale procura, la donna poteva “
utilizzare la totalità dei valori patrimoniali che si rendono disponibili in seguito al loro riscatto anche a proprio favore o a favore dei terzi
” (sentenza impugnata, consid. 11.2, pag. 12-13).
Nel ricostruire lo scenario delineatosi a seguito dell’agire illecito di RI 1, la prima Corte ha rilevato che, una volta riscattata con inganno la polizza assicurativa del marito, RI 1 “
ha creato per sé la medesima struttura giuridica
”, stipulando una polizza simile alla precedente, a premio unico, con Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd, indicando la figlia _ quale beneficiaria in caso di suo decesso (sentenza impugnata, consid. 11.3, pag. 13).
A mente del primo giudice, “
dal profilo giuridico si ha che con la predetta modifica del luglio 2006 l’PC 1 ha cessato di essere titolare del conto Predicatore, e con ciò avente diritto economico dei fondi ivi accreditati, ovvero titolare nei confronti della banca del credito vertente sulla loro restituzione (mentre che la proprietà del denaro era passata alla banca), divenendo invece titolare di una polizza assicurativa, e quindi dei diritti ivi incorporati e previsti in suo favore dal contratto di assicurazione
”.
Il primo giudice ha, poi, continuato precisando che con tale modifica “
all’atto pratico
” poco o nulla era cambiato: in tutti e due i casi si era trattato di un’operazione volta ad affidare denaro al Credit Suisse, o ad una società estera controllata da quest’ultimo, al fine di investirlo. In entrambe le circostanze - ha ancora precisato il primo giudice - PC 1 restava titolare del diritto alla restituzione del denaro conferito e degli eventuali frutti, prima del 2006 potendo attingere al conto in qualità di titolare, dopo luglio 2006 potendo, come stipulante, riscattare per intero o parzialmente il valore della polizza assicurativa.
Il giudice di prime cure ha, poi, evidenziato che dal luglio 2006 il profilo dell’investitore è stato meno conservativo e si è garantita maggiore discrezione nei confronti dei terzi: infatti, dopo luglio 2006 “
il Credit Suisse avrebbe potuto legittimamente rispondere negativamente alla domanda a sapere se PC 1 fosse o meno titolare di un conto presso quell’istituto, mentre che in precedenza la risposta avrebbe dovuto essere affermativa. Detto altrimenti, nel luglio del 2006 PC 1 ha semplicemente nascosto meglio i suoi soldi
”
(sentenza impugnata, consid. 11.4, pag. 13).
Precisato come fosse pacifico che quanto conferito dalla condannata alla compagnia assicuratrice era provento di reato e che, per ciò soltanto, a prescindere dalla relativa richiesta di parte civile, si giustificava la confisca di tali beni in applicazione dell’art. 70 cpv. 1 CP, il primo giudice - dopo avere spiegato che per la condannata era privo di rilievo sapere a quale destinatario (PC 1 oppure Credit Suisse Life,Bermuda, Ltd) andassero attribuiti i beni confiscati - ha disposto la restituzione ad PC 1
della “
disponibilità degli averi di cui alle note polizze
” ritenuto, peraltro, che Credit Suisse e Credit suisse Life (Bermuda) Ltd “
nemmeno si sognano di avanzare pretese sugli averi dell’PC 1
”
(sentenza impugnata, consid. 11.5, pag. 14).
2.2.
Nel suo allegato, l’insorgente sostiene come sia stato lo stesso giudice di prime cure ad
accertare che, a seguito della modifica del luglio 2006, “
l’PC 1 ha cessato di essere titolare del conto Predicatore, e con ciò avente diritto economico dei fondi ivi accreditati, ovvero titolare nei confronti della banca del credito vertente sulla loro restituzione (mentre che la proprietà del denaro era passata alla banca)
”. Pertanto - prosegue la ricorrente - è palese che in concreto vi è stata un’errata applicazione dell’art. 69 cpv. 1 CPP TI: con quanto detto, infatti, la stessa prima Corte ha confermato quanto lei sostiene e, cioè, che PC 1, al momento del reato, non era avente diritto economico e, pertanto, non era proprietario dei valori patrimoniali oggetto della polizza assicurativa precedentemente stipulata. Determinante - continua l’insorgente - è che “
l’avente diritto economico dei valori patrimoniali era ed è la Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd
” che è, perciò, la parte personalmente e direttamente lesa dal reato nonché la titolare del bene giuridico protetto in questione. La ricorrente conclude il suo esposto sottolineando nuovamente come, avendo subito un mero danno indiretto, non sia parte lesa e, di conseguenza, non possa costituirsi parte civile (ricorso, pto 4-5, pag. 5-6).
2.3.
Nelle sue osservazioni, il procuratore pubblico sostiene che ciò che risulta dalla proposta assicurativa Life Portfolio International (cfr. AI 7, pag. 7) - e meglio che PC 1 è l’avente diritto economico degli averi patrimoniali investiti nella polizza assicurativa n. _ e depositati sulla relazione n. _ intestata solo formalmente a CS Life (Bermuda) Ltd - è confermato dal fatto che, per ottenere la disponibilità di tali averi, la condannata ha dovuto allestire un falso ordine di annullamento della polizza assicurativa e di estinzione della predetta relazione, a nome dell’avente diritto economico di quest’ultima, abusando della firma autentica del marito. La sentenza del giudice di prime cure - continua il procuratore pubblico - è imprecisa nella motivazione, nella misura in cui indica che PC 1 avrebbe cessato di essere avente diritto economico dei fondi e che la banca sarebbe divenuta proprietaria dei medesimi, ma é corretta nella sostanza ritenuto che ha assegnato l’importo confiscato alla parte civile PC 1 la cui legittimazione a costituirsi parte civile ai sensi dell’art. 69 cpv. 1 CPP TI è manifesta. Di contro - continua il procuratore pubblico - è alla ricorrente che difetta la legittimazione a ricorrere in quanto priva d’interesse legittimo e degno di protezione rispetto al giudizio di assegnazione dei valori patrimoniali confiscati.
2.4.
Nelle sue osservazioni, PC 1 afferma di essere l’unico beneficiario economico della relazione estinta con i documenti falsi che gli sono stati fatti firmare dalla ricorrente e, poi trasferiti sulla polizza da lui stipulata e, pertanto, di essere direttamente leso dal reato per cui la moglie è stata condannata e, pertanto ancora, di essere stato legittimamente riconosciuto come parte civile.
2.5. a)
L’art. 69 cpv. 1 CPP TI dispone che ogni persona danneggiata moralmente o materialmente da un reato può costituirsi parte civile nel processo.
Secondo il Tribunale federale, è da considerarsi parte lesa (ed ha facoltà di costituirsi parte civile) il titolare del bene giuridico che la norma sostanziale concretamente applicabile intende essenzialmente tutelare (DTF 120 Ia 220, consid. 3b p. 223, con rinvii). Secondo dottrina e giurisprudenza, può costituirsi parte civile solo la persona fisica o giuridica attualmente, direttamente e personalmente lesa nel suo bene giuridico (
M
ini, L’istanza di promozione dell’accusa: art. 186 CPP TI, in RtiD I-2004 p. 255-260; Rusca/Salmina/Verda, Commento del Codice di procedura penale ticinese, Lugano 1997, n. 1 ad art. 69 CPP TI e riferimenti ivi citati). Se il bene giuridico tutelato dalla legge è di natura individuale (vita e integrità personale, patrimonio, onore e libertà personale), il leso legittimato a costituirsi parte civile è colui che subisce l'illecito. In caso di violazione di norme penali che proteggono interessi collettivi, sono da considerare danneggiati e legittimati a costituirsi parte civile coloro che sono stati effettivamente lesi nei loro diritti da tali reati, sempre che il pregiudizio patito sia conseguenza diretta dell'azione delittuosa (DTF 119 Ia 342 e 118 Ia 14;
Rusca/Salmina/Verda, op. cit., n. 3 e 5 ad art. 69 CPP TI). Se la commissione di reati che proteggono beni pubblici lede solo indirettamente interessi privati, il singolo cittadino non viene di principio considerato parte lesa, poiché i suoi interessi sono rappresentati dalla magistratura penale (Schmid, Strafprozessrecht, Zurigo 2004, 4. ed., n. 509). Non è, pertanto, sufficiente un danno indiretto, quand’anche di natura patrimoniale: non possono, in particolare, costituirsi parte civile le assicurazioni chiamate a risarcire il danno patito dalla vittima, né i creditori o cessionari della vittima medesima (Schmid, op. cit., n. 505; Rusca/Salmina/Verda, op. cit., n. 4 ad art. 69 CPP TI che attribuiscono tale conseguenza non tanto all’assenza di un danno diretto, quanto al fatto che tali terzi non sono lesi personalmente; Piquerez, Traité de procédure pénale suisse, 2.ed., Zurigo 2006, n. 1027, p. 656).
Sino al dibattimento, è compito del procuratore pubblico verificare l’adempimento dei requisiti per la costituzione di parte civile. In seguito il compito spetta al giudice del merito (art. 70 cpv. 1 CPP TI).
b)
Con specifico riferimento ai diritti di natura patrimoniale, può costituirsi parte civile unicamente l’avente diritto economico dei beni direttamente oggetto di reato, ad esclusione di terzi (sentenza 9 marzo 2009 del Giudice dell’istruzione e dell’arresto, inc. n. 2009.9901, consid. 7).
In merito alla qualifica di avente diritto economico, il Tribunale federale ha già avuto modo di chiarire che per individuare il beneficiario economico di un fondo sono del tutto irrilevanti le formali costruzioni giuridiche sottostanti (DTF 125 IV 139, pag. 143; Cassani, Commentaire du droit pénale suisse, Partie spéciale, vol. 9, Art. 305ter n. 16; Trechsel
et
al.
,
Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskommentar, San Gallo 2008, Art. 305ter, n. 9; Wiprächtiger
, Basler Kommentar, Strafrecht II, 2.edizione, Basilea 2007, ad art. 305ter n. 15-16, pag. 2226
). L’avente economicamente diritto è colui che può, di fatto, disporre dei valori patrimoniali, colui a cui appartiene realmente la giacenza di una relazione bancaria o che, in ragione dei suoi rapporti con il titolare formale del conto, può impartire a quest’ultimo disposizioni su come impiegare i relativi averi (De Capitani, GwG, cap. 4, n. 31 s., in: Schmid
[H
rsg.], Kommentar Einziehung, organisiertes Verbrechen und Geldwäscherei, Bd. II, Zurigo 2002). Ancora recentemente, il TF ha avuto modo di ribadire che l’avente diritto economico è la persona fisica o giuridica che ha di fatto la possibilità di disporre dei valori patrimoniali e, dunque, è colei a cui tali valori appartengono sotto il profilo economico (DTF 17.1.2011 in 6B_501/2009 consid. 2.1.1 che cita DTF 28.5.2010 in 6B_726/2009 consid. 3.1.1).
La giurisprudenza e la dottrina hanno, poi, già avuto modo di stabilire che il reato di falsità in documenti di cui all’art. 251 cifra 1 CP - reato a protezione di un bene collettivo - può ledere interessi individuali, in particolare quando costituisca uno degli elementi di un reato contro il patrimonio (DTF 119 Ia 342; Boog
, Basler Kommentar, Strafrecht II, 2.edizione, Basilea 2007, ad art. 251 n. 5, pag. 1586
; Piquerez, op. cit., p. 329-330).
2.6.
In concreto, la conclusione del primo giudice secondo cui PC 1 è il beneficiario economico degli averi prima disponibili sul conto cifrato denominato _ aperto presso la filiale di _ del Credit Suisse e poi confluiti (come pagamento del premio unico per la polizza stipulata con la Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd, “polizza Life Portfolio International”) sulla relazione bancaria di riferimento non presta il fianco a critica alcuna.
Come correttamente evidenziato dal primo giudice nei considerandi della sentenza impugnata sopra riassunti, si evince in modo chiaro dalla documentazione agli atti (cfr. documentazione di apertura relazione Credit Suisse Life Bermuda Ltd; fra questa, in particolare, la descrizione del fondo interno e della gestione patrimoniale) che, ai sensi del contratto stipulato fra PC 1 e la Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd, allo stipulante, cioè ad PC 1, era riservata la facoltà di :
-
definire all’inizio il tipo di investimento dei fondi, cioè di quanto versato a titolo di premio assicurativo (“
la Credit Suisse Life investe il premio assicurativo in base al tipo d’investimento convenuto con il cliente”
)
-
modificare in ogni momento il tipo di investimento dei fondi, (“
di richiedere in qualsiasi momento che la Credit Suisse Life modifichi il tipo d’investimento
”)
-
riscattare in ogni momento la polizza (la possibilità di riscatto della polizza è prevista più volte dalla documentazione assicurativa; cfr. proposta “Life Portfolio International”, pag. 3, 5; descrizione del fondo interno & della gestione patrimoniale, pag. 8, 9). Va, al proposito, precisato che, in caso di riscatto totale non è prevista contrattualmente alcuna penale a carico dello stipulante, versandogli la Credit Suisse Life il controvalore del fondo interno al netto di una commissione dello 0.25% del medesimo, ritenuto che la commissione ammonta al minimo a 100 euro e al massimo a 2'000.- euro (cfr. proposta “Life Portfolio International”, pag. 3).
Non ha da essere argomentato molto per spiegare che queste sono le facoltà tipiche di un avente diritto ai sensi della giurisprudenza riportata al considerando precedente e che è del tutto corretta la conclusione del primo giudice secondo cui, con l’operazione del luglio 2006, per PC 1 non è cambiato sostanzialmente nulla. Egli è sempre rimasto titolare del diritto alla restituzione del denaro conferito (prima alla banca e, poi, alla società da essa controllata) e degli eventuali suoi frutti. Semplicemente, con l’operazione del luglio 2006, egli ha nascosto meglio i suoi soldi (cfr., peraltro, Comunicazioni FINMA 9 (2010) e FINMA 18 (2010) in cui l’autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari spiega, oltre alle caratteristiche del contratto assicurativo, che gli insurance wrapper sono prodotti che, in termini di rischi relativi al riciclaggio di denaro, non si distinguono quasi per nulla dai prodotti di gestione patrimoniale tradizionale presso una banca o un gestore patrimoniale esterno).
Ininfluente, per la determinazione dell’avente diritto economico, è la circostanza che, secondo quanto indicato nel profilo cliente, la “
Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd è l’avente diritto economico dei valori patrimoniali
” oggetto della polizza (profilo cliente Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd), non essendo, come detto, determinanti per l’individuazione del beneficiario economico di un fondo le formali costruzioni giuridiche che lo riguardano.
Vani sono, poi, gli sforzi della ricorrente nel sostenere che l’assenza di legittimazione di PC 1 si deduce dall’argomentazione del primo giudice secondo cui “
l’PC 1 ha cessato di essere titolare del conto Predicatore, e con ciò avente diritto economico dei fondi ivi accreditati, ovvero titolare nei confronti della banca del credito vertente sulla loro restituzione (mentre che la proprietà del denaro era passata alla banca
)”.
In realtà - al di là delle imprecisioni - con ciò il primo giudice non ha affatto asserito che, al momento della commissione del reato, PC 1 non era avente diritto economico dei valori patrimoniali oggetto della polizza assicurativa. Al contrario. Il primo giudice si è limitato a precisare che, con la modifica del luglio 2006, da titolare di un credito nei confronti della banca tendente alla restituzione dei fondi depositati sul conto Predicatore (che è stato estinto), PC 1 è divenuto titolare dei diritti incorporati nella polizza assicurativa, e meglio titolare dei diritti previsti in suo favore dal contratto di assicurazione (di cui abbiamo detto sopra) nei confronti della
Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd
, e meglio ancora, in parole povere, è divenuto titolare del diritto di chiedere, come stipulante, alla società estera controllata dalla banca il riscatto totale o parziale del valore della polizza assicurativa. Ciò che, concretamente, significa che per PC 1 la situazione non è mutata: egli poteva - sia prima che dopo il luglio 2006 - chiedere in ogni momento di riavere i suoi soldi e quanto essi avevano eventualmente fruttato.
L’eccezione di legittimazione di parte civile nei confronti dell’PC 1 non merita pertanto tutela, avendo quest’ultimo subito un danno nei suoi diritti risultato conseguenza immediata della falsità in documenti imputabile alla ricorrente ed essendo egli avente diritto economico degli averi oggetto della truffa.
Su questo punto il ricorso va, pertanto, respinto.
3.
La ricorrente sostiene, poi, che, ordinando la restituzione ad PC 1 degli averi confiscati, il giudice di prime cure ha erroneamente applicato l’art. 270 cpv. 1 CPP TI poiché avrebbe dovuto rinviare le parti al foro civile in applicazione l’art. 271 lett. c CPP TI. Essendo la Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd la vera danneggiata - argomenta l’insorgente - il giudice non poteva ordinare la restituzione dei valori confiscati ad PC 1 (ricorso, pto 6, pag. 6-7).
3.1.
Giusta l’art. 266 CPP TI nella sentenza di condanna la Corte d’assise, ad istanza della parte civile, decide contemporaneamente sulle pretese di diritto civile. Se la Corte non stima sufficienti i dati del processo per tale decisione, rimette la parte civile al foro civile (art. 267 cpv. 1 CPP TI).
Ai sensi dell’
art. 70 CP, il giudice ordina la confisca dei valori patrimoniali che costituiscono il prodotto di un reato o erano destinati a determinare o a ricompensare l’autore di un reato, a meno che debbano essere restituiti alla persona lesa allo scopo di ripristinare la situazione legale (cpv. 1). Sono considerati valori patrimoniali giusta detta norma tutti i vantaggi economici illeciti con un proprio determinabile valore economico. Pertanto, sono tali non solo le cose materiali, come biglietti di banca, le pietre preziose ed i beni immobili, ma anche i diritti reali limitati, i crediti, le cartevalori e di diritti immateriali. Essi devono provenire dal reato del quale sono il risultato: deve, dunque, sussistere, tra il reato e l’ottenimento di questi valori, un nesso di causalità.
Anche i valori sostitutivi, propri e impropri, sottostanno alla confisca giusta l’art. 70 cpv. 1 CP. I beni sostitutivi impropri (unechte Surrogate) possono essere confiscati solo in presenza di una traccia cartacea (paper trail) riconducibile all’originario provento di reato. I beni sostitutivi propri (echte Surrogate) possono invece essere confiscati solo se è dimostrato che essi hanno sostituito il bene originale (DTF 126 I 97, considerandi 3 c) bb) e cc); Trechsel
et
al.
,
Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskommentar, San Gallo 2008, Art. 70, n. 2;
Schmid
[H
rsg.], Kommentar Einziehung, organisiertes Verbrechen und Geldwäscherei, Bd. I, 2. ed., Zurigo/Basilea/ Ginevra 2007, Art. 70/72, n. 17).
Il valore patrimoniale da confiscare deve essere facilmente identificabile nel patrimonio dell’autore, rispettivamente del terzo beneficiario (DTF 126 I 97, considerando 3 c) cc)).
In conformità all’art. 73 CP, quanto confiscato viene assegnato dal giudice al danneggiato se quest’ultimo, in seguito a un crimine o a un delitto, patisce un danno non coperto da un’assicurazione e si deve presumere che il danno non gli sarà risarcito dall’autore.
3.2.
Manifesta è la fondatezza della confisca ordinata dal primo giudice, essendo incontestato che quanto conferito dalla condannata alla compagnia di assicurazione è provento del suo reato.
Palese è, inoltre, la liquidità e la certezza delle pretese di PC 1. Essendo incontestato che quanto, prima, depositato sul conto Predicatore era di esclusiva sua pertinenza ed essendo accertato che egli è rimasto beneficiario economico dei valori oggetto della polizza assicurativa, non può essere posto in dubbio che egli ha subito, a causa del reato di cui la moglie è stata riconosciuta autrice colpevole, un danno materiale pari all’ammontare dei valori oggetto della polizza assicurativa da lui, a suo tempo, stipulata. Trattasi, infatti, dei medesimi averi fatti confluire dalla moglie in modo truffaldino in un’identica struttura giuridica, senza mutare nella sostanza la natura dell’investimento. Il valore della malversazione della condannata - e di riflesso il danno del marito - ha potuto, pertanto, essere determinato dalla prima Corte senza difficoltà e, in ogni caso, senza incorrere in arbitrio, già sulla base delle risultanze dell’istruttoria penale.
Alla luce di quanto precede è, quindi, del tutto condivisibile la decisione del primo giudice di attribuire alla parte civile PC 1, giusta l’art. 73 CP, gli averi di cui alla relazione n. _ intestata alla Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd.
Ne discende che anche su questo punto il ricorso deve essere disatteso.
Dovendo il ricorso essere respinto nel merito, può rimanere aperta la questione dell’effettiva legittimazione della ricorrente ad impugnare il dispositivo 4. della sentenza del giudice di prime cure.
4.
Gli oneri processuali del presente giudizio seguono la soccombenza e sono pertanto posti a carico della ricorrente che rifonderà a PC 1 fr. 300.- per ripetibili (art. 15 CPP TI combinato con l’art. 9 cpv. 1 CPP TI). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
d23f54cf-6095-55d2-971f-2aeb3c2e64ac | in fatto:
A.
Con sentenza del 5 giugno 2008 la Corte delle assise criminali ha condannato:
·
RI 1 per ripetuta appropriazione indebita, in parte aggravata, per un importo complessivo di fr. 37'083'656.89 (di cui fr. 1'269'135.90 nella sua funzione di tutore e fr. 35'814'520.99 in quella di procuratore) ai danni di PC 1 oltre che per falsità in documenti per avere, in qualità di tutore, omesso di iscrivere e di far iscrivere nell’inventario iniziale ex art. 398 CC beni di pertinenza del tutelato per un ammontare di circa fr. 20'000'000.–,
ed
·
RI 2 per complicità in ripetuta appropriazione indebita per avere aiutato RI 1 procedendo materialmente all’esecuzione dei trasferimenti dei fondi di PC 1, dapprima, dalla relazione _ alla relazione _, poi, dalla relazione _ alla relazione _ ed, infine, dalla relazione nominativa di PC 1 a quella nominativa di RI 1, per un importo complessivo di fr. 31'467'211.04, oltre che per complicità in falsità in documenti per avere omesso intenzionalmente di riportare nell’inventario iniziale per la tutela istituita a favore di PC 1 beni di sua pertinenza depositati presso la PC 2 e presso _ per un importo complessivo di circa fr. 20'000'000.00.
In applicazione della pena, la Corte di assise ha condannato RI 1 alla pena detentiva di 3 anni ed RI 2 alla pena pecuniaria di fr. 84'000.- corrispondenti a 240 aliquote giornaliere di fr. 350.- cadauna.
Computato, per entrambi i condannati, il carcere preventivo sofferto, la Corte ha sospeso condizionalmente la pena privativa della libertà inflitta a RI 1 in ragione di 18 mesi per un periodo di prova di 3 anni, ed ha sospeso condizionalmente l’intera pena pecuniaria inflitta a RI 2 per un periodo di prova di 2 anni.
La Corte ha, infine, ammesso il principio del risarcimento del danno alla parte civile PC 1 e l’ha rinviata al foro civile competente per far valere le sue pretese, riconoscendole, nel contempo, un risarcimento parziale equivalente ai valori posti sotto sequestro che le sono stati assegnati, previa confisca e deduzione della tassa di giustizia e delle spese.
B.
In estrema sintesi, i fatti alla base del giudizio della Corte delle assise sono i seguenti.
a)
_, vedova di _ dal 1981 e madre di PC 1 nato il 7 gennaio 1982, ha conosciuto, a cavallo degli anni 1992/1993, RI 1 con il quale iniziò una relazione sentimentale. I due decisero ben presto di vivere sotto lo stesso tetto. RI 1 si trasferì nella casa a schiera a Losone che _ aveva preso in affitto e in cui la donna abitava con il figlio.
Nel 1996, _ e RI 1 traslocarono a _, in una casa che la donna aveva fatto costruire su una particella di proprietà della CE fu _.
Il 2 febbraio 1996, il nonno paterno di _i, _, uomo conosciuto nella regione quale titolare dell’omonimo albergo di _, venne a mancare, lasciando eredi, oltre al figlio _, l’abiatico _.
Il ragazzo, allora quattordicenne, ereditò dal nonno un cospicuo capitale che venne ripartito dalla madre su tre relazioni bancarie: due in PC 2 a _ ed una in _ (conto _ ).
Quello stesso anno _ scoprì di avere un tumore maligno.
La donna morì il 9 febbraio 1998.
_, rimasto orfano all’età di 16 anni, ereditò dalla madre gli averi che quest’ultima aveva depositato, nel 1997, in PC 2 sui conti _ e _.
Nel mese di febbraio 1998, il suo patrimonio ammontava complessivamente a fr. 38'068'439,20.
Di questo patrimonio solo una parte era conosciuta dalle autorità fiscali: i conti _, _ e _ - che al 9.2.1998 presentavano un saldo di complessivi fr. 19'838'884,55 (fr. 11'281'794.93 su _ e _ e fr. 8'557'089.62 su _) - non erano, infatti, mai stati dichiarati all’erario.
La gestione dei fondi _ depositati in PC 2 era, allora, affidata al vice-direttore _. RI 2 era il consulente bancario (che si occupava dei rapporti con il cliente).
RI 1 - al quale _ aveva conferito nel 1997 una procura generale sul conto _ - era conosciuto in PC 2 sia da RI 2, che gli fu presentato dalla donna in occasione della concessione della citata procura generale, sia da _, che conobbe dopo la morte di _ grazie a _, all’epoca candidato alla successione di _ che occupò la carica di direttore della filiale di _ di PC 2 sino al 31 dicembre 1998.
b)
Dopo il decesso di _, la Delegazione tutoria di _ (in seguito DT), con risoluzione 20 febbraio 1998, nominò RI 1 tutore di PC 1 e lo incaricò di presentare l’inventario dei beni del ragazzo. La DT non stabilì un’indennità di tutore, poiché RI 1 disse che a lui bastava il fatto di poter rimanere a vivere gratuitamente nella casa del pupillo.
Nel mese di marzo 1998, RI 1 in rappresentanza di PC 1, conferì a PC 2 un mandato di gestione del patrimonio del ragazzo. Si trattava di un mandato “volto alla crescita”.
Il 3 aprile 1998, vi fu in PC 2 , un incontro fra RI 2, RI 1 e _ che era stato designato dalla DT quale delegato all’inventario. A quest’ultimo, in quell’occasione, venne consegnata la documentazione per l’allestimento dell’inventario dei beni del pupillo che faceva stato di un patrimonio di soli fr. 19'378'992.70.
RI 1 omise di segnalare alla DT l’esistenza di quei conti che non erano mai stati dichiarati al fisco.
L’inventario, così come presentato dal tutore, venne approvato dalla DT con risoluzione 18 maggio 1998.
Contestualmente all’approvazione dell’inventario, vista l’entità del patrimonio del pupillo e la necessità di assicurarne una gestione conservativa, la DT incaricò il fiduciario _ di verificare e controllare la gestione dei beni. _, al termine della sua verifica, propose alla DT, con un rapporto datato 26 giugno 1998, un riordino del portafoglio di PC 1, di cui criticava la composizione ed il tipo di gestione.
Preso atto delle proposte di _, malgrado l’opposizione formulata da RI 1, la DT, avuto il parere favorevole dell’Autorità di vigilanza sulle tutele (in seguito: l’AVT), decise, con risoluzione 7 ottobre 1998, di affiancare a RI 1 _ quale secondo tutore con il compito e la responsabilità di gestire il patrimonio del pupillo. RI 1 i cui compiti erano stati limitati dalla DT a quello educativo e di rappresentanza del pupillo, impugnò e fece impugnare ad PC 1 la citata risoluzione.
Il 17 maggio 1999, l’AVT accolse parzialmente i ricorsi del tutore e del pupillo, affidando a _ – ex direttore di PC 2 , proposto proprio da RI 1 in sostituzione di _ - il compito e la responsabilità di gestire il patrimonio del pupillo.
In realtà, _ non assunse un ruolo attivo nelle decisioni riguardanti la gestione del patrimonio di PC 1 ma si limitò a supervisionare i risultati del mandato di gestione che era stato a suo tempo conferito a PC 2 da RI 1, chiedendo di tanto in tanto dei ragguagli ai suoi ex colleghi.
c)
Nel periodo in cui rivestì la funzione di tutore di PC 1 - e più precisamente dal 12 marzo 1998 al 6 gennaio 2000 - RI 1 si appropriò, in più riprese, della somma di complessivi fr. 1'269'135.90 a debito dei conti di pertinenza del pupillo, destinandoli a vantaggio proprio e di terzi.
d)
Il 7 gennaio 2000 PC 1 raggiunse la maggiore età.
Con risoluzione 21 settembre 2000, la DT accertò la decadenza della tutela al momento del raggiungimento della maggiore età di PC 1.
Contestualmente, approvò i rendiconti di _ e di RI 1.
L’ammontare del patrimonio del ragazzo, al netto delle malversazioni sin lì operate da RI 1 ammontava, al 10 gennaio 2000, complessivamente a fr. 45'634'690.12.
e)
Nei giorni immediatamente successivi al 7 gennaio 2000, PC 1 – con procura che verrà postdatata al 10 gennaio 2000 – diede mandato a RI 1 di gestire il suo patrimonio. In quell’occasione, il ragazzo firmò anche l’ordine di trasferimento in PC 2 degli averi depositati sul conto _ presso l’_ di _ .
f)
A partire dalla maggiore età del ragazzo, tra PC 1 e RI 1 – che, nel frattempo, aveva allacciato una relazione con _ che aveva conosciuto alla _ dove la donna si esibiva come cantante – sorsero importanti incomprensioni e divergenze che ne compromisero vieppiù i rapporti.
RI 1 e PC 1 litigavano spesso. Il ragazzo – che aveva iniziato anche a far uso di sostanze stupefacenti – viveva la convivenza con RI 1 come un’imposizione.
PC 1 ha affermato di avere iniziato a fare uso di droghe a causa delle difficoltà che aveva “in casa”, intendendo con ciò a causa delle difficoltà che aveva con RI 1. Egli ha precisato che fumava marijuana perché era “
molto a disagio con RI 1
”
e soffriva per la perdita della madre. Ha aggiunto, poi, che “
ora, che non devo più convivere con quella persona, non ho più fumato nulla, proprio perché da quando se ne è andato da casa mia mi sento bene
.”
Il consumo di stupefacenti provocò al ragazzo allucinazioni e manie di persecuzione che furono causa di ripetuti rimproveri da parte di RI 1. I rapporti fra i due continuarono ad essere turbolenti tanto che PC 1, ad un certo punto, se ne andò da casa rifugiandosi presso uno zio residente a _ .
Nel settembre di quello stesso anno, RI 1 indirizzò il ragazzo alla dott. _ che, il 24 settembre 2000, lo fece ricoverare presso la clinica _ a _. Il ricovero non fu coatto, ma il ragazzo lo visse come un’imposizione e reagì non assumendo le medicine che gli venivano consegnate e rifiutandosi di far rientro in clinica dopo il primo congedo che gli venne concesso. In seguito, PC 1 si trasferì a _ per seguire un corso per tecnico del suono che, però, interruppe nei primi mesi del 2001 facendo rientro a casa.
I rapporti con RI 1 non migliorarono.
La Corte ha accertato che la convivenza si faceva sempre più difficile tanto che PC 1 cercava di stare fuori di casa il più possibile
“per evitare di stare con lui”
(cfr. sentenza, pag. 77, consid. VI. 10.).
g)
In questo periodo, RI 1 decise di comprare un terreno a Luino su cui edificare una casa per sé e la fidanzata: il terreno è stato acquistato il 12 settembre 2001 con i soldi di PC 1 ed è stato intestato alla fidanzata di RI 1. Il progetto di costruire una casa non venne, però, realizzato.
h)
Nel frattempo, RI 1, agendo in virtù della procura generale conferitagli a suo tempo da PC 1, amministrava ma, soprattutto, disponeva a suo piacimento del patrimonio del ragazzo.
Il 10 gennaio 2000, RI 1 aprì in PC 2 , a nome di PC 1, il conto _ sul quale fece confluire gli averi del ragazzo che non erano stati dichiarati al fisco per un totale di fr. 23'505'752,25 (così composti: fr. 935'020.– pari al saldo del conto _ in PC 2 , titoli per un valore di fr. 12'839'681 depositati sul conto deposito titoli _ in PC 2 e fr 9'731'051.25 pari al saldo della relazione _ in _ ).
Successivamente, il 9 marzo 2000, RI 1 ottenne dalla banca una linea di credito di fr. 3'000'000.– a favore del conto _, di cui era il beneficiario economico, grazie alla messa a pegno dei titoli depositati sul conto _.
PC 1 sottoscrisse - perché così gli fu detto di fare - la relativa autorizzazione anche se, così come ammesso dallo stesso RI 1,
“il giovane non era in grado di capire”
(cfr. sentenza, p. 65, consid VI. 3.).
Dal 12 gennaio 2000 al 3 luglio 2001 RI 1, così come aveva fatto in precedenza, continuò a servirsi a piene mani e senza remore degli averi del ragazzo destinando i suoi numerosi prelievi al finanziamento della sua bella vita.
In questo periodo, prelevò dal conto _ e dal conto tutela (rubrica dei conti intestati a PC 1 presso PC 2, dichiarati al fisco, che RI 1 aveva aperto dopo essere stato nominato tutore e su cui faceva confluire i soldi che potevano servire per le necessità quotidiane), in 70 distinte occasioni, l’importo di complessivi fr. 2'496'110.67.–.
i)
Il 28 maggio 2001, RI 1 ordinò l’estinzione del conto _ e il trasferimento di tutti i titoli e divise per un valore complessivo di oltre 21 milioni e mezzo di franchi sul conto _.
La Banca – e per essa, _ – pretese, prima di eseguire l’operazione ordinata da RI 1, la ratifica di PC 1 (cfr. sentenza, pag. 82, VII, 2).
L’operazione venne eseguita il 30 maggio 2001
La Corte, a proposito di quest’operazione – che non è contemplata nell’atto di accusa – ha accertato che PC 1, pur avendo firmato l’ordine di trasferimento, non ne aveva compreso il significato. Lo stesso RI 1, infatti, aveva ammesso che, al momento di sottoporre a PC 1 l’ordine di trasferimento per la necessaria autorizzazione, si limitò a dire al ragazzo che occorreva firmare un documento per spostare dei soldi da un conto ad un altro sempre nella stessa banca. RI 1 ha, poi, riconosciuto che PC 1 firmò tale ordine anche se “
probabilmente non aveva capito cosa realmente firmasse e cosa realmente sarebbe accaduto dopo la sua firma
”.
PC 1, dunque, per ammissione dello stesso RI 1, sottoscrisse l’ordine di trasferimento senza sapere che, così facendo, autorizzava il trasferimento dei suoi fondi su un conto di cui RI 1 era il beneficiario economico.
l)
Il 7 giugno 2001, RI 1 aprì, sempre inPC 2 , un'altra relazione, il conto _, di cui figurava come avente diritto economico, e su cui PC 1 – contrariamente a quanto era stato disposto per la relazione _ - non aveva procura.
RI 1 ha dichiarato che lo scopo dell’apertura del conto _ – sul quale avrebbe, da lì a poco, trasferito tutti gli averi presenti sul conto _ - era
“quello di completare nei dettagli il trapasso nella mia disponibilità togliendola completamente a PC 1”
.
L’8 giugno 2001 tutti gli averi depositati su _ (compresi i titoli) – il cui valore ammontava a fr. 26'800'063.85 – vennero trasferiti sul conto _.
m)
Non ancora soddisfatto, sette giorni dopo, il 15 giugno 2001, _ prelevò in contanti fr. 1'500'000.- dal conto _ e fr. 427'680 dal conto _ , conti entrambi intestati a PC 1.
RI 1 destinò questi soldi, principalmente, all’acquisto di un attico a _ nel quale voleva trasferirsi, lasciando definitivamente la casa di _.
Per finire, RI 1 fece, poi, trasferire dei titoli per un valore di fr. 4'486'453.20 dalla relazione _ di PC 1 (aperta in PC 2 l’11.12.1995 e, quindi, dichiarata alle autorità fiscali) sulla sua relazione nominale 1324832.
Per questo trasferimento di titoli, i funzionari di banca non hanno richiesto – contrariamente a quanto fecero per il passaggio dal conto _ al conto _ – alcuna autorizzazione di PC 1.
n)
Tra la fine del mese di giugno e l’inizio del mese di luglio 2001, RI 1 lasciò la casa di _ per trasferirsi provvisoriamente in una pensione ad _, lasciando PC 1 (così come riferito da RI 2) senza soldi e senza un suo recapito.
o)
Il 3 luglio 2001 _ e RI 2 scoprirono che PC 1 – malgrado avesse firmato la documentazione bancaria che gli era stata sottoposta da RI 1 – non si era reso conto che, nell’arco di un mese, l’uomo lo aveva spogliato di una gran parte dei suoi averi, trapassandoli sui suoi conti.
La Banca ordinò, quindi, un blocco interno del conto _.
Il 4 luglio 2001, RI 2 andò da PC 1 ed illustrò al ragazzo le operazioni più importanti eseguite da RI 1: in particolare, gli parlò dell’acquisto dell’appartamento di _ e del trapasso dei fondi dal conto _ al conto _.
RI 2 lo informò, inoltre, che, durante il periodo della tutela, RI 1 aveva prelevato dai suoi conti fr. 27'000.– ogni mese contro i fr. 6/7'000.– stimati dal ragazzo.
Quello stesso giorno, PC 1 si recò in banca, insieme a RI 2, in particolare per revocare la procura generale a suo tempo conferita a RI 1.
Il 9 luglio 2001 si incontrarono in PC 2 _, _, RI 2, PC 1 e RI 1: il colloquio era finalizzato ad ottenere la restituzione di quanto RI 1 aveva depositato sul conto _ ed al raggiungimento di un accordo che tenesse conto – così come riferito da RI 2 – “
degli interessi di tutti”.
In un primo momento – in assenza di RI 1 - _ propose a PC 1 di lasciare all’ex-tutore un milione di franchi ed il diritto di abitare nell’appartamento di _ per 5 anni in cambio della retrocessione di tutti gli averi trapassati su _ e sulla relazione nominale. _ disse, inoltre, al ragazzo che non sarebbe stato possibile recuperare
“nell’immediato”
i soldi prelevati da RI 1 negli anni precedenti. A questo riguardo, gli illustrò le due possibili vie da percorrere: la via extragiudiziale che presupponeva il raggiungimento di un accordo e la via giudiziaria che comportava di dover rendere nota alle autorità la parte del suo patrimonio che non era mai stato dichiarata al fisco.
Poco dopo, PC 1 parlò con RI 1 a quattr’occhi: in quel frangente RI 1 cercò di ottenere dal ragazzo una somma maggiore rispetto a quella propostagli da _, ma senza successo poiché il ragazzo rimase irremovibile.
Così, RI 1 accettò di sottoscrivere gli ordini di retrocessione degli averi trapassati su _ in cambio di una liquidazione di fr. 1'000'000.- e del diritto di abitare nell’appartamento di _ per 5 anni.
L’accordo venne successivamente modificato: il 16 agosto 2001 RI 1 “vendette” a PC 1 l’appartamento di _ ottenendo, così, una buona uscita complessiva di fr. 1'150'000.–.
p)
All’inizio di settembre 2001, PC 1 (che, nel corso delle succitate trattative, non aveva fatto capo ad un avvocato ma aveva lasciato a _ l’incombenza di trattare con il patrocinatore di RI 1) si rivolse, su consiglio di un amico, all’avv. _.
Questi consigliò al ragazzo di autodenunciarsi alle autorità fiscali. Così, vi fu un nuovo incontro in PC 2.
Questa volta, PC 1, assistito dall’avv. _ e dall’amico, incontrò soltanto il direttore _. Dopo che questi illustrò loro nuovamente e a grandi linee la situazione, l’avv. _ spiegò che vi era urgenza di recuperare la documentazione bancaria per poter regolarizzare la posizione di PC 1 con il fisco.
Il 3 ottobre 2001 venne presentata l’autodenuncia alle autorità fiscali, nonostante PC 2 non avesse ancora messo a disposizione dei rappresentanti di PC 1 tutta la documentazione necessaria.
Infine, il 18 ottobre 2001, PC 1 sporse denuncia penale nei confronti di RI 1 e di ignoti corresponsabili per ogni titolo di reato desumibile dalla fattispecie denunciata, lamentando, tra l’altro, una mancata collaborazione da parte di PC 2 nell’accertamento dei fatti.
La denuncia ha dato avvio al procedimento penale che ha portato alla sentenza di cui s’è detto al considerando precedente.
C.
Contro la sentenza della Corte delle assise criminali di _ Italo RI 1 ha introdotto, il 6 giugno 2008, una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta del gravame, presentata il 21 luglio successivo, egli chiede, in via principale, il proscioglimento dai reati di appropriazione indebita, in parte aggravata e di falsità in documenti, con il conseguente annullamento del dispositivo di riconoscimento del diritto al risarcimento del danno a favore della parte civile ed il dissequestro delle relazioni bancarie intestate a RI 1 e di sua spettanza e del conto 1471203 del Ministero pubblico presso PC 2.
In via subordinata, RI 1 chiede che la sentenza venga annullata.
A sostegno delle sue richieste il ricorrente fa valere vizi essenziali di procedura, arbitrio nell'accertamento dei fatti e violazioni del diritto federale.
D.
Anche RI 2 è insorto contro la decisione della Corte delle assise criminali con dichiarazione di ricorso di data 9 giugno 2008. Nella motivazione scritta del gravame, presentata il 4 agosto successivo, sostenendo come la sentenza sia viziata da errori essenziali di procedura, da arbitrio nell'accertamento dei fatti e da violazioni del diritto federale, egli chiede, in via principale, il proscioglimento dai reati di complicità in ripetuta appropriazione indebita e di complicità in falsità in documenti, con il conseguente annullamento del dispositivo di riconoscimento del diritto al risarcimento del danno a favore della PC.
In via subordinata, RI 2 chiede l’annullamento della condanna di complicità in falsità in documenti e del dispositivo della pena pronunciata a suo carico, postulandone la riforma.
In via ancor più subordinata, chiede che la sentenza venga annullata con conseguente rinvio dell’incarto ad altra Corte per un nuovo giudizio.
E.
La procuratrice pubblica, con osservazioni 17 settembre 2008, ha postulato la reiezione di entrambi i ricorsi.
La parte civile, con osservazioni 19 settembre 2008, ha chiesto che i ricorsi presentati da RI 1 e da RI 2 vengano respinti. | Considerando
in diritto:
Sul ricorso di RI 1
1.
Il ricorrente lamenta, anzitutto, un vizio essenziale di procedura (art. 288 lett. b CPP) nella misura in cui fa carico alla Corte di avere eluso l’art. 250 CPP in relazione alle accuse di estorsione e di coazione ai danni di PC 1 prospettate dal Presidente della Corte durante il dibattimento ed oggetto di opposizione, ai sensi dell’art. 250 cpv. 3 CPP.
In particolare, il rimprovero mosso alla Corte è quello di avere posto alla base del giudizio sulla commisurazione della pena di RI 1 circostanze di fatto non contemplate nell’atto di accusa e alla base delle accuse di estorsione e coazione, prospettate in aula.
A mente del ricorrente, la Corte sarebbe così incorsa in una manifesta violazione dell’art. 250 CPP.
Di diversa opinione sono la PP e la PC che, nelle loro rispettive osservazioni, hanno giudicato l’operato della Corte conforme all’art. 250 CPP.
a)
Nel corso del dibattimento, e più precisamente il 2 luglio 2008, il presidente della Corte ha consegnato alle parti un documento dibattimentale in cui, con richiamo all’art 250 CPP, venivano formulate delle imputazioni definite “
subordinate
” – in realtà, aggiuntive – relative a circostanze di fatto emerse al dibattimento nonché delle precisazioni delle accuse contenute nell’atto di accusa (verb. dib. p. 85 e doc. dib. 10).
Per quanto attiene alle imputazioni relative a circostanze di fatto emerse al dibattimento, il presidente della Corte ha prospettato, a carico di RI 1, i reati di coazione e di estorsione.
A mente del presidente della Corte, RI 1 si era reso autore colpevole di estorsione a danno di PC 1 per avere, nel periodo tra il 9 luglio ed il 16 agosto 2001, tentato di ottenere il versamento di almeno fr. 1'500'000.-, rispettivamente ottenuto il versamento della somma di fr. 1’150'000.- quale liquidazione dei rapporti di dare e avere con PC 1, minacciandolo che, in caso contrario, sarebbe andato incontro a ben più gravi conseguenze finanziarie e personali poiché circa il 50% del suo patrimonio, ossia grossomodo fr. 20'000'000.-, non era dichiarato al fisco.
Per quanto attiene, invece, all’imputazione di coazione, il presidente della Corte ha intravisto un comportamento illecito nell’agire di RI 1, in particolare “
nell’avere,
nel periodo dal 9 luglio al 18 ottobre 2001, costretto PC 1 ad accettare ed a perfezionare un accordo di liquidazione dei rapporti di dare e avere che prevedeva un risarcimento solo parziale del danno complessivo ammontante a ca. CHF 5'000'000.- cagionato da RI 1 a PC 1, mediante la restituzione degli averi ancora reperibili presso PC 2 e l'appartamento di
_
acquistato da RI 1 con gli averi di PC 1, in cambio del versamento da parte di PC 1 a RI 1 dell'importo di CHF 1'150'000.- e della rinuncia a presentare una querela penale nei confronti di RI 1 per le malversazioni commesse a suo danno, minacciandolo che, in caso contrario, sarebbe andato incontro a ben più gravi conseguenze finanziarie e personali poiché circa il 50% del suo patrimonio, ossia grossomodo CHF 20'000'000.- non era dichiarato al fisco
” (doc dib 10).
RI 1 si è opposto alle succitate imputazioni aggiuntive (cfr. verb. dib pag 90).
Il presidente della Corte, a fronte dell’opposizione della difesa, ha proseguito l’istruttoria dibattimentale, rinunciando ad ordinare il rimando del dibattimento per la presentazione di un nuovo atto di accusa ai sensi dell’art. 250 cpv. 2 e 4 CPP.
b)
Nella sentenza 5 giugno 2008, la Corte, a questo proposito, ha rilevato quanto segue:
“
Quo
alle accuse di estorsione rispettivamente coazione di cui al doc dib 10 (N. 1.1. e 1.2) la Corte ha preso atto delle opposizioni delle Difese ai sensi dell’art 250 CPP. Trattandosi di fatti assolutamente estranei a quelli già indicati nell’AA e nelle relative puntualizzazioni, non ha potuto, giocoforza, giudicare gli accusati anche per queste ipotesi di reato. I fatti, sia che sia, sono stati valutati nel giudizio globale sulla pena.”
(sentenza, pag 127, consid XIII. 1.4.)
c)
Ai sensi dell’art. 250 CPP, se dai dibattimenti risulta che il fatto riveste un carattere giuridico più grave di quello contemplato nell’atto di accusa, su istanza del procuratore pubblico ed anche d’ufficio, la Corte deve ordinare un rimando del dibattimento, perché si faccia luogo alla presentazione di un nuovo atto d’accusa (cpv. 2).
Non si fa, invece, luogo al rimando se la nuova imputazione non esorbita dalla competenza della Corte adita e se, in pari tempo, l’accusato, posto in grado, prima della discussione, di difendersi dall’imputazione più grave, rinuncia al rimando (cpv. 3).
Lo stesso avviene quando, nel corso del dibattimento, l’accusato risulta colpevole di altro reato non contemplato nell’atto di accusa (cpv. 4).
In occasione dell’ultima revisione totale del codice di procedura penale, è stata mantenuto, nonostante una proposta di modifica contraria, il vincolo della Corte sulla questione del rinvio del dibattimento alla scelta dell’accusato: il legislatore ha giudicato prioritario, rispetto ad ogni altro tipo di valutazione, garantire all’imputato la possibilità di rivedere e strutturare la propria difesa, proponendo ad esempio nuovi mezzi di prova, qualora l’imputazione formulata a suo carico si aggravasse durante il dibattimento (cfr. rapporto sul messaggio 11 marzo 1987 e sul messaggio aggiuntivo bis 9 luglio 1992 concernenti la revisione totale del codice di procedura penale del 10 luglio 1941). Questo, in particolare, in considerazione del principio accusatorio che regge la procedura penale e in applicazione del quale l’atto di accusa assume una doppia funzione: da un lato circoscrive l’oggetto del processo e del giudizio, dall’altro garantisce i diritti della difesa, in modo che l’imputato possa adeguatamente far valere le sue ragioni (DTF 126 I 19 consid. 2a pag. 21 con rif., 120 IV 348 consid. 2b pag. 353, 116 Ia 455 consid. cc pag. 458, 103 Ia 6 consid.
1b pag. 6;
H
auser/Schweri/Hartmann
, Schweizerisches Strafprozess- recht, 6. ediz., Basilea/Ginevra/Monaco 2005, pag. 223 s., n. 6 ss. e pag. 225 n. 8;
Georges Greiner
, Akkusationsprinzip und Wirtschaftstrafsachen, in: ZStrR 2005, p. 98 ss., in particolare pag. 101–107
).
Il principio accusatorio – come il principio dell’immutabilità, che tutela l’identità tra atto di accusa e oggetto del giudizio – è disciplinato dal diritto cantonale (DTF 122 V 71 consid. 4a),
nel Cantone Ticino dagli art. 198 e segg. CPP e segnatamente dall'art. 200 CPP per quanto riguarda il contenuto dell'atto di accusa,
ma le garanzie minime sgorgano dal diritto federale (in particolare dal diritto di essere sentito: DTF 126 I 19 consid. 2a pag. 21, 116 Ia 455 consid. c pag. 458). Se è vero che l’identità tra l’atto di accusa e l’oggetto del giudizio non dev’essere spinta all’accesso, fino a esigere una letterale corrispondenza terminologica (sentenza CCRP del 24 agosto 2001 in re H.G., consid. 3c; sentenza CCRP del 22 dicembre 1992 in re B. e P., consid. 2d con riferimento a Rep. 1985 pag. 199; sentenza del Tribunale federale 20 febbraio 1998 in re A. P., consid. 2a/bb), è anche soprattutto vero che il principio accusatorio è leso quando il giudice si fonda su una fattispecie diversa da quella che figura nell’atto di accusa, senza che l’imputato abbia avuto la possibilità di esprimersi sull’atto di accusa adeguatamente e tempestivamente completato o modificato (DTF 126 Ia 19 consid. 2c e d p. 22 ss. con rif., 116 Ia 455 consid. cc pag. 458; sentenza del Tribunale federale citata, consid.
2a;
H
auser/Schweri/Hartmann
,
op. cit., pag. 224 n. 7 e pag. 228 n. 19
).
d)
In concreto,
la Corte
ha tenuto conto dei fatti posti alla base delle imputazioni di estorsione e di coazione - che ha formalmente rinunciato a giudicare dopo l’opposizione delle difese - nella commisurazione della pena nel senso che tali fatti sono andati ad aggravare la colpa soggettiva dell’accusato e, quindi, ad aggravare la pena che gli è stata inflitta.
In effetti, nella sentenza si legge quanto segue:
"Ma non è tutto. Dopo che, finalmente, anche PC 1 si decise a reagire ponendolo di fronte alle sue responsabilità, RI 1 ha posto in essere più di una resistenza prima di retrocedere il patrimonio ancora esistente al ragazzo. Non si è nemmeno accontentato della sciagurata proposta di liquidazione con un milione di franchi, chiedendo espressamente cosa sarebbe successo se non avesse accettato. Ha rilanciato, voleva di più: un milione non gli bastava per tutto quello che ha fatto. Ha, quindi, cercato di fare ulteriori pressioni sul giovane affinché gli lasciasse la metà in nero del patrimonio o, almeno, 3 o 4 milioni. Quel giorno ha sì sottoscritto le retrocessioni, ma si è recato subito da un legale di sua fiducia onde verificare se quella, lo si ripete, sciagurata proposta meritava di essere accettata. Egli sapeva che il PC 1 era in una posizione di debolezza per il fatto che metà del patrimonio era in nero e che, molto difficilmente, lo avrebbe denunciato. Insomma, non ha fatto come il ladro che, una volta scoperto, molla la refurtiva e la restituisce senza fare storie al legittimo proprietario, ma ha preteso di essere lautamente ricompensato, altrimenti non avrebbe restituito il resto e difficilmente avrebbe potuto essere denunciato senza gravi conseguenze per il querelante depauperato."
(sentenza, pag. 163, consid. XIV. 2.)
Per poter tenere conto di tali circostanze – non tanto della mancata immediata disponibilità a restituire il maltolto, quanto delle
“pressioni”
esercitate
“sul giovane affinché gli lasciasse la metà in nero del patrimonio”
sfruttandone la “
posizione di debolezza”-
la Corte avrebbe dovuto, conformemente al principio accusatorio, dare all’accusato la possibilità di difendersi adeguatamente, ordinando un rimando del dibattimento per la presentazione di un altro atto di accusa che tenesse conto – qualora ne fossero state date le premesse – dei fatti alla base delle imputazioni prospettate in aula.
Opponendosi all’estensione dell’atto di accusa ai reati di coazione e di estorsione, l’imputato ha inteso circoscrivere – così come concesso dall’art 250 cpv 3 e 4 CPP – il giudizio ai fatti contemplati nell’atto di accusa.
Di fronte a questa posizione dell’accusato, la Corte doveva – se convinta dell’esistenza del reato prospettato – sospendere il dibattimento per la presentazione di un nuovo atto di accusa oppure – nell’ipotesi in cui, invece, la sua convinzione fosse stata meno salda (ma, allora, vi sarebbe la necessità di riflettere sull’opportunità della prospettazione in aula del nuovo reato ) – continuare il dibattimento e limitare il suo giudizio ai soli fatti indicati nell’atto di accusa.
Se è ben vero – così come sostenuto dalla PC – che la Corte, nel suo giudizio sulla commisurazione della pena, deve tenere conto di quanto è successo, è altrettanto vero che, se lo fa tenendo conto di circostanze di fatto a cui ha attribuito una connotazione delittuosa ed al cui giudizio ha (almeno apparentemente) rinunciato per mancato accordo dell’imputato, soprassedendo dall’ordinare il rimando del dibattimento per la presentazione di un nuovo atto di accusa così come previsto dall’art. 250 cpv. 2 e 4 CPP, essa cade irrimediabilmente in una violazione dell’art. 250 CPP e, più in generale, in una violazione del principio accusatorio.
Ciò vale a maggior ragione se – così come evidenziato dalla PC – per questi stessi fatti il perseguimento penale non sarebbe stato più possibile per intervenuta prescrizione.
Tale violazione è ancor più evidente laddove si consideri che, valutando la questione della tempestività della querela, la Corte si è dilungata sulle circostanze di fatto prospettate in aula quale reato per concludere che, effettivamente, quel reato (in ogni caso, la coazione) c’è stato visto che ha concluso che “
è indubbio che PC 1, nell’accettare una transazione che prevedeva una buona uscita di oltre un milione di franchi a favore di chi aveva malversato a danno del suo patrimonio e, successivamente, nel sottoscrivere i documenti che hanno perfezionato quella sciagurata transazione, è stato vittima di una coazione...”
(sentenza, pag 146, consid. XIII. 2.3.4 ).
Nelle sue osservazioni, la PC ha sostenuto che l’incidenza di questi fatti sulla commisurazione della pena è stata irrilevante.
Quest’ affermazione non trova conferma alcuna nella motivazione della sentenza.
Come detto sopra, in realtà, motivando la pena, la Corte di prime cure si è dilungata su quelle circostanze – dopo averlo fatto in modo ampio e diffuso in diversi punti della sentenza – rilevando, non soltanto una reticenza del condannato a restituire il maltolto, ma sottolineando tutti gli aspetti che, in altri considerandi (cfr., in particolare, consid XIII.2.3.4 pag 140-146), erano stati ritenuti costitutivi di reato e, pertanto, ha ritenuto, nella commisurazione della pena, un reato sul quale non aveva facoltà di giudicare.
Vista l’importanza data dalla Corte a tali fatti, difficile è sostenere che la loro incidenza sulla commisurazione della pena sia stata irrilevante.
Anzi, la struttura argomentativa della sentenza esclude che ciò sia stato poiché, quando ciò è avvenuto, la Corte lo ha dichiarato esplicitamente. In particolare, lo ha fatto in relazione alla condanna di RI 2 per complicità in falsità in documenti rilevando che “
tale accusa non
ha, per finire, avuto influenza alcuna nella commisurazione della pena dato il tempo trascorso dai fatti e la tutto sommato marginale incidenza del concorso di reati”
(sentenza, pag 154, consid XXIII. 3.1. e pag 165, consid XIII. 4).
Su questo punto la critica ricorsuale si rivela pertanto fondata.
Ora, fosse questo il solo punto di questione in discussione nel ricorso, ci si potrebbe chiedere se, per finire, il vizio lamentato dal ricorrente potrebbe essere sanato ricommisurando semplicemente la pena (art. 296 cpv. 1 CPP), senza tenere conto delle circostanze aggravanti riferite ai pretesi comportamenti coattivi tenuti dall'accusato. Sennonché, come si vedrà in seguito, questo non è il solo punto di questione sollevato che si rivela fondato. Infatti, anche la condanna dello stesso ricorrente per appropriazione indebita riferita alle operazioni di addebito dei conti _ e _ (dispositivo n. 1.1) - e di riflesso quella di RI 2 per gli atti di complicità che avrebbe compiuto in questo contesto (dispositivo n. 3.1) - si rivela conseguente ad una nuova disattenzione dell' art. 250 CPP, se non addirittura a una violazione dell' art. 138 CP, con conseguente ripercussione anche sulla condanna di entrambi i prevenuti per appropriazione indebita e per complicità in tale reato riferita all'addebito del conto _ a favore del conto _ . Al punto da comportare, come poi si vedrà, l'annullamento delle rispettive condanne e il rinvio dell'incarto a una nuova Corte di assise per nuovo giudizio. Orbene, dato quanto rilevato, ossia la necessità, comunque sia, di ricelebrare il processo, l'accoglimento del ricorso per quanto riguarda la specifica critica rivolta ai primi giudici di avere leso i diritti di parte integrando le considerazioni sulla commisurazione della pena con ipotesi di reato non prospettate né nell' atto di accusa originario, né nel quadro di una corretta applicazione dell'art. 250 CPP, deve a sua volta comportare l'annullamento della sentenza impugnata su questo punto, con le medesime conseguenze, ossia con il rinvio dell'incarto ad una nuova Corte affinché, riservata una sua diversa valutazione degli elementi di fatto ritenuti costitutivi di reato dai primi giudici:
i) prospetti all'accusato le imputazioni di coazione e di estorsione, riservata la questione della prescrizione delle rispettive azioni penali;
ii) proceda, in caso di opposizione del prevenuto all'integrazione dell'atto di accusa, senza ulteriori formalità, alla sospensione del dibattimento per la presentazione di un atto di accusa completato con le imputazione prospettate al dibattimento (art. 250 cpv. 4 CPP);
iii) statuisca, dandosene il caso, sulle nuove imputazioni e proceda alla commisurazione della pena, tenuto conto - oltre che dell'esito conseguente al presente rinvio - dell'esito conseguente al rinvio disposto nei considerandi 2c), 7c) e 10.2) che seguono, e delle condanne non toccate dalla presente decisione di rinvio.
2.
Il ricorrente lamenta un altro vizio essenziale di procedura (art. 288 lett. b CPP): egli ravvisa un’ulteriore violazione dell’art. 250 CPP in punto alla precisazione del capo di accusa 1.2.4. operata dal presidente della Corte durante il dibattimento.
Il ricorrente rimprovera al presidente della Corte di non essersi limitato a precisare l’originario capo di accusa, ma di avere, invece, esteso – malgrado l’opposizione formulata durante il dibattimento ex art. 250 cpv. 3 CPP - il reato di appropriazione indebita anche all’operazione precedente quella di cui al punto 1.2.4. dell’AA, e cioè all’operazione di estinzione del conto _ con accredito dei beni sul conto _ – operazione non indicata nell’atto di accusa – aggravando così il suo quadro accusatorio.
Una simile estensione avrebbe dovuto comportare, secondo il ricorrente, il rinvio del dibattimento ai sensi dell’art 250 cpv. 2 CPP.
Anche in relazione a questa censura, la procuratrice pubblica e la parte civile hanno espresso opinioni contrarie, giudicando l’operato della Corte conforme all’art. 250 CPP, rilevando, inoltre, come il ricorrente non abbia subito alcun danno dalla violazione contestata.
a)
Il 2 luglio 2008, contestualmente all’estensione dell’atto di accusa ai reati di coazione e di estorsione di cui si è detto, il presidente della Corte ha prospettato, a carico di RI 1, quello che ha indicato essere una “
precisazione
” del capo di accusa di appropriazione
indebita di cui al punto 1.2.4. dell'atto di accusa nei seguenti termini:
“agendo con la complicità di RI 2, nel mese di maggio/giugno 2001, a _ e _ , indebitamente impiegato a proprio profitto valori patrimoni ali affidatigli per un importo complessivo di CHF 26'980'757.84 ordinando a RI 2 che li eseguiva, il trasferimento
dalla relazione _ (avente quale beneficiario economico PC 1 con procura generale a favore di RI 1) a favore della relazione _ (avente quale beneficiario economico RI 1 con procura generale a favore di PC 1) di titoli per un valore di CHF 21'409'124.85 ed eseguendo un bonifico di CHF 130'598.- nonché ordinando successivamente a RI 2, che lo eseguiva, il trasferimento di titoli e valori per un importo complessivo di CHF 26'980'757.84 dalla suddetta relazione _ sulla relazione _ a lui riconducibile e sulla quale PC 1 non godeva di procura alcuna (sulla relazione _ erano stati acquistati ulteriori titoli mediante una linea di credito in conto corrente, ottenuta tramite messa a pegno del deposito titoli _ ed utilizzata in ragione di CHF 4'640'512.-, in seguito coperta con bonifico di data 15.06.01 da _ a _ , mediante apertura di una linea di credito su _ di CHF 5'000'000.-)”
(verb. dib. pag. 85 e doc. dib. 10).
L’imputato, opponendosi a tale precisazione dell’atto di accusa, ha eccepito che la fattispecie prospettata dal presidente della Corte portava con sé una nuova imputazione ai sensi dell’art. 250 cpv. 2 CP (cfr. verb. dib pag. 90).
Il presidente della Corte, a fronte di tale opposizione, ha proseguito l’istruttoria dibattimentale, rinunciando ad ordinare il rimando del dibattimento per la presentazione di un nuovo atto di accusa.
b)
Nonostante la rinuncia al rimando, la Corte non ha rinunciato a giudicare la fattispecie prospettata al dibattimento rilevando come non si trattasse “
manifestamente di nuove imputazioni, bensì di precisazioni (in base alle emergenze dibattimentali) di quelle già contenute nell’AA, peraltro già note alle parti”
poiché – sempre secondo la Corte – “
con la formulazione sin troppo precisa dell’AA la PP ha, in realtà, voluto semplicemente indicare in quale momento, secondo lei, si è verificato il reato di appropriazione indebita e non certo escludere il passaggio precedente”
. Infine, la Corte di prime cure ha ritenuto di poter giudicare nonostante l’opposizione della difesa, sostenendo “
che il reato si sia realizzato con il trasferimento _ -_ o con quello _ -_ è, per finire, dal profilo del rispetto dei diritti della difesa, assolutamente irrilevante”
(sentenza pag 126, consid XIII. 1.2.1).
c)
L’opinione della Corte di assise non può essere condivisa.
Secondo la pubblica accusa, RI 1 si è reso autore colpevole dell’appropriazione indebita di cui al capo di accusa 1.2.4. ordinando il trasferimento sul conto _ degli attivi presenti sul conto _ .
L’imputazione originaria già menzionava il fatto che il conto _ era stato precedentemente alimentato tramite bonifici e trasferimenti di titoli in provenienza dal conto _ , ma non attribuiva a questa precedente operazione una connotazione illecita. Tant’è che il capo di accusa 1.2.3. relativo alle appropriazioni indebite riferite al conto _ non contemplava questo addebito.
Con la “
precisazione”
apportata dal presidente della Corte e notificata ex art. 250 CPP, RI 1 si sarebbe appropriato indebitamente dei fondi di PC 1 non più soltanto con l’ordine di trasferimento (poi eseguito da RI 2) di titoli e valori per un importo complessivo di fr 26'980'757,84 dalla relazione _ alla relazione _ – così come indicato dall’AA – ma anche con il precedente trasferimento dalla relazione _ a favore della relazione _ di titoli e per un valore di fr. 21'409'124,85 e di fr. 13'598.–.
L’appropriazione indebita è un reato di azione che si consuma nell’atto di disposizione del patrimonio affidato.
Una semplice precisazione dell’atto di accusa con fatti già noti alle parti avrebbe potuto riguardare solo circostanze di fatto connesse con l’azione imputata, ovvero con l’ordine di trasferimento dei fondi dal conto _ al conto _ e non con un diverso atto di disposizione, consistente nel precedente ordine di addebito del conto _ .
E che, anche in concreto, l’operazione di addebito del conto _ sia stata oggetto di un nuovo rimprovero a carico di RI 1 lo si desume dalla stessa motivazione della sentenza in cui la Corte ha ritenuto che
“l’accusa, a benvedere, riguarda tutto l’insieme dell’operazione che è partita da _ ed è finita a _ .”
(cfr. sentenza, pag. 149, consid XIII. 2.5.1.)
Una tale costruzione non è desumibile dall’atto di accusa, dove l’operazione imputata è quella che coinvolge soltanto i conti _ e _ .
La posizione dell’accusato è stata, pertanto, aggravata poiché, anche se noto alle parti, l’ordine di addebito del conto _ non aveva comportato, fino a quel momento, alcun rinvio a giudizio.
Indipendentemente dalla conclusione dei primi giudici – su cui questa Corte nutre seri dubbi – secondo cui il reato di appropriazione indebita, pur abbracciando tutta l’operazione, si è realizzato solo con l’addebito del conto _ , il mancato rinvio del dibattimento per la presentazione di un nuovo atto di accusa che contemplasse, nelle azioni rimproverate a RI 1, anche quella a debito del conto _ ha inevitabilmente comportato una violazione da parte della Corte dell’art. 250 CPP.
Il ricorso si rivela pertanto su questo punto meritevole di tutela. Certo, ci si potrebbe anche qui chiedere se, dovesse rilevarsi corretta l'imputazione di appropriazione indebita riferita al secondo passaggio, ossia a quello dal conto _ al conto _ , la questione non potrebbe essere risolta semplicemente considerando ai fini della commisurazione della pena soltanto il passaggio _ -_ .
Sennonché, per le considerazioni che seguiranno, è proprio la prima fase
–
quella prospettata all'accusato in violazione dell'art. 250 CPP
–
a creare problemi di non poco conto. Non solo per questioni formali
–
che potrebbero essere risolte come testé spiegato
–
ma anche per questioni attinenti all'applicazione del diritto federale. Giacché, sempre per le considerazioni che seguiranno, stando agli stessi accertamenti della Corte di assise, il passaggio _ -_ denota più gli estremi della truffa che quelli dell'appropriazione indebita e merita, comunque sia, una più attenta disamina.
Con il che, fosse questa la qualificazione esatta del reato (truffa), il passaggio _ -_ perderebbe valenza penale autonoma, con conseguente proscioglimento di RI 1 da questa specifica imputazione, rispettivamente con conseguente proscioglimento di RI 2 dall'accusa di complicità in appropriazione indebita riferita al passaggio _ -_ .
Orbene, come si vedrà in seguito, una nuova Corte di assise dovrà pronunciarsi proprio su questo scenario, ossia dovrà stabilire
–
previo rispetto dell'art. 250 CPP
–
se la prima operazione (addebito conto _ a favore del conto _ ) costituisce truffa anziché appropriazione indebita, oppure se essa rimane ancora come appropriazione indebita. Ciò richiede però che l'imputazione relativa alla prima fase (addebito del conto _ ) venga correttamente prospettata e acquisita, secondo quanto previsto dall'art. 250 CPP. Il vizio procedurale riferito alla condanna per appropriazione indebita concernente l'addebito del conto _ comporta, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata e il rinvio degli atti a una nuova Corte di assise, affinché proceda nel senso qui indicato e di quanto sarà disposto da questa Corte nei considerandi 7c) e 10.2) che seguono.
3.
Il ricorrente prosegue il suo esposto lamentando la violazione dell’art. 31 CP: la querela presentata il 18 ottobre 2001 dal patrocinatore di PC 1 sarebbe tardiva poiché, già a partire dal 4 luglio 2001, PC 1 - a quel momento, maggiorenne e perfettamente capace di intendere e di volere – sapeva degli indebiti prelievi operati da RI 1 a debito dei suoi conti. In ogni caso dal 9 luglio 2001 - poiché così gli era stato detto da _ in occasione della riunione in PC 2 – PC 1 sapeva, pure, che avrebbe potuto denunciare RI 1 alle autorità penali.
In siffatte circostanze, ritenuto inoltre che dal 13 settembre 2001 PC 1 era rappresentato da un avvocato – continua il ricorrente - la querela presentata in data 18 ottobre 2001 non può che essere giudicata intempestiva, ritenuto come il termine trimestrale per sporgere denuncia abbia, in concreto, cominciato a decorrere, al più tardi, a far tempo dal 9 luglio 2001.
Il ricorrente contesta, poi, l’opinione della Corte secondo cui PC 1 è stato vittima di una coazione ad opera di RI 1 i cui effetti sono perdurati fino al 16 agosto 2001. Tuttavia – continua il ricorrente ragionando su una ipotesi in sé negata – quand’anche vi fosse stata coazione, essa non avrebbe, comunque, potuto avere come conseguenza quella di sospendere il decorso del temine trimestrale per presentare la querela.
Secondo il ricorrente, decidendo in senso contrario, la Corte ha violato il diritto federale.
Di diversa opinione sono la PP e la PC che, nelle loro rispettive osservazioni, hanno condiviso il giudizio della Corte sulla tempestività della querela presentata il 18.10.2001.
a)
La Corte ha ritenuto che PC 1 e RI 1 fossero membri di una comunione domestica ai sensi dell’art. 110 cpv. 2 CP. Dovendo, quindi, giudicare della tempestività della querela presentata in data 18 ottobre 2001 dalla PC, la Corte ha ritenuto che il termine trimestrale ex art. 31 CP iniziò a decorrere il 16 agosto 2001 e non il 9 luglio 2001 in considerazione di due circostanze. Dapprima, del fatto che PC 1, il 9 luglio 2001, “
non disponeva di tutti gli elementi di fatto per poter decidere in modo autonomo se denunciare o no RI 1 poiché le informazioni che gli erano state date erano del tutto parziale e insufficienti”
(sentenza, pag 146 in fine, consid XIII. 2.3.5.). Poi, in considerazione del fatto – dato dalla Corte per accertato – che PC 1 fu vittima, fino a quel momento, di una coazione ad opera di RI 1 che gli impedì di decidere liberamente di denunciarlo alle autorità di perseguimento penale: “
è quindi stato vittima di una coazione almeno a partire dalla riunione del 9 luglio fino al 16 agosto 2001, quando ha sottoscritto il rogito e gli altri documenti, essendo stato posto nella condizione di dover accettare una proposta assurda e scellerata, altrimenti sarebbe andato incontro a conseguenze economiche ben peggiori.”
(sentenza, pag 147 in fine, consid XIII 2.3.5.)
b)
La CCRP dispone di un ampio potere di esame per quel che è delle censure di violazione del diritto sostanziale (rapporto della commissione speciale per l’esame del codice di procedura penale sul messaggio 11.3.1987 e sul messaggio aggiuntivo bis 9.7.1992 concernenti la revisione del codice di procedura penale del 10.7.1941 dell’8.11.1994). Si è in presenza di una questione di diritto quando si è chiamati a determinare le disposizioni legali o i principi giuridici applicabili ad una determinata fattispecie, ad interpretarli ed applicarli in concreto.
c)
Ai sensi dell’art. 138 n. 2 CP, il reato di appropriazione indebita è qualificato quando il colpevole ha commesso il fatto in qualità, tra le altre, di tutore.
Il privilegio della querela previsto dall’art. 138 n. 1 cpv. 4 CP non è applicabile alla forma qualificata dell’appropriazione indebita (FF 1991 II 822;
Rehberg/Schmid/Donatsch
, Strafrecht III, p.120;
Trechsel
et al., Praxiskommentar, ad art. 138 N 23;
Stratenwerth/Wohlers
, Handkommentar ad art. 138 CP N 8).
Ne consegue che il reato di appropriazione indebita commesso dal tutore ai danni del pupillo – quand’anche questi sia un suo congiunto o un membro della comunione domestica – è perseguibile d’ufficio.
RI 1 ha rivestito il ruolo di tutore di PC 1 dal 20 febbraio 1998 al 7 gennaio 2000. Poco importa se il ruolo di tutore affidato a RI 1 a partire dal 7 ottobre 1998 non comportava più l’amministrazione del patrimonio del ragazzo. A RI 1 spettava, infatti, il potere di rappresentanza del pupillo ed è proprio nell’esercizio di tale funzione che egli si è appropriato dei suoi beni.
Stanti queste premesse, il perseguimento penale delle appropriazioni indebite perfezionate da RI 1 in questo periodo non presuppone, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di prime cure, l’inoltro di una querela.
d)
Per quanto concerne, poi, le appropriazioni indebite commesse da RI 1 dopo la maggiore età di PC 1 è necessario, in primo luogo, esaminare se siano date, nel caso concreto, le premesse di cui all’art. 138 n. 1 cpv. 4 CP, prima di esaminare un’eventuale violazione dell’art. 31 CP.
Il reato di appropriazione indebita, al pari di altri reati patrimoniali e del reato di soppressione di documenti, è perseguibile soltanto su querela di parte quando la vittima e l’autore sono, tra l’altro, membri della medesima economia domestica.
Se, di principio, i membri di una comunione domestica sono le persone conviventi nella medesima economia domestica, ovvero due o più persone che mangiano e vivono sotto lo stesso tetto (DTF 102 IV 163; 86 IV 158, 72 IV 6), va precisato che, secondo dottrina e giurisprudenza, tale condivisione di spazi non è, da sola, sufficiente a qualificare una convivenza di comunione domestica ai sensi dell’art. 110 cpv. 2 CP.
L’interpretazione del temine “membri di una comunione domestica” deve essere estremamente prudente e restrittiva (Trechsel et al., op. cit., ad art. 110 N 5 ed esempi) in funzione proprio della ratio del privilegio che deriva dall’ammissione di tale qualifica.
Questo privilegio trova la sua origine nella volontà del legislatore di attribuire una speciale considerazione alla pace domestica che - analogamente a quella esistente tra i membri di una famiglia – esiste tra due o più persone che vivono in una medesima economia e fondano una comunione domestica.
La concessione del privilegio della querela si prefigge di porre queste persone al riparo da un’indesiderata ingerenza da parte delle autorità di perseguimento penale (Andreas Eckert, BK, ad art. 110 cpv 2 CP, N. 2).
Partendo da queste considerazioni, pertanto, affinché si possa parlare di membri di una comunione domestica, non basta che due persone vivano sotto lo stesso tetto e mangino alla medesima tavola. E’, in più, necessario che il rapporto esistente tra loro sia inteso come duraturo o che, perlomeno, presenti, pur in un’ipotetica prospettiva futura, un carattere definitivo e stabile paragonabile a quello esistente fra i membri di una famiglia (
Andreas Eckert
, BK, ad art. 110 cpv 2 CP, N. 4 e riferimenti;
Trechsel
et al., op.cit., ad art. 110 N 6).
Queste premesse non sono date, in particolare, quando una persona è accolta soltanto provvisoriamente in una comunione domestica (Andreas Eckert, BK, ad art. 110 cpv 2 CP, N. 4 e riferimenti). Per contro, un’interruzione provvisoria della comunione domestica - per esempio, per ragioni di lavoro, di studio o di vacanza, ecc. - non ha nessuna influenza sulla nozione di membro di una comunione domestica nella misura in cui esista la volontà di ricomporre, al termine del previsto periodo di assenza, la comunione domestica (DTF 102 IV 164;
Andreas Eckert
, BK, ad art. 110 cpv 2 CP, N. 4 e riferimenti;
Trechsel
et al., op cit., ad art 110 cpv 2 N. 10).
È, inoltre, necessario, affinché si possa parlare di membri di una comunione domestica, che il rapporto esistente tra queste persone sia caratterizzato da una componente di personale intimità o di comunanza personale e affettiva, simile a quella che caratterizza una comunità famigliare (
Trechsel
et al., op. cit., ad art. 110 cpv 2 CP, N 7 e 8)
Le sopraccitate condizioni che definiscono il membro di una comunione domestica devono essere date al momento dei fatti costitutivi di reato
(
Trechsel
et al., op. cit., ad art. 110 cpv 2 CP, N 9).
La giurisprudenza non ha ancora avuto modo di precisare che cosa avviene nei casi in cui dette condizioni vengano a cadere. La dottrina non sembra essere unanime sulla questione. A.
Eckert
(in BK, ad art. 110 cpv 2 CP, N. 7 e riferimenti) sembra sostenere che, se esse vengono a mancare in un secondo tempo, di principio, il privilegio della querela non dovrebbe venire a cadere. Per contro,
Trechsel
(Praxiskommentar, ad 110, N 9) sostiene – secondo questa Corte, con maggior autorevolezza vista la ratio del privilegio della querela - che il reato va perseguito d’ufficio nel caso in cui l’autore abbandoni la comunione domestica immediatamente dopo la commissione del reato.
La Corte di primo grado ha accertato che PC 1 e RI 1 hanno vissuto, nel periodo posteriore alla maggiore età del ragazzo, sotto lo stesso tetto e che questa convivenza si è conclusa a fine giugno/inizio luglio 2001.
Come detto, una convivenza limitata ad una comunione
de toit et de table
non basta, senza gli altri elementi indicati sopra, a costituire una comunione domestica ai sensi dell’art. 110 cpv. 2 CP.
Così come riferito sopra (cfr consid B), la Corte di primo grado ha anche accertato che, attorno al 2000, i rapporti fra PC 1 e RI 1 si deteriorarono. L’uomo, concentrato sulle sue passioni (macchine da corsa e nuova compagna), non comprendeva il ragazzo e le sue esigenze (emblematico è il ricorso alle cure psichiatriche e il ricovero in clinica al primo sorgere di problemi comportamentali) e questi – così come accertato in sentenza (cfr sentenza, pag. 31 consid II.; pag. 69 e segg consid VI. 5a., pag. 76 consid VI. 7., pag. 77 consid VI. 10., pag. 78 consid VI. 11.; pag. 80 consid VII. 1.) - viveva sempre più la convivenza come un’imposizione cui cercava in ogni modo di sfuggire: prima con la fuga, poi con il consumo di sostanze stupefacenti, quindi con i soggiorni all’estero soltanto apparentemente motivati dalla volontà di seguire dei corsi e, infine comunque, cercando di rimanere fuori casa il più possibile pur di non dovere vedere RI 1.
Di quest’irrimediabile compromissione dei rapporti fra RI 1 e PC 1 e dell’assenza di quello spirito di comunanza e di familiarità che il legislatore ha voluto proteggere da ingerenze indesiderate dell’autorità ponendo il requisito della querela quale presupposto dell’azione penale fanno stato, non soltanto le dichiarazioni inequivocabili del ragazzo, ma anche quelle di RI 1 (cfr, in particolare, la lettera 1.6.2001, alla DT in cui questi ammette che, a decorrere dalla maggiore età di PC 1, i loro rapporti si erano deteriorati).
Come detto, questi accertamenti di fatto non sono, certamente, indicativi della volontà di PC 1 di costituire con RI 1 una comunione domestica stabile e duratura, caratterizzata da particolari rapporti personali, di affinità e di comunanza di natura quasi-familiare.
Il fatto che RI 1 fosse, dopo la morte della madre, l’unica persona adulta di riferimento del ragazzo - così come accertato dai giudici di prime cure - è irrilevante ai fini della nozione di membro di una comunione domestica: l’essere un riferimento – soprattutto per questioni amministrative – non comporta ancora l’esistenza di rapporti di natura quasi-familiare (cfr, per un caso analogo, DTF 86 IV 158 in cui il TF ha stabilito che non c’è comunione domestica ai sensi dell’art 110 cpv 2 CP nel caso di persone che lavorano e mangiano nella stessa economia domestica neanche quando queste persone sono unite da uno stretto vincolo di fiducia).
A ben vedere, dopo la morte di _ , la convivenza tra RI 1 e PC 1 non fu la manifestazione di rapporti d’affetto particolari. Nemmeno fu l’espressione dell’impegno di RI 1 ad assumere un ruolo educativo quasi-paterno. Al contrario.
La possibilità di rimanere a vivere nella casa di _ fu il compenso che RI 1 – almeno ufficialmente – chiese per l’esercizio della funzione di tutore.
Terminata la tutela, la convivenza non si è protratta per una reale volontà dei due di fondare una comunione domestica simile a quella di una famiglia, ma si è piuttosto trascinata in modo burrascoso, contro il reale desiderio di entrambi (in ogni caso, di PC 1), fino a quando RI 1, dopo aver giocato tutte le sue carte per garantirsi una “degna buonuscita”, ha traslocato alla chetichella abbandonando il ragazzo dopo averlo spogliato di tutto quanto poteva e senza neppure degnarsi di lasciargli un recapito.
Queste circostanze sono indicative delle finalità perseguite da RI 1 con la convivenza con PC 1.
Non è necessario disquisire oltre per dimostrare che altre sono le finalità ed i sentimenti che caratterizzano i rapporti di comunione domestica la cui serenità il legislatore ha voluto proteggere con il privilegio della querela.
Ma, quand’anche si volesse, contro ogni emergenza di fatto, sostenere che fra i due vi è stata, sino a fine giugno/inizio luglio 2001, una comunione domestica, questo non farebbe ostacolo all’azione penale d’ufficio proprio perché a quella pretesa – e, in realtà, inesistente – comunione domestica RI 1 ha messo fine non appena è riuscito a spogliare il ragazzo di buona parte dei suoi averi.
Non essendovi manifestamente più – in simili circostanze – una comunione domestica da proteggere, non è più manifestamente dato il privilegio della querela.
In siffatte circostanze, alla luce della dottrina sopra esposta e degli accertamenti di fatto della Corte di primo grado, l’azione penale per le appropriazioni indebite eseguite da RI 1 dopo il 7.1.2000 non è subordinata all’esistenza di una querela.
Pertanto, non deve essere esaminata un’eventuale violazione dell’art. 31 CP, ritenuto come anche le appropriazioni indebite commesse dopo il 2000 siano perseguibili d’ufficio.
Il ricorso, su questo punto, non merita, quindi, accoglimento.
La sentenza di primo grado va riformata nelle sue motivazioni.
Il suo risultato resiste, per contro, all’esame di conformità con il diritto materiale.
4.
Il ricorrente lamenta, inoltre, una duplice violazione dell’art. 138 CP da parte della Corte delle assise.
4.1.
Egli afferma, dapprima, che il reato di appropriazione indebita semplice ed aggravata non è realizzato a motivo del fatto che RI 1 è sempre stato in grado di restituire, non soltanto tutti gli averi che gli erano stati affidati, ma anche parte degli importanti utili realizzati.
La censura non è seria.
Il ricorrente sorvola sull’evidente circostanza di fatto che oggetto dell’affidamento non era solo il patrimonio iniziale del ragazzo, ma anche gli utili conseguiti dagli investimenti eseguiti dagli operatori bancari.
L’aver optato per una gestione volta alla crescita del patrimonio piuttosto che per una gestione conservativa, non dava certo il diritto a RI 1 di incassare gli utili conseguiti. Il patrimonio di PC 1 affidato a RI 1 si componeva sia del capitale iniziale sia dei suoi frutti.
Tutti i ripetuti ed ingenti prelevamenti e bonifici effettuati da RI 1 per finanziare il suo tenore di vita e quello di persone a lui vicine costituiscono evidentemente un indebito profitto a danno della parte civile.
Non giova, pertanto, alla tesi ricorsuale il richiamo alla Ersatzbereitschaft – che presuppone non soltanto la disponibilità materiale dei beni da restituire sin dal momento dell’appropriazione ma anche la volontà di restituirli in ogni tempo (DTF 118 IV 32 in part 34 consid. a) – che di tutta evidenza faceva difetto all’imputato che da tempo aveva smesso di lavorare, che non aveva un suo patrimonio personale né mai ha avuto, in ogni caso almeno sino al momento “della resa dei conti” di luglio 2001, l’intenzione di restituire il maltolto.
Nemmeno giova il richiamo al “
Werterhaltungspflicht
” che, come detto sopra, è stato dal condannato crassamente violato.
La censura non merita, pertanto, accoglimento ed il ricorso, su questo punto, va respinto.
4.2.
RI 1 sostiene, poi, che le disposizioni patrimoniali a danno di PC 1 riferite al periodo 7.10.1998-6.1.2000 non potevano essere sussunte sotto la fattispecie penale dell’appropriazione indebita aggravata, poiché in quel periodo egli fungeva soltanto da tutore educativo e di rappresentanza del pupillo.
Suggerisce, senza spiegarne però i motivi, che RI 1 avrebbe agito piuttosto come gestore di patrimonio senza mandato ai sensi dell’art. 158 n. 1 cpv. 2 CP.
Anche questa censura non è destinata a miglior esito rispetto a quella precedente.
Affinché il reato di appropriazione indebita sia realizzato, non è necessario che l’affidatario assuma anche il mandato di gestire ed amministrare i beni affidati. È sufficiente che gli sia stato concesso il potere di disporre dei beni dell’affidante in virtù di un mandato o di un contratto.
RI 1 era tutore di PC 1. Oltre al compito educativo, egli aveva anche quello di rappresentanza. In virtù di quest’ultima funzione egli aveva la procura sui conti del ragazzo.
I beni gli erano, quindi, stati affidati anche nel periodo contestato e, pertanto, deve rispondere del reato di appropriazione indebita aggravata.
Anche su questo punto, pertanto, il ricorso va respinto.
5.
Il ricorrente contesta, altresì, la sua condanna per titolo di falsità in documenti, affermando che l’omessa dichiarazione dei beni del pupillo, in precedenza non dichiarati all’erario dalla madre e dal nonno, avrebbe dovuto essere giudicata dalla Corte in virtù delle norme del diritto tributario e non di quelle del diritto penale.
Il Tribunale federale ha già avuto modo di giudicare che l’omessa indicazione da parte del tutore di una parte del patrimonio del pupillo nell’inventario ex art. 398 CC è costitutiva – a seconda del suo ruolo privato o ufficiale – del reato di falsità in documenti o di falsità in atti formati da pubblici ufficiali o funzionari (DTF 121 IV 216 = JDT 1997 IV 70, SJ 1996, 46).
La fattispecie va esaminata – contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente – non dal profilo delle normative che regolano il diritto fiscale, bensì dal profilo di quelle che regolano gli obblighi del tutore ai sensi degli art. 360 e seg. CC.
In virtù dell’art. 398 cpv. 1 CC, il tutore
, assumendo la tutela, procede in concorso con un membro dell’autorità tutoria alla compilazione di un inventario della sostanza da amministrarsi.
L’obbligo di compilare l’inventario dei beni del pupillo ha quale finalità quella di fornire una base di controllo per l’autorità tutoria sui rapporti che il tutore presenterà nel corso dell’esercizio della tutela ed è uno strumento necessario per valutarne le responsabilità nella gestione dei beni del pupillo
(DTF 121 IV 216 = JDT 1997 IV 70, SJ 1996, 46).
L’inventario assume, pertanto, la qualità di documento ai sensi dell’art. 110 cpv. 4 CP ed eventuali omissioni intenzionali nella sua compilazione sono costitutive di falsità in documenti.
RI 1 ha fornito all’autorità tutoria della documentazione bancaria attestante solo in parte l’entità del patrimonio di PC 1. Egli era, inoltre, cosciente che questa documentazione sarebbe stata utilizzata da _ (il delegato della DT) per la compilazione dell’inventario del pupillo.
Tutto ciò concorre a rendere RI 1, così come correttamente stabilito dalla Corte di assise, autore colpevole di falsità in documenti ai sensi del’art. 251 CP.
Il ricorso va, quindi, su questo punto, respinto.
6.
Il ricorrente ha, poi, eccepito un’ultima violazione di diritto lamentando l’errata applicazione dell’art. 43 CP da parte della Corte di primo grado.
Egli ha, altresì, censurato, questa volta dal profilo dell’arbitrio, i seguenti accertamenti della Corte:
- il fatto che PC 1 sia stato costretto a stipulare un accordo che non era nel suo interesse;
- il momento in cui RI 1 ha firmato l’ordine di retrocessione dei valori patrimoniali presenti sulla relazione _ :
- l’arco di tempo in cui RI 1 ha delinquito;
- il mancato pentimento.
Questa Corte può esimersi dall’esame di queste censure - nella misura in cui avrebbero avuto, così come affermato dal ricorrente, un’influenza sulla commisurazione della pena - ritenuto come i vizi procedurali accertati e l’annullamento dei dispositivi di condanna per il reato di appropriazione indebita di cui si dirà in seguito, impongono il rinvio degli atti ad una nuova Corte che dovrà statuire nuovamente anche sulla commisurazione della pena.
Nella misura in cui tali censure d’arbitrio siano, invece, state sollevate dal ricorrente per inficiare la valutazione dei fatti operata dalla prima Corte sulla tempestività della querela inoltrata da PC 1 nel mese di ottobre 2001, le stesse appaiono, in virtù di quanto esposto al consid. 3, prive d’oggetto.
Sul ricorso di RI 2
7.
Il ricorrente lamenta un vizio essenziale di procedura (art. 288 lett. b CPP) realizzatosi nella violazione dell’art. 250 CPP con particolare riferimento alla precisazione operata dal presidente della Corte in relazione al punto 1B dell’atto di accusa.
Il ricorrente afferma - riproponendo sostanzialmente le stesse argomentazioni già oggetto di esame a seguito del ricorso di RI 1 nel consid. 2 di questa sentenza - che il presidente della Corte non si è limitato a precisare l’originario capo di accusa, ma ha, invece, esteso – malgrado l’opposizione formulata durante il dibattimento - il reato di complicità in appropriazione indebita anche all’operazione di addebito del conto _ , operazione originariamente non indicata nell’atto di accusa.
a)
Il 2 luglio 2008, il presidente della Corte ha prospettato, a carico di RI 2, quella che ha indicato essere una precisazione del capo di accusa di complicità in appropriazione
indebita di cui al B. 1. dell'atto di accusa nei seguenti termini:
“per avere, a _ e _ , nel periodo 28 maggio -15 giugno 2001, agendo in qualità di complice di RI 1, permesso che quest'ultimo impiegasse indebitamente a proprio profitto valori patrimoniali affidati allo stesso RI 1, per un importo complessivo pari a CHF. 26'980'757.84, costituiti da fr. 180'694.00 e dai valori in essere nel deposito titoli no. _ , pari a fr. 26'800'063.84, dando seguito dapprima alla richiesta di RI 1 di trasferire un importo complessivo di CHF 21'539'722,85 mediante trasferimento dalla relazione _ (avente quale beneficiario economico PC 1 con procura generale a favore di RI 1) a favore della relazione _ (avente quale beneficiario economico RI 1 con procura generale a favore di PC 1) di titoli per un valore di CHF 21’409'124.85 ed eseguendo un bonifico di CHF 130'598.- ed in seguito, sempre su richiesta di RI 1, il trasferimento del patrimonio di" CHF 26'800'063.84 dalla relazione _ , alla relazione _ , di pertinenza esclusiva di " RI 1, non essendo stata rilasciata procura alcuna in favore di PC 1, procedendo quindi materialmente all'esecuzione del trasferimento, ritenuto che in data 20.07.2001 titoli per un valore di fr. 25'339'536.28 sono stati reintegrati nel patrimonio di PC 1 tramite trasferimento a favore della relazione _ dalla relazione _ , considerato altresì il bonifico di data 9.8.2001 da _ a _ di fr. 4'325'640.00 a copertura del debito creatosi su _ a: seguito dell'utilizzo della linea di credito in conto corrente.”
(verb. dib. pag. 85 e doc. dib. 10).
In aula, RI 2 si è opposto alla succitata precisazione rilevando come si trattasse di un’estensione delle accuse formulate a suo carico, ciò che avrebbe dovuto comportare un rinvio del dibattimento ex art. 250 cpv. 2 CPP (cfr. verb. dib pag 90).
Il presidente della Corte, a fronte della citata opposizione, ha proseguito l’istruttoria dibattimentale, rinunciando ad ordinare il rimando del dibattimento per la presentazione di un nuovo atto di accusa ai sensi dell’art. 250 cpv. 2 e 4 CPP.
b)
A mente della Corte, quanto prospettato in aula era una semplice precisazione del capo di accusa 1B che non ha aggravato la posizione dell’imputato che ha, peraltro, avuto modo di difendersi adeguatamente.
c)
Valgono in questa sede mutatis mutandis le considerazioni già esposte nell’ambito dell’esame del ricorso di RI 1, rilevato come, per RI 2, appaia ancora più evidente che la precisazione operata dal presidente della Corte ha avuto come effetto di aggravarne il quadro accusatorio.
Infatti, se con l’atto di accusa, al funzionario di banca veniva addebitato di avere aiutato RI 1 ad appropriarsi dei beni del pupillo in due operazioni, a seguito della precisazione dell’atto di accusa operata dal presidente le operazioni di aiuto a lui imputate sono diventate tre, e ciò indipendentemente da quando, a mente della Corte, si sia effettivamente realizzato il reato di appropriazione indebita ascritto a RI 1.
Da questo – così come dalle considerazioni espresse in precedenza - consegue che un tale aggravamento della posizione dell’imputato avrebbe dovuto, vista la sua opposizione, comportare il rinvio del dibattimento per la presentazione di un nuovo atto di accusa.
Il mancato rinvio e la condanna di RI 2 per il reato di complicità in appropriazione indebita anche per l’esecuzione dell’addebito del conto _ comporta, quindi, una violazione dell’art. 250 CPP.
Il ricorso è, quindi, su questo punto, accolto.
Il vizio procedurale accertato comporta l’annullamento del dispositivo 3.1. della sentenza
limitatamente all' esecuzione dell'operazione di addebito del conto _ . Quanto alle conseguenze si rimanda al consid. 10.2) che segue.
8.
Il ricorrente lamenta, poi, così come RI 1, un’ulteriore violazione procedurale riferita alla decisione della Corte di valutare i fatti relativi alle accusa di coazione e di estorsione prospettata a carico di RI 1 nel giudizio globale della pena.
Tale censura è inammissibile nella misura in cui la decisione contestata non lede in alcun modo il ricorrente.
9.
Continuando il suo esposto, il ricorrente censura, dal profilo materiale, la violazione degli art. 30 e 31 CP.
Al proposito, si richiama quanto esposto al consid. 3.
Su questo punto, il ricorso va respinto.
10.
Il ricorrente scorge, poi, una violazione del diritto federale nella condanna per complicità in appropriazione indebita consistente - così come previsto dall’atto di accusa poi modificato in aula - nell'avere aiutato intenzionalmente RI 1 dando seguito alla richiesta di quest’ultimo di trasferire fondi, dapprima, dalla relazione _ alla relazione _ , poi, dalla relazione _ alla relazione _ ed, infine, dalla relazione nominativa di PC 1 alla relazione nominativa intestata a RI 1.
La censura impone delle puntualizzazioni.
10.1.
Sull’imputazione di complicità in appropriazione indebita riferita all’esecuzione dell’addebito del conto _ , già s’è detto e deciso con l’annullamento del dispositivo e rinvio alla Corte ai sensi del consid. 7 c).
10.2.
Per quanto attiene, invece, all’aiuto prestato da RI 2 a RI 1 nell’ambito dell’operazione _ -_ , il ricorrente sostiene, dapprima, che il reato di appropriazione indebita non è realizzato mancando l’elemento costitutivo dell’affidamento dei beni.
Egli puntualizza che, quando ha disposto degli averi di pertinenza della relazione _ , RI 1 ne era già il beneficiario economico in virtù del precedente accredito a debito del conto _ , operazione per la quale né a lui né tanto meno a RI 2 era stato mosso alcun rimprovero.
Osserva, a tal proposito, che PC 1 ha perso la possibilità di controllare la disponibilità sui suoi beni, in considerazione del cambiamento dell’avente diritto economico, con il trapasso degli stessi sulla relazione _ , e ciò indipendentemente dal fatto che egli disponesse di una procura su tale conto ritenuto che RI 1 poteva, in ogni momento, revocare la procura concessa.
Il ricorrente aggiunge, poi, che alla realizzazione del reato di complicità in appropriazione indebita osta pure l’assenza dell’elemento soggettivo.
a)
Per quanto attiene all’elemento oggettivo dell’affidamento, la Corte di primo grado, respingendo la tesi difensiva, ha ritenuto adempiuto il reato di appropriazione indebita ai danni di PC 1 con il passaggio dei fondi dal conto _ al conto _ - malgrado RI 1 figurasse quale beneficiario economico di entrambi i conti - poiché ha considerato che PC 1 era rimasto proprietario economico dei suoi beni fintanto che ha mantenuto il potere di disporne in virtù della procura concessagli da RI 1 sul conto _ (sent. pag. 126 consid. 1.2.1.).
La Corte ha giudicato, a questo proposito, irrilevante la circostanza secondo cui RI 1 poteva revocare a PC 1 la procura in ogni momento, ipotizzando che, se ciò fosse avvenuto, l’appropriazione indebita si sarebbe realizzata proprio con la revoca della procura.
b)
La tesi della prima Corte suscita legittimi interrogativi.
Secondo la giurisprudenza, colui che dispone senza diritto di una cosa o di un valore patrimoniale altrui che gli è stato affidato in virtù di un accordo perfezionato con il proprietario, è punibile per appropriazione indebita (TF non pubblicata del 1.9.2004 [6S.277/2004], consid. 2; DTF 111 IV 130 consid 1 p. 32 e segg, 117 IV 429 consid. 3 p. 436).
Per contro, laddove esista un rapporto di fiducia tra il proprietario dei beni e l’autore, ma dove quest’ultimo ottenga il potere di disporre dei beni solo grazie ad un inganno astuto, egli potrà essere punito solo con il reato di truffa (TF non pubblicata del 1.9.2004 [6S.277/2004], consid. 2; DTF 111 IV 130 consid 1 p. 32 e segg, 117 IV 429 consid. 3 p. 436). In effetti, una cosa o un valore patrimoniale ottenuto grazie ad un inganno non può, di principio, essere considerato affidato ai sensi dell’art. 138 CP (TF non pubblicata del 5.3.2007 [6P.225/2006] consid. 10; DTF 117 IV 429, DTF 111 IV 130).
Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, il semplice fatto che i beni siano stati accreditati su un conto intestato a RI 1 non basta – da solo - per giungere alla conclusione che l’appartenenza economica degli stessi non fosse di terzi e, quindi, che una loro appropriazione indebita non fosse più possibile in assenza dell’elemento di terzietà del patrimonio affidato previsto dall’art. 138 CP. Una tale evenienza sarebbe, di principio, possibile, ad esempio, in caso di trasferimento di fondi a titolo fiduciario (cfr.
Stratenwerth/Jenny
, BT I, 6 ed., §13 N.55-58).
Tuttavia, non può, nemmeno, essere condivisa l’opinione della Corte secondo cui il reato di appropriazione indebita si sarebbe perfezionato con il trasferimento del saldo del conto _ al conto _ , per il semplice fatto che, in seguito a tale trasferimento, PC 1 non avrebbe più avuto il potere di disporre dei suoi beni.
L’affidamento dei beni non presuppone che il proprietario mantenga il potere di disporre dei beni affidati (DTF 6P.225/2006; 6S.709/2000; 119 IV 127; 118 IV 33; 117 IV 429; 111 IV 19; 109 IV 27). La revoca di una procura sul conto intestato all’affidatario sul quale sono stati accreditati i beni dell’affidante non è, quindi, di per sé, di principio, costitutivo del reato di appropriazione indebita.
Affinché l’operazione _ -_ possa essere considerata un’appropriazione indebita, è necessario accertare che PC 1 aveva, in precedenza, cioè con il trasferimento _ -_ , affidato, ai sensi dell’art. 138 CP, il suo patrimonio a RI 1. In caso affermativo, è, poi, ancora, necessario esaminare quale fosse stato l’accordo alla base di un tale affidamento e, quindi, determinare se le operazioni ordinate da RI 1 fossero o meno contrarie alle istruzioni ricevute.
Sulla base degli accertamenti della Corte, è emersa una situazione diversa, e cioè che PC 1 non ha inteso, con il passaggio dei fondi da _ a _ , estinguere il conto _ e affidare i suoi fondi a RI 1 affinché li conservasse su un conto a lui intestato.
Il potere di disporre concesso in quell’occasione a RI 1 da PC 1 non è stato il frutto di un accordo perfezionato tra i due, bensì il risultato di un raggiro architettato dall’imputato per ottenere la firma dell’ordine di estinzione del conto _ (che egli, da solo, non aveva facoltà di ordinare; cfr sentenza, pag 81 e 82, consid VII. 2.) con il trapasso di tutti i titoli e averi sul conto _ .
PC 1 ha, infatti, riferito di avere, su richiesta di RI 1, sottoscritto l’autorizzazione di addebito e di estinzione del conto _ (a lui intestato) a favore del conto _ (intestato a RI 1 che ne era, pure, l’avente diritto economico) senza sapere in che cosa consistesse veramente l’operazione, fidandosi di quel che RI 1 gli aveva detto e, cioè, che si trattava semplicemente di
“spostare soldi da un conto ad un altro all’interno della banca”
senza sapere – poiché RI 1 si era ben guardato dal dirglielo - che il conto di destinazione dei fondi era il _, conto aperto da RI 1 a suo nome più di un anno prima.
RI 1 ha riconosciuto che PC 1 firmò l’ordine di trasferimento senza veramente capire cosa stava firmando poiché lui gli disse che “
si trattava semplicemente di spostare dei soldi da un conto ad un altro”
né cosa avrebbe comportato poiché – ha detto lo stesso RI 1 – “
probabilmente non aveva capito cosa realmente firmasse e cosa realmente sarebbe accaduto dopo la sua firma
” (sentenza, pag. 83, VII, consid. 2)
Il ragazzo – come di solito - non chiese a RI 1 maggiori dettagli sull’operazione che stava ratificando e RI 1 si guardò bene dal spiegargli le sue reali intenzioni che erano – come lo stesso RI 1 ha ammesso – di appropriarsi dei beni di PC 1 poiché si era reso conto
“di come poteva essere comodo avere tanti soldi e vista l’abbondanza avevo deciso di portare via una parte di questi soldi al ragazzo e tenerli per me
” (sentenza, pag. 81, VII, consid. 2). Va, infine, su questa questione, rilevato che l’imputato ha, poi, aggiunto che lo scopo della successiva apertura del conto _ – sul quale avrebbe, da lì a poco, trasferito tutti gli averi presenti sul conto _ - era
“quello di completare nei dettagli il trapasso nella mia disponibilità togliendola completamente a PC 1”
(sentenza, pag. 84, VII, consid. 3).
Il ragazzo aveva piena fiducia in RI 1 per le questioni che riguardavano i suoi beni. Di questo, RI 1 era più che cosciente.
E’ questa fiducia cieca – unitamente alla certezza che il ragazzo, proprio grazie a quella fiducia (e, probabilmente, anche alla sua immaturità), non gli avrebbe chiesto spiegazioni supplementari a quelle sparute che lui gli dava – che RI 1 ha sfruttato per ottenerne, in modo truffaldino, il consenso.
Ai funzionari di PC 2, RI 1 aveva giustificato quest’operazione con la necessità di proteggere il ragazzo – o meglio, il patrimonio del ragazzo - da eventuali colpi di testa dovuti ai problemi psichiatrici e di dipendenza dalle droghe che stava vivendo in quel periodo.
Da tutto questo sembra dover essere concluso che RI 1 ha ottenuto l’estinzione del conto _ (di pertinenza di PC 1) e lo spostamento dei fondi ivi depositati sul conto _ e, quindi, il potere di disporre in modo totalmente libero (il conto _ , a differenza del _ , era a lui intestato) dei beni di PC 1 grazie ad un inganno e non sulla base di un accordo che sarebbe stato – in un secondo momento – disatteso indebitamente.
Il reato per il quale RI 1 avrebbe dovuto rispondere, pertanto, sembra essere quello di truffa, riferito alla prima operazione (se del caso completata con la seconda, viste le dichiarazioni di RI 1 riportate al punto B6), cioè all’operazione con cui è stato estinto il conto _ e sono stati trasferiti i beni lì depositati sul conto _ .
Se così fosse, l’operazione successiva di addebito del conto _ non adempirebbe i presupposti oggettivi del reato di appropriazione indebita, poiché un valore patrimoniale ottenuto per mezzo di un inganno astuto – come visto sopra - non può essere considerato come affidato (TF non pubblicata del 5.3.2007 [6P.225/2006] consid. 10; DTF 117 IV 429, DTF 111 IV 130).
Stanti queste premesse, RI 2 andrebbe assolto dall'imputazione di complicità in appropriazione indebita in relazione al passaggio _ -_ (per la prima fase, ossia per l'addebito di _ , come visto, la condanna è stata anzitutto cassata per violazione dei diritti di parte).
In virtù dell'art. 297 CPP, il proscioglimento per l'addebito di _ andrebbe riconosciuto anche a RI 1.
Sennonché, per giungere fino a tanto occorre, come visto, accertare la qualifica giuridica della prima operazione, ossia di quella relativa al passaggio _ -_ . Si rivelasse fondata l'ipotesi di truffa seriamente adombrata da questa Corte sulla base degli accertamenti della sentenza impugnata, RI 1 andrebbe riconosciuto autore colpevole di questo reato, con conseguente suo proscioglimento dall'imputazione di appropriazione indebita riferita alla seconda fase.
RI 2, dandosene gli estremi, andrebbe invece riconosciuto autore colpevole di complicità in truffa riferita alla prima fase e prosciolto da quella di complicità in appropriazione indebita.
Ma tutto ciò richiede che agli imputati vengano prospettate le imputazioni che entrano in considerazione. Con il che, sempre per quanto riguarda la condanne di cui ai dispositivi n. 1.1 e 3.1 della sentenza impugnata per le vicende legate all'addebito dei conti _ e _ , la sentenza va annullata e gli atti rinviati a una nuova Corte delle assise criminali affinché:
i) proceda (oltre che alla notificazione delle imputazioni di coazione ed estorsione, v. consid. 1d che precede), in relazione all'addebito del conto _ (v. consid. 2c che precede), alla prospettazione a RI 1 dell'imputazione di truffa (se del caso, completata con riferimento alla seconda operazione, cfr dichiarazioni di RI 1 riportate nel consid B6), rispettivamente di appropriazione indebita;
ii) proceda (dandosene il caso) alla prospettazione a RI 2, in relazione all'addebito del conto _ (v. consid. 7c che precede), dell'imputazione di complicità in truffa (se del caso, completata con la seconda operazione), rispettivamente della complicità in appropriazione indebita;
iii) proceda, in caso di opposizione dei prevenuti all'integrazione dell'atto di accusa, alla sospensione del dibattimento, per la presentazione di un atto di accusa che contempli le nuove imputazioni;
iv) statuisca sulle nuove imputazioni e proceda alla commisurazione della pena avuto riguardo all'esito del dibattimento e alle imputazioni non toccate dalla presente decisione di rinvio.
10.3.
Per quanto attiene, invece, al reato di complicità in appropriazione indebita riferito al trasferimento di fondi dalla relazione nominativa di PC 1 a quella nominativa intestata a RI 1 (AA aggiuntivo 44/2008), il ricorrente sostiene come non sia dato, per lui, l’elemento soggettivo poiché lui “
non solo non sapeva – fino al 3 luglio, dopo l’esecuzione dei due trasferimenti – ma neppure voleva che RI 1 si arricchisse indebitamente. Anzi aveva sostanzialmente creduto alla versione venduta a lui e a _ secondo cui occorreva trasferire quegli averi per proteggere il ragazzo da eventuali colpi di testa e quindi sottrarli al suo potere di disposizione e all’influenza di chi avrebbe voluto approfittare di lui”
(ricorso pag 20).
Egli, continua, affermando, in sintesi, che l’esecuzione dell’ordine di trasferimento in esame non è, soggettivamente, da ascrivere alla sua volontà di aiutare RI 1 ad arricchirsi indebitamente ma è, tutt’al più, frutto di una sua negligenza: lui ha eseguito l’ordine poiché era stato influenzato da una serie di circostanze che l’hanno portato a credere di agire in modo corretto. Dapprima, il fatto che, poco prima, PC 1 aveva autorizzato il trasferimento di fondi per oltre fr. 20.000.000.- dal _ al _ . Poi, la convinzione che RI 1 era una specie di familiare di PC 1 che, peraltro, questi aveva designato suo erede universale. Poi, perché RI 1 gli aveva ripetuto di agire in quel modo per preservare i beni da possibili colpi di testa del ragazzo. E, infine, perché, a differenza dell’operazione _ -_ , quel trasferimento non aveva sollevato perplessità nel suo diretto superiore, il vice-direttore _ .
Il ricorrente sostiene, poi, come il suo comportamento dopo il 3 luglio 2001 - che ha portato alla revoca della procura generale conferita da PC 1 a RI 1 ed al blocco interno del conto _ – sia la prova dell’assenza della sua volontà di aiutare RI 1 ad arricchirsi indebitamente.
a)
Circa la consapevolezza di RI 2 sulle finalità del trasferimento di cui all’AAAgg, la Corte ha, dapprima, ricordato che lo stesso RI 2, nel verbale MP 20.11.2001, ha riferito che RI 1 gli aveva detto che “
avrebbe fatto figurare nelle prossime dichiarazioni dei redditi questo trasferimento come una donazione”
precisando, nel contempo, di essere ben cosciente che così non era (“
ciò significa che in quel momento non lo era
”) e che “
per me e _ era chiaro che lui si prendeva questi soldi e basta”
(sentenza, pag 91, consid IX. 3.). La Corte ha, poi, rilevato che, rispondendo alla domanda volta a sapere come mai, in quelle condizioni, lui avesse consentito a tale trasferimento, RI 2, nell’interrogatorio del 20.11.2001, rispose che “
io sapevo che PC 1 aveva fatto testamento a favore di RI 1. Inoltre, PC 1 avrebbe potuto anche avallare una donazione anche in seguito
” (sentenza, pag 91, consid IX. 3.)
Commentando tali dichiarazioni, la Corte ha sottolineato come apparisse “
assai goffo e poco credibile”
il tentativo dell’imputato di giustificare il suo operato con l’esistenza del testamento poiché “
già solo per una questione d’anagrafe appariva certamente poco plausibile che un trapasso del genere potesse per finire avvenire per causa di morte”
(sentenza, pag 153, consid XIII. 2.6.)
Quanto al far figurare l’operazione come una donazione, la Corte ha sottolineato come risulti dalle dichiarazioni dello stesso RI 2 che egli era perfettamente cosciente che il trapasso dei beni non faceva seguito ad una donazione poiché lo stesso imputato ha ammesso, sempre nel verbale 20.11.2001, che RI 1
non aveva detto loro che “
questo denaro gli veniva donato dal ragazzo ma ci ha detto soltanto che voleva questo denaro per avere un po’ di denaro dichiarato sul proprio conto
” (sentenza, pag 153, consid XIII. 2.6)
Infine ed in sintesi, circa la consapevolezza di RI 2, la prima Corte ha ritenuto che egli sapeva che il trasferimento dei beni “
comportava il trapasso degli averi dal PC 1 al RI 1 senza che il primo ne avesse più il controllo, che si trattava di un affare poco chiaro (“fatto figurare” significa fatto risultare una cosa per un’altra), che il PC 1 non avrebbe certamente avallato sia per l’inusualità dell’operazione sia perché sapeva dei rapporti tesi con il RI 1 e, infine, che era pure un’operazione fiscalmente molto onerosa
”. Tuttavia, ha continuato la Corte, nonostante questa consapevolezza, RI 2 “
ha preferito assecondare, ancora una volta, il RI 1
”
(sentenza, pag. 153, consid XIII. 2.6).
La Corte ha, poi, ritenuto, quale ulteriore elemento di consapevolezza (contrastante la pretesa convinzione di RI 2 di operare nell’interesse e/o secondo il volere di PC 1), il fatto che proprio poco tempo prima, per un’operazione similare, era stata richiesta dalla Banca un’autorizzazione scritta del ragazzo.
Operando il trasferimento nonostante le circostanze di cui s’è detto, RI 2 si è reso – secondo la Corte di primo grado – autore colpevole di complicità in appropriazione indebita.
b)
Quanto l'autore di un reato sa, vuole o accetta, ciò che ha visto, pensato, creduto, compreso, riconosciuto, sentito, previsto, preso in considerazione oppure ignorato, ciò che si è immaginato, ciò di cui aveva conoscenza, ciò che ha deciso, ciò che voleva, l’eventualità cui si è accomodato, ciò che ha escluso, il disegno che perseguiva, i motivi a delinquere e il suo stato d’animo nei confronti dell’infrazione sono questioni di fatto (DTF 128 I 177 consid. 2.2 pag. 183, 128 I 53 consid. 3 pag. 63, 125 IV 242 consid. 2 pag. 252; DTF 128 I 177 consid.
2.2 pag. 183, 128 IV 53 consid. 3 pag. 63, 125 IV 242 consid. 2c pag. 252, 119 IV 1 consid.
5 pag. 3, 110 IV 20 consid. 2 pag. 22; DTF 111 IV 74).
Pertanto, gli accertamenti della Corte sulla questione di sapere se un autore ha agito con volontà e consapevolezza o ha consentito all'evento dannoso vincolano la Corte di cassazione e di revisione penale (per analogia, sul piano federale:
Wiprächtiger
in: Geiger/Münch, Prozessieren vor Bundesgericht, vol. I, 2a edizione, pag. 226 n. 6.99 con richiami alla nota 182;
Corboz
, Le pouvoir en nullité à la Cour de cassation du Tribunal fédéral, in: SJ 113/1991 pag. 94 con la nota n. 246). In altri termini, le constatazioni relative al foro interiore di un soggetto – ciò che la persona sapeva, si proponeva, aveva l'intenzione di fare o immaginava, lo stato psichico nel quale essa ha agito, la sua cognizione piena o ridotta di commettere un illecito – possono essere criticate davanti alla Corte di cassazione e di revisione penale soltanto per arbitrio (art. 288 cpv. 1 lett. c e 295 cpv. 1 CPP; cfr. sul piano federale:
Schweri
, Le pourvoi en nullité devant le Tribunal fédéral, in: FJS 748C pag. 67 in basso; DTF 123 IV 155 consid. 1 pag. 156, 121 IV 18 consid. 2b/bb pag. 23 con rinvii).
c)
Arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche erroneo, bensì apertamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 127 I 54 consid. 2b pag. 56, 126 I 168 consid. 3a pag. 170, 125 I 166 consid. 2a pag. 168, 125 II 10 consid. 3a pag. 15) o fondato unilateralmente su talune prove ad esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia 369 consid. 3 pag. 371).
Per motivare una censura di arbitrio non basta, dunque, criticare la sentenza impugnata né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di arbitrio
(DTF 128 I 177 consid. 2.1 pag. 182, 275 consid. 2.1, 125 II 129 consid. 5b pag. 134, 125 I 166 consid. 2a pag. 168, 124 I 208 consid. 4a pag. 211).
d)
Per
dimostrare l’arbitrio, un condannato non può limitarsi ad allegare la propria versione dei fatti e la propria ricostruzione degli eventi dolendosi perché le conclusioni della prima Corte non collimano con le proprie.
Egli deve, invece, sostanziare l’arbitrio confrontandosi con la sentenza impugnata e spiegando con un minimo di precisione perché singoli accertamenti di fatto siano arbitrari - cioè manifestamente insostenibili – in quanto destituiti di fondamento serio e oggettivo oppure in aperto contrasto con gli atti (precisando, se del caso, con quali risultanze istruttorie essi sarebbero manifestamente inconciliabili).
Sulla questione del presupposto soggettivo del reato, il ricorrente non si confronta con l’opinione e le argomentazioni della Corte di prime cure ma si limita a contrapporre il suo parere – cioè, l’opinione secondo cui lui non sapeva che, con quell’operazione, RI 1 voleva arricchirsi indebitamente a danno di PC 1 - a quello della Corte così che, in buona sostanza, il gravame si esaurisce in una serie di considerazioni appellatorie mediante le quali il ricorrente mette ripetutamente in discussione le conclusioni del primo giudice in punto alla sua consapevolezza attraverso la conferma della propria interpretazione degli eventi.
Per sostanziare l’arbitrio, non basta criticare la sentenza impugnata né contrapporle una propria versione dell'accaduto – quand’anche essa appaia preferibile - ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di arbitrio.
In concreto, ciò non è stato fatto.
Su questa questione, il ricorso – avente natura meramente appellatoria - è inammissibile.
11.
Il ricorrente continua il suo allegato sostenendo che la Corte di primo grado, condannandolo per il reato di complicità in falsità in documenti, è incorsa in una violazione di diritto: alla realizzazione dell’art 251 CP osterebbe, secondo la tesi ricorsuale, l’assenza del presupposto oggettivo nella misura in cui – contrariamente a quanto ritenuto dalla prima Corte - la risoluzione della DT del 18 maggio 1998 non sarebbe un documento passibile di falsificazione ai sensi dell’art. 251 CP.
Aggiunge, poi, che il reato non è nemmeno adempiuto dal profilo soggettivo ritenuto come nell’agire di RI 2 – peraltro non causale alla realizzazione del reato – si possa, tutt’al più, intravedere la sua preoccupazione di garantire a PC 1 la conservazione del suo patrimonio, nell’entità lasciatagli dal nonno e dalla madre.
Il ricorrente contesta, inoltre, la conclusione della Corte, secondo cui a lui incombeva l’obbligo di dichiarare alla DT l’entità del patrimonio di PC 1.
a)
In relazione a questa condanna, i giudici di prime cure hanno accertato che il 3.4.1998 _ , delegato della DT, incontrò in PC 2 RI 1 e RI 2 “
con l’intenzione di conoscere il patrimonio globale di PC 1”
(sentenza, pag 34, consid. IV. 2.).
In quell’occasione fu RI 2 che consegnò a _ “
la documentazione necessaria per allestire l’inventario”
(sentenza, pag 35, consid IV. 2.).
Proprio sulla base della documentazione fornita da RI 2, _ compilò l’inventario che faceva stato di una sostanza di complessivi fr. 19.378.992.70.
Sempre secondo la Corte di prime cure, la decisione di sottacere alla DT l’esistenza dei beni che né il nonno né la madre di PC 1 avevano dichiarato al fisco venne presa insieme da RI 1 e da RI 2 (sentenza
pag 35, consid IV. 2.
).
Rilevato, poi, come lo stesso RI 1 avesse ammesso che a _ era stato fatto “
credere che quanto dichiarato era tutto il patrimonio di PC 1”
(sentenza, pag 155, consid XIII. 3.3.a), la Corte ha respinto la tesi di RI 2 secondo cui lui si era limitato ad indicare i beni di PC 1 depositati in PC 2 senza pretendere che si trattasse di una dichiarazione di completezza poiché “
è stato accertato che _ , delegato della DT all’erezione dell’inventario, proprio per conoscere l’entità del patrimonio del PC 1, si è recato in PC 2 ed ha incontrato RI 2” (
sentenza, pag 156, consid XIII. 3.3.b.) e poiché ha accertato che RI 2 “
sapeva perfettamente lo scopo di quell’incontro”.
La Corte ha, poi, ritenuto che RI 2 non era in quell’occasione tenuto al segreto bancario. Da un lato, poiché la DT non è un’autorità fiscale. D’altro canto – e soprattutto – poiché a RI 2 era noto che la DT era l’autorità di nomina del tutore che agiva nell’interesse del pupillo: “
in altri termini
– ha considerato la Corte –
la richiesta d’inventario è fatta dall’autorità nell’interesse del tutelato, come se fosse il tutelato stesso a richiedere quali sono i suoi beni”
(sentenza pag 157, consid XIII. 3.3.f.)
.
Pertanto, omettendo di menzionare quei beni di cui conosceva l’esistenza, RI 2 ha negato una corretta informazione al tutelato – o meglio, a chi per lui la chiedeva - ed ha volontariamente contribuito a far sì che nell’inventario figurasse solo una parte del patrimonio di PC 1.
Così agendo, RI 2 – secondo i giudici di prime cure - si è reso autore colpevole di falsità in documento, nella forma della complicità.
b)
Già si è detto che l’inventario - così come ogni sua pezza giustificativa - è un documento ai sensi dell’art. 251 CP.
Il richiamo alle norme sulle dichiarazioni fiscali non giova in un contesto regolato dalle norme sulla tutela contenute nel CCS.
Il ricorso, limitatamente a questa censura, deve essere respinto.
c)
Diverso è il discorso per quanto attiene alla censura ricorsuale secondo cui la Corte avrebbe violato il diritto giudicando il comportamento tenuto da RI 2 davanti al delegato della DT costitutivo di complicità in falsità in documenti.
L’obbligo di discrezione imposto ai funzionari di banca vale anche nei confronti delle autorità, a meno che, così come previsto all’art. 47 cpv. 4 della legge federale sulle banche e le casse di risparmio, disposizioni della legislazione federale o cantonale prevedano l’obbligo di dare informazioni all’autorità o di testimoniare in giudizio.
Né il codice civile né la legge cantonale sulle tutele stabiliscono un obbligo di informazione dei funzionari di banca nei confronti delle autorità tutorie.
L’autorità di tutela è un organo dello Stato incaricato di nominare il tutore e di controllare l’esercizio dei suoi compiti.
Contrariamente al tutore - che deve prendere cura del pupillo, rappresentarlo e gestire i suoi beni ed i suoi redditi ed ha, quindi, il diritto di ottenere informazioni complete dai funzionari di banca circa l’entità del suo patrimonio - le autorità di tutela, di principio, non si occupano direttamente della persona e dei beni del pupillo e non lo rappresentano e, quindi, non sono nemmeno autorizzate a rivolgersi direttamente alla banca per ottenere delle informazioni. In questi casi – in assenza di norme specifiche di senso contrario - i funzionari di banca sono tenuti al segreto bancario anche nei loro confronti (cfr.
M. Aubert
, P.-
A. Béguin,
P. Bernasconi
, J.
Graziano-von Burg
,
R. Schwob
,
R. Treuillaud
, Le secret bancarie suisse, ed 1995, p. 121 e segg.).
La regola può soffrire di eccezioni nei casi in cui, per esempio, l’autorità tutoria debba sostituirsi al tutore nell’esercizio delle sue funzioni a seguito della sua destituzione (art. 445 e segg CC) oppure nei casi, sempre più frequenti, in cui l’amministrazione dei beni del pupillo venga affidata a sezioni dell’autorità tutoria preposte a questo scopo. In questi casi, l’autorità tutoria assume la rappresentanza del pupillo ed è, quindi, autorizzata a chiedere delle informazioni alla banca e il funzionario di banca è tenuto a fornirgliele in modo completo (cfr.
M. Aubert,
P.-A. Béguin, P. Bernasconi, J. Graziano-von Burg, R. Schwob, R. Treuillaud
, Le secret bancarie suisse, ed 1995, p. 122).
d)
RI 1 è stato nominato tutore di PC 1 il 20 febbraio 1998. La banca era tenuta a fornirgli tutte le informazioni circa i beni del pupillo. A questo obbligo, la banca ha fatto fronte.
Chiamato a gestire il patrimonio di PC 1, RI 1 ha deciso di non dichiarare nell’inventario i beni depositati in PC 2 ed in _ che non erano, sin lì, mai stati dichiarati al fisco per poter continuare a sottacerne l’esistenza alle autorità fiscali.
In qualità di tutore, egli deve assumersi la responsabilità – anche penale - di tale gesto.
Il funzionario di banca era, invece, tenuto al segreto bancario nei confronti di terzi che non fossero il pupillo o il tutore.
A torto la Corte ha identificato nel delegato dell’autorità tutoria il rappresentante del pupillo.
In quel momento, solo RI 1 lo era e solo a lui la Banca era tenuta a fornire tutte le informazioni sullo stato del patrimonio di PC 1.
Pertanto, RI 2, in occasione della riunione tenutasi il 3 aprile 1998, non ha attivamente contribuito all’allestimento di un documento falso, ma si è limitato – così come concordato con il tutore - a documentare soltanto gli attivi di PC 1 depositati in PC 2 _ , ovvero si è limitato ad indicare al delegato della DT soltanto quella parte di patrimonio che il tutore aveva deciso di rendere noto.
Così come correttamente sostenuto dal ricorrente, dunque, non spettava a RI 2 l’obbligo di indicare al delegato dell’autorità tutoria l’esistenza di altri beni di pertinenza del pupillo.
Il ricorso va, quindi, su questo punto, accolto e RI 2 va prosciolto dall’imputazione di complicità in falsità in documenti.
12.
Il ricorrente censura, da ultimo, sotto il profilo dell’arbitrio, l’accertamento della Corte secondo cui PC 1
“non era nelle condizioni di poter decidere liberamente se querelare o meno RI 1”
e quello secondo cui la decisione di non dichiarare nell’inventario i beni in nero presso PC 2 e _ è stata presa in comune da RI 2 e da RI 1 con il beneplacito, poi, di _ .
Questa Corte può esimersi dall’analizzare entrambe le censure.
La prima, in considerazione del fatto che tale accertamento è in ogni caso superato dalla constatazione secondo cui i reati di appropriazione indebita a carico di RI 1 sono perseguibili d’ufficio.
La seconda, in ragione del proscioglimento di RI 2 dal reato di complicità in falsità in documenti.
13.
Da quanto precede discende che:
13.1.
il ricorso di RI 1 è parzialmente accolto nel senso che:
- il dispositivo 1.1. della sentenza impugnata è parzialmente annullato in relazione alle operazioni di addebito dei conti _ e _ ;
- i dispositivi 5.1. e 6.1. sono annullati.
§ La sentenza è rinviata ad una nuova Corte delle assise criminali affinché proceda secondo quanto indicato ai consid 1d), 2c) e 10.2) e, quindi, provveda ad una nuova commisurazione della pena.
13.2.
il ricorso di RI 2 è parzialmente accolto nel senso che:
- il dispositivo 3.2. è annullato e RI 2 è prosciolto dall’accusa di complicità in falsità in documenti;
- il dispositivo n. 3.1. della sentenza impugnata è parzialmente annullato limitatamente alle operazioni di esecuzione degli addebiti dei conto _ e _ ;
i dispositivi 5.2. e 6.2. sono annullati.
§
La sentenza è rinviata a una nuova Corte delle assise criminali affinché proceda secondo quanto indicato ai consid 7c) e 10.2) e, quindi, provveda ad una nuova commisurazione della pena.
13.3.
La Corte renderà, pure, una nuova decisione sugli oneri processuali di prima sede.
Sulle spese e sulle ripetibili
14.
a)
ricorso di RI 1.
In esito all’attuale sentenza, si giustifica di caricare gli oneri processuali allo Stato che verserà a RI 1 fr. 1500.-. per le ripetibili (ridotte) relative al ricorso da lui presentato.
b)
ricorso di RI 2.
In esito all'attuale sentenza, si giustifica di caricare gli oneri processuali allo Stato che verserà a RI 2 fr. 2500.- per le ripetibili (ridotte) relative al ricorso da lui presentato. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,008 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
d245cdbc-16eb-57a4-9a2e-18d8d745c38a | in fatto ed in diritto
che con decreto d’accusa 11.04.2011, emanato in esito al procedimento penale avviato su querele 20.09.2006 di IS 1, 6.03.2007 di _ e 13.04.2010 di entrambe queste società, il procuratore pubblico ha ritenuto PI 3 autore colpevole di danneggiamento e violazione di domicilio (ripetuta) e ha proposto la sua condanna
alla pena pecuniaria di CHF 2'800.-- (corrispondente a venti aliquote giornaliere da CHF 140.-- cadauna), sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, alla multa di CHF 600.-- e al pagamento della tassa di giustizia e delle spese giudiziarie, e meglio come descritto nel DA _;
che
il 17.05.2013 il giudice della Pretura penale, statuendo sull’opposizione interposta dall’imputato, ha confermato le imputazioni contenute nel decreto d’accusa e ha condannato PI 3 alla pena pecuniaria di CHF 2'100.-- (riducendo le aliquote giornaliere), sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, alla multa di CHF 500.-- (riducendo di CHF 100.-- quella proposta dal procuratore pubblico) e al pagamento della tassa di giustizia e delle spese (cfr., nel dettaglio, inc. _);
che il 16.10.2014 la Corte di appello e di revisione penale, in parziale accoglimento dell’appello presentato dall’imputato, lo ha dichiarato autore colpevole di danneggiamento e violazione di domicilio, lo ha nondimeno prosciolto dall’imputazione di violazione di domicilio per i fatti di cui al punto 2.1. del decreto d’accusa 11.04.2011 e lo ha condannato alla pena pecuniaria di cinque aliquote giornaliere di CHF 140.-- cadauna, per un totale di CHF 700.--,
sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, alla multa di CHF 100.-- e al pagamento della tassa di giustizia e delle spese (cfr., nel dettaglio, inc. _);
che la predetta decisione è regolarmente passata in giudicato, non essendo stata impugnata presso l’Alta Corte;
che con la presente istanza – trasmessa, per competenza, dalla Pretura penale a questa Corte – l’avv. PR 1 chiede, in nome e per conto della sua assistita IS 1, la trasmissione, in copia e anticipato via fax, del verbale del dibattimento 17.05.2013 (inc. _), richiamando la sentenza con motivazione 17.05.2013 emanata dalla Pretura penale (doc. CRP 1.a);
che questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare PI 3, imputato nel procedimento penale di cui all’incarto _ della Pretura penale, nel frattempo archiviato, essendo la qui istante stata parte (in qualità di accusatrice privata) al medesimo;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel presente caso, pur essendo stata l’istante parte (in qualità di accusatrice privata) nel procedimento nel frattempo terminato, essa deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo;
che,
come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10);
che inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994, p. 19);
che lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG;
che nella fattispecie in esame appare pacifico l’interesse giuridico legittimo di IS 1 (rispettivamente del suo patrocinatore avv. PR 1) giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere la trasmissione, in copia, del verbale del dibattimento 17.05.2013 (AI 21 – inc. _), poiché il procedimento penale nel frattempo archiviato l’ha interessata personalmente in veste di parte;
che di conseguenza il verbale di dibattimento richiesto viene trasmesso (anticipato via fax), in copia, al patrocinatore della qui istante unitamente alla presente decisione;
che si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo la qui istante già stata parte al procedimento penale nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
d2d3e33a-8073-5631-8c16-4d9bf550e5dd | in fatto ed in diritto
1.
L’_, alle ore 12.20, in territorio di _, è stato rinvenuto il
corpo esanime
di
┼_ (_), cittadino _.
Il Ministero pubblico ha conseguentemente aperto d’ufficio un procedimento penale (inc. MP _) nell’ambito del quale
il procuratore pubblico ha ordinato l’autopsia e l’esame tossicologico sulla salma della vittima (AI 1). Il relativo rapporto è stato allestito il 4.06.2013 e completato il 9.08.2013 (AI 5 e AI 7). Il perito è giunto alla conclusione secondo la quale andava sicuramente privilegiata l’ipotesi suicida quale causa del suo decesso (AI 7, p. 3). L’incarto penale è stato archiviato il 23.09.2013 (NLP _).
2.
Con la presente istanza – consegnata dal Ministero pubblico, per competenza, a questa Corte ed emendata su richiesta il
18.04.2014
– IS 1 chiede la trasmissione, in copia, del verbale dell’autorità giudiziaria che ha stabilito il decesso di
┼_.
A sostegno della sua richiesta precisa in particolare che il 18.12.2013 sarebbe stato pubblicato il testamento olografo di
┼_ da cui essa risulterebbe quale beneficiaria dell’appartamento con due posti auto, ubicati in Via _ no. _ a _, ove lei abita. L’immobile sarebbe gravato da ipoteca a garanzia di un contratto di mutuo a suo tempo stipulato dal defunto per il suo acquisto, il cui debito (assistito da polizza assicurativa) si estingue in caso di decesso del debitore. Con scritto 29.01.2014 la _ avrebbe comunicato alla sua filiale della provincia di _ di essere venuta a conoscenza del decesso del suo assicurato ┼_ e di necessitare, tra gli altri documenti, copia del verbale dell’autorità giudiziaria intervenuta sul luogo dell’incidente (in caso di incidente per cause accidentali). Con dichiarazione di successione registrata presso l’Agenzia delle entrate di _ sarebbe stato attuato il trasferimento dell’immobile dal defunto alla qui istante, quale beneficiaria designata (cfr., nel dettaglio, doc. CRP 1, doc. CRP 4 e doc. CRP 5; cfr. anche gli scritti 20.02.2014,
5.03.2014, 6.03.2014 e 10/11.03.2014 di IS 1,
AI 9 – AI 12, inc. NLP _).
3.
Come esposto in entrata, il procuratore pubblico si è rimesso al prudente giudizio di questa Corte, rilevando nondimeno che la richiedente non risulterebbe, ai fini della legislazione elvetica, erede legittima della persona deceduta, poiché la stessa vanterebbe un diritto ereditario sulla base di un testamento olografo di vecchia data non convalidato giudiziariamente.
4.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
5.
Ora, dalla documentazione agli atti si evince in particolare che in data 18.12.2013 è stato pubblicato con verbale un testamento olografo redatto il 30.04.2010 da _ (nel frattempo deceduto) a favore di IS 1 (già _), quale legataria, avente quale oggetto un appartamento con due posti auto (cfr., al proposito, AI 9 – AI 12 dell’inc. NLP _ e documentazione annessa allo scritto 18.04.2014, doc. CRP 4 e doc. CRP 5).
Ciò posto e tenuto conto dei motivi addotti nella presente richiesta, a giudizio di questa Corte appare dato un interesse giuridico legittimo di IS 1 giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere la trasmissione, in copia, della pagina 1 e della pagina 3 della relazione medico legale sugli accertamenti autoptici eseguiti sulla salma di _
(nato il _ e deceduto l’_) allestita dalla dr.ssa _ il 9.08.2013 (AI 7 – inc. NLP _), da cui emerge il motivo del suo decesso.
In siffatte circostanze
la pagina 1 e la pagina 3 della relazione medico legale sugli accertamenti autoptici eseguiti sulla salma di _
allestita dalla dr.ssa _ il 9.08.2013 (AI 7 – inc. NLP _) vengono trasmesse, in copia, all’istante unitamente alla presente decisione.
Va da sé che la summenzionata documentazione potrà essere usata esclusivamente nell’ambito della richiesta presentata dalla
società di assicurazione _ di cui alla presente istanza.
6.
L’istanza è accolta ai sensi del surriferito considerando. La tassa di giustizia, contenuta al minimo, e le spese sono poste a carico di chi le ha occasionate. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
d312cbb5-4d42-5d9d-ac6b-aaf81d16b409 | in fatto
a.
Con decreto d'accusa 1.03.2010 (passato in giudicato) del Ministero pubblico RE 1 è stato condannato alla pena pecuniaria (ferma) di 90 aliquote giornaliere da CHF 110.-- ciascuna (corrispondenti a complessivi CHF 9'900.--), con l'avvertenza che in caso di mancato pagamento la pena sarebbe stata sostituita con una pena detentiva di 90 giorni, oltre alla multa di CHF 1'500.--, che pure in caso di mancato pagamento, sarebbe stata sostituita con una pena detentiva di 15 giorni. Ciò in quanto egli è stato ritenuto colpevole di guida senza licenza di condurre o nonostante revoca, infrazione alle norme della circolazione, elusione di provvedimenti per accertare l'incapacità alla guida e inosservanza dei doveri in caso d'infortunio (DA _).
b.
Con decreto d'accusa 7.12.2010 (passato in giudicato) del Ministero pubblico il reclamante, ritenuto colpevole di trascuranza degli obblighi di mantenimento, è stato condannato alla pena pecuniaria (ferma) di 90 aliquote giornaliere da CHF 110.-- ciascuna (per complessivi CHF 9'900.--), con l'avvertenza che, in caso di mancato pagamento, la stessa sarebbe stata sostituita con una pena detentiva di 90 giorni, oltre alla multa di CHF 1'000.--, che, pure in caso di mancato pagamento, sarebbe stata sostituita con una pena detentiva di 10 giorni (DA _).
c.
Trascorso infruttuosamente il termine di pagamento delle suddette pene pecuniarie e multe, le stesse sono state convertite in 205 giorni di pena detentiva dall'Ufficio dell'incasso e delle pene alternative, che, nel contempo, il 9.12.2011 ha incaricato la gendarmeria di Bellinzona di provvedere alla riscossione delle pene pecuniarie e multe, con l'avvertenza che in caso di mancato pagamento "
l'interessato dovrà essere accompagnato e trasferito al Penitenziario di Lugano - La Stampa per eseguire la pena
" (mandato di accompagnamento 9.12.2011).
d.
In data 14.12.2011 RE 1 ha richiesto telefonicamente all'Ufficio dell'incasso e delle pene alternative, l'espiazione delle pene mediante braccialetto elettronico.
Di conseguenza, ai fini organizzativi, egli è stato convocato una prima volta per il 20.12.2011, a cui però egli non si è presentato.
Ha fatto seguito una nuova convocazione, per il 3.01.2012, corredata da diffida secondo cui "
in caso di mancata presenza, l'esecuzione di pena tramite sorveglianza elettronica non potrà essere eseguita e verrà emesso immediatamente un mandato d'accompagnamento
" (convocazione 22.12.2011). Audizione questa che, su richiesta del reclamante, è stata successivamente posticipata al 10.01.2012.
In tale incontro l'Ufficio dell'incasso e delle pene alternative - esperite le formalità per l'espiazione dei 205 giorni di pena detentiva nella forma degli arresti domiciliari, mediante, tra l'altro, la stipula di un contratto - ha ammesso formalmente il reclamante al beneficio di tale forma di esecuzione, stabilendo l'inizio al 19.01.2012 e il termine all'11.08.2012 e la somma di CHF 1'370.- quale partecipazione ai costi del braccialetto a carico del reclamante.
e.
Constatata un'interruzione di corrente al modem installato al domicilio del reclamante in tre periodi (dal 15.02.2012 ore 13.52 al 20.02.2012 ore 9.38; dal 23.02.2012 ore 15.18 al 26.02.2012 ore 23.35 e dal 27.02.2012 ore 16.31 al 28.02.2012 ore 9.35), con decisione supercautelare 29.02.2012 l'Ufficio dell'incasso e delle pene "
vista la presenza di presunti problemi tecnici non definiti durante l'esecuzione di pena
" ha sospeso la sorveglianza elettronica a partire dal 28.02.2012 per tempo indeterminato.
Sentito in data 8.03.2012 dal responsabile della sorveglianza elettronica del suddetto Ufficio, in quanto sospettato da quest'ultimo di aver manomesso in più di un'occasione l'apposita apparecchiatura, il reclamante ha escluso nel modo più assoluto di aver volontariamente staccato la corrente elettrica, onde rendere impossibile la sorveglianza per alcuni periodi di tempo. Egli ha asserito di non aver avuto alcun valido motivo per compiere un tale atto e ha piuttosto ricondotto le interruzioni segnalate dal sistema ad un problema tecnico, segnatamente, a suo dire, i riscaldamenti elettrici farebbero di tanto in tanto saltare le valvole per un sovraccarico, cagionando delle interruzioni di corrente.
f.
Con decisione 13.03.2012 l'Ufficio dell'incasso e delle pene alternative ha confermato l'interruzione, con effetto dal 28.02.2012, dell'esecuzione delle pene tramite sorveglianza elettronica, stabilendo per i rimanenti 165 giorni (dal 29.02.2012 all'11.08.2012) il regime ordinario. Esso ha altresì disposto che "
verrà inviata al condannato una diffida (in quanto scaduta infruttuosamente la scadenza fissata per il 28.02.2012), con un ultimo termine di pagamento, per l'importo di Fr. 400.-. Tale importo viene ora considerato come costo per i 40 giorni di sorveglianza elettronica effettuati (Fr. 10.- al giorno). Le successive rate inviate a suo tempo, essendo la sorveglianza interrotta, non sono da pagare
" (decisione 13.03.2012, p. 4). Infine ha escluso la possibilità per il reclamante di eseguire, tramite sorveglianza elettronica, un'ulteriore precedente pena detentiva di 95 giorni (corrispondente a 90 aliquote giornaliere di CHF 120.-- ciascuna oltre CHF 500.-- di multa non pagate) pronunciata il 13.05.2009 dalla Pretura penale di Bellinzona (DA _).
Riepilogati i fatti, tale autorità ha ritenuto che le constatate tre (lunghe) interruzioni di corrente dell'apparecchiatura di sorveglianza elettronica (descritte al considerando in fatto e.) sarebbero da ricondurre a una manomissione intenzionale da parte del reclamante, onde rendere di fatto impossibile la sorveglianza per un periodo di tempo.
Ne sarebbe prova il fatto che durante l'esecuzione di pena tramite braccialetto sarebbero stati sostituiti in due occasioni (il 20.02.2012 e il 22.02.2012) due modem installati al domicilio di RE 1, che si sarebbero in seguito rivelati perfettamente funzionanti. Ciò varrebbe anche per il terzo modem.
Inoltre in data 28.02.2012, rilevata un'interruzione di corrente, quest'ultima sarebbe stata ripristinata un minuto dopo che il responsabile della sorveglianza sarebbe giunto davanti alla porta d'entrata del domicilio del reclamante e avrebbe suonato il campanello.
g.
Contro tale decisione insorge davanti a questa Corte RE 1 con esposto 29/30.03.2012.
In maniera generale sostiene di non aver avuto alcuna ragione valida per manomettere il modem, essendo sempre state esaudite le sue richieste di permesso.
Con riguardo alla visita di controllo del 28.02.2012 precisa di non aver potuto aprire immediatamente la porta dopo il suono del campanello, in quanto stava facendo il bagno e avrebbe impiegato del tempo per rivestirsi e percorrere il corridoio sino all'uscio. Inoltre, a suo dire, non avrebbe potuto sapere l'identità della persona all'entrata, siccome la videocamera posta all'esterno
servirebbe solo "
da deterrente in quanto ho subito parecchi furti
" mentre lo spioncino sarebbe danneggiato sin dall'inizio della locazione.
Asserisce che prima della sua audizione dell'8.03.2012 nessuno mai gli avrebbe comunicato l'esistenza di sospette manomissioni, nemmeno in occasione del disinserimento del modem di data 28.02.2012, che ha interrotto l'esecuzione tramite braccialetto elettronico. Così che, circa la sostituzione di ben tre modem, egli avrebbe sempre pensato trattarsi di apparecchi difettosi.
Assevera inoltre di aver più volte segnalato malfunzionamenti e/o difetti ai modem installati al suo domicilio.
Infine sostiene di aver segnalato sin dall'inizio dell'esecuzione delle interruzioni di corrente varianti "
da qualche minuto a qualche ora
" da ricondurre a un sovraccarico della corrente - che quindi "
salterebbe
" - essendo il riscaldamento in parte elettrico.
h.
Con osservazioni 5/10.04.2012 l'Ufficio dell'incasso e delle pene alternative ha in particolare rilevato che i problemi tecnici riferiti da RE 1 sarebbero stati unicamente legati al modem installato il 20.02.2012 e disinstallato poco dopo. Lo stesso sarebbe stato sostituito, al fine di escludere tali problemi, visto il perdurare della mancanza di corrente dal 15.02.2012, ma in realtà l'apparecchio sarebbe risultato funzionante e il manco di corrente conseguente a una manomissione esterna.
Ha altresì evidenziato che una mancanza di corrente di qualche minuto o qualche ora conseguente al problema delle valvole non metterebbe a rischio la sorveglianza, grazie alla presenza delle batterie, mentre quelle di 6 giorni (dal 15.02.2012 al 20.02.2012) e di 4 giorni (dal 23.02.2012 al 26.02.2012) sì. Esclude in questo caso che il reclamante possa essere rimasto al buio per una decina di giorni.
i.
Delle ulteriori argomentazioni e dello scritto di replica 23/24.04.2012 di RE 1 si dirà - laddove necessario - nei considerandi che seguono. | in diritto
1
. 1.1.
Il Codice di diritto processuale penale svizzero (Codice di procedura penale, CPP), in vigore dall'1.01.2011, all'art. 439 cpv. 1 CPP lascia ai Cantoni la facoltà di designare le autorità competenti per l'esecuzione delle pene e delle misure e di stabilire la relativa procedura.
Il Canton Ticino ha adottato il 20.04.2010 la Legge sull'esecuzione delle pene e delle misure per gli adulti (LEPM), entrata in vigore l'1.01.2011, nonché ha apportato delle modifiche - pure entrate in vigore l'1.01.2011 - al Regolamento sull'esecuzione delle pene e delle misure per gli adulti (REPM) del 6.03.2007 (già in vigore dal 9.03.2007).
Giusta l'art. 3 cpv. 1 REPM le autorità competenti per l'esecuzione delle pene e delle misure sono il Dipartimento delle istituzioni, la Divisione della giustizia, il giudice dell'applicazione della pena, la Direzione delle strutture carcerarie e l'Ufficio dell'assistenza riabilitativa. Per quanto riguarda la Divisione della giustizia a tenore dell'art. 5 cpv. 1 REPM essa è "l'autorità competente" o "l'autorità di esecuzione" a norma del diritto federale, salvo disposizione contraria della legge o del regolamento.
La Divisione della giustizia - e per essa l'Ufficio dell'incasso e delle pene alternative, attivo dall'1.01.2011 e da cui dipende - è in modo particolare l'autorità competente ad occuparsi della procedura in materia di espiazione della pena tramite gli arresti domiciliari in base al Regolamento sull'esecuzione della pena nella forma degli arresti domiciliari del 13.07.2004, in vigore dal 16.07.2004 (art. 5 ss.).
Tutte le decisioni in materia di esecuzione delle pene e delle misure, che non rientrano ex art. 12 cpv. 1 LEPM nella competenza del giudice dell'applicazione della pena nei casi elencati all'art. 10 LEPM, sono a tenore dell'art. 12 cpv. 2 LEPM direttamente impugnabili con reclamo alla Corte dei reclami penali entro 10 giorni; si applica per analogia la procedura prevista negli articoli 379 e seguenti CPP.
1.2.
Con il reclamo ex art. 393 ss. CPP si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l'eccesso e l'abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l'accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e/o l'inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato entro 10 giorni (art. 396 cpv. 1 CPP) per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all'art. 390 CPP per la forma scritta ed all'art. 385 CPP per la motivazione.
La persona o l'autorità che lo interpone deve indicare, in particolare, i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
1.3.
Il gravame inoltrato il 29.03.2012 contro la decisione 13.03.2012 dell'Ufficio dell'incasso e delle pene alternative notificata il 20.03.2012 è quindi tempestivo.
Le esigenze di forma e motivazione del reclamo sono rispettate.
RE 1, quale condannato e destinatario della decisione impugnata, che lo tocca direttamente, personalmente e attualmente nei suoi diritti, è pacificamente legittimato a reclamare giusta l'art. 382 cpv. 1 CPP avendo un interesse giuridicamente protetto all'annullamento o alla modifica del giudizio.
Il reclamo è quindi, nelle predette circostanze, ricevibile in ordine.
2.
2.1.
Il condannato ad una pena privativa della libertà di breve durata (da 20 giorni a 12 mesi) può essere autorizzato ad eseguire la pena nella forma degli arresti domiciliari se, in ragione del suo carattere e dei suoi precedenti, risulta capace di rispettarne le condizioni (art. 1 e 2 cpv. 1 del Regolamento sull'esecuzione della pena nella forma degli arresti domiciliari del 13.07.2004).
La Divisione della giustizia controlla l'esecuzione della decisione e, se è il caso, si reca sul luogo di domicilio del condannato (art. 12 del medesimo Regolamento). Se egli non rispetta le condizioni fissate o non si dimostra motivato durante l'esecuzione agli arresti domiciliari la Divisione della giustizia può sospendere la sua applicazione (art. 13 cpv. 1 del medesimo Regolamento).
La sospensione e l'interruzione degli arresti domiciliari possono ugualmente essere ordinate per ragioni non direttamente imputabili al condannato. In casi gravi l'interruzione può essere decisa senza preavviso (art. 13 cpv. 4 e 5 del medesimo Regolamento).
In caso di interruzione degli arresti domiciliari, la pena residua viene eseguita in regime ordinario o di fine pena (art. 14 cpv. 2 del medesimo Regolamento).
2.2.
L'apparecchiatura per la sorveglianza elettronica consta di un braccialetto trasmittente, fissato alla caviglia dell'interessato mediante un cinturino in gomma (e dunque impermeabile), e di un modem ricevente (posto al domicilio del condannato), collegato alla linea telefonica e ad una presa di corrente elettrica, che non devono mai essere staccati. Il modem registra i segnali prodotti dal braccialetto e li trasferisce al sistema operativo centrale che gestisce il programma di sorveglianza. Esso permette quindi di verificare il rispetto del programma stabilito, in modo particolare gli orari di partenza e di rientro al proprio domicilio della persona interessata.
3.
Nel caso concreto, in buona sostanza, l'Ufficio dell'incasso e delle pene alternative in data 13.03.2012 ha formalmente deciso di interrompere l'esecuzione tramite sorveglianza elettronica di complessivi 205 giorni di detenzione (quale pena detentiva sostitutiva) con effetto dal 28.02.2012, e ha disposto di eseguire i rimanenti 165 giorni in regime ordinario, avendo, a suo dire riscontrato "
palesi e gravi violazioni durante l'esecuzione di pena
", segnatamente lunghe interruzioni di corrente elettrica, che hanno di fatto reso impossibile la sorveglianza per alcuni periodi di tempo, a suo parere, dovute a manomissioni intenzionali da parte del reclamante.
RE 1, in questa sede, esclude invece qualsiasi manomissione da parte sua dell'apparecchiatura della sorveglianza elettronica.
4.
4.1.
Secondo il programma settimanale di base per il periodo compreso dal 19.01.2012 al 4.06.2012 RE 1 deve rimanere al suo domicilio dal lunedì al venerdì dalle ore 19.30 alle ore 6.00 e dalle ore 6.30 alle ore 19.00 deve essere al lavoro; nei giorni di sabato e domenica egli deve trovarsi al proprio domicilio dalle ore 18.00 alle ore 13.30, mentre che dalle ore 14.00 può beneficiare di tempo libero ed uscire di casa, ma deve farvi rientro al più tardi entro le ore 17.30.
4.2.
In concreto, in base ai rapporti evento in atti, che riportano i dati registrati dal sistema operativo centrale, è accertato che al modem installato al domicilio del reclamante è mancata la corrente elettrica dal mercoledì 15.02.2012 ore 13.52 al lunedì 20.02.2012 ore 9.38, dal giovedì 23.02.2012 ore 15.18 alla domenica 26.02.2012 ore 23.35 come pure dal lunedì 27.02.2012 ore 16.31 al martedì 28.02.2012 ore 9.35.
Essi fanno inoltre stato di ulteriori brevi interruzioni di corrente elettrica, che, segnatamente per quelle precedenti il 15.02.2012 per la loro corta durata, non sono state considerate dalla competente autorità quali violazioni.
4.3.
Il reclamante nell'audizione dell'8.03.2012 ha sostenuto che "
il problema è unicamente tecnico, le valvole saltano a causa di riscaldamenti elettrici, di regola dopo un giorno al massimo mi accorgo e ripristino la corrente. Faccio presente che già dall'inizio ho informato il signor _ di questo possibile problema. L'unica volta che mi sono accorto che le luci del modem erano spente ho avvisato. È impossibile che dal 15 al 20 febbraio non ci fosse la corrente e neanche dal 23 al 26 febbraio
" (verbale 8.03.2012, p. 1). Dichiarazioni queste che egli ha ridimensionato nel suo gravame per quanto riguarda i tempi di interruzione, asserendo che a causa del riscaldamento elettrico, vi sarebbero stati di tanto in tanto dei picchi di corrente che avrebbero fatto "saltare" le valvole così che "
ovviamente se non sono presente queste interruzioni possono variare da qualche minuto a qualche ora
" (reclamo 29/30.03.2012, p. 2).
Ora, ritenuto che RE 1, come visto sopra, in base al programma settimanale deve obbligatoriamente trovarsi in casa in qualsiasi giorno della settimana, almeno nella fascia oraria tra le ore 19.30 e le ore 6.00 (nel fine settimana addirittura tra le ore 18.00 e le ore 13.30), nella seconda metà di febbraio e dunque in pieno inverno, è impossibile che egli non si sia accorto immediatamente, o quantomeno la sera stessa, delle surriferite (accertate) interruzioni di corrente (e quindi anche della luce e del riscaldamento) avvenute su più giorni e, in due casi, pure estese al fine settimana. Egli peraltro nella sua audizione si è limitato a negare categoricamente le interruzioni di corrente avvenute su più giorni senza fornire al proposito una giustificazione, mentre nel suo gravame ha soltanto fatto riferimento a brevi manchi di corrente durati da qualche minuto a qualche ora.
4.4.
Mentre che nella sua audizione dell'8.03.2012 il reclamante ha ipotizzato la possibilità di un difetto alla presa della corrente rispettivamente all'interruttore della luce, segnatamente in relazione all'interruzione avvenuta tra il 27 e il 28.02.2012 (laddove il ripristino della corrente è avvenuto un minuto dopo il suono del campanello dell'appartamento di RE 1 da parte del responsabile della sorveglianza elettronica), nel suo gravame egli l'ha escluso, asserendo che "
il mio interruttore è stato controllato da dei professionisti ed è perfettamente funzionante e se necessario questo lo farò certificare
" (reclamo 29/30.03.2012, p. 2). Egli ha quindi sostenuto la presenza di difetti nei modem installati al suo domicilio, che in effetti sarebbero stati sostituiti per ben tre volte. A suo dire, l'addetto che si sarebbe occupato della sostituzione degli stessi gli avrebbe "
detto in più occasioni che i nuovi modem non funzionavano come avrebbero dovuto e ne aveva già cambiati parecchi con altre persone
" (reclamo 29/30.03.2012, p. 2). Di conseguenza il reclamante avrebbe sempre pensato "
di avere una serie di apparecchi difettosi, nessuno mi ha parlato di manomissione o altro prima del verbale
" (reclamo 29/30.03.2012, p. 2). Egli stesso, ha infine rilevato, che avrebbe segnalato più volte malfunzionamenti del modem.
Sennonché delle asserite dichiarazioni dell'addetto che avrebbe sostituito i tre modem, agli atti non risulta alcunché.
Dalle tavole processuali emerge invece, come asserito dalla competente autorità, che il malfunzionamento segnalato dal reclamante era riferito al modem sostituito in data 20.02.2012, anche a seguito della lunga interruzione di corrente registrata dal sistema operativo centrale tra il 15.02.2012 e il 20.02.2012, e ciò per escludere problemi tecnici nell'apparecchiatura. Nel seguito, dopo collaudi, essa si è tuttavia rivelata essere funzionante. Pure funzionanti sono risultati essere gli altri due modem installati al domicilio del reclamante: sia quello sostituito in data 22.02.2012 sia quello disinserito il 28.02.2012.
Il reclamante del resto non ha potuto confutare i risultati dei controlli tecnici effettuati dall'autorità responsabile della sorveglianza elettronica sull'apparecchiatura installata al suo domicilio.
In tali circostanze, appurato che le tre (lunghe) interruzioni di corrente elettrica ai modem installati al domicilio del reclamante e registrate dal sistema operativo centrale, non possono essere ricondotte a manchi di corrente durati ininterrottamente su più giorni conseguenti ad un sovraccarico delle valvole che si sarebbero quindi disinserite, e nemmeno sono conseguenti, dopo opportune verifiche, a difetti e/o a malfunzionamenti dei modem installati al domicilio del reclamante, le stesse non possono derivare che da manomissioni operate di proposito dal reclamante al sistema di sorveglianza elettronica. Di conseguenza nei rilevati tre lassi di tempo la sorveglianza di RE 1 è venuta meno, così che non è stato possibile accertare il rispetto del programma impostogli. Ciò costituisce una violazione delle condizioni e dei regolamenti applicabili in concreto, che autorizzano l'autorità competente a sospendere rispettivamente a interrompere l'esecuzione della pena tramite sorveglianza elettronica ex art. 13 del Regolamento sull'esecuzione della pena nella forma degli arresti domiciliari.
Di conseguenza la decisione qui impugnata merita di essere tutelata.
5.
Il gravame è respinto. La tassa di giustizia e le spese, contenute al minimo per tener conto della sua difficile situazione economica, sono poste a carico del reclamante, soccombente. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
d38e7333-ccef-56c0-a4db-21188d1a36be | in fatto ed in diritto
che il 15.10.2009 il presidente della Corte delle assise correzionali di Lugano, giudice Mauro Ermani, ha dichiarato IS 1 autore colpevole di infrazione alla LStup, contravvenzione alla LStup e guida senza licenza di condurre o nonostante revoca, lo ha prosciolto dall’infrazione alla LStup (per il quantitativo di 35 gr di eroina di cui al punto no. 2 del relativo DA) e, avendo agito in stato di scemata imputabilità, lo ha condannato alla pena detentiva di quattordici mesi (da dedursi il carcere preventivo sofferto) a valere quale pena unica ai sensi dell’art. 89 cpv. 6 CP, comprensiva del ripristino del residuo di pena di sessanta giorni di cui ai DA 21.02.2005 e 4.07.2005 del Ministero pubblico di Lugano e al pagamento della tassa di giustizia e delle spese (inc. TPC _ e _);
che la suddetta decisione è passata in giudicato il medesimo giorno;
che con la presente richiesta – trasmessa dal Tribunale penale cantonale, per competenza ex art. 62 cpv. 4 LOG, a questa Corte – il patrocinatore di IS 1 chiede di poter esaminare gli atti degli incarti penali TPC _ e _, sfociati nella sentenza di condanna 15.10.2009;
che a suffragio della sua richiesta il legale precisa di patrocinare IS 1 in una procedura di ricorso inerente al divieto di entrata nell’ambito della quale gli è stato concesso un termine scadente il 5.07.2012 per produrre eventuali prove dinanzi al TFA e che l’accesso agli incarti penali in questione sarebbe importante per verificare l’ammissibilità o meno del citato divieto (doc. 1.a);
che l’
art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel presente caso, pur essendo stato l’istante parte (quale accusato ai sensi del CPP TI) nel procedimento nel frattempo terminato, egli deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo
;
che
come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10);
che inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994 p. 19);
che lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG;
che nella fattispecie in esame – visti i motivi addotti nella presente richiesta – è pacifico l’interesse giuridico legittimo dell’istante (e di riflesso del suo patrocinatore) in applicazione dell’art. 62 cpv. 4 LOG ad esaminare gli incarti penali TPC _ e _ sfociati nella sentenza di condanna 15.10.2009 (passata in giudicato), poiché l’hanno interessato personalmente in veste di parte;
che a ciò aggiungasi che il contenuto degli stessi potrebbe essere utile per la procedura di ricorso in materia di divieto d’entrata;
che di conseguenza IS 1 rispettivamente il suo patrocinatore avv. PR 1 sono autorizzati ad esaminare gli atti degli incarti penali TPC _ e _ sfociati nella sentenza di condanna 15.10.2009 presso il Tribunale penale cantonale, compatibilmente con gli impegni dei collaboratori della cancelleria;
che gli stessi sono, se del caso, autorizzati a fotocopiare i documenti utili alle loro incombenze;
che l’istanza è accolta ai sensi delle precedenti considerazioni;
che si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo IS 1 già stato parte ai procedimenti penali di cui agli incarti TPC _ e _ nel frattempo archiviati. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
d3f5470a-c03a-58b7-963c-635ab1e7238a | in fatto: A.
Con decreto d’accusa 26.3.2007, il procuratore pubblico ha ritenuto RI 1 autore colpevole di lesioni semplici (per avere, il 12.11.2006, colpito PC 1 con diversi pugni e avergli procurato le lesioni menzionate in due certificati medici) e di danneggiamento (per avere, nelle stesse circostanze, rotto con un pugno il finestrino della porta anteriore sinistra della vettura di proprietà di PC 1) e ne ha proposto la condanna alla pena pecuniaria di fr. 2’700.- (corrispondente a 30 aliquote giornaliere da fr. 90.-), sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni e alla multa di fr. 300.-.
B.
Statuendo sull’opposizione sollevata dal prevenuto, il pretore penale, dopo averlo prosciolto dall’imputazione di danneggiamento, ha ritenuto RI 1 autore colpevole di lesioni semplici per avere colpito e strattonato PC 1 e lo ha condannato alla pena pecuniaria di 15 aliquote giornaliere da fr. 70.- cadauna, sospesa condizionalmente per due anni e ad una multa di fr. 200.-.
C.
Con ricorso 15 maggio 2009, RI 1 chiede, con l’annullamento della sentenza impugnata, la sua completa assoluzione.
D.
Con scritto 17 giugno 2009 il procuratore pubblico, senza svolgere particolari osservazioni, chiede la reiezione del gravame. | Considerando
in diritto: 1.
Giusta l’art. 288 CPP, il ricorso per cassazione può essere presentato per errata applicazione del diritto sostanziale ai fatti posti a base della sentenza (lett. a), per vizi essenziali di procedura, purché il ricorrente abbia eccepito l’irregolarità non appena possibile (lett. b) e per arbitrio nell’accertamento dei fatti (lett. c).
L'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP) ritenuto che arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev'essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 8 consid. 2.1 pag. 9, 173 consid. 3.1 pag. 178, 128 I 273 consid. 2.1 pag. 278).
2.
Il ricorrente esordisce lamentando un vizio essenziale di procedura.
Sostenendo che il primo giudice lo ha condannato per una fattispecie (per avere colpito e strattonato PC 1) diversa da quella contemplata dal DA che gli imputava di avere colpito il PC 1 con diversi pugni, il ricorrente lamenta una lesione del principio accusatorio con conseguente lesione dei suoi diritti, garantiti, non soltanto dal CPP, ma soprattutto dalla Costituzione.
Il ricorrente sottolinea come il decreto d’accusa – imputandogli di avere rotto il finestrino della vettura con un pugno e colpito il PC 1 con diversi pugni – abbia sposato la versione dei fatti di PC 1 che, il 12 gennaio 2007, sentito dalla polizia ha raccontato che, dopo averlo costretto ad arrestare la macchina, il RI 1, gli ruppe il finestrino della macchina e, poi, lo ha colpito con diversi pugni alla parte sinistra della testa e del collo fino a che lui, uscito dalla vettura, riuscì a bloccarlo.
Nonostante ciò – continua il ricorrente – il primo giudice lo ha condannato per avere ferito PC 1 spintonandolo e strattonandolo e, cioè, per una fattispecie diversa da quella considerata nel DA senza, prima, avergli concesso la facoltà di prendere posizione sulla nuova accusa che mai gli è stata prospettata.
2.1.
La procedura penale moderna è governata dal principio accusatorio. L'atto di accusa – e, analogamente, il decreto di accusa – assume una doppia funzione: da un lato circoscrive l'oggetto del processo e del giudizio, dall'altro garantisce i diritti della difesa, in modo che l'imputato possa adeguatamente far valere le sue ragioni (DTF 126 I 19 consid. 2a pag. 21 con rif., 120 IV 348 consid. 2b pag. 353, 116 Ia 455 consid. cc pag. 458, 103 Ia 6 consid.
1b pag. 6; Hauser/ Schweri/ Hartmann, Schweizerisches Strafprozessrecht, 6. ediz., Basilea/ Ginevra/ Monaco 2005, pag. 223 s., n. 6 ss. e pag. 225 n. 8).
Il principio accusatorio – come il principio dell'immutabilità che tutela l'identità tra atto di accusa e oggetto del giudizio – è disciplinato dal diritto cantonale (DTF 126 I 19 consid. 2a pag. 21, 122 V 71 consid. 4a; nel Cantone Ticino dagli art. 198 e segg. CPP e segnatamente dall'art. 200 CPP per quanto riguarda il contenuto dell'atto di accusa), ma le garanzie minime sgorgano dal diritto federale (in particolare dal diritto di essere sentito: DTF 116 Ia 455 consid. Cc pag. 458).
L’art. 200 CPP (cui l’art. 208 CPP rinvia per quel che concerne il decreto d’accusa) definisce il necessario contenuto di un atto di accusa. Scopo della norma è quello di informare adeguatamente il prevenuto circa la natura e l’origine delle accuse rivoltegli, in modo che egli possa impostare una difesa efficace, senza insidie né sorprese (art. 6 § 3 CEDU; DTF 120 IV 357 consid.
3g; 116 Ia 458; Rep. 1986 pag.166 e seg. e rif.; Rep. 1998 pag. 372; DTF 120 IV 348
consid
.
2b; 116 Ia 455
consid
. cc; 103 Ia 7
consid
. 1b; Hauser/ Schweri/ Hartmann, op. cit., pag. 162 n. 6, pag. 164 n. 16; Piquerez, Procédure pénale suisse, Traité théorique et pratique, pag. 648, n. 2970 e 2971).
Siccome il prevenuto deve poter valutare dal profilo oggettivo e soggettivo le imputazioni a suo carico, l’atto d’accusa deve permettere di individuare gli elementi di fatto e di diritto che connotano l’illecito: dall’atto d’accusa devono evincersi le azioni o le omissioni punibili, come pure gli elementi costitutivi dell’infrazione (DTF 120 IV 353 cons. 2).
Se è vero che l’atto di accusa (o il decreto d’accusa) circoscrive l'oggetto del processo e del giudizio, è anche vero che l'identità tra l'atto di accusa e l'oggetto del giudizio non deve essere spinta all'eccesso, fino a esigere una letterale corrispondenza terminologica (sentenza CCRP del 24 agosto 2001 in re H.G., consid. 3c; sentenza CCRP del 22 dicembre 1992 in re B. e P., consid. 2d con riferimento a Rep. 1985 pag. 199; sentenza del Tribunale federale 20 febbraio 1998 in re A. P., consid. 2a/bb) e il principio accusatorio è leso soltanto quando il giudice si fonda su una fattispecie diversa da quella che figura nell'atto di accusa, senza che l'imputato abbia avuto la possibilità di esprimersi sull'atto di accusa adeguatamente e tempestivamente completato o modificato, ovvero sul nuovo complesso di fatti (DTF 126 Ia 19 consid. 2c e d p. 22 ss. con rif., 116 Ia 455 consid. cc pag. 458; Hauser/ Schweri/ Hartmann, op. cit., pag. 224 n. 7 e pag. 228 n. 19).
2.2.
In concreto, risulta con evidenza dagli atti e dall’impostazione del DA, che il procuratore pubblico ha aderito – nel senso che ha ritenuto essere accertata – ed ha fatto propria la versione dei fatti resa da quest’ultimo alla polizia. Pertanto, è evidente che, con il DA in esame, egli ha imputato a RI 1 di avere, prima, rotto con un pugno il finestrino dell’autovettura e, poi, di avere colpito con diversi pugni PC 1 mentre egli si trovava seduto all’interno della vettura.
Condannando RI 1 per avere “
colpito e strattonato
” PC 1 dopo avere accertato, al consid. 6.3. che “
è certo che RI 1 e PC 1 sono venuti alle mani e che più che di pugni veri e propri è sicuro che i protagonisti in ogni caso si sono spintonati ed avvinghiati a vicenda e l’accusato ha colpito e strattonato la parte civile
” (sentenza impugnata, consid. 6.3 pag. 8; cfr. pure, consid. 7 pag. 10), il primo giudice ha manifestamente leso il principio accusatorio – e, di conseguenza, una serie di diritti della difesa fra i quali, in particolare, il diritto di essere sentito – poiché ha condannato l’accusato per una fattispecie totalmente diversa da quella contemplata nel decreto d’accusa.
Come visto sopra e come risulta dagli atti, a RI 1 era imputato di avere colpito con diversi pugni PC 1 mentre questi era seduto nella sua vettura e dopo avere rotto nello stesso modo un finestrino dell’autovettura (ciò che parrebbe, peraltro, compatibile con il fatto che la parte civile presentava lesioni solo sulla parte sinistra del volto e del collo) mentre la sentenza impugnata condanna RI 1 per avere causato le note lesioni colpendo e strattonando PC 1 durante una colluttazione (il primo giudice parla di “
venire alle mani
”) in cui i due protagonisti si sono spintonati ed avvinghiati a vicenda.
In queste circostanze, ritenuto che l'imputato non ha avuto la possibilità di esprimersi sul decreto di accusa adeguatamente e tempestivamente completato o modificato, ovvero sul nuovo complesso di fatti (DTF 126 Ia 19 consid. 2c e d pag. 22 ss. con rif., 116 Ia 455 consid. cc pag. 458; Hauser/ Schweri/ Hartmann, op. cit., pag. 224 n. 7 e pag. 228 n. 19), il ricorso va accolto, la sentenza impugnata va annullata e gli atti vanno rinviati ad un nuovo giudice della pretura penale per un nuovo giudizio.
Dovesse il nuovo giudice ritenere che i fatti si sono svolti in modo diverso da quanto descritto nel DA, egli dovrà prospettare all’imputato la nuova fattispecie ai sensi dell’art 250 CPP.
3.
Visto l’esito del ricorso, gli oneri processuali vanno caricati allo Stato (art. 15 cpv. 2 CPP), che verserà fr. 1'000 a RI 1 per ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,009 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
d437334f-7490-5eff-a64f-b0180b16f579 | Con sentenza del 13 ottobre 2005 la Corte di cassazione e di revisione penale ha accolto entrambi i ricorsi (CCRP, inc. n. 17.2004.70 e 17.2005.13). Per quanto concerne il primo gravame, essa ha considerato che il presidente della Pretura penale, dichiarando definitivo il decreto di accusa senza considerare i motivi fatti valere dall’opponente per giustificare il ritardo, è incorso in un diniego formale di giustizia; ha pertanto annullato la decisione impugnata e rinviato gli atti a un altro giudice della Pretura penale affinché statuisse sulla restituzione in intero del termine implicitamente proposta dall’accusato al momento di sollevare opposizione. Quanto al secondo ricorso, essa ha ritenuto che la decisione dello stesso giudice costituisse di nuovo un diniego di giustizia formale, in quanto egli non ha preso debitamente in considerazione un mezzo di prova che non poteva dirsi, d’acchito, senza rilievo nel contesto di un’istanza volta alla restituzione di un termine per impedimento ad agire dovuto a malattia. Anche in questo caso essa ha rinviato gli atti a un altro giudice della Pretura penale per nuova decisione, con la riserva dell’accoglimento di quella del 23 novembre 2004, nel qual caso la seconda istanza andava dichiara priva di oggetto.
E.
Con sentenza del 21 novembre 2007 il giudice della Pretura penale – previa assunzione della testimonianza richiesta dalla difesa – ha respinto entrambe le istanze di restituzione dei termini proposte da RI 1 il 23 novembre 2004 (al momento di sollevare opposizione al decreto di accusa) e il 23 dicembre 2004 (parallelamente all’inoltro del primo ricorso per cassazione). Contro tale sentenza RI 1 è insorto con ricorso per cassazione dell’11 dicembre 2007, con il quale ne chiede l’ annullamento e il rinvio degli atti a un nuovo giudice della Pretura penale per nuovo giudizio di merito. Il ricorso non ha formato oggetto di intimazione. | Considerando
In diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288 lett. a e b CPP). L’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono sindacabili unicamente qualora la sentenza impugnata denoti estremi di arbitrio (art. 288 lett. b e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF133 I 149 consid. 3.1. pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1. pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia 369 consid. 3 pag. 371). Per motivare un censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una propria versione dell’accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata un sentenza dev’essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 8 consid. 2.1 pag. 9, 1873 consid. 31. pag.178).
2.
Secondo il ricorrente la sentenza impugnata peccherebbe di arbitrio nell’accertamento dei fatti per avere il primo giudice escluso, quale valida ragione di opposizione al decreto di accusa oltre il termine legale di 15 giorni, i problemi di salute e i vuoti di memoria allegati e attestati dal dott. med. _ nel contesto del più ampio quadro clinico profondamente compromesso, tant’è che egli non ha potuto partecipare al dibattimento del 23 agosto 2007, come ben documentato dal certificato medico del 10 agosto 2007 del dott. med. _, dall’audizione del testimone _ e dal mancato pagamento dei costi correnti dell’economia domestica; la sentenza impugnata, sempre secondo il ricorrente, peccherebbe dipoi di errata applicazione del diritto sostanziale ai fatti, per avere il giudice concluso di conseguenza erroneamente, che egli non soffrirebbe di affezioni e alterazioni a livello cognitivo e mnemonico, tali da giustificare l’opposizione tardiva al decreto di accusa, con conseguente reiezione dell’istanza di restituzione de termini.
3.
La restituzione per inosservanza di un termine può essere concessa se la parte o il suo patrocinatore prova di non averlo potuto osservare perché impedita senza sua colpa o per forza maggiore, segnatamente per malattia, assenza scusabile, servizio pubblico o militare o per altre ragioni importanti (art. 21 CPP). L’istanza dev’essere presentata, pena la decadenza, entro dieci giorni dalla cessazione dell’impedimento (art. 22 cpv. 1 CPP). Sull’istanza decide l’autorità davanti alla quale doveva essere compiuto l’atto per il quale è chiesta la restituzione. Se sono stati emanati un decreto di accusa o una sentenza, è competente il giudice che lo sarebbe per giudicare sul rimedio di diritto; in questo caso la restituzione può essere concessa soltanto per presentare ricorso (art. 22 cpv. 2 CPP). Se l’istanza è accolta, l’atto omesso dev’essere compiuto entro il termine di cui è concessa la restituzione (art. 22 cpv. 23 CPP).
4.
Nel ritenere infondate entrambe le istanze di restituzione in intero presentate dall’accusato (una integrativa dell'altra e viceversa), il giudice della Pretura penale ha anzitutto puntualizzato di avere proceduto, su richiesta dell’istante, all’audizione, in data 23 agosto 2007, di _ (sentenza, pag. 2) . Il quale ha riferito quanto segue:
“
Conosco il signor RI 1, in quanto è stato alle mie dipendenze dal 1984 per una decina di anni. Vedevo il signor RI 1 per un caffè con un certa regolarità. Anche nel 2004 mi incontravo con il signor RI 1. Ho potuto constatare che in quegli anni non stava molto bene. Si scordava di pagare l’affitto, le bollette ed altre cose. Egli dimenticava tutto. In particolare , egli si dimenticava di portarmi quanto gli chiedevo. Mi ricordo che ogni tanto mi telefonava e si metteva a piangere. Si lamentava spesso del suo stato di salute. Ricordo che mi disse che aveva ricevuto un decreto di accusa e ne parlammo perché non capivo che cosa c’entrasse. Non sono in grado di indicare quando me ne parlò. Dopo il 1994 non ha più svolto lavori per me. Preciso che si occupava di intermediazioni immobiliari. Quando ha iniziato ad avere problemi di memoria era diventato un’altra persona rispetto a quando lavorava per me. A quel tempo ricordava tutto ed era molto attivo, al contrario del 2004. Nel 2004 RI 1 beveva molto, era spesso ubriaco “
(sentenza, pag. 3–4).
Premesso che è indubbio che con il suo scritto del 23 novembre 2004 l’accusato non abbia rispettato il termine di 15 giorni previsto dall’art. 208 cpv. 1 lett. a CPP per interporre opposizione al decreto di accusa recapitatogli il 20 ottobre 2004, il primo giudice ha dipoi ricordato che l’accusato ha sostenuto che, quando gli è stato intimato il decreto di accusa, non era in grado di fare pienamente valere i suoi diritti di parte a causa delle malattie che lo affliggevano. Soffriva e soffre – a suo dire – di diabete mellito non insulino dipendente, ipertensione arteriosa, steatosi epatica, dislipidemia e arteriosclerosi, che gli causano, fra le altre cose, dei vuoti di memoria; amnesie che gli avrebbero impedito di opporsi tempestivamente al decreto di accusa. Soltanto il 23 novembre 2004, una volta ricevuto l’avviso di recidiva del 19 novembre 2004 dall’Ufficio del casellario giudiziale, egli si è reso conto della situazione, attivandosi senza indugio per fare valere i suoi diritti (sentenza, pag. 2 e 3)
Richiamati gli art. 21 e 22 CPP, il giudice della Pretura penale ha quindi ricordato che a sostegno delle proprie allegazioni, l’accu- sato ha prodotto, contestualmente al suo ricorso per cassazione del 23 dicembre 2004, un certificato medico redatto il 13 dicembre 2004 dal dott. med. _, che lo aveva in cura dal 22 ottobre 2003; replicando il 17 febbraio 2005 alle osservazioni del Procuratore pubblico sull’istanza di restituzione in intero del 23 dicembre 2004, sempre stando alla sentenza impugnata, l’accusato ha dipoi prodotto il certificato medico dell’11 febbraio 2005 dello stesso dott. _ , con cui questi attesta di avere visitato il soggetto il 22 ottobre 2003, il 14 novembre 2003, il 27 novembre 2003, l’11 dicembre 2003, il 16 gennaio 2004, il 10 dicembre 2004, il 12 gennaio 2005 e il 21 gennaio 2005. L’accusa- to, ha proseguito il giudice, ha altresì aggiunto come le sue amnesie siano confermate dall’estratto conto emesso dalla _, dal quale risulta che dal 1998 in poi egli ha pagato le fatture con grandi ritardi, al punto da vedersi sospendere tre volte l’erogazione dell’energia elettrica. Il suo disordine mentale sarebbe infine attestato, secondo l’interessato, anche dal fatto che egli, dalla fine del 2000 a febbraio 2005, a fronte di un canone di locazione di fr 400.– mensili, avrebbe eseguito soltanto tre pagamenti di fr. 2000.–, di fr. 9000.– e di fr. 10 000.– (sentenza, pag. 3).
Vagliate le prove addotte, il primo giudice ha per finire ritenuto che non sia stato provato che al momento della ricezione del decreto di accusa – avvenuta il 20 ottobre 2004 – lo stato di salute dell’accusato fosse compromesso a tal punto da impedirgli di valutare correttamente la situazione e, quindi, di inoltrare tempestivamente opposizione. Il certificato medico del 13 dicembre 2004 del dott. _, secondo lo stesso giudice, peraltro rilasciato diversi giorni dopo che lo stesso paziente aveva inoltrato la propria opposizione, attesta unicamente che quest’ultimo si era lamentato all’inizio della cura nell’ottobre 2003, fra le altre cose, di vuoti di memoria. Lo stesso non indica però né la frequenza, né tanto meno l’intensità degli stessi al momento della ricezione del decreto di accusa. Nemmeno il successivo certificato medico dell’11 febbraio 2005 dello stesso professionista – ha obiettato il giudice – è di maggior conforto, dal medesimo risultando solo che l’istante si era recato da lui 5 volte tra fine ottobre 2003 e metà gennaio 2004, per poi essere visitato nuovamente (dopo 11 mesi di pausa) il 10 dicembre 2004 (visita a seguito della quale è stato verosimilmente rilasciato il certificato medico datato 13 dicembre 2004) ed infine altre 2 volte nel corso del mese di gennaio 2005, senza che siano state minimamente specificate le ragioni delle visite, né tanto meno diagnosi o cure (sentenza, pag. 4). Neppure la deposizione di _, sempre secondo il giudice, consente di ritenere fondata l’istanza, dato che il testimone si è infatti limitato a riferire che lo stato di salute dell’amico (che avrebbe commesso il reato ascrittogli proprio per favorire la sua posizione nell’ambito un contenzioso civile) non era dei migliori e che aveva sovente problemi di memoria (sentenza, pag. 4). In definitiva, ha concluso il giudice, queste constatazioni, unitamente alla ulteriore documentazione prodotta, non dimostrano nulla circa la reale portata dell’asserito disordine mentale che avrebbe afflitto l’accusato nel periodo critico e che gli avrebbe impedito di valutare adeguatamente la situazione e, di conseguenza, di inoltrare tempestiva opposizione, non bastando parlare genericamente di amnesie, ma dovendosi dimostrare l’esistenza di una seria patologia psichica che abbia ridotto in maniera sensibile le sue capacità cognitive. L’accusato, ha fatto poi presente lo stesso giudice, non ha mai sostenuto di non avere capito quale fosse la portata del decreto di accusa intimatogli e nemmeno di non avere saputo di avere a disposizione 15 giorni per impugnarlo. Se l’avesse ritenuto ingiusto, avrebbe anche potuto opporvisi subito o conferire mandato in tal senso a un avvocato (a maggior ragione se, come sostiene, egli era comunque cosciente di essere soggetto a dimenticanze). Del resto, dalla lettura dei suoi verbali di interrogatorio di fronte agli inquirenti, non risulta che sia stata riscontrata qualche sua anomalia nel suo stato di salute o delle sue capacità cognitive rispettivamente che egli ve ne abbia per lo meno accennato (sentenza, pag. 5). Per tacere del fatto che, ha puntualizzato il giudice, il soggetto non è comunque nemmeno riuscito a rendere verosimile di avere agito entro dieci giorni dalla cessazione degli asseriti impedimenti (art. 22 cpv. 1 CPP).
5.
Nella fattispecie, assevera il ricorrente, è invece assodato che egli ha seri e importanti problemi di salute e di natura personale, attestati sia dal medico curante con i molteplici certificati medici versati agli atti, sia riscontrabili dalla sua condotta generale, quali l’elementare gestione degli impegni correnti dell’economia domestica (pagare la pigione, le AIL, ecc.). Senza dimenticare che egli, in sede dibattimentale, ha ancora prodotto il certificato medico 10 agosto 2007 dell’Ospedale _, allestito dal dott. _, che attesta una volta ancora quanto già diagnosticato dal dott. _. V’e poi la deposizione del testimone _ del 23 agosto 2007, che ha portato ulteriore conferma a quella che era ed è la situazione del ricorrente; il teste ha infatti confermato che nel 2004 l’accusato non stava molto bene di salute, si dimenticava di tutto, che nei momenti lucidi cadeva nello sconforto e si lamentava per il suo stato di salute e che non era più in grado di lavorare ed era diventato una altra persona e che prima della malattia ricordava tutto ed era molto attivo, mentre che nel 2004 si comportava in modo del tutto contrario. Se ne deve concludere che, rileva il ricorrente, come anticipato da questa Corte nella sentenza 13 ottobre 2005, egli ha reso verosimile la fondatezza della sua domanda.
6.
Nella misura in cui il ricorrente si propone di fondare l’istanza di restituzione dei termini sulla documentazione annessa alle “controosservazioni” del 17 febbraio 2005 in replica alle osservazioni presentate il 20 gennaio 2005 dal Procuratore pubblico all’istan- za di restituzione in intero del 23 dicembre 2004, ossia sul certificato medico 11 febbraio 2005 del dott. _ , che riporta le visite mediche cui l’istante si è sottoposto tra il 22 ottobre 2003 e il 21 gennaio 2005, e sull’estratto conto delle _ con le registrazioni dal luglio del 1998, il gravame andrebbe disatteso senza ulteriori considerazioni. Giacché statuendo sul ricorso per cassazione proposto dall’ accusato contro la sentenza emanata il 18 marzo 2005 dal presidente della Pretura penale, questa Corte aveva di per sé ritenuto sostenibile la valutazione allora operata dallo stesso presidente della Pretura penale con riferimento a quella documentazione; questi, lo si ricordi, aveva ritenuto che i documenti prodotti confortano se mai la sregolatezza e l’incostanza con cui l’istante ha eseguito molti pagamenti, cosi come le sporadiche e irregolari visite mediche cui egli si è sottoposto, ma nulla dimostrano circa il preteso disordine mentale che l’avrebbe afflitto al momento di ricevere il decreto di accusa. Niente di anormale era poi emerso – sempre stando al presidente della Pretura penale – durante gli interrogatori di polizia e davanti al Procuratore pubblico, onde l’infondatezza della domanda (CCRP, sentenza citata, consid. 3a e 3b). Questa Corte aveva in realtà accolto il ricorso, per avere il presidente della Pretura penale trascurato di considerare l’altro certificato medico del 13 dicembre 2004, in cui lo stesso dott. _ attestava di avere in cura il paziente dal 22 ottobre 2003 e ricordava la sua diagnosi conseguente ai disturbi visivi, ai dolori addominali, ai disturbi urinari, alla stanchezza a ai vuoti di memoria accusati dal paziente: diabete mellito non insulino–dipendente, ipertensione arteriosa, steatosi epatica, dislipidemia e arteriosclerosi. Ignorando del tutto tale documento, ha rilevato questa Corte, il giudice ha sorvolato su un mezzo di prova che non poteva dirsi d’acchito senza rilievo nel contesto di una istanza volta alla restituzione di un termine per impedimento ad agire dovuto a malattia. Sennonché, nel decidere su questo specifico punto, il nuovo giudice ha statuito in modo sostenibile, rilevando che effettivamente tale certificato medico si limita per finire ad attestare unicamente che il soggetto, da lui in cura dal 22 ottobre 2003, si lamentava di disturbi visivi, dolori addominali, disturbi urinari, stanchezza e vuoti di memoria e che gli accertamenti portavano sulla diagnosi sopra ricordata, senza indicare però né la frequenza, né tanto meno l’intensità degli stessi al momento della ricezione del decreto di accusa. Senza abusare del proprio potere di apprezzamento, il giudice della Pretura penale poteva perciò considerare quel documento non decisivo, ove si consideri anche che nulla avrebbe impedito all’accusato di chiedere l’audizione dello stesso medico – come avvenuto per _ – o per lo meno di chiedere pendente causa allo stesso professionista lumi sulla reale portata del suo certificato medico per quanto riguarda la tematica oggetto del contendere, consentendogli di integrarlo. Sennonché, egli non si è attivato in questo senso, reiterando per il resto nel fondare la sua istanza su mezzi di prova inadatti allo scopo. Già si è detto della pochezza della documentazione prodotta con la replica del 17 febbraio 2005. Quanto alla deposizione di _, ossia la persona a favore della quale l’accusato avrebbe commesso il presunto conseguimento fraudolento di una falsa attestazione (sentenza, pag. 4), non si può affermare che il primo giudice abbia ecceduto o abusato del proprio potere di apprezzamento, ritenendo le affermazioni del teste idonee tutt’al piu a dimostrare che lo stato dell’amico non era dei migliori e che aveva sovente problemi di memoria, ma non a dimostrare, rispettivamente a rendere verosimile che al momento della notifica del decreto di accusa il prevenuto fosse inabilitato a causa del suo asserito disordine mentale ad interporre tempestiva opposizione al decreto di accusa; specie poi se si considera che egli – stando alla sentenza impugnata – mai ha sostenuto di non avere capito quale fosse la portata del decreto di accusa intimatogli e nemmeno di non avere saputo di avere a disposizione 15 giorni per impugnarlo e che dai verbali predibattimentali nulla di anomalo è risultato sulle condizioni psichiche del soggetto (sentenza, pag. 5). E nemmeno il certificato medico del 10 agosto 2007 del dott. _ è di giovamento, lo stesso essendo stato prodotto unicamente per giustificare l’assenza dell’accusato all’udienza del 23 agosto successivo (ove si è proceduto all’audizione di _). Ne discende perciò che al primo giudice, che ha mantenuto il proprio convincimento (negativo) anche dopo avere valutato complessivamente i mezzi di prova invocati dall’accusato (sentenza, consid. 8), non può essere fatto carico di avere violato l’art. 21 CPP non intravedendo sufficienti motivi per restituire all’accusato il termine per sollevare opposizione al decreto di accusa.
7.
Da quanto precede, il ricorso deve essere disatteso, siccome infondato. Gli oneri processuali seguono la soccombenza, ossia sono posti a carico dl ricorrente (art .15 cpv. 1 in combinazione con l’art. 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,008 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
d48caf17-1f1e-5193-9c94-88b6d6b0b754 | in fatto ed in diritto
1.
A seguito della denuncia/querela sporta da IS 1 e da sua madre _ nei confronti di cinque ignoti agenti della Polizia per le ipotesi di reato di violazione di domicilio e abuso di potere
in relazione ad un presunto controllo effettuato nella loro abitazione, a _, il _, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale (inc. MP _) sfociato dapprima nel decreto di sospensione 27.11.2012 emanato dal procuratore generale John Noseda in applicazione dell’art. 314 cpv. 1 lit. a CPP, essendo l’autore ignoto (AI 5), e poi nel decreto di non luogo a procedere 12.11.2014 (NLP _) a favore degli agenti della polizia comunale _, _ e _, non essendo dati gli elementi costitutivi dei reati ipotizzati.
Con decisione 23.12.2014 questa Corte ha dichiarato irricevibile il reclamo 24/27.11.2014 presentato da IS 1, da _ e da _ contro il predetto NLP, non avendo emendato il gravame entro il termine assegnato (inc. CRP _).
Il decreto di non luogo a procedere
12.11.2014 (NLP _) è quindi passato in giudicato e il relativo incarto è stato archiviato.
2.
Con la presente istanza – trasmessa, per competenza, dal Ministero pubblico a questa Corte – IS 1 chiede di poter visionare il succitato incarto penale, senza però indicare i motivi che stanno alla base della sua richiesta (doc. CRP 1.a).
Come esposto in entrata, il procuratore generale non ha presentato osservazioni in merito.
Questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare le altre parti nel procedimento penale di cui all’incarto _ sfociato nel NLP _
,
nel frattempo passato in giudicato, essendo il qui istante stato parte (in qualità di accusatore privato) al medesimo.
3.
3.1.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
3.2.
Nel presente caso, pur essendo stato l’istante parte (in qualità di accusatore privato) nel procedimento nel frattempo terminato, egli deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo.
C
ome ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste d’ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10).
Inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994, p. 19).
Lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG.
4.
Nella fattispecie qui in esame – nonostante abbia omesso di precisare i motivi alla base della sua richiesta – appare pacifico l’interesse giuridico legittimo di IS 1 giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere l’autorizzazione ad esaminare l’incarto sfociato nel NLP _, poiché il procedimento penale nel frattempo archiviato l’ha interessato personalmente in veste di parte.
Di conseguenza IS 1 è autorizzato ad esaminare, presso il Ministero pubblico, l’incarto penale MP _ sfociato nel NLP _, concordando i tempi e le modalità di accesso con il procuratore generale, compatibilmente con i suoi impegni.
Egli è, se del caso, autorizzato a fotocopiare gli atti utili per le sue incombenze.
5.
L’istanza è accolta ai sensi del precedente considerando. Si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo il qui istante già stato parte al procedimento penale in questione nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
d4a59745-f868-5542-9983-8fdc50074171 | in fatto: A.
Con sentenza del 20 gennaio 2000 la Corte delle assise criminali in Lugano ha riconosciuto _ e _ autori colpevoli di violazione aggravata della legge federale sugli stupefacenti per avere, tra luglio e ottobre del 1999, acquistato a Zurigo, dove si recavano in treno in media una o due volte la settimana, complessivamente 750-800 g di cocaina in partite di 25 o 50 g l'una, trasportate a _ e poi rivendute a tossicomani locali nella misura di almeno 700 g al prezzo di fr. 80/110.– il grammo. Essi sono stati riconosciuti colpevoli altresì di contravvenzione alla legge federale sugli stupefacenti per avere, nel medesimo periodo, consumato circa 50 g di cocaina provenienti dagli acquisti indicati.
Oltre a ciò, _ è stato riconosciuto colpevole di violazione della legge federale sugli stupefacenti per avere, tra maggio e giugno del 1999, funto da intermediario in correità con _ nella vendita a tossicomani di _ di circa 30 g di cocaina, come pure colpevole di ripetuta contravvenzione alla legge federale sugli stupefacenti per avere, tra aprile e giugno del 1999, acquistato per consumo personale un imprecisato quantitativo di cocaina, nonché colpevole di furto di poca entità per avere, il 20 settembre 1999, sottratto ai danni dell'_ un portamonete del valore di fr. 99.–, e infine colpevole di ripetuta contravvenzione alla legge federale sul trasporto pubblico per avere in due occasioni, nel giugno del 1999, fraudolentemente ottenuto prestazioni di trasporto dall'Azienda comunale dei trasporti della Città di _.
Quanto a _, egli è stato riconosciuto autore colpevole di ripetuta contravvenzione alla legge federale sugli stupefacenti, per avere nel giugno del 1999, acquistato a due riprese da _ dosi di cocaina di circa 1 g l'una per consumo personale e colpevole di violazione della legge federale sulla dimora e il domicilio degli stranieri per avere svolto a _, tra marzo e giugno del 1999, un'attività lucrativa presso il “Ristorante _ ” benché sprovvisto di permesso.
In applicazione della pena, la Corte delle assise criminali ha condannato gli imputati a 3 anni e 3 mesi di reclusione (computato il carcere preventivo sofferto) e all'espulsione dalla Svizzera per 10 anni. Essa ha condannato inoltre _ a rifondere la somma di fr. 140.– all'Azienda comunale dei trasporti della Città di _. Infine essa ha disposto la confisca di quanto sequestrato.
B.
Contro la sentenza di assise _ e _ hanno inoltrato il 25 gennaio 2000 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi dei gravami, presentati il 6 marzo successivo, essi chiedono che in riforma della sentenza impugnata la pena loro irrogata sia ridotta. Nelle sue osservazioni del 14 marzo 2000 il Procuratore pubblico propone di respingere i ricorsi. | Considerando
in diritto: 1.
I ricorsi vertono sul medesimo argomento, l'entità della pena, definita eccessivamente severa. Per entrambi i gravami valgono le considerazioni che seguono.
a)
Sapere quale ruolo abbia svolto una persona in un traffico di stupefacenti è un questione di fatto. La Corte di cassazione e di revisione penale è abilitata a rivedere gli accertamenti di prima sede solo con cognizione circoscritta all'arbitrio (art. 288 lett. c CPP). Le relative constatazioni possono essere censurate, quindi, solo ove risultino manifestamente insostenibili o in aperto contrasto con gli atti (sulla nozione di arbitrio: DTF 124 I 208 consid. 4, 174 consid. 2g, 123 I 5 consid. 4a, 121 I 114 consid. 3a, 120 Ia 30 consid. 4b).
b)
Il giudice commisura la pena alla colpa del reo tenendo conto dei motivi a delinquere, della vita anteriore e delle condizioni personali di lui (art. 63 CP). La gravità della colpa è il criterio fondamentale per la fissazione della pena. A tale riguardo entrano in considerazione numerosi fattori: il movente e le circostanze esterne, l'intensità del proposito (determinazione) o della negligenza, il risultato ottenuto, l'even-tuale assenza di scrupoli, il modo d'esecuzione del reato, l'entità del pregiudizio arrecato volontariamente, la durata o la reiterazione dell'illecito, il ruolo in seno a una banda, la recidiva, le difficoltà personali o psicologiche e così via. Per quanto riguarda l'autore, in particolare, occorre considerare la sua situazione familiare e professionale, l'educazione ricevuta e la formazione seguita, l'integrazione sociale, gli eventuali precedenti penali e la reputazione in genere. Anche il comportamento dopo la perpetrazione del reato entra in linea di conto, compresa la collaborazione con gli inquirenti, il pentimento e la volontà di emendamento (DTF 124 IV 47 consid. 2d con rinvio a DTF 117 IV 112 consid. 1 e 116 IV 289 consid. 2a). Criteri ispirati alla parità di trattamento con casi analoghi hanno invece portata relativa (loc. cit. v. anche DTF 124 IV 47 consid. 2c), mentre esigenze di prevenzione generale svolgono solo un ruolo di second'ordine (DTF 118 IV 350 consid. 2g).
c)
Nella commisurazione della pena il giudice di merito fruisce di ampia autonomia quando valuta l'importanza di ogni singolo fattore. Egli deve indicare perciò quale peso attribuisce ai vari elementi considerati, non necessariamente in cifre o percentuali, ma in modo che l'autorità di ricorso possa – pur rispettando la sua latitudine di apprezzamento – seguire il suo ragionamento e controllare l'applicazione della legge (
Queloz
, Commentaire de la jurisprudence du Tribunal fédéral en matière de fixation et de motivation de la peine, in: RPS 116/1998 pag. 136 segg.). Sapere se la pena risponda a tali esigenze e rientri nei limiti edittali è una questione di diritto, che va quindi esaminata liberamente dalla Corte di cassazione e di revisione penale; nella commisurazione della pena, per contro, la Corte di cassazione e di revisione penale interviene solo – come il Tribunale federale – ove il giudice di merito sia stato esageratamente mite o esageratamente severo, al punto da cadere nell'eccesso o nell'abuso del potere di apprezzamento (DTF 123 IV 152 consid. 2a con richiami).
I. Sul ricorso di _
2.
Il ricorrente rimprovera alla Corte di assise di avere stabilito la pena (3 anni e 3 mesi di reclusione) senza considerare in modo concreto e sufficientemente tangibile le circostanze a lui favorevoli. Ammette che 700 g di cocaina venduta sono un quantitativo notevole, ma fa notare che la purezza dello stupefacente è risulta medio-bassa, ovvero del 42%, sicché la droga spacciata non è superiore ai 290 g di prodotto puro. Ora, per quanto riguarda il grado di purezza dello stupefacente il Tribunale federale ha già avuto modo di rilevare che la quantità di droga trattata non è un fattore determinante, poiché serve solo per apprezzare la gravità oggettiva del reato, mentre decisivo nel diritto penale è l'aspetto soggettivo (DTF 121 IV 193, confermata in DTF 122 IV 301 consid. 2c). E sotto quest'ultimo profilo il grado di purezza della droga è un fattore di rilievo solo ove l'imputato intendesse trattare droga particolarmente diluita (DTF 121 IV 193; v. anche DTF 122 IV 301 consid. 2c). Nella fattispecie il ricorrente neppure pretende ciò. Per di più, la prima Corte ha considerato anche la purezza della cocaina venduta – definita per altro di buona qualità – valutando l'aggravante del caso grave giusta l'art. 19 n. 2 LStup (sentenza, pag. 19). Per il resto essa ha rilevato che lo spaccio al dettaglio nel giro di alcuni mesi di circa 700 g di cocaina al solo scopo di procurarsi denaro, benché gli imputati beneficiassero delle indennità e delle strutture riservate agli asilanti, connota la gravità dei fatti e la colpa (sentenza, pag. 20). Perché una considerazione del genere sarebbe errata il ricorrente non spiega.
3.
Il ricorrente asserisce di avere agito con l'altro imputato in modo ingenuo, senza precauzione alcuna, senza intermediari e facendosi sorprendere dagli inquirenti dopo alcuni controlli durati pochi giorni. Tale circostanza escluderebbe la presenza di un gruppo organizzato di persone con ruoli e gerarchie prefissati. L'argomentazione non giova però al buon esito del gravame. La prima Corte non infatti addebitato agli accusati di avere agito nell'ambito di un'organizzazione dedita allo spaccio di stupefacenti con ruoli più o meno importanti o di essersi dimostrati raffinati e scaltri. Essa si è limitata a rilevare che i due hanno spacciato sulla piazza _ nel giro di pochi mesi notevoli quantità di cocaina a fini di lucro. Per il solo fatto di non essersi dimostrati più accorti e per essere stati arrestati già dopo alcuni mesi di attività criminosa gli accusati non possono dunque pretendere ulteriori riduzioni di pena. Tanto meno ove si consideri che i primi giudici hanno pur sempre considerato nella commisurazione della pena la giovane età degli imputati e quindi, implicitamente, la loro inesperienza e fragilità (sentenza, pag. 20).
4.
Il ricorrente afferma di essere stato coinvolto nella fattispecie da altri, in particolare dal correo _, e di non avere ideato l'attività delittuosa. Così argomentando egli contraddice però quanto egli medesimo aveva ammesso esplicitamente di fronte agli inquirenti, ossia di avere sempre agito in correità e di comune accordo con l'altro (sentenza, pag. 12 e 13), ciò che quest'ultimo ha confermato sia durante l'istruttoria sia al dibattimento (sentenza, pag. 14). Certo, in aula il ricorrente ha in parte ritrattato. La Corte tuttavia non gli ha creduto (sentenza, pag. 13 seg.), né il ricorrente pretende che i primi giudici siano caduti in arbitrio facendo loro la versione predibattimentale e quella del correo. Fondato su fatti diversi da quelli constatati nella sentenza impugnata, su questo punto il ricorso si dimostra inammissibile.
5.
Il ricorrente si sofferma sulla sua iniziale reticenza e asserisce per finire che tale comportamento si riconduce alla sua ingenuità, alla giovane età, all'inesperienza e al timore della pena, conseguente alla consapevolezza di avere commesso reati gravi. A prescindere dal fatto però che egli dà per acquisite circostanze non riportate nella sentenza impugnata, come ad esempio i motivi che lo avrebbe spinto a ritrattare (i primi giudici hanno anzi rilevato che egli non ha saputo concretamente giustificare la sua mutata attitudine: sentenza, pag. 21), il ricorrente trascura che, pur censurando il suo comportamento processuale, la prima Corte non ha per ciò aggravato la pena a suo carico, limitandosi a rilevare che l'atteggiamento collaborativo del correo meritava un premio (sentenza, pag. 21). Comunque che sia, già si è visto che i primi giudici hanno considerato la giovane età e l'inesperienza del ricorrente (come pure del correo), oltre all'incensuratezza e alla scemata responsabilità (art. 11 CP) per il saltuario uso di cocaina (sentenza, pag. 20 e 21). Condannando il ricorrente a 3 anni e 3 mesi di reclusione per lo spaccio al dettaglio di circa 700 g di cocaina per scopo di lucro e gli altri reati minori (contravvenzione alla legge federale sugli stupefacenti e violazione della legge federale sulla dimora e il domicilio degli stranieri), la Corte di assise non ha pertanto denotato esagerata severità, al punto da cadere nell'eccesso o nell'abuso del potere di apprezzamento. Se ne conclude che, nella misura in cui è ammissibile, il ricorso di _ è destinato all'insuccesso.
II. Sul ricorso di _
6.
Come nel ricorso del coimputato, anche _ si sofferma sul grado di purezza della cocaina trafficata, sull'ingenuità e sulla scarsa professionalità dimostrate nel delinquere e sulla facilità con la quale egli e il correo sono stati arrestati. In sintesi si propone anch'egli di sminuire la fattispecie, asserendo di non avere partecipato a un traffico di droga controllato da un'organizzazione di persone, con ruoli e gerarchie prefissate. Già si è visto però che argomentazioni del genere non risultano avere consistenza (consid. 2 e 3). Non sussidia pertanto ripetersi.
7.
A parere del ricorrente la prima Corte non avrebbe considerato appieno la collaborazione con gli inquirenti e i motivi a delinquere, ovvero la necessità di percepire guadagni per assistere il fratello gravemente malato. Se non che, i primi giudici hanno espressamente evocato tali circostanze e ne hanno tenuto conto commisurando la pena (sentenza, pag. 21). Pur rilevando che la colpa del ricorrente è più grave rispetto a quella del correo (anche se non di molto), dovendo egli rispondere anche di una collaborazione quale intermediario in un ulteriore spaccio di qualche decina di grammi di cocaina, essi gli ha inflitto per vero la stessa pena (3 anni e 3 mesi di reclusione), considerata anche la giovane età e la scemata responsabilità per il saltuario consumo di cocaina (sentenza, pag. 20 e 21). È vero che, per rapporto alle fattiva collaborazione prestata e ai motivi che hanno indotto il ricorrente a delinquere (procurarsi denaro per un intervento chirurgico al fratello malato di cancro), la riduzione di pena accordata dalla Corte di assise può apparire modesta. Ciò non significa ancora, tuttavia, che i primi giudici siano caduti nell'eccesso o nell'abuso del potere di apprezzamento. Anche sotto questo profilo la sentenza impugnata resiste pertanto alla critica.
III. Sulle spese
8.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza dei ricorrenti (art. 15 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,000 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
d4aa7bb4-499e-53cc-9d44-11ba5e3d5d17 | in fatto ed in diritto
1.
A seguito del decesso di _ [azionista e presidente del consiglio d'amministrazione della fiduciaria _ e presidente del _ (di seguito _)] avvenuto il _, il Ministero pubblico ha avviato d'ufficio una procedura penale intesa ad accertare le malversazioni commesse da quest'ultimo a danno dei clienti di _ a favore del _ ed eventuali responsabilità della direzione generale della (già) _ di _, presso i quali erano depositati i fondi dei clienti della fiduciaria.
Tale inchiesta ha permesso di appurare che tra il _ e il _, _ si era effettivamente indebitamente appropriato di fondi di spettanza di alcuni clienti di _, utilizzandoli, in parte, per scopi privati e, in parte, dirottandoli nelle casse del _ (cfr. decreto di non luogo a procedere 12.08.2009, p. 3, NLP _). Tra i clienti di _ vi erano pure _ e _.
Con decisione 13.05.2002 l’allora procuratore pubblico Emanuele Stauffer ha decretato il non luogo a procedere in capo al procedimento penale aperto d'ufficio nei confronti della direzione generale dell'istituto bancario sopraindicato in ordine all'ipotesi di appropriazione indebita e riciclaggio di denaro (decreto di non luogo a procedere 13.05.2002, NLP _).
L’(allora) Camera dei ricorsi penali ha poi respinto l'istanza di promozione dell'accusa presentata – tra gli altri – da _ e _ contro il predetto decreto [sentenza 5.07.2002 (passata in giudicato), inc. CRP _].
2.
Il 28.04.2003 il _ ha presentato istanza di autofallimento giusta l'art. 191 LEF alla Pretura del distretto di _.
Con decreto 6.06.2003 il pretore ha autorizzato la liquidazione del fallimento mediante la procedura sommaria ai sensi dell'art. 231 LEF. _ e _ hanno insinuato i rispettivi crediti che sono stati riconosciuti e ammessi nella graduatoria del fallimento (doc. 8 allegato alla denuncia 6/11.12.2006, inc. MP _, inc. MP _, AI 1).
Con decisione 15.02.2006, l'Ufficio fallimenti di _ ha ceduto ex art. 260 LEF alle società sopraindicate il "
(...) diritto di agire sia civilmente che penalmente nei confronti degli organi della fallita conformemente all'art. 754/456 CO (...)
" (doc. 9 allegato alla denuncia 6/11.12.2006, inc. MP _, AI 1). Cessione poi prorogata con decisione 12.09.2006 (doc. 10 allegato alla denuncia 6/11.12.2006, inc. MP _, AI 1).
3.
Con scritto 6/11.12.2006 _ e _ hanno sporto denuncia penale nei confronti "
(...) dei soggetti genericamente indicati come ex-organi del _ (...)
" per titolo di cattiva gestione "
(...) eventualmente altri reati del Titolo secondo, capitolo 3 della parte speciale del CP; eventualmente riciclaggio di denaro giusta l'art. 305bis CP (...)
" (denuncia penale 6/11.12.2006, p. 1, inc. MP _, AI 1).
Con decisione 12.08.2009 il procuratore pubblico Arturo Garzoni ha decretato il non luogo a procedere in ordine alla suddetta denuncia penale
(NLP _).
Con sentenza 2.12.2010 (passata in giudicato) l’(allora) Camera dei ricorsi penali, autorità adita da _
e _
con istanza di promozione dell’accusa 24/25.08.2009 ex art. 186 CPP TI contro la citata decisione, ha respinto – per quanto ricevibile – l’impugnativa (inc. CRP _).
4.
Con scritto
12/15.04.2013
– a valere quale istanza ex art. 62 cpv. 4 LOG – la IS 1 postula la trasmissione degli incarti
CRP _ e CRP _
nel frattempo archiviati, essendo stati richiamati con il consenso del pretore e delle parti ai fini dell’istruttoria della causa civile di cui all’incarto _ promossa da _ e _ nei confronti di _ – _ (cfr. istanza
12/15.04.2013,
doc. 1). La Pretura istante ha omesso in particolare di specificare l’oggetto della vertenza civile in essere tra le parti.
A sostegno della sua richiesta la Pretura istante ha prodotto uno scritto (privo di data) dell’avv. _, in cui sono state riassunte le motivazioni che stanno alla base della presente istanza (cfr. doc. 1.a annesso all’istanza
12/15.04.2013
).
Il predetto legale evidenzia in particolare che il richiamo degli incarti penali in questione permetterebbe di comprovare che nell’ambito dei diversi procedimenti penali promossi dal Ministero pubblico in merito al fallimento del _ e della _ sia stata esclusa qualsiasi responsabilità di natura penale da parte dei dirigenti del _, in particolare di _. Gli atti acquisiti nel corso delle inchieste penali permetterebbero inoltre di comprovare che gli organi del _ erano all’oscuro delle malversazioni che _ stava commettendo a danno dei suoi clienti privati e, di riflesso, della _, che il denaro sottratto da _ sarebbe stato utilizzato per scopi personali (estranei al _), che l’attrice era un cliente privato di quest’ultimo, la cui gestione veniva effettuata per il tramite delle sue società private (in particolare la _) e che le malversazioni ai danni dell’attrice sarebbero state commesse dopo che _ aveva lasciato definitivamente qualsiasi carica all’interno del _. La documentazione assumerebbe rilevanza anche per il calcolo della prescrizione.
5.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha nella sostanza ripreso il testo del previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
Come ricordato dalla prassi di questa Corte, in caso di richiesta da parte di autorità giudiziarie tendente ad ottenere documenti di un incarto penale, la giurisprudenza ammette la richiesta se:
(i) si riferisce a procedimenti ancora pendenti presso l'autorità richiedente;
(ii) è compatibile con il codice di rito applicabile a quel procedimento;
(ii) è formulata dal titolare dell’autorità giudiziaria richiedente.
Inoltre deve essere dato un legame di pertinenza dell’incarto richiamato con quello richiamante.
6.
Nella fattispecie in esame – viste le motivazioni addotte dall’avv. _ e il contenuto delle decisioni 5.07.2002 e 2.12.2010 emanate dall’(allora) Camera dei ricorsi penali – appare adempiuta una connessione tra la causa civile di cui all’incarto _ pendente presso la Pretura istante e i procedimenti penali in questione nel frattempo archiviati.
Nell’ambito del procedimento penale di cui all’incarto CRP _ (congiunto con l’inc. CRP _ per unità di materia) sfociato nella sentenza 5.07.2002 (inc. CRP _) e di cui all’incarto CRP _ sfociato nella sentenza 2.12.2010, _ e _ (parti attrici nell’ambito del procedimento civile) erano istanti.
_, già dirigente della _ di _ e già presidente del _, dal canto suo, era parte (in qualità di denunciato) al procedimento penale di cui all’incarto CRP _.
A ciò aggiungasi che nel NLP _ del 12.09.2009 [confermato dall’(allora) Camera dei ricorsi con decisione 2.12.2010] il magistrato inquirente aveva in particolare rilevato che l’assetto fattuale alla base della denuncia 6/11.12.2006 è il medesimo, tra l’altro, di quello esaminato nel NLP _ del
13.05.2002 e che
"
(...) in occasione dell’istruttoria delle precedenti inchieste erano state verificate non solo eventuali responsabilità penali a carico degli organi dirigenti di _, ma anche – per dirla con le parole delle denuncianti, che così l’avevano chiesto – di ogni altra persona eventualmente interessata, nell’ambito delle malversazioni commesse da _ anche a danno degli istanti (...)
" (decreto di non luogo a procedere 12.08.2009, p. 15, NLP _).
Appare dunque pacifico che i tre procedimenti penali nel frattempo archiviati e richiamati dalla Pretura istante (inc. CRP _ e _) e quello civile siano in stretta connessione tra di loro e traggano le loro origini dal medesimo complesso dei fatti, ovverossia dalle malversazioni commesse da _
a danno dei clienti di _, tra cui la _
e la _,
a favore del _, i cui averi erano depositati presso la (già) _, di cui _ era stato presidente (_) rispettivamente dirigente (_).
In siffatte circostanze, alcuni atti dei procedimenti penali in questione potrebbero dunque essere potenzialmente utili ai fini dell’istruttoria e del giudizio civile. È quindi, di principio, adempiuto un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG.
Dopo il passaggio in giudicato della presente decisione, questa Corte trasmetterà l’incarto CRP _, l’incarto CRP _ e l’incarto CRP _ direttamente alla IS 1 alle seguenti condizioni:
gli atti istruttori dei tre incarti penali richiamati dovranno dapprima essere esaminati dal pretore e/o dal segretario assessore.
Nella ponderazione degli interessi delle parti in gioco, in particolare a tutela degli interessi privati e della sfera personale delle altre parti coinvolte ai procedimenti penali in questione e in ossequio al diritto di essere sentito, il pretore e/o il segretario
assessore dovrà/dovranno dapprima estrapolare dagli incarti CRP _, _ e _ gli atti che ritengono utili ai fini dell’istruttoria e del giudizio civile. Da questi atti dovranno togliere i documenti estranei al procedimento civile rispettivamente eliminare/cancellare le parti/i passaggi/i dati non pertinenti al procedimento civile.
Questi (e soltanto questi) atti potranno quindi essere consultati dalle parti al procedimento civile, i quali indicheranno al pretore e/o al segretario assessore quali documenti (in fotocopia) vogliono far acquisire agli atti in connessione con la vertenza civile di cui all’incarto _.
La IS 1 ha infine l’obbligo di restituire i tre incarti penali in questione direttamente a questa Corte, al più tardi, a procedimento civile concluso.
La restrizione vale anche per eventuali autorità giudiziarie di ricorso.
7.
L’istanza è accolta ai sensi del precedente considerando. La tassa di giustizia, contenuta al minimo, e le spese sono poste a carico della Pretura istante, che a sua volta le addosserà alle parti in base alle norme del CPC. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
d4bd332a-0427-5463-a8be-6e05d489b5f7 | in fatto ed in diritto
1.
In data 1.02.2006 l’allora presidente della Corte delle assise correzionali di _, giudice Giovanna Roggero-Will, ha dichiarato IS 1 autore colpevole di infrazione aggravata alla LStup (in parte per complicità) e contravvenzione alla LStup e lo ha condannato, avendo dimostrato sincero pentimento e agito in stato di scemata responsabilità, alla pena di tre mesi di detenzione, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, e al pagamento della tassa di giustizia e delle spese, ordinando parimenti la confisca e la distruzione dello stupefacente in sequestro (cfr., nel dettaglio, sentenza 1.02.2006, inc. TPC _).
La predetta decisione è cresciuta in giudicato il 20.02.2006.
2.
Con la presente istanza IS 1 chiede di ottenere la trasmissione, in copia, della surriferita sentenza, omettendo nondimeno di indicare i motivi della sua richiesta.
Questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare il Tribunale penale cantonale, essendo stato il qui istante parte al procedimento penale di cui all’incarto TPC _ in qualità di accusato.
3.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
4.
Nel presente caso, pur essendo stato l’istante parte (quale accusato) nel procedimento nel frattempo terminato, egli deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo
.
Come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.3.1987, ad art. 8 p. 10). Inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994 p. 19).
Lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG.
5.
Nella fattispecie in esame – nonostante abbia omesso di precisare i motivi che stanno alla base della sua richiesta – è pacifico l’interesse giuridico legittimo dell’istante ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere copia
della sentenza richiesta
, poiché l’ha interessato personalmente in veste di parte.
Di conseguenza, la sentenza 1.02.2006 (inc. TPC _) viene trasmessa, in originale, all’istante unitamente alla presente decisione.
6.
L’istanza è accolta ai sensi del surriferito considerando. Non si prelevano tassa di giustizia e spese, ritenuto che l’istante è già stato parte al procedimento penale nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
d4fda0cc-c595-5753-9fdb-154219835112 | in fatto
a.
Con sentenza 23.02.2010 la Corte delle assise criminali ha riconosciuto RE 1 autore colpevole dei reati di coazione sessuale, violenza carnale e atti sessuali con fanciulli (in danno di una bambina minorenne) e lo ha condannato alla pena detentiva di 6 anni, dedotto il carcere preventivo sofferto (inc. TPC 72.2009.140).
b.
In data 30.09.2010 l’allora Corte di cassazione e di revisione penale (CCRP) ha respinto, nella misura della sua ammissibilità, il ricorso presentato da RE 1 contro il giudizio di primo grado (inc. CCRP 17.2010.16).
Questa decisione è passata in giudicato.
c.
Ritenuto che l’espiazione della pena ha avuto inizio il 23.02.2010 e dedotto il carcere preventivo sofferto dal 24.06.2009 al 23.02.2010, il qui reclamante ha raggiunto il 1/3 dell’esecuzione della pena il 24.06.2011, il termine della metà pena il 23.06.2012 e i 2/3 per la liberazione condizionale il 23.06.2013. La fine pena è stata raggiunta il 23.06.2015.
d.
Dopo essere stato sanzionato disciplinarmente in 5 occasioni, in data 14.04.2013 RE 1 è stato trasferito presso il carcere di _ (_) e il 26.06.2014 egli è stato ritrasferito al Penitenziario La Stampa.
e.
Con
scritto 22.12.2014 la Direzione delle strutture carcerarie ha chiesto al giudice dei provvedimenti coercitivi di emanare una decisione formale volta a far trasferire dal 5.01.2015 il qui reclamante “
presso il carcere di _, in una cella di alta sicurezza
” (lettera 22.12.2014 delle Strutture carcerarie cantonali, Lugano, allegato 1, inc. GPC _). Ciò dopo che la Direzione del penitenziario, riassumendo il periodo di detenzione fino ad allora subito da RE 1, ha rilevato come quest’ultimo sin dall’inizio della carcerazione “
ha mostrato un comportamento oppositivo e in permanente conflitto con l’autorità e le regole
”, così come con i codetenuti e con i collaboratori. Tant’è che dopo essere incorso in 5 sanzioni disciplinari egli ha dovuto essere trasferito il 14.04.2013 presso il carcere di _ (_). Il suo rientro nel penitenziario ticinese nel giugno 2014, ha evidenziato la Direzione, è conseguito al fatto che “
la situazione era divenuta insostenibile per un analogo comportamento a quello registrato in precedenza presso di noi
”. Dopo ciò il qui reclamante è nuovamente incorso in 3 sanzioni disciplinari; inoltre il 9.12.2014, ha rilevato la Direzione, si sarebbe reso necessario il suo collocamento in cella di contenimento per questioni di sicurezza, avendo il reclamante “
chiamato due volte la Polizia dicendo che era a conoscenza di dove erano depositi
(recte: depositati, ndr)
750 kg di esplosivo C4
” (lettera 22.12.2014 delle Strutture carcerarie cantonali, Lugano, allegato 1, inc. GPC _). Da qui la necessità, secondo la Direzione, di trovare una “struttura adeguata” che potesse accogliere il reclamante. Ricerca risultata difficile a causa del costante sovraffollamento delle carceri in Svizzera.
f.
Il 23.12.2014 il giudice dei provvedimenti coercitivi, onde emanare la postulata decisione, ha richiesto alla Direzione del penitenziario cantonale di poter avere la “
corrispondenza intercorsa con il carcere di _ (e/o autorità competente del Canton _), nonché di un
«
verbale di audizione
»
(o scritto) del detenuto dal quale risulti che gli è stata data la possibilità di esprimersi in merito
” (lettera 23.12.2014 del GPC, allegato 2, inc. GPC _); richiesta questa, ha precisato, da evadere entro il 29.12.2014 al più tardi.
g.
Il 29.12.2014 il Direttore delle Strutture carcerarie cantonali ha inviato uno scritto a RE 1, con copia all’Ufficio del giudice dei provvedimenti coercitivi, in cui − facendo riferimento ad un incontro avvenuto il 24.12.2014 tra lo stesso direttore, il vicedirettore, il capo degli agenti ed il reclamante – conferma che “
le informazioni che le sono state rese in questo frangente, precisamente che la Direzione delle Strutture carcerarie ha deciso, quindi proposto al Giudice dei provvedimenti coercitivi, il suo collocamento nel carcere di _ nel Canton _
”. Provvedimento che, viene precisato nella missiva, “
è dovuto al comportamento da lei assunto successivamente al rientro dal carcere di _, situazione insostenibile che perturba ed esaspera l’ambiente nella sezione dove risiede, nonché pone seri problemi di sicurezza in penitenziario
” (scritto 29.12.2014 delle Strutture carcerarie cantonali, Lugano, p. 1, allegato 3, inc. GPC _).
La Direzione ha quindi esposto le motivazioni di tale provvedimento, procedendo dapprima ad elencare, in ordine cronologico, le sanzioni disciplinari inflitte al reclamante, e meglio (scritto 29.12.2014 delle Strutture carcerarie cantonali, Lugano, p. 1-2, allegato 3, inc. GPC
850.2014.1147
:
·
“
il 21.07.2014 le sono stati inflitti 8 giorni di cella di rigore per aver bruciato uno strofinaccio ed insultato il Capo arte;
·
il 29.07.2014 comminati 6 giorni di cella di rigore per aver nuovamente dato fuoco ad uno strofinaccio;
·
il 25.11.2014 impartiti 5 giorni di cella di rigore per degli scatti d’ira e grave danneggiamento;
·
il 9.12.2014 nel corso della serata ha chiamato due volte la Polizia dicendo che era a conoscenza di dov’erano depositati 750 kg di esplosivo C4, episodio per il quale si è reso necessario per questioni di sicurezza il suo collocamento in una cella di contenimento ed ha attivato le autorità di polizia;
·
il 10.12.2014 è stato verbalizzato da parte nostra, ma ha rifiutato di firmare il verbale e si è detto estraneo ai fatti, asserendo di non voler dichiarare nulla e che non sapeva di cosa si stava parlando;
·
il 12.12.2014 ha insultato un Agente di custodia e minacciato di incendiare qualcosa in cella se non avesse ricevuto copia del verbale 10.12.2014, documento in seguito messole eccezionalemente a disposizione in copia;
·
il 18.12.2014 è stato incontrato dalla Direzione a tutela del suo diritto di essere sentito e, a nostro scarico, sono state chiarite e chiuse alcune pendenze che concernevano lei e la Struttura di _, segnatamente ha preso atto della prevista sanzione, che ha avuto luogo dal 19.12. al 24.12.2014
”.
La Direzione ha poi riportato in sunto e in modo indiretto le esternazioni che avrebbe fatto il reclamante in relazione al suo prospettato trasferimento, ovvero (scritto 29.12.2014 delle Strutture carcerarie cantonali, Lugano, p. 2, allegato 3, inc. GPC _):
·
“
ha ringraziato dell’opportunità di essere trasferito a _
·
in precedenza aveva già chiesto di poter essere collocato in detta struttura
·
voleva sapere la data della partenza
·
ha auspicato di essere trasferito il più presto possibile in quanto tiene a questo cambiamento
”.
La Direzione ha quindi concluso il proprio scritto precisando che “
Ritenute le compiute anticipazioni, daremo inizio ai preparativi per il trasferimento al nostro interno e, non appena in possesso della Decisione di collocamento del GPC, la informeremo sulla data e metteremo in atto il suo trasferimento nel carcere di _
” (scritto 29.12.2014 delle Strutture carcerarie cantonali, Lugano, p. 2, allegato 3, inc. GPC
850.2014.1147.
h.
Il 29.12.2014 il giudice dei provvedimenti coercitivi ha ricevuto un e-mail, inotratogli dal vicedirettore del penitenziario cantonale, in cui in data 19.12.2014 il Direttore delle Strutture carcerarie di _ ha confermato la loro disponibilità ad accogliere il qui reclamante “
für eine Dauer von maximal 6 Monaten, frühestens ab 05. Januar 2015, in der Sicherheitsabteilung B (Kosten: 501.-/Tag) aufzunehmen
”, precisando altresì che “
die Aufnahme, respektive der Transfer kann erst erfolgen, wenn die Anstalten _ über eine schriftliche Verfügung der einweisenden Behörde verfügen
” (e-mail 29.12.2014, allegato 4, inc. GPC _).
i.
Nel contempo con scritto datato 29.12.2014 (spedito il 31.12.2014) indirizzato al giudice dei provvedimenti coercitivi (e pervenutogli solo il 2.01.2015) RE 1 ha accusato ricevuta, quel pomeriggio stesso, della lettera di medesima data della Direzione delle Strutture carcerarie cantonali circa il suo prospettato trasferimento. Ritrascrivendo quanto riportato dalla Direzione relativamente alle sue esternazioni che avrebbe rilasciato in occasione dell’ivi asserito colloquio del 24.12.2014, egli ha precisato che “
vi comunico che quelli che la Direzione ha scritto assolutamente non corrispondono alla realtà
” (scritto 29.12.2014, allegato 7, inc. GPC _).
Egli ha quindi chiesto al giudice destinatario della missiva di essere sentito “
per poter presentare i miei motivi per cui io non sono d’accordo per il mio trasferimento a carcere penale di _ nel Cantone _
” (scritto 29.12.2014, allegato 7, inc. GPC _).
j.
Il giudice dei provvedimenti coercitivi con decisione 30.12.2014, richiamati gli incarti di precedenti decisioni rese dal medesimo giudice relative a RE 1, riassunti i fatti, ripreso in esteso lo scritto 22.12.2014 con cui la Direzione delle Strutture carcerarie ticinesi ha richiesto il trasferimento del qui reclamante in un altro penitenziario come pure ricordate le normative applicabili, ha ritenuto fondata la richiesta posta dalla Direzione ed ha ordinato il trasferimento/collocamento del qui reclamante presso le Strutture carcerarie di _ a far tempo dal 5.01.2015, precisando che egli “
dovrà essere collocato/mantenuto in sezione chiusa e ogni eventuale decisione relativa ad alleggerimenti rimane nelle competenze delle autorità del Cantone Ticino
” (decisione 30.12.2014, p. 5).
Il magistrato ha altresì rilevato che “
il condannato è stato sentito, in merito al trasferimento, dalla Direzione delle Strutture carcerarie in data 24.12.2014 e risulta aver dato il suo assenso, rispettivamente auspicato che il trasferimento avvenga il più presto possibile. Ciò esenta da ulteriori necessità di motivazione
” (decisione 30.12.2014, p. 3).
Infine il giudice ha dichiarato la propria decisione immediatamente esecutiva “
in considerazione del fatto che il fondamento della decisione consiste in motivi disciplinari e di sicurezza, e tenuto conto pure della data indicata dalle Strutture carcerarie di _ per l’accoglienza del condannato
” (decisione 30.12.2014, p. 4).
k.
Il 30.12.2014 RE 1 viene avvertito dalla Cancelleria dell’Ufficio dei giudici dei provvedimenti coercitivi che la decisione circa il suo trasferimento è stata emanata e che contro la stessa è possibile aggravarsi con reclamo davanti alla Corte dei reclami penali (scritto 2.01.2015, allegato 9, inc. GPC _).
l.
Il 2.01.2015 il giudice dei provvedimenti coercitivi ha comunicato a RE 1 di aver ricevuto solo quel giorno la sua missiva del 29.12.2014 e che “
come già dettole il 30 dicembre 2014 dalla Cancelleria di questo Ufficio (su mia indicazione), la decisione è stata emanata e contro la stessa è dato reclamo alla CRP
” (scritto 2.01.2015, allegato 9, inc. GPC _).
m.
In data 5.01.2015 RE 1 viene trasferito dal Penitenziario La Stampa alle Strutture carcerarie di Thorberg.
n.
Con scritto datato 8.01.2015
−
spedito il 12.01.2015 dall’Ufficio postale di _ e giunto a questa Corte il 15.01.2015
−
RE 1 manifesta l’intenzione di voler interporre ricorso contro la decisione 30.12.2014 del giudice dei provvedimenti coercitivi, limitandosi a chiedere che “
per poter presentare ricorso contro decisione di mio trasferimento in _ vorrei avere i atti e vorrei avere un avvocato di ufficio
” (AI 1).
o.
Il 15.01.2015 questa Corte, rilevato come sulla base dei timbri postali il termine per l’inoltro del reclamo sarebbe venuto a scadere il 9.01.2015, conformemente alla giurisprudenza dell’Alta Corte, invita RE 1 a volersi esprimere in merito alla tempestività del suo gravame nel termine di 10 giorni (AI 3).
p.
Con lettera datata 25.01.2015
−
giunta a questa Corte il 29.01.2015
−
RE 1 sostiene essere la Direzione dell’istituto penale di _ a dover spiegare i motivi della consegna ritardata all’Ufficio postale del suo reclamo, avendolo lui consegnato l’8.01.2015.
Rileva che tutti gli scritti da lui redatti e consegnati alla Direzione delle Strutture carcerarie ticinesi, fra cui il gravame in oggetto (“
Quando ero ancora nella Stampa, avevo inviato diverse lettere a diverse autorità e uffici tra cui anche vostro corte
”, lettera 25.01.2015 di RE 1, p. 1, AI 5), sarebbero stati poi consegnati alla Direzione del penitenziario di _,
«
essendo la sua contabilità già stata chiusa
» presso l’istituto penale ticinese conseguentemente al suo trasferimento avvenuto il 5.01.2015
.
Osserva poi che tutte le sue missive sarebbero soggette a censura e a controlli da parte della Direzione/del personale del carcere _, siccome egli sin dall’inizio del suo trasferimento sarebbe detenuto in cella di sicurezza e non nella sezione chiusa in regime ordinario come disposto dal giudice dei provvedimenti coercitivi, di cui chiede la ricusazione. Ricusazione in quanto il magistrato ticinese avrebbe, a suo avviso, reso la decisione 30.12.2014, qui impugnata, in violazione del suo diritto di essere sentito e del diritto di accedere agli atti. Conclude ribadendo che “
per poter presentare un ricorso proprio come deve essere io ho bisogno di tutti atti
” (AI 5).
q.
Con scritto 2.02.2015 (con copia a RE 1) questa Corte ha richiesto alla Direzione del penitenziario di _ di comunicare “
quando il detenuto ha consegnato alla Direzione della vostra struttura il ricorso datato 8.1.2015 diretto alla Corte dei reclami penali
” (AI 6).
Ha fatto seguito un colloquio telefonico in cui la segreteria dell’istituto penale ha comunicato al Presidente di questa Corte, che, essendo stato inviato il reclamo tramite corriere di posta A, non dispongono di alcuna ricevuta al proposito (AI 6).
r.
Il 5.02.2015 questa Corte, dando seguito allo scritto 25/29.01.2015 di RE 1, ha trasmesso a quest’ultimo copia dei documenti da 1 a 10 dell’incarto GPC _ relativo al suo trasferimento nel Penitenziario di _, assegnandogli nel contempo un termine di 10 giorni per eventualmente completare il suo reclamo dell’8/15.01.2015 (AI 7).
s.
Nel contempo con scritto datato 5.02.2015
−
spedito il 9.02.2015 dall’Ufficio postale di _ e pervenuto a questa Corte il 12.02.2015
−
RE 1 accusa ricevuta dello scritto 2.02.2015 inviato da questa Corte alla Direzione delle Strutture carcerarie di _.
Pone in particolare rilievo parte delle argomentazioni già esposte nella sua precedente missiva di data 25.01.2015, segnatamente che “
quando ero ancora nella Stampa, avevo inviato diverse lettere a diverse autorità e uffici tra cui anche a vostro corte
” e il direttore del penitenziario ticinese “
ha inviato tutte le quel miei lettere indietro a Direzione di _ dicendo che mio conto gia era stato chiuso che per questo non hanno inviato le miei lettere
” (AI 8). | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
d50a4e4d-48ca-5d52-bc6c-120263981216 | in fatto ed in diritto
che con la presente istanza l’avv. IS 1 dello Studio legale _ postula la trasmissione, in copia e in forma anonimizzata, del decreto di accusa 1.03.2001 (DAC _), passato in giudicato il 2.04.2001, emanato dall’allora procuratore generale Luca Marcellini nei confronti di una persona ritenuta colpevole, tra l’altro, di ripetuta corruzione di pubblici ufficiali stranieri (art. 322septies CP);
che a suffragio della sua richiesta il legale precisa di aver bisogno del surriferito decreto che riguarda l’art. 322septies CP (corruzione di pubblici ufficiali stranieri) essendo intenzionato a pubblicare un
"
contributo scientifico
"
;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nella fattispecie in esame – visti i motivi addotti nella presente richiesta – appare adempiuto un interesse giuridico da parte dell’avvocato istante ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG, ad ottenere la trasmissione, in copia e in forma anonimizzata, del decreto richiesto, potendo essere utile per le sue incombenze;
che in siffatte circostanze il decreto di accusa 1.03.2001 (DAC _) viene trasmesso, in copia e in forma anonimizzata (e ciò evidentemente a tutela degli interessi della parte coinvolta nel procedimento penale nel frattempo archiviato), all’istante unitamente alla presente decisione;
che vista la natura della richiesta, si rinuncia al prelievo della tassa di giustizia e delle spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
d54eb30d-d4a2-5c1b-b145-95265c8ab0fc | in fatto: A.
Con sentenza contumaciale del 23 dicembre 1999 il Pretore del Distretto di Bellinzona ha dichiarato _ autore colpevole di trascuranza degli obblighi di mantenimento e lo ha condannato a 15 giorni di detenzione da espiare, come pure al pagamento di fr. 49'602.– all'Ufficio del sostegno sociale e dell'inserimento, costituitosi parte civile. Ha ordinato inoltre la revoca della sospensione condizionale a una pena di 15 giorni di detenzione inflitta all'imputato con sentenza del 22 aprile 1996 per lo stesso reato.
B. _
ha chiesto il 20 giugno 2000 la revoca della sentenza contumaciale (art. 277 cpv. 3 CPP) e ha invitato il Pretore ad aggiornare il dibattimento nella seconda metà di settembre, date le assenze sue e del suo avvocato. Il Pretore ha fissato però il dibattimento, il 21 giugno 2000, per il 3 agosto successivo. Con lettera del 22 luglio 2000 il patrocinatore di _, richiamato il contenuto dell'istanza del 20 giugno precedente, ha reiterato per un rinvio del dibattimento, precisando che in caso di rifiuto avrebbe rinunciato al mandato per l'impossibilità di raggiungere il cliente. Con decisione del 24 luglio 2000 il Pretore ha respinto l'istanza e ha avvertito l'imputato che in caso di mancata comparizione al dibattimento del 3 agosto successivo la sentenza contumaciale sarebbe divenuta definitiva.
C.
Con sentenza del 3 agosto 2000 il Pretore del Distretto di Bellinzona, preso atto della rinuncia al mandato da parte del patrocinatore e accertata l'assenza ingiustificata dell'imputato al dibattimento, ha nuovamente dichiarato _ autore colpevole del reato ascrittogli, confermando quanto già deciso il 23 dicembre 1999. Mediante ricorso per cassazione del 12 settembre 2000 _ ha impugnato la sentenza del Pretore davanti alla Corte di cassazione e di revisione penale, chiedendone l'annullamento e un nuovo processo. Il ricorso è stato respinto dalla Corte con sentenza del 12 settembre 2000 (inc. _).
D.
Con istanza del 28 marzo 2002 in lingua tedesca _ ha chiesto la revisione delle sentenze emanate il 23 dicembre 1999 e il 3 agosto 2000 dal Pretore del Distretto di Bellinzona. Il presidente della Corte di cassazione e di revisione penale ha assegnato il 2 aprile 2000 all'interessato un termine di 20 giorni per tradurre l'istanza in italiano, con l'avvertenza che in caso contrario la domanda di revisione sarebbe stata dichiarata inammissibile. Una richiesta di proroga del termine è poi stata respinta dallo stesso presidente. Non avendo l'interessato provveduto alla traduzione dell'atto, con sentenza del 30 aprile 2002 la Corte di cassazione e di revisione penale ha dichiarato l'istanza inammissibile (inc. _).
E.
Il 30 maggio 2002 _ ha riproposto l'istanza di revisione in lingua italiana, chiedendo che le citate sentenze pretorili siano annullate, che sia sospesa l'esecutività di tali giudizi, che gli sia versata una congrua indennità e che le spese processuali siano poste a carico della Pretura del Distretto di Bellinzona. L'istanza non è stata oggetto di intimazione. | Considerando
in diritto: 1.
L'istante fonda la domanda di revisione sull'art. 299 cpv. 1 lett. a CPP, asserendo che le sentenze in questione sono state determinate da un comportamento penalmente rilevante del Pretore, il quale lo avrebbe condannato per trascuranza degli obblighi di assistenza (art. 217 CP) commettendo abuso d'autorità (art. 312 CP). Egli fa valere che con dichiarazione del 21 dicembre 1999, versata agli atti dal suo patrocinatore prima del pubblico dibattimento, la sua ex moglie aveva espressamente revocato la procura conferita a suo tempo all'ente pubblico, il quale aveva anticipato i contributi alimentari (documento annesso all'istanza del 28 marzo 2002 nell'inc. _), onde l'impossibilità di condannarlo, la querela essendo stata per l'appunto stata ritirata (art. 31 CP). Ora, nella fattispecie l'istante postula la revisione di due sentenze contumaciali. Contro giudizi del genere, però, occorre far capo anzitutto al rimedio previsto dall'art. 277 cpv. 3 CPP e presentare entro 6 mesi dall'emanazione della sentenza istanza per un nuovo giudizio. Con istanza del 20 giugno 1999 l'interessato aveva chiesto bensì che il processo del 23 dicembre 1999 fosse rifatto in sua presenza, ma non è poi comparso al dibattimento del 3 agosto 2000, celebratosi una volta ancora nelle forme contumaciali. Tale sentenza è divenuta perciò definitiva e da questo profilo l'istanza di revisione è ammissibile. Che l'interessato abbia già fatto capo a tale istituto presentando il 28 marzo 2000 una domanda in tedesco (non tradotta in italiano) poco importa. È vero che una domanda di revisione respinta una volta non può essere rinnovata per lo stesso motivo (art. 307 cpv. 2 CPP), ma ciò vale ove la domanda sia stata giudicata nel merito. Il che non è avvenuto nella fattispecie.
2.
Secondo l'art. 299 cpv. 1 lett a CPP la revisione del processo, in caso di sentenza di condanna, ha luogo quando sia dimostrato che la condanna fu determinata dalla falsificazione di un documento, da falsa testimonianza, da corruzione, e, in genere, da reato di terza persona. Perché una domanda di revisione sia possibile in questo caso è necessario che l'atto illecito all'origine della procedura sia accertato in giudizio o che il giudice ne sia altrimenti convinto (
Piquerez
, Précis de droit de procédure pénale suisse, 2a edizione, n. 2236). Ove non sussista condanna per falsa testimonianza o per atto illecito, la commissione del reato deve apparire evidente. In ogni caso deve risultare verosimile una modifica dello stato di fatto suscettibile di dar luogo a una decisione più favorevole. In questa prospettiva i presupposti della revisione non differiscono da quelli stabiliti dall'art. 299 cpv. 1 lett. c CPP con riferimento all'art. 397 CP (CCRP, sentenze dell'8 luglio 1995 in re G., consid. 3, e del 24 gennaio 1995 in re G., consid. 2b).
3.
Il reato che il Pretore avrebbe commesso sarebbe, secondo il ricorrente, quello di abuso di autorità a norma dell'art. 312 CP. Sostiene, come detto, che sebbene il 21 dicembre 1999 la sua ex moglie abbia revocato la procura conferita all'ente pubblico (Ufficio del sostegno sociale e dell'inserimento), il quale anticipava gli alimenti, il primo giudice lo ha ugualmente condannato per trascuranza degli obblighi di mantenimento (art. 217 cpv. 1 CP). In tal modo egli avrebbe abusato delle sue funzioni, dato che la querela sporta nei suoi confronti sarebbe stata definitivamente ritirata, ciò che il Pretore sapeva al momento di statuire. L'argomentazione è ai limiti della temerarietà. Non solo nessuna autorità ha finora accertato il reato invocato nel ricorso, ma il comportamento del Pretore non integra lontanamente gli estremi dell'art. 312 CP. Richiamato quanto la Corte di cassazione e di revisione penale aveva stabilito con sentenza del 9 ottobre 1996 (in quell'occasione l'ex moglie dell'istante si era proposta di persuadere lo Stato a ritirare la querela), il Pretore ha biasimato l'accusato per la sua irriducibilità, e in particolare proprio per la produzione della dichiarazione 21 dicembre 1999 con cui l'ex moglie revocava la procura conferita all'ente pubblico. Gli ha ricordato che la pretesa relativa agli alimenti è stata ceduta al Dipartimento delle opere sociali con tutti i diritti relativi (art. 289 cpv. 2 CC) e che la querela era stata inoltrata dall'ente pubblico in base alla facoltà e alla legittimazione concessa dagli art. 217 cpv. 2 CP e 19
bis
della legge di applicazione del CP (sentenza del Pretore del 23 dicembre 1999, pag. 3; cfr. anche la sentenza del 3 agosto 2000, pag. 4). Nulla impediva all'interessato di criticare tale conclusione, segnatamente di persistere nell'invocare la salvaguardia degli interessi della famiglia (art. 217 cpv. 2 CP). Disertando i due dibattimenti, egli si è però precluso la facoltà di ricorrere contro l'applicazione dell'art. 217 cpv. 2 CP. Egli può solo rimproverarsi tale scelta
4.
Ne segue che
l'istanza di revisione, manifestamente infondata, deve essere disattesa. Con l'emanazione del presente giudizio diventa priva d'oggetto la richiesta di sospendere l'esecuzione delle sentenze impugnate (art. 301 cpv. 3 CPP). Gli oneri processuali sono posti a carico dell'istante (art. 9 cpv. 1 e 15 cpv. 1 CPP su rinvio dell'art. 301 cpv. 2 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,002 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
d57e49e9-e287-50c2-9e75-7e2a8e02a7d4 | in fatto: A.
Con decreto di accusa del 6 maggio 2002 il Procuratore pubblico ha posto _ in stato di accusa per ripetuto abuso di impianti di telecomunicazioni, per avere a _ e altre località del Cantone, per malizia, chiamandoli col telefono a ogni ora del giorno o della notte, ripetutamente abusato di impianti di telecomunicazione allo scopo di importunare _. In applicazione della pena, egli ne ha proposto la sua condanna a 20 giorni di arresto da espiare. Al decreto di accusa _ ha interposto opposizione.
B.
Con sentenza del 6 maggio 2002 il Pretore del Distretto di Lugano, sezione 4, previa dichiarazione di contumacia, ha riconosciuto _ autrice colpevole di ripetuto abuso di impianti di telecomunicazione riferito al periodo maggio 2001–marzo 2002 e a una parte delle relative imputazioni, condannandola alla pena di 15 giorni di arresto da espiare.
C.
Contro la sentenza predetta _ ha inoltrato il 4 ottobre 2002 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi del gravame, presentati il 7 novembre successivo, essa chieda l'annullamento della sentenza impugnata e il rinvio degli atti al Pretore per nuovo giudizio. Con osservazioni del 10 dicembre 2002 il Procuratore pubblico ha chiesto la reiezione del ricorso. Con scritti del 26 e del 29 novembre 2002 le parti civili hanno comunicato di non presentare osservazioni. | Considerando
in diritto: 1.
Contro sentenze contumaciali – come nella fattispecie – il ricorso per cassazione è unicamente ammissibile se esso è diretto contro la dichiarazione di contumacia stessa, ossia ha per oggetto la questione di sapere se il giudice abbia deciso a ragione o a torto di procedere in assenza dell'accusato (Rep. 1982 pag. 194 con la sentenza del Tribunale federale parzialmente riprodotta in calce; CCRP, sentenza del 2 aprile 1998 in re G. consid. 5 con riferimenti).
2.
La ricorrente insorge contro la dichiarazione di contumacia, facendo anzitutto carico al Pretore di non avere celebrato il processo in sua assenza, nonostante che l'art. 229 CPP consenta a determinate condizioni un'eventualità del genere. La critica cade nel vuoto per le considerazioni che seguono:
a)
L'art. 229 cpv. 1 CPP stabilisce che il presidente della Corte di assise, sentito il Procuratore pubblico e tutte le parti, "può autorizzare l'accusato a non presenziare al dibattimento, se sono fatte vale preminenti ragioni". La norma riprende alla lettera il cessato art. 177 cpv. 1 CPP, introdotto nel (vecchio) Codice di procedura penale con effetto al 1°gennaio 1993. Ottenuto il permesso di non comparire, l'accusato è processato come se fosse presente, senza pregiudizio per lui (Messaggio aggiuntivo concernente la revisione totale del Codice di procedura penale, del 20 marzo 1991, in: Verbali del Gran Consiglio, sessione ordinaria primaverile 1992, vol. 3, pag. 1849 in fondo). Contro una sentenza di condanna egli può quindi ricorrere alla Corte di cassazione e di revisione penale.
Diversa è la situazione qualora l'accusato non intenda essere processato in
absentia
, ma chieda un rinvio del dibattimento. Simile eventualità è regolata dall'art. 237 cpv. 2 CPP, che contempla appunto l'ipotesi di un rinvio (o di una sospensione, se il dibattimento è già cominciato) per malattia o grave impedimento, ma "solo per tempo determinato". Ove l'impedimento sia duraturo, si procede al giudizio; "sono in tal caso applicabili le norme previste per la procedura contro gli assenti, eccetto quelle riguardanti le pubblicazioni" (art. 237 cpv. 3 CPP). Le norme sul processo contumaciale fanno sì che una sentenza di condanna non possa essere impugnata con ricorso per cassazione (DTF 122 I 36; cfr., anche DTF 121 IV 341 consid. 1a e 2a). Entro i termini di prescrizione dell'azione penale l'imputato può chiedere in ogni momento, tuttavia, la revoca del giudizio pronunciato in assenza e lo svolgimento del processo con rito ordinario (art. 316 cpv. 1 CPP; CCRP, sentenza del.2 aprile 1998 in re G. consid. 2). Nei casi davanti alla Pretura penale, egli deve attivarsi entro sei mesi dalla emanazione della sentenza contumaciale (art. 277 cpv. 4 CP).
b)
Nei procedimenti di opposizione ai decreti di accusa l'art. 274 cpv. 1 seconda frase vCPP in vigore al momento dell'emanazione della sentenza impugnata, si limitava a disporre che il Pretore può dispensare le parti con domicilio all'estero dal presenziare al dibattimento "se adducono motivi importanti e se il procedimento può essere condotto nonostante la loro assenza". La norma si riconduceva all'art. 228 del disegno di legge contenuto nel messaggio dell'11 marzo 1987 (Raccolta dei verbali del Gran Consiglio, sessione autunnale 1994, vol. 2, pag. 1078), criticato nel messaggio aggiuntivo del 20 marzo 1991 proprio perché privilegiava "acriticamente e inaccettabilmente per rispetto alla parità di trattamento chi ha il domicilio all'estero "( Raccolta citata, sessione ordinaria primaverile 1992, vol. 3, pag. 1849). Non di meno esso era stato ripreso senza commento nel rapporto della Commissione speciale dell' 8 novembre 1994 (pag. 80 in basso e pag. 190) e approvato come tale dal Gran Consiglio. Se per i processi davanti alle assise, quindi, il legislativo aveva tenuto conto delle critiche enunciate nel messaggio aggiuntivo del 20 marzo 1991 (tant'è che l'art. 229 cpv. 1 CPP era stato riformulato), per i processi riguardanti le opposizioni a decreti di accusa esso aveva approvato semplicemente quanto figurava nel messaggio originario dell'11 marzo 1987. Ciò non sembra nemmeno ricondursi a una svista: l'art. 277 cpv. 1 vCPP specificava esplicitamente, anzi, che il giudice giudica in contumacia ogni accusato che non compaia nel giorno fissato per il dibattimento "senza la giustificazione prevista dall'art. 274" (che riguardava, appunto, le sole parti domiciliate all'estero). Ne segue che il Codice di procedura applicabile alla fattispecie non contempla alcuna base legale perché un Pretore possa dispensare un accusato con domicilio nel Canton Ticino dal comparire in aula (CCRP, sentenza del 2 aprile 1998 in re G. consid. 3). Stabilendo che i certificati medici prodotti non consentissero – comunque sia – di dispensare la prevenuta dal presenziare al pubblico dibattimento, ossia di non celebrare il processo in sua assenza nelle forme ordinarie in applicazione dell'art. 229 cpv. 1 CPP, il Pretore ha statuito correttamente.
3.
Secondo la ricorrente, il Pretore avrebbe comunque dovuto rinviare il dibattimento per consentire l'allestimento della perizia psichiatrica ex art. 10 e 11 CP ordinata dal Procuratore pubblico in un procedimento penale parallelo. L'argomento non può però entrare in considerazione. Per evitare la personale comparizione davanti al Pretore, la ricorrente avrebbe infatti dovuto documentare una malattia o un grave impedimento temporaneo ai sensi dell'art. 237 cpv. 2 CPP (art. 313 cpv. 2 CPP). Secondo il Pretore, essa non ha però soddisfatto tale esigenza, poiché i certificati medici prodotti non attestano con precisione la sua pretesa incapacità ad essere processata (sentenza, pag. 6). Orbene, la ricorrente sorvola su questa considerazione, persistendo nel sostenere che il rinvio del processo, proposto anche all'inizio del dibattimento, si imponeva per consentire l'assunzione di una determinata prova, ossia della perizia psichiatrica sul suo stato mentale. Una argomentazione del genere è però inammissibile, perché non attinente alla dichiarazione di contumacia, la sola impugnabile con ricorso per cassazione, ma al merito del processo, ossia a un argomento sottratto alla Corte di cassazione e di revisione penale confrontata con sentenza emanata in assenza dell'accusato. Sia come sia, avuto riguardo all'atteggiamento dell'accusata ricordato a pag. 6 della sentenza impugnata e, in particolare, ai tentativi da essa messi in atto per sottrarsi proprio alla prova peritale ora invocata, il Pretore aveva una valida ragione per non procrastinare il procedimento e, pertanto, per procedere nelle forme contumaciali, tenuto anche conto del rischio di prescrizione dell'azione penale e, in ogni modo, del diritto della condannata di chiedere la revoca della sentenza contumaciale (art. 277 cpv. 3 CPP).
4.
Da quanto precede discende che nella misura in cui è ammissibile, il ricorso deve essere respinto siccome infondato. Gli oneri processuali seguono la soccombenza, ossia sono posti a carico della ricorrente (art. 15 cpv. 1 e 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,003 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
d5a5a7bd-e874-5aa7-b574-cf5f609b15e8 | in fatto: A.
Con decreto d’accusa 28 gennaio 2008, il procuratore pubblico ha ritenuto RI 1, architetto STS, autore colpevole di violazione delle regole dell’arte edilizia per avere omesso, per imprevidenza colpevole, di provvedere affinché venisse nuovamente installato, al primo piano di una casa in costruzione di cui egli assicurava la direzione dei lavori, un parapetto che era stato smontato per ragioni tecniche da un artigiano rimasto ignoto. In applicazione della pena, il procuratore pubblico proponeva la condanna di RI 1 alla pena pecuniaria di fr. 2’700.- (15 aliquote giornaliere da fr. 180.-) – sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni – e alla multa di fr. 500.-.
B.
Statuendo sull’opposizione presentata da RI 1, il giudice della pretura penale ne ha confermato la condanna ex art. 229 cpv. 2 CP ma ha ridotto la pena proposta dalla pubblica accusa a tre aliquote giornaliere di fr. 180.- l’una – pena sospesa condizionalmente per due anni – e alla multa di fr. 200.-.
I fatti posti alla base della condanna sono, in estrema sintesi, i seguenti.
1. RI 1
, dipendente dello studio d’architettura _, ha allestito i progetti e svolto la direzione lavori del cantiere relativo all’edificazione del fondo part. n. _ che ha preso avvio nel luglio 2006.
2.
Durante la costruzione, dopo la formazione delle scale interne e della soletta tra il piano terra e il primo piano, il capocantiere _ – cui competeva la sicurezza del cantiere e, quindi, in particolare, la posa delle protezioni - ha provveduto a far posare i parapetti di protezione sulle scale e sulla soletta tra il piano intermedio e il piano terra.
Queste protezioni sono, in seguito, state tolte dalla soletta per dar modo ai gessatori di fare il loro lavoro. Terminato il lavoro dei gessatori, è iniziato quello dei parchettisti: la posa del parquet è finita il venerdì 14 settembre 2007.
3.
Vuoi perché il parquet abbisogna di almeno un giorno per asciugare, vuoi perché il riposizionamento delle protezioni di regola comporta un rischio di danneggiamento del pavimento e del gesso senza peraltro garantire la sicurezza poiché non permette una sufficiente presa per il fissaggio dei parapetti, a posa terminata, la ditta ha lasciato il cantiere senza riposizionare il parapetto sulle scale.
4.
Il lunedì successivo, RI 1 ha mostrato il cantiere a PC 1, operaio che doveva montare le porte interne. Durante il sopralluogo eseguito con il direttore dei lavori, PC 1 “
ha potuto avvedersi dell’assenza di protezioni sulle scale e sul ballatoio
” (sentenza di primo grado, consid. 6 pag. 4). Nel pomeriggio di quello stesso giorno, mentre con un collega trasportava dal piano-ingresso al piano intermedio una pesante porta taglia-fuoco, camminando all’indietro sulla superficie della soletta intermedia, PC 1 è caduto nel vuoto rovinando al suolo nel sottostante salone. Nella caduta, PC 1 ha riportato un trauma cranico commotivo, una lussazione dell’articolazione sterno clavicolare e frattura della clavicola sternale, una contusione della spalla destra, una ferita lacero-contusa occipitale ed una contusione al polpaccio sinistro.
C.
Con ricorso 2 marzo 2009 il condannato, sollevando arbitrio nell’accertamento dei fatti ed errata applicazione del diritto, chiede, con l’annullamento della sentenza impugnata, di essere prosciolto dall’accusa di violazione colposa delle regole dell’arte edilizia.
D.
Con osservazioni 13 marzo 2009, il procuratore pubblico postula la reiezione del gravame. | Considerato
in diritto: 1.
Giusta l’art. 288 CPP, il ricorso per cassazione può essere presentato per errata applicazione del diritto sostanziale ai fatti posti a base della sentenza (lett. a), per vizi essenziali di procedura, purché il ricorrente abbia eccepito l’irregolarità non appena possibile (lett. b) e per arbitrio nell’accertamento dei fatti (lett. c).
L'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP) ritenuto che arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev'essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 8 consid. 2.1 pag. 9, 173 consid. 3.1 pag. 178, 128 I 273 consid. 2.1 pag. 278).
2.
In relazione all’accertamento dei fatti, il ricorrente sostiene che il primo giudice è caduto in arbitrio
“dato che non ha considerato che PC 1 era l’unico operaio a lavorare all’interno, che era stato avvertito del problema e che ne era consapevole e che, come da lui stesso ammesso, avrebbe dovuto usare vie alternative, rispettivamente usare la gru, come concordato con il qui ricorrente”
(ricorso pag. 5).
2.1.
Sulla questione di fatto toccata dal ricorrente, già s’è visto in initio, che il pretore ha accertato che, il lunedì mattina, RI 1 ha mostrato il cantiere a PC 1 e che, durante questo sopralluogo, PC 1 “
ha potuto avvedersi dell’assenza di protezioni sulle scale e sul ballatoio
” (sentenza di primo grado, consid. 6 pag. 4).
Proseguendo nella sua ricostruzione dei fatti, il pretore ha aggiunto che, nel pomeriggio di lunedì, PC 1 è stato raggiunto da LA. (che, pure, lavorava come operaio per la _ ). Questi, mentre il primo terminava il montaggio dei telai, ha posato una porta scorrevole al piano-ingresso. Poi, verso le 16.30 – continua il primo giudice – i due operai hanno deciso di trasportare dal piano ingresso al piano intermedio la già citata porta tagliafuoco e, in quest’operazione, PC 1, “
camminando all’indietro, ha svoltato verso il soppalco alla sua sinistra per dar modo alla porta e al suo collega LA. di fuoriuscire dalla tromba delle scale
” ed è caduto nel vuoto (sentenza di primo grado, consid. 6 pag. 5).
2.2.
Visto quanto sopra, nella misura in cui il ricorrente lamenta arbitrio nel mancato accertamento che “PC 1
era stato avvertito del problema e ne era consapevole
”, il ricorso è privo d’oggetto: il pretore ha, infatti, accertato che PC 1 “
ha potuto avvedersi dell’assenza di protezioni sulle scale e sul ballatoio
” (sentenza di primo grado, consid. 6 pag. 4).
Nella misura in cui, invece, il ricorso censura d’arbitrio l’accertamento secondo cui PC 1 non era il solo operaio che lavorava all’interno della casa in costruzione e secondo cui egli aveva concordato con il direttore dei lavori che, per i trasporti, avrebbe usato la gru, il ricorso è irricevibile.
Per motivare una censura di arbitrio non basta, infatti, criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una propria versione dell'accaduto (anche quando essa apparisse preferibile) ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato con un riferimento preciso e puntuale agli elementi probatori con cui l’accertamento contrasta in modo irreparabile (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 8 consid. 2.1 pag. 9, 173 consid. 3.1 pag. 178, 128 I 273 consid. 2.1 pag. 278). Invece, generico e narrativo laddove si esprime sui fatti, il ricorso non adempie i requisiti minimi per un’analisi delle conclusioni della prima Corte che vengono ignorate.
Pertanto, privo di riferimenti concreti che possano fare apparire arbitrari gli accertamenti del primo giudice, il ricorso sfugge ad ulteriore disamina.
Tuttavia, appare qui opportuno ricordare al ricorrente, che, contrariamente a quel che lui sembra sostenere, il primo giudice ha accertato che egli “
non era a conoscenza che nel corso del pomeriggio sarebbe intervenuto per aiutare il PC 1 anche un altro operaio della _
” e che egli ha dichiarato di “
avere lasciato il cantiere convinto che il PC 1 avrebbe predisposto il trasporto delle porte (...) tramite gru
” (sentenza di primo grado, consid. 13 pag. 8 e 9).
3.
Il ricorrente sostiene, poi, che il primo giudice
“ha chiaramente violato il diritto federale, dato che l’art. 229 CP esige che vi sia una messa in pericolo concreta, cosa che nella fattispecie che ci occupa non è affatto data”
(ricorso pag. 5).
3.1.
Dopo avere riassunto in modo pertinente il diritto applicabile alla fattispecie, il primo giudice ha evidenziato che per regole dell’arte bisogna intendere non soltanto le regole destinate a proteggere gli utilizzatori una volta terminata la costruzione, ma “
anche e soprattutto le regole che tendono a garantire la sicurezza sui cantieri durante l’esecuzione della costruzione o della demolizione
” e che tra queste si annovera l’Ordinanza sui lavori di costruzione (OLCostr, RS 832.311.141). Rilevando che il TF ha già avuto modo di precisare che il mancato rispetto delle prescrizioni dell’Ordinanza concernente la prevenzione degli infortuni nell’esecuzione di scavi, pozzi e lavori del genere (RS 832.311.11) costituisce una violazione dell’arte edilizia (DTF 109 IV 125), il primo giudice, riferendosi alla dottrina in materia, ha precisato che “
non ne può andare diversamente in caso di violazione dell’OLCostr, normativa del tutto analoga sia per campo d’applicazione (costruzioni), sia per scopo (sicurezza)
” (sentenza impugnata, consid. 9 pag. 6 e 7).
Rilevato, poi, che
“l’apertura nella quale è caduto PC 1 presentava una profondità di 2.80 m”
, il primo giudice ha concluso che
“era obbligo del costruttore, e per esso del capo-cantiere _, rispettivamente del direttore dei lavori”
, assicurare il rispetto dell’art. 17 OLCostr secondo cui all’interno degli edifici deve essere installato un parapetto quando i suoli presentano differenze di livello di più di 50 cm (cpv. 1) e secondo cui le aperture nei suoli attraverso le quali è possibile cadere devono essere provviste di una protezione laterale o di una copertura resistente alla rottura e solidamente fissata (cpv. 2).
In concreto – ha proseguito il primo giudice – tale disposizione è stata, in un primo tempo, ossequiata con la posa del parapetto sulla soletta del soppalco e le protezioni laterali sulle scale ma è stata disattesa successivamente, per via di omissione, quando né il capocantiere né il direttore dei lavori – cui incombeva l’adozione di misure anticaduta (cfr. anche art. 19 cpv. 1 OLCostr) – hanno intrapreso qualcosa per ripristinare le misure di protezione asportate “
per consentire i lavori di gessatura dapprima e di parchettista poi
” (sentenza impugnata, consid. 10 pag. 7).
Rilevato che RI 1, al dibattimento, ha dichiarato di conoscere l’OLCostr (sentenza impugnata, consid. 9.3 pag. 6) e di essersi accorto dell’assenza di protezioni già il martedì 11 settembre (sentenza impugnata, consid. 12 pag. 8), il primo giudice ha ricordato che l’accusato ha motivato la sua scelta di non procedere alla sostituzione delle protezioni, da un lato perché convinto che all’interno lavorasse soltanto PC 1 che era stato reso attento a quella mancanza e che avrebbe trasportato le porte passando dall’esterno tramite gru e, d’altro lato, perché il giorno stesso o quello successivo sarebbero stati posati i parapetti definitivi (sentenza impugnata, consid. 13 pag. 8 e 9). Egli ha, poi, riassunto la tesi difensiva secondo cui, in sintesi, RI 1 non aveva alcuna possibilità, quel giorno, di assicurare una reale protezione poiché un parapetto provvisorio avrebbe creato solo una protezione ingannevole mentre la posa di un nastro avrebbe, sì, potuto richiamare l’attenzione sul pericolo ma non avrebbe potuto assolvere ad una funzione protettiva (sentenza impugnata, consid. 14 pag. 9).
Dopo avere precisato che, essendo il reato ex art. 229 CP un reato di comune messa in pericolo, è sufficiente per la sua realizzazione che nella zona di pericolo sia venuta a trovarsi anche una sola persona, a condizione che la stessa non fosse individualizzabile sin dall’inizio ma sia stata scelta dal caso, il pretore ha concluso che, in concreto, “
gli elementi oggettivi dell’infrazione si trovano, quindi, realizzati anche solo con la presenza (sconosciuta all’accusato) di LA. sulle scale, pertanto indipendentemente dalla presenza della vittima PC 1 e indipendentemente dall’incidente occorsole
” (sentenza impugnata, consid. 15 pag. 9 e 10) ritenuto, peraltro, che “
sapendo che il parapetto definitivo era atteso in giornata
”, RI 1 avrebbe, per esempio, “
potuto coordinare diversamente la tempistica d’intervento degli operai nei punti pericolosi
” (sentenza impugnata, consid. 16 pag. 10).
3.2.
Nel suo allegato, il ricorrente ha posto l’accento sul fatto che egli,
“il mattino del giorno stesso dell’evento, aveva chiaramente e puntualmente avvertito il signor PC 1 della situazione (mancanza del parapetto)”
, che questi, di tale mancanza, era ben consapevole e che, perciò, venne concordato che le porte sarebbero state trasportate dall’esterno mediante gru (ricorso pag. e 3). Pertanto, essendo, poi, PC 1 l’unico operaio a lavorare all’interno, RI 1
“poteva e doveva ritenere di avere effettuato tutto quanto ragionevolmente possibile onde evitare pericoli, e meglio onde evitare che PC 1, perlomeno portando dei pesi, sarebbe passato lungo la scala”
(ricorso pag. 3).
Rilevando come LA. sia giunto inaspettatamente sul cantiere e come egli non fosse stato informato del suo arrivo, il ricorrente afferma che il suo comportamento non può essere ritenuto in nesso causale con la caduta di PC 1 che “
non solo non ha seguito le direttive del signor RI 1, ma procedeva oltretutto a ritroso, senza vedere dove andava
”. È perciò – conclude il ricorrente – “
del tutto arbitrario sostenere che fra la mancanza del parapetto e quanto successo a PC 1 vi sia un nesso di causalità”
essendo questo stato interrotto dal
“comportamento del tutto imprevedibile della vittima che ha del tutto disatteso (...) quanto concordato”
(ricorso pag. 3 e 4).
3.3.
Cosi argomentando, il ricorrente dimentica che egli non è stato condannato per lesioni colpose ai sensi dell’art. 125 CP per avere causato la caduta e, quindi, le lesioni patite da PC 1.
Se ciò fosse stato il caso, le sue disquisizioni sul nesso causale fra il comportamento negligente e il danno sarebbero pertinenti. Non lo sono, invece, in concreto ritenuto che il giudice di prime cure – confermando il decreto d’accusa e, quindi, confermando l’impostazione della pubblica accusa – lo ha condannato per violazione colposa delle regole dell’arte edilizia ex art. 229 cpv. 2 CP che, come pertinentemente ricordato dal primo giudice, si realizza con il venire in essere, quale conseguenza delle azioni o delle omissioni dell’autore, di una situazione concreta di pericolo per la vita o l’integrità delle persone (DTF 106 IV 265; 104 IV 99). Se è vero che tale reato è, dunque, un reato di risultato (Corboz, Les infractions en droit suisse, Berna 2002, II, n. 27 ad art. 229 CP), è anche vero che per risultato deve, qui, intendersi, non tanto il ferimento o la morte di qualcuno, ma semplicemente la messa in pericolo della vita o dell’integrità delle persone che deve ritenersi data già quando nella zona di pericolo è venuta a trovarsi anche solo una persona
(Roelli/Fleischanderl, Basler Kommentar, 2. ed., n. 35 ad art. 229 CP; Corboz, op. cit., n. 27 ad art. 229 CP). Correttamente, il giudice di prime cure, dopo essersi esaurientemente espresso sulle censure della difesa – che, poi, sono state riproposte in questa sede – ha precisato che gli elementi oggettivi dell’infrazione
“si trovavano quindi già realizzati anche solo con la presenza (sconosciuta all’accusato) di LA. sulle scale, pertanto indipendentemente dalla presenza della vittima PC 1 e indipendentemente dall’incidente occorsole (Roelli/Fleischanderl, op. cit, n. 35 ad art. 229 CP)”
(sentenza impugnata, consid. 15 pag. 10).
Inutile, quindi, entrare nel merito delle argomentazioni ricorsuali inerenti il nesso di causalità fra l’omissione del ricorrente e la caduta di PC 1.
Quanto alla tesi – già avanzata al dibattimento e riproposta in questa sede – secondo cui, in sintesi, egli non aveva alcuna possibilità, quel giorno, di assicurare una reale protezione poiché “
la posa di un parapetto provvisorio avrebbe solo creato un inganno per la sicurezza data la scivolosità del parquet
”, il ricorrente dimostra di non avere compreso gli argomenti con cui già il primo giudice aveva esaurientemente risposto all’obiezione. E meglio, dimostra di non avere compreso che l’omissione che gli viene addebitata è quella di non avere posto in essere una misura – non solo o non necessariamente un parapetto – che garantisse un’efficace protezione anticadute. Rilevato che già con il decreto d’accusa, gli veniva rimproverato di avere “
omesso (...) di provvedere affinché venisse nuovamente installato un parapetto (o altra protezione contro le cadute)
”, a questa Corte appare opportuno ricordare al ricorrente che, nella sua sentenza, il primo giudice ha precisato che a lui incombeva l’adozione di “
misure anticaduta, come ad esempio la posa di ponteggi, reti di sicurezza, coperture resistenti alla rottura o altro
” (sentenza impugnata, consid. 10 pag. 7) ritenuto che “
sapendo, ad esempio, che il parapetto definitivo era atteso in giornata
” gli sarebbe, al limite, bastato per ossequiare al suo obbligo, “
coordinare diversamente la tempistica d’intervento degli operai nei punti pericolosi
” isolandoli, se del caso, con degli sbarramenti (sentenza, consid. 16 pag. 10). Ciò che, invece, non è stato fatto. E ciò basta a realizzare, dal profilo oggettivo, il reato di cui all’art. 292 CP.
4.
Infine, nel suo allegato il ricorrente ribadisce quanto già sostenuto al dibattimento e, meglio che, dal lato soggettivo, si deve ritenere che egli poteva legittimamente considerare che il pericolo non si sarebbe realizzato per le stesse argomentazioni già sviluppate in precedenza (PC 1 era l’unico operaio ed era consapevole del pericolo).
4.1.
Sulla questione, il primo giudice ha accertato che RI 1
“era pienamente consapevole che l’assenza delle necessarie protezioni anticaduta costituiva una violazione delle regole dell’arte edilizia, segnatamente dell’OLCostr”
e che, ciò nonostante, egli ha
“omesso di dare disposizioni per il ripristino di una situazione di sicurezza”
ipotizzando
“negligentemente che da tale omissione non sarebbe risultato alcun pericolo per la vita o l’integrità delle persone”
(sentenza, consid. 16 pag. 10).
4.2.
Ancora una volta le argomentazioni ricorsuali cadono nel vuoto.
Esse si dipartono, evidentemente, ancora dalla mancata comprensione del senso del reato per cui egli è stato condannato. Lo si ricorda ancora una volta: RI 1 non è stato condannato per avere, omettendo di predisporre le opportune misure di sicurezza, causato le lesioni a PC 1 ma per avere, con tale omissione, creato una situazione di pericolo per la vita e l’integrità delle persone.
In conclusione, nella misura della sua ammissibilità, il ricorso va respinto.
5.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 in combinazione con l’art. 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,009 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
d5a89a21-b70e-5008-9e31-a864b1385ff4 | in fatto
a
. Con esposto 5/6.7.2012 l’Ufficio _ (di seguito: _) ha querelato _ per titolo di trascuranza degli obblighi di mantenimento. L’_ “
ha anticipato e anticipa alla signora PI 1 gli alimenti a favore della figlia minorenne _ (_2004) decisi dal Giudice Civile ed è cessionario degli stessi in virtù della dichiarazione sottoscritta dalla prefata in data 09.12.2008. Nonostante gli sforzi fatti da detto Ufficio non è stato possibile incassare dall’ob-bligato
[_]
la pensione alimentare nei limiti prescritti dalla sentenza pretorile (...) dal 01.11.2008 al 31.07.2012 pari a CHF 23’142
”
(AI 1, inc. MP _).
b
. Il 18.10.2012 PI 1 è stata interrogata dal segretario giudiziario Alberto Crameri (agente su delega del magistrato inquirente) in qualità di persona informata sui fatti. All’interrogato-rio ha presenziato anche l’avv. RE 1, sua patrocinatrice, oltre ad una rappresentante dell’_ (AI 14).
c
. Con istanza 19/22.10.2012 PI 1, tramite la patrocinatrice, ha richiesto al procuratore pubblico la concessione del gratuito patrocinio.
d
. Con decisione 22.11.2012 il magistrato inquirente ha respinto l’istanza, rilevando che “
la persona informata sui fatti, come gli altri partecipanti al procedimento, fruiscono dei diritti procedurali spettanti alle parti se direttamente lese nei loro diritti e nella misura necessaria alla tutela dei loro interessi (art. 105 cpv. 2 CPP). In applicazione analogica con le disposizioni riguardanti il diritto procedurale dell’imputato di beneficiare dell’assistenza di un difensore d’ufficio (art. 132 cpv. 1 lett. b CPP), non è sufficiente che questi sia sprovvisto dei mezzi economici necessari ma
[è necessario, ndr.]
anche che una sua difesa s’imponga per tutelare i suoi interessi. In casu, la fattispecie per cui l’istante è stata chiamata a deporre non presentava una particolare difficoltà a cui non avrebbe potuto far fronte da sola: si trattava in sostanza di riferire se aveva ricevuto dalle mani dell’ex marito le somme di denaro che questi doveva pagare all’_ e in che modo aveva proceduto ad effettuare tali pagamenti allo sportello postale
” (decisione 22.11.2012, p. 1, AI 19).
e
. Con reclamo 6/10.12.2012 l’avv. RE 1 postula che a PI 1 “
venga riconosciuto il beneficio del gratuito patrocinio
” (reclamo 6/10.12.2012, p. 3).
Rileva che “
sulla signora PI 1 pesava il sospetto - neppure troppo velato - che essa si fosse appropriata delle somme consegnatele da _ trattenendole per sé e che avesse falsificato i cedolini postali poi consegnati quale prova del versamento a _. La signora PI 1 in prima battuta neppure ha compreso quali fossero gli addebiti che le venivano mossi ed è stata proprio la scrivente legale a renderla attenta su quello che le veniva prospettato ed a esortarla a chiarire i fatti (...). A fronte di questi fatti e dei sospetti senz’altro gravi che pesavano sulla signora PI 1, un suo patrocinio si giustificava pienamente, non foss’altro che per il fatto che essa non sarebbe stata in grado di comprendere appieno la portata dei fatti che le venivano rimproverati e di contestarli compiutamente. Non fosse infatti stato per il fatto che l’autore era persona già nota alla posta, la signora PI 1 avrebbe dovuto oltre che subire l’interro-gatorio di cui è stata oggetto, pure confrontarsi con gli impiegati postali
[sempre in sede di interrogatorio, ndr.]
e con poche probabilità di spuntarla, vista la fiducia che notoriamente viene riposta negli impiegati di questo servizio pubblico che giornalmente hanno tra le mani diverse somme di denaro
” (reclamo 6/10.12.2012, p. 2). | in diritto
1
. 1.1.
Giusta l’art. 393 cpv. 1 lit. a CPP, entro il termine di dieci giorni (art. 396 cpv. 1 CPP) può essere interposto reclamo contro le decisioni e gli atti procedurali della polizia, del pubblico ministero e delle autorità penali delle contravvenzioni, eccettuati i casi in cui è espressamente escluso dal CPP o quando è prevista un’altra impugnativa
.
Con il gravame si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l'eccesso e l'abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l'accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l'inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta e all’art. 385 CPP per la motivazione.
In particolare il reclamo deve indicare i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP)
.
1.2.
Il gravame, inoltrato il 6/10.12.2012 alla Corte dei reclami penali, competente ex art. 62 cpv. 2 LOG, contro la decisione 22.11.2012 (inc. MP _), notificata il 26.11.2012, è tempestivo
.
Le esigenze di forma e di motivazione sono rispettate
.
1.3.
Va ora esaminato se l’avv. RE 1
sia
legittimata a reclamare, a titolo personale e non a nome della patrocinata, contro la decisione impugnata
.
1.3.1.
Il presupposto della legittimazione è concretizzato dall’art. 382 cpv. 1 CPP:
sono legittimate a ricorrere contro una decisione le parti che hanno un interesse giuridicamente protetto all’annulla-mento o alla modifica della stessa
.
L’
interesse giuridicamente protetto
implica che il ricorrente sia personalmente, direttamente e – di principio – attualmente leso dalla decisione che impugna (N. SCHMID, StPO
Praxiskommentar
, art. 382 CPP n. 2); talvolta è sufficiente un interesse solo virtuale (Commentario CPP – M. MINI, art. 382 CPP n. 5).
Una parte ha un
interesse
giuridicamente protetto
giusta l’art. 382 cpv. 1 CPP (il cosiddetto
Beschwer
) qualora sia direttamente toccata dalla decisione nei suoi diritti (ZK StPO – V. LIEBER, art. 382 CPP n. 7). La lesione diretta si deduce dal dispositivo (art. 81 cpv. 1 lett. c CPP) della decisione impugnata, non dalla sua motivazione. Sussiste dunque un tale interesse nella misura in cui il dispositivo contenga disposizioni che aggravano la parte (ZK StPO – V. LIEBER, art. 382 CPP n. 8). È peraltro soltanto il dispositivo che acquista forza di cosa giudicata, non la motivazione (decisione TF 6B_114/2011 del 30.6.2011 consid. 2.3.)
.
Quanto alla nozione di
parti
, si fa riferimento agli art. 104 e 105 CPP, che includono la persona informata sui fatti (art. 105 cpv. 1 lett. d CPP), ma non il patrocinatore.
1.3.2.
Giusta l’art. 105 cpv. 2 CPP le persone di cui al cpv. 1, se direttamente lese nei loro diritti, fruiscono dei diritti procedurali spettanti alle parti, nella misura necessaria alla tutela dei loro interessi.
La persona informata sui fatti, cui viene negata la copertura delle spese di patrocinio, è direttamente lesa nei sui diritti dalla decisione ed è pertanto legittimata ad impugnarla, avendo un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica della decisione stessa.
In concreto, PI 1 avrebbe pertanto avuto la legittimazione a reclamare.
1.3.3.
Il patrocinatore di una parte o di un altro partecipante al procedimento che, come nella concreta fattispecie, inoltra reclamo non a nome e per conto della persona patrocinata, bensì a proprio nome, è legittimato a reclamare (Commentario CPP
–
M. MINI, art. 382 CPP n. 4) solamente nel caso in cui sia toccato il suo diritto al libero esercizio della professione (N. SCHMID,
Handbuch des schweizerischen Strafprozessrechts
, n. 1465 nota 74 con ulteriori riferimenti), ad esempio se il suo mandato di patrocinatore d’ufficio viene terminato dall’autorità competente poiché questa lo sostituisce con un altro rappresentante (DTF 133 IV 335 consid. 5) o se al patrocinatore viene rimproverato un conflitto d’interessi (decisione TPF BB.2006.131 del 12.4.2007; decisione TF 1B_7/2009 del 16.3.2009 consid. 5.5), con riferimento all’art. 12 lett. b/c della Legge federale sulla libera circolazione degli avvocati (LLCA) [secondo cui l’avvocato esercita
la sua attività professionale in piena indipendenza, a proprio nome e sotto la propria responsabilità (lett. b) ed evita qualsiasi conflitto tra gli interessi del suo cliente e quelli delle persone con cui ha rapporti professionali o privati (lett. c)]. Si tratta, pertanto, di casi in cui il patrocinatore impugna una decisione mediante la quale gli è stato impedito di rappresentare una parte nel corso di un determinato procedimento penale.
1.3.4.
Nel caso concreto, direttamente lesa nei propri diritti dalla decisione
22.11.2012 è la persona informata sui fatti, e cioè PI 1, in quanto a lei viene negata la copertura delle spese di patrocinio.
Di contro, la sua patrocinatrice avv. RE 1 è solamente indirettamente toccata dalla decisione impugnata. Detta decisione non le impedisce, e neppure ne riduce la facoltà, di patrocinare PI 1, definendo unicamente il debitore delle sue prestazioni di patrocinio.
Neppure il fatto che la situazione economica di PI 1, documentata (AI 15), non le consenta di retribuire senza difficoltà la patrocinatrice – che ha quantificato l’ammontare dovuto in “
CHF 585.-- di onorario oltre 10% per spese ed IVA
” (reclamo 6/10.12.2012, p. ) – limita la qui reclamante nell’esercizio della propria professione.
2
. L’assenza di legittimazione rende superfluo l’esame della questione a sapere se una persona informata sui fatti possa essere patrocinata e abbia diritto o meno alla copertura delle spese di patrocinio.
3
. Il
reclamo
è irricevibile. Tassa di giustizia e spese sono poste a carico dell’insorgente, soccombente. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
d5b80141-dddd-53f0-a110-a54a810a584f | in fatto: A.
Con sentenza del 22 gennaio 2009 la presidente della Corte delle assise correzionali - revocata la sentenza contumaciale pronunciata il 16 aprile 2008 nei confronti di IM 1 e di IM 2 - ha riconosciuto IM 1 autore colpevole di ripetuta appropriazione indebita, per avere egli, a _ , nel periodo 1995-1997, indebitamente impiegato in più occasioni a profitto proprio e di terzi, valori patrimoniali affidatagli da _ , abusando di procure generali con diritto di firma individuale su relazioni di cui essa era avente diritto economico presso la _ , in parte impartendo indebitamente ordini di bonifico a favore di relazioni bancarie di cui era beneficiario economico, e in parte mediante indebiti prelevamenti a contanti, per importi di Lit. 2'443'557'271.- (di cui Lit. 1'017'624'000.- restituite), di DM 416'033.- e di fr. 170'000.-. La presidente della Corte delle assise correzionali ha altresì riconosciuto IM 1 autore colpevole di amministrazione infedele qualificata, siccome commessa per procacciare a sé o ad altri un indebito profitto, per avere, a Lugano, nel febbraio 1996, nella sua qualità di procuratore della relazione “_ ” presso la _ intestata a _ - violando intenzionalmente i suoi doveri, disponendo il 9 febbraio1996 la vendita di obbligazioni _ di proprietà di _ - omesso di riversarle gli interessi in scadenza al 13 febbraio 1996, arrecando a _ un danno di DM 86'362.-. Essa ha per contro prosciolto IM 1 dalle imputazioni di ripetuta truffa, falsità in documenti e ripetuta istigazione a falsità in documenti contemplate nei punti 2, rispettivamente 4, rispettivamente 5 dell’atto di accusa e nel verbale del dibattimento.
Sempre con sentenza del 22 gennaio 2009, la presidente della Corte delle assise correzionali ha riconosciuto IM 2 autore colpevole di appropriazione indebita, per avere egli, a _ , intorno all’8 ottobre 1997, allo scopo di indebito profitto, impedito a _ , coaventi diritto economico sul conto “_ ”, di entrare in possesso delle loro quote parti, cagionando loro un danno di fr. 818'242.38.
In applicazione della pena, considerato per entrambi il lungo tempo trascorso mantenendo buona condotta e ritenuta una violazione del principio celerità, la presidente della Corte delle assise correzionali ha condannato IM 1 alla pena detentiva di 18 mesi sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni e IM 2 alla pena pecuniaria di fr. 60’000.-, corrispondente a 300 aliquote giornaliere di fr. 200.- cadauna, pure sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni. Essa ha infine ordinato la restituzione della dichiarazione “_ ” in originale a _ .
B.
Contro la sentenza di assise IM 1 e IM 2 hanno inoltrato, il 23 gennaio 2009, una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Il 26 gennaio successivo anche il procuratore pubblico ha dichiarato di ricorrere contro la citata sentenza.
Nei motivi dei rispettivi gravami, presentati il 3 marzo 2009 essi chiedono:
-
IM 1: il proscioglimento dalle imputazioni di ripetuta appropriazione indebita e amministrazione infedele qualificata;
-
IM 2: il proscioglimento dall’imputazione di appropriazione indebita;
-
il procuratore pubblico, in via principale la riforma della sentenza impugnata, nel senso che IM 1 sia riconosciuto autore colpevole anche delle imputazioni di ripetuta truffa, falsità in documenti e ripetuto concorso in falsità di documenti di cui ai punti 2, 4 e 5 dell’atto di accusa, con conseguente condanna alla pena detentiva di 24 mesi sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni e con conseguente confisca della dichiarazione “_ ”; in via subordinata, l’annullamento della sentenza impugnata e il rinvio degli atti a un’altra Corte delle assise correzionali per nuovo giudizio.
Con osservazioni del 30 marzo 2009, il procuratore pubblico ha chiesto la reiezione dei ricorsi di IM 1 e di IM 2. Dal canto suo, con osservazioni del 27 marzo 2009, IM 1 ha postulato la reiezione del ricorso di procuratore pubblico. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288 lett. a e b CP). L’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 135 V 2 consid. 1.3, 134 I 153 consid. 3.4, 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178) o basata unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia 369 consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una prora versione dell’accaduta, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev’essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 19, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 173 I consid. 3.1 pag. 178).
I.
Sul ricorso di IM 1
2.
Il ricorrente insorge anzitutto contro la condanna per ripetuta appropriazione indebita (dispositivo n. 1./1.1), che considera conseguente ad un arbitrario accertamenti dei fatti.
3.
In sintesi, i fatti e le considerazioni alla base dello specifico giudizio di colpevolezza sono i seguenti.
3.1.
_ , cittadina italiana residente nel milanese, è rimasta vedova nel 1985. Il figlio aveva diciannove anni, mentre la figlia ne aveva compiuti venti. Insieme a una cognata, essa gestiva da anni un negozio di pellicceria. Nondimeno né _ , né i suoi figli avevano allora - come pure negli anni a seguire - dimestichezza con le questioni finanziarie o bancarie. Dal canto suo, il defunto marito di _ dirigeva, con il fratello, un’azienda attiva nel commercio all’ingrosso delle pellicce. Con il suo decesso si è posta per gli eredi la questione - per loro problematica - della divisione dell’azienda. _ si è così rivolta al suo conoscente IM 1, abile e capace imprenditore di successo, con molte relazioni. Messa in contatto con legali e commercialisti esperti del ramo, _ ha così ottenuto la liquidazione dell’attività aziendale. In pratica alla famiglia _ è pertoccato un patrimonio successorio dell’ordine di 20-25 miliardi di lire (sentenza, pag. 15).
3.2.
Su consiglio di IM 1, _ e i suoi figli decisero di portare parte del citato patrimonio in banche svizzere, visto anche che il defunto marito era titolare insieme a un fratello di un conto bancario presso l’allora _ . Parte degli averi approdarono così sul conto nr. “_ ” aperto il 16 novembre 1989 presso la _ . Il conto era , intestato a _ che concesse procura generale con firma individuale al figlio, alla figlia e a IM 1, con cui si era legata anche sentimentalmente (sentenza, pag. 15). Il 15 giugno 1993 IM 1 ha, dal canto suo, aperto presso _ il conto nr. “_ ”, conferendo per esso procura generale con firma individuale ai propri figli, ma non a _ . Egli ha, poi, ordinato diversi trasferimenti di fondi dalla relazione “_ ” di _ a “_ ” di cui era titolare, il primo in data 21 giugno 1993 per fr. 250'000.-, e il secondo, in data 31 maggio 1994, per Lit. 268'571'428,.- (operazioni queste non contemplate nell’atto di accusa, poiché un’ eventuale imputazione di appropriazione indebita sarebbe stata, comunque, da tempo prescritta; sentenza, pag. 16). A questi, seguirono altri prelevamenti di cui si dirà in seguito.
3.3.
Nei primi anni novanta, avendo conosciuto presso la _ , all’epoca alto dirigente della _ e avendo sviluppato con lui un’eccellente relazione, IM 1 convinse _ ad aprire la relazione nr. , acronimo “_ ”, presso la _ . Detto conto (che venne aperto il 14 settembre 1992 a nome di _ e venne, poi, gestito da _ negli uffici di _ ) fu inizialmente finanziato con il trasferimento, via _ , di fr. 3'000’000.-, cioè di parte dei fondi in deposito sul conto di pertinenza della famiglia _ . Inizialmente, _ conferì procura amministrativa su tale conto al figlio e a IM 1. In seguito, il 14 gennaio 1993; la donna conferì ai figli e a IM 1 procura generale con firma individuale. Alla banca, la donna conferì un mandato di amministrazione, ritenuto che la posta era “trattenere” in banca (sentenza, pag. 16). Il 15 maggio 1997 _ ha sostituito la procura generale a suo tempo conferita a IM 1 con una procura amministrativa che annullò, poi, l’8 ottobre successivo. IM 2 e IM 1 avevano aperto presso la _ , il conto nr. , acronimo “_ ” (pure gestito da _ ) sul quale IM 1 aveva procura generale con firma individuale. Il 3 settembre 1997 “_ ” venne intestato a IM 1 che conferì procura ai figli (sentenza, pag. 17).
3.4.
Il 16 aprile 1993, previo acquisto della società _ , IM 1, sempre appoggiandosi a _ , ha aperto - intestandolo a detta società, rappresentata dalla _ - il conto nr. , acronimo “_ ”.
Così come in
_
il conto “
_
” aveva beneficiato di plurimi bonifici dal conto “
_
” di _ , sul conto “
_
” sono giunti diversi accrediti provenienti dal conto “
_
” presso la
_
, rispettivamente dal conto “
_
” presso la
_
, entrambi, come visto, intestati a _ (sentenza, pag. 17).
La relazione nr. 201390 “_ ” era stata aperta il 27 aprile 1993 su suggerimento di IM 1 (che agiva sempre con l’appoggio di
_
). _ ne era l’intestataria, i di lei figli e IM 1 disponevano di procura generale con firma individuale e, ancora una volta, alla banca era stato conferito un mandato di amministrazione e la posta era “trattenere” in banca (sentenza, pag. 17).
La relazione “
_
”, conto offshore presso la
_
, era destinata a raccogliere fondi
non
dichiarati al fisco (sentenza, pag. 17). Il conto “
_
” invece, in quanto domiciliato in
_
, ovvero in una banca di un paese dell’Unione Europea, era destinato a raccogliere averi dichiarati dall’intestataria al fisco. Al conto “
_
” approdarono soprattutto averi che _ già deteneva presso la
_
(sentenza, pag. 17).
Successivamente, ossia il 22-25 ottobre 1996 IM 1 ha aperto presso la
_
, il conto nr. , acronimo “
_
”, sul quale i suoi figli avevano procura generale con firma individuale. Su tale conto furono trasferiti il 20 marzo 1997 e il 10 aprile 1997 gli importi di Lit. 181'500’000.- e di Lit. 151'500'000.-, per un totale di Lit. 333'000’000.-, derivanti dalle “operazioni di cambio speciali “indicati nei punti 2.9. e 2.10. dell’atto di accusa (sentenza, pag. 18).
3.5.
Nella primavera del 1997 il rapporto sentimentale tra _ e IM 1 si è un po’ raffreddato, benché i due continuassero a frequentarsi. _ era, in particolare, infastidita dal fatto che l’amico coinvolgeva nella trattazione dei suoi affari i propri figli lasciando, invece, in disparte il di lei figlio. Poiché IM 1 persisteva in questo suo atteggiamento nonostante il suo impegno a coinvolgere il figlio dell’amica, nel maggio del 1997 _ decise di riprendere in mano la situazione. Venne, accompagnata da entrambi i figli, a
_
, in
_
, dove fu ricevuta da
_
cui chiese ed ottenne di revocare a IM 1 le procure generali sui conti “
_
” e “
_
” e di sostituirle con procure amministrative (sentenza, pag. 18). Dimenticò, tuttavia, di fare la stessa cosa presso la
_
per il conto “
_
”: su questo conto, dunque, e per tutta l’estate di quell’anno, IM 1 continuò ad avere procura generale (sentenza, pag. 18). Quando, il 5 settembre 1997, venne a
_
, _ apprese che, uno o due giorni prima, IM 1 aveva ordinato, in base alla procura di cui ancora disponeva, di vendere delle obbligazioni di sua proprietà e di trasferire il ricavato, pari a Lit. 1'017'624’000.-, ad un proprio conto (sentenza, 18). A fronte di questa notizia, _ si rivolse ad un avvocato. Questi, l’ 8 settembre 1997, denunciò l’accaduto al Ministero pubblico chiedendo provvedimenti cautelativi urgenti. L’allora procuratore pubblico titolare dell’inchiesta emise, così, lo stesso giorno un ordine di perquisizione e sequestro con conseguente messa sotto sequestro del conto nr. “
_
” presso la
_
(sentenza, pag. 18 e 19). Dai documenti prodotti dalla banca risultò che era stato IM 1 a firmare, in data 4 settembre 1997, un ordine di Lit. 1'017'624.000.- a debito di “
_
”, di pertinenza di _ , e a favore di “
_
”, di pertinenza per l’appunto dello stesso IM 1 (sentenza, pag. 19). Il 16 settembre 1997, tradotto davanti al procuratore pubblico a seguito di un ordine di comparizione forzata consegnatogli mentre si trovava con i figli in banca, IM 1 ha dichiarato di avere disposto del denaro depositato sul conto di _ poiché parte di quei fondi gli appartenevano precisando che la valuta che aveva fatto trasferire sul suo conto “
_
” era interamente di sua pertinenza e puntualizzando di avere sempre amministrato sia i propri beni che quelli di _ e di essersi sempre occupato lui di tutto in quanto il denaro era di entrambi (sentenza, pag. 19 con riferimento al verbale del 16 settembre 1997, act. A1).
Sentito nel successivo verbale del 6 novembre 1997 (act. A2), IM 1 non ha più sostenuto che la somma trasferita sul conto “
_
” dal conto “
_
” fosse di sua proprietà e, confrontato con la documentazione bancaria relativa ai due conti, ha ammesso di avere già in precedenza - sempre in forza della procura generale rilasciatagli dalla titolare del conto - disposto di averi di lei, depositati su “
_
”, trasferendoli, salvo uno, a “
_
”. Nel dettaglio, IM 1 ha ammesso i seguenti trasferimenti e/o prelievi:
- 21 giugno 1993 fr. 250'000.-;
- 31 maggio 1994 Lit. 268'571'428.-;
- 31 ottobre 1994 Lit. 100’000'000.-;
- 28 marzo 1995 Lit. 354'000'000.-;
- 1. luglio 1996 Lit. 358'000'000.-
- 30 giugno 1997 fr. 150'000.-;
- 3 luglio 1997 Lit. 44'000'000.-;
per un totale di fr. 400'000.- e Lit. 1'124'571'428.-, cui va aggiunto il bonifico del 4 settembre 1997 per Lit. 1'017'624'000.- (sentenza, pag. 19-20).
Confrontato con trasferimenti a proprio favore per un importo complessivo di oltre 2,5 miliardi di lire, IM 1 ha acconsentito al riaccredito ad “
_
” del miliardo di lire circa che aveva trasferito sul suo conto il 4 settembre precedente. Il riaccredito è stato, poi ordinato/autorizzato dal procuratore pubblico il 7 novembre successivo (sentenza, pag. 20).
I rimanenti prelevamenti/addebiti/accrediti IM 1 - sempre stando agli accertamenti contenuti nella sentenza impugnata - li ha giustificati asserendo (sia in istruttoria, segnatamente nel verbale act. A2, sia al dibattimento) di avere, il 1. dicembre 1992, versato in contanti su “
_
” soldi suoi - e meglio, di avervi versato Lit. 690'000'000.- di sua proprietà - in quanto non disponeva, a quel momento, di un conto bancario in Svizzera (sentenza, pag. 20). A queste dichiarazioni, la prima Corte ha, però, obbiettato che - pur volendo prescindere dal fatto che i citati trasferimenti/prelievi tra il 21 giugno 1993 e il 3 luglio 1997 ammontano complessivamente a oltre Lit. 1,5 miliardi per cui non possono avere “compensato” suoi “versamenti” per 690'000’000.- Lit. - resta il fatto che IM 1 non ha mai provato ma nemmeno reso verosimile di avere versato il 1. dicembre 1992 su “
_
” soldi di sua proprietà ritenuto, in particolare, che la fiche relativa a tale versamento non specifica né che fu IM 1 ad effettuarlo né tantomeno che i soldi erano di IM 1 (sentenza, pag. 20). Dopo avere ricordato che, nei suoi rapporti del 21 luglio 1998 e del 10 settembre 2004
_
(esperto revisore, all’epoca attivo presso la
_
e incaricato da IM 1 di ricostruire i conti svizzeri della famiglia IM 1, rispettivamente della famiglia
_
; v. sentenza, pag. 21) ha dato atto che la proprietà economica di tale importo non ha potuto essere documentalmente accertata (sentenza, pag. 20), il primo giudice ha rilevato che l’affermazione di IM 1 di avere versato sul conto “
_
” di _ soldi suoi perché non disponeva di conti in Svizzera è falsa visto che risulta che la famiglia, già dal 16 settembre 1992 , disponeva presso la
_
del conto “
_
”. Ciò rilevato, la prima Corte ha, poi, ritenuto che il fatto che (così come fu per gli importi accreditati in precedenza su “
_
”) le 690'000’000.- Lit. vennero immediatamente investite in depositi fiduciari ripetutamente per tutto il 1993 e ancora negli anni successivi per un lungo periodo mal si concilia con la tesi del denaro proprio, appoggiato su conto altrui, specie se si considera che il 15 giugno 1993 IM 1 ha aperto presso la
_
il proprio conto “
_
”(sentenza, pag. 20-21) su cui IM 1 avrebbe potuto, se davvero era denaro suo, trasferire l’intero importo di Lit. 690’000'000.- (e non solo quei fr. 250'000.- non figuranti nell’atto di accusa).
Rilevato, poi, che _ ha dichiarato che su “
_
” erano confluiti soldi derivanti da operazioni di compensazione con un conoscente e da un versamento di fondi in contanti di proprietà della sua famiglia e che
_
ha potuto documentare, grazie ad un estratto conto della
_
, un’uscita da un conto di famiglia di Lit. 700 milioni di data 27 novembre 1992, ovvero in stretta connessione temporale con il versamento di Lit. 690’000’000.- su “
_
”, la prima Corte ha ritenuto accertato che la somma di Lit. 690’000’000.- apparteneva a _ e non a IM 1 (sentenza, pag. 21).
3.6.
Dato che il rapporto del 21 luglio 1998 presentato da _ in risposta ai quesiti postigli dalle parti, che avevano al riguardo sottoscritto un protocollo d’intesa, non ha portato a un accordo tra i contendenti, con scritto del 21 dicembre 1998 il legale della famiglia _ ha inoltrato al Ministero pubblico un complemento di denuncia penale. L’atto di accusa del 6 luglio 2006 ha, per finire, ripreso alla lettera i trasferimenti di fondi indicati nel citato rapporto, salvo quelli ri_ nti al 1993-1994, per i quali un’eventuale ipotesi di reato (appropriazione indebita) sarebbe risultata prescritta. Oltre ai citati trasferimenti da “_ ” a “_ ” oggetto delle imputazioni di cui al punto 1.1. dell’atto di accusa, a IM 1 sono stati imputati come appropriazioni indebite anche altri trasferimenti, segnatamente (v. sentenza, pag. 21-22):
-
un trasferimento del 28 giugno 1996 di DM 158’000.- dal conto “_ ” al conto “_ ” (atto di accusa, punto 1.2);
-
tre prelievi del 30 agosto 1995, del 17 gennaio e del 7 febbraio 1996 per un totale di Lit., 137'000’000.- dal conto “_ ” al conto “_ ” (atto di accusa, punto 1.3.1);
-
un prelievo del 26 giugno 1996 di DM 35'035.- sempre dal conto “_ ” seguito da un accredito sul conto “_ ” (atto di accusa, punto 1.3.2);
-
due prelievi per contanti, di date comprese tra il 19 e il 23 settembre 1996, il primo dal conto “_ ” per Lit. 215'645'000.-, il secondo dal conto “_ ” per Lit. 300’000'000.- (atto di accusa, punto 1.4, prima e seconda operazioni ivi descritte);
-
quattro prelievi per contanti, il primo del 25 febbraio 1997 dal conto “_ ” per DM 50'100.- , il secondo del 26 febbraio 1997, ancora dal conto “_ ” per fr. 20’000.-, il terzo e il quarto del 26 febbraio 1997 dal conto “_ ” l’uno per DM 172'898.- e l’altro per Lit. 17'228'271.- (atto di accusa, punto 1.4).
IM 1 - sempre stando alla sentenza impugnata - ha sempre giustificato tali operazioni allegando di avere a più riprese, negli anni compresi tra il 1988 e il 1997, effettuato numerosi pagamenti al nero per spese occasionate sia da _ , sia dai di lei figli. In particolare, egli ha sostenuto di avere pagato fornitori e creditori del negozio di scarpe (_ ) gestito da _ , di avere pagato i conti di artigiani impegnati nella ristrutturazione di un immobile a _ di proprietà della famiglia _ e, infine, di avere pagato acquisti personali di _ presso _ , rispettivamente di averle anticipato dei soldi per le sue spese in _ (non da ultimo, per coprire sue perdite al Casino). Egli ha, inoltre, sostenuto di avere conteggiato in tali prelievi e/o trasferimenti, onorari, commissioni e altri emolumenti - mai fatturati né percepiti - a lui dovuti per la sua gestione dei conti della famiglia _ (sentenza, pag. 22).
La prima Corte ha, poi, ricordato che, nell’allegato da lui prodotto in occasione del verbale dell’8 febbraio 2001 (act. A17), intitolato “Breve cronistoria dei rapporti e quantificazione economica del lavoro svolto”, IM 1 ha quantificato “le sue aspettative” per il lavoro da lui svolto per “società” e “conti bancari” dei _ in Lit. 2’533'000'000.- e fr. 480'000.- sulla base di una commissione del 1% e di Lit. 1'642'500’000.- e fr. 240'000.- sulla base di una commissione dello 0.5% (sentenza, pag. 22) e che ha , poi, elencato i nomi di ditte cui egli ha pagato, in nero, nel periodo 1995-1996, complessivi 350'000'000.- Lit. per i lavori nella casa di _ (sentenza, pag. 22). La Corte di prime cure ha, poi, precisato che, sempre nel citato “allegato”, IM 1 ha indicato che altri 100’000'000.- Lit. sono stati da lui (rispettivamente dal liquidatore ingegnere _ ) usati, sempre in nero, per tacitare i creditori della _ (sentenza, pag. 22) e che, inoltre, nel maggio 1996, egli ha pagato a _ Lit. 60’000’000.- per gioielli acquistati da _ . La prima Corte ha, poi, ricordato che IM 1 ha infine chiuso l’istoriato ribadendo di non ricordare, in relazione al rapporto _ , pag. 14, cosa fosse successo dei 33'000'000.- Lit. uscite dal conto “_ ” in corrispondenza con le due ultime operazioni di “cambio speciale” (sentenza, pag. 23).
Tutto ciò ricordato, la Corte di assise ha ritenuto inveritiera l’ultima affermazione, poiché quei soldi IM 1 li aveva fatti accreditare nel marzo/aprile 1997 sul suo conto “_ ” presso la
_
(sentenza, pag. 23). Quanto alla pretesa di emolumenti per Lit. 1,6/2,5 miliardi, la presidente della Corte l’ha giudicata “
talmente esorbitante e velleitaria da apparire pretestuosa e inverosimile
”, cioè costruita in definitiva a posteriori, a tavolino, per “
compensare” suoi prelievi e/o trasferimenti a suo favore dell’ordine di quasi Lit. 1,5 miliardi e di circa un mezzo milione di franchi (senza contare né il miliardo di lire sottratto il 4 settembre 1997, né gli importi prescritti, risalenti al 1993-1994 per fr. 485'000’00.-, né quelli per circa un milione di franchi ottenuto con le cosiddette operazioni di “cambio speciali”).
In sintesi, la Corte ha ritenuto che IM 1 ha allestito tale conteggio per giustificare le operazioni da lui ordinate tra il 1995 e la primavera del 1997, quando, godendo della piena fiducia dell’amica, “
agiva sui conti “_ ”, “_ ” e “_ ” più alla stregua di un “padrone” che non di un “procuratore” che deve agire nell’interesse del rappresentato
”(sentenza, pag. 23). La prima Corte ha, poi, ricordato come, richiesto al dibattimento di spiegare come mai un uomo di affari accorto e abile come lui, non si sia mai preoccupato di tutelarsi con ricevute e/o quietanze e/o dichiarazioni di scarico da _ e/o da coloro che asserisce di avere pagato, IM 1 si sia limitato “
genericamente ad affermare che il “nero è nero” e che nessuno rilascia per esso quietanza
” e a rilevare che _ e i suoi figli richiedevano “
in ogni frangente richiedeva il suo aiuto per sistemare questa o quella pendenza
” (sentenza, pag. 23) Sennonché - ha rilevato la Corte di merito - benché siano trascorsi undici anni dall’inoltro della denuncia penale nei suoi confronti, IM 1 non ha prodotto un solo documento a suo scarico mentre _ ha dimostrato di avere avuto, negli anni di cui trattasi, “
disponibilità su depositi miliardari (in lire) non solo presso banche svizzere, ma anche in istituti italiani, quali il
_
” (sentenza, pag. 23) ciò che rende inverosimile che abbia dovuto farsi prestare ingenti somme per concludere i lavori della casa di _ e per portare a termine la liquidazione della _ . A questo si aggiunge - ha continuato la prima Corte - che la parte civile ha “
provatamente
fatto fronte con mezzi propri
sia ai costi per la ristrutturazione della casa di _ (dell’ordine di oltre un miliardo di lire)
sia a plurime fatture di creditori della _
”. Quindi, la prima Corte ha ricordato che _ ha documentato, nel limite del possibile, di avere, nel periodo 1994-1996, fatto confluire dal conto “_ ” presso la
_
Lit. 212’000’000.- e US$ 8'500 a un suo conto presso la
_
e che tali averi sono stati da lei utilizzati per far fronte a spese lì sostenute. E, infine, ha ricordato che la donna ha provato di avere pagato acquisti da lei fatti presso _ nel periodo 1994-1996 con assegni tirati sul suo conto italiano presso la
_
e di avere pagato con la sua carta di credito altre sue spese fatte a
_
nel 1995. Quanto alle remunerazioni per lavori svolti, la prima Corte ha ricordato che la parte civile ha dichiarato di avere dato a IM 1 - mediante due assegni - complessivamente Lit. 300'000’000.- mentre lo stesso IM 1 aveva già ammesso di avere ricevuto Lit. 400’000’000.- a titolo di remunerazione (sentenza, pag. 24).
Sulla scorta di questi accertamenti, la prima Corte ha ritenuto del tutto priva di fondamento la tesi di IM 1 secondo cui la donna ha richiesto aiuti finanziari all’amico ed ha concluso che, “
profittando delle procure conferitegli, della fiducia di _ e della conseguente poca attenzione che quest’ultima portava alla gestione dei suoi conti, IM 1 ha indebitamente disposto a favore suo, rispettivamente di conti a lui riconducibili, degli importi indicati al punto 1 dell’atto di accusa del 7 luglio 2006, per complessive Lit. 1'425'933'271, DM 416'033.- e fr. 170'000.-“
(sentenza, pag. 23-24).
La prima Corte ha, poi, precisato che per il trasferimento di Lit. 1'017'624'000.- del 3/4 settembre 1997 - poi riaccreditati al conto “_ ” nelle circostanze suindicate - il reato di appropriazione indebita si è consumato, ritenuto che IM 1 non può prevalersi “
di una sua, all’epoca asseritamente esistente, Ersatzbereitschaft visto che, anche se i fondi sottratti erano ancora depositati sul conto “_ ” tre quattro giorni dopo, nondimeno egli, quando consumò il reato, non era per nulla “ersatzwillig”
: i fatti - sempre secondo la prima Corte - dimostrano che egli “
consentì con la restituzione del miliardo di lire soltanto perché il Ministero pubblico aveva messo sotto sequestro il saldo attivo del suo conto
” (sentenza, pag. 24-25).
3.7.
Il ricorrente assevera che la sentenza impugnata lo condanna per appropriazione indebita considerando che egli ha mentito sia in margine alle ragioni del bonifico di Lit. 1’017'624'000.- da lui disposto, a debito del conto “_ ”, il 4 settembre 1997 (poiché nel primo verbale egli ha dichiarato, contrariamente al vero, che si trattava di denaro di sua pertinenza) sia sostenendo che il versamento di Lit. 690'000'000.- effettuato il 1.dicembre 1992 sul conto “_ ” è stato da lui effettuato con mezzi propri sia perché non ha reso plausibile un legittimo utilizzo di tutte le somme prelevate rispettivamente bonificate a proprio favore.
a)
Nella valutazione della sua credibilità - precisa il ricorrente riferendosi alle prime dichiarazioni da lui rese - la prima Corte avrebbe dovuto considerare che, già in occasione del secondo interrogatorio, egli ha spiegato di avere proceduto al bonifico di Lit. 1'017’000’00.- a debito del conto “_ ” perché indispettito dalla scoperta della revoca delle procure disposta da _ (verbale A2, pag. 2). Inoltre, avrebbe dovuto considerare, come il giorno della prima deposizione - cioè quella inveritiera - egli fosse sconvolto a causa dell’inaspettato intervento della polizia
Ciò detto
-
aggiunge il ricorrente in relazione alla qualifica giuridica
-
quel prelevamento è stato, in buona sostanza, soltanto una prova di forza, un gesto non riconducibile ad una sua volontà appropriativa ma con cui egli ha voluto far pesare alla donna quanto lui aveva fatto in passato per lei. Significativo, in tal senso, è che, già in quel verbale, egli si era dichiarato disposto a restituire quei soldi che, peraltro, erano rimasti sul conto “_ ” su cui erano stati bonificati. In queste condizioni
-
sostiene il ricorrente - desumere dalla sua iniziale bugia sulle ragioni di questo bonifico una prova (o anche solo un indizio) a suo carico è un “
esercizio totalmente infondato”
(ricorso pag. 6). Sempre secondo il ricorrente, “
è parimenti illogico e contrario agli atti
” ritenere una sua volontà appropriativa visto che egli agiva alla luce del sole, lasciando tracce cartacee in banca, bonificando a debito di un conto e a credito di un altro, entrambi controllati dallo stesso consulente (
_
) e presso lo stesso istituto. Con questi elementi, però
-
conclude il ricorrente su questo punto - il primo giudice, sbagliando, non si è confrontato.
aa)
Alcune delle surriportate argomentazioni ricorsuali (in particolare, quelle legate al contesto e alle caratteristiche dell’agire del ricorrente) potrebbero venire considerate con attenzione da una Corte con piena cognizione riguardo l’accertamento dei fatti. Ad esse non può, invece, essere data tale attenzione nell’ambito di un ricorso per cassazione in cui non basta, per dimostrare arbitrio, proporre una diversa
-
per quanto sostenibile e, financo, preferibile (cfr DTF 131 I 217 consid 2.1)
-
valutazione del materiale probatorio ma occorre dimostrare l’insostenibilità dell’accertamento operato dai primi giudici
Per il resto, va osservato che sostenere che il trasferimento del 4 settembre 1997 dal conto “_ ” (di pertinenza di _ ) al conto “_ ” (di pertinenza del ricorrente) non sarebbe in definitiva stato altro che un plateale gesto di protesta di fronte alla scoperta della revoca delle procure relative agli altri conti, significa, in sostanza, ammettere di essersi appropriato di beni di terzi senza titolo. Certo, davanti al procuratore pubblico, dopo avere in un primo momento comunque raccontato tutt’altra cosa (ossia di avere solo recuperato quanto gli apparteneva, cfr. sentenza, pag. 19), il ricorrente ha acconsentito al ristorno di quanto sottratto (sentenza, pag. 20). Tuttavia, è senza arbitrio che il primo giudice ha accertato che egli altro non poteva fare, cioè che a quel riaccredito egli fu obbligato dalle circostanze (sentenza, pag. 20). Pertanto, in queste condizioni, o l’una o l’altra: o l’addebito/accredito del 4 settembre era legittimo, e allora nessuna imputazione può essere ascritta al ricorrente; o l’operazione bancaria testé citata non era legittima, e allora la commissione del reato di appropriazione indebita risulta palmare, ritenuto l’accertamento - in cui non è ravvisabile arbitrio - secondo cui il successivo riaccredito - avvenuto circa due mesi dopo - non fu spontaneo ma obbligato avendo egli acconsentito alla restituzione dell’indebito prelievo solo perché il Ministero pubblico aveva messo sotto sequestro il suo conto e, quindi, perché non aveva altra scelta e secondo cui, al momento del trasferimento a suo favore della somma in rassegna (4 settembre 1997), cioè quando consumò il reato, egli non era per nulla “ersatzwillig”.
Disquisire oltre sull’argomento non ha, perciò, in questo contesto, alcun senso.
b)
Pur riconoscendo di non avere potuto dimostrare né di essere stato lui ad avere accreditato il 1.dicembre 1992 la somma di Lit. 690’00'000.- sul conto “_ ” né che quella somma fosse di sua pertinenza economica, il ricorrente sostiene che da questa circostanza non si può desumere alcunché, dal momento che non vi è neppure la prova positiva che il denaro fosse di pertinenza di _ . Pur ammettendo che la parte civile “
ha potuto dimostrare di aver prelevato poco tempo prima una somma analoga da un proprio conto in Italia
” (ricorso pag. 7), il ricorrente sottolinea come la stessa si sia ben guardata dal produrre l’insieme dei movimenti su quel conto bancario, dai quali si sarebbe potuto comprendere il contesto di detto prelevamento. E - spiega il ricorrente - non risulta che il denaro versato precedentemente su “_ ” avesse quella provenienza. Del resto - prosegue il ricorrente - le dichiarazioni al riguardo di _ sono “pure deduzioni” visto che la donna si è sempre limitata a dire “
che quanto valeva per il 1989 e il 1990 e la compensazione con l’amica di IM 1 vale necessariamente anche per l’importo di 690 mio che il signor IM 1 afferma di avere versato con soldi suoi. Sono sicura che IM 1 non ha mai messo soldi suoi né su questo conto né su altri miei conti”
(ricorso pag. 7). In realtà - puntualizza il ricorrente - andava considerato che il denaro confluito su “_ ” doveva provenire da un’operazione di compensazione ben precisa e che gli accrediti su questa relazione sono concentrati, salvo un triplice bonifico di poco più di Lit. 100'000'000.- il 30 giugno 1991, nel quadrimestre dicembre 89-marzo 90 per oltre 850 milioni di lire. Se questa movimentazione appare congrua rispetto ad una compensazione ben delimitata - prosegue il ricorrente - è invece poco logico che ancora un anno e mezzo dopo l’ultimo bonifico dovessero ancora essere versati 690’000'000.- di lire. Il men che si possa dire - conclude il ricorrente sull’argomento - è che siano fuori periodo, rispettivamente che la affermazioni della parte civile non sono corroborate da alcuna motivazione e sono state semplicemente giustificate deduttivamente e che il giustificativo di un prelevamento, avulso dal contesto dei movimenti su quella relazione, non può fare stato. In altre parole - osserva il ricorrente - i diritti di _ su quella somma non derivano già da una prova positiva, bensì dalla presunzione di proprietà a favore della titolare del conto. Per questo, da quell’operazione e dal fatto che egli non ha saputo sostanziare le sue affermazioni, non si può trarre alcuna conclusione di colpevolezza.
Inoltre - in un altro punto del ricorso ma in relazione a questo accredito - il ricorrente rimprovera alla prima Corte di avere sbagliato considerando che egli ha mentito affermando che, al momento del versamento su “_ ” dei 690'000’000.- Lit. egli non disponeva di conti in Svizzera. In realtà - egli precisa - tale affermazione corrisponde al vero: il conto _ era stato aperto a _ , ma presso _ .
bb)
Sennonché, fondato su argomentazioni del genere, il rimedio è, per la sua maggior parte, inammissibile a causa del suo manifesto carattere appellatorio. Infatti, il ricorso si esaurisce in un’arringa difensiva, con la quale l’insorgente si limita a perorare la propria causa, senza confrontarsi con i singoli motivi che hanno spinto la prima Corte a ritenere inconsistente la sua asserzione secondo cui, con i numerosi accrediti da “_ ” su “_ (sentenza, pag.19-20) - considerati in sentenza come appropriazioni indebite (sentenza, pag. 24) - egli si è in buona sostanza limitato, tra l’altro, a fare rientrare denaro suo (segnatamente la somma di Lit. 690'000'000.-) che egli avrebbe versato per contanti, attingendo a suoi averi, sul conto della parte civile.
Come visto sopra, la prima Corte ha creduto alla parte civile rilevando anzitutto che il ricorrente è stato subito smentito nella misura in cui ha preteso di avere depositato soldi suoi sul conto di _ perché non disponeva di un conto in Svizzera. Già a partire dal 16 settembre 1992, quindi prima del 1.12.1992, data del presunto accredito su “_ ” di Lit. 690’000’00.-, egli disponeva - secondo la Corte - di un conto cifrato (“_ ”) presso la _ . Ma non solo. La Corte ha, poi, sottolineato come la somma in questione, così come le altre somme accreditate su “_ ”, fosse stata immediatamente investita in depositi fiduciari e ciò, ripetutamente, per tutto il 1993 e ancora negli anni successivi, per un lungo periodo rilevando come tale strategia mal si concilia con la tesi del denaro proprio appoggiato su conto altrui. Sempre valutando la credibilità dell’imputato, la Corte ha, poi, considerato che la tesi del “denaro proprio appoggiato su un conto altrui” non si concilia neppure con il fatto che IM 1 non ha trasferito l’intero importo di Lit. 690'000’000.- (ma solo Lit. 250'000'000.- che non figurano però nell’atto di accusa perché una imputazione sarebbe comunque risultata prescritta) il conto “_ da lui aperto il 15 giugno 1993 presso _ (sentenza, pag. 19 e 21). Quindi,- nel suo accertamento dei fatti - la prima Corte ha ritenuto che la versione data dalla parte civile secondo cui su “_ ” sono affluiti soldi derivanti da operazioni di compensazione con il conoscente di _ e da un versamento di fondi per contanti di proprietà della famiglia _ , è confortata e supportata dall’estratto conto recuperato da _ (figlio di _ ) da cui risulta un’uscita da un conto che la famiglia aveva presso la _ di Lit. 700'000'000.- di data 27 novembre 1992, ovvero in un momento in stretta connessione temporale con quello del versamento di Lit. 690’000'000.- su “_ ” (sentenza, pag. 21). Con tutti questi elementi (associati alle risultanze dei rapporti _ ) da cui la Corte ha derivato la conclusione che le Lit. 690’000’000.- appartenevano a _ e non al ricorrente (sentenza, pag. 20 e 21), il ricorrente non si confronta. Egli si limita, invece, a proporre una sua indipendente versione dei fatti
-
irricevibile in sede di cassazione - e, nella loro interpretazione, dimentica che, comunque, toccava a lui provare che la realtà è diversa da quella che, per presunzione, si deriva dalla titolarità del conto e , cioè, che i soldi ivi depositati sono di proprietà del suo titolare. Egli non solo non ha saputo provare che la realtà economica è diversa da quella che emerge dai documenti bancari
-
e, cioè, non ha saputo provare che i soldi depositati sui conti di pertinenza dell’ex-amica erano, almeno in parte, suoi - ma neppure ha saputo proporre alcuna argomentazione atta a dimostrare l’arbitrio in cui sarebbe caduta la prima Corte non credendo alla sua tesi e, cioè, atta a dimostrare che gli elementi sulla base dei quali la prima Corte ha concluso per la sua inaffidabilità siano stati interpretati in modo manifestamente insostenibile. In questo contesto, la censura ricorsuale secondo cui la prima Corte ha sbagliato ritenendo che IM 1 ha mentito dicendo di non avere avuto, al momento dell’accredito, un conto in Svizzera non può
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anche se dovesse essere ritenuta fondata
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bastare a rendere arbitraria la valutazione della prima Corte visto come essa sia fondata anche
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se non soprattutto
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su altre considerazioni. Del resto, al riguardo va detto che, effettivamente, al momento del citato accredito, IM 1 effettivamente
-
così come ritenuto dalla prima Corte
-
aveva un conto in una banca svizzera, e meglio il Conto _ aperto pochi mesi prima a _ . Il fatto che il conto fosse presso la _ non è, nel contesto del ragionamento della Corte, rilevante nella misura in cui, comunque, il conto era su una banca svizzera e, perciò, IM 1 non avrebbe avuto difficoltà alcuna ad effettuare l’accredito in questione sul suo conto dalla Svizzera.
c)
Continuando nel suo allegato, il ricorrente sostiene che nulla di concludente per una sua condanna può essere dedotto dal fatto che egli non è riuscito a provare di avere utilizzato il denaro (o parte di esso) prelevato dai conti di _ nell’interesse di quest’ultima poiché il suo sforzo di plausibilizzazione è avvenuto molti anni dopo i fatti ed era riferito ad una movimentazione ripetuta su più anni. Inoltre - sempre secondo il ricorrente - tale suo sforzo era reso ancor più difficile dal fatto che gli è sempre stato negato di visionare i movimenti complessivi sui conti italiani della presunta vittima.
Motivazioni del genere denotano, però, indole appellatoria, con conseguente inammissibilità del rimedio al riguardo.
La medesima conclusione si impone, mutatis mutandis, di fronte alle considerazioni ricorsuali volte a giustificare la mancata produzione di ricevute o quietanze attestanti i versamenti di denaro a favore della parte civile.
4.
Nel punto 3.2 del suo memoriale, il ricorrente lamenta arbitrio anche nell’accertamento dei fatti indicati da _ , rilevando - in estrema sintesi - che nei confronti di quest’ultima e, segnatamente, delle sue affermazioni, il primo giudice ha dato per accertato dei fatti senza che vi fosse, in realtà, il benché minimo elemento probatorio. Sennonché, nel motivare la doglianza (punti 3.2.1, 3.2.1. e 3.2.3) il ricorrente distoglie l’attenzione dai veri motivi che hanno spinto la prima Corte a ritenere del tutto fuori luogo le giustificazioni da lui addotte nell’intento di dimostrare la correttezza dei numerosi prelievi - che si aggiungono a quelli vagliati nel precedente considerando - da lui operati sugli altri conti della presunta vittima a favore di altri conti di sua pertinenza (sentenza, pag. 21-22). In effetti, al riguardo la Corte di assise ha maturato il proprio convincimento, giudicando anzitutto la sua pretesa complessiva di emolumenti talmente esorbitante e velleitaria dall’apparire di primo acchito pretestuosa e inverosimile e, perciò, considerandola una sorta di ricostruzione fatta a tavolino, ad arte e a posteriori per arrivare a giustificare suoi prelievi e trasferimenti dell’ordine di quasi 1,5 miliardi Lit. e di circa mezzo milione di franchi (senza contare né quanto prelevato il 4 settembre 1997, né gli importi prescritti per fr. 485’000.- né la somma di circa fr. 1'000'000.- ottenuta con le cosiddette operazioni di “cambio speciale”, oggetto di separata disamina), ovvero per giustificare le operazioni da lui ordinate tra il 1995 e la primavera del 1997 (sentenza, pag. 22). Ed è in questo particolare contesto che la prima Corte si è, poi, chiesta come mai un uomo di affari accorto e abile come il ricorrente, che poteva fa capo a qualificati collaboratori, non si sia mai preoccupato di procurarsi ricevute e/o quietanze e/o dichiarazioni di scarico dai creditori che asserisce di avere pagato, rispettivamente da _ . Si tratta di considerazioni che supportano, nei limiti della cognizione di questa Corte, le conclusioni del primo giudice. Infatti, non è insostenibile la tesi secondo cui una persona accorta ed avveduta qual’era IM 1 avrebbe dovuto premunirsi proprio perché cosciente di agire nell’ambito di pagamenti in “nero” per i quali non si è soliti richiedere ricevute e di trattare con una famiglia disordinata e che faceva capo a lui per ogni evenienza. Pertanto, che non l’abbia fatto è circostanza che la Corte poteva, senza arbitrio, ritenere sufficientemente indiziante del carattere illecito dei prelevamenti. Già questa considerazione, dunque, avrebbe legittimato il primo giudice a ritenere il ricorrente autore di appropriazione indebita per i relativi prelievi partitamene illustrati nella sentenza impugnata, essendo spettato evidentemente a lui dimostrare di avere agito cosi come da egli preteso. Le considerazioni successive della Corte di assise sulla buona situazione finanziaria di allora di _ , in particolare sull’inverosomiglianza dello scenario costruito dal ricorrente secondo cui la donna avrebbe dovuto farsi prestare somme di denaro dell’ordine di Lit. 350’000'000.- per concludere i lavori della casa di _ , rispettivamente di Lit. 100’000’000.- per portare a termine la liquidazione della _ , come pure le considerazioni su quanto _ sarebbe riuscita a provare in merito alle proprie affermazioni (pag. 24), assumono, per finire, valenza sussidiaria rispetto all’accertamento, ben più importante, sull’onere probatorio fallito dal ricorrente in merito alle sue rivendicazioni (sentenza, 23-24). Certo, si conviene che _ non ha saputo fornire prove inoppugnabili sui suoi pretesi pagamenti. Senza incorrere in arbitrio, la prima Corte ha saputo però spiegare perché, a fronte di due versioni contrastanti, fosse, a prescindere dall’esattezza di ogni sua asserzione, preferibile quella della parte civile.
Gli argomenti esposti nei punti 3.2.1, 3.2.1 e 3.2.3 del memoriale, presi a se stanti, possono indurre a riflessioni, ma non sono tali da far apparire manifestamente insostenibile il convincimento della prima Corte - maturato sulla base di una valutazione complessiva del materiale processuale - secondo cui _ ha, comunque, fornito riscontri più affidabili rispetto a quelli presentati dall’accusato.
Da ciò non può che discendere la reiezione del ricorso.
5.
Al punto 4 del gravame intitolato “Arbitraria esclusione di fatti decisivi”, il ricorrente inizia la sua disamina con un capitolo intitolato “
Centralità della credibilità delle parti
”, al fine di corroborare quanto da lui costantemente affermato, ossia di avere sempre agito con il consenso di _ , e, quindi, al fine di smontare la contraria affermazione della donna di non avere mai capito né saputo nulla ma di essersi sempre fidata ciecamente dell’accusato. Date le citate divergenze - egli rileva - “
è impensabile giungere, come ha fatto la Corte, a una conclusione di colpevolezza nei suoi confronti senza pronunciarsi in modo chiaro e completo sulla credibilità dei protagonisti
” (ricorso pag. 11). Invece - continua il ricorrente - la sentenza si è persa “
in margine a questioni assolutamente secondarie, quali l’assenza di ricevute o la incapacità, impossibilità del prevenuto di plausibilizzare le proprie affermazioni
” senza considerare “
le conoscenze che anche il più sprovveduto avrebbe dovuto o potuto avere, anche da un esame sommario dei propri estratti conto o patrimoniali, rispettivamente avrebbe potuto facilmente cogliere anche solo ascoltando magari un po’ distrattamente le spiegazioni fornite dal proprio consulente
” (ricorso pag. 11). In concreto - continua il ricorrente in uno sforzo di contestualizzazione - si è confrontati con un industriale che aveva ampie disponibilità finanziarie, legato affettivamente alla parte civile, che dopo la rottura del rapporto sentimentale lo accusa di reati appropriativi in totale assenza di documenti falsi, senza che vi sia stata una costruzione, ad esempio, societaria tale da costituire un impedimento alla signora a conoscere il destino dei suoi averi. In questo contesto - continua il ricorrente - andava considerato che i due protagonisti della vicenda hanno sempre fatto capo alle stesse banche, che il denaro prelevato non se ne è mai andato dai conti di IM 1 su cui è stato spostato e che non è mai stato speso. A fronte di una simile situazione, era indispensabile una disamina puntuale e precisa circa la plausibilità dell’ignoranza che _ ha sempre sostenuto. Ciò non è stato fatto. Ma è ancora più grave - continua - che il primo giudice non abbia tratto le dovute conclusioni dal suo accertamento secondo cui - contrariamente a quanto dichiarato dalla parte civile - la dichiarazione “_ ” è veritiera, cioè secondo cui,contrariamente a quanto da lei sostenuto, la dichiarazione è stata firmata in piena conoscenza di causa dalla stessa _ . Da questo accertamento andavano tratte - continua il ricorrente - conclusioni, non già soltanto in ordine all’accusa di truffa legata alle operazioni di cambio (dalla quale egli è stato prosciolto e alle quali espressamente questa dichiarazione si riferiva), ma anche in relazione all’insieme dell’operatività di IM 1 ed alla credibilità della signora _ medesima.
5.1.
Su questo punto, il gravame si rivela inconcludente giacché per l’imputazione di appropriazione indebita non è di rilievo il fatto che le accuse di truffa, rispettivamente di falsità in documenti di cui ai punti 2 e 4 dell’atto di accusa siano cadute (dispositivo n. 3 della sentenza impugnata) siccome, in particolare, la Corte ha accertato che _ , contrariamente da quanto da lei preteso, aveva sottoscritto la dichiarazione “_ ” (sentenza, pag. 32 c n riferimento a pag. 28) ciò che aveva rotto l’impianto accusatorio, secondo cui il ricorrente aveva ingannato i funzionari della banca sostenendo, contrariamente al vero, che per esigenze fiscali _ desiderava fossero eseguite operazioni di cambio tali da generare perdite per lei e utili per IM 1. L’ipotesi accusatoria relativa alle appropriazioni indebite è stata, invece, confermata dalla prima Corte sulla base della disamina di cui alle pagine 20-21 per quanto riguarda i prelevamenti/versamenti da “_ ” a “_ ” partitamene indicati a pag. 19 della sentenza impugnata, e da pag. 21-25 per quanto riguarda gli altri prelevamenti. Ora, il ricorrente non dimostra perché tale convincimento risulterebbe improponibile/insostenibile alla luce delle risultanze che hanno comportato il suo proscioglimento dal reato di truffa, rispettivamente di falsità in documenti a motivo che _ non ha detto il vero sostenendo di non sapere nulla della dichiarazione “_ ”. Perciò non giovano al ricorrente nemmeno le considerazioni esposte al punto 4.2 del proprio memoriale, sottese a dimostrare ulteriori arbitri commessi dalla prima Corte nell’accertare i fatti che l’hanno poi indotta a proscioglierlo dalle citate imputazioni e, in particolare, intese a sottolineare come, in definitiva, _ sapesse molto di più di quanto stabilito dalla stessa Corte nella specifica fattispecie. Giacché il fatto che la presunta vittima abbia allora mentito, non significa necessariamente che essa abbia fatto altrettanto in relazione alla fattispecie sfociata nella condanna del ricorrente per ripetuta appropriazione indebita. Va, infatti, ricordato che questa condanna è stata pronunciata sulla base di una serie di considerazioni che hanno resistito alle censure di arbitrio dell’accusato. Nemmeno possono giovare al ricorrente le argomentazioni ricorsuali sviluppate nei successivi punti 4.3 (secondo cui la dichiarazione 1993 dimostrerebbe anche che egli aveva dei diritti su quel denaro), 4.4 (secondo cui _ avrebbe mentito anche in margine ai conti di IM 1 presso la _ tenuto anche conto delle affermazioni del consulente _ ), 4.5 (secondo cui _ non poteva non conoscere anche quanto avveniva sulle altre sue relazioni bancarie) poiché, di nuovo, il ricorrente si propone di integrare il suo esposto senza, però, cercare di dimostrare perché i citati argomenti sarebbero a tal punto decisivi, da invalidare per arbitrio gli accertamenti e le considerazioni che hanno spinto la prima Corte a ritenere del tutto campata in aria la sua tesi (sentenza, pag. 20-25).
Una volta di più il ricorso è, perciò, votato all’insuccesso.
6.
Il ricorrente insorge anche contro la condanna per amministrazione infedele qualificata conseguente alla conferma dell’imputazione prospettatagli dal procuratore pubblico con l’atto di accusa aggiuntivo del 2 ottobre 2006.
6.1.
In sintesi, i fatti e le considerazioni alla base di tale condanna, sono i seguenti.
a)
Ricordato che il conto “_ ” venne aperto il 27 aprile 1993, che _ ne era l’intestataria e che IM 1 ne era il procuratore con firma individuale, la Corte di assise ha accertato che su tale conto vennero trasferiti, in provenienza dalla banca _ , dei titoli - in particolare, delle obbligazioni - che erano considerati dal fisco italiano come esenti da tasse (sentenza, pag. 32). Tra questi - ha puntualizzato la Corte - vi erano obbligazioni “_ ” 1987-1997, tasso 5,875% per un valore di 3’000’000.- DM. Pochi giorni prima della scadenza degli interessi del febbraio 1996 - ha proseguito la prima Corte - l’accusato (in forza della procura generale che aveva sul conto) predispose la
“vendita interna”
delle obbligazioni “_ ”, trasferendone per il valore di DM 1'500’000.- al conto “_ ” (all’epoca intestato ai suoi figli) e per ulteriori DM 1'500'000.- al conto “_ ” di pertinenza di _ (sentenza, pag. 32). Sempre stando a quanto accertato in sentenza, il prezzo di tale vendita (DM 3’000’000.-) venne bonificato sul conto _ il 7 febbraio 1996 per metà da “_ ” e per metà da “_ ” (sentenza, pag. 32).
Preso atto che il ricorrente ha giustificato tale vendita con il fatto che si avvicinava la scadenza delle obbligazioni “_ ” e con la necessità di creare liquidità su “_ ” in vista di acquistare altri titoli, la presidente della Corte delle assise correzionali ha ritenuto, sulla scorta dell’esame del conto in questione, che, in realtà, la liquidità non venne affatto reinvestita visto che, pochi mesi dopo, al contrario, IM 1 ordinò la rivendita delle obbligazioni “_ ” al conto “_ ”. Pertanto, - ha continuato la presidente - il motivo delle vendite del 7/9 febbraio 1996 non può che essere legato al fatto che il 13 febbraio 1996 furono pagate le “cedole”, ovvero gli interessi per il periodo 13.02.1995-13.02.1996 poiché, grazie alla “vendita interna”, cedole per complessivi DM 172'724.- (fino al 7/9 febbraio 1996 di spettanza del conto “_ ”) furono accreditate per DM 86'362.- a “_ ” e, per l’altra metà, ovvero sempre per fr. DM 86'362.-, a “_ ”. “
Insomma
- ha concluso la prima Corte -
con la “vendita interna” da lui ordinata, il ricorrente ha arricchito il conto “_ ” per DM 86'362.-, danneggiando nel contempo di pari importo il conto “_
” (sentenza, pag. 33).
Ricordato che l’11 giugno 1996 il ricorrente ordinò di rivendere a “_ ” le obbligazioni “_ ” comprate nel mese di febbraio precedente e che per questo “riacquisto” il conto ”_ ” fu addebitato di DM 3'162'025.-, il primo giudice ha quindi fatto presente che dopo tale operazione, la somma di DM 172'898.-, corrispondente alle cedole maturate al 13 febbraio 1997, fu accreditata al conto “_ ” (importo poi prelevato dallo stesso ricorrente a proprio indebito profitto il 26 febbraio 1997, come
ad atto di accusa punto 1.4, ultima imputazione). Sulla questione, la prima Corte ha, poi, concluso i suoi accertamenti rilevando come, nel febbraio 1997 venne “
a definitiva scadenza anche il prestito obbligazionario per cui il capitale per DM 2'992'500.- è stato rimborsato al conto “_
” (sentenza, pag. 33).
b)
La Corte di assise ha, poi, condiviso l’ipotesi accusatoria (indicata nell’atto di accusa aggiuntivo) secondo cui l’agire di IM 1 descritto al punto precedente integra gli estremi dell’amministrazione infedele qualificata. E’ indubbio - ha spiegato la Corte
-
che, “
disponendo la vendita interna delle obbligazioni “_ ” per fare profittare il conto “_ ” (riconducibile a lui e ai suoi figli) di metà delle cedole, il ricorrente ha intenzionalmente violato i suoi doveri di curare gli interessi di _ , danneggiandola per il citato importo di DM 86'382.-
“. Il ricorrente non può - ha puntualizzato il primo giudice - prevalersi del documento “_ ” (sentenza, pag. 28) “
per fare credere ad un generale previo consenso della vittima a spartire a metà con lui ogni e qualsiasi utile maturato sui suoi conti,”
sia perché tale documento rinviava l’eventuale spartizione paritaria a dopo il primo gennaio 1998, sia perché le “concordate operazioni” di cui a tale documento erano quelle relative ai “cambi speciali” concordati con la _ e non altre, sia perché tale documento si riferiva soltanto ai conti nr. 201390 “(_ )” e nr. 181209 (”_ ”) senza coinvolgere il conto “_ ” (sentenza, pag. 33-34).
6.2.
Il ricorrente, ritenendo “
a dir poco semplicistiche”
le valutazioni della prima Corte, le fa carico, da un lato, di non essersi confrontata con la considerazione secondo cui è poco logico movimentare 3'000’000.- DM (investendone il solo IM 1 1.5 milioni) per comperare la metà delle obbligazioni in discussione, al fine di lucrare soltanto DM 86’362.- e, d’altro lato, le rimprovera di non avere considerato che, essendo lui in possesso di una procura, avrebbe potuto tranquillamente dirottare direttamente sul conto “_ ” il reddito di una parte di quelle obbligazioni, senza fare tutta la messa in scena considerata nell’atto di accusa. Questo vale a maggior ragione - prosegue il ricorrente - se si considera che, secondo gli arbitrari accertamenti della prima Corte, egli non era nella necessità di nascondere alcunché visto che l’amica nulla sapeva e a nulla si interessava. Sarebbero bastate - continua il ricorrente - queste considerazioni per comprendere che l’operazione aveva proprio lo scopo da lui indicato e che fu soltanto la constatazione dell’impossibilità di trovare titoli esenti con scadenza più tarda rispetto a quella delle obbligazioni in discussione a far sì che egli decidesse di fare rientrare i titoli _ nel conto “_ ” prima della chiusura semestrale per sostituire l’importante liquidità (che non doveva rimanere sul conto in quanto tassabile) con dei titoli fiscalmente esenti (ricorso pag. 19 e 20).
6.3.
Le argomentazioni ricorsuali - quand’anche, nella loro logica, dovessero essere condivise da questa Corte - non bastano a dimostrare l’arbitrio nelle conclusioni cui è giunta la prima Corte poiché non spiegano - e nemmeno tentano di farlo - il motivo per cui sarebbe insostenibile la conclusione secondo cui l’operatività messa in atto da IM 1 ha fatto sì che il conto _ , di pertinenza della famiglia IM 1, venisse accreditato di DM 86.362.- (corrispondenti a metà delle cedole) a danno, in sostanza, dei conti (o _ o _ ) di pertinenza dell’amica di IM 1. Questo è determinante ritenuto che lo scopo dell’operazione indicato da IM 1 sarebbe stato raggiunto anche con la vendita interna di tutte le obbligazioni _ a _ , così che le cedole - che sarebbero venute a scadenza di lì a poco - sarebbero state tutte accreditate a questo conto, di pertinenza della parte civile.
Questo comporta l’inammissibilità del rimedio al riguardo.
Sempre di natura appellatoria sono le ulteriori considerazioni e obiezioni (di cui ai punti 5.3 e 5.4 del gravame che risultano essere una sorta di arringa difensiva volta semplicemente a fornire il punto di vista del ricorrente.
Proposto di nuovo in modo improprio, il ricorso non può che essere dichiarato inammissibile.
7.
Da tutto quanto precede, discende che nella misura in cui è ammissibile, il ricorso di IM 1 deve essere disatteso, siccome manifestamente infondato.
II. Sul ricorso di IM 2
8.
Il ricorrente impugna la condanna per appropriazione indebita, ritenendola conseguente ad un arbitrario accertamento dei fatti, ad un vizio essenziale di procedura e ad un’errata applicazione del diritto sostanziale.
8.1.
I fatti e le valutazioni alla base di tale condanna sono i seguenti.
a)
Ad inizio 1993, i fratelli _ e i fratelli _ decisero di aprire con soldi messi in comune un conto sul quale _ avrebbe dovuto condurre una gestione dinamica e aggressiva. Secondo i patti, ognuno dei soci avrebbe messo fr. 120’0000.-, ritenuta la successiva divisione per quattro, paritaria, del capitale iniziale e dei frutti che ne sarebbero maturati. Così, il 24 febbraio 1993 fu aperta presso _ , facendo capo a _ presso gli uffici di _ , la relazione nr. , acronimo “_ ”. Il conto venne intestato a IM 2, il quale diede procura generale con firma individuale al fratello Fabrizio nonché a _ e a _ . _ - ha puntualizzato la Corte - aveva piena fiducia nella famiglia _ . Egli non era, però, a differenza di IM 2, cognito di questioni giuridico-bancarie, tanto che nemmeno pretese di essere cointestatario del conto “_ ”, con diritto di firma, se non individuale, quantomeno collettiva a due con IM 2 (sentenza, pag. 34).
Sempre stando alla sentenza impugnata, il conto _ venne alimentato con fr. 240'000.- depositati dai figli _ tramite il conto “_ ” intestato alla loro madre _ , fr. 120'000.- li mise a disposizione IM 1, attingendo a “_ ” e fr. 65'000.- circa li mise a disposizione IM 2.
b)
Quando, nel 1997 i rapporti tra IM 1 e _ si guastarono - ha ricordato la Corte - IM 2 revocò le procure a _ e _ , benché sul conto vi fossero, pacificamente, fondi comuni e benché _ e _ fossero coaventi diritto economico sugli averi in conto ed egli ne fosse l’affidatario (sentenza, pag. 34).
Così, l’ordine dato l’ 8 ottobre 1997 da _ e _ di trasferire ad altro conto la metà del saldo “_ ” - pari a fr. 818'242.38 - non poté però essere eseguito dal funzionario della banca, a motivo della revoca delle procure disposto da IM 2 e della di lui opposizione (sentenza, pag. 34).
Il primo giudice ha, poi, ricordato che, nei verbali predibattimentali e al pubblico dibattimento, IM 2 ha ammesso di avere revocato le procure “per ripicca”, dopo avere saputo che _ aveva proceduto analogamente nei confronti di suo padre IM 1. Pur consapevole della volontà di _ e _ di entrare in possesso della loro quota parte degli averi maturati su “_ ” nell’ottobre 1997, IM 2 - ha precisato la sentenza impugnata - “
omise di darvi seguito e non provvide a sciogliere la proprietà comune e ciò - a suo dire - per meglio garantire la posizione del padre nei confronti di _
”. In merito, la prima Corte ha commentato che “
da giurista quale era, a IM 2 non poté sfuggire di certo che, così agendo, egli e il fratello risultavano indebitamente arricchiti in danno dei consoci _
”. Poi - ha proseguito la Corte - “
dimostrando ulteriormente la propria volontà di volersi appropriare dell’integralità dei fondi (comuni) IM 2 fece liquidare gli investimenti e, previa apertura presso _ _ il 19 dicembre 1997 di una nuova relazione (denominata “Sabato”, per cui conferì procura al fratello Fabrizio), fece trasferire, con ordine del 22 dicembre 1997, ad essa la quasi totalità degli averi depositai su “_ ”
. La prima Corte ha, così, accertato che il conto “Sabato” fu così accreditato, il 29 dicembre 1997, di fr. 1'485'722.49 e che, subito, tra il dicembre1997 e il gennaio 1998, quegli averi sono stati investiti in titoli di varie valute (sentenza, pag. 35).
c)
Stabilito che la revoca delle procure ordinata nel settembre 1997 era “
un atto di per sé lecito
”, la prima Corte ha ritenuto che
“l’omissione da parte di IM 2 dello scioglimento della proprietà comune nelle successive settimane (soprattutto intorno all’8.10.1997, quando i figli _ manifestarono la loro volontà di rientrare in possesso delle loro quote depositate su “_ ”) ha sicuramente integrato gli estremi del reato di appropriazione indebita
”. IM 2 - ha precisato la prima Corte - era, infatti, affidatario di “beni comuni” ed ha agito a scopo di indebito profitto, in danno dei “soci” _ e _ (sentenza, pag. 35). Secondo il primo giudice, infine, “
l’ulteriore atto di trasferire a _ ad una nuova relazione a lui riconducibile la quasi totalità degli averi prova ad oltranza la sua volontà di indebitamente convertirla ad indebito profitto (proprio e del fratello) ed a danno dei “soci” _ ”
(sentenza, pag. 35-36). La prima Corte ha voluto, infine, notare che, contemporaneamente, IM 1, il 19 dicembre 1997 aveva aperto presso _ _ le relazioni “_ ”- su cui fece pervenire i fondi che già si trovavano sul conto “_ ” presso _ _ - e “_ ” su cui fece pervenire i fondi che già si trovavano su “_ ” presso _ _ (sentenza, pag. 36).
8.2.
Nel capitolo dedicato agli accertamenti arbitrari che sarebbero stati commessi dal primo giudice, il ricorrente rimprovera alla prima Corte di avere dato per acquisita, oltre ad una totale ignoranza dell’andamento dei propri conti bancari da parte di _ , uguale ignoranza a _ _ , a tal punto che questi avrebbe rinunciato a pretendere, sia all’inizio che nel seguito, di essere cointestatario del conto “_ ”, con diritto di firma. Sennonché - allega il ricorrente - non è vero che _ _ abbia mai rinunciato a pretendere di essere intestatario del conto “_ ”, avendo lui stesso raccontato agli inquirenti di avere firmato la documentazione del conto, già compilata, che gli era stata sottoposta da _ , con la convinzione che il conto fosse cointestato come agli accordi presi, tanto da avere nell’ottobre 1997 fatto presente alla banca di esserne cointestatario, venendo però informato che ciò non era il caso, poiché egli disponeva solo di una procura che era stata revocata (ricorso, pag. 24 con riferimento al verbale 6 settembre, pag. 2). Ne segue - continua il ricorrente - che _ _ non ha mai rinunciato a ciò che, in realtà, era convinto di avere, ovvero la piena contitolarità del conto.
8.3.
L’obiezione, non priva di speciosità, si rivela senza costrutto, visto che, per finire, _ _ effettivamente non era mai stato e non era contitolare del conto, ciò che gli ha impedito di opporsi al saccheggio operato sul medesimo dallo stesso ricorrente, che gli aveva (per “ripicca”) revocato la procura, cioè la sola arma di difesa a sua disposizione.
8.4.
Riferendosi alla pag. 35 della sentenza impugnata dove la prima Corte ha ritenuto che l’accusato avrebbe dato ulteriore dimostrazione della propria volontà di volersi appropriare dell’integrità dei fondi depositati su “_ ” facendo liquidare gli investimenti e facendo trasferire, con ordine 22 dicembre 1997, la quasi totalità degli averi depositati su “_ ” sulla relazione “_ ” appena aperta presso la _ _ , il ricorrente sostiene che, una volta di più, il primo giudice ”
contraddice bellamente le risultanze istruttorie
”. Intanto - rileva il ricorrente - davanti agli inquirenti “
_ ha specificato ciò che dovrebbe già essere evidente, ovvero che non era assolutamente necessario vendere i titoli per trasferire quanto si trovava sul conto “_ ” presso un altro conto _ ”.
Ma non solo. Nel suo allegato, il ricorrente sottolinea come _ , che gestiva quella relazione, abbia dichiarato di avere disposto lui stesso la realizzazione dei titoli e ne ha anche spiegato dettagliatamente le ragioni. La cosiddetta “liquidazione degli investimenti” - conclude sull’argomento il ricorrente - non può, quindi, in nessun modo essergli ascritta e, perciò, tanto meno può costituire elemento indiziante a suo carico.
8.5.
La critica cade nel vuoto. Intanto il ricorrente trascura che la Corte di merito ha ritenuto il citato comportamento ulteriormente indiziante della sua volontà di appropriarsi indebitamente delle quote parti riservate ai suoi soci, dopo avere ricordato che è stato lo stesso accusato ad avere ammesso di avere revocato le procure a _ e _ “per ripicca”, ossia come ritorsione per lo stesso provvedimento preso da _ nei confronti di suo padre e che è stato sempre lo stesso ricorrente a dare atto di avere omesso di provvedere a sciogliere la proprietà in comune, benché avesse saputo della volontà dei soci di _ di entrare in possesso dei loro beni - il tutto per garantire meglio la posizione del padre nei confronti di _ - e che risulta dagli atti che è stato lo stesso ricorrente ad ordinare il trasferimento dei fondi da “_ ” a “
_
” su cui i _ non avevano alcun potere (sentenza, pag. 35). Di fronte a queste acclarate circostanze, non si vede quale arbitrio possa essere attribuito alla Corte di assise per avere considerato la successiva liquidazione degli investimenti e i successivi trasferimenti sui conti della famiglia _ un ulteriore indizio della volontà dello stesso ricorrente di fare terra bruciata degli averi/dei diritti dei soci _ . Del resto, il ricorrente non pretende che _ abbia agito nel modo da egli preteso senza avvisarlo, rispettivamente a sua completa insaputa. Pertanto, la questione a sapere chi ha eseguito materialmente le varie operazioni sugli averi _ non è decisivo ai fini della qualifica del reato nei confronti dell’accusato, consapevole beneficiario della sottrazione dei fondi di spettanza di terzi.
Il ricorso è, perciò, su questo punto, votato all’insuccesso.
8.6.
Al ricorrente non giova nemmeno reiterare nel sostenere che anche il trasferimento (intervenuto nel dicembre 1997) degli averi sulla nuova relazione da lui aperta a _ rispondeva ad una chiara esigenza del gestore _ e che il tutto sarebbe stato autorizzato anche dal servizio giuridico della banca. Infatti, egli trascura che a revocare la procura nei confronti di _ e _ è stato lui medesimo e che fu quella circostanza - unita alla sua opposizione - ad impedire alla banca di dar seguito al loro ordine dell’8 ottobre 1997. Orbene, se le cose fossero andate come preteso nel ricorso (in particolare a pag. 27), cioè se si fosse tutto svolto regolarmente, occorrerebbe spiegare come mai _ e _ abbiano dovuto attendere la condanna (in contumacia) del 16 aprile 2008 per ottenere, grazie ad un accordo concluso fra IM 1 e IM 2 e la famiglia _ -_ , la restituzione dei soldi (sentenza, pag. 8 e 36). E ancora meno giova al ricorrente richiamare la circostanza che il trasferimento - da un conto all’altro della stessa banca - è avvenuto allorché i conti erano già stati bloccati da tempo e, in sostanza, soltanto “
per esigenze d’ordine pratico correlate strettamente con il trasferimento del consulente in altra sede”
(ricorso pag. 27). Fosse stato davvero questo il vero motivo del trasferimento - circostanza peraltro da lui asserita senza fornire alcun riscontro - egli avrebbe dovuto farne partecipe gli ex soci. Cosa che, però, non ha fatto. Ciò che dimostra come non vi sia arbitrarietà nel diverso accertamento del primo giudice.
8.7.
Nella condanna per appropriazione indebita, il ricorrente ravvisa - comunque sia - un vizio essenziale di procedura, segnatamente una disattenzione dell’art. 250 CPP, per averlo la Corte di assise riconosciuto colpevole di una fattispecie diversa da quella prospettata nell’atto di accusa. A suo giudizio, mentre l’atto di accusa gli fa carico di un duplice comportamento, ovvero di avere dapprima revocato la procura a favore di _ _ (in realtà _ non ne ha mai avuto una) vanificandone così la possibilità di disporre del denaro sul conto e, in seguito, di avere realizzato gli investimenti e trasferito il loro controvalore su una nuova relazione di _ , la sentenza di assise gli rimprovera, appena saputo della volontà di _ e _ di entrare in possesso della loro quota degli averi maturati in conto nell’ottobre 1997, di non avervi dato seguito e di non avere provveduto a sciogliere la proprietà comune e ciò - a dire della Corte medesima - per meglio garantire la posizione del padre nei confronti di _ . E’ perciò evidente - sottolinea il ricorrente - che l’atto appropriativo ritenuto dal primo giudice non coincide con quello dell’atto di accusa. La revoca della procura - precisa il ricorrente - “
viene data in sé come legittima, la liquidazione di tutti gli averi e il loro trasferimento viene considerato come una prova ad oltranza della volontà appropriativa, ma l’atto appropriativo come tale, ciò che in buona sostanza per la Corte di merito ha tradotto nei fatti la volontà di IM 2 di appropriarsi di questo denaro, è invece costituito da un’omissione, ovvero dal non avere subito proceduto allo scioglimento della società semplice venuta in essere con l’apertura di quel conto e alla sua successiva immediata liquidazione, consistente nel caso di specie nel consentire il bonifico a favore dei fratelli _ della metà degli averi in conto”
(ricorso pag. 28 e 29). Su queste - ricorda il ricorrente - egli non ha potuto esprimersi né in sede istruttoria, né al dibattimento, né in corso di arringa,
“semplicemente perché nessuno aveva pensato a questo”
e perché nel corso del dibattimento la presidente della Corte delle assise correzionali non ha prospettato all’accusato un’integrazione dell’atto di accusa in tal senso. Questo costituisce - sempre secondo il ricorrente - una violazione dei principi consacrati negli art. 200 e 250 CPP.
8.8.
L’obiezione è soltanto apparentemente fondata.
Il ricorrente è stato condannato per appropriazione indebita qualificata, per avere, egli, a
_
, intorno all’8 ottobre 1997, allo scopo di indebito profitto, impedito a _ e _ , coaventi diritto economico sul conto “_ ”, di entrare in possesso delle loro quote parti, cagionando loro un danno di fr. 812'242.38.- (cfr. il dispositivo n. 2 della sentenza impugnata).
L’atto di accusa, al riguardo, ha fatto carico all’accusato di avere, nel periodo 3 settembre-22 dicembre 1997, indebitamente disposto a vantaggio suo e del fratello, dei valori patrimoniali depositati sulla relazione “_ ” (...) revocando in data imprecisata, comunque riferibile allo stesso periodo, le procure rilasciate a favore di _ e _ e impedendo l’esecuzione dell’ordine impartito l’8 ottobre 1997 da _ _ di trasferire Lit. 984'918'500.- a favore di un conto familiare. Inoltre, l’atto di accusa gli ha fatto carico di avere, successivamente, tra il 15 ottobre e il 18 dicembre 1997 e dopo avere disposto a proprio favore di fr. 30'881.-, liquidato tutti gli investimenti in essere e, il 22 dicembre 1997, fatto trasferire il ricavato (ad eccezione di fr. 5'000.-) sul conto
_
aperto presso la _ .
Orbene, tutti questi addebiti e tutti questi riferimenti risultano vagliati nel considerando 10 della sentenza impugnata, specie con riferimento alla circostanza - ritenuta già da sola decisiva ai fini della qualificazione del reato - secondo cui l’ordine impartito l’ 8 ottobre 1997 da _ _ non poté essere eseguito dai funzionari della banca, a motivo della revoca delle procure ordinata da IM 2 e della sua ferma opposizione (sentenza, pag. 34). E l’ostacolo (impedimento) posto dall’accusato agli ex soci di rientrare in possesso della loro quota parte sugli averi depositati sul conto datogli in affidamento, figura esplicitamente nel dispositivo di condanna.
Certo, nel motivare la condanna per appropriazione indebita, la prima Corte ha sottolineato che non è stata la revoca delle procure a costituire reato, ma l’omissione da parte dell’accusato di sciogliere la proprietà comune nelle successive settimane, soprattutto intorno all’8 ottobre 1997, ovvero quando _ e _ avevano manifestato la loro volontà di rientrare in possesso della loro parte di investimento e di guadagno sul citato conto, dato in affidamento al prevenuto (sentenza, pag. 35). Come è pure vero che, come sottolineato dal ricorrente, nell’atto di accusa manca il riferimento al mancato scioglimento della proprietà comune (della società) da parte del ricorrente. Tale omissione si rivela però senza peso, poiché è evidente che con il riferimento alla necessità di sciogliere la proprietà comune, la prima Corte ha inteso soltanto indicare che cosa avrebbe dovuto fare il ricorrente per far fronte alla richiesta degli ex soci. Invocare una violazione degli art. 200 e 250 CPP non è perciò utile. Anche su questo punto, il ricorso, deve essere disatteso.
8.9.
Infine, al ricorrente non giovano nemmeno le considerazioni e le riflessioni con le quali egli si propone di far apparire la decisione impugnata lesiva del diritto sostanziale,e, in particolare, delle disposizioni relative alle modalità e ai termini di disdetta previste dal Codice delle obbligazioni per la società semplice. Giacché dagli accertamenti contenuti nella sentenza impugnata, il mancato rimborso della quota parte di spettanza di _ e _ da parte del ricorrente, non è stata da questi motivata con la necessita di volere/dovere lasciare prima trascorrere i canonici termini di legge (tre mesi; art. 546 cpv. 1 CO), ma a seguito dell’intenzione di rivalersi nei confronti degli ex soci “per ripicca”, ossia per garantire/tutelare meglio la posizione di suo padre, cui _ aveva revocato le procure sui suoi conti. Tanto da poi dare ulteriore seguito al suo disegno, procedendo ad ulteriori azioni volte a privare gli aventi diritto dei loro beni. Disquisire sul diritto civile, segnatamente sulla società semplice, non è perciò, in questo contesto, di alcun sussidio.
9.
Da quanto precede discende che il ricorso di IM 2 deve essere respinto.
III. Sul ricorso del procuratore pubblico
10.
Il procuratore pubblico insorge contro il proscioglimento di IM 1 dalle imputazioni di ripetuta truffa (atto di accusa, punto 2) falsità in documenti (punto 4 dell’atto di accusa) e ripetuta istigazione in falsità in documenti (atto di accusa, punto 5).
11.
I fatti e le considerazioni all’origine degli impugnati proscioglimenti possono così essere riassunti:
11.1.
Nella primavera-estate 1993, IM 1 chiese a _ se fosse possibile - perché ne aveva bisogna per motivi fiscali - trasferire soldi da un conto ad un altro senza lasciare traccia documentale. _ ne parlò con _ (nel frattempo deceduto), capo dell’ufficio cambi di _ , che gli spiegò che “
per effettuare quei trasferimenti richiesti dai clienti senza lasciare traccia di collegamento tra i due conti si potevano creare delle operazioni di cambio”
(dichiarazioni di _ , citata a pag. 25 della sentenza impugnata). In pratica - ha spiegato la prima Corte -nel 1993 (e, poi, ancora nel 1997), la _ non disponeva di un sistema elettronico o informatico che registrasse in tempo reale sulle fiches di cambio l’ora esatta dell’ordine dato dal cliente e/o quella di esecuzione di tale ordine e che, perciò, era possibile monitorare durante il giorno le reali oscillazioni delle divise sul mercato intercambiario dei cambi e la sera, a corsi ormai noti, se su una data divisa si era creato un differenziale di cambio interessante, si potevano eseguire operazioni di cambio comprando o vendendo per un cliente (e/o per un conto) valute in perdita e vendendo o comprando per un altro cliente (e/o conto) le stesse valute con il corrispondente utile, ovvero effettuando operazioni parallele e inverse (di vendita o di compera) rispetto a quelle eseguite per il primo. Ai dipendenti dell’ufficio cambi vennero, così, date istruzioni di effettuare sul conto “_ ” un’operazione di acquisto di una determinata valuta sulla base del corso più alto da essa raggiunto durante quella determinata giornata e, poi, un’operazione di vendita al corso più basso tra quelli raggiunti in giornata, di guisa che il saldo tra le due operazioni era negativo per “_ ” (sentenza, pag.26). Contemporaneamente - sempre stando alla sentenza di assise - le inverse operazioni venivano eseguite per il conto “_ ” di pertinenza di IM 1 e, nel 1997, per il conto “_ ”, sempre di pertinenza di IM 1; di modo che la perdita subita da “_ ” si traduceva in un corrispondente utile per “_ ” e, poi, per “_ ” (sentenza, pag. 26).
Quanto al modo di procedere - ha rilevato la prima Corte - “i funzionari dell’ufficio cambi di _ compilavano a mano due fiches di cambio per il conto “_ ” e due fiches di cambio (inverse e parallele) per i conti di IM 1, che venivano poi registrate e passate agli uffici interni della banca, che a loro volta passavano le registrazioni sugli estratti-conto. (sentenza, pag. 26). In definitiva - ha accertato la Corte - “
le operazioni di cambio di cui alle rispettive fiches e le successive registrazioni contabili erano reali
” anche se esse non venivano eseguite sul mercato interbancario dei cambi nel momento in cui il tasso di cambio era effettivamente quello applicato, “
bensì all’interno della banca, in serata, dopo che i corsi dell’intera giornata erano ormai noti, col che si potevano agevolmente calcolare le auspicate minus-e plus valenze
” (sentenza, 26).
11.2.
Dopo avere rilevato che, secondo la pubblica accusa le fiches e le relative contabilizzazioni in conto sono false perché non rispondenti alla reale volontà dei clienti che hanno stipulato con la banca dei contratti simulati, la prima Corte ha sottolineato che, “
a ben guardare le fiches in parola attestano solo che in quella determinata giornata a fronte dei conti “_ ” e “_ ” sono state effettuate operazioni di cambio al tasso indicato sulle fiches
” ciò “
che era ed è manifestamente vero”
. Le fiches - ha proseguito il primo giudice - non indicano né il minuto in cui questa o quella divisa è stata cambiata e nemmeno indicano che essa è stata cambiata sul mercato interbancario. Esse attestano - sempre secondo gli accertamenti della prima Corte - “unicamente la data dell’operazione, il quantitativo di valuta da acquistare/vendere, il tasso di cambio e il corrispettivo di valuta venduto/acquistato”. Oggettivamente e manifestamente - ha concluso la presidente della Corte delle assise correzionali - le fiches non sono perciò false. “
Al contrario: esse non solo sono “echt”, ma - per quanto esse indicano - anche wahr
”. La prima Corte ha, poi, rilevato che, contrariamente alla tesi della pubblica accusa, “
nella misura in cui le parti (in casu, “_ ”, “_ ”, “_ ” e _ per la banca) le hanno concordate, esse non sono l’espressione di un contratto simulato, la loro volontà essendo quella di effettuare le operazioni di cambio descritte nelle singole fiches
”, così da procurare perdite per il conto “_ ” e profitti per i conti di IM 1. Sulla scorta di questi accertamenti, la Corte di assise ha prosciolto IM 1 dall’imputazione di ripetuta istigazione, rispettivamente ripetuto concorso in falsità in documenti (sentenza, pag. 27).
11.3.
Proseguendo nella disamina dei fatti, la Corte di merito ha ricordato, poi, che, a dire di IM 1 e di _ , _, titolare del conto “_ ”, era al corrente delle operazioni di cambio sopra descritte. Era infatti lei che aveva bisogno di far sparire dal suo conto “_ ” gli utili - tassabili - prodotti dai suoi titoli “esentasse” (sentenza, pag. 27). Dopo avere ricordato che, invece, _ ha negato di essere stata al corrente di questi “cambi speciali”, la prima Corte ha precisato che _ , sentito in qualità di indagato per il titolo di falso in documenti, concorso in appropriazione indebita, truffa e amministrazione infedele, ha prodotto nel corso dell’istruttoria la copia di un documento (poi messo a diposizione in originale sub AI 86), sottoscritto da _ , del seguente tenore:
"
_
Con la presente scrittura io _ . Vi confermo di avere dato incarico al Sig. IM 1, quale procuratore generale munito di poteri di firma sul conto N° aperto presso la vostra banca in _ , di effettuare tutte le concordate operazioni utilizzando il suddetto conto N° a favore del conto N°aperto presso la vostra banca in _ ed intestato a società.
A partire dal 1 Gennaio 1998 regolerò, in pieno accordo con il Sig. IM 1, le modalità di gestione delle complessive somme comuni risultanti sul conto N° o la eventuale ripartizione paritaria delle stesse tra me e il medesimo sig. IM 1, riconoscendo, fin da ora, a quest’ultimo, un autonomo compenso aggiuntivo ed ulteriore rispetto alla quota spettantegli per tutte le operazioni e le attività svolte nel mio interesse.
Dichiaro, inoltre, rato e valido ogni atto che il Sig. IM 1 effettuerà in forza delle procure generali da me conferitegli.”
_ - ha rilevato la Corte - ha però sempre, non solo negato, ma persino escluso di avere mai letto, visto e sottoscritto il citato testo prima che esso fosse prodotto al Ministero pubblico. Non ha però escluso di avere lasciato (quando ancora erano in corso le pratiche di divisione ereditaria) negli uffici di IM 1 qualche foglio firmato in bianco.
Di tenore opposto - ha ricordato la Corte - la versione di IM 1 che ha sempre detto che il documento era stato firmato da _ nel luglio del 1993 e che, al momento della firma, la donna sapeva perfettamente che esso era stato redatto per essere consegnato a _ nell’imminenza delle operazioni di cambio che la _ era disposta ad effettuare per consentire la defiscalizzazione degli utili prodotti dai titoli “esentasse” depositati sul conto “_ ” (sentenza, pag. 28). Risulta, poi, dagli accertamenti predibattimentali - ha ancora puntualizzato il primo giudice - che il documento era stato confezionato negli uffici di IM 1 che aveva dettato il testo al figlio che, a sua volta, ha dichiarato di averlo scritto e stampato su un foglio bianco su cui non c’era la firma di _ . La prima Corte ha, poi, ricordato che, secondo le dichiarazioni di IM 1, il documento, dopo essere stato firmato dalla _ , venne consegnato a _ che, dal canto suo, ha sempre dichiarato di averlo ricevuto dai “clienti” alla data su di esso indicata (cioè nel _ ), prima dell’inizio delle citate operazioni di cambio (sentenza, pag. 28-29).
Proseguendo, la Corte di assise ha ricordato che la firma è stata esaminata dai servizi della Polizia scientifica e che essa è stata definita autentica (sentenza, pag. 29).
11.4.
Dopo avere ricordato
che gli argomenti con cui il procuratore pubblico ha sostenuto la propria tesi accusatoria (indicati nel dettaglio a pag. 29 della sentenza impugnata) sono “
tutt’altro che peregrine
”, il primo giudice ha ritenuto maggiormente pregnanti gli elementi che portano a ritenere che la dichiarazione “_ ” sia davvero stata redatta e consegnata a _ nel _ , e che si tratti quindi di un documento autentico e non costituito a posteriori e ad arte (sentenza, pag. 30). Al proposito, la prima Corte ha ricordato che è accertato che, negli anni novanta, la _ “
concedeva a certi suoi clienti di operare sui cambi a corsi ormai chiusi e definiti con lo scopo di trasferire fondi da un conto a un altro senza lasciare traccia documentale
“ e che è “
logico e indiscutibile
” che tali operazioni venivano eseguite “
solo a richiesta e col benestare del cliente/dei clienti
” poiché - ha spiegato la Corte - vista la particolare natura di tali procedure, “
è più che credibile che la banca (e, per essa, _ ) abbia voluto avere, prima di dare avvio alle operazioni, il consenso scritto di _ , titolare del conto sul quale sarebbero state sistematicamente contabilizzate le operazioni in perdita
”. Il contrario - ha spiegato il primo giudice - risulterebbe, invece, “
inspiegabile e, perciò, inverosimile, visto il “particolare servizio” che la banca si prestava a concedere”
(sentenza , pag. 30). D’altro canto - ha continuato il primo giudice - non è nemmeno pensabile che alla cliente si chiedesse di firmare uno scritto in cui le previste operazione venissero descritte nel dettaglio. Da qui - ha concluso il primo giudice - la necessità di far capo ad una dichiarazione generica del tipo di quella che venne effettivamente consegnata a _ in cui si parla soltanto di “concordate operazioni” e si precisa il minimo indispensabile, e cioè che esse riguardavano il conto nr. - ovvero il conto “_ ” - e che andavano a beneficio del conto nr. - ovvero il conto “_ ” (sentenza, pag. 30). Inoltre, la prima Corte ha spiegato l’assenza di stampigliatura del documento con la consegna diretta e confidenziale dalla cliente direttamente al membro della direzione generale _ . Sempre con questa particolare confidenzialità, la prima Corte ha spiegato che il documento sia stato custodito personalmente da _ , prima a _ e poi a _ . La prima Corte, dopo avere rilevato che il documento non nomina il conto “_ ” (che nel 1993 non esisteva), ha precisato che, nondimeno, è un dato di fatto che i benefici creati dalle due ultime operazioni di cambio sono confluiti su “_ ” a _ , dove per l’appunto _ si era nel 1996 trasferito ed ha rilevato che nemmeno la seconda frase riportata nel testo appare priva di senso, solo ove si consideri che IM 1 ha reso plausibile la motivazione “fiscale” che sottendeva alle “speciali operazioni” di cambio (sentenza, pag. 31). D’altro canto, la prima Corte ha ancora precisato che il documento “_ ” non ufficializza la ripartizione paritaria degli utili confluiti su “_ ”, ma solo fa cenno alla sua eventualità e che, di contro, esso attesta che sul conto “_ ”, sul quale _ non aveva alcun diritto di firma, vi erano “somme comuni” di lei e IM 1; il che significa che il testo delle dichiarazione in rassegna non solo non è incomprensibile e privo di senso, come preteso dal magistrato di accusa, “
ma nemmeno risulta essere totalmente sbilanciato a favore di IM 1 e a sfavore di _ , così da diventare, già solo per questo, sospetto
” (sentenza, pag. 31). La prima Corte ha, poi, ritenuto “
solo in parte strana
” la circostanza che la donna non sia stata in possesso di una copia di tale documento vista “
la notoria ritrosia degli italiani a tenere al loro domicilio documenti in qualche modo attinenti ai loro depositi in banche estere
” e nel caso di specie - ha puntualizzato al proposito la Corte - “
se è vero che il conto _ era dichiarato al fisco italiano, è altrettanto vero che il conto nr. contenente “somme comuni” non lo era”
(sentenza, pag. 31). Sulla scorta di questi elementi e di queste considerazioni, la prima Corte ha concluso che “
nel dubbio si ha che non vi sono sufficienti elementi per ritenere che il documento “_ ” sia falso, così come descritto nell’atto di accusa. Più probabile è che _ a _ , fiduciosa come era nel 1993 e negli anni successivi e fino alla primavera 1997, nella correttezza dell’uomo cui era sentimentalmente legata, poco cognita di questioni finanziarie, abbia per ragioni fiscali firmato il documento e poi se ne sia, magari col passare degli anni, dimenticata
” (sentenza, pag. 31-32).
Ciò posto, la presidente della Corte delle assise correzionali ha prosciolto IM 1 dall’imputazione di falsità in documenti, descritta nel punto 4 dell’atto di accusa.
Riguardo all’imputazione di truffa di cui al punto 2 dell’atto di accusa, rilevata la plausibilità delle motivazioni fiscali indicate da IM 1, la prima Corte ha concluso che il fatto che la dichiarazione “_ ” “
non sia provatamente falsa, anzi che essa sia , nel dubbio, da ritenere invece realmente firmata a tale data da _ , rende debole e fragile l’intero costrutto accusatorio, per cui anche da tale imputazione il soggetto deve essere prosciolto”.
(sentenza, pag. 32)
11.5.
Nel punto 2.3 del proprio gravame, con il quale si propone di diffondersi sul fondamentale quesito a sapere se _ abbia dato o meno il proprio consenso alle note operazioni di cambio, il procuratore pubblico sostiene che il primo giudice ha arbitrariamente omesso di considerare e valutare circostanze fondamentali per gli accertamenti connessi alla fattispecie, che avrebbero decisamente fatto pendere l’ago della bilancia a favore della credibilità della parte civile. Nel motivare la critica l’insorgente perde, però, completamente di vista il limitato potere cognitivo di questa Corte nel dirimere questioni di fatto di valutazione delle prove. Anziché confutare uno per uno gli argomenti - tra i quali anche quelli che il ricorrente ritiene negletti nella sentenza impugnata - che hanno spinto la Corte del merito a ritenere, per lo meno nel dubbio, preferibile la tesi difensiva rispetto a quella accusatoria, il ricorrente argomenta per finire a ruota libera riproponendo di fatto la sua requisitoria: Il gravame si esaurisce, in altri termini, in un’esposizione delle ragioni che, a giudizio del ricorrente, dovrebbero supportare l’atto di accusa, senza però accompagnare l’esposto - almeno in questo suo punto - da una sola riga di commento sulle considerazioni poste dalla Corte alla base del verdetto assolutorio.
Da ciò non può che conseguire l’inammissibilità del rimedio.
11.6.
Il ricorso non è destinato a miglior sorte nemmeno nel successivo punto 2.4 dedicato alle presunte arbitrarie considerazioni riscontrabili - secondo il magistrato di accusa - nella sentenza di primo grado. Anche in questo caso il gravame pecca di forza argomentativa, data la sua chiara natura appellatoria: l’esposto mira solo a perorare il personale convincimento del ricorrente sulla base di un’interpretazione alternativa del materiale processuale. Il che, lo si ripete, non è consentito in un ricorso per cassazione fondato sul divieto dell’arbitrio, dove non basta, per fondare l’arbitrio richiamato, riferire, a spizzico, singoli passaggi, singole frasi della sentenza impugnata, ma dove bisogna, invece, dimostrare che la sentenza impugnata non solo è arbitraria in qualche sua considerazione ma occorre dimostrare che lo è anche nel suo esito. Il ricorso è lungi dal soddisfare tale esigenza, donde di nuovo la sua inammissibilità. Giacché il procuratore pubblico non ha dimostrato che, valutati nel loro complesso i pro e i contro a favore dell’una o dell’altra tesi, il primo giudice abbia emanato un giudizio manifestamente insostenibile, ritenendo che, nel dubbio, l’imputato andava prosciolto dalle relative imputazioni. Ciò posto, non può entrare in considerazione una condanna per truffa rispettivamente per falsità in documenti in relazione alle fattispecie prospettate nei punti 2 e 4, dato che gli accertamenti della prima Corte - esenti da arbitrio - non consentono una conclusione del genere.
Al riguardo il rimedio è perciò votato all’insuccesso.
11.7.
Il ricorso cade nel vuoto anche nella misura in cui il procuratore pubblico si propone di far condannare IM 1 per il reato di cui al punto 5 dell’atto di accusa (istigazione in falsità in documenti). Richiamando le considerazioni di cui ai punti precedenti del suo memoriale ricorsuale, il ricorrente reitera nel sostenere che tutte le operazioni che hanno determinato i dieci trasferimenti a debito del conto “_ ” sono avvenute senza il consenso della titolare del conto (_ ), ossia pretendendo che le fiches siano espressione di operazioni simulate effettuate all’insaputa della titolare, nell’intento evidente, da parte di IM 1, di danneggiare il di lei patrimonio. Già si è però visto che i fatti accertati senza arbitrio dalla prima Corte sono diversi, e meglio le contestate operazioni di cambio erano state effettuate con il consenso preventivo della presunta vittima e che, in ogni modo, le fiches di cambio in parola, attestando unicamente la data dell’operazione, il quantitativo di valuta venduto rispettivamente acquistato, non sono falsi né dal profilo materiale né da quello ideologico (sentenza, pag. 27).
12.
Da quanto precede discende che, nella limitata misura in cui è ammissibile, il ricorso del procuratore pubblico deve essere respinto, siccome infondato.
IV. Sulle spese e sulle ripetibili
13.
Gli oneri processuali seguono la rispettiva soccombenza, ossia sono posti a carico di IM 1 e IM 2 (art. 15 cpv. 1 in combinazione con l’art. 9 cpv. 1 CPP), rispettivamente dello Stato (art. 15 cpv. 1 CPP). In esito alla reiezione del ricorso del procuratore pubblico, lo Stato del Canton Ticino verserà a IM 1 fr. 1’000.- per ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,010 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
d5d78583-5787-55a6-84c5-b88368b857cc | in fatto: A.
Con decreto di accusa 25 maggio 2007, il sostituto procuratore pubblico ha riconosciuto RI 1 autore colpevole di diffamazione per avere, nel maggio 2006, inserito il messaggio “
la PC 1 non è riconosciuta nel sistema universitario svizzero, i titoli non hanno valore legale nemmeno in Svizzera e non sono equipollenti a quelli delle università italiane
” in una decina di forum di siti internet, impiegando vari
nickname
quali
_
,
equalizer
e
_
. Ne ha, pertanto, proposto la condanna alla pena pecuniaria di quindici aliquote giornaliere da fr. 120.- ciascuna, per complessivi fr. 1’800.-, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, oltre alla multa di fr. 500.- e al pagamento di tasse e spese.
B.
Statuendo sull’opposizione presentata il 29 maggio 2007, con sentenza 9 gennaio 2008 il giudice della pretura penale ha confermato integralmente il decreto d’accusa.
C.
Con scritto 10 gennaio 2008 RI 1 ha inoltrato dichiarazione di ricorso contro la sentenza del giudice di prime cure. Nei motivi del gravame, presentati il 19 febbraio 2008, il ricorrente lamenta un accertamento arbitrario dei fatti, dei vizi essenziali di procedura e l’errata applicazione del diritto (in particolare una violazione degli art. 6 e 10 CEDU, 8, 9, 16 29, 32 Cost., 173 CP, 112 LTF, 113 e 123 CPP) da parte del giudice di prime cure, domandando, con l’annullamento della sentenza impugnata, il suo proscioglimento.
D.
Con osservazioni 17 marzo 2008, la parte civile PC 1 ha postulato la reiezione del ricorso e la conferma della sentenza impugnata.
Il procuratore pubblico non ha, invece, presentato osservazioni.
E.
In data 29 febbraio 2008, il ricorrente ha presentato una richiesta di restituzione ex art. 21 CPP, producendo lo scritto 30 gennaio 2008 (che il ricorrente sostiene di aver ricevuto solo il 25 febbraio seguente) del sostituto procuratore di _ denominato “
informazione di garanzia e sul diritto di difesa/avviso di conclusione delle indagini
”, oltre a due estratti di un codice di procedura penale italiano annotato. RI 1, in particolare, chiede “
la restituzione del termine per produrre i documenti allegati nonché del termine ricorsuale
”, “
nel senso che la presente istanza valga quale integrazione del ricorso 19 febbraio 2008
”
. Tale istanza non è stata oggetto di intimazione. | Considerando
in diritto: 1.
Anzitutto occorre determinarsi sulla “
domanda di restituzione
” presentata dal ricorrente in data 29 febbraio 2008 ad integrazione del memoriale di ricorso, con richiesta di assumere agli atti lo scritto del sostituto procuratore di _ concernente la conclusione delle indagini.
1.1.
Giusta l’art. 21 CPP, la restituzione per inosservanza di un termine può essere concessa se la parte o il suo patrocinatore prova di non averlo potuto osservare perché impedita senza sua colpa o per forza maggiore, segnatamente per malattia, assenza scusabile, servizio pubblico o militare o per altre ragioni importanti. L’istanza deve essere presentata, pena la decadenza, entro dieci giorni dalla cessazione dell’impedimento (art. 22 cpv. 1 CPP). Sull’istanza decide l’autorità davanti alla quale doveva essere compiuto l’atto per il quale è chiesta la restituzione. Se sono stati emanati un decreto di accusa o una sentenza, è competente il giudice che lo sarebbe per giudicare sul rimedio di diritto; in questo caso la restituzione può essere concessa soltanto per presentare ricorso (art. 22 cpv. 2 CPP). Se l’istanza è accolta, l’atto omesso deve essere compiuto entro il termine di cui è concessa la restituzione (art. 22 cpv. 3 CPP).
1.2.
Nel caso concreto la richiesta del ricorrente non può essere accolta.
Oltre a non essere manifestamente dato un caso di restituzione in intero giusta l’art. 21 CPP, si rileva che in sede di cassazione è vietato mutare il materiale processuale che ha fatto oggetto del primo giudizio e, pertanto, nuove prove non sono ricevibili (Rep. 1973 pag. 240 consid. 7; sentenza CCRP del 12 settembre 2000, inc. 17.2000.19 consid. 1; sentenza CCRP del 18 febbraio 2000, inc.17.1999.61 consid. 1). Anche nell’ipotesi in cui fosse dato un caso di restituzione del termine per presentare ricorso in cassazione, dunque, RI 1 non sarebbe comunque abilitato a produrre la documentazione in questione.
La sussistenza di atti o mezzi di prova che non erano noti al giudice del primo processo, se rilevanti, può semmai dar luogo a revisione di una sentenza di condanna (art. 299 lett. c CPP, norma che ha la stessa portata dell’art. 385 CP e dell’art. 397 vCPP). Nel caso concreto, tuttavia, anche volendo considerare la richiesta 29 febbraio 2008 come una domanda di revisione in tal senso, la stessa si rivelerebbe inammissibile poiché prematura, il rimedio straordinario della revisione essendo dato unicamente nei confronti di sentenze cresciute in giudicato (Gass, Basler Kommentar, Strafrecht II, II ed., ad art. 385 CP n. 73; DTF 130 IV 72 consid. 2.1; 100 IV 248, consid. 2b; STF 7 gennaio 2009, inc. 6B_918/2008, consid. 1). L’istanza presentata dal ricorrente si rivela, pertanto, destinata all’insuccesso.
2.
Il ricorso per cassazione è essenzialmente un rimedio di diritto (art. 288 lett. a e b CPP) ritenuto che l’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP) e che arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1, pag. 17; 131 I 217 consid. 2.1, pag. 219; 129 I 173 consid. 3.1, pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3, pag. 371).
Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza deve essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153; 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17; 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219; 129 I 8 consid. 2.1 pag. 9; 173 consid. 3.1 pag. 178).
3.
Il ricorrente censura la sentenza impugnata per accertamento arbitrario dei fatti (art. 288 lett. c CCP), vizi essenziali di procedura (art. 288 lett. b CCP) ed errata applicazione del diritto sostanziale ai fatti posti alla base della sentenza (art. 288 lett. a CCP).
In primo luogo, egli sostiene che il giudice della pretura penale è incorso in arbitrio ed ha violato il principio
in dubio pro reo
nel considerarlo autore dei fatti contestati.
3.1.
“Facendo difetto l’ammissione dei fatti da parte dell’accusato”
, nella sentenza impugnata il primo giudice ha dapprima proceduto ad accertare
“se sussistono sufficienti prove o indizi a carico del prevenuto”
, in particolare
“se egli possa essere legittimamente ritenuto l’autore e il diffusore del messaggio incriminato”
(sentenza, consid. 8, pag. 6) per concludere che
“gli elementi a carico dell’accusato sono convergenti e numerosi”
(sentenza, consid. 9, pag. 7). Dopo aver brevemente spiegato che dal profilo terminologico il numero IP consiste in una serie di numeri che identificano ogni singolo computer connesso alla rete internet (sentenza, consid. 9, pag. 7), il pretore ha rilevato che
“alcuni dei nicknames e usernames dietro i quali l’autore del messaggio incriminato si è celato per divulgarlo in rete hanno uno stretto legame con RI 1: «_» e «_» hanno un diretto legame con il suo nome, mentre «_» con quello di sua madre, appunto. «_» riprende le iniziali del nome dell’accusato”
(sentenza, consid. 9, pag. 7). Inoltre,
“pur avendo un valore relativo”
, il giudice ha ritenuto che non si potesse trascurare il fatto che il ricorrente in occasione della sua audizione del 15 maggio 2007
“si sia inspiegabilmente rifiutato di rispondere alla domanda se i soprannomi «_» e «_» gli dicessero qualcosa”
. A queste considerazioni, il primo giudice ha aggiunto il fatto che il mittente equalizer – dal quale è partita una gran parte delle e-mail – si riconduce a _, utente da cui è stato inviato un messaggio concernente la PC 1 in data 20 settembre 2006 con la precisazione che l’IP del computer utilizzato per questa operazione corrisponde a quello installato presso l’abitazione privata del prevenuto a _ (sentenza, consid. 9, pag. 8).
In seguito, il primo giudice ha rilevato che nel decreto cautelare 12 ottobre 2006 emanato dal Pretore di _ nell’ambito della controversia civile sorta a seguito di tali messaggi – nel quale è stato fatto ordine a RI 1 di eliminare dai siti internet e da ogni altro mezzo di diffusione l’affermazione qui incriminata – è stato stabilito che “
cliccando sul nickname
«_» si apriva una pagina che forniva il profilo del signor RI 1 e che il nominativo «equalizer» portava invece all’indirizzo mail _, che a sua volta conduceva al sito del _ (_), correlato alla _”
(sentenza, consid. 10, pag. 8), università privata a distanza, di cui il ricorrente è amministratore unico.
Infine – dopo avere osservato che, secondo gli accertamenti della Polizia di Stato italiana, i messaggi in questione sono stati inviati da un computer il cui IP è riconducibile alla _ – il giudice di prime cure ha riferito della testimonianza della dott.ssa _, vice-questore aggiunto della Polizia di Stato (Compartimento Polizia postale e delle comunicazioni della _) e “
specialista di reati commessi attraverso il web
”, secondo la quale “
in base agli accertamenti gli investigatori sono potuti giungere al convincimento che l’autore degli stessi era il signor RI 1
”
(sentenza, consid. 11, pag. 9) poiché “c
onsultando l’incarto dell’inchiesta a lei affidata
”, la teste ha potuto associare i messaggi inviati su alcuni siti a determinati indirizzi e-mail e, in particolare, tre di questi
account
di posta elettronica sono stati consultati in un internet point a _, luogo in cui il ricorrente ha ammesso di essersi trovato a quell’epoca (sentenza, consid. 11, pag. 9).
3.2.
Secondo il ricorrente – che ha sempre negato di essere l’autore del messaggio incriminato – gli indizi che, secondo il giudice, indicano in modo convergente che egli è l’autore del messaggio sono, in realtà, stati interpretati in maniera manifestamente errata, senza tener conto di circostanze rilevanti risultanti dall’incarto, rispettivamente accertando circostanze che non risultano minimamente dagli atti (ricorso, pag. 5).
A mente del ricorrente non è possibile ritenere un indizio della sua colpevolezza il fatto che gli pseudonimi utilizzati in rete (_) abbiano delle assonanze con il suo nome: un
nickname
“
è uno pseudonimo e non un passaporto biometrico
” e non fornisce alcuna indicazione in merito all’identità di chi lo ha scelto (ricorso, pag. 5). Inoltre, il doc. A9 allegato alla denuncia riferisce di un messaggio, pure inserito da un certo _, che getta discredito sull’istituto diretto da RI 1, ciò che indica che dietro al
nickname
in questione non può celarsi il ricorrente stesso (ricorso, pag. 5). Inoltre – continua il ricorrente – il giudice ha fatto analoghe riflessioni in relazione all’uso dello pseudonimo
_
benché dai doc. A1-A15 non risulti che le affermazioni incriminate siano mai state proferite da una persona con tale
nickname
(ricorso, pag. 6).
Secondo il ricorrente, il giudice ha, poi, anche violato la presunzione di innocenza e il diritto dell’imputato di non rispondere nel ritenere “
indizio di colpevolezza il fatto che il ricorrente, in sede di interrogatorio innanzi alla sost. PP, si sia rifiutato di rispondere
” (ricorso, pag. 6).
A mente del ricorrente inoltre non ha alcun senso ritenere – come considerato dal giudice di prime cure – che lo pseudonimo
equalizer
sia riconducibile all’indirizzo di posta elettronica _ (dal quale il 20 settembre 2006 è partito un messaggio incriminato): in primo luogo poiché un
nickname
“
non è una caratteristica unica e irripetibile
” e nella rete internet “
vi possono essere stati 2, 7, 100 equalizer
”, in secondo luogo poiché prima ancora che lui stesso venisse a conoscenza delle iniziative giudiziarie intraprese dalla PC 1 nei suoi confronti, “
erano presenti in rete dei messaggi provenienti da un «equalizer», che certo non poteva essere il ricorrente, visto che lo beffeggiavano trattandolo di capo bidello, ed incensando invece l’attività della PC 1
”
(ricorso, pag. 6). Il ricorrente sostiene, poi, che il primo giudice è caduto in contraddizione indicando che lo pseudonimo
equalizer
porta ad un diverso indirizzo e-mail, _ (ricorso, pag. 6). Il pretore avrebbe del resto anche commesso una svista manifesta, dato che il messaggio in questione – inviato il 20 settembre 2006 – non corrisponde a quelli oggetto del decreto d’accusa (risalenti al maggio 2006) (ricorso, pag. 7).
Secondo il ricorrente, utilizzando a sostegno della sua convinzione il decreto emanato dal Pretore di _ in data 12 ottobre 2006 il primo giudice ha dimenticato “
che tale sentenza è stata emanata in una procedura cautelare, e quindi ove non è richiesta la prova ma solo la verosimiglianza dei fatti allegati, e soprattutto che contro tale sentenza è pendente appello
” (ricorso, pag. 7).
Dopo avere contestato il valore probatorio dei documenti L, N e O sui quali il Pretore ha basato la sua pronuncia (corrispondenti agli allegati doc. E, G e H del documento AI1), il ricorrente ritiene sia insostenibile utilizzare come indizio di colpevolezza “
il fatto che la polizia postale italiana avrebbe accertato che i messaggi diffamatori contro la PC 1 provenivano da un IP di proprietà di _ , e che tale IP risultava essere quello del computer dell’_ di RI 1
”
, non essendo dato sapere “
quale messaggio sarebbe provenuto e quando dall’IP in questione
” (ricorso, pag. 7-8). Inoltre, l’accertamento della titolarità dell’IP in questione é riferito ad un solo giorno, l’11 luglio 2006 – data in cui nessun messaggio è stato inviato – e non indica chi ne fosse titolare nei giorni in cui i messaggi sono stati inviati; l’IP in questione non sarebbe del resto direttamente riconducibile ad un computer personale del ricorrente, ma ad un terminale della _ , di cui il ricorrente non è l’unico dipendente (ricorso, pag. 8).
Il ricorrente censura, inoltre, il fatto che il primo giudice ha preso in considerazione la relazione di cui al doc. AI8, annesso 12: si tratta di un documento dal valore probante “
pressoché nullo
” in quanto effettuata “
da un incaricato della PC 1
”
, “
allestita in due giorni
” e “
sulla base di documentazione fornita dalla PC 1
”
, che non precisa nemmeno a quale messaggio fa riferimento (ricorso, pag. 8).
Infine, per quel che concerne la testimonianza della dott.ssa _ (in relazione alla quale viene sollevata anche una censura per vizio essenziale di procedura), il ricorrente rileva che la stessa – pur essendo sentita per la prima volta al dibattimento – non è stata oggetto di verbalizzazione. Gli accertamenti del pretore derivanti da tale testimonianza non possono pertanto andare a scapito del ricorrente; in ogni caso, tale testimonianza sarebbe irrilevante in quanto non indica quale fosse il tenore dei messaggi ai quali viene fatto riferimento (ricorso, pag. 8-9).
3.3.
Nell’accertamento dei fatti e nella valutazione delle prove, il giudice dispone di un ampio potere di apprezzamento (DTF 129 I 8 consid. 2.1.; 118 Ia 28 consid. 1b; STF 30 marzo 2007, 6P.218/2006) così che, per motivare l’arbitrio, non è sufficiente criticare la decisione impugnata né è sufficiente contrapporvi una diversa versione dei fatti, per quanto sostenibile o addirittura preferibile. E’, invece, necessario dimostrare il motivo per cui la valutazione delle prove fatta dal primo giudice è manifestamente insostenibile, si trova in chiaro contrasto con gli atti, si fonda su una svista manifesta o contraddice in modo urtante il sentimento di equità e di giustizia. In particolare, il TF ha avuto modo di stabilire che un accertamento dei fatti può dirsi arbitrario se il primo giudice ha manifestamente disatteso il senso e la rilevanza di un mezzo di prova oppure ha omesso, senza fondati motivi, di tener conto di una prova idonea ad influire sulla decisione presa oppure, ancora, quando il giudice ha tratto dal materiale probatorio disponibile deduzioni insostenibili (DTF 129 I 8 consid. 2.1.)
Secondo la giurisprudenza, in assenza di prove certe, il giudice può fondare il proprio convincimento su una serie di indizi valutati in modo logico, obiettivo e coerente. Se, per definizione, un indizio da solo non può bastare poiché, preso a sé stante, può essere interpretato in più modi, più elementi valutati nel loro complesso e in modo rigoroso possono condurre ad escludere il ragionevole dubbio e, quindi, possono costituire un valido fondamento del convincimento del giudice (cfr. Hans Walder, Der Indizienbeweis in Strafprozess, in RPS 108 (1991) pag. 309 cit., in part., in STF 7 maggio 2003, inc. 6P.37/2003 consid. 2.2).
Il precetto
in dubio pro reo
è il corollario della presunzione di innocenza garantita dagli art. 32 cpv. 1 Cost., 6 par. 2 CEDU e 14 cpv. 2 patto ONU II e disciplina sia la valutazione delle prove sia la ripartizione dell'onere probatorio. Per quanto riguarda l'onere probatorio, esso impone alla pubblica accusa di provare la colpevolezza dell'imputato e non a quest'ultimo di dimostrare la propria innocenza. Al proposito la Corte di cassazione e di revisione penale fruisce – come il Tribunale federale – di libero esame (DTF 127 I 38 consid. 2a pag. 40, 124 IV 86 consid. 2a pag. 87). Per quanto attiene invece alla valutazione delle prove, il principio
in dubio pro reo
significa che il giudice penale non può dichiararsi convinto dell'esistenza di una fattispecie più sfavorevole all'imputato quando, secondo una valutazione non arbitraria del materiale probatorio, sussistano dubbi sul modo in cui si è verificata la fattispecie (DTF 129 I 8 consid. 2.1. pag. 9; 127 I 38 consid. 2a pag. 41; 124 IV 86 consid. 2a pag. 88; 120 Ia 31 consid. 2c pag. 37). Il precetto non impone però che l'assunzione delle prove conduca a un assoluto convincimento. Un giudizio di colpevolezza può poggiare, mancando testimonianze oculari o prove materiali inoppugnabili, su indizi che sono atti a fondare il convincimento del tribunale quando, valutati globalmente, consentono di escludere ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell'accusato (STF 12 febbraio 2003, inc. 1P.333/2002 consid. 1.4; STF 10 gennaio 2002, inc. 6P.93/2001 consid. 3c; STF 25 settembre 2000, inc. 1P.608/1999 consid. 3d; STF 30 marzo 2007, inc. 6P.218/2006 consid. 3.9; STF 28 giugno 2004, inc. 6P.72/2004 consid. 1.2; STF 7 maggio 2003, inc. 6P.37/2003 consid. 2.2). Semplici dubbi astratti e teorici sono sempre possibili; il principio è disatteso quando il giudice penale avrebbe dovuto nutrire sulla colpevolezza, dopo un'analisi globale e oggettiva delle prove, dubbi rilevanti e insopprimibili (DTF 127 I 38 consid. 2a pag. 41, 124 IV 86 consid. 2a pag. 88, 120 Ia 31 consid. 2d pag. 38). Sotto questo profilo il principio
in dubio pro reo
ha la stessa portata del divieto dell'arbitrio (DTF 120 Ia 31 consid. 4b pag. 40; 17.2002.45)
3.4.
Nel caso concreto desta alcune perplessità l’audizione della dott.ssa _ in qualità di testimone. Quest’ultima, vice-questore aggiunto della Polizia di Stato, è stata chiamata a riferire dei contenuti delle indagini svolte in Italia in relazione al messaggio contestato e alle sue svariate pubblicazioni nei forum internet. Al di là delle censure sollevate dal ricorrente in merito ad asseriti vizi procedurali della suddetta audizione, non può essere ignorato che la persona in questione è stata “
incaricata degli accertamenti connessi alla procedura penale avviata in Italia nei confronti del qui accusato per il reato di diffamazione in relazione alla divulgazione su internet del messaggio in oggetto
” (sentenza, consid. 11, pag. 8) e ha svolto quindi il ruolo di autorità inquirente nei confronti del qui ricorrente in Italia. Ella non si è limitata a riferire dei fatti da lei constatati ma, stando a quanto riportato nella sentenza impugnata – in assenza di una verbalizzazione delle dichiarazioni della teste – ha pure riferito del convincimento degli investigatori sul fatto che l’autore dei messaggi fosse RI 1 (sentenza, consid. 11, pag. 9). Tali considerazioni, che non emanano da un giudice penale ma da un’autorità inquirente, non hanno nulla a che vedere con la deposizione di un teste e non possono certamente essere ritenute dal giudice come prove a carico di RI 1.
Poco felice è pure il commento del primo giudice secondo cui non deve essere trascurato il fatto che durante il suo interrogatorio il ricorrente “
si sia inspiegabilmente rifiutato di rispondere alla domanda se i soprannomi «_ » e «_ » gli dicessero qualcosa”
(sentenza, consid. 9, pag. 8), commento con cui ha lasciato intendere di aver considerato, fra gli indizi della colpevolezza del ricorrente (pur precisando che lo stesso avrebbe “
un valore relativo
”, sentenza, consid. 9, pag. 8), il fatto che RI 1 si è rifiutato di rispondere alle domande del sostituto procuratore pubblico in relazione agli pseudonimi
_
e
_
, ciò che configura una violazione del diritto di non rispondere ovvero della facoltà conferita all’imputato in un procedimento penale di tacere senza subire pregiudizi (art. 31 cpv. 2 e 32 Cost, art. 6 CEDU e art. 14 n. 3 lit. g Patto ONU II; cfr. DTF 130 I 126 consid. 2).
Ciò detto, in considerazione delle altre prove agli atti non si può concludere che il giudice abbia accertato in modo arbitrario che RI 1 sia l’autore del messaggio incriminato.
Con le sue argomentazioni il ricorrente mette in discussione la valenza probatoria di ogni singolo elemento, dimenticando che occorre invece vagliare la portata probatoria complessiva di tutti gli indizi considerati e dimostrare che le conclusioni che il giudice di prime cure nel suo complesso sono manifestamente insostenibili, è cioè completamente destituite di fondamento.
Le argomentazioni ricorsuali dimostrano, tutt’al più, che esiste la possibilità che le cose si siano svolte diversamente da come è stato accertato in prima sede, ciò che non basta a sostanziare l’arbitrio. Anche il richiamo al
principio in dubio pro reo
non è di ausilio al ricorrente, nella misura in cui la semplice possibilità che i fatti possano essersi svolti in modo diverso da quanto accertato con una lettura sostenibile del materiale istruttorio non costituisce ancora dubbio insopprimibile ai sensi di quanto sopra. Pertanto, pur facendo astrazione delle dichiarazioni della dott.ssa _ e non attribuendo alcuna valenza di indizio al fatto che RI 1 in sede di interrogatorio abbia rifiutato di rispondere ad alcune domande, non si può certo affermare che in concreto il primo giudice abbia accertato che è RI 1 l’autore del messaggio incriminato quantunque una valutazione non arbitraria delle prove lasciasse sussistere dubbi rilevanti sulla questione.
Su questo punto il ricorso deve dunque essere respinto.
4.
Il ricorrente si duole anche dell’esistenza di vizi essenziali di procedura in relazione all’ammissione dell’audizione della dott.ssa _ .
4.1.
Il giudice di prime cure ha ritenuto tardiva l’opposizione di RI 1 all’audizione testimoniale della dott.ssa _ rilevando come l’imputato, “
conscio della rilevanza della testimonianza
(...)
ha cercato personalmente – in spregio al principio della buona fede processuale che prevede che tali eccezioni vengano tempestivamente sollevate (il nome della teste gli era noto da mesi) – di impedire l’assunzione della prova richiamandosi al segreto istruttorio previsto dalla procedura italiana
” (sentenza, consid. 11, pag. 8).
4.2.
Il ricorrente sostiene che il primo giudice ha sbagliato ritenendo tardiva la sua opposizione, visto che, nell’ordinamento penale italiano, il segreto istruttorio è legato allo stato di avanzamento del procedimento stesso: pertanto, era al dibattimento il momento in cui andava verificata tale condizione. Inoltre – continua il ricorrente – in concreto la testimonianza resa dalla dott.ssa _ è nulla anche perché non sono state rispettate le condizioni poste dall’art 123 CPP.
4.3.
La questione non ha più da essere esaminata ritenuto che, come visto al consid. 3.4, le dichiarazioni della dott.ssa _ non possono essere prese in considerazione.
E’ comunque utile ricordare (anche se non eccepito dal ricorrente) che, in base all’art. 255 cpv. 3 lit. b CPP, devono essere verbalizzate le deposizioni dei testimoni interrogati per la prima volta al dibattimento, o dei testi che modificano al dibattimento quanto hanno dichiarato in istruttoria. In concreto, ritenuto che la dott.ssa _ non era mai stata sentita in precedenza, il pretore avrebbe dovuto verbalizzare la sua deposizione, senza che fosse dovere della parte richiederlo (sentenza CCRP 24 novembre 2008, inc. 17.2007.76, consid. 3). Con il nuovo codice di diritto processuale penale svizzero (Codice di procedura penale federale, CPP; FF 2007 pag. 6327 segg.) le verbalizzazioni dovranno essere più dettagliate (art. 78 nCPP); chi dirige il procedimento sarà “
responsabile della verbalizzazione completa ed esatta degli atti procedurali
” (art. 76 cpv. 3 nCPP) e dovrà attestarne l’esattezza (art. 76 cpv. 2 nCPP) (sentenza CCRP 3 giugno 2009, inc. 17.2008.30). E’ dunque auspicabile che i giudici della Pretura penale si adoperino già sin d’ora per rendere al lettore più trasparente l’andamento del processo, verbalizzando con cura le dichiarazioni di testi e periti, in modo anche da agevolare l’autorità ricorsuale in caso di contestazioni.
5.
Per quel che concerne le censure relative all’applicazione del diritto sostanziale, il ricorrente sostiene, in primo luogo, che il giudice non ha applicato in modo corretto l’art. 173 CP riguardante la diffamazione.
5.1.
Dopo aver ricordato i presupposti per l’applicazione dell’art. 173 CP – in particolare, ricordando come le espressioni che concernono la considerazione sociale, professionale o politica sfuggono all’ambito applicativo della norma penale – il pretore ha concluso che l’affermazione incriminata (“
la PC 1 non è riconosciuta nel sistema universitario svizzero, i titoli non hanno valore legale nemmeno in Svizzera e non sono equipollenti a quelli delle università italiane
”) è “
sicuramente lesiva dell’onore della PC 1 ai sensi del codice penale
” e contiene informazioni “
certamente atte a ledere l’onore della parte civile
” (sentenza, consid. 15, pag. 11). Il giudice ha ritenuto che la frase in questione indica “
che i titoli di studio rilasciati dall’istituto scolastico non hanno alcun valore e sono quindi carta straccia
”; la deduzione dell’utente medio sarebbe “
che la PC 1 inganna i propri studenti
(...)
fornendo loro dei diplomi che non corrispondono alle loro aspettative e non forniscono loro alcuna seria base per poter esercitare la professione scelta. In altre parole l’istituto viene così accusato di agire in maniera truffaldina
” (sentenza, consid. 15, pag. 11). Per il primo giudice, dunque, RI 1 è così “
andato ad intaccare molto più del semplice onore professionale o sociale dell’associazione concorrente: ne ha danneggiato l’immagine mettendone in discussione l’onestà
”, causando una lesione “
che non trova spazio nemmeno nel diritto penale, non solo nel diritto civile (a tal proposito cfr. sentenza 12 ottobre 2006 del Pretore del Distretto di _, pag. 9, AI 4)
” (sentenza, consid. 15, pag. 12).
5.2.
Secondo il ricorrente, il primo giudice ha ritenuto a torto che il messaggio incriminato è lesivo dell’onore dell’associazione PC 1. Egli rileva come la frase “
la PC 1 non è riconosciuta nel sistema universitario svizzero
” non lede l’onore dell’associazione, né rende moralmente disprezzabile la sua attività o i suoi scopi: esistendo in Svizzera diverse università private che “
svolgono legittimamente l’attività di insegnamento senza bisogno di autorizzazione alcuna
(...)
e senza necessità di essere accreditate dalla Conferenza universitaria svizzera
”, il ricorrente si chiede come “
il fatto di non essere accreditata possa rendere disprezzabile l’attività della PC 1
”
(ricorso, pag. 10). Il ricorrente sottolinea, poi, come il giudice di prime cure abbia ammesso che l’affermazione incriminata corrisponde al vero tanto che sia il Tribunale federale che il capo dell’ufficio Studi universitari del Dipartimento dell’educazione, il Console italiano a _ , e l’organo di accreditamento e di garanzia della qualità delle istituzioni universitarie svizzere hanno già proferito la medesima affermazione.
A mente del ricorrente, nemmeno è sostenibile l’opinione del primo giudice secondo cui affermare che i titoli rilasciati “
non sono equipollenti a quelli delle università italiane
” equivalga a rendere “
moralmente disprezzabile l’attività della PC 1
”: non essendo “
rilasciati da un’università riconosciuta nel sistema universitario svizzero, la loro non equivalenza con titoli universitari riconosciuti italiani è un’ovvietà
” (ricorso, pag. 10). Anche questa affermazione – continua il ricorrente – è stata ritenuta vera dal primo giudice ed è già stata proferita dal Tribunale federale e dal capo dell’ufficio Studi universitari del Dipartimento dell’educazione.
Infine, a mente del ricorrente nemmeno l’affermazione
“i titoli non hanno valore legale nemmeno in Svizzera”
lede l’onore della PC 1: essa
“non significa infatti assolutamente nulla, per il semplice motivo che in Svizzera non esiste il concetto di valore legale (cfr. la circolare Formazione universitaria offerta da enti privati edita dall’Ufficio degli studi universitari [...]), nemmeno quale garanzia della qualità e valore dei titoli accademici”
(ricorso, pag. 11). Non è, dunque vero che, come ritenuto dal pretore,
“i titoli della PC 1 sono carta straccia”
: ma
“anche se così fosse, si tratterebbe eventualmente di un giudizio poco lusinghiero sulla qualità professionale dell’attività svolta dalla PC 1 e sui suoi titoli; non certo di un’affermazione sulla spregevolezza e ripugnanza morale della stessa”
(ricorso, pag. 11). Il ricorrente contesta infine recisamente l’interpretazione del primo giudice, secondo cui dal messaggio nel suo complesso si evince che la PC 1 inganna i propri studenti, di fatto truffandoli:
“non c’è la minima traccia nel messaggio incriminato ad un inganno perpetrato dalla PC 1, né al fatto che le sue prestazioni non corrisponderebbero alle aspettative degli studenti, né all’utilità professionale dei diplomi professionali rilasciati”
;
“del resto, tutto il messaggio è chiaramente rivolto all’attività e titoli accademici (non a quelli professionali) come ricorda il titolo del messaggio stesso (
«
Università PC 1 _ Non Riconosciuta
»
, cfr. doc. A1 allegato all’AI1) ed il richiamo appunto al sistema universitario svizzero ed all’equivalenza con titoli universitari italiani”
(ricorso, pag. 11). L’ipotesi di truffa non è, dunque, né esplicitamente menzionata, né suggerita in maniera nascosta:
“di accuse di agire truffaldino non vi è nemmeno l’ombra”
(ricorso, pag. 11). Il ricorrente conclude, su questo punto, il suo esposto osservando che
“ognuno (e quindi anche la PC 1) deve sopportare le critiche (persino infondate) dirette alla sua attività professionale, senza che in ciò si possa ravvedere una diffamazione”
(ricorso, pag. 12).
5.3.
L’art. 173 cpv. 1 CP punisce a querela di parte chi, comunicando con un terzo, incolpa o rende sospetta una persona di condotta disonorevole o di altri fatti che possono nuocere alla riputazione di lei. Giusta l’art. 176 CP è parificata alla diffamazione verbale la diffamazione commessa mediante scritti, immagini, gesti o qualunque altro mezzo.
Gli art. 173 segg. CP proteggono l’onore personale, la reputazione e il sentimento di essere un uomo d’onore, ossia di comportarsi secondo le regole e gli usi riconosciuti. In altre parole l’onore protetto è il diritto di ognuno di non essere considerato una persona da disprezzare
(DTF 128 IV 53;
Riklin
,
Basler Kommentar, StGB II, edizione 2007
, n. 5 segg. ad art. 173 segg. CP).
Sfuggono a tale protezione, per contro, quelle espressioni che, senza farla apparire spregevole, offuscano la reputazione di cui una persona gode nel proprio ambito professionale o politico o l’opinione che essa ha di sé stessa (DTF 119 IV 44 consid. 2a, 117 IV 27 consid. 2c; sentenza del Tribunale federale 6B_600/2007 del 22 febbraio 2008;
Donatsch, Strafrecht III, Delikte gegen den Einzelnen, 9a ed., Zurigo/Basilea/Ginevra 2008, pag. 354).
La tutela dell'onore è dunque meno ampia ove l'offesa verta su mere qualità socio-professionali o su comportamenti in tale ambito. Chi mette in dubbio la preparazione altrui in un determinato campo, la capacità politica, la disposizione artistica o l'abilità sportiva commette diffamazione solo se, oltre a ledere la reputazione del soggetto o la fiducia del soggetto in sé stesso, fa apparire quest'ultimo come una persona spregevole (Rehberg/ Schmid/ Donatsch
,
Strafrecht III, 9. ed. Zurigo 2008, p. 356). Per rapporto al diritto penale, il diritto civile offre una protezione più ampia alla persona offesa (DTF 107 II 4, consid. 2, 100 II 179, consid. 5).
Riguardo alle qualità socio-professionali di una persona, non è sufficiente negarle delle qualità, imputargli dei difetti, o abbassarla per rapporto a dei concorrenti; per contro, è data una lesione all’onore quando si evoca una infrazione penale o un comportamento chiaramente disapprovato dalle concezioni morali generalmente ammesse (Corboz, op. cit., ad art. 173 n. 6 e 11; Riklin, op. cit., n. 18 ad art. 173 segg. CP).
Anche una persona giuridica in quanto tale può essere vittima di un reato contro l'onore (DTF 126 IV 266, consid.
2a; 114 IV 15, consid. 2a; Riklin, op. cit., n. 29 ss. ad art. 173 ss. CP; Rehberg / Schmid / Donatsch, op. cit., p. 320 e 321; Corboz, op. cit., n. 20 ss. e 26 ss. ad art. 173 CP; Trechsel, op. cit., n. 13, 15 e 16 ad art. 173 ss.
CP).
Perché vi sia diffamazione, occorre un’allegazione di fatto, e non semplicemente un giudizio di valore (DTF 117 IV 27). Se l’allegazione sia tale da nuocere alla reputazione di una persona è una questione da decidere non secondo il senso che possono averle dato quelli che l’hanno sentita, ma secondo il senso che essa ha in base ad un’interpretazione oggettiva, ovvero secondo il senso che, nelle circostanze concrete, le attribuisce l’uditore o il lettore non prevenuto (DTF 128 IV 53, 119 IV 44; STF 11 agosto 2008, inc. 6B_356/2008, consid.
4.1; Rep. 1995, pag. 9; Riklin, op. cit., n. 23 segg. ad art. 173 segg.
CP; Corboz, op. cit., n. 42 ad art. 173 CP). Trattandosi di uno scritto, l’allegazione deve essere analizzata non solo in funzione delle espressioni utilizzate, prese separatamente, ma anche secondo il senso generale che emerge dal testo nel suo insieme. Le espressioni non devono dunque essere valutate asetticamente, ma in funzione del contesto comunicativo in cui esse si inseriscono (DTF 6S.664/2001; 128 IV 53, 60; 124 IV 162, 167; DTF 117 IV 27, 30; DTF 115 IV 42).
La determinazione del contenuto di una espressione o di una dichiarazione è una questione di fatto, mentre l'interpretazione del senso delle affermazioni incriminate è una questione di diritto, come tale esaminabile nell'ambito di un ricorso per cassazione (DTF 131 IV 160, consid. 3.3.3).
5.4.
Le argomentazioni del giudice di prime cure in relazione all’interpretazione del senso delle affermazioni incriminate non possono essere condivise: le dichiarazioni che il ricorrente ha inserito in svariati forum internet riguardanti la PC 1 non possono infatti essere ritenute lesive dell’onore dell’associazione in questione.
E’ indubbio che le affermazioni incriminate vertono sull’attività svolta dalla scuola a titolo professionale: si tratta, come visto sopra, di un ambito nel quale la giurisprudenza ha sancito che vi è diffamazione soltanto qualora le espressioni utilizzate facciano apparire il soggetto come una persona spregevole, un’affermazione lesiva della reputazione non essendo da sola sufficiente a configurare il reato.
Il fatto che un’associazione il cui scopo sociale è volto all’istruzione accademica e al perfezionamento a carattere scientifico e di ricerca “
non è riconosciuta nel sistema universitario svizzero
” non è certo circostanza che rende l’associazione spregevole o che evoca la commissione di un’infrazione penale o l’adozione di comportamenti chiaramente disapprovati in base a concezioni morali generalmente ammesse.
L’attività di formazione universitaria di adulti è fondata sulla libertà della scienza (art. 20 Cost.) e sulla libertà economica (art. 27 Cost.) e, come del resto ricordato dal Consiglio di Stato (risoluzione n. 703 del 14 febbraio 2006) e dal Tribunale federale (STF 30 marzo 2007, inc. 2P.88/2006 e 2P.97/2006, consid. 3) in questo identico caso di specie, non necessita di riconoscimenti o autorizzazioni particolari per essere lecita. Il fatto di non essere riconosciuta nel sistema universitario svizzero non rende, pertanto, l’attività in questione immorale né può in qualunque modo sottintendere la commissione di un reato penale. Riferire, dunque – in modo peraltro conforme al vero – che la PC 1 non é riconosciuta nel sistema universitario svizzero significa semplicemente affermare che essa non dispone dell’accreditamento conferito dalla Conferenza universitaria svizzera (cfr. la LF dell’8 ottobre 1999 sull’aiuto alle università e la cooperazione nel settore universitario [LAU; RS 414.20] e la Convenzione tra la Confederazione e i Cantoni universitari sulla cooperazione nel settore universitario del 14 dicembre 2000 [RS 414.205]), e, pertanto, riferire di una circostanza che è ben lungi dall’adempiere i presupposti di una lesione all’onore socio-professionale dell’associazione.
L’affermazione secondo cui “
i titoli non hanno valore legale nemmeno in Svizzera
” è certamente imprecisa nella misura in cui il concetto di “valore legale” di un diploma non è definito nel diritto svizzero ma è, invece, conosciuto nella normativa italiana, in particolare lo si trova nel Regio Decreto n. 1592 del 31 agosto 1933 (Approvazione del testo unico delle leggi sull'istruzione superiore, Gazzetta Ufficiale 7 dicembre 1933, n. 283), tuttora in vigore, in particolare all’art. 148 par. 2, secondo cui gli studi compiuti e gli esami superati presso università o istituti superiori hanno valore legale per ogni altra università o istituto, e all’art. 170, che sancisce che i titoli accademici conseguiti all'estero non hanno valore legale nel Regno, salvo il caso di legge speciale. Il riconoscimento dei titoli accademici che non sono rilasciati da un’università italiana può quindi aver luogo in base ad accordi bilaterali stipulati con altri Paesi. Questa imprecisione non basta, però, a rendere la frase lesiva dell’onore nella misura in cui, inserita nel suo contesto, il lettore medio non può che interpretarla nel senso che “i diplomi universitari rilasciati dalla PC 1 non sono riconosciuti (non hanno valore, non sono validi) in Svizzera”. In questo senso, per quanto già detto sopra, non può essere preteso che l’affermazione – indipendentemente dalla sua conformità o meno alla realtà – abbia carattere lesivo dell’onore della PC 1.
Abbondanzialmente ma per pura opportunità si rileva che il primo giudice ha sbagliato esaminando la questione della veridicità della predetta affermazione in relazione ai diplomi professionali rilasciati dalla PC 1 (sentenza, consid. 17, pag 13). In effetti, è evidente per il contesto in cui essa è inserita che l’affermazione si riferisce unicamente ai diplomi di livello universitario rilasciati dalla parte civile.
Infine, l’affermazione secondo cui i titoli rilasciati dall’associazione “
non sono equipollenti a quelli delle università italiane
” è un semplice corollario delle due affermazioni di cui s’è appena detto: per quanto sommaria e priva di riferimenti ad un’eventuale normativa in tal senso (si pensi ad esempio all’Accordo tra il consiglio federale svizzero ed il governo della repubblica italiana sul reciproco riconoscimento delle equivalenze nel settore universitario del 7 dicembre 2000 [RS 0.414.994.541] o al sistema instaurato dall’Accordo sulla libera circolazione delle persone in vigore tra Svizzera e Stati membri dell’Unione Europea [ALCP; RS 0.142.112.681]), essa non fa che sottolineare il fatto che, non trattandosi di diplomi riconosciuti nel sistema universitario svizzero (ovvero, non trattandosi di diplomi rilasciati da una struttura accreditata dalla Conferenza universitaria svizzera), quelli rilasciati dalla PC 1 non sono parificati ai titoli rilasciati da un’università italiana. E’ appena il caso di ribadire che il fatto che i titoli rilasciati dall’associazione non
siano
equivalenti a quelli delle università italiane non rende l’attività svolta dalla scuola immorale, truffaldina o disonesta. Non si vede come una tale affermazione possa far apparire l’associazione in questione come spregevole, indipendentemente dal fatto che l’affermazione sia riconosciuta come sostanzialmente vera anche dal primo giudice (sentenza, consid. 17, pag. 13).
Pertanto e riassumendo, sia analizzata in ogni sua componente sia in base al senso generale che emerge dal testo nel suo insieme, la frase incriminata non può che essere interpretata da un lettore medio nel senso che i titoli di studio universitari rilasciati dalla PC 1 non sono riconosciuti né in Svizzera né in Italia. Se è vero che da quest’affermazione il lettore medio non prevenuto può dedurre l’immagine di una scuola di scarso richiamo visto che offre diplomi non riconosciuti istituzionalmente e, quindi, poco attrattivi per il mercato del lavoro, ciò non basta ad integrare i presupposti di cui all’art. 173 CP che esige, per la sua applicazione, una lesione dell’onore che può derivare soltanto da affermazioni riferenti di attività
spregevoli,
truffaldine o oggetto di disapprovazione in funzione di norme morali generalmente riconosciute nel contesto sociale in cui opera chi pretende di essere vittima di un simile reato. Ciò che non è il caso in concreto.
Su questo punto, il ricorso deve, pertanto, essere accolto e la condanna per diffamazione di RI 1 deve essere annullata.
6.
Visto l’esito del ricorso, gli oneri processuali vanno caricati allo Stato (art. 15 cpv. 2 CPP), che verserà fr. 1'000.- a RI 1 per ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,010 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
d5eb51b4-3559-504b-866f-024b0b15ada4 | in fatto: A. _
e _ erano rispettivamente presidente e membro del consiglio di amministrazione della società anonima _, che gestiva un omonimo ristorante ad _, per il quale lavoravano vari dipendenti stranieri tassati alla fonte. Nel primo e nel secondo trimestre del 1997 la ditta ha regolarmente trattenuto l'imposta dagli stipendi dei dipendenti per un totale di fr. 12'356.90. I contributi in questione, accantonati in un primo tempo per essere riversati all'amministrazione cantonale delle contribuzioni, sono stati usati per pagare fornitori e stipendi. La società è stata dichiarata fallita con decreto del 24 marzo 1998 del Pretore della giurisdizione di _ e l'Ufficio imposte alla fonte non ha potuto riscuotere l'importo menzionato.
B.
Con decreti di accusa del 13 ottobre 1999 il Procuratore pubblico ha ritenuto _ e _ autori colpevoli di appropriazione indebita di imposte alla fonte compiuta in correità tra loro. Il primo è stato condannato a 3 giorni di detenzione sospesa condizionalmente per 2 anni, a valere come pena aggiuntiva a quella di 5 giorni di detenzione (sospesa condizionalmente per 2 anni) inflitta dal Ministero pubblico il 28 settembre 1998. La seconda si è vista irrogare una multa di fr. 200.–. A entrambi è stato imposto inoltre il versamento in solido di fr. 12'356.90 all'Ufficio imposte alla fonte. Statuendo su opposizione, con sentenza del 2 febbraio 2000 il Pretore della giurisdizione di _ ha prosciolto ambedue gli imputati.
C.
Contro la sentenza del Pretore il Procuratore pubblico ha inoltrato il 3 febbraio 2000 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta del 25 febbraio 2000 egli chiede in sostanza la conferma dei decreti di accusa. Non sono state presentate osservazioni al ricorso. | Considerando
in diritto: 1.
Secondo l’art. 270 LT chiunque, tenuto a trattenere un’imposta alla fonte, impiega a profitto proprio o di un terzo la ritenuta di imposta, è punito con la detenzione o con la multa fino a 30’000.– franchi. La Corte di cassazione e di revisione penale ha avuto modo di stabilire che nel quadro dell'art. 270 LT trovano applicazione – per analogia – i principi esposti in DTF 117 IV 78 segg. con riferimento all’art. 87 cpv. 3 LAVS (CCRP, sentenza del 28 gennaio 1999 in re L., consid. 2a). In quel precedente il Tribunale federale aveva modificato la propria giurisprudenza, precisando che una sottrazione di contributi del lavoratore allo scopo cui sono destinati sussiste solo se il datore di lavoro, al momento in cui versa il salario, utilizza le somme di denaro (disponibili) necessarie per il pagamento dei contributi, o i mezzi finanziari corrispondenti, a fini diversi dal versamento alla cassa di compensazione, in modo tale da doversi presumere che egli non sarà più in grado di adempiere il suo obbligo alla scadenza del termine impartitogli. Sempre secondo il Tribunale federale, l’art. 87 LAVS presuppone che il datore di lavoro disponga, nel momento in cui versa il salario ai lavoratori, dei mezzi necessari o di un corrispondente substrato che, operato detto versamento, egli possa tenere a disposizione della cassa. Solo i contributi effettivamente detratti possono essere destinati ad altro scopo (
zweck-entfremdet
). La semplice omissione del pagamento alla cassa non costituisce sottrazione sino a che il datore di lavoro dispone di un substrato sufficiente ed è in grado di effettuare il versamento dovuto. Al datore di lavoro è concesso di operare con tale substrato, fermo restando che egli deve essere oggettivamente in grado di far fronte al proprio obbligo alla scadenza dell’ultimo termine concessogli (CCRP, sentenza del 28 gennaio 1999 citata).
2.
Il Pretore ha accertato nella fattispecie sia le condizioni oggettive sia quelle soggettive del reato, non risultando circostanze che escludessero l'illiceità dell'azione. Esaminando la colpa, nondimeno, egli ha ritenuto che, seppure in concreto appariva difficile intravedere una possibilità di salvare la ditta, la speranza di evitare il fallimento tacitando fornitori e dipendenti poteva costituire un valido motivo per escludere la responsabilità penale, o comunque un motivo tale da lasciar concludere che l'agire degli imputati non poteva essere considerato colpevole, siccome scusabile e umanamente comprensibile. A mente del Procuratore pubblico, per contro, l'illecito addebitato agli accusati è un reato di commissione e non – come ritiene il Pretore – di omissione, sicché non può essere riconosciuta esclusione di colpa per il solo fatto che non si potesse ragionevolmente pretendere dagli imputati un comportamento conforme alla legge. Costoro del resto non avevano adottato alcun accorgimento per ovviare alla situazione, né potevano invocare come situazione assimilabile allo stato di necessità il principio della tutela di interessi legittimi, mentre l'umana comprensione poteva se mai essere presa in considerazione nell'ambito della commisurazione della pena, ma non come esclusione di colpa.
3.
Il reato previsto dall'art. 270 LT è effettivamente un reato di commissione e non di omissione, tant'è che la norma definisce il comportamento non come omissione del versamento dei contributi dei lavoratori, bensì descrive il comportamento penalmente rilevante come impiego dell'imposta alla fonte ritenuta a profitto proprio o di un terzo (cfr. per analogia il testo dell'art. 87 cpv. 3 LAVS in DTF 117 IV 81 consid. 2c). Certo, il Tribunale federale ha già avuto modo di domandarsi se l'obbligo di conservare il substrato necessario per riversare i contributi dei lavoratori non debba lasciare spazio, in determinate circostanze, al dovere di intraprendere, in una situazione di necessità, tutto quanto occorra per salvare un'azienda. Se non che, la questione di sapere se e a quali condizioni un datore di lavoro possa attingere a tale substrato e se una scelta del genere possa risultare scusabile per non potersi ragionevolmente pretendere un comportamento conforme alla legge è stata lasciata aperta (DTF 117 IV 83 consid. 2e in fine). Situazioni del genere potrebbero ravvisarsi invero, per analogia, in uno stato di necessità scusabile o in un eccesso di legittima difesa (
Stratenwerth
, Schweizerisches Strafrecht, Parte generale I, 2
a
edizione, 1996, § 11, n. 72 segg.). Nel caso in esame risulta semplicemente, però, che gli imputati sapevano di dover riversare le somme trattenute sullo stipendio dei lavoratori, ma che ciò nonostante hanno preferito saldare altri debiti, in particolare i salari dei dipendenti. Né Pretore ha accertato che – per ipotesi – _ si sia curato di cercare finanziamenti a tale scopo, di accantonare nuovamente la somma oppure avesse motivo di credere che la situazione sarebbe migliorata entro breve o che l'incasso di eventuali fatture scoperte avrebbe permesso di liquidare debiti arretrati (sentenza impugnata, consid. 2). Lo stesso Pretore ha ritenuto, anzi, che il fatto di usare denaro dei lavoratori per pagare i dipendenti medesimi costituiva un atteggiamento penalmente illecito (consid. 3 in fine). Che gli imputati avessero esaurito le vie legali per ovviare alla situazione, in altri termini, non risulta né dall'istruttoria né del giudizio impugnato. Quand'anche umanamente comprensibile, il loro comportamento non giustificava quindi il proscioglimento dall'accusa.
4.
L'accoglimento del ricorso impone alla Corte di cassazione e di revisione penale di commisurare la pena in virtù dell'art. 296 cpv. 1 CPP (cui rinvia l'art. 278 cpv. 2 CPP). Ora, giusta l’art. 63 CP il giudice commisura la pena alla colpa del reo, tenendo conto dei motivi a delinquere, della vita anteriore e delle condizioni personali di lui. Nella fattispecie il Procuratore pubblico aveva proposto la condanna di _ a 3 giorni di detenzione (sospesi condizionalmente per 2 anni) e di _ a una multa di fr. 200.–. Tenuto conto delle circostanze concrete in cui il reato si è perfezionato, del fatto che la pena detentiva corrisponde al minimo previsto dalla legge (art. 36 CP) e che l’importo della multa si situa nella fascia bassa dei limiti edittali (art. 48 CP), le pene proposte dal pubblico Ministero meritano conferma, risultando adeguate alla gravità del reato, alle funzioni degli imputati nell'ambito della società e alle colpe di loro.
5.
Gli oneri processuali del presente giudizio vanno a carico dello Stato (art. 15 cpv. 2 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,000 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
d6784aed-067d-5ac1-9042-8ada8014af02 | in fatto:
che con decreto di accusa del 9 febbraio 2000 il Procuratore pubblico ha proposto la condanna di _ a quindici giorni di detenzione, sospesi condizionalmente per un periodo di prova di due anni, siccome ritenuto colpevole di conseguimento fraudolento di una falsa attestazione ex art. 253 CP per avere, il 10 aprile 1990, usando inganno, indotto un notaio ad attestare in un rogito un fatto di importanza giuridica contraria al vero;
che con ricorso del 21 febbraio 2000 _. facendo valere la prescrizione dell'azione penale, ha impugnato il decreto di accusa (intimato il 9 febbraio precedente) dinanzi alla Camera dei ricorsi penali del Tribunale di appello, la quale ha però respinto il gravame con sentenza del 24 marzo 2000;
che contro la sentenza della Camera dei ricorsi penali _ è insorto con ricorso di diritto pubblico del 3 maggio 2000 al Tribunale federale, chiedendo – previa concessione dell'effetto sospensivo – l'annullamento della stessa e il rinvio degli atti all'autorità cantonale per una nuova decisione;
che con sentenza del 19 maggio 2000 il Tribunale federale ha dichiarato inammissibile il ricorso, prescindendo da una decisone sull'istanza di effetto sospensivo, considerandola priva di oggetto e comunque destinata anche essa a un giudizio di inammissibilità in quanto non motivata;
che in precedenza, ossia il 2 maggio 2000, _ ha interposto a titolo cautelativo opposizione al decreto di accusa ai sensi dell'art. 208 cpv. 1 lett. e CPP (act. A);
che con scritto del 5 maggio successivo il Procuratore pubblico ha trasmesso gli atti del procedimento per competenza al Pretore della Giurisdizione di Locarno–Campagna (art. 211 CPP), sollevando serie riserve sulla tempestività dell'opposizione proposta da _ conto il decreto di accusa;
che dal canto suo _, con scritto del 26 giugno successivo, ha comunicato al Pretore di considerare tempestiva l'opposizione del 2 maggio 2000, facendo valere di essere insorto il 3 maggio con ricorso di diritto pubblico al Tribunale federale contro la sentenza emanata il 24 marzo 2000 dalla Camera dei ricorsi penali e pretendendo che tale sentenza è passata in giudicato soltanto il 15 maggio successivo, per cui il termine di 15 giorni ex art. 208 cpv. 1 lett. e CPP per opporsi al decreto iniziava addirittura a decorre soltanto da quel momento;
che con sentenza del 12 luglio 2000 il Pretore della Giurisdizione di Locarno–Campagna, ha dichiarato senza ulteriori formalità tardiva l'opposizione al decreto di accusa inoltrata il 2 maggio 2000 da _, decretandone pertanto il passaggio in giudicato;
che egli ha rilevato, in estrema sintesi, che il termine per inoltrare la relativa opposizione – rimasto sospeso nelle more del giudizio sul ricorso pendente davanti alla Camera dei ricorsi penali – ha ricominciato a decorrere, in virtù dell'art. 212 CPP cpv. 2 , con l'intimazione della decisione emanata dalla stessa Camera dei ricorsi penali (il 5 aprile 2000 nella versione più favorevole al prevenuto), dato che il successivo ricorso di diritto pubblico al Tribunale federale non ne ha impedito il passaggio in giudicato, trattandosi di un rimedio di diritto straordinario;
che contro la sentenza pretorile _ ha inoltrato il 13 luglio 2000 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale;
che nella motivazione del gravame – proposta il 21 luglio successivo alla Camera dei ricorsi penali – _ chiede l'annullamento della sentenza impugnata e il rinvio degli atti al Pretore per nuova decisione;
che con osservazioni del 27 luglio 2000 il Procuratore pubblico ha chiesto la reiezione del ricorso. | Considerando
in diritto:
che competente a statuire sul ricorso, non è la Camera dei ricorsi penali, ma la Corte di cassazione e di revisione penale, dato che la decisione impugnata costituisce il giudizio sull'opposizione al decreto di accusa inoltrata dal prevenuto, e quindi,
mutatis mutandis
, la sentenza che pone fine al procedimento di prima sede (art. 288 cpv. 1 CPP), ove si consideri che il Pretore, accertata l'intempestività dell'opposizione, ha per finire decretato anche l'esecutività del decreto di accusa;
che, in altri termini, il Pretore ha stabilito che l'opposizione non può essere vagliata, facendo difetto un presupposto processuale, ovvero la tempestività dell'atto richiesto nei termini stabiliti dal codice di procedura penale;
che giustamente il primo giudice ha ritenuto che il termine per formulare opposizione ai sensi dell'art. 208 cpv. 1 lett. e CPP, è rimasto sospeso nelle more del giudizio sul ricorso proposto il 21 febbraio 2000 alla Camera dei ricorsi penali contro il decreto di accusa (art. 212 cpv. 2 CPP) e che esso è ricominciato a decorre appena che la stessa Camera dei ricorsi penali ha notificato la sentenza, che ha respinto il gravame;
che, infatti, come correttamente rilevato nella sentenza impugnata, il ricorso di diritto pubblico costituisce un rimedio straordinario, che non impedisce al giudizio cantonale impugnato di passare in giudicato, a meno che il presidente della Corte del Tribunale federale adita accordi effetto sospensivo al ricorso (at. 94 OG);
che nella fattispecie, il richiamo del ricorrente al fatto che con il ricorso di diritto pubblico sia stato chiesto l'effetto sospensivo e che sul medesimo il Tribunale federale si sia pronunciato soltanto con la sentenza di merito (dichiarando comunque l'istanza priva di oggetto, rispettivamente addirittura inammissibile per carenza di motivazione), non è di alcuna rilevanza,
che, intanto, al momento di chiedere l'effetto sospensivo (con il ricorso del 3 maggio 2000), il termine per presentare opposizione entro il termine di 15 giorni stabilito dall'art. 208 cpv. 1 lett. e CPP (che come visto ha ripreso a decorrere in virtù dell'art. 212 cpv. 2 CPP con l'intimazione della sentenza emanata il 24 marzo 200 dalla Camera dei ricorsi penali) era ampiamente scaduto;
che, d'altro canto, non risulta nemmeno che il presidente della Corte adita del Tribunale federale abbia ordinato all'autorità cantonale di non prendere alcuna misura durante la procedura ricorsuale federale, ossia che egli abbia accordato effetto sospensivo inaudita parte almeno fino alla decisione sull'istanza provvisionale, rispettivamente che egli abbia assegnato all'autorità cantonale e al Procuratore pubblico un termine per le osservazioni prima di statuire al riguardo;
che risulta per contro che il Tribunale federale non ha preso in considerazione la richiesta di effetto sospensivo, avendola esso per finire dichiarata priva di oggetto e comunque inammissibile per carenza di motivazione;
che d'altro canto il ricorrente trascura che il Tribunale federale ha dichiarato inammissibile il ricorso di diritto pubblico nella sua totalità, richiamando in questo modo l'errata scelta – dal profilo della strategia processuale – del rimedio di diritto proposto;
che al ricorrente non giova nemmeno il riferimento alla sentenza emanata il 15 maggio dalla Camera dei ricorsi penali sull'istanza di esclusione del 9 maggio 2000 del Pretore di Vallemaggia, ove sarebbe stata richiamata, a suo giudizio, la circostanza della tempestività dell'opposizione;
che al momento in cui la Camera dei ricorsi penali si sarebbe espressa in questo modo, infatti, il termine per inoltrare opposizione era comunque già ampiamente scaduto;
che pertanto il richiamo alla buona fede si rivela già d'acchito privo di pregio;
che al primo giudice non può nemmeno essere fatto carico di avere violato l'art. 274 CPP, ossia di avere statuito senza sentire le parti al pubblico dibattimento;
che una formalità di questo tipo sarebbe infatti risultata superflua, ritenuto per l'appunto la palese assenza di un presupposto processuale, quale la tempestività dell'opposizione, che non avrebbe consentito al Pretore di determinarsi sul merito dell'opposizione;
che, in ogni modo, le parti hanno avuto occasione di esprimersi sul problema con gli scritti del 5 maggio 2000 (Procuratore pubblico) e del 26 giugno 2000 (ricorrente);
che ci si potrebbe nondimeno chiedere se il ricorso alla Camera dei ricorsi penali contro il decreto d'accusa possa essere considerato anche come opposizione ai sensi dell'art. 208 cpv. 1 lett. e CPP;
che al quesito – peraltro non avvertito nel ricorso – deve essere data risposta negativa, l'art. 212 cpv. 2 CPP stabilendo espressamente che il ricorso alla Camera dei ricorsi penali contro il decreto di accusa sospende il termine per presentare opposizione al Procuratore pubblico e quindi al Pretore;
che, per queste ragioni, il ricorso deve essere disatteso, siccome manifestamente infondato, con carico degli oneri processuali al ricorrente (art. 15 cpv. 1 CPP);
richiamata per le spese la LTG; | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,000 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
d6c9c1a5-2eef-52ad-bc96-d261853236b1 | in fatto: A.
Con decreto di accusa del 21 aprile 2004 il Procuratore pubblico ha riconosciuto RI 1 autore colpevole di ripetuta calunnia per avere, a _ il 7 marzo 2001 e il 17 marzo 2004, reso sospetta la _ SA di condotta disonorevole e di altri fatti lesivi della sua reputazione. Per quanto riguarda il 7 marzo 2001, l'accusa si riferiva a una lettera indirizzata quel giorno all'allora presidente del Consiglio di Stato _, in cui l'accusato sosteneva che “il proprio caso era stato depistato ed insabbiato”, la banca avendo ordinato il
7 gennaio 1985 all'allora Procuratrice pubblica _ di estendere a lui le imputazioni mosse dalla banca contro un suo dirigente e di emettere nei suoi confronti un mandato di cattura internazionale. E i responsabili
di ciò, stando alle dichiarazioni rilasciate dal malavitoso _ dopo l'arresto, dovevano essere ricercati all'interno dell'istituto. Quanto ai fatti del 17 marzo 2004, si trattava di una lettera indirizzata il 17 marzo 2004 all'Ufficio di esecuzione di _ in allegato a una domanda di esecuzione, poi alla base di un precetto esecutivo contro lo stesso istituto. In quello scritto RI 1 ripeteva le medesime accuse e soggiungeva che la banca, per il tramite di suoi funzionari e dietro compenso di 300
000 dollari, aveva istigato i malavitosi _ e l'avv. _ a rapirlo. Tali affermazioni erano state proferite nonostante egli fosse a conoscenza di un decreto di abbandono emanato l'8 gennaio 1987 dal Procuratore pubblico sottocenerino nei confronti di responsabili e legali della banca, da lui accusati di denuncia mendace, sviamento della giustizia, falsa testimonianza e diffamazione. Ciò posto, nei confronti di RI 1 il Procuratore pubblico ha proposto una multa di fr. 800.– e l'espulsione per 3 anni, pena sospesa condizionalmente per 2 anni.
B.
Statuendo su opposizione, con sentenza del 17 settembre 2004 il presidente della Pretura penale ha confermato l'imputazione e la multa, ma non la pena accessoria, non essendo l'accusato stato condannato alla detenzione o alla reclusione.
C.
Contro il predetto giudizio RI 1 ha inoltrato il 21 settembre 2004 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta del 26 ottobre 2004 egli chiede di essere prosciolto dall'imputazione ascrittagli, rispettivamente di dichiarare prescritta l'azione penale per il primo reato e improcedibile per mancanza di querela l'azione relativa al secondo. Il ricorso non ha formato oggetto di intimazione. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorrente esordisce rilevando che il decreto emanato dal Procuratore pubblico l'8 gennaio 1987 era solo formalmente e nominalmente un abbandono, ma nella sostanza era un non luogo a procedere poiché fondato unicamente su informazioni preliminari. Di conseguenza, solo un decreto di abbandono potendo passare in giudicato, il presidente della Pretura penale non poteva dare per acquisiti determinati fatti (consid. 8b). A torto. In effetti, trattandosi di un decreto emesso nel 1987, faceva stato il Codice di procedura penale del 10 luglio 1941, il quale prevedeva che se il Procuratore pubblico, esaminata la denuncia e gli atti delle informazioni preliminari, non trovava motivi sufficienti per promuovere il procedimento penale, pronunciava l'abbandono, dandone avviso al denunciato e alla parte lesa (art. 144 cpv. 2 vCPP). Il procedimento poteva essere ripreso, a giudizio del Procuratore, qualora fossero state scoperte nuove prove (art. 145 vCPP).
Con le modiche promulgate il 23 settembre 1992 (entrate in vigore il 1° gennaio 1993) e del 19 dicembre 1994 (entrate in vigore il 1° gennaio 1996) il legislatore ha distinto invero fra decreto di non luogo a procedere (emanato in alternativa alla promozione dell'accusa: art. 143 cpv. 2 vCPP e 184 CPP) e decreto di abbandono (emanato una volta compiuta l'istruzione formale: art. 171
c
vCPP e 214 cpv. 1 CPP), conferendo espressamente forza di giudicato solo a quest'ultimo, riservata la sua revoca (art. 171
i
vCPP e 220 CPP), ove si scoprano fatti o mezzi di prova rilevanti non emersi durante l'istruttoria formale e finché l'azione penale non sia prescritta (art. 171
l
cpv. 1 vCPP e 221 cpv. 1 CPP). Tali norme però sono successive al decreto in esame, il cui contenuto rimaneva vincolante finché il Procuratore pubblico avesse ripreso il procedimento di fronte a nuove prove (art. 145 CPP in vigore l'8 gennaio 1987). Ora, stando ai vincolanti accertamenti della sentenza impugnata, dopo il decreto di abbandono dell'8 gennaio 1987 non sono più seguiti altri atti che modificassero la situazione, circostanza di cui l'accusato era al corrente (consid. 8b in fine). Dando per acquisiti i fatti esposti nel decreto, di conseguenza, il presidente della Pretura penale non ha violato norme di procedura.
2.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288 lett. a e b CPP). L'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono sindacabili unicamente qualora la sentenza impugnata denoti estremi di arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì apertamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia 369 consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev'essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con rinvii).
3.
In merito all'asserzione dell'accusato, secondo cui la banca ha ordinato il 7 gennaio 1985 al Procuratore pubblico, per il tramite del proprio legale, di arrestarlo, il presidente della Pretura penale ha constatato che in realtà si era trattato di una semplice segnalazione con richiesta di intervento, non di un ordine alla magistratura. Che l'allora Procuratrice pubblica _ avesse reagito nel giro di due settimane, emettendo un ordine di arresto internazionale nei confronti di lui, era dovuto al fatto che egli era già inquisito – come si desume da un verbale d'interrogatorio del 18 dicembre 1984 di _ – per l'esistenza di indizi a suo carico. Tant_ figurava un passaggio circa il coinvolgimento di lui (consid. 8a). In ogni caso – ha proseguito il primo giudice – dal decreto di abbandono dell'8 gennaio 1987 si evince che il procedimento pendente contro RI 1 era stato avviato a prescindere dalla lettera in questione. Donde la deduzione che l'imputato sapeva sin dal 1987, come del resto aveva ammesso in aula, del decreto di abbandono e del suo contenuto (consid. 8b). A titolo abbondanziale il presidente della Pretura penale ha menzionato il non luogo a procedere emanato il 19 giugno 1995 in seguito alla segnalazione del dicembre 1994 di RI 1 circa l'operato dei magistrati nella vicenda che lo aveva coinvolto, confermato dalla Camera dei ricorsi penali il 20 novembre 1996, come pure la decisione di non avviare una procedura disciplinare presa il 4 maggio 1998 dal Consiglio della magistratura (consid. 8c). Per concludere, il primo giudice ha dedotto dalle circostanze citate che, per quel che riguardava le due lettere di cui al decreto di accusa, RI 1 sapeva di dire cosa non vera. In particolare sapeva di non poter affermare che la banca aveva dato ordini alla magistratura e sviato o insabbiato le indagini (consid. 8d).
4.
Il ricorrente asserisce che, nel noto decreto di abbandono essendo menzionato un telex inviato il 14 dicembre 1985 (recte: 1984) dalla Procura pubblica alle banche ticinesi in vista della perquisizione e del sequestro di svariati conti bancari comprendenti anche i suoi e quelli di sue società, se tali conti non erano soltanto di sua pertinenza e di sue società, anche contro terzi avrebbe dovuto essere avviato un procedimento penale e che il procedimento nei suoi confronti dev'essere stato promosso al più tardi il 14 dicembre 1984. Se non che – egli prosegue – ciò è smentito dagli atti, poiché nessun procedimento contro terzi risulta essere stato avviato. Quello promosso a suo carico era del resto il n. 153 del 1985 e non poteva risalire ai primi dell'anno. La lettera del 7 gennaio 1985 con cui la banca chiedeva l'estensione dell'accusa, poi, faceva seguito a un colloquio di tre giorni prima con il Procuratore pubblico, sicché fino ad allora non vi erano procedimenti in atto nei suoi confronti. E il sospetto di essere stato convinto di dire il vero sarebbe rafforzato dal fatto che mai la banca aveva prodotto la relazione posta a fondamento della denuncia.
5.
Le argomentazioni testé riassunte denotano palese carattere appellatorio. In effetti il ricorrente non si confronta nemmeno di scorcio con le considerazioni del primo giudice sulla lettera del
7 gennaio 1985 o sul decreto di abbandono dell'8 gennaio 1987. Egli allude bensì a tali atti, ma non censura di arbitrio che il presidente della Pretura penale abbia qualificato la lettera come semplice segnalazione e richiesta di intervento, né tanto meno che scritti del genere siano usuali e non configurino alcun “ordine alla magistratura”. Per quanto concerne il decreto di abbandono dell'8 gennaio 1987, il ricorrente si limita a sostenere che la circostanza secondo cui il procedimento a suo carico sia stato avviato senza riguardo alla lettera in questione sarebbe falso e smentito dal contenuto del decreto stesso. A tal fine egli si appoggia al passaggio riguardante il telex inviato il 14 dicembre 1984 alle banche ticinesi, traendo deduzioni personali (“dovrebbero trarsi le seguenti conclusioni”), salvo poi sovvertirle con
elementi cui dà un'interpretazione personale (il fatto che contro altri non sia stato aperto un procedimento penale, che il procedimento aperto nei suoi confronti reca il n. 153 del 1985, che nella lettera del 7 gennaio 1985 la banca si riferisse a un colloquio del 4 gennaio, che fosse intercorsa previamente la trasfer_ in _) per concludere che proprio quella lettera è stata la causa del procedimento avviato nei suoi confronti. Per suffragare le proprie deduzioni il ricorrente si avvale anche di elementi (co_, mai prodotta dalla banca, e l'audizione di lui) che invano si cercherebbe nel giudizio impugnato. In definitiva, su questo punto il ricorso si esaurisce in congetture e deduzioni fondate su un'interpretazione personale di fatti – in parte anche nuovi – che, seppure non privi di un'apparente logicità, non sono atte a sostanziare il preteso arbitrio, poiché non dimostrano che le conclusioni cui è giunto il primo giudice sono manifestamente insostenibili o in aperto contrasto con gli atti.
6.
Quanto alle asserzioni dell'accusato circa il rapimento che sarebbe stato ordito dalla banca per il tramite di suoi funzionari, fondandosi su una sentenza emessa il 28 novembre 1986 dal Tribunale di _ (doc. H prodotto dalla difesa al dibattimento) il primo giudice ha accertato che un certo _, allettato dal compenso di 300
000 dollari, aveva progettato, d'intesa con _ _, di sequestrare RI 1 per sapere dove fosse il denaro. Entrambi sono poi stati condannati dal Tribunale di _, ma dalla sentenza in oggetto si evince unicamente che il funzionario di una banca della Svizzera italiana (non specificata) aveva promesso un compenso per ottenere informazioni sul luogo dove fossero i soldi, cosa tuttavia mai dimostrata. In ogni caso, da nulla risulta che la banca abbia mai ordito il sequestro di RI 1 o che fosse coinvolta nella vicenda (consid. 9a). Il 28 gennaio 1987 RI 1 aveva bensì sporto una denuncia contro _, _ e un ignoto funzionario della banca per tentato sequestro di persona ed estorsione, ma l'inchiesta si era conclusa con un decreto di abbandono emesso il 13 febbraio 1987, confermato dalla Camera dei ricorsi penali il 7 maggio 1987 (consid. 9b). Donde la conclusione che nelle due lettere oggetto del decreto di accusa l'accusato sapeva di non poter sostenere che la banca aveva prospettato il suo sequestro e nemmeno che i mandanti di quel rapimento andassero cercati all'interno dell'istituto (consid. 9c).
7.
Il ricorrente obietta che l'istituto menzionato nella sentenza del Tribunale di _ non poteva essere che la _, cui _ aveva esplicitamente fatto richiamo nell'interrogatorio. Per il resto egli solleva una serie di interrogativi che il presidente della Pretura penale
avrebbe dovuto porsi, concludendo che configura arbitrio sostenere che la banca non sia implicata nel tentato sequestro. Secondo il ricorrente, di fronte alla confessione di _, ritenuta attendibile dai giudici italiani, era legittimo ipotizzare che, attribuendo alla banca il disegno criminoso del sequestro, egli fosse convinto di proferire il vero. Inconferente sarebbe poi il riferimento al decreto di abbandono del 13 febbraio 1987 che, oltre a essere in realtà un non luogo a procedere, aveva archiviato la denuncia per incompetenza del giudice ticinese.
Così com'è formulata l'impugnazione si rivela irricevibile già per il fatto che il ricorrente si limita a sollevare interrogativi che avrebbe dovuto porsi il giudice di merito, ma non si confronta – una volta ancora – con le conclusioni cui questi è giunto, né tanto meno dimostra che tali accertamenti sarebbero in palese contrasto con gli atti. Del resto, se l'istituto indicato nella sentenza 28 novembre 1986 del Tribunale di _ era la PC 1, invano si cercherebbe in quel giudizio il benché minimo accenno a un'implicazione di essa nel tentato sequestro (doc. H citato, pag. 5 e 6). Circa la qualifica del (secondo) decreto di abbandono del 13 febbraio 1987 (archiviazione della denuncia per sequestro) come non luogo a procedere, esso non giova alle argomentazioni del ricorrente (sopra, consid. 1).
8.
Il ricorrente invoca lo stato di necessità relativamente alla lettera allegata alla domanda di esecuzione alla base del precetto esecutivo n. 1031861 emesso il 17 marzo 2004 dall'Ufficio di esecuzione di _ a carico della banca (act. 32). A suo dire, egli si trovava nell'assoluta necessità di menzionare i fatti posti a fondamento della richiesta risarcitoria allo scopo di interrompere la prescrizione del credito. Nemmeno una dichiarazione concisa e generica o telegrafica poteva fare a meno, perciò, di contenere un riferimento ai fatti costitutivi del credito, atti a incolpare l'istituto di fatti di rilevanza penale e di condotta disonorevole.
a)
Giusta l'art. 34 n. 1 CP il fatto commesso per preservare da un pericolo imminente e non altrimenti evitabile un patrimonio non è punibile se il pericolo non è imputabile all'agente e se, nelle circostanze del caso, non si può ragionevolmente pretendere che l'agente rinunciasse al bene minacciato. Se il pericolo è imputabile all'agente stesso o se, nelle circostanze del caso, si poteva ragionevolmente pretendere la rinuncia al bene minacciato, il giudice attenua la pena secondo il suo libero apprezzamento (art. 66 CP). L'atto necessario è lecito se il bene protetto è più prezioso di quello leso; è illecito ma scusato o non punibile quando il bene in contrasto sia di valore equiparabile (DTF 122 IV 1 consid. 2b pag. 4). Il pericolo dev'essere imminente, ossia attuale, concreto e non altrimenti evitabile (DTF 122 IV 1 consid. 3a e 3c pag. 5).
b)
Anche su questo punto il ricorso è privo di fondamento. Intanto, l'art. 67 cpv. 1 n. 4 LEF non è di aiuto poiché esso non obbliga il creditore a indicare nella domanda di esecuzione il titolo in base al quale il credito è esigibile (DTF 95 III 33 consid. 1 pag. 36). Se il debitore può capire dal contesto generale la ragione per cui è escusso, basta invero che il precetto esecutivo menzioni come causa il “risarcimento danni” (DTF 121 III 18 consid. 2 pag. 19). Inoltre, come rileva il primo giudice, lo stato di necessità può essere invocato unicamente se la messa in pericolo imminente di un bene protetto dal diritto penale non è altrimenti evitabile. Tale non è, evidentemente, un credito per risarcimento danni.
9.
Il ricorrente eccepisce altresì la prescrizione per quanto concerne i fatti relativi al 7 marzo 2001, asseverando che – contrariamente a quanto rileva il primo giudice – tra il 15 aprile 2002, data del suo interrogatorio, e il 21 aprile 2004, giorno in cui è stato emanato il decreto di accusa, non sono stati compiuti atti istruttori suscettibili di interrompere il termine.
a)
Premesso che alla fattispecie torna applicabile – in virtù della
lex mitior
– l'art. 178 vCP, che prevede la prescrizione ordinaria dell'azione penale per i delitti contro l'onore in due anni, come pure l'art. 72 n. 2 vCP per quanto riguarda gli atti interruttivi della prescrizione (e il termine di prescrizione assoluta di quattro anni), il presidente della Pretura penale non ha ravvisato prescrizione alcuna, accertando che dopo l'interrogatorio dell'accusato per rogatoria del 15 aprile 2002 sono stati compiuti vari atti interruttivi della prescrizione, con particolare riferimento agli atti 21 e 22 dell'incarto penale (pag. 5).
b)
Perché tali atti avrebbero interrotto la prescrizione, il presidente della Pretura penale non spiega, né indica quali altri atti avrebbero interrotto la prescrizione dell'azione penale giusta l'art. 72 n. 2 vCP. Ora, l'art. 72 n. 2 cpv. 1 vCP prevedeva che la prescrizione fosse interrotta da ogni atto d'istruzione di un'autorità incaricata del procedimento, come pure da ogni decisione del giudice diretta contro l'agente, in particolare da citazioni e interrogatori, da ordini di arresto o di perquisizione, da perizie e dall'esercizio di ogni rimedio giuridico contro una decisione. Secondo giurisprudenza, la prescrizione dell'azione penale è interrotta anche da ogni attività dell'autorità inquirente che giova alla prosecuzione del procedimento e che scaturisce effetti esterni (DTF 126 IV 5 consid. 1 pag. 7), a differenza – per esempio – di un semplice studio degli atti o di un ricerca di giurisprudenza (DTF 90 IV 63).
Per quanto riguarda l'act. 21 (lettera 6 maggio 2002 del Procuratore pubblico al patrocinatore dell'accusato), esso non era suscettibile di interrompere la prescrizione dell'azione penale. Quanto all'act. 22 (trasmissione da parte dell'Ufficio federale di giustizia, il 14 maggio 2002, degli atti raccolti in esecuzione della richiesta di assistenza giudiziaria formulata dal Ministero pubblico il 7 gennaio e il 18 febbraio 2002), la situazione è diversa. L'inoltro della domanda di assistenza giudiziaria alla Procura generale della Repubblica presso la Corte di appello di _ con cui si chiedeva l'interrogatorio del ricorrente sui fatti contenuti nella querela del 2 luglio 2001, seguita da un complemento il 18 febbraio 2002, ha infatti comportato utili sviluppi per il procedimento. Come si è visto, dopo l'audizione del ricorrente il 15 aprile 2002, gli atti della rogatoria sono stati trasmessi il 14 maggio 2002 dall'Ufficio federale di giustizia al Ministero pubblico, cui sono pervenuti il 16 maggio 2002. Tali atti sono stati inseriti nell'incarto in quella data o poco dopo, ciò che equivale alla decisione di acquisire materiale processuale atta a consentire il seguito del procedimento. Di conseguenza, l'acquisizione della commissione rogatoria va considerata come atto interruttivo della prescrizione (art. 72 n. 2 CP; cfr. DTF 73 IV 258 segg.;
Trechsel
, StGB, Kurzkommentar, 2a edizione, n. 2 ad art. 72 CP). E nelle circostanze descritte è superfluo esaminare se altri atti abbiano sortito il medesimo effetto.
10.
Infine il ricorrente eccepisce la mancanza di querela riguardo ai fatti del 17 marzo 2004. A torto. Sotto il profilo dell'art. 28 cpv. 1 CP basta esprimere la volontà incondizionata che l'autore dell'infrazione sia perseguito. Per la forma fanno
stato le norme del diritto cantonale (DTF 128 IV 81 consid. 2a pag. 83, 118 IV 167 consid. 1b pag. 169;
Trechsel
, op. cit., n. 7 dell'introduzione all'art. 28 CP; CCRP, sentenza del 10 settembre 2002 in re D., consid. 3.1 e 3.2). Ora, l'art. 68 CPP prevede unicamente che nei reati a querela di parte il Procuratore pubblico promuove l'azione penale su istanza scritta. Non occorre l'indicazione specifica che si tratti di una querela. Che nello scritto del 2 aprile 2004 indirizzato al Ministero pubblico (act. 32, pag. 2) la banca abbia fatto uso del termine “denuncia penale” poco importa, avendo
l'istituto espresso la volontà incondizionata di far perseguire l'autore per le espressioni lesive dell'onore contenute nell'allegato al precetto esecutivo n. 1031861.
11.
Se ne conclude, in ultima analisi. che nella misura in cui è ricevibile il ricorso è destinato all'insuccesso. Gli oneri processuali seguono il principio della soccombenza (art. 15 cpv. 1 combinato con l'art. 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,004 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
d6cbb9f6-d3c0-59ae-beb9-1b0374900c13 | in fatto ed in diritto
1.
A seguito di una segnalazione da parte delle autorità _ è stato aperto d’ufficio un procedimento penale a carico di PI 1 sfociato nel DA _ emanato il 10.11.2008 dall’allora procuratore pubblico Luca Maghetti. Il predetto decreto è passato in giudicato il 15.12.2008.
2.
Con la presente istanza la IS 1 (di seguito IS 1) chiede, in applicazione dell’art. 30 della LF del 22 marzo 1974 sul diritto penale amministrativo (DPA), di poter accedere – tra gli altri – agli atti dell’incarto penale
DA _ (già inc. MP _)
riguardante PI 1.
A sostegno della sua richiesta precisa che presso la IS 1 è stato aperto un procedimento penale amministrativo nei confronti di diverse persone del Canton _ e _ per sospetto di infrazione alla Legge federale sui medicamenti e i dispositivi medici (Legge sugli agenti terapeutici, LATer, RS 812.21) in relazione al commercio all’ingrosso di medicamenti / alla violazione di norme GDP. Secondo le informazioni fornite dal _ cantonale ticinese
diversi incarti penali, tra cui quello riguardante PI 1, potrebbero contenere informazioni utili per il procedimento penale amministrativo in questione. Il _ cantonale ticinese si occuperà dell’ispezione degli atti e di fotocopiare gli atti necessari per la IS 1.
3.
Come esposto in entrata, il procuratore generale si è rimesso al giudizio di questa Corte.
PI 1, dal canto suo, si oppone alla trasmissione e alla visione dell’incarto penale che lo concerne personalmente da parte di IS 1, poiché a sua mente non sarebbe di nessuna pertinenza, non conterrebbe informazioni di spettanza dell’autorità richiedente e del _ cantonale.
Con replica 12/15.04.2013 la IS 1, richiamati gli art. 63 e 90 LATer e 30 DPA, ribadisce che
"
(...). Dalle informazioni ottenute dal _ cantonale ticinese, gli atti richiesti potrebbero contenere delle informazioni importanti per lo svolgimento di un procedimento penale aperto dall’IS 1 per sospetto d’infrazione alle legge sugli agenti terapeutici. Questo procedimento penale è stato aperto nei confronti di diverse persone domiciliate nel cantone _ e _, ma non nei confronti del Signor PI 1
" (replica 12/15.04.2013, p. 1, doc. 6.b).
Ricorda inoltre il tenore dell’art.
art. 3 cifra 15 dell’Ordinanza concernente la comunicazione di decisioni penali cantonali (RS 312.3), secondo il quale le autorità cantonali sono obbligate a comunicare all’Istituto tutte le sentenze e decisioni amministrative di carattere penale emanate in applicazione della LATer, evidenziando parimenti che la decisione emanata a carico di PI 1 non le è mai stata trasmessa.
Con duplica 22/23.04.2013 PI 1 rileva che i suoi interessi privati di tutela della personalità risulterebbero in casu predominanti rispetto agli interessi pubblici di cui l’istante non dimostrerebbe nemmeno l’esistenza.
Il procuratore generale ha rinunciato a presentare osservazioni di duplica.
4.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
5.
5.1.
IS 1
è l'autorità centrale svizzera di sorveglianza per gli agenti terapeutici. In qualità di ente di diritto pubblico della Confederazione, con sede a _, esso è autonomo nella sua organizzazione e gestione e dispone di fondi propri. IS 1 fa parte del Dipartimento federale dell'interno ed ha iniziato la sua attività il 1°.01.2002 con l’entrata in vigore della
LATer
. A tutela della salute delle persone e degli animali, IS 1 si assicura che i medicamenti e i dispositivi medici siano efficaci e sicuri. La valutazione approfondita degli agenti terapeutici comprende il riconoscimento tempestivo di nuovi rischi e la realizzazione rapida di misure riguardanti la sicurezza. IS 1 informa puntualmente in modo mirato gli specialisti e il pubblico sui problemi e le nuove conoscenze nel settore degli agenti terapeutici.
Le competenze di IS 1 sono in particolare l'omologazione di medicamenti, le autorizzazioni di esercizio per la fabbricazione e il commercio all'ingrosso nonché le ispezioni, la sorveglianza del mercato di medicamenti e dispositivi medici, il controllo del traffico degli stupefacenti, gli esami analitici di laboratorio sulla qualità del medicamento e l'attività legislativa e la normalizzazione (cfr. _; cfr. anche la LATer).
5.2.
La LATer prevede delle disposizioni penali [cfr., al proposito, art. 86 LATer ss.; Messaggio concernente una legge federale sui medicamenti e i dispositivi medici (Legge sugli agenti terapeutici, LATer) del 1°.03.1999, 99.020, p. 3060 ss.].
Giusta l’art. 90 cpv. 1 LATer il perseguimento penale nell’ambito della competenza della Confederazione è condotto dalla IS 1 in virtù delle disposizioni della DPA.
La IS 1 può dunque condurre inchieste (che esigono conoscenze tecniche approfondite) ed emanare decreti e decisioni penali. Nella misura in cui sono dati gli estremi per infliggere una pena o per ordinare una misura privativa della libertà, il giudizio spetta al tribunale (art. 21 cpv. 1 DPA) [Messaggio concernente una legge federale sui medicamenti e i dispositivi medici (Legge sugli agenti terapeutici, LATer) del 1°.03.1999, 99.020, p. 3063].
I servizi della Confederazione e dei Cantoni competenti per l’esecuzione della LATer provvedono allo scambio di dati sempre che l’esecuzione della LATer lo esiga (art. 63 cpv. 1 LATer).
Il Consiglio federale può prevedere la comunicazione di dati a altre autorità o organizzazioni qualora l’esecuzione della LATer lo esiga (art. 63 cpv. 2 LATer).
Le autorità amministrative della Confederazione, dei Cantoni e dei Comuni devono prestare assistenza, nell’espletamento dei loro compiti, alle autorità incaricate del procedimento e del giudizio in materia di cause penali amministrative; esse devono segnatamente comunicare loro tutte le informazioni occorrenti e concedere loro di prendere visione degli atti ufficiali che possono avere importanza per il procedimento penale (art. 30 cpv. 1 DPA).
Giusta l’art. 30 cpv. 2 DPA l’assistenza può essere negata soltanto quando vi si oppongano importanti interessi pubblici, segnatamente la sicurezza interna o esterna della Confederazione o dei Cantoni, ovvero quando essa pregiudichi notevolmente l’autorità richiesta nell’esecuzione dei suoi compiti. I segreti confidati giusta gli articoli 171–173 CPP devono essere serbati. Del rimanente, in materia d’assistenza sono applicabili gli articoli 43–48 CPP (art. 30 cpv. 3 DPA). Gli organismi con compiti di diritto pubblico sono tenuti, nell’ambito di questi compiti, a prestare la stessa assistenza delle autorità (art. 30 cpv. 4 DPA).
Non va del resto dimenticato che le autorità cantonali comunicano tutte le sentenze, decisioni amministrative di carattere penale e dichiarazioni di non doversi procedere emanate in applicazione, tra l’altro, della LATer all’IS 1 (art. 3 cifra 15 dell’Ordinanza concernente la comunicazione di decisioni penali cantonali del 4.11.2004, RS 312.3).
Infine, l’allora Camera dei ricorsi penali – dall’1.01.2011 Corte dei reclami penali – nella decisione 16.02.2010 (inc. CRP _) aveva stabilito che IS 1, essendo un’autorità penale di perseguimento giusta l’art. 90 LATer, non doveva ricorrere alla procedura prevista dall’art. 27 CPP TI (ora art. 62 cpv. 4 LOG) in relazione alla richiesta di poter accedere agli atti di un procedimento penale pendente a carico di diverse persone per contravvenzione aggravata alla LATer [
"
(...). Nel presente caso, in base all’art. 90 della Legge federale sui medicamenti e i dispositivi medici, l’istante è l’autorità competente per il perseguimento penale delle violazioni della surriferita legge. Trattandosi di un’autorità penale di perseguimento, non deve ricorrere alla procedura prevista dall’art. 27 CPP, ma ha diritto di accedere agli atti e ricevere copia dei medesimi, in quanto necessario per l’adempimento delle sue attribuzioni penali. (...)
"
(decisione 16.02.2010, p. 2, consid. 4., inc. CRP _)].
5.3.
Alla luce di quanto sopra esposto, richiamate in particolare le competenze conferite alla IS 1 e le suddette disposizioni, questa Corte con decisione 24.05.2013 (inc. CRP _) ha ritenuto di dover emanare una decisione di principio, statuendo quanto segue:
"
La Corte
dei reclami penali riconosce, di principio, alla IS 1 – quale autorità di perseguimento penale giusta l’art. 90 cpv. 1 LATer – un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG per poter esaminare (e se, del caso, fotocopiare) gli atti di procedimenti penali conclusi utili ai fini delle sue incombenze direttamente presso le autorità penali ticinesi (ovverossia presso il Ministero pubblico, il Tribunale penale cantonale, la Pretura penale, la Corte di appello e di revisione penale e questa Corte), senza dover ricorrere di volta in volta alla procedura ex art. 62 cpv. 4 LOG, dimostrando nondimeno l’esistenza di una connessione tra i suoi obblighi di competenza (in applicazione della LATer) e i fatti oggetto del procedimento penale concluso (di cui chiede la compulsazione degli atti).
Va da sé che la compulsazione degli atti deve avvenire nel rispetto del segreto professionale (art. 61 LATer).
In caso di dubbio, la IS 1 può presentare a questa Corte un’istanza ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG rispettivamente le autorità penali ticinesi coinvolte possono trasmettere la richiesta, per competenza, a questa Corte in applicazione della predetta disposizione
"
(decisione 24.05.2013, p. 5, inc. CRP _).
6.
Per quanto interessa la fattispecie in esame, IS 1 può dunque rivolgersi direttamente al Ministero pubblico, autorità alla quale viene ritornata, per evasione, la presente istanza.
7.
Stante la funzione dell’istante e la finalità della richiesta, non si prelevano tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
d70ea92c-cf39-5400-89ca-9fccbb97d80c | in fatto ed in diritto
1.
Il 18.06.2007 _ e _, entrambe con sede a _ (Quartiere di _), rappresentate da _, hanno sporto denuncia/querela nei confronti di _ e PI 3, due ex dipendenti delle società denuncianti/querelanti.
_ ha in particolare sostenuto che all’inizio del mese di giugno 2007 sarebbe venuta a conoscenza del fatto che i denunciati/querelati avrebbero costituito una società (la _, con sede a _), operativa nel medesimo settore commerciale, e poi contattato sistematicamente i clienti delle società denuncianti/querelanti mediante l’utilizzo di una lista sottratta alle stesse, fingendosi dipendenti di _, inviando però la fattura con l’intestazione della neo costituita società.
A seguito di ciò, è stato aperto un procedimento penale (inc. MP _) a carico – tra l’altro – di PI 3, per le ipotesi di reato di appropriazione indebita, soppressioni di documento e infrazione alla LCSl sfociato, per quanto riguarda quest’ultima persona, nel decreto di abbandono 21.02.2014 emanato dal procuratore pubblico Andrea Gianini per insussistenza dei reati ipotizzati (ABB _).
Il summenzionato decreto è regolarmente passato in giudicato, non essendo stato impugnato presso questa Corte.
2.
Con ordinanza 31.03./4.04.2014 – a valere quale istanza ex art. 62 cpv. 4 LOG – la IS 1 postula la trasmissione dell’incarto MP _ nel frattempo archiviato.
L’incarto è stato richiamato con il consenso del pretore, essendo rilevante ai fini del giudizio della causa a procedura ordinaria appellabile civile di cui all’incarto _ promossa il 27/28.09.2007 da _, _ (Quartiere di _) (patr. da: avv. PR 1, _) contro PI 3, _ (patr. da: avv. PR 2, _) e riattivata, su richiesta della parte convenuta, poiché il procedimento penale a suo carico è sfociato nell’ABB _ del 21.02.2014.
Alla presente richiesta è stato pure allegato, in copia, il verbale di udienza tenutasi il 16.04.2008 dinanzi alla Pretura istante, da cui risulta in particolare che nell’incarto penale richiamato vi sarebbe la documentazione sequestrata dalla Polizia presso la _ (tra cui la lista dei clienti di _ che la predetta società avrebbe tentato di accaparrarsi/ si sarebbe accaparrata). Dal medesimo incarto dovrebbe inoltre emergere la responsabilità di PI 3 riguardo alla sottrazione di dati confidenziali (cfr. copia verbale di udienza 16.04.2008, inc. _, doc. CRP 1.b).
3.
Come esposto in entrata, il procuratore pubblico ha comunicato che da parte sua nulla osta alla trasmissione dell’intero incarto all’autorità istante.
4.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha nella sostanza ripreso il testo del previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
Come ricordato dalla prassi di questa Corte, in caso di richiesta da parte di autorità giudiziarie tendente ad ottenere documenti di un incarto penale, la giurisprudenza ammette la richiesta se:
(i) si riferisce a procedimenti ancora pendenti presso l'autorità richiedente;
(ii) è compatibile con il codice di rito applicabile a quel procedimento;
(ii) è formulata dal titolare dell’autorità giudiziaria richiedente.
Inoltre deve essere dato un legame di pertinenza dell’incarto richiamato con quello richiamante.
5.
Nella fattispecie in esame – stante il contenuto e l’esito dell’incarto penale richiamato (in particolare con riferimento alla persona di PI 3) e le motivazioni poste alla base del suo richiamo – appare pacifica la stretta connessione tra il procedimento civile pendente presso la Pretura istante (_) e quello penale nel frattempo archiviato (inc. MP _
, ora inc. DA _
).
In primo luogo entrambi i procedimenti traggono le loro origini dal medesimo complesso dei fatti: l’agire (anche) di PI 3 in seno alla _ [il quale nel periodo compreso tra il 1°.04.2006 e il 31.03.2007 è stato alle sue dipendenze quale aiuto contabile (AI 22-doc. A)] e il comportamento da lui assunto in relazione alla (costituzione della) _, iscritta a RC il 30.04.2007, e attiva nel medesimo settore commerciale di _. Dall’estratto del RC risulta che PI 3 è stato dapprima socio e gerente con diritto di firma individuale della _ e poi, dal mese di maggio 2011, socio senza diritto di firma. _, pure imputato nell’ambito del procedimento penale di cui all’incarto MP _ qui richiamato, è stato dapprima socio con diritto di firma collettiva a due e poi dal mese di luglio 2007 socio con diritto di firma individuale della _ (cfr., nel dettaglio, estratto RC del Canton Ticino).
A ciò aggiungasi che le parti coinvolte in entrambe le sedi sono in sostanza le stesse: _, attrice nel procedimento civile, aveva assunto il ruolo di parte civile ai sensi del CPP TI rispettivamente di accusatrice privata nell’ambito del procedimento di cui all’incarto penale richiamato nel frattempo archiviato. PI 3, dal canto suo, convenuto in ambito civile, aveva assunto la veste di accusato ai sensi del CPP TI rispettivamente di imputato in ambito penale.
Infine, già dal contenuto dell’ABB _ emanato il 21.02.2014 a carico di PI 3 emergono elementi riguardo al comportamento assunto da quest’ultimo in seno ad entrambe le società nel 2007 e potenzialmente utili in ambito civile.
In siffatte circostanze gli atti istruttori dell’incarto penale richiamato potrebbero inconfutabilmente assumere una loro rilevanza ai fini dell’istruttoria e del giudizio civile. In casu è dunque adempiuto un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG.
Di conseguenza l’incarto penale richiamato viene trasmesso, in originale, alla Pretura istante unitamente alla presente decisione, con l’obbligo di restituirlo direttamente al Ministero pubblico, al più tardi, a procedimento civile concluso.
6.
L’istanza è accolta ai sensi del precedente considerando. La tassa di giustizia, contenuta al minimo, e le spese sono poste a carico della Pretura istante, che a sua volta le addosserà alle parti in base alle norme del CPC. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
d71a505f-bb50-5b0b-9c57-d86b1933ca76 | in fatto: A.
Con decreto d’accusa 14 luglio 2009, la PP ha dichiarato RI 1 autore colpevole di truffa ripetuta e ne ha proposto la condanna alla pena pecuniaria, sospesa condizionalmente per un periodo di 2 anni, di fr 3600.-, corrispondenti a 30 aliquote di fr 120.- cadauna, e alla multa di fr 500.-.
B.
Il decreto d’accusa è stato inviato al prevenuto per posta raccomandata lo stesso giorno. La posta ha avvisato il destinatario il 15 luglio 2009 ma la raccomandata è rimasta, non ritirata, in giacenza sino al termine del relativo periodo, e meglio sino al 22 luglio 2009 e il 27 luglio successivo è stata rinviata al mittente.
C.
Il 3 agosto 2009, il MP ha inviato il DA al prevenuto per posta semplice e per conoscenza.
D.
Con scritto 8 agosto 2009, RI 1 ha chiesto la restituzione del termine per formulare opposizione al citato decreto d’accusa e, contestualmente, ha presentato opposizione.
E.
Con sentenza 20 agosto 2009, il giudice della pretura penale ha respinto l’istanza di restituzione del termine ed ha dichiarato irricevibile l’opposizione.
F.
Con ricorso datato 14 settembre 2009, RI 1 ha chiesto l’annullamento della sentenza pretorile. | Considerando
in diritto:
1.
Secondo l'art. 7 CPP l'intimazione delle sentenze e degli atti del processo penale avviene per invio postale o per mezzo di usciere o della polizia (cpv. 1), in applicazione analogica delle disposizioni del Codice di procedura civile (cpv. 2). Di regola, una notifica avviene dunque per invio raccomandato, con o senza ricevuta di ritorno, in conformità con i regolamenti postali (art. 124 cpv. 1 CPC). Nel caso in cui il destinatario dell’atto è domiciliato nel Cantone, la notifica avviene mediante consegna al destinatario, nel luogo in cui egli dimora o svolge la sua attività, oppure al suo rappresentante. In caso di assenza, il plico è rimesso a una persona adulta della sua famiglia o a un suo impiegato (art. 120 CPC).
2.
In DTF 127 I 31 consid. aa pag. 34 il Tribunale federale ha avuto modo di ricordare che una decisione spedita per raccomandata si ritiene notificata al destinatario nel momento della consegna effettiva oppure, se l'invio non è recapitato al domicilio né ritirato alla posta, l'ultimo dei sette giorni utili durante i quali il plico rimane depositato all'ufficio postale, sempre che il destinatario dovesse prevedere la notifica (cfr. anche DTF 123 III 492 consid. 1 pag. 493). Il termine di giacenza previsto dall'art. 169 cpv. 1 lett. d ed e dell'ordinanza (1) della legge sul servizio delle poste del 1° settembre 1997 è stato invero abrogato con l'entrata in vigore dell'art. 13 dell'ordinanza delle poste, del 29 ottobre 1997 (OPA). Il termine di giacenza di sette giorni è stato ripreso però nelle condizioni generali
“
Servizi postali
”
(010.01 it, rif. 142713, edizione gennaio 2004, cifra 2.3.7 lett. b). Esso conserva, perciò, tutti i suoi effetti (DTF 127 I 131 consid. 2b pag. 34; CCRP, sentenza del 27 marzo 2003 in re S., consid. 3).
3.
Nella fattispecie, non è contestato che il plico contenente il decreto di accusa, in cui figuravano indicati i rimedi di diritto, è stato spedito per raccomandata dal Ministero pubblico al domicilio del destinatario il 14 luglio 2009 ed è stato rinviato al mittente dalla posta una volta decorso infruttuoso il periodo di giacenza. Che l'accusato dovesse attendersi sviluppi nel procedimento penale a suo carico è pacifico, ritenuto che era aperto nei suoi confronti un procedimento penale nel cui ambito era stato sentito più volte ancora nel corso del 2009 e in cui egli era, pure, stato informato della trasmissione degli atti di inchiesta al Ministero pubblico e del suo diritto di chiedere di essere sentito dal procuratore pubblico come pure del fatto che, in virtù dell’art. 207a CPP, il Procuratore pubblico avrebbe potuto, senza ulteriori avvisi, formulare a suo carico un decreto di accusa (cfr. formulario dichiarazione art. 207-207a CPP, sottoscritto dal ricorrente) .
In queste condizioni, in applicazione dei principi ricordati sopra, forza è considerare che l'intimazione del decreto di accusa è avvenuta il settimo e ultimo giorno di giacenza della raccomandata, e meglio il 22 luglio 2009.
Introdotta l’8 agosto successivo, l'opposizione in esame è perciò tardiva, il termine di 15 giorni per impugnare il decreto di accusa (art. 208 cpv. 1 lett. e CPP) essendo nel frattempo scaduto.
4.
Giusta l’art. 21 CPP, la restituzione per inosservanza di un termine può essere concessa se la parte o il suo patrocinatore prova di non averlo potuto osservare perché impedita senza sua colpa, o per forza maggiore, segnatamente per malattia, assenza scusabile, servizio pubblico o militare o per altre ragioni importanti.
5.
Il primo giudice ha respinto l’istanza di restituzione del termine poiché
“la mancata tempestiva conoscenza del contenuto del decreto d’accusa è da imputare al prevenuto, il quale non ha formulato alcuna valida giustificazione a sua discolpa
” (sentenza di primo grado, pag. 3).
Il ricorrente - affermando di avere preso conoscenza dell’invio del DA soltanto, quando, al rientro dalle vacanze, ha trovato l’avviso postale – sostiene che il primo giudice, decidendo della sua istanza di restituzione dei termini, non ha esaminato in alcun modo quanto da lui sostanzialmente addotto a sostegno di tale sua richiesta, e meglio il fatto che egli “
non ha ritirato la raccomandata con il DA in quanto era in vacanza, ciò che non è per nulla sorprendente nella seconda metà di luglio
” (ricorso pag. 2). Andando oltre le difficoltà linguistiche, il pretore – continua il ricorrente –
“doveva perlomeno esaminare la motivazione “vacanze” ed eventualmente dare modo all’accusato di rendere verosimile la sua assenza nel periodo a cavallo tra luglio e agosto
”. Vi è pertanto una lesione del suo diritto di essere sentito, la giustificazione da lui addotta per la restituzione del termine “
non essendo stata istruita né presa in esame
” (ricorso pag. 3).
6.
La censura cade nel vuoto.
È evidente, nonostante la laconicità della motivazione pretorile, che, affermando che l’istante “
non ha formulato alcuna valida giustificazione a sua discolpa
”, il giudice di prime cure ha giudicato - correttamente nel merito – che un’assenza per vacanze non è atta a fondare un’istanza tendente alla restituzione di un termine.
Infatti, come visto sopra, il ricorrente era coinvolto in un procedimento penale nel cui ambito egli doveva attendersi l’invio di una decisione giudiziaria (
sentenza TF non pubblicata del 20 gennaio 2009 [6B.31/2009], consid.1; DTF
130 III 396 consid.
1.2.3 p. 399
;
127 I 31 consid. 2a/aa
;
123 III 492 consid. 1
,
119 V 94 consid. 4b/aa
;
116 Ia 90 consid. 2a p. 92
;
115 Ia 12 consid. 3a p. 15
; RAMI 2001 no. U 434 pag. 329). Era, pertanto, sua responsabilità e suo dovere provvedere affinché un simile atto potesse venirgli notificato o, meglio, affinché egli potesse determinarsi nei confronti di un simile atto nei termini previsti dalla legge (
sentenza TF non pubblicata del 2 aprile 2007 [1B_46/2007], consid.2.4.;
DTF
123 III 492 consid. 1;
116 Ia 90 consid. 2a
;
115 Ia 12 consid. 3a
).
Non avendolo fatto – per esempio, non avendo annunciato al MP la sua assenza o non avendo previsto un fermo posta – egli deve essere considerato responsabile dell’inosservanza del termine che, pertanto, non può essergli restituito.
Ciò ritenuto, cade nel vuoto anche la censura relativa alla lesione del proprio diritto di difendersi efficacemente in un equo processo.
Né hanno miglior sorte le considerazioni (che sono espresse, peraltro, soltanto in modo discorsivo e senza che da esse venga dedotto alcunché di concreto) relative alla necessità di imporgli un difensore “
già prima dell’emanazione del DA
” (ricorso pag. 2) che si rivelano manifestamente infondate, lo scritto 8 agosto 2009 mostrando un ricorrente che, al di là delle difficoltà linguistiche, è in grado di difendersi da solo in quello che, tutto sommato, risulta ancora essere un procedimento relativo ad un caso di modesta rilevanza (cfr. CRP 07.05.2003 in re S.; DTF 128 I 225, consid. 2.5.2.; 126 I 194, consid. 3a; 122 I 49 consid. 2c/bb; 120 Ia 43 consid. 2a e rinvii).
7.
Gli oneri del giudizio odierno seguono la soccombenza del ricorrente (art. 15 cpv. 1 con rinvio all'art. 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,009 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
d792d0d8-cfe3-5af0-8e51-bbc65839d9b6 | in fatto: A.
Con decreto d’accusa 11 febbraio 2009, il procuratore pubblico ha riconosciuto RI 1 autore colpevole di violazione di domicilio, per essersi indebitamente introdotto, in data 4 ottobre 2002, a _, nella casa di sua proprietà, lecitamente occupata da _, contro la volontà dell’avente diritto, in particolare sostituendo i cilindri delle porte ed organizzando servizi di sicurezza attorno all’abitazione affinché PC 1 non potesse più accedervi.
In applicazione della pena, il procuratore pubblico ha proposto la condanna di RI 1 alla pena pecuniaria di 15 aliquote giornaliere da fr. 2’160.- ciascuna (corrispondenti a complessivi fr. 32’400.-), sospesa condizionalmente per un periodo di prova due anni, oltre che alla multa di fr. 2’500.- ed al pagamento di tasse e spese, rinviando la parte civile al competente foro per il giudizio sulle sue pretese.
B.
Avendo il prevenuto sollevato tempestiva opposizione contro il decreto d’accusa, il presidente della Pretura penale, con citazione intimata il 30 giugno 2009 per raccomandata all’accusato (che non l’ha ritirata) ed al suo patrocinatore di allora (avv. PAT 4), ha indetto il dibattimento per il 15 settembre 2009, rinviandolo, il 4 agosto 2009, sempre con scritto raccomandato intimato sia all’accusato (che, di nuovo, non ha ritirato l’invio) che al suo patrocinatore di quel tempo (avv. PAT 3), al 22 settembre 2009 alle ore 9.00, invitando le parti a riservare anche il giorno successivo.
C.
Con scritto 27 agosto 2009, lo studio dell’avv. PAT 3 ha comunicato alla Pretura penale di non più rappresentare l’imputato.
D.
In data 21 settembre 2009, alle ore 15.54, alla vigilia del dibattimento, l’avv. PA 1 ha comunicato per fax alla Pretura penale di avere assunto, unitamente alla collega avv. PA 2, il patrocinio dell’accusato, senza peraltro allegare una procura in originale. Adducendo di non disporre di tutti gli atti, il nuovo patrocinatore ha chiesto un rinvio del dibattimento al fine di preparare convenientemente la difesa.
Il presidente della Pretura penale non ha formalmente reagito alla suddetta comunicazione.
E.
Il 22 settembre 2009, alle ore 8.59, immediatamente prima dell’inizio del dibattimento, l’avv. PA 2, sorella del presidente della Pretura penale, ha confermato, via fax,
“quanto discusso telefonicamente”
e meglio che
RI 1
le avrebbe revocato il mandato di patrocinio non appena atterrato dal volo _ su cui si trovava in quell’istante. In attesa di una conferma scritta in tal senso da parte del cliente, ella ha chiesto un rinvio di qualche ora del dibattimento (
“le chiedo pertanto di voler aggiornare il processo ad altra ora”
).
F.
Alle ore 9.00 si sono presentati entrambi i nuovi patrocinatori di RI 1, il quale era assente.
Preso atto delle comunicazioni della nuova difesa e vista la situazione d’incertezza in merito alla sua composizione, prima ancora di aprire il dibattimento, il presidente della Pretura penale ne ha posticipato l’inizio alle ore 14.00, comunicando che lo stesso sarebbe stato presieduto dal giudice _. Dopo aver concesso ai nuovi patrocinatori di esaminare gli atti del procedimento, egli ha loro trasmesso il “verbale del dibattimento” con fax delle ore 11.28.
G.
Il medesimo giorno, alle ore 13.39, sempre via fax, l’avv. PA 1 ha eccepito la nullità del “verbale del dibattimento”, così come della nuova citazione per le ore 14.00 in esso contenuta, adducendo che il presidente della Pretura penale avrebbe dovuto escludersi, conformemente all’art. 41 CPP, già il giorno precedente e non avrebbe, pertanto, potuto procedere ad una nuova citazione per il pomeriggio. In assenza di una citazione valida, egli ha chiesto che il dibattimento fosse fissato non prima del 28 settembre 2009. Egli ha, altresì, sollevato dubbi circa la conformità all’art. 42 CPP della procedura adottata per la designazione del nuovo pretore.
H.
Il pomeriggio del 22 settembre 2009, il giudice _, dopo aver dichiarato valida la procedura adottata fino a quel momento dal presidente della Pretura penale (segnatamente la citazione effettuata per il pomeriggio e la designazione di un nuovo giudice) e dopo avere respinto la richiesta di rinvio formulata dall’avv. PA 1, ha aperto il dibattimento alle ore 14.30 alla presenza unicamente dei patrocinatori della parte civile, ritenuta l’assenza dell’imputato e della difesa, la quale non aveva dato seguito alla nuova citazione per le ore 14.00.
In esito al dibattimento, svoltosi nelle forme contumaciali, con sentenza 22 settembre 2009, il giudice della Pretura penale ha dichiarato RI 1 autore colpevole di violazione di domicilio per i fatti commessi nelle circostanze descritte nel decreto d’accusa, condannandolo alla pena proposta nel decreto d’accusa.
I.
Con dichiarazione di ricorso 24/28 settembre 2009 il condannato, tramite l’avv. PA 1, è insorto avverso la sentenza contumaciale.
Nella sua motivazione scritta, presentata il 2/3 novembre 2009, il ricorrente chiede di dichiarare nullo il giudizio contumaciale, in quanto il dibattimento del pomeriggio del 22 settembre 2009 è avvenuto in difetto di una regolare citazione, e meglio sulla base di una citazione nulla poiché emanata dal presidente della Pretura penale, nonostante a carico dello stesso sussistesse un motivo di esclusione.
L.
Con osservazioni 2/3 dicembre 2009, il procuratore pubblico postula la reiezione del ricorso.
Con osservazioni di medesima data, la parte civile chiede, in via principale, che il ricorso sia dichiarato irricevibile. Subordinatamente, chiede che esso venga respinto.
M.
Nel frattempo, l’avv. PA 1, con istanza di ricusa e ricorso 28/30 settembre 2009, ha contestato anche dinanzi alla CRP, da un lato, la mancata esclusione del presidente della Pretura penale e la mancata notifica dell’esclusione alla CRP e, dall’altro, la validità della decisione di rinvio dell’inizio del dibattimento, della nuova citazione per le ore 14.00, della nomina del nuovo giudice e, di conseguenza, della sentenza contumaciale.
N.
In data 1./2 ottobre 2009, il condannato personalmente ha presentato istanza per un nuovo giudizio ai sensi dell’art. 277 cpv. 3 CPP.
Con scritto 5/6 ottobre 2009, l’avv. PA 1 ha precisato che la richiesta di rifacimento del processo presentata da RI 1 era subordinata all’esito del ricorso inoltrato il 28 settembre 2009 alla CRP ritenuto come, in caso di accoglimento dello stesso, il giudizio contumaciale sarebbe stato da considerare nullo. Ha, pertanto, chiesto che il nuovo dibattimento fosse fissato dopo evasione del gravame da parte della CRP.
O.
Con scritto 5/6 ottobre 2009, la Pretura penale ha notificato all’avv. PA 1 la citazione per il nuovo dibattimento, fissato il 14 ottobre 2009.
In data 9/12 ottobre 2009, la difesa ha nuovamente chiesto un rinvio del dibattimento in attesa della decisione della CRP, come pure in attesa dell’evasione del ricorso per cassazione pendente avanti a questa Corte e ciò al fine di evitare un diniego di giustizia oltre che per ragioni di economia processuale.
Il giudice ha respinto l’istanza.
In esito al nuovo dibattimento, tenutosi alla presenza di RI 1, durante il quale è stata respinta una nuova richiesta della difesa di sospendere il procedimento in attesa delle decisioni della CRP e della CCRP, con sentenza 14 ottobre 2009, il giudice ha confermato la condanna di RI 1 per violazione di domicilio e la pena inflittagli con la sentenza contumaciale.
P.
Con dichiarazione di ricorso 16/19 ottobre 2009, il condannato è insorto anche contro tale decisione.
Nei motivi scritti del gravame, presentati il 24/25 novembre 2009, il ricorrente censura i giudizi sulle eccezioni processuali e di merito sollevate dalla difesa durante il dibattimento. Postulando l’annullamento della sentenza impugnata, egli sostiene che il pretore è incorso in vizi procedurali, in arbitrio nell’accertamento delle prove e dei fatti e in un’errata applicazione del diritto.
Q.
Con osservazioni 11/14 dicembre 2009, il procuratore pubblico chiede che il ricorso sia respinto.
Con osservazioni 28/29 dicembre 2009, anche la parte civile ha chiesto la reiezione del ricorso.
R.
Si rileva che, con sentenza 26 agosto 2010 (inc. 60.2009.363), la CRP ha dichiarato l’istanza di ricusa 28/30 settembre 2009 (punto M) irricevibile in quanto tardiva, ritenuto che la difesa era a conoscenza del motivo di ricusa (ovvero la mancata esclusione da parte del presidente della Pretura penale) al più tardi già dal 22 settembre 2009. Ha precisato che determinante per la ricusa è la mancata esclusione in quanto tale, non la mancata notifica della stessa alla CRP.
La CRP ha, poi, valutato i provvedimenti adottati dal presidente della Pretura penale alla luce dell’art. 284 cpv. 1 lett. c CPP e li ha confermati in toto, respingendo, nella misura della sua ricevibilità, il ricorso.
Contro la pronuncia della CRP il ricorrente ha inoltrato ricorso al Tribunale federale, il quale ha sospeso la procedura fino all’emanazione del giudizio di questa Corte. | Considerando
in diritto: 1.
Giusta l’art. 288 CPP (Ti) - applicabile in forza dell’art. 453 CPP (fed) - il ricorso per cassazione può essere presentato per errata applicazione del diritto sostanziale ai fatti posti a base della sentenza (lett. a), per vizi essenziali di procedura (purché il ricorrente abbia eccepito l’irregolarità non appena possibile) (lett. b) e per arbitrio nell’accertamento dei fatti (lett. c). Si tratta pertanto di un rimedio di mero diritto (in merito al quale la CCRP ha pieno potere d’esame), ritenuto che l’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP) e che arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 135 V 2 consid. 1.3 pag. 4, 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371).
Secondo costante giurisprudenza, contro una sentenza pronunciata in contumacia, il ricorso per cassazione è ammissibile limitatamente alla declaratoria di contumacia, ovvero alla questione di sapere se il giudice abbia deciso a ragione o a torto di procedere in assenza dell'accusato (CCRP 30.6.2010, inc. 17.2010.23; CCRP 12.10.2010, inc. 17.2010.36; CCRP 2.12.2009, inc. 17.2009.54; CCRP 5.3.2008, inc. 17.2008.14; CCRP 22.11.2005, inc. 17.2005.44; Rep. 1982 pag. 194; DTF 122 I 36 consid. 2, 121 IV 340 consid. 1a).
I.
Sul ricorso contro la sentenza contumaciale 22 settembre 2009
2.
Nel suo gravame 2/3 novembre 2009 diretto contro la sentenza contumaciale 22 settembre 2009, RI 1 impugna, anzitutto, la declaratoria di contumacia lamentando l’assenza di una valida citazione per il dibattimento fissato per le ore 14.00. A suo dire, la citazione effettuata alle ore 9.00 del mattino dal presidente della Pretura penale è da considerare nulla e non avvenuta in quanto il magistrato avrebbe dovuto escludersi non appena preso atto della presenza, nel collegio difensivo, della sorella (ricorso, consid. 23-34, pag. 5-7). Sostiene, poi, il ricorrente che la citazione in questione, così come quella spiccata il 4 agosto 2009 per la mattina del 22 settembre 2009, non gli sono mai state intimate personalmente (ricorso, consid. 40, pag. 9). Egli ritiene, inoltre, di non avere potuto beneficiare di una difesa effettiva poiché neppure i suoi legali sono stati validamente citati per il dibattimento del pomeriggio (ricorso, consid. 41, pag. 9).
Il ricorrente sostiene, poi, che, sempre a fronte dell’obbligo di esclusione che gli incombeva, sono nulle anche le altre decisioni adottate dal presidente della Pretura penale e meglio il rinvio del dibattimento e la designazione del nuovo giudice che lo avrebbe presieduto (ricorso, consid. 33-34, pag. 7).
Aggiunge il ricorrente che, essendo le richieste di rinvio presentate dalla difesa fondate su motivi di opportunità e di merito (non su motivi organizzativi), la decisione di rinvio avrebbe dovuto essere presa dopo l’apertura del dibattimento, da un giudice validamente designato, ciò che non è stato in concreto (ricorso, consid. 35-39, pag. 7-9). A dire del ricorrente, avendo il presidente della Pretura penale preso la sua decisione di rinvio senza neppure formalmente aprire il dibattimento indetto per le ore 9.00, la difesa non ha potuto nulla eccepire in quella sede (ricorso, consid. 43, pag. 10). In esito al suo gravame RI 1 chiede, pertanto, di dichiarare nullo il giudizio contumaciale 22 settembre 2009 nonché tutte le altre decisioni (rinvio al pomeriggio e designazione di un nuovo giudice) adottate dal presidente della Pretura penale posteriormente alle ore 15.54 del 21 settembre 2009, ossia dopo essere venuto a conoscenza del motivo di esclusione (ricorso, pag. 11).
2.1.
Come visto al considerando 1, in applicazione dell’art. 288 lett. b CPP, il ricorso per cassazione può essere proposto per vizi essenziali di procedura a condizione che il ricorrente abbia eccepito l’irregolarità non appena possibile. Il collegio difensivo, presentatosi in Pretura penale alle 9.00 di mattina, ora fissata per il dibattimento mediante la citazione staccata il 4 agosto 2009, ha saputo dal presidente della Pretura penale che, data l’incertezza in merito ad un possibile motivo giustificante la sua esclusione e viste le richieste di rinvio formulate dalla difesa, il dibattimento veniva rinviato ed aggiornato alle ore 14.00 e che sarebbe stato celebrato da altro giudice. A tale comunicazione la difesa non ha reagito. Solo dopo la ricezione del fax delle ore 11.28 con il quale la Pretura penale ha trasmesso copia del “verbale del dibattimento” del mattino, l’avv. PA 1, con fax delle ore 13.39, ha eccepito la nullità dello stesso e della citazione in esso contenuta. In tali circostanze si deve ritenere che, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte civile nelle osservazioni 2 dicembre 2009, il ricorrente abbia eccepito l’irregolarità della citazione per il pomeriggio non appena possibile. La censura è, pertanto, ricevibile in ordine e va esaminata nel merito.
2.2.
La censura ricorsuale deve essere respinta sulla scorta delle argomentazioni svolte dalla CRP nella sua sentenza 26 agosto 2010, che questa Corte non può che condividere e fare proprie. Così come precisato dalla CRP, il posticipo dell’inizio del dibattimento per il pomeriggio del 22 settembre 2009 non costituiva “
un nuovo e diverso aggiornamento”
rispetto a quello conseguente alla citazione del 4 agosto precedente, ma era soltanto “
una semplice posticipazione (di qualche ora) dell’inizio del dibattimento”.
Tale posticipo era, come spiegato dalla CRP, una semplice decisione organizzativa anteriore al pubblico dibattimento (non un rinvio, né una decisione di direzione del dibattimento ai sensi dell’art. 232 CPP, visto che lo stesso non era neppure stato aperto), peraltro
“lecita, logica ed opportuna”
che faceva seguito alle richieste formulate (con i fax delle 15.54 del 21 settembre 2009 e delle 8.59 del giorno successivo) proprio dalla difesa (CRP 26.8.2010, consid. 4.2 pag. 10 e consid. 4.12, pag. 12).
Dunque, il dibattimento - cui l’imputato non ha partecipato - è stato aggiornato con la citazione spiccata il 4 agosto 2009.
Nulla è stato eccepito riguardo la validità di tale citazione: essendo stata spiccata dal presidente della Pretura penale in un momento in cui il ricorrente era patrocinato da altri avvocati, essa è manifestamente valida (cfr. CRP 26.8.2010, consid. 4.1, pag. 10).
La censura riguardante la notifica di tale citazione è da respingere: risulta, in effetti, dagli atti che la citazione è stata inviata al ricorrente con invio raccomandato. Irrilevante è che egli non l’abbia ritirata: in forza del noto principio, in questi casi, l’invio è reputato correttamente notificato alla scadenza del settimo giorno di giacenza (art. 7 CCP; art. 120 e 124 cpv. 1 CPC (Ti); DTF 127 I 31 consid. aa pag. 34; 123 III 492 consid. 1 pag. 493).
La censura relativa ad una pretesa mancata corretta notifica della decisione di posticipo dell’inizio del dibattimento è, invece, temeraria. La decisione di posticipo dell’inizio del dibattimento - che, lo si ricorda, non costituisce nuova citazione - è stata adottata nel corso dell’udienza (precedente l’apertura del dibattimento) cui il collegio difensivo ha partecipato. La decisione relativa a tale posticipo non necessitava, quindi, più di alcuna ulteriore notifica.
Infondata è, infine, anche la censura relativa alla pretesa mancata citazione di RI 1 per le 14.00 del 22 settembre 2009. Come visto sopra, il posticipo al pomeriggio dell’inizio del dibattimento non era una nuova citazione. L’unica citazione che doveva essere notificata a RI 1 secondo le disposizioni del CPP era quella del 4 agosto 2009. Tale notifica è stata, come visto, correttamente effettuata.
Ne discende che RI 1 è stato validamente citato per il dibattimento del 22 settembre 2009. Non avendovi egli partecipato senza alcuna giustificazione, la decisione di procedere nelle forme contumaciali non presta il fianco a critica alcuna.
2.3.
Da respingere è, poi, la censura secondo cui la sentenza contumaciale è nulla poiché pronunciata da un giudice designato dal presidente della Pretura penale che era escluso ex art. 40 lett. d CPP e, quindi, designato con decisione nulla.
La censura è da respingere già soltanto per il fatto che non si è trattato di una designazione, ma di una semplice informazione alle parti del nominativo del nuovo giudice: l’art. 39 LOG non dà al presidente della Pretura penale la competenza di attribuire gli incarti a questo o quel giudice ma, semplicemente, gli attribuisce la competenza di stabilire, sentiti i membri, i criteri di ripartizione dei procedimenti (art. 39 cpv. 2 LOG).
Per il resto, si richiama quanto deciso al proposito dalla CRP nella più volte citata sentenza (CRP cit., consid. 5 e, soprattutto, consid. 6, pag. 12-14)
Il ricorso è, pertanto da respingere anche su questo punto.
3.
Gli oneri processuali sono posti a carico del ricorrente che rifonderà alla parte civile, che ha presentato osservazioni per il tramite di un legale, fr. 600.- per ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP).
II. Sul ricorso contro la sentenza 14 ottobre 2009
4.
Preliminarmente si osserva che, nel suo ricorso 24/25 novembre 2009, RI 1 ripropone anzitutto le argomentazioni, già contenute nel suo precedente ricorso, tendenti a sostanziare la nullità della sentenza contumaciale (ricorso, consid. 24-30, pag. 5-15). Ritenuto come siano già state debitamente vagliate (e respinte) al considerando 2 del presente giudizio e considerato come siano dirette contro la sentenza contumaciale, tali censure devono qui - ovvero nell’ambito di un ricorso contro la sentenza del 14 ottobre 2009 - essere dichiarate irricevibili.
Ciò posto, deve essere dichiarata irricevibile anche l’ulteriore - e, peraltro, ardita - censura ricorsuale, con la quale RI 1 sostiene che, essendo la pronuncia del 14 ottobre 2009
“consequenziale di una sentenza contumaciale (...) nulla a tutti gli effetti, la stessa deve anch’essa essere ritenuta nulla”
(ricorso, consid. 32, pag. 15).
5.
Continuando nel suo esposto, il ricorrente si duole del fatto che il giudice di prime cure, condannandolo per violazione di domicilio, ha violato il diritto sostanziale. Precisa il ricorrente che il pretore ha sbagliato a considerare che PC 1 fosse legittimato a sporgere querela.
5.1.a)
L'art. 30 cpv. 1 CP prescrive che, se un reato è punibile solo a querela di parte - come è il caso per la violazione di domicilio (art. 186 CP) - chiunque ne è stato leso può chiedere che l'autore sia punito. La querela penale è una dichiarazione di volontà incondizionata mediante la quale la parte lesa domanda all'autorità competente il promovimento dell'azione penale (STF 6S.110/2005 del 1. settembre 2005 consid. 2.2; DTF 128 IV 81 consid. 2a; 115 IV 2 consid. 2a; 108 Ia 99 consid. 2; 106 IV 244 consid. 1 e rif.; Favre/Pellet/Stoudmann, Code pénal annoté, Losanna 2007, n. 1.2 ad art. 30). In quanto condizione dell’azione penale (e non di punibilità dell’atto, secondo la giurisprudenza e la dottrina maggioritaria, cfr. Stratenwerth, Schweizerisches Strafrecht AT I, 3 ed., §8 n. 29) la validità di tale atto deve essere esaminata d'ufficio (STF 6S.439/2003 dell’11 agosto 2004, consid. 6; sentenza CCRP 18 febbraio 2000, inc. 17.1999.61, consid. 4; Riedo in: Basler Kommentar, ad art. 30 n. 67 e rif.). Secondo la dottrina, alla luce della natura procedurale dell’istituto, l’assenza di querela o la sua non validità non conducono ad un proscioglimento, bensì unicamente ad un abbandono del procedimento (Stoll in: Commentaire romand, Basilea 2009, n. 5 ad art. 30 CP; Riedo in: Basler Kommentar, StGB I, Basilea 2007, n. 71 ad art. 30 CP; Trechsel, Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskommentar, n. 11 ad vor art. 30 CP). Tuttavia, come il Tribunale federale ha già avuto modo di stabilire in materia di prescrizione, la procedura penale ticinese permette al giudice unicamente di condannare o di assolvere, la possibilità di stralciare dai ruoli il procedimento non essendo invece prevista dalla legge (STF 1P.258/2002 del 2 ottobre 2002 consid. 3.4). Così come in materia di prescrizione, anche in caso di assenza di legittimazione a sporgere querela, alla luce delle limitazioni poste dalla procedura penale ticinese che permette al giudice unicamente di condannare o assolvere, si impone, dunque, di pronunciare il proscioglimento dell’imputato. Del resto, per quanto nella maggior parte dei Cantoni la conseguenza dell’assenza di legittimazione del querelante sia l’abbandono del procedimento, il TF lascia sussistere anche la soluzione che prevede, in difetto di valida querela, il proscioglimento dell’imputato, considerando la distinzione di portata meramente terminologica (DTF 80 IV 1 consid. 2 pag. 5; 72 IV 47).
Lesa - e, quindi, legittimata a presentare querela - è la persona detentrice del bene giuridico direttamente toccato dal reato (
Favre/ Pellet/Stoudmann, op. cit., n. 1.4 ad art. 30)
.
b)
Secondo l’art. 186 CP chiunque, indebitamente e contro la volontà dell’avente diritto, s’introduce in una casa, in un’abitazione, in un locale chiuso di una casa, od in uno spiazzo, corte o giardino cintati e attigui ad una casa, od in un cantiere, oppure vi si trattiene contro l’ingiunzione d’uscirne fatta da chi ne ha diritto è punito, a querela di parte, con una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria.
Bene protetto è la libertà di domicilio (
Hausrecht
), che comprende la facoltà di vivere in luoghi determinati indisturbatamente e di manifestarvi liberamente la propria volontà (DTF 128 IV 81 consid. 3 pag. 84, 118 IV 167 consid. 1c pag. 170). Il diritto all'inviolabilità del domicilio spetta alla persona che può disporre degli spazi protetti in virtù di un diritto reale o personale oppure di un rapporto di diritto pubblico (DTF 128 IV 81 consid.
3 pag. 84, 118 IV 167 consid. 1c pag. 170, 112 IV 31 consid. 3 pag. 33; Corboz, Les infractions en droit suisse, vol.
I, Berna 2010, n. 25 ad art. 186 CP).
Ne discende che l’avente diritto non é necessariamente il proprietario (Corboz, op. cit., n. 26 ad art. 186 CP): può esserlo l’inquilino, il sublocatario, l’affittuario, ecc. (DTF 121 IV 31 consid. 3 pag. 33). A questo proposito, il TF ha avuto modo di precisare che, concludendo un contratto di locazione, il locatore rinuncia alla sua libertà di domicilio sul bene oggetto del contratto di modo che, per la durata del contratto, soltanto l’inquilino possiede la qualità di avente diritto ai sensi dell’art. 186 CP (DTF 87 IV 120 consid. 1; 83 IV 154 consid. 1).
Il TF ha, poi, precisato che, fintantoché ha la disponibilità effettiva dei locali occupati, l’inquilino (così come l’affittuario) rimane il solo titolare della libertà di domicilio anche se, in virtù di una valida disdetta, è venuto meno il rapporto contrattuale tra lui e il proprietario (DTF 112 IV 31 consid. 3a pag. 33; STF 6B_818/2009 del 18 marzo 2010; Corboz, op. cit., n. 27 ad art. 186 CP; Favre/ Pellet/Stoudmann, Code pénal annoté, Losanna 2007, n. 1.1 ad art. 186; Hurtado Pozo, Droit pénal, Partie spéciale, Ginevra/Zurigo/Basilea 2009, n. 2719, pag. 812). In altri termini, alla fine del contratto, il proprietario dell’immobile non torna automaticamente ad essere titolare del diritto di domicilio: l’inquilino (rispettivamente l’affittuario) che non restituisce la cosa locata alla fine del contratto non si rende, quindi, per questo colpevole di violazione di domicilio e rimane avente diritto ai sensi dell’art. 186 CP (DTF 112 IV 31 consid. 3a pag. 33; Corboz, op. cit., n. 27 ad art. 186 CP). Quest’estensione temporale del diritto di domicilio è stata motivata dal TF con il principio della sussidiarietà del diritto penale, ritenuto come i diritti del proprietario della cosa locata siano sufficientemente tutelati dalla procedura civile che offre al locatore la possibilità di ritornare in tempi brevi in possesso della cosa locata con procedure appositamente definite, in particolare le procedure di sfratto ed esecutive (DTF 112 IV 31 consid. 3b pag. 33-34).
In una sentenza successiva, il Tribunale federale ha ancora precisato che il bene giuridico protetto dall’art. 186 CP non è il possesso e ha, quindi, condannato per violazione di domicilio gli occupanti abusivi di un immobile (squatters).
Rilevato come l’occupazione degli squatters non si fondasse su di un precedente rapporto contrattuale - e meglio, non si fondasse né su un contratto di locazione né su un comodato - e preso atto che, di conseguenza, per riprendersi l’immobile il proprietario non poteva far ricorso a procedure civili specialmente predisposte e che gli rimaneva unicamente la via ordinaria dell’art. 641 CC (eventualmente, dell’art. 927 CC), l’Alta Corte federale ha stabilito che, in un caso del genere, non v’è spazio per l’applicazione del principio della sussidiarietà di modo che il proprietario deve poter beneficiare anche della protezione offerta dal diritto penale.
Applicare in casi simili il principio della sussidiarietà - ha spiegato il TF - “
impliquerait soit que l’on renonce à poursuivre le larcin en renvoyant la victime à agir dans le cadre des art. 641, 925 et 927 CC ou, de manière plus générale, à considérer que les art. 41 ss CO rendent inutiles les dispositions du code pénal protégeant les particuliers contre certains actes illecites
” (DTF 118 IV 167, consid.
3b).
5.2.
Nel caso in esame occorre stabilire chi era, al 4 ottobre 2002, l’avente diritto sull’abitazione di _.
a)
Il primo giudice ha accertato che PC 1 ha abitato la casa “
dal 1984 ininterrottamente, assumendosi direttamente l’integralità degli oneri ipotecari
” così come le “
spese di rifornimento della nafta
” (sentenza impugnata, consid. 11, pag. 13).
L’accertamento è contestato dal ricorrente che sostiene che, poco prima che lui si introducesse in casa, PC 1 aveva lasciato i luoghi per trasferirsi ad _. Richiamando gli atti, il ricorrente adduce che PC 1 da anni ormai non pagava più gli interessi ipotecari.
Risulta dagli atti che PC 1 ha occupato la casa con il consenso del proprietario almeno sino al 1998 quando gli è stata notificata una prima disdetta. A questa ne hanno fatto seguito altre (dovute alla concessione di alcune proroghe) sino a che l’11 aprile 2000 RI 1 ha presentato istanza di sfratto.
L’istanza è stata accolta dal pretore la cui sentenza è, però, stata annullata dalla IICCA con pronuncia 23 ottobre 2000.
PC 1 ha, così, continuato ad occupare _.
Non è necessario, per le ragioni che verranno indicate in seguito, verificare se è o meno arbitrario l’accertamento secondo cui PC 1 abitava ancora la casa di _ nel momento considerato dal decreto d’accusa.
b)
PC 1 non era proprietario di _. Proprietario dell’immobile è RI 1, così come risulta dalla sua iscrizione a RF (sentenza impugnata, consid. 10, pag. 12).
Nella sua querela, PC 1 ha sostenuto che RI 1 ha acquistato _ per suo conto, ribadendo, così, quanto detto nell’ambito della procedura di sfratto in cui ha affermato che fra lui e RI 1 vi era
“un particolare rapporto di fiducia in base al quale la casa è solo formalmente di proprietà dell’istante (
n.d.r: RI 1)
, così come risulta a RF, mentre economicamente fa parte del patrimonio di PC 1 che al momento dell’acquisto non aveva potuto comparire come parte del contratto, ostandovi le limitazioni di legge nei confronti dei cittadini stranieri
” (sentenza IICCA 23.10.2000, consid. 3, pag. 2).
La tesi sostenuta da PC 1 è contestata da RI 1 (cfr., in particolare, sua audizione rogatoriale 25.2.2003, pag. 1) e non ha, almeno per quanto risulta dagli atti, trovato un chiaro sostegno probatorio, tanto che la stessa IICCA, dopo avere preso atto delle argomentazioni di PC 1, si è limitata a riferire di
“indizi non irrilevanti”
relativamente ad una
“situazione economica complessa fra cliente e consulente
” (sentenza IICCA 23.10.2000, consid. 6, pag. 4).
Comunque sia, quand’anche si dovesse dare per accertata la tesi di PC 1, la questione della proprietà dell’immobile non potrebbe, per evidenti motivi, essere risolta diversamente da quanto indicato sopra.
Volendo, poi, fare astrazione dalle problematiche derivanti dal diritto pubblico - e, quindi, dall’illiceità di un eventuale contratto soggiacente ad una simile operazione - e volendo semplicemente considerare accertato (per ipotesi di lavoro) che l’acquisto della casa è stato finanziato da PC 1, la cosa ancora non basterebbe a fare di lui l’avente diritto ai sensi dell’art. 186 CP.
Infatti, il diritto di usare un immobile spetta, in forza dell’art. 641 CC, al proprietario - cioè alla persona iscritta come tale a RF - e non a colui che, per ipotesi, ha fornito i soldi con cui è stato pagato il prezzo d’acquisto dell’immobile.
c) PC 1
non era neppure titolare né di un diritto reale limitato né di altro diritto derivante da un rapporto di diritto pubblico sulla casa di _.
d)
Parimenti, dalla sentenza impugnata si evince che PC 1 non poteva vantare sulla casa né un diritto derivantegli da un contratto di locazione né un diritto derivantegli da un comodato. Infatti, il primo giudice ha richiamato la sentenza 23 ottobre 2000 - cresciuta in giudicato - con cui la II Camera civile del TA ha stabilito che tra le parti non era in essere né un contratto di locazione né un comodato (sentenza IICCA 23.10.2000, consid. 6 e 7) e ha, pertanto, annullato la sentenza pretorile che aveva accolto l’istanza di sfratto presentata da RI 1 nei confronti di PC 1.
e)
Questa Corte non vede da quale altro valido contratto PC 1 possa derivare un diritto personale ad abitare la casa di _.
f)
Visto l’accertamento secondo cui il tribunale competente ha stabilito l’inesistenza fra le parti di un contratto di locazione o di comodato, forza è constatare che la presente fattispecie - certamente anomala - si apparenta, non a quelle giudicate in DTF 112 IV 31 e STF 6B_818/2009 del 18 marzo 2010, ma a quella giudicata in DTF 118 IV 167.
Infatti, si è qui confrontati con una fattispecie che vede il proprietario di un immobile che non può adire le speciali procedure civili per costringere colui che occupa senza diritto il suo immobile a liberare gli spazi. E questo a motivo del fatto che è stato stabilito dalla competente autorità che fra le parti non è mai venuto in essere né un contratto di locazione né un contratto di comodato.
E’ questa una situazione totalmente sovrapponibile a quella del proprietario di un immobile occupato da squatters, cioè è una situazione in cui al proprietario rimane soltanto la via dell’azione in rivendicazione ex art. 641 CC. In questa situazione, come visto, il TF ha stabilito che non può trovare applicazione il principio della sussidiarietà del diritto penale e, pertanto, l’avente diritto non può essere determinato sulla scorta di quanto stabilito in DTF 112 IV 31 (dove, appunto, la determinazione dell’avente diritto era conseguente all’applicazione di questo principio).
Ad identica conclusione si giungerebbe anche se si dovesse ammettere che PC 1 ha occupato l’immobile in forza di un altro (innominato) e valido contratto (di cui questa Corte, come detto, non vede gli estremi). In questa (denegata) ipotesi, si dovrebbe, per evidenti motivi, considerare che il contratto è stato rescisso in ogni caso al più tardi il 29 marzo 2000, momento per il quale RI 1 ha notificato la disdetta (sentenza IICCA cit, consid. 2, pag. 2). In assenza di prove sulla conclusione di accordi particolari (per esempio, accordi condizionanti la rescissione del contratto a termini definiti o altro), la chiara volontà manifestata dal legittimo proprietario di non più permettere a PC 1 l’utilizzo della casa non può che essere considerata come una corretta e valida rescissione del contratto sulla cui scorta questi occupava la casa. Ritenuto come, per definizione, a RI 1 sarebbe, comunque, preclusa la possibilità di recuperare l’immobile per il tramite della procedura di sfratto, a lui rimarrebbe - come gli rimane - soltanto l’azione in rivendicazione (o tutt’al più, quella dell’art. 97 CO) ciò che esclude - così come ha stabilito il TF - l’applicazione del principio della sussidiarietà del diritto penale.
Ne consegue che, considerando il dominio effettivo sull’abitazione sufficiente per conferire il diritto di domicilio alla parte civile, il pretore ha violato il diritto federale.
Di conseguenza, non essendo titolare del diritto di domicilio su _, PC 1 non era legittimato a sporgere querela.
Pertanto, in assenza di una valida querela, va accertato l’abbandono del procedimento penale avviato nei confronti di RI 1 per titolo di violazione di domicilio.
Il ricorso va, perciò, accolto ai sensi dei considerandi senza che sia necessario pronunciarsi sulle altre censure proposte dal ricorrente.
In esito a quanto sin qui esposto e visto quanto sopra indicato sui limiti decisionali posti dal CPP ticinese, la sentenza impugnata va annullata e il ricorrente va prosciolto dall’imputazione di violazione di domicilio.
6.
Gli oneri processuali sono posti a carico dello Stato che rifonderà al ricorrente fr. 800.- per ripetibili di prima e seconda sede (art. 15 cpv. 1 in combinazione con l’art. 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
d7c5e24c-be7b-5399-b73a-a548675aeb0b | in fatto: A.
In virtù di un contratto di locazione stipulato con _, rappresentata dalla _, _ e _ hanno occupato per un certo periodo l'appartamento n. _ al secondo piano di uno stabile denominato _, raggiungibile percorrendo una scala comune di colore verde scuro utilizzata anche da altri inquilini. Il palazzo è suddiviso in otto settori tinteggiati in modo diverso, ciascuno collegato a una scala comune di accesso. A causa di importanti tracce di umidità riscontrate nell'appartamento, locatrice e conduttori hanno fissato un sopralluogo per le ore 11.00 del 28 febbraio 2002. All'incontro erano presenti _, suo fratello _ e _, quest'ultima in rappresentanza della _.
B.
Su quanto è accaduto in quell'occasione le versioni divergono. _ ha sostenuto di essere stata ricevuta verso le ore 11.00 sulla soglia dell'appartamento da _ e da suo fratello _, il quale si era presentato come avvocato e aveva subito alzato la voce non appena lei aveva fatto notare che essi erano gli unici inquilini del palazzo a lamentarsi. E siccome il colloquio era trasceso in insulti, essa se n'era andata subito. _ ha ammesso che _ si era presentata alle ore 11.00, affermando però che mentre questa si trovava nell'atrio dell'appartamento ed egli cercava di mostrare le macchie di muffa, si era sentito minacciare la disdetta del contratto di locazione, al che era intervenuto il fratello che aveva invitato la donna ad andarsene. Visto che costei indugiava, _ – sempre secondo la versione di _ – ha detto che avrebbe chiamato la polizia. _ si è quindi allontanata, ridendosela e minacciando conseguenze. _ ha dichiarato di ricordare che il tutto è avvenuto alle ore 11.00 precise del 28 marzo 2002, che egli era giunto a casa del fratello alle ore 10.50 e che _ aveva inveito subito contro quest'ultimo, contestando i difetti. Ha dichiarato di ricordare altresì che proprio durante quel sopralluogo egli aveva avuto modo di udire all'esterno dell'appartamento un diverbio tra due uomini, avvenuto in lingua tedesca, costellato di ingiurie e di parole poco edificanti.
Un'inquilina dello stabile, _, ha riferito a sua volta di avere sentito quella mattina, poco dopo le ore 10.30, che un acceso litigio era scoppiato tra un uomo e una donna, che in preda all'ira l'uomo aveva proferito la frase “Va' via,
brüta troia
” e che la donna era poi scesa dalla scala di colore marrone, dicendo “Me ne vado, ma non finisce qui”. Un'altra inquilina, _, ha affermato di avere sentito verso le ore 10.30–10.45 la voce di un uomo rivolgere parole offensive a una donna, senza però aggiungere altro. _ ha detto, da parte sua, di essersi trovata verso le ore 10.30–10.45 del 28 febbraio 2002 sotto il portico (aperto) di fronte alla scala marrone dello stabile, di avere sentito una voce maschile affermare “Io pago l'affitto, non concedo a nessuno di entrare nel mio appartamento”, poi la voce di una donna rispondere che lei doveva eseguire un controllo dell'appartamento, in seguito ancora l'uomo che rideva e proferiva insulti come “troia” e “puttana”. _ ha soggiunto di avere notato una donna anziana – riconosciuta poi nella persona di _ – scendere la scala marrone ed esclamare, prima di lasciare i luoghi, “Io vado via, ma non finisce qui!”.
C.
In esito a una querela sporta da _, con decreto di accusa del 25 novembre 2002 il Procuratore pubblico ha ritenuto _ autore colpevole di ingiuria per avere, quel 28 febbraio 2002 a _, offeso l'onore della querelante tacciandola con di epiteti come “troia”, “puttana” e “
brüta lögia
”. In applicazione della pena, egli ha proposto la condanna dell'accusato a una multa di fr. 300.–. Al decreto di accusa _ ha sollevato opposizione. Statuendo sull'opposizione, con sentenza del 14 marzo 2003 il giudice della Pretura penale ha confermato l'imputazione e la proposta di pena, mentre ha rinviato _, costituitasi parte civile, a far valere le sue pretese di risarcimento davanti al foro competente.
D.
Contro la predetta sentenza _ ha inoltrato il 18 marzo 2003 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta del 23 aprile successivo egli chiede la propria assoluzione o, in subordine, l'annullamento della sentenza impugnata. Con osservazioni del 15 maggio 2003 _ propone di respingere il ricorso. Ad analoga conclusione giunge il Procuratore pubblico nel suo scritto del 20 maggio 2003. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288 cpv. 1 lett. a e b CPP). L'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono sindacabili unicamente qualora la sentenza impugnata denoti estremi di arbitrio (art. 288 cpv. 1 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche erroneo, bensì apertamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 127 I 54 consid. 2b pag. 56, 126 I 168 consid. 3a pag. 170, 125 I 166 consid. 2a pag. 168, 125 II 10 consid. 3a pag. 15) o fondato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia 369 consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di arbitrio. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev'essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 128 I 177 consid. 2.1 pag. 182, 275 consid. 2.1, 125 II 129 consid. 5b pag. 134, 125 I 166 consid. 2a pag. 168, 124 I 208 consid. 4a pag. 211).
2.
Il giudice della Pretura penale ha dato atto che in concreto nessuno dei testimoni cui era giunta eco del diverbio aveva formalmente riconosciuto nella persona dell'imputato l'autore delle ingiurie, ma che sufficienti elementi facevano convergere gli indizi sulla figura dell'opponente. In primo luogo egli ha rilevato che non era possibile credere al fratello dell'accusato quando asseriva di non avere visto _ proferire alcuna ingiuria, non solo per lo stretto grado di parentela fra i due, ma anche perché _ era stato denunciato anch'egli da _ proprio in relazione al medesimo episodio (sentenza, pag. 8). Le dichiarazioni di _ contrastavano inoltre con quelle di tre altre persone indifferenti ai fatti, le quali avevano confermato di avere udito fra le ore 10.30 e 10.45 del 28 febbraio 2002 un uomo e una donna litigare, l'uomo rivolgendo alla donna improperi come “puttana”, troia” e “
bruta lögia
” e la donna protestare per le aggressioni verbali, aggiungendo che la vicenda non sarebbe finita così (sentenza, pag. 8 seg.).
A mente del primo giudice solo in teoria l'autore degli insulti poteva essere un estraneo, ove appena si consideri che in quel frangente _ – la quale aveva assistito alla scena – aveva domandato al portinaio dello stabile chi fosse la donna, sentendosi rispondere che si trattava della responsabile della _, presentatasi quel giorno dietro appuntamento con l'accusato (sentenza, pag. 9). La voce maschile che proferiva insulti alla donna notata sulle scale da _ e da _ non poteva dunque che essere quella di uno dei fratelli _, i quali attendevano per l'appunto la rappresentante della locatrice. E, tra i due fratelli, la voce in questione era senza dubbio quella dell'opponente, allora conduttore dell'appartamento, colui che si era rivolto alla donna dicendo che, in quanto soggetto che versava l'affitto, egli non permetteva a nessuno il diritto di varcare l'uscio di casa (sentenza, loc. cit.). Per di più – ha soggiunto il primo giudice – quel mattino del 28 febbraio 2002 nessuno ricordava di avere sentito altre grida, salvo un alterco in tedesco fra due uomini (sentenza, pag. 10). Infine l'affermazione della parte civile, secondo cui il fratello del ricorrente si era presentato come avvocato, era confermata da _, la quale aveva riferito di avere sentito qualcuno dire che il fratello di _ era un avvocato (sentenza, pag. 10).
3.
Il ricorrente ricorda anzitutto che l'incontro fissato per le ore 11.00 è effettivamente avvenuto a quel momento, come ammette anche la parte civile, sicché le deposizioni di _, _ ed _, le quali narravano di fatti intervenuti fra le ore 10.30 e le 10.45, risultano ininfluenti per il giudizio. Egli definisce quindi arbitrario e lesivo del principio
in dubio pro reo
imputargli i noti insulti, a maggior ragione ove si pensi che che nel suo interrogatorio del 6 aprile 2002 _ ha attribuito la voce ingiuriosa a quella di un uomo che le sembrava anziano, circostanza che lo scagiona d'acchito, dato che egli ha solo 35 anni.
a)
In realtà il primo giudice ha rammentato egli medesimo che tanto l'opponente quanto il fratello indicavano l'orario dell'incontro alle 11.00, mentre le testimoni situavano il diverbio un po' prima, tra le 10.30 e le 10.45 (sentenza, pag. 10). Quest'ultimo orario coincideva con quello indicato dalla denunciante (verso le 11.00). Se si pensa poi che il portinaio dello stabile ha riferito a _ che quella mattina _ era giunta a _ proprio per incontrare _ – ha continuato il primo giudice – un insulto da parte di un altro inquilino non entrava nemmeno in linea di conto (sentenza, pag. 10). Né l'orario dichiarato dai fratelli _ appariva convincere. Se l'incontro fosse durato davvero 10 minuti e i due avessero lasciato l'appartamento 10 minuti dopo, come pretendeva _, ovvero attorno alle 11.20, ben difficilmente quest'ultimo avrebbe potuto inviare alle 11.58 un fax alla _ da _, tenuto conto anche del tempo necessario per redigere la lettera. Verosimilmente l'incontro con _ era dunque avvenuto prima, come avevano riferito le tre testimoni (sentenza, pag. 11).
b)
Il ricorrente contesta quest'ultimo ragionamento, sostenendo che il fax è stato spedito non da _, bensì da _. Quand'anche ciò fosse, tuttavia, ciò non basta per dimostrare l'arbitrio in cui sarebbe caduto il primo giudice. Già si è accennato al fatto che, per essere annullata, una sentenza dev'essere arbitraria nel risultato, non solo nei motivi (sopra, consid. 1). E il ricorrente nulla eccepisce sull'insieme degli altri indizi addotti dal primo giudice a sostegno della propria persuasione. Egli non dimostra, in particolare, che siano manifestamente insostenibili le conclusioni tratte dalla testimonianza di _, la quale ha identificato in _ la donna scesa irritata dalle scale dopo che lei aveva avuto modo di udire un diverbio (seguito da pesanti insulti) tra un uomo che faceva valere i propri diritti di inquilino e una donna che pretendeva di dovere eseguire un controllo dell'appartamento (sentenza impugnata, lett. L riferito alla deposizione della testimone in aula). Non mette in dubbio nemmeno che _ abbia appreso dal portinaio del palazzo come quella mattina la donna fosse giunta a _ solo per visitare l'appartamento dell'imputato.
Obietta per vero, il ricorrente, che il primo giudice non avrebbe dovuto considerare le asserzioni del portinaio, ostandovi l'art. 134 cpv. 1 CPP (che ricalca l'art. 237 CPC), che impone ai testimoni di riferire su fatti cui hanno direttamente assistito e non su circostanze riferite da terzi, sottratte al contraddittorio. A prescindere dal fatto però che l'art. 134 cpv. 1 CPP non dispone quanto il ricorrente asserisce, non risulta che al dibattimento l'imputato abbia eccepito irregolarità di sorta, né che abbia reagito in qualche modo alla deposizione di _, foss'anche solo chiedendo al giudice di non tenerne conto. Egli non può quindi dolersene ora (art. 288 cpv. 1 lett. b CPP). Del resto, il primo giudice poteva accertare senza arbitrio che quella mattina _ non aveva incontrato altri inquilini all'infuori del ricorrente fondandosi proprio sulla deposizione di _, la quale ha dichiarato che, giunta in fondo alle scale, la donna aveva abbandonato i luoghi immediatamente (sentenza, pag. 5). Avesse avuto il diverbio con un altro conduttore prima di incontrare _, mal si comprenderebbe inoltre per quali ragioni essa addebiti gli insulti – sentiti dalle testimoni – al ricorrente. Sotto questo profilo nulla adombra una denuncia mendace. L'immediata reazione di lei (la querela porta la data del 28 febbraio 2002: act. 1) induce se mai a ritenere il contrario.
4.
Nel seguito del memoriale il ricorrente torna sull'ora dell'incontro, ma non apporta elementi atti a sostanziare il preteso arbitrio. In altri termini, egli non dimostra la manifesta insostenibilità della conclusione del giudice della Pretura penale, fondata su una valutazione complessiva delle risultanze processuali da cui si evince che la persona vista scendere le scale proveniva dall'appartamento del ricorrente, che quella persona intendeva ispezionare i vani, che la lite con gli insulti percepiti dalle tre testimoni potevano solo avere avuto luogo nella circostanze enunciate dalla parte civile, senza riguardo ai dettagli rilevati nel ricorso, per altro chiariti da _ al dibattimento (sentenza, pag. 5, 6 e 10).
5.
Al primo giudice il ricorrente rimprovera di essere incorso in un ulteriore arbitrio correlando le deposizioni delle tre testimoni con quanto era accaduto nel suo appartamento, sebbene _ ed _ avessero riferito di avere visto _ scendere dalla scala di colore marrone. Dato che egli abitava il settore verde scuro, per lasciare i luoghi la parte civile avrebbe dovuto prendere per forza la scala marrone, ciò che però non è avvenuto.
a)
Anche su questo punto il primo giudice non ha trascurato il problema, rilevando che effettivamente le testimoni _ e _ avevano riferito agli inquirenti quanto affermava il ricorrente. Per finire tuttavia egli ha considerato l'incongruenza trascurabile, ricordando che al dibattimento _ aveva comunque riferito chiaramente che gli insulti rivolti alla donna che scendeva le scale provenivano senza dubbio dal vano comune relazionato all'appartamento dell'imputato. Né la testimone era in grado di ricordare tutti i colori della scale comuni, colori che per di più possono anche confondersi, il verde scuro richiamando il marrone, specie per chi ricorda a distanza di tempo. Decisivo, ha concluso il primo giudice, è che al dibattimento la testimone abbia saputo ricordare con precisione quale fosse la scala d'accesso all'appartamento del ricorrente (sentenza, pag. 12).
b)
Incombeva di nuovo al ricorrente dimostrare l'arbitrarietà della citata conclusione. Invece egli si esaurisce in considerazioni e riflessioni appellatorie, inammissibili in un ricorso per cassazione fondato sul divieto d'arbitrio. Data la chiarezza della fattispecie, il primo giudice non ha violato i diritti di parte nemmeno rifiutando il 28 marzo 2002 il sopralluogo chiesto dall'opponente. Nulla di concreto induceva difatti a mettere seriamente in discussione la testimonianza di _, salvo la questione legata al colore delle scale. Tanto meno ove si pensi che la di lei testimonianza riporta un particolare ricordato anche da _ nel suo fax del 28 febbraio 2003 alla _, ossia che _ non aveva ispezionato l'appartamento proprio perché diffidata ad andarsene dai fratelli _.
6.
Il ricorrente assevera dopoi che l'accertamento secondo cui suo fratello si sarebbe fatto passare per avvocato, come confermava _, è gratuita, suo fratello non essendo affatto un legale. La testimone può quindi avere confuso quanto da lei visto e udito quella mattina con quanto le ha riferito la querelante in un incontro successivo. Manifestamente appellatoria, la critica non può trovare spazio in un ricorso per cassazione fondato sul divieto dell'arbitrio. Inammissibile, essa sfugge perciò a un esame di merito.
7.
Secondo il ricorrente le prove a suo carico non consentono in ogni modo di sopprimere quel ragionevole dubbio che oggettivamente sussiste. Egli deve perciò essere prosciolto In applicazione del principio
in dubio pro
reo. Ora, tale principio è un corollario della presunzione d'innocenza garantita dagli art. 32 cpv. 1 Cost., 6 par. 2 CEDU e 14 cpv. 2 patti ONU. Esso disciplina sia la valutazione della prove sia il riparto dell'onore probatorio. Per quanto attiene alla valutazione delle prove, ossia all'argomento oggetto del ricorso, il principio
in dubio pro reo
significa che il giudice penale non può dichiararsi convinto di una versione più sfavorevole all'imputato quando, a una valutazione non arbitraria del materiale probatorio, sussistono dubbi sul modo in cui si è verificata la fattispecie. Il principio non impone che l'apprezzamento delle prove conduca a un assoluto convincimento. Semplici dubbi teorici sono sempre possibili. Il principio è disatteso quando il giudice avrebbe dovuto, dopo un'analisi globale e oggettiva delle prove, nutrire dubbi rilevanti sulla colpevolezza (DTF 127 I 38 consid. 2a, pag. 41, 124 IV 86 consid. 2a pag. 88, 120 Ia 31 consid. 2d pag. 38), Sotto questo profilo il principio
in dubio pro reo
ha la stessa portata dl divieto dell'arbitrio (DTF 120 Ia 31 consid. 4b pag. 41). Nella fattispecie non è però possibile affermare che il giudice della Pretura penale ha condannato il ricorrente quantunque una valutazione non arbitraria delle risultanze del processo lasciasse sussistere dubbi rilevanti sulla sua colpevolezza. Anche sotto questo aspetto il ricorso risulta perciò privo di consistenza.
8.
Dato quanto precede, nella misura in cui è sufficientemente motivato il ricorso è destinato all'insuccesso. Gli oneri processuali seguono la soccombenza del ricorrente (art. 15 cpv. 1 e 9 cpv. 1 CPP), che rifonderà a _, la quale ha formulato osservazioni al ricorso per il tramite di un avvocato, un'indennità di fr. 500.– per ripetibili. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,003 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
d866ad3f-04ba-51a2-bda2-8c5495726a08 | in fatto ed in diritto
che a seguito della denuncia sporta il 10/12.09.2001 dall’amministratrice speciale del fallimento di _ nei confronti di quest’ultimo – il quale era titolare della ditta individuale _, con sede a _ [il cui scopo era l’esercizio di un’impresa di costruzione, del cui titolare _ è stato dichiarato il fallimento con decreto 11.02.1998 della Pretura di _ e la cui procedura di fallimento è stata chiusa con decreto del 7.01.2009 (cfr. estratto del registro di commercio)] – per l’ipotesi di reato di titolo di inosservanza da parte del debitore di norme della procedura di esecuzione e fallimento (art. 323 CP) riguardo in particolare alla posizione di quest’ultimo in seno alla _, _ -_, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale a suo carico sfociato nel decreto di non luogo a procedere 7.01.2002 emanato dall’allora procuratore pubblico Giuseppe Muschietti in difetto dell’esistenza di seri e concreti indizi di reato (NLP _ – inc. MP _);
che avverso il suddetto decreto non è stata presentata all’allora Camera dei ricorsi penali un’istanza di promozione dell’accusa ai sensi dell’art. 186 CPP TI;
che nell’ambito della causa di accertamento dell’inesistenza del debito ex art. 85a LEF promossa il 28.09.2009 in procedura accelerata presso la Pretura di _ da PI 3 contro _, ora IS 1, e meglio in occasione dell’udienza tenutasi il 10.11.2009, la parte convenuta ha eccepito il falso di tre documenti prodotti dalla parte attrice (inc. _ della Pretura di _);
che l’eccezione di falso è stata ribadita il 12.01.2010 durante l’udienza di discussione dinanzi al pretore di _, avv. Marco Ambrosini, il quale ha deciso di trasmettere l’incarto al Ministero pubblico per quanto di sua competenza (AI 1 – inc. MP _);
che in seguito alla surriferita segnalazione, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale a carico di PI 3 per l’ipotesi di reato di falsità in documenti (nell’ambito del quale sono stati intrapresi alcuni atti d’indagine, ovverossia l’allestimento di una perizia calligrafica e l’interrogatorio di diverse persone) sfociato nel decreto di abbandono 25.05.2011 (ABB _) emanato dal procuratore pubblico Andrea Gianini in applicazione dell’art. 319 cpv. 1 lit. a CPP (inc. MP _);
che avverso il suddetto decreto non è stato presentato reclamo a questa Corte giusta l’art. 322 cpv. 2 CPP;
che il 31.10.2011, nell’ambito della causa civile ordinaria appellabile di cui all’incarto _ della Pretura di _ promossa il 28.09.2009 da PI 3, _ (patr. da: avv. PR 2, _) contro IS 1, _ (patr. da: avv. PR 1, _), il pretore aggiunto della Pretura di _, avv. _, ha – tra l’altro – deciso che la convenuta è autorizzata a procedere alla ricerca della documentazione utile e pertinente per il procedimento presso il Ministero pubblico di _ in relazione ai suddetti incarti penali (doc. 1.a);
che con la presente richiesta – trasmessa dal Ministero pubblico, per competenza, a questa Corte – l’avv. PR 1, in nome e per conto della sua assistita, richiamando la citata decisione 31.10.2011 (inc. _ della Pretura di _), ha chiesto di ottenere la trasmissione degli incarti penali NLP _ e MP _ (doc. 1.a);
che in data 20.12.2011 questa Corte ha informato l’avv. PR 1 che deve poter disporre di informazioni minime riguardo ai motivi che stanno alla base della sua richiesta con riferimento ad ogni singolo incarto penale onde stabilire se sia adempiuto un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG (doc. 2);
che con scritto 3/4.01.2012 l’avv. PR 1 ha nuovamente trasmesso a questa Corte la decisione 31.10.2011 della Pretura di _ (inc. _ della Pretura di _) (doc. 3);
che a suffragio della sua richiesta ha precisato che l’incarto penale MP _
"
(...) fu istruito dopo che la mia cliente, nell’ambito dei paralleli procedimenti civili _ e _ (azione di disconoscimento del debito rispettivamente di accertamento dell’inesistenza del debito ex art. 85a LEF) ebbe sollevato un’eccezione di falso documentale
" e che "
il Pretore di _ trasmise quindi gli incarti al Ministero pubblico per verificarne mediante perizia e testimonianze l’autenticità
" (doc. 3);
che per quanto concerne l’incarto penale sfociato nel NLP _ ha affermato che il medesimo riguarda _, padre dell’attrice delle vertenze civili (PI 3), il quale avrebbe
"
(...) rivestito un ruolo determinante, emergendo quale potenziale protagonista di sospette irregolarità
" e che "
la consultazione dell’incarto permetterà dunque di fare lumi su questi aspetti
", adducendo che "
la pertinenza degli incarti penali è stata d’altronde avallata dal Pretore aggiunto, il quale ne ha ammesso il contenuto quale prova
" (doc. 3);
che, come esposto in entrata, _, interpellato da questa Corte, non ha presentato osservazioni in merito alla presente istanza;
che questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare PI 3, avendo IS 1 eccepito il falso in merito ad alcuni documenti prodotti da PI 3 nell’ambito della causa civile di cui all’incarto _ della Pretura di _ promossa da quest’ultima (di cui si è detto poc’anzi) e che il patrocinatore della qui istante è già stato autorizzato dal magistrato inquirente a visionare gli atti dell’incarto penale MP _ sfociato nel decreto di abbandono 25.05.2011 (ABB _);
che l
’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che per quanto attiene all’incarto penale MP _ va evidenziato che, come visto, nell’ambito della causa civile ex art. 85a LEF di cui all’incarto _ promossa presso la Pretura di _ da PI 3 contro _, ora IS 1, quest’ultima ha eccepito il falso di tre documenti prodotti dalla parte attrice e che il pretore ha quindi deciso di trasmettere l’incarto al Ministero pubblico che ha aperto un procedimento penale a carico di PI 3 per l’ipotesi di reato di falsità in documenti (art. 251 CP) sfociato nel decreto di abbandono 25.05.2011 (ABB _) emanato dal procuratore pubblico Andrea Gianini;
che il 31.10.2011 il pretore aggiunto della Pretura di _ ha ammesso il richiamo dell’incarto _ ed ha deciso di sospendere la causa di cui all’incarto _ fino al termine dell’istruttoria della procedura ordinaria di cui all’incarto _ (decisione 31.10.2011, inc. _ della Pretura di _, doc. 1);
che in siffatte circostanze appare pacifico che vi sia una connessione tra la causa civile di cui all’incarto _ pendente presso la Pretura di _ e il procedimento penale di cui all’incarto MP _ sfociato nel decreto di abbandono 25.05.2011 (ABB _), poiché gli atti e l’esito del procedimento penale potrebbero senz’altro essere utili ai fini del giudizio civile; è quindi adempiuto un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG;
che per quanto concerne, per contro, l’incarto penale MP _ si evidenzia che il medesimo trae le sue origini dalla denuncia 10/12.09.2001 sporta dall’amministratrice speciale del fallimento contro _ per l’ipotesi di reato di inosservanza da parte del debitore di norme della procedura di esecuzione e di fallimento (art. 323 CP);
che la qui istante ha nondimeno omesso di precisare concretamente quale sarebbe la connessione tra l’incarto penale MP _ e il procedimento civile di cui all’incarto _ della Pretura di _ (avendo in particolare omesso di illustrare nel dettaglio di cosa tratta/trattano la/le vertenza/e civile/i pendente/i presso la Pretura di _, in che modo _ avrebbe (a suo dire) rivestito un ruolo determinante quale potenziale protagonista di sospette irregolarità e per quale motivo ciò potrebbe influire sul/sui giudizio/i civile/i) rispettivamente di dimostrare il suo interesse giuridico legittimo prevalente sugli interessi personali di _ come esatto dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dalla costante prassi di questa Corte;
che per il fatto che il pretore aggiunto abbia autorizzato la parte convenuta IS 1 di cui all’incarto _ e qui istante a procedere alla raccolta della documentazione utile e pertinente dell’incarto penale MP _ presso il Ministero pubblico, ciò non significa che nella fattispecie in esame sia adempiuto un interesse giuridico legittimo ex art. 62 cpv. 4 LOG (decisione 31.10.2011, p. 2, _ della Pretura di _, AI 1), poiché l’autorizzazione ad ispezionare gli atti di un procedimento penale concluso (posto che siano adempiuti i presupposti), viene rilasciata, su richiesta, da questa Corte (e non dalla Pretura), che fissa le modalità di ispezione in applicazione dell’art. 62 cpv. 4 LOG;
che dallo scritto 18.02.2010 dell’avv. PR 1 trasmesso al Ministero pubblico nell’ambito del procedimento penale di cui all’incarto MP _ emerge (evidentemente dal suo punto di vista) la fattispecie oggetto del contenzioso civile (AI 5 – inc. MP _);
che il legale ha in particolare esposto che il 26.06.2003 i fratelli _ (figli di _) avrebbero sottoscritto con _ (ex compagno di IS 1) un contratto mediante il quale gli stessi si sarebbero riconosciuti debitori nei confronti di quest’ultimo della somma di CHF 120'000.-- oltre interessi, denaro messo a disposizione da parte di IS 1, che sarebbe rimasta beneficiaria degli interessi e che avrebbe dovuto ricevere, a titolo di garanzia, una cartella ipotecaria (mai emessa);
che l’8.01.2009 il credito sarebbe stato ceduto da _ a IS 1, la quale ha promosso contro PI 3 un’esecuzione per l’incasso degli interessi di mutuo arretrati ottenendo il rigetto provvisorio dell’opposizione con sentenza 8.07.2009 della Pretura di _, confermato dalla CEF con sentenza 7.08.2009;
che a seguito di ciò PI 3 ha promosso contro IS 1 un’azione di disconoscimento del debito ex art. 83 cpv. 2 LEF (inc. _ della Pretura di _) e parallelamente un’azione di accertamento dell’inesistenza del debito ex art. 85a LEF (inc. _ della Pretura di _), producendo tre documenti che sarebbero falsi [tra cui il doc. G inerente alla
"
(...) stipula in data 19 agosto 2003 di un diritto di compera da parte del signor _, avente per oggetto azioni della _, con una penale di fr. 200'000.-- in caso di mancato esercizio, da versare a _, _ e PI 3
"
e il doc. H inerente alla
"
(...) rinuncia all’acquisto delle azioni, con contestuale promessa di pagamento della penale
" (scritto 18/19.02.2010, p. 2, AI 5 – inc. MP _)];
che al momento della sottoscrizione della convenzione 19.03.2003 di cui al doc. G
"
(...) non solo i _ non detenevano azioni di _, ma la società era addirittura già da tempo fallita
", considerando inoltre che il 15.10.2001, in sede di polizia, _ aveva dichiarato che né lui né i suoi famigliari sono mai stati azionisti di detta società (scritto 18/19.02.2010, p. 2 e doc. 14 ivi annesso, AI 5 – inc. MP _);
che di conseguenza sembra che il motivo alla base della richiesta di poter esaminare gli atti dell’incarto penale MP _, (di cui la qui istante non è parte) sia quello di stabilire se _ rispettivamente i suoi famigliari fossero stati o meno azionisti della _;
che da un’attenta lettura dell’incarto penale MP _ risulta che la predetta questione sarebbe stata chiarita nel verbale d’interrogatorio di _ tenutosi il 15.10.2001 dinanzi alla polizia (annesso al rapporto d’inchiesta di polizia 8.11.2001);
che questo verbale è già in possesso del patrocinatore della qui istante, avendolo prodotto in copia unitamente allo scritto 18/19.02.2010 nell’ambito del procedimento penale di cui all’incarto MP _ (AI 5 – doc. 14);
che ciò posto, la richiesta da parte dell’istante di poter esaminare gli atti dell’incarto penale MP _ deve essere conseguentemente respinta, considerato inoltre che nella necessaria ponderazione degli interessi delle parti prevalgono quelli di _
;
che alla luce di quanto sopra esposto, questa Corte autorizza IS 1 rispettivamente il suo patrocinatore, avv. PR 1, ad esaminare presso il Ministero pubblico di Lugano unicamente gli atti dell’incarto penale MP _ sfociato nel decreto di abbandono 25.05.2011 (ABB _), concordando i tempi di accesso con il procuratore pubblico Andrea Gianini, compatibilmente con i suoi impegni;
che IS 1 rispettivamente il suo patrocinatore sono autorizzati a fotocopiare i documenti utili ai fini delle vertenze civili;
che visto il caso particolare, non si prelevano tassa di giustizia e spese;
che l’istanza è evasa ai sensi delle suddette considerazioni. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
d8c7ebb6-7347-508c-b900-9c891ae6fe60 | in fatto ed in diritto
che il 21/22.01.2013 _ (socio e gerente con diritto di firma individuale della _, con sede a _, nonché direttore con diritto di firma individuale della _, con sede a _) e _ (socio e direttore con diritto di firma individuale della _ e AU con diritto di firma individuale della _) hanno presentato un esposto penale nei confronti, tra l’altro, di _ per le ipotesi di reato di
"
calunnia – millantato credito
" in relazione ad alcuni problemi sorti riguardo all’acquisto di gru edili da parte delle predette società presso la IS 1, con sede a _, di cui _ è AU (AI 1 – inc. NLP 260/2013);
che l’esposto penale è sfociato il 25.01.2013
nel decreto di non luogo a procedere emanato dal procuratore pubblico, tra l’altro, nei confronti di _
"
(...) considerato l’immediato ritiro della denuncia
" (
NLP _);
che il summenzionato decreto non è stato impugnato presso questa Corte: il medesimo è dunque passato in giudicato;
che con la presente istanza – trasmessa, per competenza ex art. 62 cpv. 4 LOG, dal Ministero pubblico a questa Corte – l’avv. PR 1 comunica che la IS 1, di cui è AU/titolare _, le ha conferito il mandato di tutelare i suoi interessi nell’ambito di diverse procedure pendenti che la vede opposta alle società _ e _;
che il legale, essendo venuto a conoscenza del summenzionato procedimento penale, chiede di poter esaminarne l’incarto ai fini delle sue incombenze;
che, come esposto in entrata, il procuratore pubblico non si è opposto alla richiesta;
che questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare le altre parti del procedimento penale di cui all’incarto NLP _ nel frattempo archiviato, essendo _ stato parte al medesimo;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel presente caso, pur essendo stato l’istante parte (in qualità di denunciato/querelato) nel procedimento nel frattempo terminato, egli deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo;
che,
come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10);
che inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994 p. 19);
che lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG;
che nella fattispecie in esame – visti i motivi addotti nella presente richiesta – appare pacifico l’interesse giuridico legittimo di _ (rispettivamente del suo patrocinatore) giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere la trasmissione, in copia, dell’incarto NLP _ e del relativo decreto di non luogo a procedere, poiché il procedimento penale nel frattempo archiviato l’ha interessato personalmente in veste di parte;
che a ciò aggiungasi che il summenzionato decreto è stato, tra l’altro, intimato soltanto ai denuncianti/querelanti (NLP _);
che di conseguenza gli atti istruttori dell’incarto NLP _ (AI 1 – AI 6), il verbale del procedimento datato 25.04.2014 e il NLP _ vengono trasmessi, in copia, al patrocinatore di Giuseppe Tornello (rispettivamente della IS 1) unitamente alla presente decisione;
che si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo _ già stato parte al procedimento penale nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
d8edad25-d07e-53a0-816f-544ed0ffcd3e | in fatto
a
. Con esposto 4/5.1.2012 PI 1 ha sporto querela contro ignoti per i reati di diffamazione, calunnia e ingiuria, in relazione alla distribuzione in diversi luoghi del Cantone Ticino ed in particolare a _, in data 14.10.2011, di un volantino intitolato “_”, nel quale vi sarebbero contenuti dei passaggi – a suo dire – lesivi del suo onore penalmente protetto (querela penale 4/5.1.2012, AI 1, inc. MP _).
Con scritto 16/18.1.2012 RE 1 ha comunicato al procuratore generale che “
le cinque persone querelate eleggono recapito postale presso il sottoscritto, cui vorrete far comunicare in nome del Magistrato incaricato nonché inviare ogni corrispondenza, citazione, decisione e simili
” (cfr. AI 2).
In reazione a tale scritto il procuratore pubblico Nicola Corti, allora titolare del procedimento in questione, ha chiesto conferma a RE 1 del fatto che “
gli ignoti vanno identificati in lei e nei suoi altri quattro patrocinati
”, considerato che la querela era rivolta contro ignoti, invitandolo a prendere posizione – per iscritto – in merito ed e precisare l’eventuale disponibilità ad un’udienza di conciliazione (cfr. scritto 19.1.2012, AI 3).
b
. A seguito dell’esposto penale di cui sopra, dell’articolo 15.1.2012 pubblicato sul _ che lo annunciava nonché dello scritto 19.1.2012 del magistrato inquirente (AI 3), con lettera 30/31.1.2012, RE 1 ha comunicato al procuratore pubblico che “
la responsabilità legale e politica del contenuto del volantino denominato ‘_’ è stata assunta pubblicamente, oltre che da parte del sottoscritto, anche da parte delle persone seguenti: _, _, _ e _, come del resto già fatto mediante il comunicato apparso sul _ del 6.11.2011
”, allegando tale comunicato quale annesso 1 (cfr. AI 4). RE 1 ha altresì precisato che la “
presente dichiarazione viene firmata dal sottoscritto anche in nome e per conto delle quattro persone elencate (...)
” (scritto 30/31.1.2012, p. 2, AI 4).
In data 20/21.2.2012 è stato presentato un memoriale difensivo da _, RE 1, _, _ e _ (cfr. AI 5). Tale allegato è stato sottoscritto unicamente da RE 1.
c
. Con decisione 5.6.2012, indirizzata a RE 1 ed inviata per conoscenza a PI 1 e per conoscenza e presa di posizione ad _, _, _ e _, il procuratore pubblico Andrea Gianini (subentrato nell’inchiesta) ha chiesto, “
fermo restando il principio nemo tenetur se detegere, (...) di precisare se con tali dichiarazioni
[ndr lo scritto 30/31.1.2012 (AI 4) ed il memoriale difensivo 20/21.2.2012 (AI 5)]
lei intendeva e intende tuttora indicare di essere, unitamente alle altre persone citate, autore ai sensi dell’art. 28 cpv. 1 CP del volantino ‘_’, assumendo così l’eventuale responsabilità penale per il contenuto dello stesso
” (cfr. decisione 5.6.2012, p. 1, AI 6).
Lo informa altresì di non ritenere possibile, qualora dovesse essere ritenuto autore del volantino in questione e rivestire quindi la posizione processuale di imputato, “
l’assunzione da parte sua
(ndr di RE 1)
della difesa di altre persone che potrebbero essere, a loro volta, coinvolte in qualità di imputati nel procedimento in oggetto, come pure escludo che le stesse persone possano eleggere recapito postale presso di lei
” (cfr. decisione 5.6.2012, p. 2, AI 6).
Il magistrato inquirente ha quindi assegnato al destinatario dello scritto nonché a coloro che l’hanno ricevuto “per conoscenza e presa di posizione”, un termine di 10 giorni dalla ricezione “
indicando, qualora abbiano assunto la responsabilità penale, se intervengono di persona nel procedimento o se hanno conferito il mandato a un difensore, precisando in questo caso le generalità del professionista di loro scelta
” (cfr. decisione 5.6.2012, p. 2, AI 6).
Lo stesso ha infine indicato, in calce, quale rimedio giuridico il reclamo a questa Corte.
d
. Con scritti 12.6.2012, del medesimo tenore dell’AI 6, il magistrato inquirente ha concesso una proroga del termine (richiesta da RE 1, cfr. AI 7) scadente il 2.7.2012. Il procuratore pubblico ha inviato tali scritti singolarmente e rispettivamente a RE 1 (AI 8), _ (AI 9), _ (AI 10), _ (AI 11) e _ (AI 12).
e
. Con gravame 18/19.6.2012 RE 1 chiede l’annullamento della decisione 5.6.2012, ed in via subordinata il rinvio della stessa al Ministero pubblico “
affinché venga corredata di motivazione
” (reclamo 18/19.6.2012, p. 8).
Il reclamante ritiene che mediante la decisione impugnata il magistrato inquirente avrebbe violato il principio
nemo tenetur
, in quanto rispondere alla domanda contenuta nella decisione di cui sopra significherebbe cooperare al corso del procedimento. Inoltre, “
siccome il PM ipotizza un conflitto di interessi fra il ricorrente e le altre quattro persone menzionate nella querela, significa che ipotizza perlomeno che il ricorrente possa assumere la veste di imputato. In tale veste, il ricorrente ha diritto di rifiutarsi di cooperare in qualsiasi modo. (...). Anche in qualità di testimone o di persona informata sui fatti, il ricorrente conserva la sua facoltà di non rispondere per timore di esporsi ad un procedimento penale
” (reclamo 18/19.6.2012, p. 5). La decisione impugnata violerebbe quindi anche tale diritto, “
codificato all’art. 3 CPP
” (reclamo 18/19.6.2012, p. 5).
Tale decisione violerebbe inoltre il diritto di assumere il patrocinio nonché il diritto di assumere il mandato di recapito postale, in quanto il conflitto di interessi menzionato dal magistrato inquirente sarebbe “
puramente ipotetico
”, rispettivamente non motivato “
in violazione dell’art. 8 cpv. 2 CPP
” per quanto attiene alla questione del recapito postale (reclamo 18/19.6.2012, p. 6).
RE 1 ritiene infine che vi sarebbe un divieto di “
venire contra factum proprium
”, in quanto il Ministero pubblico ha già avviato un procedimento penale a seguito della suddetta querela ed in questo ambito ha già condotto diversi atti che implicherebbero - a suo dire – il riconoscimento: “
a)
dell’inutilità di qualsiasi atto istruttorio; b) della necessità di risolvere il quesito di diritto materiale penale della qualifica di reato contro l’onore delle affermazioni querelate; c) del diritto del ricorrente di rappresentare le altre quattro persone; d) del diritto del ricorrente di fungere da recapito postale delle altre quattro persone
” (reclamo 18/19.6.2012, p. 6).
Afferma quindi che queste decisioni non sono state impugnate da parte del querelante e pertanto sono cresciute in giudicato, motivo per cui non possono essere modificate, se non in presenza di fatti nuovi. Ritiene tale principio procedurale come corollario “
dell’obbligo di fairness e di buona fede stabiliti dall’art. 3 cpv. 2 CPP
” (reclamo 18/19.6.2012, p. 7).
Conclude sostenendo che la questione di fatto è assolutamente chiara, essendosi cinque persone assunte la responsabilità legale, e quindi anche penale. Non rimane quindi altro che procedere alla qualifica giuridica, “
ossia stabilire se le dichiarazioni oggetto di querela siano o meno censurabili dal profilo penale
” (reclamo 18/19.6.2012, p. 7).
f
. Con scritto 20/21.6.2012 _ ha comunicato al magistrato inquirente che “
anche se non ho partecipato alla stesura del ‘_(vedi _ di domenica 13 novembre 2011 Etic(hett)a) per l’amore che porto all’etica e al paese me ne assumo ogni responsabilità legale e politica
” (AI 16).
g
. Con osservazioni 28.6.2012 il magistrato inquirente contesta anzitutto che vi sia stata una violazione del principio
nemo tenetur
. In merito all’asserita violazione del diritto di assumere il patrocinio, afferma che nessuna delle persone di cui il reclamante vuole assumere il patrocinio “
ha formalmente confermato il conferimento di un qualsiasi mandato all’avv. RE 1
”
(osservazioni 28.6.2012, p. 3), motivo per cui l’assunzione di tali mandati risulterebbe essere priva dei necessari requisiti formali. A dimostrazione poi dell’esistenza di conflitti di interessi fra i citati ed il reclamante, il magistrato inquirente richiama lo scritto 20/21.6.2012 di _ (cfr. AI 16). Per tale motivo il procuratore pubblico ribadisce la necessità che RE 1, oltre alla propria, non si accolli anche la difesa degli altri, al momento potenziali, imputati. Medesimo discorso va fatto per l’asserita violazione del diritto di assumere il mandato di recapito postale. Per quanto attiene poi all’asserito “
venire contra factum
” il magistrato inquirente fa notare che prima dello scritto 5.6.2012 qui impugnato, nessun’altra decisione è stata assunta, né espressa, né tacita. Rileva infine che la mancata reazione al memoriale difensivo 20/21.2.2012 del reclamante (AI 5), non può certo essere intesa come tacito consenso, “
semmai l’inazione dell’autorità inquirente potrà essere valutata secondo il principio di celerità (art. 5 CPP), ma non come violazione della dignità umana e della correttezza (cfr. art. 3 CPP) invocata
” (osservazioni 28.6.2012, p. 4).
Delle osservazioni di PI 1 si dirà, laddove necessario, in corso di motivazione.
h
. Con scritti 2.7.2012, 4.7.2012 e 9.7.2012 il magistrato inquirente ha inviato a questa Corte copia rispettivamente degli scritti 30.6/2.7.2012 di _, 2/3.7.2012 di _ e 6/8.7.2012 di _, mediante i quali gli stessi affermano di assumersi la responsabilità legale e politica della pubblicazione “_”, ai sensi dell’art. 28 cpv. 1 CP, indicando nel contempo di non intendere avvalersi dell’assistenza di un difensore allo stadio attuale della procedura, e riferendosi/associandosi infine al memoriale difensivo 20/21.2.2012 di RE 1.
i
. Con replica 9/11.7.2012 RE 1 chiede, in via processuale, che il magistrato inquirente metta a disposizione di questa Corte nonché del reclamante stesso “
le lettere indirizzate dal PM ai signori _, _, _, _ nonché le risposte di questi ultimi
” (replica 9/11.7.2012, p. 11), ed in via principale, l’accoglimento integrale delle domande formulate in conclusione del reclamo 18/19.6.2012.
Chiede quindi la sospensione della procedura ricorsuale fintanto che tutti i suddetti documenti siano stati messi a sua disposizione.
Delle ulteriori motivazioni, così come delle dupliche del magistrato inquirente e di PI 1 si dirà, se indispensabile, in seguito. | in diritto
1
. 1.1.
Giusta l’art. 393 cpv. 1 lit. a CPP il reclamo può essere interposto, entro il termine di dieci giorni, contro le decisioni e gli atti procedurali della polizia, del pubblico ministero e delle autorità penali delle contravvenzioni, eccettuati i casi in cui è espressamente escluso dal CPP o quando è prevista un’altra impugnativa.
Con il gravame, da introdurre davanti alla giurisdizione di reclamo (art. 20 cpv. 1 lit. b CPP), ovvero – in Ticino – alla Corte dei reclami penali (art. 62 cpv. 2 LOG), si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l’eccesso e l’abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l’accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l’inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta ed all’art. 385 CPP per la motivazione.
Esso deve indicare – in particolare – i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
1.2.
Il gravame – inoltrato il
18/19.6.2012
– contro la
decisione 5.6.2012 del procuratore pubblico è tempestivo.
Visto l’esito del presente gravame, la legittimazione di RE 1 a reclamare giusta l’art. 382 cpv. 1 CPP contro la succitata decisione, può restare irrisolta. Questa Corte tuttavia non comprende, ed il reclamante nemmeno lo invoca, quale sarebbe il suo interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica della decisione in questione.
1.3.
Preliminarmente si osserva che la richiesta esposta in sede di replica da RE 1 di sospendere la procedura ricorsuale fintanto che tutti i documenti indicati al considerando h. siano stati messi a sua disposizione (replica 9/11.7.2012, p. 3), non riguarda la procedura di reclamo che qui ci occupa e non può quindi essere presa in considerazione.
Si tratta di un problema di accesso agli atti del procedimento penale da parte di RE 1, che non può essere sollevato nell’ambito del reclamo contro la decisione 5.6.2012.
Le esigenze di forma e motivazione del reclamo sono, nei limiti di quanto sopra esposto, rispettate.
2
. RE 1 contesta anzitutto il fatto che il magistrato inquirente, mediante la decisione impugnata, gli abbia chiesto di indicare se fosse “
autore ai sensi dell’art. 28 cpv. 1 CP del volantino ‘_’, assumendo così l’eventuale responsabilità penale per il contenuto dello stesso
” (decisione 5.6.2012, p. 1).
Il reclamante ritiene che agendo in tale modo, il procuratore pubblico avrebbe violato il principio
nemo tenetur
(reclamo 18/19.6.2012, p. 3-5).
Anzitutto va rilevato che il principio
nemo tenetur
non vieta al magistrato inquirente di porre domande del tenore di quella in questione, così come RE 1 - dal canto suo - ha il diritto di invocare la sua facoltà di non rispondere (cfr. art. 158 cpv. 1 e 169 CPP).
Tuttavia, nella fattispecie concreta il problema non si pone.
Già in data 30/31.1.2012 RE 1 ha comunicato al magistrato inquirente allora titolare del procedimento, Nicola Corti, di essersi assunto pubblicamente mediante il comunicato apparso sul _ il 6.11.2011, nonché unitamente alle altre quattro persone menzionate, “
la responsabilità legale e politica del contenuto del volantino denominato ‘_’
(scritto 30/31.1.2012, p. 1, AI 4).
Anche in questa sede poi, mediante la replica 9/11.7.2012, il reclamante ha precisato che tutte le persone coinvolte, quindi lui compreso, “
si sono annunciate per iscritto in conformità dell’art. 28 CP
”, assumendosi la responsabilità secondo appunto l’art. 28 CP. Lo stesso tiene poi a precisare che l’art. 28 CP si applica indiscutibilmente anche allo scritto in questione, alla luce della dottrina e della giurisprudenza (replica 9/11.7.2012, p. 4).
In siffatte circostanze, la contestazione del reclamante relativa all’asserita violazione del principio
nemo tenutur
, è quindi divenuta priva d’oggetto.
3
. A medesima conclusione si giunge per quanto attiene la censura sollevata da RE 1 relativa alla violazione del diritto di assumere il patrocinio, nonché quella relativa al diritto di assumere il mandato di recapito postale.
Anche per tali argomenti il reclamo risulta essere privo d’oggetto.
Agli atti vi sono infatti gli scritti 30.6/2.7.2012 di _, 2/3.7.2012 di _ e 6/8.7.2012 di _, mediante i quali gli stessi affermano di non intendere avvalersi dell’assistenza di un difensore a questo stadio del procedimento, riferendosi/associandosi altresì al memoriale difensivo 20/21.2.2012 (AI 5) sottoscritto da RE 1.
L’unico scritto che è silente in merito alla questione del patrocinio è quello datato 20/21.6.2012 di _ (AI 16), ma d’altra parte nessuna procura a favore di RE 1 risulta agli atti, e nemmeno è stata prodotta in questa sede.
Così come agli atti non figura alcun mandato di recapito postale a favore del reclamante, sottoscritto dalle persone interessate.
La questione non merita quindi ulteriori approfondimenti.
4
. Il reclamante solleva infine il divieto di “
venire contra factum proprium
”
(reclamo 18/19.6.2012, p. 6-8).
Questa Corte non comprende tuttavia quali sarebbero i “
diversi atti
” già condotti dal Ministero pubblico nell’ambito del procedimento penale in questione (reclamo 18/19.6.2012, p. 6).
Dal verbale di procedimento di cui all’inc. MP _ risulta, in reazione allo scritto 16/18.1.2012 del reclamante (AI 2), lo scritto del magistrato inquirente allo stesso, mediante il quale gli si chiedeva conferma del fatto che gli ignoti andassero “
identificati in lei e nei suoi altri quattro patrocinati
” (scritto 19.1.2012, AI 3).
A seguito di ciò, a parte la decisione 5.6.2012 (AI 6) che qui ci occupa e le decisioni 12.6.2012 (AI 8, 9, 10, 11 e 12) del medesimo tenore dell’AI 6, non vi è alcuna altra decisione né atto istruttorio compiuti dal Ministero pubblico.
Ora, come detto, ed unicamente per quanto attiene la posizione di _ (essendo le altre chiare), in assenza di una formale procura a favore del reclamante, gli atti sopra menzionati, non possono essere ritenuti sufficienti per determinare il diritto di RE 1 a patrocinare e fungere da recapito postale per lo stesso.
Anche sotto tale aspetto il reclamo non può trovare accoglimento.
5
. Alla luce di quanto sopra, il gravame, per quanto non divenuto privo di oggetto, è respinto. Tassa di giustizia e spese sono poste a carico del reclamante, soccombente. Non si assegnano ripetibili. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
d8f2dda1-118a-5011-94cf-c81fa7af16d8 | in fatto: A.
Nel settembre 2003 _, per conto di _ - società per cui lavorava - ha partecipato a due giornate informative a _ organizzate da Coop Svizzera per esplorare la possibilità, da parte di noti marchi italiani, di aprire dei punti vendita nei centri Coop in Svizzera (verbali T3 pag. 2 e A1 pag. 3). Al rientro, _ ne ha riferito a _, col quale ha, poi, allestito un progetto, da sottoporre a Coop Immobilien AG, in cui si prevedeva di aprire quattro punti vendita al _ di _, ad _, a _ e, infine, a _, di prodotti di prestigiosi marchi italiani. Nell'operazione furono coinvolti _, responsabile commerciale di Benetton Italia, e _, i quali, con partecipazioni paritarie, hanno acquistato dal padre di RI 1 per fr. 2'000.- il pacchetto azionario della _, società inattiva da tempo (A 2, pag. 2), alla quale furono cambiati la ragione sociale (_), la sede (in _) e lo scopo sociale (il commercio nel settore dell'abbigliamento, degli accessori e della moda in genere; doc. 13 allegato all'AI 1). _, per motivi professionali, rinunciò presto al progetto, mentre _ fu costretto ad abbandonare per gravi motivi di salute nel corso del 2004 (A3 pag. 2/3). Dopo svariati incontri fra le parti (almeno quattro; verbale T3 pag. 2), il 23-24 dicembre 2003/ 7 gennaio 2004 è stata perfezionata una convenzione fra Coop _ e Coop Immobilien AG da una parte e _ dall'altra parte, mediante la quale _ si impegnava a garantire un'offerta per la vendita di prodotti concernenti una dozzina di marchi della moda italiani nei centri commerciali Coop in Svizzera, impegnandosi, pure, a non aprire altri negozi in Svizzera e all'estero senza il consenso scritto di Coop. A sua volta, Coop si impegnava a concedere in locazione alla controparte delle superfici di vendita varianti fra 800/1000 mq (verbale T3, pag. 2) a _, _, _ e _. Per i primi 24 mesi, _ aveva ottenuto delle agevolazioni per il pagamento della pigione, ovvero: fr. 600.- al mq in luogo di fr. 850.- al mq a _; fr. 450.- al mq in luogo di fr. 650.- al mq per il centro di _; fr. 450.- al mq, in luogo di fr. 650.- al mq per quello di _ e fr. 650.- al mq in luogo di fr. 850.- al mq per il centro di _. Coop aveva, pure, concesso a _ un mutuo di fr. 1.5 milioni da remunerare al 6% e rimborsabile in due soluzioni: fr. 800'000.- entro il 31 dicembre 2005 e fr. 700'000.- entro il 31 dicembre dell'anno successivo. Il mutuo era garantito da una riserva di proprietà su tutte le infrastrutture di _ sino al completo rimborso dell'importo mutuato (allegato A al verbale T3). Fra gli atti è stato rinvenuto un business plan datato 10 dicembre 2003 che, fra il 2004 e il 2008, prevedeva l'apertura di ben 16 punti vendita in centri Coop, senza alcuna indicazione riguardo le risorse con cui la società avrebbe potuto attuare il progetto di aprire quattro punti vendita (doc. dib. 3). Il primo punto vendita è stato aperto nel mese di marzo del 2004. L'ente locato è stato consegnato allo stato grezzo, per cui _ ha dovuto farsi carico delle installazioni e dell'allestimento del negozio (verbale A6 pag. 3). _ ha aperto gli altri tre negozi ad _ nel settembre del 2004, a _ e _ verso la fine del mese di ottobre del 2004 (verbale T1 pag. 3). Già nel corso della primavera del 2004, ma poi ancora nel luglio successivo, gli azionisti si erano incontrati con Coop Immobilien AG (_) per ottenere da quest’ultima degli ulteriori finanziamenti (verbale T3 pag. 3) ed avevano scritto a Banca per ottenere delle linee di credito (AI 104; scritto 2 giugno 2004 Banca a _), senza alcun successo, atteso che non erano state offerte garanzie sufficienti e che il rischio rappresentato da una società che si accingeva ad iniziare un’attività era troppo elevato. Coop Immobilien AG condonò però alla società fr. 200'000.- per il pagamento di locazioni per l'anno 2004 (T3 pag. 3 e allegato 6 all'AI 105) che furono contabilizzati come crediti correntisti di _ e RI 1 in ragione di un mezzo ciascuno (Allegato 7 all'AI 105; estratti della contabilità relativa al periodo 1° gennaio 2004-31 dicembre 2004). Nell'ottobre 2004, fu predisposto un business plan, nel quale si prospettava una ricapitalizzazione della società e ulteriori finanziamenti, a fronte di incassi per l'anno 2004 di fr. 4'960'778.-; di fr. 10'875'000.- per il 2005 e di fr. 17'996'800.- per il 2006 (doc. dib. 4 pag. 14 e tabella budget vendite). In data 20 settembre 2004, l'assemblea degli azionisti ha deliberato l'aumento del capitale azionario di _, portandolo da fr. 100'000.- a fr. 1 milione. Il Consiglio di amministrazione ha constatato l'attuazione dell'aumento il 13 ottobre 2004 (doc. dib. 6). In realtà, nella società furono immessi solo fr. 890'000.- (AI 105 pag. 17). Nella sostanza, _ ha sottoscritto e liberato azioni per complessivi fr. 175'000.-, mentre RI 1 ne ha sottoscritto e liberate per fr. 176'000.-; _, finanziatore trovato da Coop Immobilien AG, ha partecipato immettendo fr. 459'000.-; ABL-Invest SA ha sottoscritto e liberato azioni per complessivi fr. 90'000.- (doc. dib. 6). ABL-Invest SA ha poi acquistato il 10% del pacchetto azionario da RI 1 e _ per complessivi fr. 100'000.- ed ha mutuato a _ la somma di fr. 110'000.-. _ in quel periodo ha mutuato alla società fr. 300'000.- (correntista), come pure ha acquistato da RI 1 e _ il 51% del pacchetto azionario per complessivi fr. 300'000.-. Costui ha, infine, personalmente garantito la metà (per complessivi fr. 500'000.-) di un prestito di fr. 1 milione erogato da UBS a _ (AI 105 pag. 13/14 e T1 pag. 3). Al finanziamento della società ha, pure, partecipato la PC 3 che, il 12 ottobre 2004, ha scontato una fornitura di merci per fr. 110'000.- e, il 29 dicembre 2004, ha acquistato da _ e RI 1 il 10% del pacchetto azionario per la somma di fr. 190'000.-. Da ultimo, il 28 ottobre 2004, la Banca ha erogato a _ un credito in bianco di fr. 200'000.- (AI 105 pag. 16). Complessivamente, gli apporti a _ si sono attestati in fr. 4'152'211.-
(fr. 54'211.- da parte degli azionisti che acquistarono la società dismessa; fr. 1'450'000.- di mutuo da parte di Coop Immobilien AG; fr. 558'000.- da parte di correntisti; fr. 890'000.- in seguito all'aumento del capitale azionario; fr. 1 milione come finanziamento da parte di UBS, dei quali fr. 500'000.- garantiti personalmente da _ e fr. 200'000.- dalla Banca). Nel novembre/dicembre 2004, alcuni fornitori hanno iniziato ad interrompere le forniture (verbale T1 pag. 4) e al 31 dicembre 2004 il solo negozio del _ di _ registrava una perdita di fr. 877'040.88 (Allegato A al verbale A6). Nel corso delle festività natalizie, la situazione andò peggiorando, al punto da far pensare ad un ulteriore aumento del capitale azionario per fr. 1 milione come pure da far avvertire la necessità di rinegoziare tutti i canoni di locazione con Coop Immobilien AG (verbale T1 pag. 4). Al 31 marzo 2005, il bilancio intermedio di _ registrava una perdita di fr. 3'281'000.-. In data 6 maggio 2005, _ ha depositato il bilancio alla Pretura di _. Il fallimento è stato pronunciato il 18 maggio 2005 (doc. dib. 8). Nella graduatoria del fallimento sono stati riconosciuti crediti per complessivi fr. 9'434'559.95 (AI 118).
B
. Con atto di accusa 6 agosto 2007, il procuratore pubblico ha posto in stato di accusa _ e RI 1 per titolo di cattiva gestione, rimproverando loro, come azionisti fondatori, rispettivamente come membri del Consiglio di amministrazione di _:
- di avere aperto quattro punti vendita in centri commerciali di Coop Immobilien AG a _, _, _ e _, malgrado la società avesse un capitale azionario iniziale di soli fr. 100'000.-, cioè avesse un capitale manifestamente insufficiente per un progetto commerciale di quelle dimensioni;
- di avere continuato nell'iniziativa imprenditoriale dopo la primavera del 2004 con l'apertura dei centri di _, _ e _, malgrado le vendite del _ fossero manifestamente inferiori alle aspettative;
- di non avere considerato che l'aumento del capitale azionario da fr. 100'000.- a fr. 1 milione e il finanziamento di fr. 1.5 milioni di Coop e Coop Immobilien AG erano palesemente insufficienti per far fronte agli oneri finanziari connessi all'allestimento e alla gestione dei punti vendita aperti;
- di avere effettuato delle spese sproporzionate rispetto alle limitate risorse finanziarie della società, assumendosi dei canoni di locazione superiori ai valori di mercato;
- di avere effettuato degli investimenti dell'ordine di fr. 1.6 milioni per il solo punto vendita di _;
- di avere contabilizzato in loro favore come correntisti una somma di fr. 200'000.- che era stata condonata da Coop Immobilien AG a _ per pigioni esigibili del centro di _, poi utilizzato per procedere all'aumento del capitale azionario mediante compensazione;
- di avere liberato in minima parte in favore della società il ricavo della vendita delle loro azioni ad _;
esercitando, in sintesi, le loro funzioni ed amministrando le risorse societarie con grave negligenza, cagionando l'insolvenza della società a partire da fine estate 2004, rispettivamente aggravandone la relativa situazione e conoscendone l'insolvenza sino a fr. 9'434'559.95.
C
. Con sentenza 23 novembre 2009 il presidente della Corte delle assise correzionali ha condannato RI 1 per cattiva gestione alla pena pecuniaria di 180 aliquote giornaliere di fr. 50.- cadauna (per un importo totale di fr. 9'000.-), sospesa condizionalmente con un periodo di prova di 2 anni. Per contro, l’ha prosciolta dall'accusa di amministrazione infedele aggravata che era stata da lui stesso prospettata nel corso del dibattimento in ordine alla contabilizzazione in suo favore della metà del condono di fr. 200'000.- delle pigioni dovute a Coop Immobilien AG per l'anno 2004.
RI 1 è stata, inoltre, condannata a rifondere fr. 180'000.- alle PC 3 PC 2 e PC 1. A garanzia del pagamento delle pretese di parte civile, delle tasse e delle spese di giustizia, è stato mantenuto il sequestro conservativo sugli averi dei conti correnti n. _ di RI 1 c/o Banca, oltre ad altri due conti di _ presso l'UBS, anche egli condannato con lo stesso giudizio per titolo di cattiva gestione e di amministrazione infedele aggravata
,
ad una pena detentiva di 12 mesi, sospesa con un periodo di prova di 2 anni, e pure condannato a rifondere fr. 180'000.- alle PC in solido con RI 1.
D
.
Con ricorso 8 gennaio 2010, RI 1 ha chiesto in via principale di essere prosciolta dall'accusa di cattiva gestione, con il conseguente dissequestro del conto corrente a lei intestato presso Banca e il rinvio delle parti civili al foro civile, mentre in via subordinata ha contestato tanto le pretese di parte civile, quanto il sequestro della relazione bancaria.
E.
Al gravame si sono opposti tanto la procuratrice pubblica, quanto le parti civili _ in concordato preventivo (già PC 3) e PC 1.
Delle rispettive motivazioni si dirà, all'occorrenza, in seguito. | Considerando
in diritto:
1.
Il ricorso per cassazione è essenzialmente un rimedio di diritto (art. 288 lett. a e b CPP) nella misura in cui l'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (
DTF 135 V 2 consid. 1.3;
133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza deve essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 8 consid. 2.1 pag. 9, 173 consid. 3.1 pag. 178, 128 I 273 consid. 2.1 pag. 278).
2.
Dapprima, la ricorrente ha lamentato che la motivazione della sentenza “
non comporta una ordinata e dettagliata verifica i) della sussistenza fattuale delle condotte rimproverate dall'atto di accusa, ii) della loro rilevanza quali fatti costitutivi del reato ascritto di cattiva gestione, iii) dei motivi per cui le eventuali circostanze ritenute penalmente rilevanti possano essere ascritte, dal punto di vista oggettivo e soggettivo
”. In particolare, sostiene di non essere stata in grado di conoscere esattamente quali fossero stati i motivi, le azioni e/o le omissioni che hanno indotto il giudice a condannarla per il reato di cattiva gestione. Nella sostanza, la ricorrente si duole di una violazione del diritto di essere sentito per una carente motivazione.
2.1.
A norma dell'art. 260 CPP, la sentenza si fonda sui fatti indicati nell'atto di accusa (riservato l'art. 250 cpv. 2) e in essa devono essere concisamente esposti i fatti provati o non provati, come pure le considerazioni di diritto (cpv. 3). A sua volta, l'art. 261 lett. a CPP dispone che la sentenza di condanna deve precisare l'azione o l'omissione di cui l'accusato è ritenuto colpevole con le circostanze che motivano il titolo del reato e l'applicazione di una determinata sanzione penale. Secondo la giurisprudenza del Tribunale federale, su questo tema, il diritto di essere sentito dedotto dall'art. 29 cpv. 2 Cost. non garantisce all'accusato dei diritti più estesi. Infatti, il giudice è tenuto a motivare la sua decisione in modo tale da consentire al destinatario di comprenderla e, all'occorrenza, di impugnarla, come pure di consentire all'autorità di ricorso di esercitare il suo controllo (DTF 129 I 236 consid. 3.2 con rif.). Per soddisfare queste esigenze, è sufficiente che il giudice esamini le questioni decisive per l'esito del processo ed esponga i motivi che fondano la sua decisione, in maniera tale da permettere al destinatario di quest'ultima di coglierne la portata e di esercitare i suoi diritti di ricorso a pieno titolo. Il giudice non è neppure tenuto a discutere in maniera dettagliata tutti gli argomenti che sono stati addotti da una parte né deve necessariamente pronunciarsi separatamente su ciascuna delle conclusioni che gli vengono sottoposte (DTF 134 I 88 consid. 4.1; 130 II 540 consid. 4.3; 129 I 236 consid. 3.2).
2.2.
Nel caso in esame, non si intravedono gli estremi di una violazione dell’art. 260 CPP o del diritto di essere sentito per una carente motivazione. Infatti, la ricorrente ha potuto impugnare la querelata decisione con cognizione di causa (DTF 134 I 88 consid. 4.1; 6B_341/2010 del 20 luglio 2010 consid. 1; 6B_914/2008 del 5 febbraio 2009 consid. 3) con un memoriale lungo e complesso, che le ha consentito di muovere numerose obiezioni all'atto oggetto dell'impugnativa. Contrariamente alla tesi ricorsuale, la sentenza del giudice di prime cure si sofferma su tutti i punti indicati nell'atto di accusa dando conto, in maniera diffusa e completa, di quali fatti potevano configurare gli estremi di una cattiva gestione ai sensi dell'art. 165 CP e di quali addebiti, contenuti nell'atto di accusa, non si poteva tener conto per giungere ad un giudizio di condanna. I fatti che non potevano essere configurati come illeciti penali - o perché non costitutivi di reato, o perché non provati - sono stati succintamente motivati al considerando 24 dal presidente della Corte delle assise correzionali e non occorre qui ricordarli, posto che non formano oggetto del contendere. I fatti e le circostanze contenuti nell'atto di accusa e che sono, invece, stati considerati nel giudizio impugnato per approdare alla condanna di cattiva gestione, sono quelli riferiti ad un'insufficiente dotazione del capitale rispetto a quello che è stato definito un ambizioso ed oneroso progetto imprenditoriale che necessitava finanziamenti di circa fr. 6 milioni, disponendo, all'inizio, di soli ca. fr. 1.5 milioni erogati da Coop e Coop Immobilien AG, come pure di aver speso ca. fr. 1.5 milioni per il solo allestimento dello spazio di vendita di _ (sentenza impugnata, consid. 24 e segg.). Contrariamente a quanto sostiene la ricorrente, questi addebiti hanno pure avuto una loro collocazione temporale nel senso che è stato accertato che sono iniziati successivamente alla conclusione del mutuo con Coop e Coop Immobilien AG (sentenza impugnata, consid. 24, pag. 29). Il presidente della Corte, dopo aver narrato i fatti che sono stati ripresi cronologicamente dall'inizio dell'attività sino al dissesto della società (sentenza impugnata, consid. 3-22), ha esposto quali erano i motivi oggettivi per configurare il reato che è stato addebitato alla ricorrente - ovvero una dotazione insufficiente del capitale e spese eccessive per il negozio di _ - al considerando 25, nonché quali erano gli elementi soggettivi per ritenere che essa aveva agito “
con sufficiente consapevolezza degli elementi costitutivi dei fondamentali errori commessi nella fase iniziale dell'attività
”, “
aderendo e condividendo
” decisioni sbagliate (sentenza impugnata, consid. 27, pag. 33). Su questi aspetti si ritornerà più avanti, perché nel merito di questa vicenda, la ricorrente ha mosso delle critiche alla sentenza tanto in ordine alla contestazione dell'insufficiente dotazione del capitale a disposizione della società, quanto in relazione alle spese ritenute eccessive per l'allestimento del punto vendita del _, quanto ancora in relazione ai presupposti soggettivi in capo a quest'ultima per approdare ad un giudizio di condanna di cattiva gestione.
2.3.
L'assenza della menzione sul verbale del dibattimento dell'estensione dell'accusa al reato di amministrazione infedele in relazione al condono da parte di Coop Immobilien AG di fr. 200'000.- di pigioni dovute e contabilizzate come credito correntista in ragione di un mezzo ciascuno in favore di RI 1 e _, non è di alcun rilievo perché la ricorrente è stata prosciolta da questa accusa (cfr. sentenza impugnata, consid. 18, pag 26).
3.
La ricorrente rimprovera al presidente della Corte delle assise correzionali di avere violato l'art. 165 cifra 1 CP sotto diversi aspetti.
3.1.
A norma dell'art. 165 cifra 1 CP il debitore che, in un modo non previsto nell'art. 164 CP, a causa di una cattiva gestione, in particolare a causa di un'insufficiente dotazione di capitale, spese sproporzionate, speculazioni avventate, crediti concessi o utilizzati con leggerezza, svendita di valori patrimoniali, grave negligenza nell'esercizio della sua professione o nell'amministrazione dei suoi beni, cagiona o aggrava il proprio eccessivo indebitamento, cagiona la propria insolvenza o aggrava la sua situazione conoscendo la propria insolvenza, è punito, se viene dichiarato il suo fallimento o se viene rilasciato contro di lui un attestato di carenza di beni, con una pena detentiva sino a cinque anni. L'enumerazione delle condotte punibili non è esaustiva (DTF 6P.168/2006 consid. 8.2.1). L'art. 165 CP, diversamente dall'art. 164 CP, concerne di norma un comportamento complessivo (
Globalverhalten
) che va valutato dal giudice nella realizzazione dei suoi atti costitutivi, con ampio margine d'apprezzamento (Donatsch, Strafrecht III, Zurigo 2008, pag. 337; Wermeille,
La diminution effective de l'actif au préjudice des créanciers et de la gestion fautive
in: RPS 1999 pag. 385). Nell'apprezzare tale comportamento, il giudice deve, in particolare, valutare se vi sia stata una mancanza di senso di responsabilità che denota indiscutibilmente una leggerezza riprovevole (DTF 115 IV 41 consid.
2; Corboz, Les infractions en droit suisse, Vol. I Berna 2002, n. 21-22 ad art. 165; CCRP 10 marzo 2009, inc. 17.2008.75, consid.
8). Un solo atto di cattiva gestione può essere sufficiente a configurare l'infrazione. Se all'accusato vengono rimproverati più atti di cattiva gestione correlati con il fallimento, si deve considerare che ci si trova confrontati con una sola infrazione ma la pluralità di atti deve essere valutata nel quadro della commisurazione della pena (DTF 123 IV 195; Corboz, op. cit., n. 30 ad art. 165).
3.2.
Per dotazione insufficiente del capitale la dottrina, facendo spesso riferimento al messaggio del Consiglio federale, annovera tutti i casi in cui un'impresa non dispone, già sin dall'inizio, di risorse sufficienti per far fronte alle spese generate dall'attività imprenditoriale che si accinge a svolgere, come pure i casi in cui il capitale azionario al momento della fondazione non è stato liberato dagli azionisti ed i casi in cui i conferimenti in natura sono stati sopravvalutati (Corboz, op. cit. N. 23 ad art. 165; Trechsel/Ogg; Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskommentar, 2008, N. 5 ad art. 165; Messaggio del Consiglio federale concernente la modifica del Codice penale svizzero e del Codice penale militare in: FF 1991 II pag. 873 ad n. 213.33). L’applicazione della norma presuppone, però, comportamenti di una certa gravità, poiché non è pensabile che l'infrazione possa consumarsi ogni qualvolta una società fallisca in seguito a un'insufficiente dotazione di capitale (Messaggio del Consiglio federale cit., pag. 873).
3.2.1.
La ricorrente contesta che ad essa possa essere rimproverata una colpa qualificata riconducibile al dissesto di _, rilevando, peraltro, come i promotori ed azionisti _ e _, pur avendo avuto un ruolo attivo e diretto nelle prime fasi dell'attività societaria, non siano stati perseguiti dal procuratore pubblico. L'accertata esperienza di altri promotori come _ - imprenditore di provata esperienza - che conferì capitali freschi alla società ed offrì garanzie personali, e l'adesione di Coop Immobilien AG, che aveva accettato di finanziare l'operazione mediante l'erogazione di un mutuo di fr. 1.5 milioni, sono circostanze che - secondo la ricorrente - imponevano al giudice di “
non considerare biasimevole l'assunzione del rischio derivante dall'assunzione del contratto con la Coop Immobilien
”. La sentenza impugnata - continua l’insorgente - valuta la gravità dell'aspetto gestionale in funzione “
del buco scavato
”, anziché verificare l'aspetto soggettivo quo ante. Ciò è - prosegue - inammissibile: anziché valutare la gravità dell'errore in funzione degli attestati di carenza beni emessi occorreva considerare il bilancio con la chiusura intermedia al 31 marzo 2005 attestante una perdita di fr. 3'277'000.- che, tenuto conto dei finanziamenti dei correntisti e della voce fondatori della società, si riduceva a circa 1.8 milioni. La causa del dissesto - continua la ricorrente - è da ricondurre ad un fatturato di vendita inferiore alle aspettative. Il business plan rivisto al ribasso, prevedeva una dotazione di capitali propri di circa 4.5 milioni, che sono stati sostanzialmente raccolti nel corso del 2004 come era stato previsto. Per contro - si legge ancora nel ricorso - il giudice di primo grado, stimando che il progetto poteva essere realizzato con dei fondi che si cifravano in 6 milioni, si pone in contrasto con le carte processuali e si fonda sull'unica affermazione fatta da _ nei primi verbali - poi rettificata - che si basava su di un business plan che la stessa sentenza ha accertato privo di ogni indicazione al proposito. In particolare - precisa il ricorrente - nessuno dei finanziatori affermò che, già sin dall'inizio, era stato prospettato un fabbisogno di 6 milioni e la sentenza non precisa per quali ragioni la pianificazione sia stata allestita con criteri inusuali e contrari ai principi di una corretta gestione aziendale.
3.2.2.
Il presidente della prima Corte ha rilevato che, al momento della stipulazione del contratto di mutuo con Coop Immobilien AG e Coop nel dicembre 2003 / gennaio 2004, _ non poteva contare su alcun finanziamento all'infuori della somma di denaro che è stata erogata nei mesi successivi dai mutuanti (ca. fr. 1.5 milioni) e che, ugualmente, si doveva considerare che, al momento in cui i promotori avevano acquistato il pacchetto azionario di detta società, il bilancio era quello di una società inattiva e che la società non disponeva neppure del proprio capitale ma solo del corrispondente credito nei confronti degli azionisti (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 13).
La ricorrente non ha contestato questi accertamenti.
Pertanto, ci si deve chiedere con quali mezzi e risorse la ricorrente e il signor _ avrebbero potuto allestire ed aprire quattro punti vendita a _, _, _ e _ della superficie di mq 800/1000 ciascuno. _, tanto nel suo verbale di interrogatorio del 19 agosto 2005 (A1 pag. 3) quanto in quello del 22 agosto 2005 (A2, pag. 5), ha precisato che l'operazione necessitava di un finanziamento di fr. 6'500'000.-, che era stato chiesto a Coop (A2, pag. 5). Nei verbali successivi _ ha, invece, riferito che il budget valutato nell'agosto/settembre 2003 per l'apertura dei quattro centri di vendita, ammontava a fr. 4.5 milioni e che lo stesso era stato confermato a Coop nel mese di maggio del 2004 (A4 pag. 3). Dal canto suo, la ricorrente ricorda che l'investimento complessivo doveva essere dell'ordine di 4.5 milioni (A 5 pag. 3 e 4).
Il presidente della prima Corte ha accertato che l'operazione avrebbe potuto decollare se i promotori avessero potuto far capo a finanziamenti per almeno fr. 6 milioni.
La ricorrente ha contestato questo rilievo, sostenendo che esso non trova riscontro negli atti e che non è supportato da indagini peritali.
Invero, il primo giudice è giunto a detta conclusione con una minuziosa e dettagliata motivazione che non si riprende per intero ma a cui si rimanda (sentenza impugnata, consid. 10 e 11, pag. 15-18). Orbene, in concreto non era necessario far capo ad una perizia per accertare quali fossero le risorse necessarie per poter attuare il progetto imprenditoriale, giacché la risposta la si poteva trovare nei business plan allestiti da _ unitamente a _ (contabile assunto dalla società). Nel piano della liquidità che correda il business plan, i promotori avevano previsto finanziamenti dai promotori e da terzi per ca. 4.5 milioni (cfr. ad es. doc. dib. 4 pag. 4). Nondimeno, nel conto dei flussi finanziari dello stesso documento programmatico, il budget era sensibilmente più alto e si fissava in ca. fr. 6 milioni Infatti, nel luglio 2004, il business plan faceva stato di un investimento netto di fr. 5'823'000.- (doc. 1 allegato alla denuncia) per l'attuazione del progetto imprenditoriale. Nell'ottobre 2004, lo stesso documento ha ritoccato i finanziamenti netti in fr. 5'910'000.- (doc. dib. 4). La ricorrente non ha mosso alcuna contestazione su questo punto e nemmeno si è confrontata con questo accertamento che è corroborato - per difetto - dalle prime dichiarazioni di _ davanti al magistrato inquirente, che aveva indicato un investimento di fr. 6.5 milioni. Contrariamente a quanto assume la ricorrente, il primo giudice si è pure soffermato diffusamente sulla cronologia che ha portato al dissesto della società che, in poco più di 12 mesi di attività, ha lasciato dietro di sé debiti riconosciuti in graduatoria dall'UEF di _ per fr. 9'434'559.95 (AI 118). Il primo giudice ha, pure, evidenziato che, se è vero che la società non aveva necessità di poter contare sin dall'inizio dell'intera somma (almeno 6 milioni) necessaria ad attuare il progetto, è altrettanto vero che era necessario che i promotori avessero la possibilità di far capo ai fondi necessari man mano che il progetto prendeva corpo. In maniera dissennata, invece - come accertato dal primo giudice - i promotori hanno dato inizio alla loro attività facendo capo ai soli fondi che erano stati messi a loro disposizione da Coop e Coop Immobilien AG per complessivi fr. 1'450'000.- (AI 105 pag. 17). Questa somma di denaro è stata erogata in due soluzioni; l'ultima di fr. 850'000.- il 20 aprile 2004, che è stata utilizzata per far fronte agli oneri dell’allestimento del punto vendita del _ e, in parte (fr. 135'000.-) per rimborsare un mutuo alla ricorrente, che aveva a sua volta ricevuto un prestito da conoscenti (probabilmente da parenti) per onorare il pagamento di un fornitore (AI 105 pag. 11; A4 pag. 7 e A5 pag. 2). Fra la fine del mese di aprile del 2004 e l'inizio del mese di maggio di quell'anno, _ si era rivolta a Banca per ottenere una linea di credito, che è stata rifiutata il 2 giugno 2004 (AI 104). Come è stato sottolineato dal primo giudice, dagli atti emerge che poi, nel corso dell'estate, la situazione era diventata difficile, se non critica: il teste _ ha riferito che in luglio “
la perdita di esercizio era dell'ordine di qualche centinaia di migliaia di CHF
” e che per i costi dell’allestimento del primo punto vendita al _ e del negozio al _ (ca. fr. 1.2/ 1.5 milioni) si era fatto capo al mutuo erogato da Coop. Gli incassi mensili, che erano stati stimati intorno a fr. 500'000.-, si cifravano in soli fr. 250'000.-, ossia la metà, per cui si doveva procedere presto ad una ricapitalizzazione, che _ aveva prospettato in 1.5 milioni
(T1 pag. 1 e 2).
Continuando nella sua esposizione, _ ha riferito che in ottobre le perdite erano aumentate rispetto al luglio precedente e che la società riusciva a pagare solo gli stipendi, le forniture per elettricità, i telefoni e i canoni di locazione, ad eccezione di quelli del _, ove erano stati condonati fr. 200'000.-. Nel frattempo, nel settembre 2004 era stato aperto il punto vendita di _ e, alla fine del successivo mese di ottobre, vennero aperti quelli di _ e _ (T1 pag. 2 e 3). Come è stato precisato dal primo giudice, i soli canoni di locazione, pur essendo stati condonati in larga misura da Coop Immobilien AG nel luglio di quell'anno, incidevano pesantemente, e meglio per ca. fr. 238'000.- al mese (fr. 72'000.- per il _, fr. 68'000.- per _; fr. 62'000.- per _ e fr. 36'000.- per _; cfr. sentenza impugnata, consid. 20). In data 13 ottobre 2004, _ ha aumentato il capitale azionario, portandolo da fr. 100'000.- a fr. 1'000'000.-. Concretamente, sono stati immessi fr. 890'000.- nella società da parte di coloro che hanno partecipato all'aumento, e in particolare:
- _ ha immesso fr. 459'000.-, dopo avere, altresì, erogato un mutuo in favore della società di fr. 300'000.- e avere acquistato da _ e RI 1 il 51% del pacchetto azionario per la somma di fr. 300'000.- (AI 105 pag. 14);
- PC 3 ha sottoscritto e liberato azioni per complessivi fr. 90'000.-, dopo aver acquistato il 10% del pacchetto azionario da _ e RI 1 per fr. 100'000.- ed avere messo a disposizione un finanziamento di fr. 110'000.- nella forma dello sconto per l'acquisto di merci da rimborsare entro il termine di 3 anni (doc. 6 all. alla denuncia e AI 105 pag. 14);
- _, dopo aver acquisito il 10% del pacchetto azionario da _ e RI 1, ha immesso nella società fr. 90'000.- per la liberazione della sua partecipazione all'aumento del capitale azionario e fr. 100'000.- a titolo di mutuo (AI 105 pag. 13).
La società ha, poi, potuto contare su una linea di credito di 1 milione erogata da UBS, che era garantita nella misura del 50% da _ e che avrebbe dovuto venire rimborsata entro il 30 aprile 2005 (AI 105 pag. 14 e 17), nonché su un mutuo di fr. 200'000.- erogato da Banca in occasione dell'apertura del centro di _.
A conti fatti, in _ sono confluiti fr. 4'152'211.-:
- fr. 54'211.- sono stati immessi dai due promotori;
- fr. 1'450'000.- sono stati versati da Coop Immobilien AG, i quali andavano rimborsati entro il 31 dicembre 2005;
- fr. 558'000.- mediante finanziamenti da correntisti;
- fr. 1'000'000.- da UBS, con un piano di rientro al 30 aprile 2005;
- fr. 200'000.- da Banca.
Fatta eccezione della facilitazione erogata da Coop Immobilien AG e Coop che ha consentito a _ di iniziare la sua attività senza alcun sostanziale apporto dei promotori, gli altri fondi sono confluiti nella società nell'ultimo trimestre del 2004. Nonostante ciò, la società a fine dicembre 2004 era ormai in cattive acque, giacché ha chiuso l'esercizio registrando una perdita di fr. 1'676'621.94. I passivi societari ammontavano a fr. 9'332'894.37, mentre gli attivi si attestavano in fr. 7'656'272.43. A fronte di una liquidità di fr. 211'939.09, _ aveva debiti esigibili per fr. 3'950'946.45 (Doc. A allegato al verbale A1). La società si trovava in uno stato di eccedenza di debiti, che già a quell'epoca avrebbe imposto il deposito del bilancio ai sensi dell'art. 725 CO. In altri termini, l'intervento dei nuovi finanziatori è giunto tardivamente allorché la società si trovava in uno stato fallimentare. Il loro apporto è risultato manifestamente insufficiente rispetto ai bisogni della società, che doveva far fronte ad un mare di debiti. Dal mese di gennaio 2005 in avanti, la situazione societaria andò ad aggravarsi vertiginosamente. Al 30 marzo la perdita è lievitata a fr. 3'276'887.34 (AI 105 bilancio intermedio), mentre al giorno del fallimento i debiti si attestavano intorno a ca. fr. 9.5 milioni.
Diversamente da quanto ritiene la ricorrente, il fallimento della società non è riconducibile, se non in misura limitata, ad insufficienti incassi provenienti dalle vendite dei prodotti. I promotori di _ hanno iniziato un progetto imprenditoriale importante senza alcuna risorsa, facendo capo ad un prestito di fr. 1.5 milioni, che è stato fagocitato in un battibaleno - almeno contabilmente, come è stato precisato dal primo giudice - per far fronte all'apertura del primo centro di vendita al _, quando invece occorreva aprirne altri tre (_, _ e _), acquistare la merce dai fornitori, pagare le locazioni e il personale, investire nella pubblicità, come pure far fronte ad altri costi necessari, senza perdere di vista che i finanziamenti che avevano ottenuto da terzi andavano rimborsati anche a breve termine (ad esempio UBS). Pur dando atto che _ e la ricorrente si sono adoperati per raccogliere ca. fr. 4.1 milioni, si deve concludere che le loro previsioni non erano solo esageratamente ottimistiche, ma scellerate, avuto riguardo al fatto che la società ha iniziato la sua attività senza alcun fondo proprio, pur sapendo che la stessa andava incontro a spese che superavano, e di gran lunga, i mezzi che aveva a disposizione. La perizia di parte versata agli atti dalla ricorrente è priva di valore e stride con la realtà delle cose. Le previsioni di vendita che sono state inserite nel business plan - che il teste _ aveva definito ottimistiche anche quando le stesse sono state riviste verso il basso (T1 pag. 2) - si ponevano ancora molto lontane dalla realtà. Come ha avuto modo di accertare il giudice di prime cure, le sole previsioni di vendita per l'anno 2004 al punto vendita del _, si attestavano in fr. 1'639'484, mentre i promotori ne avevano programmato 2.5 milioni ca., pur sapendo, a quell'epoca, quali fossero gli incassi mensili del _. La differenza è macroscopica, perché in soli 9/10 mesi di attività le vendite erano di fr. 900'000.- inferiori alle aspettative, pur riviste al ribasso. Ciò impedisce di ritenere che i documenti di programmazione economica avessero un minimo di fondamento e credibilità. Se poi si considera che i promotori avevano iniziato la loro attività e avevano assunto l'impegno di aprire quattro centri di vendita in Svizzera, che imponevano l'acquisizione di fondi valutati in almeno fr. 6 milioni, pensando addirittura di conseguire degli utili nel primo anno di attività, nonostante potessero contare sul solo aiuto di Coop Immobilien AG e Coop (Fr. 1.5 milioni circa) e sulla sola speranza di poter raccogliere altro denaro da terzi, senza sapere come e da chi, si deve concludere che tanto _, quanto la ricorrente, sono incorsi in atti che, in una valutazione generale, ben possono essere configurati di cattiva gestione ai sensi dell'art. 165 cifra 1 CP. A causa della sua sottocapitalizzazione, _ era destinata al fallimento. Il buco causato di fr. 9.5 milioni è la prova più evidente di questi errori di programmazione aziendale, che ha poco a che vedere con l'errata - e pur rilevante - valutazione delle vendite riferite all'anno 2004.
Coloro che hanno investito nella società hanno creduto nel progetto che è stato loro sottoposto, perché sono stati tratti in errore da chi voleva limitare o scongiurare le perdite, ritenuto che è impensabile che i finanziatori dell'ultima ora, se fossero stati debitamente informati, avrebbero immesso dei fondi in una società che, come ha avuto modo di precisare il primo giudice, era già tecnicamente fallita.
3.2.3.
La ricorrente contesta, altresì, che _ ha proceduto a spese eccessive - ovvero sproporzionate - per l'allestimento del punto vendita del _, che il primo giudice ha accertato essere di fr. 1.5/1.6 milioni (sentenza impugnata, consid. 12 pag. 19 e consid. 24, pag. 29), quando negli altri punti vendita la spesa è stata limitata fra fr. 209'000.- e fr. 350'000.-, su di un budget preventivato di ca. fr. 2.5 milioni (sentenza impugnata, consid. 12, pag. 19).
La ricorrente contesta, da un lato, l’accertamento operato dal primo giudice secondo cui i costi per il citato allestimento ammontavano a fr. 1.5 milioni e, dall'altro, sostiene che la spesa in questione trovava la sua giustificazione, atteso che questo centro doveva rappresentare il fiore all'occhiello e il biglietto da visita da mostrare a coloro che erano entrati in relazione d'affari con _, in vista di vendere prodotti di prestigio del made in Italy.
La giurisprudenza del Tribunale federale ha già avuto modo di chiarire che sono spese sproporzionate tutti quegli esborsi che appaiono esagerati rispetto alle risorse del debitore, o che hanno una fievole giustificazione commerciale. Il carattere eccessivo della spesa va, quindi, valutato in relazione alle condizioni economiche dell'imprenditore al momento in cui la spesa è effettuata. La giurisprudenza ha già avuto modo di precisare che sono, di norma, spese eccessive quelle correlate a viaggi, inviti o missioni il cui risultato non è assolutamente proporzionato ai fondi investiti così come sono spese eccessive ai sensi del citato disposto i prelevamenti importanti da conti societari da parte degli organi della società, l'erogazione di mutui a persone che non offrono sufficienti garanzie (DTF 6S.24/2007 del 6 marzo 2007 consid. 3.3), come pure l'acquisto di mobilio lussuoso, allorché le condizioni finanziarie della società sono precarie, l'acquisto di stock spropositati, l'acquisto e il nolo di vetture di lusso o l'esposizione di note spese sontuose non necessarie al buon funzionamento dell'impresa (DTF 6P.169/2006 consid. 9.2.1).
Orbene, in ordine alla cifra che è stata spesa, la stessa è stata prospettata a _ e alla ricorrente nel corso di un loro interrogatorio sulla base di rilievi che emergevano dalla contabilità al 31 dicembre 2004 (A6 pag. 3).
In concreto, la censura ricorsuale riguardo l’accertamento del costo dell’allestimento del primo punto vendita (suddiviso in 12 negozi in miniatura) non è fondata ritenuto che emerge dal bilancio patrimoniale _ al 31 dicembre 2004 (allegato A all'A6 e AI 105) che, come è stato precisato dal primo giudice (considerando 12), essi hanno raggiunto la cifra di fr. 1'456'976.80, ossia poco meno di fr. 1.5 milioni, ma poco più di quanto è stato erogato da Coop Immobilien AG e Coop all'inizio di questa avventura imprenditoriale (fr. 1'450'000.-; AI 105 rapporto EFIN pag. 16 e 17).
Infondata appare, pure, la censura riguardo la valutazione di tali costi nell’ottica dell’art.
165 cifra 1
CP. Infatti, avuto riguardo alle circostanze, si deve ritenere che questa spesa, valutata tenendo conto di una visione globale degli impegni che aveva assunto _ che - lo si ricorda - si era obbligata ad aprire non già uno, ma ben quattro punti vendita in Svizzera, era eccessiva. Difatti _ (e per essa _ e RI 1) hanno praticamente investito tutte le risorse che avevano a disposizione inizialmente per l'allestimento del negozio al _. È ben vero che ad inizio autunno, allorché sono stati aperti gli altri tre centri, sono confluiti nelle casse di _ altri fondi (cfr. considerando precedente), ma è altrettanto vero che la società doveva far fronte al pagamento degli oneri correnti - molto elevati - e a quelli dei fornitori. È, quindi, senza arbitrio che il primo giudice ha ritenuto tale spesa sproporzionata rispetto alle risorse di _ e, pertanto, ha ritenuto che detto esborso costituisce una grave violazione degli obblighi che competono ad amministratori oculati ed attenti. Le spese preventivate per gli altri tre punti vendita erano, infatti, sensibilmente inferiori e variavano fra i fr. 267'000.- di _, i fr. 209'000.- di _ e i fr. 350'000.- di _ (T4 pag. 4).
3.2.4.
Entrambe le condotte rimproverate ai due accusati sono di natura tale per cui può essere senza arbitrio ritenuto che esse, secondo il corso ordinario delle cose e l'esperienza generale della vita, pur senza esserne state le uniche o la causa diretta, hanno causato il dissesto della società o, quantomeno, lo hanno favorito (DTF 115 IV 41 consid. 2; 6S.24/2007 del 6 marzo 2007 consid.
3.4; Trechsel/Ogg, op. cit.
N. 10 ad art. 165; Corboz, op. cit. N. 38-41 ad art. 165).
Al proposito, va detto che, secondo la giurisprudenza, il giudizio sulla natura causale non può essere un giudizio di dettaglio giacché dopo il fallimento non è sovente più possibile stabilire che influenza abbia potuto avere ogni singolo atto sull'evoluzione della situazione dell'impresa (DTF 6P.168/2006 del 29 dicembre 206 consid. 8.2.1; 123 IV 195 consid. 2).
3.3.
Con il gravame la ricorrente si duole, inoltre, che la sentenza non stabilisce quali specifici comportamenti le possono essere addebitati, considerato che a lei non competevano funzioni legate alla conduzione finanziaria della società ma doveva, invece, occuparsi dell'allestimento dei punti di vendita e partecipare a quelle riunioni in cui le sue conoscenze linguistiche potevano tornare utili.
In poche righe - lamenta la ricorrente - il primo giudice, pur dando atto che il suo ruolo era subordinato a quello di _, le attribuisce una responsabilità di condivisione e omette di precisare in che misura il suo comportamento è stato biasimevole.
3.3.1.
L'aspetto soggettivo della cattiva gestione ha suscitato vive controversie in dottrina fra coloro che, dopo la modifica del testo di legge, sostengono che l'infrazione può configurarsi solo col dolo eventuale (tesi minoritaria) e quelli invece che ritengono che, come in passato, è sufficiente la negligenza grave (tesi dominante). La giurisprudenza del Tribunale federale ha avuto modo di chiarire che il nuovo testo non ha fatto altro che riprendere e completare l'enumerazione degli atti di cattiva gestione dell'articolo previgente. La revisione non ha, quindi, modificato la natura degli atti punibili. Col che, pur avendo lasciato aperto il tema in talune decisioni (ad es. DTF 6S.24/2007 del 6 marzo 2007 consid. 3.5), l’Alta corte ha ammesso che i principi sviluppati dalla prassi precedente la modifica rimangono applicabili (DTF 6P.164/2006 del 29 dicembre 2006 consid. 9.3.3; 6P.168/2006 del 29 dicembre 2006 consid. 8.3.3.), ossia che il reato di cattiva gestione può essere commesso anche per negligenza grave (DTF 6B_492/2009 del 18 gennaio 2010 consid. 2.2; 6P.29/2007 del 27 aprile 2007 consid. 11.1). Secondo la giurisprudenza pubblicata prima della modifica, è sufficiente che il reo abbia causato o aggravato l'insolvenza con una grave negligenza, ritenuto che l'intenzione di provocarla non è necessaria. L'autore deve, per contro, avere saputo che l'atto o l'omissione che gli è addebitata poteva contribuire a cagionare o ad aggravare l'insolvenza (DTF 115 IV 41 consid. 2).
3.3.2.
Orbene, su questo punto il gravame è appellatorio. La sentenza impugnata non liquida in poche frasi gli elementi che hanno determinato il giudice a ritenere che ella aveva agito consapevolmente. In ordine alla dotazione insufficiente del capitale sociale per poter allestire ed aprire i quattro punti vendita, il primo giudice, senza alcun arbitrio, ha ritenuto che, al momento della stipula del contratto con Coop Immobilien AG e Coop, l’insorgente non poteva non sapere quali fossero gli obblighi che aveva assunto _, né poteva ignorare che i fondi messi a disposizione della mutuante erano gli unici e che con essi si sarebbe dovuto, non solo aprire il _ di _, ma anche gli altri tre negozi con una superficie di vendita di mq 800/1000 (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 13; verb. dib. pag. 15). La ricorrente,
nel suo interrogatorio del 25 agosto 2005 (A3, pag. 3), ha riferito che, nel mese di marzo/aprile del 2004, allorché sono stati aperti i negozi del _ e quello di _, ha rilevato che _ si era rivolto a Banca e a per poter ottenere dei finanziamenti, che sono stati rifiutati. Parimenti, la donna era consapevole che la liquidità era sufficiente “
per poter portare avanti la gestione dei due negozi già aperti, ma non permetteva l'apertura di altri due centri che erano già stati preventivati”
(A3, pag. 3). A questo proposito, la ricorrente ha pure precisato che, al momento in cui è iniziata questa attività, era chiaro a tutti che la società “
non disponeva dei mezzi finanziari necessari
” (A2 pag. 2; sentenza impugnata, consid. 7, pag. 13) e che, nella primavera del 2004, insieme a _, ella aveva incontrato _ a _, per riferirgli che, se non avessero ottenuto ulteriori finanziamenti, non si sarebbero potuti aprire i centri di _ e _. I due promotori, durante questo incontro, presero atto che Coop Immobilien AG non era intenzionata né a partecipare alla loro iniziativa imprenditoriale, né tantomeno ad erogare altri mutui a _ (sentenza impugnata, pag. 23). La ricorrente non ignorava neppure che a questo incontro seguì quello del mese di luglio del 2004 (cui ha partecipato) con Coop Immobilien AG volto a ridiscutere l'ammontare delle pigioni e ad affrontare la trattativa per ulteriori finanziamenti, senza i quali non si sarebbe potuto proseguire nel progetto. Orbene, al termine di quella discussione, la ricorrente dovette prendere atto, unitamente a _, che Coop Immobilien AG non era disposta ad erogare altri crediti (sentenza impugnata, consid. 16, pag. 23; verb. dib., pag. 15; verbale 9 luglio 2004 allegato al T3 teste _ pag. 3). Parimenti, diversamente da quanto ha riferito al dibattimento, la ricorrente sapeva che _ aveva dei problemi legati al pagamento delle pigioni (sentenza impugnata, consid. 13, pag. 20), atteso che Coop Immobilien AG, proprio in occasione della riunione del mese di luglio del 2004, condonò a _ buona parte delle pigioni che essa avrebbe dovuto pagare (cfr. verbale di incontro citato e sentenza pag. 23/24). La ricorrente non poteva neppure ignorare che l'avere deliberato lavori di appalto per l'allestimento del negozio del _ per un ammontare di fr. 1.5 milioni circa, appariva, per dirla come il Presidente della Corte, un “
gesto dissennato, non privo di megalomania”
poiché in “
questo modo la società veniva privata sin dall'inizio di tutte le (poche) risorse disponibili, e di fatto iniziava la propria attività operativa senza un solo centesimo di liquidità disponibile”
(sentenza impugnata, consid. 13, pag. 19). I problemi di liquidità erano, peraltro, ben noti alla ricorrente, giacché lei, per acquistare nel mese di marzo/aprile 2004 una fornitura di vestiti da Benetton di fr. 300'000.-, ha dovuto far ricorso a terzi che ha dovuto rimborsare nel successivo mese di giugno con i fondi che erano stati erogati da Coop Immobilien AG (cfr. sentenza impugnata, pag. 22, consid. 15; A4 pag. 7 e A5 pag. 2). In queste condizioni sfugge ad ogni possibile critica l'accertamento della Corte delle assise correzionali (pag. 17) per cui “
i promotori di _ erano consapevoli delle difficoltà iniziali da attendersi per una nuova attività commerciale, e quindi per la loro
”, con tutte le conseguenze che esse hanno comportato. La ricorrente - così come, peraltro, _ - conosceva pure le risultanze del business plan (sentenza impugnata, consid. 27, pag. 32) che prevedeva investimenti per ca. fr. 5,9 milioni, ovvero per un importo quattro volte superiore all’importo su cui la società poteva inizialmente contare.
In ordine alla spesa sproporzionata per predisporre il negozio del _, si può senza arbitrio dedurre che la ricorrente - pur non conoscendo nel dettaglio la cifra che era stata spesa e contestando quella che era stata prospettata (fr. 1.6 milioni) da _ (l’architetto che si era occupato della DL; T4 pag. 3) - ne conosceva perlomeno a grandi linee il costo non solo dal fatto che la donna ha sostanzialmente riconosciuto per esatto il dato contabile che le era stato riferito dal signor _ dell'EFIN (A6 pag. 3). La ricorrente non poteva non saperlo perché presto la società si era trovata in una situazione di illiquidità, visto e considerato che già nel corso della primavera del 2004 si era incontrata con _ in vista di chiedere a Coop Immobilien AG altri finanziamenti per poter proseguire. Ciò significava che, se non tutta, buona parte della somma che era stata erogata in precedenza dalla mutuante era stata dilapidata per l'allestimento del primo punto vendita in cui erano stati predisposti, in una sola area di vendita, ben dodici negozi che il primo giudice ha definito un “
mausoleo, una piccola cittadella dello shopping”
(sentenza impugnata, consid. 27, pag. 33). Ma non solo. La ricorrente aveva partecipato attivamente - poiché ciò rientrava nelle sue funzioni - con svariate visite, all'allestimento di questo punto vendita. E, infine, il teste _ ha riferito che, alla fine di ogni mese, veniva stampato un bilancio intermedio che veniva valutato dal signor _ e dalla signora RI 1, in vista di apportare i correttivi (T1 pag. 3). In queste circostanze, la conclusione secondo cui la ricorrente era pienamente consapevole dell'esborso spropositato rispetto alle possibilità di _ per predisporre gli spazi di vendita del _ non può certamente dirsi arbitraria. Pur avendo avuto un ruolo subordinato a quello di _ (che è stato congruamente considerato nella commisurazione della pena), RI 1 ha, comunque, concorso all'adozione delle decisioni e alla pianificazione che ha portato al dissesto di _.
4.
L’insorgente sostiene, poi, che il primo giudice ha sbagliato accogliendo le pretese delle parte civili _ in concordato preventivo, PC 2 e PC 1. In particolare, la ricorrente afferma che alla _ in concordato preventivo non può essere riconosciuta la veste di parte civile, giacché detta società non è quella che aveva sporto la denuncia. Per effetto di una fusione delle due società, i diritti in capo alla denunciante sono passati alla _ in concordato preventivo in forza di una cessione convenzionale. Col che a _ in concordato preventivo, in quanto cessionaria, non spetta la veste di parte civile ed essa non può far valere alcuna pretesa nel processo.
4.1.
Giusta l’art. 69 cpv. 1 CPP, ogni persona (fisica o giuridica) danneggiata moralmente o materialmente da un reato - ossia personalmente, direttamente ed attualmente lesa nel suo bene giuridico da un reato - può costituirsi parte civile nel processo (RtiD I-2010 n. 14, consid. 2.1 con numerosi rif.). Il ruolo privilegiato di parte lesa (e conseguentemente di parte civile) è, pertanto, giustificato solo se è, e rimane, riservato alla persona direttamente toccata dal reato. Ciò esclude i terzi che vi sono coinvolti solo in maniera indiretta, come i cessionari in forza della legge o di un contratto, gli azionisti o gli amministratori di una società (Rep. 1998, n. 101 consid. 2d; Marazzi, il GIAR, l’arbitro nel processo penale in: CFPG, pag. 37, 38; Rusca/Salmina/Verda, Commento del codice di procedura penale ticinese, n. 4 ad art. 69).
4.2.
Nel suo gravame, la ricorrente non contesta che, per effetto della fusione - per assorbimento - fra la _ e la PC 3, _ ha assunto tutti gli attivi e i passivi della PC 3. In concreto, ci troviamo confrontati non già ad una cessione convenzionale - come sembra sostenere la ricorrente - ma ad un vero atto di successione universale di tutto il patrimonio di una società (quello della PC 3). In queste evenienze, ossia in caso di successione universale, alla stessa stregua degli eredi che subentrano nei diritti del de cujus (Rusca/Salmina/Verda, op. cit., n. 4 all’art. 69; Piquerez, Procédure pénal suisse, ed. 2000 nota a piè di pagina 5 alla nota marginale n. 1312, pag. 293), occorre riconoscere questi diritti anche ad una società che riprende gli attivi e i passivi (il patrimonio) di un'altra per effetto di una fusione. Per il che alla _ in concordato preventivo, che è subentrata nei diritti della PC 3, compete la veste di parte civile.
4.3.
Rimane da decidere se _ in concordato preventivo può avanzare delle pretese nel processo penale accanto alla massa fallimentare di _. Le disposizioni degli art. 163 segg. CPP, che governano i crimini e i delitti nel fallimento e nell’esecuzione per debiti, tutelano prevalentemente le pretese dei creditori nell’ambito della procedura di pignoramento e in quella fallimentare (Brunner, Basler Kommentar, ed. 2003 n. 7 ad art. 163). In dottrina non è sempre chiaro chi - l'amministrazione del fallimento o i singoli creditori - possa assumere la qualità di parte civile (Brunner, op. cit.
N. 37 ad art. 163; Schmid, Strafprozessrecht, 4a ed.
Zurigo, n. 508 e nota a piè di pagina 140 con rif.). La CRP ha già avuto modo di chiarire che, nell’ambito di procedimenti per reati fallimentari, si deve riconoscere la veste di parte civile tanto ai creditori, quanto all’amministrazione del fallimento, quali danneggiati nel procedimento relativo all’esercizio dell’azione civile nel processo penale (CRP 7 dicembre 2004 inc. n. 60.2004.222 consid.
2.2 e 2.3; Brunner, op. cit. N. 38 ad art. 163).
Ne discende che _ in concordato preventivo può far valere le sue pretese di risarcimento in sede penale, indipendentemente dalle argomentazioni sviluppate dal giudice di prima istanza in ordine alla cessione dei diritti ai creditori ai sensi degli art. 260 LEF e 757 CO. Resta inteso che le pretese di risarcimento non possono essere fatte valere due volte. Se le stesse vengono riconosciute ad un creditore, di ciò si deve tener conto per i diritti che vengono avanzati dalla massa fallimentare. In concreto, il presidente della prima Corte non ha riconosciuto alcunché alla massa fallimentare nell’ambito di questo procedimento, per cui il tema neppure si pone.
5.
In ordine al risarcimento del danno, l'insorgente si duole che il presidente della Corte ha liquidato il danno riferito alle spese legali di _. in concordato preventivo per la somma di fr. 38'308.50. In concreto - sostiene la ricorrente - il danno andava considerato nell'ambito dell'assegnazione delle ripetibili per la cui determinazione il giudice avrebbe dovuto riferirsi alla LAvv - accertando l’esorbitanza della tariffa oraria di fr. 385.- - così come avrebbe dovuto tenere conto della parziale soccombenza in seguito al decreto di non luogo a procedere emanato dal procuratore pubblico per il reato di truffa di modo l’importo assegnato a tale titolo non avrebbe dovuto superare i fr. 10'000.-.
5.1.
Contro i dispositivi di una sentenza penale che decidono pretese di risarcimento, tanto la parte civile quanto il condannato possono ricorrere al Tribunale d'appello nei modi e nelle forme stabiliti dal Codice di procedura civile (art. 268 cpv. 1 CPP). Scopo della norma è quello di evitare che la Corte di cassazione e di revisione penale sia chiamata a statuire sulla fondatezza di pretese civili, ciò che esula manifestamente dalle sue attribuzioni. Per tale motivo il termine di ricorso al Tribunale d'appello contro i dispositivi che decidono pretese di risarcimento decorrono solo dal passaggio in giudicato della sentenza penale (art. 269 CPP). In materia di ripetibili, la situazione non manca di analogie nel senso che, statuendo sulle spese, l’autorità penale decide simultaneamente se e in che misura siano da attribuire ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP). Quest’ultima norma è stata introdotta come base legale per ovviare al sistematico diniego di ripetibili, contrario all’art. 9 Cost. (CCRP 17 agosto 2004 inc. 17.2002.72 consid. 9a; RDAT I - 1994 n. 83 pag. 212 ; Rapporto della Commissione speciale per l’esame del CPP, dell’8 novembre 1994, pag. 13 a metà). Non vi è motivo tuttavia, in questo caso, perché il dispositivo di prima sede sulle spese e le ripetibili debba essere impugnato al Tribunale di appello nei modi e nelle forme stabiliti dal Codice di procedura civile. Intanto perché non avrebbe senso deferire a un'autorità civile il giudizio sulle spese di un procedimento penale. In secondo luogo perché il giudizio sulle ripetibili non si identifica con quello sul risarcimento del danno: anzi, un danno risarcibile per i costi causati da un procedimento giudiziario sussiste nella sola misura in cui non sia coperto dall'eventuale indennità per ripetibili (
Werro
in: Commentaire romand, Code des obligations I, Basilea 2003, n. 14 in fine ad art. 41 con richiamo a SJ 123/2001 I 154 nel mezzo). Ciò premesso, nulla osta a che sull'indennità per ripetibili statuisca questa Corte.
5.2.
L'art. 9 cpv. 6 CPP non indica né in che consistano precisamente le spese ripetibili, né a quali principi occorra attenersi per definirle. L'art. 10 del Regolamento sulla tariffa per i casi di patrocinio d'ufficio e di assistenza giudiziaria e per la fissazione delle ripetibili (di seguito Regolamento), definisce ripetibili la partecipazione all'onorario e alle spese sopportate nell'interesse del cliente. Nel caso in esame, _ in concordato preventivo ha richiesto la rifusione tanto delle spese, quanto dell'onorario di patrocinio per l'assistenza prestata dal suo patrocinatore. L'art. 12 del Regolamento dispone che nelle pratiche il cui valore non è determinato o determinabile, come nel processo penale, le ripetibili sono stabilite in base al tempo di lavoro applicando la tariffa oraria di fr. 280.-. Simili importi sono stati considerati adeguati dal Consiglio di moderazione (ad es. BOA 30 pag. 40, BOA 32 pag. 40). Di conseguenza, la tariffa oraria esposta dall'avv. _ di fr. 385.- l'ora (TPC 24; all. 6), riservato un patto diverso con il cliente (art. 10 cpv. 2 Regolamento), risulta eccessiva alla luce dei principi che governano l'assegnazione delle ripetibili, anche per casi relativamente difficili come quello in rassegna. Le ripetibili devono, quindi, essere fissate in fr. 280.- l'ora. Posto che non è stata mossa alcuna obiezione riguardo l’esposizione di 92 ore e 45 minuti da parte del patrocinatore della parte civile, la CCRP non ha motivo di distanziarsene. L'onorario per ripetibili ammonta a fr. 25'970.-. A ciò si devono aggiungere le spese, forfettariamente calcolate nella misura del 4% dell'onorario, ovvero fr. 1'038.80, in conformità dell'art. 6 cpv. 1 del Regolamento citato. Complessivamente le ripetibili ammontano quindi a fr. 27.008.80 (fr. 25'970.- di onorario e fr. 1'038.80 di spese).
5.4.
La ricorrente pretende che le ripetibili devono essere commisurate al grado di soccombenza e, quindi, che si debba tener conto del fatto che la procuratrice pubblica ha emanato un decreto di abbandono e che non tutti gli addebiti contemplati nell'atto di accusa hanno concorso a formare oggetto di condanna.
Invero, in data 27 giugno 2007 la PP ha pronunciato un decreto di non luogo a procedere nei confronti dei due imputati per i reati di truffa, appropriazione indebita ed amministrazione infedele (AI 154). Tuttavia, alla CCRP non è parso che, nell'economia del procedimento, l'istruttoria sia stata resa più difficoltosa e più lunga per il fatto che la PP ha istruito non solo il reato di cattiva gestione, ma anche quelli che hanno formato oggetto di abbandono. Inoltre, se è vero che non tutti gli addebiti che sono stati mossi alla ricorrente nell’atto di accusa sono stati confermati dal giudice di prima istanza, bisogna considerare che la ricorrente è stata prosciolta soltanto per taluni episodi, che il reato che si è consumato sarebbe, comunque, rimasto uno solo e che la pluralità di atti che potevano configurare una cattiva gestione dovevano essere valutati nell'ambito della commisurazione della pena (cfr. considerando 3.1 di questa decisione). Ferme queste premesse, e rilevato inoltre che l’azione penale è competenza del procuratore pubblico cui spetta, in particolare, la redazione dell’atto di accusa, non si può, in concreto, considerare che la parte civile sia risultata soccombente. In queste senso, non si giustifica una riduzione delle ripetibili.
6.
Da ultimo, la ricorrente contesta che ricorrano i motivi per il mantenimento del sequestro conservativo sui conti bancari degli accusati e, in particolare sui suoi averi, ovvero sul conto corrente n. c/o _.
6.1.
Il primo giudice ha deciso il mantenimento del sequestro conservativo sul conto citato (oltre che su quello di _) per garantire il pagamento degli importi riconosciuti alle parti civili. Nulla ha detto, però, né riguardo la base legale di tale sequestro né riguardo le sue motivazioni (sentenza impugnata, consid. 36, pag. 38)
.
6.2.
Giusta l’art. 71 cpv. 3 CP, in vista dell’esecuzione del risarcimento - e meglio, del risarcimento equivalente di cui al cpv. 1 CP, ordinato dal giudice quando i valori soggetti a confisca non sono più reperibili - l’autorità inquirente può sottoporre a sequestro valori patrimoniali dell’interessato anche se non sono direttamente provento di reato. Il sequestro non fonda alcuna pretesa privilegiata in favore dello Stato nell’ambito dell’esecuzione forzata
.
La misura del sequestro conservativo ha effetto, dopo la crescita in giudicato della sentenza, sin quando non sarà possibile procedere alla realizzazione dei valori confiscati per le vie esecutive (N. Schmid, Kommentar Einziehung, organisiertes Verbrechen und Geldwäscherei, vol.
I , ZH 1998, § 2/art. 59 CP n. 172-174; Trechsel, K.K., n. 20 ad art. 59 CP citati in STF 16.10.2003 6P.94/2003+6S.246/2003).
Così come precisato dal TF, l’art. 71 cpv. 3 CP (art. 59 n. 2 cpv. 3 vCP) costituisce la base legale per il sequestro conservativo ad opera del giudice di beni anche a garanzia delle pretese risarcitorie delle parti civili (STF 16.10.2003 6P.94/2003+6S.246/2003).
Tuttavia, presupposto del sequestro conservativo a favore della parte civile è l’esistenza di una pretesa risarcitoria dello Stato ai sensi dell’art. 71 cpv. 1 CP assegnata, su sua richiesta, al danneggiato in forza dell’art. 73 CP.
6.3.
A norma dell'art. 71 cpv. 1 CP, se i valori patrimoniali sottostanti alla confisca non sono più reperibili, siccome consumati, dissimulati o alienati, il giudice ordina in favore dello Stato un risarcimento equivalente, e ciò per evitare che colui che si è spossessato di valori patrimoniali soggetti a confisca sia avvantaggiato rispetto a chi li ha conservati (DTF 129 IV 109 consid. 3.2; 123 IV 74 consid. 3; FF 1993 III pag. 221). Il risarcimento equivalente ha, dunque, un ruolo sostitutivo della confisca e, in quanto tale, non può creare vantaggi o inconvenienti (DTF 123 IV 74 consid. 3). In ragione del suo carattere sussidiario, il risarcimento equivalente può, quindi, essere ordinato solo nell’eventualità in cui, se valori patrimoniali fossero stati disponibili, la confisca sarebbe stata pronunciata (DTF 1B_185/2007 del 30 novembre 2007 consid.
10.1; Schmid, Kommentar, Einziehung Organisiertes Verbrechen, Geldwäscherei, Band I, II ed. 2007 n. 99 ad art. 70-72).
Il risarcimento equivalente soggiace, quindi, alle stesse condizioni della confisca (Schmid, op. cit.; N. 105 ad art. 70-72). Ciò significa che il giudice, per poter ordinare un simile provvedimento, deve accertare che l'infrazione che si è consumata era generatrice di profitti e che valori patrimoniali provento del reato sono stati incorporati nel patrimonio dell'accusato (DTF 1B_185/2007 cit.) o di un terzo. Questi indebiti profitti possono configurarsi mediante un aumento degli attivi, ma anche con una diminuzione dei passivi (Schmid, op. cit. n. 102 ad art. 70-72 CP; Baumann, Basler Kommentar, N. 53 ad art. 70-71; Hirsig-Vouilloz, Commentaire Romand, CP I n. 7 all'art. 71)
.
6.4.
Nel caso in esame non si può certo sostenere che l'infrazione che è stata consumata dalla ricorrente sia stata generatrice di profitti. La sua condotta costitutiva di reato ha generato a _ perdite per ca. 9.5 milioni, senza che l’autrice abbia tratto da essa alcun beneficio.
La situazione non si pone negli stessi termini per _, che è stato condannato anche per amministrazione infedele aggravata.
In queste condizioni, non vi sono gli estremi per ordinare in favore dello Stato un risarcimento equivalente ai sensi dell’art. 71 cpv. 1 CP e, quindi, nemmeno vi sono gli estremi per un’assegnazione alla parte civile di tale risarcimento ai sensi dell’art. 73 cpv. 1 lett. c: il conto corrente n. di RI 1 c/o _ deve, perciò, essere dissequestrato.
7.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza, ossia sono posti nella misura di 2/10 a carico dello Stato e per i rimanenti 8/10 a carico di RI 1. La ricorrente rifonderà alla parte civile _ in concordato preventivo fr. 800.- per ripetibili ridotte.
Non vengono assegnate ripetibili a PC 1, che ha preso posizione senza far ricorso ad un patrocinatore. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
d92e467a-d510-5cf4-bfa6-c7e42bc21b2f | in fatto ed in diritto
che a seguito della querela sporta il 12/15.11.2010 da PI 3, per il tramite del suo patrocinatore avv. _, nei confronti di PI 2 per le ipotesi di reato di calunnia, sub. diffamazione e ingiuria, nonché di minaccia in relazione ai fatti accaduti il 3.09.2010, a _, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale a carico del querelato sfociato, da un lato, nel decreto di non luogo a procedere 17.01.2011 emanato dal procuratore pubblico Paolo Bordoli per l’ipotesi di reato di minaccia (per l’assenza di prove sufficienti) (NLP _) e, dall’altro lato, nel decreto di accusa di medesima data per il reato di diffamazione (cfr., nel dettaglio, DA _);
che il NLP _ è regolarmente passato in giudicato, non essendo stato impugnato presso questa Corte mediante reclamo giusta i combinati art. 310 cpv. 2 e 322 cpv. 2 CPP;
che il DA _ è passato in giudicato il 19.10.2012, poiché con scritto 15.10.2012 è stata ritirata l’opposizione interposta il 24.01.2011 al DA _ da PI 2 e il giudice della Pretura penale ha quindi stralciato dai ruoli il procedimento penale di cui all’incarto _, dichiarando esecutivo il citato DA (decreto di stralcio 19.10.2012, inc. _);
che con scritto 11/15.07.2013 – a valere quale istanza ex art. 62 cpv. 4 LOG – la IS 1 postula l’autorizzazione della trasmissione degli incarti
DA _ e NLP _ da parte del Ministero pubblico
, essendo stati richiamati con il consenso del giudice e delle parti ai fini dell’istruttoria della causa di cui all’incarto _;
che a fondamento della sua richiesta il pretore precisa che, presso la IS 1, tra PI 3 e PI 2 è pendente una procedura di risarcimento danni e torto morale dell’ammontare di CHF 8'200.-- fondata sugli art. 41 ss. CO e in connessione con i decreti emanati il 17.01.2011 dal procuratore pubblico Paolo Bordoli (NLP _ e DA _) (doc. 1);
che questa Corte ha deciso di non interpellare il procuratore pubblico per presentare eventuali osservazioni, poiché le parti degli incarti penali richiamati, nel frattempo archiviati, corrispondono a quelle del procedimento civile pendente presso la Pretura istante;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha nella sostanza ripreso il testo del previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che come ricordato dalla prassi di questa Corte, in caso di richiesta da parte di autorità giudiziarie tendente ad ottenere documenti di un incarto penale, la giurisprudenza ammette la richiesta se: (i) si riferisce a procedimenti ancora pendenti presso l'autorità richiedente; (ii) è compatibile con il codice di rito applicabile a quel procedimento; (iii) è formulata dal titolare dell’autorità giudiziaria richiedente; inoltre deve essere dato un legame di pertinenza dell’incarto richiamato con quello richiamante;
che nella fattispecie in esame – stante i motivi posti alla base della presente richiesta e il contenuto degli incarti penali richiamati – appare pacifico che sia data una stretta connessione tra la causa civile di cui all’incarto _ pendente presso la Pretura istante e gli incarti NLP _ e DA _, nel frattempo archiviati, poiché le parti coinvolte sono le stesse in entrambe le sedi e i procedimenti traggono le loro origini dalla medesima fattispecie, ossia dai fatti accaduti, a _, il 3.09.2010;
che in siffatte circostanze gli atti di entrambi incarti penali richiamati potrebbero avere indubbiamente una loro rilevanza ai fini dell’istruttoria e del giudizio civile;
che in casu è quindi adempiuto un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG;
che di conseguenza gli incarti penali NLP _ e DA _ (due mappette verdi) vengono trasmessi, in originale, alla Pretura istante unitamente alla presente decisione, con l’obbligo di restituirli direttamente al Ministero pubblico, al più tardi, a procedimento civile concluso;
che la tassa di giustizia, contenuta al minimo, e le spese sono poste a carico della Pretura istante, che a sua volta le addosserà alle parti in base alle norme del CPC. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
d96c8683-f2e6-55de-bfae-02e35df22dbf | in fatto ed in diritto
1.
A seguito della querela sporta da _ in relazione al furto della sua autovettura, marca _, targata _
, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale (inc. MP _) sfociato nel decreto di accusa 1.06.2015 mediante il quale il procuratore pubblico ha posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale IS 1 siccome ritenuto colpevole di furto d’uso e guida in stato di attitudine riguardo ai fatti accaduti, a _, il _ rispettivamente la notte tra il _ e il _, ed ha proposto la sua condanna alla pena pecuniaria di trenta aliquote da CHF 130.-- cadauna, corrispondenti a complessivi CHF 3'900.--, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, alla multa di CHF 500.--, al pagamento della tassa di giustizia e delle spese, e meglio come descritto nel DA _.
Il suddetto decreto è regolarmente passato in giudicato, non essendo stato impugnato.
2.
Con la presente istanza – trasmessa, per competenza, dal Ministero pubblico a questa Corte – IS 1 chiede di visionare gli atti del summenzionato procedimento penale, poiché vi sarebbe un contenzioso in corso con il Municipio di _ (doc. 1.a).
3.
Come esposto in entrata, il procuratore pubblico non ha presentato osservazioni in merito alla richiesta.
Questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare le altre parti nel procedimento penale di cui all’incarto MP _, nel frattempo archiviato, essendo il qui istante stato parte (in qualità d’imputato) al medesimo.
4.
4.1.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
4.2.
Nel presente caso, pur essendo stato l’istante parte (in qualità d’imputato) nel procedimento nel frattempo terminato, egli deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo.
C
ome ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10).
Inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994, p. 19).
Lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG.
5.
Nella fattispecie in esame appare pacifico l’interesse giuridico legittimo di IS 1 giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere l’autorizzazione ad esaminare gli atti istruttori dell’incarto in questione, poiché il procedimento penale nel frattempo archiviato l’ha interessato personalmente in veste di parte.
A ciò aggiungasi che egli ha dichiarato di avere (un non meglio precisato) contenzioso con il Municipio di _. Dalle sue deposizioni rese in sede di polizia si evince in ogni caso che egli sarebbe impiegato quale operaio comunale presso il predetto comune.
Di conseguenza IS 1 è autorizzato ad esaminare, presso il Ministero pubblico, gli atti istruttori dell’incarto penale MP _ sfociato nel DA _
, concordando i tempi e le modalità di accesso con il procuratore pubblico Chiara Borelli, compatibilmente con i suoi impegni.
Egli è, se del caso, autorizzato a fotocopiare gli atti utili per le sue incombenze.
6.
L’istanza è accolta ai sensi del precedente considerando. Si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo il qui istante già stato parte al procedimento penale in questione nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
d9c892ec-0cd1-5514-8157-ade886fabcdf | in fatto: A.
Nell'ambito di un progetto inteso alla costruzione di 11 case unifamiliari sulla particella n. _ RFD di _, lo studio di architettura _ e _ SA di Biasca si è impegnato verso il Municipio di _ a sistemare una strada comunale (particella n. _). Il Comune, da parte sua, avrebbe partecipato alla spesa con un contributo di fr. 80'000.–. Il 21 dicembre 1994 è stata rilasciata la licenza edilizia. Il 1° febbraio 1995 il sindaco e il segretario di _, in nome del Municipio, rispettivamente il 16 marzo 1995 la ditta _ e _ SA hanno firmato una convenzione sulla sistemazione della strada, da eseguire entro il 31 dicembre 1996. Il Municipio di _, ottenuto dal Consiglio comunale il relativo credito, ha chiesto il 3 agosto 1995 al Consiglio di Stato l'esonero dall'obbligo di prelevare contributi di miglioria. La richiesta è stata accolta con risoluzione governativa del 10 ottobre 1995. La ditta _ e _ ha edificato così le 11 case unifamiliari e le ha vendute. Invece ha eseguito solo parzialmente la sistemazione della strada comunale. Il 25 giugno 1997 il Municipio si è incontrato con i proprietari delle villette, informandoli della convenzione.
B.
Il 4 luglio 1997 il sindaco _ ha comunicato a _ che se entro il 31 luglio 1997 la sistemazione della strada non fosse ultimata, egli avrebbe proposto al Municipio di adottare provvedimenti e avrebbe inviato una cronistoria della vicenda agli 11 proprietari delle villette, declinando ogni responsabilità del Comune. Il 5 agosto 1997, constatata la renitenza dello studio di architettura, il Municipio ha proceduto in tal modo. La ditta ha reagito il 26 agosto 1997 con una lettera, inviata in copia a svariate persone, in cui _ accusava il sindaco di "mirare ad un illegittimo profitto", di usare "tanto odio e tante cattiverie nei nostri confronti" e di non esitare "a sabotare, nel modo più irresponsabile possibile, la nostra ditta e non da ultimo denigrandola deliberatamente allo scopo di vederne la sua rovina e di tentare di salvaguardare la sua immagine per tutte le porcherie fatte nei nostri confronti". _ ha sporto il 20 novembre 1997 querela contro _. Dopo l'apertura del procedimento penale, _ ha distribuito tra febbraio e marzo del 1998 due libelli (non datati) in cui rimproverava a _ di avere spedito "lettere personali di minaccia", di essere "intrigante, sprezzante persino nei confronti della legalità, arrogante e aggressivo nei miei confronti", lamentava una "illegalità dell'operazione" e concludeva affermando che "qualcuno va sussurrando che forse la questione è più terra a terra. In fondo chi riceve un favore sarà grato al benefattore".
C.
Con decreto di accusa del 28 giugno 1999 il Procuratore pubblico ha riconosciuto _ colpevole di ripetuta diffamazione per le dichiarazioni citate dinanzi e lo ha condannato a una multa di fr. 1'500.–, oltre che al versamento alla parte civile di fr. 2'466.10 per risarcimento di spese legali e di fr. 500.– per torto morale. Statuendo su opposizione, con sentenza dell'8 novembre 1999 il Pretore del Distretto di Bellinzona ha confermato l'imputazione, limitandola però alle accuse di mirare a un illegittimo profitto, di agire con odio e cattiveria, di avere voluto sabotare la ditta e di essere intrigante. Ha pertanto ridotto la multa a fr. 800.– e l'indennità per torto morale a fr. 250.–.
D.
Contro il giudizio predetto _ ha inoltrato il 12 novembre 1999 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta del 30 novembre 1999 egli chiede di essere prosciolto dall'accusa di ripetuta diffamazione e di annullare il dispositivo sui risarcimenti riconosciuti alla parte civile. Nelle sue osservazioni del 16 dicembre 1999 propone di respingere il ricorso. Analoga conclusione formula la parte civile nelle sue osservazioni del 29 dicembre 1999. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorrente chiede che la Corte di cassazione e di revisione penale richiami la corrispondenza intercorsa fra _ e il sindaco _, rispettivamente il Municipio, nel periodo compreso dal dicembre del 1998 al novembre del 1999. Egli sostiene di avere saputo, dopo l'audizione del testimone _, di uno scambio di corrispondenza dai toni assai duri fra i due, onde la necessità di appurare se _ avesse potuto esprimersi liberamente. Ora, in sede di cassazione è vietato mutare il materiale processuale, di modo che nuove prove sono d'acchito irricevibili (Rep. 1973 pag. 240 consid. 7; da ultimo CCRP, sentenza del 17 maggio 1999 in re W., consid. 1). Oltre a ciò, il ricorrente non indica né in che misura la documentazione di cui chiede il richiamo sia atta a inficiare gli accertamenti del giudizio impugnato, né in che misura la deposizione o la pretesa reticenza del teste avrebbero influito sulla condanna per diffamazione. Del resto il Pretore ha confermato la condanna per ripetuta diffamazione unicamente sulla base delle affermazioni contenute nella lettera del 26 agosto 1997, senza neppure menzionare le deposizioni dei testi sentiti al dibattimento (consid. 10). Ciò premesso, la richiesta in questione si rivela del tutto irricevibile.
2.
Il ricorrente ribadisce che, concedendo la parola alla parte civile al termine della fase probatoria, il Pretore ha violato l'art. 274 cpv. 3 CPP e che la motivazione addotta dal Pretore per respingere la relativa eccezione è carente. Nella misura in cui invoca l'art. 288 lett. b CPP, va ricordato che violazioni di disposizioni essenziali di procedura sono solo quelle che portano pregiudizio alla parte che le invoca (CCRP, sentenza del 23 agosto 1999 in re G., consid. 1, con riferimenti). Nel caso concreto il ricorrente non spiega in che misura egli sia stato pregiudicato dal fatto che alla parte civile sia stato concesso diritto di parola, tanto meno se si pensa che motivando il proprio giudizio il Pretore non ne ha fatto uso alcuno (consid. 10). Sia come sia, non si vede perché il Pretore avrebbe violato la legge concedendo alla parte civile, come nei casi davanti alla Corte di assise (art. 251 cpv. 1 CPP), la parola a istruttoria dibattimentale conclusa. Basti ricordare che, una volta costituitasi come tale, la parte civile deve obbligatoriamente essere citata al dibattimento (art. 83 cpv. 1 CPP) e che, in base all'art. 274 cpv. 3 CPP, essa è addirittura interrogata dal Pretore. E siccome essa è parte al procedimento (art. 77 segg. CPP), in ossequio al diritto di essere sentiti non le può essere negato il diritto di esprimersi anche al termine della fase istruttoria, formulando al Pretore le sue conclusioni. Che l'art. 74 cpv. 3 CPP non menzioni tale facoltà ancora non significa che, per ciò solo, debba ravvisarsi una limitazione dei diritti della parte civile. Quanto alla pretesa carenza di motivazione da parte del Pretore, la questione è – comunque sia – superata dalle considerazioni che precedono.
3.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto, non destinato a rimettere in causa l'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove (art. 288 cpv. 1 lett. a CPP). Problemi del genere sono sindacabili unicamente se il giudizio impugnato denota gli estremi dell'arbitrio (art. 288 cpv. 1 lett. c CPP). Arbitrario non significa tuttavia opinabile o finanche erroneo, bensì chiaramente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo o in urto palese con il sentimento di giustizia ed equità (Rep. 1990 pag. 352 consid. 1, pag. 360 consid. 2.2a; sulla nozione di arbitrio: DTF 125 I 168 consid. 2a, 124 I 316 consid. 5a, 123 I 5 consid. 4a, 121 I 114 consid. 3a, 120 Ia 40 consid. 4b).
a)
Il Pretore ha accertato che con lettera del 2 novembre 1994 la ditta _ e _ SA ha chiesto al Municipio di _ di anticipare la concessione della licenza edilizia almeno per 2 o 4 case. In occasione di un incontro avvenuto il 22 novembre successivo, del quale il Municipio ha riferito in una lettera del 25 novembre 1994, le parti si sono accordate sulle condizioni della licenza edilizia, che prevedeva l'impegno della ditta di sistemare la strada comunale (particella n. _) in base a un progetto allestito dall'ufficio tecnico comunale. La licenza edilizia rilasciata il 21 dicembre 1994 era – come detto – condizionata alla firma e al rispetto della convenzione (consid. 1). Se non che, la sistemazione della strada è stata eseguita solo parzialmente e, dopo una riunione con i proprietari delle case avvenuta il 25 giugno 1997, il 4 luglio 1997 il sindaco _ ha invitato a _ una lettera in cui lo diffidava a ultimare i lavori entro il 31 luglio, in difetto di che avrebbe proposto al Municipio di adottare provvedimenti e avrebbe trasmesso agli 11 proprietari fondiari una cronistoria della vicenda (sentenza, consid. 2).
b)
Il ricorrente si diffonde in una sua descrizione dei fatti che hanno portato al rilascio della licenza edilizia, nell'intento di dimostrare che la firma della convenzione è avvenuta per forza e sotto pressione del Municipio, succube del sindaco, il quale aveva dettato le condizioni e si era trincerava dietro risoluzioni del Consiglio di Stato per non esaudire le sue richieste. Inoltre, asserisce il ricorrente, dovendo il prezzo di vendita rispettare le quotazioni del mercato immobiliare, non era stato possibile considerare il maggior costo della sistemazione stradale né, a fronte delle ripetute modifiche richieste, rispettare i termini, essendo subentrati problemi di liquidità. Ora, a prescindere dalla circostanza che invano si cercherebbe una censura di arbitrio in siffatto esposto (tant'è che il ricorrente stesso definisce le sue allegazioni alla stregua di precisazioni e complementi), il ricorrente si limita a prospettare una propria versione dei fatti, volta a giustificare il proprio comportamento, senza confrontarsi concretamente con la motivazione del Pretore. Egli cita le deposizioni _, _ e _, asserendo che i promotori si erano opposti ad assumere i costi di sistemazione della strada, cui avrebbe dovuto far fronte il Comune. Nulla di tutto ciò risulta tuttavia dal giudizio impugnato. In realtà, a detta del teste _, la convenzione era stata proposta per accelerare il rilascio della licenza edilizia e l'accusato era restio ad accettarla, ma vi aveva poi aderito dopo avere saputo che il Comune non era in grado di realizzare subito la sistemazione della strada. Il teste _ ha dichiarato che prima dell'inoltro della domanda di costruzione era stato fatto presente che la strada non era pavimentata, che non vi erano canalizzazioni e che mancava l'illuminazione. Il teste _ ha riferito che il progetto di convenzione era stato inviato al ricorrente con un lasso di tempo per eventuali osservazioni e che la convenzione era stata firmata dopo varie discussioni preliminari (sentenza, consid. 5). Inconferenti sono poi le allegazioni sulla determinazione dei prezzi di vendita delle case o il mancato rispetto dei termini. In definitiva, quindi, nulla risulta dal giudizio impugnato a sostegno degli argomenti ricorsuali, che si rivelano meramente appellatori e pertanto irricevibili.
4.
L'art. 173 cpv. 1 CP punisce a querela di parte con la detenzione sino a sei mesi o con la multa chi, comunicando con un terzo, incolpa o rende sospetta una persona di condotta disonorevole o di altri fatti che possono nuocere alla riputazione di lei. Gli art. 173 segg. CP proteggono l'onore personale, la reputazione e il sentimento di essere un uomo d'onore, ossia di comportarsi secondo le regole riconosciute. Sfuggono a tale protezione, per contro, quelle espressioni che, senza far apparire spregevole la persona, offuscano la reputazione di cui quest'ultima gode nel proprio ambito o l'opinione che essa ha di sé stessa (DTF 119 IV 44 consid. 2a, 117 IV 27 consid. 2c). Nel quadro di liti politiche Il carattere penale di un'offesa dell'onore va ammesso con grande riserbo (DTF 118 IV 248 consid. 2b, 116 IV 150 consid. 3c). Attacchi politici sono punibili ai sensi dell'art. 173 ove siano (pure) idonei a far apparire spregevole come uomo la persona attaccata, e non solo ove mettano in cattiva luce le qualità politiche di tale persona (DTF 105 IV 194 consid. 2a). Determinante per stabilire se uno scritto sia lesivo della reputazione di una persona non è il senso che quest'ultima attribuisce a tale scritto, bensì l'impressione generale che esso, secondo un'interpretazione oggettiva, suscita, nelle circostanze concrete, in un lettore medio non prevenuto (DTF 119 IV 44 consid. 2a, 117 IV 27 consid. 2c).
Secondo l'art. 173 n. 2 CP il colpevole del reato di diffamazione non incorre in alcuna pena se prova di avere detto o divulgato cose vere oppure prova di avere avuto seri motivi di considerarle vere in buona fede. La valutazione della buona fede comporta un apprezzamento, da parte del giudice del merito, su quanto poteva o doveva sapere l'accusato al momento in cui ha proferito l'affermazione incriminata. Mezzi di prova scoperti successivamente o fatti avvenuti a posteriormente non entrano in considerazione (DTF 124 IV 152 consid. 3b, 107 IV 35 consid. 5a, 102 IV 182 consid. 1c). La prova liberatoria presuppone, in ogni caso, che l'affermazione non sia stata proferita con leggerezza: l'accusato deve dimostrare di averne creduto la veridicità dopo avere intrapreso coscienziosamente quanto ci si doveva attendere da lui, secondo le circostanze concrete e la sua situazione personale, per convincersi della sua esattezza (DTF 124 IV 151 consid. 3b, 116 IV 207 consid. 3, 105 IV 118 consid. 2a). Incombe all'accusato addurre quali fossero gli elementi di cui egli disponeva a quel momento (questione di fatto); il giudice deve poi stabilire con libero esame, in diritto, se tali elementi erano sufficienti per credere alla veridicità delle asserzioni (DTF 124 IV 152 consid. 3b in fine;
Corboz
, La diffamation, in: SJ 114/1992 pag. 659). Cautela particolare si impone, comunque sia, da parte di chi divulga le proprie asserzioni a un'ampia cerchia (DTF 124 IV 151 consid. 3b, 116 IV 208 consid. 3b, 105 IV 118 seg. consid. 2a, 104 IV 16 consid. 4b).
5.
Il Pretore ha ritenuto diffamatorie le accuse secondo cui la parte lesa mirava a un illegittimo profitto, agiva con odio e cattiveria, voleva sabotare lo studio di architettura, dimostrandosi intrigante, poiché tali affermazioni tendevano a far apparire la persona contro la quale erano dirette come particolarmente spregevole e andavano ben oltre le critiche che chi occupa cariche politiche deve accettare (sentenza, consid. 10). In merito a tali affermazioni l'accusato non aveva recato la prova della verità e nemmeno quella della buona fede (consid. 11). Il ricorrente assevera invece che nel contesto generale le affermazioni imputategli non assumono carattere diffamatorio o comunque non sono punibili perché è stata provata la loro verità o per lo meno la sua buona fede. A torto. Il rimprovero mosso alla controparte di mirare a un illegittimo profitto – peraltro ripetuto – va senz'altro inteso da un lettore medio nel senso di un conseguimento di un vantaggio economico personale. Basti rammentare ch'esso si riferiva alla convenzione conclusa tra il Municipio e la ditta in merito alla sistemazione della strada e all'assunzione delle spese ed era correlato alla lettera del 26 agosto 1997, in cui si faceva questione appunto di chi era chiamato a sopportare i costi, per poi passare direttamente alla posizione del sindaco.
Per quanto concerne le accuse di avere usato tanto odio e cattiverie e di aver voluto sabotare la ditta, oltre che infondate, esse stanno a significare – in uno con la frase precedente – che il querelante aveva deliberatamente voluto infierire contro la ditta, caricandole i costi di un'opera senza tenere in considerazione i danni e le disparità che ne sarebbero derivate, salvo poi denigrarla per provocarne la rovina. Accuse simili sono indubbiamente atte a ledere l'onore di un uomo politico, poiché per un lettore medio, che non conosce gli antefatti, la firma della convenzione e le successive difficoltà incontrate nella fattispecie dall'autorità comunale nel far rispettare i termini dell'accordo, facevano apparire il sindaco come persona che non esita a farsi trasportare dal malanimo e a mandare in rovina una ditta, costringendola a sobbarcarsi oneri finanziari proibitivi quale condizione per il rilascio della licenza edilizia. Più problematica appare la sentenza del Pretore per quel che è del termine "intrigante". Ci si potrebbe chiedere infatti se un apprezzamento del genere, ancorché poco lusinghiero, possa indurre ancor oggi un cittadino medio a considerare il destinatario come una persona spregevole. Se non che, posta accanto alle precedenti espressioni diffamatorie e inserita nel contesto descritto, l'accusa di intrigante – ancorché mossa in uno sfondo politico – contribuisce a rafforzare l'immagine negativa del sindaco e della persona, lasciando intendere che costui è solito far uso di mezzi scorretti e illegali.
Se ne conclude che, ritenendo le espressioni in oggetto lesive dell'onore del destinatario, il Pretore non ha violato l'art. 173 CP. Riguardo alla prova della verità e della buona fede, che il ricorrente afferma genericamente di avere apportato (consid. 9, pag. 14), giovi rilevare che le affermazioni incriminate hanno costituito una reazione alla lettera del 5 agosto 1997 con cui il Municipio aveva trasmesso ai proprietari delle 11 case una cronistoria della vicenda. La missiva essendo opera del Municipio, non si vede come il ricorrente potesse seriamente ritenere di rispondere mediante affermazioni diffamatorie nei confronti del sindaco. In realtà emerge con assoluta chiarezza dagli atti istruttori che il ricorrente ha inteso dare sfogo alla propria rabbia e recriminazione per avere assunto un onere finanziario al quale non era in grado di far fronte. Giustamente quindi il Pretore ha negato che il ricorrente avesse recato la prova della verità e della buona fede.
6.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 e 9 cpv. 1 CPP). Alla parte civile, che per inoltrare le osservazioni si è rivolta a un legale, va riconosciuta un'equa indennità per ripetibili. Essa postula la rifusione di fr. 3'457.– per le spese di patrocinio. Dato però che nella fattispecie si trattava unicamente di presentare osservazioni a un ricorso per lo più appellatorio, un'indennità attorno a fr. 1'500.– appare più che equa, cui si aggiungono le spese vive per fr. 215.80, onde un totale (arrotondato) di fr. 1700.–. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,000 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
da9b2dbd-e127-5d7d-ad9e-83f2a74ce836 | in fatto
a.
Con decreto 6.7.2012 il procuratore pubblico Morena Capella ha posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale RE 1 siccome ritenuto colpevole di minaccia, calunnia e abuso di impianti di telecomunicazioni (DA _).
La decisione, intimata per invio raccomandato in data 6.7.2012, non è stata ritirata dall’imputato nonostante l’avviso in casella del 9.7.2012. Il 18.7.2012, in mancanza di ritiro, l’invio raccomandato è stato ritornato al mittente. Con lettera semplice 19.7.2012 il Ministero pubblico ha, per informazione, nuovamente inviato copia del decreto di accusa a RE 1 (AI 4, inc. MP _).
b.
In data 30/31.7.2012 RE 1, per il tramite del suo allora patrocinatore avv. _, ha interposto opposizione al citato decreto d’accusa, allegando alla stessa il certificato medico 26.7.2012 della dr. med. _ (su carta intestata del dr. med. _) dal quale risulta che l’imputato era assente all’estero fino al 25.7.2012, motivo per cui non avrebbe potuto rispettare il termine di dieci giorni per l’inoltro dell’opposizione (AI 5, inc. MP _).
Con decisione 2.8.2012 il magistrato inquirente ha confermato il decreto di accusa DA _ ed ha trasmesso gli atti del procedimento alla Pretura penale per procedere al dibattimento, indicando nel contempo che a suo avviso l’opposizione sarebbe tardiva (doc. 1, inc. _).
c.
In data 5.9.2012 il presidente della Pretura penale ha assegnato un termine di 10 giorni a RE 1 per prendere posizione in merito alla tempestività dell’opposizione di cui sopra e per eventualmente produrre la necessaria documentazione (doc. 4, inc. _).
Con scritto 7.9.2012 RE 1 ha espresso delle considerazioni circa il difficile rapporto con la moglie PI 2, alla base del decreto d’accusa in questione, senza tuttavia pronunciarsi sull’aspetto della tempestività dell’opposizione. A tale scritto lo stesso ha allegato un ulteriore certificato medico 7.9.2012 della dr. med. _ (sempre su carta intestata del dr. med. _), dal qual si evince che RE 1 soffre di una seria condizione ansioso-depressiva (doc. 5, inc. _).
d.
Con decreto 25.9.2012 il presidente della Pretura penale ha dichiarato irricevibile l’opposizione 30/31.7.2012 ritenendola tardiva e non ritenendo validamente giustificato il ritardo (doc. 6, inc. _).
e.
Con reclamo 27/28.9.2012 RE 1 postula l’annullamento del decreto 25.9.2012, facendo valere di non aver ritirato la busta raccomandata contenente il decreto di accusa poiché, per motivi di salute, si trovava all’estero, in particolare in _ dai suoi famigliari. Sostiene inoltre di aver avuto “
un avvocato Signor _, il quale sapeva di tutto dell’accaduto, lui avrebbe dovuto occuparsi un po’ di tutto di cosa potesse succedere, io non stavo bene
” (reclamo 27/28.9.2012, p. 1). | in diritto
1.
1.1.
Giusta l’art. 393 cpv. 1 lit. b CPP il reclamo può essere interposto, entro dieci giorni (art. 396 cpv. 1 CPP), contro i decreti e le ordinanze, nonché gli atti procedurali dei tribunali di primo grado; sono eccettuate le decisioni ordinatorie.
Con il gravame si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l'eccesso e l'abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l'accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l'inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta e all’art. 385 CPP per la motivazione.
In particolare il reclamo deve indicare i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP)
.
1.2.
Il gravame, inoltrato il 27/28.9.2012 alla Corte dei reclami penali, competente ex art. 62 cpv. 2 LOG, contro il decreto 25.9.2012 del presidente della Pretura penale (inc. _), è tempestivo
.
Le esigenze di forma e di motivazione sono rispettate
.
RE 1, quale imputato e destinatario del decreto qui impugnato, è pacificamente legittimato a reclamare ex art. 382 cpv. 1 CPP avendo un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica del giudizio
.
Il reclamo è - di conseguenza - ricevibile in ordine
.
2.
Ai sensi dell’art. 354 cpv. 1 lit. a CPP, il decreto d’accusa può essere impugnato dall’imputato entro dieci giorni con opposizione scritta al pubblico ministero.
Giusta l’art. 90 cpv. 1 CPP, i termini la cui decorrenza dipende da una notificazione o dal verificarsi di un evento decorrono dal giorno successivo. Il cpv. 2 prevede che se l’ultimo giorno del termine è un sabato, una domenica o un giorno riconosciuto festivo dal diritto federale o cantonale, il termine scade il primo giorno feriale seguente. È determinante il diritto del Cantone in cui ha domicilio o sede la parte o il suo patrocinatore.
Secondo l’art. 85 cpv. 1 CPP, salvo che il CPP disponga altrimenti, le comunicazioni delle autorità penali rivestono la forma scritta. Per il cpv. 2, la notificazione è fatta mediante invio postale raccomandato o in altro modo contro ricevuta, segnatamente per il tramite della polizia. Il cpv. 4 lit. a prevede che la notificazione è considerata avvenuta, in caso di invio postale raccomandato non ritirato, il settimo giorno dal tentativo di consegna infruttuoso, sempre che il destinatario dovesse aspettarsi una notificazione
.
3.
3.1.
Nel caso concreto, RE 1 è stato interrogato il 13.3.2012 dalla polizia cantonale in qualità di imputato (in seguito anche in qualità di accusatore privato) in relazione a fatti derivanti dal litigioso rapporto con la moglie PI 2, dalla quale sta divorziando (rapporto di inchiesta di polizia giudiziaria 5.5.2012, AI 1, inc. MP _).
Dal suddetto verbale risulta che il domicilio indicato dall’imputato fosse “Via _, _”. Si tratta del recapito a cui è stata poi inviata la raccomandata contenente il decreto di accusa in questione (AI 3, inc. MP _).
3.2.
Come indicato in fatto (punto a.) il decreto di accusa è stato spedito all’indirizzo fornito dal reclamante per raccomandata in data 6.7.2012 e ritornato al mittente il 18.7.2012. Con lettera semplice ne è stata inviata copia il 19.7.2012.
3.3.
Occorre esaminare la questione relativa al fatto se RE 1 dovesse aspettarsi una notificazione (cfr. art. 85 cpv. 4 lit. a in fine CPP).
Secondo la giurisprudenza del Tribunale federale, una persona deve attendersi la notificazione di un atto allorquando vi è una procedura in corso che impone alle parti di comportarsi conformemente alle regole della buona fede, in particolare di fare in modo, oltre al resto, che le decisioni relative alla procedura stessa possano essergli notificate. Il dovere procedurale di attendersi con tutta verosimiglianza la notifica di un atto ufficiale nasce con l’apertura del procedimento e vale per tutta la sua durata (decisione TF 6B_281/2012 del 9.10.2012).
Nella fattispecie, il procedimento penale di cui all’inc. MP _ ha avuto inizio a seguito della denuncia 12.3.2012 presentata presso gli uffici della polizia cantonale di _ da PI 2 nei confronti del marito qui reclamante. Quest’ultimo, il giorno seguente ha – a sua volta – sporto denuncia nei confronti della moglie.
RE 1 è stato sentito in data 13.3.2012 prima in veste di imputato e poi in veste di accusatore privato. Lo stesso ha anzitutto preso atto del fatto che nei suoi confronti veniva avviata una procedura preliminare per i titoli di minaccia, ingiuria, diffamazione, calunnia e abuso di impianti di telecomunicazioni. Ha poi sottoscritto il formulario relativo ai suoi diritti e obblighi, in cui veniva menzionata la sua facoltà di non rispondere e di non collaborare (art. 158 cpv. 1 lit. b CPP), così come il suo diritto di avvalersi di un difensore di fiducia oppure di richiedere la nomina di un difensore d’ufficio (art. 158 cpv. 1 lit. c CPP).
Al termine del verbale di interrogatorio in qualità di imputato il reclamante è stato inoltre reso attento del fatto che “
deve tenersi a disposizione delle autorità di perseguimento penale e deve comunicare immediatamente eventuali cambiamenti di indirizzo a chi dirige il procedimento
” (verbale di interrogatorio 13.3.2012, p. 4, in rapporto di inchiesta di polizia giudiziaria 5.5.2012, AI 1, inc. MP _).
Ora, visto quanto precede ed in considerazione della giurisprudenza sopra menzionata, il reclamante doveva rendersi conto di essere pienamente parte ad una procedura penale e doveva dunque aspettarsi di ricevere, in tale contesto, delle comunicazioni da parte delle autorità, compreso un decreto d’accusa. È del resto lo stesso RE 1 ad affermare che “
è vero, sapevo che potevo ricevere dei procedimenti penali, ma penso pure che la salute, andrebbe messa avanti tutto
” (cfr. scritto 27.9.2012 al presidente della Pretura penale, doc. 7, inc. _).
In siffatte circostante il decreto 25.9.2012 impugnato, che ha ritenuto l’opposizione tardiva ed il ritardo non giustificato da un valido motivo, è meritevole di tutela.
3.4.
Alla luce del chiaro testo di legge di cui all’art. 85 cpv. 4 lit. a CPP, essendo il primo tentativo di recapito avvenuto il 9.7.2012, il decreto di accusa DA _ va considerato notificato all’insorgente il settimo giorno dopo il primo infruttuoso tentativo di recapito, in questo caso il 16.7.2012.
Di conseguenza, per effetto dell’art. 90 cpv. 1 CPP
il termine per interporre opposizione al decreto di accusa in questione è cominciato a decorrere il 17.7.2012 ed è scaduto il 26.7.2012.
L’opposizione inoltrata al procuratore pubblico il 30/31.7.2012 è dunque viziata da inosservanza del termine in applicazione dell’art. 93 CPP.
3.5.
P
rima di emanare la propria decisione sulla tardività dell’opposizione, la Pretura penale ha comunque fissato un termine di dieci giorni al qui reclamante per prendere posizione sulla prospettata tardività (doc. 4, inc. _)
.
In tal modo, la Pretura penale ha ossequiato la giurisprudenza del Tribunale federale, secondo cui l'autorità che intende dichiarare irricevibile un gravame fondandosi sulla presunzione derivante dal timbro postale apposto sulla busta di spedizione, deve permettere al mittente di produrre mezzi di prova, segnatamente di prova testimoniale, atti a confutare detta presunzione (decisione TF 1P.446/2004 del 28.09.2004 con ulteriori riferimenti).
Come detto, in risposta a tale scritto RE 1 ha espresso delle considerazioni sul merito della fattispecie ed ha allegato un certificato medico, senza tuttavia prendere compiutamente posizione sulla questione della tempestività dell’opposizione (doc. 5, inc. _).
3.6.
Alla luce di quanto precede occorre constatare la tardività dell’opposizione e la correttezza della decisione del Pretore.
4.
4.1.
In questa sede RE 1 ha motivato l’inosservanza del termine di opposizione al decreto di accusa sostenendo di non aver ritirato la busta raccomandata contenente il decreto di accusa poiché, per motivi di salute, si trovava all’estero, in particolare in _ dai suoi famigliari.
Al proposito allega, tra gli altri, il certificato medico 14.6.2012, redatto dalla dr. med. _ (su carta intestata del dr. med. _), dal quale risulta che dal periodo 16.6.2012 al 31.7.2012 lo stesso era inabile al lavoro nella misura del 100% e che poteva “
recarsi in _ e ciò è consigliato per la sua salute psicologica
” (cfr. plico doc. 1b allegato al reclamo 27/28.9.2012).
4.2.
Giusta l’art. 94 cpv. 1 CPP la parte che, non avendo osservato un termine, ha subìto un pregiudizio giuridico importante e irrimediabile può chiederne la restituzione; a tal fine deve render verosimile di non avere colpa dell’inosservanza. Per il cpv. 2, l’istanza di restituzione va motivata e presentata per scritto entro 30 giorni dalla cessazione del motivo dell’inosservanza all’auto-rità presso cui avrebbe dovuto essere compiuto l’atto procedurale omesso. Entro lo stesso termine occorre compiere l’atto omesso.
4.3.
I documenti prodotti non soccorrono tuttavia la tesi del reclamante e risultano essere ininfluenti per la presente procedura.
Così come ininfluente è il certificato medico 26.7.2012 della stessa dr. med. _, allegato all’opposizione 30/31.7.2012, dal quale si evince che RE 1 era assente dal Ticino “
dal 7/7/2012 al 25/7/2012 e pertanto non ha potuto ritirare la raccomandata del Procuratore Pubblico. Così come non ha potuto presentare un reclamo scritto entro i 10 giorni previsti. Vi prego di tener conto di questa assenza motivata da seri problemi di salute psichica del paziente
” (AI 5, inc. MP _).
Il fatto che il reclamante potesse recarsi in _ e/o che lo stesso fosse effettivamente all’estero al momento della notifica del decreto d’accusa in questione, ancora non significa che ciò sia un valido motivo per fondare una restituzione. RE 1 avrebbe potuto/dovuto organizzarsi ad esempio incaricando qualcuno di ritirare la sua posta durante la sua permanenza all’estero.
È del resto proprio lui a sostenere di aver avuto “
un avvocato Signor _, il quale sapeva di tutto dell’accaduto, lui avrebbe dovuto occuparsi un po’ di tutto di cosa potesse succedere, io non stavo bene
” (reclamo 27/28.9.2012, p. 1). Tuttavia, la procura agli atti in favore dell’avv. _ porta la data del 30.7.2012, quindi ben oltre la notifica del DA _. L’argomento addotto è quindi smentito dagli atti.
4.4.
Nel caso concreto, un eventuale motivo di inosservanza del termine di opposizione al decreto di accusa DA _ è cessato al più tardi alla data dell’invio dell’atto viziato da inosservanza del termine, ovverossia il 30.7.2012. Nei 30 giorni successivi, RE 1 non ha prodotto alcuna istanza di restituzione dei termini.
Nemmeno su richiesta, da parte della Pretura penale, di motivare la prospettata tardività dell’opposizione
(doc. 4, inc. _) il reclamante ha fatto valere motivi che potessero, se sufficienti, comportare la restituzione del termine di opposizione al decreto di accusa emanato nei suoi confronti
.
Rettamente, pertanto, il presidente della Pretura penale ha considerato tardiva l’opposizione interposta dall’imputato il 30/31.7.2012
.
5.
Il gravame è respinto. Tassa di giustizia e spese sono poste a carico dell’insorgente, soccombente. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
daa6cd22-3e03-51de-869b-2f7c3121b21d | in fatto: A.
Il 16 ottobre 2002 verso le ore 10 l'agente della polizia cantonale _ ha ricevuto nel suo ufficio a _ una lettera in lingua straniera con la data del giorno prima firmata da _ e _. Allegato allo scritto v'era un biglietto con la dicitura “consegnata da _”. Quello stesso giorno l'interprete _ ha provveduto alla traduzione dello scritto, nel quale le due firmatarie denunciavano tale _ di averle ingannate, promettendo loro un'occupazione in Svizzera come ballerine e intrattenitrici nei bar, salvo poi chiedere loro di prostituirsi. Nello stesso scritto le due donne pretendevano altresì di aver dovuto pagare a una certa _ US$ 2800 per il viaggio. _ ha quindi segnalato il caso all'aiutante _ e al capitano _, i quali gli hanno suggerito di assumere a verbale le dichiarazioni delle due donne e di procedere al fermo di _.
B.
Nel primo pomeriggio dello stesso 16 ottobre 2002 _ ha telefonato ad _, marito della titolare del bar _ e responsabile di fatto del locale, chiedendogli di accompagnare in ufficio le due denuncianti per l'interrogatorio. In seguito egli ha interpellato il commissario _, domandandogli come procedere per non esporre a rischio le due donne. Questi gli avrebbe consigliato di redigere un verbale per ognuna delle ragazze, sul quale avrebbe semplicemente indicato le rispettive generalità e il nome di copertura. Subito dopo egli avrebbe dovuto stendere un altro verbale in cui riportare le deposizioni, indicando le denuncianti con il solo nome fittizio. Verso le ore 15 _ ha cominciato a registrare le dichiarazioni concordi delle due donne, alla presenza dell'interprete _, mettendo il tutto in un unico verbale. Ha tuttavia interrotto l'interrogatorio non appena avvertito che _ sarebbe giunta al bar _ fra le ore 16.00 e le 16.30 per incassare la somma chiesta alle due ragazze. Insieme con tre colleghi egli ha raggiunto così l'esercizio pubblico. Per evitare attese alle due donne la verbalizzazione è stata portata a termine dal sergente _. Verso le 17.30, dopo avere atteso invano l'arrivo di _, _ è rientrato in ufficio, dove ha trovato il verbale già firmato dalle denuncianti e dall'interprete. Dal momento che in calce figurava anche il suo nome, egli ha lo letto e sottoscritto a sua volta.
C.
Il 17 ottobre 2000 _ ha trasmesso al commissario _, per il tramite del sergente _, i tre verbali e la lettera in originale con la traduzione. L'indomani il sergente _ ha segnalato a _ di essere venuto a sapere che la procedura seguita nel caso specifico non era corretta, poiché si sarebbero dovuti redigere verbali distinti per ognuna delle ragazze, un documento unico non permettendo di risalire con sufficiente chiarezza all'origine delle dichiarazioni. _ si è recato quindi al bar _, dove per mezzo di _ (che fungeva da interprete) ha spiegato alle due donne che occorreva redigere verbali separati e ha chiesto loro se avessero qualche cosa da aggiungere o da modificare rispetto a quanto raccontato il giorno prima. _ ha chiesto di rettificare parzialmente la prima frase del testo, togliendo il passaggio in cui _ parlava di sua madre.
D.
Rientrato in ufficio, _ ha stilato due verbali distinti, mettendo le frasi al singolare e togliendo il riferimento non voluto da _. Nel pomeriggio egli è poi tornato al _ dove, sempre con l'aiuto di _, ha chiesto alle due ragazze se erano d'accordo con la traduzione del gestore o se esigevano la presenza di un interprete ufficiale. Le due vi hanno rinunciato e, sentite le spiegazioni sulle modifiche apportate al verbale precedente, hanno firmato i nuovi documenti. A questo punto _ ha lacerato l'originale e ne ha portato i pezzi in ufficio per passarli al tritacarte. Siccome in calce ai due nuovi verbali, che portavano la data e l'ora di quello originale, figurava anche il nome del traduttore ufficiale, _ è poi stato chiamato telefonicamente in gendarmeria per sottoscriverli. Se non che, a seguito di sviluppi intercorsi dopo una retata della polizia al bar _, i due verbali non sono stati sottoposti all'interprete ufficiale e sono rimasti nel cassetto della scrivania di _.
E.
Con decreto di accusa del 17 dicembre 2001 il Procuratore pubblico ha ritenuto _ autore colpevole di tentata falsità in atti formati da pubblico ufficiale (art. 317 n. 1 cpv. 2 CP) per avere, il 17 ottobre 2000, creato di sua iniziativa come sergente di polizia due verbali di interrogatorio in cui le denuncianti figuravano come autrici delle dichiarazioni, attestando in tal modo, contrariamente al vero, dichiarazioni rilasciate in circostanze e modalità diverse da quelle realmente avvenute. In applicazione della pena, il Procuratore pubblico ha proposto la condanna dell'accusato a una multa di fr. 500.–. Al decreto di accusa _ ha inoltrato opposizione. Statuendo sull'opposizione, con sentenza del 4 febbraio 2003 il giudice della Pretura penale ha assolto l'accusato, ponendo la tassa di giustizia e le spese giudiziarie di complessivi fr. 770.– a carico dello Stato.
F.
Contro la sentenza appena citata il Procuratore pubblico ha introdotto il 6 febbraio 2003 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione del ricorso, presentata il 7 marzo successivo, egli chiede la riforma della sentenza impugnata nel senso di confermare il decreto di accusa o, in subordine, l'annullamento della sentenza impugnata e il rinvio degli atti a un altro giudice della Pretura penale per nuova decisione. Nelle sue osservazioni del 1° aprile 2003 _ propone di respingere il ricorso. | Considerando
in diritto: 1.
Premesso che il giudice della Pretura penale ha correttamente riconosciuto sia la qualifica di funzionario al sergente di polizia (art. 110 n. 4 CP), sia la qualità di documento ai due verbali di interrogatorio (art. 110 n. 5 CP) e che non sussiste discussione circa i presupposti oggettivi della falsità in atti formati da pubblici ufficiali o funzionari (art. 317 n. 1 CP), il Procuratore pubblico ricorda che in concreto l'assoluzione dell'imputato si deve alla presunta inesistenza di dolo da parte dell'autore, il quale secondo il giudice della Pretura penale ha agito in buona fede, senza la consapevolezza di creare un documento falso e – soprattutto – senza la volontà di ingannare altri. Se non che, egli prosegue, per quanto riguarda tale reato non occorre un dolo diretto, ma basta un dolo eventuale. L'autore è punibile perciò a norma dell'art. 317 n. 1 cpv. 2 CP anche quando preveda l'infrazione come possibile e non faccia quanto è in suo potere per eliminarne o attenuarne le conseguenze, accomodandosi del risultato. L'intenzione di inganno si desume nella fattispecie dalla volontà di usare il falso, poco importando che una persona non sia stata effettivamente ingannata. E nella fattispecie l'accusato avrebbe agito nella piena consapevolezza dell'illecito.
2.
Quanto l'autore di una reato sa, vuole o accetta è un dato di fatto (DTF 128 I 177 consid.
2.2 pag. 183, 128 IV 53 consid. 3 pag. 63, 125 IV 242 consid. 2c pag. 252, 119 IV 1 consid.
5 pag. 3, 110 IV 20 consid. 2 pag. 22). Sapere se un persona ha agito con volontà e consapevolezza o ha consentito all'evento dannoso vincola quindi la Corte di cassazione e di revisione penale (per analogia, sul piano federale:
Wiprächtiger
in: Geiger/Münch, Prozessieren vor Bundesgericht, vol. I, 2a edizione, pag. 226 n. 6.99 con richiami alla nota 182;
Corboz
, Le pouvoir en nullité à la Cour de cassation du Tribunal fédéral, in: SJ 113/1991 pag. 94 con la nota n. 246). In altri termini, le constatazioni relative al foro interno di un soggetto – ciò che la persona sapeva, si proponeva, aveva l'intenzione di fare o immaginava, lo stato psichico nel quale essa ha agito, la sua cognizione piena o ridotta di commettere un illecito – possono essere criticate davanti alla Corte di cassazione e di revisione penale solo per arbitrio (cfr. sempre sul piano federale:
Schweri
, Le pouvoir en nullité devant le Tribunal fédéral, in: FJS 748C pag. 67 in basso). Arbitrario (art. 288 lett. c CPP) non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì apertamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 129 I 173 consid. 3 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia 269 consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza deve essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 129 I 173 consid. 3.2 pag. 178 con rinvii).
3.
Giusta l'art. 317 n. 1 cpv. 2 CP sono puniti con la reclusione o con la multa i funzionari o i pubblici ufficiali che intenzionalmente in un documento attestano in modo contrario alla verità un fatto di importanza giuridica, in specie autenticano una firma o una copia non conforme all'originale. A differenza dell'art. 251 n. 1 cpv. 1 CP, dal lato soggettivo tale reato non presuppone che l'autore agisca per nuocere al patrimonio o ad altri diritti di una persona o per procacciare a sé o ad altri un indebito profitto (DTF 121 IV 216 consid. 2 pag. 220). La fattispecie è già adempiuta quando l'autore sa di ingannare facendo uso dell'atto come se fosse autentico, anche se poi la persona non viene effettivamente ingannata (DTF 121 IV 216 consid.
4 pag. 223;
Corboz
, Les infractions en droit suisse, vol. II, Berna 2003, n. 10 ad art. 317 CP).
Anzi, il reato può già essere commesso
per negligenza (art. 317 n. 2 CP).
4.
Nella fattispecie il primo giudice ha ritenuto fuori discussione – come detto – sia la qualifica di funzionario per quanto riguardava l'accusato, sia la qualifica di documento per quanto riguardava i verbali di interrogatorio, destinati a provare la commissione di un reato, ossia un fatto di importanza giuridica. Che questi non siano stati firmati dall'interprete è stato ritenuto senza rilievo dal primo giudice, l'accusato essendo stato chiamato a rispondere di
tentata
falsità in documenti (anche per non avere fatto proseguire i verbali medesimi al Procuratore pubblico). Se non che – ha continuato il giudice della Pretura penale – l'istruttoria non ha permesso di dimostrare né che l'accusato abbia avuto l'intenzione di creare un falso, né che egli abbia mirato all'inganno di terzi. La decisione di redigere due verbali distinti senza eseguire un nuovo interrogatorio delle due donne è stata presa dopo che i superiori gli avevano chiesto di rimediare alle lacune del verbale originario. L'accusato ha quindi agito con la mera intenzione di sanare la mancanza e non di confezionare falsi, idonei a trarre in errore terze persone. Ciò risulta anche dal fatto che i nuovi verbali riportano esattamente quanto avevano riferito le ragazze durante il primo interrogatorio alla presenza dell'interprete, salvo essere volti al singolare e non accennare più alle dichiarazioni di _ in cui l'amica parlava di sua madre.
La copia del verbale originale – ha soggiunto il giudice della Pretura penale – dimostra in modo inequivocabile che i due nuovi protocolli sono identici a quello distrutto e nulla induce a sospettare che le due ragazze abbiano fornito una versione diversa. I due verbali riprendono la data del 16 ottobre 2000, quando è avvenuto l'interrogatorio originario, e attestano che le due donne sono state sentite insieme, com'è realmente avvenuto. Prima di sdoppiare il verbale, del resto, l'accusato ha interpellato le denuncianti, spiegando loro – tramite _ – le sue intenzioni e chiedendo loro se avessero qualche cosa da aggiungere o da modificare rispetto a quanto riferito la vigilia. Ha poi nuovamente sottoposto loro i due protocolli, sempre facendo capo alla traduzione di _, documenti che le ragazze hanno firmato dopo avere preso atto delle modifiche. Secondo le intenzioni del prevenuto, i due verbali avrebbero poi dovuto essere sottoposti all'esame e alla sottoscrizione dell'interprete ufficiale. Donde il convincimento circa la buona fede di lui.
5.
Il Procuratore pubblico sostiene che nel caso in esame l'accusa-to, ispettore di polizia con anni di esperienza, non poteva ignorare l'illiceità del proprio agire, tant'è che ha distrutto il verbale originario. Cosciente di quanto stava facendo, egli si è astenuto dal far proseguire i due nuovi verbali per la via di servizio, lasciandoli nella sua scrivania. Ciò dimostra che egli aveva preso in debito conto l'eventualità di trarre altri in errore, compreso il magistrato inquirente, i suoi collaboratori e le possibili autorità di ricorso. I verbali in questione costituiscono perciò un falso deliberato, poiché attestano interrogatori esperiti in modi e circostanze inveritiere, come l'accusato sapeva perfettamente. Il Procuratore pubblico fa valere altresì che uno sperimentato sergente di polizia non può avere distrutto il verbale originario per negligenza, né avere allestito per mera negligenza i due verbali sostitutivi. Per tacere del fatto che l'accusato ha fatto sottoscrivere i due verbali alle interessate senza l'interprete ufficiale, nonostante fossero certificate la sua presenza e l'avvenuta traduzione. Il proscioglimento è perciò – egli sostiene – conseguente a un'errata applicazione del diritto.
6.
Il primo giudice – come si è ripetuto – ha escluso qualsiasi dolo dell'autore, accertando che questi ha agito senza la consapevolezza di creare un documento falso e, soprattutto, senza la volontà di ingannare terzi. In buona fede egli ha cercato di adottare gli accorgimenti che, secondo la sua visione delle cose e in base a quanto gli era stato riportato da colleghi e superiori, avrebbero accontentato il Procuratore pubblico, tenendo indenni le ragazze e salvaguardando la conformità delle deposizioni (sentenza, pag. 8 seg.). Tali accertamenti, che riguardano il foro interno dell'autore, vincolano la Corte di cassazione e di revisione penale (sopra, consid. 2). Tutt'al più il Procuratore pubblico avrebbe potuto censurarli di arbitrio, ma nel ricorso egli nemmeno accenna a una doglianza del genere. A dire il vero, egli neppure si confronta con le diffuse considerazioni che hanno indotto il primo giudice a
escludere, nonostante la negligenza dell'imputato, l'intenzione di confezionare falsi verbali di interrogatorio o di ingannare alcuno. Certo, il Procuratore asserisce che l'accusato ha agito con piena intenzione, consapevole dell'illiceità del proprio agire, ma così argomentando egli si fonda su fatti diversi da quelli accertati nella sentenza impugnata. Ciò non è ammissibile.
Avesse il Procuratore pubblico inteso far valere che l'accusato ha agito con dolo eventuale, il ricorso non sarebbe destinato a miglior sorte. A prescindere dalla circostanza che nel ricorso non si fa alcuna distinzione fra dolo diretto e dolo eventuale, sapere se l'autore abbia agito accomodandosi del risultato è – una volta ancora – un fatto che il primo giudice ha escluso, senza che il Procuratore sollevi critiche di arbitrio. Onde l'ulteriore irricevibilità del ricorso. Rimarrebbe da esaminare se l'accusato abbia agito per negligenza (art. 317 n. 2 CP), ciò che lo stesso primo giudice sembra ammettere (sentenza, pag. 9). Come lo stesso primo giudice ha rilevato, nondimeno, all'accusato è stato imputato un
tentativo
di falsificazione in atti, il quale non può essere commesso per negligenza (sentenza, pag. 9). Per di più, la falsificazione in atti per negligenza dell'art. 317 n. 2 CP sarebbe una semplice contravvenzione, e come tale andrebbe considerata prescritta (
Corboz
, op. cit., n. 11 ad art. 317 CP).
7.
Dato l'esito del ricorso, gli oneri del giudizio odierno seguono la soccombenza dello Stato, che rifonderà a _, il quale ha presentato osservazioni al ricorso tramite un legale,
un'indennità di fr. 1000.– per ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,004 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
daba67dd-c0cb-5974-8a5b-f6b8f0e721b0 | in fatto ed in diritto
1.
Il 23.01.2014 il presidente della Corte delle assise correzionali di _, giudice Rosa Item, ha emanato una sentenza di condanna a carico, tra l’altro, di PI 2 (inc. TPC _).
Nella sua decisione il presidente ha in particolare ordinato la confisca degli oggetti elencati nell’atto di accusa (eccetto un telefono cellulare e due schede telefoniche), tra cui
"_", sequestrata a PI 2
(ACC _, p. 3).
La predetta decisione è regolarmente passata in giudicato.
2.
Con la presente istanza il patrocinatore del qui istante postula la trasmissione della summenzionata sentenza.
A sostegno della sua richiesta precisa che il 29.07.2013 il suo assistito IS 1 avrebbe stipulato un contratto di locazione tra la sua società, la _, con sede a _, e PI 2 avente quale oggetto l’autovettura _, targa _, _. Chiede pertanto la trasmissione della sentenza in questione allo scopo di fornire maggiori ragguagli al suo cliente riguardo al sequestro della sua autovettura e per valutare i passi legali da intraprendere.
3.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
4.
Ora, nell’ambito del procedimento penale di cui all’incarto MP _ sfociato dapprima nell’ACC _ emanato dall’allora procuratore pubblico Amos Pagnamenta e poi nella sentenza 23.01.2014 emanata, tra l’altro, a carico di PI 2, il presidente della Corte delle assise correzionali di _ ha ordinato, tra le altre cose, la confisca dell’autovettura
"
(...) _
"
(ACC _, p. 3 e sentenza 23.01.2014, p. 7, dispositivo no. 5, inc. TPC _). Sembra dunque che la vettura confiscata corrisponda a quella di cui al contratto apparentemente stipulato tra _ (rappresentata dal qui istante) e _.
Di conseguenza in casu appare, di principio, adempiuto un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG di IS 1 che prevale sugli interessi personali delle persone coinvolte nel procedimento penale sfociato nella sentenza 23.01.2014 (inc. TPC _).
In siffatte circostanze, l’ACC _ e la sentenza 23.01.2014 della Corte delle assise correzionali di _ (inc. TPC _) vengono trasmessi, in copia, al patrocinatore del qui istante unitamente alla presente decisione.
5.
L’istanza è accolta ai sensi del precedente considerando. La tassa di giustizia, contenuta al minimo, e le spese sono poste a carico di chi le ha occasionate. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
dadc17f8-2321-5a4d-a627-19a22dce488b | in fatto ed in diritto
1.
In data _ la Corte delle assise correzionali di _ ha ritenuto – tra gli altri – PI 2 (_), cittadino
_, in carcerazione preventiva dall’_ al _ e posto in regime di esecuzione anticipata della pena dal _, autore colpevole di ripetuto furto aggravato, consumato e tentato, ripetuto danneggiamento, ripetuta violazione di domicilio, ripetuta guida senza autorizzazione e ripetuto furto d’uso ed è stato condannato alla pena detentiva di sedici mesi (ndr. da espiare), da dedursi il carcere preventivo sofferto (inc. TPC _).
Le parti non hanno chiesto la motivazione scritta della sentenza (art. 82 cpv. 1 lit. a e lit. b CPP). La stessa, rimasta impugnata, è dunque passata in giudicato il medesimo giorno della sua emanazione (art. 437 CPP).
2.
Con la presente richiesta – trasmessa dal Tribunale penale cantonale, per competenza, a questa Corte – il IS 1
(di seguito IS 1) postula la trasmissione degli estratti del casellario giudiziale esteri riguardanti la persona di PI 2 a disposizione del Tribunale penale cantonale (_, _ ed eventualmente altri) per "
(...) statuire in completa cognizione di causa
" (istanza 12/20.05.2015, doc. CRP 1.a).
A sostegno della sua istanza la IS 1, richiamando in particolare la summenzionata sentenza di condanna a carico di PI 2, precisa che le competenti autorità migratorie ticinesi le avrebbero proposto l’emanazione di una decisione di divieto di entrata in Svizzera nei confronti di quest’ultimo.
3.
Come esposto in entrata, il Tribunale penale cantonale ha trasmesso, unitamente alla presente istanza, la sentenza di condanna emanata (tra l’altro) a carico di PI 2 nonché copia degli estratti del casellario giudiziale svizzero e _, senza formulare osservazioni in merito alla presente richiesta.
Questa Corte ha rinunciato ad interpellare PI 2 per presentare eventuali osservazioni in merito alla presente richiesta stante l’esito della presente decisione.
4.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
5.
5.1.
5.1.1.
Dall’1°.01.2015 la IS 1 (IS 1), già Ufficio federale della migrazione (UFM), è l’autorità competente della Confederazione in materia di immigrazione ed emigrazione, di diritto degli stranieri, di diritto d’asilo e dei rifugiati nonché di cittadinanza svizzera [art. 12 cpv. 1 dell’Ordinanza sull’organizzazione del Dipartimento federale di giustizia e polizia del 17.11.1999, RS 172.213.1, di seguito Org-DFGP]. Essa persegue diversi obiettivi, tra cui garantire una politica degli stranieri coerente (segnatamente per quanto concerne l’ammissione e la dimora di stranieri in esecuzione degli obblighi di diritto internazionale pubblico e tenuto conto di motivi umanitari e del ricongiungimento familiare; per quanto concerne l’ammissione di manodopera straniera, tenuto conto degli interessi globali dell’economia, delle possibilità di integrazione professionale e sociale a lungo termine e delle esigenze scientifiche e culturali della Svizzera), attuare la politica svizzera in materia di asilo e di rifugiati secondo i principi definiti dalle Camere federali e dal Consiglio federale e garantire in particolare una politica coerente in materia di ammissione e di ritorno e creare condizioni quadro favorevoli all’integrazione della popolazione straniera residente in Svizzera e ad uno sviluppo demografico e sociale equilibrato (art. 12 cpv. 1 lit. a - lit. c Org-DFGP).
Per conseguire i summenzionati obiettivi e con riferimento al diritto degli stranieri e alla cittadinanza svizzera, la IS 1, in collaborazione con il DFAE e altri servizi federali interessati, elabora le basi della politica svizzera in materia di visti, sviluppa strategie di lotta contro gli abusi nel settore del diritto degli stranieri tenendo conto della situazione internazionale e attua tali strategie; in collaborazione con il DEFR, valuta gli interessi globali dell’economia nel settore della politica degli stranieri; esegue le misure in materia di diritto degli stranieri e pianifica il controllo degli stranieri ai valichi di frontiera; esercita la vigilanza sull’esecuzione del diritto degli stranieri nei Cantoni e tratta tutte le questioni concernenti la cittadinanza svizzera (art. 12 cpv. 2 lit. a - lit. e Org-DFGP).
La IS 1, sempre per conseguire gli obiettivi elencati sopra e in ambito di diritto d’asilo e dei rifugiati, decide in merito alla concessione o al rifiuto dell’asilo, alla concessione di protezione, all’ammissione provvisoria e all’allontanamento dalla Svizzera; assicura la coordinazione in seno all'Amministrazione federale e con i Cantoni e le organizzazioni svizzere e internazionali in questioni concernenti l’asilo e i rifugiati; d’intesa con il DFAE, partecipa all’armonizzazione e all’attuazione della politica internazionale in materia di asilo e di rifugiati; applica le disposizioni concernenti il finanziamento delle spese amministrative e di assistenza, versa i sussidi corrispondenti e ne controlla l’utilizzazione; in collaborazione con il DFAE, prepara la definizione della politica in materia di ritorno, fornisce aiuto al ritorno e al reinserimento e sostiene i Cantoni nel finanziamento di progetti di aiuto al ritorno e di programmi occupazionali di utilità pubblica e sostiene i Cantoni nell’esecuzione di allontanamenti (art. 12 cpv. 3 lit. a - lit. f Org-DFGP).
La IS 1, congiuntamente con il DFAE, analizza l’evoluzione migratoria sul piano nazionale e internazionale ed elabora le basi decisionali per la politica del Consiglio federale in materia di migrazione (art. 12 cpv. 4 Org-DFGP).
5.1.2.
Alla IS 1 sono state inoltre assegnate delle mansioni speciali, e meglio istruisce i ricorsi interposti al Consiglio federale per violazione di trattati internazionali concernenti la libera circolazione delle persone e il domicilio; prepara, d’intesa con il DFAE, trattati internazionali sulla riammissione e il transito nonché su partenariati in materia di migrazione e li esegue; rilascia documenti di legittimazione per rifugiati, persone sprovviste di documenti e apolidi e gestisce un servizio d’informazione e di consulenza per le persone che intendono emigrare e per il collocamento di praticanti (art. 13 cpv. 1 - cpv. 4 Org-DFGP).
La IS 1 è altresì autorizzata a sbrigare autonomamente tutti gli affari concernenti la cittadinanza svizzera e ad interporre ricorso presso il Tribunale federale contro decisioni cantonali di ultima istanza in materia di diritto degli stranieri e di cittadinanza (art. 14 cpv. 1 e cpv. 2 Org-DFGP).
È infine competente in materia di riconoscimento di apolidi (art. 14 cpv. 3 Org-DFGP).
5.2.
Per quanto interessa la fattispecie in esame va in particolare evidenziato che la LStr [Legge federale che disciplina l’entrata, la partenza, il soggiorno e il ricongiungimento familiare degli stranieri in Svizzera nonché la promozione della loro integrazione (art. 1 LStr)] all’art. 67 sancisce il divieto di entrata in Svizzera. Tale divieto
mira a lottare contro le perturbazioni della sicurezza pubblica e dell’ordine pubblico; trattasi di una misura a carattere preventivo (Messaggio relativo alla Legge federale sugli stranieri dell’8.03.2002, FF 2002 3428).
Secondo questa disposizione la IS 1
vieta l’entrata in Svizzera,
fatto salvo il suo cpv. 5 (secondo cui l’autorità cui compete la decisione può, per motivi umanitari o altri motivi gravi, rinunciare a pronunciare un divieto d’entrata oppure sospenderlo definitivamente o temporaneamente),
ad uno straniero allontanato se l’allontanamento è eseguito immediatamente in virtù dell'articolo 64d cpv. 2 lit. a - lit. c LStr (cpv. 1 lit. a); se lo straniero non ha lasciato la Svizzera entro il termine impartitogli (cpv. 1 lit. b).
La IS 1 può inoltre vietare l’entrata in Svizzera allo straniero che ha violato o espone a pericolo l’ordine e la sicurezza pubblici in Svizzera o all’estero (art. 67 cpv. 2 lit. a LStr);
ha causato spese d’aiuto sociale (art. 67 cpv. 2 lit. b LStr); si trova in carcerazione preliminare, in vista di rinvio coatto o cautelativa [art. 75-78 LStr] (art. 67 cpv. 2 lit. c LStr).
5.3.
In casu – tenuto conto di tutto quanto sopra esposto e considerati in particolare i motivi posti alla base della presente richiesta e la sua finalità, il contenuto della sentenza di condanna emanata a carico di PI 2 nonché la LStr – appare, di principio, dato un interesse giuridico legittimo ex art. 62 cpv. 4 LOG della IS 1 che prevale sui diritti personali del condannato, cittadino _, già residente presso un campo nomadi in _, attualmente in carcere in espiazione della pena (cfr. sentenza _
,
inc. TPC _), ad ottenere la trasmissione in copia di eventuali estratti del casellario giudiziale esteri di cui all’incarto TPC _, nel frattempo archiviato.
La IS 1, deve, in effetti, stabilire se emanare o meno una decisione di divieto di entrata in Svizzera a carico di PI 2 ai sensi della LStr. Questi eventuali estratti sono dunque potenzialmente utili all’autorità istante per avere un quadro più completo della situazione personale del condannato, in particolare del suo comportamento assunto in passato (cfr., ad esempio, decisione TAF C-256/2013 del 16.04.2015, consid. 3.2 e rif.).
Da informazioni assunte presso il Tribunale penale cantonale l’unico estratto del casellario giudiziale estero riguardante PI 2 presente nell’incarto penale in questione è soltanto quello _ (AI 40). Non vi è alcun altro estratto del casellario giudiziale estero (in particolare quello _) agli atti.
In siffatte circostanze l’estratto del casellario giudiziale _ datato 15.12.2014 inerente a PI 2, con lo scritto 16.12.2014 dell’UFG (AI 40), vengono trasmessi, in copia, alla _ unitamente alla presente decisione.
Va da sé che i collaboratori della IS 1 sono tenuti al segreto d’ufficio.
6.
Alla luce di quanto sopra esposto, richiamate in particolare le competenze conferite alla IS 1 nell’ambito dell’emanazione di una decisione di divieto di entrata in Svizzera nei confronti di uno straniero, questa Corte ritiene di dover emanare una decisione di principio.
La Corte dei reclami penali riconosce, di principio, alla IS 1 – quale autorità competente ad emanare una decisione di divieto di entrata in Svizzera a carico di uno straniero ai sensi dell’art. 67 LStr nei confronti del quale è stata emanata una decisione di condanna, passata in giudicato – un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG per poter richiedere, su richiesta scritta e motivata, direttamente al Tribunale penale cantonale, gli estratti del casellario giudiziale esteri che sono stati eventualmente assunti nel relativo incarto penale concluso (archiviato), senza dover ricorrere di volta in volta alla presente procedura.
7.
L’istanza è accolta ai sensi dei precedenti considerandi. Stante la natura e la finalità della richiesta, nonché l’art. 5 cpv. 1 della Legge di applicazione alla legislazione federale in materia di persone straniere dell’8.06.1998, si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
db04a1a7-6e06-57b4-bc29-14dea76f1097 | in fatto ed in diritto
che a seguito di un alterco avvenuto l’11.05.2005, a _, presso il piazzale di un esercizio pubblico tra PI 2 (_) e PI 3 (_), cittadino _, quest’ultimo ha riportato un trauma cranico con frattura occipitale infossata sinistra ed è rimasto degente presso l’Ospedale Regionale di _ fino al 17.05.2005 (AI 1 e AI 20 – inc. MP _);
che di conseguenza il Ministero pubblico ha aperto, d’ufficio, un procedimento penale contro terzi per titolo di lesioni gravi, sub. lesioni colpose gravi (AI 2 – inc. MP _);
che l’8.06.2005 PI 3, trovato in stato d’incoscienza presso la sua abitazione, è stato nuovamente ricoverato d’urgenza dapprima presso l’Ospedale regionale di _ poi presso l’Ospedale regionale di _; a seguito di questo ulteriore evento PI 3 è entrato in coma (AI 20 e decreto di non luogo a procedere 12.06.2006, p. 1, NLP _ – inc. MP _; sentenza 22.03.2007, p. 3, inc. _ della Pretura penale);
che da quel giorno PI 3 non ha più ripreso conoscenza;
che l’11/12.08.2005 PI 3, per il tramite del suo curatore e di sua moglie, ha sporto denuncia/querela penale contro PI 2 per titolo di lesioni semplici (art. 123 CP), con richiesta di estensione al reato di lesioni gravi (art. 122 CP) (AI 8 – inc. MP _);
che il 12.06.2006 l’allora sostituto procuratore pubblico Chiara Borelli ha decretato il non luogo a procedere nei confronti di PI 2 per i reati di lesioni gravi (art. 122 CP) e lesioni colpose gravi (art. 125 cpv. 2 CP), avendo stabilito che non vi era alcun nesso di causalità tra il comportamento assunto da quest’ultimo l’11.05.2005 e lo stato fisico in cui versava PI 3 il giorno dell’emanazione della decisione (decreto di non luogo a procedere 12.06.2006, NLP _ – inc. MP _);
che avverso il suddetto decreto non è stata presentata un’istanza di promozione dell’accusa ex art. 186 CPP TI all’allora Camera dei ricorsi penali; il medesimo è quindi passato in giudicato;
che lo stesso giorno (12.06.2006) l’allora sostituto procuratore pubblico Chiara Borelli ha contestualmente posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale PI 2 e lo ha ritenuto autore colpevole di lesioni colpose (art. 125 cpv. 1 CP) "
per avere, a _ presso il piazzale del Ristorante _, in data 11.05.2005, cagionato per imprevidenza colpevole un danno al corpo o alla salute di PI 3, e meglio per avere, alla guida dell’autofurgone targato _, dopo aver inserito la prima marcia, sebbene PI 3 si trovasse in piedi attaccato con le mani al finestrino lato conducente, percorso alcuni metri, dal cui fatto ne derivò che IS 2 perse l’equilibrio e cadendo a terra riportò una frattura occipitale infossata sinistra così come da documentazione medica agli atti
"
ed ha proposto la sua condanna alla pena di dieci giorni di detenzione sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, al pagamento della tassa di giustizia e delle spese giudiziarie, rinviando la parte civile al foro civile per le proprie pretese risarcitorie (DA _);
che al predetto decreto di accusa PI 2 ha interposto opposizione;
che statuendo sull’opposizione, con sentenza 22.03.2007 il presidente della Pretura penale ha riconosciuto PI 2 autore colpevole di lesioni colpose, condannandolo alla pena pecuniaria di dieci aliquote giornaliere di CHF 90.--, per complessivi CHF 900.--, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, al pagamento della multa di CHF 500.--, della tassa di giustizia e delle spese giudiziarie, rinviando la parte civile al competente foro per le sue pretese di natura civile (inc. _ della Pretura penale);
che con sentenza 14.05.2007 l’allora Corte di cassazione e di revisione penale (di seguito CCRP) ha dichiarato inammissibile il ricorso 2.05.2007 presentato da PI 2, per il tramite del suo patrocinatore, contro la suddetta decisione (inc. CCRP _);
che la sentenza della Pretura penale e la decisione dell’allora CCRP sono entrambe passate in giudicato il 25.06.2007;
che PI 3 è deceduto in _ l’1.10.2007 (istanza
16/20.03.2012, p. 1, doc. 1.a);
che con la presente richiesta – trasmessa dal Ministero pubblico, per competenza, a questa Corte – IS 1 e IS 2, padre rispettivamente sorella di
┼PI 3
, con riferimento ai fatti accaduti a quest’ultimo di cui si è detto poc’anzi, hanno in particolare esposto che
"
(...). A quattro anni dalla morte del nostro caro PI 3 vogliamo e abbiamo il diritto come famigliari stretti di avere in mano gli atti riguardanti il sinistro occorso ad PI 3 dato che non siamo mai stati informati di nulla
" (istanza
16/20.03.2012, p. 1 e 2)
;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che gli istanti non hanno prodotto alcun documento ufficiale attestante il loro effettivo rapporto di parentela con
┼PI 3;
che dagli atti del procedimento penale in questione
emerge in ogni caso che IS 1 é il padre del defunto ┼PI 3 e che quest’ultimo non aveva figli e quindi è certamente erede legale;
che in siffatte circostanze
nella fattispecie in esame – stante i motivi apportati nella presente richiesta
–
appare adempiuto un interesse giuridico legittimo ex art. 62 cpv. 4 LOG perlomeno da parte di IS 1, in qualità di genitore, ad esaminare gli atti del procedimento penale archiviato inerente al di lui figlio PI 3, nel frattempo deceduto;
che
di conseguenza IS 1 è autorizzato ad esaminare e, se del caso, a fotocopiare, presso questa Corte l’incarto
MP _, l’incarto _ della Pretura penale e l’incarto CCRP _
inerenti a
┼PI 3
, concordando i tempi di accesso con i collaboratori della cancelleria, compatibilmente con i loro impegni;
che l’istanza è accolta ai sensi delle surriferite considerazioni;
che stante la particolarità della fattispecie, non si prelevano tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
db640722-c552-504d-b516-9972139b3002 | in fatto: A.
Il 16 marzo 1999 l'avv. _ ha sporto querela contro ignoti per danneggiamento, poiché a due riprese, il 22 e il 26 febbraio 1999, un pneumatico della sua vettura era stato forato a _. L'episodio essendosi ripetuto verso la fine di aprile, il denunciate e il padre _ hanno incaricato un investigatore privato, _, di sorvegliare la vettura. Il 30 aprile 1999, verso le 23.15, _ ha chiamato la polizia cantonale a _ per constatare l'ulteriore foratura di un pneumatico, avvenuta ancora una volta nelle vicinanze di casa. Sul posto gli agenti hanno incontrato l'investigatore _ e, in base alle indicazioni di lui, si sono recati a casa di _, prelevandolo e conducendolo al posto di polizia per accertamenti.
B.
Con decreto di accusa del 14 giugno 1999 il Procuratore pubblico ha poi riconosciuto _ colpevole di ripetuto danneggiamento e lo ha condannato alla pena di 15 giorni di detenzione da espiare. Statuendo su opposizione, con sentenza del 23 novembre 1999 il Pretore del Distretto di Lugano, sezione 4, ha invece prosciolto l'accusato per insufficienza di prove.
C.
Contro il giudizio del Pretore le parti civili _ e _ hanno presentato il 24 novembre 1999 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta del 21 dicembre 1999 essi chiedono la conferma del decreto di accusa e la conseguente riforma della sentenza impugnata. Con scritto del 27 dicembre 1999 il Procuratore pubblico si è rimesso al giudizio della Corte, mentre nelle sue osservazioni del 19 gennaio 2000 _ ha postulato la reiezione del ricorso. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto, non destinato a rimettere in causa l'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove (art. 288 cpv. 1 lett. a CPP). Problemi del genere sono sindacabili unicamente se il giudizio impugnato denota gli estremi dell'arbitrio (art. 288 cpv. 1 lett. c CPP). Arbitrario non significa tuttavia opinabile o finanche erroneo, bensì chiaramente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo o in urto palese con il sentimento di giustizia ed equità (Rep. 1990 pag. 352 consid. 1, pag. 360 consid. 2.2a; sulla nozione di arbitrio: DTF 125 I 168 consid. 2a, 124 I 316 consid. 5a, 123 I 5 consid. 4a, 121 I 114 consid. 3a, 120 Ia 40 consid. 4b).
2.
Il Pretore, constatato che l'accusato negava ogni addebito, ha ritenuto gli indizi emersi dall'istruttoria e dal dibattimento insufficienti a raggiungere un convincimento di colpevolezza. In effetti, per quanto riguardava il danneggiamento del 30 aprile 1999 l'investigatore _ aveva visto bensì l'accusato fermarsi e chinarsi davanti alla vettura del querelante, ma nulla di più. Il Pretore ha rilevato inoltre che l'accusato aveva corretto di sua iniziativa (e non perché posto di fronte a contraddizioni), dopo rilettura del verbale, quanto dichiarato in un primo tempo alla polizia, spiegando che effettivamente quella sera si era fatto lasciare dall'amica a circa 300 metri da casa e che, in seguito, aveva percorso quel tratto di strada a piedi. Le parti civili avendo ribadito che l'autore dei danneggiamenti si limitava sempre a praticare un forellino nella gomma, in modo che il pneumatico si sgonfiasse lentamente, e che quella sera l'investigatore non aveva controllato lo stato dei pneumatici all'inizio dell'appostamento, il primo giudice ha ritenuto non potersi escludere che il danneggiamento preesistesse al passaggio dell'imputato.
Ulteriori dubbi sono stati ravvisati dal Pretore nel fatto che il querelante aveva avanzato l'ipotesi che almeno una foratura fosse avvenuto non nel luogo in cui la vettura è normalmente parcheggiata, ma presso il “Ristorante _” a _ (ritrovo che l'accusato non frequenta), dove potevano essere stati perpetrati anche gli altri danneggiamenti. Infine, a mente del primo giudice, i dubbi erano suffragati dal fatto che di un danneggiamento almeno, avvenuto nel settembre del 1999, le parti civili sospettavano un certo _, con il quale sono in pessimi rapporti. Considerato come con il querelato essi avevano sempre avuto buoni rapporti, non si poteva escludere che altre persone avessero motivo di rancore nei loro confronti e potessero quindi avere commesso i danneggiamenti. Per di più, secondo il Pretore, l'investigatore _ non si era curato di verificarne lo stato dei pneumatici prima di iniziare l'appostamento né aveva colto la persona sul fatto, ma l'aveva lasciata tornare a casa. Per quanto riguarda le forature anteriori al 30 aprile 1999, il primo giudice ha rilevato non esistere accertamenti, il decreto di accusa dipartenedosi dall'arbitrario presupposto che l'autore del fatto avvenuto il 30 aprile 1999 fosse necessariamente l'autore anche degli altri danni.
3.
I ricorrenti asseverano che l'investigatore _ ha dichiarato nel verbale del 1° maggio 1999 di avere visto chiaramente il denunciato controllare che nessuno lo stesse osservando prima di chinarsi proprio sulla ruota posteriore sinistra dell'automobile, poi risultata danneggiata. La versione è stata ripetuta al dibattimento, ma incomprensibilmente non è stata verbalizzata né figura nel giudizio impugnato. Essi chiedono pertanto che il teste ribadisca la circostanza davanti alla Corte di cassazione e di revisione penale. Né, secondo i ricorrenti, è dato di capire perché il querelato si sarebbe chinato sul pneumatico, dopo essersi ben guardato in giro, se non per danneggiarlo. Trascurando la deposizione del teste, il Pretore ha accertato i fatti in modo arbitrario. Per quanto concerne la dichiarazione resa in un primo tempo dal querelato alla polizia al momento dell'arresto e poi corretta, i ricorrenti evidenziano che costui aveva fornito una versione contraddittoria sul luogo in cui era stato lasciato al momento del rientro (proprio sotto casa dapprima, circa 300 metri di distanza poi) per cercare di salvarsi in qualche modo.
Poco importa, per i ricorrenti, che l'investigatore non abbia controllato i pneumatici prima di iniziare l'appostamento, dato che l'autore è stato scoperto sul fatto. Del resto, vista la minuscola foratura, sarebbe stato pressoché impossibile riscontrare prima il danno. Che il teste non abbia visto esattamente l'atto del danneggiamento si deve ascrivere alla distanza dalla vettura che controllava e alla repentinità del movimento del querelato, che ha colpito con un oggetto molto sottile e appuntito. Quanto al comportamento dell'investigatore, i ricorrenti adducono che egli non era abilitato a fermare l'autore né aveva mezzi per eventualmente difendersi. Il suo compito era di solo quello di sorvegliare la vettura e di identificare – come ha fatto – il soggetto responsabile. Per quanto riguarda la foratura presso il “Ristorante _” a _, i ricorrenti allegano che il verbale è stato ripreso in modo erroneo dal Pretore e che ciò non ha alcun nesso con l'accaduto del 30 aprile 1999.
In merito al sospetto che il danneggiamento del mese di settembre 1999 fosse opera di un certo _, con il quale i rapporti sono pessimi, i ricorrenti sostengono di avere avanzato l'ipotesi che il denunciato avesse agito per compiacere allo stesso _. Il che nulla toglierebbe alla responsabilità di lui, non potendosi nemmeno escludere che anch'egli covi rancore nei loro confronti. Infine, riguardo ai danneggiamenti anteriori al 30 aprile 1999, i ricorrenti fanno notare che dopo l'arresto dell'imputato gli atti vandalici sono cessati, e ciò fino al settembre del 1999, a dimostrazione del fatto che il denunciato, dopo il fermo, aveva desistito dal continuare, riprendendo ancora una volta dopo cinque mesi.
4.
Con gli argomenti testé riassunti i ricorrenti si limitano, in sostanza, a contrapporre agli accertamenti e alle conclusioni del Pretore interpretazioni e deduzioni proprie che, per quanto plausibili e sostenibili, non denotano arbitrio nel giudizio impugnato. La giurisprudenza ha già avuto modo di rilevare, intanto, che per incorrere nell'annullamento una sentenza deve essere arbitraria nel suo risultato, e non solo nella motivazione (DTF 117 Ia 139 consid. 2c con rinvii). Inoltre, contrariamente a quanto affermano i ricorrenti, il Pretore non ha trascurato la deposizione dell'investigatore _, stando al quale il denunciato si era voltato circospetto, si era chinato e poi aveva ripreso la strada verso casa, ma l'ha menzionata (sentenza pag. 3, ultimo cpv.). A nulla gioverebbe quindi – quand'anche fosse possibile – escutere nuovamente il teste in cassazione. Resta il fatto che, come ha accertato il Pretore, l'investigatore ha potuto riferire solo che il denunciato, dopo essersi fermato presso l'automobile, si è chinato e poi si è allontanato verso casa. Non ha potuto confermare invece di avere visto l'imputato forare la gomma.
Tutte le altre critiche dei ricorrenti al giudizio impugnato hanno mero carattere appellatorio e si dipartono dal convincimento che, avendo l'investigatore scorto il denunciato chinarsi proprio davanti al pneumatico poi risultato danneggiato, in definitiva l'autore è stato colto in flagrante. Se non che, essi non spiegano perché sarebbe arbitraria la conclusione del Pretore, secondo cui non si poteva escludere che quella sera il pneumatico fosse già stato forato prima dell'appostamento, ove si pensi che – per ammissione degli stessi ricorrenti – l'autore delle forature ha sempre agito in modo tale che la ruota si sgonfiasse lentamente, che l'investigatore non ha verificato lo stato delle gomme prima di appostarsi né aveva visto che cosa concretamente avesse fatto l'imputato in prossimità della vettura. E tale conclusione non risulta arbitraria per la pretesa contraddizione in cui sarebbe incorso l'imputato durante l'interrogatorio di polizia, costui avendo corretto spontaneamente la propria versione subito dopo avere riletto il verbale, e non perché posto di fronte a contraddizioni.
D'altro canto, a parte la distanza (20–30 metri) alla quale si era appostato l'investigatore (sentenza pag. 3), è mera illazione dei ricorrenti quella secondo cui non sarebbe stato possibile vedere con un minimo di precisione la foratura del pneumatico perché l'autore avrebbe agito in modo repentino, con un oggetto molto sottile e appuntito. Per di più, contrariamente all'opinione dei ricorrenti, chiunque può fermare una persona colta in flagranza di reato (art. 99 cpv. 1 CPP). Quanto all'episodio del “Ristorante _”, risulta dal verbale del 25 aprile 1999 che i ricorrenti medesimi hanno dedotto che il danneggiamento doveva essere avvenuto in quel luogo. Che ciò nulla avesse a che vedere con i fatti del 30 aprile 1999 è, una volta ancora, mera illazione. A proposito dell'asserita foratura del mese di settembre 1999, nuovamente i ricorrenti esprimono semplici supposizioni, ma non dimostrano che, avendo essi stessi avanzato sospetti su un certo _, la deduzione del Pretore secondo cui altre persone avevano motivo di rancore nei loro confronti sia insostenibile. Infine, riguardo ai danneggiamenti antecedenti, i ricorrenti deducono che autore fosse il querelato dal loro solo convincimento, così come esprimono una semplice opinione personale ritenendo che costui abbia reiterato alla fine di settembre 1999, dopo un'interruzione di cinque mesi. Ne segue che, come si è già accennato, la sentenza del Pretore non integra in alcun modo gli estremi dell'arbitrio. Ne segue, nella misura in cui è ricevibile, la reiezione del ricorso.
5.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 CPP). Alla controparte, che per presentare le osservazioni si è valsa dell'assistenza di un legale, vanno attribuite congrue ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,000 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
dbde0469-a84b-5544-967d-b55fd25e69a7 | ritenuto che
- con AA
49/2013 del 29 maggio 2013
, il procuratore pubblico ha messo in stato d’accusa dinanzi alla Corte delle assise correzionali di Mendrisio IM 1 siccome ritenuto colpevole di
1.
truffa
per avere,
a _, _ ed in altre imprecisate località,
a far tempo almeno dal mese di maggio 2001 e sino a gennaio
2004,
agendo nella sua qualità di gestore esterno sotto la ragione
sociale _, _ (società
radiata il 19 ottobre 2012), di cui era socio gerente,
allo scopo di procacciare a sé o ad altri un indebito profitto,
ingannato con astuzia una terza persona, affermando cose false e dissimulando cose vere, nonché confermandone subdolamente l’errore, inducendola in tal modo ad atti pregiudizievoli al suo patrimonio,
e meglio per avere,
ingannato con astuzia il cliente AP 1, cliente della _, società con cui l'imputato svolgeva la propria attività in campo finanziario, dissimulando cose vere e abusando subdolamente della sua fiducia, inducendolo in tal modo ad atti pregiudizievoli al proprio patrimonio, in particolare permettergli di continuare con la gestione, a scopo d'investimento, della sua
relazione accesa presso _, _,
configurandosi l'inganno astuto
-
nell'aver sottaciuto al cliente che, a far tempo dal 2001, la sua relazione aveva subito delle perdite e che le informazioni contenute nei documenti che gli consegnava, relativi alle performances realizzate ed alle situazioni patrimoniali, erano
fasulli almeno a far tempo dal maggio 2001;
-
nell'aver confortato il cliente, verbalmente nonché mediante documenti falsi, circa l'andamento positivo degli investimenti effettuati ed in corso, mentre che in realtà i risultati della gestione da parte dell'imputato erano negativi ed hanno dato luogo ad una diminuzione del patrimonio nel periodo di USD 380'730.48 (pari a CHF 572'276.00 al cambio medio del periodo, pari a 1,5031 (
cfr. www.oanda.com
)), impedendogli in tal modo di determinarsi con cognizione di causa sull'andamento della relazione, in particolare sulle perdite subite, impedendogli così di adottare eventuale misure;
-
nell'aver fatto credere che il portafoglio del cliente contenesse delle azioni _, apparentemente quotate in borsa ma che in realtà non solo non sono mai state quotate, ma anche sarebbero inesistenti, tanto che nemmeno l'imputato è stato in grado di dimostrarne l'esistenza;
cagionando in questo modo al cliente investitore AP 1, un danno effettivo di almeno USD 380'730.48 (pari a CHF 572'276.00 al cambio medio del periodo, pari a 1,5031 (
cfr. www.oanda.com
),
corrispondente alla differenza tra il valore in portafoglio nel momento in cui l'imputato ha consegnato al cliente il primo rendiconto falso, attestante performances migliori rispetto alla realtà, e il momento in cui il cliente si è effettivamente reso conto delle perdite subite,
alternativamente
amministrazione infedele qualificata
, siccome commessa per procacciare a sé e ad altri un indebito profitto,
per avere,
a _, _ ed in altre imprecisate località,
a far tempo almeno dal mese di maggio 2001 e sino a gennaio 2004,
agendo nella sua qualità di gestore esterno sotto la ragione sociale _, _ (società radiata il 19 ottobre 2012), di cui era socio gerente,
obbligato per negozio giuridico ad amministrare il patrimonio dei clienti,
ripetutamente ed intenzionalmente violato i propri doveri, omettendo di informare il cliente AP 1, aperta presso _, _, in merito all'esito di alcune operazioni d'investimento, in particolare omettendo di informarlo compiutamente circa le perdite subite, sottoponendo allo stesso situazioni patrimoniali contrarie alla realtà, alfine di sottacere l'esistenza delle perdite intervenute, impedendo in tal modo al cliente di determinarsi con cognizione di causa sulla reale situazione, impedendogli così di adottare eventuali misure,
alfine di continuare a gestire il patrimonio del cliente e effettuare nuovi investimenti, al solo scopo di ottenere un utile necessario per coprire le perdite e quindi di consentirgli di beneficiare personalmente della situazione, in quanto gli avrebbe permesso in futuro di beneficiare nuovamente del pagamento delle proprie commissioni di gestione, pagamento che era stato momentaneamente sospeso dall'imputato a causa del pessimo risultato delle operazioni d'investimento da lui effettuate, permettendo in tal modo che il patrimonio del cliente AP 1 venisse danneggiato per un importo complessivo di USD 380'730.48 (pari a CHF 572276.00 al cambio medio del periodo, pari a 1,5031 (cfr.
www.oanda.com
);
2. ripetuta falsità in documenti
per avere,
nelle circostanze di tempo e di luogo di cui al punto sub. 1, allo scopo di nuocere ai patrimonio altrui o di procacciare a sé e/o ad altri un indebito profitto,
formato documenti falsi, attestando in documenti, contrariamente alla verità, fatti di importanza giuridica, facendone altresì uso a scopo d’inganno,
e meglio per avere
allo scopo di perfezionare l'inganno astuto, di celare le perdite subite dal portafoglio, nonché di rassicurare il cliente circa l'andamento positivo degli investimenti e evitare cosi la richiesta di restituzione dei fondi,
allestito numerosi rendiconti fasulli, attestanti contrariamente al vero l'esistenza di operazioni di investimento e di utili, inserendo negli stessi dei titoli in realtà rivelatisi inesistenti, consegnandoli al cliente investitore AP 1,
fatti avvenuti
: nelle circostanze di luogo e di tempo indicate;
reati previsti
: dagli art. 146 cpv. 1 CP, art. 158 cifra 1 cpv. 3 CP, art. 251 cifra 1 CP;
Nella fase introduttiva del processo di prime cure, il presidente di quella Corte ha proposto delle modifiche del punto n. 1 dell’AA, accettate dalle parti (sentenza impugnata, pag. 4), e meglio:
- il periodo determinante è stato precisato nel lasso di tempo dal
18 maggio 2001 al 12 gennaio 2004, invece del generico da maggio 2001 sino a
gennaio 2004;
- alle località è stata aggiunta quella di Lugano;
- è stato precisato che
la relazione AP 1 è stata accesa presso _ _.
Con sentenza 1. dicembre 2014, la Corte delle assise correzionali di Mendrisio ha prosciolto IM 1 da ogni accusa e ne ha decretato l’indennizzo ex art. 429 cpv. 1 lett. a CPP per un importo di fr. 13'407.10, IVA compresa, per spese legali, oltre interessi del 5% a partire dal 1. dicembre 2014 su fr. 12'414.-.
Inoltre, è stato riconosciuto l’accollo allo Stato delle spese per la difesa d’ufficio dell’imputato ed è stata tassata la nota d’onorario dell’avv. DI 1;
preso atto che
- contro la sentenza della Corte delle assise correzionali, l’accusatore privato ha tempestivamente annunciato di voler interporre appello.
Dopo avere ricevuto la motivazione scritta della pronuncia, con dichiarazione di appello 23 febbraio 2015, egli ha dichiarato di impugnare l’intera sentenza assolutoria, chiedendone l’annullamento, con conseguente condanna di IM 1 per i reati previsti dall’atto d’accusa ed il riconoscimento delle pretese di diritto civile così come indicate al consid. n. 11 della sentenza impugnata. Inoltre, ha precisato che in ogni caso non dovrebbe venire riconosciuto a IM 1 un indennizzo ai sensi dell’art. 429 CPP, essendo pacifico che egli ha provocato con un comportamento illecito e colpevole l’apertura del procedimento penale ai sensi dell’art. 430 cpv. 1 lett. a CPP: un suo ipotetico proscioglimento sarebbe spiegabile solo con ragioni tecniche o procedurali ma non certo per insussistenza di un comportamento illecito o colpevole, che invece sarebbe chiaro ed innegabile, come emerge sia dal rapporto EFIN che dalle ammissioni dello stesso imputato;
- dando seguito all’ordinanza della presidente di questa Corte, nel termine impartito, l’appellante ha chiesto, quale prova da assumere in appello, di interrogare nuovamente l’imputato. Con decreto 10 giugno 2015, l’istanza probatoria è stata respinta e, di conseguenza, è stato fissato un nuovo termine alle parti per esprimere il loro eventuale consenso allo svolgimento del procedimento in procedura scritta, proposta alla quale tutte le parti hanno aderito;
- con scritto 21 luglio 2015, l’appellante ha prodotto le proprie motivazioni ricorsuali, premettendo che il giudice di prime cure ha rettamente rilevato che l’amministrazione infedele semplice sarebbe stata pacificamente adempita nel caso di specie ma che, tuttavia, l’azione penale è ormai prescritta. A suo dire, vi sono, comunque, gli estremi per una condanna per il reato qualificato, avendo IM 1, con il suo comportamento illecito, perseguito, e almeno in una certa misura ottenuto, un indebito profitto, in parte come incassi di management fees da parte di _, in parte facendosi retrocedere
“determinati titoli”
, in parte come crediti che ha continuato a maturare nei confronti del mandante con le operazioni condotte, in parte come diminuzione dei passivi ed infine anche come
“salvaguardia”
della possibilità di continuare ad operare e guadagnare su altri clienti della banca, cosa che la scoperta degli illeciti avrebbe compromesso impedendogli di continuare l’attività di gestore esterno di _. Essendo dato il requisito dell’indebito arricchimento, l’imputato dovrebbe, quindi, essere condannato per una delle due imputazioni alternative di truffa o di amministrazione infedele qualificata.
Con riferimento alla falsità in documenti, osserva come la bugia scritta sia sfociata in reato e come il prevenuto abbia approfittato della particolare fiducia in lui riposta dal cliente che lo aveva scelto come gestore esterno anche per le comuni idee e convinzioni religiose (frequentavano lo stesso _ in _).
Per il resto, conferma il richiamo del consid. 11 della sentenza impugnata per le pretese di indennizzo e la richiesta di non concedere, in ogni caso, a IM 1 un indennizzo ex art. 429 CPP in quanto sarebbero dati i presupposti di applicazione dell’art. 430 cpv. 1 CPP, essendo il proscioglimento fondato su ragioni tecniche, nonostante egli abbia indubbiamente commesso illeciti;
- con lettera 27 luglio 2015, il giudice di prime cure ha dichiarato di non aver particolari osservazioni e di rimettersi al giudizio di questa Corte. Lo stesso ha fatto il procuratore pubblico con scritto 4 agosto 2015;
- nel suo scritto 12 agosto 2015, l’imputato ha chiesto, nella misura della sua ammissibilità, la reiezione integrale dell’appello e la conferma della sentenza di assoluzione. In primo luogo, ha osservato come non sia corretto quanto sostiene il ricorrente circa il riconoscimento da parte del giudice di prime cure dell’esistenza dei presupposti per la condanna per amministrazione infedele semplice, reato non contemplato dall’atto d’accusa ed in ogni caso prescritto. Merita, a suo avviso, conferma, per contro, la conclusione per cui la truffa e l’amministrazione infedele qualificata non sono date già perché egli non ha agito con l’intento di procurare a sé o ad altri un indebito profitto. Le doglianze avanzate da AP 1 non sono che bizzarre teorie su fantomatici profitti dell’imputato, che non si confrontano con le argomentazioni della decisione in questione. Anche in merito alla falsità in documenti, l’appello sarebbe generico, non sufficientemente motivato e privo di riferimenti alle argomentazioni di fatto e di diritto esposte nel giudizio impugnato. Per ciò che concerne, poi, la contestazione dell’indennità ex art. 429 CPP, l’appello sarebbe irricevibile, poiché l’accusatore privato non è legittimato ad impugnarla. In conclusione, postula il riconoscimento di fr. 2'841.10 a titolo di indennità d’appello;
ritenuto
L’accusato
1. IM 1
,
cittadino _, nato l’_ a _, ha così illustrato il suo curriculum:
“
Sono nato l’_ a _. Ho due fratelli. lo sono l'ultimogenito. Mio padre era
direttore della _, mentre mia madre era casalinga, ho frequentato le scuole
dell'obbligo a _. Dopo le scuole secondarie ho frequentato l'_,
scuola di commercio, in _. Ho ottenuto il diploma, ho frequentato l'università di _
in _ (_). Mi sono poi trasferito negli Stati Uniti,
dove per circa un anno ho lavorato per le Nazioni Unite. Sono, quindi, rientrato in
Svizzera, dove ho svolto l'attività di General Manager per la società _, per
-
circa una
decina di anni. Durante la mia attività sono stato uno dei fondatori della _
. Mi sono poi trasferito in Nuova Zelanda dove sono rimasto per circa due anni e mezzo ed ho lavorato per una banca. Mi sono poi trasferito a Londra dove ho lavorato quale consulente per una banca. Nell'ambito del mio soggiorno a Londra ho subito un
procedimento penale dal quale sono stato completamente prosciolto in quanto il fatto
non sussisteva. Dal 1980 ho iniziato la mia attività di lnvestment Banking negli Stati
Uniti e in Svizzera in seguito. Questo fino a quando ho fondato la _, se non
sbaglio agli inizi anni 1990, con la quale ho iniziato l'attività di gestore. Avevo circa una
trentina di clienti e gestivo un patrimonio di 30/50 mio USD. Questa attività l'ho
mantenuta fino al momento in cui ho chiuso i miei rapporti con _, se non sbaglio nel
2004. Da quel momento sono pensionato. Ho continuato comunque a svolgere delle
attività, in particolar modo nel settore delle energie rinnovabili, sono diventato membro del Board of governors della _, chairman della _
e mi sono occupato dei sistemi educativi, in particolar modo i
n Africa ed in India.
Mi sono sposato il 18 maggio 1987. Non ho avuto figli. Mia moglie è ristoratrice.” (MP IM 1 5 dicembre 2012, AI 86, pag. 7).
Al processo di primo grado, dopo aver confermato queste dichiarazioni, il prevenuto ha precisato che dal 2012 non ha nessuna attività ed è in pensione, con un’indennità AVS di fr. 325.- al mese. Vive in un appartamento di un locale e mezzo, pagando un affitto di fr. 400.- mensili, per il pagamento del quale è aiutato dalla moglie. Non ha nessuna sostanza, avendo consumato tutti i suoi risparmi a partire dal 2003, quando la sua situazione economica è peggiorata.
La moglie ha una pizzeria a I-Cadorago, ove lui si reca tutte le sere a lavorare come tuttofare, percependo un importo mensile medio di euro 1'000.-/1'500.- (VI dibattimento di prime cure, pag. 1).
I fatti
2. AP 1
è un imprenditore italiano che nel 1978 ha costituito una società attiva nel settore delle promozioni commerciali, della quale era amministratore unico. Nello stesso periodo, cioè a fine anni ’70, egli ha iniziato ad intrattenere relazioni bancarie con la Svizzera, ove ha esportato capitali con lo scopo di crearsi dei risparmi per la vecchiaia (MP AP 1 15 luglio 2008, AI 19, pag. 2).
Nel 1997 egli ha conosciuto l’imputato in occasione di un ritiro spirituale in un _ a _ in India con Sai Baba. Circa un anno dopo, AP 1 ha aperto una nuova relazione bancaria, denominata AP 1, presso l’_ ed ha incaricato IM 1 della sua gestione, concedendogli, il 18 dicembre 1998, procura amministrativa sul conto, con la facoltà di eseguire investimenti e disinvestimenti, ma non di effettuare prelevamenti non autorizzati (allegato alla querela, AI 1).
Il capitale girato sul conto AP 1 dall’accusatore privato è stato di USD 678'515.- (AI 1).
Il prevenuto ha, da quel momento, gestito gli averi depositati sul conto in questione, collocandoli in vari titoli azionari, obbligazionari e in fondi d’investimento che, al 18 maggio 2001, avevano raggiunto complessivamente un valore di fr. 892'866.54 (estratto bancario allegato alla querela, AI 1).
La corrispondenza bancaria non veniva ricevuta dal titolare, ma dal gestore esterno, rispettivamente rimaneva in banca. L’imputato sottoponeva, tuttavia, regolarmente a AP 1 degli estratti conto anonimi, allestiti su carta bianca.
Il mandato conferito all’imputato con contratto del 18 dicembre 1998 (allegato all’AI 1) lo autorizzava a disporre in misura illimitata del patrimonio del cliente (
“ad amministrare senza restrizioni i valori patrimoniali contabilizzati”
) e a muoversi con operazioni ad alto carattere speculativo. AP 1 e l’imputato non hanno in effetti concordato, nemmeno al di fuori del contratto scritto, alcun particolare limite al mandato, né alcun tipo di profilo d’investimento, tanto che lo stesso accusatore privato ha ammesso che il suo consulente aveva
“carta bianca”
(MP di confronto 14 febbraio 2012, AI 66, pag. 7).
Con la sottoscrizione del documento del 18 dicembre 1998, AP 1 ha confermato - come si legge esplicitamente nelle clausole in esso contenute - di essere stato informato che
“i summenzionati strumenti finanziari derivati e a termine non sono utilizzati unicamente a fini di garanzia e che a seconda del prodotto e della strategia il rischio delle perdite può essere notevole”
nonché che le
“operazioni con strumenti finanziari derivati e a termine eseguite dal mandatario avvengono a rischio del mandante.”
Il cliente ha pure confermato, firmando il contratto, di conoscere il funzionamento degli strumenti derivati e delle borse.
3.
Dal rapporto dell’Equipe finanziaria (EFIN) del 20 luglio 2012 (AI 75) emerge come le situazioni patrimoniali sottoposte da _ (e, quindi, da IM 1) al cliente fossero sostanzialmente diverse da quelle ufficiali e reali di _. In particolare, i documenti allestiti dall’imputato mostrano una situazione del conto piuttosto stabile, quindi rosea, mentre nella realtà il valore dello stesso è gradualmente diminuito sino ad arrivare, il 12 gennaio 2004, a USD 228'443.60 (AI 75, pag. 8).
La differenza tra la situazione sottoposta al cliente e quella reale, sempre inferiore, è aumentata gradualmente, per superare abbondantemente il mezzo milione di USD (AI 75, pag. 9).
Il risultato maggiorato era dovuto, tra le altre cose, a:
-
saldi errati;
-
a indicazioni di titoli con corso maggiorato con conseguente sopravvalutazione;
-
quantità di titoli indicata maggiore di quella reale (in due casi);
-
presenza solo sulle situazioni patrimoniali rilasciate da IM 1 di titoli _ anche dopo che essi sono stati venduti;
- presenza solo sugli estratti rilasciati dal prevenuto dei titoli _ e _, non quotati in borsa e non contabilizzati da _ (AI 75, pag. 6 seg.).
Le ricerche effettuate dall’EFIN non hanno permesso di appurare se i titoli _ e _ esistessero realmente o meno (AI 75, pag. 7).
Questi due titoli, oltre a _, anch’esso presente nelle situazioni patrimoniali di _, non sono mai stati, di fatto, quotati ufficialmente e quindi mai realmente monetizzabili (AI 75, pag. 9).
4.
Nella sentenza di prime cure sono stati esposti i seguenti accertamenti, condivisi dalla scrivente Corte:
“a) che i presunti reati di cui ai punti (di seguito solo pti.) 1, nella sua doppia variante, e 2 dell'AA sarebbero eventualmente avvenuti dal 18 maggio 2001 (data del primo rendiconto agli atti della relazione AP 1, VI PP AP 1 15.7.2008 all. 1 e Al 1 pag. 1) al 12 gennaio 2004 (data dell'ultimo rendiconto agli atti così come allestito da IM 1, VI PP AP 1 15.7.2008 all. 1 e Al 1 pag. 4);
b) che almeno il 12 aprile 2002 AP 1 ha sottoscritto una dichiarazione in cui attesta di aver "preso visione delle posizioni titoli e dei saldi" del suo conto AP 1, il cui importo in conto corrente, in obbligazioni e come controvalore titoli corrisponde esattamente al relativo estratto patrimoniale di _ a tale data (VI PP IM 1 28.9.2011 doc. 3);
c) che perlomeno il 12 aprile 2002, il 16 dicembre 2002 e 27 giugno 2003 AP 1 ha direttamente ordinato a _ tre diversi bonifici (Al 28), di cui quello del 16 dicembre 2002 eseguito su un ordine di pagamento della stessa banca (AI 28), da cui il dover concludere che, perlomeno quel giorno, AP 1 si trovasse presso gli uffici di un'agenzia _ di _, ciò che è peraltro confermato anche da _ (di seguito solo _) nel suo VI PP 16.12.2010 secondo cui "
D: il cliente AP 1 Le ha mai chiesto ragguagli in merito alla situazione del suo conto (stato patrimoniale del conto/andamento degli investimenti)? Se sì, quando, rispettivamente, con quale frequenza le chiedeva queste informazioni? R: che io ricordi, lo ha fatto nel 2002 quando si è presentato in banca per firmare l'ordine di bonifico di
€
400'000.- del 16 dicembre 2002. D: corrisponde al vero, come sostenuto da IM 1, che il cliente AP 1 si era incontrato con Lei in più occasioni, prendendo visione dei suoi estratti conto? R: non ricordo. Ribadisco di ricordare di avere avuto contatti con il cliente a far tempo dal 2002
" (VI PP _ 16 dicembre 2010 pag. 2 e 3);
d) che, a parziale comprova di quanto indicato al cons. 3, perlomeno i titoli fuori mercato _ furono acquistati col consenso di AP 1, visto che già il 10 gennaio 2000 ne ordinò il relativo acquisto per USD 5’000.- (Al 28);
e) che dal 16 gennaio 2002 l'imputato non ha volutamente più richiesto le commissioni in suo favore per la gestione della relazione AP 1 (Al 94), mentre che in forza all'Al 94 e al suo scritto 25.11.2014 (doc. TPC 19) è la stessa PP a fissare in complessivi € 3’984.-
[recte: USD 3'984.-]
le commissioni da lui conseguite nel periodo maggio/giugno 2001 (€
[recte: USD]
1'034.-) rispettivamente per i mesi di luglio 2001/gennaio 2002 (€
[recte: USD]
2’950.-), ritenuto che la pubblica accusa non è riuscita a documentare alcun incasso da parte di IM 1, che del resto Io nega (cons. 3), di qualsivoglia retrocessione per tutto il periodo indicato nell'AA;
f) che anche solo partendo dalle sue dichiarazioni nei VI PP 15 luglio 2008 a pag. 4 e dal riacquisto da parte di IM 1, dopo il gennaio 2004 (pto. 1 dell'AA), dei titoli fuori mercato _ comperati il 27 giugno 2003 al costo di € 10'000.- (Al 75 pag. 8), l'AP (art. 118 segg. CPP) avrebbe conseguito un utile, o perlomeno una diminuzione del suo passivo, di € 10'000.-, pari a USD 12’400.- (Al 75 pag. 8), senza altresì dimenticare, sempre a dire di AP 1, l'ulteriore consegna fattagli dall'imputato di € 12'500.-, vuoi per contanti o per bonifico (VI PP AP 1 15.7.2008 pag. 4);
g) che gli asseriti documenti falsi di cui al pto 2 dell’AA sono quelli indicati a pag. 2 dello scritto 25 novembre 2014 del PP (doc. TPC 19) e meglio i rendiconti della relazione AP 1 del 18 maggio 2001, 27 febbraio 2002, 9 aprile 2002, 4 giugno 2002, 12 settembre 2002 e 28 gennaio 2003 (per un
esemplare si veda VI PP AP 1 15.7.2008 all. 1), 12 giugno 2003 (per
un esemplare si veda VI PP IM 1 12.12.2008 all. 1),
16 dicembre 2003 e 12 gennaio 2004 (per un esemplare si veda VI PP AP 1
15.7.2008 all. 1).” (sentenza impugnata, consid. 4, pag. 8 segg.).
5.
Sulla scorta delle risultanze di causa, il giudice unico di prima istanza ha così argomentato il proscioglimento da ogni accusa:
“
Ciò posto, gli atti evidenziano manifestamente come questo presupposto di legge non sia, nei fatti, assolutamente adempiuto. A fronte di un presunto indebito profitto di al massimo € 3984.- (cons. 4e), l'imputato, considerando anche solo le stesse dichiarazioni di AP 1 (cons. 4f), anche se le sue sono sicuramente a lui più favorevoli (cons. 3), avrebbe rimborsato all'AP (ad. 118 segg. CPP) almeno € 18'516.- in più (€ 10000.- + € 12'500.- ./. € 3'984.-). Non solo allora, per IM 1, non vi sarebbe stato alcun indebito profitto a seguito della sua gestione patrimoniale della relazione AP 1 nel periodo 18.5.2001/12.1.2004 (cons. 4a), ma addirittura una perdita. Ne deriva, quindi, il suo proscioglimento (VD all. 2 pag. 1 pto. 1) dai reati alternativi (...) di truffa (...) ed amministrazione infedele qualificata (...) potendo egli, limitatamente a quest’ultimo reato, contestualmente invocare, per quanto perseguito a titolo di commissioni nel periodo 18 maggio 2001/12 gennaio 2004 (consid. 4a), anche una forma di Ersatzbereitschaft compensatoria (...) con l’importo già rimborsato a AP 1 (consid. 4e e 4f).
(...) A titolo abbondanziale e limitatamente alla principale ipotesi accusatoria di truffa (ad. 146 cpv. 1 CP) di cui al pto. 1 dell'AA, per la Corte non sarebbe comunque neppure dato l'ulteriore presupposto oggettivo dell'inganno astuto (...) avendo AP 1 disatteso, tenuto conto di tutte le circostanze del caso e del suo grado di preparazione, le più elementari misure di prudenza (...). AP 1 avrebbe, infatti, potuto andare in qualsiasi momento in _ - tanto più che IM 1 mai glielo impedì, nemmeno facendo uso del loro innegabile e non contestato rapporto di fiducia, circostanza che, comunque, se presa a sé stante non è di per sé sufficiente per l'ammissione del reato - ciò che l'AP ha d'altronde effettivamente fatto sicuramente il 16 dicembre 2002 (cons. 4c), ma forse anche il 12 aprile 2002 (cons. 4b), con la possibilità di verificare l'esatto saldo della relazione AP 1 e confrontarlo con i rendiconti presentatigli dall'imputato (cons. 3 e 4g), constatando quindi - malgrado il diverso dire di IM 1, che sostiene che l'AP ne fosse stato sempre informato (VD pag. 3) - che i titoli _ non potevano essere nel suo portafoglio perché fuori mercato. In ogni caso, perlomeno per i titoli _ e _, fu Io stesso AP a ratificarne l'acquisto (cons. 3), ciò che esclude che possa invocare per queste due posizioni un qualsivoglia inganno astuto a suo danno.
(...) Per la Corte i rendiconti della relazione AP 1 allestiti dall’imputato (consid. 4g) non possono essere considerati dei documenti destinati e atti a provare un fatto di portata giuridica ai sensi dell’art. 110 n. 4 CP (...) in quanto, trattandosi di falsi ideologici, assolutamente sprovvisti di un valore probatorio accresciuto, di una capacità particolare di convincere e/o di una garanzia speciale di veridicità (...). Ricordato che la cosiddetta menzogna scritta trascende in reato solo ove, dal profilo oggettivo, il documento goda di particolare credibilità per il valore che la legge gli conferisce (ad esempio un bilancio, un conto economico o un inventario, DTF 132 IV 12, 129 IV 53, 125 IV 17, 117 IV 35, sentenza non pubblicata del TF 6B.406/2008 - 6B.425/2008 del 12.12.2008, doc. dibattimentale, di seguito solo dib., 1 e VD all. 1 pag. 4) o per la persona che lo ha redatto, la cui posizione deve essere analoga a quella di un garante, come può esserlo un funzionario, un notaio, un medico, un architetto, ecc.. (...), in concreto non si può di certo dire che tutti i rendiconti (cons. 4g) presentati all'AP (art. 118 segg. CPP) proprio per come erano stati preparati ed allestiti dall'imputato - già solo perché fatti su carta non intestata, non firmati o timbrati e concepiti o strutturati differentemente a dipendenza del programma utilizzato (...) - rispettivamente perché emessi da una persona che, a differenza del caso in DTF 120 IV 361 (funzionario di banca gerente di patrimoni con mansioni direttive che inviava ad un cliente della banca una lettera con dati menzogneri sul suo conto), non aveva - in quanto gestore patrimoniale indipendente ed esterno all'istituto bancario - la necessaria qualità di garante nei confronti dei propri clienti, a maggior ragione se, come AP 1, assolutamente non ignari di investimenti e/o di operazioni bancarie (VI PP IM 1 28.9.2011 pag. 2 e 3, _ 16.12.2010 pag. 2 e Al 28). Da ciò ne consegue il proscioglimento di IM 1 dal reato di cui al punto 2 dell'AA (VD all. 2 pag. 1 pto. 1).” (sentenza impugnata, consid. 6, 7 ed 8, pag. 10 segg.).
Deciso il proscioglimento, la Corte non è entrata nel merito delle pretese di indennizzo avanzate dall’AP per complessivi fr. 513'655.- (sentenza impugnata, consid. 11, pag. 14).
Truffa e amministrazione infedele qualificata
6.
Con l’appello, l’accusatore privato ha chiesto l’annullamento della sentenza di primo grado e la condanna dell’imputato per uno dei reati alternativi indicati nell’atto d’accusa.
Giusta l’art. 146 cpv. 1 CP si rende colpevole di
truffa
ed è punito con una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria chiunque, per procacciare a sé o ad altri un indebito profitto, inganna con astuzia una persona affermando cose false o dissimulando cose vere, oppure ne conferma subdolamente l’errore inducendola in tal modo ad atti pregiudizievoli al patrimonio proprio o altrui. Un inganno astuto è dato quando l'autore ordisce un tessuto di menzogne oppure fa capo a particolari manovre fraudolente o ad artifici (DTF 128 IV 18 consid. 3a pag. 20, 126 IV 165 consid. 2a pag. 171, 122 IV 197 consid. 3d pag. 205, 119 IV 28 consid. 3a pag. 35), come pure quando rilascia false indicazioni la cui verifica è impossibile, difficile o non ragionevolmente esigibile dalla controparte, oppure quando impedisce alla controparte di verificare o prevede che la controparte rinuncerà a verificare in virtù di uno specifico rapporto di fiducia (DTF 133 IV 256 consid. 4.4.3 pag. 263, 128 IV 18 consid. 3a pag. 20, 126 IV 165 consid. 2a pag. 171, 125 IV 128 in alto con rinvio).
L'astuzia non è, invece, data quando la vittima avrebbe potuto evitare l’inganno con un minimo d’attenzione o di prudenza. Non è, però, necessario, perché ci sia truffa, che la vittima abbia dato prova della più grande diligenza e che abbia fatto ricorso a tutte le misure di prudenza possibili. Il punto, quindi, non è di sapere se la vittima ha fatto tutto ciò che poteva per evitare di essere ingannata poiché l’astuzia è esclusa soltanto quando la vittima è corresponsabile del danno poiché non ha fatto uso delle misure di prudenza elementari imposte dalle circostanze (DTF 133 IV 256 consid. 4.4.3 pag. 263; 128 IV 18 consid. 3a pag. 20; 126 IV 165 consid. 2a pag. 171 con rinvio; STF 6B_558/2009 del 26 ottobre 2009; 6B_409/2007 del 9 ottobre 2007; 6S.417/2005 del 24 marzo 2006).
Il TF ha, per esempio, avuto modo di negare il presupposto dell’inganno astuto in una fattispecie nella quale la vittima - una banca - avrebbe potuto scoprire l’inganno ove appena si fosse attenuta alle più elementari misure di prudenza (DTF 119 IV 28). Diversamente il TF ha deciso in un caso in cui la vittima, un disabile psichico, non poteva riconoscere una frode normalmente ravvisabile da terze persone (DTF 119 IV 210) e nel caso di un autore che aveva approfittato finanziariamente di connazionali inesperti, in stato di dipendenza, di subordinazione e di bisogno (DTF 120 IV 186).
In sintesi, quindi, secondo la giurisprudenza del TF, l’accertamento dell’estremo dell’inganno astuto non si risolve tanto chiedendosi se una persona di media esperienza o capacità sarebbe stata in grado di subodorare la frode, quanto esaminando caso per caso le circostanze concrete (CCRP 14 novembre 1996 in re M. consid. 10b; 22 novembre 1996 in re E.P., A.P., E.F. consid. 9a).
Va, qui, ancora rilevato che il TF ha avuto modo di precisare che con il principio secondo cui alla vittima incombe un certo dovere di prudenza non si è inteso elevare particolarmente la soglia dell’astuzia e incoraggiare l’impunità di coloro che ricorrono alla frode confidando che il giudice li prosciolga in base a una sempre esistente possibilità astratta di verifica o controllo ritenuto come diversamente si correrebbe il rischio
“... da un canto, di paralizzare, senza sufficiente giustificazione, una normale attività bancaria, finanziaria, amministrativa e commerciale (...) e, dall’altro, di contraddire il principio della colpevolezza soggettiva, ossia riferita all’intenzione dell’agente, che regge il diritto penale svizzero, e di favorire, di conseguenza, la commissione di attività concepite dagli stessi autori come truffaldine”
(STF 10 giugno 1999 in re L.S., consid. 5). Questo principio, dunque, va applicato dando prova di rigore e di prudenza ritenuto peraltro, ancora, che, di regola, l’attitudine sconsiderata della vittima può essere d’ostacolo al riconoscimento dell’inganno astuto soltanto nel caso in cui essa non si trovi in una condizione di inferiorità rispetto all’autore. Decisiva, al proposito, è la situazione concreta, segnatamente l’esigenza di protezione della vittima, nella misura in cui l’autore ne conosce i limiti e li sfrutta a suo favore (STF 6S.168/2006 del 6 novembre 2006 consid. 1.1, 1.2, 1.3; STF 25 ottobre 2001 non pubblicata; STF 24 febbraio 2000 in RVJ 2000, p. 310).
7.
Giusta l’art. 158 cifra 1 CP, si rende colpevole di
amministrazione infedele
chi, obbligato per legge, mandato ufficiale o negozio giuridico ad amministrare il patrimonio altrui o a sorvegliarne la gestione, mancando al proprio dovere, lo danneggia o permette che ciò avvenga.
La sanzione è la pena detentiva sino a tre anni o la pena pecuniaria (art. 158 n. 1 cpv. 1 CP). Per il terzo capoverso del citato disposto, il giudice può pronunciare una pena detentiva da uno a cinque anni se il colpevole ha agito per procacciare a sé o ad altri un indebito profitto.
L’adempimento della fattispecie di base presuppone la realizzazione di tre condizioni oggettive ed una soggettiva: è necessario che l’autore abbia avuto una posizione di gerente (Forum Poenale 2/2011, pag. 69 segg. ed ivi ripresa sentenza del Bezirksgericht di Zurigo, 9. Abteilung, del 3 settembre 2010, con riferimenti dottrinali), che egli abbia violato un obbligo che gli incombeva nell’ambito di tale funzione, che ne sia risultato un pregiudizio e che egli abbia agito intenzionalmente o con dolo eventuale (Bernard Corboz, op. cit., n. 2 segg. ad art. 158; Niggli, Basler Kommentar, n. 9 segg. ad art. 158; Stefan Trechsler, Praxiskommentar, n. 2 segg. ad art. 158; DTF 123 IV 17, 122 IV 279 e 120 IV 190).
L’art. 158 CP punisce l’uso infedele di un potere di amministrazione o di sorveglianza: si parla di “
Treubruch
” da parte di chi ha una “
Garantenstellung
” nei confronti della vittima, vale a dire ha assunto un ruolo di garante.
Perseguita è la violazione intenzionale dei doveri di amministrare e di sorvegliare che derivano dalla legge, da un mandato ufficiale o da un negozio giuridico (Mauro Mini, La legge sull’esercizio delle professioni di fiduciario, 2002, p. 225 e 226 e riferimenti).
L’autore deve, così, essere tenuto a gestire gli interessi pecuniari altrui o a sorvegliarne la gestione. E’, quindi, necessario che egli abbia un dovere di amministrazione o di tutela.
Gestore ai sensi della norma è colui che dispone di sufficiente indipendenza nel senso di un potere di amministrazione autonomo sul patrimonio affidatogli (DTF 129 IV 124 consid. 3.1,
123 IV 17
consid. 3b,
120 IV 190
consid. 2b). E’, dunque, indispensabile, affinché vi sia gestione ai sensi dell’art. 158 CP, che il gestore goda di un’autonomia sufficiente su tutto o su parte del patrimonio altrui, sui mezzi di produzione o sul personale di un’azienda (STF del 2 febbraio 2009, 6B_931/2008, consid. 2.1; DTF 123 IV 17 consid. 3b; 120 IV 190 consid. 2b).
La norma in questione precisa che il dovere di gestione o di salvaguardia di interessi pecuniari altrui può derivare dalla legge, da un mandato ufficiale, da un negozio giuridico o anche da una gestione d’affari senza mandato (FF 1991 II 1018; per esempi concreti cfr. Stratenwerth/Jenny/Bommer, Schweizerisches Strafrecht, BT I, 7° ed., Berna 2010, § 19 n. 10). Quest’ultima possibilità concerne in modo particolare i casi in cui il gerente prosegue la propria attività dopo la morte del mandante, senza essere al beneficio di un valido mandato post mortem.
Il potere di amministrazione autonomo sui beni affidati può manifestarsi sia attraverso la stipulazione di atti giuridici, sia con l’obbligo di difendere, sul piano interno, precisi interessi patrimoniali, sia, infine, con il compimento di atti materiali (“
Geschäftsführer im Sinne von Art. 159 aStGB ist, wer in tatsächlich oder formell selbständiger und verantwortlicher Stellung im Interesse eines andern für einen nicht unerheblichen Vermögenskomplex zu sorgen hat.
Geschäftsführer ist nicht nur, wer Rechtsgeschäfte nach aussen abzuschliessen hat, sondern auch, wer entsprechend seiner Fürsorgepflicht im Innenverhältnis für fremde Vermögensinteressen sorgen soll”
, STF 18 gennaio 2003, 6S.711/2000, consid.
4.3.; DTF 123 IV 17 consid. 3b).
Un gestore patrimoniale è il classico caso di persona tenuta in base ad obblighi contrattuali a tutelare gli interessi pecuniari altrui (DTF 120 IV 190 consid. 2b).
Perché vi sia reato, il gestore deve aver trasgredito ad un dovere che gli incombe in tale sua qualità (DTF 120 IV 190). Per stabilire se vi è stata una trasgressione, occorre preliminarmente determinare in maniera concreta i contenuti dell’obbligo o, detto altrimenti, stabilire quale comportamento avrebbe dovuto adottare l’autore. Nell’effettuare questo esame bisogna, tra le altre cose, chiarire se egli era tenuto a conservare il patrimonio oppure se era chiamato a fare in modo che esso aumentasse.
Atti conformi ai doveri di gestione possono anche comportare l’assunzione di rischi, la cui concretizzazione non ne rappresenta una violazione (Corboz, op. cit., n. 8 ad art. 158). In effetti, le attività commerciali e di amministrazione di capitali sono sovente e per la loro stessa natura soggette al pericolo di una perdita finanziaria, per cui agire correndo questo rischio può essere conforme al mandato o agli impegni assunti (DTF 105 IV 89, consid. 2b e 2c). In tal senso, dunque, può risultare addirittura contrario ai doveri contrattuali, rispettivamente legali, tralasciare l’adozione di una disposizione rischiosa (Stratenwerth/Jenny/Bommer, op. cit., § 19, n. 13).
In simili situazioni, non si può decretare una condanna ai sensi dell’art. 158 CP nemmeno nel caso in cui l’operazione si concluda con un esito negativo.
Gli obblighi di amministrare e sorvegliare richiedono l’adempimento di atti tendenti alla tutela degli interessi patrimoniali altrui (Mauro Mini, op. cit., pag. 227 e riferimenti).
Non ogni inadempimento contrattuale realizza la fattispecie dell’art. 158 CP: penalmente perseguibile è la violazione di un obbligo principale da parte dell’autore, mentre quella di semplici doveri accessori non realizza il reato (Mario Postizzi, Contratto di Mandato e reato per omissione, in CFPG, Basilea 2009, n. 43, pag. 192).
Esempi di trasgressione dei doveri di gestore sono, tra gli altri, l’utilizzo contrario alle regole di un patrimonio affidato, come l’impiego non dichiarato di manodopera subordinata all’autore per suoi scopi privati o a favore di un’altra ditta (DTF 81 IV 280 seg.), il mancato incasso di tasse dovute e pagabili da parte di un segretario comunale (DTF 81 IV 232), la trascuranza volontaria della promozione della vendita dei prodotti in un chiosco (DTF 86 IV 15), la conclusione di contratti per proprio conto o a favore di terzi concorrenti invece che per conto del proprietario della ditta per la quale l’autore lavora (DTF 115 IV 313 consid. 3; 80 IV 248), la deviazione da parte del gerente di una filiale di guadagni spettanti alla casa madre sui conti di una ditta da lui controllata (DTF 109 IV 112 seg. consid. 2a), l’accettazione di tangenti in cambio di un comportamento che nuoce agli interessi patrimoniali del committente (DTF 129 IV 124 consid. 4.1), l’effettuazione di una serie di investimenti speculativi contrari agli interessi ed alle istruzioni dei clienti (DTF 120 IV 190 consid. 2b).
Il reato è consumato solo se vi è un pregiudizio economico a danno di una terza persona (DTF 120 IV 190 consid. 2b). E’ il caso quando ci si trova di fronte ad una vera lesione del patrimonio, vale a dire ad una diminuzione dell’attivo, ad un aumento dei passivi, ad una mancata diminuzione del passivo o ad un mancato aumento dell’attivo, oppure ancora ad una messa in pericolo dell’attivo, tale da avere per effetto una diminuzione del suo valore dal punto di vista economico (STF 13 gennaio 2011, 6B_223/2011, consid. 3.3.3 e sentenza 2 febbraio 2009, 6B_931/2008, consid. 4.1).
Un pregiudizio temporaneo è sufficiente (DTF 121 IV 104 consid. 2c).
L’aggravante del cpv. 3 dell’art. 158 cifra 1 CP prevede che sia punito con una pena detentiva da uno a cinque anni colui che ha agito per procacciare a sé o ad altri un indebito profitto.
8.
Come visto, comune ai due reati qui in disamina, proposti nella formula alternativa nell’atto d’accusa, è il disegno di ottenere o procurare a terzi un indebito profitto. Proprio l’accertamento della mancanza di tale componente ha, nel caso specifico, portato il primo giudice alla decisione di proscioglimento. E’ pertanto opportuno partire da qui.
La nozione di arricchimento è ampia e comprende qualsiasi tipo di vantaggio economico. Con esso va intesa ogni forma, anche temporanea o provvisoria, di miglioramento della situazione patrimoniale: aumento degli attivi, diminuzione dei passivi, mancata diminuzione degli attivi o mancato aumento dei passivi (Corboz, op. cit. , n. 10 segg. ad art. 138).
L’arricchimento deve poi essere illecito, requisito che vien meno se l’autore ne ha diritto o pensa in buona fede di averne diritto. Se per contro quest’ultimo non è completamente convinto del suo diritto, ma agisce comunque, l’intenzione di procacciare indebito profitto è da riconoscere per dolo eventuale (Corboz, op. cit., n. 14 ad art. 138).
Il presupposto non è nemmeno realizzato se l’autore paga il controvalore al momento del suo atto (fintanto che il bene è ancora disponibile sul mercato), se ha l’intenzione di saldare il debito o nell’ipotesi in cui egli abbia la cosiddetta
“Ersatzbereitschaft”
(Corboz, op. cit., n. 14 ad art. 138).
9.
A detta del ricorrente, l’indebito profitto voluto ed ottenuto da IM 1 è consistito in parte in incassi di management fees pagategli da _, in parte
“facendosi retrocedere determinati titoli”
, in parte in crediti che ha continuato a maturare nei confronti del mandante con le operazioni condotte, in parte nella diminuzione di passivi ed infine nella salvaguardia della possibilità di continuare ad operare e guadagnare su altri clienti della banca, poiché se fossero stati scoperti gli illeciti egli non avrebbe più potuto lavorare per l’istituto (doc. CARP XVI pag. 2).
Il fatto di non avere, in concreto, presentato e incassato fatture per l’intero periodo di gestione non è, a detta di AP 1, determinante, poiché, in base al suo mandato, l’accusato ha maturato formalmente dei crediti, per i quali non ha mai formalizzato una rinuncia, pur non avendoli fatti valere dopo il 2002.
A torto, aggiunge, il giudice di prime cure ha poi negato il requisito dell’indebito profitto
, “segnatamente considerando che il riacquisto di determinati titoli da parte dell’imputato valesse come restituzione di più di quanto percepito in commissioni/retrocessioni e senza tener conto del fatto che la contropartita del pagamento fossero i titoli riacquistati al loro asserito prezzo, misconoscendo il fatto che l’indebito profitto fosse comunque perlomeno tentato e ricercato anche se eventualmente non tutto conseguito, rispettivamente non analizzando il fatto che continuando ad operare, pur in assenza di prelievi, l’accusato ha giuridicamente maturato verso l’accusatore privato dei crediti su base contrattuale nella sua veste di gestore esterno che avrebbe potuto far valere, rispettivamente non considerando che nascondendo il suo cattivo operato a AP 1 il IM 1 ha potuto continuare ad operare come gestore esterno anche per altri clienti senza “bruciarsi” nella banca”
(doc. CARP XVI, pag. 2).
10.
Le argomentazioni avanzate dall’accusatore privato, testé riprese, sono in buona parte vaghe e senza alcun riferimento agli atti. In modo particolare, non è dato di sapere - e, di conseguenza, non è possibile chinarsi sulla questione - a quale diminuzione di passivi egli faccia riferimento quale componente del profitto ottenuto con il reato.
Di pari passo, anche la pretesa secondo cui, nascondendo le asserite malversazioni, IM 1 abbia potuto continuare ad amministrare i beni di altri clienti e, di conseguenza, a guadagnare, non può essere considerata una valida argomentazione, poiché non è stato nemmeno indicato con quali clienti egli avrebbe continuato a lavorare solo grazie a ciò, rispettivamente se dal rapporto contrattuale con questi egli abbia guadagnato qualcosa, né tantomeno quanto. Di conseguenza, non è neppure dimostrabile un’intenzione di ottenere in tal modo un indebito profitto.
Va poi precisato che i presunti illeciti (non dimostrati) non devono essere confusi con le perdite derivanti dagli investimenti, che possono anche essere - se non frutto di rischi spropositati assunti senza fondamento (nemmeno questi resi verosimili nel caso che ci occupa) - una componente costitutiva dei mandati per la gestione dei capitali più o meno concreta a dipendenza del profilo di rischio scelto. In effetti, questo tipo di attività comporta delle incognite intrinseche inevitabili e imprevedibili che qualsiasi investitore si assume al momento di affidare la gestione di denaro a un consulente. Di conseguenza, contrariamente a quanto sostiene AP 1, il fatto di aver avuto delle perdite non comporta automaticamente la perdita di credibilità nei confronti degli altri clienti del gestore. Se così fosse, nessuno lavorerebbe più nel settore.
Di conseguenza, è anche troppo superficiale e concettualmente errato sostenere che il prevenuto ha nascosto le perdite per poter mantenere altri clienti che altrimenti, se avessero saputo, lo avrebbero lasciato.
11.
L’asserito indebito profitto derivante dalla retrocessione di determinati titoli, cui il ricorrente ha accennato, non è stato in alcun modo sostanziato. D’altronde egli nemmeno si è dato la pena di indicare quali siano questi titoli e con quali modalità sarebbe avvenuta la loro retrocessione, e meglio se gratuitamente o dietro pagamento.
Non essendovi in atti ricostruzioni che possano confermare questa laconica affermazione e non essendoci nemmeno prove di altra natura a suo sostegno, l’argomentazione d’appello risulta essere inconsistente.
12.
L’indebito profitto perseguito è, secondo l’appellante, anche quello derivante da management fees ricevute da _.
Come emerge dall’AI 94 e dallo scritto della PP del 25 novembre 2014 (doc. TPC 19), nel periodo dal maggio 2001 al giugno 2004, _ ha pagato a _ circa USD 3'984.- (e non € come indicato dal magistrato e ripreso nella sentenza impugnata). In seguito non risulta sia stato versato più alcunché.
Lo stesso IM 1 ha dichiarato di non aver più rivendicato le management fees per la gestione del conto AP 1, viste le gravi perdite intervenute nel portafoglio del cliente/amico, verso il quale si è sentito molto a disagio (MP IM 1 del 29 febbraio 2012, pag. 3). Sui titoli non quotati, inoltre, egli ha sostenuto non aver mai preteso alcuna commissione (ibidem).
Come rettamente indicato in prima sede, AP 1 stesso ha ammesso che il prevenuto gli ha versato € 20'000.- per il riacquisto di certificati _, acquistati in precedenza per il conto AP 1 il 27 giugno 2003 a € 10'000.-, garantendogli quindi un utile di € 10'000.- (rapporto EFIN, AI 75 pag. 8). Il titolo, come quelli di _ e _, non era quotato in borsa. Pertanto, il riacquisto è da interpretare come un contributo per la diminuzione del danno nella misura di € 10'000.- (MP AP 1 del 15 luglio 2008, AI 19, pag. 3).
Dalle commissioni vanno dunque dedotti questi soldi, che, al cambio di 1.24 €/USD a quel tempo valido (
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), corrispondono a USD 12'400.-. Pertanto, IM 1, nel periodo in questione, non ha tratto alcun vantaggio economico dalla gestione del denaro dell’accusatore privato, ma ha anzi messo almeno USD 8'416.- di tasca propria. A questi si aggiungono gli € 12'500.- che l’imputato ha consegnato a AP 1 (MP AP 1 del 15 luglio 2008, AI 19, pag. 4).
Nonostante si debba concludere a favore della tesi del prevenuto in base alla quale egli avrebbe rinunciato alle commissioni, l’accusatore privato, nel suo appello, sostiene che ciò non è determinante poiché in base al suo mandato egli ha maturato formalmente i crediti e non vi ha mai esplicitamente rinunciato, pur non avendoli fatti valere dopo il 2002. L’argomentazione non può essere seguita poiché è un dato di fatto che IM 1 non ha mai rivendicato alcunché a partire dal 2002 sino ad oggi. Oltre a ciò, egli non ha chiesto nulla nemmeno prima dell’introduzione dell’esposto penale nel novembre 2005, per cui non si può ritenere che egli abbia rinunciato alle fees per una strategia processuale, solo a seguito della procedura penale.
Infine, il diritto alle commissioni è ormai ampiamente prescritto (art. 127 CO), sicché l’assenza di una rinuncia formale al credito non ha, nemmeno dal punto di vista del diritto contrattuale, alcuna incidenza.
In sostanza, pertanto, dal mandato di gestione del conto AP 1, IM 1 non ha, per quanto è stato possibile dimostrare, avuto alcun guadagno, bensì una perdita. Trattandosi, sia per quanto concerne la rinuncia alle
management fees
che per quanto riguarda il riacquisto delle azioni _ e la rifusione di € 12'500.-, di una chiara scelta dell’imputato, che non era obbligato a procedere in tal senso, si può tranquillamente desumere che egli non ha amministrato i beni dell’accusatore privato con lo scopo di procurarsi un indebito profitto.
13.
Mancando il requisito dell’indebito profitto, cadono le accuse di truffa (art. 146 CP) e di amministrazione infedele qualificata (art. 158 cifra 2 CP).
La prescrizione del reato di amministrazione infedele semplice, punito con una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria (art. 158 cifra 1 CP) è intervenuta nel gennaio del 2011, molto tempo prima dell’emanazione dell’atto d’accusa del 29 maggio 2013. Di conseguenza, non è necessario esaminare l’adempimento dei presupposti di tale fattispecie.
Su questo punto, pertanto, la sentenza di primo grado deve essere confermata e IM 1 prosciolto da ogni accusa.
Falsità in documenti
14.
Con l’impugnativa, AP 1 postula, come detto, anche l’annullamento del proscioglimento dell’imputato dall’accusa di falsità in documenti e la sua condanna per tale reato, sostenendo che egli, nella sua qualità di gestore esterno di fiducia, legato da rapporto contrattuale, godeva di particolare credibilità, così che la sua bugia scritta deve essere considerata qualificata. L’autore ha, infatti, a suo dire, approfittato della fiducia riposta in lui dal cliente che l’aveva scelto come gestore esterno anche per le comuni idee e convinzioni religiose, avendo entrambi frequentato lo stesso centro di meditazione in India.
Con le sue osservazioni del 12 agosto 2015, IM 1 si è limitato a rilevare l’inconsistenza dell’appello, nemmeno sufficientemente motivato.
15.
Per la Corte di prime cure, la fattispecie dell’art. 251 CP non è realizzata poiché i rendiconti della relazione AP 1 allestiti dal prevenuto non possono essere considerati dei documenti destinati a provare un fatto di portata giuridica ai sensi dell’art. 110 n. 4 CP, trattandosi di falsi ideologici, sprovvisti di valore probatorio accresciuto, di una capacità particolare di convincere e/o di una garanzia speciale di veridicità (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 12 seg.). In questo caso, la menzogna scritta non è trascesa in reato, poiché non godeva, dal profilo oggettivo, di particolare veridicità, né per il valore concessole dalla legge (come avviene per i bilanci, i conti economici e gli inventari, ad esempio, DTF 112 IV 12), né per la persona del suo redattore, che qui non rivestiva una posizione di garante nei confronti della vittima. I rendiconti allestiti da IM 1 erano stampati su carta non intestata, non erano firmati o timbrati ed erano allestiti ogni volta in maniera diversa a dipendenza del programma utilizzato. Inoltre, l’accusato, nella sua qualità di gestore patrimoniale indipendente ed esterno all’_, non godeva della necessaria qualità di garante verso i propri clienti, a maggior ragione se, come AP 1, già cogniti di investimenti e operazioni bancarie.
16.
Giusta l’art. 251 CP, si ha
falsità in documenti
quando qualcuno, al fine di nuocere al patrimonio o ad altri diritti di una persona o di procacciare a sé o ad altri un indebito profitto, forma un documento falso o ne altera uno vero, oppure abusa dell’altrui firma autentica o dell’altrui segno a mano autentico per formare un documento suppositizio, oppure attesta o fa attestare in un documento, contrariamente alla verità, un fatto d’importanza giuridica, o fa uso, a scopo d'inganno, di un tale documento.
Questa disposizione non reprime solo la falsificazione di un documento (falso materiale,
“unechte Urkunde”
) ma anche la redazione di un documento dal falso contenuto (falso ideologico).
a.
Sono segnatamente documenti tutti gli scritti destinati e atti a provare un fatto di portata giuridica (art. 110 cpv. 4 CP).
La destinazione a provare (
“Beweisbestimmung”
) un fatto risulta direttamente dalla legge oppure dal senso o dalla natura dello scritto. L’attitudine a provare (
“Beweiseignung”
) è ammessa quando lo scritto è riconosciuto dalla legge o dagli usi commerciali come un mezzo di prova (DTF 132 IV 57 consid. 5.1; 126 IV 65 consid. 2a e rinvii; Boog, Basler Kommentar, StGB I, Basilea 2007, ad art. 110 cpv. 4, n. 28, pag. 1849).
Anche un documento non valido o nullo a causa di vizi formali o materiali può essere atto a provare (cfr. DTF 81 IV 238; Boog, op. cit., ad art. 110 cpv. 4, n. 30, pag. 1850; Trechsel, Schweizerisches Strafgesetzbuch, San Gallo 2008, ad vor art. 251, n. 8, pag. 1054). In questo caso, è sufficiente che lo scritto crei l’apparenza di una dichiarazione giuridicamente rilevante (Boog, op. cit., ad art. 110 cpv. 4, n. 30, pag. 1850).
b.
La falsificazione in senso proprio (falso materiale) implica la formazione di un documento il cui vero estensore non corrisponde all'autore apparente: nell’ipotesi di falso materiale, dunque, il documento trae in inganno sull'identità di colui dal quale esso emana (
DTF 137 IV 167 consid. 2.3.1; 132 IV 57 consid. 5.1.1; 128 IV 265
consid. 1.1.1; STF 6B_334/2007 dell’11 ottobre 2007 consid. 6.1). In questi casi, l'atto è punibile senza che sia necessario esaminare la questione di un eventuale contenuto menzognero del documento (
DTF 132 IV 57
consid. 5.1.1
; 123 IV 17
consid. 2e).
c.
Vi è invece falso ideologico se la realtà non corrisponde a ciò che è affermato nel documento: è, cioè, menzognero il documento il cui contenuto non corrisponde alla realtà pur emanando dal suo autore apparente (DTF 132 IV 12 consid. 8.1; 131 IV 125 consid. 4.1; 129 IV 130 consid. 2.1; 126 IV 65 consid. 2a; STF 6B_334/2007 dell'11 ottobre 2007 consid. 6.1). Nel falso ideologico non vi è inganno sulla persona dell’autore. Semplicemente, ciò che l’autore dice non corrisponde al vero (Corboz, op. cit., ad art. 251, n. 109, pag. 250).
d.
Nel caso di falso ideologico la giurisprudenza esige che il documento ai sensi dell’art. 110 cpv. 4 CP sia provvisto di un valore probatorio accresciuto, di una capacità particolare di convincere, di una garanzia speciale di veracità, di un’attitudine elevata a comprovare, di un carattere probante particolare (Corboz, op. cit., ad art. 251, n. 119, pag. 253 e riferimenti; DTF 132 IV 12 consid.
8.1; 131 IV 125 consid. 4.1; 129 IV 130 consid. 2.1; 126 IV 65 consid. 2a; 123 IV 61 consid.
5b; 122 IV 332 consid. 2c).
Quest’esigenza di valore probatorio accresciuto rispetto al caso di falso materiale è giustificata dal principio secondo cui è maggiormente degna di protezione la fiducia che si può avere nel non essere ingannati sull'identità dell'autore di un documento rispetto a quella che si può riporre nel fatto che l'autore non menta (DTF 125 IV 273 consid. 3; STF 6B_334/2007 dell’11 ottobre 2007 consid. 6.1; Corboz, op. cit., ad art. 251, n. 129, pag. 254).
Il falso ideologico è una bugia scritta qualificata che si distingue da una semplice allegazione unilaterale per la sua capacità di convincere (DTF 126 IV 65 consid. 2a; 123 IV 61 consid. 5b; 122 IV 332 consid. 2c). Perché il falso sia punibile, il documento deve essere atto a provare la veridicità di ciò che in realtà è falso, ossia del suo contenuto (DTF 123 IV 17 consid. 2c): tale forza probante può risultare direttamente dalla legge (e dagli usi commerciali) o dalla natura stessa dello scritto (DTF 129 IV 130 consid. 2.2; 126 IV 65 consid. 2a; 122 IV 332 consid. 2a).
Il TF ha già avuto modo di stabilire che un contratto concluso in forma scritta semplice è atto a provare che le parti hanno scambiato delle dichiarazioni di volontà reciproche e concordanti, ma non che il contenuto delle stesse corrisponda alla loro reale volontà. La situazione è diversa solo ove sussistano garanzie speciali che le dichiarazioni concordanti delle parti corrispondano alla loro volontà effettiva (DTF 125 IV 273 consid. 3a/bb; 123 IV 61 consid. 5c; 120 IV 25 consid. 3f; STF 6B_382/2011 del 26 settembre 2011 consid. 2.2; 6S.423/2003 del 3 gennaio 2004 consid. 4.3;
6S.375/2000 del 1. novembre 2000 consid. 2c; cfr. anche sentenza TPF 21 aprile 2011 pubblicata in SK.2010.13 consid. 6.3.2).
La cosiddetta “menzogna scritta” trascende, dunque, in reato soltanto quando, dal profilo oggettivo, il documento gode di particolare credibilità per il valore che la legge o gli usi commerciali gli conferiscono (bilancio, conto perdite e profitti, inventario: Corboz, in ZBJV 131/1995 pag. 551) o per la posizione analoga a quella di un garante (
“garantenähnliche Stellung”
) della persona che lo ha redatto (come per esempio un funzionario, notaio, medico, architetto; cfr. Boog, Basler Kommentar, StGB II, Basilea 2007, ad art. 251, n. 48 e segg., pag. 1613 e segg.; Donatsch/Wohlers, Strafrecht IV, Delikte gegen die Allgemeinheit, Zurigo/Basilea/Ginevra 2004, pag. 147 e segg. e la giurisprudenza ivi citata), di modo che il suo destinatario vi possa ragionevolmente prestar fede (DTF 132 IV 12 consid. 8.1; 129 IV 130 consid. 2.1; 126 IV 65 consid. 2a; STF 6B_382/2011 del 26 settembre 2011 consid. 2.1; 6B_812/2010 del 7 luglio 2011 consid. 5.2; 6B_334/2007 dell’11 ottobre 2007 consid. 6; 6B_367/2007 del 10 ottobre 2007 consid. 4.2).
Una tale posizione è data quando l’estensore del documento è investito di un obbligo di verifica e di oggettività ed è, dunque, particolarmente degno di fiducia
(
Corboz in: ZBJV 131/1995 pag. 572). Ciò implica, di principio, che, in presenza di interessi opposti, l’autore del documento si trovi in una posizione neutrale (Corboz, Les infractions en droit suisse, vol II, 3a ed., Berna 2010, ad art. 251, n. 139, pag. 256).
Il TF ha avuto modo di stabilire che il semplice partner contrattuale non si trova in una posizione analoga a quella di un garante (DTF 121 IV 131 consid. 2c pag. 136).
e.
La natura di documento di uno scritto - o meglio, la sua forza probante - è relativa. Uno scritto può essere considerato un documento - e, quindi, ad esso essere attribuita forza probante - per taluni suoi aspetti e non per altri (DTF 132 IV 57 consid. 5.1; 129 IV 130 consid. 2.2; Boog, op. cit., ad art. 251, n. 43, pag. 1610).
Una fattura, ad esempio, è impropria, in linea di principio - ancorché munita di ricevuta - a dimostrare la veridicità di quanto attesta. Essa può, però, essere idonea a provare che le dichiarazioni ivi contenute emanano dal loro autore, onde la punibilità (per falso materiale) di chi contraffà un tale atto (DTF 121 IV 131 con svariati altri esempi e rinvii di giurisprudenza, richiamati anche in DTF 125 IV 273 consid. 3.a.bb;
132 IV 57
consid. 5.1;
126 IV
65 consid. 2a e rinvii) oppure può essere idonea a provare la veridicità del suo contenuto e, perciò, acquista carattere di documento in funzione della sua registrazione in contabilità (DTF 114 IV 31 in relazione ad un libro di cassa; cfr. Corboz, op. cit., ad art. 251, n. 155-156, pag. 260) oppure, ancora, acquista carattere di documento ed è considerata idonea a provare la veridicità del suo contenuto se siglata da un architetto (DTF 119 IV 54 consid. 2d) o munita di un visto di controllo (DTF 131 IV 125 consid. 4.5).
Secondo la giurisprudenza, occorre estrema cautela nell’attribuire valore probante accresciuto ad uno scritto: “
an die Beweisbestimmung und Beweiseignung einer Urkunde [seien] bei der Falschbeurkundung hohe Anforderungen zu stellen. Art. 251 StGB sei deshalb restriktiv anzuwenden, soweit es um die Falschbeurkundung gehe
” (DTF 117 IV 165 consid. 2b). Il TF ha ritenuto rilevante la distinzione tra il ruolo di colui che redige il documento e quello di colui che deve verificarlo (controllore), per esempio decidendo che un rapporto di regia inveritiero firmato dal rappresentante di un’impresa di costruzioni non costituisce una falsità in documenti ai sensi dell’art. 251 CP (DTF 117 IV 169 consid. 2c).
f.
Dal profilo soggettivo, la falsità in documenti è punibile solo se commessa intenzionalmente, ritenuto che il dolo eventuale è sufficiente (Boog, Basler Kommentar, StGB II, Basilea 2007, ad art. 251, n. 86, pag. 1633).
L’intenzione deve portare su tutti gli elementi costitutivi del reato: ciò significa, in particolare, che l’autore vuole o accetta il fatto che il documento contiene un’alterazione della verità e - nei casi di falso ideologico - che esso abbia forza probante relativamente a tale circostanza (DTF 135 IV 12 consid. 2.2; STF 6B_522/2011 dell’8 dicembre 2011 consid. 1.3; Corboz, op. cit., ad art. 251, n. 172, pag. 264; Boog, op. cit, n. 87-89, ad art. 251, pag. 1634).
L’autore deve, inoltre, agire al fine di nuocere al patrimonio o ad altri diritti di una persona o di procacciare a sé o ad altri un indebito profitto. Al proposito non è necessario che l’autore sappia in cosa consiste tale profitto, il cui carattere indebito può risultare dallo scopo perseguito o dai mezzi utilizzati (STF 6B_522/2011 dell’8 dicembre 2011 consid. 1.3; DTF 121 IV 216 consid. 2; Corboz, op. cit., ad art. 251 CP, n. 173 e segg., pag. 264-266; Boog, op. cit., ad art. 251, n. 90 e segg., pag. 1635 e segg.).
L’art. 251 CP presuppone, infine, l’intenzione dell’autore di ingannare qualcuno (DTF 121 IV 216 consid.
4; 101 IV 53 consid. I.3.a; Corboz, Les infractions en droit suisse, vol.
II, 3a ed., Berna 2010, ad art. 251, n. 172, pag. 264). L’intenzione di ingannare è ammessa quando l’autore vuole indurre in errore il destinatario sull’autenticità (o, in caso di falso ideologico, sulla veridicità) del documento, con lo scopo di indurlo ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante (Boog, op. cit., ad art. 251, n. 88, pag. 1634).
Non è necessario che l'autore intenda usare personalmente il documento per ingannare. È sufficiente che voglia o accetti che un terzo ne faccia un uso ingannevole (DTF 135 IV 12 consid. 2.2; STF 6B_522/2011 dell’8 dicembre 2011 consid. 1.3; Corboz, op. cit., ad art. 251, n. 172, pag. 264; Boog, op. cit, ad art. 251, n. 87-89, pag. 1634).
g.
Il Tribunale federale, nella DTF 120 IV 361 consid. 2b, ha stabilito che estratti conto rilasciati da una banca ai propri clienti nell'ambito di un'amministrazione patrimoniale hanno una credibilità maggiorata e, se falsificati, possono portare alla realizzazione della fattispecie prevista dall'art. 251 CP. Nel caso specifico, in effetti, tali caratteristiche derivano dalla posizione analoga a quella di garante ricoperta dal loro estensore. Dovendo egli eseguire il mandato nell'interesse dei suoi clienti, le sue attestazioni assumevano forza probante accresciuta vista la natura del mandato, l'impossibilità di verifica per i destinatari e la fiducia particolare connessa alle attività commerciali delle banche (sottoposte a una legislazione e a dei controlli specifici, impieganti personale generalmente molto qualificato, con reputazione senza macchie e che devono rispettare il segreto bancario).
In una decisione successiva, l'Alta Corte federale ha avuto modo di precisare, dopo aver puntualizzato che ogni situazione necessita di un esame di dettaglio individuale, che degli estratti conto rilasciati da una società di investimenti straniera, senza sede in Svizzera, redatti a macchina e privi di particolare intestazione, non firmati e nemmeno trasmessi con lettera accompagnatoria non godono di valore probatorio accresciuto ai sensi del diritto penale (STF 6B_406/2008 consid. 3.4.; Boog, op. cit., n. 148 ad art. 251).
17.
Nel caso che ci occupa, non sono dati gli estremi per ammettere una posizione analoga a quella di garante, tale da comportare una maggiorata forza probatoria degli estratti e dei documenti sottoposti al cliente.
In effetti, IM 1 ha agito in seno ad una piccola società finanziaria, la _, che non disponeva di alcun riconoscimento particolare da parte delle autorità preposte, in particolar modo della CFB (ora FINMA) - quale potrebbe ad esempio essere l'autorizzazione a commerciare in valori mobiliari - e che non era soggetta ad alcuna sorveglianza (diretta o indiretta) dell’ente pubblico, rispettivamente non doveva rispettare standard restrittivi analoghi a quelli fissati in ambito bancario. In altri termini, la posizione della società fiduciaria/finanziaria del prevenuto non è paragonabile a quella di una banca elvetica.
Oltre a ciò il cliente, seppur straniero, aveva la possibilità di verificare in qualsiasi momento, senza rischi, la sua reale situazione patrimoniale, rivolgendosi direttamente alla banca.
Infine, non si può dimenticare che la fiducia riposta da AP 1 in IM 1, per sua stessa ammissione fatta pure nell’allegato d’appello, si fondava in parte sul fatto che frequentavano entrambi i centri del _. Non quindi su delle a lui note sperimentate capacità di IM 1 di muoversi sui mercati finanziari, ma su fattori che nulla hanno a che vedere con tale ambito, per cui la vittima non aveva alcun motivo oggettivo per fidarsi delle attitudini dell’imputato, che non conosceva.
Inoltre AP 1 non è uno sprovveduto e, pertanto, non poteva non sapere che in ambito bancario hanno valore solo gli attestati ufficiali e che rendiconti rudimentali, per nulla ufficiali nemmeno nell’apparenza, come quelli sottopostigli, non hanno che un valore probatorio equivalente a quello di un rendiconto orale, cioè nullo.
Di conseguenza, anche su questo punto la sentenza di prime cure deve essere confermata e IM 1 prosciolto dall’accusa di falsità in documenti.
Richiesta di risarcimento del danno
18.
L’accusatore privato ha formulato delle pretese d’indennizzo del danno subito per complessivi fr. 513'655.-, oltre alla rifusione dei costi di patrocinio per la presente procedura. Per il dettaglio si rinvia al consid. n. 11 della sentenza impugnata.
Preso atto del proscioglimento dalle accuse e del fatto che con ogni evidenza la fattispecie non è matura per la pronuncia di merito sulla richiesta di indennizzo, non essendo stato neppure dimostrato che IM 1 ha superato i limiti d’azione fissatigli con il mandato di gestione, la pretesa deve essere rinviata al competente foro civile (art. 126 cpv. 2 lett. d CPP).
Indennizzo
19.
Quale ultimo punto, l’appellante chiede che
“in ogni caso non dovrebbe venire concesso al IM 1 un indennizzo ai sensi dell’art. 429 CPP in quanto è pacifico che l’imputato abbia provocato con un comportamento illecito e colpevole l’apertura del procedimento penale ai sensi dell’art. 430 cpv. 1 lett a CPP: un suo ipotetico proscioglimento sarebbe spiegabile solo con ragioni tecniche e procedurali ma non certo per insussistenza di un comportamento illecito o colpevole, che invece è chiaro ed innegabile come emerge sia dal rapporto EFIN che dalle ammissioni dell’imputato stesso. La concessione dell’indennità da parte del Giudice di prime cure, che risulta particolarmente urtante all’accusatore privato, non deve pertanto essere confermata.”
(doc. CARP XVI pag. 3).
L’accusatore privato non è legittimato ad impugnare la decisione di indennizzo dell’imputato ai sensi dell’art. 429 CPP. In effetti, lo sono unicamente l’avente diritto, il procuratore pubblico e un eventuale terzo chiamato a contribuire (Wehrenberg/Frank, Basler Kommentar StPO, 2 ed., n. 33 ad art. 429).
Di conseguenza non è possibile analizzare la consistenza delle obiezioni sollevate da AP 1 a tal proposito, che, va detto, di primo acchito non appaiono completamente infondate.
Su questo punto, l’appello è pertanto irricevibile.
Lo stesso vale in merito alla generica impugnazione della decisione sull’approvazione della nota professionale del difensore, che il ricorrente, oltre a non essere legittimato a contestare e ad averlo fatto presso l’istanza errata, nemmeno ha sostanziato.
Tassa di giustizia, spese e tassazione nota d’onorario del difensore d’ufficio
20.
Visto l’esito dell’appello, gli oneri processuali di primo grado rimangono a carico dello Stato.
La tassa di giustizia e le spese di appello seguono la soccombenza (art. 428 cpv. 1 CPP) e sono, pertanto, poste a carico dell’appellante.
Con il suo allegato del 12 agosto 2015, IM 1 ha chiesto il riconoscimento di fr. 2'841.10 a titolo di indennizzo dei costi di patrocinio per il procedimento d’appello (art. 429 cpv. 1 lett. a CPP).
Essendo il mandato di fiducia del patrocinatore stato trasformato in difesa d’ufficio, non sono adempite le condizioni per il riconoscimento di un’indennità ai sensi di questa norma (DTF 138 IV 205 consid. 1; STF 6B_144/2012 del 16 agosto 2012 consid. 1.2). In effetti, i costi della difesa d’ufficio fanno parte delle spese procedurali (art. 422 cpv. 2 lett. a CPP) e il beneficiario non è di principio tenuto a sostenerli (art. 426 cpv. 1 CPP).
L’indennizzo del difensore d’ufficio, anche in caso di proscioglimento integrale o parziale, deve essere effettuato in base ai principi sanciti dall’art. 135 CPP (DTF 139 IV 261 consid. 2.2.2).
Di conseguenza si impone la tassazione della nota sottoposta alla scrivente Corte dal difensore.
Dall’estratto allegato (doc. CARP XX), si può vedere come la nota consista in 9 ore e 10 minuti di onorario a fr. 280.- l’ora e in fr. 64.- di spese. Da questo importo devono essere dedotte 2 ore per redazione dell’allegato, essendo 3 ore sufficienti alla redazione delle osservazioni, non particolarmente elaborate, ritenuta l’ulteriore ora di esame della motivazione scritta dell’appellante e di studio incarto riconosciuta. Pertanto, a titolo di indennità d’appello, vengono riconosciuti fr. 2'236.25 (fr. 2'006.60 onorario + fr. 64.00 spese + fr. 165.65 IVA). Non trova qui applicazione l’art. 420 CPP, sicché non si può prevedere la possibilità di regresso dello Stato sull’accusatore privato. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
|
dbf039c5-61c8-52f4-83b2-9406ee4679c2 | in fatto
a
. Il Ministero pubblico, nel corso del 2004, ha promosso un procedimento penale a carico, tra gli altri, di PI 68, di PI 1, di PI 4, di RE 1 e di PI 3 – responsabili formali / operativi della PI 9, _, ora in liquidazione in seguito al fallimento pronunciato il 19.8.2004 dall’allora Commissione federale delle banche – per amministrazione infedele, appropriazione indebita, truffa, falsità in documenti, soppressione di documenti, cattiva gestione e bancarotta fraudolenta (inc. MP _).
b
. Con decisione 4.4.2012 il magistrato inquirente – in applicazione dell’art. 30 CPP – ha disgiunto il procedimento penale nei confronti di PI 68, verso il quale era stato spiccato un ordine di arresto, considerato che non era mai stato interrogato e che le verifiche esperite in territorio _ non avevano permesso di stabilire che si era iscritto nell’anagrafica di un comune.
Il medesimo giorno ha disposto la chiusura dell’istruzione penale a carico di parte dei responsabili formali / operativi della società.
c
. In data 24.5.2012 il procuratore pubblico ha promosso l’accusa – davanti alla competente Corte delle assise criminali di _ – nei confronti di PI 3, di PI 1, di PI 2 e di RE 1 (ACC _).
Il dibattimento a loro carico avrà luogo nelle prossime settimane.
d
. Con gravami 16/17.4.2012 (inc. _) e 19/20.4.2012 (inc. _) PI 3 e RE 1 hanno postulato che fosse annullata la pronuncia 4.4.2012 di disgiunzione. Hanno sostenuto, in particolare, che la decisione di disgiunzione avrebbe comportato una violazione del principio dell’unità della procedura, previsto dall’art. 29 CPP, e che, se un imputato non ha potuto sufficientemente esprimersi nel corso del procedimento penale, la conseguenza non sarebbe stata la disgiunzione del procedimento penale secondo l’art. 30 CPP, ma la sospensione del medesimo in applicazione dell’art. 314 CPP.
e
. Con sentenza 28.8.2012 questa Corte ha accolto le impugnative.
Ha ritenuto, riconosciuta la legittimazione dei reclamanti ad aggravarsi contro la decisione, che – posto come PI 68 si fosse reso latitante fin dall’inizio del procedimento penale – non era stato possibile condurre a suo carico la procedura preliminare giusta gli art. 299 ss. CPP: non poteva quindi essere deferito davanti ad una Corte di merito. Ha aggiunto che la conseguenza del fatto che PI 68 non fosse mai stato interrogato non era tuttavia la disgiunzione del procedimento penale, ma la sua sospensione in applicazione dell’art. 314 cpv. 1 lit. a CPP. La decisione doveva pertanto essere annullata perché prolata in violazione degli art. 30 e 314 cpv. 1 lit. a CPP, ossia siccome errata dal profilo giuridico. Il magistrato inquirente avrebbe dovuto – anzitutto – procedere con un mandato di ricerca, per l’_, secondo l’art. 210 cpv. 1 CPP (art. 314 cpv. 3 CPP) e, poi, avrebbe potuto sospendere il procedimento penale nei confronti di PI 68 (inc. _).
f
. Il 6.9.2012 il procuratore pubblico ha emanato una richiesta di ricerca internazionale del luogo di dimora di PI 68 – in tutto il territorio _ – con scadenza 10.8.2013.
g
. Il medesimo giorno, 6.9.2012, il magistrato inquirente ha disposto la sospensione del procedimento a carico del predetto.
Ha sottolineato che PI 68 non era mai stato interrogato sui fatti oggetto del procedimento penale. Ha ricordato che, nonostante l’ordine di arresto internazionale, spiccato nel corso del 2004, e gli accertamenti eseguiti per il tramite della polizia cantonale, dell’ottobre 2011, non era stato possibile arrestarlo rispettivamente risalire al luogo del suo soggiorno. Da qui, dunque, la decisione di sospensione del procedimento penale.
h
. Con scritto 17.9.2012 il procuratore pubblico ha comunicato a questa Corte, e a tutte le parti del procedimento, che il Comando della polizia cantonale l’aveva informato che la pubblicazione del mandato di ricerca non poteva essere effettuata stante l’ordine di arresto internazionale. Secondo l’art. 41 dell’ordinanza N-SIS (ordinanza sulla parte nazionale del Sistema d’informazione di Schengen e sull’ufficio SIRENE) una persona non poteva infatti essere oggetto di più di una segnalazione in uscita nel SIS.
i
. Con impugnative 19/20.9.2012 di RE 1 e 20/21.9.2012 di PI 3, i reclamanti postulano l’annullamento della decisione di sospensione del procedimento penale nei confronti di PI 68, emanata il 6.9.2012.
RE 1 sostiene che, se si ricerca una persona con mandato internazionale, non si potrebbe simultaneamente affermare che essa sia comunque irreperibile. Lo scopo dell’art. 314 cpv. 3 CPP sarebbe quello di garantire quanto più possibile il principio dell’unità della procedura sancito dall’art. 29 CPP: prima di sospenderla a carico di un imputato con luogo di soggiorno ignoto, bisognerebbe perlomeno ricercarlo. L’esito della ricerca direbbe se l’imputato è irreperibile e quindi se va sospeso il procedimento. In concreto si sarebbe dovuto ricercare PI 68 e poi, se del caso, sospendere il procedimento. Il mandato di ricerca internazionale e la decisione di sospensione sarebbero stati emanati lo stesso giorno. L’esito del mandato di ricerca sembrerebbe del tutto irrilevante per il magistrato inquirente, che – a priori – avrebbe deciso di sospendere il procedimento. Sarebbe il risultato della ricerca, non il semplice fatto di avere spiccato un mandato, che determinerebbe l’irreperibilità.
PI 3, che sarebbe legittimato a reclamare, afferma – ricordato l’art. 314 cpv. 1 lit. a CPP – che il procuratore pubblico avrebbe emanato la decisione di sospensione del procedimento il medesimo giorno in cui avrebbe spiccato la richiesta di ricerca internazionale, senza dunque attenderne gli esiti. Si chiede perché, stante l’art. 41 cpv. 1 dell’ordinanza N-SIS, il magistrato inquirente non abbia revocato l’ordine di arresto internazionale, che – essendo l’imputato cittadino _ e quindi non estradabile dall’_ – non sarebbe stato eseguibile. La richiesta di ricerca internazionale sarebbe doppiamente efficace, perché permetterebbe di conoscere la dimora di PI 68 e di sentirlo, per poi procedere al processo in via contumaciale.
Delle ulteriori argomentazioni e delle repliche, così come delle osservazioni e delle dupliche del procuratore pubblico, si dirà se necessario al fine del giudizio in seguito in corso di motivazione. | in diritto
1
. Il 24.9.2012 il presidente della Corte dei reclami penali ha respinto la domanda di effetto sospensivo inoltrata da PI 3 in difetto di un danno irreparabile e di proporzionalità.
2
. 2.1.
Giusta l’art. 393 cpv. 1 lit. a CPP il reclamo può essere interposto, entro il termine di dieci giorni, contro le decisioni e gli atti procedurali della polizia, del pubblico ministero (decisione di sospensione del procedimento, impugnabile – per il rinvio ex art. 314 cpv. 5 CPP – secondo l’art. 322 cpv. 2 CPP) e delle autorità penali delle contravvenzioni, eccettuati i casi in cui è espressamente escluso dal CPP o quando è prevista un’altra impugnativa.
Con il gravame, da introdurre davanti alla giurisdizione di reclamo (art. 20 cpv. 1 lit. b CPP), ovvero – in Ticino – alla Corte dei reclami penali (art. 62 cpv. 2 LOG), si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l’eccesso e l’abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l’accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l’inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta ed all’art. 385 CPP per la motivazione.
Esso deve indicare – in particolare – i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
2.2.
I gravami, inoltrati il 19/20.9.2012 ed il 20/21.9.2012 contro la decisione 6.9.2012 del procuratore pubblico con cui ha decretato la sospensione del procedimento a carico di PI 68, sono tempestivi (siccome presentati nel termine di dieci giorni ex art. 396 cpv. 1 CPP) e proponibili (N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 314 CPP n. 12; BSK StPO – E. OMLIN, art. 314 CPP n. 44; ZK StPO – N. LANDSHUT, art. 314 CPP n. 23).
Le esigenze di forma e motivazione dei reclami sono rispettate.
3
. 3.1.
Si tratta anzitutto di esaminare se i reclamanti, imputati nel procedimento penale inc. MP _, deferiti davanti alla Corte di merito, siano legittimati a contestare la decisione con cui il procuratore pubblico ha sospeso il procedimento penale a carico di PI 68, coimputato nello stesso procedimento.
3.2.
Giusta l’art. 322 cpv. 2 CPP (disposizione applicabile alla procedura di sospensione del procedimento in ragione del rinvio di cui all’art. 314 cpv. 5 CPP) legittimate ad impugnare la decisione di sospensione sono le parti. Il presupposto della legittimazione è concretizzato dall’art. 382 cpv. 1 CPP:
sono legittimate a ricorrere contro una decisione le parti che hanno un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica della stessa
.
L’
interesse giuridicamente protetto
implica che il ricorrente sia personalmente, direttamente e – di principio – attualmente leso dalla decisione che impugna (N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 382 CPP n. 2); talvolta è sufficiente un interesse solo virtuale (Commentario CPP – M. MINI, art. 382 CPP n. 5).
Una parte ha un
interesse
giuridicamente protetto
giusta l’art. 382 cpv. 1 CPP (il cosiddetto
Beschwer
) qualora sia direttamente toccata dalla decisione nei suoi diritti (ZK StPO – V. LIEBER, art. 382 CPP n. 7). La lesione diretta si deduce dal dispositivo (art. 81 cpv. 1 lit. c CPP) della decisione impugnata, non dalla sua motivazione. Sussiste dunque un tale interesse nella misura in cui il dispositivo contenga disposizioni che aggravano la parte (ZK StPO – V. LIEBER, art. 382 CPP n. 8). E’ peraltro soltanto il dispositivo che acquista forza di cosa giudicata, non la motivazione (decisione TF 6B_114/2011 del 30.6.2011 consid. 2.3.).
Quanto alla nozione di
parti
, si fa riferimento agli art. 104 e 105 CPP, che includono l’imputato (art. 104 cpv. 1 lit. a CPP).
Un imputato non ha un interesse giuridicamente protetto ad impugnare una decisione su un coimputato o un atto a favore di una parte che non tocchi gli interessi delle altre (N. SCHMID, Handbuch des schweizerischen Strafprozessrechts, n. 1461).
3.3.
I reclamanti sono imputati nel procedimento inc. MP _ e quindi parti del medesimo. Il fatto di essere parti non è sufficiente, di per sé, per fondare la loro legittimazione ai gravami: è necessario, come anticipato, un interesse
giuridicamente protetto.
Essi si aggravano contro la decisione concernente la sospensione del procedimento penale nei confronti del coimputato PI 68 [al quale la pronuncia è stata notificata in applicazione dell’art. 88 cpv. 4 CPP (
BSK StPO – E. OMLIN, art. 314 CPP n. 43)]
. Sono pertanto legittimati a impugnare la decisione 6.9.2012 solo nella misura in cui li tocchi nei loro interessi.
Sostengono che la decisione di sospensione comporterebbe una violazione del principio dell’unità della procedura ex art. 29 CPP.
3.4.
Questa Corte – nel giudizio 28.8.2012 (inc. _) – aveva riconosciuto la legittimazione dei qui reclamanti ad impugnare la decisione di disgiunzione del procedimento penale a carico di PI 68. Aveva ritenuto che: “
Il procedimento penale contro i responsabili formali / operativi della PI 9 è stato promosso nel corso del 2004. Esso concerne, tra gli altri, i qui reclamanti nella veste di imputati. Il medesimo procedimento riguarda anche PI 68. I fatti per i quali tutti loro sono indagati attengono alla gestione della PI 9, ora in liquidazione, nel periodo 1999 – 2004. La fattispecie imputata loro è dunque essenzialmente la stessa. La portata delle loro funzioni all’interno della società e le singole responsabilità devono ancora essere definitivamente stabilite, anche se il ruolo avuto da PI 68, mai interrogato, sembrerebbe essere stato quello di una figura dominante. Il Tribunale federale – (...) – ha ritenuto che qualora i reati commessi da più agenti siano strettamente connessi sotto il profilo dei fatti, come senza dubbio è il caso in concreto, la disgiunzione non deve essere ammessa facilmente, in particolare quando, in caso di partecipazione, la portata e le circostanze di quest’ultima siano reciprocamente contestate e sussista il rischio che uno dei partecipanti intenda attribuire la colpa agli altri (DTF 116 Ia 305 consid.
4b.). Si tratta invero di un diritto costituzionale: “(...) unter Umständen verfassungsrechtlich geboten sein kann, (...)”
(DTF 134 IV 328 consid. 3.3.) congiungere o non disgiungere i procedimenti se sono date le citate condizioni. Ora, stante la fattispecie sfociata nel procedimento inc. MP _, concernente un medesimo complesso di fatti e riguardante un numero importante di persone implicate, i cui ruoli e le cui responsabilità non sono ancora stati fissati in via definitiva, con possibile rischio che un imputato tenti di far rimbalzare su un altro le sue eventuali colpe, si giustifica di riconoscere ai reclamanti, in ragione della giurisprudenza appena citata, la legittimazione ad invocare un grave pregiudizio dato dalla decisione di disgiunzione: essi hanno infatti un interesse giuridicamente protetto che venga esaminato nel merito se, in concreto, l’atto impugnato sia lesivo del principio dell’unità della procedura. Il fatto che essi siano legittimati giusta l’art. 382 cpv. 1 CPP non implica nondimeno che i reclami – ricevibili – siano fondati nel merito. (...)
” (consid. 3.4.3.2., p. 6 s.).
Le stesse considerazioni valgono nel caso di specie: la decisione di sospensione, nei suoi effetti, disgiunge di fatto il procedimento inc. MP _: RE 1 e PI 3 hanno perciò anche in relazione alla pronuncia 6.9.2012 un interesse giuridicamente protetto che venga vagliato nel merito se l’atto impugnato lede il principio dell’unità della procedura.
4
. 4.1.
4.1.1.
A’ sensi dell’art. 314 cpv. 1 CPP il pubblico ministero può sospendere l’istruzione in particolare se: l’autore o il suo luogo di soggiorno non è noto oppure sono temporaneamente dati altri impedimenti a procedere (lit. a);
l’esito del procedimento penale dipende da un altro procedimento di cui appare opportuno atten
dere l’esito (lit. b); è in corso una procedura di conciliazione e appare opportuno attenderne l’esito (lit. c); una decisione di merito dipende dall’evolversi delle conseguenze del reato (lit. d).
Prima della sospensione, il pubblico ministero raccoglie le prove che rischiano di andare perdute. Spicca un mandato di ricerca se l’autore oppure il suo luogo di soggiorno non è noto (cpv. 3).
Il pubblico ministero riattiva d’ufficio l’istruzione se è venuto meno il motivo che ne ha provocato la sospensione (art. 315 cpv. 1 CPP). La riattivazione non è impugnabile (art. 315 cpv. 2 CPP).
4.1.2.
L’applicazione dell’art. 314 CPP presuppone la constatazione che il procedimento non possa per il momento essere portato avanti o concluso giusta gli art. 317 ss. CPP, ad es. perché il luogo di soggiorno dell’imputato è ignoto (messaggio 21.12.2005 concernente l’unificazione del diritto processuale penale, p. 1169; BSK StPO – E. OMLIN, art. 314 CPP n. 5; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 314 CPP n. 1; N. SCHMID, Handbuch des schweizerischen Strafprozessrechts, n. 1236).
I motivi di sospensione sono indicati, non esaustivamente (decisione TF 1B_67/2012 del 29.5.2012 consid. 3.1.; BSK StPO – E. OMLIN, art. 314 CPP n. 11; ZK StPO – N. LANDSHUT, art. 314 CPP n. 5; di altra opinione, N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 314 CPP n. 4), all’art. 314 cpv. 1 CPP, disposizione potestativa (decisione TF 1B_67/2012 del 29.5.2012 consid. 3.1.).
Il pubblico ministero ha un certo potere di apprezzamento nell’applicazione della norma, che gli permette per es. di decidere se sospendere il procedimento o emanare un decreto di non luogo a procedere (decisione TF 1B_67/2012 del 29.5.2012 consid. 3.1.). La possibilità della sospensione – che non ha forza materiale di cosa giudicata (BSK StPO – E. OMLIN, art. 314 CPP n. 10; ZK StPO – N. LANDSHUT, art. 314 CPP n. 1; N. SCHMID, Handbuch des schweizerischen Strafprozessrechts, n. 1239) – deve nondimeno essere utilizzata con misura, in considerazione dell’imperativo di celerità a’ sensi dell’art. 5 cpv. 1 CPP, secondo cui le autorità penali avviano senza indugio i procedimenti penali e li portano a termine senza ritardi ingiustificati (N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 314 CPP n. 1; BSK StPO – E. OMLIN, art. 314 CPP n. 9; ZK StPO – N. LANDSHUT, art. 314 CPP n. 4; decisione TF 1B_721/2011 del 7.3.2012 consid. 3.2.; decisione TF 1B_57/2009 del 16.6.2009 consid. 2.1.1.).
Qualora il luogo di soggiorno dell’imputato non è noto, il pubblico ministero sospende il procedimento (art. 314 cpv. 1 lit. a CPP).
Non è infatti possibile, secondo il CPP, condurre una procedura preliminare a’ sensi degli art. 299 ss. CPP contro un imputato di ignota dimora (BSK StPO – E. OMLIN, art. 314 CPP n. 13; ZK StPO – N. LANDSHUT, art. 314 CPP n. 7; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 314 CPP n. 4 / art. 366 CPP n. 10).
Ex art. 314 cpv. 3 CPP è obbligatorio, in caso di sospensione perché la persona è di ignota dimora, un “
mandato di ricerca
” o un
“mandato di cattura”
secondo l’art. 210 CPP (BSK StPO – E. OMLIN, art. 314 CPP n. 25; ZK StPO – N. LANDSHUT, art. 314 CPP n. 7; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 314 CPP n. 4; N. SCHMID, Handbuch des schweizerischen Strafprozessrechts, n. 1238; Commentario CPP – J. NOSEDA, art. 314 CPP n. 4).
4.2.
Nel giudizio 28.8.2012, sopra ricordato, questa Corte ha ritenuto che la conseguenza del fatto che PI 68 non fosse mai stato interrogato non era la disgiunzione del procedimento penale, come aveva reputato il procuratore pubblico prolando la decisione 4.4.2012, ma la sua sospensione in applicazione dell’art. 314 cpv. 1 lit. a CPP. Il magistrato inquirente doveva – anzitutto – procedere con un mandato di ricerca, per l’_, in applicazione dell’art. 210 cpv. 1 CPP (art. 314 cpv. 3 CPP); poteva, poi, se del caso, sospendere il procedimento penale.
4.3.
Il procuratore pubblico, il 6.9.2012, ha emanato una richiesta di ricerca internazionale del luogo di dimora dell’imputato, in _.
Il medesimo giorno ha sospeso, giusta l’art. 314 cpv. 1 lit. a CPP, il procedimento promosso a carico di PI 68. Il magistrato inquirente, rammentata l’apertura del procedimento nei confronti dei responsabili formali ed operativi della PI 9 per il dissesto finanziario della società, ha rilevato che l’imputato non era mai stato interrogato sui fatti oggetto del procedimento penale. Ha ricordato che, malgrado l’ordine di arresto internazionale, spiccato nel 2004, e gli accertamenti eseguiti per il tramite della polizia cantonale, dell’ottobre 2011, non era stato possibile arrestarlo e risalire al luogo del suo soggiorno.
4.4.
4.4.1.
La pronuncia 6.9.2012 del procuratore pubblico in capo alla sospensione del procedimento penale [sufficientemente motivata giusta gli art. 80 cpv. 2 prima frase CPP e 29 cpv. 2 Cost. siccome si esprime quanto basta, in maniera comprensibile, sulle ragioni a fondamento di questa scelta procedurale (cfr., sulla motivazione di un decreto di sospensione: BSK StPO – E. OMLIN, art. 314 CPP n. 29; ZK StPO – N. LANDSHUT, art. 314 CPP n. 20)] è stata prolata, come appena detto più sopra, lo stesso giorno in cui il magistrato inquirente ha disposto una richiesta di ricerca internazionale del luogo di dimora di PI 68.
Il procuratore pubblico ha quindi proceduto simultaneamente al mandato di ricerca ed alla sospensione del procedimento penale.
L’art. 314 cpv. 3 CPP prevede nondimeno che, prima di sospendere il procedimento, il pubblico ministero spicchi un mandato di ricerca se l’autore o il suo luogo di soggiorno non sono noti.
Questa Corte, nella sua pronuncia 28.8.2012, aveva peraltro indicato che “
La decisione 4.4.2012 del procuratore pubblico deve pertanto essere annullata perché prolata in violazione degli art. 30 e 314 cpv. 1 lit. a CPP, ossia siccome errata dal profilo giuridico. Il magistrato inquirente dovrà – anzitutto – procedere con un mandato di ricerca, per l’Italia, in applicazione dell’art. 210 cpv. 1 CPP. Potrà, poi, sospendere il procedimento verso PI 68
”
(consid. 4.3.2., p. 10, inc. _).
I due atti – mandato di ricerca e sospensione del procedimento penale – non dovrebbero essere effettuati contemporaneamente: prima si deve ricercare (durante un lasso di tempo ragionevole a dipendenza della fattispecie concreta) il luogo di soggiorno dell’autore e, solo successivamente, una volta determinato che detto luogo è (ancora) ignoto, si può procedere – se del caso – alla sospensione del procedimento penale.
4.4.2.
Nel caso concreto si può ritenere che, sebbene il mandato di ricerca disposto il 6.9.2012 dal magistrato inquirente non potesse fatalmente essere eseguito entro il medesimo giorno, il luogo di soggiorno di PI 68 fosse, a quel momento, stato ricercato senza successo, e fosse pertanto ignoto, come risulta dal rapporto di esecuzione 31.10.2011 della polizia cantonale (AI 2458).
4.4.3.
Certo, gli accertamenti sfociati nel menzionato rapporto di esecuzione 31.10.2011 della polizia cantonale potevano essere approfonditi, ciò che doveva avvenire nel contesto del mandato di ricerca ex art. 314 cpv. 3 CPP, ricordato da questa Corte nella sua sentenza 28.8.2012 (consid. 4.3.2.).
La Corte dei reclami penali ha fatto chiaro riferimento al mandato di ricerca, a prescindere dal fatto che la legge stessa lo prevedesse prima di procedere alla sospensione del procedimento (art. 314 cpv. 3 CPP), perché atto manifestamente idoneo al caso, in alternativa all’ordine di arresto del 10.8.2004 nei confronti di PI 68. Lo stesso è stato “
(...) dato per esecuzione al Comando della polizia cantonale per la diffusione nazionale ed internazionale (zone 2 (eccetto _), 3, 4, 5, 6 e 8) (...)
” (AI 72), di modo che per un cittadino _ soggiornante in _, come è il caso di PI 68, tale ordine è – del tutto – inefficace per reperirlo.
Certo, nel caso in cui lo stesso si recasse in altro paese e fosse arrestato, consentirebbe la sua estradizione.
La soluzione del mandato di ricerca era, ed è ancora oggi, oltre che disciplinata dalla legge stessa, una valida alternativa all’ordine di arresto.
4.5.
Il principio di celerità a’ sensi dell’art. 5 cpv. 1 CPP (secondo cui le autorità penali avviano senza indugio i procedimenti penali e li portano a termine senza ritardi ingiustificati) impone del resto di confermare la pronuncia del procuratore pubblico per non procrastinare oltre il procedimento penale a carico proprio dei qui reclamanti nel caso in cui si attendesse l’esito della ricerca.
In queste circostanze, il principio dell’unità della procedura di cui all’art. 29 cpv. 1 CPP (secondo cui più reati sono perseguiti e giudicati congiuntamente se: a. sono stati commessi da uno stesso imputato; oppure b. vi è correità o partecipazione) non è perciò leso dalla decisione 6.9.2012 del procuratore pubblico.
5
. I gravami sono respinti. Tassa di giustizia e spese sono poste a carico dei reclamanti, soccombenti (art. 428 CPP). | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
dc0dc668-51f5-596e-8760-ff275571e11e | in fatto
a
.
Nel corso di precedenti inchieste in materia di stupefacenti, alcune persone hanno riferito di aver acquistato cocaina dal qui reclamante.
Il Ministero pubblico ha conseguentemente aperto un procedimento penale a suo carico (inc. MP _), ha chiesto ed ottenuto delle sorveglianze telefoniche, ha in seguito (con l’ausilio della polizia) interrogato diverse persone che hanno ammesso degli acquisti di cocaina dal reclamante.
Non essendo stato possibile rintracciare il reclamante, il procuratore pubblico ha emesso in data 18.1.2011 un mandato di cattura nei suoi confronti.
b
. In data 27.6.2012 il reclamante è stato fermato dalle guardie di confine in territorio di _.
Il giorno successivo è stato interrogato dal procuratore pubblico, alla presenza del suo difensore d’ufficio, e gli sono state contestate le versioni fornite dalle diverse persone a suo tempo sentite dalla polizia.
Il reclamante ha ammesso (verbale 28.6.2012 p. 7 a 9) la vendita di quantitativi di cocaina, estremamente inferiori rispetto a quelli indicati dalle persone ascoltate dalla polizia.
c
. In data 29.6.2012 il reclamante è comparso in udienza avanti al giudice dei provvedimenti coercitivi, che ha ordinato la sua carcerazione preventiva per un periodo di poco meno di due mesi (fino al 24.8.2012).
Il magistrato ha ammesso l’esistenza di gravi e concreti indizi di reato a carico del reclamante in relazione alle sue parziali ammissioni e alle chiamate in causa proferite da 14 persone nei suoi confronti quale venditore di cocaina, per differenti quantitativi di stupefacente.
Il giudice dei provvedimenti coercitivi ha pure ammesso l’esistenza di preminenti motivi di interesse pubblico: un pericolo di collusione, al fine di evitare che il reclamante contatti gli acquirenti noti ed eventuali altri ancora da identificare, per concordare versioni di comodo; un pericolo di fuga, in quanto il reclamante è cittadino straniero, con permesso di soggiorno in altro stato europeo, senza legami con il territorio elvetico. Il magistrato ha ritenuto che non vi fosse la possibilità di adottare delle misure sostitutive alla carcerazione, ed ha giudicato proporzionato il periodo di detenzione richiesto di due mesi.
d
. Con ricorso (recte: reclamo) del 5/6.7.2012, RE 1 chiede di accogliere il proprio gravame, di essere conseguentemente messo in libertà, protestando spese e ripetibili.
Data l’esistenza di verbali di 14 persone che chiamano in causa il reclamante, questi non contesta l’esistenza di gravi e concreti indizi di reato a suo carico.
Sottolinea come i fatti risalirebbero al periodo 2008-2010: considerato come le 14 persone sentite sarebbero state nel frattempo condannate, non sussisterebbe più un pericolo di collusione e di inquinamento delle prove.
Inoltre le altre eventuali prove necessarie dovrebbero essere già state assunte (visto il tempo trascorso), di modo che il reclamante chiede di essere posto in libertà, non potendo la carcerazione preventiva essere ordinata unicamente allo scopo di ottenere la confessione dell’imputato.
Il reclamante ritiene poi che le dichiarazioni proferite da una persona, 22 mesi orsono, che farebbero stato di un suo coinvolgimento ben maggiore in fatti di droga, non sarebbero attendibili e non sarebbero state in ogni caso adeguatamente approfondite dall’accusa.
Per il pericolo di fuga, il reclamante precisa di abitare in _, paese dal quale, in caso di sua fuga, la Svizzera potrebbe ottenere facilmente l’estradizione. La fuga sarebbe inoltre concretamente da escludere anche in ragione dei quantitativi contenuti di stupefacente in discussione.
Escluso è pure un pericolo di reiterazione. Con riferimento alla proporzionalità, richiamata una sentenza recente, il reclamante, incensurato, ritiene che per lo spaccio di 250 grammi non rischi una pena da scontare, di modo che l’attuale detenzione preventiva è sproporzionata ed assurge ad esecuzione anticipata della pena.
e
. Nelle proprie osservazioni 9.7.2012, il procuratore pubblico evidenzia che, in ragione del tempo trascorso tra i fatti e l’arresto, occorre del tempo per organizzare e procedere ai confronti necessari per chiarire la posizione del reclamante.
Per abbreviare i tempi, si renderebbe necessaria la continuazione della detenzione del reclamante, essendo peraltro pacifico il pericolo di fuga nel suo caso. In conclusione il procuratore pubblico chiede la conferma della decisione del giudice dei provvedimenti coercitivi.
f
. Con scritto 9/10.7.2012, il giudice dei provvedimenti coercitivi ha rinviato al testo della propria decisione e si è rimesso al giudizio di questa Corte.
g
. In replica, il reclamante non comprende quali sarebbero i rischi per l’inchiesta in caso di sua scarcerazione, visto il tempo trascorso dalla verbalizzazione delle persone che lo chiamano in causa. La necessità dei confronti non comporta quella della sua carcerazione preventiva. Non essendo più stati condotti atti d’inchiesta dal gennaio 2011, il reclamante ritiene abusivo trattenerlo in carcere in attesa che, dopo 18 mesi, si trovino maggiori prove contro di lui.
h
. In duplica, il procuratore pubblico ricorda come il reclamante si fosse reso irreperibile, ciò che rende necessario effettuare ora i confronti. Il palese pericolo di fuga sarebbe tale da giustificare la carcerazione del reclamante fino al dibattimento. Dei confronti sono già in corso, ed una volta esperiti anche gli altri, il procuratore pubblico assicura che procederà senza indugio ad emettere l’atto d’accusa.
i
. Il giudice dei provvedimenti coercitivi ha comunicato di rinunciare a formulare osservazioni di duplica. | in diritto
1
. 1.1.
La possibilità per il carcerato di impugnare la decisione che ordina la carcerazione presso la giurisdizione di reclamo è prevista dall’art. 222 CPP.
Il reclamo deve essere presentato entro dieci giorni (art. 396 cpv. 1 CPP) per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta e all’art. 385 CPP per la motivazione.
Il reclamo deve indicare i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP)
.
1.2.
Il gravame, inoltrato contro la decisione 29.6.2012 del giudice dei provvedimenti coercitivi e pervenuto il 6.7.2012 alla Corte dei reclami penali, competente ex art. 62 cpv. 2 LOG, è tempestivo.
Le esigenze di forma e di motivazione sono rispettate
.
RE 1, quale destinatario del provvedimento coercitivo, è pacificamente legittimato a reclamare ex art. 382 cpv. 1 CPP avendo un interesse giuridicamente protetto all’annul-lamento o alla modifica del giudizio
.
Il reclamo
è – di conseguenza – ricevibile in ordine
.
2
. 2.1.
Secondo l’art. 221 cpv. 1 CPP, la carcerazione preventiva o di sicurezza è ammissibile anzitutto quando l’imputato è gravemente indiziato di un crimine o di un delitto. Inoltre, si deve seriamente temere che l’imputato: (lit. a) si sottragga con la fuga al procedimento penale o alla prevedibile sanzione; (lit. b) influenzi persone o inquini mezzi di prova, compromettendo in tal modo l’accertamento della verità; o (lit. c) minacci seriamente la sicurezza altrui commettendo gravi crimini o delitti, dopo aver già commesso in precedenza reati analoghi.
Secondo l’art. 221 cpv. 2 CPP la carcerazione è pure ammissibile se vi è seriamente da temere che, chi ha proferito la minaccia di commettere un grave crimine, lo compia effettivamente.
2.2.
Il diritto fondamentale alla libertà personale può soffrire eccezione per quanto sopra riassunto, e cioè quando la sua cautelare privazione si fonda su una base legale chiara, è presa per ragioni di preminente interesse pubblico ed è rispettosa di proporzionalità.
2.3.
Va ancora ed in particolare ribadito che, per quanto riguarda l’esistenza di gravi indizi di commissione di un reato, non spetta alla Corte dei reclami penali esprimersi in termini definitivi, trattandosi di questione che rientra nella competenza del giudice di merito. Ciò significa che la Corte dei reclami penali deve sì effettuare un esame, ma non deve trattarsi di un’analisi troppo approfondita e tale da pregiudicare le future valutazioni del giudice di merito.
3
. Nel presente caso, non sono contestati i seri e concreti indizi a carico dell’imputato: gli stessi peraltro risultano pacifici sia dalle parziali ammissioni, sia dalle versioni fornite da 14 persone, che gli sono state contestate in occasione dell’interrogatorio del 28.6.2012 da parte del procuratore pubblico.
4
. Nel presente caso, contestati sono il pericolo di collusione, il pericolo di fuga e la proporzionalità della carcerazione preventiva ordinata.
5
. 5.1.
I pericoli di collusione e di inquinamento dei mezzi di prova sono precisati all’art. 221 cpv. 1 lit. b CPP nei seguenti termini: “
... vi è seriamente da temere che: ... b. influenzi persone e inquini mezzi di prova, compromettendo in tal modo l’accertamento della verità
”.
Come già precisato dalla giurisprudenza precedente l’entrata in vigore del CPP, detti pericoli sono dati quando è necessario evitare che l’accusato possa abusare della sua libertà per inquinare prove a suo carico o crearne illecitamente a suo scarico.
Tali pericoli sono particolarmente riscontrabili nelle prime fasi dell’inchiesta predibattimentale. Da un lato si tratta generalmente di evitare o prevenire accordi tra l'imputato e i testimoni
–
già sentiti o ancora da sentire
–
o i correi e i complici non arrestati, messi in atto per nascondere al giudice la verità, dall'altro lato di impedire interventi fraudolenti del prevenuto in libertà sui mezzi di prova non ancora in possesso della giustizia, allo scopo di distruggerli o di alterarli a suo vantaggio. La possibilità di ostacolare in tal modo l'azione dell'autorità giudiziaria da parte dell’imputato deve essere valutata sulla base di elementi concreti, la realtà di questo rischio non potendo essere ammessa aprioristicamente e in maniera astratta (Commentario CPP
–
E. MELI, art. 221 CPP n. 9 e 10).
5.2.
È nella natura dell’inchiesta in materia di stupefacenti la necessità di identificare degli acquirenti e stabilire gli importi ceduti, nonché la necessità di identificare anche i fornitori della sostanza.
Nel caso concreto, confrontato con le versioni fornite da un certo numero di acquirenti, il reclamante ha fatto delle ammissioni: le stesse divergono però, in modo importante, per quanto riguarda le quantità trattate con i diversi acquirenti.
Ciò richiede ovviamente degli approfondimenti dell’inchiesta, in particolare organizzando dei confronti, ciò che fonda i bisogni d’inchiesta.
L’esistenza di importanti divergenze sui quantitativi rende concreto anche il rischio di collusione: occorre evitare che il reclamante, se posto in libertà, possa contattare le persone che lo coinvolgono, prima dei confronti, per concordare versioni di comodo. Visti l’importanza delle divergenze e del numero di persone coinvolte, il rischio di collusione appare certamente dato.
6
.
6.1.
Il pericolo di fuga è connesso con uno degli scopi principali della carcerazione preventiva, quello di assicurare la presenza dell’imputato, per impedirgli di sottrarsi al procedimento o all’esecuzione della pena che potrà essergli inflitta.
L’art. 221 cpv. 1 lit. a CPP ritiene realizzato detto pericolo se “
vi sia seriamente da temere che: a. si sottragga con la fuga al procedimento penale o alla prevedibile sanzione
”. Anche in questo caso il CPP ha recepito quanto precedentemente sviluppato dalla giurisprudenza (Commentario CPP
–
E. MELI, art. 221 CPP n. 7 e 8).
In base agli elementi del caso concreto occorre stabilire se l’accusato detenuto non ha evidentemente alcun interesse a rimanere a disposizione delle autorità, nella prospettiva – in caso di condanna – di una sanzione penale eventualmente da scontare. In altri termini, occorre verificare se la tentazione di riparare all’estero per sottrarsi al procedimento o all’esecuzione della pena è quindi sorretta da sufficiente verosimiglianza ed il rischio di fuga – che non esiste solo astrattamente, bensì appare probabile in modo concreto – non può neppure essere evitato con misure meno incisive.
6.2.
Nel presente caso, il reclamante è straniero, e risiede con la famiglia in altro Stato estero. Non ha agganci con il territorio svizzero, ed era finora irreperibile.
Non ha evidentemente alcun interesse a rimanere a disposizione delle autorità elvetiche. La tentazione di riparare all’estero per sottrarsi al procedimento o all’esecuzione della pena è quindi sorretta da sufficiente verosimiglianza e il rischio di fuga – che non esiste solo astrattamente, bensì appare probabile in modo concreto – non può neppure essere evitato con misure meno incisive, ritenuta l’assenza totale di legami con il territorio elvetico.
7
. 7.1.
Nell’ottica del principio della proporzionalità, in relazione alla durata della carcerazione preventiva, il Tribunale federale ha stabilito un limite massimo, ritenendo eccessiva ogni carcerazione preventiva la cui durata complessiva superi quella della pena privativa della libertà che presumibilmente potrebbe essere inflitta dal giudice di merito (DTF 116 Ia 147 consid. 5a, 113 Ia 185, 107 Ia 257 consid. 2 e 3, 105 Ia 32 consid. 4b; REP. 1980, p. 46 consid. 3b).
Il nuovo CPP ha recepito tale giurisprudenza all’art. 212 cpv. 3, stabilendo che : “
La durata della carcerazione preventiva o di sicurezza non può superare quella della pena detentiva presumibile
”.
7.2.
Il protrarsi del carcere preventivo deve ossequiare anche l’imperativo di celerità (art. 5 CPP): il cpv. 2 della norma impone che “
se l’imputato è in stato di carcerazione, il procedimento a suo carico ha priorità”.
Concretamente l’autorità deve dar prova di particolare diligenza nel condurre rapidamente e senza interruzione l’inchiesta, ciò che si valuta con riferimento alle circostanze concrete, in particolare, alla vastità e alla complessità dell’inchiesta, al comportamento dell’autorità penale e, a certe condizioni, al comportamento del carcerato.
7.3.
Sempre nell’ottica del principio della proporzionalità, ed in particolare del suo corollario della sussidiarietà, occorre chiedersi se eventuali misure sostitutive alla carcerazione preventiva (quali descritte agli art. 237 ss. CPP) consentano di raggiungere lo stesso obiettivo (art. 212 cpv. 2 lit. c CPP).
7.4.
Nel presente caso la durata della carcerazione è certamente inferiore alla possibile pena.
Per quanto attiene al principio di celerità, è pacifico che l’istruzione debba essere condotta con ritmo e che la posizione del reclamante vada chiarita in fretta.
In tal senso, dei confronti sono già in corso e dovrebbero continuare con buon ritmo.
Per quanto attiene al problema della sussidiarietà, quanto indicato ai punti precedenti (in relazione al pericolo di fuga e al pericolo di collusione) non consente di adottare, con l’efficacia richiesta, delle misure sostitutive.
7.5.
La possibilità che la pena inflitta dal giudice di merito possa essere sospesa condizionalmente non è influente riguardo alla carcerazione preventiva ed alla sua proporzionalità, come costantemente ricordato dal TF (decisioni 1B_641/2011 del 25.11.2011, 1B_599/2011 del 17.11.2011, 1B_422/2011 del 6.9.2011).
8
. Il reclamo è respinto. La tassa di giustizia e le spese seguono la soccombenza. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
dc27e037-a500-58f5-9dd8-813c4d921b72 | in fatto
a.
Con trentotto decreti d’accusa emanati tra il 28.1.2011 e il 1.6.2012, la Sezione della circolazione ha inflitto a RE 1 altrettante multe per importi variabili tra fr. 40.-- e fr. 120.--, oltre a tassa di giustizia e spese, per avere in altrettante occasioni, in diversi luoghi del Canton Ticino, posteggiato il veicolo _ omettendo di apporre il tagliando di parcheggio dietro il parabrezza in modo ben visibile (art. 3, 27 cpv. 1, 90 cifra 1 LCStr e art. 48 cpv. 7 OSStr), superato la durata di parcheggio autorizzata (art. 48 cpv. 8 OSStr), posteggiato il veicolo sulla superficie laterale contigua a un passaggio pedonale (art. 26 cpv. 2, 143 cifra 3 OAC, 18 cpv. 2 lit. e, 19 cpv. 2 lit a ONC), su un marciapiede senza lasciare un passaggio di almeno 1.5 metri per i pedoni (art. 41 cpv. 1
bis
ONC), fuori dai posti delimitati (art. 79 cpv. 1, 1
bis
, 1
ter
OSStr), davanti agli accessi di terreni altrui (art. 19 cpv. 2 lit. g ONC), per avere omesso di notificare, entro il termine prescritto, il cambiamento di domicilio (art. 25 LCStr, 48 cpv. 4 OSStr, 26 cpv. 2, 143 cifra 3 OAC), per avere circolato con lo stesso veicolo impiegando, durante la guida, un telefono senza dispositivo “mani libere” (art. 3 cpv. 1 ONC), per avere circolato con il veicolo _ ed in seguito con il veicolo _ superando da 1 a 5 km/h, nella località, il limite massimo di velocità di 50 km/h (art. 32 cpv. 2 LCStr, 4a cpv. 1 lit a, cpv. 5 ONC, 22 cpv. 1 OSS) [decreti d’accusa n.]. In tutti i decreti era precisato che in caso di mancato pagamento, la multa sarebbe stata sostituita con una pena detentiva di uno, rispettivamente due giorni, a seconda dell’ammontare della multa.
b.
Con quarantaquattro decisioni qui impugnate, tutte datate 9.8.2013, la Sezione della circolazione, Ufficio giuridico, richiamati i decreti d’accusa, constatato il mancato pagamento delle multe e lo stato di insolvenza di RE 1, ha ritenuto adempiuti i presupposti per procedere alla commutazione delle multe in pene detentive sostitutive. Ha quindi commutato le multe in complessivi cinquantuno giorni di pena detentiva, in applicazione degli art. 8 cpv. 1 e 2 della legge di procedura per le contravvenzioni (LPcontr), 106 cpv. 2-5 e 107 CP e 363 cpv. 2 CPP.
c.
Con il gravame 22/23.8.2013 RE 1 impugna le decisioni di commutazione delle multe in pene detentive sostitutive chiedendo il condono delle multe, osservando che le stesse sono sostanzialmente relative ad infrazioni di posteggio commesse durante i suoi primi mesi di lavoro quale aiuto domiciliare, quando non disponeva ancora del relativo documento da apporre sull’automezzo, e facendo notare che con le contravvenzioni in oggetto non ha
“mai messo in pericolo nessuno”
.
d.
Con scritto 2/3.9.2013 la Sezione della circolazione ha comunicato di non avere osservazioni in merito. | in diritto
1.
1.1.
Giusta l’art. 393 cpv. 1 lit. a CPP il reclamo può essere interposto contro le decisioni e gli atti procedurali della polizia, del pubblico ministero e delle autorità penali delle contravvenzioni, eccettuati i casi in cui è espressamente escluso dal CPP o quando è prevista un’altra impugnativa.
Con il gravame, da introdurre davanti alla giurisdizione di reclamo (art. 20 cpv. 1 lit. b CPP), ovvero – in Ticino – alla Corte dei reclami penali (art. 62 cpv. 3 LOG), si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l’eccesso e l’abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l’accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l’inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato, entro il termine di dieci giorni, per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta e all’art. 385 CPP per la motivazione. Il reclamo deve indicare i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
La prevalenza dei principi della verità materiale e della legalità impone alla giurisdizione di reclamo, investita di un gravame, di decidere indipendentemente dalle conclusioni o dalle motivazioni addotte dalle parti, applicando il diritto penale, che deve imporsi d’ufficio (Commentario CPP – M. MINI, art. 391 CPP n. 2; cfr., anche, decisione TF 1B_768/2012 del 15.1.2013 consid. 2.1.).
1.2.
Le decisioni impugnate sono state emanate dalla Sezione della circolazione, Ufficio giuridico, quale autorità penale delle contravvenzioni. Il gravame è quindi proponibile presso questa Corte. Le stesse, datate 9.8.2013, sono state intimate per lettera semplice, per cui non è possibile determinare con certezza il momento della consegna alla reclamante: la tempestività dell’impugnativa deve dunque essere ammessa in mancanza di prova contraria.
RE 1 è pacificamente legittimata a reclamare giusta l’art. 382 cpv. 1 CPP avendo un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica delle decisioni che hanno commutato le multe a suo carico in totali cinquantuno giorni di pena detentiva.
Le esigenze di forma e di motivazione sono rispettate. Il reclamo è, di conseguenza, ricevibile in ordine.
2.
Il gravame è interposto contro delle decisioni di commutazione di multe in pene detentive sostitutive.
La revisione della parte generale del Codice penale entrata in vigore il 1.1.2007 ha introdotto in particolare la commisurazione delle pene secondo il sistema delle aliquote giornaliere. In applicazione di tale sistema, di principio, la commutazione delle pene pecuniarie e delle multe in pene detentive sostitutive è stabilita a priori ed automaticamente dal giudice al momento della pronuncia della decisione di condanna. Se la pena pecuniaria non viene pagata nei termini stabiliti e se le condizioni poste dagli art. 35 ss. CP sono adempiute, la commutazione della pena pecuniaria in pena detentiva sostitutiva è decisa dall’autorità d’esecuzione, senza un’ulteriore decisione giudiziaria (
BSK Strafrecht I – A. DOLGE, 3. ed., art. 36 CP n. 8;
CR CP I
–
Y. JEANNERET,
art. 36 CP
n. 4;
Y.
JeannerEt
, Les peines selon le nouveau Code pénal, in: Partie générale du Code pénal, 2007, p. 35 ss., p. 49; sentenza CRP 60.2013.107 del 18.6.2013 consid. 1.7).
L’art. 36 cpv. 2 CP,
applicabile per analogia anche alle contravvenzioni in ambito di circolazione stradale in virtù dei rimandi di cui agli art. 101 cifra 1 LCStr e 106 cpv. 5 CP,
riserva tuttavia la competenza del giudice a statuire in merito alla commutazione di una pena pecuniaria (o di una multa) in una pena detentiva sostitutiva qualora la pena pecuniaria (o la multa) sia stata pronunciata da un’autorità amministrativa (Y.
JeannerEt
, op. cit., p. 49 ss., p. 64 ss.;
BSK Strafrecht I – A. DOLGE, 3. ed., art. 36 CP n. 9;
CR CP I
–
Y. JEANNERET,
art. 36 CP
n. 4;
DTF 135 IV 170, consid. 4.3
). Per questo motivo, la commutazione a priori ed automatica di pene pecuniarie (o multe) pronunciate da autorità amministrative è esclusa. Lo stesso regime era del resto istituito già dal previgente art. 49 vCP (in vigore sino al 31.12.2006) che attribuiva al giudice la competenza per la commutazione della multa non pagata in arresto (Y.
JeannerEt
, op. cit., p. 50).
Per la commutazione delle trentotto multe pronunciate dalla Sezione della circolazione, Ufficio giuridico, in pene detentive di sostituzione era quindi necessaria una nuova decisione giudiziaria. Non sarebbe stata possibile una commutazione a priori ed automatica eseguita da parte dell’autorità d’esecuzione.
Occorre quindi verificare se le decisioni qui impugnate costituiscano delle decisioni giudiziarie ai sensi di quanto precede.
3.
Va anzitutto accertata la competenza della Sezione della circolazione, Ufficio giuridico, a statuire in merito alla commutazione della multa in pena detentiva sostitutiva.
Secondo l’art. 8 cpv. 1 LPcontr la multa di cui non è possibile l’incasso è commutata in pena detentiva sostitutiva o in lavoro di pubblica utilità dall’autorità amministrativa che l’ha emanata (Messaggio sull’adeguamento della legislazione cantonale all’introduzione del Codice di diritto processuale penale svizzero, del 21.1.2009, n. 6165, p. 33).
La decisione di commutazione della pena è tipicamente una decisione indipendente e successiva, ai sensi degli art. 363 ss. CPP (Messaggio concernente l’unificazione del diritto processuale penale, del 21.12.2005 – nel seguito: Messaggio CPP –, FF 2006 p. 989 ss. p. 1200; Commentario CPP – J. NOSEDA, art. 363 n. 1; BSK StPO – M. HEER, art. 363 CPP n. 1 ; CR CPP – M. PERRIN, art. 363 n. 10).
L’art. 363 cpv. 2 CPP sancisce che
“il pubblico ministero o l’autorità penale delle contravvenzioni che hanno pronunciato rispettivamente in procedura di decreto d’accusa o in procedura di decreto penale emanano anche le decisioni successive”
. La formulazione in italiano di questo capoverso non è stata adeguata alle modifiche che il CPP ha subito nella procedura di adozione, durante la quale è in particolare stato soppresso l’istituto del decreto penale inizialmente previsto in ambito contravvenzionale (art.
361 ss. del progetto di CPP).
Risultano più precise le versioni dell’art. 363 cpv. 2 CPP nelle altre lingue:
“
Le ministère public qui rend une décision dans une procédure d'ordonnance pénale ou l'autorité pénale compétente en matière de contraventions qui rend une décision dans une procédure pénale en matière de contraventions est également compétent pour rendre les décisions ultérieures
” ; “
Hat die Staatsanwaltschaft im Strafbefehlsverfahren oder die Übertretungsstrafbehörde im Übertretungsstrafverfahren entschieden, so treffen diese Behörden auch die nachträglichen Entscheide
”
.
In sintesi, per quanto riguarda la presente fattispecie, l’art. 363 cpv. 2 CPP prevede che
l’autorità penale delle contravvenzioni che ha pronunciato una decisione in una procedura di decreto d’accusa è competente anche per emanare le decisioni successive. L’art 8 cpv. 1 LPcontr riprende quindi in sostanza il contenuto dell’art. 363 cpv. 2 CPP.
La Confederazione e i Cantoni possono affidare il perseguimento e il giudizio delle contravvenzioni ad autorità amministrative (art. 17 cpv. 1 CPP). Giusta l’art. 106 cpv. 2 LCStr i Cantoni, per quanto non di competenza della Confederazione, sono incaricati di eseguire la Legge federale sulla circolazione stradale, prendono le misure necessarie a tale scopo e designano le autorità cantonali competenti. La Sezione della circolazione, Ufficio giuridico, è l’autorità competente ad istruire e decidere le contravvenzioni e le denunce previste, tra l’altro, in materia di circolazione, salvo nei casi di competenza delle autorità giudiziarie [art. 7 della legge del 24.9.1985 di applicazione alla legislazione federale sulla circolazione stradale e la tassa sul traffico pesante, RU 7.4.2.1. (LaLCStr); art. 4 lit. f del regolamento del 2.3.1999 della legge cantonale di applicazione alla legislazione federale sulla circolazione stradale, RU 7.4.2.1.1. (RLaLCStr)].
In conclusione, nella fattispecie, secondo il combinato disposto degli art. 363 cpv. 2 CPP, art. 8 cpv. 1 LPcontr, art. 7 LaLCStr e art. 4 lit. f RLaLCStr, la Sezione della circolazione, Ufficio giuridico, è l’autorità competente a statuire in merito alla commutazione delle trentotto multe in pene detentive sostitutive.
4.
Come visto sopra, l’art. 36 cpv. 2 CP, applicabile anche in caso di commutazione di multe, prevede che
“se
la pena pecuniaria è stata inflitta da un'autorità amministrativa, il giudice
[e non l’autorità amministrativa]
decide sulla pena detentiva sostitutiva”
. La disposizione concreta l’inderogabile principio discendente dagli art. 5 cifra 1 lit. a, 6 CEDU, secondo cui una persona può essere privata della sua libertà unicamente se
è detenuta regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente. È un tribunale ai sensi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo unicamente
“un organo dotato di un certo grado di indipendenza, in particolare rispetto al potere esecutivo”
(Commentario breve alla CEDU – S. BARTOLE, P. DE SENA, V. ZAGREBELSKY, art. 5 capitolo II n. 6, p. 118).
Un’autorità amministrativa non può pertanto pronunciare condanne che privano una persona della sua libertà personale (
BSK Strafrecht I – A. DOLGE, 3. ed., art. 36 CP n. 9;
CR CP I
–
Y. JEANNERET,
art. 36 CP
n. 4; Y. JEANNERET, op. cit., p.50 s., 64 ss.). Anche la nostra massima Corte ha già avuto modo di esprimersi chiaramente in questo senso (
DTF 135 IV 170, consid. 4.3
). La Sezione della circolazione, Ufficio giuridico, è per definizione un’autorità amministrativa, non è quindi competente per ordinare pene detentive.
5.
L’art. 36 cpv. 2 CP e l’art. 8 cpv. 1 LPcontr (con l’art. 363 cpv. 2 CPP) sembrerebbero in contraddizione (cfr. anche RJN 2011 p. 270 ss., p. 274).
5.1.
Il Messaggio relativo all’attuale art. 363 cpv. 2 CPP (art. 370 del progetto di CPP) chiarisce questa apparente incongruenza:
“S
e le decisioni successive sono pronunciate in seguito a un decreto d’accusa (...) la relativa competenza spetta al pubblico ministero o (...) all’autorità penale delle contravvenzioni. È il caso (...) per la decisione di commutazione di multe secondo l’articolo 106 capoverso 2 nCP. La decisione successiva è dunque emessa sotto forma di decreto d’accusa (...) contro cui è data opposizione”
(
Messaggio CPP – FF 2006 p. 989 ss., p. 1201
).
In altre parole, in caso di mancato pagamento di una multa, pronunciata da un’autorità amministrativa, la commutazione in pena detentiva sostitutiva deve essere decisa dalla stessa autorità amministrativa mediante emanazione di un successivo decreto d’accusa.
Alla stessa conclusione giunge del resto anche la dottrina, secondo cui, in generale, le decisioni indipendenti e successive emanate a seguito di un decreto d’accusa, devono pure essere rese nella forma del decreto d’accusa (M. DAPHINOFF – Das Strafbefehlsverfahren in der Schweizerischen Strafprozessordnung, in: AISUF n. 316, 2012, p. 736).
5.2.
La procedura del decreto di accusa è disciplinata dagli art. 352 ss. CPP.
Il decreto di accusa può essere impugnato dall’imputato entro dieci giorni con opposizione scritta al pubblico ministero (art. 354 cpv. 1 lit. a CPP). Se non vi è valida opposizione, il decreto di accusa diviene sentenza passata in giudicato (art. 354 cpv. 3 CPP). In tal caso, il decreto d’accusa equivale ad una decisione giudiziaria (
BSK Strafrecht I – A. DOLGE, 3. ed., art. 36 CP n. 8
).
L’opposizione dell’imputato non deve necessariamente essere motivata (art. 354 cpv. 2 CPP). Se è fatta opposizione il caso passa nuovamente nelle mani del pubblico ministero (Messaggio CPP – FF 2006 p. 989 ss.,
p. 1194; BSK StPO – F. RIKLIN, art. 355 CPP n. 1), che
assume le ulteriori prove necessarie al giudizio sull’opposizione medesima (art. 355 cpv. 1 CPP) e decide se confermare il decreto di accusa, abbandonare il procedimento, emettere un nuovo decreto di accusa oppure promuovere l’accusa presso il tribunale di primo grado (art. 355 cpv. 3 CPP).
Se decide di confermare il decreto di accusa, il pubblico ministero trasmette senza indugio gli atti al tribunale di primo grado affinché svolga la procedura dibattimentale (art. 328 segg. CPP); in tal caso, il decreto di accusa è considerato atto di accusa (art. 356 cpv. 1 CPP).
5.3.
Pertanto se la decisione di commutazione della multa non pagata in pena detentiva di sostituzione è pronunciata dall’autorità amministrativa – che ha emanato la decisione di multa (art. 363 cpv. 2 CPP e 8 cpv. 1 LPcontr) – nella forma del decreto d’accusa (art.
352 ss. CPP
), l’imputato può interporvi opposizione, anche non motivata. In tal caso, se l’autorità amministrativa conferma il proprio decreto d’accusa, l’incarto viene trasmesso al tribunale di primo grado che statuisce in procedura ordinaria (
art. 356 cpv. 1 CPP
). Se invece l’imputato non interpone opposizione,
il decreto d’accusa equivale ad una decisione giudiziaria (
BSK Strafrecht I – A. DOLGE, 3. ed., art. 36 CP n. 8
).
La garanzia della pronuncia della decisione di commutazione da parte di un giudice ai sensi dell’art. 36 cpv. 2 CP (rispettivamente di un tribunale competente ai sensi degli art. 5 cpv. 1 lit. a, 6 CEDU) è quindi data dalla forma della decisione successiva che deve essere quella del decreto d’accusa.
5.4.
Tuttavia, a sua volta pure la procedura del decreto d’accusa (in particolare in caso di mancata opposizione ad una proposta di condanna ad una pena detentiva) può ostare all’effettività delle garanzie procedurali sancite dagli art. 5, 6 CEDU (M. DAPHINOFF, op. cit., p. 84). Difatti, mediante decreto d’accusa il procuratore pubblico – che non è evidentemente un tribunale ai sensi degli art. 5, 6 CEDU – può condannare l’imputato ad pena detentiva sino a sei mesi.
In generale, come ogni diritto fondamentale, anche il diritto ad essere giudicato da un tribunale non è assoluto. Unicamente il suo nucleo intangibile non può essere leso: l’accesso ad un tribunale deve essere garantito, ma questo non significa che debba essere immediato o incondizionato
(S. ZIMMERLIN, Der Verzicht des Beschuldigten auf Verfahrensrechte im Strafprozess, in: ZStV n. 156, 2008, p. 174)
.
Anche
l’imputato può del resto rinunciare alle garanzie procedurali discendenti dagli art. 5, 6 CEDU a determinate condizioni. In particolare, l’accettazione della condanna proposta dal procuratore pubblico mediante decreto d’accusa costituisce una rinuncia alle garanzie procedurali fondamentali. Tale rinuncia è conforme all’art. 5 CEDU unicamente se la fattispecie penale può essere sottoposta ad un tribunale di prima istanza con pieno potere di cognizione e se la facoltà di interporre opposizione è garantita e può effettivamente essere esercitata liberamente ai sensi dell’art. 6 CEDU (M. DAPHINOFF, op. cit., p. 90; S. ZIMMERLIN, op. cit., p. 171 ss.)
.
Nel caso della procedura del decreto d’accusa, la facoltà di presentare opposizione contro la proposta di condanna emanata dal procuratore pubblico (art. 355 CPP) garantisce all’imputato il diritto di essere giudicato in procedura ordinaria (art. 328 ss. CPP) da un tribunale di primo grado con pieno potere di cognizione. In altre parole, grazie allo strumento dell’opposizione, l’imputato può scegliere se accettare la proposta di condanna del procuratore pubblico o se chiedere di essere giudicato mediante la procedura giudiziaria (ordinaria) che garantisce la tutela delle garanzie fondamentali: è quindi l’imputato che sceglie liberamente e senza pressioni di rinunciare ai suoi diritti procedurali. Simile rinuncia è compatibile con le garanzie fondamentali degli art. 5, 6 CEDU (M. DAPHINOFF, op. cit., p. 84 ss.).
5.5.
La pronuncia della decisione di commutazione della pena pecuniaria (o della multa) non pagata in pena detentiva sostitutiva da parte dell’autorità amministrativa (conformemente a quanto stabilito dagli art. 8 cpv. 1 LPcontr e 363 cpv. 2 CPP) mediante procedura del decreto d’accusa è quindi conforme al diritto internazionale e all’art. 36 cpv. 2 CP.
6.
In conclusione, l
e decisioni impugnate sono state emanate nella forma sbagliata: la Sezione della circolazione, Ufficio giuridico, avrebbe dovuto proporre la commutazione delle multe non pagate in pene detentive sostitutive mediante decreti d’accusa, con facoltà di opposizione ai sensi degli art. 354 ss. CPP.
Gli atti impugnati, emanati nella forma della decisione con facoltà di reclamo, hanno per conseguenza la pronuncia della privazione della libertà da parte della Sezione della circolazione, Ufficio giuridico. Come visto quest’autorità amministrativa è incompetente a decidere in merito alla privazione della libertà personale in applicazione dell’art. 36 cpv. 2 CP (cfr. DTF 135 IV 170, consid. 4.3) e del diritto internazionale (art. 5 cifra 1 lit. a, 6 CEDU). Ne segue che il vizio di forma è particolarmente grave e comporta la nullità delle decisioni impugnate (DTF 132 II 342 consid. 2.1, e riferimenti).
Le decisioni impugnate sono nulle. Gli atti sono ritornati alla Sezione della circolazione, Ufficio giuridico, affinché statuisca nuovamente in merito alla commutazione delle multe non pagate mediante l’emanazione di decreti d’accusa ai sensi degli art. 352 ss. CPP, impugnabili mediante opposizione ai sensi dell’art. 354 CPP.
7.
Nonostante quanto precede esenterebbe questa Corte da ulteriori esami del gravame, visto che l’esito del gravame impone alla Sezione della circolazione, Ufficio giuridico, di pronunciarsi nuovamente sugli incarti in oggetto, nel seguito si espongono sommariamente due manifeste carenze di merito riscontrate nelle decisioni impugnate.
Gli incarti n. contengono unicamente la decisione di commutazione. Fa in particolare difetto il decreto d’accusa mediante il quale è stata pronunciata la condanna alla multa oggetto della commutazione: in cinque casi è allegato un decreto d’accusa concernente altri imputati, in un caso il decreto è totalmente assente. Tale vizio implicherebbe pure l’annullamento di queste sei decisioni di commutazione.
In tutte le decisioni di commutazione viene menzionato lo
“stato d’insolvenza del contravventore”
. Si tratta di un presupposto fondamentale sancito dall’art. 35 cpv. 3 CP (applicabile in virtù del rimando previsto all’art. 106 cpv. 5 CP) per poter procedere alla commutazione della multa non pagata (cfr. anche
DTF 135 IV 170, consid. 4.3
). Tuttavia, in nessuno dei quarantaquattro incarti sono indicati prove a suffragio di detto stato d’insolvenza o documenti atti a far apparire inefficace la via esecutiva. Tale presupposto non può quindi essere ritenuto adempiuto. Tutte le decisioni di commutazione andrebbero annullate anche per questo motivo.
8.
Il gravame è accolto. Si prescinde dal carico della tassa di giustizia e delle spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
dcb4b373-44b3-58d7-8b62-e2585ce60811 | in fatto: A.
Con decreto di accusa del 20 febbraio 1995 il Procuratore pubblico ha ritenuto _ colpevole di complicità in ricettazione, "per avere nell'agosto–settembre 1993, aiutato _ custodendo presso lo scantinato di _ obbligazioni americane indicanti un valore di
US$ 100'000'000.– che sospettava rubate e senza valore, mostrandole ad acquirenti intenzionati ad acquistarle per US$ 300'000.–". Ne ha pertanto proposto la sua condanna alla pena di 30 giorni di arresto, sospesa condizionalmente per il periodo di prova di due anni. Ha inoltre disposto la confisca dei titoli sequestrati. Al decreto di accusa _ ha interposto opposizione il 5 settembre 1995, dopo che la Camera dei ricorsi penali aveva respinto un suo ricorso (act. 1).
Sempre con decreto di accusa del 20 febbraio 1995, il Procuratore pubblico ha ritenuto _ colpevole di tentata ricettazione "per avere nell'agosto–settembre 1993 a _ tentato di prendere in consegna in uno scantinato in _, obbligazioni americane per un valore nominale di US$ 100'00'000.–, che sospettava di illecita provenienza, al prezzo di US$ 500'000.–. Ne ha perciò proposto la condanna alla pena di 15 giorni di detenzione, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni e all'espulsione effettiva dal territorio svizzero per un periodo di tre anni. Ha inoltre disposto la confisca di una banconota falsa di US$ 100.– sequestrata. Al decreto di accusa _ ha pure interposto opposizione.
C.
Statuendo sulle singole opposizioni, con sentenza del 24 marzo 2000 il Pretore del Distretto di Lugano, sezione 5, ha confermato sia le singole imputazioni, sia le singole proposte di pena, sia i singoli provvedimenti conservativi di cui ai decreti di accusa, eccezion fatta per l'espulsione dal territorio svizzero pronunciata nei confronti di _.
D.
Contro la sentenza pretorile _ e _ hanno inoltrato tempestiva dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei rispettivi gravami, presentati il 17 aprile 2000, essi chiedono il proscioglimento dalla rispettive imputazioni. _ chiede pure la revoca della confisca dei titoli sequestrati. Dal canto suo _ chiede anche il dissequestro di una banconota falsa di US$ 100.–.
E.
Con scritto del 25 aprile 2000 il Procuratore pubblico ha comunicato alla Corte di cassazione e di revisione penale la rinuncia a presentare osservazioni sul ricorsi. Dal canto suo, con scritto del 10 maggio 2000 la parte civile _ SA ha chiesto la conferma della sentenza impugnata. | Considerando
in diritto: 1.
I decreti di accusa sono stati emanati nel corso del mese di febbraio del 1995. Il relativo procedimento è quindi retto dalla legge di procedura per i reati di competenza del Pretore e per le contravvenzioni del 29 maggio 1941–27 giugno 1960, oggetto in seguito di parziali modifiche (PrContr), rispettivamente del codice di procedura penale previgente (vCPP) in vigore fino al 31 dicembre 1995 in virtù del rinvio previsto dall'art. 351 cpv. 1 CPP. il Pretore ha però erroneamente applicato le norme del codice di procedura penale entrate in vigore con il 1° gennaio 1996. Non rilevando l'errore, il presidente della Corte di cassazione e di revisione penale ha assegnato al Procuratore pubblico e alla parte civile il termine di 20 giorni previsto dall'art. 291 cpv. 3 CPP per la presentazione delle osservazioni sui ricorsi. Le differenze tra diritto processuale attuale e diritto processuale previgente non sono di poco conto. Secondo l'art. 12 cpv. 2 PrContr la sentenza del Pretore deve essere emanata entro 10 giorni dalla comunicazione dei dispositivi, pena la nullità; secondo l'art. 276 cpv. 3 CPP tale termine è per contro di 20 giorni. Secondo l'art. 14 cpv. 2 PrContr il termine per inoltrare ricorso per cassazione contro la sentenza pretorile è di 10 giorni dalla comunicazione dei motivi scritti, mentre che secondo il diritto attuale esso è di 20 giorni, previa presentazione della dichiarazione di ricorso entro 5 giorni dalla comunicazione dei dispositivi da parte del giudice al termine del dibattimento (art. 276 cpv. 2 e 3 CPP). Anche il termine per la presentazione delle osservazioni sul ricorso è diverso (10 giorni secondo il diritto previgente, 20 giorni secondo il diritto attuale).
2.
Nella fattispecie l'errata applicazione della procedura non ha influito, comunque sia, sulla validità dell'intimazione. Le motivazioni scritte sono infatti state notificate alle parti il 24 marzo 2000, ovvero due giorni dopo la comunicazione dei dispositivi. Il termine di 10 giorni previsto dalla PrContr è di conseguenza stato rispettato. Differente si presenta la questione per quanto riguarda la tempestività dei ricorsi. A norma di legge essi andavano infatti inoltrati entro 10 giorni dalla notifica della sentenza scritta (art. 14 cpv. 2 Pr Contr). I gravami sono per contro stati presentati soltanto il 17 aprile 2000, ossia al ventesimo giorno. Il ritardo è verosimilmente da attribuire all'errata indicazione dei termini di ricorso da parte del Pretore che, come visto, ha ritenuto applicabile il codice di procedura penale entrato in vigore il 1° gennaio 1996. Egli ha richiamato le parti sul diritto di ricorrere contro le sentenze, presentando dichiarazione di ricorso entro 5 giorni dalla comunicazione dei dispositivi, rispettivamente ricorso motivato entro 20 giorni dalla motivazione del giudizio motivato. L'errata premessa ha a sua volta spinto il presidente della Corte di cassazione e di revisione penale a trattare il ricorso sempre in base al codice di procedura penale attuale; alle parti ha assegnato il termine di 20 giorni per presentare le rispettive osservazioni. A questo punto due sono le soluzioni ipotizzabili: dichiarare inammissibile i ricorsi per cassazione per intempestività (art. 14 cpv. 2 Pr Contr), rilevando che l'errore del Pretora avrebbe dovuto essere notato dai ricorrenti, patrocinati da un avvocato, oppure dare prevalenza alla buone fede delle parti convinte della bontà della comunicazione del Pretore e considerare perciò i ricorsi tempestivi.
3.
Il principio delle buona fede deriva dagli art. 5 cpv. 3 e 9 Cost, che hanno sostituito dal 1° gennaio 200 la norma di riferimento dell'art. 4 vCost. Un caso che rientra in questo contesto è quello secondo cui dall'indicazione errata di rimedi di diritto non deve derivare danni ai destinatari. Un'indicazione errata può se del caso anche determinare il prolungamento di un termine legale di ricorso, a condizione che l'errore non fosse riconoscibile nemmeno prestando l'attenzione richiesta dalle circostanze (DTF 112 Ia 422 consid. 2a;
Auer/Malinverni/Hottelier
, Droit consitutionnel suisse, vol. II, Berna 2000, n. 1125, p. 544). Solo gravi errori di una parte o del suo rappresentante possono compensare un'erronea indicazione dei termini di ricorso. Il Tribunale federale ha così ammesso un grave errore nel caso in cui una parte o il suo avvocato si sarebbero potuti accorgere dell'errore semplicemente consultando il testo di legge (DTF 117 Ia 422 consid. 2a); per contro l'errore della parte o del suo patrocinatore non è stato ritenuto grave se, oltre al testo di legge, fosse stato necessario il ricorso ai lumi di giurisprudenza e dottrina (DTF 112 Ia 310 consid., 3 e in particolare DTF 106 Ia 166 ss. consid. 3,richiamati in DTF 117 Ia 422 consid. 2a). Nella sentenza inedita 6S 149/2000 del 24 marzo 1000, pubblicata in SJZ 2000, p. 329 n. 6, la Corte di cassazione penale del Tribunale federale ha persino caricato spese all'avvocato patrocinatore che, fidandosi delle indicazioni de rimedi di diritto contenute nella sentenza cantonale impugnata, ha presentato ricorso per cassazione che in quel caso non era proponibile. Da un avocato si esige infatti, secondo il Tribunale federale, che abbia conoscenze elementari sulla soglia del valore litigioso per adire il Tribunale federale, peraltro facilmente ottenibili anche solo dando un'occhiata alle corrispondenti disposizioni di procedura. Ora, nella fattispecie, i patrocinatori dei due ricorrenti, che conoscevano peraltro bene le fattispecie e in particolare l'iter che ha portato ai decreti di accusa del febbraio del 1995, si sarebbero dovuto rendere conto della norma applicabile consultando il codice di procedura penale, segnatamente l'art. 351 CPP – unica norma transitoria, peraltro di facile lettura – che al cpv. 1 stabilisce che ai procedimenti penali in corso alla data di entrata in vigore (1° gennaio 1996) è applicabile la legge anteriore solo quando sia già stato emanato l'atto di accusa. Pacifico che anche il decreto di accusa soggiace al medesimo principio, come ripetutamente ribadito dalla Corte di cassazione e di revisione penale (CCRP, sentenza del 14 febbraio 1996 in re D., consid. 1; CCRP sentenza 4 marzo 1996 in re M. consid. 1; CCRP, sentenza 19 aprile 1996 in re W. consid. 1, CCRP sentenza 19 aprile 1996 in re M, consid. 1; v. anche CCRP, sentenza del 4 giugno 1996 in re M. consid. 1; CCRP, sentenza dell'11 settembre 1996 in re M, consid. 1; CCRP, sentenza dell'11 settembre 1996 in re B. consid. 1; CCRP, sentenza del 9 ottobre 1996 in re W. consid. 1; CCRP, sentenza del 9 ottobre 1996 in re A. consid. 1; CCRP, sentenza del 24 febbraio 1997 in re R. consid. 1). Ne segue che il termine di 20 giorni previsto dagli art. 276, 278 e 289 CPP non è applicabile. Il termine di ricorso di soli 10 giorni ex art. 14 cpv. 2 PrContr determina pertanto l'irrimediabile inammissibilità per tardività di entrambi i gravami presentati il ventesimo giorno. Poco importa che per inavvertenza alle parti sia stato assegnato un termine più lungo per presentare osservazioni al ricorso, ritenuto comunque che ciò non ha influito sulla procedura, considerato che il Procuratore pubblico – peraltro entro il termine di 10 giorni previsto dall'art. 14 ProContr – ha dichiarato di rinunciare a presentarle, mentre che la parte civile ha anche essa finito per proporre unicamente le reiezione del gravame senza ulteriori commenti.
4.
Discende pertanto che i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili per tardività. Gli oneri processuali seguono la soccombenza (art. 240 cpv. 2 vCPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,000 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
dd1e2bb2-78c6-58bd-b3cd-291e6c1f56d9 | in fatto: A.
Con decreto di accusa del 23 maggio 2001 il Procuratore pubblico ha riconosciuto _ autore colpevole di danneggiamento per avere, sporgendosi il 25 settembre 2001 oltre il muro di cinta del suo giardino a _, reciso rami di diverse piante appartenenti alla comunione ereditaria fu _. In applicazione della pena, egli lo ha condannato a una multa di fr. 1'000.– e al versamento di fr. 2'390.– alla Comunione ereditaria, costituitasi parte civile, a titolo di risarcimento danni.
B.
Statuendo su opposizione, con sentenza del 4 dicembre 2001 il Pretore del Distretto di Lugano, sezione 4, ha assolto _, senza prelevare tasse né spese.
C.
Contro la sentenza citata la Comunione ereditaria fu _ ha introdotto il 6 dicembre 2001 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta del 17 gennaio 2002 essa postula l'annullamento della decisione impugnata e la conferma del decreto di accusa. Non sono state chieste osservazioni al ricorso. | Considerando
in diritto: 1.
In ordine
si pone il problema di sapere se il 31 ottobre 2000 la Comunione ereditaria fu _ fosse legittimata, come tale, a sporgere querela. Ora, secondo giurisprudenza, nel caso in cui siano danneggiati beni di una comunione ereditaria, va considerata come persona lesa a norma dell'art. 28 cpv. 1 CP ogni singolo erede (
Trechsel,
StGB, Kurzkommentar, 2a edizione, n. 1 ad art. 28 CP, con riferimento alla sentenza del 13 ottobre 1986 pubblicata nel Rendiconto 1986 del Tribunale di appello del Canton Argovia, n. 19). A prescindere dall'indicazione figurante sulla querela, in concreto la procura alla legale è stata conferita il 2 ottobre 2000 dalla coerede _. La querela può quindi ritenersi introdotta da quest'ultima, alla stessa stregua del ricorso per cassazione, che – tempestivo – risulta dunque proponibile.
2.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto, non destinato a rimettere in causa l'accertamento dei fatti né la valutazione delle prove (art. 288 cpv. 1 lett. a e 295 cpv. 1 CPP). Problemi del genere sono sindacabili unicamente se il giudizio impugnato denota gli estremi dell'arbitrio (art. 288 cpv. 1 lett. c CPP). Arbitrario non significa tuttavia opinabile o finanche erroneo, bensì chiaramente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo o in urto palese con il sentimento di giustizia ed equità (DTF 126 I 170 consid. 3a, 125 I 168 consid. 2a, 124 I 316 consid. 5a, 123 I 5 consid. 4a, 121 I 114 consid. 3a; nell'ambito dell'apprezzamento delle prove: 127 I 41 consid. 2a).
3.
Riguardo all'accaduto del 25 settembre 2000 il Pretore non ha raggiunto il convincimento che l'accusato avesse compiuto il danneggiamento imputatogli nel decreto di accusa. In particolare egli ha ritenuto che quanto aveva dichiarato in sede istruttoria _, il quale insieme con un terzo stava eseguendo lavori di manutenzione – quel giorno – nel giardino della Comunione ereditaria, non fosse sufficientemente attendibile. Intanto perché il contenuto del verbale dava adito a interrogativi, avendo il testimone parlato di “piante di un certo valore”, senza però indicare quali, pur essendo giardiniere. Inoltre perché riusciva difficile credere che i due, colto in flagrante l'imputato, lo avessero semplicemente invitato a desistere, senza farlo smettere, nonostante costui avesse continuato per “almeno un quarto d'ora”, tagliando piante di un certo valore. Determinante, tuttavia, è stata per il Pretore la circostanza che l'imputato è una persona anziana, da tempo invalida, assolutamente incapace di sporgersi dalla sua proprietà su quella dei vicini per oltre un quarto d'ora e di tagliare rami, provocando danni per oltre fr. 2'300.– (consid. 4c). Egli ha ritenuto più credibile, invece, la versione dell'imputato, il quale affermava di essersi limitato a recidere alcuni ramoscelli che sporgevano sulla sua proprietà, dopo che i giardinieri avevano ignorato un suo invito in tal senso. Del resto – ha soggiunto il Pretore – dalla documentazione fotografica agli atti risultava che effettivamente i vicini avevano trascurato la potatura delle piante, sino a lasciarle invadere la proprietà confinante, né si vedeva per quale ragione il denunciato avesse a sporgersi sulla proprietà altrui per tagliare scriteriatamente tutte le piante che riuscisse a raggiungere. E ciò proprio quando i giardinieri della Comunione ereditaria stavano ultimando l'intervento di potatura, proprio per le sue lamentele (consid. 4d).
4.
La ricorrente, riferendosi al rapporto di polizia, al verbale di _ e alla constatazione del danno effettuata il 5 ottobre 2000 dalla ditta _, si duole di arbitrio. In sintesi essa censura l'opinione del primo giudice sulla scarsa di _, sostenendo che definire tale testimonianza “precostituita” in funzione del fine da perseguire con la denuncia significa intravedere
un complotto ordito per mezzo di una falsa deposizione. Tanto più se si pon mente al fatto che l'entità del danneggiamento risulta da un referto indipendente. A detta della ricorrente, il Pretore ha trascurato che i giardinieri non avevano interrotto l'opera del denunciato poiché ciò comportava un intervento fisico o il fermo dei lavori per chiamare la polizia. Né, essa prosegue, ha fondamento la tesi secondo cui l'intervento del denunciato era dovuto al lavoro incompleto dei giardinieri, nessuno pretendendo che costoro avessero lavorato male.
5.
In realtà la ricorrente si limita a contrapporre agli accertamenti e alla valutazione probatoria del Pretore la propria interpretazione delle risultanze istruttorie, come se argomentasse davanti a un'autorità munita di pieno potere cognitivo non solo di diritto, ma anche in fatto. Ciò è palesemente inammissibile in un ricorso per cassazione fondato sul divieto dell'arbitrio. Alla ricorrente incombeva di spiegare come, dove e perché il primo giudice sarebbe incorso, oltre che in presunti errori di valutazione, in sbagli o in mancanza qualificate. Essa avrebbe dovuto spiegare perché sarebbe manifestamente insostenibile ritenere poco verosimile che due giardinieri lascino danneggiare a un vicino, colto in flagrante, piante di un certo valore, limitandosi a esortarlo perché smettesse. Giovi ricordare che il Pretore non ha rimproverato ad _ di avere lavorato male, ma solo di non avere completato l'opera tagliando gli ultimi rami che sporgevano oltre il confine. Inoltre la ricorrente avrebbe dovuto spiegare perché sarebbe arbitraria l'opinione del primo giudice, che ha ritenuto l'imputato assolutamente inabile, per l'età e per la totale invalidità che lo affligge da tempo, di sporgersi per oltre un quarto d'ora sulla proprietà della Comunione ereditaria e di tagliare rami. Invano si cercherebbe nel ricorso la benché minima censura di arbitrio riguardo a tale accertamento, se non un semplice riferimento alla mancanza in atti di un certificato medico che attesti lo stato di salute del denunciato, del quale il Pretore si è cerziorato al dibattimento. Al proposito il ricorso si dimostra già a un primo esame irricevibile.
6.
La ricorrente definisce arbitraria invero l'affermazione del Pretore, secondo cui nulla risulta circa la situazione al confine dei due fondi al termine dei lavori. A suo dire, dalle deposizioni e dal rapporto di polizia si evince invece che a quel momento nulla più sporgeva su terreno altrui, tant'è che il denunciato si è premurato di far allestire una perizia attestante che le piante non avevano subìto danni, non erano state sostituite ed erano anzi ricresciute. Indirettamente, quindi, egli ha riconosciuto l'illecito, cercando di minimizzarlo. Anche su questo punto però il ricorso è destinato all'insuccesso. Il Pretore, in effetti, ha optato nel dubbio per la versione più favorevole all'imputato, ritenendo che al termine dei lavori alcuni rami della siepe sporgevano ancora sulla proprietà di lui. Tale conclusione non denota sicuramente arbitrio. D'altronde la ricorrente non spende una parola per confutare l'accertamento del Pretore, secondo cui il denunciato si era lamentato più volte per il mancato rispetto delle distanze della siepe che invadeva la sua proprietà, circostanza ammessa anche dalla ricorrente nel verbale di polizia (consid. 4e). In definitiva, l'imputato risulta essersi limitato a recidere i rami che ancora invadevano la sua proprietà, dopo avere sollecitato invano la Comunione ereditaria prima e i giardinieri poi a rimediarvi (loc. cit.). Un simile intervento è ben lungi dal configurare il reato e le modalità di attuazione imputati nel decreto di accusa. Anche su questo punto il giudizio del Pretore sfugge dunque alla censura di arbitrio.
7.
Gli oneri del presente giudizio seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,002 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
dd353613-4b3a-5bf8-a619-aa1988af6ea3 | in fatto ed in diritto
1.
In data 16.01.2006 l’allora procuratore pubblico Giuseppe Muschietti ha posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale IS 1 siccome ritenuta colpevole di furto di poca entità, ripetuta truffa mancata e ripetuta falsità in documenti ed ha proposto la sua condanna alla pena di quindici giorni di detenzione sospesa per un periodo di prova di due anni, al pagamento della tassa di giustizia e delle spese, ordinando parimenti la confisca e la distruzione di un assegno sequestrato in precedenza, e meglio come descritto nel decreto di accusa DA _ (inc. MP _). Il citato decreto è cresciuto in giudicato il 21.02.2006.
2.
Con la presente istanza –
trasmessa dal Ministero pubblico, per competenza, a questa Corte
– IS 1 chiede la trasmissione, in copia, del surriferito decreto, essendole stato richiesto dall’Ufficio di naturalizzazione.
Come esposto in entrata, il magistrato inquirente non si è opposto alla domanda.
3.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
4.
Nel presente caso, pur essendo stata l’istante parte (quale accusata) nel procedimento nel frattempo terminato, essa deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo
.
Come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.3.1987, ad art. 8 p. 10). Inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994 p. 19).
Lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG.
5.
Nella fattispecie in esame è pacifico l’interesse giuridico legittimo dell’istante in applicazione dell’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere copia
del decreto d’accusa 16.01.2006 (DA _),
poiché l’ha interessat
a
personalmente in veste di parte.
A ciò aggiungasi che IS 1 ha bisogno di tale documento, essendole stato richiesto dall’Ufficio di naturalizzazione.
Di conseguenza, il decreto di accusa 16.01.2006
(DA _)
viene trasmesso, in originale, all’istante unitamente alla presente decisione.
6.
L’istanza è accolta ai sensi del surriferito considerando. Vista la particolarità della fattispecie, non si prelevano tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
dd6c05ce-43da-532f-b715-f742beffcfa8 | in fatto: A.
Con sentenza del 18 marzo 2008 il presidente della Corte delle assise correzionali di _ ha riconosciuto RI 1 e RI 2 autori colpevoli di impiego illecito di valori patrimoniali per avere, in correità con RI 3, indebitamente impiegato, a profitto proprio o altrui, valori patrimoniali che sapevano o dovevano sapere essere pervenuti in loro possesso in modo indipendente dalla loro volontà, e meglio per avere dal 17 aprile 2002 al 18 gennaio 2007, dopo aver aperto due nuove relazioni n. e n. , entrambe intestate a RI 1 e RI 2 (con procura alla figlia), effettuato molteplici prelevamenti per cassa e per bancomat per complessivi fr. 110
000.–: dal 17 aprile 2002 al 22 dicembre 2005 a debito della prima relazione e per complessivi fr. 25
788.65 dal 31 gennaio 2006 al 18 gennaio 2007 a debito della seconda. RI 1 e RI 2 sono stati inoltre riconosciuti autori colpevoli di falsità in documenti per avere, il 27 dicembre 2005, in occasione dell’apertura della nuova relazione n. loro intestata (con procura alla figlia), indicato sul formulario A che i valori patrimoniali ivi depositati fossero di loro proprietà economica, quindi attestando in un documento, contrariamente alla verità, un fatto di importanza giuridica al fine di procacciare a sé o ad altri un indebito profitto. RI 1 e RI 2 sono stati per contro prosciolti da ogni altra accusa.
RI 3 è stata condannata – nelle stesse circostanze descritte per gli altri due coimputati – per impiego illecito di valori patrimoniali.
In applicazione della pena, il presidente della Corte delle assise correzionali ha condannato RI 1 a 3 mesi di detenzione; RI 2 è stata invece condannata a 4 mesi di detenzione, mentre RI 3 a 3 mesi di detenzione. Per tutti gli accusati la pena è stata sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 2 anni. Il presidente della Corte ha inoltre ammesso il principio
del risarcimento del danno in solido alla parte civile PC 1, per la cui quantificazione ha invece rinviato al foro civile. Il giudice ha inoltre ordinato il dissequestro delle PPP
_ , fondo base _ e delle part. _ .
B.
Contro la sentenza appena citata RI 1, RI 2 e RI 3 hanno introdotto il 18 marzo 2008 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nella motivazione scritta del 28 aprile 2008 RI 1 e RI 2 chiedono di essere prosciolti da ogni imputazione. In via subordinata chiedono l’annullamento della sentenza e il rinvio dell’incarto ad altra corte per nuovo giudizio. In entrambi i casi chiedono di essere messi al beneficio dell’assistenza giudiziaria e del gratuito patrocinio. Anche RI 3 postula in via principale il proprio proscioglimento, mentre in via subordinata chiede il rinvio dell’incarto ad altra Corte per nuovo giudizio. Chiede anch’essa di essere messa al beneficio dell’assistenza giudiziaria e del gratuito patrocinio. I ricorsi non hanno fatto oggetto di intimazione. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288
lett. a e b CPP). L’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura di arbitrio non basta dunque criticare la sentenza impugnata, né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev’essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 8 consid. 2.1 pag. 9, 173 consid. 3.1 pag. 178).
I. Sul ricorso di RI 1 e RI 2.
2.
I ricorrenti esordiscono dolendosi di alcuni vizi essenziali di procedura.
2.1.
Secondo i ricorrenti l’PC 1 non avrebbe avuto la legittimazione per sporgere querela per impiego illecito di valori patrimoniali ai sensi dell’art. 141
bis
CP perché non avrebbe subìto nessun “danno diretto”. La banca, sostengono i ricorrenti, avrebbe infatti deciso di rimborsare integralmente il proprio cliente italiano senza prendere in considerazione un’eventuale responsabilità di quest’ultimo, e lo avrebbe fatto solo per un “mero gesto di compiacenza commerciale”. Il cliente italiano per contro, disattendendo l’accordo stipulato con la banca secondo cui la posta trattenuta va considerata trasmessa il giorno del deposito, avrebbe atteso un “decennio” per far valere le proprie pretese, ciò che configurerebbe, secondo i ricorrenti, “una violazione contrattuale, nonché una gravissima colpa, tale da interrompere il nesso di causalità”. Al momento dell’inoltro della querela, la banca sarebbe stata inoltre “risarcita” dai coimputati “in misura ben superiore al danno diretto”. In assenza di una valida e tempestiva querela – presupposto necessario al loro perseguimento penale –, concludono i ricorrenti, gli imputati andrebbero quindi prosciolti dall’accusa d’impiego illecito di valori patrimoniali (ricorso, pag. 4–6 II punto 1.1).
Le argomentazioni della difesa – invero qui riproposte in modo confuso e con scarsa forza argomentativa – ricalcano gli stessi punti già invocati in prima sede. Le pertinenti conclusioni del presidente della prima Corte hanno tuttavia ben risposto ai quesiti sollevati, cui si rimanda per il dettaglio senza riprenderli per esteso (sentenza, pag. 18–21, consid. 4). Del resto, sostenere che il rimborso operato dalla banca al cliente danneggiato sia stato solo un atto di “compiacenza commerciale”, non è per niente serio; ai ricorrenti, difesi da un avvocato, non può infatti sfuggire che il loro arricchimento è stato realizzato a causa di un errore dell’PC 1, e che è quindi logico – se non imperativo – che la banca vi ponga rimedio, risarcendo il cliente ingiustamente leso, che, checché ne dicano gli imputati, non ha avuto nessuna colpa (se di colpa si vuol parlare), se non quella di essersi disinteressato dei propri averi per molto tempo. E nemmeno giova sostenere che aspettare undici anni per controllare la “posta a trattenere” violerebbe gli accordi stipulati con la banca. Il ragionamento, a tratti incomprensibile, nemmeno si rivela concludente. Un conto è sostenere che la posta è ritenuta trasmessa il giorno del deposito, un altro è quello di sapere quando il cliente viene a conoscenza del suo contenuto, ritenuto che una delle peculiarità della “posta a trattenere” è, oltre alla riservatezza, quella di poter consultare la propria corrispondenza a propria discrezione. Infruttuoso risulta inoltre l’assunto secondo cui la banca, al momento dell’inoltro della querela penale, sarebbe stata risarcita “in misura ben superiore al danno diretto”, quando lo scoperto è a tutt’oggi ancora di fr. 267
481.65 (sentenza, pag. 17 consid. 3). Vagliare oltre il gravame su questo punto non è utile, data la sua palese inconsistenza. Il ricorso su questo punto, nella sua limitata ammissibilità, va pertanto respinto, siccome manifestamente infondato, per non dire temerario.
2.2.
Per il reato di impiego illecito di valori patrimoniali i ricorrenti sostengono che l’atto d’accusa sarebbe “impreciso e indeterminato”. Sarebbero state tralasciate “delle circostanze importanti per la preparazione della difesa e del processo medesimo”. Premettendo che il primo ed il terzo paragrafo del punto 1 dell’atto d’ac– cusa sono formalmente corretti, i ricorrenti precisano tuttavia che l’atto d’accusa sarebbe silente “circa una qualsiasi ulteriore vendita dei restanti titoli” (secondo paragrafo punto 1 dell’atto d’accusa). Agli atti e nell’atto d’accusa non vi sarebbe traccia alcuna della “vendita, acquisto o investimenti di titoli” che potrebbero essere costitutivi del reato di utilizzo illecito di valori patrimoniali (ricorso, pag. 6–9 II punto 1.2).
a)
Il presidente della Corte ha spiegato di avere precisato all’inizio del dibattimento tutte le operazioni, già note alle difese perlomeno dal deposito atti. Il dettaglio di ogni prelevamento è stato fornito, ha sottolineato il primo giudice, al dibattimento (doc. dib. 1 e 2). L’atto d’accusa indicherebbe quindi in modo sufficientemente chiaro, ha spiegato il presidente della Corte, i fatti oggetto delle imputazioni di impiego illecito di valori patrimoniali e meglio l’apertura delle relazioni bancarie con cenno a molteplici prelevamenti e trasferimenti di denaro (sentenza, pag. 15 consid. 2.2).
b)
La procedura penale moderna è governata dal principio accusatorio. L’atto d’accusa assume una doppia funzione: da un lato circoscrive l’oggetto del processo e del giudizio, dall’altro garantisce i diritti della difesa, in modo che l’imputato possa adeguatamente far valere le sue ragioni (DTF 126 I 19 consid. 2a pag. 21 con rif., 120 IV 348 consid. 2b pag. 353, 116 Ia 455 consid. cc pag. 458, 103 Ia 6 consid.
1b pag. 6;
Hauser/Schweri/Hartmann
, Schweizerisches Strafprozesrecht, 6. ediz., Basilea 2005, pag. 223 seg., n. 6 ss. e pag. 225 n. 8;
Georges Greiner
, Akkusations–prinzip und Wirtschafts–strafsachen, in: ZStrR 2005, pag. 98 seg., in particolare pag. 101–107).
Il principio accusatorio – come il principio dell’immutabilità, che tutela l’identità tra atto di accusa e oggetto del giudizio – è disciplinato dal diritto cantonale (DTF 122 V 71 consid. 4a), nel Cantone Ticino dagli art. 198 ss. CPP e segnatamente dall’art. 200 CPP per quanto riguarda il contenuto dell’atto di accusa, ma garanzie minime sgorgano dal diritto federale (in particolare dal diritto di essere sentito: DTF 126 I 19 consid. 2a pag. 21, 116 Ia 455 consid. Cc pag. 458). L’identità tra l'atto di accusa e l’oggetto del giudizio non dev’essere spinta all’eccesso, fino a esigere una letterale corrispondenza terminologica (CCRP, sentenza del 24 agosto 2001 in re H.G., consid. 3c; CCRP, sentenza del 22 dicembre 1992 in re B. e P., consid. 2d con riferimento a Rep. 1985 pag. 199; sentenza del Tribunale federale 20 febbraio 1998 in re A. P., consid. 2a/bb). Il principio accusatorio è leso, tuttavia, quando il giudice si fonda su una fattispecie diversa da quella che figura nell’atto di accusa, senza che l’imputato abbia avuto la possibilità di esprimersi sull'atto di accusa adeguatamente e tempestivamente completato o modificato (DTF 126 Ia 19 consid. 2c e d p. 22 ss. con rif., 116 Ia 455 consid. cc pag. 458; sentenza del Tribunale federale citata, consid.
2a;
Hauser/Schweri /Hartmann
, op. cit., pag. 224 n. 7 e pag. 228 n. 19).
Un atto di accusa insufficiente non comporta tuttavia un verdetto di assoluzione: esso va rinviato al Procuratore pubblico perché ne presenti un altro (art. 202 CPP). Identici principi valgono per il decreto di accusa (art. 208 cpv. 1 CPP).
c)
Ora, che l’atto d’accusa non faccia cenno alcuno alla vendita dei titoli è evidente. E nemmeno si può dire che il giudice abbia dettagliato ogni alienazione. Tuttavia, non può dirsi violato il principio accusatorio e sostenere di non avere potuto prendere posizione sui fatti indicati nell’atto d’accusa. Quello che manca, lo si conviene, è l’esplicito accenno alle vendite dei titoli che hanno permesso di creare la liquidità che poi è stata in gran parte indebitamente prelevata dagli imputati. In sostanza si tratta di operare un ragionamento che l’atto d’accusa sottintende, nel senso che se si imputa agli accusati di avere prelevato del denaro significa che i titoli che precedentemente erano in deposito sono stati venduti (ragionamento che ha fatto anche la difesa; verbale del dibattimento, pag. 13; ricorso, pag. 9 in fondo punto 2.1). Certo, sarebbe stato utile precisarlo, ma non per questo si deve inficiare un atto che nel suo complesso è chiaro e preciso: dei titoli sono stati erroneamente depositati sul conto degli imputati, che, dopo averli venduti, hanno regolarmente prelevato il contante ricavato dalla vendita. Del resto, nel dettaglio dei conti prodotti dalla banca risultano, al contrario di quello che sostengono i ricorrenti, diverse vendite di titoli, per cui non corrisponde al vero che non vi sarebbe traccia alcuna delle vendite dei titoli depositati sul conto deposito di cui alla relazione _ (v. doc. E1–E3 allegati alla querela). Anche su questo punto il ricorso va quindi disatteso.
3.
Nell’eventualità in cui questa Corte dovesse confermare il reato di impiego illecito di valori patrimoniali, i ricorrenti invocano in diritto la sua prescrizione. Secondo i ricorrenti con l’apertura della relazione _ in data 6 novembre 2000, su cui sono stati trasferiti i titoli accreditati per errore, o al più tardi (subordinatamente) con la vendita dei titoli, si sarebbe perfezionato il reato di cui all’art. 141
bis
CP (cfr. secondo paragrafo punto 1 dell’atto d’accusa). I seguenti “molteplici prelevamenti” invece non possono, sostengono i ricorrenti, reiterare la realizzazione del reato di impiego illecito di valori patrimoniali. Secondo i ricorrenti quindi, imputare loro “altri atti” quali presupposti per la realizzazione del reato previsto all’art. 141
bis
CP costituirebbe “un assurdo giuridico, una contraddizione in termini”, essendo l’illecito realizzatosi già nel novembre 2000 con il trasferimento dei titoli dalla relazione _ alla relazione numero _ . Al più tardi nel mese di novembre 2007 quindi, il reato sarebbe prescritto. Nel caso in cui il reato si fosse realizzato con la vendita dei titoli, nella misura in cui non fosse prescritto, l’assenza della loro menzione nell’atto d’accusa implicherebbe il suo annullamento. I coniugi RI 1, RI 2 chiedono per le due ipotesi il loro proscioglimento dall’accusa d’impiego illecito di valori patrimoniali (ricorso, pag. 9–15 II punto 2).
a)
Secondo il presidente della Corte delle assise correzionali ogni indebito collocamento è costitutivo del reato d’impiego illecito di valori patrimoniali, quindi non solo la prima operazione. Ne discenderebbe che la prescrizione dev’essere constatata solo per le operazioni avvenute dopo il mese di marzo 2002, in applicazione della previgente normativa che prevedeva un termine di prescrizione relativo di 5 anni e uno assoluto di sette anni e mezzo, potendosi considerare l’ordine di perquisizione e sequestro con contestuale blocco del RF del 12 marzo 2007 quale primo atto interruttivo. Per ragioni di praticità, la Corte ha considerato inoltre prescritto anche il prelevamento del 26 marzo 2002 poiché, se da un lato il surriferito termine quinquennale non era ancora trascorso il giorno del dibattimento, dall’altro lo sarebbe stato al momento della notificazione della sentenza. Secondo il primo giudice l’art. 141
bis
CP punirebbe l’impiego di valori patrimoniali in senso lato (denaro, ma anche titoli). Punibile sarebbe quindi l’impiego, non l’appropriazione: il reato non si esaurirebbe pertanto con il primo atto che potrebbe essere costituito dal trasferimento di averi da un conto bancario all’altro, ma si realizzerebbe ogniqualvolta l’autore impiega fondi, ossia reitera nell’illecito (sentenza, pag. 15–16 consid. 2.3, pag. 22–24 consid. 5.2).
b)
Le due ipotesi contrapposte sono da una parte quella di far partire la prescrizione dal mese di novembre 2000 (tesi della difesa) e dall’altra quella di far partire il termine dal mese di marzo 2002 (soluzione del primo giudice). Se ammettessimo la tesi difensiva e quindi si dovesse applicare la normativa previgente il 2 ottobre 2002 (art. 70 cpv. 3 vCP), il termine di prescrizione assoluto sarebbe estinto nel mese di maggio 2008. Se si dovesse considerare invece il mese di marzo 2002 quale momento per fare partire il termine di prescrizione, il termine assoluto di sette anni e mezzo non sarebbe evidentemente ancora estinto.
c)
Secondo l’art. 141
bis
CP chiunque impiega indebitamente, a profitto proprio o altrui, valori patrimoniali venuti in suo possesso in modo indipendente dalla sua volontà è punito, a querela di parte, con una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria. Questa disposizione presuppone che l’autore acquisisca un potere di disposizione su dei valori patrimoniali pervenuti involontariamente in suo possesso e li impieghi indebitamente a suo profitto o di terzi. Il reato di impiego illecito di valori patrimoniali contempla solamente quei casi di bonifico sbagliato o di doppio pagamento per svista, nei quali l’accredito errato coglie di sorpresa il reo e avviene senza che egli vi abbia minimamente contribuito. L’autore non deve quindi avere provocato volontariamente il trasferimento dei valori patrimoniali a suo favore. Il caso tipico è quello di un trasferimento erroneo, avvenuto per inavvertenza, di fondi da un conto ad un altro, ossia nei casi in cui una somma di denaro è stata accreditata su un conto mentre invece avrebbe dovuto essere destinata ad altro avente diritto (DTF 131 IV 11 consid. 3.1.2 pag. 15, 126 IV 209 consid. 2 pag. 212, 126 IV 161 consid. 3 pag. 163–164; sentenza del Tribunale federale 6B_313/2008 del 25 giugno 2008, consid. 2). Invece di restituire la somma di denaro o i titoli, o conservarli per restituirli in seguito, l’autore si comporta come se i valori fossero effettivamente a lui destinati, utilizzandoli a suo piacimento. È necessario quindi un impiego (atto di utilizzazione) sufficientemente significativo
(
Corboz
, Les infractions en droit suisse, Basilea 2002, vol.
I, n. 12 ad art. 141
bis
CP).
Il comportamento deve avere
lo scopo di ostacolare il recupero dei valori, ma non si esige alcun risultato. Non importa dunque che il leso abbia potuto recuperare i suoi averi (
126 IV 209 consid. 2 pag. 214).
d)
Nella fattispecie in esame, le fasi determinanti per la qualifica del reato di impiego illecito di valori patrimoniali sono due. La prima è quella del trasferimento dei titoli – nel novembre 2000 – dalla relazione _ (deposito numero _ ) alla relazione _ , mentre la seconda comprende tutta una serie di prelevamenti operati – dopo la vendita dei titoli (cfr. consid. 2) – dal 21 novembre 2000 (v. lista doc. dib. 1). È ovvio – e la difesa lo riconosce – che entrambe le situazioni configurano il reato prospettato nei confronti degli imputati. La difesa, per contro, ritiene che tutti i prelevamenti che sono seguiti al trasferimento dei titoli non permetterebbero di “imputare loro alcunché dal profilo penale”, perché, a loro dire, il reato di impiego illecito di valori patrimoniali si sarebbe realizzato solo con il trasferimento dei titoli il 6 novembre 2000, non potendo essi commettere “due o più volte” lo stesso reato con i “medesimi beni”.
Se si volesse seguire il ragionamento dei ricorrenti si giungerebbe al paradosso secondo cui tutti i prelevamenti seguenti il trasferimento dei titoli e la loro vendita non costituirebbero reato alcuno. I ricorrenti, tuttavia, trascurano che se non si dovesse applicare l’art. 141
bis
CP ai successivi prelevamenti, altre sarebbero le possibili disposizioni legali che entrerebbero in considerazione (art. 148 CP, 139 e 137 CP; cfr. sentenza del Tribunale federale 6B_313/2008 del 25 giugno 2008, consid. 2 e 4). Finché i valori sono stati semplicemente trasferiti da un conto all’altro – dopo l’originario erroneo trasferimento sulla relazione degli imputati – i titoli erano ancora al sicuro, nel senso che, salvo l’imprevedibile andamento dei mercati finanziari – il loro valore poteva essere facilmente recuperato dalla banca. Certo, il secondo trasferimento dei titoli ha per il vero già reso più difficile il recupero dei valori, ciò che ha quindi qualificato l’azione quale impiego illecito di valori patrimoniali ai sensi dell’art. 141
bis
CP. Tuttavia, il fatto di avere in seguito prelevato il provento delle vendite dei titoli, utilizzandolo per i propri bisogni personali, ha concretamente (e ulteriormente) pregiudicato il recupero del loro valore. Quindi prelevando il denaro dal conto dopo il primo atto preparatorio (il trasferimento dei titoli dalla relazione originale _ sulla posizione _ ) i ricorrenti hanno attuato un chiaro comportamento di reiterazione dell’azione penale, giacché ad ogni prelevamento essi hanno utilizzato indebitamente il patrimonio di terzi, compiendo quindi un reato a sé stante. Sebbene il trasferimento dalla relazione originale _ (deposito numero _ ) alla nuova posizione _ aveva già compromesso il recupero dei valori, configurando quindi il reato ex 141
bis
CP, va peraltro sottolineato che detta norma sanziona normalmente gli atti di disposizione (o di utilizzazione) successivi al precedente bonifico sui conti (degli imputati), tra questi soprattutto la loro conversione in moneta cartacea (sentenza del Tribunale federale 6B_313/2008 del 25 giugno 2008, consid. 2.2). Anche la vendita dei titoli prima del prelevamento in contanti è un atto di disposizione significativo – e, come detto, preparatorio –, che va trattato alla stessa stregua dei prelevamenti in contanti, che ovviamente deve essere collocata temporalmente prima di questi ultimi. In definitiva quindi, il mese di aprile 2002 a partire dal quale il primo giudice ha fatto partire il termine di prescrizione con riferimento ai prelevamenti per cassa, non presta fianco a critiche; con il che il termine di prescrizione assoluto viene a scadere nel settembre del 2009, considerato l’atto interruttivo (non contestato) illustrato a pag. 16 della sentenza impugnata e quelli successivi compiuti durante l’istruzione formale.
4.
RI 1 sostiene di non avere avuto nulla a che fare con la gestione contabile dei propri conti bancari, e che ad occuparsi di tutto era la moglie, della quale non aveva motivo di non fidarsi. Inoltre, sostiene il ricorrente, le rassicurazioni del consulente e della moglie “lo hanno indotto a credere che gli averi fossero loro”. Nessun dolo, conclude il ricorrente, può quindi essergli imputato (ricorso, pag. 15 II punto 3.2).
Così com’è formulato, l’assunto è improponibile. Premesso che
le constatazioni relative al foro interno di un soggetto – ciò che la persona sapeva, si proponeva, aveva l’intenzione di fare o immaginava, lo stato psichico nel quale essa ha agito, la sua cognizione piena o ridotta di commettere un illecito – possono essere criticate davanti alla Corte di cassazione e di revisione penale solo per arbitrio (cfr., sempre sul piano federale:
Schweri,
Le pourvoi en nullité à la Cour de cassation pénale du Tribunal fédéral, in: FJS 748C pag. 67 in basso), la censura oltre che appellatoria non è minimamente motivata,
onde l’irricevibilità della doglianza.
5.
I ricorrenti contestano l’assunto della prima Corte secondo cui essi furono certi sin dall’inizio che gli averi depositati sulla loro relazione non appartenessero loro. Dopo un primo momento caratterizzato da “incomprensione” e “incredulità”, essi sarebbero stati più volte rassicurati dal loro consulente bancario, il quale li avrebbe inoltre spronati a “spendere”. Il fatto di chiedere continuamente conferma al proprio consulente della titolarità dei beni non significa, come pretenderebbe il primo giudice, che gli imputati abbiano subdolamente voluto ottenere incoraggiamenti alfine di “legittimare un impiego che sapevano invece essere illecito”. Se così fosse stato, sostengono i ricorrenti, essi avrebbero prelevato tutti gli averi subito dopo il primo incontro. Al contrario di quello che ha accertato il primo giudice, i ricorrenti sostengono di avere ritenuto possibile che un precedente investimento di fr.
38
000.– avesse “fruttato bene”; era opinione corrente in quel periodo, sostengono i ricorrenti, credere che ci si potesse arricchire in borsa, “bastava investire bene”, e diventare “facilmente ricchi e in poco tempo”. A queste somme, soggiungono i ricorrenti, andava aggiunta un’eredità di fr. 26
000.– percepita da RI 1. Considerate queste cifre e le rassicurazioni del funzionario di banca, appariva indubbio che il patrimonio potesse essere il loro. Solo nel marzo 2007 essi hanno appreso che v’era stato “un errore da parte di PC 1”. Il turbamento fu tale che entrambi gli imputati subirono “uno shock emotivo con uno scompenso dal profilo psicofisico”. I ricorrenti concludono quindi che non può essere imputata loro “alcuna subdola, machiavellica o astrusa strategia nel porre domande al consulente o nel celare la loro asserita (non data) intenzione di appropriarsi di qualcosa che non spettava loro”. Violando il principio
in dubio pro reo
, il presidente della Corte delle assise correzionali ha quindi valutato in modo parziale e arbitrario i fatti posti a base del convincimento che RI 1 e RI 2 fossero consapevoli, almeno per dolo eventuale, di commettere il reato di impiego illecito di valori patrimoniali (ricorso, pag. 15–23 II punti 3.3–3.4).
a)
Il presidente della Corte delle assise correzionali è giunto “all’intimo convincimento” che gli imputati sapevano che gli averi impiegati non erano e non potevano essere di loro proprietà. Essi avrebbero agito consapevolmente, passando da una prima fase di incomprensione per essersi visti accreditare un tesoro inatteso, a una di incredulità per aver ricevuto dal consulente bancario la conferma che si sarebbe trattato di averi di loro pertinenza, e per finire a una fase di autogiustificazione volendo attribuire quegli averi ai proventi dell’investimento dell’importo di fr. 38
000.– versato anni prima sul loro conto. In realtà, ha spiegato il giudice, quel denaro nemmeno sarebbe stato investito, non potendo comunque decuplicare in soli 5 anni. Egli ha spiegato che agli accusati faceva comodo credere alle errate informazioni del consulente. Tutti (e tre) gli accusati, ha sottolineato il giudice, sapevano di possedere solo qualche migliaio di franchi, di non avere mai vinto al lotto e di non avere ricevuto eredità paragonabili a quella consistenza, e che avevano per contro dei debiti. Le rassicuranti informazioni ricevute dal consulente sarebbero, ha soggiunto il giudice, irrilevanti, poiché le richieste di rassicurazione erano del tutto strumentali, volte a crearsi l’alibi nel caso, sperato, in cui venisse effettivamente detto loro che tutto era a posto. Inoltre, l’apertura in data 4 gennaio 2006 della relazione _ , e la relativa compilazione del formulario A, dove gli imputati hanno dichiarato di essere gli aventi diritto economico degli averi in conto, precisando che i fondi provenivano da una relazione ex–SBS detenuta anni fa dal padre della titolare, che dopo il suo decesso hanno deciso intestare a loro nome, ha maggiormente convinto il primo giudice dell’agire doloso degli imputati. Entrambi infatti sapevano di dichiarare il falso, non avendo in realtà in passato mai ricevuto eredità di tale consistenza e, soprattutto, dal padre di RI 2. Si tratta, ha sottolineato il primo giudice, di un’ulteriore circostanza che dimostrerebbe come gli accusati sapevano che gli averi non potevano essere di loro proprietà. Nemmeno la pretesa eredità ricevuta da RI 1 dallo zio Fritz Gamma (fr. 26
587.20 e di fr. 343.95, versate nel giugno 2000 rispettivamente il 21 settembre 2000 sulla relazione _ ) aveva una consistenza tale per far ritenere che l’intero avere accreditato loro per errore potesse essere di loro pertinenza. E comunque, ha soggiunto il giudice, il primo di questi due accrediti è avvenuto dopo che, a fine 1999-inizio 2000, RI 2 si era accorta dall’estratto del deposito titoli, per cui non potevano (entrambi) ritenere che il denaro provenisse dalla successione di Fritz Gamma, poiché la quasi totalità del provento di quella eredità è stata loro versata diversi mesi dopo (sentenza, pag. 24–28 consid. 6).
b)
Come già accennato al considerando precedente, quanto l’autore di un reato sa, vuole o accetta è un dato di fatto (DTF 128 I 177 consid. 2.2 pag. 183, 128 IV 53 consid. 3a pag. 63, 125 IV 242 consid. 3c pag. 252, 119 IV 1 consid. 5a pag. 3, 110 IV 20 consid. 2 pag. 22, 74 consid. 1c pag. 77 con rinvii). Sapere se una persona ha agito con volontà e consapevolezza o ha consentito all’evento delittuos
o vincola quindi la Corte di cassazione e di revisione penale (per analogia, sul piano federale:
Wiprächtiger
in:
Geiser/Münch
, Prozessieren vor Bundesgericht, vol. I, 2a edizione, pag. 226 n. 6.99 con i richiami alla nota 182;
Corboz
, Le pourvoi en nullité à la Cour de cassation du Tribunal fédéral, in: SJ 113/1991 pag. 94 con la nota n. 246). In altri termini, le constatazioni relative al foro interno di un soggetto – ciò che la persona sapeva, si proponeva, aveva l’intenzione di fare o immaginava, lo stato psichico nel quale essa ha agito, la sua cognizione piena o ridotta di commettere un illecito – possono essere criticate davanti alla Corte di cassazione e di revisione penale solo per arbitrio (cfr., sempre sul piano federale:
Schweri,
Le pourvoi en nullité à la Cour de cassation pénale du Tribunal fédéral, in: FJS 748C pag. 67 in basso).
Sapere invece se i fatti accertati configurino dolo eventuale è una questione di diritto, che la Corte di cassazione di revisione penale esamina – come il Tribunale federale – con pieno potere cognitivo (sentenza del Tribunale federale 6S.110/2005 del 1° settembre 2005, consid. 5.2).
c)
Per quali ragioni la Corte sarebbe caduta in arbitrio maturando il convincimento di colpevolezza sulla base di queste diffuse considerazioni i ricorrenti – come visto – non spiegano, persistendo nell’argomentare liberamente, come se adissero un’autorità provvista di piena cognizione anche nel dirimere questioni di fatto e di valutazione delle prove. Più che un ricorso per cassazione fondato sul divieto dell’arbitrio, il gravame denota i contenuti di un’arringa difensiva di prima sede con cui gli accusati perorano il loro convincimento. La sua ammissibilità è perciò per lo meno dubbia.
Ora, che i ricorrenti abbiano avuto coscienza di non essere i legittimi aventi diritto dell’ingente posizione loro trasmessa è evidente, e comunque l’accertamento del primo giudice in tal senso non può di certo dirsi arbitrario. E non poteva essere altrimenti. La relazione _ nemmeno presentava un conto deposito – aperto d’ufficio dalla banca in data 27 luglio 1999 (act. 1 MP, pag. 2) – tanto meno di quella entità (che in dicembre 1999 sommava un controvalore dei titoli di fr. 379
394.–; cfr. allegato D act. 1 MP). Ciò significa quindi che in passato quei titoli non erano presenti sul conto perché nemmeno v’era un deposito che li registrasse. Questo i coimputati lo sapevano, e quindi hanno chiesto, così sembra, lumi al consulente che in quel periodo si occupava della gestione della loro relazione. Le presunte rassicurazioni ottenute dal consulente (si noti che la banca nella sua querela non ha fatto cenno alcuno all’interessa-mento dei coimputati alla nuova situazione, anzi sembra che gli accusati nemmeno si siano fatti sentire; cfr. act. 1 MP. pag. 2) certo destano perplessità – anche se dai verbali non risulta chiaramente, visti tutti i “non ricordo”, dettati forse dal lungo tempo trascorso, che questi li abbia tranquillizzati sulla proprietà dei valori (act. 4 e 6 MP) –, e se degli incontri ci sono stati questi risalgono, per stessa ammissione dei coimputati (act. 1 MP pag. 3, act. 2 MP pag. 2, act. 6 MP pag. 2), alla seconda metà del 2000, quindi a più di un anno di distanza dall’inaspettato arricchimento. L’argomento dei ricorrenti secondo cui in quel periodo era concepibile pensare di avere notevolmente maggiorato il proprio patrimonio perché i mercati finanziari erano in ebollizione, seppure di per sé non del tutto insostenibile – infatti è notorio che la bolla speculativa, soprattutto nel settore tecnologico, ha invero spinto alcuni titoli a valori straordinari, anche decuplicandoli – non trova comunque riscontro alcuno negli atti, poiché come detto, nessun investimento precedente riconducibile al preteso importo di fr. 38
000.– è stato accertato. Per quanto attiene all’invocata violazione del principio
in dubio pro reo
, va qui semplicemente ricordato ai ricorrenti che il primo giudice di dubbi sulla loro consapevolezza di delinquere non ne ha avuti. Semmai egli ha avuto solo certezze. In definitiva, non sostanziata, la critica andrebbe dichiarata inammissibile. Comunque sia, non si può certo affermare che in concreto il primo giudice abbia condannato il ricorrente quantunque una valutazione non arbitraria delle prove lasciasse sussistere dubbi rilevanti sulla sua colpevolezza (DTF 127 I 38 consid. 2a pag. 41, 124 IV 86 consid. 2 pag. 88, 120 Ia 31 consid. 2a pag. 38). Anche al proposito il ricorso è destinato pertanto all'insuccesso.
6.
Per quanto attiene al reato di falsità in documenti, i ricorrenti sostengono che la sottoscrizione del formulario A non avrebbe “nessun effetto di diritto privato”, e non costituirebbe “documento” ai sensi dell’art. 110 CP. Nessuna legge imporrebbe “la stesura e sottoscrizione di un siffatto atto” allorquando si proceda solo ad un semplice cambiamento di conto, l’identificazione dell’avente diritto economico risultando per finire “perfettamente inutile”. Inoltre, soggiungono i ricorrenti, è nel “circuito giuridico” che il documento avrebbe dovuto essere impiegato, e non, come nella fattispecie, in quello interno della banca. I ricorrenti sostengono inoltre che non vi sarebbe prova alcuna che in data 27 dicembre 2005 sulla relazione _ fossero confluiti valori per i quali essi “abbiano ammesso essere gli aventi diritto economico”, atteso che al 31 dicembre 2005 il conto aveva un saldo “pari a zero”. Quanto all’aspetto soggettivo, i ricorrenti sostengono che in applicazione del principio
in dubio pro reo
si sarebbe dovuto prendere in considerazione la versione più favorevole agli imputati, ovvero quella secondo la quale essi non avevano nessuna intenzione di “agire a scopo di inganno, né di nuocere al patrimonio o a altri diritti o di procacciare a sé o ad altri un indebito profitto”. L’unilaterale considerazione di alcuni indizi ad esclusione di altri nemmeno sarebbe stata sufficientemente motivata. I ricorrenti concludono inoltre di dovere essere messi a beneficio dell’art. 13 CP (errore sui fatti) in quanto sottoscrivendo il formulario A essi erano convinti di non commettere alcun reato; credevano infatti di avere sottoscritto un semplice documento interno, “senza alcuna valenza particolare”, oltretutto per accertare l’appartenenza di beni che la banca già sapeva di loro proprietà. Per tutti questi motivi, essi chiedono quindi di essere assolti dall’accusa di falsità in documenti (ricorso, pag. 23–26 II punti 1–5).
Una volta di più i ricorrenti persistono nel contrapporre il loro parere a quello della Corte. In un ricorso per cassazione fondato sul divieto dell’arbitrio non basta prospettare un diverso accertamento dei fatti o una diversa valutazione delle prove, per quanto preferibili appaiano, ma occorre spiegare perché, accertando i fatti e valutando le prove come descritto nella sentenza, la Corte di merito sia trascesa in un risultato insostenibile. Il presidente della Corte delle assise correzionali, dopo avere illustrato le condizioni per l’applicazione dell’art. 251 CP, ha concluso che nella fattispecie il vantaggio tratto dagli accusati dalla sottoscrizione del formulario A con la falsa indicazione di essere gli aventi diritto economico, consisteva nel poter proseguire a impiegare a proprio profitto i fondi pervenuti loro per errore (sentenza, pag. 28–29 consid. 7). Ed è appunto questo l’elemento determinante, ossia il vantaggio che conferiva loro l’impiego (passato e futuro) dei beni che essi hanno dichiarato essere i loro, a danno, evidentemente del legittimo avente diritto, ossia il cliente italiano. Il documento in questione aveva quale effetto di provare che i valori trapassati da un conto all’altro fossero di loro spettanza (sulla natura del citato formulario “A” cfr. in ogni modo la sentenza del Tribunale federale pubblicata in SJ 122/2000 I 234; CCRP, sentenza del 21 giugno 2002, inc. n. 17.2001.59 consid. 2). Cosa intendano poi i ricorrenti con “circuito giuridico” non è chiaro, atteso comunque che la proprietà di un bene ha, checché ne dicano i ricorrenti, una chiara portata giuridica (cfr.
Corboz
, Les infractions en droit suisse, Basilea 2002, vol.
II, n. 16–27 ad art. 251 CP)
. Sostenere che non vi sarebbe prova agli atti che in data 27 dicembre 2005 sulla relazione _ fossero confluiti valori per i quali essi “abbiano ammesso essere gli aventi diritto economico”, anche perché al 31 dicembre 2005 il conto aveva un saldo “pari a zero”, equivale a sostenere l’insostenibile. Ora, la posizione in parola oltre al conto cash (conto corrente) aveva anche un conto deposito (_ ; cfr. allegati F–F1 act. 1 MP); che sul conto corrente non vi fosse nulla o poco più, non esclude evidentemente che il conto deposito non abbia potuto avere un controvalore cospicuo (v. anche l’incremento del conto _ già dai primi mesi di gennaio 2006, sul quale sono confluiti tutta una serie di vendite di azioni, oltre ai dividendi, tutte con origine il conto deposito _ ; cfr. allegati F3 act. 1 MP). Le doglianze riferite all’aspetto soggettivo sono immotivate e comunque appellatorie. L’intimo convincimento del giudice sulla colpevolezza degli accusati, non può essere validamente messo in discussione con argomentazioni come quelle sommariamente accennate dagli accusati, e comunque nessun arbitrio è ravvisabile nel ragionamento ch’egli ha sviluppato per considerare adempiuto anche l’aspetto soggettivo del reato. Non trova evidentemente spazio alcuno l’assunto dei ricorrenti che li vorrebbe vittima di un errore sui fatti perché avrebbero considerato il documento A quale semplice documento interno della banca o quale “semplice operazione di cosmesi”. Il ricorso quindi, al limite dell’inammissibile, va senza indugio disatteso.
7.
Secondo i ricorrenti, la conclusione del presidente della Corte delle assise correzionali in punto al diritto della parte civile al risarcimento sarebbe arbitraria (ricorso, pag. 26 III punto 6).
Così argomentando, tuttavia, essi non spiegano in che consista l’arbitrio, onde l’irricevibilità della doglianza. Nonostante il primo giudice abbia comunque riscontrato una grave concolpa della banca, egli non ha comunque potuto escludere che l’importo immediatamente riversato per ordine di RI 3 (oltre fr. 200
000.–) potesse essere sufficiente a coprire interamente le pretese della parte civile. Per questo il primo giudice ha accertato il principio del diritto al risarcimento, rinviando tuttavia la PC al foro civile per la determinazione del danno (sentenza, pag. 32–33 consid. 9).
8.
Quanto alla richiesta di assistenza giudiziaria, limitata nella fattispecie al gratuito patrocinio (act. 29), competente a decidere è il Giudice dell’istruzione e dell’arresto (art. 26 cpv. 1 Lag).
II. Sul ricorso di RI 3
9.
Anche RI 3 contesta la legittimità di PC 1 di inoltrare querela penale (ricorso, pag. 4–7 punto 3), riprendendo in buona sostanza le stesse censure dei coimputati genitori (tra queste, il fatto che la banca non avrebbe subìto nessun danno diretto e la concolpa del cliente italiano), per cui si rimanda a quanto già deciso al consid. 2.1 e alle conclusioni del presidente della prima Corte (sentenza, pag. 18–21, consid. 4). Il ricorso, equivalente a quello di RI 1 e RI 2, va perciò disatteso.
10.
Stessa sorte tocca all’invocata prescrizione (ricorso, pag. 9 punto 4). Benché la ricorrente ritenga di non avere avuto più nulla a che fare con l’originale relazione dopo il trasferimento su quella nuova _ del 6 novembre 2000 (v. consid. che segue), essa ritiene che con l’apertura della relazione _ , su cui sono stati trasferiti i titoli accreditati per errore, o al più tardi (subordinatamente) con la vendita dei titoli, si sarebbe perfezionato il reato di cui all’art. 141
bis
CP, che, in questa seconda ipotesi, l’assenza della loro menzione nell’atto d’accusa implicherebbe il suo annullamento (ricorso, pag. 9 punto 4). Anche per queste censure si rinvia alle considerazioni già espresse nella disamina del primo ricorso (v. consid. 2.2 e 3).
11.
Stando alla ricorrente la Corte non avrebbe sufficientemente differenziato la sua posizione da quella dei genitori. Il conto _ , seppure “cointestato a lei e al padre, serviva esclusivamente ai genitori”. In quanto figlia unica e per comodità il conto fu quindi intestato anche a lei. Non abitando più da diverso tempo con i genitori, ella sostiene di non avere mai ricevuto corrispondenza relativa al conto, “nemmeno quando era avvenuto l’errore da parte di PC 1”. Benché nulla sapesse sulla consistenza degli averi dei genitori, la ricorrente precisa che la madre in un’occasione le comunicò che in passato vi fu un versamento sul conto di fr. 38
000.– (corrispondenti al ricavo della vendita dei macchinari della stireria). La madre le disse inoltre che il padre aveva beneficiato di un’eredità di fr. 26
931.15. Dall’apertura della relazione _ del 6 novembre 2000 la ricorrente sostiene di non avere comunque più potuto disporre dei beni, “se non per procura”. La Corte avrebbe erroneamente giustificato il suo coinvolgimento solo perché essa avrebbe accompagnato i genitori in banca (ricorso, pag. 7–8 punto 4).
Premesso che le censure hanno carattere prettamente appellatorio e non sostanziano sufficientemente arbitri di sorta, va ricordato all’imputata che il 21 agosto 2000, RI 2 ha venduto titoli per complessivi fr. 95
601.30 (sentenza, pag. 17 consid. 3; allegato C6 foglio 6 in alto act. 1 MP); quale cointestataria del conto, il conteggio della vendita dev’esserle sicuramente pervenuto al domicilio (da quando non abita più con i genitori non è stato né indicato né provato). A quel momento sicuramente sapeva della vendita e di cosa è stato venduto, come probabilmente già sapeva del trasferimento dei titoli dall’originale conto del cliente italiano al suo (allegati C7 e D act. 1 MP; verbale di interrogatorio del 12 marzo 2007 di RI 1, elenco verbali, act. 3 MP pag. 2 ultimo paragrafo a metà). Del resto, appena pochi giorni dopo la vendita dei titoli del 21 agosto 2000, ossia il 29 agosto 2000, l’imputata è passata in banca con la madre per dei “chiarimenti” (sentenza pag. 25 consid. 6.2). Girarci attorno è francamente inutile; e comunque, la ricorrente non ha mai dichiarato che il padre (o la madre, procuratrice) le abbiano tenuto nascosti i movimenti sul conto. Del resto il giudice ha accertato che anche RI 3 ha ritirato delle somme di denaro, impiegandoli anche per il rifacimento delle serrature della sua casa “che in definitiva era di sua proprietà” (sentenza, pag. 22 consid. 5.1). Il ricorso, nella sua limitata ammissibilità, va comunque respinto.
12.
La ricorrente ripete che la madre era l’unica ad occuparsi della gestione delle finanze della famiglia, e che quindi non era “affatto a conoscenza della situazione finanziaria dei genitori”. Ogni documento bancario, tra cui l’estratto del deposito, era visionato esclusivamente dalla madre. Essa sapeva, soggiunge la ricorrente, che su quel conto venivano versati i proventi della ditta del padre; era anche a conoscenza, reitera la ricorrente, dell’eredità percepita dal padre. La ricorrente contesta inoltre di essere stata al corrente sin dall’inizio dell’accredito. Assolutamente arbitrario sarebbe inoltre l’assunto del primo giudice secondo cui le rassicurazioni del consulente servivano agli imputati per costruirsi un alibi. Dopo “5 richieste” di controllo approfondito, agli imputati fu detto che tutto era a posto, che i fondi erano i loro. Per cui essa poteva legittimamente pensarlo. Applicando il principio
in dubio pro reo
, il giudice avrebbe dovuto concludere che l’imputata non era consapevole dell’illegittimo accredito e che “non aveva la volontà di creare alcun danno”. E se si dovesse concludere che gli imputati sapevano o avrebbero dovuto sapere che almeno fr. 200
000.– non erano i loro, si giungerebbe comunque a dover negare l’intenzionalità in punto al reato di cui all’art. 141
bis
CP, in quanto, “accortisi dell’errore”, i coimputati avrebbero subito restituito il denaro (ricorso, pag. 10–15 punto 5).
R
ecriminazioni simili sono lungi dal poter motivare un ricorso per cassazione. Non solo l’imputata dimostra di non avere corretta nozione del rimedio giuridico, ma su questo punto essa perde completamente di vista il limitato potere cognitivo di questa Corte. A nulla sussidia riproporre un’arringa difensiva in cassazione. Priva di idonea motivazione, al proposito l’impugnazione va dichiarata
inammissibile. Del resto sull’aspetto soggettivo già si è discusso in precedenza, per cui visto che le censure si accavallano con quelle dei genitori, si rinvia a quanto detto al consid. 5 (vedi anche alcuni aspetti già discussi al consid. 11). Ora, che l’imputata sapesse dei titoli sin dal mese di luglio 1999 (“che non erano fondi nostri”; v. verbale di interrogatorio del 12 marzo 2007 di RI 1, elenco verbali, act. 3 MP pag. 2 ultimo paragrafo a metà) è confermato sia dal padre che dalla madre (verbale di interrogatorio del 12 marzo 2007 di RI 2, elenco verbali, act. 1 MP pag. 7–8; verbale di interrogatorio del 12 marzo 2007 di RI 1, elenco verbali, act. 3 MP pag. 2). Del resto nemmeno lei sembra escludere di averne avuta notizia – almeno per telefono – prima del 2000 (verbale di interrogatorio del 12 marzo 2007 di RI 3, elenco verbali, act. 2 MP pag. 4 e 5 in alto). Per cui, tergiversare oltremodo sulla convinzione del primo giudice secondo la quale l’imputata sapeva fin dall’inizio dell’avvenuto accredito, è improduttivo. Che poi essa non avesse più abitato con i genitori – circostanza non provata – non significa ancora che non fosse messa al corrente, come sembra essere stato, dei movimenti bancari del proprio conto. Che la madre invece fosse una sprovveduta in ambito finanziario, oltre ad essere contraddetto dalle ripetute censure ricorsuali che la indicano quale unica e sola amministratrice delle finanze della famiglia, è contraddetto pure – come visto sopra – dalle dichiarazioni della ricorrente, da quelle della madre stessa e del padre. Dilungarsi oltre è, come detto, inutile. Il ricorso, nella limitata misure della sua ammissibilità, va perciò di nuovo respinto.
13.
La ricorrente si duole anche della commisurazione della pena, nella misura in cui il giudice, oltre ad averla condannata ingiustamente, non avrebbe tenuto conto del fatto che nulla ha prelevato per sé stessa, e che agli atti non figurerebbe nessun documento bancario da lei sottoscritto. Anch’essa, come i genitori, ritiene arbitraria la conclusione del presidente della Corte delle assise correzionali in punto al riconoscimento alla parte civile del diritto al risarcimento (ricorso, pag. 15–16 punto 6).
Così com’è formulato, l’assunto è nuovamente improponibile nella misura in cui la ricorrente muove critiche alla commisurazione della pena, mancando ogni confronto con le motivazioni che hanno spinto la Corte ad irrogarle una pena detentiva di 3 mesi – invero mite – sospesa condizionalmente per gli illeciti da lei commessi (sentenza, pag. 30–32). In punto al principio del risarcimento riconosciuto alla banca, si rinvia a quanto già discusso al consid. 7.
14.
Quanto alla richiesta di assistenza giudiziaria, limitata nella fattispecie al gratuito patrocinio (act. 29), competente a decidere, come già indicato (v. consid. 8) è il Giudice dell’istruzione e dell’arresto (art. 26 cpv. 1 Lag).
III. Sulle spese
15.
Gli oneri del ricorso seguono la soccombenza,
ossia sono posti a carico dei ricorrenti (art. 15 cpv. 1 in combinazione con l’art. 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,008 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
dd997fe6-a91d-5b78-a0aa-cb4d9be3b4e0 | in fatto ed in diritto
che a seguito della denuncia/querela 30.04./4.05.2004 sporta da PI 2 nei confronti di IS 1 per varie ipotesi di reato in relazione ad alcuni fatti accaduti, tra l’altro, il 28.04.2004
, ai di lei danni e ai danni del figlio _, il Ministero pubblico ha aperto un procedimento penale (inc. MP _) sfociato dapprima nel decreto di accusa 11.07.2005 mediante il quale l’allora procuratore pubblico Luca Maghetti ha posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale IS 1 siccome ritenuto colpevole di furto, minaccia e violazione di domicilio ed ha proposto la sua condanna alla pena di cinque giorni di detenzione sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni a valere quale pena interamente aggiuntiva al DA _ del 24.05.2004 e al pagamento della tassa di giustizia e delle spese, rinviando la parte civile al competente foro per le sue pretese (DA _);
che avverso il suddetto decreto IS 1 ha interposto tem-pestiva opposizione;
che il 7.07.2006 l’allora giudice della Pretura penale Giorgio Bassetti ha prosciolto IS 1 dalle imputazioni di furto e di minaccia e lo ha nondimeno dichiarato autore colpevole di violazione di domicilio
"
per essersi indebitamente introdotto, al fine di appropriarsi di un cancello da lui asserito di sua proprietà, nel fondo in uso e godimento al figlio _ e alla signora PI 2, contro la di loro volontà
"
, condannandolo alla multa di CHF 150.-- e al pagamento della tassa di giustizia e delle spese (inc. _);
che la summenzionata sentenza è regolarmente passata in giudicato (inc. _);
che con la presente istanza – trasmessa, per competenza, dal Ministero pubblico a questa Corte – l’avv. PR 1 chiede, in nome e per conto del suo assistito IS 1 (cfr., al proposito copia procura del 9.04.2013, doc. 1.a), la trasmissione, in copia, di un decreto di accusa (passato in giudicato), in cui il suo cliente è stato condannato verosimilmente per il reato di violazione di domicilio in relazione a fatti accaduti sei/sette anni fa;
che a sostegno della sua richiesta precisa che dinanzi alla Pretura di _ sarebbe pendente una vertenza di natura successoria contro _ e la di lei figlia _ (doc. CRP 1.a);
che, come esposto in entrata, il procuratore generale ha preavvisato favorevolmente la presente richiesta;
che questa Corte non ha ritenuto necessario interpellare PI 2, parte civile ai sensi del CPP TI nel procedimento penale di cui all’incarto _ nel frattempo archiviato, essendo il qui istante stato parte (in qualità di accusato ai sensi del CPP TI) al medesimo;
che l’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha ripreso il previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
";
che nel presente caso, pur essendo stato l’istante parte (in qualità di accusato ai sensi del CPP TI) nel procedimento nel frattempo terminato, egli deve seguire la procedura prevista dall’art. 62 cpv. 4 LOG e dimostrare un interesse giuridico legittimo;
che,
come ricordano i lavori preparatori, l’art. 27 CPP TI si applicava pure alle richieste di ispezione degli atti presentate dalle parti, dopo che il procedimento era terminato (Messaggio CdS dell’11.03.1987, ad art. 8 p. 10);
che inoltre in base ai successivi lavori preparatori, per le ex parti di un procedimento penale concluso, l’interesse giuridico legittimo era presunto (Rapporto della Commissione speciale dell’8.11.1994 p. 19);
che lo stesso principio vale oggi per l’art. 62 cpv. 4 LOG;
che nella fattispecie in esame – visti i motivi addotti nella presente richiesta e il contenuto dell’incarto penale sfociato nella sentenza di condanna 7.07.2006 a carico di IS 1 (passata in giudicato) – appare dato un interesse giuridico legittimo del qui istante giusta l’art. 62 cpv. 4 LOG ad ottenere copia della sentenza 7.07.2006 emanata dall’allora giudice Giorgio Bassetti e del relativo verbale del dibattimento (inc. _), poiché il procedimento penale nel frattempo archiviato l’ha interessato personalmente in veste di parte;
che considerato come alcuni atti istruttori del summenzionato procedimento penale potrebbero essere potenzialmente utili per il patrocinatore del qui istante ad avere un quadro più completo dei rapporti che esistevano tra le parti ed eventualmente per la procedura civile pendente presso la Pretura di _, questa Corte autorizza inoltre l’avv. PR 1 ad esaminare, presso il Ministero pubblico di _, l’incarto DA _ (corrispondente all’incarto _ della Pretura penale), concordando le modalità di accesso con il procuratore generale, compatibilmente con i suoi impegni;
che il patrocinatore è, se del caso, autorizzato a fotocopiare gli atti istruttori utili alle sue incombenze;
che l’istanza è accolta ai sensi delle surriferite considerazioni;
che si rinuncia al prelievo di tassa di giustizia e spese, essendo IS 1 già stato parte al summenzionato procedimento penale, nel frattempo archiviato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
dda651ab-c4dd-55d4-8ac3-244d7585aafd | in fatto
a
. Con decreto 29.4.2013 il procuratore pubblico ha posto RE 1 in stato di accusa davanti alla Pretura penale siccome ritenuto colpevole di infrazione alla Legge federale sugli stranieri (inganno nei confronti delle autorità) “
per avere, a _, in data 18.05.2009, fornendo dati falsi in merito ai suoi precedenti penali, e meglio dichiarando, in occasione della compilazione del formulario ‘Autocertificazione precedenti penali per cittadini UE-AELS e di Stati terzi dove non vige l’obbligo della presentazione del certificato penale’, di non essere mai stato condannato, nonostante i suoi precedenti penali in _, ottenuto il rilascio del permesso di dimora su territorio svizzero
”. Ha proposto la sua condanna alla pena pecuniaria di 20 aliquote giornaliere corrispondenti a complessivi CHF 2'200.--, sospendendo l’esecuzione della pena condizionalmente per un periodo di prova di 2 anni, alla multa di CHF 200.-- (con l’avvertenza che in caso di mancato pagamento la stessa sarà sostituita con una pena detentiva di 2 giorni) ed al pagamento della tassa di giustizia e delle spese (DA _).
Il decreto è stato intimato all’imputato per raccomandata in data 29.4.2013. Il 10.5.2013 è stato rinviato al magistrato inquirente, che l’ha ricevuto il 13.5.2013, siccome non ritirato. Il decreto è stato rispedito all’imputato per lettera semplice il 13.5.2013.
b
. Con scritto 22/23.5.2013 RE 1 – per il tramite dell’avv. PR 1 – ha interposto opposizione al decreto di accusa, esprimendo le motivazioni per ritenere l’opposizione tempestiva, e meglio affermando di essersi trovato presso l’Ospedale di _ per un’operazione all’occhio, nel periodo della notifica per raccomandata del decreto d’accusa.
Ha contestualmente contestato i fatti e l’imputazione addotti a suo carico.
c
. Il 24.5.2013 il procuratore pubblico ha confermato il decreto di accusa e ha trasmesso gli atti alla Pretura penale per procedere al dibattimento.
d
. Il presidente della Pretura penale, il 5.6.2013, considerato che l’opposizione sembrava essere tardiva, ha assegnato a RE 1 un termine di dieci giorni per pronunciarsi in merito alla tempestività dell’atto e per produrre eventuali documenti.
e
. L’11/12.6.2013 RE 1, sempre per il tramite del suo legale, con riferimento alla predetta comunicazione 5.6.2013, ha ribadito di non aver potuto ritirare, senza sua colpa, la decisione notificatagli per raccomandata il 29.4.2013, in quanto assente all’estero per un intervento chirurgico. Lo stesso ha aggiunto che non si aspettava la notifica di un decreto di accusa in quel periodo, in quanto la polizia, dopo averlo “
ascoltato
” una volta, aveva solo annunciato che il caso sarebbe stato inviato al magistrato inquirente per il proseguimento dell’inchiesta.
Ha chiesto che venisse considerata quale valida notifica l’invio del decreto d’accusa per posta semplice, e di conseguenza l’opposizione tempestiva.
In via subordinata RE 1 ha chiesto che l’opposizione inoltrata sia ammessa a titolo di restituzione dei termini ex art. 94 cpv. 1 CPP, ritenuto come avrebbe subito un pregiudizio giuridico importante con la pena formulata nei suoi confronti, ed il mancato ritiro della raccomandata sarebbe “
sicuramente scusabile dal momento che (...) era in _ occupato da visite mediche e da un’operazione all’occhio come dimostrato sopra. Esso è rientrato il 12.5.2013
” (cfr. scritto 11/12.6.2013, p. 2, doc. 3, inc. Pretura penale _).
f
. Con decreto 21.6.2013 il presidente della Pretura penale ha dichiarato irricevibile l’opposizione interposta al decreto di accusa.
Ha ritenuto che essa fosse stata presentata in maniera tardiva.
Lo stesso ha nel contempo respinto l’istanza di restituzione dei termini, confermando che la crescita in giudicato del decreto d’accusa costituirebbe effettivamente un irrimediabile pregiudizio giuridico, ma che tuttavia è importante che non vi sia colpa alcuna, neppure lieve, nel mancato rispetto dei termini.
Il presidente della Pretura penale ha affermato che “
in ogni caso martedì 30 aprile 2013 l’imputato si trovava a casa e quindi ha per forza di cose visto l’avviso di ricevimento della raccomandata da parte del Ministero pubblico, (...); che l’imputato, dando per buona la sua versione dei fatti, si è infatti assentato il 1 maggio 2013 verso l’_ per essere sottoposto il 6 maggio 2013 all’intervento chirurgico (...)
”, e che se fosse stato diligente avrebbe dovuto incaricare qualcuno di ritirare la sua corrispondenza, ritenuto inoltre come egli avrebbe dovuto attendersi di ricevere una decisione (decreto 21.6.2013, p. 4, doc. 5, inc. Pretura penale _).
g
. Con gravame 1/2.7.2013 RE 1 postula, in accoglimento dell’impugnativa, che la citata decisione sia annullata, che sia accolta l’istanza di restituzione per inosservanza del termine e che sia accolta l’opposizione al noto decreto di accusa.
Il reclamante, ripercorsi i fatti relativi al mancato ritiro della raccomandata in questione ed all’inoltro dell’opposizione dopo l’invio del citato decreto d’accusa per posta semplice, contesta la conclusione alla quale è giunto il presidente della Pretura penale nel decreto impugnato.
In particolare, RE 1 conferma di essere stato assente dal suo domicilio anche in data 29/30.4.2013, e ciò contrariamente a quanto preteso nel decreto impugnato. A riprova di ciò, lo stesso allega la dichiarazione 27.6.2013 dell’avv. _, _ (cfr. doc. B allegato al reclamo 1/2.7.2013), dalla quale risulta che il reclamante si trovava presso il suo studio – per una vertenza di natura successoria a seguito del decesso della madre – in data 29.4.2013 alle ore 14:30 ed il giorno successivo alle ore 17:00.
Il reclamante ha poi precisato di aver passato la notte tra il 29 ed il 30.4.2013 presso l’abitazione della defunta madre a _ (_), e ciò al fine di recuperare la documentazione mancante da consegnare al legale.
Ciò a suo dire dimostrerebbe l’assenza di colpa da parte sua nel non aver visto l’avviso di ritiro della raccomandata del Ministero pubblico.
Lo stesso ribadisce che dall’1.5.2013 al 12.5.2013 è rimasto in _ “
a seguito delle varie visite a cui si è sottoposto correlate all’intervento del 6 maggio 2013 come già documentato alla Pretura penale
” (reclamo 1/2.7.2013, p. 4).
In siffatte circostanze, il motivo di impedimento per interporre opposizione sarebbe decaduto il 12.5.2013, di modo che la richiesta di restituzione in intero dell’11.6.2013 sarebbe rispettosa del termine di 30 giorni di cui all’art. 94 cpv. 2 CPP.
Delle ulteriori argomentazioni, della replica e delle osservazioni del presidente della Pretura penale si dirà, se necessario, in seguito. | in diritto
1
. Giusta l’art. 393 cpv. 1 lit. b CPP il reclamo può essere interposto – entro il termine di dieci giorni – contro i decreti e le ordinanze, nonché gli atti procedurali, dei tribunali di primo grado; sono eccettuati le decisioni ordinatorie e i casi in cui è espressamente escluso dal CPP o quando è prevista un’altra impugnativa.
Con il gravame, da introdurre davanti alla giurisdizione di reclamo (art. 20 cpv. 1 lit. a CPP), ovvero – in Ticino – alla Corte dei reclami penali (art. 62 cpv. 2 LOG), si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l’eccesso e l’abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l’accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l’inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta ed all’art. 385 CPP per la motivazione.
Esso deve indicare – in particolare – i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
2
.
Il gravame, inoltrato l’1/2.7.2013 contro il decreto 21.6.2013 del presidente della Pretura penale, è tempestivo (siccome presentato nel termine di dieci giorni giusta l’art. 396 cpv. 1 CPP).
L’impugnativa è anche proponibile: la decisione del tribunale di primo grado – competente a pronunciarsi,
tra l’altro, sulla tardività dell’opposizione (N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 356 CPP n. 3; BSK StPO – F. RIKLIN, art. 354 CPP n. 17 e art. 356 CPP n. 2; ZK StPO – C. SCHWARZENEGGER, art. 356 CPP n. 2) – è impugnabile, in applicazione degli art. 393 ss. CPP, alla giurisdizione di reclamo (N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 356 CPP n. 3; BSK StPO – F. RIKLIN, art. 356 CPP n. 2; ZK StPO – C. SCHWARZENEGGER, art. 356 CPP n. 2; decisioni di questa Corte 8.7.2011, inc. 60.2011.175; 18.10.2011, inc. 60.2011.309; 18.10.2011, inc. 60.2011.310).
Le esigenze di forma e motivazione del reclamo sono rispettate.
RE 1, imputato, è pacificamente legittimato a reclamare ex art. 382 cpv. 1 CPP avendo un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica del menzionato decreto.
Il gravame è perciò nelle predette circostanze ricevibile in ordine.
3
. 3.1.
La procedura del decreto di accusa è disciplinata agli art. 352 ss. CPP.
Il decreto di accusa può essere impugnato entro dieci giorni con opposizione scritta al pubblico ministero da: a. l’imputato; b. altri diretti interessati; c. il pubblico ministero superiore o generale della Confederazione o del Cantone nel rispettivo procedimento federale o cantonale (art. 354 cpv. 1 CPP). Ad eccezione di quella dell’imputato, l’opposizione deve essere motivata (art. 354 cpv. 2 CPP). Se non vi è valida opposizione, il decreto di accusa diviene sentenza passata in giudicato (art. 354 cpv. 3 CPP).
Se è fatta opposizione, il caso passa nuovamente nelle mani del pubblico ministero (Messaggio 21.12.2005
concernente l’unificazione del diritto processuale penale, p. 1194; BSK StPO – F. RIKLIN, art. 355 CPP n. 1), che
assume se del caso le ulteriori prove necessarie al giudizio sull’opposizione (art. 355 cpv. 1 CPP). Una volta assunte le prove, il pubblico ministero decide se: a. confermare il decreto di accusa; b. abbandonare il procedimento; c. emettere un nuovo decreto di accusa; d. promuovere l’accusa presso il tribunale di primo grado (art. 355 cpv. 3 CPP).
Se decide di confermare il decreto di accusa, il pubblico ministero trasmette senza indugio gli atti al tribunale di primo grado affinché svolga la procedura dibattimentale; in tal caso, il decreto di accusa è considerato atto di accusa (art. 356 cpv. 1 CPP).
Secondo l’art. 356 cpv. 2 CPP il tribunale di primo grado statuisce sulla validità del decreto di accusa e dell’opposizione.
3.2.
In applicazione dell’art. 85 cpv. 1 CPP, salvo che il CPP disponga altrimenti, le comunicazioni delle autorità penali – comunicazioni da notificarsi al domicilio, alla dimora abituale o alla sede del destinatario (art. 87 cpv. 1 CPP) – rivestono la forma scritta.
La notificazione è fatta mediante invio postale raccomandato o in altro modo contro ricevuta, segnatamente per il tramite della polizia (art. 85 cpv. 2 CPP). La notificazione è considerata avvenuta quando l’invio è preso in consegna dal destinatario oppure da un suo impiegato o da una persona che vive nella stessa economia domestica aventi almeno sedici anni; sono fatti salvi i casi in cui le autorità penali dispongono che una comunicazione sia notificata personalmente al destinatario (art. 85 cpv. 3 CPP).
Secondo l’art. 85 cpv. 4 lit. a CPP, disposizione che ha codificato i principi giurisprudenziali (decisione TF 6B_314/2012 del 18.2.2013 consid. 1.2.), la notificazione è pure considerata avvenuta, tra l’altro, in caso di invio postale raccomandato non ritirato, il settimo giorno dal tentativo di consegna infruttuoso, sempre che il destinatario dovesse aspettarsi una notificazione.
Una persona deve attendersi una notificazione quando c’è una procedura in corso che la concerne, circostanza che impone alle parti di comportarsi conformemente alle regole della buona fede, che prescrive, segnatamente, che le parti devono fare in modo che le decisioni inerenti alla procedura possano essere loro notificate. Il dovere procedurale di doversi attendere con una certa probabilità la ricezione di una notificazione di un atto ufficiale sorge con l’apertura del procedimento penale e vale durante tutto il corso dello stesso (decisione TF 6B_314/2012 del 18.2.2013 consid.
1.3.1.; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 85 CPP n. 9; ZK StPO – D. BRÜSCHWEILER, art. 85 CPP n. 6).
L’onere della prova per la notifica delle decisioni incombe, di principio, alle autorità (decisione TF 6B_465/2012 del 12.9.2012 consid. 5.3.). Tuttavia, contrariamente a tale onere della prova, per gli invii raccomandati vi è la (confutabile) presunzione che l’ufficio postale abbia correttamente inserito l’avviso di raccomandata nella buca lettere del destinatario e che la data della notifica sia registrata correttamente (decisione TF
6B_314/2012 del 18.2.2013 consid.
1.4.1.; BSK StPO – S. ARQUINT, art. 85 CPP n. 11; ZK StPO – D. BRÜSCHWEILER, art. 85 CPP n. 7).
3.3.
A’ sensi dell’art. 90 cpv. 1 CPP i termini la cui decorrenza dipende da una notificazione o dal verificarsi di un evento decorrono dal giorno successivo. Se l’ultimo giorno del termine è un sabato, una domenica o un giorno riconosciuto festivo dal diritto federale o cantonale, il termine scade, secondo l’art. 90 cpv. 2 CPP, il primo giorno feriale seguente; è determinante il diritto del Cantone in cui ha domicilio o sede la parte o il suo patrocinatore.
Il termine è osservato se l’atto procedurale è compiuto presso l’autorità competente al più tardi l’ultimo giorno (art. 91 cpv. 1 CPP). In applicazione dell’art. 91 cpv. 2 CPP le istanze o memorie devono essere consegnate al più tardi l’ultimo giorno del termine presso l’autorità penale oppure, all’indirizzo di questa, presso la posta svizzera, una rappresentanza diplomatica o consolare svizzera oppure, per finire, qualora provengano da persone in stato di carcerazione, alla direzione dello stabilimento.
Vi è inosservanza di un termine quando una parte non compie tempestivamente un atto procedurale oppure non compare a un’udienza (art. 93 CPP). Il motivo dell’inosservanza del termine – con colpa, senza colpa – è irrilevante (BSK StPO – C. RIEDO, art. 93 CPP n. 5; ZK StPO – D. BRÜSCHWEILER, art. 93 CPP n. 2; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 93 CPP n. 2).
4
. 4.1.
L’art. 85 cpv. 4 lit. a CPP presuppone anzitutto che il destinatario dovesse aspettarsi la notificazione di un atto.
Tale aspetto viene esaminato nella fattispecie nonostante non sia stato contestato in sede di reclamo, in quanto utile anche per quanto attiene all’istanza di restituzione dei termini di cui si dirà in seguito.
4.2.
Come detto sopra, RE 1, unicamente dinanzi alla Pretura penale, ha contestato di doversi aspettare la notifica di un decreto d’accusa in quel periodo, e ciò in quanto era stato ascoltato una volta in Polizia, senza che gli sarebbe stato prospettato un qualsiasi particolare provvedimento nei suoi confronti, se non che il caso sarebbe stato inviato al magistrato inquirente per il proseguimento dell’inchiesta.
Dal rapporto di inchiesta di polizia giudiziaria 25.2.2013 (AI 1, inc. MP _) risulta che RE 1 è stato sentito quale imputato il 20.2.2013.
All’inizio dell’interrogatorio la polizia ha comunicato all’imputato l’apertura di un procedimento penale a suo carico per conseguimento fraudolento di una falsa attestazione in relazione ai fatti in questione. RE 1 ha poi confermato di aver preso atto dei suoi diritti e obblighi e di averli compresi (cfr. verbale di interrogatorio 20.2.2103, p. 1, in AI 1).
Al termine dell’audizione l’agente di polizia interrogante gli ha fatto prendere atto che “
(...) vengo rilasciato ed informato che mi devo tenere a disposizione delle Autorità penali per il proseguimento dell’inchiesta
” (verbale di interrogatorio 20.2.2013, p. 9).
In siffatte circostanze si può concludere che RE 1 fosse ben cosciente di essere parte di un procedimento penale. Egli doveva di conseguenza aspettarsi di ricevere atti da parte delle autorità penali nel contesto di questo procedimento penale a suo carico, tra i quali (anche) un decreto di accusa, peraltro emanato solo due mesi dopo il citato verbale di interrogatorio.
Il fatto che il reclamante sia stato informato in merito all’apertura del procedimento penale a suo carico dalla polizia e non dal procuratore pubblico non muta la predetta conclusione.
Per ammettere che una persona dovesse attendersi la notificazione di un decreto di accusa non è necessario che l’informazione sia effettuata dal magistrato inquirente (decisione TF 6B_314/2012 del 18.2.2013 consid. 1.3.2.).
4.3.
Come esposto nei considerandi in fatto (cfr. consid. a.), dagli atti risulta che il decreto di accusa 29.4.2013 (DA _) è stato intimato, per raccomandata, a RE 1 il medesimo giorno.
Dalla busta agli atti dell’incarto penale, emerge che in data 30.4.2013 il destinatario è stato informato dell’invio per mezzo dell’usuale avviso (“
emesso avviso di ritiro
”) e che il termine di giacenza scadeva il 7.5.2013.
Risulta poi che il 10.5.2013 la raccomandata è stata rinviata al magistrato inquirente, che l’ha ricevuta il 13.5.2013, siccome non ritirata. Il decreto è stato rispedito all’imputato, per conoscenza (come esplicitamente indicato sullo stesso decreto di accusa), per lettera semplice il 13.5.2013.
Si deve quindi ritenere che, in applicazione dell’art. 85 cpv. 4 lit. a CPP, il termine per presentare opposizione, ex art. 354 cpv. 1 e 90 cpv. 1 CPP, ha perciò cominciato a decorrere l’8.5.2013 ed è scaduto il 17.5.2013.
L’opposizione è stata introdotta il 22.5.2012, oltre la scadenza del termine, per cui non è stato osservato (art. 93 CPP).
L’invio di data 13.5.2013 del decreto di accusa per posta semplice è irrilevante al fine della decorrenza del termine: determinante è soltanto l’intimazione per raccomandata occorsa il 29.4.2013.
A ragione il presidente della Pretura penale ha dunque reputato tardiva l’opposizione e pertanto irricevibile la medesima.
5
. 5.1.
Il presidente della Pretura penale, nel suo decreto, ha inoltre respinto l’istanza 11/12.6.2013 di restituzione del termine giusta l’art. 94 CPP, ritenuto come – secondo le motivazioni addotte da RE 1 – lo stesso avrebbe dovuto essere al suo domicilio in data 30.4.2013, di modo che avrebbe potuto vedere l’avviso di ricevimento della raccomandata da parte del Ministero pubblico, recapitatogli la mattina stessa.
Come esposto al considerando g., unicamente in questa sede il reclamante sostiene di essersi presentato ad un appuntamento presso un avvocato a _ il 29.4.2013 (alle ore 14:30), di aver passato la notte tra il 29 ed il 30.4.2013 in _ e di essersi recato nel medesimo studio legale anche il 30.4.2013 alle ore 17:00 (cfr. doc. B allegato al reclamo 1/2.7.2013). Ciò dimostrerebbe a suo dire che - senza colpa alcuna - non avrebbe visto l’avviso di raccomandata in questione.
5.2.
5.2.1.
L’art. 94 CPP – che disciplina i presupposti per la restituzione di un termine – prevede, al cpv. 1, che la parte che – non avendo osservato un termine – ha subito un pregiudizio giuridico importante e irrimediabile possa chiederne la restituzione; a tal fine deve rendere verosimile di non avere colpa dell’inosservanza.
L’istanza va motivata e presentata per scritto entro 30 giorni dalla cessazione del motivo dell’inosservanza all’autorità presso cui avrebbe dovuto essere compiuto l’atto procedurale omesso; entro lo stesso termine occorre compiere l’atto omesso (cpv. 2).
5.2.2.
La possibilità della restituzione del termine è esclusa quando sia data una qualsiasi colpa, quindi anche nel caso di una negligenza solo lieve (BSK StPO – C. RIEDO, art. 94 CPP n. 32 ss.; ZK StPO – D. BRÜSCHWEILER, art. 94 CPP n. 2; decisioni TF 6B_318/2012 del 21.1.2013 consid. 1.2.; 1B_741/2012 del 14.1.2013 consid. 3.). La restituzione del termine è concessa quando ci sono motivi oggettivamente riscontrabili, cioè ragioni che hanno reso impossibile il rispetto del termine medesimo (N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 94 CPP n. 6; Commentario CPP – M. GALLIANI / L. MARCELLINI, art. 94 CPP n. 2).
L’irrimediabile pregiudizio giuridico a’ sensi dell’art. 94 cpv. 1 CPP può consistere nella perdita di una possibilità di ricorso (BSK StPO – C. RIEDO, art. 94 CPP n. 26 ss., in particolare n. 29; ZK StPO – D. BRÜSCHWEILER, art. 94 CPP n. 2; Commentario CPP – M. GALLIANI / L. MARCELLINI, art. 94 CPP n. 1).
5.3.
5.3.1.
Pacifica e ammessa anche nel decreto impugnato l’esistenza di un irrimediabile pregiudizio giuridico in relazione alla crescita in giudicato del decreto d’accusa 29.4.2013.
5.3.2.
Già esaminata la questione relativa al fatto che il reclamante dovesse aspettarsi la notifica di un atto da parte delle autorità (cfr. considerando 4.2.), resta ora da esaminare l’assenza di colpa, anche lieve, da parte di RE 1, nell’inosservanza del termine per interporre opposizione.
A dire del reclamante lo stesso sarebbe stato assente dal suo domicilio di _, dal 29 al 30.4.2013, ed ancora dal 1° al 12.5.2013, in quanto impegnato in _ per questioni successorie prima e mediche dopo.
Si rileva anzitutto come non sia stato sufficientemente provata dal reclamante la circostanza secondo cui lo stesso avrebbe passato la notte tra il 29 ed il 30.4.2013 presso il domicilio della defunta madre in _. Il fatto che RE 1 avesse un appuntamento presso uno studio legale di _ il 29.4.2013 alle ore 14:30 ed il giorno successivo alle ore 17:00 (cfr. doc. B allegato al reclamo 1/2.7.2013), ancora non significa che lo stesso non abbia fatto ritorno al suo domicilio ticinese.
Vero è, come sostenuto dal reclamante, che non vi è un obbligo legale che impone di consultare/verificare la propria corrispondenza quotidianamente. Tuttavia, a prescindere da ciò, va sottolineato che il fatto di essere assente all’estero non è, di per sé, motivo di restituzione: la restituzione dei termini è infatti ammessa soltanto qualora una circostanza abbia posto l’interessato, oggettivamente o soggettivamente, nell’impossibilità di agire personalmente o di incaricare una terza persona di farlo, non quando l’imputato che doveva attendersi una notificazione di un atto giudiziario non prende le misure necessarie alla salvaguardia dei suoi diritti (decisione TF 1B_741/2012 del 14.1.2013 consid. 3.), come nel caso concreto.
Dagli atti risulta infatti che RE 1 si è allontanato dal suo domicilio per ben 14 giorni (dal 29.4.2013 al 12.5.2013), e ciò senza preoccuparsi minimamente di organizzarsi ed incaricare qualcuno di ritirare la sua corrispondenza, nonostante - come detto - fosse ben cosciente di essere imputato in un procedimento penale.
Abbondanzialmente si rileva inoltre che il reclamante, quando ha fatto rientro al suo domicilio domenica 12.5.2013, non si è preoccupato, trovando l’avviso di raccomandata nella sua bucalettere, di chiedere informazioni alla Posta o allo stesso Ministero pubblico, al fine di sapere di cosa si trattasse.
Considerato come il termine è scaduto il 17.5.2013, lo stesso avrebbe avuto ancora 5 giorni per inoltrare opposizione al Ministero pubblico, visto inoltre come non vi sia per l’imputato un obbligo di motivazione della stessa (art. 354 cpv. 2 CPP).
Rientato al suo domicilio, lo stesso ha di contro aspettato ulteriori 10 giorni per presentare l’opposizione che qui ci occupa.
5.3.3.
Nel caso concreto, visto quanto sopra esposto, non si può ritenere che RE 1 abbia avuto ragioni che hanno oggettivamente reso impossibile il rispetto del citato termine o che sia stato impossibilitato ad incaricare un terzo al fine di preservarlo (dovere che gli incombeva vista la sua lunga assenza da domicilio e la sua conoscenza di essere imputato in un procedimento penale).
In siffatte circostanze, a ragione quindi il presidente della Pretura penale ha respinto l’istanza di restituzione in intero.
6
. Il gravame è respinto. La tassa di giustizia e le spese sono poste a carico del reclamante, soccombente. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
ddb21bc1-8537-5ec2-93da-2498dcac8975 | in fatto
a.
N
ell'ambito del procedimento penale (inc. MP _) promosso nei confronti di _ per titolo di tentato duplice omicidio intenzionale, aggressione, infrazione alla LF sulle armi, contravvenzione alla LF sugli stupefacenti, in relazione ai fatti avvenuti in data 24.1.2010 presso la discoteca _ di _, conclusosi con la sentenza di condanna 8.10.2010 emanata dalla Corte delle assise criminali (inc. _), con istanza 11/14.6.2010 presentata all’allora Ufficio del giudice dell’istruzione e dell’arresto PI 2, in qualità di parte civile (vittima del tentato omicidio intenzionale), ha postulato la concessione del gratuito patrocinio (inc. GPC _, AI 1).
Con
decisione 18.3.2011 il giudice dei provvedimenti coercitivi
(in seguito GPC), sedente quale ex giudice dell’istruzione e dell’arresto competente in materia Lag (legge sul patrocinio d’ufficio e sull’assistenza giudiziaria del 3.6.2002) al momento dell’introduzione dell’istanza di gratuito patrocinio,
ha respinto tale richiesta (AI 9).
A seguito del reclamo 30/31.3.2011 presentato da PI 2 avverso la suddetta decisione, questa Corte con sentenza 23.5.2011 (inc. CRP _) ha accolto il gravame ammettendo lo stesso PI 2 al beneficio dell’assistenza giudiziaria e del gratuito patrocinio da parte dell’avv. RE 1, per quanto concerne il procedimento di cui all’inc. TPC _.
b.
Con scritto 7/8.6.2011 l’avv. RE 1 ha trasmesso al GPC la sua nota professionale 7.6.2011 per un totale di CHF 11'946.67, concernente il gratuito patrocinio di PI 2 nell’ambito del procedimento penale sopra citato, al fine di ottenerne la tassazione (AI 13, inc. GPC _).
c.
Con decisione 9.1.2012 il GPC, sedente quale ex GIAR in materia di assistenza giudiziaria ai sensi della legge sul patrocinio d'ufficio e l'assistenza giudiziaria (Lag) in vigore al momento della chiusura del procedimento penale (ottobre 2010), ha decretato di approvare la nota professionale in questione per la somma totale di CHF 7'827.90 (decreto di tassazione 9.1.2012, AI 14).
Il magistrato ha ritenuto di non poter riconoscere il tempo esposto per l’invio di copie per conoscenza al cliente, “
in quanto non sempre necessarie per la difesa e comprese più in generale nelle spese generali dello studio legale (./. 40 min.)
”, ha ridotto di 60 min il tempo per il colloquio con il cliente del 1°.10.2010, e di 300 min quello per la preparazione al dibattimento, “
avendo il difensore partecipato a tutto il dibattimento ed essendosi associato alle richieste del PP
” (decreto di tassazione 9.1.2012, p. 1, AI 14).
Per i restanti minuti approvati (2'160 min), il GPC ha riconosciuto una tariffa oraria di CHF 180.--.
d.
Contro tale decisione si aggrava l'avv. RE 1 con reclamo 12/16.1.2012, postulandone l'accoglimento e quindi l'annullamento della decisione impugnata e la conferma integrale della sua nota d’onorario 7.6.2011.
Egli contesta la prima riduzione operata dal GPC relativa ai 40 min legati all’allestimento delle copie per conoscenza al cliente, ritenuto che il magistrato non ha specificato quali invii erano necessari e quali no, di modo che tale defalcazione risulta pertanto essere indiscriminata e priva di giustificazione (reclamo 12/16.1.2012, p. 3).
Confuta pure la seconda riduzione operata dal GPC di 60 min per il colloquio con il cliente del 1°.10.2010, ossia 5 giorni prima dell’apertura del processo, ritenendo che si è trattato di “
un dibattimento dinnanzi ad una Corte criminale dove si dibatteva di un tentato (duplice) omicidio volontario e dove il processo era indiziario
” (reclamo 12/16.1.2012, p. 3). Inoltre, afferma di aver assunto il mandato solo al momento in cui è stato emanato l’atto d’accusa e che il 1°.10.2010 “
era solo la seconda volta che incontrava il cliente
”, motivo per cui “
un colloquio di 2 ore era ampiamente adeguato alle esigenze del caso
” (reclamo 12/16.1.2012, p. 3).
L’avv. RE 1 contesta infine il mancato riconoscimento di 5 ore per la preparazione del dibattimento, affermando di aver dovuto leggere l’intero incarto (composto da 3 classificatori), preparare l’interrogatorio delle parti in aula (viste anche le numerose divergenze emerse tra i vari testimoni) e preparare l’arringa (durata circa 40 min). Lo stesso ribadisce inoltre al proposito di non aver partecipato alla fase d’inchiesta ma di essere intervenuto solo al momento dell’emanazione dell’atto d’accusa.
Postula infine la messa a carico dello Stato di tassa di giustizia e spese, nonché il riconoscimento di CHF 300.-- a titolo di ripetibili per l’allestimento del presente gravame. | in diritto
1.
1.1.
L'1.1.2011 è entrato in vigore il Codice di diritto processuale penale svizzero (Codice di procedura penale, CPP), che, tra l'altro, disciplina il patrocinio d'ufficio e l'assistenza giudiziaria agli art. 132 ss. CPP. Di riflesso, per la forza derogatoria del diritto federale, anche in tale materia si è reso necessario adeguare il diritto cantonale vigente sino ad allora.
La legge sul patrocinio d'ufficio e sull'assistenza giudiziaria (Lag) del 3.6.2002, in vigore dal 30.7.2002, è stata abrogata e sostituita da una nuova Legge sull'assistenza giudiziaria e sul patrocinio d'ufficio (LAG) del 15.3.2011, retroattivamente posta in vigore dall'1.1.2011. Legge questa applicabile alle altre procedure non già regolate dai nuovi codici di diritto processuale penale e civile svizzero (cfr. Messaggio n. 6407 del Consiglio di Stato del 12.10.2010 concernente la Legge sull'assistenza giudiziaria e sul patrocinio d'ufficio, p. 1).
1.2.
Ora, sino al 31.12.2010 competente a tassare le note professionali dei difensori nominati d'ufficio e dei difensori di fiducia al beneficio del gratuito patrocinio era l'autorità di nomina rispettivamente quella concedente il gratuito patrocinio, ovvero l'allora giudice dell'istruzione e dell'arresto (GIAR) giusta gli art. 22 cpv. 1 e 26 della Legge sul patrocinio d'ufficio e sull'assistenza giudiziaria (Lag) del 3.6.2002 (in vigore dal 30.7.2002) - e prima di questa legge dagli art. 50 e 52 CPP TI del 19.12.1994 (in vigore dall'1.1.1996) - contro la cui decisione di retribuzione era possibile ricorrere al Consiglio di moderazione (M. RUSCA / E. SALMINA / C. VERDA, Commento del CPP TI, art. 52 CPP TI n. 14). Con l'entrata in vigore, in particolare, del Codice di procedura penale tutto ciò è stato modificato.
Il nuovo art. 135 cpv. 3 lit. a CPP - applicabile dalla sua entrata in vigore in base agli art. 448 e 449 CPP e anche al caso concreto, non rientrando lo stesso nella fattispecie prevista dall'art. 453 CPP - stabilisce infatti che, in materia di retribuzione, il difensore d'ufficio (ora unico istituto previsto) può interporre reclamo (giusta gli art. 393 ss. CPP) alla giurisdizione di reclamo, che a tenore dell'art. 62 cpv. 2 LOG è la Corte dei reclami penali.
Ne discende la competenza di questa Corte ad esaminare il presente gravame.
1.3.
1.3.1.
Con il reclamo ex art. 393 ss. CPP si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l'eccesso e l'abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l'accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e/o l'inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato entro 10 giorni per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all'art. 390 CPP per la forma scritta ed all'art. 385 CPP per la motivazione.
La persona o l'autorità che lo interpone deve indicare, in particolare, i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
1.3.2.
Nel caso concreto il giudice dei provvedimenti coercitivi nel proprio decreto emanato il 9.1.2012 al dispositivo n. 3 ha - erroneamente - indicato che "
Contro la presente decisione è dato ricorso entro quindici giorni al Consiglio di moderazione
" (cfr. decreto di tassazione 9.1.2012, AI 14).
L'avv. RE 1 ha introdotto il 12/16.1.2012 il proprio gravame contro il citato decreto al Consiglio di moderazione del Tribunale d'appello, che la cancelleria del Tribunale d'appello in data 13.1.2012 ha trasmesso per competenza a questa Corte.
In tali circostanze, anche il termine di 10 giorni per presentare reclamo a questa Corte (cfr. l'art. 396 cpv. 1 CPP) è rispettato.
1.3.3.
L’avv. RE 1, quale destinatario della decisione impugnata, è pacificamente legittimato a reclamare ex art. 382 cpv. 1 CPP avendo un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica della stessa.
Le esigenze di forma e motivazione sono rispettate. Il gravame - nelle predette circostanze - è quindi ricevibile in ordine.
2.
2.1.
Il reclamante contesta anzitutto la prima riduzione operata dal GPC di 40 min esposti nella nota professionale in questione per l’invio di copie per conoscenza al cliente. A torto.
Questa Corte ritiene infatti che tale riduzione sia giustificata nella fattispecie. Nella nota professionale 7.6.2011 vi sono indicate svariate cpc, quelle che interessano la riduzione operata sono 8 cpc da 5 min l’una. Va tuttavia considerato che alcune comunicazioni e/o atti processuali, segnatamente quelli non urgenti, avrebbero potuto essere inviati per conoscenza ad PI 2 ogni 10/15 giorni, ad esempio due per volta, e ciò al fine di limitare le spese.
Il numero di tali invii appare quindi eccessivo e non giustificato dalle effettive necessità istruttorie e quindi di patrocinio. I sopracitati 40 min vengono pertanto stralciati dalla nota professionale in questione.
2.2.
Per quanto concerne la riduzione di 60 min relativi al colloquio con il cliente avvenuto il 1°.10.2010, si ritiene che la stessa non sia giustificata da sufficienti motivi.
Tale incontro è infatti avvenuto 5 giorni prima dell’apertura del processo, che non va dimenticato si è trattato di un dibattimento davanti alla Corte delle assise criminali per il reato, tra gli altri, di tentato (duplice) omicidio intenzionale, dove PI 2 era appunto una delle vittime di tale crimine.
Lo stesso è stato infatti colpito, in data 24.1.2010, all’interno della discoteca _ di _, “
con sei coltellate di cui una all’emitorace sinistro che determinò un idro-pneumotorace e una contusione polmonare, quattro all’addome delle quali una trapassò la parete addominale giungendo a ledere il fegato ed il legamento gastrocolico ed una al braccio sinistro, provocando (...) lesioni gravi che necessitarono la sottoposizione (...) ad intervento chirurgico
” (cfr. sentenza della Corte delle assise correzionali 8.10.2010, p. 2, inc. TPC _).
Dalla nota professionale di cui sopra risulta inoltre che il reclamante ha incontrato il cliente una prima volta in data 11.6.2010 ed unicamente, una seconda volta, appunto in data 1.10.2010 poco prima del processo di cui sopra.
Considerata la fattispecie che andava discussa, come sopra riportato, un colloquio di due ore, pochi giorni prima del dibattimento, appare quindi più che giustificato e non esula le necessità del procedimento penale, peraltro sfociato - come detto- in una sentenza di condanna.
Su tale aspetto il gravame merita quindi accoglimento.
2.3.
A medesima conclusione si giunge per quanto attiene alla riduzione di 300 min per la preparazione al dibattimento.
Dalla nota professionale in questione risulta, in data 4.10.2010 la posizione relativa a “
Preparato processo
” per 8:00 ore, ed in data 5.10.2010 ancora “
Preparato processo
” per 5:00 ore, quest’ultima non riconosciuta in maniera integrale dal GPC nella decisione impugnata.
Ora, come esposto al considerando precedente, vista la gravità del caso, riguardante appunto un fatto di sangue con pesanti conseguenze per PI 2, il tempo esposto dall’avv. RE 1 per la preparazione del dibattimento appare adeguato, e ciò anche se si trattava di patrocinare la parte civile e non l’imputato.
Non va dimenticato poi che il reclamante non ha partecipato a tutta la fase d’inchiesta ma è intervenuto, come più volte ribadito dallo stesso, unicamente al momento dell’emanazione dell’atto d’accusa. L’avv. RE 1 ha quindi dovuto studiare ed esaminare tutti gli atti processuali di cui all’incarto MP _/ACC _, nonché preparare l’arringa e l’interrogatorio delle parti in aula.
Anche sotto tale aspetto il gravame trova quindi accoglimento.
3.
La nota professionale 7.6.2011 dell’avv. RE 1 è pertanto riconosciuta così come esposta, con l’unica riduzione di 40 min relativi all’invio di copie per conoscenza al cliente, come esposto al considerando 2.1.
Considerato poi che, anche se il reclamante non ha contestato esplicitamente la tariffa oraria di CHF 180.-- applicata dal GPC nella decisione impugnata, l’avv. RE 1 chiede nel petitum del gravame che la sua nota d’onorario 7.6.2011 sia “
integralmente confermata
” (reclamo 12/16.1.2012, p. 5), si giustifica di applicare la tariffa oraria di CHF 280.-- così come esposta nella nota professionale in discussione. Viene pertanto riconosciuto un onorario pari a 42 ore a 280.--/ora (tariffa come richiesta).
4.
In siffatte circostanze, il gravame è parzialmente accolto ai sensi dei considerandi. Non si prelevano tassa di giustizia e spese. Lo Stato della Repubblica e del Cantone Ticino rifonderà all’avv. RE 1 ripetibili ridotte, vista la sua parziale soccombenza. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,012 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
ddb21d5a-2b28-5ae2-a661-0df60eb203eb | ritenuto
in fatto: A.
Con decreto d’accusa del 5 febbraio 2013 (DA 557/2013), il procuratore pubblico ha messo AP 1 in stato d’accusa di
omicidio colposo
per avere, a Lugano, in data 6 e 7 aprile 2006, nella sua qualità di infermiere presso il reparto di cure continue dell’Ospedale _, incaricato della cura del paziente VITT1 (_), cagionato per negligenza ed in violazione delle regole dell’arte medica, in concorso con la dr.ssa AP 2, la morte di VITT1, ricoverato dapprima, in data 6 aprile 2006, presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale _, poi presso il reparto di cure continue dell’Ospedale _, ed in seguito, in data 7 aprile 2006, presso il reparto di cure intense dell’Ospedale _, dove, a causa delle complicazioni dell’arresto respiratorio sopraggiunto verso le ore 01:45 del 7 aprile 2006 presso il reparto di cure continue dell’Ospedale _, è deceduto in data 9 gennaio 2007,
e meglio, per avere,
in data 6 aprile 2006, verso le ore 23:15, a seguito di uno stato di agitazione indicato come incontrollabile del paziente VITT1, somministrato a quest’ultimo, progressivamente (da 30 mg/h alle ore 23:15 sino a 100 mg/h alle ore 24.00 circa), di sua iniziativa e senza prescrizione medica, il farmaco anestetico Propofolo (Ansiven), farmaco controindicato nei casi di agitazione, oltretutto se somministrato a un paziente che presentava i sintomi di un’intossicazione da farmaci psicoattivi ed al quale erano stati somministrati degli antagonisti delle benzodiazepine, farmaci che predisponevano alla depressione respiratoria, non essendo inoltre nota la causa dell’agitazione, esame complesso, che doveva essere esperito da un medico competente;
dopo avere somministrato il farmaco Propofolo, per essersi allontanato dal reparto di cure continue per aiutare una collega, allontanamento ingiustificato che non ha permesso di sorvegliare “de visu” il paziente VITT1, non potendo bastare nel caso di somministrazione di tale farmaco l’inserimento di un allarme sonoro, che nel caso di specie, oltretutto, non è stato immediatamente udito, ciò che non ha permesso una tempestiva rianimazione, una corretta ventilazione e intubazione del paziente;
per non avere attivato l’allarme REA per tempo, ossia subito dopo la costatazione dell’arresto respiratorio del paziente VITT1, ritardando in questo modo l’arrivo dell’anestesista di picchetto, la ventilazione e l’intubazione del paziente;
e ne ha proposto la condanna ad una pena pecuniaria di 80 aliquote giornaliere da fr. 110.- ciascuna, per complessivi fr. 8'800.-, pena sospesa per un periodo di prova di due anni.
Inoltre ha rivendicato la condanna del prevenuto al pagamento della tassa di giustizia di fr. 200.- e delle spese per fr. 9'264.-.
B.
Con decreto d’accusa del 5 febbraio 2013 (DA 559/2013), il procuratore pubblico ha messo AP 2 in stato d’accusa di
omicidio colposo
per avere, a Lugano, in data 6 e 7 aprile 2006, nella sua qualità di medico assistente presso il reparto di cure continue dell’Ospedale _, incaricata della cura del paziente VITT1 (_), cagionato per negligenza ed in violazione delle regole dell’arte medica, in concorso con l’infermiere AP 1, la morte di VITT1, ricoverato dapprima, in data 6 aprile 2006, presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale _, poi presso il reparto di cure continue dell’Ospedale _, ed in seguito, in data 7 aprile 2006, presso il reparto di cure intense dell’Ospedale _, dove, a causa delle complicazioni dell’arresto respiratorio sopraggiunto verso le ore 01:45 del 7 aprile 2006 presso il reparto di cure continue dell’Ospedale _, è deceduto in data 9 gennaio 2007,
e meglio per avere, in data 6 aprile 2006, dopo che verso le ore 23:15, a seguito di uno stato di agitazione indicato come incontrollabile del paziente VITT1, l’infermiere AP 1 aveva somministrato a quest’ultimo, progressivamente (da 30 mg/h alle ore 23:15 sino a 100 mg/h alle ore 24.00 circa), di sua iniziativa e senza prescrizione medica, il farmaco anestetico Propofolo (Ansiven), farmaco controindicato nei casi di agitazione, oltretutto se somministrato a un paziente che presentava i sintomi di una intossicazione da farmaci psicoattivi ed al quale erano stati somministrati degli antagonisti delle benzodiazepine, farmaci che predisponevano alla depressione respiratoria, non essendo inoltre nota la causa dell’agitazione, esame complesso, che doveva essere esperito da un medico competente, avallato, continuando a prescriverlo in misura di 100 mg/h, il farmaco Propofolo, nonostante il medico di picchetto abbia disposto una riduzione del farmaco a bassi livelli, tali da permettere al paziente di restare sveglio, e comunque di valutare la cessazione della somministrazione;
e ne ha proposto la condanna ad una pena pecuniaria di 60 aliquote giornaliere da fr. 130.- ciascuna, per complessivi fr. 7'800.-, pena sospesa per un periodo di prova di due anni.
Inoltre ha rivendicato la condanna della prevenuta al pagamento della tassa di giustizia di fr. 200.- e delle spese per fr. 3'088.-.
C.
Con sentenza 25 luglio 2013, il giudice della Pretura penale ha confermato integralmente i due decreti d’accusa, giudicando AP 1 e AP 2 autori colpevoli di omicidio colposo per i fatti ivi descritti.
Di conseguenza, sono state pure integralmente confermate le proposte di pena formulate a carico dei due prevenuti dalla pubblica accusa.
A carico di AP 1 sono state pure poste spese giudiziarie di complessivi fr. 10'564.-, mentre a quello di AP 2 sono state caricate spese giudiziarie per fr. 4'388.-.
D.
I due condannati hanno tempestivamente annunciato di voler interporre appello contro la sentenza di prima sede.
Dopo aver ricevuto la motivazione scritta della sentenza, con dichiarazione di appello 2 ottobre 2013, AP 2 ha precisato di impugnare l’intera sentenza di prime cure, nella parte che la riguarda (ossia i punti n. 3 e 4 del dispositivo), postulando il suo proscioglimento dall’imputazione di omicidio colposo, con conseguente risarcimento delle spese di patrocinio sostenute.
Con la sua dichiarazione d’appello, anche AP 1 ha specificato di impugnare integralmente la sentenza, nei dispositivi che lo concernono, e di chiedere il proscioglimento dall’accusa di omicidio colposo, l’accollamento delle spese giudiziarie allo Stato e il riconoscimento di un’indennità.
E.
Non essendovi prove da assumere, la scrivente Corte ha proposto alle parti di decidere l’appello in procedura scritta (doc. CARP VI), procedura che i due accusati hanno preferito evitare, richiedendo il pubblico dibattimento.
esperito
il pubblico dibattimento il 26 settembre 2014 durante il quale:
il PP ha invocato la conferma della sentenza impugnata, illustrando in dettaglio di quali atti e quali omissioni si sono resi colpevoli i due imputati;
l’avv. DI 1, difensore di AP 1, ha chiesto in via principale il proscioglimento del suo assistito ed il riconoscimento di eque indennità, nonché, in via subordinata, la pronuncia dell’abbandono sulla scorta della gravissima violazione del principio di celerità.
E’ in primo luogo a suo avviso importante sottrarsi ad ogni tipo di semplificazione ed evitare di utilizzare la teoria del rischio accresciuto per colmare lacune probatorie. In questo senso, deve essere chiarito subito che ad essere illecito può al limite essere considerato l’aver prestato in ritardo le cure al paziente; non sono invece tali le premesse a questo ritardo.
Non è corretto far pagare a AP 1 malfunzionamenti generalizzati.
Dal punto di vista procedurale, il difensore ha osservato come l’unica persona sentita in qualità di teste e non come indagato è il dr. _. Tutti gli altri, quindi, hanno risposto mantenendo inevitabilmente delle posizioni difensive; di questo va tenuto conto.
In sentenza, a detta del legale, vi sono vari accertamenti inesatti, a partire dagli orari indicati ai consid. n. 4 e 6.
Con riferimento all’addebito d’aver somministrato Propofolo, ha puntualizzato che il ricorso al farmaco è stato deciso con l’idea di risolvere una situazione acuta momentanea e che i quantitativi utilizzati sono conformi alla posologia.
La dr.ssa _ non ha ordinato di interromperne la somministrazione, anzi, l’ha confermata. Si è solo limitata a chiedere di mantenere un dosaggio basso ad un livello che garantisse il controllo dell’agitazione ed allo stesso tempo di non addormentare il paziente. In altre parole il trattamento iniziato dal prevenuto è stato ratificato dalla dr.ssa _. Questa omologazione è stata poi confermata pure dal dr. _.
In seguito è giunta la convalida della terapia anche dalla dr.ssa AP 2, che l’ha formalizzata sulla cartella clinica.
Dalla presa a carico da parte dei medici, quindi, la scelta di AP 1 è stata convalidata da loro. In questo modo essi se ne sono assunti la responsabilità.
Quanto fatto dall’imputato nel lasso di tempo tra le 23:15 e le 24:00 a lui imputabile, non può essere considerato una causa della morte della vittima, anche tenuto conto che il Propofolo ha un’emivita breve.
Con riferimento all’allontanamento dalla stanza di cure continue, l’avv. DI 1 ha tenuto a sottolineare come la sorveglianza del paziente non significhi stare ininterrottamente al suo capezzale. D’altronde era chiaro a tutti che il fatto che vi fosse solo un infermiere responsabile comportava il fatto che non fosse possibile sorvegliare costantemente di persona i degenti.
L’allontanamento in quanto tale non è stato che di pochi metri, tenuto conto che come si vede dalla planimetria prodotta, la camera 109 dista solo 15 m da quella di cure continue.
Inoltre è importante a suo avviso rilevare come non sia stato in alcun modo dimostrato cosa è successo durante il periodo d’assenza e quali danni alla salute abbia subito in quel lasso di tempo la vittima. Tra le varie ipotesi formulabili, tutte di pari valore, vi sono quella che anche in presenza dell’infermiere non sarebbe stato possibile rilevare l’arresto respiratorio e quella che i problemi siano sorti dopo AP 1 era già rientrato di corsa al capezzale del signor VITT1 perché aveva sentito l’allarme - che tra l’altro segnalava il distacco di un elettrodo e non una anomalia nei parametri. Non essendo provato quando sono iniziate la diminuzione del battito cardiaco e dell’ossigenazione, non si può concludere per l’esistenza di un nesso causale tra l’uscita dalla stanza e la morte.
Con riferimento al rimprovero d’aver attivato l’allarme REA in ritardo, il difensore ha postulato che venga riconosciuto che non vi è stato alcun ritardo nel suo azionamento. Quando il prevenuto è rientrato in stanza non vi era ancora un arresto respiratorio ma solo una diminuzione della frequenza. Egli, dando l’allarme durante la telefonata con la dr.ssa AP 2, dopo aver provato la rianimazione, ha agito correttamente e non ha perso tempo. Ma vi è di più: anche se avesse subito azionato il REA, l’anestesista sarebbe giunto al più presto quando ormai la dr.ssa AP 2 stava terminando con successo l’intubazione. Infine, non è corretto pretendere da AP 1 una reazione immediata al momento della sua entrata in stanza, poiché bisogna riconoscergli il tempo per riattaccare l’elettrodo e attendere che il monitor si riattivasse, considerato che solo a quel punto gli è stato possibile capire esattamente cosa stesse capitando.
Tutto ciò considerato, non si può giungere che al proscioglimento da ogni accusa;
l’avv. DI 2, patrocinatore di AP 2 ha postulato l’accoglimento dell’appello e il proscioglimento della dr.ssa dall’accusa di omicidio colposo, rivendicando il conseguente riconoscimento di indennità. Ella non ha, a mente sua, fatto alcun atto medico che ha portato al decesso della vittima. Quando è entrata in servizio il Propofolo era già stato somministrato. Le indicazioni datele dal dr. _, con riferimento agli ordini della dr.ssa _, erano troppo vaghe. Sarebbe toccato al dr. _ andare dal paziente e decidere il dosaggio. L’informazione che le è stata passata era solo quella di ridurre il dosaggio e eventualmente interromperlo se non più necessario.
Se le istruzioni della dr.ssa _ fossero state chiare e perentorie, il dr. _ avrebbe dovuto intervenire subito. L’imputata non aveva quindi nessun motivo per dubitare che il collega nell’ora precedente non aveva fatto il suo dovere. E’ poi evidente che un giovane medico assistente si adegua a quanto hanno fatto i suoi colleghi medici esperti.
La dr.ssa AP 2 non ha quindi effettuato alcuna prescrizione ma si è limitata a mettere su carta quanto già prescritto dalla dr.ssa _ e dal dr. _: ha formalizzato ciò che era in essere.
Per di più, il dosaggio di 100 mg/h era una dose corretta, non eccessiva, per un paziente corpulento come il signor VITT1.
E’ errato additare l’accusata per non aver verificato le controindicazioni del farmaco, poiché le conosceva già.
Come confermato dal dr. _, poi, l’utilizzo del Propofolo come sedativo era una prassi consolidata in Ticino.
Partendo dal principio che una negligenza è data solo se vi è una lesione di criteri cardine della scienza medica, nel caso di specie la stessa deve essere esclusa per il fatto che dei medici di alto livello hanno dichiarato, contrariamente a quanto asserito dal perito, che il Propofolo può essere impiegato anche per scopi come quello qui contestato. La questione è quindi quantomeno controversa.
Il difensore ha anche contestato la consistenza del considerando n. 15 della sentenza impugnata, sostenendo che non si poteva pretendere che la dr.ssa chiamasse la capo clinica. Per quale motivo avrebbe dovuto farlo, visto che quest’ultima aveva appena parlato con il dr. _?
Pure errato è pretendere che l’accusata visitasse di nuovo il paziente: questi era già stato esaminato a fondo nel pomeriggio, per cui non era più necessario farlo.
Infine il legale ha eccepito il fatto che, con il suo comportamento, e meglio allontanandosi dalla camera di cure continue, AP 1 ha in ogni caso interrotto il nesso di causalità: l’unica causa della morte è l’abbandono del paziente. La prevenuta non poteva di certo aspettarsi di dover fronteggiare gli errori dell’infermiere.
Infine, dopo aver rilevato come i decreti di abbandono a favore dei dr.i _ e _ siano incoerenti con il DA a carico della sua cliente, ed aver chiesto il proscioglimento di quest’ultima, l’avv. DI 2 ha sollevato, in via subordinata, la violazione del principio di celerità.
Quale chiosa conclusiva ha richiamato la sua eccezione circa la regolarità dell’intimazione del decreto, e chiesto l’annullamento della sentenza e il suo rinvio alla Pretura penale per il rifacimento del processo.
Ritenuto in fatto | ed in diritto
Potere cognitivo della Corte d’appello e revisione penale
1.
Giusta l’art. 398 cpv. 1 CPP, l’appello può essere proposto contro le sentenze dei tribunali di primo grado che pongono fine, in tutto o in parte, al procedimento. In particolare, mediante l’appello è ora possibile censurare le violazioni del diritto, compreso l’eccesso e l’abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 398 cpv. 3 lett. a), l’accertamento inesatto o incompleto dei fatti (lett. b) e l’inadeguatezza (lett. c).
In base all’art. 398 cpv. 2 CPP - secondo cui il tribunale d’appello esamina per estenso (“
plein pouvoir d’examen
”, “
umfassende Überprüfung
”) la sentenza in tutti i punti impugnati - il tribunale di secondo grado ha una cognizione completa in fatto e in diritto su tutti gli aspetti controversi della sentenza di prime cure.
Sulla questione della cognizione del tribunale di secondo grado il TF ha avuto modo di precisare che l’appello porta ad un nuovo e completo esame di tutte le questioni contestate ed ha spiegato che la giurisdizione di seconda istanza non può limitarsi ad individuare gli errori dei giudici precedenti e a criticarne il giudizio ma deve tenere i propri dibattimenti ed emanare una nuova decisione - che sostituisce la precedente (art. 408 CPP) - secondo il proprio libero convincimento fondato sugli elementi probatori in atti e sulle risultanze delle prove autonomamente amministrate (STF 6B_715/2011 del 12 luglio 2012, consid. 2.1 che cita, fra gli altri, Luzius Eugster, in: Basler Kommentar, Schweizerische Strafprozessordnung, Basilea 2011, ad art. 398, n. 1, confermata in STF 6B_404/2012 del 21 gennaio 2013, consid. 2.1; cfr., inoltre, Rapporto esplicativo concernente il Codice di procedura penale svizzero, DFGP, giugno 2001, pag. 261; Schmid, Schweizerische Strafprozessordnung, Praxiskommentar, Zurigo/San Gallo 2009, ad art. 398, n. 7).
2.
Giusta l’art. 139 cpv. 1 CPP, per l’accertamento della verità, il giudice - così come le altre autorità penali - si avvale di tutti i mezzi di prova leciti e idonei secondo le conoscenze scientifiche e l’esperienza (Bernasconi e altri, in Codice svizzero di procedura penale, Commentario, Zurigo/San Gallo 2010, ad art. 139, n. 1; Bernasconi, in Codice svizzero di procedura penale, op. cit., ad art 10, n. 24; Bénédict/Treccani, in Commentaire romand, Code de procedure pénale, Basilea 2011, ad art. 139, n. 2; Schmid, op. cit., Praxiskommentar, ad art. 10, n. 5; Hofer, in Basler Kommentar, Schweizerische StPO, Basilea 2011, ad art 10, n. 47) che, in applicazione dell’art. 10 cpv. 2 CPP, valuta liberamente, secondo il convincimento che trae dall’intero procedimento (Bernasconi e altri, op. cit., ad art 10, n. 15 e 16; Schmid, op. cit., Praxiskommentar, ad art. 10, n. 4 e 5, 23; Kuhn/Jeanneret, in Commentaire romand, Code de procedure pénale, Basilea 2011, ad art. 10, n. 35-41, 70-72; DTF 133 I 33 consid. 2.1; 117 Ia 401 consid. 1c.bb).
3.
In mancanza di prove dirette, un giudizio può fondarsi anche su prove indirette, cioè su indizi (Rep. 1990 pag. 353 con richiami, 1980 pag. 405 consid. 4b).
L’indizio, per consolidata dottrina e giurisprudenza, è una circostanza di fatto certa dalla quale si può trarre, dopo un processo di induzione condotto con un metodo rigorosamente logico e preciso sulla base di una loro valutazione d’insieme, una conclusione circa la sussistenza del fatto da provarsi (Hauser/Schweri Hartmann, Schweizerisches Strafprozessrecht, 6a edizione, Basilea 2005, § 59 n. 12 a 15 con richiami).
In assenza di prove tranquillanti e sicure, si può, dunque, fondare un giudizio di condanna soltanto se vi sono più indizi - cioè fatti certi - che, correlati logicamente nel loro insieme, consentano deduzioni precise e rigorose così da far concludere che l’esistenza dei fatti ritenuti nell’atto di accusa non può essere ragionevolmente posta in dubbio (cfr. Hans Walder, Der Indizienbeweis in Strafprozess, in RPS 108 (1991) pag. 309 cit., in part., in STF 6P.37/2003 del 7 maggio 2003 consid. 2.2.).
4.
Il principio della presunzione d’innocenza - garantito dagli art. 32 cpv. 1 Cost., 6 par. 2 CEDU e 14 cpv. 2 patto ONU II e ricordato nell’art. 10 cpv. 1 CPP - oltre a comportare l’attribuzione dell’onere della prova alla pubblica accusa, disciplina la valutazione delle prove nel senso che il giudice penale non può dirsi convinto di una fattispecie più sfavorevole all'imputato quando, dopo una valutazione del materiale probatorio conforme ai principi suindicati, permangono dubbi insormontabili sul modo in cui si è verificata la fattispecie medesima (fra le altre, STF 6B.230/2008 del 13 maggio 2008, consid. 2.1.; STF 1P.20/2002 del 19 aprile 2002, consid. 3.2; DTF 127 I 38 consid. 2a, 124 IV 86 consid. 2a; 120 Ia 31 consid. 4b). In questi casi - così come ricordato dall’art 10 cpv. 3 CPP - il giudice deve fondarsi sulla situazione più favorevole all’imputato.
Il precetto non impone, tuttavia, che l'assunzione delle prove conduca ad un assoluto convincimento. Semplici dubbi astratti e teorici - sempre possibili poiché ogni fatto collegato a vicende umane lascia inevitabilmente spazio alle incertezze - non sono sufficienti ad imporre l’applicazione del principio
in dubio pro reo
.
Il principio dell’
in dubio pro reo
è così disatteso soltanto quando il giudice penale avrebbe dovuto nutrire, dopo un'analisi globale e oggettiva delle prove, rilevanti e insopprimibili dubbi sulla colpevolezza dell'imputato (DTF 127 I 38 consid. 2a; 124 IV 86 consid. 2a; 120 Ia 31 consid. 2c; STF 6B_369/2011 del 29 luglio 2011 consid. 1.1.; 6B_253/2009 del 26 ottobre 2009 consid. 6.1.; 6B_579/2009 del 9 ottobre 2009 consid. 1.3.).
Eccezione preliminare
5.
Come già fatto in prima sede, l’appellante AP 2 ha sollevato un’eccezione preliminare, avendo ella ricevuto la citazione al dibattimento ancor prima del decreto d’accusa a suo carico. Quale conseguenza di questa a suo dire grave mancanza, postula l’annullamento della sentenza di prime cure ed il rinvio alla Pretura penale dell’incarto per il rifacimento del processo, fermo restando che in quella sede aveva chiesto la sospensione della procedura e la trasmissione dell’incarto al Ministero pubblico per una corretta notifica, oltre alla fissazione di un nuovo termine per fare opposizione (verbale del dibattimento 14 marzo 2013, pag. 1).
6.
Dagli atti risulta che il decreto d’accusa è stato intimato, in data 5 febbraio 2013, all’avv. _, allora patrocinatrice della dr.ssa AP 2 per sé e per la cliente.
Giusta l’art. 327 cpv. 1 lett. a CPP, il Pubblico ministero notifica senza indugio l’atto d’accusa e l’eventuale rapporto finale, tra gli altri, all’imputato, se il suo luogo di soggiorno è noto. Se questi è patrocinato da un difensore, l’atto d’accusa (rispettivamente il decreto d’accusa) deve essere notificato anche al legale, art. 87 cpv. 3 CPP.
In caso di domicilio sconosciuto, l’atto viene intimato solo al difensore che deve poi farsi parte diligente per reperire il suo assistito (Heimgartner/Niggli in Basler Kommentar, StPO, Zurigo 2011, ad art. 327, n. 4).
Per la dottrina, è possibile far pervenire al difensore due esemplari dell’atto d’accusa (o decreto) e questi è tenuto a trasmetterli al patrocinato, anche quando quest’ultimo ha fatto elezione di domicilio nel suo studio (Moreillon/Parein-Reymond, CPP, Petit commentaire, Basilea 2013, ad art. 327, n. 4).
Nel caso che ci compete, un semplice esame degli atti permette di accertare come, nei fatti, l’accusata abbia eletto domicilio presso lo studio legale dell’avv. _. In effetti gran parte dei documenti cardine è stata trasmessa unicamente a quest’ultima, a partire dalle citazioni (ad es. AI 36, 37, 38, 39, 45), ai decreti (AI 74, 81), alla sentenza della CRP (AI 80), per sé e per la cliente, senza che fosse mai stata sollevata obiezione alcuna.
Già solo per questo, richiamato il principio della buona fede processuale, l’eccezione deve essere respinta.
Lo deve poi essere, a maggior ragione, se si tiene conto che l’imputata ha potuto, il 18 febbraio 2013, tempestivamente fare opposizione al decreto, per il tramite dell’avv. _, nonostante ella abbia dichiarato di non conoscere il recapito della cliente.
In queste condizioni la notificazione del decreto d’accusa per il tramite dell’avvocato può essere considerata conforme ai dettami di legge e dunque valida.
Certo, la citazione al dibattimento del 14 marzo 2013 è stata ricevuta dall’imputata, come dichiarato dallo stesso legale DI 2, subentrato all’avv. _, nel suo scritto del 4 marzo 2013, solo in quella data, per cui il preavviso dell’art. 202 cpv. 1 lit. b CPP, è stato rispettato per un soffio. Una simile procedura ha portato a non concedere rinvii che in situazioni normali, nel rispetto della dignità umana e della correttezza, art. 3 CPP, avrebbero dovuto essere accordati, vista la situazione personale della dr.ssa AP 2. In quest’ottica, pur essendo l’agire della Pretura penale legale, vi è da chiedersi (retoricamente) se spetti all’autorità giudicante attivarsi in tutta fretta e ai limiti del rispetto dei principi sanciti dal CPP, per sanare delle mancanze e dei ritardi - come vedremo, qui ingiustificati e ingiustificabili - maturati dal Ministero pubblico.
Ad ogni buon conto tutte le presunte mancanze formali devono essere considerate sanate dal fatto che l’imputata ha potuto presenziare al processo a suo carico e difendersi compiutamente dalle accuse formulate.
L’eccezione formale deve dunque essere respinta.
Gli accusati
7.
Sulla vita professionale di AP 1, nato il _ a _, domiciliato a _ e celibe, si fa riferimento innanzitutto a quanto da lui dichiarato agli inquirenti:
“
Di formazione sono infermiere professionale avendo ultimato un ciclo di studi di tre anni presso l’Universtità di _
. In _ non ho seguito altre formazioni nell’ambito. Assunto dall’Ospedale _ nel febbraio 1999 ho inizialmente lavorato per sei mesi nel reparto di neurochirurgia, quindi ho lavorato nel reparto di cure intense per due anni e mezzo, seguendo parallelamente la scuola per ottenere la specializzazione senza tuttavia dare gli esami. Avendo conseguito una formazione, senza diploma, sono poi passato nel 2002 al reparto di cure continue dell’Ospedale _, inizialmente nella vecchia sede e poi nella nuova.” (sentenza impugnata, consid. 1, pag. 6).
Al dibattimento d’appello, l’imputato ha precisato:
“
Dichiaro che già qualche anno prima del 2006 avevo vinto il concorso per poter accedere alla facoltà di medicina di _. Attualmente mi mancano ancora 10 esami. Ho avuto qualche ritardo anche per il fatto che mi devo occupare di un genitore e di uno zio invalidi.
Attualmente lavoro presso l’Ospedale _ di _ nel reparto Medicina. Fino a un anno e mezzo fa sono stato attivo nel reparto di cure continue _. Ho chiesto il trasferimento per poter continuare nella mia formazione in vista di un futuro quale medico. In effetti nel reparto di medicina posso lavorare gomito a gomito con due professori universitari.
A seguito dei fatti in discussione non ho avuto nessuna ripercussione dal punto di vista professionale.
Non sono coniugato e non ho figli.” (verbale dib. d’appello, pag. 2).
8.
Il curriculum professionale della dr.ssa AP 2, nata il _ a _ ed ora domiciliata in _, nubile, è stato dai lei così brevemente illustrato:
“
Mi sono laureata in medicina a _, in _, nel novembre 2004. Subito dopo la laurea ho iniziato la mia attività di assistente, dapprima presso l’Ospedale _ presso il reparto di nefrologia per sei mesi. Successivamente sono passata all’Ospedale _ presso il reparto di medicina, dove sono restata per un anno e mezzo. Sto seguendo la formazione per ottenere il titolo di FMH in medicina interna. Dalla fine della mia attività presso l’Ospedale _ sto lavorando presso la Clinica _ nel reparto di medicina. Fra due anni potrò affrontare gli esami per il titolo di FMH.” (MP 29 maggio 2008, AI 41, pag. 1).
Al processo d’appello ella ha puntualizzato:
“
Nel 2007 ho avuto l’opportunità di andare a lavorare all’_ di _ e l’ho colta al volo. Ho lavorato in vari reparti della medicina interna. In seguito sono ritornata all’ospedale di _ perché i superiori di _ insistevano per farmi lavorare nel reparto di pronto soccorso in cui vengono accolti i pazienti gravi, ma io non mi sentivo ancora pronta per affrontare simili responsabilità anche perché a Zurigo il contesto lavorativo era del tutto differente e non era un’eccezione il fatto di versi (recte: doversi) trovare a gestire contemporaneamente più pazienti senza la possibilità di contattare il capo clinica. Ho quindi preferito fare un’ulteriore esperienza in un ospedale più grande di quello dell’_ di _ nel quale vi era un pronto soccorso aperto anche tutta la notte.
Dopo la nascita della mia prima figlia, nel gennaio 2009, sono rientrata in _ per motivi personali ma anche perché non era facile trovare un posto di medico assistente al 50%.
Attualmente sono in maternità perché è appena nata la mia seconda figlia, ma è mia intenzione riprendere a lavorare a metà tempo. Nel settembre 2013 ho conseguito la specializzazione corrispondente al FMH in medicina interna.
Confermo che dal punto di vista professionale non ho avuto alcuna ripercussione a seguito dei fatti qui in discussione. Il posto di lavoro mi è stato garantito dall’attuale datore di lavoro che è un ospedale ancora più grande dell’Ospedale _.” (verbale dib. d’appello, pag. 2).
I fatti
9.
VITT1, nato il _, era un cittadino _ di etnia _, residente in Svizzera dal 2003 ed al beneficio di un permesso di residenza di tipo N per richiedenti l’asilo. Abitante ad _, egli lavorava presso il _ del paese, attività che gli consentiva di inviare del denaro alla famiglia - composta da moglie e 3 figli, a quel tempo adolescenti - ancora in Iraq.
Nel gennaio del 2006 il suo medico curante, dr.ssa _, lo ha visitato dopo un ricovero al _ di _ (dal 23 al 24 gennaio, AI 6) poiché, oltre a problemi fisici, egli lamentava di essere in preda ad un grave stato ansioso-depressivo dovuto alla sua incapacità di elaborare un’incarcerazione di ben sei anni subita ai tempi del regime di _. Una delle conseguenze di questo stato era una severa insonnia.
A fronte di questi sintomi, preso atto che il paziente era poco collaborativo e non si era presentato ad un appuntamento fissatogli con una psichiatra che parlava anche la sua lingua, la dr.ssa _ gli ha dapprima, il 13 marzo 2006, prescritto un blando sonnifero (Zolpidem), che non ha avuto alcun effetto, per poi passare, dal 28 marzo 2006, ad un ansiolitico moderato (Xanax ret. 0.5 mg) abbinato a piccole dosi di antidepressivo (Efexor ER 75 mg).
Il 4 aprile seguente, il paziente, reduce anche da un trattamento di una severa infezione alla gola, è stato nuovamente visitato dal medico, al quale ha dichiarato di stare meglio ma di non riuscire assolutamente a dormire (avrebbe preso in una sera anche 8 Zolpidem) e di essere perciò molto irritabile ed ansioso. Quale sonnifero gli è stato così prescritto Seresta forte e gli è stato consigliato un progressivo aumento degli ansiolitici (lettera 11 maggio 2006 della dr.ssa _ all’avv. _, AI 6, doc. 2).
Due giorni dopo, il 6 aprile 2006, verso le 13:00, VITT1 si è recato dalla dottoressa barcollando, farfugliando, rallentato, sudato e con respiro affannoso. Egli presentava in particolare una respirazione di tipo Cheyne Stokes, dolori cefalici e precordiali, sicché ella ha immediatamente avvertito l’ambulanza che lo ha trasportato al Pronto soccorso dell’Ospedale _ di _, ove è giunto alle 14:20 (secondo la Croce Verde, AI 84 pag. 3) o alle 14:30 (secondo il Pronto Soccorso, class. “Cartella clinica”, rubrica n. 10).
Alle 14:35 gli è stato somministrato un broncodilatatore (Ventolin) e dell’Atrovent. Alle 15:36, il paziente è stato descritto come
“soporoso, ma può essere risvegliato, è lucido ed orientato”
(AI 84 pag. 3); alle 16:44 gli sono state iniettate due ampolle di Flumazenil (Anexate) e è stato definito
“un po’ più sveglio”
ma
“non ricorda il motivo per cui è in PS”
(cartella clinica del Pronto Soccorso, class. “Cartella clinica”, rubrica n. 10).
Gli esami del sangue effettuati non hanno rilevato particolari problematiche. Le analisi delle urine hanno consentito di riscontrare la presenza di benzodiazepine. L’ECG non ha confermato anomalie compatibili con un’insufficienza coronarica acuta, così come la TAC cerebrale non ha mostrato alterazioni particolari.
Richiesta una valutazione al reparto di neurologia, è stata diagnosticata una “
molto probabile intossicazione da benzodiazepine”
(rapporto di consulto collegiale del 6 aprile 2006, class. “Cartella clinica”, rubrica n. 10) e consigliato il ricorso ad un antagonista delle stesse, il Flumazenil (Anexate) che è, come testé indicato, stato dato al paziente poco prima delle 17:00 con un passaggio ad uno stato di coscienza Glasgow (livello 15 sulla scala GSC, rispetto al livello 14 ).
In merito al procedere, il medico assistente di neurologia ha disposto:
“ricovero in cure continue per la presa a carico e sorveglianza della respirazione. Da valutare nuovo consulto neurologico secondo decorso”
(rapporto di consulto collegiale del 6 aprile 2006, class. “Cartella clinica”, rubrica n. 10, pag. 2).
Stabilizzato il suo stato di salute, VITT1 è poi stato trasferito dal Pronto Soccorso dell’Ospedale _, al reparto di cure continue dell’Ospedale _, ove è arrivato verso le 18:30.
Il fax con il rapporto consultivo collegiale di cui si è appena parlato è stato inviato qualche ora più tardi, alle 21:56.
10.
Giunto all’Ospedale _, il paziente è stato visitato dal medico assistente dr.ssa _, supervisionata dalla capo clinica dr.ssa _, che nel suo protocollo del 7 aprile 2006 (AI 2) ha così descritto questi momenti iniziali:
“
Verso le 17:00 l’assistente, dr.ssa _, mi riferisce che è stata contattata dall’assistente di picchetto dell’Ospedale _ per il trasferimento del paziente e le ho dato la disponibilità del letto. Il paziente arriva in Cure Continue verso le ore 18:30. Alle 18:35 vedo la dr.ssa _ che sta già facendo l’anamnesi alla quale assisto poi anch’io. Si tratta di un iracheno che si esprime molto male in italiano. Al momento della nostra visita è sveglio, risponde alle nostre domande con difficoltà per motivi linguistici. Riferisce di aver assunto delle pastiglie per sbaglio di cui non sa precisare il nome. Alla domanda se avesse dolori o difficoltà respiratorie (sintomi segnalati all’entrata all’Ospedale _) il paziente riferisce di avere dei dolori toracali a sinistra lateralmente ma di non avere problemi di respirazione. Sostiene poi di avere problemi psicologici, che vive solo e senza famiglia in Ticino, sostiene di non bere alcolici, fuma un pacchetto di sigarette al giorno. Chiede poi di essere visitato da uno psicologo che parli arabo.
Clinicamente troviamo un paziente obeso, sveglio ma rallentato con saturazione di ossigeno attorno al 97-98% con 2 litri di ossigeno, afebbrile, normoteso e normocardico, auscultazione cardiaca con toni lontani, auscultazione polmonare con rari fischi, addome globoso difficilmente valutabile ma non dolente con rumori udibili, dolenzia alla pressione costale laterale sinistra, riflessi normo-evocabili e simmetrici, Babinski negativo bilateralmente, muove tutte le estremità, pupille isocore e normoreagenti, non meningismo, polsi periferici tutti palpabili.
L’ECG eseguito all’Ospedale _ non mostra segni di ischemia, gli esami di laboratorio rilevano un minimassimo movimento di y-GT, alcolemia negativa. (...) L’emogasanalisi esguita all’OCL evidenzia un’insufficienza respiratoria parziale con PO2 a 8.5 kPA e PCO2 5 kPa.”
Da questo quadro risulta che i medici che hanno preso in consegna il paziente, oltre ad essere stati perfettamente informati circa i risultati degli esami effettuati all’Ospedale _, hanno preso atto che il paziente era cosciente, decisamente migliorato rispetto all’entrata al Pronto soccorso, ma presentava ancora dei problemi respiratori.
11.
Su quanto avvenuto all’Ospedale _ in particolare, appare opportuno riprendere il protocollo del 7 aprile 2006 allestito con l’ausilio di tutto il personale coinvolto, sotto la direzione della dr.ssa _ e dell’infermiere capo _ (AI 6, all. B):
“
Si tratta di un paziente che viene annunciato all'infermiera di Cure Continue, signora SM (_, n.d.r.) dall'infermiera di Pronto Soccorso alla ricerca di un posto di sorveglianza in Cure Continue. (...) All'assistente viene riferito che si tratta di un paziente inviato al Pronto Soccorso dell'OCL dal medico curante, Dr.ssa _, poiché soporoso, ma risvegliabile nello studio. La Dr.ssa _ segnala uno stato neurologico senza particolarità. Riferisce che sono state eseguite un'angio-TAC per un dolore all'emitorace sinistro che ha permesso di escludere dell'embolie polmonari ed una TAC-cerebrale risultata normale. La Dr.ssa IB (_, n.d.r.) richiede se lo psichiatra fosse stato allertato, ricevendo una risposta negativa. Non viene menzionata una visita dal neurologo, in realtà avvenuta (vedasi documentazione), non vengono segnalati problemi respiratori, in particolare broncospasmo. Viene segnalata le necessità di un decorso elettrocardiografico ed enzimatico per escludere un problema di ischemia miocardica. (...). Circa allo stesso tempo viene data una consegna infermieristica dall'infermiera _ a _, dove viene confermato l'arrivo di un paziente con un abuso medicamentoso, che avrebbe risposto ad una terapia con Anexate. Non vengono segnalate altre particolarità. Dagli atti studiati durante la seduta del rapporto della Croce Verde, si evidenzia che il paziente è stato trasportato dalla Croce Verde alle 13.40 dallo studio medico della Dr.ssa _ con difficoltà respiratorie e dolori toracici, dispnoico, dopo che é stato trovato di fronte allo studio medico. I soccorritori avrebbero trovato il paziente supino con una frequenza respiratoria di 29 atti al minuto, una saturazione dell'ossigeno di 88%, una frequenza cardiaca di 105 battiti al minuto, una pressione sistolica di 110 mm Hg con un dolore toracico reputato di origine cardiaca. Coma-Glasgow scale 13, pupille normali, glicemia 4.1 mmol/I, senza deficit senso-motori. Durante iI trasporto 4 tentativi di porre un accesso venoso non riuscito. Alle ore 14.10 viene sospesa in ambulanza la somministrazione di O
2
con desaturazione a 85%, ciò che motiva la ripresa di un’ossigeno-terapia con saturazione di 97%. Viene somministrato Nitrolingual. II paziente giunge al Pronto Soccorso dell'OCL (...) Viene segnalato un paziente cosciente, orientato e calmo con dolori all'emitorace a sinistra ed una frequenza respiratoria di 38 battiti al minuto con saturazione dell'ossigeno a 93%. Alle ore 14.35 viene somministrata una inalazione di broncodilatatori ed alle ore 15.36 viene segnalato paziente soporoso con un GSC di 14. In seguito il paziente permane tachipnoico senza saturazioni. Alle ore 16.44 viene somministrata 2 volte 1⁄2 fiala di Anexate con annotazione paziente un po' più sveglio, non ricorda il motivo per cui è in Pronto soccorso. Non sono riportati gli orari dell'esecuzione degli esami, radiografia del torace, TAC-cerebri e angio-TAC. L'ultima misura di monitoraggio avviene alle ore 17.00. Non viene menzionato un consulto neurologico. Nel secondo trasporto dall'OCL tramite ambulanza all'OIL, viene segnalata una frequenza respiratoria di 30 atti al minuto, una pressione arteriosa di 115/80 mm Hg, ed un GSC di 14. All'arrivo il paziente transita direttamente verso le Cure Continue. II paziente entra in Cure Continue alle ore 18.30 con pressione arteriosa 111/77 mm Hg, ritmo sinusale 87 battiti al minuto, saturazione O
2
97% n frequenza respiratorio di 22 atti al minuto. Elenco problematiche: foglio di sorveglianza terapia Pronto Soccorso, 2 protocolli trasferimento Croce Verde. Alle ore 18.40 circa viene visitato dalle Dr.sse IB e CA, esse trovano un paziente stabile dal punto di vista cardiocircolatorio, riflusso epatogiugulare negativo, dolore toracico riproducibile alla palpazione dell'emicostato sinistro. All'auscultazione polmonare in un paziente adiposo con collo corto viene auscultato un espiro prolungato con fischi. L'addome risulta molle, dolente, non organomegalie. L'esame neurologico approfondito risulta normale. Viene indi impostata una terapia con inalazioni x5 di broncodilatatori, Fragmina 5'000 unità sotto cute, Pantozolo. Viene sospesa la terapia antiipertensiva e sedativa. Quali esami viene richiesto uno screening droghe nell'urina ed un decorso elettrocardiografico ed enzimatico alle ore 22.00. II paziente viene monitorato dalla signora SM, essa è in grado di parlare con il paziente che avrebbe affermato di aver preso unicamente 2 pastiglie. L’infermiera SM cerca di eseguire una raccolta dati, il paziente risponde in modo rallentato, chiede ripetitivamente di andare ai bar e di poter fumare, comunque l'infermiera SM ha l'impressione che sa di essere in ospedale. Alle ore 19.00 il medico di turno per le serali Dr. NB (_, n.d.r.) si reca in Cure Continue per visitare il paziente, costata quanto già constatato dalle colleghe. Nel seguito il paziente avrebbe cercato più volte di uscire dal letto e infine avendo bisogno di urinare, l'infermiera SM chiede aiuto all'aiuto-infermiere _ della Medicina 2, nota che il paziente si regge in piedi, urina 800 ml, da cui viene prelevato lo screening tossicologico da cui risulteranno alle ore 20.00 positive le benzodiazepine. II paziente richiede di vedere uno psichiatra che parli arabo. Il paziente ebbe ricevuto una cena leggera. Alle ore 21.40 vengono eseguiti labor ed ECG con non mostra nessuna ischemia. Alle ore 22.00 cambio turno tra l'infermiera SM e l'infermiere LB (AP 1), mentre l'infermiera _ esegue i controlli del venflon.”.
12.
Già nel corso della discussione per
il cambio di consegne, durante la quale AP 1 è stato debitamente informato dalla collega circa lo stato di salute dei pazienti sotto la loro responsabilità, VITT1 ha suonato il campanello per chiedere in maniera un po’ confusa all’imputato, prontamente accorso, di potersi alzare dal letto per andare a fumare una sigaretta e bere un caffé, poiché quelle erano le sue abitudini al risveglio del mattino, dimostrando così di non essere cosciente che fosse ancora notte. Parlando, il paziente si era staccato i cavi per i monitoraggi e aveva tentato di scavalcare le spondine del letto, cercando pure di strappare l’ago dell’infusione endovenosa.
AP 1 ha cercato di spiegare al degente che non era possibile accogliere le sue richieste ed ha chiesto ad una collega di occuparsi di lui mentre terminava il passaggio di consegne.
Pochi minuti dopo, VITT1 ha di nuovo suonato il campanello persistendo nelle proprie richieste, più irrequieto e agitato, al punto che AP 1 ha chiesto alla collega di sorvegliarlo fino a quando non avrebbe finito il briefing d’entrata.
Dalle 23:00 in poi la situazione è diventata più complessa poiché il paziente si è mostrato sempre più irrequieto ed agitato, al punto da chiedere gli abiti per poter tornare a casa e da alzarsi dal letto continuando a staccare i cavi del monitoraggio e di nuovo tentare di strappare i tubi dell’endovenosa. Ai tentativi di calmarlo dell’imputato, che oltre ad insistere verbalmente aveva dovuto opporsi fisicamente, VITT1 ha reagito divenendo aggressivo, atto che vista la sua corporatura massiccia (sui 110 kg) non poteva essere considerato irrilevante.
Trovatosi in difficoltà, AP 1 ha così deciso, alle 23:15, di propria iniziativa e senza consultare nessuno, di iniettare all’uomo 30 mg di Propofolo (Ansiven / Disoprivan) in bolus, riuscendo così a sedare velocemente il paziente.
Non appena riposizionato a letto, l’infermiere ha predisposto la somministrazione per infusione di questo medicamento anestetico alla velocità di 50 mg/h, aumentata poi a 80 mg/h e, infine a 100 mg/h, poiché la vittima continuava ad essere agitata ed a rimuovere i dispositivi di controllo.
Nel contempo ha impostato una sorveglianza con allarmi stretti mediante i vari monitoraggi, vale a dire, secondo lui, quello neurologico, quello respiratorio, quello elettrocardiografico e quello emodinamico (relazione scritta dell’imputato del 10 aprile 2006, all. A a MP 24 maggio 2006, AI 17, pag. 3), o meglio, come da lui poi chiarito e ridimensionato:
“
Preciso che il paziente VITT1 era “monitorato” nel senso che aveva tre elettrodi dell’elettrocardiogramma, riceveva ossigeno per via nasale, aveva il controllo della saturazione, della pressione arteriosa ed aveva aperta una via venosa. Ricordo che gli elettrodi del ECG servono anche a controllare la curva del respiro, quindi gli atti respiratori” (MP 24 maggio 2006, AI 17, pag. 2).
13.
Poco prima delle 24:00, AP 1 ha informato il medico assistente _, che avrebbe finito il turno allo scoccare della mezzanotte, d’aver dovuto sedare VITT1 con il Propofolo. Seccato per non essere stato informato preventivamente di questa iniziativa, il medico assistente ha contattato il Capo clinica di guardia, la dr.ssa _, per metterla al corrente di quanto accaduto. Quest’ultima, irritata, ha dato ordine di ridurre il dosaggio a bassi livelli, così da poter mantenere il paziente sveglio e valutare al meglio il suo stato neuorologico e di coscienza:
“
Verso le 23:30 mi ha chiamata al telefono il dr. _ e mi ha comunicato che l’infermiere delle cure continue AP 1 si era visto costretto a somministrare del Disoprivan al paziente poiché lo aveva visto molto agitato. Egli mi chiedeva cosa fare. Era seccato dal fatto che era stato somministrato senza prescrizione medica. Io mi sono arrabbiata e ho chiesto di valutare se fosse necessario dicendogli di vedere quanto fosse agitato il paziente, se ad esempio rischiava di cadere dal letto o strapparsi le infusioni. Il dr. _ mi aveva effettivamente detto che il paziente voleva strapparsi di dosso tutte le cose che aveva attaccato. Io da parte mia ho aggiunto di tenere basso il dosaggio del farmaco in modo che lui fosse sveglio per potere valutare lo stato neurologico e di coscienza.
ADR che non ricordo se il dr. _ mi parlò di dosaggio preciso. E’ probabile. Preciso peraltro che in caso di pazienti intubati il titraggio è di regola di pertinenza del personale infermieristico. Spesso anche il titraggio di pazienti non intubati viene effettuato autonomamente dall’infermiere.
Preciso che mi era stato riferito che il paziente era ancora sveglio, quindi sta all’infermiere valutare attentamente il dosaggio alla luce comunque della mia indicazione che lui doveva restare sveglio. Ad esempio, se a 50 il paziente era ancora agitato l’’infermiere poteva aumentare ancora fino a 70 per valutare di nuoco la situazione. Se si fosse addormentato avrebbe dovuto ridurre il dosaggio.
Ora mi sembra di ricordare, ma non posso dirlo con certezza, che avessi detto al dr. _ che non doveva essere superata la soglia di 50 milligrammi all’ora.
Devo dire che successivamente, consultando le carte, ho costatato che vi era stata un’iniezione iniziale, non so di quanto, ma che non aveva verosimilmente sortito effetti. Era poi stata iniziata un’infusione continua arrivando sino a 100 mg all’ora, che di per sé è ancora un dosaggio medio a fronte del peso stimabile del paziente.” (MP 29 maggio 2008, AI 43, pag. 4 seg.).
“
Come già dichiarato, io a fronte di quella comunicazione mi ero arrabbiata dicendo che il dosaggio doveva essere mantenuto a bassi livelli, tentendo quindi il paziente ancora sveglio. Se il paziente non era così agitato e quindi il medicamento non era così strettamente necessario la somministrazione del propofolo andava interrotta.” (MP 11 novembre 2008, AI 46, pag. 2).
Il dr. _ si è così recato nuovamente nel reparto cure continue ed ha informato AP 1 della reazione della dr.ssa _, dando ordine di ridurre al minimo il Propofolo e di sospenderne la somministrazione per procedere a regolari verifiche neurologiche (protocollo del 7 aprile 2006, AI 6, all. A, pag. 3).
Nel frattempo era giunta in sede la dr.ssa AP 2 per iniziare il suo turno al posto del dr. _ quale medico di guardia per tutto l’Ospedale (reparti di medicina, chirurgia e oftalmologia). Ella è stata informata della situazione del paziente VITT1, che ha visto di sfuggita senza visitarlo, dal collega medico e dall’infermiere AP 1.
Il dr. _ ha al proposito dichiarato:
“
Mentre ero al telefono è arrivata la dr.ssa AP 2 che subentrava nel turno. Alla dr.ssa AP 2 ho segnalato la presenza del paziente VITT1 che era antrato in giornata per indagare uno stato confusionale, non chiaro e che adesso presentava una situazione di agitazione che doveva essere controllata. L’ho altresì informata della telefonata avuta con la dr.ssa _ in merito alla sorveglianza nella somministrazione del Propofolo con eventuale riduzione e soppressione se necessario. Ciò poiché è notorio per tutti noi medici il possibile effetto collaterale della depressione respiratoria.” (MP 29 maggio 2008, AI 42, pag. 5).
L’imputata ha sostenuto di non ricordare cosa le avesse detto il dr. _, ma di ritenere che non le avesse fornito molte informazioni (MP 29 maggio 2008, Ai 41, pag. 3).
Dopo aver visto che il paziente era ancora agitato e tentava di uscire dal letto, dopo aver discusso con l’infermiere che le aveva detto che il ricorso all’anestetico era usuale in cure intense, su richiesta di quest’ultimo, la dr.ssa AP 2, alle ore 00:15, ha deciso di ratificare formalmente, quale primo medico, la somministrazione del Propofolo, fissando nella cartella clinica un dosaggio di 100 mg/h con la precisazione
“secondo bisogno”
(MP 29 maggio 2008, AI 41, all. B):
“
Della situazione del signor VITT1 sono stata informata dall’infermiere del reparto di cure continue AP 1 (...). Egli mi ha detto, non mi ricordo bene cosa sullo stato del paziente che ho visto di sfuggita, senza visitarlo, e l’infermiere mi aveva detto che, di sua iniziativa, aveva dato al paziente del Propofolo. Ho consultato i dati del paziente guardando il foglio di sorveglianza, verificando i parametri vitali e in generale dando un’occhiata a tutto. Non ricordo quando era iniziata la terapia con Propofolo, suppongo da un paio d’ore.
(...) Preciso che successivamente, poco prima che succedesse l’arresto respiratorio, avevo fatto la prescrizione con tale dosaggio.
Devo dire che successivamente ho capito che vi era stata una discussione tra l’infermiere, la capo clinica di picchetto e il dr. _ che c’era prima di me come medico di guardia.
Da parte mia constatando che il paziente era ancora agitato ho ritenuto che la terapia messa in atto fosse corretta.
(...) Ne avevo parlato con l’infermiere il quale mi aveva detto che in cure intense veniva impiegato regolarmente. Io ho controllato se il dosaggio che mi era stato indicato era corretto e ho costatato che rientrava nei limiti terapeutici.
ADR che non penso di aver letto il compendio per tale farmaco né le controindicazioni.
(...) Ricordo che il paziente era agitato, muoveva le braccia, cercava di alzarsi ma poi ricadeva indietro sul letto, da seduto. Si vedeva che era sedato.
Solo in un secondo tempo, in ufficio, circa dopo quindici minuti, mi sono letta l’anamnesi ed ho appreso che vi erano dubbi sui farmaci assunti precedentemente dal paziente. (...) Avevo anche constatato che era un signore robusto ed aveva il collo taurino.
ADR che penso di aver parlato prima di leggere i dati anamnestici con il dr. _. Non mi ha, se ben ricordo, detto molto.
(...) Non ricordo quando il dr. _ se n’è andato. Comunque dichiaro che non avevo ben capito le peculiarità per la somministrazione di questo farmaco, penso che il suo uso in quel contesto fosse approvato nel caso concreto dal capo clinica e dal mio collega dr. _. La somministrazione non era in corso da un paio di minuti bensì da alcune ore. Non ero quindi io che dovevo prendere decisioni d’urgenza.
(...) Successivamente mi sono recata ancora in reparto, non so se su mia iniziativa o su richiesta di AP 1, ho visto il paziente ancora agitato in misura analoga a quanto da me precedentemente osservato, e lui mi ha chiesto di fare la prescrizione del Propofolo visto che nessun medico prima lo aveva fatto e che la terapia era in corso da ore.
Dopo aver preso visione della cartella medica, riconosco la mia indicazione (...).
(...) In generale io con farmaci sedativi parto sempre da dosaggi bassi ed aumento gradatamente sino a costatarne l’effetto. Preciso che io non avevo esperienza di dosaggio di Propofolo. Sapevo che l’infermiere aveva già aumentato in due occasioni il dosaggio e osservavo che il paziente era tuttora agitato. Ho quindi ritenuto corretto che quel dosaggio fosse quello giusto.
Il momento in cui ho fatto la prescrizione è stato l’ultimo contatto con il paziente e con AP 1 prima della crisi del paziente.” (MP 29 maggio 2008, AI 41, pag. 2 segg.).
14.
Di fatto l’infermiere imputato non ha quindi dato seguito all’ordine della capo clinica e del dr. _, continuando a somministrare Propofol al paziente in misura di 100 mg/h. Egli ha così completamente ignorato gli ordini precedenti, a lui ben noti (
“
ma poi ha detto di ridurre la somministrazione in modo di tenere il paziente sveglio e quindi di equilibrare il dosaggio in modo di tenere il paziente sveglio ma tranquillo. Se il medicamento non era strettamente necessario doveva essere interrotto
.
”
, verbale dib. 14 marzo 2013, interrogatorio imputati, pag. 2), e si è affidato alla prescrizione medica della dr.ssa AP 2.
Quale giustificazione, al dibattimento d’appello, ha sostenuto che gli ordini erano di calibrare il farmaco in modo che il quantitativo fosse il minore possibile per poter evitare che il paziente si facesse male e nel contempo mantenere le sue funzioni vitali intatte e non farlo addormentare (verbale dib. d’appello, pag. 3):
“
A domanda dell’avv. DI 1 rispondo che non abbiamo agito in contrasto con le indicazioni dateci dalla dr.ssa _ in quanto c’era stato ordinato di mantenere un dosaggio sul basso in modo tale da poter avere un paziente in grado di reagire e di mantenere le funzioni vitali. Rilevo che il signor VITT1 nonostante la somministrazione del farmaco aveva urinato spontaneamente con il pappagallo. Era riuscito a farmi capire di dover urinare e quindi gli ho fatto avere il pappagallo e io gliel’ho posizionato.”.
Dalla scheda medica dell’Ospedale _ (classatore “cartella clinica”, scompartimento n. 10) risulta tuttavia che egli a quel momento era sedato, mentre per quanto successo prima era sempre stato scritto che era agitato.
Inoltre non può essere considerata precisa l’affermazione secondo la quale dopo la sedazione il paziente aveva urinato spontaneamente, poiché è in contrasto con quanto dichiarato dall’imputato stesso nel suo scritto del 10 aprile 2006. In effetti egli ha sì effettuato la minzione, ma quando i dosaggi erano ancora in fase di assestamento, quando di certo non erano ancora al livello massimo raggiunto e di certo non dopo le 24:00:
“
Durante la sedazione il pz ebbe la possibilità di interagire con me, fin tanto che lo feci urinare con il pappagallo. Nonostante ciò il paziente continuò ad agitarsi strappandosi i cavi di monitoraggio e tentando anche alla via venosa, risultando però già più rallentato con una minor veemenza e aggressività.
Per proteggere il paziente da sé stesso e per assicurarmi l’incolumità della via venosa dovetti aumentare il dosaggio della sedazione passando così a 10 (recte: 100) ml/ora di Disoprivan, tale dosaggio permise di lavorare in sicurezza per il paziente, protetto dalla propria agitazione ma senza recargli danni.” (AI 17, doc. A, pag. 4).
La scheda tecnica (classatore “cartella clinica”, scompartimento n. 10) riporta quale orario dell’ultima perdita di liquidi prima dell’arresto respiratorio, le 23:00.
L’interagire è stato poi molto limitato, ritenuto che AP 1 ha precisato che il paziente era in “dormiveglia, nel senso che era più tranquillo e capiva messaggi semplici quando gli si parlava. Tuttavia il suo stato di agitazione era altalenante.”
(MP 24 maggio 2006, AI 17, pag. 2).
In seguito, dopo le 24:00 e dopo che il dosaggio era stato aumentato a 100 mg/h, il signor VITT1, si è decisamente tranquillizzato, al punto da potersi dare per accertato che fosse praticamente assopito, nonostante continuasse a muoversi nel sonno:
“
(...) posso dire che il signor VITT1 aveva gli occhi chiusi, ma si muoveva spesso nel letto, pur restando all’interno delle sponde.” (MP 24 maggio 2006, AI 17, pag. 4).
Stato confermato dalla dr.ssa AP 2, seppur, inspiegabilmente, interrogata solo due anni dopo:
“
ricordo che il paziente era agitato, muoveva le braccia, cercava di alzarsi ma poi ricadeva indietro sul letto, da seduto. Si vedeva che era sedato.” (MP 29 maggio 2008, AI 41, pag. 3).
Proprio questi movimenti della vittima hanno indotto l’imputato a rimanerle accanto, poiché essi causavano il distacco dei cavi del monitoraggio (AI 17, all. A, pag. 4 in fondo).
15.
AP 1 è rimasto nella stanza di cure continue vicino alla vittima sino a qualche minuto dopo la 01:30/01:35 (l’imputato AP 1 parla della 01:30, AI 17, all. A, pag. 5), quando, chiamato dalla collega di Medicina 1, _, che gli aveva chiesto, precisando che non si trattava di una questione urgente, un aiuto per posizionare una paziente plegica, si è recato alla camera n. 109. Fino a quel momento VITT1 era, secondo le indicazioni dell’imputato, tranquillo, stabile dal punto di vista emodinamico e con buona saturazione 96% (Protocollo del 7 aprile 2006, AI 6, all. A, pag. 3).
Prima di lasciare il suo posto, il prevenuto ha dichiarato di aver verificato che fossero inseriti gli allarmi:
“
Con “verificare che fossero inseriti gli allarmi” intendo dire che dovendomi assentare dalla camera ho verificato che gli allarmi acustici fossero inseriti regolando i parametri in modo più stretto rispetto a quando si è presenti fisicamente in camera. Preciso che gli allarmi funzionano anche quando si stacca o un elettrodo dell’elettrocardiogramma o il saturimetro. Tali allarmi possono permettere, perlomeno indirettamente, di controllare anche che il paziente riceva sempre l’ossigenoterapia.” (MP 24 maggio 2006, AI 17, pag. 4).
Alle ore 01:45:40/01:46:00 (orario DECT), rispettivamente 01:39:40 (orario monitor), AP 1 ha sentito suonare l’allarme. Appena realizzato che si trattava del signor VITT1, egli è quindi corso al suo capezzale e si è reso conto che era stato vittima di un arresto respiratorio:
“
Raggiunsi _ in camera 108 (recte 109), lasciammo la porta della camera aperta e posizionammo la paziente; appena finimmo sentii suonare l’allarme del monitor ubicato nella stanza infermieri della Medicina 1.
Accorsi velocemente verso suddetta stanza, dalla porta guardai il monitor e vidi che l’allarme si riferiva al paziente del letto 1.
Andai subito verso il letto 1 dal lato del monitor (alla sinistra del paziente), silenziai l’allarme mettendo la sospensione dei tre minuti; il messaggio d’allarme indicava un’asistolia, ma io verificai che l’elettrodo verde posizionato sull’emitorace sinistro del paziente si era staccato, lo riattaccai e mi accorsi che il sig. VITT1 era bradicardico con FC di 35 b/min e con la curva respiratoria piatta.
Nella penombra della stanza guardai il paziente e vidi che non ventilava, quindi la curva del respiro era veritiera; al monitor il paziente mantenne sempre un ritmo, verificai mediante polso carotideo la presenza di circolazione e mediante il tasto “inizio” avviai così la misurazione della pressione arteriosa.
Mi spostai sul lato destro del letto, spensi la pompa d’infusione con il Disoprivan, presi il pallone Ambu e feci due insufflazioni, ma non riuscii a ventilarlo efficacemente (paziente obeso con collo taurino).
Presi il telefono portatile dalla mia tasca, chiamai la dott.ssa AP 2 allertandola per “paziente in arresto respiratorio” e subito schiacciai il tasto REA.
Tornai dal paziente, collegai il tubo per l’ossigeno al pallone Ambu, aprii tutto il rubinetto dell’erogatore dell’ossigeno e ritentai la ventilazione, ancora con scarsa efficacia; il pallone Ambu sembrava fosse difettato o mal assemblato in seguito a lavaggio e disinfezione, si riusciva a insufflare bene ma il ritorno del pallone era rallentato.
(...) Rapidamente giunsero la dott.ssa AP 2, le colleghe infermiere di medicina 1, medicina 2 e chirurgia del 2° piano; essendo l’unico a conoscere perfettamente la camera di degenza (disposizione di materiale, farmaci d’urgenza, ecc.), previo cambiamento del pallone Ambu e posizionamento di cannula Guedel al paziente, affidai al medico assistente la parte ventilatoria coadiuvata da un’infermiera della medicina 2, anch’esse senza sortire un’efficace ventilazione.
Proposi di intubare il paziente, ribadendo che egli manteneva comunque un polso periferico e una pressione sanguigna nella norma, ma la saturazione con bassi valori.
Preparai il materiale necessario per l’intubazione e assistetti la dottoressa; fu una intubazione tecnicamente difficile, si eseguirono tre tentativi: due dei quali nelle prime vie digestive, il terzo a buon fine (...).
Il medico anestesista, dottor _, giunse in concomitanza con la riuscita dell’intubazione.
(Supposi fossero circa le 2).
L’anestesista sostituì il medico assistente, controllò il corretto posizionamento del tubo oro-tracheale e assicurai quest’ultimo con un fermatubo. Procedemmo a ventilare il paziente, inizialmente mediante Ambu e successivamente con l’Oxylog 3000.” (relazione scritta di AP 1 all. A a MP 24 maggio 2006, AI 17).
La dr.ssa AP 2 ha così descritto i fatti e le modalità con cui ha proceduto alla difficile intubazione del paziente:
“
Preciso che AP 1 mi ha telefonato dicendomi che VITT1 era in arresto respiratorio. Io sono quindi andata immediatamente in reparto, gli ho detto che sarebbe stato meglio attivare l’allarme REA invece che telefonare siccome tale allarme giunge anche all’anestesista fuori sede, che dorme al _.
Giunta al reparto di cure continue, che è quasi di fronte all’ufficio assistenti, ho costatato sul monitor che vi era una brachicardia che si è subito risolta e quindi ho pensato ad un problema tecnico, vale a dire un artefatto di registrazione. Ho rilevato che la saturazione dell’ossigeno era bassissima ed allora ho capito che era scesa da parecchio tempo intendendo con ciò minimo cinque minuti. Non ho realizzato a quel momento che verosimilmente era in arresto respiratorio da tempo, ho pertanto iniziato la ventilazione manuale con l’ambu. Ho anche posto una cannula in gola visto che con l’ambu non funzionava per niente. Constatando che non vi era alcun miglioramento ho deciso per l’intubazione. Ho potuto mettere in atto un intubazione vista la mia esperienza in anestesia, come descritto sopra. L’intubazione è riuscita al terzo tentativo.” (MP 29 maggio 2008, AI 41, pag. 4 seg.).
In merito all’attivazione dell’allarme REA, si può dare per accertato che se ne è occupato AP 1 durante la telefonata alla coimputata o al più tardi non appena conclusa la conversazione con lei. Ne è conferma la dichiarazione della dr.ssa AP 2 secondo la quale quando ella è giunta nella camera di cure continue, stavano arrivando anche tutti gli altri infermieri, segno che essi avevano praticamente sentito suonare l’allarme allo stesso momento in cui lei è stata avvisata del problema dall’infermiere:
“
L’unica cosa che ricorda esattamente è che al momento di entrare in camera ha subito notato che si trattava di una situazione di urgenza e che tutti si stavano dando da fare per salvare il paziente. Ricorda che quando è arrivata stavano arrivando o erano già lì gli altri infermieri.” (verbale del dib. d’appello, pag. 6).
Sull’inserimento dell’allarme dei monitoraggi e sulla sua udibilità, la coimputata ha sollevato qualche dubbio:
“
Del resto durante la mia visione del paziente, all’inizio del mio turno, ho potuto constatare che vi erano delle soglie adeguate inserite che facevano scattare i relativi allarmi per saturometria, per l’ECG (in particolare la frequenza cardiaca) e anche per la pressione arteriosa. Da un successivo esame abbiamo constatato che i parametri non erano stati modificati ma si è potuto constatare che da un paio di minuti prima della crisi mancava la registrazione del dato di saturometria. Preciso che quanto il clip fissato al dito si stacca dovrebbe attivarsi l’allarme, evidentemente se non vi è un problema tecnico. Da una prova fatta successivamente dopo la rianimazione l’apparecchio funzionava con il relativo allarme. Non posso però dire con certezza che se l’allarme anche per il distacco del clip funzionava o meno.
ADR che io non ho sentito alcun allarme relativo al saturometro. Avrei dovuto sentirlo visto il suo volume, anche se la porta dell’ufficio si chiude automaticamente. Non avevo alcun disturbo di suoni.
ADR che suppongo che l’allarme non è suonato malgrado vi è un’interruzione della registrazione del dato di saturometria siccome non era inserito.” (MP 29 maggio 2008, AI 41, pag. 5).
La dr.ssa _, dal canto suo, ha dichiarato che a suo avviso, lasciando la stanza delle cure continue ed entrando in un altro locale, gli allarmi sonori non si sentissero (MP 11 novembre 2008, AI 46, pag. 3).
16.
Al suo arrivo all’Ospedale _, alle ore 01:58 (01:52 del monitor), l’anestesista dr. _ ha potuto constatare che il paziente, le cui caratteristiche fisiche (obesità e collo taurino) rendevano difficile l’operazione, era stato per finire correttamente intubato.
Avendo rilevato una saturazione dell’emoglobina al 75% (si pensi che valori al di sotto del 90% non sono fisiologici e indicano una severa deficienza d’ossigeno, ipossia) ed un’ipertensione arteriosa, ha somministrato alla vittima un bolus di Propofolo di 50 mg e 100 mg (definiti erroneamente “gamma”) di Fentanyl, oltre che Narcan e Anexate. Non essendovi stati grossi miglioramenti della saturazione, egli ha poi dovuto procedere all’iperventilazione manuale, sino a portarla al 90% e poi al 100%.
Sotto l’aspetto cardiocircolatorio VITT1 è rimasto sempre stabile.
Alle 02:50 è giunta in clinica anche la capo clinica di guardia dr.ssa _ che ha trovato un paziente intubato, ventilato con saturazione del 97% stabile dal punto di vista emodinamico, con una buona diuresi, pupille isocicliche normoreagenti, non meningismo, riflessi presenti e simmetrici, Babinsky negativo bilateralmente, auscultazione cardiaca con toni lontani, auscultazione polmonare con espiro prolungato, polsi periferici palpabili, riflesso della tosse, reazione al dolore all’arto superiore. Nonostante questa stabilizzazione il paziente non si risvegliava e non aveva riflesso corenale, così che era chiaro a tutti che vi era una forte probabilità che il blocco respiratorio avesse causato dei gravi danni cerebrali (MP 29 maggio 2008 di _, AI 43, pag. 5).
Alle 04:00 VITT1 è stato trasportato al reparto cure intense dell’Ospedale _ di _, e meglio al reparto Cure intense del Cardiocentro, ove è stato accertato che egli era ormai in uno stato neurologico di coma profondo (Glasgow 3) cioè un’
“encefalopatia postanossica grave su arresto respiratorio”
(AI 21 pag. 2).
Il 9 maggio 2006 è stata fatta una rivalutazione neurologica che ha confermato il grave quadro vegetativo persistente, che non lasciava spazi a prognosi favorevoli, ritenute le scarsissime probabilità di un recupero funzionale tale da permettere una vita comunicativa ed un’autonomia anche minima (AI 21 pag. 2).
Nei mesi successivi il quadro clinico è gradualmente peggiorato fino a che, il 9 gennaio 2007, il paziente è deceduto per arresto cardiorespiratorio. In accordo con la Commissione di etica dell’Ente Ospedaliero cantonale (COMEC), i medici hanno omesso di tentare una rianimazione (la conclusione della decisione recita:
“La diagnosi di stato vegetativo essendo stata confermata, concordiamo per un non accanimento terapeutico nel senso di un’astensione dall’introduzione di manovre attive quali la rianimazione, la ventilazione artificiale, le catecolamine, la dialisi, ecc. In questo senso si tratta non tanto di sospendere le terapie in atto, ma piuttosto di astenersi dall’introduzione di mezzi artificiali o atti invasivi, garantendo in ogni caso e costantemente un’adeguata terapia palliativa.”
, AI 18 pag. 2).
17.
L’11 maggio 2006 l’avv_, in rappresentanza del fratello di VITT1, _, ha inviato al Ministero pubblico un esposto con il quale ha chiesto di esaminare il caso per verificare se non vi fossero stati errori da parte del personale sanitario incaricato, connotabili dal punto di vista penale di negligenza (AI 6). Il procuratore pubblico ha immediatamente aperto una procedura a carico di ignoti per il reato di lesioni colpose gravi (AI 7 segg.) e proceduto ad una prima tornata di interrogatori. Con la sopravvenienza della morte, il 9 gennaio 2007, il reato ipotizzato è divenuto quello di omicidio colposo, art. 117 CP.
Il pubblico ministero ha dapprima proceduto a chiedere al dr. _, medico legale della Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università degli Studi dell’Insubria di Varese, un rapporto (non quindi una perizia giudiziaria) su quanto avvenuto. Lo stesso è stato trasmesso solo il 18 gennaio 2008 (AI 30) preceduto da una
“Relazione riguardante i farmaci somministrati alla persona di VITT1 presso l’Ospedale regionale di _ dal 6 al 7 aprile 2006”
redatta il 6 gennaio 2008 su richiesta del dr. _, con l’accordo del PP, dal Prof. _, professore associato di farmacologia dello stesso istituto universitario (AI 29).
Nel frattempo l’avv. _, con scritto 21 febbraio 2008, ha comunicato che gli eredi della vittima, essendo stati risarciti dall’Assicurazione dell’EOC, si sarebbero disinteressati del procedimento penale (AI 34).
Non avendo le relazioni degli esperti italiani incaricati statuto di perizia giudiziaria, come eccepito dall’avv. DI 1 il 9 giugno 2011 (AI 65) e dall’avv. _ (AI 67), il PP Zaccaria Akbas, nel frattempo subentrato al collega _, ha nominato, il 24 aprile 2012, quale perito giudiziario il Prof. _, dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Genova (AI 74).
Il decreto di nomina è stato impugnato da AP 1 di fronte alla CRP (AI 75), che, con decisione 31 agosto 2012, lo ha annullato condividendo l’opinione del reclamante che il perito avrebbe dovuto avere, nel caso specifico, oltre alle competenze mediche, una buona conoscenza del sistema sanitario elvetico (AI 80).
Di conseguenza, il 14 settembre 2012, il Ministero pubblico ha affidato l’incarico della redazione della perizia giudiziaria al Prof. Dr. med. _, già primario di Medicina Intensiva all’HUG di Ginevra (AI 81).
In data 30 novembre 2012, il perito giudiziario ha consegnato il suo rapporto (AI 84) seguito poi dal complemento 15 gennaio 2013, allestito sulla scorta delle richieste di delucidazione delle parti, e dall’interrogatorio del dr. med. _ del 22 gennaio 2013.
Raccolte tutte le prove, il Procuratore pubblico ha emanato, il 5 febbraio 2013, i due decreti d’accusa a carico dei qui appellanti che hanno portato alla sentenza di condanna 18 marzo 2013 del giudice della Pretura penale, qui impugnata.
La perizia, il complemento e i rapporti
18.
Prima di affrontare l’esame di merito della fattispecie, appare utile riprendere i contenuti dei referti agli atti nelle parti qui d’interesse.
Innanzitutto, pur tenuto conto che non si tratta di perizie giudiziarie, vale la pena ricordare cosa hanno indicato il Prof. dr. _ ed il Prof. dr. _. In effetti i loro rapporti consentono di meglio chiarire di cosa si sta parlando e quali siano le problematiche sollevate.
Il Prof. Dr. _ ha constatato che al paziente VITT1, sono stati somministrati, per quanto qui di rilevanza (AI 29 pag. 3):
-
tra le 14:10 e le 14:20: trinitrato di glicerina (Nitrolingual);
-
alle 14:35 dei broncodilatatori per inalazione;
-
alle 16:44: flumazenil (Anexate);
-
alle 20:00: pantoprazolo (Pantozol);
-
alle 21:00: salbutamolo (Ventolin) e un altro farmaco;
-
alle 23:15: Propofolo i.v. 30 mg in bolo seguiti da infusione a 50 mg/h, aumentati a 80 mg/h e infine, poco prima delle 24:00, a 100 mg/h.
L’infusione di Propofolo è stata sospesa tra le ore 01:30 e le ore 01:40, a seguito dell’arresto respiratorio;
-
Poco dopo le 02:00, al paziente intubato vengono somministrati ancora Propofolo i.v. 50 mg in bolo seguiti da infusione a 80 mg/h, sospesa definitivamente dopo le 03:00, e fenanyl;
-
Dopo le 03:00, dopo la sospensione del Propofol; naloxone (Narcan) e flumazenil (Anexate).
Sulle particolarità ed i rischi del Propofolo, l’esperto di farmacologia ha illustrato:
“
Il suo impiego quale sedativo è infatti consentito, sia in Europa che negli Stati Uniti, soltanto in pazienti intubati e con ventilazione meccanica in reparti di terapia intensiva (Intensive care unit, ICU). L’impiego per gli stati di agitazione è descritto da alcuni testi, tra cui il Goodman, che però fa riferimento all’agitazione conseguente al risveglio dall’anestesia oppure dovuta ad astinenza in soggetti dipendenti da acool etilico.
(...) Di particolare rilievo in relazione alla vicenda del signor VITT1 appare anche il profilo di tollerabilità del propofol, il quale, tra gli effetti avversi noti include in primo luogo quelli di natura cardiopolmonare, i quali includono depressione respiratoria, apnea, ipotensione e bradicardia sinusale. In particolare, bradicardia e apnea nel corso di induzione dell'anestesia sono segnalati come frequenti e con incidenza superiore all'1%, probabilmente correlati all'impiego del farmaco.
Gli effetti del propofol sono correlati alle concentrazioni plasmatiche terapeutiche del farmaco, e gli effetti avversi, quali la depressione cardiorespiratoria, è probabile si verifichino a concentrazioni plasmatiche elevate.
(...) In linea di principio, le benzodiazepine e il propofol sono entrambi depressori del sistema nervoso centrale e i loro effetti possono vicendevolmente potenziarsi." (AI 29 pag. 4 e 5).
Citati nelle note della relazione sono anche degli estratti della scheda tecnica del Diprivan tratta dal sito della U.S: Food and Drug Administration:
“
Drug interactions: The induction dose requirements of Diprivan Injectable Emulsion may be reduced in patients with intramuscular or intravenous premedication, particularly with narcotics (e.g. morphine, meperidine and fentanyl, etc.) and combinations of opioids and sedatives (e.g. benzodiazepines, barbiturates, chloral hydrate, droperidol, etc.). These agents may increase the anesthetic or sedative effects of Diprivan Injectable Emulsion and may also result in more pronounced decreases in systolic, diastolic and mean arterial pressures and cardiac output."
(AI 29, nota 24).
Il dr. _ ha concluso affermando:
“
In conclusione, l'impiego di propofol a scopo sedativo in un soggetto agitato non è giustificato sulla base del rapporto rischio-beneficio, e in ogni caso non è ricompreso tra gli usi autorizzati per questo farmaco. La sintomatologia manifestata dal paziente in esame - arresto respiratorio con bradicardia - rientra tra gli effetti avversi più frequentemente correlati all'impiego del propofol e la breve distanza di tempo tra l'inizio della somministrazione e il manifestarsi del quadro clinico induce a considerare il farmaco come agente causale. Non si può escludere che la precedente somministrazione o assunzione di altri farmaci (oxazepam, flumazenil) possa aver avuto un ruolo nel determinare una particolare suscettibilità del paziente a questa reazione." (AI 29, pag. 6).
Sulla scorta di questo parere e degli atti esaminati, anche il dr. _ ha potuto concludere che la somministrazione di Propofolo a VITT1 è stata quantomeno una delle concause nel verificarsi dell'arresto respiratorio e quindi della morte (AI 30 pag. 31).
19.
Nel suo referto peritale del
30 novembre 2012 (AI 84), il dr. med_ ha accertato innanzitutto che l’amministrazione del Propofolo a VITT1, nel contesto clinico particolare in cui è avvenuta, è stata all’origine dell’arresto respiratorio che ha portato la vittima ad uno stato di coma vegetativo durevole, prima, ed alla morte a seguito della decisione - non solo legale ma largamente raccomandata in Svizzera - di rinuncia ad un atteggiamento terapeutico aggressivo (AI 84, pag. 28), poi.
Sulla possibilità per un infermiere di prescrivere (termine da con confondere con quello di “somministrare”, di ben altro significato) medicamenti, in particolare Propofolo, il perito si è così espresso:
“
(...) en Suisse, la prescription des médicaments demeure de la responsabilité du médecin. Seule une délégation explicite, écrite, détaillée et verifiée peut autoriser un(e) infirmier(e) à prescrire une molécule pharmacologique à un patient dont il a la charge. Les exceptions à cette règle paraissent être les situations d'extrème urgence (au vu des médicaments cités, comme les catécholamines et l'atropine) ou, à l'autre côté du spectre, les médicaments banaux, comme l'aspirine et, parfois, des antibiotiques oraux.
(...) Il n'existait pas, en 2006, dans cette structure, de délégation explicite aux infirmier(e)s quant à la prescription de médicaments. Plus spécifiquement, au sujet du Propofol, aucun protocole explicite de prescription ou d'administration de cette molécule n'était en vigueur dans l'Ospedale Regionale di _, que ce soit dans le SCI ou dans les Soins Intensifs. De plus, aucune délégation implicite ("coutumière") quant à la prescription de ce médicament et destinée aux infirmier(e)s n'avait été octroyée par les médecins responsables; ceci est confirmé par le médecin responsable (Primaria) des Soins continus de l'Ospedale _ en 2006, la dr.ssa _."
(AI 84, pag. 14 e 16).
Egli ha quindi chiarito che la prescrizione era e doveva essere di competenza esclusiva di un medico e che nella struttura ospedaliera in questione non esistevano né deleghe esplicite, né implicite (per prassi), agli infermieri di tale incombenza.
Sull'impiego del Propofolo nel caso specifico, ha innanzitutto confermato che si tratta di un agente anestetico generale utilizzato in anestesiologia e in medicina di cure intense, più precisamente di un recettore GABA (gamma aminobutyric acid) come le benzodiazepine e l'alcool etilico, ed ha spiegato che
“
La dose recommandée pour l’induction de l’anesthésie de la solution à 1% (utilisée dans le cas qui nous occupe ici) est de 1.5 à 2.5. mg/kg de poids corporel, avec un début de l’administration intraveineuse sous forme de bolus, soit en perfusion continue, la vitesse de l’administration dépendant d’un patient à l’autre, en fonction de la profondeur de l’anesthésie recherchée, en moyenne de 4 è 12 mg/kg de poids corporel par heure.”
(AI 84, pag. 20)
Prima di addentrarsi nella valutazione del comportamento del personale sanitario coinvolto, il dr. _ ha tenuto a sottolineare che l'agitazione non è un sintomo banale, ma piuttosto un segnale d'allarme, che indica che sta succedendo qualcosa al paziente.
Detto ciò, il perito giudiziario ha appurato che da nessuna parte in letteratura medica si fa riferimento a questo medicamento quale mezzo per la cura dell'agitazione
"Il n'existe pas de description de l'usage du Propofol comme traitement de l'agitation.
(...) Pour être bref, le Propofol n'a pas sa place per se dans le traitement de l'agitation aiguë selon les recommandations médicales disponibles actuellement et, a fortiori, en 2006"
(AI 84, pag. 21).
Dal compendio del 2012 egli riporta che il farmaco deve essere amministrato da personale specializzato in anestesia e cure intense, con una formazione in anestesia.
I pazienti devono essere costantemente sorvegliati e devono essere disponibili apparecchi per assicurare la possibilità di mantenere aperte le vie respiratorie, di apparecchi per la respirazione assistita e la rianimazione, così come dell'ossigeno:
"il n'est donc pas supposé à priori que tout patient auquel on a administré du Propofol sera ou devra être intubé et placé en ventilation mécanique, mais plutôt qu'un tel malade est à risque de subir un problème respiratoire et qu'il doit être étroitement surveillé et placé dans un milieu tel qu'une intubation et une ventilation mécanique puissent être très rapidement mis en oeuvre."
(AI 84, pag. 20).
Sugli effetti e sui rischi del Propofolo, egli ha scritto:
“
(...) cette molécule, le Propofol, n'est pas banale, même si elle est séduisante. Pas banale, en raison de ses effets indésidérables: cardio-dépression, vasodilatation, bradycardie, dépression réspiratoire, obstruction des voies aériennes supérieures à l'induction, marge thérapeutique étroite (l'intervalle entre "mild sedation" et anesthésie profonde est étroit et très individuel) et absence d'antagoniste spécifique à même d'être administré en cas de complication. Séduisante, car son action est rapide et est de courte durée après l'arrêt de la drogue."
(AI 84, pag. 22).
Con riferimento alle possibili interazioni con altri medicamenti (sedativi, neurolettici, Flumazenil) , il perito ha precisato che nel 2006 era già risaputo e il fabbricante aveva inserito nelle raccomandazioni, che l’abbinamento di Propofolo a benzodiazepine e neurolettici poteva comportare una diminuzione dell’attività del sistema nervoso centrale, con il rischio di complicazioni quali la depressione respiratoria (AI 84, pag. 24). Pure notorio era che il Flumazenil poteva potenziare l’azione del Propofolo e che quest’ultimo non aveva nessun farmaco antagonista.
Nel referto, prima di rispondere ai quesiti, il dr. _ ha poi tenuto a fare risaltare che (AI 84, pag. 25 seg.):
-
è possibile che droghe come il Propofolo fossero largamente prescritte e somministrate da infermieri delle cure continue dell’Ospedale _ in caso di pazienti agitati, senza che sussistessero dei protocolli che li autorizzassero esplicitamente a farlo e in contraddizione con le regole e la legislazione svizzera;
-
la somministrazione di Propofolo non era indicata per il paziente VITT1, nel momento in cui è avvenuta, da un lato poiché la causa della sua agitazione non era nota con certezza e, dall’altro, perché la letteratura medica non lascia spazi all’uso di questo il farmaco per il trattamento dell’agitazione;
-
l’agitazione di VITT1 poteva avere più cause, ma la loro individuazione necessitava di conoscenze mediche superiori a quelle su cui un infermiere può contare. Il paziente avrebbe dovuto essere visitato da un medico competente in questo tipo di situazioni;
-
è difficile non imputare al Propofolo l’arresto respiratorio;
-
l’arresto respiratorio e la brachicardia sono complicazioni note dell’amministrazione di Propofolo;
-
le tempistiche tra la somministrazione del Propofolo e l’arresto cardiaco sono compatibili con il ruolo causale della prima nel secondo;
-
VITT1 era una persona particolarmente a rischio di arresto respiratorio sotto sedazione da Propofolo, essendovi il sospetto di un abuso di medicamenti, al punto da avere problemi respiratori (respirazione Cheyne-Stokes già quando era dalla dr.ssa _);
-
la somministrazione di Flumazenil, antagonista di certi medicamenti soppressori dell’azione respiratoria, ha una efficacia nel tempo molto limitata, di modo che può aver terminato i suoi effetti al momento della somministrazione del Propofolo, causando da un lato un rafforzamento dell’azione sedativa di tali farmaci, e dall’altro dei sintomi da astinenza che potrebbero spiegare l’agitazione del paziente.
Sulla necessità di sorvegliare il paziente, il perito ha infine risolto che si imponeva la presenza continua di un infermiere specializzato, non essendo il monitoraggio sufficiente:
“
Un patient sous Propofol doit être monitorisé durant toute la durée d’action de cette molécule: un tel patient doit pouvoir bénéficier d’une surveillance électronique (moniteur de chevet, ou scope) et de la présence constante d’un membre du personnel hospitalier capable à la fois d’effectuer une évaluation clinique du patient et à même d’interpréter “en ligne” les données du moniteur.”.
20.
Con il complemento del 15 gennaio 2013, il dr. _ ha, su domande degli accusati, oltre che confermato quanto scritto il 29 novembre 2012, aggiunto e chiarito:
- le conclusioni del suo referto non sono in contraddizione con la dichiarazione del dr. _, resa a verbale del 22 maggio 2006 (MP 19 maggio 2006, AI 16, pag. 4):
“Desidero rilevare che in Svizzera si è sviluppata negli anni la prassi di delegare agli infermieri specializzati in cure intense o in anestesia determinati compiti di cura quali in particolare la rianimazione di base e avanzata, quindi inclusa anche l’intubazione, come pure anche la somministrazione di determinati medicamenti che richiedono particolari attenzioni nella somministrazione (cardiotonici o sedativi del tipo Propofolo), e ciò contrariamente a quanto si constata in altri Paesi dove tali azioni restano di spettanza esclusiva dei medici.”
.
In effetti, in primo luogo, nel caso di specie si tratta di cure continue e non di cure intense, per cui tale dichiarazione non trova spazio d’applicazione. Inoltre, il dr. _ ha parlato di somministrazione, non di prescrizione. I due termini hanno significati diversi; non devono essere confusi. Nella fattispecie, nessun medico, fino all’arrivo della dr.ssa _, ha prescritto il Propofolo alla vittima (AI 95, pag. 2, risposta 1.1.);
-
tenuto conto che il deficit cerebrale d’ossigeno sia stato prolungato, è probabile, ma non certo (non essendoci dei dati al proposito), che una sorveglianza clinica stretta avrebbe potuto permettere di rilevare qualche segnale d’allarme proveniente dal defunto VITT1, quali delle anomalie respiratorie e/o cardiache, che la somministrazione di Propofolo avrebbe potuto essere interrotta e che sarebbe stato possibile allertare i medici (AI 94, pag. 6, risposta n. 7);
-
un’interruzione della circolazione cerebrale della durata di 20 secondi esaurisce le riserve cerebrali d’ossigeno e conduce ad una perdita di conoscenza. Dopo 5 minuti di anossia cerebrale completa, il cervello perde il suo metabolismo essenziale, il glucosio e le sue riserve d’energia (ATP, adenosina trifosfato), con la conseguenza dell’insorgere di danni neuronali che si susseguono a cascata, e con la morte di cellule cerebrali. Se la circolazione nel cervello viene riattivata in un lasso di tempo di 3-5 minuti, ci può essere un recupero talvolta completo delle funzioni. Oltre questo limite le conseguenze sono nefaste. Paradossalmente, anche una restaurazione rapida della circolazione cerebrale può essere pericolosa, poiché può condurre a lesioni qualificate come danno da ischemia e riperfusione (AI 95, pag. 7, risposta 9.1.):
“L’oxygénation cérébrale dépendant à la fois de l’intégrité de la perfusion sanguine du cerveau, donc de l’intégrité de la fonction cardio-circulatoire, et de l’oxygénation du sang assurée par la respiration, feu Monsieur VITT1 a dû être victime d’une combinaison de l’altération concomitante de ces deux facteurs. Il est impossible de dire aujourd’hui quelle a été l’intensité à quel moment et la durée de la compromission de l’oxygénation cérébrale du patient décédé, sinon qu’en fin de compte, le déficit en oxygène du cerveau a été très sévère au vu de ses conséquences neurologiques.” (AI 94, pag. 7, risposta 9.1.);
-
se la prescrizione del Propofolo è stata fatta dalla dr.ssa AP 2 prima dell’arresto respiratorio, essa deve venire considerata inappropriata. Se invece fosse stata fatta dopo lo stesso, una volta che il paziente era intubato, potrebbe essere comprensibile (AI 94, pag. 8, risposta n. 12).
21.
Il perito è stato in seguito interrogato dal PP alla presenza delle parti. In quell’occasione, il 22 gennaio 2012, egli ha dichiarato:
“
Domande poste dall’avv. DI 1
2) Dagli atti risulta che l'infermiere AP 1 ha somministrato a partire da un orario compreso tra le 23:15 e le 23:30, sulla base di una decisione autonoma, il Propofolo. Sempre dagli atti risulta che in un orario non meglio precisato ma compreso tra le 23:30 e le 24:00 ha riferito ai medici, in primis al dott. _, poi alla dott.ssa AP 2, di questa sua autonoma iniziativa. Di fatto questa sua iniziativa è stata ratificata, dapprima per atti concludenti poi esplicitamente (come risulta dalla risposta alla domanda precedente) dai medici.
Considerata la durata degli effetti del farmaco, da un punto di vista scientifico è possibile affermare con certezza che gli effetti nefasti che si sono prodotti al più tardi alle ore 01:45, siano riconducibili al Propofolo somministrato da AP 1 prima della ratifica medica?
Penso che ci siano due modi che permettano di affrontare la domanda. Il primo è l'approccio clinico, dove AP 1 è presente e vede sul monitor quello che sta succedendo, poteva vedere l'elettrocardiogramma, la frequenza respiratoria e la saturazione dell'ossigeno. Ritengo inoltre che AP 1 abbia misurato la pressione arteriosa. Durante la fase "AP 1" posso affermare che non c'era una situazione preoccupante e del resto la prova è che la dott.ssa AP 2 ha prescritto lo stesso farmaco, se fosse stata preoccupata non lo avrebbe fatto. Questo non significa che la decisione della dott.ssa AP 2 sia stata una buona decisione, perché le indicazioni presenti in quel momento non erano quelle per una prescrizione e somministrazione del Propofolo.
Il secondo approccio è quello farmaco-cinetico (= evoluzione ed effetti del farmaco nel corpo umano rilevati nel sangue nel corso del tempo). Nel caso del Propofolo che ho esaminato ci vuole un certo tempo affinché il farmaco somministrato raggiunga un livello costante. Nel caso di VITT1 questo intervallo di tempo non è e non era prevedibile perché il dosaggio è stato somministrato da AP 1 in dosi differenti (aumentandolo man mano nel tempo). Ci sono altre due ragioni per le quali questo intervallo di tempo non era prevedibile. La prima è determinata dal fatto che il paziente era obeso, ciò che modifica lo spazio di distribuzione nel corpo e la seconda è l'interazione con gli altri medicamenti, in particolare i medicamenti psicoattivi (uno di questi è il Flumazenil).
Tutto questo ci permette di dire che nella fase AP 1 eravamo in uno stato di incertezza. Voglio precisare che la seconda fase segue ed è la conseguenza della prima.
3) Si può affermare con certezza che se la somministrazione fosse stata interrotta alle 23:30 o alle 24:00 o alle 00:15, il risultato nefasto si sarebbe prodotto ugualmente?
Posso affermare che se la somministrazione del Propofolo fosse stata arrestata quando la situazione del paziente risultante dai monitor (parametri vitali nella norma) era tranquilla ritengo che sarebbe stato estremamente probabile che il tasso di Propofolo del sangue sarebbe diminuito rapidamente. Di conseguenza il paziente si sarebbe molto probabilmente svegliato agitato e l'effetto nefasto non si sarebbe prodotto. Questo si basa sulla farmacocinetica.
4) Domanda di precisazione dell’avv. _ a seguito della precedente domanda dell’avv. DI 1.
Se nel lasso di tempo che AP 1 è stato assente per aiutare una sua collega infermiera, dagli atti risulta circa 10 minuti o anche meno, egli fosse stato invece presente vicino al paziente, nel senso che lo avesse seguito dai monitor, avrebbe potuto sospendere il Propofolo perché in quel momento ha notato una desaturazione dell’ossigeno e quindi non si sarebbe prodotto l’effetto nefasto? In poche parole si chiede al perito se un pronto intervento di AP 1 avesse (recte avrebbe) potuto evitare al paziente gli effetti nefasti susseguenti.
(...) Prima di rispondere alla domanda voglio precisare che, medicalmente, quando AP 1 si è assentato è molto probabile che tutto era tranquillo, altrimenti non si sarebbe assentato. Quando AP 1 è tornato c’era uno stato bradicardico, una desaturazione importante e una frequenza respiratoria molto lenta, e in seguito è subentrato un arresto respiratorio. Dagli atti non è chiaro se AP 1 è intervenuto quando era già in corso l’arresto respiratorio. L’intervallo di assenza di AP 1 non è determinabile con certezza e bisogna aggiungere a questo fattore anche quello fisio-patologico (...).
(...) Per quanto concerne VITT1 il Propofolo ha diminuito e poi fermato il movimento respiratorio. Inoltre lo scambio di ossigeno non era più normale e questo lo si evince perché c'è stato uno scanner toracico effettuato d'urgenza al Pronto Soccorso che ha rilevato che c'erano delle zone dei polmoni otturate (= termine scientifico, atelettasia). Tutto questo serve per dire che l'interpretazione della saturazione in VITT1 è difficile a causa della presenza di diversi fattori. Questo non ci permette di dedurre la durata dell'assenza di AP 1.
E' importante rilevare che se questi due aspetti non funzionano non è necessario molto tempo perché la saturazione precipiti. Nel caso di VITT1 la frequenza respiratoria è diminuita gradualmente. C'è comunque un altro indizio che ci dice che l'ossigenazione doveva già essere alterata prima dell'arresto respiratorio, e questo ce lo indica l'avvenuta bradicardia. Possiamo affermare questo perché un cuore normale è molto resistente all'ipossia. Questo significa che una desaturazione grave ha dovuto probabilmente precedere l'arresto respiratorio. Questo è probabile (e non certo) perché non è sicuro che VITT1 avesse un cuore normale, in quanto era un maschio tabagista e obeso.
Rispondendo alla domanda dico che se AP 1 fosse stato presente avrebbe osservato i sintomi descritti sopra e avrebbe probabilmente deciso di sospendere la somministrazione del Propofolo, è quindi possibile che ciò avrebbe evitato le conseguenze nefaste occorse al paziente.
Gli elementi che ho a disposizione mi inducono a supporre che la situazione è degenerata progressivamente. AP 1, se non si fosse assentato, avrebbe potuto rilevare tutti segnali d'allarme di cui ho accennato in precedenza e quindi intervenire.
Vorrei sottolineare che AP 1, se fosse stato presente, non avrebbe avuto comunque la competenza per comprendere come intervenire per porre rimedio ad una situazione critica. Dico questo perché AP 1 non è un infermiere specializzato come ho indicato al punto 5.2.2.3. della mia perizia. Con questo voglio dire che AP 1 avrebbe dovuto comunque interpellare ed essere stato assistito da un medico.” (MP 22 gennaio 2013, AI 97, pag. 2 segg.).
Gli appelli
22.
Con i rispettivi appelli
gli imputati contestano innanzitutto d’aver violato delle regole di prudenza, essendosi limitati a fare il loro dovere, a seguire la prassi consolidata dell’Ospedale ed essendo stato il loro agire ratificato dai dr.i _ e _, che li hanno così sollevati da loro eventuali responsabilità.
Oltre a ciò, non sarebbe a loro dire dimostrato un nesso di causalità naturale ed adeguato tra i comportamenti censurati e la morte del signor VITT1.
La dr.ssa AP 2, infine, ha sollevato l’eccezione di un interruzione del nesso di causalità adeguata da parte del coimputato.
23.
L'art. 117 CP punisce con la pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria chi, per negligenza, cagiona la morte di una persona.
Giusta l'art. 12 cpv. 3 CP commette un crimine o un delitto per negligenza colui che, per un’imprevidenza colpevole, non ha scorto le conseguenze del suo comportamento o non ne ha tenuto conto. L’imprevidenza è colpevole se l’autore non ha usato le precauzioni alle quali era tenuto secondo le circostanze e le sue condizioni personali.
La negligenza presuppone così l’adempimento di due condizioni: da un lato, l’autore deve aver violato le regole della prudenza, ossia il dovere generale di diligenza istituito dalla legge penale, che vieta qualsiasi comportamento che espone a pericolo beni altrui protetti penalmente da lesioni involontarie. Un comportamento che oltrepassa i limiti del rischio ammissibile viola il dovere di prudenza quando l’autore, considerate la sua formazione e le sue capacità, avrebbe dovuto rendersi conto della messa in pericolo altrui (STF 6B_437/2008 del 24 luglio 2009, consid.
2;
DTF 135 IV 56 consid.
2.1; 134 IV 255 consid. 4.2.3; 130 IV 10 consid. 3.2).
Per determinare i limiti del dovere di prudenza, occorre domandarsi se una persona ragionevole, nella medesima situazione e con le stesse attitudini dell’autore, avrebbe potuto prevedere almeno nelle grandi linee il corso degli eventi - questione esaminata alla luce della teoria della causalità adeguata se l’autore non è un esperto dal quale ci si poteva aspettare di più - e, se del caso, quali misure poteva adottare per evitare la realizzazione dell’evento dannoso.
Per determinare precisamente quali siano i doveri imposti dalla prudenza occorre riferirsi alle disposizioni di legge emanate a salvaguardia della sicurezza e per evitare incidenti (DTF 135 IV 56 consid. 2.1; 134 IV 255 consid. 4.2.3; 130 IV 10 consid. 3.3; 129 IV 119 consid. 2.1). Se non sussistono, è possibile fare riferimento per analogia a regole analoghe fissate da associazioni o categorie professionali private o semiprivate, se comunemente riconosciute (STF 6B_ 408/2013 del 18 dicembre 2013, consid. 4.2.; DTF 127 IV 62 consid. 2d).
Inoltre, perché vi sia negligenza, la violazione del dovere di prudenza deve essere colpevole, in altre parole si deve poter rimproverare all’autore, considerate le sue condizioni personali, una mancata attenzione o una riprensibile mancanza di sforzi (
DTF 134 IV 255
consid. 4.2.1).
24.
Secondo la giurisprudenza sviluppata dal Tribunale federale, i doveri di diligenza di un medico (o di un operatore sanitario) devono essere stabiliti tenendo conto delle circostanze concrete del singolo caso, e cioè considerando il tipo di intervento o di terapia, i rischi ad essi collegati, il margine di valutazione di cui godeva in quella situazione l’accusato, così come i mezzi a disposizione e l’urgenza d’intervento (STF 6B_ 408/2013 del 18 dicembre 2013, consid. 4.2.).
Il medico (o l’operatore sanitario) deve operare secondo la diligenza che le circostanze gli impongono. Egli non deve tuttavia rispondere per ogni tipo di rischio o pericolo, che ogni tipo di atto medico, ogni infortunio ed ogni malattia inevitabilmente comportano, per la loro natura stessa.
Inoltre il medico deve poter disporre, sia per la diagnosi che per la scelta della terapia o delle misure da adottare nei confronti del paziente, di un certo margine decisionale. Agisce contrariamente ai doveri di diligenza, solo quando il suo procedere è in contrasto con le regole sviluppate dalla scienza medica e comunemente riconosciute, o non corrisponde agli standard scientifici del momento (STF 6B_ 408/2013 del 18 dicembre 2013, consid. 4.2. e riferimenti).
25.
Un reato di evento (come quello di omicidio colposo) implica di regola un’azione. Una commissione per omissione è prospettabile laddove con la sua passività l’autore disattende un obbligo di agire (art. 11 CP).
Quest’onere deve derivare da una posizione di garante (“status giuridico” riprendendo i termini dell’art. 11 cpv. 2 CP): l’autore deve trovarsi in una situazione che gli impone di salvaguardare e difendere dei beni giuridici determinati contro pericoli sconosciuti che possono minacciare tali beni (obbligo di protezione), o di impedire la realizzazione di rischi conosciuti ai quali sono esposti dei beni indeterminati (obbligo di controllo;
DTF 134 IV 255
consid. 4.2.1). Gli obblighi giuridici in questione possono derivare dalla legge, da un contratto, da una comunità di rischi liberamente accettata o dalla creazione di un rischio, art. 11 cpv. 2 CP.
26.
Tuttavia, non basta stabilire l’esistenza di un comportamento colpevole contrario ad un dovere di prudenza e la morte di una persona: la condotta dell’imputato e le lesioni della vittima devono trovarsi in rapporto di causalità naturale e adeguato (DTF 122 IV 17 consid. 2c).
Sussiste un rapporto di causalità naturale tra un evento ed un comportamento colpevole, se quest’ultimo ne costituisce la
"conditio sine qua non"
, ossia se non può essere tralasciato senza che pure l’evento verificatosi venga meno; non è tuttavia necessario che esso appaia come la causa unica dell’evento (STF 6S.297/2003 del 14 ottobre 2003 consid. 4, pag. 7; DTF 115 IV 199 consid. 5b e rinvii). Nel caso concreto la causalità naturale è data se la violazione delle norme e dei principi della scienza medica miranti la tutela della salute dei pazienti risulta essere una condizione necessaria per l’incidente, anche se non costituisce la causa unica e immediata: è sufficiente che essa abbia contribuito con altre a produrre l’evento (DTF 100 IV 279 consid. 3c, concernente un caso di circolazione stradale). Al proposito un alto grado di verosimiglianza è sufficiente (DTF 122 IV 17 consid. 2c/aa; 121 IV 207 consid. 2a; 118 IV 130 consid. 6a).
La causalità naturale deve essere anche adeguata: è necessario stabilire se il comportamento dell’agente fosse idoneo, secondo l’andamento ordinario delle cose e l’esperienza generale della vita, a cagionare o a favorire un evento simile a quello in concreto realizzatosi. Soltanto a queste condizioni si può affermare che l’evento verificatosi fosse prevedibile da parte dell’agente (DTF 130 IV 17 consid. 3.2; 127 IV 61 consid. 2d; 126 IV 13 consid. 7a/bb).
Il rapporto di causalità adeguata tra il comportamento e l’evento può essere interrotto e l’agente non risultare punibile allorquando circostanze eccezionali, quali ad esempio la colpa di un terzo o della vittima, sopravvengano senza poter essere previste. Il carattere imprevedibile non è in sé sufficiente a spezzare il nesso di causalità: la causa concomitante deve avere un peso tale da risultare l’origine più probabile ed immediata dell’evento considerato, relegando così in secondo piano tutti gli altri fattori, segnatamente il comportamento dell’agente (DTF 130 IV 7 consid.
3.2; 127 IV 62 consid. 2d; 126 IV 13 consid. 7a/bb
).
A tal proposito, in una sentenza del 2009 il Tribunale federale ha puntualizzato che il comportamento della vittima o quello di un terzo non sono di norma in grado interrompere il nesso di causalità adeguato. Questo vale persino nelle situazioni in cui la colpa della vittima o del terzo è maggiore di quella dell’imputato. Analogamente, quando subentrano, accanto alla causa principale, delle altre concause che mettono in secondo piano la prima, questa mantiene il suo carattere di causalità adeguata, fintanto che può essere ancora considerata rilevante nello svolgimento degli eventi, cioè fino a che un’altra causa può essere ritenuta talmente al di fuori della normalità, talmente assurda ed insensata, da non poter assolutamente essere pronosticata. Decisiva è l’intensità dei vari rapporti causali: se uno di essi risulta essere, dopo attenta valutazione, talmente intenso da indurre a considerare gli altri irrilevanti, si ha l’interruzione del rapporto causale tra quest’ultimi e l’evento (STF 6B_601/2009 del 24 novembre 2009, consid. 1.5.2; DTF 116 II 519 consid. 4b).
Oltre alla prevedibilità dell’evento va infine considerata la sua evitabilità. Attraverso il concetto di causalità ipotetica, occorre valutare se in caso di comportamento corretto dell’agente l’evento non si sarebbe verificato. Ciò presuppone, in base alla giurisprudenza, perlomeno un alto grado di probabilità, per cui non basta la semplice possibilità che, in caso di comportamento conforme ai doveri di prudenza, fosse evitabile: in questo senso l’evento è imputabile all’agente soltanto se, qualora quest’ultimo si fosse ipoteticamente comportato in maniera conforme ai suoi doveri di prudenza, l’evento sarebbe stato molto probabilmente o quasi sicuramente evitato (STF 6B_517/2009 del 3 novembre 2009, consid. 3.3.2; DTF 130 IV 7 consid. 3.2 e rinvii, 118 IV 130 consid. 6a).
27.
Nell’analisi del nesso di causalità occorre tenere in considerazione il fatto che spesso chi lavora in un ospedale (come pure, ad esempio, chi opera in un cantiere) lo fa affidando dei compiti a colleghi o subordinati. In simili evenienze l’imputabilità dei loro atti o delle loro omissioni, e quindi la punibilità di chi ha loro demandato determinate mansioni, deve essere soppesata applicando il noto principio dell’affidamento sviluppato inizialmente in ambito di circolazione stradale (STF 6B_437/2008 del 24 luglio 2009, consid. 3.4). In base a questo dogma ogni utente della strada che si comporta in maniera corretta può a sua volta confidare nel corretto comportamento degli altri utenti, nella misura in cui non vi siano indizi per ritenere il contrario (
DTF 124 IV 81
consid. 2b con rinvii). Alla stessa stregua, in caso di divisione orizzontale del lavoro, ogni lavoratore deve poter legittimamente contare, in mancanza di elementi che indichino l’opposto, sul fatto che il suo collega rispetti i propri doveri. In caso di divisione verticale del lavoro, la dottrina subordina il principio dell’affidamento al rispetto della cura
in eligendo
,
in istruendo
e
in custodiendo
: il superiore deve designare una persona ausiliaria qualificata, fornirle le necessarie istruzioni e sorvegliarla correttamente (Roth, Le droit pénal face au risque et à l’accident individuels, 1987, pag. 88 e segg.; Seelmann, in Basler Kommentar, Strafrecht I, 2a ed., ad art. 11, n. 38; STF 6B_675/2007 del 20 giugno 2008, consid. 2.2.2.1).
Presupposti oggettivi del reato
28.
Gli accusati non contestano gli accertamenti peritali e della prima Corte in base ai quali le cause della morte di VITT1 sono da ricondurre alla somministrazione di Propofolo che ha portato all’arresto respiratorio e allo stato di coma vegetativo (AI 84, pag. 28, risposta n. 6).
Contestate sono per contro le altre cause ritenute dall’accusa, e meglio che ci siano stati degli errori nella scelta della terapia di sedazione e nella sorveglianza del paziente, nonché, di riflesso, che i due prevenuti abbiano commesso delle negligenze penalmente rilevanti.
In primo luogo AP 1 nega che l’aver lasciato per qualche minuto la camera di cure continue e quanto da lui fatto per rianimare il paziente una volta preso atto che non respirava più, possano avere giocato un ruolo nell’insorgere della grave encefalopatia post anossica di cui questi è stato vittima. A suo avviso, la sorveglianza continua di cui parlano i periti non impone la presenza fisica al capezzale del paziente, ma semplicemente un monitoraggio delle sue funzioni vitali e la possibilità di rapido intervento in caso di problemi.
A questo va poi aggiunto che non vi è alcuna prova del momento in cui vi è stato l’ammanco di ossigeno al cervello, per cui non è nemmeno possibile sostenere che ciò sia successo quando l’appellante si è allontanato dalla stanza. Agli atti c’è solo la situazione alla 01:39 e a quel punto è assodato che egli è subito intervenuto ed ha intrapreso le misure corrette.
Se non si può dimostrare che vi è stato un intervento ritardato, non si può nemmeno concludere che vi sia stato un comportamento illecito ascrivibile al prevenuto.
Oltre a ciò, AP 1 sostiene che la somministrazione del farmaco da lui effettuata è stata avallata dai medici che, anche se arrabbiati, non ne hanno disposto l’interruzione, ammettendone di fatto l’utilizzo, e nemmeno hanno dato indicazioni precise sul dosaggio, ratificando così quello da lui scelto. Anche la dr.ssa AP 2, al suo arrivo, non ha fatto altro che approvare le scelte di AP 1. Di conseguenza, quanto rimproverato a quest’ultimo deve essere considerato subordinato alle decisioni dei suoi superiori, cioè dei medici.
Il ritardo, negato, nell’attivare l’allarme REA non ha tutto sommato comportato differimenti dell’intubazione, che è avvenuta 3 min prima che arrivasse l’anestesista, fatto che annulla il ritardo addebitato a AP 1 nel dare l’allarme e ne esclude la rilevanza penale.
Dal canto suo la dr.ssa AP 2 sostiene di non aver avallato alcunché, ma di essersi limitata a mantenere quanto già fatto dal collega più anziano (dr. _) e dalla responsabile (dr.ssa _). De facto l’imputata ha semplicemente completato la cartella clinica che non era a giorno. Non ha prescritto il medicamento ma ha messo su carta ciò che ha visto e sentito, ossia quanto prescritto da due medici prima di lei (appunto dr.ssa _ e dr. _). Ella poteva partire dal presupposto che la questione dell’adeguatezza del farmaco fosse stata verificata e che sia la somministrazione che il dosaggio fossero ormai questioni discusse e concordate tra il medico di guardia che l’aveva preceduta e l’infermiere, con il coinvolgimento della capo clinica. Peraltro la prevenuta, prima di annotare il dosaggio nella cartella del paziente si era premunita di verificare nel compendio che esso fosse corretto e rientrante nei limiti accettati.
Non va poi trascurato che a quel tempo, perlomeno in Ticino, l’uso del Propofolo era più largheggiante di quanto il perito giudiziario abbia ritenuto e di quanto avveniva in altri cantoni.
A detta della dr.ssa AP 2, l’unica causa dell’arresto respiratorio di VITT1 è stato l’allontanamento dell’infermiere dalla stanza dove si trovava il paziente, poiché così facendo questi ha violato una regola base del reparto e della somministrazione del Propofolo, ossia la sorveglianza costante de visu del paziente. Questo agire non è imputabile al medico di guardia, che nemmeno era in reparto e che certamente non poteva prevederlo. In questo modo AP 1 ha interrotto il nesso di causalità adeguata tra l’agire della dr.ssa AP 2 e la morte del paziente.
Le cause della morte
29.
Dagli atti risulta che le cause della morte del signor VITT1, sono molteplici e correlate tra loro in maniera imprescindibile, sicché anche solo il venir meno di una di esse avrebbe molto verosimilmente fatto sì che le cose andassero diversamente.
L’insorgere della morte è quindi da ritenersi una conseguenza diretta dell’encefalopatia post-anossica cagionata da una somministrazione di Propofolo per scopi non previsti né dal produttore né riconosciuti dalla dottrina medica, su un paziente che aveva assunto in precedenza - con diagnosi di probabile abuso - farmaci depressori del sistema nervoso (benzodiazepine), in un contesto clinico e luogo inadeguati, cioè una degenza nel reparto di cure continue, sorvegliato da un unico infermiere, senza alcun tipo di intubazione ed un monitoraggio che, visto lo stato del paziente, non poteva essere considerato completamente affidabile. All’insorgenza dell’arresto respiratorio hanno contribuito in maniera altrettanto importante, l’abbandono della stanza, senza adeguate contromisure, da parte dell’infermiere di sorveglianza, e la tardiva intubazione della vittima.
Accertate le cause oggettive alla base del decesso, è possibile procedere all’esame del ruolo e delle colpe imputabili ai due appellanti.
L’operato di AP 1
30.
L’accusa rimprovera fondamentalmente a AP 1:
-
d’aver somministrato di propria iniziativa, senza prescrizione medica, il Propofolo al paziente;
-
di essersi allontanato ingiustificatamente dal reparto cure continue, perdendo la possibilità di controllare direttamente lo stato del paziente VITT1, atto che non gli ha consentito di accorgersi tempestivamente dell’arresto respiratorio, così che vi è stato un ritardo nel prestare soccorso alla vittima;
-
di non aver attivato l’allarme REA per tempo, fatto che ha comportato un ulteriore differimento dell’intervento dell’anestesista, della ventilazione e dell’intubazione del paziente.
Somministrazione del Propofolo alla vittima
31.
E’ assodato che poco dopo le 23:15 AP 1, senza consultare nessuno, di sua iniziativa, ha deciso di sedare VITT1 iniettandogli 30 mg di Propofolo in bolo e poi predisponendone l’infusione inizialmente a 50 mg/h, aumentando, sempre di propria iniziativa, le dosi sino a raggiungere i 100 mg/h già verso le 23:30 (scheda tecnica in classatore “cartella clinica”, scomparto n. 10, ultimo documento).
L’imputato non si è quindi limitato a somministrare il farmaco, ma, non essendo stato preventivamente consultato alcun medico sulla questione nonostante in ospedale ve ne fosse sempre almeno uno presente (assistente) ed uno interpellabile telefonicamente (capo clinica), lo ha prescritto al paziente. Ma non solo, nemmeno dopo averlo fatto egli ha pensato di chiedere un controllo da parte del medico. Ne ha parlato con il dr. med. _ solo poco prima del cambio del turno, quindi verso mezzanotte, ma semplicemente per dare l’informazione, non con l’intento di chiedere un parere o una verifica (
“Quando ero sul corridoio, vicino all’unità di cure continue, si è avvicinato l’infermiere AP 1 che mi ha detto che aveva dovuto sedare VITT1 perché era agitato”
, MP 29 maggio 2008, AI 42, pag. 5).
Come confermato dal perito giudiziario, la prescrizione rappresentava già a quel tempo, nel 2006, un atto medico, quindi di competenza esclusiva proprio di un medico e non di un infermiere.
Poiché né all’interno dell’Ospedale _, né a quello dell’Ospedale _, esisteva, al momento dei fatti, una delega esplicita o implicita (consuetudine) agli infermieri per la prescrizione di medicamenti, con speciale riguardo a quelli qui d’interesse (AI 84, pag. 16 e MP 7 luglio 2008 di _, primario di medicina dell’Ospedale _, AI 44, pag. 5), l’accusato non aveva alcun diritto di procedere autonomamente alla somministrazione di Propofolo senza chiedere preventivamente una prescrizione al medico competente.
La dichiarazione rilasciata dal dr. _ in occasione del suo interrogatorio del 19 maggio 2006 (AI 16, pag. 4):
“
ADR che il Disprovan, in caso di indicazione, viene di prassi, presso il reparto di cure intense somministrato anche da infermieri. Non so quale sia la prassi presso il reparto di cure continue dell’Ospedale _. (...)
Desidero infine rilevare che in Svizzera si è sviluppata negli anni la prassi di delegare agli infermieri specializzati in cure intense o in anestesia determinati compiti di cura quali in particolare la rianimazione di base e avanzata, quindi inclusa anche l’intubazione, come pure la somministrazione di determinati medicamenti che richiedono particolari attenzione nella somministrazione (cardiotonici o sedativi del tipo Propofolo), e ciò contrariamente a quanto si constata in altri Paesi dove tali azioni restano di spettanza esclusiva dei medici.”
non scalfisce in alcun modo questo giudizio, considerato che egli ha parlato di somministrazione, ma non di prescrizione, di infermieri specializzati in cure intense o anestesia, formazione che l’accusato non aveva terminato, e, appunto, di prassi vigente nel reparto di cure intense, che non può essere certamente paragonabile a quello di cure continue, sulle cui usanze egli non ha saputo dire nulla.
Indipendentemente dal fatto che fosse corretta o meno, già la sola prescrizione con conseguente somministrazione del Propofolo da parte di AP 1, infermiere, era contraria alle regole dell’arte medica.
A ciò si aggiunge, poi, il fatto che nel caso specifico il ricorso all’anestetico in questione ha costituito, scientificamente, un errore grave ed evitabile.
In primo luogo perché come precisato esaurientemente dal perito giudiziario, non era previsto da nessun protocollo terapeutico un uso del medicamento per il trattamento dell’agitazione.
Poi, perché la somministrazione andava e va effettuata a precise condizioni: di norma su pazienti già intubati o, quantomeno, intubabili in brevissimo tempo e sotto stretta sorveglianza. Non essendo VITT1 intubato, ed avendo egli manifeste caratteristiche fisiche (obesità e collo taurino) che ne rendevano molto più complicata l’intubazione, era evidente, soprattutto per un infermiere di lungo corso come il prevenuto, che questi presupposti non erano dati.
Oltre a ciò, il ricorso al Propofolo era nel caso specifico decisamente inadeguato poiché iniettato ad un degente del cui stato d’agitazione non erano state accertate le cause, sicché non era nemmeno possibile valutare seriamente le controindicazioni della terapia. Per tacere del fatto che l’accusato sapeva di trovarsi di fronte ad un caso di probabile abuso di benzodiazepine (
“Io sapevo che il paziente era lì per un abuso medicamentoso, per un tentamen medicamentoso”
, verbale 14 marzo 2013 del dib. di primo grado, interrogatorio degli imputati, pag. 1), cioè di psicofarmaci che influenzano il sistema respiratorio, rallentandolo e che, potenzialmente, possono interagire con altre sostanze chimiche, mettendo in pericolo di morte il soggetto. Così come sapeva o poteva apprendere da una semplice consultazione della cartella clinica, che nel pomeriggio VITT1 aveva presentato un problema di respirazione Cheynes-Stokes, sintomo tutt’altro che irrilevante, e che gli era già stato fatto assumere dai medici dell’Ospedale _ un farmaco antagonista delle benzodiazepine.
D’altronde la vittima non era un normale degente per l’ospedale, ma era quello che si trovava in quel momento nello stato più critico di tutta la struttura e che necessitava di essere trattato con più cautela: in camera di cure continue - dove di certo non si viene collocati se la situazione non desta qualche preoccupazione - in effetti, erano solo in due e dei due lui era quello più grave.
Il rischio di arresti respiratori connesso alla somministrazione del farmaco era notorio già a quel tempo ed una semplice consultazione del compendio dei medicamenti (
http://compendium.ch/prod/pnr/1118170/de
), sotto il capitolo “messa in guardia e controindicazioni”, chiarisce come fosse facile, anche per chi non ne conosceva le caratteristiche, recuperare informazioni circa le modalità d’uso, i pericoli e le precauzioni da adottare. Evidentemente il fatto di non conoscere le lingue (il compendio svizzero è in francese o tedesco) e non poter comprendere questi dati non solleva il prevenuto dalle proprie colpe ma, al limite, le aggrava, considerato che è ancor più grave somministrare medicamenti senza una ricetta e senza conoscerne le caratteristiche nel dettaglio.
D’altronde lo stesso imputato, in occasione del suo primo interrogatorio del 24 maggio 2006, ha dimostrato di conoscere esattamente quali rischi corre la persona cui viene somministrato il farmaco: “ipotensione”, “depressione cardiocircolatoria” e “depressione o arresto respiratorio” (MP 24 maggio 2006, AI 17, pag. 3).
In un simile contesto clinico e logistico, all’infelice scelta del farmaco, si aggiunge l’altrettanto infausta decisione di procedere autonomamente all’individuazione del dosaggio per tentativi, in base agli effetti immediati sull’agitazione del paziente, ma senza contare su una valutazione scientifica approfondita di tutti i parametri clinici e senza chinarsi su possibili controindicazioni o sugli effetti che avrebbe potuto avere (ed ha avuto) sui parametri vitali del paziente.
Il ricorso al Propofolo è stato disposto d’urgenza, in un momento di difficoltà dell’infermiere nel gestire da solo un paziente corpulento agitato, all’unico scopo di sedarlo, e non è da lui più stato rimesso in discussione una volta ottenuto il risultato voluto, nonostante i rischi gli fossero conosciuti, sapesse di doverlo sorvegliare da solo e le difficoltà di procedere ad un’eventuale intubazione fossero evidenti.
Agendo come ha fatto, AP 1 ha infranto i principi cardine dell’arte medica ed ha assunto dei rischi decisamente sproporzionati rispetto allo scopo perseguito che si limitava a voler tenere calmo il paziente.
Certo, se VITT1 si fosse alzato ed avesse strappato i cavi del monitoraggio e i tubi delle infusioni, si sarebbe potenzialmente messo in una situazione di pericolo, ma si sarebbe trattato di un pericolo decisamente inferiore a quello di vita, trovandosi egli in una struttura ospedaliera e non soffrendo di patologie tali da poterne compromettere in maniera irrimediabile la salute.
La sua colpa per quanto commesso non viene sminuita dal fatto che egli non avesse tutte le competenze e le basi scientifiche per valutare esattamente la situazione del paziente e come procedere: sulla scorta della teoria del cosiddetto
Übernahmeverschulden
(Marcel Alexander Niggli/Stefan Maeder, in Basler Kommentar, StGB I, 3 ed., 2013, ad art. 12, n. 102) egli ne rimane pienamente responsabile, essendosi assunto scientemente mansioni non di pertinenza di un infermiere.
Abbandono della camera di cure continue
32.
E’ accertato che AP 1, verso la 01:30/01:35, ha ricevuto una richiesta d’aiuto dalla collega di medicina 1, _, per spostare una paziente plegica e che qualche minuto dopo egli è uscito dalla camera di cure continue in cui si trovava la vittima per andare alla camera 109. Camera che si trova, come attestato dalla planimetria prodotta in appello quale doc. dib. 2, a una quindicina di metri dalla porta di quella di cure continue (la 106) e da quella del locale infermieri (indicato sul piano con il n. 5) e separata dalla prima di esse da altre due stanze. Quindi non certamente attigua.
Invero l’affidabilità degli orari indicati in sentenza di prime cure e negli atti è stata contestata dalla difesa poiché ogni persona sentita ha detto la sua e non vi è un accertamento oggettivo sufficientemente affidabile in merito. L’eccezione - che non avrebbe comunque sia un grande influsso sul giudizio, fermo restando che l’esito non dipende da una ricostruzione cronometrica degli eventi - non può trovare spazio. In effetti questo orario appare sufficientemente preciso, considerato che AP 1 ha indicativamente dichiarato di aver ricevuto la prima richiesta dalla collega alla 01:30 e di essere stato da lei chiamato per uscire dalla stanza qualche minuto dopo (AI 17, all. A, pag. 5) e che questo orario è confermato anche nello scritto riassuntivo allestito dalla dr.ssa _ con l’aiuto di tutto il personale coinvolto nella vicenda (AI 11, Protocollo del 7 giugno 2006, pag. 3).
Pure apodittico è che le regole dell’arte impongono che una persona cui viene iniettato Propofolo debba essere sorvegliata costantemente e di persona, oltre che con i monitor, da operatori sanitari adeguatamente formati (AI 84, pag. 28, risposta n. 6).
Nella fattispecie, poi, lo stesso prevenuto aveva constatato personalmente che il signor VITT1 non poteva essere lasciato solo, affidandone la sorveglianza agli apparecchi elettronici poiché, muovendosi, egli aveva più volte staccato i cavi del monitoraggio (MP 24 maggio 2006, AI 17, all. A, pag. 4 e 5).
Senza parlare del fatto che, essendosi recato in una stanza a una quindicina di metri dai monitor e dalla camera degli infermieri, era oggettivamente divenuto più difficile per l’accusato poter sentire eventuali allarmi che, seppur non vi siano dati certi in proposito, non erano evidentemente rumorosi come delle sirene e nemmeno avevano un collegamento diretto sul telefono del personale.
L’abbandono del paziente in queste condizioni è stato senza ombra di dubbio inopportuno e contrario ai doveri dell’infermiere. Oltre a ciò si può concludere senza timore di smentita che, pur non essendo stato possibile determinarne con esattezza la durata - l'allarme bradicardia ha suonato alla 01:45/01:46, orario DECT, 01:39:40 orario monitor - esso è stato indubbiamente eccessivo, potendosi quantificare in circa 10 minuti, come a suo tempo indicato dalla dr.ssa AP 2 (AI 30, pag. 5, che riporta quanto scritto nelle osservazioni cliniche 22 aprile 2006 da lei allestite, classatore “cartella clinica”, scomparto n. 10) e come risultando da un raffronto sommario degli orari sopraindicati. Fosse durata anche solo la metà, l’assenza sarebbe stata comunque sia eccessiva.
L'infrazione alle regole è stata esplicitamente confermata, oltre che dalla perizia, dal primario dr.ssa _ (MP 7 luglio 2008, AI 44, pag. 5):
“
La seconda violazione delle procedure da me constatate nell'ambito della mia ricostruzione è quella del fatto che l'infermiere attribuito all'unità di cure continue avrebbe dovuto restare al suo posto siccome vi erano alternative per svolgere il compito di aiuto al quale era stato chiamato da un altro infermiere, essendo necessaria la sorveglianza continua del paziente.".
Al dibattimento d’appello, come già fatto in precedenza, il prevenuto ha tenuto a sottolineare che l’importante ridimensionamento del personale effettuato con la ristrutturazione dell’Ospedale _, obbligava a quel tempo l’unico infermiere assegnato alla camera di cure continue ad uscire dalla stanza per vari motivi, che andavano dallo svuotamento delle padelle, all’esecuzione dei test di verifica dei macchinari (situati in altri locali), al recupero dei medicinali e del materiale necessario, alle necessità fisiologiche del sanitario, alle richieste d’aiuto di colleghi, agli interventi urgenti di rianimazione (congiuntamente con il medico assistente) fino addirittura all’obbligo di rispondere al pager collegato al campanello del pronto soccorso (verbale dib. d’appello, pag. 4).
L’obiezione non ha valenza alleviante nell’ambito della valutazione della conformità dell’agire del reo con i dettami della scienza medica, poiché la posizione di garante dell’infermiere nei confronti dei pazienti a lui sottoposti, così come il dovere professionale di tutelarne la vita, imponevano al prevenuto di fare una valutazione degli interessi e dei rischi in gioco, per cui, tenuto conto che con la somministrazione del Propofolo la vita del signor VITT1 era nelle mani del personale sanitario dell’Ospedale _ responsabile per lui, solo una situazione più critica della sua avrebbe potuto giustificare l’abbandono del capezzale e nulla lo avrebbe potuto giustificare senza l’adozione di contromisure minime, quali la richiesta di sostituzione da parte di un collega.
Tardiva attivazione dell'allarme REA
33.
Sentito suonare l’allarme del monitor ubicato nel locale infermieri alle 01:45/01:46 (orario DECT) rispettivamente 01:39:40 (monitor), dopo aver finito di posizionare la paziente della camera 109, AP 1 è corso immediatamente a verificare cosa stesse succedendo e, appurato che il segnale era riferito al paziente del letto n. 1, si è recato da lui, ha silenziato l’apparecchio acustico, ha visto che si era staccato un elettrodo, lo ha rimesso al suo posto ed ha atteso che l’apparecchiatura riprendesse a fornire i dati. Dati che non appena ricomparsi hanno segnalato l’arresto respiratorio:
“
A domanda dell’avv. DI 1 AP 1 dice che quella sera è suonato l’allarme rosso. Mi sono subito recato al monitor ed ho visto che vi era una linea piatta. Questa poteva essere imputabile a una mancanza di segnale o a una asistolia. Sono quindi andato dal paziente e ho visto che un elettrodo era staccato per cui l’ho riattaccato ed il monitor dopo il normale periodo di latenza ha ricominciato a fornire i dati vitali. Da questi ho verificato che il battito era attorno ai 30 / 40 battiti per minuto.” (verbale dib. d’appello, pag. 4).
“
(...) il messaggio d’allarme indicava un’asistolia, ma io verificai che l’elettrodo verde posizionato sull’emitorace sinistro del paziente si era staccato, lo riattaccai e mi accorsi che il sig. VITT1 era bradicardico con FC di 35 b/min e con la curva respiratoria piatta.” (AI 17, doc. A, pag. 5).
Non appena preso atto della gravità della situazione del signor VITT1, AP 1 ha tentato infruttuosamente di ventilarlo con il pallone Ambu. Provate infruttuosamente due insufflazioni ha deciso di chiamare con il telefono in dotazione la dr.ssa AP 2, che, dopo avergli detto che avrebbe fatto meglio ad attivare l'allarme REA che telefonarle, è corsa alla camera di cure continue.
Proprio durante la telefonata, alle ore 01:50 (orario DECT), 01:44 (orario monitor), l’infermiere si è recato in prossimità del tasto per l’allarme REA e lo ha premuto.
Ne è prova il fatto che quando la medico assistente è giunta al capezzale della vittima, stavano arrivando anche tutti gli altri infermieri allertati.
La dr.ssa AP 2, constatata la bassissima saturazione di ossigeno, ha a sua volta dapprima tentato la ventilazione con il pallone Ambu e, visto l'insuccesso, ha provato ad inserire una cannula al paziente. Non ottenendo risultati, è stata così decisa l'intubazione che, essendo come prevedibile ostacolata dalla corporatura del paziente, le è riuscita solo al terzo tentativo, dopo circa 3-5 minuti. Era circa la 01:50 (monitor).
Pochissimi minuti dopo l'intubazione è arrivato al capezzale del paziente il medico anestesista di turno, dr. _, giunto all'Ospedale _ 7/8 minuti dopo il lancio dell'allarme, alle 01:58 (DECT), rispettivamente 01:52 (monitor). Dopo che questi gli ha attaccato un ventilatore, il signor VITT1 è stato ventilato manualmente per circa 10 minuti, fino a quando non ha ripreso la respirazione spontanea (AI 30, pag. 5; all. A a MP 24 maggio 2006, AI 17, pag. 6).
L'attivazione dell'allarme REA è stata così ritardata di circa 4 minuti rispetto a quando avrebbe potuto essere effettuata.
Partendo dal presupposto che, come dichiarato dal primario di Medicina _, tutto il personale, anche quello non curante, era stato informato che l'allarme REA doveva essere attivato immediatamente non appena veniva constatata una situazione critica che richiedeva una rianimazione (MO 7 luglio 2008, AI 44, pag. 5), si può ritenere accertata la violazione dei doveri di diligenza da parte di AP 1 anche per questa imputazione.
L’operato di AP 2
34.
A AP 2 è stato imputato d’avere, verso le 00:15 del 7 aprile 2006, non appena iniziato il suo turno quale medico assistente di guardia, avallato, continuando a prescriverlo in misura di 100 mg/h, la somministrazione di Propofolo al paziente VITT1, nonostante il medico di picchetto avesse ordinato la riduzione di tale farmaco a bassi livelli, in modo da consentire al paziente di restare sveglio, e di valutare l’interruzione completa dell’inoculazione.
A tal proposito, come visto in precedenza, è provato che l’accusata ha, su richiesta di AP 1, prescritto la somministrazione di Propofolo in ragione di 100 mg/h, con la precisazione “secondo bisogno” (MP 29 maggio 2006, AI 41, all. B).
Il contesto nel quale la prescrizione è avvenuta è già stato illustrato in precedenza. E’ in primo luogo importante rilevare che anche per lei, di tutti i degenti presenti quella notte, la vittima era senza dubbio quella che si trovava nella situazione più critica.
Pure significativo è che la prevenuta era stata informata dall’infermiere del fatto che egli aveva dato Propofolo al paziente di sua iniziativa e che, prima di accogliere la richiesta di prescrizione, ha dato un’occhiata al foglio di sorveglianza di VITT1 e ne ha verificato i parametri vitali (MP 29 maggio 2008, AI 41, pag. 2):
“
A domanda dell’avv. DI 2, AP 2 dichiara che al momento in cui è entrata in servizio non era a conoscenza di quale patologia soffrisse la vittima. Pur non ricordando esattamente i contenuti della discussione ritiene di essere stata informata almeno succintamente da AP 1 e poi di aver verificato la situazione del paziente sulla cartella clinica. Non ricordando i dettagli rinvio a quanto già dichiarato su questo punto agli inquirenti.
Ad ogni modo è evidente che avendo visto due pazienti in cure continue io abbia chiesto all’infermiere per quali motivi fossero stati ricoverati. Con riferimento al signor VITT1, avendo notato la pompa del Propofol, ho sicuramente chiesto per quale motivo gli fosse stato somministrato il medicamento. Pure è sicuro che io abbia guardato il foglio di terapia / sorveglianza che è sempre nella camera.” (verbale dib. d’appello, pag. 5).
L’imputata, inoltre, era stata informata dal dr. _ che il signor VITT1 era arrivato all’Ospedale perché erano necessarie verifiche sullo stato confusionale di cui era stato vittima e che a quel momento si trovava in uno stato di agitazione che doveva essere controllato. Il collega le aveva riferito della telefonata che egli aveva appena avuto con la dr.ssa _ sul tema della somministrazione del Propofolo, nonché che quest’ultima aveva detto di ridurne i quantitativi per evitare che il paziente si assopisse e di valutarne la sospensione (MP 29 maggio 2008 di _, AI 42, pag. 5).
Appurato ciò, non si può sostenere, come vorrebbe l’appellante, che i medici intervenuti prima di lei avevano avallato la terapia con il Propofolo, soprattutto non nelle modalità con cui era in atto.
D’altronde, essendo la somministrazione iniziata da circa un’ora, il fatto che nessun medico avesse prescritto il farmaco avrebbe dovuto destare qualche dubbio anche nella dr.ssa AP 2.
La dr.ssa AP 2 ha pure dichiarato che la richiesta di prescrizione dell’infermiere è stata fatta dopo che ella era tornata in cure continue ed aveva trovato il paziente ancora agitato come lo era la prima volta che lo ha visto, e che a quel punto lui
“mi ha chiesto di fare la prescrizione del Propofolo visto che nessun medico prima lo aveva fatto e che la terapia era in corso da ore”
(MP 29 maggio 2008, AI 41, pag. 4).
L’imputata ha successivamente asserito che, malgrado sapesse che uno degli effetti collaterali del Propofolo è la depressione respiratoria e malgrado fino a quel momento avesse visto somministrare l’anestetico perlopiù a persone intubate, in casi molto gravi, aveva ritenuto che nel caso concreto fosse sufficiente la sorveglianza (MP 29 maggio 2008, AI 41, pag. 4).
Invero, come puntualizzato in prima sede, ella sapeva che secondo il compendio il medicamento poteva essere impiegato di principio come anestetico e solo su pazienti intubati o strettamente sorvegliati ma, avendo visto che all’Ospedale _ esso veniva regolarmente utilizzato anche per sedare, il suo uso sul paziente in questione per i fini perseguiti da AP 1 era sostenibile (verbale di interrogatorio degli imputati del 14 marzo 2013, pag. 3). In altri termini, pur conoscendo le strette disposizioni della dottrina scientifica, aveva ritenuto che la prassi vigente al nosocomio luganese fosse sufficiente per giustificare la somministrazione del Propofolo a VITT1.
Ella ha pure precisato di non avere avuto a quel momento esperienza con il dosaggio di Propofolo e che di solito era sua abitudine iniziare con bassi quantitativi di sedativo, aumentandoli poi gradatamente sino ad ottenere l’effetto voluto; tenuto conto che era stata informata che l’infermiere aveva già aumentato a due riprese il dosaggio ed avendo notato che il paziente era ancora eccitato, aveva considerato che il dosaggio di 100 mg/h fosse corretto (MP 29 maggio 2008, AI 41, pag. 4).
Sul compendio, la dr.ssa AP 2 ha verificato solo se il quantitativo da lei indicato sul foglio delle prescrizioni fosse nella norma:
“
A domanda dell’avv. DI 2 AP 2 conferma d’aver verificato sul compendio che si trova sempre sul bancone se i quantitativi somministrati di Propofol erano corretti. In effetti non avendo avuto esperienze dirette con il medicamento per usi come quello in discussione aveva ritenuto doveroso verificare le prescrizioni del compendio svizzero dei medicamenti.
Ha potuto costatare che il dosaggio rientrava nei parametri previsti dal compendio.” (verbale dib. d’appello, pag. 5 seg.).
35.
Annotando sul foglio delle prescrizioni quella del Propofolo a partire dalle ore 00:15, la dr.ssa AP 2 non ha semplicemente completato la cartella clinica che non era a giorno, come rivendica aver fatto. Ella ha effettuato una vera e propria prescrizione del medicamento e lo ha fatto per la prima volta, poiché in precedenza nessun medico ha ordinato la somministrazione del sedativo a VITT1 nei quantitativi e nelle modalità in essere, né tantomeno ha ratificato tacitamente o per atti concludenti quanto fatto dall’infermiere AP 1.
Oltretutto l’imputata, per valutare l’adeguatezza del dosaggio di 100 mg/h, ha semplicemente verificato se corrispondeva a quanto previsto nel compendio, senza tener conto che i quantitativi ivi indicati sono relativi, perché solo così può essere, ad un uso del farmaco quale anestetico, non di certo per quello come sedativo di casi d’agitazione.
La prescrizione, per i motivi già esposti al momento dell’analisi dell’analogo atto di AP 1, non andava fatta, poiché il medicamento non era idoneo al contenimento dell’agitazione, non vi erano i presupposti per la sua somministrazione (paziente intubato o facilmente e rapidamente intubabile), non erano note le cause dei problemi di salute del paziente e vi erano forti rischi di interazioni con i medicamenti assunti in precedenza da quest’ultimo.
A maggior ragione la dr.ssa AP 2 ha agito in contrasto con i principi della scienza medica, non avendo proceduto ad un esame diretto del paziente per verificarne lo stato e appurare se fossero dati i presupposti per l’uso del farmaco, ma, in particolare, non essendosi rivolta al capo clinica di guardia, dr.ssa _, soprattutto a fronte delle sue dichiarazioni in base alle quali non conosceva molto bene il farmaco e non aveva capito esattamente in base a quali presupposti era stato scelto quale terapia per il caso specifico:
“
(...) io conoscevo già il Propofolo poiché durante la mia formazione universitaria avevo effettuato uno stage in anestesia di tre mesi. In quel caso il Propofolo veniva utilizzato di regola per indurre un’anestesia totale in associazione a gas anestetici. Ho sempre assistito ad impieghi di Propofolo, durante il mio stage di anestesia, in casi analoghi.
ADR che successivamente a tale stage in anestesia e sino ai fatti oggetto del procedimento non ho avuto altre esperienze connesse con il Propofolo.
ADR che non ho ricevuto alcuna istruzione né informazione durante la mia attività presso l’Ospedale _ sino ai fatti in merito all’impiego del Propofolo.
(...) Non ricordo quando il dr. _ se n’è andato. Comunque dichiaro che non avevo ben capito le peculiarità per la somministrazione di questo farmaco, penso che il suo uso in quel contesto fosse approvato nel caso concreto dal capo clinica e dal mio collega dr. _.” (MP 29 maggio 2008, AI 41, pag. 2 e pag. 3).
La prescrizione di Propofolo a VITT1 in un simile contesto e con tali presupposti costituisce una grossolana violazione delle regole dell’arte medica ascrivibile all’imputata.
Alla stessa conclusione si giungerebbe anche se l’imputata non fosse stata informata dal collega circa le disposizioni della capoclinica, poiché a fronte di una situazione così dubbia e critica, il minimo che si può pretendere da un medico che entra in servizio e non dispone di tutte le informazioni che gli consentano di capire il perché di una terapia, è che si faccia parte attiva con i colleghi medici per verificare cosa sia avvenuto e perché. Sentendo la dr.ssa _ o il dr. _ avrebbe immediatamente potuto apprendere quali fossero le direttive impartite.
Questo esito, inoltre, vale a prescindere dalla fondatezza dei decreti d'abbandono emanati dal ministero pubblico nei confronti dei dr. _ e dr.ssa _, qui non oggetto d'esame. Pur non essendo completamente comprensibile la scelta di ritenere solo la dr.ssa AP 2 e l’infermiere AP 1 penalmente colpevoli per quanto accaduto, in diritto penale non esiste compensazione delle colpe (
Verschuldenskompensation
) ed ognuno risponde delle proprie colpe, così che il fatto che altre persone che hanno avuto atteggiamenti analoghi non è stato preso in considerazione, non permette di per sé di scagionare chi è stato messo in stato d'accusa.
Nesso di causalità naturale ed adeguata
36.
Statuito che entrambi i prevenuti hanno compiuto atti medici che la situazione imponeva loro di evitare o di eseguire altrimenti, è necessario verificare se sussiste un nesso di causalità naturale ed adeguato tra i loro atti ed il tragico evento finale.
Nei reati realizzati in campo medico, una simile valutazione si scontra regolarmente con la difficoltà scaturente dal fatto che non si deve procedere all’esame di un avvenimento reale (non avvenuto), bensì a quello di un’ipotesi, e meglio di cosa sarebbe successo se gli imputati avessero agito nel pieno rispetto delle regole dell’arte, e se ciò, secondo il normale andamento delle cose, avrebbe evitato l’insorgere del danno.
Come già scritto al consid. n. 25, la causalità in questo senso non è quindi diretta, quanto piuttosto ipotetica. In altri termini, occorre accertare se l’imputato, agendo come avrebbe dovuto, avrebbe verosimilmente evitato l’evento dannoso o ne avrebbe quantomeno ridotto la gravità (
DTF 130 IV 7
consid. 3.2 e rinvii, 117 IV 130 consid. 2a pag. 133; 116 IV 306 consid. 2a pag. 310; Rep. 1999 pag. 106). Ciò presuppone, in base alla giurisprudenza, perlomeno un alto grado di probabilità (
“hohe Wahrscheinlichkeit”
), per cui non basta la semplice possibilità che in caso di comportamento conforme ai doveri di prudenza l'esito funesto sarebbe stato evitabile: in questo senso l'evento è imputabile all'agente soltanto se, qualora quest'ultimo si fosse ipoteticamente comportato in maniera conforme ai suoi doveri di prudenza, il risultato finale sarebbe stato molto probabilmente o quasi sicuramente evitato (teoria della probabilità,
Wahrscheinlichkeitstheorie
; STF 6B_342/2012 dell’8 gennaio 2013, consid. 6.3.; 6S.34/2006-6S.36/2006 del 28 agosto 2006, consid. 4.4.1 e 4.6.4; DTF 135 IV 56 consid. 2.1; 134 IV 193 consid. 7.3.;
DTF 130 IV 7
consid. 3.2 e rinvii; sentenza dell’Obergericht di Zurigo del 19 settembre 2013, UE120253, consid. n. 4.2.). Il Tribunale federale ha stabilito, in altri termini, che il principio della causalità fondato sulla cosiddetta formula della
conditio sine qua non
, ossia sulla domanda “che cosa sarebbe successo altrimenti”, deve essere attuato tenendo conto che il presunto svolgersi degli eventi non è dimostrabile con assoluta certezza. È quindi sufficiente che il comportamento negligente dell’autore sia all’origine dell’evento con alto, rispettivamente altissimo grado di verosimiglianza, se non addirittura con quasi certezza.
Parte della dottrina sostiene per contro la teoria del rischio accresciuto (
“Risikoerhöhungstheorie”
; il Tribunale federale in DTF 116 IV 306 consid. 2a pag. 310 non sembra comunque scartarla a priori), secondo la quale il nesso di causalità va ammesso già quando esiste la possibilità che, compiendo l’atto omesso, o agendo secondo le regole dell’arte, l’autore potesse evitare l’evento (in particolare: Stratenwerth, Schweizerisches Strafrecht, Allgemeiner Teil I, 3a edizione, Berna 2005, § 14 n. 34–37; Walder, Die Kausalität im Strafrecht, in: ZStR/RPS 93/1977 pag. 159 segg.).
37.
Sia per quanto fatto da AP 1 che per ciò che è imputato alla dr.ssa AP 2 si può concludere sussistere un nesso di causalità naturale con l'evento finale. Con l’eccezione dell’imputazione di tardata attivazione dell’allarme REA, come vedremo in seguito.
Se, da un lato, non vi sono discussioni sul fatto che sia la somministrazione di Propofolo nelle modalità in cui è stata effettuata, che l'interruzione temporanea della sorveglianza de visu del paziente, costituiscono delle condizioni necessarie che hanno portato alla morte del paziente (pur non essendone le uniche cause), dall’altro anche la prescrizione del medicamento fatta dall'imputata lo è, poiché se ella non avesse dato seguito alla richiesta dell'infermiere, questi sarebbe stato obbligato a prescindere dalla sedazione con il Propofolo.
In modo particolare, è stata proprio l’errata somministrazione dell’anestetico in dosi eccessive e per un tempo prolungato ad aver provocato l’arresto respiratorio, per cui può esserne ritenuta la causa principale. In effetti, quando l’imputato infermiere ha abbandonato la camera di cure continue, verso la 01:35, la terapia con il Propofolo era già in atto da oltre due ore e venti (essendo iniziata verso le 23:15, con la prima iniezione in vena di 30 mg) ed il dosaggio di 100 mg/h era già stato raggiunto da almeno un’ora e mezza, se non di più. A quel momento, dunque, tutti i presupposti per l’insorgere della complicazione rivelatasi fatale erano dati, indipendentemente dal fatto che l’accusato fosse rimasto al capezzale del paziente o meno.
Se è vero che l’anestetico ha un’emivita breve, è altrettanto vero che i suoi effetti diminuiscono solo quando la somministrazione viene interrotta. Per contro, se la stessa dura per tanto tempo, come nel caso specifico, non può portare, già solo secondo un semplice ragionamento logico, che ad un accumulo della sostanza nel corpo, fatto che ne rende più lento lo smaltimento.
Inoltre era chiaro sin dall’inizio a chiunque che l’intubazione d’urgenza del signor VITT1 sarebbe stata difficoltosa a causa della sua costituzione fisica, per cui nessuno poteva assicurare la possibilità di un intervento immediato e di successo in caso di necessità.
Questi comportamenti colpevoli si trovano anche in un nesso di causalità adeguata con il decesso, poiché, come abbondantemente illustrato in precedenza, sono tutti atti o omissioni che, secondo l'andamento ordinario delle cose e l'esperienza generale di vita, confermati da accertamenti scientifici e da dati notori già a quel tempo, possono essere all'origine di un arresto respiratorio che, in mancanza di un intervento immediato, può portare ad una interruzione del flusso d'ossigeno al cervello tale da causare il coma nella vittima e, di riflesso, non si sarebbe posta la questione di una rinuncia alle terapie volte a mantenerla in vita (analogamente a quanto concluso in STF 6B_231/2008 del 27 aprie 2009, consid. 8.2.).
38.
Per quanto concerne la non immediata attivazione dell’allarme REA, per contro, non si può giungere alla stessa conclusione.
In effetti, un’attivazione tempestiva dell’allarme avrebbe come visto permesso di guadagnare 4 minuti e, dunque, consentito all'anestesista di arrivare in cure continue alla 01:48 (monitor), quindi mentre la dr.ssa AP 2 stava già tentando l'intubazione, riuscita alla 01:50 circa.
Non è dimostrato che giungendo con questo anticipo al capezzale della vittima, l’anestesista avrebbe potuto far guadagnare due (o tre) minuti sull’intubazione e quindi potuto riprendere l’ossigenazione del cervello del signor VITT1 in tempo per evitare danni neurologici come quelli da lui subiti.
Non permettendo le prove agli atti di appurare una simile circostanza, ed apparendo più che verosimile che nulla sarebbe cambiato nemmeno con l’intervento anticipato dello specialista, non si può che escludere che il nesso di causalità tra la tardiva richiesta d’aiuto tramite il servizio REA e l’evento sia stato sufficientemente dimostrato.
39.
La dr.ssa AP 2 sostiene che l'unica vera causa della morte del signor VITT1 sia l'allontanamento dell'infermiere AP 1 dalla stanza dove questi era ricoverato. Un simile atto rappresenta, a suo avviso, un errore gravissimo e per lei, che tra l'altro nemmeno si trovava in reparto, certamente imprevedibile. Questa pesantissima colpa del coimputato sarebbe la causa diretta ed immediata del decesso della vittima e relegherebbe in secondo piano tutti gli altri fattori.
AP 1 era a quel tempo già attivo come infermiere da una decina d'anni e a detta dei medici interrogati, era un buon infermiere, per cui di principio si poteva considerarlo un professionista affidabile, che non necessitava di particolare sorveglianza, fintanto che si muoveva nell’ambito delle sue competenze di infermiere e non sconfinava in quelle precipue dei medici.
Le direttive del reparto cure continue erano chiare: era imperativa la presenza ininterrotta di un infermiere che sorvegliasse di persona i pazienti ivi degenti, o direttamente dalla stanza, o dal locale infermieri, attraverso la vetrata:
“
Dal profilo architettonico e organizzativo l'unità di cure continue è dal 2005 una stanza vetrata sul corridoio e sul locale infermieri composta di tre letti con corrispondente apparecchiatura di monitoraggio con una postazione di sorveglianza interna al locale complessiva di tutti i dati. Vi è poi un'identica postazione complessiva di controllo nel locale infermieri, come detto che dispone di una vetrata sul locale cure continue.
(...) a partire dal 2005 vi è stata una riduzione di personale infermieristico addetto all'unità di cure continue rispetto a quanto vi era nel reparto cure continue. Se non erro gli effettivi sono passati da 8.5 persone a 5.4. Ciò comporta che in ogni caso nella stanza di cure continue vi è una presenza costante di un infermiere per turno. In caso di necessità di assentarsi l'infermiere presente fa una consegna infermieristica all'infermiere di reparto medicina 1 che è in parte composto da personale precedentemente attivo nel reparto di cure continue." (MP 7 luglio 2008 di _ _, AI 44, pag. 3).
Il perito giudiziario alla domanda a sapere se il signor VITT1 avrebbe potuto essere salvato se il signor AP 1 non si fosse assentato dalla stanza e fosse così intervenuto immediatamente, allarmando per tempo le persone adeguate, ha risposto che è probabile, seppur non certo, che una sorveglianza clinica stretta avrebbe permesso di accorgersi di qualche campanello d'allarme, quale ad esempio anomalie respiratorie o cardiache, di interrompere subito la somministrazione di Propofolo e di allertare i medici (AI 95, pag. 6, risposta n. 7.3.).
Pur trattandosi di una mera congettura, tenuto conto di quanto già precisato più sopra circa il ruolo delle varie cause, in applicazione del principio
in dubio pro reo
(riferito alla dr.ssa AP 2), si deve comunque sia ritenere che se l'infermiere fosse restato al suo posto e avesse potuto sorvegliare di persona la vittima, vi sarebbero state molte più possibilità di salvare la vita di quest'ultima.
Tuttavia agli atti vi sono elementi che consentono di concludere che la dr.ssa AP 2 dovesse prevedere che il signor AP 1 nel corso della nottata si sarebbe allontanato ed avrebbe lasciato incustoditi i degenti della camera di cure continue, contravvenendo alle regole ufficiali del reparto ed ai doveri impostigli da un adempimento secondo scienza del suo compito.
Di fatto, lo ha riconosciuto lei stessa:
“
Per questo reparto di cure continue vi è un infermiere attribuito che vi si allontana unicamente se deve aiutare qualche altro infermiere in operazioni particolari, la cosa che succede più spesso è cambiare la posizione del paziente.” (MP 29 maggio 2008, Ai 41, pag. 2).
Anche AP 1 ha riconosciuto che la presenza continua era mera teoria:
“
Il fatto di uscire dalla camera è determinato da una necessità che spesso si verifica. Oggi però alcune cose sono cambiate, ad esempio non c’è più il pager che ci collegava alla porta del PS obbligandoci ad intervenire se arrivava qualcuno, e questo per maggiore sicurezza.
Di questa situazione tutti ne erano consapevoli, sia il Primario che il capo clinica.” (MP 3 maggio 2011, AI 55, pag. 5).
e, come già ricordato in precedenza, consid. 32,
“
A domanda dell’avv. DI 1 AP 1 precisa che dopo la riqualificazione del reparto vi erano due infermieri responsabili per 23 pazienti (20 in medicina e 3 nella camera di cure continue). Per organizzazione interna uno dei due infermieri si occupa delle cure continue mentre l’altro della medicina. Quello che si occupa di cure continue deve disporre di una formazione specifica. Vi erano comunque delle attività che venivano svolte da entrambi gli infermieri, quali il controllo del reparto, le ordinazioni per la farmacia e il magazzino, l’intervento in caso in cui i campanelli suonavano. A tal proposito precisa che se ne suonavano più contemporaneamente un infermiere doveva andare da una parte e l’altro dall’altra. Pure compito dell’infermiere di cure continue era il test da fare ogni notte del defibrillatore e dell’apparecchio per la respirazione che si trovano nella camera indicata con il numero 6. L’infermiere di cure continue doveva poi controllare le telemetrie che si trovavano nella stanza 5 degli infermieri nell’angolo. Inoltre qualora diventava necessario recuperare materiale o farmaci chi si trovava in cure continue doveva recarsi nella camera indicata con il numero 5. Capitava poi di doversi assentare per recarsi alla camera indicata con il numero 4 per svuotare le padelle o semplicemente di recarsi al bagno degli infermieri. Quale ultima cosa sia io che la dr.ssa AP 2 avevamo la responsabilità della rianimazione di tutto l’ospedale, per cui in caso di necessità dovevamo intervenire immediatamente, e quella del pager, cioè l’obbligo di rispondere al campanello nel pronto soccorso che dalle 23.00 alle 07.00 aveva le porte chiuse.” (verbale dib. d’appello, pag. 4).
Addirittura, quindi, la dr.ssa AP 2 sapeva che in caso di urgenza, sia lei che il coimputato avrebbero dovuto intervenire immediatamente, lasciando il loro posto, così come che se fosse suonato il campanello del pronto soccorso, entrambi avrebbero dovuto recarvisi subito.
Seppur l’abbandono del posto di sorveglianza - in una situazione di normale rispetto delle consegne, che all’Ospedale _ è dimostrato non esisteva - avrebbe in teoria potuto costituire un atto a tal punto grave, insensato, al di fuori della normalità (visti i rischi notori già quel tempo di una somministrazione di Propofolo su un paziente non intubato e che aveva già presentato sintomi di un probabile abuso di benzodiazepine), da relegare in secondo piano, come vogliono la dottrina e la giurisprundenza, la colpa della dr.ssa AP 2, nel caso di specie una simile conclusione sarebbe errata, poiché era notorio, come testé dimostrato, che la prassi era del tutto differente e che non solo non era un comportamento infrequente, ma era quasi inevitabile, vista la carenza di personale.
In base a quanto esposto più sopra, a maggior ragione si deve escludere un’interruzione del nesso di causalità adeguata a seguito della tardiva attivazione dell’allarme REA, ricordato che nemmeno è provato che essa abbia avuto un’incidenza sull’insorgere dell’arresto respiratorio. Ma anche se l’avesse avuta, la prevenuta non avrebbe potuto essere sollevata dalle proprie responsabilità, non dovendosi considerare per nulla imprevedibile che, di fronte ad un paziente che ha subito un arresto respiratorio e che, quindi, è in grave pericolo di vita, un infermiere o un medico, nella concitazione di quei frangenti, decida di tentare la rianimazione prima di dare l’allarme. Nelle situazioni di stress non sempre chi interviene sceglie la migliore soluzione, quella prevista dai manuali, ma spesso cerca la via più rapida per mantenere in vita il paziente. L’omissione di AP 1 non era perciò imprevedibile, soprattutto per un medico diplomato con una, seppur limitata, esperienza.
Di conseguenza l’agire dell’infermiere non ha interrotto il nesso di causalità adeguata tra la negligenza commessa da AP 2 e la morte del signor VITT1.
Incidenza della prassi della somministrazione di Propofolo all'interno dell'Ospedale _ sulla colpa degli imputati
40.
Secondo la difesa, nella valutazione delle colpe di AP 1 va considerato che ai tempi esisteva una prassi di tolleranza circa l’uso senza prescrizione medica da parte degli infermieri di determinati medicamenti. Inoltre deve essere pure tenuto conto che il ricorso al Propofolo su pazienti agitati era una terapia usuale all’interno del nosocomio in cui i fatti sono avvenuti.
Infine, l’accusato sostiene che i suoi atti sono stati ratificati dapprima dalla dr.ssa _ e dal dr. _, che non hanno ordinato l’immediata sospensione della somministrazione del medicamento, e poi dalla dr.ssa AP 2, sicché quanto da lui fatto deve essere subordinato alla decisione di ratifica da parte dei medici.
Di conseguenza, a suo dire, egli dovrebbe venire assolto da ogni accusa.
La considerazione di queste censure, ovviamente, non può limitarsi ad uno solo degli appellanti, ma deve essere estesa ad entrambi.
41.
In merito a quelle che AP 1 definisce ratifiche del suo operato, l’eccezione non può trovare accoglimento. In effetti, come già a più riprese illustrato, egli stesso ha potuto prendere atto personalmente del fatto che sia il dr. _ che la dr.ssa _ si sono molto infastiditi non appena hanno saputo che al paziente VITT1 era stato iniettato del Propofolo.
Il loro ordine di ridurre al minimo il quantitativo del sedativo così da mantenere sveglio il paziente, e di valutare l’interruzione della somministrazione, seppur non scevro da critiche (avrebbero dovuto pretendere l’interruzione immediata della terapia), imponeva a AP 1 d’agire in tal senso, cosa che egli non ha assolutamente fatto. Essi non hanno dunque in alcun modo avallato la cura da lui autonomamente scelta, poiché è stato chiarito che, seppur non immediatamente, l’uso del Propofolo avrebbe dovuto essere bloccato non appena possibile.
Neppure la prescrizione fatta dalla dr.ssa AP 2 può essere stata interpretata dal prevenuto come una ratifica del suo operato. Egli sapeva benissimo, e non può essere altrimenti, che si trattava di un errore dovuto ad un esame troppo superficiale della situazione da parte della giovane medico assistente, che non poteva in alcun modo sanare o sostituire gli ordini impartiti dal capo clinica di picchetto.
Il richiamo al principio dell’affidamento, e quindi sostenere ora la buona fede circa il cambiamento, in pochi minuti, di direzione in merito all’uso del Propofolo sul degente, non è fattibile. In effetti, per potersi prevalere di tale principio è indispensabile che non sussistano elementi che inducano o avrebbero dovuto indurre a dubitare del corretto comportamento del collega (o superiore o subordinato, STF 6B_437/2008 del 24 luglio 2009, consid. 3.4.). In casu, come visto, AP 1 aveva appena ricevuto degli ordini chiari dalla dr.ssa _ e non poteva oggettivamente pensare che una prescrizione effettuata da un medico assistente appena entrato in servizio, che non conosceva il paziente e nemmeno lo aveva visitato seriamente e che si era fidata delle sue parole senza verifiche, costituisse un atto rispettoso dei crismi della scienza medica e rappresentasse una decisione in grado di sconfessare quella della capo clinica di picchetto.
L’eccezione sollevata non trova pertanto spazio alcuno.
42.
In quest’ottica, come detto, neppure la dr.ssa AP 2 può giustificare il suo errore con la teoria che i medici che l’hanno preceduta avrebbero convalidato le scelte dell’infermiere.
Sapendo, come ha dichiarato di sapere (MP 29 maggio 2008, AI 41, pag. 4), che nessun medico prima di lei aveva proceduto alla prescrizione del medicamento, anche senza aver sentito quanto dettole dal dr. _ al momento del passaggio delle consegne sugli ordini della dr.ssa _, non poteva pensare che fosse stato dato il nulla osta alla terapia.
43.
Stesso esito deve avere l’eccezione circa il fatto che in base agli usi vigenti a quel tempo all’interno dell’Ospedale _, il Propofolo aveva un suo spazio quale medicamento per il trattamento dell’agitazione.
Se da un lato, in effetti, da tutto l’incarto e dalle testimonianze emerge che si facesse ricorso al farmaco per calmare i pazienti esagitati:
“
Oltre ai pazienti intubati a cui veniva somministrato il Propofolo vi erano pazienti intubati (recte: non intubati) a cui veniva somministrato tale farmaco siccome erano molto agitati e non sedabili con altri farmaci più leggeri, tipo Benzodiazepine. (...) Lo si sceglie per sedare pazienti molto agitati poiché ha un’emivita molto breve, vale a dire se si interrompe la somministrazione il paziente si sveglia subito.” (MP 29 maggio 2008 di _, AI 43, pag. 2)
dall’altro questa prassi, errata e pericolosa, non solleva il prevenuto dalle proprie responsabilità, avendo egli agito di sua iniziativa e non su ordine medico.
Essa andrà tuttavia considerata nella commisurazione della pena.
Nulla muta a questa conclusione il fatto che i quantitativi di 100 mg/h non fossero, di per sé, eccessivi, avendo il dr. _ dichiarato che rientrano nei dosaggi normali (MP 19 maggio 2006, AI 16, pag. 2), poiché da solo questo dato nulla dice e, soprattutto, non tiene conto né dello stato del signor VITT1 e della sua costituzione fisica, né delle interazioni con gli altri farmaci da lui precedentemente assunti.
44.
Sulla scorta di tutto quanto precede, le condanne della dr.ssa med. AP 2 e quella di AP 1 per omicidio colposo devono essere confermate ed i rispettivi appelli conseguentemente respinti.
Commisurazione della pena
45.
Nella sua sentenza il giudice della Pretura penale ha omesso di chinarsi sulla commisurazione della pena, limitandosi ad un laconico
“la condanna deve essere confermata”
.
Non è quindi dato a sapere per quali motivi egli abbia deciso di sanzionare l’imputato AP 1 con una pena pecuniaria di 80 aliquote giornaliere da fr. 110.- l’una, per un totale di fr. 8'800.-, e la dr.ssa AP 2 con una pena pecuniaria di 60 aliquote giornaliere da fr. 130.- per complessivi fr. 7'800.-, entrambe sospese condizionalmente per un periodo di prova di due anni.
L’obbligo di motivazione previsto dall’art. 50 CP, impone al giudice di esporre nella sentenza anche le circostanze rilevanti per la commisurazione della pena e la loro ponderazione. Questo significa che nella stesura della decisione motivata, il giudice deve inserire tutti gli elementi che consentono alle parti ed all’autorità di ricorso di verificare il rispetto dei criteri da applicare nella fissazione della pena.
La motivazione deve quindi giustificare la sanzione inflitta e permettere di seguire il ragionamento del giudice, senza che questi sia tenuto ad esprimersi in cifre o in percentuali su ogni singolo fattore citato
(DTF 134 IV 17
consid.
2.1; STF 6B_281/2013 del 16
luglio
2013,
consid. 5.1.;
STF 6B_293/2011
del
12
ottobre
2011
; STF 6B_648/2007 dell’11 aprile 2008, consid. 3.2.;
STF
6B.14/2007 del 17 aprile 2007, consid. 5.3).
Un mero elenco di elementi pro e contro l'imputato non è, comunque sia, sufficiente (STF 6S.390/2005 del 27 febbraio 2005, consid. 3).
Nonostante sia stato leso l’obbligo di motivazione, si prescinde qui per praticità ed economia procedurale dal rinvio alla Corte di prime cure, potendo la lacuna essere, eccezionalmente, colmata con il presente giudizio.
46.
Per l’art. 47 cpv. 1 CP, il giudice commisura la pena alla colpa dell’autore. Tiene conto della vita anteriore e delle condizioni personali dell’autore, nonché dell’effetto che la pena avrà sulla sua vita.
Il cpv. 2 dello stesso disposto precisa che la colpa è determinata secondo il grado di lesione o esposizione a pericolo del bene giuridico offeso, secondo la reprensibilità dell’offesa, i moventi e gli obiettivi perseguiti nonché, tenuto conto delle circostanze interne ed esterne, secondo la possibilità che l’autore aveva di evitare l’esposizione a pericolo o la lesione.
47. a
.
L’art. 47 cpv. 1 CP stabilisce che la pena deve essere commisurata essenzialmente in funzione della colpa dell'autore (DTF 136 IV 55 consid. 5.4).
In applicazione dell’art. 47 cpv. 2 CP - che c
odifica la giurisprudenza anteriore fornendo un elenco esemplificativo di criteri da considerare - la colpa va determinata partendo dalle circostanze legate all’atto stesso (
Tatkomponenten
). In questo ambito, va considerato, dal profilo oggettivo, il grado di lesione o di esposizione a pericolo del bene giuridico offeso e la reprensibilità dell'offesa (
objektive Tatkomponenten
), elementi che la giurisprudenza sviluppata nell’ambito del precedente diritto designava con le espressioni “risultato dell'attività illecita” e “modo di esecuzione” (DTF 129 IV 6 consid. 6.1).
Vanno, poi, considerati, dal profilo soggettivo (
subjektive Tatkomponenten)
i moventi e gli obiettivi perseguiti - che corrispondono ai motivi a delinquere del vecchio diritto (art. 63 vCP) - e la possibilità che l'autore aveva di evitare l'esposizione a pericolo o la lesione, cioè la libertà dell'autore di decidersi a favore della legalità e contro l'illegalità nonché l’intensità della volontà delinquenziale (cfr. DTF 127 IV 101 consid. 2a; STF 6B_1092/2009, 6B_67/2010 del 22 giugno 2010, consid. 2.1). In relazione alla libertà dell’autore, occorre tener conto delle “circostanze esterne”, e meglio della situazione concreta dell’autore in relazione all’atto, per esempio situazioni d’emergenza o di tentazione che non siano così pronunciate da giustificare un'attenuazione della pena ai sensi dell’art. 48 CP (Messaggio del 21 settembre 1998 concernente la modifica del codice penale svizzero e del codice penale militare nonché una legge federale sul diritto penale minorile, FF 1999, pag. 1745; STF 6B_370/2007 del 12 marzo 2008, consid. 2.2).
b.
Determinata, così, la colpa globale dell’imputato (
Gesamtverschulden
), il giudice deve indicarne in modo chiaro la gravità su una scala e, quindi, determinare, nei limiti del quadro edittale, la pena ipotetica adeguata.
Così come indicato dall’art. 47 cpv. 1 CP in fine e precisato dal Tribunale federale (in particolare, DTF 136 IV 55 consid. 5.7), il giudice deve, poi, procedere ad una ponderazione della pena ipotetica in considerazione dei fattori legati all’autore (
Täterkomponenten
), ovvero della sua vita anteriore (antecedenti giudiziari o meno), della reputazione, della situazione personale (stato di salute, età, obblighi familiari, situazione professionale, rischio di recidiva, ecc.), del comportamento tenuto dopo l’atto e nel corso del procedimento penale così come dell’effetto che la pena avrà sulla sua vita (DTF 136 IV 55 consid. 5.7; 129 IV 6 consid. 6.1; STF 6B_1092/2009, 6B_67/2010 del 22 giugno 2010consid. 2.2.2; cfr. anche STF 6B_585/2008 del 19 giugno 2009 inc. consid. 3.5).
Con riguardo a quest'ultimo criterio, il legislatore ha precisato che la misura della pena delimitata dalla colpevolezza non deve essere sfruttata necessariamente per intero se una pena più tenue potrà presumibilmente trattenere l'autore dal compiere altri reati (Messaggio del 21 settembre 1998 concernente la modifica del codice penale svizzero e del codice penale militare nonché una legge federale sul diritto penale minorile, FF 1999, pag. 1744; DTF 128 IV 73 consid. 4; STF 6B_78/2008, inc. 6B_81/2008, inc. 6B_90/2008 del 14 ottobre 2008, consid. 3.2; 6B_370/2007 del 12 marzo 2008, consid. 2.2). La legge ha, così, codificato la giurisprudenza secondo cui occorre evitare di pronunciare sanzioni che ostacolino il reinserimento del condannato (DTF 128 IV 73 consid. 4c; 127 IV 97 consid. 3). Questo criterio di prevenzione speciale permette tuttavia soltanto di eseguire correzioni marginali, la pena dovendo in ogni caso essere proporzionata alla colpa (STF 6B_78/2008, 6B_81/2008, 6B_90/2008 del 14 ottobre 2008, consid. 3.2.; STF 6B_370/2007 del 12 marzo 2008, consid. 2.2; STF 6B_14/2007 del 17 aprile 2007, consid.
5.2 e riferimenti).
48.
La pena comminata dalla pena per il reato di omicidio colposo è la detenzione sino a tre anni o la pena pecuniaria, art. 117 CP
.
AP 1
49.
Qualificante, dal profilo oggettivo, la colpa di AP 1, è avantutto il fatto che una persona ha perso la vita per delle cause evitabili e pertanto inaccettabili, che, in un contesto ospedaliero come quello ticinese - tecnicamente evoluto e ben organizzato, nel quale pazienti e famigliari si mettono con completa fiducia nelle mani dei sanitari - risultano essere ancor meno comprensibili e giustificabili.
Pure grave è, di principio, l’aver fatto ricorso, contrariamente a ogni protocollo scientifico ed a quanto indicato nel compendio svizzero dei medicamenti, ad un prodotto non immaginato per il contenimento delle persone agitate, il cui uso comporta l’assunzione di grossi e seri rischi per il paziente, oltre ogni rapporto di proporzionalità con il risultato perseguito.
In un simile contesto, l’abbandono del capezzale di VITT1, per motivi non urgenti, ha costituito un atto irresponsabile, che pesa anche nella commisurazione della pena.
A ridurre la gravità oggettiva dell’infrazione contribuisce il fatto che, nonostante non fosse scientificamente corretto, l’uso del Propofolo all’interno dell’Ospedale _ (a anche di quello _) per contenere pazienti particolarmente agitati era tollerato, sicché la scelta del medicamento, seppur sbagliata, non è da considerarsi, in un simile contesto, completamente decontestualizzata.
Parimenti, gioca un ruolo moderatamente alleviante il fatto che la decisione di ricorrere all’anestetico è stata presa in una situazione abbastanza difficile per l’imputato, che si è trovato, solo, a dover gestire l’involontaria agitazione della vittima, che, vista la sua imponente corporatura e lo stato confusionale, non rendeva certamente facile il compito.
Nemmeno il fatto che nei momenti cruciali vi sia stato il cambio di turno dei medici assistenti ha aiutato, poiché nel passaggio delle consegne vi sono state sicuramente delle falle che hanno portato ulteriore disordine in un momento in cui era necessario intervenire dall’alto in maniera ferma.
Ciò posto, la colpa oggettiva dell’imputato può essere considerata di grado medio.
50.
Passando alla valutazione della colpa dal profilo soggettivo, con riferimento al criterio della libertà dell’autore di decidere fra legalità ed illegalità, va ribadito che egli avrebbe facilmente potuto rivolgersi direttamente al medico di guardia ed a quello di picchetto prima di decidere come calmare VITT1 e che l’allontanamento della camera poteva essere evitato senza conseguenze di sorta.
Queste mancanze, sanabili senza sforzo alcuno, non possono essere, considerate insignificanti.
La valutazione degli aspetti soggettivi del reato, non può tuttavia prescindere dal tenere in debito conto, poiché non irrilevante, che l’intervento dei medici di riferimento (dr.ssa _, in primis, e dr. _) non è stato deciso e chiaro come ci si sarebbe dovuti aspettare da loro, non avendo essi disposto l’interruzione immediata del medicamento e proceduto ad un esame diretto dello stato del paziente. Agendo secondo i dettami della scienza medica, essi avrebbero potuto impedire a AP 1 di perseverare nel suo errore ed evitare l’insorgere delle complicazioni respiratorie, sicché - a prescindere dall’esito delle procedure penali avviate nei loro confronti e ricordato che in diritto penale non si può procedere ad una ripartizione delle colpe come avviene in quello civile (art. 50 CO) - egli si è trovato in qualche modo confrontato con ordini contraddittori che non lo hanno certamente aiutato.
A suo carico pesa d’altro canto il fatto di non aver proceduto a chiarire con i superiori gli esatti estremi delle loro indicazioni.
Pertanto, anche la colpa soggettiva è da situare al livello medio.
51.
A fronte di simili circostanze, la colpa del prevenuto per il reato di omicidio colposo può essere considerata, nel complesso, mediamente grave.
Preso atto della giurisprudenza in materia di omicidi colposi, tenuto conto di questi presupposti, è così corretto fissare la pena base attorno alle 90 aliquote giornaliere.
Con riferimento ai fattori legati all’autore, gioca un ruolo positivo il fatto che, nella sua lunga carriera professionale, quanto qui oggetto d’esame risulta essere un evento unico per un infermiere che ha sempre potuto contare sul rispetto e l’apprezzamento dei colleghi e dei medici. Prova ne è il fatto che non ha subito ripercussioni dal punto di vista professionale e che, anzi, ha potuto fare carriera.
Tutto ciò ben vagliato, appare di principio corretta la pena inflitta in prima sede di 80 aliquote giornaliere. La stessa può venire sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, essendo adempiti i presupposti dell’art. 42 CP e non essendo la questione controversa.
Nemmeno l’ammontare delle aliquote giornaliere è stato posto in discussione, così che può essere confermato quello fissato in prima sede.
AP 2
52.
A connotare oggettivamente la colpa della dr.ssa AP 2, interviene in primo luogo, come per il coimputato, il bene leso con i suoi atti, che è il più importante nello spettro di quelli protetti dal codice penale (e non solo lì): la vita umana.
Centrale è poi il fatto che il decesso avrebbe potuto essere evitato semplicemente dimostrando maggiore coscienziosità nell’affrontare il caso e nel vagliare la terapia per calmare il paziente.
I rischi assunti con la prescrizione del Propofolo erano sproporzionati rispetto al risultato perseguito.
In effetti, come visto, se una simile soluzione avrebbe potuto al limite trovare uno spazio in un reparto di cure intense, ove i pazienti, oltre che essere intubati o facilmente intubabili, sono seriamente sorvegliati in continuazione, non era di certo praticabile in un “semplice” reparto di cure continue con evidenti lacune nella sorveglianza (essendo noto che gli infermieri si allontanavano per svolgere altri compiti), mancando i presupposti che garantissero di poter gestire l’insorgere dei noti problemi connessi all’uso del farmaco.
Modera la gravità oggettiva dell’infrazione, come per AP 1, la pratica diffusa nel nosocomio luganese di ricorrere al Propofolo in situazioni come quella che ci ha qui occupato.
Un leggero influsso lo ha infine il fatto che, come rilevato in precedenza, i momenti determinanti per l’esito della vicenda hanno coinciso, sfortunatamente, con il cambio di turno, ostacolando in qualche modo, seppur in maniera rimediabile con un minimo di scrupolo professionale, la continuità e la coerenza degli interventi dei medici.
Detto questo, la colpa oggettiva dell’imputata è di grado medio, ma comunque inferiore a quella del coimputato.
53.
Dal profilo soggettivo la colpa è parimenti di livello medio, preso atto che sarebbe bastato poco per non commettere l’errore o per prendere le dovute precauzioni, rispettivamente per correggerlo. La stessa imputata ha in effetti ammesso che a quel tempo non conosceva bene il Propofolo, sedativo con il quale non aveva dimestichezza, e di averlo prescritto dopo che l’infermiere AP 1 le aveva detto che veniva impiegato regolarmente e dopo aver controllato sul compendio solo il dosaggio (MP 29 maggio 2008, AI 41, pag. 3). Le sarebbe bastato contattare la capo clinica di guardia per sapere come comportarsi.
Questo agire, definibile anche come superficiale, non può essere scusato completamente con l’inesperienza.
A suo favore giocano le modalità di reazione da parte della dr.ssa _ e del dr. _ alla notizia dell’impiego del medicamento sul signor VITT1, che avrebbero senza dubbio potuto e dovuto essere più drastiche e meno ambigue.
54.
Tutto sommato, quindi, la colpa dell’imputata essendo di grado medio, ma meno pesante di quella degli atti commessi da AP 1, appare equo fissare la pena base sulle 70 aliquote giornaliere.
Con riferimento ai fattori legati all’autore, non si può omettere di rilevare come, a parte nel caso in disamina, il curriculo professionale e personale dell’imputata sia impeccabile.
Tutto ciò ben vagliato, appare di principio corretta la pena inflitta in prima sede di 60 aliquote giornaliere, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, preso atto che quest’ultima non è nemmeno stata contestata dall’accusa e che ne sono certamente dati gli estremi.
L’ammontare delle aliquote giornaliere, non criticato, può essere confermato in fr. 130.-.
Violazione del principio di celerità e lungo tempo trascorso
55.
Giusta l’art. 48 lett. e CP, il giudice attenua la pena se questa ha manifestamente perso di senso visto il tempo trascorso dal reato e se da allora l’autore ha tenuto buona condotta.
L‘attenuazione della pena in funzione della circostanza di cui all’art. 48 lett. e CP risponde allo stesso principio che sottintende alla prescrizione dell’azione penale: l’effetto guaritore del passare del tempo, che diminuisce la necessità e il senso di una punizione, deve poter essere preso in considerazione anche quando la prescrizione dell’azione penale non è ancora data, se il reato è stato commesso in tempi sufficientemente lontani e se l’autore si è ben comportato nell’intervallo.
Secondo giurisprudenza ormai consolidata, è data applicazione di quest’attenuante specifica quando i 2/3 del termine di prescrizione sono trascorsi, senza che al giudice rimangano margini di apprezzamento.
Per l’accertamento del tempo trascorso il giudice deve riferirsi, quando il condannato ha proposto appello, al momento in cui è reso il giudizio di secondo grado (DTF 132 IV 1 consid 6.2.1.; STF 6B_10/2010 del 10 maggio 2010).
Per tener conto di casi particolari (natura e gravità dei reati), il giudice può ridurre questo termine (DTF 132 IV 1 consid. 6.2.; STF 6B_705/2010 del 2 dicembre 2010; 6B_10/2010 del 10 maggio 2010; 6B_622/2007 dell’8 gennaio 2008; 6B.496/2007 del 9 aprile 2008).
Quanto indicato dall’art. 48 lett. e CP si realizza per esempio quando sono trascorsi i due terzi del periodo di prescrizione dell’azione penale, soprattutto quando essa si prescrive in quindici anni (STF 6B_10/2010 del 10 maggio 2010, consid. 2.4; DTF 132 IV 1 consid. 6.2.1). Tale circostanza attenuante coincide con la logica della prescrizione (e della perdita di senso della sanzione) e presuppone che l'accusato abbia tenuto buona condotta nel periodo in questione (ovvero, secondo la dottrina dominante, non abbia compiuto altre infrazioni nel frattempo, cfr. Pellet, in Commentaire romand CP I, 2009, ad art. 48 n. 44): essa si differenzia dunque dalla violazione del principio della celerità (DTF 130 IV 54; Wiprächtiger, in Basler Kommentar, Strafrecht I, ad art. 48 CP, n. 39 e 43).
Il principio della celerità impone alle autorità penali di procedere con la dovuta speditezza non appena l'imputato è informato dei sospetti che pesano su di lui al fine di non lasciarlo inutilmente nello stato di angoscia che una tale procedura suscita (art. 29 cpv. 1 Cost., 6 n. 1 CEDU e 14 n. 3 lett. c Patto ONU II; DTF 130 IV 54 e 124 I 139). Di nessuna rilevanza per l’accertamento di una violazione del principio della celerità è la responsabilità delle autorità e vi può essere violazione di questo principio anche se alle autorità penali non è imputabile nessuna colpa (DTF 130 IV 54). La questione a sapere se il principio della celerità sia stato violato va decisa soprattutto in base ad un appezzamento globale del lavoro effettuato, in cui va tenuto conto in particolare della complessità del procedimento, del comportamento dell’interessato e delle autorità penali. Tempi morti sono inevitabili e se nessuno di essi ha avuto una durata scioccante è l'apprezzamento globale ad essere decisivo, fermo restando che - affinché sussista una violazione di questo principio - non è di per sé sufficiente che un atto processuale potesse essere compiuto anticipatamente.
La giurisprudenza ha giudicato inaccettabili e costitutivi di una violazione del principio di celerità un'inattività di tredici o quattordici mesi in fase di istruttoria, un periodo di quattro anni per statuire su di un ricorso contro l'atto di accusa, un periodo di dieci o undici mesi prima di trasmettere l'incarto all'autorità di ricorso, un periodo di più di tre anni tra l’atto di accusa e la sentenza di prima istanza ed, infine, un periodo di quattro anni intercorso tra la promozione dell’accusa e l’emanazione dell’atto d’accusa (STF 6S.37/2006 del 8 giugno 2006, consid. 2.1.2).
Siccome i ritardi nella procedura penale non possono più essere sanati, il Tribunale Federale ha fatto derivare dalla violazione del principio della celerità delle conseguenze a livello di pena. La violazione di tale principio comporterà, nei casi più frequenti, una riduzione oppure addirittura la rinuncia ad una pena o anche l'abbandono del procedimento (STF 6S.37/2006 dell’8 giugno 2006, DTF 130 IV 54, 124 I 139 e 117 IV 124).
Secondo la giurisprudenza del Tribunale Federale, laddove sono date le condizioni per applicare sia l'art. 48 lett. e CP sia il principio della celerità occorre tenere conto di entrambi i fattori di riduzione, tenendo presente sia l'entità del ritardo che l'intensità della violazione (STF 6S.37/2006 dell’8 giugno 2006).
Il momento decisivo per determinare l'adeguatezza della durata del procedimento è costituito dal giorno in cui viene emanata l'ultima decisione, atteso che vanno pure computate le procedure davanti ad un'autorità di ricorso, inclusi rinvii e cassazioni (DTF 117 IV 126 consid. 3).
56.
Nel caso che ci occupa entrambi i principi sono stati violati in maniera crassa. In effetti, il dibattimento di primo grado si è svolto a due settimane dallo scadere del termine di prescrizione di 7 anni dell’art. 97 cpv. 1 lett. d CP (nella sua ultima versione, lett. c in quella precedente il 1. gennaio 2014), mentre la sentenza motivata è giunta alle parti oltre tale termine.
Dal punto di vista della celerità della procedura, non si può mancare di osservare che dal 20 novembre 2008 (AI 49) al 30 maggio 2011 (AI 50) nulla è stato fatto.
Di conseguenza le pene inflitte devono imperativamente essere dimezzate e ridotte a 40 aliquote giornaliere dal fr. 110.-, per complessivi fr. 4'400.-, per AP 1, e a 30 aliquote giornaliere da fr. 130.-, per globali fr. 3'900.-, per AP 2. Nulla muta per contro in merito alla sospensione condizionale delle stesse.
Vista la conferma delle condanne, le richieste di riconoscimento di indennità per ingiusto procedimento decadono di conseguenza.
57. Sulle spese
Gli oneri processuali dei due gravami seguono la soccombenza (art. 428 cpv. 1 CPP) e vanno, pertanto, caricati ai condannati, soccombenti nonostante la riduzione della pena decretata.
L’ attribuzione degli oneri di prima sede rimane invariata, essendo di principio state confermate le condanne. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
de063d75-344e-5803-b042-0a510164d1c0 | in fatto
a
. La mattina del 26.06.2005 una pattuglia di polizia notava, sulla strada davanti a Via _ a _, la presenza di _ che chiedeva aiuto, spiegando di essere stata, la sera precedente, picchiata e violentata dal marito RE 1. Quest’ultimo, dopo essere stato fermato e sentito dalla polizia, è stato arrestato con l’accusa di violenza carnale, lesioni semplici, vie di fatto, minaccia, coazione e contravvenzione alla LF sugli stupefacenti, ed è rimasto in carcerazione preventiva fino al 17.10.2005 (inc. MP _).
Con scritto 22.03.2006 al Ministero pubblico, _ ha comunicato di voler “ritirare” la denuncia per titolo di violenza carnale, affermando di aver ricordato, col passare del tempo, che il rapporto sessuale avuto col marito il 25.06.2005 era stato consenziente, come del resto RE 1 aveva sempre sostenuto sin dall’arresto (scritto 22.03.2006 allegato ad AI 4.35, inc. MP _).
_ è deceduta il 28.10.2008 (FUCT n. _ del _).
b
. Con decreto 14.03.2011 il procuratore pubblico Valentina Tuoni ha parzialmente abbandonato il procedimento MP _ a carico di RE 1 in relazione ai reati di violenza carnale, minaccia e coazione, per l’assenza di sufficienti indizi di reato, ed ai reati di vie di fatto e contravvenzione alla
Legge federale sugli stupefacenti, per intervenuta prescrizione. Il punto 3. del dispositivo del decreto prevede che “
Il giudizio sulle spese verrà emesso in separata sede, nell’ambito della definizione del procedimento penale a carico di RE 1 per titolo di lesioni semplici
” (decreto di abbandono
14.03.
2011, p. 2-3, ABB _)
.
Sempre sulla scorta di alcune risultanze del procedimento MP _, con decreto 14.03.2011 lo stesso magistrato inquirente ha posto RE 1 in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale del Cantone Ticino per titolo di lesioni semplici, proponendone la condanna alla pena pecuniaria di 60 aliquote giornaliere da CHF 60.-- cadauna, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 2 anni, ed al pagamento della tassa di giustizia di CHF 200.-- e delle spese giudiziarie di CHF 7'246.50 (decreto di accusa 14.03.2011, p. 1-2, DA _). Al decreto è stata interposta opposizione (AI 10.4, inc. MP _).
c
. Con reclamo 25/28.03.2011 RE 1 ha rilevato una violazione dell’art. 318 cpv. 1 CPP, in quanto il procuratore pubblico non avrebbe notificato per iscritto alle parti l’imminente chiusura dell’istruzione, di modo che il reclamante non ha potuto, una volta a conoscenza dell’intenzione di abbandonare il procedimento, quantificare e documentare una richiesta di indennizzo e riparazione del torto morale (reclamo 25/28.03.2011, p. 4).
Il reclamante ha quindi postulato la trasmissione dell’incarto al Ministero pubblico affinché si determini sulle indennità previste dagli art. 429 ss. CPP applicabili, a sua mente, anche nel caso in cui l’abbandono o l’assoluzione siano parziali (reclamo 25/28.03.2011, p. 5-6).
RE 1 ha inoltre richiesto l’annullamento del punto 3. del dispositivo del decreto di abbandono ABB _ sulle spese procedurali. A mente del reclamante, il rinvio della decisione in merito a tasse e spese procedurali al decreto di accusa, senza motivazione alcuna, non soddisferebbe i requisiti del CPP in materia.
Infine, in detto decreto di accusa (DA _, al quale è stata interposta tempestiva opposizione, AI 10.4, inc. MP _) sarebbero state accollate al qui reclamante tutte le spese inerenti al procedimento penale MP _, vale a dire anche quelle sostenute per i reati oggetto del decreto di abbandono, violando anche in questo caso quanto previsto dal CPP (reclamo 25/28.03.2011, p. 9-10).
d
. Con osservazioni 7/8.04.2011 il procuratore pubblico ha chiesto la reiezione del gravame, facendo valere che, non essendo il decreto di abbandono una sentenza, bensì una “
altra decisione che conclude il procedimento
”, non dovrebbe contenere anche il giudizio sulle indennità ai sensi dell’art. 429 CPP.
A mente del magistrato inquirente non sarebbe stato violato nemmeno l’art. 318 cpv. 1 CPP, in quanto il termine assegnato alle parti a seguito della comunicazione delle intenzioni del procuratore pubblico avrebbe quale scopo esclusivo quello di presentare istanze probatorie, e non quello di avanzare istanze di indennizzo o di risarcimento per torto morale.
Quanto al punto 3. del decreto di abbandono impugnato, il magistrato inquirente ha rilevato che le spese giudiziarie imputate al reclamante - CHF 6'600.-- per una perizia psichiatrica sull’impu-tato e CHF 646.50 per l’analisi di tracce di DNA su un mozzicone di sigaretta - sarebbero state generate dal suo comportamento delittuoso e ripetutamente violento; il giudizio sulle spese sarebbe stato rinviato al decreto di accusa DA _ per ragioni di economia processuale e di unità di giudizio (osservazioni 7/8.04.2011, p. 2-3).
e
. Con replica 15/18.04.2011 il reclamante ha contestato quanto esposto dal procuratore pubblico, precisando che se a quest’ultimo fosse consentito pronunciarsi sull’istanza di indennizzo solamente una volta cresciuto in giudicato il decreto di abbandono, andrebbe considerevolmente limitata, se non vanificata, la portata degli art. 421 cpv. 1 e 429 cpv. 2 CPP.
Per quanto concerne la presunta violazione dell’art. 318 cpv. 1 CPP, RE 1 ha ribadito che quando l’istruzione è completa, il procuratore pubblico ha l’obbligo di procedere conformemente a tale disposizione. A mente del reclamante, la comunicazione relativa alla promozione dell’accusa o all’abbando-no deve essere fatta in tutti i casi per i quali il magistrato inquirente non emana un decreto di accusa, potendovi rinunciare unicamente in caso di accordo scritto delle parti.
Infine, quanto al giudizio sulle spese, il reclamante ha replicato sostenendo che la perizia psichiatrica e l’analisi del mozzicone di sigaretta sarebbero state effettuate per accertare il reato di violenza carnale, per il quale il procedimento è stato abbandonato: peraltro sarebbe stato perfettamente inutile, da parte del Ministero pubblico, verificare con un simile dispendio di risorse la colpevolezza di RE 1 per il reato di lesioni semplici, per il quale il reclamante ha sin dall’inizio ammesso la propria responsabilità attraverso dichiarazioni coerenti con quelle di _ (replica 15/18.04.2011, p. 2-3).
f
. Con duplica 21/22.04.2011 il procuratore pubblico si è riconfermato nelle proprie osservazioni. | in diritto
1
. 1.1.
Giusta l’art. 322 cpv. 2 CPP le parti possono impugnare, entro dieci giorni (art. 396 cpv. 1 CPP), il decreto di abbandono dinanzi alla giurisdizione di reclamo.
Con il gravame, da introdurre davanti alla giurisdizione di reclamo (art. 20 cpv. 1 lit. b CPP), ovvero – in Ticino – alla Corte dei reclami penali (art. 62 cpv. 2 LOG), si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l’eccesso e l’abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l’accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l’inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta e all’art. 385 CPP per la motivazione.
In particolare il reclamo deve indicare i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP)
.
1.2.
Il gravame, inoltrato il 25/28.03.2011 alla Corte dei reclami penali contro il decreto di abbandono 14.03.2011 (ABB _), è tempestivo
.
Le esigenze di forma e di motivazione sono rispettate
.
1.3.
Giusta l’art. 382 cpv. 1 CPP sono legittimate a ricorrere contro una decisione le parti che hanno un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica della stessa
.
Quanto alla nozione di
parti
, occorre far riferimento all’art. 104 CPP che include anche l’imputato (lit. a).
Per stabilire se sia dato un interesse giuridicamente protetto, è necessario considerare la disposizione violata ed il bene giuridico protetto.
Se è una norma penale di merito, occorre verificare se il bene giuridico protetto è di natura collettiva o individuale: in quest’ultimo caso, legittimato è solo colui che subisce l’illecito.
Se è una norma penale procedurale, occorre esaminare le parti che la stessa tutela.
L’interesse giuridicamente protetto presuppone poi che il ricorrente sia personalmente, direttamente e (di principio) attualmente leso dalla decisione che intende impugnare: in taluni casi è sufficiente un interesse solo virtuale (Commentario CPP - M. MINI, art. 382 CPP n. 5).
1.4.
Nel presente caso, il gravame contro il decreto di abbandono è presentato dall’imputato prosciolto. Egli non contesta l’esito principale del procedimento (ovvero l’abbandono del medesimo), bensì il dispositivo sulle spese e l’omissione dell’esame dell’in-dennizzo ai sensi degli art. 429 ss. CPP
.
Considerato che le norme sulle spese e quelle sugli indennizzi tutelano anche la posizione dell’imputato prosciolto, egli ha un interesse giuridico oltre ad essere toccato personalmente, direttamente e attualmente dal dispositivo del decreto di abbandono impugnato. La sua legittimazione ad interporre il presente reclamo è pertanto pacifica.
1.5.
Il reclamo è – di conseguenza – ricevibile in ordine
.
2
. 2.1.
L’art. 429 cpv. 1 CPP prevede che se è pienamente o parzialmente assolto o se il procedimento nei suoi confronti è abbandonato, l’imputato ha diritto ad un’indennità per le spese sostenute ai fini di un adeguato esercizio dei suoi diritti procedurali (lit. a), un’indennità per il danno economico risultante dalla partecipazione necessaria al procedimento penale (lit. b) ed una riparazione del torto morale per lesioni particolarmente gravi dei suoi interessi personali, segnatamente in caso di privazione della libertà (lit. c).
Secondo l’art. 429 cpv. 2 CPP, l’autorità penale esamina d’ufficio le pretese dell’imputato. Può invitare l’imputato a quantificarle e comprovarle.
Nel testo, la norma non indica in modo esplicito quando debba intervenire questa decisione
2.2.
Giusta l’art. 421 cpv. 1 CPP, nella decisione finale l’autorità penale determina anche le conseguenze in materia di spese.
Secondo il messaggio del Consiglio federale concernente l’unificazione del diritto processuale penale svizzero (di seguito: Messaggio), “
il cpv. 1 obbliga le autorità penali a statuire d’ufficio, nella decisione finale, sulle spese e su eventuali pretese di indennizzo e riparazione del torto morale. Prima di una tale decisione l’autorità deve procurarsi i documenti necessari e ingiungere alle parti che potrebbero vantare siffatte pretese di notificarle
” (FF 2006 p. 1227; nel medesimo senso: BSK StPO - T. DOMEISEN, art. 421 CPP n. 3-4; ZK StPO - Y. GRIESSER, art. 421 CPP n. 1-3; CR CPP - J. CREVOISIER, art. 421 CPP n. 1).
Questa conclusione risulta anche dalla sistematica del Codice: il titolo decimo relativo alle spese comprende sia le spese procedurali (art. 422-428 CPP), sia l’indennizzo e la riparazione del torto morale (art. 429-436 CPP).
2.3.
È considerata una decisione finale ai sensi dell’art. 81 come dell’art. 421 CPP, tra le altre, il decreto di abbandono (BSK StPO - N. STOHNER, art. 81 CPP n. 2; BSK StPO - T. DOMEISEN, art. 421 CPP n. 2; CR CPP - J. CREVOISIER, art. 421 CPP n. 1).
L’indennizzo e la riparazione del torto morale costituiscono delle conseguenze accessorie ai sensi dell’art. 81 cpv. 4 lit. e CPP: pertanto
devono
essere contenute nel dispositivo della decisione finale (BSK StPO - N. STOHNER, art. 81 CPP n. 18, 23; CR CPP - J. CREVOISIER, art. 421 CPP n. 1).
2.4.
Ne consegue che nel decreto di abbandono occorre statuire sulle indennità e sulla riparazione del torto morale.
3.
3.1.
Giusta l’art. 318 cpv. 1 CPP, se ritiene che l’istruzione sia completa, il pubblico ministero emana un decreto d’accusa o notifica per scritto alle parti l’imminente chiusura dell’istruzione, comunicando loro se intende promuovere l’accusa o abbandonare il procedimento. Nel contempo, impartisce alle parti un termine per presentare istanze probatorie.
L’annuncio per iscritto dell’imminente chiusura dell’istruzione deve perciò avvenire, secondo il chiaro ed univoco testo di legge, anche in caso di previsto abbandono. L’esito prospettato della conclusione dell’istruzione formale non è vincolante: il magistrato inquirente può, dopo la comunicazione scritta alle parti, ancora cambiare il proprio orientamento (BSK StPO - S. STEINER, art. 318 CPP n. 2, 5; CR CPP - P. CORNU, art. 318 CPP n. 7).
3.2.
Nelle proprie osservazioni, il magistrato inquirente rileva che lo “
scopo esclusivo
” dell’art. 318 CPP sarebbe quello di impartire alle parti il termine per presentare istanze probatorie. Ciò sarebbe stato inutile nel presente caso (osservazioni 7/8.04.2011, p. 2).
A torto. Il Messaggio non esclude che la comunicazione scritta sull’imminente chiusura dell’istruzione formale e l’emanazione del decreto di abbandono (rispettivamente dell’atto di accusa) serva all’imputato per quantificare la propria pretesa di indennizzo e riparazione del torto morale (FF 2006 p. 1173, 1174).
Anzi. Se dopo l’istruzione formale l’orientamento del procuratore pubblico è quello di emanare un decreto di abbandono, e dovendo esaminare d’ufficio delle pretese (art. 429 cpv. 2 CPP), il momento più opportuno e propizio per procurarsi i documenti necessari a determinare l’indennizzo e la riparazione del torto morale è proprio quello che intercorre tra la comunicazione scritta alle parti di cui all’art. 318 cpv. 1 CPP e la successiva decisione. In questo senso, la dottrina indica che il procuratore pubblico deve ingiungere alle parti, che potrebbero vantare tali pretese, di notificarle (ZK StPO - N. LANDSHUT, art. 318 CPP n. 4; N. SCHMID,
Handbuch des schweizerischen Strafprozessrechts
, n. 1244 nota 105).
Più in generale, e con riferimento anche all’art. 429 cpv. 2 in fine CPP, la documentazione che quantifica e comprova le pretese per indennizzo e torto morale rientra nel concetto più ampio di istanza probatoria dell’art. 318 cpv. 1 in fine CPP.
3.3.
In tal modo viene rispettato il diritto di essere sentito (art. 3 cpv. 2 lit. a ed art. 107 CPP) richiedendo l’autorità penale all’imputato, prima di emanare una decisione, di quantificare e documentare le sue pretese di risarcimento e riparazione del torto morale (BSK StPO - T. DOMEISEN, art. 429 CPP n. 31; R. HAUSER / E. SCHWERI / K. HARTMANN,
Schweizerisches
Strafprozessrecht
, 6. ed., § 109 n. 11).
3.4.
Pertanto, la comunicazione di cui all’art. 318 cpv. 1 CPP è obbligatoria e pure riferita alla documentazione e quantificazione delle pretese per indennizzo e risarcimento del torto morale.
4.
Giusta l’art. 423 CPP, le spese procedurali sono di principio sostenute dalla Confederazione o dal Cantone che ha condotto il procedimento; sono fatte salve disposizioni derogatorie del CPP.
In caso di condanna, l’imputato sostiene le spese procedurali (art. 426 cpv. 1 prima frase CPP).
In caso di abbandono del procedimento o di assoluzione, le spese procedurali possono essere addossate in tutto o in parte all’imputato se, in modo illecito e colpevole, ha provocato l’apertura del procedimento o ne ha ostacolato lo svolgimento (art. 426 cpv. 2 CPP).
5.
5.1.
Il decreto di abbandono impugnato non contiene né la discussione, né la determinazione del risarcimento e della riparazione del torto morale cui RE 1, di principio, avrebbe diritto - vista tra l’altro la carcerazione preventiva sofferta dal 27.06. al 17.10.2005.
Pertanto, sono state violate, da parte del magistrato inquirente, le norme sull’indennizzo e la riparazione del torto morale: art. 421 cpv. 1 e 429 CPP.
5.2.
Prima dell’emanazione del decreto di abbandono, dagli atti non emerge che il procuratore pubblico abbia proceduto con la comunicazione scritta alle parti - più precisamente ad RE 1, visto il prematuro decesso di _ - preannunciando l’esito probabile di un decreto di abbandono.
Pertanto è stato violato l’art. 318 cpv. 1 CPP e più in generale il diritto di essere sentito (art. 29 cpv. 2 Cost., art. 3 cpv. 2 lit. c e 107 CPP) del qui reclamante.
5.3.
Resta da esaminare la ripartizione delle spese procedurali (riferite all’inc. MP _) tra il decreto di abbandono ed il decreto di accusa.
Il magistrato inquirente ha spiegato che le spese giudiziarie imputate ad RE 1 nel DA _ sarebbero giustificate: CHF 6'600.-- in quanto riferiti alla perizia psichiatrica ordinata al perito Dr. _, atto istruttorio volto ad accertare “
la responsabilità penale dell’imputato in relazione alle sue caratteristiche violente
”; CHF 646.50 in quanto riferiti all’analisi dell’Ospedale _ di _ delle tracce di DNA su di un mozzicone di sigaretta, atto istruttorio “
volto alla verifica delle dichiarazioni dell’imputato, comunque non direttamente connessa con l’accusa di violenza carnale, coazione e minaccia
” (osservazioni 7/8.04.2011, p. 3).
Né nel testo del decreto di accusa, né nel testo del decreto di abbandono, né nelle osservazioni nella presente procedura, il procuratore pubblico spiega perché le spese procedurali addossate nel decreto di accusa al qui reclamante si riferirebbero all’unico reato oggetto del decreto di accusa DA _ e non si riferiscano ai reati oggetto del decreto di abbandono.
Il tipo di atti istruttori e l’unica argomentazione addotta (“
caratteristiche violente
”) sono certamente più riferibili e pertinenti ai reati di cui al decreto di abbandono che non al reato di lesioni semplici di cui al decreto di accusa. A maggior ragione, visto che quest’ultimo reato è stato ammesso senza riserve e sin dall’apertura del procedimento.
Considerando come il decreto di abbandono debba essere completato per gli indennizzi, occorrerà anche ridecidere e pronunciarsi sulla suddivisione delle spese di procedura tra i due decreti (di abbandono e di accusa). Se risultasse che i citati atti istruttori sono stati allestiti per accertare la punibilità di RE 1 in relazione al reato di violenza carnale, in applicazione dell’art. 423 CPP dette spese andranno poste a carico dello Stato.
5.4.
Visto quanto precede, il reclamo è accolto. Il punto 3. del dispositivo del decreto di abbandono ABB _ del 14.03.2011 va annullato. Il dispositivo deve inoltre essere completato con il giudizio sull’indennizzo e la riparazione del torto morale a favore del qui reclamante.
Non si giustifica l’annullamento
in toto
della decisione, anzitutto in quanto il dispositivo sull’abbandono del procedimento non è impugnato. Inoltre, annullare interamente il decreto di abbandono comporterebbe, per RE 1, una
reformatio in peius
: infatti il reclamante, pur ottenendo ragione, si troverebbe di nuovo imputato.
L’incarto viene ritornato al procuratore pubblico, che dovrà concedere ad RE 1, giusta l’art. 318 cpv. 1 CPP, la possibilità di quantificare le proprie pretese di risarcimento e di riparazione del torto morale, le quali dovranno essere determinate nel dispositivo del nuovo decreto di abbandono.
6
. Il gravame è accolto. Tassa di giustizia, spese e ripetibili sono poste a carico dello Stato. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
de366dce-a966-534c-8112-ea94f0258503 | in fatto:
che con decreto d'accusa del 26 novembre 2001 il Procuratore pubblico ha dichiarato _ autore colpevole di denuncia mendace per avere incolpato per scritto l'avv. _, davanti al Ministero pubblico, di truffa e violazione della legge federale sugli stupefacenti, pur sapendolo innocente, allo scopo di provocare contro di lui un procedimento penale;
che con lo stesso decreto d'accusa il Procuratore pubblico ha riconosciuto _ anche autore colpevole di calunnia per avere tacciato l'avv. _, con lettera del 23 dicembre 1999 al Procuratore pubblico della Confederazione, di violazione della legge federale sugli stupefacenti, ben sapendo di dire cosa non vera;
che in applicazione della pena il Procuratore pubblico ha proposto la condanna dell'accusato a 15 giorni di detenzione, sospesi condizionalmente per due anni, rinviando l'avv. _ a far valere le sue pretese civili davanti al foro competente;
che al decreto di accusa intimato per raccomandata il 26 novembre 2001 _ ha sollevato opposizione il 10 gennaio 2002;
che con sentenza del 17 luglio 2002 il Pretore del Distretto di Lugano, sezione 4, cui gli atti del procedimento erano stati trasmessi per il giudizio, ha dichiarato l'opposizione tardiva, rilevando che il termine di 15 giorni per presentarla era cominciato a decorrere al più tardi il 5 dicembre 2001, ultimo giorno di giacenza del plico raccomandato presso l'ufficio postale;
che, secondo il Pretore, l'accusato nemmeno pretendeva di essersi trovato nell'oggettiva impossibilità di entrare in possesso del decreto di accusa, al dibattimento essendosi limitato a pretendere che per un certo periodo qualcuno gli avrebbe tolto la posta dalla cassetta delle lettere, ammettendo però di avere ricevuto il decreto di accusa ed esibendolo perfino in aula;
che contro la sentenza pretorile _ ha inoltrato il 17 luglio 2002 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione panale;
che nelle motivazioni del gravame presentato in lingua tedesca il 19 agosto successivo egli chiede di essere prosciolto dalle imputazioni di denuncia mendace e di calunnia;
che il ricorso non ha fatto oggetto di intimazione;
e considerando | in diritto:
che secondo l'art. l'art. 208 cpv. 1 lett. a CPP l'accusato o la parte civile che intendono opporsi a un decreto d'accusa devono presentare opposizione scritta al Procuratore pubblico entro 15 giorni dall'intimazione, senza di che le proposte contenute nel decreto d'accusa acquistano forza di giudicato;
che in concreto il Pretore ha stralciato il procedimento dai ruoli dopo avere constatato che l'opposizione andava inoltrata al più tardi il 20 dicembre 2001, 15 giorni dopo l'ultimo giorno di giacenza del plico raccomandato presso l'ufficio postale, l'accusato non pretendendo di essersi trovato nell'oggettiva impossibilità di ritirare l'invio entro quel termine;
che nel ricorso l'accusato non contesta la tardività dell'opposizione né mette in discussione che nelle condizioni descritte il decreto di accusa equivale a una sentenza passata in giudicato;
che egli chiede nondimeno di essere prosciolto dalle due imputazioni, sostenendo di non avere avuto alcuna intenzione di incolpare l'avv. _ sapendo di dire cose non vere e facendo valere che il reato di calunnia (art. 174 CP) è “assorbito” da quello di denuncia mendace (art. 303 CP);
che tuttavia, essendo il decreto d'accusa passato in giudicato, all'accusato è preclusa la facoltà di insorgere con ricorso per cassazione contro le proposte contenute nel medesimo;
che in tali condizioni il ricorso si dimostra già di primo acchito inammissibile;
che, ciò posto, si prescinde dal fissare al ricorrente un termine per tradurre il ricorso in italiano, il cui uso è obbligatorio come lingua ufficiale del Cantone (cfr. l'art. 70 cpv. 2 Cost.; DTF del
16 gennaio 2002 in re J., 1P.693/2001, consid. 3);
che in via eccezionale si giustifica pure di rinunciare al prelievo di tasse o spese;
in applicazione dell'art. 291 cpv. 1 CPP, | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,002 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
dea32313-bf65-538e-a94c-457517ce00fa | in fatto: A.
Con decreto di accusa 25 maggio 2007, il procuratore pubblico ha dichiarato IS 1 autore colpevole di diffamazione, per avere, inserendosi mediante connessione internet in svariati forum in data 15, 18, 22, 23 e 28 maggio 2006, impiegando dei nickname e comunicando il messaggio
“La Ludes non è riconosciuta nel sistema universitario svizzero, i titoli non hanno valore legale nemmeno in svizzera e non sono equipollenti a quelli delle università italiane”
, reso sospetta la predetta università di fatti che possono nuocere alla sua reputazione.
Il procuratore pubblico ha, pertanto, proposto la condanna di IS 1 alla pena pecuniaria di 15 aliquote giornaliere da fr. 120.- cadauna (corrispondenti a complessivi fr. 1'800.-), sospesa condizionalmente con un periodo di prova di due anni, oltre che alla multa di fr. 500.- e al pagamento di tasse e spese. La parte civile è stata rinviata per le sue pretese al competente foro civile.
B.
Con sentenza 9 gennaio 2008, il giudice della Pretura penale, statuendo sull’opposizione tempestivamente sollevata da IS 1, ha confermato il decreto di accusa, condannando l’istante per diffamazione ed infliggendogli la pena proposta dal procuratore pubblico.
C.
Avverso la sentenza di prima sede, il 19 febbraio 2008, l’istante ha presentato ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale, chiedendo il suo proscioglimento.
D.
Con sentenza 1. febbraio 2010, la CCRP ha accolto il ricorso, annullato la sentenza impugnata e prosciolto IS 1 dall’imputazione di diffamazione, ponendo gli oneri processuali a carico dello Stato che ha, peraltro, condannato a versare all’istante fr. 1'000.- per ripetibili.
E.
Il 16 dicembre 2010 - nel termine di un anno di cui all’art. 320 cpv. 1 CPP (Ti) - IS 1 ha presentato un’istanza di indennità per ingiusto procedimento ai sensi dell’art. 317 CPP (Ti) alla Camera dei ricorsi penali del Tribunale d’appello che, il 31 gennaio 2011, richiamato l’art. 449 cpv. 1 CPP (fed), ha trasmesso l’istanza, per competenza, alla scrivente Corte.
F.
Con l’istanza in esame, IS 1 - a fronte dell’assenza di un’assicurazione che assuma le spese legali - chiede che lo Stato del Canton Ticino venga condannato a versargli, quale risarcimento del danno sofferto a seguito del procedimento penale, l’importo di fr. 8'034.55 (IVA inclusa) per spese di patrocinio, già dedotto l’importo di fr. 1'000.- assegnato a titolo di ripetibili nella sentenza di assoluzione emanata il 1. febbraio 2010 dalla CCRP.
G.
Con scritto 8 febbraio 2011, la Divisione della giustizia della Repubblica e Cantone Ticino ha dichiarato di rimettersi alle osservazioni che avrebbe presentato il Ministero pubblico.
Con scritto 10 febbraio 2011, il procuratore pubblico, senza svolgere particolari osservazioni, si è rimesso al giudizio della Corte. | Considerando
in diritto: 1.
Il 1. gennaio 2011 è entrato in vigore il Codice di diritto processuale penale svizzero che unifica a livello nazionale le norme di procedura applicabili in ambito penale. Come correttamente ritenuto dalla CRP nella sua sentenza 31 gennaio 2011, secondo le disposizioni transitorie contenute nel CPP (fed), in particolare per l’art. 448 cpv. 1 CPP (fed), i procedimenti pendenti al 31 dicembre 2010 sono continuati secondo il nuovo diritto.
Ciò è il caso nella presente fattispecie.
2.
Giusta l’art. 421 cpv. 1 CPP (fed), è competente a decidere sugli indennizzi e sulle riparazioni morali l’autorità penale che ha emanato la decisione finale di proscioglimento che fa scattare il diritto all’indennizzo o alla riparazione (Mini, Codice svizzero di procedura penale, Commentario, Zurigo/San Gallo 2010, n. 1 ad art. 421 CPP; Mizel/Rétornaz in: Code de procédure pénale suisse, Commentaire romand, Basilea 2011, n. 51 ad art. 429 CPP).
In concreto, dunque, competente per decidere sull’istanza in discussione è la scrivente Corte che ha sostituito la CCRP che aveva disposto, con sentenza 1. febbraio 2010, l’assoluzione dell’istante.
3.
Per l’art. 436 cpv. 1 CPP (fed), le pretese di indennizzo e di riparazione del torto morale nell’ambito della procedura di ricorso sono rette dagli art. 429 - 434 CPP (fed).
Giusta l’art. 429 cpv. 1 CPP (fed), se è pienamente o parzialmente assolto o se il procedimento nei suoi confronti è abbandonato, l’imputato ha diritto a un’indennità per le spese sostenute ai fini di un adeguato esercizio dei suoi diritti procedurali (lett. a) e per il danno economico risultante dalla partecipazione necessaria al procedimento penale (lett. b). Inoltre, per la lett. c di detto articolo, l’imputato assolto o nei cui confronti il procedimento è stato abbandonato ha diritto ad una riparazione del torto morale per lesioni particolarmente gravi dei suoi interessi personali, segnatamente in caso di privazione della libertà.
3.1.
La norma stabilisce una responsabilità causale dello Stato, chiamato a rispondere della totalità del danno che presenta un nesso causale ai sensi del diritto della responsabilità civile con il procedimento penale conclusosi con un decreto di non luogo a procedere, con un decreto di abbandono o con un’assoluzione, anche in assenza di colpa o di irregolarità da parte delle autorità penali (Messaggio, p. 1231; Schmid, Handbuch des schweizerischen Strafprozessrechts, Zurigo/San Gallo 2009, n. 1804, pag. 829; Schmid, Schweizerisches Strafprozessordnung, Praxiskommentar, Zurigo/San Gallo 2009, n. 6 ad art. 429 CPP; Mizel/Rétornaz, op. cit., n. 21 ad art. 429 CPP; Griesser in: Kommentar zur schweizerischen Strafprozessordnung, Zurigo/Basilea/Ginevra 2010, n. 2 ad art. 429 CPP; Wehrenberg/Bernhard in: Basler Kommentar, StPO, Basilea 2011, n. 6 ad art. 429 CPP; Mini, op. cit., n. 1 ad art. 429 CPP).
3.2.
Ha diritto all’indennità l’accusato che è stato totalmente o parzialmente prosciolto.
In precedenza, l’art. 317 CPP (Ti) stabiliva il diritto all’indennità solo in caso di assoluzione totale ma, negli anni, la giurisprudenza della Camera dei ricorsi penali aveva, comunque, esteso il diritto all’indennizzo, in alcuni casi, anche all’accusato solo parzialmente prosciolto (Mini, op. cit., n. 3 ad art. 429 CPP; CRP 60.2010.150 del 12 novembre 2010; CRP 60.2010.119 del 10 novembre 2010; CRP 60.2009.427 del 20 aprile 2010; CRP 60.2009.55 del 3 dicembre 2009; CRP 60.2002.106 del 5 febbraio 2008; CRP 60.2004.305 del 7 dicembre 2005; STF 1P.35/2006 del 7 marzo 2006 ).
Secondo quanto si legge nel Messaggio, in caso di proscioglimento parziale o di abbandono parziale del procedimento, per il calcolo del danno patito le spese non possono essere semplicemente suddivise proporzionalmente: occorre, invece, verificare se l’imputato ha diritto ad un’indennità e ad una riparazione del torto morale per i reati per i quali è stato assolto o per cui il procedimento è stato abbandonato (Messaggio, pag. 1231). Se è ammessa una riparazione per proscioglimento parziale, la stessa può essere compensata con le spese procedurali a carico dell’imputato e conseguenti alla parziale condanna, come peraltro espressamente previsto dall’art. 442 cpv. 4 CPP (fed) (Messaggio, pag. 1231; Mini, op. cit., n. 3 ad art. 429 CPP).
3.3.
L’imputato ha diritto ad un’indennità per le spese di patrocinio, ad un’indennità per il danno economico ed alla riparazione del torto morale conseguenti al procedimento penale.
Nel merito, agli art. 429 e segg. CPP (fed) si ritrovano molti dei principi generali finora applicati con gli art. 317 e segg. CPP (Ti), tutti peraltro mutuati dalle norme sulla responsabilità del CO (sentenza CRP 31.1.2011 pag. 3). Di principio, la giurisprudenza prolata sotto l’egida della norma precedentemente in vigore mantiene, pertanto, la sua validità.
a)
Per l’art. 429 cpv. 1 lett. a CPP (fed), l’imputato ha diritto al risarcimento delle spese sostenute ai fini di un adeguato esercizio dei suoi diritti procedurali.
Così come nella prassi ticinese relativa all’art. 317 CPP (Ti), anche secondo il nuovo diritto processuale penale svizzero lo Stato si assume le spese per un patrocinatore di fiducia soltanto se il patrocinio era necessario a causa della complessità del caso sotto il profilo materiale o giuridico e se il volume di lavoro, e di conseguenza l’onorario dell’avvocato, erano giustificati (Messaggio, pag. 1231; Mini, op. cit., n. 5 ad art. 429 CPP; Griesser, op. cit., n. 4 ad art. 429 CPP; Schmid, Praxiskommentar, n. 7 ad art. 429 CPP; Wehrenberg/Bernhard, op. cit., n. 13 ad art. 429 CPP; Riklin, Schweizerische Strafprozessordnung, Zurigo 2010, n. 3 ad art. 429 CPP).
Questa Corte non ritiene di doversi scostare dalla prassi della Camera dei ricorsi penali - sola autorità competente per pronunciarsi sulle istanze di indennizzo fino al 31 dicembre 2010 - che, nello stabilire l’importo delle spese di patrocinio da risarcire, verificava la conformità della nota d’onorario secondo il principio stabilito dall’art. 15a cpv. 2 LAvv, in vigore dall’1. gennaio 2008, disposizione che ha, peraltro, ripreso l’art. 8 TOA dopo l’abrogazione - con effetto a partire dal 1. gennaio 2008 - di tale normativa.
Giusta l’art. 15a cpv. 2 LAvv, per la determinazione dell’onorario l’avvocato ha riguardo alla complessità ed all’importanza del caso, al valore ed all’estensione della pratica, alla sua competenza professionale ed alla sua responsabilità, al tempo ed alla diligenza impiegati, alla situazione personale e patrimoniale delle parti, all’esito conseguito ed alla sua prevedibilità.
Questa Corte - in ragione di detta norma e anche in applicazione del nuovo diritto - ammette, quindi, onorari corrispondenti ad una regolare, ordinata e ragionevole conduzione del mandato, applicando criteri corrispondenti a quanto mediamente praticato, lasciando a carico del patrocinato la parte riconducibile ad una specifica scelta del patrocinatore.
In altre parole, l’onorario a tempo è stabilito prendendo quale parametro un avvocato sperimentato nel diritto penale, tenuto conto di un ragionevole margine di oscillazione connesso con le particolarità del caso
(CRP 60.2010.119 del 10 novembre 2010; 60.2010.189 del 12 novembre 2010).
A partire dal 2001, il Consiglio di moderazione, ribadendo il principio della remunerazione dipendente dalla complessità del caso, aveva fissato in fr. 250.- orari la remunerazione per i casi più semplici (erano fr. 200.- dal 1992 e fr. 220.- dal 1996), senza stabilire un limite massimo.
Nell’ambito delle istanze di indennità per ingiusto procedimento giusta gli art. 429 e segg. CPP (fed), la scrivente Corte - nel solco della costante giurisprudenza della CRP (approvata anche dal Tribunale federale in STF 6B_194/2008 dell’11 agosto 2008 consid. 3.3.2) - riconosce tale importo, anche dopo l’abrogazione della TOA, quale onorario minimo (Mizel/Rétornaz, op. cit., n. 35 ad art. 429 CPP; Wehrenberg/Bernhard, op. cit., n. 15 ad art. 429 CPP; Schmid, Praxiskommentar, n. 7 ad art. 429 CPP; Schmid, Handbuch, n. 1811, pag. 831).
Anche sulle spese, questa Corte si allinea alla giurisprudenza sviluppata dalla CRP che, fino al 31 dicembre 2010, riconosceva le spese effettive e necessarie cagionate dal procedimento penale, applicando - dopo la sua abolizione, per analogia - i principi di cui all’art. 3 TOA.
Tale norma prevedeva che, oltre agli onorari, l’avvocato ha diritto al rimborso di tutti gli esborsi e spese vive da lui sopportati nell’interesse o su richiesta del cliente o da questi cagionate, quali, in particolare, le note e fatture pagate a terzi ed a uffici pubblici per il cliente, le spese di trasferta, le spese di soggiorno, pernottamento e vitto fuori domicilio, le spese per l’uso dei servizi pubblici (posta, telefono, ecc.). Inoltre, sempre per la norma citata, l’avvocato ha diritto al rimborso degli importi seguenti: a) fino a fr. 50.- per la formazione e archiviazione dell’incarto; b) fr. 5.- per ogni pagina originale, compresa la copia per l’incarto, e fino a fr. 2.- per ogni copia, qualunque sia il metodo di riproduzione; c) fr. 1.- al km per le trasferte con la propria automobile (CRP 60.2010.119 del 10 novembre 2010).
In aggiunta, l’imputato ha diritto al risarcimento delle spese relative alla raccolta di prove necessarie, ad esempio una perizia di parte (Griesser, op. cit., n. 5 ad art. 429 CPP; Mizel/Rétornaz, op. cit., n. 39 ad art. 429 CPP; Riklin, op. cit., n. 3 ad art. 429 CPP), ad eccezione di perizie giuridiche (Schmid, Handbuch, n. 1812, pag. 832).
b)
Giusta l’art. 429 cpv. 1 lett. b CPP (fed), l’imputato deve essere risarcito per il danno economico risultante dalla partecipazione necessaria al procedimento.
Si tratta principalmente della perdita di salario o di guadagno subita a causa della carcerazione provvisoria o della partecipazione agli atti procedurali. Possono entrare in considerazione anche perdite di guadagno future, così come la perdita del posto di lavoro, pregiudizi alla carriera o danni alla salute conseguenti al procedimento penale, in particolare a seguito della carcerazione preventiva e/o di sicurezza (Schmid, Praxiskommentar, n. 8 ad art. 429 CPP; Mizel/Rétornaz, op. cit., n. 41 e segg. ad art. 429 CPP).
Possono essere fatte valere anche le spese di viaggio (Messaggio, pag. 1231; Riklin, op. cit., n. 3 ad art. 429 CP).
Con riferimento al risarcimento dei danni materiali, la giurisprudenza sviluppata dalla Camera dei ricorsi penali aveva inizialmente stabilito che i danni pecuniari da risarcire
“sono e non possono essere altri che quelli della perdita di guadagno e di occupazione”
(Rep. 1925, pag. 312), per poi successivamente confermare l’estensione interpretativa del danno pecuniario al
“danno patrimoniale materiale”
e cioè al lucrum cessans e al damnum emergens in nesso di causa ed effetto (Rep. 1988, pag. 422; 1985, pag. 406; 1973, pag. 214).
Perché sia indennizzabile, occorre che vi sia un nesso di causalità naturale ed adeguato tra il procedimento penale e il pregiudizio (Mini, op. cit., n. 5 ad art. 429 CPP).
Per la valutazione e l’estensione del danno sono applicabili, quale diritto suppletivo, gli art. 42 e segg. CO (Mizel/Rétornaz, op. cit., n. 41 ad art. 429 CPP; Wehrenberg/Bernhard, op. cit., n. 25 ad art. 429 CPP).
c)
Secondo l’art. 429 cpv. 1 lett. c CPP (fed), se a causa del procedimento ha subito lesioni particolarmente gravi dei suoi interessi personali ai sensi degli art. 28 cpv. 2 CC o 49 CO, l’imputato ha diritto ad una riparazione del torto morale. Questa è concessa regolarmente se l’imputato è stato posto in carcerazione preventiva o di sicurezza (Messaggio, pag. 1231).
L’accusato che non è stato oggetto di un provvedimento restrittivo della libertà personale può ottenere un’indennità per torto morale unicamente se prova - o rende almeno verosimile - che, a seguito dell’esecuzione di “
altri atti istruttori
” (per esempio perquisizioni, sequestri, richieste di informazioni, ecc.) o per il semplice fatto di essere stato oggetto di un procedimento penale, egli ha subito una grave violazione della sua personalità (Griesser, op. cit., n. 7 ad art. 429 CPP; Schmid, Praxiskommentar, n. 10 ad art. 429 CPP).
Lo Stato non è, infatti, tenuto al versamento di un’indennità per torto morale a tutti coloro che hanno subito un pregiudizio in ragione di un procedimento penale, ma soltanto a coloro che sono stati gravemente lesi nei loro diritti della personalità (Schmid, Praxiskommentar, n. 11 ad art. 429 CPP; Rep. 1998 n. 126 nota 5.3; CRP 60.2010.210 del 29 novembre 2010).
Quanto alla determinazione dell’ammontare dell’indennità, essa è lasciata al potere d’apprezzamento del giudice ed è stabilita in funzione della gravità della lesione alla personalità, conformemente agli art. 43, 44 e 49 CO (Griesser, op. cit., n. 7 ad art. 429 CPP; DTF 113 Ia 177 e rif.; 113 Ib 155; Rep. 1973, pag. 229).
L’art. 49 CO prevede che un’indennità è concessa nel caso in cui la gravità dell’offesa alla personalità lo giustifichi e questa non sia stata riparata in altro modo.
È necessario tenere conto delle circostanze del caso concreto, in particolare del pregiudizio recato all’integrità fisica, psichica o alla reputazione dell’accusato, della gravità dell’accusa, del numero di persone venute a conoscenza dei fatti, come pure della situazione familiare e professionale dell’accusato (decisione TF 1P.602/2003 del 23.2.2004; DTF 125 III 70, 269 e 412, 113 IV 93 e 112 Ib 446).
3.4.
Per l’art. 430 cpv. 1 CPP (fed), l’autorità penale può ridurre o non accordare l’indennizzo o la riparazione del torto morale se l’imputato ha provocato in modo illecito e colpevole l’apertura del procedimento penale o ne ha ostacolato lo svolgimento (lett. a), se l’accusatore privato è tenuto ad indennizzare l’imputato (lett. b) o le spese dell’imputato sono di esigua entità (lett. c).
Quanto alla lett. b della predetta norma, si osserva che l’art. 432 cpv. 1 CPP (fed) prevede che, se prevale nella causa, l’imputato ha diritto che l’accusatore privato lo indennizzi adeguatamente delle spese sostenute per far fronte alle istanze relative agli aspetti civili. Se l’imputato viene giudicato non colpevole in un procedimento promosso a querela di parte, il querelante, qualora per condotta temeraria o negligenza grave abbia causato l’apertura del procedimento o ne abbia intralciato lo svolgimento, o l’accusatore privato (pure macchiatosi di condotta temeraria o negligenza grave, non giustificandosi altrimenti la distinzione rispetto all’art. 432 cpv. 1 CPP (fed), cfr. Wehrenberg/Bernhard, op. cit., n. 16 ad art. 432 CPP) possono essere tenuti a rimborsargli le spese sostenute ai fini di un adeguato esercizio dei diritti procedurali (cpv. 2).
Come visto, l’indennizzo da parte dell’accusatore privato o del querelante priva l’imputato del diritto di chiedere allo Stato l’indennizzo del danno corrispondente (cfr. 430 cpv. 1 lett. b CPP; Mizel/Rétornaz, op. cit., n. 11 ad art. 432 CPP).
3.5.
Nella procedura di ricorso, l’indennizzo e la riparazione del torto morale possono essere ridotti se i presupposti della prevalenza nella causa sono stati creati soltanto nell’ambito della procedura di ricorso o se la decisione impugnata viene modificata soltanto riguardo ad aspetti non sostanziali (art. 430 cpv. 2 in combinazione con l’art. 428 cpv. 2 CPP).
4.
L’istante postula la rifusione della nota professionale del suo patrocinatore di fiducia di fr. 8'034.55, corrispondenti a fr. 7’875.- di onorario (31 ore e 30 minuti a fr. 250.-/ora), fr. 521.40 di spese e fr. 638.15 di IVA (doc. E), dedotti fr. 1'000.- già riconosciuti dalla CCRP per ripetibili (doc. D).
L’avvocato che patrocina l’istante ha assunto il mandato il 15 maggio 2007 e lo ha assistito durante l’inchiesta condotta dal Ministero pubblico, nella preparazione del processo, al dibattimento e in sede di ricorso per cassazione.
La tariffa oraria esposta non è censurabile, corrispondendo a quella minima.
Non può, invece, essere riconosciuto il dispendio orario indicato nella nota professionale inerente alla stesura dell’istanza 29 febbraio 2008 di restituzione in intero (pari a 2 ore), ritenuto come la stessa fosse irricevibile (Hauser/Schweri/Hartmann, Schweizerisches Strafprozessrecht, Basilea 2005, n. 15a ad § 108 e n. 5 ad § 109). Ritenuto che, per il resto, il dispendio orario indicato appare adeguato e viene ammesso così come esposto, si giustifica di riconoscere un onorario pari a 29 ore e 30 minuti a fr. 250.-/ora, per complessivi fr. 7'375.-.
Le spese esposte nella nota professionale non risultano tutte adeguate. Quelle riconosciute ammontano a fr. 344.50 e si compongono di fr. 50.- per l’apertura dell’incarto, fr. 10.- per gli scritti alla Pretura penale, fr. 5.- per lo scritto alla CCRP, fr. 15.- per le copie per conoscenza al cliente, fr. 3.- per la copia per conoscenza al patrocinatore della parte civile, fr. 70.- per il ricorso per cassazione, fr. 166.- per le fotocopie, e fr. 25.50 per spese postali.
Non si giustificano, invece, parte delle fotocopie del 25.10.2007 (fr. 6.-), le fotocopie del 10.1.2008 (complessivi fr. 8.-), le fotocopie del 30.1.2008 (fr. 36.-, la sentenza essendo stata personalmente intimata al condannato dal tribunale), la lettera 31.1.2008 alla Pretura penale (fr. 12.-, comprensivi delle spese postali e per fotocopie), parte delle fotocopie del 19.2.2008 (fr. 44.-, ritenute le rimanenti spese giustificate), parte delle ulteriori fotocopie del 19.2.2008 (fr. 2.-, ritenute le ulteriori spese giustificate), la fotocopia del 27.3.2008 (fr. 2.-) e parte delle fotocopie del 31.3.2008 (fr. 2.-). In parte esse non erano giustificate da una regolare, ordinata e ragionevole conduzione del mandato (quelle relative alle fotocopie del ricorso per cassazione eseguite in numero eccessivo) mentre per il resto non sono comprovate poiché nell’incarto relativo al procedimento penale non c’è traccia degli atti a cui si riferiscono.
Non vengono, infine, riconosciute le spese inerenti la stesura dell’istanza 29.2.2008 di restituzione in intero (complessivi fr. 63.50) poiché la stessa era manifestamente irricevibile (Hauser/Schweri/Hartmann, op. cit., n. 15a ad § 108 e n. 5 ad § 109).
L’IVA ammonta a fr. 586.70.
All’istante va, pertanto, risarcito a titolo di spese legali l’importo di fr. 7'306.20, già dedotto l’importo di fr. 1'000.- già accordato all’istante a titolo di ripetibili dall’allora CCRP con sentenza 1. febbraio 2010 (cfr. sentenza CCRP 1.2.2010 consid. 6 pag. 19).
5.
Non si giustifica, per il resto, di ridurre l’indennizzo ai sensi dell’art. 430 lett. a CPP (fed). Neppure si giustifica una riduzione in base all’art. 430 lett. b CPP (fed) in combinazione con l’art. 432 CPP (fed) ritenuto, da un lato, che l’istanza di risarcimento della LUdeS non ha occasionato spese particolari rispetto a quelle cagionate dall’istruzione dei fatti oggetto dell’inchiesta (cpv. 1; il rinvio della parte civile al competente foro civile per le pretese di corrispondente natura - proposto nel decreto di accusa - essendo cresciuto in giudicato incontestato e non essendo stato oggetto delle ulteriori fasi del procedimento) e, dall’altro, che non può essere sostenuto che la LUdeS abbia causato l’apertura del procedimento, rispettivamente ne abbia intralciato lo svolgimento per condotta temeraria o negligenza grave (cpv. 2).
L’indennizzo non va ridotto neanche in virtù dell’art. 430 cpv. 2 CPP (fed), l’imputato non avendo creato i presupposti della prevalenza nella causa soltanto nell’ambito della procedura di ricorso e la decisione impugnata essendo stata modificata su questioni sostanziali.
6. Spese
Per l’art. 22 cpv. 1 lett. d LTG, nei processi davanti alla Corte di appello e di revisione penale la tassa di giustizia è fissata tra fr. 500.- e fr. 100'000.-.
In concreto, la tassa di giustizia di fr. 500.- e le spese di fr. 50.-, per complessivi fr. 550.-, sono poste a carico del qui istante, parzialmente soccombente, in ragione di 1/10. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
def7db89-c744-53f9-8ee2-5ae3246b42e0 | in fatto
a.
Con decreto 24.9.2013 il procuratore pubblico ha posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale, RE 1, siccome ritenuto colpevole di: entrata e soggiorno illegale “
per essere entrato illegalmente in Svizzera il 9.06.2013 malgrado nei suoi confronti esiste un divieto d’entrata emanato dal Canton Ticino valido dal 9 ottobre 2009 al 31 dicembre 2099 e per aver soggiornato illegalmente a _ fino al 16 agosto 2013
”
. Ha proposto la sua condanna alla pena pecuniaria di 30 aliquote giornaliere da CHF 30.-- cadauna, corrispondenti a complessivi CHF 900.-- (sospendendo condizionalmente l’esecuzione della pena per un periodo di prova di 2 anni), al pagamento della multa di CHF 200.-- (con l’avvertenza che, in caso di mancato pagamento, la stessa sarà sostituita con una pena detentiva di 2 giorni) ed al pagamento della tassa di giustizia e delle spese giudiziarie. Non ha revocato il beneficio della liberazione condizionale concesso alla pena detentiva di 1 anno 4 mesi e 2 giorni, decretata nei suoi confronti dal Giudice dell’applicazione della pena il 7.5.2011, ma lo ha ammonito formalmente
ai sensi dell’art. 89 cpv. 2 CP (cfr. DA _, p. 1, AI 3, inc. MP _).
b.
Con scritto 3/4.10.2013 RE 1, per il tramite del suo patrocinatore - avv. PR 1 -, ha interposto formale opposizione al decreto di cui sopra, chiedendo nel contempo di essere posto al beneficio del “
gratuito patrocinio
”
(p. 2, AI 4).
c.
In data 17.10.2013 il procuratore pubblico ha confermato il decreto di accusa 24.9.2013 (DA _), trasmettendo gli atti del procedimento alla competente autorità e indicando nel contempo di non partecipare al dibattimento (doc. 1, inc. Pretura penale _).
d.
Con decreto 28.10.2013 il presidente della Pretura penale ha respinto l’istanza 3.10.2013 presentata da RE 1 nell’ambito dell’opposizione al decreto d’accusa di cui sopra, considerato che “
nell’evenienza concreta non sono certamente dati i presupposti della difesa obbligatoria, avendo oltretutto il Procuratore pubblico segnalato in data 7 ottobre 2013 di non essere intenzionato a presenziare al dibattimento
” e che “
in siffatte evenienze si è di fronte ad un caso bagatellare per il quale, non emergendo dall’incarto penale particolari problemi fattuali o giuridici, l’istante sembra in grado di far valere le sue (eventuali) ragioni davanti al giudice
” (p. 2, doc. 2).
e.
Con gravame 14/15.11.2013 RE 1 postula l’annullamento della decisione impugnata e la designazione dell’avv. PR 1 quale suo difensore d’ufficio a partire dal 3.10.2013.
Il reclamante, dopo aver ripreso i fatti e riferito circa le questioni amministrative legate all’istanza di riesame della decisione di divieto d’entrata (inoltrata il 23.8.2013 all’Ufficio federale della migrazione), ritiene il decreto impugnato “
in netto contrasto con la giurisprudenza della Corte di appello e revisione penale
”, mediante la quale si è ritenuto che “
anche in un procedimento vertente su un reato minore o bagatellare (...), a partire dall’avvio del procedimento dinanzi la Pretura penale, la necessità del patrocinio di un avvocato è data
” (reclamo 14/15.11.2013, p. 5-6).
Ritiene applicabile alla fattispecie l’art. 130 lit. b CPP, secondo cui la difesa è obbligatoria se l’imputato rischia di subire una pena detentiva superiore a un anno oppure una misura privativa della libertà, in quanto “
nella durata superiore a un anno vanno computate anche precedenti condanne sospese condizionalmente o residui di pena dopo una liberazione condizionale, se potenzialmente soggetti a revoca
” (reclamo 14/15.11.2013, p. 6).
Nel caso in esame RE 1 “
correva il rischio di vedersi revocare il beneficio della liberazione condizionale della pena rimanente di 1 anno 4 mesi e 2 giorni
”, motivo per cui la nomina di un difensore d’ufficio si imporrebbe (reclamo 14/15.11.2013, p. 6).
Afferma poi, citando l’art. 132 cpv. 2 CPP, che “
anche un caso bagatellare potrebbe comportare la necessità di essere patrocinati. Nella fattispecie, le circostanze particolari che imporrebbero una difesa d’ufficio sono ampiamente date, soprattutto in considerazione delle ripercussioni sulla parallela procedura amministrativa di riesame della decisione del divieto di entrata
” (reclamo 14/15.11.2013, p. 7).
Sostiene che la complessità del caso in esame emergerebbe anche sotto un altro profilo, segnatamente l’inutilizzabilità del verbale di interrogatorio 16.8.2013 del reclamante dinanzi alla polizia cantonale. Gli obblighi di informazione previsti all’ art. 158 CP sarebbero stati - in concreto - solo parzialmente ossequiati dall’agente interrogante, nella misura in cui quest’ultimo si sarebbe “
limitato ad indicare al qui reclamante il suo diritto di designare, a sue spese, un avvocato di fiducia. Al signor RE 1 non è stata invece indicata l’esistenza del suo sacrosanto diritto di chiedere, se del caso, un avvocato d’ufficio, trascurando in tal modo l’obbligo dell’art. 158 cpv. I lett. c CPP
” (reclamo 14/15.11.2013, p. 8).
In siffatte circostanze il reclamante non sarebbe stato posto in grado di comprendere a cosa concretamente rinunciava “
(ovvero al diritto di chiedere al Procuratore pubblico un difensore d’ufficio, decisione impugnabile entro 10 giorni davanti alla CRP). Ne consegue che le indicazioni di cui all’interrogatorio 16 agosto 2013, soltanto parziali, violano l’art. 158 cpv. I lett. c CPP
” (reclamo 14/15.11.2013, p. 9). Da tale circostanza ne discende che il citato verbale non potrebbe essere utilizzato come mezzo di prova e che quindi la complessità del caso appare pertanto manifesta.
RE 1 fa infine riferimento alla situazione amministrativa legata all’istanza di riesame della decisione di divieto di entrata, per ribadire la complessità fattuale e giuridica, con la conseguenza che – nella fattispecie – non si può in nessun caso parlare di “caso bagatellare”, contrariamente a quanto indicato nel decreto impugnato.
Una decisione penale di condanna avrebbe inoltre degli effetti nefasti sulla citata domanda di riesame pendente.
Per tutti questi motivi una difesa d’ufficio sarebbe necessaria per il reclamante.
f.
Delle osservazioni, della replica e dell’ulteriore scritto di RE 1 si dirà, se necessario, nei considerandi successivi. | in diritto
1.
1.1.
Giusta l’art. 393 cpv. 1 lit. b CPP il reclamo può essere interposto contro i decreti e le ordinanze, nonché gli atti procedurali dei tribunali di primo grado; sono eccettuate le decisioni ordinatorie
.
Con il gravame si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l'eccesso e l'abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l'accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l'inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato entro dieci giorni, per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta e all’art. 385 CPP per la motivazione.
In particolare il reclamo deve indicare i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP)
.
La prevalenza dei principi della verità materiale e della legalità impone alla giurisdizione di reclamo, investita di un gravame, di decidere indipendentemente dalle conclusioni o dalle motivazioni addotte dalle parti, applicando il diritto penale, che deve imporsi d’ufficio (Commentario CPP – M. MINI, art. 391 CPP n. 2; cfr., anche, sentenze TF 1B_460/2013 del 22.1.2014 consid. 3.1.; 1B_40/2013 del 26.2.2013 consid. 3.2.; 1B_768/2012 del 15.1.2013 consid. 2.1.).
1.2.
Il gravame, inoltrato il 14/15.11.2013, contro il decreto 28.10.2013 del presidente della Pretura penale con cui ha respinto l’istanza di nomina di un difensore d’ufficio, è tempestivo e proponibile
.
Le esigenze di forma e di motivazione sono rispettate.
RE 1, quale destinatario della decisione impugnata
, è pacificamente legittimato a reclamare ex art. 382 cpv. 1 CPP avendo un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica del giudizio che non gli ha concesso il postulato difensore d’ufficio nel procedimento penale.
Il reclamo è – di conseguenza – ricevibile in ordine
.
2.
2.1.
Giusta
l’art 132 cpv. 1 CPP, chi dirige il dibattimento dispone una difesa d’ufficio se:
a. in caso di difesa obbligatoria:
1. nonostante ingiunzione, l’imputato non designa un difensore di fiducia;
2. il mandato è revocato al difensore di fiducia oppure questi lo rimette e l’imputato non designa un nuovo difensore entro il termine impartito;
b. l’imputato è sprovvisto dei mezzi necessari e una sua difesa s’impone per tutelare i suoi interessi.
2.2.
La difesa obbligatoria è disciplinata all’art. 130 CPP. Questa disposizione impone (“deve”) una difesa nei casi in cui:
a.
la carcerazione preventiva, compreso un arresto provvisorio, è durata più di dieci giorni;
b.
l’imputato rischia di subire una pena detentiva superiore ad un anno oppure una misura privativa della libertà;
c. a causa del suo stato fisico o mentale o per altri motivi non è in grado di tutelare sufficientemente i suoi interessi processuali e il rappresentante legale non è in grado di farlo in sua vece
;
d.
il pubblico ministero interviene personalmente dinanzi al tribunale di primo grado o al tribunale d’appello;
e. si procede con rito abbreviato (art. 358-362 CPP).
Se è dato una caso di difesa obbligatoria, si applica l’art. 132 cpv. 1 lit. a CPP, ad esclusione della lit. b. È perciò indifferente la situazione finanziaria dell’imputato, ed in particolare se sia o meno sprovvisto dei mezzi necessari per la sua difesa.
3.
3.1.
Nella concreta fattispecie (decreto d’accusa per l’ipotesi di entrata e soggiorno illegale ex art. 115 cpv. 1 lit. a-b, 5 lit. d LStr
), il presidente della Pretura penale ha ritenuto che non siano dati i presupposti della difesa obbligatoria, ai sensi di quanto sopra esposto, e che si tratterebbe di un caso bagatellare.
Di diverso avviso il reclamante (cfr. cons. e) che ritiene necessaria la nomina di un difensore d’ufficio in applicazione dell’art. 130 lit. b CPP, in quanto nella durata della pena superiore ad un anno andrebbero computate anche precedenti condanne sospese condizionalmente o residui di pena dopo una liberazione condizionale, se potenzialmente soggetti a revoca.
3.2.
Ai sensi dell’art. 130 lit. b CPP l’imputato dev’essere difeso se rischia di subire una pena detentiva superiore a un anno oppure una misura privativa della libertà.
La difesa obbligatoria dev’essere ordinata anche qualora la pena prevista appaia di una certa gravità. Concretamente è sufficiente, per la direzione della procedura o il tribunale competente, valutare che la pena privativa della libertà che minaccia concretamente l’imputato possa superare la durata di un anno, o che una misura privativa della libertà ai sensi degli art. 59 ss. CP possa essere ordinata. In altri termini ci si riferirà alla pena o alla misura ragionevolmente prevedibile e non ad una pena astratta (BSK StPO -
N. RUCKSTUHL, art. 130 CPP n. 18).
La durata di un anno, prevista dalla disposizione di cui sopra, è comprensiva di tutte le pene, segnatamente quelle da pronunciare e le possibili revoche di pene precedenti sospese condizionalmente (N. SCHMID, Schweizerische StPO, Praxiskommentar, art. 130 CPP n. 8; Commentario CPP – M. GALLIANI / L. MARCELLINI, art. 130 CPP n. 12; DTF 129 I 281).
4.
4.1.
Nella fattispecie in esame, dal decreto di accusa 24.9.2013 (DA _), risulta – tra l’altro – che il procuratore pubblico ha proposto di non revocare il beneficio della liberazione condizionale concesso alla pena detentiva di 1 anno 4 mesi e 2 giorni, decretata nei confronti di RE 1 dal Giudice dell’applicazione della pena in data 7.5.2011. Il magistrato inquirente ha proposto il suo ammonimento formale ai sensi dell’art. 89 cpv. 2 CP (cfr. p.to 4, p. 2, DA _).
A seguito dell’opposizione 3/4.10.2013 inoltrata dal qui reclamante, e dalla conseguente conferma del DA _ in data 17.10.2013 da parte del procuratore pubblico, la competenza a statuire è passata al tribunale di primo grado.
4.2.
Ai sensi dell’art. 356 cpv. 1
in
fine
il decreto d’accusa è considerato come atto d’accusa. Ciò significa che il tribunale di primo grado è vincolato ai fatti descritti nel decreto di accusa, ma non alla relativa qualifica giuridica operata dal Ministero pubblico (cfr. art. 350 cpv. 1 CPP). Il Tribunale di primo grado, di conseguenza, statuisce liberamente sulla questione dell’applicazione del diritto.
Ma vi è di più. Il Tribunale di merito non è neppure vincolato alle infrazioni ritenute dal Ministero pubblico nel decreto di accusa, né alla pena inflitta dal magistrato inquirente all’imputato, in quanto il divieto della
reformatio in pejus
non si applica alla procedura di giudizio a seguito di opposizione ad un decreto d’accusa emanato dal procuratore pubblico (PC – CPP, art. 356 CPP n. 2).
4.3.
In siffatte circostanze, nel caso in esame, RE 1 corre il reale rischio di vedersi revocare, dalla Pretura penale, il beneficio della liberazione condizionale concesso alla pena (superiore ad un anno) precedentemente inflittagli, considerato che il Tribunale di primo grado non è vincolato – come detto – alla proposta di condanna decretata dal procuratore pubblico nel DA _.
Considerato quindi quanto esposto al considerando 3.2., nella durata della pena superiore ad un anno che rischia di subire RE 1, ex art. 130 lit. b CPP, va quindi computata anche la precedente condanna sospesa condizionalmente (inflittagli il 7.5.2011).
In tale evenienza l’art. 130 lit. b CPP trova applicazione nella fattispecie, che va quindi ritenuta un caso di difesa obbligatoria, in cui la designazione di un difensore d’ufficio si impone.
5.
In merito alla censure relative alle formalità di cui all’art. 158 CPP, asseritamente non ossequiate nell’ambito del verbale di interrogatorio 16.8.2013 dell’imputato dinnanzi alla polizia cantonale (cfr. reclamo14/15.11.2013, p. 7-9), si rileva quanto segue.
Dal citato verbale risulta testualmente che “
l’imputato prende atto: (...) che ha il diritto di designare a sue spese un avvocato di fiducia; che, se sono dati gli estremi di una difesa obbligatoria ed è sprovvisto di un difensore di fiducia, oppure se è sprovvisto dei mezzi necessari e la sua difesa s’impone, ha diritto alla designazione di un difensore d’ufficio da parte di chi dirige la procedura (Procuratore Pubblico); (...)
” (verbale di interrogatorio 16.8.2013, p. 1, in Rapporto per infrazione alla Legge federale sugli stranieri 20.8.2013, AI 1).
La formalità di cui all’art. 158 cpv. 1 lit. c CPP, secondo cui all’inizio del primo interrogatorio la polizia o il pubblico ministero informano l’imputato in una lingua a lui comprensibile che ha il diritto di designare un difensore o di chiedere se del caso un difensore d’ufficio, sono state rispettate nel caso concreto.
L’agente interrogante ha del resto anche indicato che la decisione circa la designazione di un difensore d’ufficio spetta a chi dirige la procedura, segnatamente al procuratore pubblico.
Non si vede in cosa la disposizione sopra menzionata non sarebbe stata rispettata, è del resto proprio la norma legale che prescrive che l’imputato ha il diritto di designare un difensore o di chiedere “
se del caso
” (riferito all’art. 132 ss. CPP) un difensore d’ufficio.
Vero è che il magistrato inquirente avrebbe dovuto valutare d’acchito la complessità della fattispecie, per giungere alla conclusione che si tratta di un caso di difesa obbligatoria (cfr. cons. 4.3.); tuttavia, anche nei casi di cui all’art. 130 CPP, in principio non vi è difesa obbligatoria per le audizioni dinanzi alla polizia né prima del primo interrogatorio esperito dal Ministero pubblico, ed in ogni caso prima dell’apertura dell’istruzione (PC – CPP, art. 158 CPP n. 15).
La questione non merita quindi ulteriori approfondimenti.
6.
Il gravame è accolto.
Non si prelevano tassa di giustizia e spese.
Lo Stato della Repubblica e del Cantone Ticino rifonderà RE 1 adeguate ripetibili. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,014 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
df322516-40bd-57db-8c0d-6920acde45a1 | in fatto ed in diritto
1.
Con decreto di accusa 3.03.2009 il procuratore pubblico Moreno Capella ha posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale _ siccome ritenuto autore colpevole di infrazione alla LF sulla protezione delle acque
"
per avere, in data _, a _, presso la pista di pattinaggio _, per il tramite di _ e _, intenzionalmente introdotto nelle acque sostanze atte ad inquinarle (...)
",
ed ha proposto la sua condanna alla pena pecuniaria di complessivi CHF 1'200.--, corrispondenti a trenta aliquote da CHF 40.-- ciascuna, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, alla multa di CHF 700.--, al pagamento della tassa di giustizia e delle spese, rinviando la parte civile (ai sensi del CPP TI), la _, al competente foro per le pretese di natura civile, e meglio come descritto nel DA _.
Lo stesso giorno il procuratore pubblico ha pure posto in stato di accusa dinanzi alla Pretura penale _ siccome ritenuto autore colpevole di infrazione alla LF sulla protezione delle acque
"
per avere, in data _, a _, presso la pista di pattinaggio _, intenzionalmente introdotto nelle acque sostanze atte ad inquinarle (...)
",
ed ha proposto la sua condanna alla pena pecuniaria di complessivi CHF 500.--, corrispondenti a dieci aliquote da CHF 50.-- ciascuna, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, alla multa di CHF 500.--, al pagamento della tassa di giustizia e delle spese, rinviando la parte civile (ai sensi del CPP TI), la _, al competente foro per le pretese di natura civile, e meglio come descritto nel DA _.
Il 6/9.03.2009 rispettivamente il 9/10.03.2009 gli accusati hanno inoltrato opposizione al relativo decreto d'accusa.
Il 12.08.2009 il presidente della Pretura penale ha riunito i summenzionati procedimenti penali, poiché alla base delle imputazioni vi erano i medesimi fatti.
Con giudizio 14.01.2010 il presidente della Pretura penale ha confermato l’imputazione e la proposta di pena del procuratore pubblico a carico di _. L’accusato è stato inoltre condannato a versare alla parte civile (lo _) l’importo di CHF 12'782.--, rinviandola al competente foro civile per le ulteriori pretese.
Ha, per contro, prosciolto dall’imputazione _ per i fatti di cui al DA _ (inc. _).
Adita da _, con sentenza 6.08.2010 la (allora) Corte di cassazione e di revisione penale ha respinto il suo ricorso (inc. _).
Con sentenza _ il Tribunale federale ha respinto il ricorso presentato dall’imputato (decisione TF _ del _).
2.
Con la presente istanza – emendata su richiesta di questa Corte il
5/6.02.2015
– la IS 1 chiede la trasmissione dell’incarto _
della Pretura penale
, nel frattempo archiviato, ai fini dell’istruttoria della causa civile di cui all’incarto _ promossa in data 19/22.04.2013 da _, _ (patr. da: avv. _, _), contro _, _, _, _, _, _, _, _, _ (tutti patr. da: avv. _, _), mediante la quale parte attrice ha domandato il risarcimento di presunti danni subiti (ndr. il cui importo non è stato precisato)
"
(...) in relazione alle conseguenze provocate dalle precedenti decisioni penali che l’attore definisce “frutto di uno spiacevole errore giudiziario”
"
(scritto di emendamento 9/11.02.2015, doc. CRP 5). A mente del pretore sarebbe necessario procedere alla ricostruzione della vicenda (i fatti accaduti il 18.08.2008) sotto tutti gli aspetti.
3.
L’art. 62 cpv. 4 della Legge sull’organizzazione giudiziaria (LOG), in vigore dall’1.01.2011, che ha nella sostanza ripreso il testo del previgente art. 27 CPP TI, con riferimento anche alla giurisprudenza del Tribunale federale (cfr. DTF 110 Ia 83; 95 I 108), stabilisce che: "
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
".
Come ricordato dalla prassi di questa Corte, in caso di richiesta da parte di autorità giudiziarie tendente ad ottenere documenti di un incarto penale, la giurisprudenza ammette la richiesta se:
(i) si riferisce a procedimenti ancora pendenti presso l'autorità richiedente;
(ii) è compatibile con il codice di rito applicabile a quel procedimento;
(ii) è formulata dal titolare dell’autorità giudiziaria richiedente.
Inoltre deve essere dato un legame di pertinenza dell’incarto richiamato con quello richiamante.
4.
Nella fattispecie in esame – visti i motivi addotti nella presente richiesta, il contenuto e l’esito dell’incarto penale _ qui richiamato, nonché l’oggetto della vertenza civile – appare certamente data una connessione tra la causa civile di cui all’incarto _ pendente presso la Pretura istante e il summenzionato procedimento penale, nel frattempo archiviato.
_, condannato in sede penale, è ora parte attrice in sede civile intenzionato ad ottenere un risarcimento dei danni subiti in relazione ai fatti accaduti quel giorno (l’inquinamento delle acque con la moria di almeno 4'000 pesci). Il procedimento civile trae dunque le sue origini da quello penale, poiché alla base di entrambi vi è la medesima fattispecie. Gli atti istruttori dell’incarto penale richiamato (l’incarto _ della Pretura penale) potrebbero essere potenzialmente utili ai fini dell’istruttoria e del giudizio civile, e ciò per avere anche un quadro più completo della fattispecie.
In casu è quindi adempiuto un interesse giuridico legittimo ai sensi dell’art. 62 cpv. 4 LOG.
Di conseguenza l’incarto penale _ (una cartelletta bianca) viene trasmesso, in originale, alla Pretura istante unitamente alla presente decisione, con l’obbligo di restituirlo direttamente alla Pretura penale, al più tardi, a procedimento civile concluso.
Per contro non viene trasmesso l’incarto penale _ inerente a _ (che non è stato richiamato in sede civile).
5.
L’istanza è accolta ai sensi del precedente considerando. La tassa di giustizia, contenuta al minimo, e le spese sono poste a carico della Pretura istante, che a sua volta le addosserà alle parti in base alle norme del CPC. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,015 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
df4f70ec-7d9c-5f9d-bd26-09c576d1e54a | in fatto ed in diritto
che nell’ambito del procedimento penale a carico dell’avv. RE 1, con scritto 15.2.2011 il magistrato inquirente, oltre a trasmettergli copia di alcuni atti istruttori come da lui richiesto, gli ha pure comunicato: “
(...) In considerazione del fatto che l’Avv. _ mi ha informato di non più patrocinarLa e ritenuto che nel caso di specie trattasi di difesa obbligatoria, La invito a comunicarmi entro il 25 febbraio 2011 il nominativo del Suo difensore di fiducia. In difetto di una Sua comunicazione in tal senso provvederò, in ossequio all’art. 132 cpv. 1 lett. a cifra 2 CPP, a nominarLe un difensore d’ufficio
” (scritto 15.2.2011, doc. 1a);
che con reclamo 18/21.2.2011 l’avv. RE 1 chiede l’an-nullamento della “
decisione / atto procedurale di data 15 febbraio 2011 (...) per carenza di motivazione
”, in quanto nel caso concreto non sarebbero sostanziati i motivi per i quali il procuratore pubblico ritiene che siano dati gli estremi di una difesa obbligatoria (reclamo 18/21.2.2011, p. 2, doc. 1);
che lo scritto 15.2.2011 del magistrato inquirente, benché formulato come invito e riferito all’art. 132 cpv. 1 lit. a cifra 2 CPP, contiene un’ingiunzione, così come - invero - espressamente descritto alla cifra 1 del medesimo disposto di legge;
che l’ingiunzione (ted.
Aufforderung
, fr.
invitation
) giusta l’art. 132 cpv. 1 lit. a cifra 1 CPP non è equiparabile ad una decisione (ai sensi dell’art. 80 CPP) o ad un atto procedurale, in quanto alla persona interessata viene prospettata la necessità di scegliere un difensore da parte sua o da parte del magistrato inquirente, che ritiene a prima vista dati i presupposti per una difesa obbligatoria. Non trattandosi di un atto tale, da solo, da definire in maniera vincolante un diritto o un dovere dell’interessato, il reclamo ai sensi degli art. 393 ss. CPP contro un’ingiunzione non è di principio ammissibile;
che al contrario è una questione di diritto stabilire se siano adempiuti i presupposti di una difesa obbligatoria, con riferimento ai motivi esaustivamente elencati all’art. 130 CPP. Nel determinarla, il magistrato inquirente si trova in rapporto autoritativo rispetto all’interessato, decide su una questione concretamente definita e che riguarda solo il destinatario, applica presupposti definiti dal CPP e stabilisce in maniera vincolante un dovere dell’interessato;
che conseguentemente la decisione riguardo all’obbligatorietà della difesa deve essere motivata e contro di essa deve essere ammissibile il reclamo;
che per evidenti motivi di economia di procedura e di celerità, è opportuno riunire in un’unica decisione l’obbligatorietà della difesa e la designazione della persona del difensore;
che di regola quindi lo scritto di ingiunzione deve prospettare la possibilità che sia dato un caso di difesa obbligatoria e contenere l’indicazione che, in caso di mancata nomina di un difensore da parte dell’imputato, il procuratore pubblico si determinerà, in ossequio agli art. 130 e 132 cpv. 1 lit. a cifra 2 CPP, a stabilire - con due dispositivi diversi - se la difesa sia obbligatoria o meno e, se del caso, contestualmente a designare la persona del difensore d’ufficio;
che quest’ultima decisione sarà impugnabile indicando, nei rimedi di diritto, la possibilità di inoltrare reclamo sia contro l’obbligatorietà della difesa, sia contro il patrocinatore designato;
che in tal modo, la persona destinataria dell’ingiunzione può (anche) prendere posizione sulla stessa (eventualmente contestando trattarsi di un caso di difesa obbligatoria, esercitando in tal modo il proprio diritto di essere sentito) e successivamente, alla ricezione della decisione di obbligatorietà e di designazione, impugnare la stessa (esercitando il proprio diritto di reclamo);
che ciò vale anche nel caso concreto del qui reclamante;
che in conclusione il reclamo è irricevibile e che, vista la particolarità della fattispecie, si prescinde dal prelevare tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
df542ae3-6d21-5b76-94aa-586724e5b30d | in fatto: A.
Il 19 febbraio 2007 la polizia cantonale dei _ ha effettuato un controllo della velocità mediante inseguimento con lo strumento di misura “ProVida” 2000, Metas 11706” montato sulla vettura BMW 330, targata . Tale controllo, eseguito sulla semiautostrada A13 in direzione sud tra il cavalcavia in zona _ e il campo sportivo di _ su un tratto di 1515 metri e per una durata di 40.99 secondi ha permesso di accertare che RI 1, al volante dell’autofurgone Fiat Ducato targato , circolava a una velocità di 133.05 km/h. Nel punto di misurazione, la strada nazionale A13 è formata da quattro corsie di marcia, due in direzione nord e due in direzione sud, separate centralmente da un guidovia metallico e la velocità massima consentita è di 80 k/m (cfr. rapporto di polizia del 28 febbraio 2007, act. 1). Dedotto il margine di tolleranza la velocità punibile era di 122 km/h.
Il 2 marzo successivo, la Procura pubblica dei _ ha ritornato l’incarto alla polizia grigionese, con l’invito a trasmetterlo al Ministero pubblico del Cantone Ticino, l’infrazione essendo stata constatata su territorio ticinese (act. 1 ultimo foglio).
B.
Con decreto di accusa del 4 giugno 2007 il Procuratore pubblico ha ritenuto RI 1 autore colpevole di grave infrazione alle norme della circolazione per avere violato le norme medesima cagionando un serio pericolo per la sicurezza altrui, in particolare per avere circolato con l’autofurgone Fiat targato alla velocità di 122 km/h (dedotto il margine di tolleranza) accertata dalla Polizia mediante apparecchio radar, malgrado il vigente limite di 80 km/h. Egli ne ha perciò proposto la condanna alla pena pecuniaria di 30 aliquote giornaliere da fr. 70.– cadauna, corrispondente a fr. 2
100.–, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 4 anni, e a una multa di fr. 700.–, ritenuto che in caso di mancato pagamento, essa sarà sostituita con un pena detentiva di 7 giorni (art. 106 cpv. 2 CP). Ha inoltre proposto la revoca del beneficio della sospensione condizionale concesso alla pena detentiva di 3 giorni, ai sensi del codice penale previgente, decretata nei suoi confronti dalla Pretura penale il 16 marzo 2006 (art. 46 cpv. 1 CP). Al decreto di accusa RI 1 ha sollevato opposizione.
C.
Statuendo sull’opposizione, con sentenza del 4 ottobre 2007 il presidente della Pretura penale ha riconosciuto RI 1 autore colpevole del reato ascrittogli, condannandolo in applicazione dell’art. 46 cpv. 1 CP a una pena unica di 33 aliquote giornaliere di fr. 60.– cadauna, per un totale di fr. 1
980.–, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 4 anni, limitatamente a 30 aliquote giornaliere, con l’avvertenza che in caso di mancato pagamento la pena pecuniaria di 3 aliquote giornaliere (complessivi fr. 180.–) sarà sostituita da una pena detentiva, ritenuto che un’aliquota giornaliera corrisponde a un giorno di pena detentiva (art. 36 cpv. 1 CP). Egli lo ha inoltre condannato a una multa di fr. 500.–, con l’avvertenza che in caso di mancato pagamento la pena detentiva sostituiva è fissata in 5 giorni (art. 106 cpv. 2 CP).
Al dibattimento, ha ricordato il presidente della Pretura penale, RI 1 non ha contestato i fatti, ammessi peraltro in occasione della sua audizione davanti alla Polizia grigionese, ancorché giustificando il suo agire con la pressione alla quale lo sottopone il datore di lavoro (era infatti in viaggio con il furgone della ditta) ed asserendo di avere comunque compreso che siffatto comportamento non è corretto ed impegnandosi a non ricadere nello stesso; la difesa, ha puntualizzato il giudice, ha tuttavia contestato la validità del decreto di accusa, in quanto fondato su un accertamento di polizia illegale, perché effettuato in violazione del principio della territorialità, segnatamente in difetto di una norma legale che glielo consenta. Il primo giudice ha però respinto l’eccezione, richiamando l’art. 57
a
LCStr (corrispondente all’originario art. 57
bis
LCStr) e la Convenzione tra lo Stato del Cantone Ticino e lo Stato del Cantone Grigioni del 13 febbraio 1970, seguito dalla relativa formale ratifica, con la quale, tra l’altro, agli agenti della Polizia cantonale dei Grigioni addetti alla polizia autostradale vengono attribuite le competenze, che spetterebbero agli agenti della polizia del Canton Ticino, nell’espli– cazione del servizio di polizia della circolazione sulla strada nazionale N13 (ora A13) in territorio del Cantone Ticino sentenza, pag. 4–5).
C.
Contro tale sentenza, RI 1 ha inoltrato l’8 ottobre 2007 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi scritti del gravame, presentati il 5 novembre successivo, egli chiede l’annullamento della sentenza impugnata.
Con osservazioni del 13 novembre 2007 il Procuratore pubblico ha chiesto la reiezione del ricorso. | Considerando
In diritto: 1.
Il ricorrente eccepisce di nuovo che il procedimento penale è conseguente a un illegale accertamento compiuto dalla polizia cantonale grigionese in territorio ticinese in violazione del principio di territorialità e, quindi, di legalità. Nel caso in esame, assevera il ricorrente, gli agenti grigionesi sono intervenuti segnalando un eccesso di velocità costitutivo di una messa in pericolo astratta della circolazione. Gli stessi agenti lo hanno fermato, gli hanno materialmente ritirato la patente e hanno segnalato il caso al Ministero pubblico ticinese, che ha poi provveduto ad emanare l’impugnato decreto di accusa. È fuori dubbio, fa valere il ricorrente, che l’intervento della Polizia grigionese ha comportato importanti restrizioni delle libertà personali dell’accusato; limitazioni che, secondo il ricorrente, solo una chiara base legale potrebbe giustificare. Ebbene, rileva l’accusato, né l’art. 57
a
LCStr, né tanto meno la Convenzione citata dal primo giudice soddisferebbero tale requisito. L’art. 57
a
LCStr, entrato in vigore il 1° febbraio 1991 (
recte:
l’11 settembre 1967; v. RS n. 77 ad art. 57
a
LCStr) in sostituzione dell’originario art. 57
bis
LCStr (che avrebbe dovuto anch’esso essere adottato nel 1967), è solo una norma quadro, in virtù della quale i Cantoni possono fissare eventuali aree di competenza extra–territoriale; esso non costituisce perciò evidentemente di per sé stesso una base legale sufficiente per giustificare l’intervento della polizia di un Cantone sul suolo dell’altro cantone. Del resto, obietta il ricorrente, si desume che i cantoni devono accordarsi circa i reciproci settori di competenza, in deroga al principio della territorialità, ritenuto che in mancanza di accordi validi, spetta al Consiglio federale prendere le necessarie misure. Orbene, prosegue l’accusato, quando egli si era informato circa l’esistenza di disposti che permettessero alla Polizia grigionese di operare su suolo ticinese, non ha trovato alcuna convenzione in tal senso pubblicata tra le pubblicazioni ufficiali. Tanto che lo stesso primo giudice, salvo errore, di fronte all’ec-cezione di incompetenza territoriale sollevata al dibattimento, aveva dovuto all’ultimo momento, addirittura in camera di consiglio, ricorrere alla collaborazione dell’Ufficio giuridico della Sezione delle circolazione per ottenere lumi e, in particolare, per accedere alla Convenzione, mai pubblicata fra le normative grigionesi o ticinesi, né in forma elettronica, né in quella cartacea. Tale Ufficio, soggiunge il ricorrente, di fronte alla richiesta del difensore di volere trasmettere copia della predetta Convenzione, ha risposto il 18 ottobre 2007 di non essere autorizzato a farlo, invitando l’istante a rivolgersi alla Cancelleria dello Stato (v. annesso al ricorso). Sennonché, rileva lo stesso ricorrente, la Cancelleria dello Stato, contattata dal Centro di legislazione cantonale il 30 ottobre 2007, ha affermato di non disporre di tale accordo, rinviando l’istante alla Sezione della circolazione di Camorino. Grazie all’iniziativa del centro di legislazione cantonale, egli è finalmente riuscito ad ottenere il testo di una Convenzione tra lo Stato del Cantone Ticino e lo Stato del Cantone Grigioni “concernente i servizi di manutenzione e di polizia sulla strada nazionale N13”. Tale esemplare, egli obietta, non è tuttavia sottoscritto e reca nella prima pagina il timbro 2 dicembre 1987 (v. documentazione annessa al ricorso). Ciò posto, secondo il ricorrente, bisognerebbe concludere che la Convenzione, alla quale il primo giudice sembra attribuire il valore di chiara e sufficiente base legale per l’intervento della Polizia grigionese su suolo ticinese, in realtà non costituirebbe base legale, mancando della necessaria pubblicità o quanto meno accessibilità alla consultazione pubblica e non si saprebbe nemmeno se essa è ancora in vigore; per tacere del fatto che nemmeno è dato di sapere a quando risalgono esattamente la firma e la ratifica dell’accordo. Nel testo della Convenzione, puntualizza il ricorrente, si parla dipoi di strada nazionale N13 e, quindi, di una situazione obsoleta, visto che lo stesso presidente della Pretura penale ha corretto tale specificazione con “A13” (sentenza, pag. 4), superando però i limiti della legalità. Comunque sia, sarebbe stato leso il suo diritto di essere sentito, avendo egli scoperto l’esistenza della Convenzione citata in sentenza solo al momento in cui sono state esposte oralmente le motivazioni della condanna.
2.
Nella misura in cui il ricorrente lamenta la violazione del diritto di essere sentito per avere appreso solo in occasione dell’esito del dibattimento dell’esistenza della citata Convenzione, il ricorrente muove un’obiezione pretestuosa. Difeso da una giurista, l’accusato doveva predisporsi per ogni emergenza, segnatamente per dimostrare la pretesa assenza di una base legale, che legittimava la polizia grigionese a rilevare l’infrazione all’origine del decreto di accusa emanato nei suoi confronti, specie se si considera che il suo difensore ha riconosciuto che la polizia grigionese gli aveva comunque indicato la convenzione, che egli non ha tuttavia considerato sufficiente (sentenza, pag. 4 in alto). Il che consente di ritenere che il difensore non è stato perciò colto da quell’effetto sorpresa conclamato nel gravame. Certo, suscita interrogativi il fatto che né negli atti del processo, né nell’incarto inviato dalla Pretura a questa Corte, figuri la Convenzione citata in sentenza, circostanza spiacevole alla quale questa Corte ha supplito facendo pervenire il 31 agosto 2008 via
fax
la stessa Convenzione, che risulta sottoscritta dai rappresentanti dai rispettivi Cantoni il 13 febbraio 1970, per poi essere ratificata dai rispettivi Consigli di Stato il 18 febbraio e il 3 marzo 1970. Convenzione che, giova rilevare, è identica a quella annessa al ricorso, ancorché mancante – senza che sia stata fornita una spiegazione – delle pagine 2, 4, 6 (la più importante), e 8 e delle firme dei contraenti. Perciò, comunque sia, per lo meno davanti a questa Corte il ricorrente era senz’altro in grado di difendersi di fronte alla pretesa novità costituita dall’inaspettata applicazione della citata Convenzione da parte del primo giudice.
3.
Secondo l’art. 57
a
LCStr, il cui marginale recita “Polizia sulle autostrade”, entrato in vigore il 1° settembre 1967 (originario: art. 57
bis
LCstr), sulle strade riservate alla circolazione dei veicoli a motore (autostrade e semiautostrade) sono istituiti, dopo consultazione dei cantoni, settori di competenza per il servizio di polizia, che coincidono con settori per la manutenzione della strada. Il Consiglio federale può, per motivi impellenti, permettere eccezioni (cpv. 1, corrispondente,
mutatis mutandis
, al nuovo testo del 6 ottobre 2006, entrato in vigore il 1°gennaio 2008). La competente polizia autostradale provvede sul suo settore, senza tenere conto dei confini cantonali, al servizio d’ordine e di sicurezza e alle investigazioni di polizia, come anche, nel caso di reati d’ogni natura, ai provvedimenti urgenti sull’area autostradale. Nei casi penali, essa invita senza indugio gli organi del Cantone competente per territorio a prendere gli ulteriori provvedimenti (cpv. 2): La giurisdizione del Cantone competente per territorio e l’applicazione del suo diritto sono riservate (cpv. 3). I Governi dei Cantoni interessati regolano i reciprochi diritti e doveri risultanti dall’attività di polizia di un Cantone sul territorio dell’altro. Se, mancando l’accordo, il servizio di polizia non è garantito, il Consiglio federale prende disposizioni provvisionali (cpv. 4).
La Convenzione sottoscritta tra i Cantoni Ticino e Grigioni il 13 febbraio 1970 in applicazione, tra l’altro dell’allora art 57
bis
LCStr, segnatamente del suo capoverso 4, corrispondente all’attuale art. 57
a
LCStr, prevede che “Il servizio di manutenzione e il servizio di polizia sulla strada nazionale N13, in territorio dello Stato del Cantone Ticino, dall’allacciamento di Castione (km 0.850) al confine cantonale (km 3.670) e meglio come all’annessa planimetria 1:500, piano No. 25 412, parte integrante della presenta convenzione, sono eseguiti a cura dello Stato del Cantone Grigioni e a carico dello Stato del Cantone Ticino in base alle disposizioni seguenti...” (pag. 2). Nel suo punto 5.1 (“Principio”) la Convenzione prevede l’attribuzione agli agenti della polizia cantonale dei Grigioni addetti alla polizia autostradale di tutte competenze, che spetterebbero agli agenti della polizia del cantone Ticino, nell’esplicazione del servizio di polizia della circolazione sulla strada nazionale N13 in territorio del Cantone Ticino (secondo il piano no. 25 412).
4.
Nella misura in cui considera l’originario art 57
bis
LCStr, divenuto poi art. 57
a
LCStr, una base legale insufficiente per legittimare l’intervento della polizia grigionese su territorio ticinese, secondo le modalità illustrate nella Convenzione 13 febbraio 1970, il ricorrente muove di nuovo una critica sprovvista di buon diritto. Giacché tale norma, segnatamente i capoversi 2 e 4 degli art. 57
bis
, rispettivamente 57
a
LCStr, è stata voluta dal legislatore federale proprio per spingere i Cantoni a sottoscrivere convenzioni del tipo di quella conclusa tra Ticino e Grigioni il 13 febbraio 1970: assicurare, tra l’altro, la sicurezza e quindi, i necessari controlli di polizia sull’intera rete autostradale, vieppiù estesa, specie nelle zone a cavallo tra i confini dei singoli cantoni percorsi dai relativi tratti autostradali, rispettivamente semiautostradali (v. in particolare,
Bussy/Rusconi
, Commentario CS–CR, Losanna 1996, n. 1 ad art. 57a LCStr, con riferimento anche alla Convenzione conclusa tra i Cantoni Ginevra e Vaud). Dato il chiaro tenore di cui alla citata norma, di rango federale, ben potevano (se non addirittura dovevano) perciò i Cantoni Ticino e Grigioni sottoscrivere il 13 febbraio 1970 la Convenzione, che legittima la polizia cantonale–autostradale grigionese a effettuare controlli di velocità anche in territorio ticinese, secondo quanto previsto dall’art. 5.1 della Convenzione stessa, tuttora valida. La quale, checché ne dica il ricorrente con argomenti al limite del pretesto, è applicabile anche se la strada nazionale N13 indicata con quella denominazione nella stessa Convenzione, viene ora definita A13. Sapere poi se la Convenzione stessa sia stata nel 1970 oggetto di pubblicazione o meno fra le normative ticinesi o grigionesi, rispettivamente nel Bollettino Ufficiale delle leggi e degli atti esecutivi dei rispettivi Cantoni – parrebbe che ciò non sia stato il caso – non ha, comunque sia, ragione di essere stabilito. La Convenzione è opponibile anche se non era stata allora oggetto di formale pubblicazione, dato che essa – in vigore da decenni – si limita unicamente a definire a quali specifiche condizioni la polizia cantonale grigionese è abilitata a intervenire sul territorio ticinese per esercitare le incombenze di polizia autostradale ai sensi dell’art. 57
bis
LCStr (art. 57
a
LCStr); norma quest’ultima che, a non averne dubbio, costituisce la base legale primaria e decisiva per quanto riguarda le attribuzioni previste nella Convenzione stessa.
5.
Da quanto precede discende che il ricorso deve essere disatteso, siccome manifestamente infondato. Gli oneri processuali seguono la soccombenza, ossia sono posti a carico del ricorrente (art. 15 cpv. 1 in combinazione con l’art. 9 cpv. 1 CPP) | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,008 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
df5b31e4-777e-55af-b4cf-fbb72793d3bc | in fatto: A.
Con sentenza 3 settembre 2010 la Corte delle assise correzionali di _ ha dichiarato RI 1 autore colpevole di:
·
coazione ripetuta (in parte tentata)
per avere, a _, _ e _, nel periodo da luglio 2008 al 27 gennaio 2010, usando violenza e minaccia di grave danno nei confronti di _ (04.06.1996), _ (15.09.1999), PC 1PC 1 e _, intralciato rispettivamente tentato di intralciare, in 57 occasioni, la loro libertà di agire;
·
sottrazione di minorenne ripetuta
per avere a _:
-
l’11 ottobre 2008, sottratto la minorenne _ (15.09.1999), avvicinandola nel giardino della sua abitazione, obbligandola a salire sulla sua vettura per poi riconsegnarla alla detentrice dell’autorità parentale il giorno successivo;
-
il 14 gennaio 2009, sottratto i minorenni _ (04.06.1996) e _ (15.09.1999), aspettandoli, rispettivamente, alla fermata del trenino FLP e alla sede della scuola elementare, caricandoli con la forza sulla sua vettura;
-
il 27 gennaio 2010, sottratto la minorenne _ (15.09.1999) alla di lei madre PC 1PC 1 che ne esercita l’autorità parentale, portandola in Italia, raggiungendo _, poiché intenzionato a lasciare la minore a _ presso delle di lui sorelle, desistendo dal suo intento e accompagnando poi la minore al Ministero pubblico affinché fosse sentita da un magistrato;
·
minaccia
per avere, il 9 luglio 2009, a _, minacciato la moglie PC 1 di gettarle addosso benzina e di darle fuoco;
·
lesioni semplici
per avere, il 6 novembre 2009, a _, intenzionalmente colpito, a due riprese, con pugni al volto e calci la moglie PC 1 provocandole le lesioni di cui al certificato medico 7 novembre 2009 del dr. med. Nobile agli atti;
·
vie di fatto ripetute
per avere, a _, intenzionalmente commesso vie di fatto nei confronti della moglie PC 1 e meglio:
-
nel corso del mese di luglio 2008 mediante un calcio ad una gamba;
-
l’8 settembre 2008 con una manata alla spalla tanto da farla urtare contro la bucalettere;
-
all’inizio del 2009 colpendola al volto e spintonandola;
-
l’8 gennaio 2009 colpendola al volto e spintonandola ripetutamente;
-
il 13 giugno 2009 mediante un pugno al volto;
·
disobbedienza a decisioni d’autorità ripetuta
per avere, nel periodo marzo 2009/27 gennaio 2010, a _, in 38 occasioni, ripetutamente omesso di ottemperare alle decisioni 19 gennaio 2009 della Pretura di _ nonché 1° settembre 2009 della CTR di _ a lui intimate sotto comminatoria della pena prevista dall’art. 292 CP.
In applicazione della pena, il presidente della Corte delle assise correzionali ha condannato RI 1 - cui ha riconosciuto di avere agito in stato di lieve scemata imputabilità - alla pena detentiva di 24 mesi e ad una multa di fr. 2'000.- (da sostituirsi in caso di mancato pagamento con una pena detentiva sostitutiva di 40 giorni). La pena detentiva é stata sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 5 anni.
Il presidente della Corte ha, inoltre, condannatoRI 1 al versamento a PC 1 di fr. 6'000.- per spese legali e di fr. 2'000.- per torto morale e a _ e _ di fr. 1'000.- ciascuno per torto morale nonché al pagamento della tassa e delle spese di giustizia per complessivi fr. 16'968,55.
Il primo giudice ha, poi, imposto al condannato di sottoporsi ad un trattamento ambulatoriale e, quale norma di condotta, gli ha fatto divieto di avvicinarsi a meno di 300 m dall’abitazione di moglie e figli, di avvicinarli all’infuori dei diritti di visita stabiliti dalle autorità competenti nonché di scrivere, telefonare o importunarli in altro modo.
B.
I fatti posti alla base del giudizio della Corte delle assise correzionali sono, in sintesi, i seguenti:
1.
Dal matrimonio tra RI 1, cittadino senegalese, ed PC 1, cittadina svizzera, sono nati due figli: _ (4.6.1996) e _ (9.9.1999).
Il rapporto tra i coniugi, già problematico prima della nascita della secondogenita, è andato vieppiù deteriorandosi tanto che, ad inizio 2008, PC 1 ha deciso di separarsi dal marito.
2.
Determinandosi sulla richiesta di misure a protezione dell’unione coniugale presentata dalla moglie, il pretore, con decreto supercautelare del 18 gennaio 2008, ha intimato al marito di lasciare l’abitazione coniugale ed ha attribuito i figli alla custodia della madre. Il pretore ha inizialmente garantito a RI 1 un ampio diritto di visita. Tuttavia, in seguito, con decreto supercautelare del 13 ottobre 2008, il pretore ha limitato tale diritto ad una visita sorvegliata ogni 15 giorni.
L’assetto cautelare è stato confermato dal pretore con sentenza 16 gennaio 2009, con cui egli ha diffidato RI 1, sotto comminatoria dell’art. 292 CP, dall’avvicinarsi, telefonare, scrivere o importunare in altro modo moglie e figli. Il divieto è, poi, stato ribadito, sempre con la comminatoria dell’art. 292 CP, dalla Commissione tutoria regionale in data 1. settembre 2009.
3.
In tale contesto, caratterizzato da una profonda conflittualità tra le parti, s’inseriscono gli svariati episodi che hanno visto RI 1, a partire da gennaio 2008 e sull’arco di due anni, ripetutamente importunare e intralciare la libertà d’agire di moglie (che ha, in alcune occasioni, minacciato e picchiato) e figli.
4.
La lunga serie di molestie ai danni dei congiunti ha avuto termine il 27 gennaio 2010 quando RI 1 è stato arrestato.
C. RI 1
è insorto contro la sentenza di condanna con dichiarazione di ricorso 8 settembre 2010.
Nella motivazione scritta, presentata il 14 ottobre 2010, egli ha chiesto, in via principale, di essere prosciolto dalle accuse di coazione ripetuta, di sottrazione di minorenne ripetuta, di minaccia, di lesioni semplici e di vie di fatto ripetute
e di essere condannato ad una multa per il solo reato di disobbedienza alle decisioni dell’autorità.
Inoltre, egli ha postulato la reiezione
delle pretese delle parti civili (subordinatamente il loro rinvio al foro civile) nonché la riduzione della tassa e delle spese di giustizia in funzione della limitata conferma dell’atto d’accusa.
Infine RI 1 ha chiesto l’annullamento delle norme di condotta.
In subordine, il prevenuto ha chiesto che la causa venga rinviata ad altra Corte per un nuovo giudizio.
D.
Con osservazioni 21 ottobre 2010 il sostituto procuratore pubblico ha postulato la reiezione del gravame e la conferma integrale dell’impugnato giudizio.
Con scritto 9 novembre 2010 le parti civili PC 1, _ e _ hanno comunicato di rimettersi alle osservazioni del sostituto procuratore pubblico. | Considerando
in diritto:
1.
Giusta l’art. 288 CPP(Ti) - applicabile in forza dell’art. 453 CPP (fed) - il ricorso per cassazione è essenzialmente un rimedio di diritto (lett. a e b), ritenuto che l’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP) e che arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 135 V 2 consid. 1.3 pag. 4, 133 I 149 consid. 3.1 pag. 153, 132 I 13 consid. 5.1 pag. 17, 131 I 217 consid. 2.1 pag. 219, 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia consid. 3 pag. 371).
2.
Nel gravame RI 1 lamenta una violazione del suo diritto di essere sentito affermando di non essere “
mai stato messo nella posizione di porre domande
” alla moglie nonostante le sue dichiarazioni siano state poste a fondamento della sentenza di condanna. Mai - precisa il ricorrente - egli ha avuto, durante l’inchiesta, la possibilità di “
confutare o porre domande
” alla moglie o alle persone sentite come testi. Tale possibilità non gli è stata concessa nemmeno al dibattimento (tenutosi il 3 settembre 2010) nonostante egli, il 25 agosto 2010, abbia chiesto al presidente della Corte che venissero assunte al dibattimento le testimonianze di tre testi (_, _ e _) e quella della moglie “
per chiarire alcuni aspetti in punto alle deposizioni da loro rese in occasione dei relativi interrogatori, avvenuti senza la presenza dell’accusato e della difesa”
(doc. TPC 8).
Il ricorrente continua osservando come la sua richiesta sia stata respinta
“senza particolari e fondate motivazioni
” e conclude affermando che ciò costituisce “
una pesante lesione dei diritti della difesa”
e che, già soltanto per questo, il giudizio impugnato - reso in “
violazione delle garanzie costituzionali dell’art. 29 Cost. fed
.” - deve essere annullato (ricorso pag. 5-7).
2.1.
L’imputato è stato posto in detenzione preventiva il 27 gennaio 2010 ed è giunto in tale stato al dibattimento.
Durante l’inchiesta pre-dibattimentale, la moglie dell’imputato è stata sentita 9 volte, 6 volte dalla polizia e 3 volte dal sostituto procuratore (AI 1 in inc. MP 10325/2008, AI1 in inc. MP 711/2010, AI1 in inc. MP 870/2009, AI2 in inc. MP 11144/2009, AI75, AI90 e AI95 tutti in inc. MP 711/2010).
A nessuna di queste audizioni ha partecipato l’imputato o il suo difensore. A nessuna di esse né l’imputato né il suo difensore sono stati citati.
I figli dell’imputato sono stati sentiti il 28.1.2010 (AI17 in inc. MP 711/2010) e il 4.2.2010 (AI30 in inc. MP 711/2010). Né l’imputato né il suo difensore hanno partecipato o assistito alla loro audizione. Né l’imputato né il suo difensore sono stati citati a tale atto istruttorio.
Il sostituto procuratore ha, poi, sentito 5 testi (AI120, AI121, AI124, AI128 e AI151, tutti in inc. MP 711/2010). A nessuna di queste audizioni ha partecipato l’imputato o il suo difensore. A nessuna di esse né l’imputato né il suo difensore sono stati citati.
2.2.
L’atto di accusa nei confronti del qui ricorrente è stato emanato il 21 luglio 2010.
Con scritto 22 luglio 2010, il presidente della Corte delle assise correzionali ha comunicato al patrocinatore di RI 1 che l’incarto penale era a sua disposizione per essere visionato. Lo scritto si concludeva con l’indicazione secondo cui esso era da considerarsi un’ordinanza ai sensi dell’art. 224 CPP.
Il 25 agosto 2010 la difesa di RI 1 ha chiesto al presidente della Corte d’assise di sentire, al dibattimento, i testi _, _, _ ed PC 1. Dopo avere precisato che le audizioni erano richieste
“per chiarire alcuni aspetti in punto alle deposizioni da loro rese in occasione dei relativi interrogatori, avvenuti senza la presenza dell’accusato e della difesa”,
il patrocinatore del qui ricorrente precisava che tali testimonianze erano
“importanti e necessarie ai fini dell’accertamento della verità materiale anche a fronte del rapporto scritto sugli incontri tra padre e figli avvenuti negli ultimi giorni (...) dal quale risulta che la relazione tra padre e figli è serena e positiva e non denota in nessun modo il conflitto, le angosce e il terrore evocati nei verbali d’interrogatorio (cui la difesa non è stata convocata)”
(doc. TPC 8)
.
Col medesimo scritto, la difesa ha chiesto al presidente della Corte delle assise di sentire personalmente i figli del ricorrente _ e _ in relazione a quanto da loro dichiarato nei loro precedenti interrogatori precisando che, nonostante le loro audizioni fossero pure avvenute senza la partecipazione della difesa, egli non chiedeva che la nuova audizione avvenisse alla presenza delle parti (doc. TPC 8).
Il 27 agosto 2010, prendendo posizione sulle osservazioni delle parti civili alla sua richiesta, il patrocinatore dell’imputato ha ribadito le argomentazioni sviluppate nel suo scritto precedente in relazione alle richieste audizioni della moglie e dei testi. Inoltre, ha spiegato di avere chiesto che il presidente sentisse personalmente i figli per “
rendersi conto, beneficiando dell’immediatezza del contatto con essi, della reale loro attitudine e dei loro sentimenti nei confronti del padre, così come dell’assenza di qualsivoglia angoscia, ansia, paura
” (doc. TPC 12).
Il 30 agosto 2010, il presidente della Corte ha respinto la richiesta formulata dalla difesa “
in quanto intempestiva ai sensi dell’art. 227
cpv. 1 CPP”
. Richiamando l’art. 228 CPP, il presidente ha concluso indicando al richiedente che gli rimaneva facoltà “
di portare in aula le persone che desiderava far sentire come testimoni”
.
Lo stesso giorno, preso atto della reiezione della sua richiesta, il patrocinatore dell’imputato ha comunicato al presidente della Corte di non condividere la sua decisione, osservando che
“l’art. 228 CPP permette di chiedere l’assunzione di prove anche oltre i termini di cui all’art. 227 CPP”
(...) e che
“secondo la ratio di tale disposto prove chieste o prodotte oltre i termini ordinari (...) servono a realizzare compiutamente il diritto materiale tanto a carico tanto a scarico dell’accusato”
. La difesa ha altresì sottolineato l’inefficacia della facoltà - riservatale dal giudice - di “
portare in aula”
le persone che chiedeva di interrogare rilevando come gli stessi, senza un’apposita ordinanza del presidente della Corte, non sarebbero mai intervenuti (doc. TPC 19).
2.3.
a)
Il diritto di essere sentito - sancito esplicitamente dall'art. 29 cpv. 2 Cost. e dall’art. 6 § 3 lett. d CEDU - assicura, tra l'altro, la facoltà di offrire formalmente e tempestivamente mezzi di prova su punti rilevanti e di esigerne l'assunzione, di partecipare alla loro assunzione e di esprimersi sulle relative risultanze, nella misura in cui essi possano influire sulla decisione (STF 1. 5. 2009 in 4A.153/2009, consid. 4.1. e riferimenti; STF 23.5. 2008 in 6B.570/2007 consid. 5.1.;
STF 13.4.2005 in 2P.20/2005, consid. 3.2 e riferimenti;
DTF 131 I 153 consid. 3; DTF 126 I 15 consid. 2a/aa; DTF124 I 49 consid. 3a, DTF 124 I 241 consid. 2; DTF 115 Ia 8 consid. 2b pag. 11 con citazioni). In particolare, in forza delle disposizioni citate, ogni accusato ha il diritto di interrogare o fare interrogare i testi a carico e di ottenere la citazione e l’interrogatorio dei testi a scarico nelle stesse condizioni dei testi a carico (DTF 125 I 127 consid. 6b, pag. 133; 124 I 274 consid. 5b, pag. 284; 121 I 306 consid. 1b, pag. 308; DTF 116 Ia 289 consid. 3 pag. 291 con richiami; STF 29.3.2000 1P.706/1999; STF 5 marzo 2009 in 6B.992/2008, consid. 1.1.1. in fine).
b)
Il diritto dell'accusato di interrogare o fare interrogare i testimoni a carico, sancito dall'art.
6
§
3
lett. d
CEDU
, costituisce un aspetto puntuale del diritto ad un equo processo sancito dall’art.
6
§
1
CEDU
e mira ad escludere che un giudizio penale venga fondato su dichiarazioni di testimoni ai quali l'accusato non ha avuto la possibilità di porre domande o che non hanno potuto essere messe in dubbio. Questa facoltà è garantita anche dall'art.
32
cpv. 2
Cost.
che concretizza per l’imputato il diritto di essere sentito (art.
29
cpv. 2
Cost.
). Le norme citate hanno lo scopo di assicurare la parità delle armi e il diritto ad un equo processo (DTF 131 I 476 consid. 2.2 e rinvii; DTF 129 I 151 consid. 3.1 con indicazioni dettagliate).
c)
Conformemente alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la nozione di testimone deve essere interpretata in senso lato, senza un legame formale con il diritto nazionale: in questo senso, per deposizioni testimoniali s’intendono tutte le dichiarazioni di cui il giudice viene a conoscenza e che può utilizzare. Anche le dichiarazioni rilasciate davanti agli organi di polizia nel corso delle indagini preliminari sono, perciò, da considerare deposizioni testimoniali (DTF 131 I 476 consid. 2.2; 125 I 129 consid. 6a).
d)
Il TF ha avuto modo di stabilire che, per assicurare il principio della parità delle armi fra accusa e difesa, le prove - in particolare, le testimonianze - devono essere amministrate in presenza dell’accusato, di norma in udienza pubblica, nell’ambito di un contradditorio. E’, tuttavia, possibile utilizzare elementi di prova raccolti durante l’inchiesta quando all’accusato è stata concessa la facoltà di fare adeguatamente uso del suo diritto di controinterrogare i testi a carico, ritenuto che, di principio, è sufficiente che tale facoltà gli sia stata concessa una volta almeno nel corso del procedimento e che poco importa a quale stadio della procedura tale facoltà gli sia stata offerta (DTF 125 I 127 consid. 6b, pag. 132; 124 I 274, consid. 5b, pag. 285; 121 I 306 consid. 1b, pag. 308; 120 Ia 48, consid. 2b/aa, pag. 50; 118 Ia 457 consid. 2b/aa, pag. 459; STF 29.3.2000 1P.706/1999, consid.
2a; STF 7.8.2003 in 6P.68/2003; Piquerez, Traité de procédure pénale suisse, 2a ed. 2006, n. 1107).
Se ha avuto luogo almeno un’audizione in contradditorio in un qualsiasi momento della procedura, non sussiste alcun obbligo di ripeterla (DTF 125 I 127 consid. 6c/ee) con eccezione nei casi in cui i diritti della difesa non sono stati effettivamente garantiti come, per esempio, se il confronto ha avuto luogo alla presenza dell’imputato ma non del suo difensore (DTF 118 Ia 462 consid. 5a/aa).
e)
In ogni caso, se non è possibile, per motivi pratici o per opportunità, organizzare un confronto diretto con i testi a carico, all’accusato deve essere garantita la facoltà di porre domande per iscritto - come è il caso per i testi residenti all’estero e che possono essere sentiti soltanto nell’ambito di una rogatoria - o per interposta persona quando occorre evitare inconvenienti o disagi alla vittima (DTF
131 I 476 consid. 2.3.2;
129 I 151 consid. 3.1;
125 I 127 consid. 6c/ee pag. 137; STF 29.3.2000 1P.706/1999, consid. 2a).
f)
Nelle sue sentenze, il TF ha più volte richiamato la giurisprudenza sviluppata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in relazione all’art. 6 § 3 let d CEDU. In particolare, ha ricordato che la Corte ha già avuto modo di stabilire che è lecito al giudice fare uso di dichiarazioni rese alla polizia quando il loro autore si è in seguito rifiutato di testimoniare, quando si è reso irreperibile o quando è deceduto soltanto a condizione che esse siano corroborate da altri mezzi di prova (DTF 125 I 127 consid. 6c/dd, pag. 135/136; STF 29.3.2000 1P.706/1999, consid. 2a). Il TF ha, pure, ricordato che, invece, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha individuato una violazione dell’art. 6 §1 CEDU in due casi in cui le autorità giudiziarie avevano rifiutato di organizzare un confronto e si erano fondate esclusivamente o in modo determinante su deposizioni di testi che l’accusato non aveva potuto interrogare (sentenze della Corte europea 14.12. 1999 nella causa A.M. c. I., Raccolta 1999, § 20; 20.9.1993 nella causa S. c. F., Série A n° 261-C, §§ 41-44 e 24.11.1986 nella causa _. c. A., Série A n° 110, § 33 citate in STF 29.3.2000 1P.706/1999, consid. 2a).
In seguito, il TF ha avuto modo ancora di ricordare che la Corte europea dei diritti dell’uomo non ha ravvisato una violazione del diritto al contradditorio nell’utilizzo della dichiarazione di un teste che in seguito aveva legittimamente rifiutato di deporre (sentenza della CEDU in re.
A. vs. A.
del 26 aprile 1991, Serie A, BD. 203 = EuGRZ 1992 pag. 474; di altra opinione la sentenza della CEDU in re.
U. vs. A.
del 28 agosto 1986, serie A,, Bd. 110 = EuGRZ 1987 pag. 147), in un caso in cui il teste, nonostante adeguate ricerche, risultava irreperibile (sentenza della CEDU i re.
A. vs. A.
del 28 agosto 1992, Serie A, Bd. 242 A = EuGRZ 1992 pag. 476; sentenza della CEDU in re.
D. vs. P. B.
del 26 marzo 1996, raccolta CourEDH 1996-II pag. 446, cifra 79) o in un caso in cui il teste era deceduto (sentenza della CEDU in re. F. vs. I. del 7 agosto 1996, raccolta CourEDH 1996-III pag. 937, cifra 52 e segg.) ritenuto che, comunque, gli accusati avevano potuto debitamente prendere posizione su quanto dichiarato dai testi e che le dichiarazioni rese senza contradditorio non erano i soli mezzi di prova posti a fondamento dei giudizi di condanna (DTF 131 I 476 consid. 2.2; 124 I 274 consid. 5b pag. 286). Analogamente - ha ancora ricordato il TF - la Corte europea ha negato una violazione della CEDU in un caso in cui il giudice aveva poggiato il suo giudizio su una deposizione rilasciata nell’ambito di un procedimento giudiziario all’estero, nonostante il teste si fosse poi reso irreperibile ritenuto che la deposizione era confortata da altre prove e che nessuna mancanza di diligenza poteva essere rimproverata alle autorità giudiziarie (decisione d’ammissione della CEDU in re
C. vs. I.
del 21 marzo 2002, Raccolta CourEDH 2002-V pag. 249; cfr. anche in relazione a simili costellazioni sentenze della CEDU i re.
A. vs. A.
, cit. supra, cifra 25-31, e in re.
A. vs. A.
, cit. supra, cifra 19-24). Per contro - ha ricordato il TF - la Corte europea ha ritenuto che l’art. 6 cifra 3 lett. d CEDU era stato violato in un caso in cui l’accusato era stato condannato sulla scorta di deposizioni di agenti di polizia rese senza contradditorio: in questo caso, decisivo era stato il fatto che il giudice non aveva fatto tutto quanto era nelle sue facoltà per rendere possibile il confronto con i testimoni a carico, confronto richiesto dall’accusato prima della decisione del tribunale (sentenza della CEDU i re.
G. vs. T.
del 19 giugno 2003, cifra 88-96). Sempre analogamente, la Corte europea ha ritenuto che l’art. 6 cifra 3 lett. d CEDU era stato violato in un caso in cui l’autorità giudicante non aveva dato la possibilità all’accusato di porre domande o controdomande ai testi a suo carico in occasione di interrogatori svolti nell’ambito di un’assistenza giudiziaria (sentenza della CEDU i re.
A. vs. I.
del 14 dicembre 1999, raccolta CourEDH 1999- IX pag. 59) o in occasione di procedimenti istruttori (sentenza della CEDU i re.
S. vs. T.
del 17 luglio 2001, raccolta CourEDH pag. 241 cifra 66-68, e in re.
S. vs. F.
del 20 settembre 1993, Serie A, Bd. 261 C, cifra 41-44) nonostante le loro deposizioni fossero determinanti per il giudizio di colpevolezza (sentenze citate in DTF 131 I 476 consid. 2.2).
g)
Secondo la giurisprudenza del TF, deposizioni di testimoni o di persone informate sui fatti possono, di regola, essere utilizzate a carico dell’accusato soltanto dopo un confronto. In questa senso, la facoltà di interrogare testimoni a carico assume di principio un carattere assoluto. Nella prassi, tuttavia, la portata di tale facoltà è in parte relativizzata, valendo in maniera illimitata soltanto quando la testimonianza in questione riveste un’importanza determinante, rappresentando l’unica prova o una prova comunque decisiva (DTF 131 I 476 consid. 2.2; 129 I 151 consid. 3.1 con indicazioni).
Al riguardo si osserva che detto principio è stato ribadito anche recentemente: il TF, richiamando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha stabilito che il fatto che legittimi interessi della vittima, garantiti dalla LAV o da disposizioni procedurali cantonali, impediscano all’accusato di esercitare il suo diritto all’interrogatorio, non può limitare la garanzia di un equo processo e, pertanto, ha ribadito che, di principio, non ci si può fondare su deposizioni della vittima rese senza contradditorio: se esse rappresentano l’unica prova o una prova decisiva - ha spiegato il TF - l’imputato deve essere assolto in applicazione del principio in dubio pro reo (DTF 131 I 476 consid. 2.3.2; 125 I 127 consid. 10a pag. 157; DTF 129 I 151 consid. 4.3 pag. 158; sentenza 6P.59/2001 del 4 luglio 2001 consid. 3e).
h)
In passato, il TF ha avuto modo di stabilire che, in casi eccezionali, il giudice può utilizzare una deposizione resa durante l’inchiesta cui l’imputato non ha potuto partecipare: in particolare quando non è più possibile assicurare il diritto al contradditorio a causa del decesso del teste o di un suo durevole impedimento (DTF 125 I 127 consid. 6b; 124 I 274 consid. 5b; 105 Ia 396 pag. 397; STF 29.3.2000 1P.706/1999, consid. 2a).
Al proposito, va, tuttavia, segnalato che il TF ha avuto modo recentemente di ricordare che, in una sentenza non pubblicata nella Raccolta ufficiale, aveva ammesso una violazione della garanzia di un equo processo in un caso in cui l’accusato era stato condannato sulla scorta di deposizioni a suo carico, sebbene egli non avesse avuto la possibilità di confrontarsi con i testimoni, avendo gli stessi nel frattempo lasciato la Svizzera e essendosi resi irreperibili. Aveva ritenuto decisivo il fatto che il confronto tra l’accusato e testimoni a suo carico sarebbe stato possibile quando si trovavano entrambi in carcere preventivo (STF 24 settembre 1996 in 1P.302/1996 citata in DTF 131 I 476 consid. 2.2 che richiama anche DTF 129 I 151 consid. 4.3).
i)
Il TF ha più volte precisato che l’esercizio del diritto all’interrogatorio dei testi è sottoposto alle norme procedurali applicabili che possono porre condizioni di forma e di termini. Inoltre, il TF ha spiegato che l’interessato può rinunciare - espressamente o tacitamente - a tale sua facoltà e che tale rinuncia non invalida le deposizioni raccolte durante l’inchiesta (STF 29.3.2000 1P.706/1999, consid. 2a; STF 7.8.2003 in 6P.68/2003; DTF 121 I 306, consid. 1b). Tuttavia - ha precisato ancora l’Alta Corte - la volontà dell’imputato di rinunciare al suo diritto al contradditorio non può essere ammessa facilmente (in particolare, non lo può nei casi in cui egli non padroneggia la lingua del procedimento e non è assistito né da un difensore né da un interprete) e può essere accertata soltanto sulla scorta di elementi non equivoci e unicamente quando al prevenuto sono, comunque, state assicurate garanzie proporzionate alla gravità di tale rinuncia (DTF 121 I 30 consid. 5f; STF 29.3.2000 1P.706/1999, consid. 2a).
l)
Il TF ha già avuto modo di stabilire che il fatto che un imputato non abbia chiesto di essere confrontato ad un teste a carico durante l’inchiesta oppure davanti al giudice di primo grado non può essere, di per sé, considerato come una rinuncia al suo diritto al contradditorio se il diritto procedurale cantonale prevede l’assunzione di prove in seconda istanza (STF 29.3.2000 1P.706/1999, consid. 2a che cita STF 7.4.1998 in re D. c. MP del canton Argovia e Hauser/Schweri, Schweizerisches Strafprozessrecht, 3. ed, Zh 1997, § 77,n.6, pag. 226 e N. Oberhlozer, Grundzüge des Strafprozessrechts, Be 1994, pag. 151 e il rinvio a ZR 86/1987, pag. 158 e seg). Data questa facoltà, dunque, il diritto al contradditorio va accordato anche quando viene fatto valere _, riservato soltanto il caso di un manifesto abuso di diritto.
Il diritto al contradditorio va - ha, infatti, spiegato il TF - garantito anche nel caso in cui l’imputato ha lamentato soltanto al dibattimento di non essere stato messo in condizione di esercitare tale sua facoltà senza avere mai, in precedenza, chiesto formalmente di potere interrogare i testi a carico (STF 29.3.2000 1P.706/1999, consid. 2a).
m)
L’art. 6 § 3 lett. d CEDU non è violato, e meglio non c’é violazione del diritto di essere sentito - nella forma del diritto all’amministrazione delle prove - quando il giudice rifiuta una testimonianza proposta poiché l’atto probatorio richiesto non è atto a stabilire il fatto da provare, oppure quando il fatto non è pertinente oppure ancora quando, sulla scorta di una valutazione anticipata della prova offerta, il giudice conclude che i fatti pertinenti sono accertati e che il risultato, anche favorevole all’accusato, della misura probatoria richiesta non potrebbe modificare tale suo accertamento (DTF 125 I 127 consid. 6c/cc pag. 134; 124 I 274 consid. 5b; 121 I 306 consid. 1b; STF).
La questione è, invece, diversa - ha precisato il TF - quando il giudice fonda il proprio giudizio su deposizioni assunte in precedenza. In questi casi, infatti, non è lecito al giudice negare all’accusato la possibilità di interrogare o fare interrogare i testi sulla scorta di un’anticipata valutazione delle prove, cioè quand’anche considerasse che l’audizione in contradditorio non potrebbe modificare il suo convincimento (STF 29.3.2000 1P.706/1999, consid. 2b che cita la sentenza non pubblicata del 29.6.1999 in re G. c. Corte cassazione del canton Ginevra, consid. 2f). Infatti - con la riserva di quanto precisato al consid. 2.3.i - le dichiarazioni dei testi possono essere utilizzate a danno dell'accusato soltanto dopo un confronto, cioè soltanto dopo che egli è stato messo in condizioni di esercitare il suo diritto al contradditorio ritenuto come il diritto di interrogare testimoni a carico assume carattere assoluto quando la testimonianza litigiosa é l'unica prova disponibile o abbia valore decisivo (DTF 131 I 476 consid. 2.2;
129 I 151 consid. 3.1;
STF 23 maggio 2008 in 6B.42/2008 consid. 2.2.; 29.3.2000 in 1P.706/1999 consid.
2b/aa;
Jean Marc Verniory, Le droit de la défense dans les phases préliminaires du procès pénal, Berna 2005, pag. 467; Piquerez Gérard, Traité de procédure pénale suisse, 2006, N. 488, pag. 313).
In quest’ottica, l’inosservanza del diritto di essere sentito comporta la cassazione della sentenza impugnata già per motivi di forma, senza riguardo al merito (DTF 116 Ia 52 consid. 2 pag. 54 con richiami).
2.4.
a)
Giusta l’art. 227 cpv. 1 CPP Ti, se intendono assumere prove al dibattimento, oltre a quelle indicate con l’atto di accusa, le parti devono notificarle al presidente entro 10 giorni. Il termine - prorogabile su istanza di parte - decorre dall’intimazione dell’ordinanza di apertura (art. 224 CPP). Tuttavia, l’art. 228 cpv. 1 CPP precisa che nuove - o meglio, altre (cfr. Rapporto 22.7.1992 sul messaggio aggiuntivo 20.3.1991 sulla revisione totale del CPP, ad art. 176 pag. 76) - prove possono essere proposte (o meglio, devono, se proposte, essere assunte) sino alla chiusura dell’istruttoria dibattimentale nella misura in cui esse risultano rilevanti per il giudizio.
b)
In concreto, come visto sopra, il ricorrente ha chiesto di essere messo in condizioni di esercitare il proprio diritto al contradditorio 8 giorni prima dell’inizio del dibattimento.
Il fatto che egli non abbia formulato prima tale richiesta è irrilevante e non può - come sembra sostenere la pubblica accusa nelle sue osservazioni - essere interpretato come una sua implicita rinuncia a far uso di tale diritto (cfr. giurisprudenza e dottrina indicata sopra).
Diverso sarebbe stato il caso qualora il ricorrente - patrocinato - non avesse chiesto l’audizione dei testi entro la fine dell’istruttoria dibattimentale, ritenuto che, in questo caso, egli si sarebbe precluso il diritto al controinterrogatorio per tacita rinuncia (CCRP inc. n. 17.2008.47 consid. 2.1)
c)
Ritenuto come il diritto processuale cantonale applicabile permettesse la notifica di prove sino alla chiusura dell’istruttoria dibattimentale, nessuna norma procedurale faceva ostacolo all’accoglimento della richiesta del qui ricorrente di essere messo in condizioni di esercitare il suo diritto al contradditorio.
Si aggiunge, qui, che la rilevanza della prova richiesta non ha da essere dimostrata nella misura in cui il ricorrente chiedeva di poter esercitare un diritto costituzionalmente garantito relativamente a deposizioni che sono state le sole prove utilizzate a fondamento del giudizio di condanna (cfr. sentenza impugnata, consid. 14.2-4, pag. 37-42; consid. 17-67 pag. 46-78).
d)
Infine, non vi sono elementi che facciano anche soltanto nascere il sospetto che la richiesta formulata dall’accusato fosse costitutiva di un abuso di diritto o contraria al principio della buona fede processuale. Non può, in particolare, essere sostenuto che il ricorrente, formulandola a quel momento, avesse intenti defatigatori già solo perché egli era in detenzione preventiva (era, evidentemente, suo interesse essere processato in tempi brevi). Del resto, il patrocinatore del condannato aveva anche spiegato di avere formulato tale sua richiesta dopo avere preso atto, quello stesso giorno, del contenuto di un rapporto allestito dall’Ufficio del patronato (e, il 25 agosto, non ancora acquisito agli atti) ed avere rilevato incongruenze fra il suo contenuto e le dichiarazioni della parte civile e dei testi (doc. TPC 8, 12 e 19).
e)
Da ultimo, si osserva che, già soltanto per le argomentazioni sviluppate dal patrocinatore del ricorrente nello scritto 30 agosto 2010, non può certamente essere preteso che il condannato sia stato messo nelle condizioni di far uso del suo diritto al contradditorio con la “
facoltà concessagli dal presidente della Corte
” di portare in aula le persone che egli voleva sentire. Si ricorda, qui, che la giurisprudenza ha già stabilito che l’accusato ha avuto facoltà di esercitare il suo diritto al contradditorio soltanto quando egli è stato messo nelle condizioni adeguate e sufficienti per contestare le deposizioni dei testi a carico e per interrogare o fare interrogare i testi (DTF 131 I 476 consid. 2.2.; 129 I 151 consid. 4.2 ; 118 Ia 327 consid. 2b/aa). Ciò presuppone, all’evidenza, in ogni caso una regolare e formale citazione dei testi a cura dell’autorità competente.
In queste condizioni, deve essere concluso che il giudizio di condanna qui impugnato - fondato unicamente sulle deposizioni delle parti civili (moglie e figli dell’imputato) e di testi che non sono stati sentiti in contradditorio - ha violato il diritto di essere sentito del condannato. Essendo, quindi, stato reso in violazione degli art. 6 § 3 lett. d CEDU, 29 cpv. 2 e 32 cpv. 2 Cost fed, esso deve essere annullato (STF 23 maggio 2008 in 6B.42/2008 consid. 2.2.; DTF 131 I 476 consid. 2.2,
129 I 151 consid. 3.1)
.
Gli atti vanno, perciò, rinviati ad una nuova Corte delle assise correzionali affinché proceda ad un nuovo giudizio dopo avere garantito all’imputato l’esercizio del suo diritto al contradditorio nei confronti della moglie e dei testi indicati nella richiesta 25 agosto 2010.
Non è necessario, invece, che il nuovo giudice proceda all’audizione dei figli nella misura in cui tale richiesta non è stata formulata nell’ottica dell’esercizio del diritto costituzionale sin qui discusso.
3.
Gli oneri processuali vanno posti a carico dello Stato che verserà fr. 800.- al ricorrente per ripetibili. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
df689a81-e473-507b-9caf-7fa833e23f9f | in fatto
a.
Con decreto di accusa no. _ datato 11.01.2013 l’Ufficio giuridico della Sezione della circolazione – esaminati gli atti, stante il rapporto di contravvenzione allestito dalla _, _, in relazione ai fatti accertati il 26.10.2012, in territorio di _ e richiamati gli art. 1 cpv. 1 e 2 LPcontr e 2 LPcontr, nonché gli art. 17, 352 e 357 CPP – ha proposto la condanna di RE 1 al pagamento di una multa di CHF 50.-- e la tassa di giustizia di CHF 50.-- [avendo
"
(...) ILLECITAMENTE FATTO USO, ALL0 SCOPO DI POSTEGGIARE IL MOTOVEICOLO TI _, DI UN FONDO PRIVATO DEBITAMENTE SEGNALATO CON APPOSITO AVVISO AUTORIZZATO DAL COMPETENTE GIUDICE DI PACE. (...)
" (
AI 7 dell’incarto della Sezione della circolazione inserito nell’incarto _)].
Con ulteriore decreto no. _ di medesima datata l’Ufficio giuridico della Sezione della circolazione – esaminati gli atti, stante il rapporto di contravvenzione allestito sempre dalla _ in relazione ai fatti accertati il 2.11.2012, in territorio di _ e richiamati gli art. 1 cpv. 1 e 2 LPcontr e 2 LPcontr, gli art. 17, 352 e 357 CPP – ha proposto la condanna di RE 1 al pagamento di una multa di CHF 50.-- e la tassa di giustizia di CHF 50.-- [avendo
"
(...) ILLECITAMENTE FATTO USO, ALL0 SCOPO DI POSTEGGIARE IL MOTOVEICOLO TI _, DI UN FONDO PRIVATO DEBITAMENTE SEGNALATO CON APPOSITO AVVISO AUTORIZZATO DAL COMPETENTE GIUDICE DI PACE. (...)
" (
AI 7 dell’incarto della Sezione della circolazione inserito nell’incarto _)].
Entrambi i decreti di accusa sono stati intimati, per raccomandata, a RE 1 l’11.01.2013. Le lettere raccomandate, nonostante l’avviso di ricezione del 14.01.2013, non sono state ritirate. L’Ufficio postale le ha quindi rispedite al mittente, che in data 5.02.2013 le ha inviate, per posta semplice, all’imputato.
b.
Con scritto 11/14.02.2013 RE 1 ha inoltrato opposizione ai suindicati decreti di accusa (AI 8 dell’incarto della Sezione della circolazione inserito nell’incarto _
e
nell’incarto _).
c.
Il 15.02.2013
l’Ufficio giuridico della Sezione della circolazione ha confermato entrambi i decreti di accusa emanati a carico di RE 1, trasmettendo contestualmente gli atti alla Pretura penale per procedere al dibattimento avvertendo che gli stessi sono considerati come atti d’accusa (art. 356 cpv. 1 CPP) [AI 10 dell’incarto della Sezione della circolazione inserito nell’
incarto _
e nell’incarto _].
d.
Il 25.03.2013 il presidente della Pretura penale, visto che l’opposizione interposta in data 11/14.02.2013 da RE 1 sembrava essere tardiva, ha assegnato a quest’ultimo un termine di dieci giorni per prendere posizione in merito alla sua tempestività e per eventualmente produrre la necessaria documentazione (AI 2 – inc. _).
Entro il termine assegnatogli RE 1 non ha presentato osservazioni (cfr., al proposito, AI 3 e AI 4, inc. _).
Con decreto 15.04.2013 il presidente della Pretura penale ha dichiarato irricevibile l’opposizione 11/14.02.2013, poiché introdotta in maniera tardiva (inc. _).
e.
Con il presente tempestivo gravame RE 1 formula le seguenti considerazioni in merito all’opposizione tardiva:
"
(...) La notifica della prima raccomandata non è stata mai trovata nella cassetta della posta infatti ho subito risposto appena è stata spedita con lettera normale, ho spiegato per telefono che purtroppo la posta di _ non consegna brevi manu le raccomandate ma lascia nella posta un piccolo bigliettino di notifica che spesso viene smarrito nel mucchio della corrispondenza che giornalmente ci viene recapitata.
(...) La seconda raccomandata spedita durante
(il)
periodo pasquale per motivi di lavoro e ferie, non ero presente nei periodi di apertura dell’ufficio postale e quindi non mi è stato possibile ritirare la raccomandata, che tra l’altro sulla notifica della posta non era indicato che il mittente era la pretura penale
" (reclamo 17/22.04.2013).
Contesta inoltre che nell’ambito di questa formalità sarebbe stata omessa la circostanza secondo la quale egli è stato ritenuto colpevole di infrazione in relazione ad un parcheggio in cui non vi sarebbe alcuna indicazione (contrariamente a quanto sostiene la _). L’avviso del giudice di pace a suo dire non riguarderebbe la zona di parcheggio dei motoveicoli, poiché riservata alla _ che autorizza a parcheggiarvi.
f.
Come esposto in entrata, il presidente della Pretura penale si è rimesso al prudente giudizio di questa Corte. La Sezione della circolazione, dal canto suo, comunica di non avere ulteriori osservazioni da formulare. | in diritto
1.
Giusta l’art. 393 cpv. 1 lit. b CPP il reclamo può essere interposto – entro il termine di dieci giorni – contro i decreti e le ordinanze, nonché gli atti procedurali, dei tribunali di primo grado; sono eccettuati le decisioni ordinatorie e i casi in cui è espressamente escluso dal CPP o quando è prevista un’altra impugnativa.
Con il gravame, da introdurre davanti alla giurisdizione di reclamo (art. 20 cpv. 1 lit. a CPP), ovvero – in Ticino – alla Corte dei reclami penali (art. 62 cpv. 2 LOG), si possono censurare le violazioni del diritto, compreso l’eccesso e l’abuso del potere di apprezzamento e la denegata o ritardata giustizia (art. 393 cpv. 2 lit. a CPP), l’accertamento inesatto o incompleto dei fatti (art. 393 cpv. 2 lit. b CPP) e l’inadeguatezza (art. 393 cpv. 2 lit. c CPP).
Il reclamo deve essere presentato per iscritto e motivato (art. 396 cpv. 1 CPP), con riferimento in particolare all’art. 390 CPP per la forma scritta ed all’art. 385 CPP per la motivazione.
Esso deve indicare – in particolare – i punti della decisione che intende impugnare, i motivi a sostegno di una diversa decisione ed i mezzi di prova auspicati (art. 385 cpv. 1 lit. a, b e c CPP).
2.
Il gravame, inoltrato il 17/22.04.2013 (trasmesso a questa Corte debitamente firmato il 25/29.04.2013), contro il decreto 15.04.2013 del presidente della Pretura penale, è tempestivo (art. 396 cpv. 1 CPP).
L’impugnativa è anche proponibile: la decisione del tribunale di primo grado – competente a pronunciarsi,
tra l’altro, sulla tardività dell’opposizione (N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 356 CPP n. 3; BSK StPO – F. RIKLIN, art. 354 CPP n. 17 e art. 356 CPP n. 2; ZK StPO – C. SCHWARZENEGGER, art. 356 CPP n. 2) – è impugnabile, in applicazione degli art. 393 ss. CPP, alla giurisdizione di reclamo (N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 356 CPP n. 3; BSK StPO – F. RIKLIN, art. 356 CPP n. 2; ZK StPO – C. SCHWARZENEGGER, art. 356 CPP n. 2; decisione di questa Corte 17.04.2013, inc. 60.2013.63 e riferimenti).
Le esigenze di forma e di motivazione sono rispettate
nella misura in cui riguarda la ricevibilità dell’opposizione (ritenuta tardiva dalla Pretura penale e quindi irricevibile).
RE 1, imputato, è pacificamente legittimato a reclamare giusta l’art. 382 cpv. 1 CPP, avendo un interesse giuridicamente protetto all’annullamento o alla modifica del decreto qui impugnato.
3.
3.1.
La Confederazione e i Cantoni possono affidare il perseguimento e il giudizio delle contravvenzioni ad autorità amministrative (art. 17 cpv. 1 CPP).
Il Consiglio di Stato designa il Dipartimento competente ad applicare le sanzioni penali previste dalla legislazione federale in materia di circolazione, da giudicare secondo la legge del 20.04.2010 di procedura per le contravvenzioni (art. 7 della Legge di applicazione alla legislazione federale sulla circolazione stradale e la tassa sul traffico pesante del 24.09.1985, LACS, RU 7.4.2.1.).
La Sezione della circolazione, Ufficio giuridico, è competente ad istruire e a decidere le contravvenzioni e le denunce previste, tra l’altro, in materia di circolazione, salvo nei casi di competenza delle autorità giudiziarie (art. 4 lit. f del Regolamento della legge cantonale di applicazione alla legislazione federale sulla circolazione stradale del 2.03.1999, RLACS, RU 7.4.2.1.1.).
3.2.
Le autorità amministrative istituite per il perseguimento e il giudizio delle contravvenzioni dispongono dei poteri del pubblico ministero (art. 357 cpv. 1 CPP).
La procedura è retta per analogia dalle disposizioni concernenti il decreto d'accusa (art. 357 cpv. 2 CPP) [per quanto riguarda le conseguenze dell’applicazione per analogia delle predette disposizioni cfr. BSK StPO – F. RIKLIN, art. 357 CPP n. 2 ss.].
3.3.
La procedura del decreto di accusa è disciplinata agli art. 352 ss. CPP.
Il decreto di accusa – il cui contenuto è codificato nell’art. 353 CPP – può essere impugnato entro dieci giorni con opposizione scritta al pubblico ministero da: a. l’imputato; b. altri diretti interessati; c. il pubblico ministero superiore o generale della Confederazione o del Cantone nel rispettivo procedimento federale o cantonale (art. 354 cpv. 1 CPP). Ad eccezione di quella dell’imputato, l’opposizione deve essere motivata (art. 354 cpv. 2 CPP). Se non vi è valida opposizione, il decreto di accusa diviene sentenza passata in giudicato (art. 354 cpv. 3 CPP).
Se è fatta opposizione, il caso passa nuovamente nelle mani del pubblico ministero (messaggio 21.12.2005
concernente l’unificazione del diritto processuale penale, p. 1194; BSK StPO – F. RIKLIN, art. 355 CPP n. 1), che
assume se del caso le ulteriori prove necessarie al giudizio sull’opposizione (art. 355 cpv. 1 CPP). Una volta assunte le prove, il pubblico ministero decide se: a. confermare il decreto di accusa; b. abbandonare il procedimento; c. emettere un nuovo decreto di accusa; d. promuovere l’accusa presso il tribunale di primo grado (art. 355 cpv. 3 CPP).
Se decide di confermare il decreto di accusa, il pubblico ministero trasmette senza indugio gli atti al tribunale di primo grado affinché svolga la procedura dibattimentale; in tal caso, il decreto di accusa è considerato atto di accusa (art. 356 cpv. 1 CPP).
Secondo l’art. 356 cpv. 2 CPP il tribunale di primo grado statuisce sulla validità del decreto di accusa e dell’opposizione.
3.4.
In applicazione dell’art. 85 cpv. 1 CPP, salvo che il CPP disponga altrimenti, le comunicazioni delle autorità penali – comunicazioni da notificarsi al domicilio, alla dimora abituale o alla sede del destinatario (art. 87 cpv. 1 CPP) – rivestono la forma scritta.
La notificazione è fatta mediante invio postale raccomandato o in altro modo contro ricevuta, segnatamente per il tramite della polizia (art. 85 cpv. 2 CPP). La notificazione è considerata avvenuta quando l’invio è preso in consegna dal destinatario oppure da un suo impiegato o da una persona che vive nella stessa economia domestica aventi almeno sedici anni; sono fatti salvi i casi in cui le autorità penali dispongono che una comunicazione sia notificata personalmente al destinatario (art. 85 cpv. 3 CPP).
Secondo l’art. 85 cpv. 4 lit. a CPP, disposizione che ha codificato i principi giurisprudenziali (decisione TF 6B_314/2012 del 18.02.2013 consid. 1.2.), la notificazione è pure considerata avvenuta, tra l’altro, in caso di invio postale raccomandato non ritirato, il settimo giorno dal tentativo di consegna infruttuoso, sempre che il destinatario dovesse aspettarsi una notificazione.
Una persona deve attendersi una notificazione quando c’è una procedura in corso che la concerne, circostanza che impone alle parti di comportarsi conformemente alle regole della buona fede, che prescrive, segnatamente, che le parti devono fare in modo che le decisioni inerenti alla procedura possano essere loro notificate. Il dovere procedurale di doversi attendere con una certa probabilità la ricezione di una notificazione di un atto ufficiale sorge con l’apertura del procedimento penale e vale durante tutto il corso dello stesso (decisione TF 6B_314/2012 del 18.02.2013 consid.
1.3.1.; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 85 CPP n. 9; ZK StPO – D. BRÜSCHWEILER, art. 85 CPP n. 6).
L’onere della prova per la notifica delle decisioni incombe, di principio, alle autorità (decisione TF 6B_465/2012 del 12.09.2012 consid. 5.3.). Tuttavia, contrariamente a tale onere della prova, per gli invii raccomandati vi è la (confutabile) presunzione che l’ufficio postale abbia correttamente inserito l’avviso di raccomandata nella buca lettere del destinatario e che la data della notifica sia registrata correttamente (decisione TF
6B_314/2012 del 18.02.2013 consid.
1.4.1.; BSK StPO – S. ARQUINT, art. 85 CPP n. 11; ZK StPO – D. BRÜSCHWEILER, art. 85 CPP n. 7).
3.5.
Ai sensi dell’art. 90 cpv. 1 CPP i termini la cui decorrenza dipende da una notificazione o dal verificarsi di un evento decorrono dal giorno successivo. Se l’ultimo giorno del termine è un sabato, una domenica o un giorno riconosciuto festivo dal diritto federale o cantonale, il termine scade, secondo l’art. 90 cpv. 2 CPP, il primo giorno feriale seguente; è determinante il diritto del Cantone in cui ha domicilio o sede la parte o il suo patrocinatore.
Il termine è osservato se l’atto procedurale è compiuto presso l’autorità competente al più tardi l’ultimo giorno (art. 91 cpv. 1 CPP). In applicazione dell’art. 91 cpv. 2 CPP le istanze o memorie devono essere consegnate al più tardi l’ultimo giorno del termine presso l’autorità penale oppure, all’indirizzo di questa, presso la posta svizzera, una rappresentanza diplomatica o consolare svizzera oppure, per finire, qualora provengano da persone in stato di carcerazione, alla direzione dello stabilimento.
Vi è inosservanza di un termine quando una parte non compie tempestivamente un atto procedurale oppure non compare a un’udienza (art. 93 CPP). Il motivo dell’inosservanza del termine – con colpa, senza colpa – è irrilevante (BSK StPO – C. RIEDO, art. 93 CPP n. 5; ZK StPO – D. BRÜSCHWEILER, art. 93 CPP n. 2; N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 93 CPP n. 2).
4.
4.1.
La disposizione di cui all’art. 85 cpv. 4 lit. a CPP presuppone anzitutto che il destinatario dovesse aspettarsi la notificazione di un atto.
4.1.1.
In data 9.11.2012 l’Ufficio giuridico della Sezione della circolazione ha comunicato a RE 1 che nei suoi confronti è stata aperta un’istruzione in materia di contravvenzioni, essendo giunto nei suoi uffici un rapporto di querela datato 29.10.2012 da parte della _ [
"
uso illecito a scopo di posteggio di un’area privata debitamente segnalata (art. 375 bis CPC)
"].
La predetta autorità gli ha quindi assegnato un termine di quindici giorni per presentare eventuali osservazioni (AI 1
dell’incarto della Sezione della circolazione inserito nell’incarto _).
È
poi seguito uno scambio di allegati tra le parti, e meglio:
con osservazioni 19/20.11.2012 inviate alla Sezione della circolazione RE 1 ha sostenuto di essere estraneo ai fatti, poiché a suo dire non sarebbe chiaro il luogo in cui avrebbe commesso l’infrazione (sia con riferimento alla collocazione esatta, sia con riferimento alla segnalazione) [cfr. AI 2 dell’incarto della Sezione della circolazione inserito nell’incarto _].
Con replica 30.11./4.12.2012 la _ ha chiesto la conferma del suo gravame, comunicando parimenti che
"
(...) all’ingresso del parcheggio è esposto il cartello indicante che per decisione del giudice l’area è riservata (art. 375bis CPC). Inoltre ogni singolo parcheggio è segnalato col nostro logo aziendale sull’asfalto
"
, allegando le relative fotografie a sostegno delle sue argomentazioni (cfr. AI 3 dell’incarto della Sezione della circolazione inserito nell’incarto _).
Con duplica 10.12.2012 RE 1 ha comunicato alla Sezione della circolazione che
"
(...) il fatto è avvenuto in buona fede il luogo dove ho parcheggiato il mio scouter è nei pressi del parcheggio riservato alle moto della _ e nel contesto non è chiaramente indicato che quel posto è riservato da un’altra società, pertanto mi sento di contestare la contravvenzione per segnalazione insufficiente che delimita una proprietà privata
"
(cfr. AI 5 dell’incarto Sezione della circolazione inserito nell’incarto _). Le sue contestazioni sono state in sostanza ribadite con scritto 13/14.12.2012 (cfr., al proposito, AI 6 dell’incarto della Sezione della circolazione inserito nell’incarto _).
Con decreto di accusa no. _ datato 11.01.2013 l’Ufficio giuridico della Sezione della circolazione ha proposto la condanna di RE 1 al pagamento di una multa di CHF 50.-- e la tassa di giustizia di CHF 50.-- e meglio come ivi descritto
(cfr.
AI 7 dell’incarto della Sezione della circolazione inserito nell’incarto _ e considerando a. della presente decisione).
4.1.2.
In data 23.11.2012 il medesimo Ufficio ha comunicato a RE 1 che nei suoi confronti è stata aperta un’altra istruzione in materia di contravvenzioni, essendo giunto nei suoi uffici un rapporto di querela datato 2.11.2012 da parte della _ [sempre per
"
uso illecito a scopo di posteggio di un’area privata debitamente segnalata (art. 375 bis CPC)
"]. Il predetto ufficio gli ha assegnato un termine di quindici giorni per presentare eventuali osservazioni (AI 1 dell’
incarto della Sezione della circolazione inserito nell’incarto _).
Anche in questo caso è seguito uno scambio di allegati tra le parti, e meglio sono state presentate alla Sezione della circolazione le osservazioni 30.11.2012 di RE 1, la replica 30.11./4.12.2012 della _, le dupliche 10/11.12.2012 e 13.14.12.2012 di RE 1, in cui le parti hanno in sostanza confermato le loro posizioni come nell’ambito del procedimento di cui si è detto poc’anzi (AI 2 – AI 6
dell’
incarto della Sezione della circolazione inserito nell’incarto _).
Con decreto no. _ datato 11.01.2013 l’Ufficio giuridico della Sezione della circolazione ha proposto la condanna di RE 1 al pagamento di una multa di CHF 50.-- e la tassa di giustizia di CHF 50.-- e meglio come ivi descritto
(
AI 7 dell’incarto della Sezione della circolazione inserito nell’incarto _ e considerando a. della presente decisione).
4.1.3.
Ora, è pacifico che dall’apertura delle due procedure penali in materia di contravvenzioni a carico di RE 1 – aperture che peraltro gli sono state debitamente comunicate dalla Sezione della circolazione – fino all’emanazione due decreti di accusa sono trascorsi soltanto due mesi. RE 1 dal momento della loro comunicazione non poteva non rendersi conto di essere parte a questi due procedimenti penali.
Egli dunque, conformemente al principio della buona fede, doveva prevedere che gli sarebbero stati notificati degli atti giudiziari da parte della Sezione della circolazione.
4.1.4.
Circa l’argomentazione del reclamante secondo cui egli non avrebbe mai trovato la notifica della prima raccomandata nella buca lettere e che l’Ufficio postale di _ non consegnerebbe brevi manu le raccomandate ma lascerebbe nella buca lettere
"
(...) un piccolo bigliettino di notifica che spesso viene smarrito nel mucchio della corrispondenza che giornalmente ci viene recapitata
" (reclamo 17/22.04.2013),
si ricorda che
per gli invii raccomandati vi è la (confutabile) presunzione che l’ufficio postale abbia correttamente inserito l’avviso di raccomandata nella buca lettere del destinatario e che la data della notifica sia registrata correttamente (decisione TF
6B_314/2012 del 18.02.2013 consid.
1.4.1.; BSK StPO – S. ARQUINT, art. 85 CPP n. 11; ZK StPO – D. BRÜSCHWEILER, art. 85 CPP n. 7).
Il qui reclamante non sembra sostenere che il fatto di non aver asseritamente trovato nella sua buca lettere l’avviso di ritiro delle due raccomandate sia da ricondurre ad un errore di notifica da parte dell’Ufficio postale (rispettivamente dei suoi collaboratori), ma piuttosto al fatto che l’avviso sia stato da lui smarrito nel mucchio di corrispondenza che quotidianamente gli viene recapitato. A ciò aggiungasi che
dai tracciamenti degli invii risulta che il 14.01.2013 RE 1
è stato informato dell’invio per mezzo dell’usuale avviso di raccomandata (
"
Avvisato per il ritiro
"
) (AI 9 dell’incarto della Sezione della circolazione inserito nell’incarto _ e nell’incarto _).
In siffatte circostanze in casu non si può ritenere che l’Ufficio postale rispettivamente i suoi dipendenti abbiano commesso degli errori nell’ambito della notifica dell’avviso di ritiro.
4.2.
L’art. 85 cpv. 4 lit. a CPP prevede, oltre al fatto che il destinatario dovesse aspettarsi la notificazione di un atto, che la notificazione è considerata avvenuta in caso di invio postale raccomandato non ritirato, il settimo giorno dal tentativo di consegna infruttuoso.
Dalla documentazione agli atti emerge che i decreti di accusa no. _ e no. _ dell’11.01.2013 sono stati intimati, per lettera raccomandata, a RE 1 lo stesso giorno della loro emanazione.
In data 14.01.2013 il destinatario (RE 1) è stato informato dell’invio per mezzo dell’usuale avviso (
"
Avvisato per il ritiro
"
), e ciò per entrambe le lettere.
Il 22.01.2013 è stato accertato che le stesse non sono state ritirate: esse sono state dunque rispedite al mittente (
"
Rinviato in base a disposizione preliminare Non ritirato
"
).
Il 5.02.2013 entrambi i decreti sono stati rispediti, per posta semplice, dalla Sezione della circolazione a RE 1
(cfr., nel dettaglio, tracciamento degli invii e copia busta – AI 9 dell
’incarto della Sezione della circolazione inserito nell’incarto _
e nell’incarto _
).
Ne discende che, in applicazione dell’art. 85 cpv. 4 lit. a CPP, entrambi i decreti di accusa sono stati notificati a RE 1 lunedì 21.01.2013, e meglio il settimo giorno dal tentativo di consegna infruttuoso, avvenuto il giorno 14.01.2013.
Il termine di dieci giorni per presentare opposizione ai sensi dell’art. 354 cpv. 1 in relazione all’art. 90 cpv. 1 CPP, ha pertanto iniziato a decorrere il 22.01.2013 (martedì) ed è venuto a scadere il 31.01.2013 (giovedì).
L’opposizione ai decreti di accusa avrebbe quindi dovuto essere spedita dal qui reclamante al più tardi il giorno 31.01.2013 (art. 91 cpv. 1 CPP).
L’opposizione è stata inviata da RE 1 l’11.02.2013 ed è giunta alla Sezione della circolazione il 14.02.2013, dunque undici giorni dopo la scadenza del termine, che non è stato conseguentemente osservato (art. 93 CPP).
Si rileva al proposito che l’invio, per posta semplice, in data 5.02.2013 di entrambi i decreti da parte della Sezione della circolazione, non influisce sul calcolo della decorrenza del termine.
Il presidente della Pretura penale, avendo constatato che l’opposizione inoltrata da RE 1 appariva tardiva, ha assegnato a quest’ultimo un termine di dieci giorni per prendere posizione in merito alla sua tempestività, e ciò in ossequio alla giurisprudenza del Tribunale federale, secondo cui,
l’autorità che intende dichiarare irricevibile un gravame fondandosi sulla presunzione derivante dal timbro postale apposto sulla busta di spedizione, deve permettere al mittente di produrre mezzi di prova atti a confutare detta presunzione
(decisione TF 6B_397/2012 del 20.09.2012 consid. 1.2.).
Lo stesso presidente, preso atto che RE 1 non ha formulato osservazioni al riguardo, ha – rettamente – ritenuto tardiva l’opposizione in questione, dichiarandola irricevibile.
5.
Nella decisione qui impugnata è stato indicato che
"
(...) l’imputato ha inoltre lasciato decorrere infruttuosi i 30 giorni dalla cessazione di un eventuale motivo dell’inosservanza di cui all’art. 94 CPP per chiedere la restituzione del termine
"
(decisione 15.04.2013, p. 2, inc. _).
5.1.
L’art. 94 cpv. 1 CPP (che disciplina i presupposti per la restituzione di un termine) prevede che la parte che, non avendo osservato un termine, ha subito un pregiudizio giuridico importante e irrimediabile può chiederne la restituzione; a tal fine deve rendere verosimile di non avere colpa dell’inosservanza.
L’istanza va motivata e presentata per scritto entro trenta giorni dalla cessazione del motivo dell’inosservanza all’autorità presso cui avrebbe dovuto essere compiuto l’atto procedurale omesso; entro lo stesso termine occorre compiere l’atto omesso (art. 94 cpv. 2).
5.2.
La possibilità della restituzione del termine è esclusa quando sia data una qualsiasi colpa, quindi anche nel caso di una negligenza solo lieve (BSK StPO – C. RIEDO, art. 94 CPP n. 32 ss.; ZK StPO – D. BRÜSCHWEILER, art. 94 CPP n. 2; decisioni TF 6B_318/2012 del 21.01.2013 consid. 1.2. e rif.; 1B_741/2012 del 14.01.2013 consid. 3.). La restituzione del termine è concessa quando ci sono motivi oggettivamente riscontrabili, cioè ragioni che hanno reso impossibile il rispetto del termine medesimo (N. SCHMID, StPO Praxiskommentar, art. 94 CPP n. 6; Commentario CPP – M. GALLIANI / L. MARCELLINI, art. 94 CPP n. 2).
L’irrimediabile pregiudizio giuridico ai sensi dell’art. 94 cpv. 1 CPP può consistere nella perdita di una possibilità di ricorso (BSK StPO – C. RIEDO, art. 94 CPP n. 26 ss., in particolare n. 29; ZK StPO – D. BRÜSCHWEILER, art. 94 CPP n. 2; Commentario CPP – M. GALLIANI / L. MARCELLINI, art. 94 CPP n. 1).
5.3.
RE 1 sostiene che la seconda raccomandata sarebbe stata spedita nel periodo pasquale e che egli, per motivi professionali e di ferie, non sarebbe stato in grado di ritirare la lettera durante gli orari di apertura dell’Ufficio postale.
Egli si riferisce verosimilmente al fatto di non avere presentato osservazioni riguardo alla tempestività dell’opposizione, dopo che in data 25.03.2013 il presidente della Pretura penale gli ha assegnato un termine di dieci giorni per prendere posizione in merito.
Dagli atti risulta che lo scritto 25.03.2013 della Pretura penale è stato inviato al qui reclamante il medesimo giorno.
Il 26.03.2013 il destinatario è stato informato dell’invio per mezzo dell’usuale avviso (
"
Avvisato per il ritiro
"
).
Il 5.04.2013 è stato accertato che lo scritto non è stato ritirato: il medesimo è stato dunque rispedito alla Pretura penale (
"
Rinvio Non ritirato
"
), che l’ha ricevuto l’8.04.2013.
Ora, il fatto che il qui reclamante sostiene di non aver potuto ritirare la raccomandata per motivi professionali e di ferie potrebbe teoricamente essere interpretata quale richiesta di restituzione del termine.
Questa circostanza – ovverossia il fatto di essere impossibilitato a ritirare una lettera raccomandata per motivi professionali e/o per assenza causata dalle ferie – non può essere, di per sé, considerato quale motivo di restituzione: essa è, infatti, ammessa soltanto nel caso in cui una circostanza abbia posto l’interessato, oggettivamente o soggettivamente, nell’impossibilità di agire personalmente o di incaricare una terza persona di farlo, non quando l’imputato che doveva attendersi una notificazione di un atto giudiziario non prende le misure necessarie alla salvaguardia dei suoi diritti (decisione TF 1B_741/2012 del 14.01.2013 consid. 3.), come nella fattispecie qui in esame.
6.
Il qui reclamante lamenta infine che
"
(...) In tutta questa formalità si tralascia il fatto concreto che sono stato ritenuto colpevole di infrazione per un parcheggio dove:
1 non vi è alcuna indicazione come sostiene la _
2 l’avviso del giudice non riguarda la parte dove parcheggiare i motocicli in quanto è riservato alla _ la quale mi consente di parcheggiare
" (reclamo 17/22.04.2013).
Il presidente della Pretura penale ha ritenuto tardiva l’opposizione 11/14.02.2013 interposta da RE 1 ai due decreti di accusa in questione, dichiarandola irricevibile. A ragione egli non è dunque entrato nel merito della fattispecie.
Alla luce di quanto sopra esposto, il reclamo deve essere respinto.
7.
Il gravame è respinto. La tassa di giustizia e le spese sono poste a carico del reclamante, soccombente. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,013 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
e00999e5-de8f-5850-84f8-34db53741594 | in fatto:
A.
Con decreto del 9 luglio 2001 il Magistrato dei minorenni ha dichiarato _ autore colpevole di lesioni semplici qualificate per avere, verso le ore 23.30 dell'11 ottobre 1999, raggiunto alla spalla destra _ (1981), a una distanza di 44 m, con un colpo di flobert cal. 22 esploso dall'appartamento di suo padre, a _. _ è stato dichiarato colpevole inoltre di tentate lesioni semplici qualificate per avere, l'indomani tra le ore 17.30 e le 17.45, sparato dal citato appartamento altre quattro volte con il medesimo fucile nell'intento di colpire _ (1932), a circa 75 m di distanza, senza riuscirvi. In applicazione della pena, il Magistrato dei minorenni ha proposto la condanna di _ a 4 mesi di carcerazione, dedotto l'arresto preventivo sofferto, con il beneficio della sospensione condizionale per un anno. Le spese del procedimento sono state addebitate allo Stato, con una partecipazione di fr. 500.– a carico di _.
B.
Con decreto dello stesso 9 luglio 2001 il Magistrato dei minorenni ha dichiarato _, fratello maggiore di _, autore di omicidio colposo per avere, quel 12 ottobre 1999, sparato anch'egli un colpo con il noto flobert cal. 22 dall'appartamento a _ in direzione di _, colpendo la donna all'emitorace sinistro e provocandone involontariamente la morte (accertata alle ore 19.04) per lesioni interne. In applicazione della pena, il Magistrato dei minorenni ha proposto la condanna di _ a 3 mesi e mezzo di carcerazione, dedotto l'arresto preventivo sofferto, con il beneficio della sospensione condizionale per un anno. Il fucile è stato confiscato insieme con 36 colpi integri, 12 bossoli inesplosi, 5 bossoli esplosi e 9 proiettili (pallini di piombo). Le spese del procedimento sono state addebitate allo Stato, con una partecipazione di fr. 500.– a carico di _.
C.
Nei procedimenti contro _ e _ nove parenti di _ avevano notificato il 31 maggio 2001 pretese di risarcimento al Magistrato dei minorenni. Si trattava di _. La somma da loro chiesta (fr. 148 825.70 complessivi) si componeva di fr. 15 078.– per la rifusione di danni materiali (spese funerarie), fr. 115 000.– per indennità di torto morale e
fr. 18 747.70 per presumibili costi di patrocinio. Nei due decreti del 9 luglio 2001 sulle proposte di pena il Magistrato dei minorenni ha rinviato tutti loro al foro civile “in quanto l'importo avanzato (...), solo parzialmente documentato, supera il limite di competenza ex art. 15 LMM” (dispositivo n. 5).
D.
Contro i due decreti del Magistrato dei minorenni la “Parte lesa parenti _ ” ha sollevato opposizione il 17 luglio 2001, di modo che gli atti sono stati trasmessi al Consiglio per i minorenni. Statuendo il 31 ottobre 2001, quest'ultimo ha dichiarato le opposizioni irricevibili. Esso ha rilevato che in procedimenti penali a carico di fanciulli e adolescenti l'art. 15 LMM non autorizza la costituzione di parte civile. La parte lesa può chiedere bensì che il minorenne sia condannato alla rifusione del danno, ma in tal caso la domanda non deve eccedere fr. 5000.–. Oltre tale limite non sussiste la competenza del Consiglio per i minorenni, ma solo quella del foro civile ordinario, onde l'irricevibilità delle opposizioni. Non sono state prelevate tasse né spese di giudizio.
E.
Il 5 novembre 2001 _ hanno introdotto una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi del rimedio, presentati il 16 novembre successivo, essi invocano la prevalenza degli art. 8 e 9 LAV sul diritto cantonale, chiedendo che la sentenza di irricevibilità sia annullata e che sia ordinato al Consiglio per i minorenni di entrare nel merito delle opposizioni, subordinatamente di emanare un nuovo giudizio. Nelle loro osservazioni del 10 dicembre 2001 _ e _ propongono di respingere il ricorso. A identica conclusione giunge il Magistrato dei minorenni con osservazioni del 17 dicembre 2001. | Considerando
in diritto: 1.
L'art. 26 LMM (RL 4.2.2.1) dispone che “se il minorenne ha commesso un reato molto grave o si tratta di un caso particolarmente complesso”, il Magistrato dei minorenni formula l'atto di accusa e deferisce l'accusato al Consiglio per i minorenni. Negli altri casi emette una proposta di giudizio, applicando le misure e le pene previste per i minorenni dal Codice penale (art. 27 cpv. 1 LMM). È quanto ha fatto in concreto il Magistrato dei minorenni con i due decreti del 9 luglio 2001. La proposta formulata dal Magistrato diviene poi definitiva se il minorenne o i suoi rappresentanti legali non sollevano opposizione scritta entro dieci giorni (art. 27 cpv. 2 e 30 cpv. 1 e 2 LMM). In caso di opposizione la proposta di giudizio vale come deferimento al Consiglio per i minorenni (art. 27 cpv. 3 LMM). Contro le sentenze del Consiglio per i minorenni il condannato e i suoi rappresentanti legali possono poi inoltrare ricorso per cassazione secondo gli art. 287 segg. CPP (art. 37 cpv. 1 LMM).
2.
Nei procedimenti contro minorenni l'art. 15 cpv. 1 LMM non ammette la costituzione di parte civile e non consente alla parte lesa né di formulare proposte di accusa, né di opporsi alle proposte di giudizio del Magistrato dei minorenni, né di impugnare l'atto di accusa o il decreto di abbandono e nemmeno di ricorrere alla Corte di cassazione e di revisione penale contro le decisioni del Consiglio per i minorenni. La parte lesa può chiedere soltanto al Magistrato dei minorenni, rispettivamente al Consiglio per i minorenni, di statuire su pretese civili non superiori a fr. 5000.–, purché tali pretese siano riconosciute dal rappresentante legale del minorenne oppure siano documentate in modo ineccepibile; se ciò non è il caso, essa si vede rinviare al foro civile (art. 15 cpv. 2 LMM). Per poter “documentare in modo ineccepibile” le proprie domande la parte lesa è autorizzata, nei limiti fissati di caso in caso dal Magistrato dei minorenni – rispettivamente dal presidente del Consiglio per i minorenni – a consultare gli atti del procedimento penale o le risultanze d'inchiesta (art. 15 cpv. 3 LMM). Contro le decisioni di risarcimento essa potrà poi ricorrere alla Camera di cassazione civile nelle forme previste dal Codice di procedura civile (art. 15 cpv. 4 LMM). “Sono comunque riservate – soggiunge l'art. 15 cpv. 5 LMM – le norme della legge federale sull'aiuto alle vittime di reati”, in vigore dal 1° gennaio 1993.
3.
La legge federale concernente l'aiuto alle vittime di reati (LAV: SR 312.5) si applica a “ogni persona che a causa di un reato è stata direttamente lesa nell'integrità fisica, sessuale o psichica (vittima), indipendentemente dal fatto che l'autore del reato sia stato rintracciato e che il suo comportamento sia stato colpevole” (art. 2 cpv. 1). La cerchia delle persone che, oltre alla vittima diretta, possono richiamarsi ai benefici della legge varia secondo il tipo d'aiuto (art. 2 cpv. 2). Per quanto riguarda la
consulenza
(art. 3 e 4), la legge assimila alla vittima diretta – senza restrizioni – il coniuge, i figli, i genitori e tutte le persone che nel caso specifico sono unite alla vittima da legami analoghi (compagno o compagna, amico o amica prossimi). Per quanto riguarda invece
i diritti processuali e le pretese civili
(art. 8 e 9), come pure
l'indennizzo e la riparazione morale
(art. 11–17), tale assimilazione è data solo nella misura in cui gli interessati possano avanzare pretese civili proprie o derivate contro l'autore del reato (per esempio: DTF 112 II 118, 220, 226, 114 II 144). Si tratta, segnatamente, del coniuge o dei figli della vittima che fanno valere la perdita di sostegno (FF 1990 II 725 a metà).
4.
Nella fattispecie i ricorrenti si dolgono di non aver potuto esercitare i diritti di procedura che sgorgano dagli art. 8 e 9 LAV. L'art. 8, in particolare, conferisce alla vittima la facoltà di intervenire nel procedimento penale e di far valere le sue domande di risarcimento (cpv. 1 lett. a), come pure di impugnare la decisione del tribunale con gli stessi rimedi giuridici dell'imputato, “sempre ch'essa fosse già parte nella procedura e nella misura in cui la decisione riguardi le sue pretese civili oppure possa influenzare il giudizio in merito a quest'ultime” (cpv. 1 lett. c). In tutti gli stadi della procedura, dipoi, le autorità informano la vittima sui suoi diritti, comunicandole gratuitamente – su richiesta – le decisioni e le sentenze (cpv. 2). L'art. 9, a sua volta, stabilisce che per quanto l'imputato non sia prosciolto o il procedimento non sia abbandonato, il tribunale decide anche in merito alle pretese civili della vittima (cpv. 1). Può rinviare la vittima al foro civile solo qualora il giudizio completo sulle pretese esiga un dispendio sproporzionato, nel qual caso può limitarsi a prendere sull'azione civile una decisione di principio. Per quanto possibile, in ogni modo, esso deve giudicare integralmente le pretese “di lieve entità” (cpv. 3), ovvero quelle “di poche migliaia di franchi, in merito alle quali non varrebbe la pena d'avviare un processo civile e che risulterebbero dunque perdute per le vittime” (FF 1990 II 736 nel mezzo). In estrema sintesi, l'art. 8 fissa il principio secondo cui le pretese civili devono poter essere giudicate nel procedimento penale e l'art. 9 concreta tale principio, limitando sensibilmente le possibilità di rinvio al foro civile.
5.
I ricorrenti avanzano, come detto, pretese civili per risarcimento danni (spese funeriarie, costi di patrocinio) e per torto morale. Ora, che il coniuge, i figli, i genitori e le persone unite alla vittima da vincoli analoghi possano invocare le garanzie degli art. 8 e 9 LAV quando postulano il risarcimento dei danni morali e materiali non fa dubbio (
Zehntner
in: Gomm/Stein/Zehntner, Kommentar zum Opferhilfegesetz, Berna 1995, n. 29 ad art. 2). La questione è di sapere tutt'al più in che misura i singoli interessati abbiano effettivamente subìto un danno, rispettivamente – ai fini del torto morale – in che misura essi fossero concretamente legati alla vittima (
Schnyder
in:
Kommentar zum Schweizerischen Privatrecht
, OR I, 2a edizione, n. 9 ad art. 47). Sta di fatto che, sia come sia, l'autorità penale non potrebbe rifiutarsi di giudicare la fondatezza di tali pretese – almeno in linea di principio (art. 9 cpv. 3 LAV) – e rinviare semplicemente gli interessati al foro civile, com'è avvenuto in concreto. Se nella fattispecie la decisione del Magistrato dei minorenni sfugge alla critica, ciò si deve alle particolarità cui vanno soggetti i procedimenti penali a carico di fanciulli e adolescenti (nel senso degli art. 82 e 89 CP), come si vedrà in appresso.
6.
Si è rilevato poc'anzi che l'art. 8 LAV fissa il principio secondo cui le pretese civili devono poter essere giudicate in sede penale e l'art. 9 concreta tale principio, limitando le possibilità di rinvio al foro civile (sopra, consid. 4). Proprio l'art. 9 cpv. 4 LAV stabilisce nondimeno che “per quanto concerne le pretese civili, i Cantoni possono emanare disposizioni diverse per la procedura del decreto di accusa e per i procedimenti contro fanciulli e adolescenti”. Il rito del decreto d'accusa e quello contro fanciulli e adolescenti si distinguono invero “per un gran numero di deroghe per rapporto alle norme generali di procedura. Un'applicazione generalizzata degli art. 8-9 LAV potrebbe rimettere fondamentalmente in questione questi due tipi di procedimento. I Cantoni devono di conseguenza avere la possibilità, per questi due tipi di procedimento, di prevedere, laddove indispensabile, eccezioni agli art. 8 cpv. 1 e 9” (FF 1990 II 736 verso il basso). Se, in tali procedure, i Cantoni escludono il giudizio sulle pretese civili, “la vittima non dispone allora dei diritti previsti dall'art. 8 cpv. 1 lett. a e c” (FF 1990 II 733 a metà). In altri termini, essa non può chiedere che il tribunale statuisca sulle sue domande risarcitorie, né può ricorrere contro la relativa decisione con gli stessi rimedi giuridici dell'imputato, appunto perché le è preclusa la facoltà di costituirsi in qualità di parte (civile) davanti al tribunale.
7.
Ciò posto, l'art. 15 LMM, promulgato l'8 marzo 1999 ed entrato in vigore il 1° aprile 2000, poggia su una chiara base del diritto federale nella misura in cui limita le possibilità, per la parte lesa, di far capo al giudice penale. Del resto, la vecchia legge sulla magistratura dei minorenni del 4 novembre 1974 non prevedeva una disciplina diversa: nanch'essa ammetteva la costituzione di parte civile nei procedimenti contro fanciulli e adolescenti (art. 12 cpv. 1 vLMM). Consentiva unicamente che la parte lesa notificasse all'autorità penale pretese “sino a un limite massimo di
fr. 500.–” (rispetto ai fr. 5000.– dell'attuale art. 15 cpv. 2 LMM) alle identiche condizioni della legge odierna (art. 12 cpv. 2 vLMM). Ne segue che a ragione il Magistrato dei minorenni ha rinviato _, i quali hanno insinuato pretese per complessivi fr. 148 825.70, al foro civile. Se mai ha commesso un'inavvertenza il Consiglio per i minorenni, che avrebbe dovuto respingere (e non dichiarare irricevibili) le opposizioni degli interessati. In quanto lamentavano la violazione degli art. 8 e 9 LAV, gli opponenti evocavano infatti norme federali di procedura e il loro gravame era ammissibile. Anzi, la disattenzione degli art. 8 e 9 LAV può essere fatta valere fin davanti al Tribunale federale con ricorso per cassazione giusta l'art. 269 cpv. 1 PP (FF 1990 II 735 in basso). L'inavvertenza del Consiglio per i minorenni non avendo nuociuto ai diritti dei ricorrenti, non è il caso ad ogni modo di attardarsi su questo punto.
8.
Rimane da chiarire che significato abbia l'art. 15 cpv. 5 LMM, il quale riserva “comunque” le norme della legge federale concernente l'aiuto alle vittime di reati. Interpretata alla lettera, tale disposizione parrebbe conferire infatti alla parte lesa – mediante una sorta di rinvio di ritorno – i diritti degli art. 8 e 9 LAV (costituzione di parte civile), in contraddizione con i capoversi che la precedono. Per la verità, l'art. 15 cpv. 5 LMM non figurava nel disegno di legge presentato dal Consiglio di Stato (messaggio n. 4796, del 7 ottobre 1998, non ancora pubblicato nei Verbali del Gran Consiglio). È stato inserito nel progetto dalla Commissione speciale per l'organizzazione del Ministero pubblico, come si desume dal rapporto n. 4796 R, nel quale si legge che “la Commissione, in particolare in seguito ad una riflessione dell'on. _, ha ritenuto opportuno introdurre nella LMM un richiamo esplicito alle disposizioni della LF sull'aiuto alle vittime di reati” (commento all'art. 15). Tutto si ignora però sul contenuto di tale “riflessione”, cui il rapporto non fa cenno, sicché portata dell'art. 15 cpv. 5 LMM rimane oscura.
9.
Nonostante quanto precede, un fatto si evince con chiarezza: mai il legislatore cantonale ha inteso concedere alla parte lesa in un procedimento contro fanciulli e adolescenti il diritto di costituirsi parte civile. Esclusa – come si è accennato – già nella vecchia legge sulla magistratura dei minorenni, tale facoltà era estranea alle intenzioni del Consiglio di Stato per quanto riguarda la nuova legge (messaggio citato, commento all'art. 15 del disegno di legge) ed è stata scartata anche dalla Commissione speciale per l'organizzazione del Ministero pubblico. Nel menzionato rapporto n. 4796 R quest'ultima ricordava bensì di essersi “chiesta se non fosse opportuno o consentire alla parte lesa di costituirsi parte civile, limitandone tuttavia i diritti in considerazione della particolarità del procedimento, o mantenere la soluzione proposta nel messaggio, invitando tuttavia il Magistrato dei minorenni ad instaurare una prassi piuttosto largheggiante, affinché la parte lesa, in presenza di reati importanti, possa per lo meno accedere agli atti con un certo agio”. Per finire tuttavia essa aveva dato atto di scegliere la seconda soluzione (rapporto, commento all'art. 15).
10.
Se ne conclude che, qualunque significato si attribuisca all'art. 15 cpv. 5 LMM, esso non si estende alla facoltà di costituirsi parte civile. Certo, può sembrare singolare che la parte lesa possa, senza costituirsi parte civile, far valere davanti al giudice penale – quantunque a precise condizioni – pretese sino a fr. 5000.– (art. 15 cpv. 2 LMM). Tale norma trova giustificazione però, come spiega il noto messaggio del Consiglio di Stato (commento all'art. 15 cpv. 2), nell'art. 9 cpv. 3 in fine LAV, che fa obbligo al giudice penale di statuire per quanto possibile sulle pretese di lieve entità. Quanto allo scopo dell'art. 9 cpv. 3 in fine LAV, esso è già stato rammentato (sopra, consid. 4). Tutto ciò conferma che a giusta ragione il Magistrato dei minorenni ha rinviato le parti lese, con i due decreti del 9 luglio 2001, al foro civile e che correttamente il Consiglio per i minorenni ha respinto (sebbene in ordine anziché nel merito) le opposizioni degli interessati.
11.
Gli oneri del presente giudizio seguirebbero la soccombenza (art. 15 cpv. 1 CPP, cui rinvia l'art. 37 cpv. 1 LMM). Trattandosi ad ogni modo di un caso di principio in cui le parti lese possono essere state indotte in buona fede a ricorrere, Consiglio per i minorenni non avendo minimamente alluso alla legge federale concernente l'aiuto alle vittime di reati (esplicitamente invocata nella notifica delle pretese), si giustifica nondimeno – in via eccezionale – di rinunciare a ogni prelievo. _ e _, che hanno introdotto osservazioni al ricorso con il patrocinio di un avvocato, hanno diritto in ogni modo a un'equa indennità per ripetibili (art. 9 cpv. 6 CPP, applicabile per il rinvio del già citato art. 37 cpv. 1 LMM). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,002 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
e10ea512-fa43-5666-b9ea-1748cdc1b0eb | in fatto: A.
Con sentenza contumaciale del 23 dicembre 1999 il Pretore del Distretto di Bellinzona ha dichiarato _ autore colpevole di trascuranza degli obblighi di mantenimento e lo ha condannato a 15 giorni di detenzione da espiare, come pure al pagamento di fr. 49'602.– all'Ufficio del sostegno sociale e dell'inserimento, costituitosi parte civile. Egli ha ordinato inoltre la revoca della sospensione condizionale a una pena di 15 giorni di detenzione inflitta all'imputato dallo stesso Pretore con sentenza del 22 aprile 1996 per il medesimo reato e ha prolungato di un anno il periodo di prova relativo un'altra pena, di 4 mesi di detenzione, irrogata a _ il 20 aprile 1995 dal Tribunale penale cantonale di _.
B. _
ha chiesto il 20 giugno 2000 la revoca della sentenza contumaciale (art. 277 cpv. 3 CPP) e ha invitato il Pretore ad aggiornare il dibattimento nella seconda metà di settembre, considerate le assenze sue e del suo avvocato per ferie. Il Pretore ha fissato però il dibattimento, il 21 giugno 2000, per il 3 agosto successivo. Con lettera del 22 luglio 2000 il patrocinatore di _, richiamata l'istanza del 20 giugno 2000, ha reiterato per il rinvio del dibattimento, precisando che in caso di rifiuto avrebbe rinunciato al mandato per l'impossibilità di raggiungere il cliente. Con decisione del 24 luglio 2000 il Pretore ha respinto l'istanza e ha avvertito l'imputato che in caso di mancata comparizione al dibattimento del 3 agosto successivo la sentenza contumaciale sarebbe divenuta definitiva.
C.
Con sentenza del 3 agosto 2000 il Pretore del Distretto di Bellinzona, preso atto della rinuncia al mandato da parte del patrocinatore e accertata l'assenza ingiustificata dell'imputato al dibattimento, ha nuovamente dichiarato _ autore colpevole del reato ascrittogli, confermando quanto già deciso il
23 dicembre 1999. _ è insorto il 12 settembre 2000 davanti alla Corte di cassazione e di revisione penale, chiedendo l'annullamento della sentenza pretorile e la celebrazione di un nuovo processo. Il ricorso per cassazione è stato respinto con sentenza del 12 settembre 2000 (inc. 17.2000.38).
D.
Con istanza del 28 marzo 2002, redatta in tedesco, _ ha chiesto la revisione delle sentenze emanate il 23 dicembre 1999 e il 3 agosto 2000 dal Pretore del Distretto di Bellinzona. Il presidente della Corte di cassazione e di revisione penale gli ha assegnato il 2 aprile 2002 un termine di 20 giorni per tradurre l'istanza in italiano, con l'avvertimento che in caso di inadempienza la domanda sarebbe stata dichiarata inammissibile. Una richiesta di proroga del termine è poi stata respinta dallo stesso presidente. Non avendo l'interessato provveduto alla traduzione dell'atto, con sentenza del 20 aprile 2002 la Corte di cassazione e di revisione penale ha dichiarato l'istanza inammissibile (inc. 17.2002.15).
E.
Il 30 maggio 2002 _ ha riproposto l'istanza di revisione in lingua italiana, chiedendo che le citate sentenze del Pretore fossero annullate, che ne fosse sospesa l'esecutività, che gli fosse versata una congrua indennità e che le spese processuali fossero poste a carico della Pretura del Distretto di Bellinzona. Statuendo il 21 giugno 2002, la Corte di cassazione e di revisione penale ha respinto l'istanza (inc. 17.2002.35). Un ricorso per cassazione introdotto da _ contro tale sentenza al Tribunale federale è stato respinto nella misura in cui era ammissibile il 16 agosto 2002 (6S.332/2002).
F.
Il 16 aprile 2003 _ ha inoltrato un'ulteriore istanza di revisione in lingua tedesca volta all'annullamento delle citate sentenze pretorili, alla sospensione della loro esecutività e all'ottenimento di un congruo indennizzo. L'istanza non è stata oggetto di intimazione. | Considerando
in diritto: 1.
L'istanza di revisione è redatta una volta ancora in tedesco. Nel Cantone Ticino tuttavia la lingua ufficiale è l'italiano, il cui uso per rivolgersi alle autorità è obbligatorio (CCRP, decreti presidenziali del 4 luglio 2001 in re J. e del 17 febbraio 1997 in re D.; sentenza del Tribunale federale 1P.693/2002 del 16 gennaio 2002 in re J., consid. 3). In concreto andrebbe quindi assegnato all'istante un termine per tradurre l'istanza, con l'avvertimento che decorso infruttuoso il termine l'atto sarà dichiarato inammissibile. A titolo eccezionale si può nondimeno prescindere da tale esigenza. Come si vedrà in seguito, difatti, l'istanza appare già a prima vista manifestamente priva di possibilità di esito favorevole, ciò che ne rende superflua la traduzione.
2.
L'istante fonda la domanda di revisione sull'art. 299 cpv. 1 lett. a CPP, rimproverando al Pretore di avere violato l'art. 217 cpv. 2 CP, come avrebbe rilevato anche la Corte di cassazione e di revisione penale nella sentenza del 21 giugno 2002. A parte il fatto però che questa Corte non ha constatato alcuna violazione del diritto da parte del Pretore, ciò che ha sottolineato anche il Tribunale federale nella nota sentenza del 16 agosto 2002, l'istante cerca con ogni evidenza di tornare su un argomento – la critica al Pretore di non avere salvaguardato gli interessi della famiglia riconoscendo all'Ufficio del sostegno sociale e dell'inserimento il diritto di querelarlo – già trattato nell'ambito della precedente istanza di revisione. In quella sentenza si era però ricordato all'istante (consid. 3 in fondo) che, disertando senza giustificazione pure il secondo dibattimento, egli si era precluso la facoltà di ricorrere contro l'applicazione dell'art. 217 cpv. 2 CP. Su questo punto la Corte di cassazione e di revisione penale ha già statuito e l'istante non può dunque rimettere in causa il problema (art. 307 cpv. 2 CPP). D'altro lato l'istante dimentica che, come la Corte di cassazione e di revisione penale ha già avuto modo di spiegargli, le pretese strette relazioni di un padre con il figlio non ostano a una querela introdotta dall'Ufficio del sostegno sociale e dell'inserimento per inosservanza dell'art. 217 cpv. 2 CP (sentenza del 9 ottobre 1996, consid. 5e). Insistere sordamente sullo stesso argomento non è quindi serio. Sprovvista di adeguata motivazione, al proposito la domanda di revisione non merita ulteriore disamina.
3.
Gli oneri processuali seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 con rinvio all'art. 9 cpv. 1 CPP), | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,003 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
e12fcbac-930a-5e3b-807d-f5e364b36512 | in fatto:
A.
Con decreto di accusa 22 giugno 2009, il procuratore pubblico ha riconosciuto RI 3, segretario sindacale, autore colpevole di violazione di domicilio per essersi introdotto, 11 novembre 2008, di comune accordo con RI 2, negli spazi di pertinenza della RI 1, indebitamente e contro la volontà degli aventi diritto e malgrado l’ingiunzione a uscire più volte fattagli.
Il procuratore pubblico ha, pertanto, proposto la condanna di RI 3 alla pena pecuniaria di 8 aliquote giornaliere da fr. 110.- ciascuna (corrispondenti a complessivi fr. 880.-), sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, oltre alla multa di fr. 200.- e al pagamento di tasse e spese.
B.
Per gli stessi fatti - e per avere bloccato con un piede la porta d’accesso che una dipendente tentava di chiudere - il procuratore pubblico, con decreto di accusa di pari data, ha riconosciuto anche RI 2, pure sindacalista, autore colpevole di violazione di domicilio e, in applicazione della pena, ne ha proposto la condanna alla pena pecuniaria di 8 aliquote giornaliere da fr. 100.- ciascuna (corrispondenti a complessivi fr. 800.-), sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni, oltre alla multa di fr. 200.- e al pagamento di tasse e spese, rinviando la RI 1 al competente foro per le pretese di natura civile.
C.
Statuendo sulle opposizioni presentate dagli accusati, con sentenza 4 maggio 2010 il giudice della Pretura penale ha prosciolto entrambi dall’accusa di violazione di domicilio. Respingendo le pretese di risarcimento avanzate dalla parte civile nei loro confronti, il primo giudice ha precisato che nei confronti di RI 2 il rinvio al foro civile era, in ogni caso, già cresciuto in giudicato poiché previsto in un punto del decreto d’accusa che non è stato oggetto di opposizione da parte della RI 1.
D.
In data 5 maggio 2010, la parte civile ha inoltrato dichiarazione di ricorso contro la sentenza del primo giudice. Nei motivi del gravame, presentato il 7 giugno seguente, la RI 1 rimprovera al primo giudice di avere erroneamente ritenuto non valida la querela, di avere accertato arbitrariamente lo svolgimento dei fatti e di avere applicato erroneamente il diritto ritenendo un errore sui fatti e postula, pertanto, la riforma della pronuncia in questione e la condanna dei due sindacalisti per violazione di domicilio e al conseguente suo risarcimento di fr. 4'129.75 (comprensivi di spese legali e perdita di guadagno del direttore).
E.
Con memoriale datato 22 giugno 2010, i due accusati prosciolti si sono opposti all’accoglimento del ricorso ritenendolo irricevibile ed in ogni caso infondato.
Dal suo canto, il procuratore pubblico, con scritto 15 giugno 2010, ha comunicato di non avere particolari osservazioni da formulare e si é rimesso al giudizio di questa Corte. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è essenzialmente un rimedio di diritto (art. 288 lett. a e b CPP), ritenuto che l’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono censurabili unicamente per arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP) e che arbitrario non significa manchevole, discutibile o finanche inesatto, bensì manifestamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 135 V 2 consid. 1.3; 133 I 149 consid. 3.1; 132 I 13 consid. 5.1; 131 I 217 consid. 2.1; 129 I 173 consid. 3.1 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b; 112 Ia consid. 3).
2.
Data la natura della contestazione, occorre esaminare in primo luogo la censura della ricorrente riguardante la validità della querela penale (con costituzione di parte civile) presentata il 9 febbraio 2009.
2.1.
Il primo giudice ha considerato, “
a titolo di premessa e con valore abbondanziale
”, che la querela della RI 1 non era stata presentata validamente (sentenza impugnata, consid. 9, pag. 11) poiché dagli atti emerge che “
la procura all’avv. PA 1 per rappresentare la RI 1 nella presente procedura penale è stata conferita dal signor _ (come si vede chiaramente dal confronto delle firme con quelle del suo verbale di audizione)
”, non risultando dall’estratto del Registro di commercio della società alcun potere di firma individuale del signor _, e non essendo stata prodotta alcuna delega in suo favore o qualsiasi altro atto “
dal quale si possa desumere che gli sia stata conferita competenza in materia
”. La querela - conclude il primo giudice - è così “
priva di valenza giuridica poiché effettuata a nome di una società da parte di persone non autorizzate a rappresentarla
” (sentenza impugnata, consid. 9, pag. 11).
Dopo avere precisato che tale conclusione “
renderebbe inutile qualsiasi ulteriore approfondimento
”, il primo giudice ha, comunque, ritenuto opportuno assolvere i due imputati solo dopo un esame di merito della vicenda (sentenza impugnata, consid. 9, pag. 11).
2.2.
La società ricorrente insorge contro tale conclusione sostenendo che _, direttore della società, “
era autorizzato, così come ha fatto, a sporgere regolare querela per violazione di domicilio (cfr. verbale di polizia, _, del 25 febbraio 2009, p. 2), come pure a sottoscrivere la relativa procura all’avv. PA 1, legale della società (cfr. procura allegata alla querela 9 febbraio 2009)
” (ricorso, pag. 3).
E’ infatti assolutamente errato - continua la ricorrente - considerare che la mancata iscrizione di _ a Registro di commercio come titolare di un diritto di firma implichi una sua carenza di legittimazione per presentare una querela per la società (ricorso, pag. 3) poiché la facoltà di inoltrare querela a nome e per contro di una persona giuridica si determina in base all’organizzazione interna della società, valutando “
chi ha il compito (...) di occuparsi dei suoi interessi lesi dalla contravvenzione/delitto
”, ciò che nel caso concreto spetta al direttore _ (ricorso, pag. 3). Irrilevante dunque - conclude la ricorrente - che egli non sia iscritto a Registro di commercio o che non abbia ricevuto una procura
ad hoc
dal Consiglio di amministrazione della società: “
il potere di esercitare il controllo di quanto avviene all’interno dello stabilimento di lavoro, come pure di intraprendere tutte le misure atte a salvaguardare il regolare svolgimento dell’attività lavorativa e la tutela della proprietà può essere conferito tacitamente, per atti concludenti od essere”
- come nella fattispecie - “
implicito nella funzione svolta
” (ricorso, pag. 4).
2.3.
Giusta l’art. 186 CP chiunque indebitamente e contro la volontà dell’avente diritto s’introduce in una casa, in un’abitazione, in un locale chiuso di una casa, od in uno spiazzo, corte o giardino cintati e attigui ad una casa, od in un cantiere, oppure vi si trattiene contro l’ingiunzione d’uscirne fatta da chi ne ha diritto, è punito, a querela di parte, con una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria.
L'art. 30 cpv. 1 CP (corrispondente al previgente art. 28 cpv. 1 vCP) prescrive che, se un reato è punibile solo a querela di parte - come è il caso per la violazione di domicilio - chiunque ne è stato leso può chiedere che l'autore sia punito.
La querela penale è una dichiarazione di volontà incondizionata mediante la quale la parte lesa domanda all'autorità competente il promuovimento dell'azione penale (STF 1. settembre 2005, inc. 6S.110/2005, consid. 2.2; DTF 128 IV 81 consid. 2a; 115 IV 2 consid. 2a; 108 Ia 99 consid. 2; 106 IV 244 consid. 1 e rif.; Favre/Pellet/Stoudmann, Code pénal annoté, Losanna 2007, ad art. 30 n. 1.2). In quanto condizione dell’azione penale (e non di punibilità dell’atto, secondo la giurisprudenza e la dottrina maggioritaria, cfr. DTF 129 IV 305, consid. 4.2.3), la validità di tale atto deve essere esaminata d'ufficio (STF 11 agosto 2004, inc. 6S.439/2003, consid. 6; sentenza CCRP 18 febbraio 2000, inc. 17.1999.61, consid. 4; Riedo, Basler Kommentar, ad art. 30 n. 67 e rif.). L’esistenza di un difetto formale della querela comporta l'abbandono del procedimento (Trechsel, Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskommentar, vor art. 30 CP, n. 4 e 11; Riedo, op. cit., ad art. 30 n. 71). Il diritto federale lascia alla procedura cantonale la facoltà di definire i requisiti di forma della querela (DTF 90 IV 170; 103 IV 132 con rif.; Favre/Pellet/Stoudmann, op. cit., ad art. 30 n. 1.3): l’art. 68 CPP prevede che essa deve essere presentata in forma scritta (Rusca/Salmina/Verda, Commento del CPP ticinese, ad. art. 68 n. 6).
Quando la querela è sporta a nome e per conto di una persona giuridica, occorre riferirsi alla struttura interna della società per determinare chi è legittimato a presentare un tale atto. In generale, questa qualità appartiene all’organo che ha per compito di vegliare sugli interessi che sono stati lesi dall’infrazione e i cui poteri sono menzionati a Registro di commercio. Nella società anonima, si tratta, di principio, del Consiglio di amministrazione (DTF 118 IV 167, consid. 1; 99 IV 2/5 consid. a-d; Riedo, op. cit., ad art. 30 n. 60; Favre/Pellet/Stoudmann, op. cit., ad art. 30 n. 1.8; Stoll, Commentaire Romand, CP, ad art. 30 n. 31; v. anche CCRP 22 febbraio 2010, inc. 17.2009.30, consid. 2).
Laddove il firmatario della querela non disponga dei necessari poteri di rappresentanza, la querela è ammissibile soltanto se la ratifica dell’avente diritto interviene prima della scadenza del termine di tre mesi dell’art. 31 CP (DTF 118 IV 167 consid. 1; 103 IV 72 consid. 4b; cfr. CCRP 18 febbraio 2000, inc. 17.1999.61, consid. 4, in cui una querela per reati contro l’onore non è stata considerata valida in quanto firmata unicamente da un rappresentante iscritto a registro di commercio con diritto di firma a due, e ratificata da un altro titolare di diritto di firma dopo la scadenza del termine di tre mesi).
Il diritto di presentare querela è di principio solo personale e non può essere trasferito ad altri. La persona lesa può, tuttavia, designare un rappresentante e delegargli tale facoltà (DTF 122 IV 207, consid. 3c).
In tale ambito, il Tribunale federale distingue il caso dei reati in cui è in gioco una violazione di diritti patrimoniali (quali ad esempio il furto ex art. 139 CP) o una violazione di diritti strettamente personali (quale ad esempio il diritto all’onore protetto dall’art. 173 CP).
In questo ultimo caso, il rappresentante prescelto non potrà decidere autonomamente se presentare o meno la querela, ma avrà bisogno di una procura
ad hoc
che lo autorizzi ad agire in tal senso nel caso specifico (DTF 118 IV 167 consid.
1; 99 IV 4 consid. d, 73 IV 70 consid. 4; v. anche Trechsel, Schweizerisches Strafgesetzbuch, 2008, ad 30 n. 5; Riedo, Basler Kommentar, II ed. 2007, ad art. 30 n. 63-64).
Nel secondo caso, invece, il rappresentante potrà agire autonomamente, sulla base di una procura generale conferitagli anche prima della commissione del reato (DTF 122 IV 207, consid. 3c; Trechsel, op. cit., ad 30 n. 5; Riedo, op. cit., ad art. 30 n. 63-64).
Il Tribunale federale ha precisato che non rientrano nella categoria dei diritti strettamente personali (per loro natura inerenti la persona dell’avente diritto, o che dipendono dal suo stato, come ad esempio l’onore) quei diritti “semplicemente” personali, che non derivano direttamente dalla persona del titolare ma dal contenuto di un rapporto di diritto determinato, di natura pubblica o privata, reale o personale/obbligazionaria, assimilandoli ai diritti patrimoniali (DTF 118 IV 167, consid. 1c e rif.).
In caso di violazione di domicilio, il Tribunale federale ha avuto modo di precisare che il bene giuridicamente protetto dalla norma penale è la libertà di domicilio (
Hausrecht
), che comprende la facoltà di vivere in luoghi determinati in maniera indisturbata e di manifestarvi liberamente la propria volontà (DTF 128 IV 81 consid. 3, 122 IV 207, consid. 3c; 118 IV 167 consid. 1c; v. anche sentenza CCRP 17 febbraio 2005, inc. 17.2002.47, consid. 4; Delnon/Rüdy, Basler Kommentar, Strafrecht II, 2. ed., ad art. 186 CP n. 5a). L’
Hausrecht
appartiene a colui che ha il potere effettivo di disporre dei luoghi, che sia in virtù di un diritto reale o personale o ancora in virtù di un rapporto di diritto pubblico (così, nell’ipotesi di un contratto di locazione, l’avente diritto è il conduttore e non il proprietario; DTF 118 IV 167, consid. 1c). Da ciò deriva, secondo l’alta Corte, che la legittimazione per presentare una querela fondata sull’art. 186 CP non ha la sua fonte nella persona stessa del leso (come è, ad esempio, il caso per lesioni all’onore o all’integrità corporea/corporale), ma esclusivamente nel contenuto della relazione di diritto che fonda il potere di disporre dei luoghi. Pertanto, ai diritti di rappresentanza per sporgere una querela in caso di lesione della libertà di domicilio è corretto riservare lo stesso trattamento riservato ai casi di lesione dei diritti patrimoniali (DTF 118 IV 167, consid. 1c).
Di conseguenza, in applicazione della giurisprudenza federale, trattandosi di salvaguardare interessi commerciali della società, e nella misura in cui la querela non sia contraria alla volontà di quest’ultima, un mandatario commerciale ex art. 462 CO può validamente sporgere querela per la SA per violazione di domicilio, anche senza preventiva decisione del Consiglio di amministrazione (DTF 118 IV 167 consid. 1; 99 IV 4 consid. d, 73 IV 70 consid. 4).
In questi casi, il Tribunale federale tende infatti a considerare la funzione svolta dal dipendente - o meglio, a verificare se il suo ruolo consiste nel vegliare alla salvaguardia del bene giuridicamente protetto e leso dall’infrazione - piuttosto che l’esistenza di poteri speciali in suo favore (cfr. anche Corboz, Les infractions en droit suisse, Vol. I, ad art. 186 CP, n. 50).
Nel caso concreto già richiamato - concernente una società immobiliare a beneficio di un mandato generale ex art. 462 CO, che aveva presentato una querela per conto di un’altra società anonima, proprietaria dell’immobile dato in gestione alla prima - l’alta Corte ha considerato la società immobiliare legittimata a presentare querela penale per violazione di domicilio in rappresentanza della società proprietaria dell’immobile, i cui diritti erano manifestamente lesi nelle circostanze del caso, nonostante non disponesse di una procura
ad hoc
in tal senso (DTF 118 IV 167, consid. 1c e rif.) precisando che un tale mandato generale (
in casu
, conferito esplicitamente alla società immobiliare dalla proprietaria dell’immobile) avrebbe anche potuto essere conferito tacitamente, per atti concludenti (DTF 118 IV 167, consid. 1c).
Anche la giurisprudenza dell’
Obergericht
del Canton Zurigo, così come modificata da una sentenza del 15 settembre 2005 (ZR 104 (2005) pag. 289-291, riassunta anche in AJP 2006, pag. 860-861), considera che nel caso di reati contro il patrimonio o contro la libertà di domicilio, per determinare la legittimazione a presentare una querela per una persona giuridica non è decisiva l’esistenza di un diritto di firma risultante dal Registro di commercio, nel senso che l’assenza di tali poteri non basta per invalidare una querela (come era il caso nella precedente e criticata giurisprudenza della Corte cantonale zurighese). Risulta, invece, essenziale determinare se la persona che ha presentato la querela era incaricata, espressamente o tacitamente, di salvaguardare gli interessi della persona giuridica in questione lesi dall’infrazione.
Nemmeno un’autorizzazione speciale a stare in lite ex art. 462 cpv. 2 CO si rivela necessaria, se la querela serve solo a mettere le autorità inquirenti nella condizione di iniziare il procedimento; l’atto di sporgere querela non presuppone una partecipazione attiva del querelante alla procedura e, dunque, nemmeno uno “
stare in giudizio
” (sentenza citata e DTF 73 IV 70 consid. 3; v. anche Riedo, op. cit., ad art. 30 n. 64).
Nella sentenza summenzionata, è stata riconosciuta la legittimazione a sporgere una querela per violazione di domicilio da parte di un amministratore di immobili (
Liegenschaftenverwalter
) dipendente della società proprietaria dello stabile, nonostante questi non facesse parte del Consiglio di amministrazione e a Registro di commercio figurasse solo come titolare di una firma collettiva a due. Secondo la Corte, infatti, tale limitazione del potere di firma non incide sul fatto che egli, in forza della sua funzione di amministratore di immobili in seno alla società, era chiamato a garantire i diritti patrimoniali della società e deve dunque essere considerato, per tale fatto, legittimato a presentare una querela penale per un delitto contro tale bene giuridicamente protetto indipendentemente.
2.4.
Nella fattispecie, non sono contestati gli accertamenti del primo giudice secondo cui _ è l’autore della firma sulla procura rilasciata all’avv. PA 1 né che quest’ultimo non abbia alcun potere di firma in base al Registro di commercio.
La procura conferita all’avv. PA 1 è datata 9 febbraio 2009 ed indica quale querelante la “RI 1”.
Va, qui, menzionato che a tale data non esisteva alcuna SA così denominata con sede a _. Come risulta dal Registro di commercio, la RI 1 è una società con sede principale a _, i cui i poteri di firma sono conferiti a _ (presidente), _ (amministratore), oltre a _ (entrambi con firma collettiva a due). Posteriormente al dibattimento, è stata iscritta a RC una succursale della società con sede a _, all’indirizzo indicato sulla querela, ma non sono stati modificati i diritti di firma.
Le signore D. e S. hanno dichiarato di essere alle dipendenze della RI 1 e che _ era il loro superiore (“direttore amministrativo” cfr. verbali d’interrogatorio di D., pag. 1, e di S., pag. 2), come da lui affermato.
Gli accusati non hanno, durante il procedimento, contestato tale suo ruolo. Inoltre, va, al proposito, sottolineato che, durante lo svolgimento dei fatti, essi - riferendosi ad un procedimento civile intentato per questioni salariali da una dipendente della società e conclusosi con la condanna della RI 1 da parte del giudice di pace; verbali d’interrogatorio di D., pag. 3, episodio confermato da RI 3, pag. 4, e da RI 2, pag. 5 - avevano pure fatto cenno al fatto che il direttore aveva già fatto una figuraccia davanti al pretore e che, da questo, si deve dedurre che anche in tale procedimento _ era intervenuto in rappresentanza della società.
Da questi elementi risultanti dall’incarto va concluso che, all’epoca, a _ esisteva unicamente uno stabilimento secondario della società di _, la cui direzione era affidata a _, senza conferimento di procura iscritta a RC ma in qualità di mandatario commerciale ex art. 462 CO.
In base alla giurisprudenza summenzionata, e indipendentemente dall’assenza di formali poteri di firma iscritti a RC, il primo giudice non poteva, dunque, concludere che _ non fosse legittimato a sporgere una querela per violazione di domicilio in qualità di rappresentante (e non di organo) della RI 1, persona giuridica il cui
Hausrecht
è stato asseritamente violato dai due sindacalisti.
Su questo aspetto - pur se deciso soltanto in via abbondanziale - la sentenza del primo giudice non merita tutela.
3.
La parte civile critica, ritenendoli arbitrari, l’accertamento dei fatti e la valutazione delle prove operati dal giudice della pretura penale.
3.1.
Nella pronuncia impugnata, il primo giudice ha posto a confronto le versioni dei fatti esposte dai due accusati e dalle signore S. (responsabile dei flussi di produzione presso la RI 1) e D. (segretaria) che - presenti in ditta - sono state coinvolte in prima persona negli eventi che hanno dato luogo al procedimento penale.
Il primo giudice ha accertato che, nel mese di giugno 2008, RI 3 e RI 2, sindacalisti, si sono recati all’esterno dello stabile in cui è ubicata RI 1 a _ per fare del volantinaggio avendo modo di discutere, oltre che con il direttore, con alcune dipendenti che li hanno informati delle loro condizioni salariali (sentenza impugnata, consid. 3, pag. 4-5). In seguito, una dipendente licenziata dalla società si è rivolta al sindacato per chiedere delle verifiche sullo stipendio percepito e, con l’ausilio di RI 2, ha avviato un procedimento nei confronti della società dinnanzi al giudice di pace che, con pronuncia 31 ottobre 2008, ha parzialmente accolto le richieste della dipendente, condannando la RI 1 a versarle fr. 1'205.50 (sentenza impugnata, consid. 3, pag. 5).
Sempre secondo la pronuncia qui impugnata, l’11 novembre 2008 i due sindacalisti hanno deciso di recarsi nuovamente presso la RI 1 per una nuova azione di volantinaggio alfine di rendere attenti i lavoratori sui presunti abusi salariali del datore di lavoro (sentenza impugnata, consid. 4, pag. 5). Considerando la pausa pranzo come il momento più propizio per contattare il personale, RI 2 e RI 3 si sono messi di fronte alla porta d’ingresso dello stabile ed hanno avvicinato alcune dipendenti (che stavano fumando), discutendo con loro e chiedendo quando sarebbero usciti gli altri colleghi (sentenza impugnata, consid. 4, pag. 5). Queste li informarono che alcuni dipendenti andavano a casa per pranzo mentre altri usufruivano della mensa e diedero loro le indicazioni per raggiungere tale locale sito nel seminterrato del palazzo (sentenza impugnata, consid. 4, pag. 5).
I due sindacalisti sono, dunque, entrati nello stabile, il cui ingresso - comune a tutti gli appartamenti della palazzina - era aperto, recandosi nel locale mensa ed iniziando a distribuire volantini alle persone presenti e a spiegarne i contenuti (sentenza impugnata, consid. 4, pag. 5).
3.2.
A partire da questo momento - ha rilevato il primo giudice - le dichiarazioni delle parti non collimano: gli accusati hanno, infatti, dichiarato di essersi comportati in modo corretto nel prendere la parola nel locale mensa ed esporre le loro argomentazioni, mentre la signora S., che stava pranzando con altre colleghe, ha detto di essere stata infastidita dal comportamento dei due sindacalisti, soprattutto dal modo di fare brusco ed arrogante di RI 2 (sentenza impugnata, consid. 4, pag. 5-6).
Secondo la versione dei fatti della signora S., questa avrebbe deciso di intervenire e di chiedere (“
gentilmente
”) ai due di uscire; RI 2 in quel frangente le si sarebbe avvicinato a circa 20 cm e l’avrebbe insultata, al che “
decidevo di recarmi in direzione e di informarli di quello che avveniva in mensa
” (sentenza impugnata, consid. 5, pag. 6).
Secondo la versione dei fatti fornita da RI 3, invece, la signora S. aveva detto loro che non potevano distribuire i volantini, ma senza intimare loro di lasciare i locali e senza presentarsi (benché lui stesso avesse notato “
un po’ di imbarazzo
” tra i presenti, “
quasi che la sua presenza fosse d’intimidazione
”) (sentenza impugnata, consid. 5, pag. 6).
Secondo la versione dei fatti di RI 2, la signora S., sempre senza presentarsi o specificare la sua funzione nella società, “
ci diceva che non potevamo stare lì
”, interponendosi fra loro e i dipendenti presenti in mensa e ostacolando la distribuzione dei volantini (sentenza impugnata, consid. 5, pag. 6). Negando di avere insultato la donna, RI 2 ha riferito di averle semplicemente detto che “
non era lei che poteva dirmi se potevo o meno restare in mensa. Questo anche perché non si era presentata, non aveva specificato la sua funzione, ed indossava un camice bianco e quindi poteva essere chiunque
” (sentenza impugnata, consid. 5, pag. 6-7).
3.3.
Così, chiamata dalla signora S., la signora D. è scesa con lei in mensa dove RI 2 e RI 3 continuavano la loro attività di sensibilizzazione del personale (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 7).
Anche a tale proposito, secondo il primo giudice, le versioni dei fatti fornite dalle parti sono divergenti.
La signora D. ha riferito di aver informato i due sindacalisti di essere la rappresentante della direzione e di avere intimato loro (“
più volte
”) con decisione di uscire dallo stabile ma che i due reagirono aggredendola verbalmente e insultandola a distanza ravvicinata e si decisero ad abbandonare la mensa solo quando la segretaria minacciò di chiamare la polizia (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 7 - 8). Quest’ultima ha, quindi, riferito di avere telefonato al direttore per informarlo dell’accaduto e di essersi poi recata verso la porta sul lato sud dello stabile per verificare che i due sindacalisti se ne fossero effettivamente andati per scoprire che, in realtà, i due erano ancora all’interno dello stabile, accanto all’accesso, intenti a distribuire volantini ai dipendenti che incrociavano nel corridoio (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 8). D. ha, quindi, riferito di essersi avvicinata di nuovo e di essere stata spinta da RI 2 che le diceva di spostarsi e - pur non volendo farle male - le fece perdere l’equilibrio ed urtare una caviglia contro la parete (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 8).
Secondo la versione dei fatti fornita dalla signora S., la signora D. ha informato RI 3 e RI 2 di “
essere della direzione”
e ha chiesto loro di andarsene, cosa che i due fecero dopo una permanenza stimata in circa mezz’ora e dopo averla insultata. La signora S. ha dichiarato di essere rimasta in mensa, senza seguirli (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 8).
Secondo la versione di RI 3, “
D. ci intimava di uscire
”, ma senza presentarsi né dichiarare la sua posizione in seno alla ditta, nemmeno su loro richiesta (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 7). RI 3 ha riferito che la signora D. ha detto loro che non potevano stare in mensa, ma che “
noi siamo rimasti anche perché le indicazioni che ci danno i nostri superiori ed il sindacato sono diverse
”, versione confermata anche da RI 2 (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 8). RI 3 ha dichiarato di avere chiesto alla signora D. chi fosse, in quanto “
vista l’età, pensavamo fosse un’inquilina o la portinaia del palazzo. La signora era vestita normalmente, non portava né camici né divise di lavoro
”, e non ha mai detto di rappresentare la direzione. A RI 2, che le chiedeva chi fosse, la signora D. “
rispondeva che non c’interessava invitandoci ad andarcene
”; “
oltre a dirci di uscire cercava di contestare i contenuti del volantino, permettendoci involontariamente di controbattere facendo sentire le nostre argomentazioni anche alle altre dipendenti
” (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 8-9). I due non si erano qualificati ma secondo RI 3 era evidente che fossero sindacalisti, visto il contenuto del volantino (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 9).
Secondo RI 3 (che ha confermato che RI 2 ha ripetuto ad alta voce che il direttore “
aveva già fatto una figura di merda davanti al Pretore
”, ma non a distanza ravvicinata dalla signora D.), la discussione è stata abbastanza accesa e si è protratta per 10-15 minuti, dopodiché i due hanno deciso di andarsene “
per non mettere in difficoltà le dipendenti con le quali avevamo parlato
” (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 8-9). RI 3 ha dichiarato di essere uscito mentre RI 2 si è soffermato a discutere con la signora D. nell’atrio, senza distribuire volantini (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 9).
In base alla versione dei fatti di RI 2 - che ha precisato che loro due si erano presentati ed avevano specificato che erano lì per fare in modo che i salari dei dipendenti fossero calcolati correttamente - la signora D. “
ci diceva di andarcene, anche lei senza presentarsi e senza specificare la sua funzione aziendale
”; (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 9). Dopo una quindicina di minuti, “
terminato il volantinaggio e detto quello che volevamo dire, visto che l’obiettivo era stato raggiunto, ed anche a causa dell’ingiunzione di uscire
”, i due lasciavano la mensa (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 9). RI 2 ha ammesso che, salendo le scale, “
incrociavamo una dipendente che stava scendendo e le consegnavamo un volantino
”; dopodiché i due sono spontaneamente usciti dal lato sud e lì hanno continuato a distribuire volantini ai dipendenti che stavano arrivando (sentenza impugnata, consid. 6, pag. 9).
3.4.
Il primo giudice ha, infine, accertato che anche una volta usciti dallo stabile i due sindacalisti hanno ricominciato a discutere con la signora D. “
che in quel momento si trovava sull’uscio della porta dalla quale si accede direttamente nella fabbrica e che per qualche istante non è stata in grado di richiudere come voleva per la presenza dei sindacalisti, che con il loro corpo hanno impedito l’operazione
” (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 10).
Secondo la versione riferita dalla signora D., “
aprivo con la chiave una porta che accede pure all’esterno chiedendo sempre con decisione ai citati di andarsene. RI 2 per impedirmi di chiuderla introduceva un piede mentre RI 3 con entrambe le mani cercava di aiutare il collega a tenerla aperta
” (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 10). La signora intimava loro un paio di volte di togliersi altrimenti avrebbe dato loro una pedata, ciò che infine ha fatto, colpendo RI 2 (che continuava ad insultarla) sullo stinco e riuscendo così a chiudere la porta, fino all’arrivo della polizia (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 10).
RI 3 ha, invece, riferito di aver voluto consegnare un volantino ad una dipendente che si stava avvicinando all’entrata sud, ma che la signora S. aveva aperto una porta della fabbrica per farla entrare prima ed evitarlo; egli, avvicinatosi a tale entrata, veniva poi colpito al fianco dalla porta che la signora S. stava chiudendo: “
avevo capito che l’intenzione era impedirmi l’accesso, che tra l’altro non era neanche mia intenzione entrarvi, e glielo facevo notare. Da parte mia subito bloccavo la porta con un piede e le dicevo che non era il modo di comportarsi. Nel frattempo, da una porta comunicante, giungeva la D. per dar man forte alla S.. RI 2 raggiungendomi s’infilava tra me e lo stipite della porta sinistro per parlare con la S. ma non con l’intenzione di entrare. In questo frangente D. dava uno o forse due calci ad uno stinco del RI 2 e così decidevamo di proseguire il volantinaggio all’esterno
” (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 10). RI 3 ha ammesso che “
prima con S. e poi con D.
(...)
ho impedito loro, per pochi secondi, di chiuderla
(la porta della fabbrica)
ma solo per chiarire la nostra posizione
” (sentenza impugnata, consid. 7, pag. 10).
RI 2 ha riferito che la signora D., rivolgendosi a loro dalla porta che accedeva direttamente alla ditta (e meglio, dicendo loro “
andate a lavorare
”), “
ci permetteva di tenere una specie di comizio sindacale e farci così ascoltare dal personale
”: questa “
continuava a parlare con noi ma quando s’arrabbiava con una mano cercava di chiudere la porta che però a causa della mia presenza e di RI 3 non poteva essere chiaramente chiusa. Premetto che RI 3 aveva un piede sullo stipite ma quello che poi ha ricevuto un forte calcio nello stinco dalla donna sono stato io
”(sentenza impugnata, consid. 7, pag. 11).
3.5.
Nella pronuncia impugnata il giudice di prime cure ha constatato che sui punti cardine della vicenda le versioni agli atti divergono, lamentando la mancata assunzione di testimoni neutrali da parte delle autorità inquirenti (sentenza impugnata, consid. 15, pag. 14). In effetti, “
tutte le persone interrogate sono state coinvolte direttamente nei fatti
”, e non è pertanto possibile “
conferire più valenza ad una dichiarazione piuttosto che ad un’altra
” (sentenza impugnata, consid. 15, pag. 15). Il primo giudice ha rilevato come, “
nonostante ai fatti abbiano assistito svariate persone, gli inquirenti si siano malauguratamente limitati ad interrogare solo quelle direttamente coinvolte nelle discussioni
” aggiungendo che l’interrogatorio di “
persone più neutre, quali sicuramente erano le altre dipendenti della RI 1 presenti, avrebbe indubbiamente permesso di chiarire quanto accaduto
” (sentenza impugnata, consid. 19, pag. 17). In considerazione del principio
in dubio pro reo
, il giudice di prime cure ha quindi fatto propria la versione dei fatti più favorevole agli accusati, che ha “
prosciolto con formula dubitativa da ogni accusa
” (sentenza impugnata, consid. 15, pag. 15 e consid. 19, pag. 17).
Benché il primo giudice abbia ritenuto che sia la signora S. che la signora D. fossero legittimate, nel caso concreto, a far valere il diritto al domicilio della RI 1, ha considerato che l’istruttoria non ha permesso di appurare se la richiesta di lasciare i locali fosse effettivamente stata proferita dalla signora S., e in caso affermativo se la stessa fosse chiara o potesse, invece, dare adito a confusione (sentenza impugnata, consid. 16, pag. 15), né quanto è stato fatto e detto precisamente dalla signora D., in particolare se quest’ultima “
abbia dato avvio o meno ad una discussione sui contenuti del volantino
”, ciò che giustificherebbe il fatto che i due sindacalisti “
si siano trattenuti un attimo più del dovuto per far valere le proprie argomentazioni poiché così stimolati dalla signora
” (sentenza impugnata, consid. 16, pag. 15).
Anche per l’ultima fase della vicenda il primo giudice ha ritenuto che le accuse a carico dei sindacalisti non fossero sufficientemente sostanziate. In primo luogo ha rilevato che risulta dagli atti, contrariamente a quanto dichiarato dalla signora D., che “
a fermare la porta con il piede sia al limite stato il signor RI 3 e non il signor RI 2
”
, e che nei confronti del primo il decreto d’accusa è silente a tale riguardo (sentenza impugnata, consid. 16, pag. 16). Ma in ogni caso, secondo gli accusati “
il fatto di aver bloccato la porta con il proprio corpo è stato inizialmente involontario, essendosi avvicinati solo per rispondere alle esternazioni della donna, mentre in un secondo tempo essi hanno fermato volontariamente la porta per pochi secondi unicamente per chiarire la loro posizione
” (sentenza impugnata, consid. 16, pag. 16). Vista l’impossibilità di dare più credito alla versione dei fatti di uno piuttosto che dell’altra, il giudice di prime cure ha escluso la possibilità di condannare i due sindacalisti (sentenza impugnata, consid. 16, pag. 16).
4.
La ricorrente censura in primo luogo un “
errore di impostazione
” da parte del primo giudice, che ha considerato “non neutrali” i testimoni sentiti da parte dell’autorità inquirente, considerando dunque erroneamente le signore S. e D. quali testimoni “di parte”, alla stessa stregua dei due imputati e del direttore (ricorso, pag. 4).
Secondo la RI 1, benché dipendenti della società querelante (come era del resto il caso per tutte le altre persone che hanno assistito alla scena, ma che non sono state sentite), alla testimonianza delle signore S. e D. andava comunque riconosciuto pieno valore, diversamente da quella dei due querelati e del direttore (ricorso, pag. 4). Questo errore di impostazione del primo giudice - conclude il ricorrente - ha pesato nella valutazione delle versioni dei fatti e ha condotto ad un accertamento arbitrario della fattispecie (ricorso, pag. 4).
4.1.
Entrando nei dettagli, la società ricorrente censura siccome arbitraria la valutazione del primo giudice secondo cui non è stata “
sufficientemente provata
” l’ingiunzione ai due accusati di lasciare immediatamente la sala mensa (e, più in generale, lo stabile) data da entrambe le dipendenti S. e D.: al contrario - continua la ricorrente - tale circostanza è stata provata con le dichiarazioni delle due dipendenti ed è stata ammessa dallo stesso RI 2 nel verbale di polizia 6 marzo 2009 (ricorso, pag. 4). Inoltre - continua la ricorrente - “
non è assolutamente credibile che le due dipendenti non si siano qualificate nelle loro funzioni al momento d’intimare loro di andarsene
”: le due affermano di averlo fatto e lo stesso RI 3 ha notato che la signora S. aveva un certo ascendente sui colleghi, intimiditi dal suo intervento, per cui non gli poteva sfuggire che si trattava di una dipendente con mansioni di responsabilità (ricorso, pag. 5). Secondo la parte civile, il primo giudice avrebbe dovuto ritenere accertati i fatti così come esposti nel ricorso, condannando i due sindacalisti in quanto si sono trattenuto nel locale mensa oltre ogni limite tollerabile (ricorso, pag. 5).
4.2.
La parte civile contesta anche l’accertamento del pretore secondo cui non si può escludere che fra la signora D. e i due sindacalisti sia nata una discussione che li ha trattenuti un attimo più del dovuto (ricorso, pag. 5). Infatti, anche se così fosse, i due sindacalisti hanno comunque impedito alla signora D. di richiudere la porta, interponendosi chi col piede, chi col corpo. Tale modo di agire non può essere giustificato col tentativo di chiarire la loro posizione, ma configura chiaramente una violazione di domicilio (ricorso, pag. 5).
5.
Nell’accertamento dei fatti e nella valutazione delle prove, il giudice dispone di un ampio potere di apprezzamento (DTF 129 I 8 consid. 2.1; 118 Ia 28 consid. 1b; STF 30 marzo 2007, inc. 6P.218/2006, consid. 3.4.1) così che, per motivare l’arbitrio, non è sufficiente criticare la decisione impugnata né è sufficiente contrapporvi una diversa versione dei fatti, per quanto sostenibile o addirittura preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di errore qualificato (DTF 133 I 149 consid. 3.1 con rinvii). E’ infatti necessario dimostrare il motivo per cui la valutazione delle prove fatta dal primo giudice è manifestamente insostenibile, destituita di fondamento serio e oggettivo, si trova in chiaro contrasto con gli atti, si fonda su una svista manifesta o contraddice in modo urtante il sentimento di equità e di giustizia (DTF 135 V 2 consid. 1.3; 133 I 149 consid. 3.1; 132 I 13 consid. 5.1; 131 I 217 consid. 2.1; 129 I 173 consid. 3.1 con richiami) o si basa unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b; 112 Ia consid. 3).
In particolare, il Tribunale federale ha avuto modo di stabilire che un accertamento dei fatti può dirsi arbitrario se il primo giudice ha manifestamente disatteso il senso e la rilevanza di un mezzo di prova oppure ha omesso, senza fondati motivi, di tener conto di una prova idonea ad influire sulla decisione presa oppure, ancora, quando il giudice ha tratto dal materiale probatorio disponibile deduzioni insostenibili (DTF 129 I 8 consid. 2.1).
Secondo la giurisprudenza, per essere annullata una sentenza deve essere inoltre arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 135 V 2 consid. 1.3; DTF 133 I 149 consid. 3.1, 132 I 13 consid. 5.1, 131 I 217 consid. 2.1, 129 I 8 consid. 2.1, 173 consid. 3.1).
Il precetto
in dubio pro reo
è un corollario della presunzione di innocenza garantita dagli art. 32 cpv. 1 Cost., 6 par. 2 CEDU e 14 cpv. 2 patto ONU II. Esso disciplina sia la valutazione delle prove sia il riparto dell'onere probatorio. Per quanto attiene alla valutazione della prove il principio
in dubio pro reo
significa che il giudice penale non può dichiararsi convinto di una fattispecie più sfavorevole all'imputato quando, secondo una valutazione non arbitraria del materiale probatorio, sussistano dubbi sul modo con cui si è verificata la fattispecie medesima. Il precetto non impone che l'assunzione delle prove conduca a un assoluto convincimento. Semplici dubbi astratti e teorici non sono sufficienti, poiché sono sempre possibili. Il principio è disatteso quando il giudice penale, che dispone di un ampio potere di apprezzamento, avrebbe dovuto nutrire, dopo un'analisi globale e oggettiva delle prove, rilevanti e insopprimibili dubbi sulla colpevolezza dell'imputato (STF 13 maggio 2008, inc. 6B.230/2008, consid. 2.1; STF 19 aprile 2002, inc. 1P.20/2002, consid. 3.2; DTF 127 I 38 consid. 2a; 124 IV 86 consid. 2a; 120 Ia 31 consid. 4b). Sotto questo profilo il precetto
in dubio pro reo
ha la stessa portata del divieto dell'arbitrio (DTF 133 I 149; DTF 120 Ia 31 consid. 4b).
Secondo la giurisprudenza, in assenza di prove certe, il giudice può fondare il proprio convincimento su una serie di indizi valutati in modo logico, obiettivo e coerente. Se, per definizione, un indizio da solo non può bastare poiché, preso a sé stante, può essere interpretato in più modi, più elementi valutati nel loro complesso e in modo rigoroso possono condurre ad escludere il ragionevole dubbio e, quindi, possono costituire un valido fondamento del convincimento del giudice (cfr. Hans Walder, Der Indizienbeweis in Strafprozess, in RPS 108 (1991) pag. 309 cit., in part., in STF 7.05.2003 6P.37/2003 consid. 2.2).
Il principio della libera valutazione delle prove (o del loro libero apprezzamento) implica che il giudice penale, nel decidere se un fatto vada ritenuto come provato o meno, non sia vincolato da regole concernenti le prove legali ma statuisca esclusivamente in base al suo convincimento personale, fondato su di un esame coscienzioso delle circostanze (DTF 133 I 33, consid. 2.1; 117 Ia 401, consid. 1c.bb; v. anche art. 259 CPP e art. 249 PPF).
Ciò che è determinante è la forza di convincimento di ogni mezzo raccolto, sulla base di una valutazione globale dell’insieme delle prove agli atti, e non il genere di prova amministrata (STF 11 novembre 2008, inc. 6B_626/2008, consid.
2.1; STF 21 maggio 2001, inc. 1P.193/2001, consid. 3b; cfr. Hauser/ Schweri/ Hartmann, Schweizerisches Strafprozessrecht, 6. ed. 2005, § 54, n. 4).
Da ciò deriva il divieto per il giudice di negare, anticipatamente e in modo generale, l'idoneità di determinati mezzi a servire come prova (DTF 117 Ia 401, consid. 1c.bb).
Né la Costituzione, né la CEDU proibiscono di sentire le vittime di una infrazione che si sono costituite parti civili in qualità di testimoni; anche tali dichiarazioni vanno apprezzate dal primo giudice secondo il suo intimo convincimento (STF del 12 novembre 2008, inc. 6B_360/2008, consid. 4.3; decisione della Commissione europea dei diritti dell’uomo del 1. dicembre 1993, Charles Grüttler c. Svizzera, in GAAC 110/1994 p. 754; Hauser/ Schweri/ Hartmann, op. cit., § 62 n. 4).
Tale principio permette, pertanto, al giudice di fondare il suo convincimento della realtà di un fatto, ad esempio, sulle dichiarazioni di un correo, attribuendogli più credibilità che alla deposizione di un testimone (cfr. STF 10 maggio 2010, inc. 6B_10/2010, consid. 1.2; STF 4 dicembre 2009, inc. 6B_751/2009, consid. 1; Piquerez, Traité de procédure pénale suisse, 2006, 2. ed., n. 744 ad § 100, p. 472) o ad esempio, posto di fronte alle dichiarazioni dell’accusato e della parte lesa in contraddizione fra di loro, sulle dichiarazioni di quest’ultima (cfr. STF 23 aprile 2010, inc.
6B_1028/2009, consid.
2.3; Hauser/ Schweri/ Hartmann, op. cit., n. 22 ad § 39 et n. 4 ad § 62).
Va da sé che tale apprezzamento deve essere effettuato con particolare rigore metodologico; per quel che concerne le dichiarazioni delle parti, ad esse deve esser data maggiore o minore valenza indiziante a dipendenza della loro costanza, precisione, del loro carattere disinteressato, della loro univocità e della loro credibilità e plausibilità intrinseca. Va valutato anche se sono state mantenute in sede di confronto, se sono confortate da ulteriori indizi e dall’assenza di motivi per mentire; se le dichiarazioni che affermano il contrario sono a loro volta credibili o se sono per contro state dubbie, intrinsecamente contraddittorie o fluttuanti.
Posto di fronte a due deposizioni contraddittorie, il giudice deve determinare la rispettiva forza di convincimento, sulla base di una valutazione globale dell’insieme delle prove agli atti (STF del 5 marzo 2009, inc. 6B_992/2008, consid. 1.5).
6.
Non può essere condiviso l’argomento della ricorrente, secondo cui le signore D. e S. sono delle semplici impiegate della RI 1 e di conseguenza (benché coinvolte in prima persona nei fatti) la loro testimonianza non poteva essere considerata “di parte” dal primo giudice, come le dichiarazioni dei due accusati e del direttore, poiché, sostenendo ciò, la parte civile dimentica che la querela 9 febbraio 2009, che ha dato avvio al presente procedimento, è stata presentata anche a nome e per conto delle due dipendenti della ditta. Oltre alla violazione di domicilio, la querela è stata sporta per il reati di minaccia, coazione, ingiuria e lesioni semplici, che le due dipendenti hanno affermato essere stati commessi nei loro confronti da parte degli accusati. Inoltre, la signora D. risulta essersi costituita parte civile, mentre la signora S., in data 23 febbraio 2009, ha sottoscritto la remissione dalla querela.
Benché in relazione a tali reati dagli atti non risulti né un decreto d’accusa né una decisione di non luogo a procedere nei confronti dei due sindacalisti, non è errato considerare, come fatto dal primo giudice, che le due signore non erano semplici dipendenti che hanno assistito allo svolgimento dei fatti, ma persone coinvolte in prima persona, che hanno ritenuto la condotta dei due sindacalisti penalmente rilevante e lesiva dei loro interessi, tanto da sporgere querela nei loro confronti. La censura del ricorrente omette di confrontarsi con questi aspetti. Non vi è, dunque, arbitrio nella decisione di considerare le dichiarazioni rese dalle signore D. e S. alla luce di queste circostanze, che potrebbero influenzarne la credibilità.
La censura della ricorrente non può, dunque, essere accolta.
Di transenna si osserva che è pure condivisibile la critica del giudice della Pretura penale all’operato delle autorità inquirenti, che non hanno ritenuto opportuno delucidare maggiormente la dinamica degli eventi procedendo all’interrogatorio di altri dipendenti che hanno assistito alla scena. Va, tuttavia, osservato che il primo giudice, nella preparazione del dibattimento, poteva comunque rendersi conto della necessità di procedere all’assunzione di nuove prove al dibattimento per chiarire la fattispecie, ovviando così d’ufficio alle lacune dell’inchiesta (facoltà concessagli dall’art. 227 cpv. 5 CPP, applicabile sulla base del rinvio dell’art. 273 CPP). Al di là della facoltà teorica concessa dal codice, in questo caso il primo giudice disponeva pure della possibilità concreta di raccogliere precise prove, in quanto i nominativi di altri dipendenti della società presenti al momento dei fatti e che potevano essere citati al dibattimento risultavano direttamente dalla querela (pag. 3: _).
7.
Il primo giudice è, invece, caduto in errore nel considerare che le testimonianze delle due signore non potessero in alcun modo fondare le accuse contro i due sindacalisti.
Se è vero che le stesse non potevano essere considerate testimoni completamente neutrali, avendo queste sottoscritto - anche se per altri reati - la querela che ha dato avvio al presente procedimento contro i due imputati, è del tutto errato considerare azzerata la valenza probatoria delle loro dichiarazioni poste a confronto con le dichiarazioni contrarie dei due imputati, in applicazione del principio
in dubio pro reo
(non essendo “
possibile conferire più valenza ad una dichiarazione piuttosto che ad un’altra
”).
Negare anticipatamente ed in astratto una possibile valenza probatoria delle dichiarazioni rese da due parti querelanti contraddice, infatti, il principio della libera valutazione delle prove, che imponeva al giudice della pretura penale di valutare la forza di convincimento delle diverse testimonianze agli atti, senza escludere di principio l'idoneità delle testimonianze delle signore S. e D. a servire come prova nella misura in cui la versione dei fatti da loro riferita si scostava da quella degli accusati (ma nemmeno, come si vedrà in concreto, nel caso in cui invece la corroborava). Egli doveva, invece, procedere ad una rigorosa valutazione del valore probante dell’intero materiale probatorio che gli era stato sottoposto, avendo attenzione al principio della libera valutazione delle prove da cui deriva, in particolare, che al giudice non è vietato attribuire a testimonianze rese da parti in qualche modo interessate al procedimento più credibilità rispetto alle dichiarazioni dei prevenuti o di altri testimoni, nella misura in cui ciò si basi su motivazioni solide e sull’attribuzione di un valore indiziante alle diverse prove fondato su una valutazione globale dell’insieme delle risultanze agli atti.
Nell’escludere alle testimonianze delle due dipendenti S. e D. una qualsiasi idoneità a servire come prova, in presenza di versioni dei fatti discordanti fornite dagli accusati, il primo giudice ha crassamente disatteso tale principio.
Il metodo errato seguito dal primo giudice evidenzia i suoi limiti, ad esempio, nell’accertamento relativo all’ingiunzione di lasciare i locali laddove il primo giudice ha ritenuto che “
l’istruttoria non ha permesso di appurare se la richiesta di uscire della signora S.
(...)
sia stata effettivamente formulata
” (sentenza impugnata, consid. 16, pag. 15). Ora, contrariamente a quanto stabilito dal primo giudice, oltre alla dichiarazione di RI 3 che ha negato che la signora S. abbia intimato a lui e a RI 2 di andarsene, vi sono agli atti numerosi elementi che, se correttamente valutati, permettono di accertare senza dubbio possibile la questione. Infatti, oltre alla versione della dipendente, vi è quella di RI 2 - il coimputato di RI 3 - che, pur dichiarando che “
non era lei che poteva dirmi se potevo o meno restare in mensa
”, ha confermato la versione della dipendente dicendo, dapprima, che la S. “
con la sigaretta in bocca ci ha detto semplicemente di andarcene
” per, poi, più oltre nell’interrogatorio, ribadire che la stessa “
ci diceva che non potevamo stare lì
” (stralci di verbali di interrogatorio ripresi nella sentenza impugnata, consid. 5, pag. 6-7; pag. 4). In queste circostanze, ritenuto che il materiale probatorio permette di accertare con sufficiente tranquillità lo svolgimento dei fatti, non v’è spazio per l’applicazione del principio
in dubio pro reo
.
I limiti del metodo errato applicato dal pretore si evidenziano, ancora, laddove egli pretende non vi siano sufficienti elementi per l’accertamento di quanto accaduto nell’ultima fase della vicenda indicando di non poter scegliere fra l’una (quella delle difese) e l’altra (quella dell’accusa) tesi “
non essendo la descrizione della signora D. più affidabile rispetto a quella dei due imputati
” (sentenza impugnata, consid. 17 pag. 16). Si tratta di una conclusione semplicistica che dimentica, in particolare, quanto dichiarato da RI 2 (e riportato in sentenza) e meglio che “
D. continuava a parlare con noi ma quando si arrabbiava con una mano cercava di chiudere la porta che però a causa della mia presenza e di RI 3 non poteva essere chiaramente chiusa
” (stralcio riportato in sentenza, consid. 7 pag. 11) così come dimentica quanto dichiarato anche da RI 3, e meglio che “
nel frattempo, da una porta comunicante, giungeva la D. per dare man forte alla S.. RI 2, raggiuntomi s’infilava tra me e lo stipite della porta sinistro per parlare con la S. ma non con l’intenzione di entrare. In questo frangente D. dava uno o forse due calci ad uno stinco del RI 2 e così decidevamo di proseguire il volantinaggio all’esterno
” (verbale d’interrogatorio del 6 marzo 2009, pag. 3).
In queste condizioni, ritenuto come i fatti possano, sulla scorta del materiale probatorio in atti, essere accertati con sufficiente tranquillità, non è ammissibile l’applicazione del principio
in dubio pro reo
.
Va, qui, peraltro rilevato che, poi, lo stesso primo giudice ha implicitamente riconosciuto che l’accertamento poteva essere fatto nella misura in cui ha rilevato che i sindacalisti “
hanno fermato volontariamente la porta per alcuni secondi
”, anche se, ha precisato, lo hanno fatto “
unicamente per chiarire la loro posizione
” (sentenza impugnata, consid. 17 pag. 16).
Di transenna, si osserva, qui, che in diritto è del tutto irrilevante che l’opposizione alla chiusura della porta sia stata fatta dai due sindacalisti “
unicamente per chiarire la loro posizione
”, una tale motivazione non essendo sufficiente per giustificare una violazione dell’
Hausrecht
(cfr. DTF 87 IV 120, consid. 2, in cui il Tribunale federale ha considerato come violazione di domicilio proprio il semplice fatto di introdurre la scarpa tra la porta e la soglia, impedendo cosi all'avente diritto di chiudere la porta).
Non potendo questa Corte sostituirsi al primo giudice nell’apprezzare tutti gli elementi della vicenda e ricostruire interamente lo svolgimento dei fatti, gli atti dovrebbero essere rinviati ad un altro giudice per una nuova valutazione delle risultanze probatorie, che non escluda a priori la credibilità di quanto riferito dalle due donne ma vagli, invece, l’affidabilità di tutto il materiale probatorio, in particolare delle diverse versioni, cercandone i punti di convergenza, senza necessariamente sposare la tesi degli accusati, a meno che sulla loro colpevolezza rimangano, anche dopo un accurato esame, rilevanti ed insopprimibili dubbi.
Posto, tuttavia, come nella sentenza di prima istanza il primo giudice abbia ritenuto che, anche nell’ipotesi in cui avessero commesso una violazione di domicilio, gli imputati andrebbero prosciolti sulla base dell’art. 13 CP, per ragioni di economia processuale appare opportuno pronunciarsi su questa conclusione prima di rinviare gli atti per un nuovo giudizio.
8.
La ricorrente contesta, pure, la conclusione del primo giudice secondo cui, in ogni caso, i due sindacalisti hanno agito sotto l’effetto di un errore sui fatti ex art. 13 CP.
8.1.
Nella pronuncia impugnata, il primo giudice ha accertato che i due imputati hanno agito forti di una “
presa di posizione ufficiale dell’_
”
sul tema di sapere “
se ai sindacati spetti un diritto di accesso ad un’azienda allo scopo di pubblicizzare la loro organizzazione e per informare le maestranze, apparentemente allestito da giuristi
”, una cui copia è stata da loro prodotta agli inquirenti nel corso del loro interrogatorio di polizia (consid. 18, pag. 16).
Nella “
presa di posizione ufficiale”
- distribuita ai dipendenti del sindacato quale vademecum (“
istruzione in materia
”, cfr. sentenza impugnata, consid. 18, pag. 16) - si legge, in sostanza, che non commette alcun illecito, in particolare non commette alcuna violazione di domicilio, il sindacalista che accede ad uno stabilimento o che entra in una casa, in un giardino o in un cantiere, a maggior ragione in posti di lavoro accessibili pubblicamente, poiché il suo comportamento si fonda su un diritto d’accesso garantito costituzionalmente ai sindacati mentre la questione è diversa - e il caso costitutivo di una violazione di domicilio - se il sindacalista deve “
procurarsi l’accesso ad un locale chiuso a chiave
” (sentenza impugnata, consid. 18, pag. 16). Continuando, la “
presa di posizione ufficiale
riferisce di una decisione del pubblico ministero del Canton _in cui è stato stabilito che nel locale dove si svolge la pausa dei dipendenti il diritto di domicilio spetta esclusivamente loro e, pertanto, se i rappresentanti sindacali si trattengono in quel luogo con l’accordo della maggioranza dei lavoratori, non vi può essere alcuna violazione di domicilio (sentenza impugnata, consid. 18, pag. 16).
Pur qualificando la “
presa di posizione ufficiale”
in questione come “
palesemente di parte
” in quanto omette di considerare gli altri diritti fondamentali che potrebbero entrare in conflitto con la libertà sindacale e pur precisando che non è accettabile né “
un volantinaggio aggressivo”
né la “
ricerca dello scontro verbale con il padronato e destabilizzazione oltre misura dell’ambiente di lavoro
” (sentenza impugnata, consid. 18, pag. 17), il giudice di prime cure ha ritenuto che i due sindacalisti, sprovvisti di formazione giuridica, ben potevano ritenersi legittimati nella loro azione di volantinaggio dalla “
presa di posizione ufficiale”
in questione, trasmessa dai loro superiori e apparentemente redatta “
da persone cognite in materia
”.
Pertanto - ha concluso il primo giudice - anche nell’ipotesi in cui i due sindacalisti avessero commesso una violazione di domicilio, essi andrebbero assolti in quanto hanno agito “
a seguito di un errore sui fatti ai sensi dell’art. 13 CPS
”.
8.2.
La RI 1 contesta le considerazioni espresse nella pronuncia impugnata sostenendo che “RI 3
e RI 2 non sono dei sindacalisti alle prime armi
” ma vantano “
una certa esperienza nel campo e non possono quindi nascondersi dietro una circolare del sindacato per evitare di assumersi le proprie responsabilità
” (ricorso, pag. 5). Secondo la ricorrente, in ogni caso, non è possibile dedurre da tale circolare che “
i sindacalisti nell’espletamento della loro funzione possono interporsi sull’uscio di una porta e quindi impedire la sua chiusura
” come, invece, é avvenuto nel caso concreto (ricorso, pag. 5).
8.3.
Giusta l’art. 13 CP, chiunque agisce per effetto di una supposizione erronea delle circostanze di fatto è giudicato secondo questa supposizione, se gli è favorevole; se, tuttavia, avesse potuto evitare l’errore usando le debite precauzioni, l’autore è punibile per negligenza qualora la legge reprima l’atto come reato colposo.
Secondo l’unanime parere di dottrina e giurisprudenza, l’art. 13 CP è applicabile anche all’apprezzamento erroneo riguardo l’esistenza dei presupposti di un fatto giustificativo (
Irrige Annahme einer objektiven Rechtfertigungslage
;
erreur sur les circonstances matérielles du fait justificatif
), ovvero ai casi in cui, nonostante una norma penale, l’autore ritiene di poter agire sulla base di una circostanza giustificativa (Jenny, Basler Kommentar, II ed. 2007, ad 13 n. 12; Thalmann, Commentaire Romand, 2009, ad art. 13 n. 15).
Ciò è il caso, ad esempio, quando una persona ne ferisce un’altra credendo - erroneamente - di essere attaccata: l’autore crede dunque di agire in modo conforme al diritto sulla base di un fatto giustificativo (la legittima difesa) i cui presupposti, in realtà, non erano dati. Nella misura in cui la rappresentazione errata dei fatti gli è favorevole, l’autore deve essere giudicato in base ad essa (Hurtado Pozo, Droit pénal, partie générale, 2008, n. 687).
Non vi è invece un errore sui fatti nei casi in cui l’autore crede di poter agire sulla base di un motivo giustificativo che, in realtà, non esiste (ad esempio, se considera che l’eutanasia è lecita a certe condizioni) o laddove l’autore conferisca al motivo giustificativo un campo di applicazione più ampio di quello definito dal legislatore (ad esempio, se crede che la legittima difesa può essere esercitata con ogni mezzo, anche sproporzionato; cfr. Hurtado Pozo,
op. cit.
, n. 688).
In questi casi, non è la rappresentazione dei fatti che fonda il motivo giustificativo ad essere viziata, ma la conoscenza di una norma: tali fattispecie ricadono dunque nell’errore sull’illiceità ai sensi dell’art. 21 CP, secondo cui non agisce in modo colpevole chiunque commette un reato non sapendo né potendo sapere di agire illecitamente.
La giurisprudenza ha avuto modo di precisare che i presupposti dell'errore sull'illiceità sono adempiuti quando l'agente crede, al momento in cui viene perpetrato l'atto (DTF 115 IV 162 consid. 3), di non aver fatto alcunché d'illecito (DTF 129 IV 238 consid. 3.1; STF 6S.390/2000 del 5 settembre 2000 consid. 2; STF del 17 dicembre 2008, 6B_477/2007, consid. 4.5). Nel caso di un errore sull’illiceità, l’autore deve credersi in diritto di agire, questione che attiene all'accertamento dei fatti (DTF 125 IV 49 consid. 2d e, da ultimo, STF 6B_515/2008 del 19 novembre 2008 consid. 4.1; STF del 17 dicembre 2008, inc. 6B_477/2007, consid. 4.5; STF dell’11 novembre 2008, inc. 6B_626/2008, consid. 8.1). L’autore in tal caso agisce in maniera intenzionale e in piena conoscenza di causa, ma considerando a torto il suo comportamento come lecito (DTF 129 IV consid. 3.1).
8.4.
Nella fattispecie, il giudice di prime cure ha ritenuto che RI 3 e RI 2, al momento in cui hanno agito, erano convinti di non commettere alcuna violazione di domicilio poiché erano persuasi di essere, nella loro qualità di rappresentanti sindacali, al beneficio di un diritto costituzionale che conferisce loro la facoltà d’accesso ai posti di lavoro allo scopo di informare dei loro diritti gli associati esistenti e quelli potenziali. Il primo giudice ha considerato che RI 3 e RI 2, privi di formazione giuridica, hanno agito in base ad un errore sui fatti. Pur senza indicarlo esplicitamente, egli ha, dunque, ritenuto che i due imputati hanno agito in base ad un apprezzamento errato di un fatto giustificativo.
Tale conclusione è errata. I due sindacalisti non avevano, infatti, né alcuna percezione erronea della fattispecie né avevano compreso erroneamente una circostanza di fatto che poteva fondare un motivo giustificativo. Essi ritenevano, per contro, che il loro modo di fare fosse autorizzato da un motivo giustificativo (lo svolgimento di un’attività sindacale). Contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, i due accusati non sono incorsi in un apprezzamento erroneo di un fatto giustificativo (ovvero in un errore sui fatti ex art. 13 CP), bensì in un errore sull’illiceità del loro comportamento (art. 21 CP).
8.5.
Sia come sia, la ricorrente contesta l’esistenza stessa di un errore, questione di fatto che questa Corte rivede solo dal profilo del divieto dell’arbitrio.
Come già esposto, il primo giudice ha ritenuto che RI 3 e RI 2 fossero vittime di un errore in quanto la convinzione di agire in modo lecito scaturiva da una presa di posizione del sindacato , loro datore di lavoro, apparentemente redatta da esperti del ramo, che li rassicurava sul fatto che quanto da loro intrapreso per informare i dipendenti fosse lecito mentre la RI 1 sostiene che i due accusati sono sindacalisti di lunga data, con una certa esperienza sul campo, che non possono sottrarsi alle loro responsabilità scaricandole su una circolare del sindacato. Inoltre - continua la ricorrente - dalla nota circolare i due sindacalisti non potevano, certo, dedurre un diritto di impedire agli aventi diritto la chiusura della porta.
8.6.
L’argomentazione ricorsuale secondo cui i due sindacalisti non erano in errore poiché in forza della loro lunga esperienza in ambito sindacale essi hanno senz’altro riconosciuto l’erroneità della
“presa di posizione ufficiale”
è da respingere già in considerazione del fatto che agli atti non v’è alcun elemento probatorio su cui fondare la tesi ricorsuale - che, perciò, rimane una mera allegazione di parte - secondo cui i sindacalisti in questione hanno “
una certa esperienza nel campo”
e non sono
“alle prime armi
”. Ma, quand’anche si volesse ritenere accertato che i due imputati hanno acquisito “
una certa esperienza nel campo”,
questa circostanza ancora non sarebbe sufficiente ad evidenziare l’arbitrarietà della conclusione del primo giudice, che ha ritenuto che i due - sulla scorta di un parere redatto da persone, al contrario di loro, cognite in materia e trasmesso loro quale istruzione/direttiva dai loro superiori - hanno creduto di essere al beneficio di un motivo giustificativo per introdursi e rimanere nel locale mensa alfine di svolgere attività sindacale. E’ del tutto sostenibile, infatti, la conclusione secondo cui i due sindacalisti - non giuristi - abbiano creduto di potersi legittimamente intrattenere nel locale mensa sulla scorta del parere/direttiva, fornito dai loro superiori gerarchici, in cui si legge, fra l’altro, in relazione all’attività sindacale svolta nel locale ove si svolge la pausa, che “
se e fintanto che i/le rappresentanti sindacali, d’accordo con la maggioranza dei lavoratori, si trattengono in un luogo simile, non può in alcun caso esserci una violazione di domicilio
” (parere/direttiva, pag. 5). Nulla di arbitrario è ravvisabile in questa conclusione del primo giudice, nemmeno volendo considerare le ingiunzioni loro rivolte da S. e D., ritenuto che il parere/direttiva – sulla cui base è stato accertato che i due imputati hanno agito – considera determinante, trattandosi del locale mensa, il parere della maggioranza dei lavoratori presenti (ed, in concreto, come visto, vi erano nel locale mensa dipendenti che apparivano interessati o che comunque non disapprovavano apertamente la presenza dei sindacalisti).
Considerato il potere d’esame limitato concesso a questa Corte, non risulta priva di fondamento la conclusione del giudice di prime cure, secondo cui in base alla “
presa di posizione ufficiale”
dell’_, i due sindacalisti pensavano erroneamente di essere legittimati a trattenersi in mensa.
8.7.
Nella misura in cui ha considerato di essere confrontato con un errore sui fatti, il primo giudice ha prosciolto gli imputati senza valutare la questione dell’evitabilità o meno dell’accertato errore poiché, posto come la violazione di domicilio sia un reato intenzionale, anche se l’errore fosse stato evitabile, una condanna dei sindacalisti per negligenza ex art. 13 cpv. 2 CP non sarebbe stata possibile.
Trattandosi, tuttavia, di errore sull’illiceità, le conseguenze dell’evitabilità o meno dell’errore sono diverse: infatti, vi è proscioglimento solo in caso di errore inevitabile mentre quando l’errore è da considerarsi evitabile vi è condanna con attenuazione obbligatoria della pena (art. 21 seconda frase CP).
La giurisprudenza del Tribunale federale ha già avuto modo di precisare che l’informazione inesatta fornita da un avvocato non dà sempre e in ogni caso alla persona che è stata erroneamente consigliata il diritto di fare valere l’art. 21 CP (DTF 92 IV 70, consid. 2) e che occorre comunque sempre verificare le circostanze concrete (istruzione, professione ed esperienza di vita dell’autore) e valutare se, sulla base degli elementi noti all’autore, il parere ricevuto possa essere considerato completo ed approfondito così che la fiducia in esso riposta non appaia, tenuto conto di tutte le circostanze, il frutto di una leggerezza (DTF 98 IV 293, consid. 4; cfr. anche sentenza CCRP del 4 ottobre 2006, inc. 17.2004.33, consid. 9d).
8.8.
Si pone, dunque, la questione di sapere se i due sindacalisti avrebbero potuto evitare l’errore in cui sono caduti.
Ora, non è dato di sapere se la “presa di posizione ufficiale” sia stata allestita da avvocati o giuristi, essendo espressa su carta intesta del sindacato, senza indicazioni riferite all’autore. In ogni caso - così come accertato dal primo giudice - il documento risulta redatto da persone cognite in materia. Esso si pronuncia, infatti, sulla situazione giuridica esistente in Svizzera, lasciando sottintendere la conoscenza da parte dell’autore del testo della dottrina e della giurisprudenza svizzere (“
in Svizzera, fino ad oggi, né la dottrina né la giurisprudenza si sono occupate della questione se alle sindacaliste e ai sindacalisti spetti un diritto di acceso ad un’azienda allo scopo di pubblicizzare la loro organizzazione e per informare le maestranze
”, pag. 1; cita inoltre le sentenze della Pretura di Rheinfelden, del Tribunale di prima istanza del distretto della Chaux-de-Fonds e del Tribunale penale cantonale ticinese, pag. 4) e si esprime, inoltre, su accordi internazionali sottoscritti dalla Svizzera e sentenze di tribunali esteri (Commissione dell’organizzazione internazionale del lavoro OIL, Corte costituzionale federale tedesca, pag. 1-2).
Bisogna riconoscere che se in relazione ad alcuni temi quali l’accesso ad un cantiere, la presa di posizione si confronta con un altro parere giuridico che giunge a conclusioni antitetiche (“
presa di posizione relativa alla perizia dell’avvocatessa R. Zucca del 5.7.2007
”; “
L’avvocatessa Zucca cita come primo argomento il fatto che l’accesso ai cantieri è generalmente vietato.
(...)
In seguito si asserisce che l’accesso ad un cantiere cintato, rispettivamente il trattenercisi nonostante il rinvio, contravviene all’art. 186 del Codice penale svizzero CPS (violazione di domicilio)
”, cfr. pag. 3-4) e giunge a conclusioni poco nette (“
In fin dei conti, non è affatto chiaro chi, nel caso di un cantiere, sia detentore del diritto di domicilio
”, cfr. pag. 4), per quanto qui interessa - e meglio, in relazione all’attività sindacale svolta, come in concreto, nel locale dove i lavoratori svolgono la pausa – la presa di posizione non lascia spazio a dubbi. Infatti, anche sulla scorta di una decisione resa da un’autorità penale svizzera (“
come è stato stabilito già alcuni anni fa dal pubblico ministero del Canton Grigioni in una sua decisione
”, pag. 4), la presa di posizione è al riguardo estremamente precisa e decisa: “
se e fintanto che i/le rappresentanti sindacali, d’accordo con la maggioranza dei lavoratori, si trattengono in un luogo simile, non può in alcun caso esserci una violazione di domicilio
” (cfr. pag. 4). La perentorietà di tale indicazione, riferita proprio al comportamento messo in atto dai due sindacalisti, unita all’apparenza di generale attendibilità del documento che ad esso possono dare persone senza formazione giuridica quali i due sindacalisti, permette di concludere che l’errore in cui essi sono incorsi non poteva essere evitato nella misura in cui dai due autori non poteva essere preteso un maggiore spirito critico in relazione a tale istruzione.
Pertanto, analogamente a quanto concluso dal primo giudice, ma sulla base di un diverso fondamento giuridico, i due sindacalisti vanno in ogni caso prosciolti dall’accusa di violazione di domicilio in relazione alla prima fase della vicenda (permanenza nel locale mensa della RI 1), senza che si renda necessario il rinvio degli atti in prima sede per un nuovo accertamento dei fatti.
8.9.
Per quel che concerne l’ultima fase della vicenda, va invece condivisa la tesi della società ricorrente secondo cui i sindacalisti non potevano fondarsi sul citato parere per ritenersi legittimati ad impedire la chiusura di una porta da parte degli aventi diritto infilandosi nel corrispondente stipite.
A ragione, la ricorrente sostiene che, in relazione a tale momento, non è nemmeno ipotizzabile che i due sindacalisti fossero vittima di un errore a seguito del contenuto della presa di posizione ufficiale dell’_. Invano, infatti, si cercherebbe nel documento del sindacato un’indicazione in tal senso, ovvero un accenno al fatto che ai sindacalisti è permesso opporsi alla chiusura di una porta di una fabbrica da parte degli aventi diritto. E’ arbitrario, pertanto, dedurre da tale documento l’accertamento di un errore dei due sindacalisti su tale questione.
In relazione a questa ultima fase della vicenda, l’applicazione dell’art. 21 CP sulla scorta della presa di posizione ufficiale dell’_ è pertanto esclusa. Non è pertanto proponibile né un’assoluzione in applicazione dell’art. 21 prima frase CP, né una riduzione obbligatoria della pena ex art. 21 seconda frase CP. In assenza di un errore fondato sul documento in questione riguardo a tale momento, si rivela, pertanto, necessario il rinvio degli atti alla Pretura penale per un nuovo accertamento dei fatti rispettoso del principio del libera valutazione delle prove e, qualora siano dati gli estremi per una violazione di domicilio, per una condanna in relazione all’ultima fase della fattispecie.
Considerando tuttavia che, come visto, il decreto d’accusa emanato nei confronti di RI 3 non prevede alcunché in merito a tale fase della vicenda, e che dunque, in virtù del principio accusatorio, una sua condanna a tale proposito sarebbe esclusa, nei suoi confronti il rinvio degli atti si rivela superfluo, la sua completa assoluzione dovendo essere confermata.
Per RI 2, per contro, il rinvio si giustifica in quanto il decreto d’accusa prevede a suo carico anche un’imputazione per quest’ultima fase della vicenda (“
bloccando con un piede una porta d’accesso che una dipendente tentava di chiudere
”). Limitatamente a questa parte della vicenda e all’imputato RI 2, il ricorso della parte civile deve dunque essere accolto.
9.
In esito all’attuale sentenza e in base al principio della soccombenza si giustifica di caricare gli oneri processuali per 2/3 a carico della RI 1 e per 1/3 a carico dello Stato.
La RI 1 rifonderà a RI 3 fr. 600.- per ripetibili, mentre lo Stato rifonderà alla RI 1 fr. 400.- per ripetibili ridotte (art. 9 cpv. 6 CPP).
Sugli oneri di prima sede relativi alla posizione di RI 2 giudicherà nuovamente la Pretura penale in sede di rinvio. | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,010 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |
e141d956-e4b8-586c-92b0-9c0b77bdddda | in fatto ed in diritto
che con scritto datato 18.05.2011 intitolato "
Assistenza amministrativa e giudiziaria, articolo 22 della legge federale sull’abilitazione e la sorveglianza dei revisori (LSR; RS 221.302)
" l’RE 1, _ (di seguito RE 1), per il tramite del suo direttore e del capo del Servizio diritto e affari internazionali, ha comunicato all’_, _, che dalla sentenza TF _ del _ emerge la revoca dell’autorizzazione ad esercitare la professione di fiduciario commercialista, immobiliare e finanziario del ricorrente (di seguito X), patrocinato dagli avvocati PR 1 e _; la stessa autorità – richiamando l’art. 22 LSR
– ha invitato l’autorità cantonale a "
(...) trasmetterci il più presto possibile l’identità del richiedente
(recte: ricorrente)
per poter verificare se questa persona sia abilitata dalla nostra autorità
" e a "
(...) comunicarci automaticamente in futuro tutti i casi concernente questa disposizione
" (doc. 1.a);
che con lettera 23/25.05.2011 l’addetto dei fiduciari della Divisione della giustizia ha trasmesso, per competenza come d’accordo con l’ispettore dei fiduciari, al procuratore pubblico Manuela Minotti Perucchi il surriferito scritto (doc. 1.a);
che in data 30.05.2011 il procuratore pubblico, in applicazione dell’art. 62 cpv. 4 LOG, ha trasmesso, a sua volta, per competenza, a questa Corte la richiesta 18.05.2011 dell’RE 1, segnalando parimenti che il decreto di accusa _ emanato a carico di X è cresciuto in giudicato (doc. 1);
che in data 8.06.2011 il procuratore pubblico ha comunicato di preavvisare favorevolmente la richiesta (doc. 3);
che X (patr. da: avv. PR 1, _) – interpellato da questa Corte – non ha presentato osservazioni in merito allo scritto 18.05.2011;
che in data 6.07.2011 questa Corte – considerato il contenuto dello scritto
18.05.2011
– ha chiesto allRE 1 se il medesimo debba essere
effettivamente considerato quale istanza ex art. 62 cpv. 4 LOG (doc. 4);
che con risposta 8/11.07.2011 lRE 1 ha in particolare comunicato a questa Corte che la sua richiesta aveva lo scopo di conoscere l’identità del ricorrente di cui alla sentenza _
del _ emanata dal Tribunale federale [poiché non poteva verificare se quest’ultimo avesse parimenti l’autorizzazione ad esercitare la professione di revisore contabile accordata da lei stessa in base alla Legge sui revisori (LSR), essendo la decisione anonimizzata], e non quello di consultare gli atti del procedimento penale, e di rendere attenta l’_ che
–
in applicazione dell’art. 22 LSR
–
le autorità di sorveglianza s’informano reciprocamente sulle procedure pendenti e sulle decisioni che potrebbero essere importanti per l’esercizio delle loro rispettive attività di sorveglianza (doc. 5);
che questa circostanza emerge, in effetti, manifestamente dal tenore dello scritto 18.05.2011 dell’RE 1;
che l’RE 1 è un istituto di diritto pubblico della Confederazione con sede a Berna; è responsabile dell'abilitazione delle persone e delle imprese che forniscono servizi di revisione e sorveglia gli uffici di revisione di società con azioni quotate in borsa; la stessa, unitamente alle associazioni professionali che emanano le regole professionali e deontologiche in materia di revisione dei conti annuali e di gruppo, garantisce la qualità dei servizi di revisione (_);
che l’art. 22 LSR prevede quanto segue:
"
L
’autorità di sorveglianza e le autorità di sorveglianza istituite da una legge speciale si scambiano tutte le informazioni e i documenti di cui hanno bisogno per applicare la rispettiva legislazione. Esse coordinano le loro attività di sorveglianza per evitare doppioni
"
(cpv. 1);
"
L
’autorità di sorveglianza e le autorità di sorveglianza istituite da una legge speciale si informano reciprocamente in merito a procedimenti pendenti e a decisioni potenzialmente pertinenti per l’attività di sorveglianza
(cpv. 2)
"
;
che dal Messaggio concernente la modifica del Codice delle obbligazioni (obbligo di revisione nel diritto societario) e la legge sull’abilitazione e la sorveglianza dei revisori del 23.06.2004 emerge in particolare (con riferimento al cpv. 1 della suddetta disposizione) che
"
(...) Lo scopo è di garantire lo scambio delle informazioni fra l’autorità preposta alla sorveglianza dei revisori e le altre autorità di sorveglianza attive sul mercato finanziario al fine di instaurare legami fra loro e di garantire una sorveglianza completa nel settore finanziario
", che "
inoltre una buona collaborazione è fruttuosa perché consente di ridurre l’onere non soltanto delle diverse autorità di sorveglianza, ma anche delle società sorvegliate
" e (con riferimento al cpv. 2) che "
(...) l’informazione deve dunque avvenire in merito a procedimenti pendenti e non solo quando una decisione definitiva è stata presa
" e che "
nei casi problematici questo deve permettere alle altre autorità di sorveglianza parimenti interessate di intervenire per tempo con le misure necessarie
" (FF 2004 p. 3650);
che in siffatte circostanze lo scritto 18.05.2011, trasmesso, per competenza, dal Ministero pubblico a questa Corte, non è da considerarsi un’istanza di compulsazione degli atti ex art. 62 cpv. 4 LOG (secondo cui
"
Dopo la conclusione del procedimento penale, la Corte dei reclami penali può permettere l’ispezione degli atti di un processo e l’estrazione di copie a chi giustifica un interesse giuridico legittimo che prevale sui diritti personali delle persone implicate nel processo, segnatamente su quelli delle parti, del denunciante, dei testimoni e dei periti; la Corte dei reclami penali fissa le modalità dell’ispezione
");
che – alla luce di quanto sopra esposto – lo scritto 18.05.2011 viene quindi restituito, per competenza, all’_, _, che, in ossequio all’art. 22 LSR, dovrà (tra l’altro) comunicare direttamente alla RE 1 il nominativo della persona di cui alla sentenza _
del _, la quale [dall’apposito registro dell’RE 1 pubblicato su internet (_
)]
risulta avere l’abilitazione ad esercitare la funzione di revisore;
che non si prelevano tassa di giustizia e spese. | Criminal | Criminal Procedure | it | 2,011 | TI_TRAP | TI_TRAP_002 | TI | Ticino |
|
e177c2b0-ca95-513a-9c8f-1ab6613b572e | in fatto: A.
Con decreto d'accusa del 23 giugno 2003 il Procuratore pubblico ha riconosciuto _ autrice colpevole di ripetuto furto di lieve entità per avere, tra il gennaio e il febbraio del 2003, ripetutamente sottratto capi di vestiario e altri articoli a scopo di indebito profitto in almeno tre occasioni, in danno del supermercato _, da sola o unitamente a _, per un ammontare imprecisato. La refurtiva recuperata è consistita in una felpa, un giacchettino, una dolcevita e altra merce per un valore complessivo di fr. 89.30. In applicazione della pena, il Procuratore pubblico ha proposto la condanna dell'accusata a 10 giorni di arresto, sospesi condizionalmente con un periodo di prova di un anno. Al decreto di accusa _ ha presentato opposizione.
B.
Statuendo sull'opposizione, con sentenza del 13 novembre 2003 il giudice della Pretura penale ha confermato le imputazioni e la proposta di pena contenute nel decreto di accusa. Contro tale giudizio _ ha inoltrato il 17 novembre 2003 una dichiarazione di ricorso alla Corte di cassazione e di revisione penale. Nei motivi del gravame, presentati il 16 dicembre successivo, essa chiede il proscioglimento da ogni imputazione. Il ricorso non ha formato oggetto di intimazione. | Considerando
in diritto: 1.
Il ricorso per cassazione è un rimedio di mero diritto (art. 288
lett. a e b CPP). L'accertamento dei fatti e la valutazione delle prove sono sindacabili unicamente qualora la sentenza impugnata denoti estremi di arbitrio (art. 288 lett. c e 295 cpv. 1 CPP). Arbitrario non significa tuttavia manchevole, discutibile o finanche erroneo, bensì apertamente insostenibile, destituito di fondamento serio e oggettivo, in aperto contrasto con gli atti (DTF 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con richiami) o basato unilateralmente su talune prove a esclusione di tutte le altre (DTF 118 Ia 28 consid. 2b pag. 30, 112 Ia 369 consid. 3 pag. 371). Per motivare una censura a norma dell'art. 288 lett. c CPP non basta dunque criticare la sentenza impugnata né contrapporle una propria versione dell'accaduto, per quanto preferibile essa appaia, ma occorre spiegare perché un determinato accertamento dei fatti o una determinata valutazione delle prove siano viziati di arbitrio. Secondo giurisprudenza, inoltre, per essere annullata una sentenza dev'essere arbitraria anche nel risultato, non solo nella motivazione (DTF 129 I 173 consid. 3.1 pag. 178 con rinvii).
2.
La ricorrente ricorda anzitutto di essere stata processata per ripetuto furto di lieve entità in relazione a episodi avvenuti nel grande magazzino _ all'inizio del 2003. Sostiene di essere stata ascoltata durante la fase delle indagini dalla polizia in modo assillante e di essersi trovata in una situazione di stress, in cui si è sentita costretta a sottoscrivere verbali non veritieri. Di tale circostanza essa avrebbe informato il giudice della Pretura penale nel corso del dibattimento. Ribadendo la propria estraneità ai fatti, la ricorrente fa valere in sintesi che il giudizio impugnato si fonda sulle dichiarazioni da lei rese alla polizia in condizioni psicologiche precarie, sulla chiamata in correità della coimputata _ e sulla videoregistrazione del servizio interno del grande magazzino. La conclusione che ne è derivata, a suo parere, è però conseguente a un arbitrario accertamento dei fatti e un'arbitraria valutazione delle prove.
3.
Il giudice della Pretura penale ha accertato che, dal 1995 sino ai fatti oggetto del procedimento penale la ricorrente ha lavorato in qualità di cassiera per il grande magazzino _. Assegnata inizialmente al reparto alimentari nel sottopiano, dopo cinque anni essa è stata trasferita per motivi di salute al secondo piano, ove addetta alla cassa era _. Questa è stata notata tra la fine del 2002 e l'inizio 2003 da una collega mentre prelevava dagli scaffali una maglietta in modo sospetto. Donde l'avvio di un'indagine e il posizionamento di una telecamera di controllo diretta verso la cassa. È risultato così che _ si appropriava di capi d'abbigliamento esposti, depositandoli in un cassetto sotto la cassa, e li prendeva con sé al momento di partire senza rispettare le direttive del regolamento del personale. È emerso altresì che la ricorrente sarebbe stata al corrente di ciò e avrebbe collaborato. Il 28 febbraio 2003 i responsabili dell'emporio sono intervenuti, fermando con l'aiuto della polizia le due dipendenti.
Sempre stando alla sentenza impugnata, nel corso degli interrogatori di polizia la ricorrente ha ammesso di avere sottratto merce in tre occasioni dal negozio senza pagarla, unitamente alla collega (sentenza, pag. 3 con riferimento al verbale del 28 febbraio 2003). Essa ha dichiarato tra l'altro che quando entrava in servizio per il secondo turno, dando il cambio a _, essa toglieva dagli scaffali i prodotti che le interessavano e li portava alla cassa. Dopo averli controllati e avere tolto i dispositivi d'allarme, essa li lasciava sul bancone della cassa in attesa che la collega, tolto l'abito da lavoro, li mettesse in un sacchetto e li portasse con sé. Sempre a detta della ricorrente, la merce sottratta veniva posta in una borsa di plastica con la spesa regolarmente pagata alla cassa. L'indomani le due si spartivano poi gli articoli sottratti. L'imputata ha ammesso di essere stata a conoscenza che i sacchetti ritirati dalla collega contenevano anche prodotti impagati. Sentita a sua volta dalla polizia, _ ha confessato di avere commesso i furti insieme con _ (sentenza, pag. 4).
Al dibattimento l'accusata ha cambiato completamente versione, affermando di non avere mai rubato nulla e, con riferimento a un unico episodio, di essere sempre stata convinta che nel sacchetto preso dalla collega vi fossero solo oggetti a disposizione gratuita del personale o del cliente. Essa si è lamentata altresì di essere stata sottoposta a un interrogatorio estenuante e che gli inquirenti avevano assunto nei suoi confronti un atteggiamento aggressivo e prevaricatore (sentenza, pag. 4). Ciò premesso, il giudice ha confermato nondimeno il capo d'imputazione. Rilevato che l'interessata non è stata in grado di recare alcuna prova a favore della sua nuova versione né delle accuse alla polizia, segnatamente per quanto riguarda l'interrogatorio del 28 febbraio 2003, egli ha ritenuto che quella confessione fosse sincera, anche perché ribadita a due riprese (sentenza, pag. 4 e 5). D'altro canto – egli ha soggiunto – la confessione è avvalorata dalla chiamata in correità della collega _ e dalla videoregistrazione visionata in aula, da cui risulta che i sacchetti contenenti gli articoli rubati erano prelevati da _ in presenza di lei. Anzi, in un'occasione la ricorrente medesima ha aperto il sacchetto e l'ha passato alla collega. Quest'ultima, da parte sua, ha ritirato l'opposizione al decreto d'accusa emanato a suo carico per gli stessi fatti (sentenza, pag. 5 e 6).
A mente del primo giudice, inoltre, la ricorrente non risulta in alcun modo essere stata costretta a firmare la confessione. Anzi, essa ha avuto modo di precisare partitamente i termini del suo coinvolgimento nella vicenda. Essa medesima ha indicato con precisione, dipoi, dove si trovava la refurtiva e ha condotto gli agenti al proprio domicilio, consegnando loro i vestiti rubati. Cognita della lingua italiana, essa ha avuto modo di capire su che cosa vertesse l'inchiesta, tant'è che il 28 febbraio 2003 ha sottoscritto una dichiarazione in cui prendeva atto della possibilità di essere sentita e interrogata dal Procuratore pubblico, facoltà della quale non si è avvalsa, a ulteriore dimostrazione del fatto che nessuno l'aveva costretta a rilasciare una falsa confessione.
4.
Nella misura in cui si duole del modo in cui sarebbe stata interrogata dalla polizia il 28 febbraio 2003, che l'avrebbe indotta a firmare la confessione, la ricorrente solleva una censura inammissibile. Nella fase predibattimentale, infatti, essa nulla ha eccepito circa la verbalizzazione da parte degli inquirenti, benché le fosse stata offerta la facoltà di essere sentita dal Procuratore pubblico (act. 1/10). Anzi, nemmeno si è opposta all'uso in aula delle risultanze dell'istruzione formale nei dieci giorni a lei assegnati dal giudice con ordinanza del 3 luglio 2003 (art. 227 cpv. 2 CPP), chiedendo unicamente con scritti del 18 luglio 2003 e del 7 novembre 2003 l'assunzione di determinate prove. Ne segue che l'accusata non ha sollevato il preteso vizio di procedura “non appena possibile”, come prescrive l'art. 288 lett. b CPP.
Si volesse da ciò prescindere, la ricorrente non dimostra lontanamente perché il primo giudice sarebbe caduto in arbitrio escludendo che essa abbia confessato per i condizionamenti a lei imposti dagli agenti nel corso degli interrogatori. Essa si limita a richiamare un certificato medico del 21 novembre 2003 (successivo alla sentenza impugnata) che attesta una sua sintomatologia di tipo ansioso-depressivo legata a un vissuto di ingiustizia, rimprovera al primo giudice di avere ignorato quanto da lei riferito in udienza, rileva che i verbali di polizia denotano imprecisioni – segnalate al dibattimento – degne di legittimi interrogativi, come per esempio l'inizio di un turno di lavoro alle ore 13.45, circostanza non verificatasi. Se non che, per tacere del fatto che il certificato medico in questione è improponibile, alle parti non essendo consentito di produrre nuovi documenti in sede di ricorso (CCRP, sentenza del 6 maggio 2003 in re R., consid. 3 con richiami), gli argomento sollevati sono di palese natura appellatoria, e come tale inadatti a far apparire il convincimento del primo giudice, per il quale l'accusata ha riferito in modo esauriente e perciò credibile i termini essenziali della fattispecie, come il risultato di un'arbitraria valutazione delle prove. Carente di motivazione, in proposito il ricorso si rivela ad ogni modo inammissibile.
5.
A detta della ricorrente il primo giudice è caduto in arbitrio anche considerando come indizio a suo carico la circostanza che _ ha ritirato l'opposizione al decreto d'accusa emanato nei suoi confronti. Essa sottolinea che il 4 novembre 2003 costei ha rilasciato una dichiarazione, autenticata il 4 dicembre successivo dal segretario comunale di _, in cui la scagiona dalle accuse a lei rivolte. Fosse stata presente in aula, _ avrebbe senz'altro confermato ciò. L'argomento è di nuovo inammissibile. La dichiarazione in rassegna è infatti allegata per la prima volta al ricorso per cassazione, ciò che – come si è appena spiegato – non è lecito. Alla ricorrente rimane se mai aperta, dandosi il caso, la via della revisione (art. 397 CP e 299 CPP), una volta che la presente sentenza sarà passata in giudicato.
6.
La ricorrente assevera che nemmeno il filmato agli atti dimostra un suo coinvolgimento nella vicenda, il fatto che essa abbia notato la collega prendere taluni sacchetti ancora non dimostrando che essa sapesse del contenuto e dell'origine furtiva della merce. L'obiezione è infondata. Il primo giudice ha ritenuto che quanto si vede nella videoregistrazione – ossia _ prendere davanti all'accusata taluni sacchetti contenenti articoli rubati – costituisce un ulteriore indizio di colpevolezza, compatibile con le confessioni delle due donne. Ciò non è per nulla arbitrario, ove si consideri che nel filmato si scorge anche l'imputata aprire almeno una volta il cassetto del bancone e a passare un sacchetto alla collega. Nessun arbitrio si ravvisa perciò al proposito.
7.
La ricorrente si duole altresì che con ordinanza del 5 settembre 2003 il primo giudice ha respinto le prove da lei notificate il 18 luglio precedente (istanza ribadita poi il 7 novembre 2003). Ciò le avrebbe impedito di difendersi adeguatamente, poiché i testimoni offerti (quasi tutti colleghi o superiori diretti) avrebbero potuto confermare qual era la merce riservata per prassi alle collaboratrici e quali erano i turni di lavoro. Inoltre, mediante l'assunzione di regolamenti e contratti di lavoro essa avrebbe potuto dimostrare come talune circostanze figuranti negli atti istruttori siano inesatte. L'accusata lamenta anche di non aver potuto comprovare che alle ore 13.45 indicate nel verbale istruttorio del 28 febbraio 2003 (pag. 2) essa non poteva essere nel negozio, non avendo mai avuto turni che cominciassero a quell'ora, e di non aver potuto chiarire – facendo escutere il diretto interessato – la presenza del marito durante la perquisizione a domicilio del 28 febbraio 2003. Rifiutando quanto richiesto, il primo giudice avrebbe compiuto perciò un arbitrario apprezzamento anticipato delle prove, privo della cautela che dottrina e giurisprudenza impongono in tale valutazione.
a)
Il diritto di essere sentito assicura – tra l'altro – la facoltà di far assumere prove formalmente e tempestivamente offerte (DTF 115 Ia 8 consid. 25 pag. 11 con citazioni), compresa quella di interrogare i testimoni a carico e a discarico (DTF 116 Ia 289 consid. 3 pag. 291 con richiami). In tale prospettiva esso consacra le stesse garanzie processuali dell'art. 6 par. 3 let. d CEDU, sicché una sua eventuale inosservanza comporta la cassazione della sentenza impugnata già per motivi di forma, senza riguardo al merito (DTF 116 Ia 52 consid. 2 pag. 54 con richiami). Il Tribunale federale ha avuto modo di stabilire tuttavia che se per un verso – e per principio – l'imputato ha diritto all'assunzione delle prove indicate, per altro verso l'autorità può rinunciare a quei mezzi istruttori il cui presumibile risultato non porterebbe elementi di rilievo (DTF 124 I 208 consid. 4 pag. 211, 122 V 157 consid. 1d pag. 162 con rinvio al principio enunciato in DTF 106 Ia 162 consid. 2b). Entro tali limiti il cosiddetto “apprezzamento anticipato delle prove” non viola la garanzia di un equo processo enunciata dall'art. 6 CEDU (
Miehsler/Vogler
in: Internationaler Kommentar zur Europäischen Menchenrechtskonvention, nota 367 ad art. 6 con rimandi; CCRP, sentenza del 27 marzo 2003 in re M., consid. 6).
b)
In concreto risulta dal fascicolo processuale che il 18 luglio 2003 la ricorrente ha chiesto l'edizione dei contratti e dei piani di lavoro suoi e di _, come pure dei filmati che hanno determinato l'avvio del procedimento penale, l'audizione delle venditrici-cassiere _ e _, del marito _, del gerente _, dell'ex capo cassiera _, del gerente _, delle dipendenti _ e _. Con ordinanza del 5 settembre 2003 il giudice, preso atto delle osservazioni del Procuratore pubblico, ha considerato i motivi addotti a sostegno delle audizioni testimoniali assai generiche e non suscettibili – a un esame di verosomiglianza – di apportare chiarimenti di rilievo, ritenendo la documentazione agli atti sufficiente. Analogamente egli ha deciso per quanto atteneva alle edizioni dei contratti e dei turni di lavoro, mentre ha ammesso il richiamo della videocassetta in cui era stata ripresa l'imputata. Nondimeno, il 3 novembre 2003 egli ha ammesso – su richiesta della parte civile – l'escussione di _, allora gerente responsabile della filiale _. Sempre dal fascicolo processuale risulta che il 7 novembre 2003 l'accusata ha sollecitato l'assunzione delle prove indicate nella sua precedente richiesta del 18 luglio. Dal verbale dei dibattimento si evince infine che il giudice ha proceduto, tra l'altro, all'audizione di _ e che l'accusata ha prodotto il regolamento del personale _ relativo alla filiale di _.
c)
Rifiutando le rimanenti prove, il primo giudice non è caduto in arbitrio e non ha quindi violato la garanzia di un equo processo. Le circostanze che, secondo la ricorrente, andavano chiarite mediante l'assunzione delle prove respinte dal giudice riguardavano la sua improbabile presenza all'ora (13.45) figurante a pag. 2 del verbale del 28 febbraio 2003, l'altrettanto improbabile presenza del marito durante la perquisizione a domicilio e – più in generale – la prassi adottata per quanto concerne la merce riservata dalle collaboratrici e i turni di lavoro delle dipendenti stesse. Se non che, mal si comprende per quali ragioni il giudice dovesse indagare al riguardo, ove si pensi che nei suoi due interrogatori, e in particolare nel primo, l'accusata non ha solo riconosciuto gli addebiti, ma ha precisato anche tutto quanto si riferiva alla sua attività delittuosa (compreso quanto era accaduto alle 13.45: verbale citato, pag. 2). E le sue dichiarazioni sono risultate tanto attendibili che gli inquirenti hanno recuparato a casa sua (poco importa se alla presenza del marito o no) beni indebitamente sottratti. Non va poi trascurato che la confessione litigiosa trova riscontro nell'originaria chiamata in correità della collega _. Pretendere in tali circostanze che le prove rifiutate dal primo giudice avrebbero potuto sovvertire l'esito degli interrogatori citati nella sentenza impugnata non è serio. Nella misura in cui è ammissibile, il ricorso deve quindi essere disatteso.
8.
Gli oneri del giudizio odierno seguono la soccombenza (art. 15 cpv. 1 con rinvio all'art. 9 cpv. 1 CPP). | Criminal | Substantive Criminal | it | 2,004 | TI_TRAP | TI_TRAP_001 | TI | Ticino |